Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

I PARTITI

TERZA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

I PARTITI

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ipocriti.

La Morte del Grillismo.

Beppe Grillo.

Giuseppe Conte.

Virginia Raggi.

Luigi Di Maio.

Rocco Casalino.

Danilo Toninelli.

Dino Giarrusso.

Donatella Bianchi.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marx ed il Rinascimento comunista.

I Secessionisti.

L’Amichettismo.

La Questione Morale.

Ipocriti.

Massimiliano Romeo.

Luca Zaia.

Giancarlo Gentilini.

Irene Pivetti.

Il Capitano.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Secessionisti.

La Questione Morale.

Ipocriti.

Omofobi.

Politicamente Corretti.

Gli Antifascisti.

Le Primarie dem.

Antonio Gramsci.

Enrico Berlinguer.

Romano Prodi.

Pierluigi Bersani.

Stefano Bonaccini.

Elly Schlein.

Francesco Boccia.

Dario Franceschini.

Achille Occhetto.

Alessia Morani.

Bruno Astorre.

Il Potere dei Mignon.

Carlo Calenda.

Matteo Renzi.

Maria Elena Boschi.

Elettra Deiana.

David Sassoli.

Giovanni Pellegrino.

Fausto Bertinotti.

Giovanni Cuperlo.

Laura Boldrini.

Luciana Castellina.

Luigi de Magistris.

Massimo D’Alema.

Nichi Vendola.

Nicola Fratoianni.

Angelo Bonelli.

Piero Fassino.

Stefania Pezzopane.

Marco Rizzo.

Walter Veltroni.

I Radicali.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giovani e radicali: ecco i nuovi black bloc.

Gli estradandi.

Le Brigate Rosse.

Lotta Continua.

Prima Linea.

Ordine Nuovo.

Gli anarchici.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Farsa continua degli anni Settanta.


 

I PARTITI

TERZA PARTE


 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Revisionisti.

I Nostalgici.

I Revisionisti.

Antonio Giangrande: Cultura. “Il Comunista Benito Mussolini”.

Quello che la sub cultura post bellica impedisce di far sapere ai retrogradi ed ignoranti italioti.

Non fu lotta di liberazione, ma solo lotta di potere a sinistra.

La sola differenza politica tra Mussolini e Togliatti era che il Benito Leninista espropriò le terre ai ricchi donandola ai poveri, affinchè lavorassero la terra per sé ed i propri cari in una Italia autonoma ed indipendente; il Palmiro Stalinista voleva espropriare le proprietà ai ricchi per far lavorare i poveri a vantaggio della nomenclatura di Stato assoggettata all’Unione Sovietica.

Mussolini è stato più comunista di Fidel Castro. Quel Castro che mai si era dichiarato comunista. Se non che, con l'appellativo di Líder Máximo ("Condottiero Supremo"), a quanto pare attribuitogli quando, il 2 dicembre 1961, dichiarò che Cuba avrebbe adottato il comunismo in seguito allo sbarco della baia dei Porci a sud di L'Avana, un fallito tentativo da parte del governo statunitense di rovesciare con le armi il regime cubano. Nel corso degli anni Castro ha rafforzato la popolarità di quest'appellativo.

“Il Comunista Benito Mussolini”. La nuova fatica di Antonio Giangrande in Book o in E-book sui canali editoriali alternativi: Amazon e Create Space; Lulu e Google Libri.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Libro obbiettivo e non ideologico formato da riferimenti e documenti storici e testimonianze di alternativa fonte.

Brani tratti dal libro.

Ecco chi era “Il Compagno Mussolini”. Il 18 marzo 1904, a Ginevra, Benito Mussolini tenne una conferenza per commemorare la Comune di Parigi. Secondo Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, è stata, questa, l’unica occasione in cui il Duce vide Vladimir Ilic Uljanov Lenin, anche lui presente al convegno. Ma Mussolini potrebbe avere incontrato l’esiliato russo anche a Berna, l’anno prima: era solito, infatti, pranzare alla mensa Spysi, dove anche Lenin e Trotsky mangiavano con regolarità. Dopo la Marcia su Roma, il Capo del Cremlino aveva rimproverato una delegazione di comunisti italiani (c’era anche il romagnolo Nicola Bombacci): «Mussolini era l’unico tra voi con la mente e il temperamento adatti a fare una rivoluzione. Perché avete permesso che se ne andasse?».

Viva le bandiere rosse della rivoluzione. Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie, scrive Benito Mussolini il 5 luglio 1917, (pubblicato da "Il Giornale" il 14/08/2016). Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate. Io m'inchino davanti a questa duplice consacrazione vittoriosa, contro lo zar prima, contro il Kaiser oggi.

Amate i profughi, sono l'Italia dolorante. Dobbiamo spezzare con loro il nostro pane. Sono i fratelli percossi dalla sventura, scrive Benito Mussolini il 28 novembre 1917 (pubblicato da "Il Giornale" il 17/08/2016). Non basta soccorrere i profughi che i treni e le tradotte dal Veneto rovesciano ogni giorno a migliaia e migliaia nelle nostre città. Bisogna comprenderli. Non basta comprenderli: bisogna amarli. La ospitalità dev'essere - soprattutto - amore.

«Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo. Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo». – Margherita Hack. La celebre astrofisica Margherita Hack candidata nel movimento politico "Democrazia Atea" come capolista alla Circoscrizione Veneto 2, ha rilasciato il 23 marzo 2013 un'intervista alla rivista Barricate che sicuramente farà molto discutere. Margherita Hack nell'intervista però ammette anche di essere comunista nonostante "il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell'individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta".

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Stefano Cappellini per la Repubblica - Estratti mercoledì 15 novembre 2023.

Si potrebbe partire da questo paradosso: per anni, in tutta Europa, le sinistre più radicali o estreme hanno accusato le sinistre di governo di inseguire le parole d’ordine della destra e di perdere consensi proprio per questo: siete solo la brutta copia dell’originale, era l’accusa, ecco perché il popolo non vi vota e siete destinati all’estinzione. 

C’era qualcosa di vero nell’imputazione di base, sta di fatto che qualche anno dopo l’accusa è totalmente rovesciabile: ora in Europa sono proprio i partiti della sinistra più sinistra a essere in gran parte boccheggianti e, soprattutto, a cercare la sopravvivenza inseguendo spudoratamente lessico e formule dell’ultradestra.

Il caso più clamoroso è senz’altro quello tedesco. Si scioglie in Parlamento la Linke, formazione nata anche grazie alla spinta dell’ex presidente della Spd, Oskar Lafontaine, che contestava al suo vecchio partito di essere ormai centrista e prono al capitalismo. La Linke non sopravvive ora alla scissione guidata dalla moglie di Lafontaine, Sahra Wagenknecht, che ha fondato un partito personale fin dal nome: Bundnis Sahra Wagenknecht. BSW si annuncia formazione di netta impronta rossobruna, con posizioni difficilmente distinguibili da quelle dei neonazisti di Alternative fur Deutschland in molti campi. Filorussa, già qualche anno fa Wagenknecht aveva rotto il tabù sui migranti, prendendo posizione per la chiusura delle frontiere. Nella base di Afd c’è persino chi spinge per l’unire le forze.

Una scissione ha appena sfasciato anche Syriza, il partito che con Alexis Tsipras ha con dignità guidato la Grecia nel momento più drammatico della storia nazionale, all’epoca del default e della troijka. «Tutta la vecchia sinistra di governo farà la fine del Pasok», era il monito che dalla Grecia si era diffuso in tutto il continente, vista l’ingloriosa estinzione dei socialisti greci a lungo al governo e magnificando la prospettiva della sostituzione etnica a sinistra: via i riformisti, dentro i massimalisti. Adesso, però, a rischiare seriamente la fine del Pasok è proprio Syriza, già pesantemente sconfitta alle ultime Politiche.

I transfughi, guidati dall’ex ministro delle Finanze Euclid Tsakalotos, quasi sicuramente fonderanno un altro partito. Per ora vanno a ingrossare quell’area dove si è già sistemato Yanis Varoufakis, a sua volta ex ministro dell’Economia di Tsipras, che da anni è capo di un micropartito transnazionale, Diem25. Tra i contatti italiani di Varoufakis c’è l’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, improbabile candidato premier del cartello di ultrasinistra Unione popolare alle Politiche del settembre 2022, fermo a un misero 1 per cento nonostante la benedizione in campagna elettorale di Jean- Luc Mélenchon.

(...) In altre ridotte italiane, invece, si segue la suggestione tedesca: l’ex viceministro dem dell’Economia Stefano Fassina ha fondato il movimento Patria e costituzione, che già nella scelta onomastica cerca la scia di un sovranismo di sinistra; Marco Rizzo, ex dirigente di Rifondazione, è addirittura sodale di Gianni Alemanno nella costruzione di un’area di alternativa. Non una primizia, l’asse è già stato testato sulle comuni battaglie No Vax e anti Ucraina. La base comune: sovranità, anti-europeismo, anti-americanismo, anticapitalismo da Repubblica di Salò. 

Più complicati sono i casi spagnolo e francese, dove ci sono state negli anni recenti forme di alleanza tra le due sinistre. In Spagna è grave la crisi di Podemos, che ha perso la leadership di area a vantaggio dell’ex ministra Yolanda Dìaz. Dìaz ha fondato il cartello elettorale Sumar, dove Podemos è stata costretta a confluire per mancanza di voti. Ma non è solo una questione di numeri.

Diaz, nonostante una vecchia tessera del Partito comunista spagnolo in tasca, ha affrontato con pragmatismo molte questioni su cui Podemos si è incagliata per tigna ideologica: ha contrattato il salario minimo con la Confindustria iberica, ha una linea risolutamente filo Ucraina. Pur di dare un segno di esistenza in vita, Podemos ha deciso di sottoporre a referendum interno la decisione di sostenere il nascente governo Sanchez, che a meno di colpi di scena dovrebbe ottenere domani i voti per partire. Esito della consultazione scontato, ma l’azzardo dice molto delle difficoltà dell’ex leader Pablo Iglesias, che ha lasciato la guida formale del partito alla compagna Irene Montero (curiosa la frequenza delle leadership coniugali, oltre alla coppia ex Linke, c’è pure il tandem Fratoianni-Piccolotti in Si). 

(…)

Ora e sempre: "Memento Gulag". Ecco perché è fondamentale una giornata per ricordare i crimini del comunismo. Dario Fertilio il 7 Novembre 2023 su Il Giornale.

Memento Gulag: chi era costui? Semplice, una giornata della memoria dedicata alle vittime del comunismo. Fissata oggi, 7 novembre, per ricordare il lugubre anniversario della Rivoluzione d'Ottobre (chiamata così secondo il calendario giuliano allora usato in Russia), dovrebbe essere celebrata con solennità pari alle altre: invece viene spesso ignorata. (Anni fa, una manina maliziosa pensò bene di cancellarla persino dalle voci di Wikipedia, prima che un articolo tempestivo apparso su questo giornale rimettesse le cose a posto).

Come mai una simile congiura del silenzio? La prima, ovvia spiegazione è che nessun Paese europeo, compresa l'Italia, ha pensato finora di elevarla a celebrazione ufficiale. Poiché precede di due giorni la festa della Libertà per la caduta del Muro di Berlino, se venisse ricordata assumerebbe un più elevato significato simbolico, illustrando il prezzo pagato in tutto il mondo per ottenere quella vittoria (secondo calcoli approssimativi, dagli 80 ai 200 milioni furono le vittime). Il «Memento Gulag» è nato per iniziativa di alcuni intellettuali raccolti attorno alla figura di Vladimir Bukovskij, uno degli irriducibili dissidenti antisovietici: quando parlava dei lager comunisti, si rifaceva ad agghiaccianti esperienze personali. A partire dai primi anni duemila le celebrazioni sono state numerose, da Roma a Berlino, da Bucarest a Parigi, e arricchite dalle testimonianze dirette di molti reduci dai campi di concentramento. Ma, si sa, anche i migliori non vivono in eterno, per cui la loro progressiva scomparsa ha ridotto il richiamo dell'evento. Però il silenzio ha anche altre spiegazioni.

Lo stigma del genocidio impedisce, è vero, alla stragrande maggioranza dei cittadini europei di proclamarsi oggi apertamente, o nostalgicamente, o almeno in parte e idealmente, comunisti. Tuttavia non pochi restano legati a quella mentalità e ideologia. A loro favore lavora, naturalmente, il tempo e il cambio delle generazioni: agli occhi di chi ha sentito parlare dell'Urss e della Guerra fredda soltanto nei libri di storia, o al massimo ha intravisto vecchi documentari con le sfilate di carri armati sulla Piazza Rossa il 7 novembre, il comunismo può sembrare contemporaneo delle guerre puniche. E qui sta l'errore.

Come ogni ideologia totalitaria, il comunismo non smette di fare proseliti e affascinare, anche dopo il suo apparente e ufficiale decesso. Inoltre, anche se lo si ricorda raramente, una larga fetta dell'umanità continua a sperimentarlo sulla propria pelle. Perché si è evoluto e ibridato con altre ideologie e culture, ritrovando così in pieno la sua forza di penetrazione. Se a Mosca la nostalgia per il comunismo sovietico e per Stalin (ormai riabilitato) si combina con il culto imperiale nazionalistico («dove c'è etnia russa e si parla la lingua, là c'è la Russia»), nella vicina e vassalla Bielorussia di Lukashenko non si va tanto per il sottile: le statue di Lenin dominano le piazze. La vecchia polizia segreta si chiama ancora Kgb, e la statua di Feliks Dzerinskij, il vecchio capo, se ne sta nel centro di Minsk come perenne ammonimento. Quanto alla Cina, il nome del comunismo è negli slogan ufficiali, e il regime si regge su una combinazione di marxismo confuciano (che fa discendere l'autorità dal cielo) e di tecnologia avanzatissima, in grado di tenere sotto controllo i cittadini attraverso una griglia informatica onnipresente. Non parliamo poi della Corea del Nord, dove è in vigore una specie radicale di comunismo asiatico, basata sulla forza della razza e della sua purezza: la società è divisa in 51 classi in base alla discendenza e al grado di pericolosità verso il regime. In altri continenti, come l'America latina, il pugno di ferro del comunismo è più elastico: a Cuba può abbattersi su chiunque, in seguito alla segnalazione di una spia di condominio, ma può anche rimanere in sonno a lungo. Cosa che non succede invece in Nicaragua, dove il regine di Daniel Ortega sa dove colpire, e dirige la repressione soprattutto contro le istituzioni culturali della chiesa cattolica. Se poi si volesse indagare intorno alle varianti africane del comunismo, basterebbe gettare un'occhiata all'Eritrea di Isaias Afewerki, che decreta guerre e repressioni interne secondo il suo capriccio, coscrivendo giovani prelevati dalle chiese durante le messe, e schiacciando qualsiasi forma di dissenso.

Ce n'è abbastanza per comprendere che parlare di comunismo, oggi, significa guardare al presente e non solo al passato. E che ricordarsi del Memento Gulag, il 7 novembre, è un dovere morale da uomini liberi.

Il fantasma del comunismo è ancora qui. Redazione il 26 Novembre 2023 su Il Giornale.

Il marxismo somiglia come una goccia d'acqua al fantasma del comunismo con cui Marx ed Engels aprivano nel 1848 il loro celeberrimo Manifesto del partito comunista. Il marxismo, difatti, se ne va in giro per l'Europa e dintorni proprio come un fantasma. Non è stato criticato, soprattutto in Italia, ma è stato soltanto rimosso. Così accade che ancora oggi, dopo che è stato smentito sia dalla storia sia dalla teoria, funzioni come ha sempre funzionato: a uso della propaganda politica. Se provate a sostituire la parola borghesia con patriarcato vedrete che l'ossessione di indicare un nemico, perfino inesistente, sul quale far ricadere tutte le colpe c'è ancora. Se rinunciate alla parola comunismo e la rimpiazzate con ambientalismo vedrete che l'ideologia anti-capitalista è ancora tutta in piedi. Persino il merito scolastico è visto tuttora come avveniva nel Sessantotto: la cultura della classe dominante. Ecco perché ci ha visto giusto Giancristiano Desiderio nello scrivere L'Anti-Marx. Anatomia di un fallimento annunciato, ora uscito per Rubbettino.

È molto nota anche la battuta con cui Marx, avvertendo già puzza di bruciato, prendeva le distanze dai marxisti: «Io non sono un marxista, io sono Karl Marx». Proprio su questa battuta di spirito hanno tante volte puntato i marxisti nel tentativo di salvare capre e cavoli: cioè sia Marx sia il marxismo. Il libro di Desiderio, invece, mette in luce proprio l'appartenenza del pensiero di Marx alla sua «falsa coscienza» perché già nell'Ottocento si era capito come mise in luce giustamente Eugenio Duhring che l'idea di Marx di far passare il comunismo dall'utopia alla scienza era insieme falsa e pericolosa. Marx stesso lo capì e non trovò di meglio da fare che ordinare a Engels di seppellire il povero signor Duhring sotto un cumulo di sciocchezze come le trecento pagine dell'Anti-Duhring: un testo anti-scientifico sul quale, osserva giustamente Desiderio, ancora si studiava nelle università italiane negli anni Ottanta del secolo scorso!

Giancristiano Desiderio mette in luce l'arbitraria unione di economia e di filosofia che compie Marx nel tentativo pasticciato di capovolgere il pensiero di Hegel. Il risultato non è né il superamento di Hegel, né dell'economia classica di Smith e Ricardo ma un'ideologia propagandistica che ha sempre spiegato i fallimenti Berlino 1953, Budapest 1956, Praga 1968, Mosca 1989 cambiando i fatti veri per salvare la teoria falsa. È la nascita della mentalità totalitaria tipica del marxismo che, nota Desiderio, non è una «Filosofia del potere» cioè che limita il potere ma una «filosofia di potere» concepita e costruita sull'invidia per conquistare il potere.

Il fallimento annunciato di Marx. Antiscientifico e ideologico: il sistema economico sovietico non poteva stare in piedi. Giuseppe Bedeschi il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il marxismo, cioè la dottrina economica e politica di Marx, ricevette critiche e attacchi distruttivi già non molti anni dopo la morte del Maestro (avvenuta nel 1883). Nel 1899 Eduard Bernstein già stretto collaboratore di Engels ed eminente personalità della socialdemocrazia tedesca pubblicò un libro destinato ad avere una enorme eco nei movimenti socialisti del mondo intero: I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. Esso costituiva la prima grande sfida revisionistica, lanciata da un seguace di Marx ed Engels, contro il marxismo. Di quest'ultimo Bernstein non risparmiava nulla: né l'analisi socio-economica del capitalismo e delle sue tendenze di sviluppo, né la teoria e il programma politici, né il metodo (la dialettica).

Bernstein rifiutava in primo luogo la previsione formulata nel Manifesto del Partito comunista e in altri scritti di Marx, secondo la quale la società capitalistica altamente sviluppata avrebbe determinato la scomparsa delle classi intermedie e si sarebbe divisa in due soli campi nemici: uno (relativamente ristretto di capitalisti) e uno (largamente maggioritario) di proletari. «L'acutizzazione dei rapporti sociali diceva Bernstein non si è compiuta nel modo raffigurato dal Manifesto. Nascondersi questo non solo è inutile, ma è una vera e propria follia. Il numero dei possidenti non è diminuito, bensì è aumentato. () Gli strati intermedi mutano il loro carattere ma non scompaiono dalla scala sociale». I tratti dello sviluppo capitalistico sui quali Bernstein più insisteva erano essenzialmente tre: in primo luogo la grandissima estensione della forma della società per azioni, che permetteva la creazione di un numero crescente di azionisti piccoli e medi; in secondo luogo, il fatto che in tutta una serie di branche industriali la grande azienda non assorbiva le piccole e medie aziende (le quali mostravano una indubbia vitalità), bensì si sviluppava convivendo con esse, sicché era illusorio attendersi la loro scomparsa; in terzo luogo, un notevole sviluppo delle classi intermedie, reso possibile dal grande aumento della produttività del lavoro. Da tutto ciò Bernstein ricavava che, «ben lungi dall'essersi semplificata rispetto a quella precedente, la struttura della società si è in larga misura graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi, sia per quanto concerne le attività professionali».

È evidente che dopo questo colpo di ariete l'edificio economico-politico costruito da Marx crollava. Ma il pensiero critico avrebbe continuato a corrodere gli schemi marxiani, mostrandone l'inconsistenza e la falsità. Un acuto quadro di tutto ciò è offerto da Giancristiano Desiderio nel suo ultimo saggio: L'AntiMarx. Anatomia di un fallimento annunciato (edito da Rubbettino, pagg. 128, euro 14).

L'Autore mostra assai bene come la marxiana teoria del valore-lavoro sia antiscientifica. «Il valore dei beni prodotti dal lavoro ha scritto Marx è uguale alla quantità di lavoro socialmente necessaria per produrli». A ciò il grande economista Boem-Bawerk obietterà che nell'economia di un paese non rientrano soltanto le merci prodotte dal lavoro, ma hanno un ruolo fondamentale anche beni esistenti in natura come la terra, la legna degli alberi, le risorse idriche, i depositi di carbone, le cave di pietra, i giacimenti di petrolio, le acque minerali, le miniere d'oro... Avere escluso tutto ciò dall'analisi economica è un peccato mortale di metodo. Desiderio, a sua volta, insiste giustamente su un punto: che il lavoro di cui parla Marx non è il lavoro di cui parlano gli economisti, ma è il «lavoro alienato» dei Manoscritti economicofilosofici del 1844, o il «lavoro astratto» del Capitale. Cioè è un lavoro concepito in termini ideologici ricavati dalla filosofia di Hegel, cioè dal concetto hegeliano di alienazione. È questo lavoro ideologizzato che permette a Marx di enunciare concetti come il «plusvalore» (un non senso in economia), lo «sfruttamento», ecc. In realtà, dice giustamente Desiderio, il marxismo non è conoscenza e non è scienza, ma un ibrido: «Quando si crede di avere a che fare con la scienza si ha invece a che fare con l'ideologia, e quando si ritiene di trovarsi dinanzi l'ideologia si ha invece a che fare con descrizioni, osservazioni, ipotesi e analisi politiche. Proprio questo è il carattere fondamentale dell'opera di Marx: la sua natura pubblicistica o giornalistica e polemista».

Ma il pensiero di Marx non è solo fallace, è anche estremamente pericoloso. Perché, come dice Desiderio, la dittatura del proletariato che, secondo il filosofo di Treviri, avrebbe dovuto essere provvisoria, il tempo necessario per traghettare gli uomini dal capitalismo al comunismo, diventa definitiva, e si trasforma in dittatura sul proletariato con tanto di capitalismo di Stato. Uno Stato onnipotente, pronto a calpestare le vite degli individui.

Questo il messaggio salvifico di Marx e del marxismo: un messaggio che, ovunque si è realizzato, ha provocato sofferenze inaudite per i cittadini.

Estratto dell'articolo di Giangiacomo Schiavi per il Corriere della Sera mercoledì 13 settembre 2023.

Gianni Cervetti, un compagno del secolo scorso, un pezzo di storia del Pci, compie novant’anni e quando si volta indietro cerca di non farsi travolgere dal pessimismo: «Alla mia età sarebbe facile, ma preferisco l’ottimismo della volontà». Guarda al passaggio d’epoca che segna una regressione della cultura politica che ha conosciuto, ma riconosce due fatti di grande rilievo, per le donne: una è premier, l’altra segretaria del Pd. 

Un giudizio su Giorgia Meloni?

«Non credo che meriti giudizi di parte come i miei. Guardando alle radici delle persone e agli orientamenti internazionali vedo però scelte assai dubbie per i rapporti con alcune forze europee che guardano a un passato che non deve riemergere».

Ed Elly Schlein?

«Non amo le pagelle. Sarà valutata attraverso l’azione politica che riuscirà a realizzare». 

(..)

Nella sua storia, come quadro del Pci negli anni di Mosca, la segreteria milanese e lombarda, il Parlamento e l’Europa, certi strappi non sono stati anche incoerenza?

«Se allude alla Nato e a Berlinguer, era giusto prendere le distanze dall’Urss e dall’involuzione brezneviana. Io ero a Mosca con il segretario del partito quando deflagrò lo strappo dopo l’intervista di Pansa al Corriere. Parlò al congresso del Pcus e nella sala si alzò un brusio. Uscimmo insieme: è giusto così, gli dissi. Berlinguer aveva ragione». 

Un altro strappo fu quello dello stop ai finanziamenti, il flusso di denaro che da Mosca arrivava nelle casse del Pci e che lei in un libro ha chiamato l’oro di Mosca...

«Non era incoerenza, era la svolta per non subire più l’influenza sovietica nella politica del Pci. La riunione decisiva avvenne verso la fine del 1975. Eravamo in tre: Chiaromonte, Berlinguer ed io. Ci trovammo in segreto alla Camera per stare lontano da orecchie indiscrete. Proposi di chiudere quei rubinetti...». 

Lei allora era l’uomo dei rubli, si diceva che pensava in russo e traduceva in italiano.

«Quella scelta resta un piccolissimo fatto storico, utile per avviare il partito verso l’Europa. Non a caso la visione europeista di Berlinguer portò alla candidatura nel Pci di Altiero Spinelli, uno dei padri degli Stati Uniti d’Europa». 

Davanti all’azione aggressiva della Russia, l’Europa si è comportata come l’Unione che lei difende e sostiene?

«È stato giusto difendere l’Ucraina, i russi hanno le colpe maggiori. Ma anche gli ucraini hanno qualche responsabilità. Bisogna lavorare tutti per una conclusione positiva di questa guerra insensata». 

Qual è l’errore che imputa alla sinistra, che ha perso voti e governo del Paese?

«Uno, fondamentale. Non essere stata coerente nell’organizzare un partito di massa. Espressione un po’ datata per dire che se una forza vuole essere democratica e riformista deve anche essere estesa come un guanto che aderisce alla mano. La mano è la società».

Nella società crescono le diseguaglianze: anche nella sua Milano aumenta il divario tra ricchi e poveri. Le piace la città di oggi?

«Non si può chiedere questo a un milanese che ha amato e ama la sua città, la sua cultura e la sua azione politica e sociale. Milano ce l’ho sempre nel cuore, dalle radici alle realtà che si sono succedute negli anni. È città nazionale e democratica. Non deve sentirsi trascurata da Roma, la trascuratezza è un obiettivo che va superato dai milanesi stessi».

(...)

Storia del PCI. Chi erano i comunisti “miglioristi”: la corrente da Amendola a Napolitano e lo scontro con Berlinguer. Il dibattito all'interno del più grande Partito Comunista del mondo occidentale. Napolitano riconobbe che quella definizione aveva una connotazione spregiativa, “anche se a ben pensarci poi tante volte come PCI avevamo detto di voler lottare per un'Italia migliore”. Redazione Web su L'Unità il 26 Settembre 2023 

Giorgio Napolitano ammise che essere definiti “miglioristi” non era certo un complimento, all’interno del Partito Comunista. Erano tempi di grande dibattito, di accesa dialettica all’interno del più grande Partito Comunista nel mondo occidentale. L’ex Presidente della Repubblica, morto lo scorso venerdì 22 settembre, era stato tra i più autorevoli esponenti della corrente. Il migliorismo fu un orientamento politico che si sviluppò tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 all’interno del PCI e della sinistra in generale che contemplava la possibilità di migliorare il sistema e la società non con la rivoluzione quanto a partire e “operando all’interno delle sue stesse strutture e accettandone in parte i metodi” si legge sulla Treccani.

Fin dalla sua nascita il 21 gennaio del 1921 a Livorno, il Partito Comunista Italiano era animato da diverse correnti e orientamenti che emersero soprattutto dopo l’invasione dell’Ungheria delle truppe sovietiche, dopo il rapporto del leader sovietico Nikita Kruscev sui crimini di Stalin al XX Congresso del PCUS del 1956 e dopo la morte del segretario Palmiro Togliatti. Il dibattito all’interno del Partito si focalizzava sui rapporti con Mosca e sulla relazione da intrattenere con la società capitalista.

Napolitano era delfino di Giorgio Amendola, il principale esponente della corrente definita riformista, che non coltivava l’idea della rivoluzione quanto più quella di riforme graduali di stampo socialista. Pietro Ingrao invece guidava la corrente che sosteneva un’unione con le organizzazioni di lotta nate nelle fabbriche e con i movimenti nati durante le proteste del ’68. Lo scontro esplose all’XI Congresso del Partito, nel 1966, due anni dopo la morte di Togliatti. A prevalere furono le idee della fazione di Amendola. Quando quest’ultimo morì, nel 1980, Napolitano divenne leader della corrente.

Che con il passare degli anni venne definita “di destra”, all’interno del partito: che puntava a una partecipazione attiva al governo del Paese e a una collaborazione fitta con i partiti moderati piuttosto che alla rivoluzione o allo scontro con il mondo capitalista. “Fummo etichettati – spiegò Napolitano anni dopo in un’intervista – come ‘miglioristi’ e quella etichettatura era polemica e perfino spregiativa, anche se a ben pensarci poi tante volte come PCI avevamo detto di voler lottare per un’Italia migliore”. Dopo una stretta collaborazione dal 1976 al 1979 con Enrico Berlinguer, Napolitano guidò l’opposizione interna più forte al segretario comunista.

E infatti dalle pagine dell’Unità del 21 agosto 1981, Napolitano scrisse un duro articolo contro la “questione morale” lanciata da Berlinguer in un’intervista a Eugenio Scalfari. “’Saper scendere e muoversi sul terreno riformistico’ anziché pretendere di combattere il riformismo con ‘pure contrapposizioni verbali’ o ‘vuote invettive’”. Napolitano poche settimane dopo lasciò l’organizzazione del partito e divenne capogruppo dei deputati comunisti.

“Con Formica, capogruppo dei socialisti, aveva trovato un’intesa per rendere il testo accettabile anche per i comunisti – ha ricordato un altro comunista migliorista, Emanuele Macaluso, su Il Riformista nel 2005 – Intesa che poi venne mandata all’aria da entrambe le parti. Ma in quel momento Berlinguer comincia a vedere di cattivo occhio sia Napolitano sia Nilde Iotti, allora presidente della Camera. A Nilde Iotti sembra rimproverare di tutelare più il governo che il suo partito, mentre su Napolitano pesa il sospetto di morbidezza per via della sua nota contrarietà alla linea scelta in quella fase dal Pci, durante la dura battaglia parlamentare che precedette il referendum. Da lì in avanti i rapporti si inasprirono a tal punto che quando Berlinguer morì Napolitano aveva già in tasca la lettera di dimissioni da capogruppo. Una lettera mai recapitata, in quel funesto 7 giugno 1984”. Dopo la svolta della Bolognina del novembre 1989 e lo scioglimento del Partito Comunista Italiano nel febbraio 1991, Napolitano si distaccò sempre più dalle attività di partito. Redazione Web 26 Settembre 2023

Dagospia mercoledì 13 settembre 2023. Lettera di Stefania Craxi a Dagospia

Caro Dago,

ho letto sul Corriere della Sera la bella intervista a Gianni Cervetti, al quale faccio i miei migliori auguri per i suoi 90 anni. Il quotidiano, come è giusto che sia, mette in grande rilievo la notizia di un incontro segreto fra lo stesso Cervetti, Chiaromonte e Berlinguer, avvenuto nel 1975, nel corso del quale si decise di porre fine ai finanziamenti sovietici al Pci per evitare il condizionamento di Mosca sul partito. È una notizia, sicuramente. 

A mio giudizio, però, la notizia più clamorosa è dovuta alla onestà di Cervetti (già autore di un’opera, “L’oro di Mosca”, fondamentale per comprendere le relazioni politiche ed economiche fra il Pci e l’Urss) nell’ammettere il condizionamento, logico, da interrompere, appunto, del Pci di Berlinguer da parte di una dittatura nemica dell’Italia e dell’Occidente.

Ti sembra, caro Dago, un fatto minore oppure un elemento fondamentale per capire la politica italiana di quegli anni e il corso della nostra democrazia anche negli anni a venire? Perché se vogliamo dire la verità storica, e sarebbe davvero ora, diciamola tutta. E con senso critico, e non solo celebrativo del ruolo del Pci e dello stesso Berlinguer. Perché sulla vicenda del rapporto fra i soldi e la politica, sul tema dei finanziamenti illeciti ai partiti e sulla “questione morale” si è riscritta la storia d’Italia e della politica, si sono deviati i percorsi e i corsi della politica e della democrazia.  

? tutto in prescrizione o amnistiato, dal punto di vista penale, sono vicende chiuse nei Tribunali, ma aperte, apertissime, sul piano storico, politico, culturale, mediatico. Il racconto è quello di un Pci – poi Pds – lindo e morale, con Berlinguer, e di un Psi corrotto e immorale con Craxi. La storia vera, invece, è che Berlinguer e Craxi erano due persone oneste, tutte politiche, con i propri partiti impegnati a fare politica grazie alla passione e all’onestà di migliaia di militanti e dirigenti. Pur in un sistema sbagliato, quello del finanziamento illecito, ma condiviso, da tutti!

Botteghe Oscure prendeva soldi da Mosca, Cervetti dice fino al 1975, ma in realtà, sulla base di documentazione sovietica esaminata dallo storico Victor Zaslavsky, al Pci, dal 1973 al 1979, giunsero 32-33 milioni di dollari, in parallelo con entrate “straordinarie”, che arrivavano al 60% del bilancio. Erano finanziamenti illeciti. 

Giorgio Amendola pose il problema nel corso di una direzione del Partito comunista, i cui verbali sono conservati presso l’Istituto Gramsci. In quell’occasione intervenne pure Armando Cossutta, per dire che «si è creato, in molte Federazioni, un sistema per introitare soldi che ci deve preoccupare».

Lo storico comunista Guido Crainz riporta in un suo libro la discussione avvenuta in una direzione del Pci del 1974, dove emerge la preoccupazione dei dirigenti per il doppio condizionamento subìto dal partito, per i soldi sovietici e per quelli, illeciti, che provengono dalle federazioni territoriali. Cossutta parla di imbarazzanti compromissioni, e di soldi che rimangono attaccati alle mani dei compagni. 

Inoltre, c’è il prezioso libro di Valerio Riva, “I soldi di Mosca”, che analizza i condizionamenti subìti da Botteghe Oscure anche dopo i finanziamenti diretti dal “fondo di assistenza”, attraverso le attività di import export con società varie. E ricordo solo, come sigillo a quanto detto finora, che il Partito comunista votò in Parlamento le amnistie sul finanziamento illecito del 1983 e del 1989.

Mi fermo qui, lasciando da parte la storia più recente, dalla valigetta di Gardini alle quote degli appalti a favore delle cooperative rosse, perché non è mio intento accusare, rivangare, rinfocolare una guerra sanguinosa che i socialisti di Craxi hanno drammaticamente perso. Vorrei solo, ed era questa la grande ansia di mio padre, che la Storia venga scritta bene.

Estratto dell’articolo di Annalisa Chirico per liberoquotidiano.it martedì 22 agosto 2023.

«Giorgia Meloni è l’unica leader in campo. Lei è la donna che fa mentre gli altri parlano e basta», un Ernesto Galli della Loggia particolarmente tranchant risponde alle domande di Libero sulla traiettoria del premier, del governo, della destra. Lo storico, E. Galli dell’editorialista del Corriere, non si sottrae. «È colpa anche dei giornali che sollecitano il narcisismo di scialbe figure politiche. Renzi, Calenda, Provenzano, Orlando... che cosa propongono costoro, a parte schierarsi con Meloni o con Schlein?». lei la tocca piano. «Meloni è forte perché intorno ha il vuoto». 

Il Pd a guida Elly Schlein? 

«Se l’obiettivo di un partito è vincere le elezioni, Schlein non fa vincere le elezioni. Penso che la mia opinione sia largamente condivisa all’interno dello stesso Pd. La segretaria incarna una linea puramente movimentista, sempre presente ai comizi al fianco della Cgil, sensibile alle rivendicazioni delle minoranze di ogni tipo. È una linea minoritaria che non tiene conto di un dato: l’Italia è un paese conservatore. Di questo passo una sinistra incapace di parlare alla maggioranza può vincere solo approfittando degli errori marchiani della destra, com’è capitato spesso in passato». 

Il governo Meloni è accusato, a giorni alterni, di populismo perché ha deciso, per esempio, di tassare gli extramargini delle banche. Lei è d’accordo? 

«Non scherziamo. Negli ultimi anni le banche hanno ricevuto ingenti risorse dallo Stato per alleggerire le proprie esposizioni attraverso la finanza pubblica. Non si può essere liberali quando si viene tassati e statalisti quando si chiedono i soldi».

Tassisti e balneari: questa destra è corporativa? 

«In Italia sono tutti corporativi. Se non sbaglio neanche Mario Draghi è riuscito a risolvere la questione delle concessioni balneari né mi pare che il suo governo abbia aumentato le licenze dei tassisti. Neanche i governi con il Pd dentro, anzi faccio notare che il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, è un esponente del Pd e, se volesse, già domani potrebbe rilasciare tremila licenze in più. Perché non lo fa? Nessuno osa dare fastidio alle corporazioni». 

Dopo dieci mesi di governo, quali sono pregi e difetti dell’operato di Meloni? 

«Il premier fa molto bene in politica estera, direi che si sta quasi rivelando il suo campo di elezione. Dicevano che con lei l’Italia sarebbe finita ai margini, invece Meloni è apprezzata a Washington, ha saputo crearsi una legittimazione come leader credibile e affidabile anche in Europa. Lo conferma il rapporto costruito con la presidente della Commissione Ue von der Leyen o con il presidente del Partito popolare europeo, Manfred Weber. Partecipa ai vertici internazionali con piena dignità, vedendo anche accolto il senso delle sue richieste come sui migranti. Più volte, con la sua azione, sconfessa di fatto alcune posizioni passate della sua stessa parte politica. Anche per questo è venuto per lei il momento, se ci riesce, di volare più alto». 

In che senso? 

«Il premier deve indicare al Paese la novità storica che il suo ruolo attuale rappresenta, e mostrarsene consapevole indicando le mete. Per far questo non bastano le dichiarazioni più o meno estemporanee alla stampa. Serve una narrazione complessa che tenga insieme il passato e il futuro, e che sappia parlare agli italiani. Ci vogliono gli intellettuali». 

(...)

 I guai giudiziari di Daniela Santanché e di altri membri dell’esecutivo potrebbero nuocere al governo?

«Non credo, queste sono vicende che non spostano voti. Io sono da sempre contrario all’automatismo delle dimissioni per un avviso di garanzia. In Italia esiste una politica giudiziaria che troppe volte ha comportato la fine di carriere politiche per persone poi prosciolte o assolte. Forse in altri paesi le dimissioni sono un esito giustamente inevitabile ma in Italia non può essere così perché quando si tratta di politici la magistratura si dimostra in generale troppo frettolosa nella fase delle indagini. Non possono essere i magistrati a selezionare il personale politico».

E sulla separazione delle carriere?

«Io sono da sempre favorevole. Mi auguro che il ministro Carlo Nordio tenga fede alle sue promesse». 

La risposta allo storico. L’ossessione di Galli Della Loggia per il Pci: ma comunisti e camerati non sono equiparabili. L’editorialista del Corriere, come di frequente gli capita, si scaglia contro la sinistra che è parte integrante della storia del Paese. Si dia pace: comunisti e camerati non sono equiparabili. Michele Prospero su L'Unità il 22 Agosto 2023

Ce l’ha con l’“ufficialità repubblicana” che impedisce di incidere sopra una targa commemorativa le parole definitive: “vittima della violenza comunista”. Denuncia la “regola assoluta dei due pesi e due misure” che non permette l’equiparazione tra fascismo e comunismo. Il nemico da demolire è “il discorso ufficiale sul passato del Paese fatto proprio dalle istituzioni e considerato il solo legittimo”.

Si batte temerario contro “l’ethos pubblico accreditato che le agenzie pubbliche e i maggiori mass media cercano quotidianamente di inculcare”, incurante del fatto che l’amico Paolo Mieli in Rai sia il dominus del televisionismo storiografico e che a Palazzo Chigi e nei canali di Stato l’agenda venga dettata dalla Fiamma. Vuole estirpare l’“inestinguibile e insopportabile faziosità italiana” che naturalmente, per lui, è sempre quella degli altri. Sembrano estratti di un Donzelli ad Atreju o di un Mollicone su un settimanale d’area, in realtà a parlare è lo storico del Corriere della sera.

Come il grande filosofo che ogni giorno passeggiava scegliendo i consueti luoghi, atteso puntualmente alla solita ora, anche Galli della Loggia naviga in rete e compila lo stesso articolo a intervalli talmente regolari che ormai l’abbonato al Corriere, scuotendo le spalle, si aspetta da lui proprio quelle formule immote, gli abituali concetti, i rituali bersagli. Così se ad aprile il fortunato lettore si era dilettato a leggere del Pci “che non poteva certo dirsi una forza politica democratica” e della “trucissima «Unità» filosovietica”, ad agosto può deliziarsi con il comunismo italiano “patologia antidemocratica”.

Grazie alle metaforiche passeggiate sulla tastiera, all’erudito basta un virtuale copia e incolla per incastrare i pensieri e spargere, in ciascun esemplare in serie da dare alle stampe, il medesimo contenuto. Faceva bene, nel fondo di maggio sul Corriere, a prendersela con quei “dischi” registrati che ci rispondono con robotica ripetitività quando telefoniamo per qualche servizio o un’informazione urgente, accusandoli di “mirare di fatto a sostituire le capacità umane, a surrogarle”: a che servono certi diabolici marchingegni se un’analoga funzione può essere espletata da uno studioso “in carne ed ossa” che, con caparbietà quasi meccanica, sa alla bisogna riprodurre l’identico spartito. Tutto cambia, le istituzioni sociali sono ovunque in crisi irreversibile, il mutamento climatico altera persino lo scorrere delle stagioni. Solo la penna anticomunista di Galli della Loggia rimane inscalfibile, resiste al tempo, alle volatili esperienze.

Se al filosofo camminare giovava anche per affinare le prerogative della ragion pura, per lo storico esplorare il web sempre alla stessa maniera è un’occasione per definire le salde categorie che egli chiama del “sentire comune”. Basta con gli archivi da divorare, al bando le verifiche sulle fonti documentali e gli scartafacci, per la nuova storia i fatti sono ospitati nel cuore della gente. Per penetrare nei meandri del senso comune, la firma del Corriere ha una modo infallibile di procedere: bisogna cogliere “ciò di cui è convinta nel proprio intimo la maggioranza degli italiani”, giacché esso soltanto rappresenta la fattualità convalidata.

Questa scuola di storiografia neo-platonica, che si indirizza nell’anima per afferrare ciò che abita in interiore homine, evita però la deriva mistica aggrappandosi a una originale e più prosaica invenzione: la verità spirituale, per Galli della Loggia, “si vede regolarmente ogni volta che si aprono le urne”. La realtà storica, insomma, si misura un tanto a scheda. E i Patrioti, che hanno raccolto il 26% alle elezioni, non meritano solamente il potere ma hanno la facoltà di schiudere anche la bocca della verità.

Per via di questo ruolo esplicativo, non dei testi ingialliti, ma delle cabine elettorali e degli scrutatori, l’editorialista si presenta come l’oracolo che scrivendo disvela la veritas coltivata “intimamente” dalla “maggioranza degli italiani”. Galilei, valendosi dell’immagine della corsa, affermava che nelle questioni scientifiche un solo cavallo barbero è meglio di cento frisoni, poiché la logica della scoperta non si mette mai ai voti dell’opinare. Ma come paragonare lo scienziato con il cannocchiale allo storico della “maggioranza” interiore? Il “sentire comune”, per quest’ultimo, dimostra indubbiamente che nel Novecento italiano l’aberrazione è stata quella di aver avuto “un fortissimo movimento comunista senza eguali”.

Con la precisione di un pendolo che non tradisce di un secondo, ecco allora servita la pietanza preferita dallo storico “di maggioranza”: l’immutabile elzeviro illimitatamente riproposto per confermare che i comunisti sono (stati) il male dello Stivale. E pensare che al Corriere in molti provengono da quella feconda palestra politica, anche se c’è pure qualcuno che si è fatto le ossa in Potere Operaio. La rivelazione “maggioritaria”, per Galli della Loggia, andrebbe alacremente impressa nella “memoria pubblica”, che invece brancola nella confusione per colpa delle mistificazioni istituzionali e, lui tiene a ribadire, dei grandi gruppi editoriali. Occorre, una volta per tutte, accettare il vero scolpito nell’“intimità” dei più: in Italia sono riscontrabili “due patologie antidemocratiche”, per cui comunisti e fascisti pari sono.

Se il fascismo era autoritario, la Repubblica non è meno illiberale nelle sue fondamenta. Sulla base della legge storiografica della “duplicità antidemocratica”, la Costituzione repubblicana a viva impronta socialcomunista deve andare in malora. La malattia italiana sta nell’aver prodotto Gramsci e, con lui, migliaia di detenuti politici che mai si arresero al Tribunale speciale, il fiore dei partigiani rossi che combatterono fino alla Liberazione, la maleodorante firma di Umberto Terracini in calce alla odiata Carta, il partito nuovo che lottò per le libertà e l’emancipazione delle masse, la linea della fermezza del Pci nel contrastare la ferocia del brigatismo. I sette fratelli Cervi, alla luce dei canoni dell’annalistica fresca di conio, sono della identica pasta dei loro massacratori; i caduti inermi a piazza della Loggia hanno la medesima tempra di quelli che hanno innescato la bomba. E Ingrao, Iotti, Napolitano, D’Alema, Violante, Bertinotti, hanno infestato le istituzioni che gestivano come i sospetti esponenti di uno dei due morbi parimenti ostili alla democrazia.

Oltre a stigmatizzare la persistente riluttanza di coloro che ricorrono al “doppiopesismo” pur di non appaiare il fascio e la falce e martello, lo storico della “maggioranza” elettorale si arrabbia anche con chi si ostina a non riconoscere che “comunisti” erano tanto i dirigenti e funzionari di Botteghe Oscure quanto i terroristi armati di via Gradoli. E che quindi Guido Rossa era dello stesso partito di chi l’ha trucidato. Le Annales della Cairo Editore sono davvero inarrivabili. Come Voltaire a sostegno dei lumi trovava la comprensione di Caterina la Grande, così la novella storiografia reazionaria dell’interiorità ha in Urbano il suo facoltoso protettore, che elargisce agli affezionati del Corriere l’eterno ritorno dell’uguale editoriale.

Tanto, diceva quel tale, la carta è tollerante. E però al prodigo mecenate milanese tocca pure ingurgitare la stravagante rampogna dello storico “underdog” che sul suo quotidiano, il primo per diffusione e influenza, inveisce, forse preso da smarrimento, contro “la stampa che conta” e “le tv che vanno per la maggiore”. Credeva, il presidente del Torino, di essersi finalmente imposto nei salotti buoni assumendo il controllo di Rcs, non sapeva che era solo diventato il principale azionista della “Galli della Loggia Communication”.

Michele Prospero 22 Agosto 2023

I conti con il nostro passato: la saggezza della Costituzione. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera l'11 aprile 2023 

Nel tumultuoso dopoguerra, i padri fondatori probabilmente ritennero che ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto, come infatti è sostanzialmente avvenuto

C’era da aspettarselo: nell’Italia della vittoria della destra è cominciata subito a spirare un’aria di «passato che non passa». Cioè una continua tendenza a riaprire i conti e a farlo sempre nel modo più aggressivo e perentorio: come del resto piace ai media che hanno sempre il problema dell’«audience». All’ordine del giorno non è il pericolo del fascismo per fortuna, questo no, ma è ciò che pensa del fascismo chi sta al governo, sono le sue idee su quel passato lontanissimo. Ogni sera nei talk televisivi si richiedono dunque spiegazioni, chiarimenti, precisazioni. E naturalmente abiure. Per prendere una boccata d’aria viene allora in mente di sfogliare qualche testo, ad esempio la nostra Costituzione.

Tra le cui prescrizioni una di certo tra le meno conosciute in assoluto è quella contenuta nel secondo capoverso della XII disposizione transitoria e finale. La quale, dopo aver vietato «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista» recita: «In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».

In altre parole, dopo il primo gennaio 1953, se lo avessero voluto i «capi responsabili del regime fascista» (facciamo qualche nome di quelli allora viventi: Federzoni, Grandi, Bottai, Scorza ecc., quasi tutti squadristi, responsabili di cosucce come le leggi razziali e la seconda Guerra mondiale) avrebbero potuto tranquillamente essere eletti nel Parlamento della Repubblica.

Come si spiega questa decisione all’apparenza così contrastante con l’immagine di una Costituzione coerentemente antifascista? Forse con il fatto che i padri fondatori immaginavano che a quella data i suddetti «capi responsabili» del fascismo sarebbero stati pronti a rinnegare le loro convinzioni e magari a dirsi antifascisti? Difficile crederlo. Assai più probabile, mi azzardo a ipotizzare, che nella loro saggezza fossero convinti che così come a molti altri italiani un tempo genuinamente fascisti e nel loro intimo con ogni probabilità restati tali, anche a quei capi fascisti non aveva senso comminare l’esclusione dalla vita pubblica, né tanto meno chiedere loro una ritrattazione o una dissociazione postuma. Con il tempo — essi piuttosto si auguravano — ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto: come infatti è sostanzialmente avvenuto. Con il tempo che serve a riconciliare con il passato smorzando il fuoco dei ricordi. Non a caso amnesia e amnistia — quella amnistia saggiamente decretata da Togliatti nel 1946 per chiudere la guerra civile — hanno la medesima radice. Per ricominciare bisogna in qualche modo dimenticare.

Negli anni di quell’infuocato dopoguerra si decisero molte cose della nostra Storia, della sua ambiguità, delle sue molte apparenti contraddizioni e dei suoi molti taciti compromessi: tutte cose che possono dispiacere, e che però aiutarono non poco la Repubblica a mettere radici e a vivere. Il Partito comunista, ad esempio, ebbe una parte decisiva nella scrittura della Costituzione, e se non altro in questo senso svolse sicuramente un ruolo centrale nella costruzione della nostra democrazia. Eppure quel medesimo Pci — impregnato di stalinismo fino alla punta dei capelli e con il suo massimo dirigente coinvolto direttamente nei più atroci misfatti di Mosca — non poteva certo dirsi una forza politica democratica. Ciò nonostante, se nel 1976 qualcuno avesse chiesto a Pietro Ingrao sul punto di diventare presidente della Camera — all’Ingrao ex direttore della trucissima Unità filosovietica al tempo dei «fatti» d’Ungheria — di dichiararsi preliminarmente contro il comunismo e i suoi crimini, di dissociarsi pubblicamente dal Gulag e dal massacro di Katyn, che cosa avremmo pensato? Saremmo stati d’accordo?

La nostra storia, al pari di quella di tanti altri Paesi, ma forse un tantino di più, è stata fatta anche di questi necessari oblii, di queste opportune dimenticanze. Dopo il 1861 chi chiese mai ai tanti democratici che pur avendo militato durante il Risorgimento nelle schiere mazziniane si erano poi messi al servizio dei Savoia, chi chiese mai di rinnegare il loro passato, di dissociarsi retrospettivamente dalla loro fede e dal suo profeta braccato fino alla fine dalla polizia dei suddetti Savoia? (In molti lo fecero, come si capisce, ma perlopiù elegantemente, in privato). E a Giosuè Carducci, per dirne un’altra, appassionato aedo dell’Italia monarchica di fine Ottocento, chi rinfacciò mai di aver detto peste e corna, qualche decennio prima, del modo in cui quella stessa Italia era stata fatta? Cioè con l’ambiguità e con gli equivoci, con la mutevolezza dei fronti e l’eterogenesi dei fini con cui sono state sempre fatte le cose su questa terra?

Bisogna convincersene: la storia e la politica che ne è l’anima non sono cose che assomiglino al casellario giudiziario, con l’elenco dei pregiudicati da tirar fuori al momento opportuno. I conti con l’avversario, con il nemico, vanno regolati sia pure nel modo più spietato ma sul momento. Non ottant’anni dopo aver vinto.

Pure Galli della Loggia sbotta contro i talk sul fascismo. E li stronca Costituzione alla mano. Federica Parbuoni su Il Secolo d'Italia il 12 Aprile 2023

I talk show che ogni sera ci propinano dibattiti infiniti sul fascismo e richiedono «spiegazioni, chiarimenti, precisazioni e naturalmente abiure» hanno scocciato. A dirlo non è un qualche ipotetico nostalgico esponente del governo che si pone sulla difensiva, ma Ernesto Galli della Loggia, che in un editoriale sul Corriere della sera di oggi, oltre a far capire che non se ne può più, spiega anche perché, in fin dei conti, quest’insistenza ossessiva sul «passato che non passa» è anche contraria allo spirito della Costituzione. Alla quale lo storico si rivolge per prendere una «boccata d’aria».

La «saggezza della Costituzione» contro quelli del «passato che non passa»

Galli della Loggia chiarisce di non essere affatto sorpreso da questa «continua tendenza a riaprire i conti e a farlo sempre nel modo più aggressivo e perentorio», che si manifesta nel vaglio certosino di «ciò che pensa del fascismo chi sta al governo». Ma vi oppone la «saggezza» della Costituzione. E, in particolare, quella manifestata nel secondo capoverso della XII disposizione transitoria e finale, «una di certo tra le meno conosciute in assoluto», «la quale – ricorda l’editorialista – dopo aver vietato “la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista” recita: “In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”».

Galli della Loggia richiama il significato della XII disposizione transitoria

« In altre parole – sottolinea ancora Galli della Loggia – dopo il primo gennaio 1953, se lo avessero voluto i “capi responsabili del regime fascista” (facciamo qualche nome di quelli allora viventi: Federzoni, Grandi, Bottai, Scorza ecc., quasi tutti squadristi, responsabili di cosucce come le leggi razziali e la Seconda guerra mondiale) avrebbero potuto tranquillamente essere eletti nel Parlamento della Repubblica». Dunque, «come si spiega questa decisione all’apparenza così contrastante con l’immagine di una Costituzione coerentemente antifascista?», è la domanda. Per Galli della Loggia è «difficile credere» che i Costituenti contassero su delle abiure. «Assai più probabile», invece, «che nella loro saggezza» ritenessero che «non aveva senso comminare l’esclusione dalla vita pubblica, né tanto meno chiedere loro una ritrattazione o una dissociazione postuma».

Le decisioni che «aiutarono la Repubblica a mettere radici e a vivere»

«Con il tempo, essi piuttosto si auguravano, ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto: come infatti è sostanzialmente avvenuto», aggiunge ancora lo storico, sottolineando che «non a caso amnesia e amnistia, quella amnistia saggiamente decretata da Togliatti nel 1946 per chiudere la guerra civile, hanno la medesima radice». E, ancora, «negli anni di quell’infuocato dopoguerra si decisero molte cose della nostra Storia, della sua ambiguità, delle sue molte apparenti contraddizioni e dei suoi molti taciti compromessi: tutte cose che possono dispiacere, e che però aiutarono non poco la Repubblica a mettere radici e a vivere».

E se qualcuno avesse chiesto abiure a Pietro Ingrao?

L’esempio che porta Galli della Loggia è quello del Pci, che partecipando alla scrittura della Costituzione pur «svolse un ruolo centrale nella costruzione della nostra democrazia», sebbene «impregnato di stalinismo fino alla punta dei capelli e con il suo massimo dirigente coinvolto direttamente nei più atroci misfatti di Mosca, non poteva certo dirsi una forza politica democratica». «Ciò nonostante – avverte ancora lo storico – se nel 1976 qualcuno avesse chiesto a Pietro Ingrao sul punto di diventare presidente della Camera – all’Ingrao ex direttore della trucissima Unità filosovietica al tempo dei «fatti» d’Ungheria – di dichiararsi preliminarmente contro il comunismo e i suoi crimini, di dissociarsi pubblicamente dal Gulag e dal massacro di Katyn, che cosa avremmo pensato? Saremmo stati d’accordo?».

L’invito di Galli della Loggia a fare i conti con il passato

«La nostra storia, al pari di quella di tanti altri Paesi, ma forse un tantino di più, è stata fatta anche di questi necessari oblii, di queste opportune dimenticanze», chiarisce quindi Galli della Loggia, per il quale «bisogna convincersene: la storia e la politica che ne è l’anima non sono cose che assomiglino al casellario giudiziario, con l’elenco dei pregiudicati da tirar fuori al momento opportuno». «I conti con l’avversario, con il nemico – è dunque il monito finale – vanno regolati sia pure nel modo più spietato, ma sul momento. Non ottant’anni dopo aver vinto».

19 agosto 1989. Il Pci e noi ragazzi terribili dell’Unità. Ci guidava Renzo Foa, volevamo essere giornalisti-giornalisti, autonomi dal partito, e per fare questo sapevamo che dovevamo liberarci del tabù dei tabù: Togliatti. Piero Sansonetti su L'Unità il 20 Agosto 2023

In quel periodo, fine ottanta, l’Unità ribolliva. C’era un gruppo dirigente del giornale, giovane, guidato da Renzo Foa, che era travolto da un grande impeto di indipendenza e di laicità. C’eravamo messi in testa che volevamo fare i giornalisti-giornalisti e non i militanti del partito. E che l’Unità dovesse essere un giornale di sinistra, autenticamente di sinistra, anche radicale, ma autonomo dal partito e libero dai pasticci della tradizione comunista.

Avevamo aggregato al giornale molti commentatori non di partito: Balducci, Caffè (che poi morì nell’87), Graziani, Tranfaglia, Luce Irigaray, Gozzini, Wilma Occhipinti, Dacia Maraini, Ginzburg, Tamburrano, Flores, Manconi. Vi dico la verità: sentivamo però che liberarci davvero dallo stalinismo voleva dire anche dare una mazzata al togliattismo, e persino a quella generazione di leader togliattiani di gigantesca statura intellettuale che andavano indifferentemente dalla destra amendoliana alla sinistra di Ingrao. Prima dell’89 avevamo già compiuto qualche ragazzata. Nell’87, anniversario della morte di Gramsci, avevamo pubblicato un articolo di uno storico, Umberto Cardia, che addossava proprio a Togliatti le responsabilità della lunga carcerazione di Gramsci.

Era successo il finimondo. Credo che rischiammo il licenziamento. Fummo convocati a Botteghe Oscure e bastonati da Pajetta, Napolitano, Natta ed altri. ma mantenemmo il nostro posto e anche il nostro piccolo potere. I direttori dell’Unità cambiavano (Macaluso, Chiaromonte, D’Alema) ma noi giovani ex sessantottini avevamo preso il potere, e il giornale, alla fin fine, lo facevamo noi. Quell’anno il direttore era D’Alema, che ci guardava un po’ di sbieco, ma lasciava margini incredibili di libertà. Quando non era d’accordo diceva: “i giornalisti siete voi. Fate…”.

Al vertice del giornale c’erano Foa, io, De Marco, Ceretti, Di Blasi, Guadagni, Spataro, Tulanti, Fontana, Rondolino, Sappino e un’altra decina di persone, meno compatte rispetto a noi ma tuttavia di altissimo livello professionale e, come noi, convinte che bisognasse liberarci del passato (Paolozzi, Leiss, Geremicca, e il gruppo dei milanesi guidato da Bosetti e Pivetta). E quel 19 agosto del 1989, vigilia del venticinquesimo anniversario della morte di Togliatti, il direttore, D’Alema, era in vacanza e irraggiungibile. Così Foa ed io decidemmo di pubblicare in prima pagina un articolo di critica a Togliatti nel venticinquesimo della sua morte. Ci consultammo con Bosetti, che era d’accordo e poi pensammo al titolo. Non mi ricordo se l’idea fu di Renzo o mia. Ne eravamo comunque entusiasti: “c’era una volta Togliatti…”.

Poi ci chiedemmo chi, autorevolmente e spericolatamente avrebbe potuto mai scrivere questo articolo. Ci venne un solo nome. Quello di Biagio. Ma non confidavamo molto che avrebbe mai accettato di compiere un’azione così temeraria. Accettò subito. Ci costò caro? Beh, credo di sì. Alla festa dell’Unità, in settembre, fummo massacrati. Tutto il vecchio gruppo dirigente del Pci era contro di noi. Ci difese D’Alema, che era molto incazzato, credo, perché oggettivamente gli avevamo fatto una mascalzonata, ma rispondeva sempre all’etica comunista secondo la quale comunque il direttore difende i suoi.

Nelle settimane successive moltissimi alti dirigenti del Pci scrissero sull’Unità per contestare Biagio. In modo molto aspro. Passò qualche mese e cadde il muro di Berlino. Altro che c’era una volta Togliatti. Biagio aveva ragione, avevamo ragione noi. Però non ce la riconobbero. Mai. Fummo segnati come inaffidabili. Oggi rileggendo quell’articolo vedo quanto fosse forte l’analisi di De Giovanni. Poi vedo anche un’altra cosa. La distanza tra il livello di quei dibattiti e la qualità della discussione politica di oggi. Quasi quasi ho nostalgia di Togliatti…

Piero Sansonetti 20 Agosto 2023

L'anniversario della morte. L’articolo su Palmiro Togliatti del 1989 che fece infuriare il Pci. Ci sono stati due Togliatti. Un eccellente intellettuale capace di discutere di democrazia e anche di religione. E un politico travolto dallo stalinismo e dalla persuasione che l’orizzonte comunista giustificasse tutto: ora è di lui che dobbiamo liberarci. Cambia tutto. Biagio De Giovanni su L'Unità il 19 Agosto 2023 

Questo articolo è stato scritto da Biagio de Giovanni nell’agosto del 1989. Pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino. Suscitò enormi polemiche. Ve lo riproponiamo senza cambiare neanche una virgola. E di seguito pubblichiamo un commento di de Giovanni scritto oggi.

A venticinque anni dalla morte di Togliatti, il “modello” di Stalin si va dissolvendo dappertutto, e dove ciò non accade esso è conservato al prezzo di una repressione sempre più opaca, o addirittura sanguinosa, come ha mostrato la recente tragedia di Cina. Stiamo assistendo, soprattutto nell’ Est europeo, al dissolvimento di quello che una volta si chiamava “sistema socialista” e alla faticosa e differenziata transizione verso forme nuove e imprevedibili di organizzazione statale che rimetteranno in moto la storia e la coscienza di milioni di uomini e riaccenderanno domande e proposte di governo anche molto lontane fra loro.

Si riaprono processi che si possono definire di pluralismo politico. Che tutto ciò abbia avuto la spinta propulsiva dalI’Urss di Gorbaciov non è certo cosa poco significativa storicamente, ma non va mai dimenticato che la sua «riforma» è nata nel quadro di una crisi gravissima del sistema politico ed economico, e che si tratta in qualche modo di una risposta estrema ad una crisi estrema, di un tentativo di rimettere in moto un sistema colpito a morte da un totalitarismo pervasivo e senza sbocchi. Insomma il comunismo reale sta concludendo la sua storia, quella inscritta, nella sua vicenda profonda, nelle sue scelte, nella storia della sua organizzazione internazionale.

Tornando oggi a riflettere su Togliatti, è necessario osservare che il suo pensiero e la sua prassi politica sono profondamente coinvolti in tutta questa vicenda. Se non si assumesse questa posizione netta si farebbe anzitutto torto alla battaglia che egli combatté, non si riconoscerebbero le situazioni e i problemi fra i quali egli concretamente operò. Di là dalla complessità della sua ricerca, Togliatti è stato anzitutto uomo dell’Internazionale comunista. Egli ha creduto nella costruzione progressiva di un «campo» e vi ha partecipato attivamente, ha creduto – e ha lavorato a costruire delle idee – nella sua superiorità e nella vittoria finale del mondo nato dalla rivoluzione del 1917, ha contribuito a costruire internazionalmente l’unità dove essa veniva meno o faceva difetto, la sua passione politica era sorretta dalla persuasione che l’antagonismo radicale capitalismo-comunismo tendeva a risolversi con la sconfitta epocale del primo.

E ciò lo condusse ad una sorta di universale giustificazione di tutto ciò che costituì – dentro e fuori i confini dell’Urss – il terreno di una politica concreta. E questa politica fu per tanti anni quella di Stalin. Da qui un tratto essenziale della sua direzione internazionale: la ricerca costante di un rapporto di ferro con l’Urss e con le scelte della maggioranza del partito sovietico – sin dal 1926 e in diretta polemica con Gramsci – che rimase ferma anche dopo la morte di Stalin se si pensa al 1956 ungherese. Curioso a dirsi per chi è passato alla storia come un esempio estremo di realismo politico (il Toghatti totus politicus di cui parlava Benedetto Croce), ma si riceve piuttosto l’impressione che quel suo effettivo realismo fosse guidato da una coltissima utopia che immaginava il «male» potersi tramutare in «bene» se sorretto da una compatta finalità, da un complesso sistema di fini che erano poi quelli della giustizia e dell’ uguaglianza, della fine della divisione in classi, dell’emancipazione umana di là da quella politica.

Non dunque un esecutore di apparato (come ce ne furono tanti nella storia della Terza internazionale) ma un sistema di persuasioni intellettuali che lo condusse nel quadro di quelle scelte «di ferro» a guardare con animo ben diversamente aperto alla storia delle idee e delle società e degli uomini. Perciò egli fu un grande dirigente e si distinse fra tanti quando rimetteva gli abiti consumati dal fango per rivestire quelli «curiali», come avveniva al Machiavelli scrittore: allora il campo di quelle scelte aspre, irreversibili, perfino sanguinose, si riempiva di contenuti e di analisi complesse e tutto il terreno della transizione si complicava ben al di là del rozzo stalinismo, che coinvolse anche lui, per pensare sulla democrazia ,sulle grandi idee che muovono il mondo, sulle forze organizzate guardate nel loro reale movimento, e persino sui principi religiosi e sulla fede.

E per quest’ampiezza di vedute egli costruì un partito che da allora è ben piantato nella storia d’Italia, e costruì entusiasmo, passione, fiducia, e individuò almeno alcuni tratti di un partito riformatore che non aveva precedenti nella storia nazionale dall’Unità d’Italia in poi.

Un «doppio» Togliatti? Sì in un certo senso è così. Ecco perché su di lui non valgono ragionamenti strumentali ma ci si deve sempre impegnare in un giudizio serio e rispettoso come rispettosa e seria fu la discussione che con lui ebbero uomini grandi della cultura laica, che pure gli furono così lontani. Ecco perché egli è parte essenziale della storia intellettuale e politica del nostro paese.

Ma la sua persona e la sua stessa cultura non possono non rimanere coinvolte nella fine di un mondo. Egli lavorò nella persuasione dell’espansione progressiva di un “campo” che oggi si va dissolvendo nella variegata differenza di complesse e diverse esperienze politiche. Il “comunismo reale” è giunto al termine di una storia e con esso tanta parte della cultura e dei protagonisti che lo produssero. Togliatti è dunque sicuramente fra questi e il giudizio politico deve fermarsi su questo passaggio essenziale. Per questa ragione è giusto dire che stiamo oggi, come partito, assai al di là della sua eredità e che dobbiamo compiere ogni sforzo, come stiamo compiendo – per ritrovare la freschezza di una visione critica oltre il grave e pesante fardello che portiamo sulle spalle.

Certo, la storia e gli uomini vanno capiti e dunque anche «giustificati»: ma attenzione a non cadere nella trappola ovvia dello storicismo, per cui tutto quello che è stato ha avuto una ragione per essere; in quest’orizzonte potremmo incominciare a snocciolare la geremiade della necessità. Bisogna guardarsi da un simile atteggiamento. Usiamo invece l’arma della critica e dove è necessario il rigetto: e noi rigettiamo tutto ciò che è coinvolto nell’eredità di Stalin, non con spirito difensivo e rinunciatario ma come atto di responsabilità etico-politica dovuto a noi stessi e alla società italiana.

Oggi si apre un discorso nuovo che guarda con visione franca e leale a una nuova Europa con nuovi confini con una nuova sinistra che costruisce i suoi nuovi ideali di tolleranza, di democrazia, di pace. Guardare in avanti è la condizione per vincere l’aspra battaglia che ci attende.

***

Quell’articolo del 20 agosto che fece infuriare il partito

L’Unità ripubblica un vecchio articolo che scrissi nell’agosto del 1989 in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Palmiro Togliatti. Confesso che lo rivedo sul giornale con qualche emozione, con quel titolo, in prima pagina, “C’era una volta Togliatti e il comunismo reale”, che ebbe, sul Pci, l’effetto di una bomba improvvisa, non prevista. Ero membro della direzione nazionale del partito, ma in quanto “intellettuale” contavo come il due di coppe nella definizione della linea politica.

Quando ebbi, dalla direzione dell’Unità – impersonata da Renzo Foa, Piero Sansonetti, Giancarlo Bosetti – l’incarico di scrivere l’articolo, pensai che fosse giunto il momento di parlar chiaro. Togliatti era stato una grande figura politica, aveva contribuito con il partito comunista a dare la Costituzione all’Italia, ma il mondo che lui rappresentava, in un legame mai negato o indebolito con l’Unione sovietica, scricchiolava. Per me era un mondo che portava in sé il segno della fine, e questa stava per diventare esplicita, dichiarata, e a me capitò di dirlo poco prima che avvenisse.

Il comunismo al governo dal 1917 non era riuscito a modificare in niente la durezza e violenza del “potere orientale”, incapace da sempre, in Russia, di trovare la mediazione tra potere e libertà. L’Europa orientale era, dalla fine della guerra, sotto il tallone di un dispotismo senza speranze. Il 1917, pur avendo contribuito a cambiare il mondo, aveva fallito il proprio compito liberatore, una idea che aveva riempito la prima metà del ‘900 e la stessa cultura occidentale. Nel novembre 1989 cadde il muro di Berlino; qualche anno dopo avvenne lo scioglimento dell’Unione sovietica.

L’articolo di agosto aveva avuto un effetto dirompente: la sera fu la seconda notizia del Tg2 della Rai, che lo mostrò in foto nella trasmissione, e poi, nei giorni successivi comparve una valanga di articoli, qualche centinaio – perfino il Washington Post ne dette notizia come inizio di una crisi -, molti dall’interno del partito, o aspramente critici o disposti anche a discutere ma da una posizione opposta. Mi sentii molto solo; alla Direzione riunita a settembre trovai grande freddezza nei compagni che incontravo, e Alessandro Natta, dotto segretario del partito, che sapeva parlar latino, disse all’inizio della sua relazione: “I compagni devono stare attenti d’estate a difendersi dai colpi di sole”. Ero io quello colpito. E poche settimane dopo, in occasione del rinnovo della direzione, ne fui escluso.

Ma la bomba era esplosa, e gli eventi che velocemente seguirono furono clamorosa conferma che la morte del 1917 era avvenuta: il comunismo reale non costituiva più il destino della storia per la liberazione dell’umanità, ma un potere che non aveva trovato e non poteva trovare la mediazione con la libertà, come mostrarono, dopo lo scioglimento dell’Urss, i tentativi falliti di democratizzazione di Gorbaciov e poi di El’tsin. Poi comparve, era l’anno 1999, un vecchio capo del KgB che si chiamava Vladimir Putin, e divenne padrone della Russia. Non erede diretto del 1917, anzi, pure critico di Lenin, ma figlio della Santa e grande Russia degli zar, il “potere orientale” nella sua durezza e crudeltà: l’opposizione in carcere, qualche assassinio in giro di giornalisti troppo coraggiosi.

Che aggiungere? Il titolo che la direzione dell’Unità – in assenza del direttore Massimo D’Alema che navigava in barca – scelse per pubblicare il mio articolo, ne sottolineava al massimo l’aspetto critico, ma la verità era dietro l’angolo: il 1917 era fallito, la sua volontà di liberazione si era tramutata nel peggiore dei dispotismi dovunque aveva portato la propria bandiera. Togliatti, grande figura politica, ma prigioniero di una scelta che giudicava irreversibile, usciva di scena con quel fallimento.

La storia, in certi casi, è il giudice definitivo, e la fine stanca e drammatica del 1917 riapriva la scena su un nuovo mondo dove tutto rapidamente mutava. La rivoluzione d’ottobre un ricordo confinato nei libri di storia. La storia riprendeva il suo corso, liberata dall’idea di un destino, di una filosofia della storia che avrebbe dovuto segnare le tappe, scientificamente dimostrate, di una liberazione dell’umanità.

Biagio De Giovanni 19 Agosto 2023

Che resta del Pci? Cosa è rimasto delle idee del Pci. Ci sono tanti modi per rispondere alla rottura di quella sintesi unica che era il Pci. Proviamo, nel nostro piccolo a frugare tra i carboni per restituire un po’ di vita alle ceneri di Gramsci. Michele Prospero su L'Unità il 17 Agosto 2023

L’ambivalenza dei giudizi sulla figura di Mario Tronti, che ha colpito Duccio Trombadori, nasce da una interpretazione della sua opera ferma al primo periodo, quello operaista.

Si cristallizzano così due visioni: l’una entusiastica, ripresa anche da Goffredo Bettini (sull’Unità presenta Tronti come “il più grande filosofo politico del dopoguerra”) e Mario Lavia (sul Riformista lo celebra quale autore della “più notevole costruzione scientifica del marxismo italiano dopo Antonio Gramsci”); l’altra fortemente critica, ribadita da Nadia Urbinati, una studiosa anche lei di provenienza comunista, che recupera invece un’antica pagina stroncatoria di Bobbio (“ho cercato di combattere in questi anni con tutte le mie forze contro la mentalità che può far nascere libri come quelli di Tronti”), e chiosa: “condivido tutto quel che scriveva Bobbio, anche virgole e incisi”.

Questa divaricazione così netta sull’eredità di un pensatore dall’“indiscutibile profilo morale” (Trombadori) rispecchia l’eco di un’antica dialettica di approcci tutta interna al Pci, diviso tra una tendenza più vicina alla ricezione delle tematiche democratico-kelseniane, e poi rawlsiane, ed una più attratta dai miti della teologia politica e del decisionismo schmittiano, avversa alle neutralizzazioni liberali (“A Tronti la democrazia non interessa: perciò il suo problema è quello di proporre una nuova strategia per la conquista del potere”, rilevava lo stesso Bobbio).

Proprio prendendo come spunto uno di quei rituali dibattiti tra intellettuali che si svolgevano nei primi anni 80 su Rinascita, Giuliano Ferrara ruppe con il Pci firmando un articolo molto polemico sull’Espresso. In esso denunciava una fuga del nuovo pensiero comunista dalle garanzie della liberaldemocrazia, che erano state invece metabolizzate dal partito nella sua stagione di continua crescita. Questa disputa sui fondamenti teorici si è spenta negli anni 80, poi il tramonto del Pci ha rimescolato tutte le carte.

C’è un momento assai interessante della produzione di Tronti – lo ha ricordato su queste colonne Matteo Orfini a De Giovannangeli – che si può definire togliattiano. Quando nel 2014, come presidente del Crs, fu ricevuto al Colle, Tronti disse che era stato trattato “come un compagno” da Napolitano. Alla destra comunista egli riconosceva peraltro alcune doti considerevoli: il realismo politico, la capacità di lettura tattica della fase e un orgoglio di partito maggiormente sviluppato che in altre correnti più movimentiste. Nel 2013 al Teatro de’ Servi, esaltando l’apporto del Pci alla Costituente come un autentico “miracolo politico”, Tronti pronunciò un discorso molto significativo anche rispetto alle sue asserzioni degli anni 60: “Togliatti è la politica, chi vuole fare politica a quella scuola deve andare e chi vuole pensare la politica deve fare altrettanto”.

Quando Trombadori parla del Pci come “uno specchio rotto”, da cui emerge un’infinità di pezzi spesso non più comunicanti se non nelle lontane memorie, si imbatte in quella che Bettini chiamerebbe la crisi della “forma”. Nel Pci questa “forma” era la sintesi togliattiana entro la cui orbita gravitavano le suggestioni variegate di una visibile cultura parziale, quella “complessità e diversità di idee” cui accenna Trombadori, personalità agli antipodi come Amendola e Ingrao. Il paradigma togliattiano poggiava sul “partito nuovo” come organismo distinto da quello leninista e concepito ab origine in vista di una ricomposizione socialista; sulla Costituzione-progetto come già depositaria di un modello inedito di società che non richiedeva salti, accelerazioni, fratture; sulla necessità di un’analisi di classe del tessuto sociale, attenta però alle alleanze plurali con gli strati popolari e i ceti medi.

Gli accenti peculiari della sinistra e della destra interne (più movimento o più istituzione, più lotta o più governo, più innovazione o più manutenzione nel prototipo di forma-partito) precisavano porzioni differenti da dare occasionalmente alla miscela, ma non contestavano mai l’alchimia togliattiana. È con Occhetto che invece l’amalgama esplode, quando si afferma un impianto più sensibile al lascito rivoluzionario dell’Ottantanove francese. Egli stesso ha dichiarato di appartenere a un filone molto eccentrico del patrimonio della sinistra italiana, distante dal canone realista togliattiano. E questa nota biografica può fare luce su quelle che Trombadori chiama le “questioni lasciate aperte dalla fine precipitosa e arrabattata del vecchio Pci”. Dal partito alla “Cosa-carovana”, dall’identità all’“oltrismo” obliterante la tradizione comunista e quella socialdemocratica, dal conservatorismo costituzionale al “nuovismo” subalterno a Segni e alle procure: il modo con cui il Pci “è uscito da se stesso” ha concorso di sicuro alla malattia mortale della democrazia repubblicana.

Non era impossibile una gestione diversa della chiusura del secolo breve, in direzione dell’approdo ad un partito che nell’idealità socialista tenesse insieme, come prima, sensibilità le più varie. Non era solo Napolitano ad indicare un percorso “dal Pci al socialismo europeo”. Fu il congresso di Firenze del 1986 a coniare per tutti la formula del Pci come “parte integrante della sinistra europea”. E i contributi più organici alla conoscenza delle effettive dinamiche delle socialdemocrazie vennero dai densi volumi pubblicati dal Crs sotto la presidenza di Ingrao, dagli studi degli anni 80 di Leonardo Paggi sul Pci e i riformismi europei.

L’“oltrismo” degli anni 90 fece invece tabula rasa di tutto questo materiale preparatorio. Le immagini di Blob del 1993, in onda proprio in queste settimane per il trentennale, mostrano l’impressionante violenza del linguaggio pubblico del tempo (politica e televisione), risse di piazza tra onorevoli, scene di ovazione per un magistrato molisano mentre entra in una sala gremita di arrabbiati. Si percepisce alla distanza qualcosa di irregolare, come una caduta di regime, nell’esito del ricambio della classe dirigente quasi un colpo di mano, comunque un’alterazione dello Stato di diritto e dell’equilibrio tra i poteri.

Quando una “forma” come quella togliattiana si infrange, le schegge corrono via imprendibili e del Pci rimangono solo tanti frantumi isolati, con milioni di biografie non dialoganti. In questa dispersione, Trombadori trova parole di incoraggiamento per l’Unità di Sansonetti. E sono utili le sue frasi perché, appena qualche giorno prima, su La7 un conduttore che ruota sulla seggiola aveva proferito l’espressione ostile: “povera Unità”. La trasmissione era dedicata alla censura da regimetto che ha costretto un Cognome a riparare in una emittente del Biscione in odore di sovversione.

Solo lì, tra mille stenti, avrebbe avuto Carta Bianca per seguitare a discorrere attorno ai minimi sistemi con lo scamiciato uomo dei monti e con quel tale sociologo che sproloquiava: “per essere liberi, bisogna uccidere Gramsci. Il mio libro è un tentativo di strappare Gramsci dalle nostre menti”. Ci sono tanti modi per rispondere alla rottura di quella sintesi unica che era il Pci. La “povera Unità” almeno prova nel suo piccolo a frugare tra i carboni per restituire un po’ di vita alle ceneri di Gramsci.

Michele Prospero 17 Agosto 2023

Cosa vuol dire revisionismo, la parola proibita nel Pci. Era la parola proibita nel Pci. Il marchio. E il simbolo del revisionismo era Antonio Giolitti, uno dei cavalli di razza della scuderia di Togliatti. Duccio Trombadori su L'Unità il 4 Giugno 2023

Il 19 Luglio 1957 Antonio Giolitti si dimetteva dal Pci firmando una lettera alla Federazione del Partito di Cuneo, alla quale era iscritto: “…sono giunto alla grave e amara decisione di uscire dal PCI…attraverso un’esperienza profondamente meditata e sofferta…le tesi da me esposte vengono ormai additate come esempio tipico, e unico nel PCI, di ‘revisionismo senza principi’ e addirittura come concessioni consapevoli all’ anticomunismo… ma ciò che conta non è la polemica contro presunte mie posizioni ‘revisioniste’, bensì l’interpretazione del marxismo, del XX congresso e dell’ VIII congresso che emerge da quella polemica e si contrappone a ogni idea innovatrice e a ogni onesto tentativo di ricerca intorno ai gravissimi problemi aperti dal XX Congresso e dai fatti di Polonia e d’Ungheria. Per queste ragioni politiche e non certo per un puntiglio intellettualistico, io non posso più accettare una disciplina formale che significherebbe rinuncia a battermi per le idee e gli obbiettivi che ritengo oggi essenziali alla vittoria del socialismo…”.

Un anno prima, Giolitti aveva già motivato le ragioni del suo dissenso all’VIII congresso del PCI, dopo la denuncia kruscioviana del dispotismo di Stalin. In sintesi, egli sposava il riformismo marxista di Bernstein (“il movimento è tutto, il fine è nulla”) contro la dottrina della “dittatura del proletariato” di matrice leninista, propria dei partiti comunisti. Ne aveva dato conferma in un saggio dal titolo “Riforme e rivoluzione” che aveva dato luogo ad una sprezzante replica di Luigi Longo intitolata “Revisionismo nuovo e antico”. A quel punto seguì la scelta del distacco dal PCI che lo avrebbe visto entrare a far parte del PSI nella corrente autonomista di Pietro Nenni.

L’evento suscitò larga eco pubblica, in particolare turbò gli animi nel mio ambito familiare: per la vicinanza di mio padre e mia madre con la famiglia Giolitti (non solo con Antonio, ma anche con sua moglie Elena) con la quale avevo avuto anch’io dimestichezza, per le diverse festività natalizie passate assieme ai figlioli dei funzionari dirigenti di Botteghe Oscure (Ingrao, Onofri, Sereni, Pajetta, e tanti gli altri) tra i quali ricordo anche la sorridente Anna Giolitti…

Mio padre Antonello era rimasto più che turbato come tanti dalle rivelazioni di Krusciov sul dispotismo di Stalin, ed aveva certamente riconosciute per buone le motivazioni del dissenso di Giolitti. Ma giunti alla parola tabù –“revisionismo”- ricordo che egli si irrigidiva per fedeltà al Partito e non ammetteva cedimenti o repliche. In verità di tutte le animate discussioni che ad alta voce si incrociavano per casa mia, capivo ben poco (avevo appena 12 anni): ma ricordo i volti accesi e preoccupati, le esasperate manifestazioni di sconforto di tanti amici di mio padre che poi si allontanarono dal PCI: Tommaso Chiaretti, Mario Socrate, Tonino Guerra, Gianni Puccini, Bruno Corbi e perfino mio zio Gaetano Trombatore che, per avere firmato la “lettera dei 101”, per anni si vide togliere il saluto…

Ma per tornare alla parola tabù –“revisionismo”- un adolescente come me non poteva immaginare fino a qual punto fosse intesa quale diffamante epiteto in ambiente comunista: al punto che nessuno voleva esserne tacciato, nemmeno alla lontana, per le idee che esponeva.

Ne ebbi la conferma sempre in quei giorni del distacco di Giolitti, ascoltando mio padre Antonello impegnato nella solita discussione (Stalin, l’Urss, la democrazia, la libertà e il socialismo) col suo caro amico Giuseppe Mariano, che aveva passato anni a Radio Praga durante il Cominform, e con il quale si parlavano senza reticenze di dubbi ed ansie varie nel merito ideologico e politico.

A un certo punto, mosso dal desiderio di dire la mia su cose più grandi di me, ma su cui ritenevo di avere capito qualcosa, mi rivolsi verso “Peppe” Mariano –che consideravo uno di famiglia, ed era come se lo fosse- e gli dissi ammiccando: “secondo me tu sei un ‘revisionista’…!”. Non l’avessi mai detto. Peppe si rabbuiò, si sentì quasi ferito, poi mi chiese chi mi avesse detto di lui certe cose, perché quella di “revisionista” era una accusa grave. Così ingenuamente, mi sentivo di aver detto la mia senza dare grande importanza alla cosa.

Ma avevo tuttavia inconsapevolmente toccato un nervo scoperto. Parlare liberi da catene ideologiche, esprimere dubbi ed ansie sulle scottanti verità che le crepe del socialismo sovietico avevano messo in brutale evidenza, era comunque nel senso comune circolante nel PCI, un indizio di “revisionismo”. Indizio che, per certe mentalità, era prova di animo controrivoluzionario. Ma per altre era conferma di uno spirito di libertà che andava emergendo nella cultura e negli spiriti più indipendenti dello stesso mondo comunista. “Peppe” Mariano e mio Padre Antonello ne facevano parte. Ma anche loro subivano, inconsciamente, il ricatto psico-ideologico dell’anatema “anti-revisonista”… Duccio Trombadori 4 Giugno 2023

I Nostalgici.

La fine del comunismo. Il mito infranto del Pci: quell’utopia di resuscitare il patrimonio immenso del Partito Comunista. La macchina da guerra costruita da Togliatti andò a schiantarsi contro il muro di Berlino. Di quel patrimonio immenso, seppure prezioso, è rimasto di politicamente commestibile poco o nulla. Paolo Franchi su L'Unità il 23 Agosto 2023

Duccio Trombadori e Michele Prospero hanno sollevato nei loro scritti una questione che almeno potenzialmente va assai oltre il tema – spinoso e affascinante – del ruolo di un pensatore politico potente come Mario Tronti nel marxismo, non solo italiano, e non solo teorico. Per come ho conosciuto Mario, penso che anche solo provarsi a inquadrarla un po’ meglio, senza ovviamente pretendere di venirne a capo, sia un modo di rendergli omaggio che avrebbe apprezzato.

Trombadori si chiede non senza angoscia se e come sia possibile, per riprendere il cammino, rimettere in qualche modo assieme, o almeno far comunicare tra loro, i mille pezzi dello “specchio rotto” cui si è ridotto quello che un tempo chiamavamo il “patrimonio storico” del Pci e, aggiungerei ancora più nettamente io, del movimento operaio e socialista, di cui in Italia i comunisti, pur rappresentandone almeno dal 1948 la componente di gran lunga preponderante, non detenevano (e, quando non cadevano preda della “boria di partito” di gramsciana memoria non pensavano di detenere) il monopolio teorico e politico.

Mi sembra, il suo, un interrogativo non solo legittimo, ma pure doveroso, e non solo per chi (semel abbas, semper abbas?) a questa vicenda resta indissolubilmente legato nonostante il trascorrere impietoso del tempo. Dei vecchi che si prefiggono di produrre idee nuove è bene diffidare, i vecchi che cercano di guardare in una luce nuova il passato forse (forse) possono essere ascoltati, se non con rispetto, almeno con un po’ di attenzione. E dunque. Sul piano, diciamo così, storico-politico, io la penso a grandi linee come Prospero. Lo specchio di Duccio, e non solo di Duccio, prima si è incrinato, poi è andato in frantumi, quando è venuta meno, senza che nulla di significativo le subentrasse, la forma partito genialmente costruita, a partire dal 1944, da quel gigante della politica che rispondeva al nome di Palmiro Togliatti. Tra parentesi.

Il primo ad accorgersene (lo segnalo, en passant, a Goffredo Bettini) alla morte del Migliore è stato, in Uccellacci e uccellini, il corvo pasoliniano che si unisce a Totò e a Ninetto Davoli nel loro peregrinare per le lande desolate dell’ultra periferia romana (per problemi di wifi cito a memoria: il viaggio è appena cominciato, ed è già finito). Ma probabilmente lo presagiva anche l’ultimo Togliatti (molto ma molto più inquieto di quanto ci narra la vulgata), che, non credo solo per una insopprimibile vocazione professorale, terminò il suo discorso conclusivo in una tormentatissima conferenza di organizzazione del Pci citando al suo partito Dante, X Canto del Paradiso: “Messo t’ho innanzi, ormai per te ti ciba”. E tuttavia, intuizioni e premonizioni a parte, quella forma partito (assai più ricca e complessa di quanto dicano le formulette sul centralismo democratico) non senza intoppi, smagliature e cadute resse ancora a lungo, almeno sino alla fine degli anni Settanta, e tenne a battesimo, nel 1975 e nel 1976, i due più grandi successi elettorali nella storia del Pci, anche e forse soprattutto perché togliattiana (forse fuori tempo massimo) era, a cominciare dal compromesso storico, la strategia politica impressa al Pci da Enrico Berlinguer.

Altro che “sensibilità diverse”, come allora pudicamente si diceva. Nel comunismo italiano convivevano non solo “personalità agli antipodi” (Prospero) come Amendola e Ingrao, ma letture della storia italiana, analisi del capitalismo, giudizi sul cosiddetto socialismo realizzato, nonché scuole di pensiero profondamente diverse e talvolta, all’apparenza almeno, inconciliabili. Una simile convivenza non sarebbe stata neanche immaginabile se, a tenerle insieme, non avesse provveduto, cito ancora Prospero, “il paradigma togliattiano” del “partito nuovo come organismo distinto da quello leninista e concepito ab origine in vista di una ricomposizione socialista”, nonché della “Costituzione-progetto … già depositaria di un modello inedito di società che non richiedeva salti, accelerazioni, fratture”.

Ma il Pci puer robustus ac malitiosus ereditato da Togliatti entra irreparabilmente in crisi nell’ultimo scorcio degli anni Settanta, e ancora più vistosamente lungo tutti gli Ottanta, quando, dopo l’assassinio di Aldo Moro e la conseguente fine della stagione dell’unità nazionale e del compromesso storico, il Pci di Berlinguer, ormai sprovvisto di interlocutori, resta anche privo dell’unica strategia di lungo periodo di cui disponeva – quella togliattiana, insisto – e si auto costringe a fare non più politica, ma propaganda: propaganda “di sinistra” anche efficace, almeno finché Berlinguer vive, ma pur sempre propaganda “difensiva” che non incide sulle contraddizioni dell’avversario e non avvicina di un passo la prospettiva della direzione politica del Paese.

È in questo contesto che le divisioni interne (si ricordi, per tutte, la ferocia anche personale delle contestazioni mosse a Giorgio Amendola dopo il suo articolo sulla Fiat, e si rileggano le note riservate redatte per il segretario dal suo più stretto collaboratore, Tonino Tatò) si fanno velenose e irreparabili. Alla morte di Berlinguer, il tentativo di fare una cauta retromarcia rispetto alle posizioni da questi espresse nei suoi ultimi anni (penso ai rapporti con i socialisti, ma pure, con il congresso del 1986, alla collocazione internazionale del partito) per riconnettersi in qualche modo alla tradizione togliattiana lasciano, fuori tempo massimo come sono, il tempo che trovano.

Si potrebbe proseguire con il racconto di quegli anni. Ma forse possono bastare questi scarni accenni per prendere atto che anche l’agonia del Pci, cominciata almeno dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino, fa parte del “patrimonio storico” di cui dicevamo all’inizio. E fa parte integrante di un’epoca storica (quella inaugurata dalla Rivoluzione d’Ottobre) che si è conclusa, tra il 1989 e il 1991, con una sconfitta, per l’appunto epocale. Dell’Urss, naturalmente, e pure dei comunisti occidentali che dal modello sovietico avevano preso le distanze, a cominciare dagli italiani, che però, Italia a parte, in Occidente, Francia e Spagna comprese, non contavano più nulla.

Ma, più in generale, anche delle socialdemocrazie, che pure il lungo duello con i comunisti lo avevano stravinto: l’onda impetuosa della globalizzazione e del neoliberismo (ma forse sarebbe più semplice dire: di un capitalismo rimasto senza avversari, e dunque ormai per nulla disposto a lasciarsi tosare, o anche solo condizionare) era in tutta evidenza destinata prima o poi, più prima che poi, a travolgere le fondamenta stessa del compromesso democratico tra capitale e lavoro consegnato alla storia sotto il nome di Stato sociale. Io la ricordo bene, la stagione in cui il motto “non ci sono pasti gratis” divenne un mantra indiscusso e indiscutibile anche per la sinistra che si professava di governo. Era la stessa stagione in cui, sempre nella medesima sinistra, si assicurava che Antonio Gramsci era stato, altro che Silvio Berlusconi e la sua destra impresentabile in società, l’antesignano di una improcastinabile “rivoluzione liberale”.

In Italia non fu solo una sconfitta. Fu una rotta di proporzioni incalcolabili. Per i socialisti che in parte scomparvero per proprie responsabilità, in parte furono fatti scomparire con le cattive. E per i comunisti che, per evitare di restare intrappolati sotto le macerie del Muro, si impegnarono allo spasimo, rifondatori a parte, nello sforzo suicida di fuoriuscire da sé evitando di fare i conti, seppure in extremis, con la propria storia, nella speranza, a dir poco mal riposta, di trovare un posto, o forse addirittura di esercitare una caricatura di egemonia, nel composito campo “nuovista” che aveva i suoi alfieri da una parte nel movimento referendario, dall’altra nella magistratura milanese.

È il caso di ricordarlo sempre, quando ci si chiede, a trent’anni e passa di distanza, come mai del “patrimonio storico” di cui sopra (che non era davvero poca cosa) di politicamente commestibile sia rimasto poco o nulla; è lungo quel passaggio cruciale che la stessa parola “sinistra” ha cominciato a diventare fastidiosa agli occhi della povera gente. Ricordiamolo soprattutto noi, che la parola “sinistra”, di per sé alquanto ambigua, la abbiamo sempre frequentata poco. Ma senza dimenticare che, prima della pessima gestione della sconfitta, c’è stata, per l’appunto, la sconfitta.

Una sconfitta inaudita, perché non ha investito semplicemente delle linee e delle culture politiche, dei gruppi dirigenti, delle forme partito, ma ha tolto senso alle motivazioni di fondo di un agire collettivo che, per quanto appesantito dagli anni e dalle delusioni, un senso condiviso lo aveva eccome: il mondo, il migliore dei mondi possibili, è questo, questi sono i rapporti di produzione, queste sono le gerarchie sociali, toglietevi dalla testa l’idea che si possa assaltare il cielo o anche, più modestamente, che si possano migliorare passo dopo passo le cose, non contate niente, accettate lo stato di cose presente o, se proprio non ci riuscite, arrangiatevi.

La storia non è finita, le promesse mirabolanti non sono state mantenute, il futuro che si preannunciava radioso fa paura. Ma dalle parti dei vinti le cose non sono cambiate. Peggio. I tentativi di buscar el levante por el poniente mimetizzandosi e minimizzando la portata della sconfitta (tanti auguri a Elly Schlein: ma non sarebbe il caso di analizzare impietosamente la vicenda del Pd dal Lingotto ai giorni nostri?) sono nati e sono tramontati senza che i perché della sconfitta medesima venissero scandagliati.

Non credo che cercare di farlo oggi sia mestiere da archivisti. Non sarà l’Unità da sola a portare a compimento una simile, colossale impresa. Ma, magari con un po’ di donchisciottismo, è sin qui, in splendida solitudine, l’unica a provarci. Più che dei nostri auguri, ha bisogno, per quel poco o quel molto che vale, dell’impegno di chi quella storia la attraversata e quella sconfitta la ha vissuta. Con quale casacca di partito, poco importa.

P.S. (Ri)leggo solo ora, anch’io con un po’ di commozione, il “C’erano una volta Togliatti e il comunismo reale” di Biagio de Giovanni pubblicato dall’Unità di Renzo Foa e Piero Sansonetti nell’agosto del fatidico Ottantanove. E leggo pure gli opportuni articoli del medesimo de Giovanni e del medesimo Sansonetti (il mio fraterno amico Renzo non c’è più da un pezzo) pubblicati a corredo. Che dire? Bravi, bellissima iniziativa. Così bella che non mi pare il caso di lasciarla cadere. Soprattutto perché, come ho provato ad argomentare anche in questo articolo, una discussione seria sul Pci non può che partire da Togliatti e dal suo lascito.

In un libretto pubblicato un paio di anni fa dalla Nave di Teseo (“Il Pci e l’eredità di Turati”) ho sostenuto con qualche pezza d’appoggio che lo stalinista Togliatti fu più “turatiano” di molti dei suoi successori. I quali, giustamente chiamati ad andare ben oltre Togliatti su questa strada, si smarrirono però nel bosco, e nonostante una gran quantità di soccorritori si fosse mossa alla loro ricerca, non vennero più rintracciati. Resto della stessa idea. Paolo Franchi 23 Agosto 2023

Il libro nero degli italiani nei gulag: il vero volto del comunismo di cui non si parla volentieri. Vittoria Belmonte il 18 agosto 2023 su Il Secolo d'Italia. 

Quanti sono gli italiani periti nei gulag in Unione sovietica? Una domanda che nessuno si pone più oggi, visto che la tendenza dominante è quella di rintracciare i fantasmi del fascismo (finito nel 1945). Salvo qualche voce isolata, come quella di Ernesto Galli della Loggia pochi giorni fa sul Corriere, a nessuno pare conveniente attardarsi sui danni del comunismo, sui suoi “errori ed orrori”, come direbbe qualcuno…

Galli della Loggia e la censura della parola “comunista”

Anzi, l’annotazione di Galli della Loggia sulla censura dell’aggettivo comunista accostato a qualche nefandezza (tipo i delitti delle Br) ha dato così fastidio che ancora ieri si leggevano repliche piccate, tipo quella apparsa sul Fatto nella quale si rivendicava al Pci di avere fatto i conti con i terroristi di casa propria mentre nel Msi ciò non sarebbe accaduto. Sorvolando, ad esempio, sulla richiesta di Almirante della pena di morte per i terroristi sia neri che rossi.

I conti col passato li fanno gli storici

Ma lasciamo la parola ai ricercatori e agli storici che hanno ancora la voglia e il coraggio di andare controcorrente e di svelare pagine oscurate sul comunismo e le sue vittime: ora abbiamo a disposizione uno studio approfondito e documentato sugli italiani nei gulag, (Il libro nero degli italiani nei gulag, Leg edizioni, pp. 573, euro 24) curato da Francesco Bigazzi e che raccoglie scritti di Dario Fertilio, Ugo Intini, Aldo G.Ricci, Elena Parkhomenko, Stefano Mensurati, Giovanni Di Girolamo, padre Fiorenzo Reati, Anatoli Razumov.

Le cifre di un orrore rimosso

Il numero delle vittime non è ancora definito in modo incontrovertibile ma alcune cifre sono certe: 822  comunisti e anarchici emigrati in Russia, 78 incarcerati durante le purghe staliniane, 1200-1500 deportati nel 1942 nei gulag del Kazakistan tra gli italiani di Crimea. E infine c’è il tragico capitolo dei circa 64mila prigionieri di guerra del Csir e dell’Armir, 40mila dei quali morti nei gulag.

Togliatti e le reticenze del Pci

Dati alla mano – sottolinea – Bigazzi – “possiamo dimostrare che le condanne a morte di antifascisti furono ben più numerose in Unione sovietica sotto Stalin che non in Italia sotto Mussolini“. Ci sono poi le responsabilità del Pci e di Palmiro Togliatti nel silenziare il dramma degli italiani inghiottiti nell’Arcipelago Gulag. Se ne occupa, nel libro, Ugo Intini che con l’Avanti promosse contro lo storico segretario comunista una campagna di verità che risale al 1988.  L’idea del nostro giornale – ha raccontato Intini nel 2012 – “nacque sulla scia della Perestroika avviata da Gorbaciov e la conseguente apertura degli archivi. Da quegli archivi saltarono fuori delle carte che riabilitarono la figura di Nikolaj Bucharin, condannato a morte nel ’38 da un tribunale staliniano con un coinvolgimento diretto del leader del Pci”.

Il dramma degli italiani di Crimea

Particolarmente crudele, infine, il dramma dei circa 2000 italiani della comunità di Kerc che a partire dal 1921 e fino alla fine degli anni Cinquanta vennero repressi perché sospettati di sabotare la rivoluzione in quanto stranieri. Un calvario che nel libro viene descritto da Stefano Mensurati ricorrendo a numerose testimonianze inedite.

In una fase politica in cui si parla molto, in termini di propaganda, di fare i conti con la propria storia, i saggi raccolti nel Libro nero degli italiani nei gulag aiutano  a capire quanta ipocrisia vi sia da parte della famiglia politica della sinistra che ha perennemente il dito puntato contro il nemico. Sono saggi che fanno ben capire, infatti, il ruolo attivo del gruppo togliattiano nel terrore staliniano e denunciano – osserva infine Bigazzi – i tentativi della dirigenza del Pci di continuare a coprire i misfatti di Stalin fino al crollo dell’Urss e la messa al bando del Pcus. Un atteggiamento oscurantista che, salvo alcune eccezioni, influenza la stragrande maggioranza degli eredi del Pci”.

Dall’Ungheria all’Ucraina. Storia dell’ipocrisia autoassolutoria della sinistra sui crimini dei russi. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 15 Agosto 2023

Lo spettacolo di arte varia degli intellettuali postcomunisti che si mescolano agli youtuber più impresentabili fa temere che in questi decenni l’autoritratto della sinistra sia stato tutto una truffa

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia

Un antico e incoercibile riflesso autoassolutorio spinge molte brave persone a respingere qualsiasi analisi critica delle proprie posizioni politiche, con l’argomento che ben altre, ben più gravi e ben più evidenti contraddizioni caratterizzerebbero la parte avversa. È un fatto che questo riflesso sia particolarmente diffuso a sinistra: il lettore giudichi da solo se la ragione è che tra gli elettori di sinistra ci sono più ipocriti o che tra gli eletti di destra ci sono più farabutti. Da un punto di vista puramente logico, personalmente, mi limito a osservare che le due ipotesi non si escludono reciprocamente.

Per quanto si possano detestare certi riflessi condizionati e certe concessioni al cattivo gusto del pubblico, bisogna ammettere che nel caso della guerra in Ucraina sarebbe però davvero arduo diffondersi sulle contraddizioni della sinistra senza dire una parola sulle incredibili giravolte compiute nel frattempo dalla destra. E il fatto che tale arduo compito sia brillantemente portato a termine da molti commentatori non fa che confermare l’importanza di tutta questa noiosa premessa.

Gli elogi di Silvio Berlusconi a Vladimir Putin, le ripetute occasioni in cui ne ha convintamente rilanciato le più spudorate falsificazioni propagandistiche e le tante altre imbarazzanti peculiarità del loro decennale rapporto, come tutto quel che riguardava Berlusconi, hanno suscitato nel corso degli anni, se non altro, un minimo di attenzione e anche di scandalo. Le prodezze di Matteo Salvini sono state oggetto di internazionale spernacchiamento fino all’altro ieri, in particolare quando il leader della Lega ha avuto l’infelice idea di esportare il suo gusto per il triplo gioco in Polonia, Paese per ovvie ragioni, storiche e geografiche, assai sensibile al problema dell’aggressività russa (indimenticabile la faccia di Salvini nel momento in cui il sindaco con cui credeva di cogliere una bella photo opportunity gli mostra una maglietta di Putin come quelle da lui sfoggiate fino a pochi anni prima).

Molto meno ricordate e criticate sono invece le analoghe imprese compiute da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia fino all’invasione del 24 febbraio 2022. Eppure, dopo l’occupazione russa della Crimea nel 2014, Meloni e il suo partito si sono battuti per anni a sostegno di Putin e contro le sanzioni occidentali (come il Movimento 5 stelle, del resto).  A sinistra, bisogna dirlo, nessuno si è mai spinto a tanto (il Movimento 5 stelle, infatti, non ha mai appartenuto al campo della sinistra, e questa storia ne è solo l’ennesima dimostrazione).

Il desolante panorama appena ricordato non costituisce però una buona ragione per ignorare un problema che invece riguarda proprio la sinistra italiana, la sua storia e la sua identità. Un problema che la guerra in Ucraina ha evidenziato in modo implacabile, e, almeno per me, persino sconvolgente.

Dall’invasione russa del 24 febbraio, i nomi più illustri dell’intellighenzia progressista hanno firmato appelli demenziali, ripieni delle più ridicole e già mille volte smentite fake news della propaganda putiniana; storici e filosofi che hanno insegnato nelle maggiori università e scritto sui principali quotidiani del Paese non hanno esitato a partecipare a convegni e pubblicare persino dei libri con fascio-populisti formatisi nella Gabbia di Gianluigi Paragone; accademici dei Lincei e filologi sottilissimi si sono mescolati a rinomati cialtroni del web, nazi-comunisti da operetta, blogger no vax e tutto il campionario di disperati che abitualmente tuonano contro il «mainstream» da qualche canale YouTube. Gente con cui in qualsiasi altro momento della loro vita non avrebbero accettato di prendere un caffè.

È vero, un simile spettacolo non era del tutto inedito. Un’ampia e istruttiva anticipazione ci era già stata offerta dal gran numero di politici e intellettuali di sinistra finiti a cantare le lodi di Giuseppe Conte, l’eroe dei due governi, dichiaratamente populista e sovranista fino al settembre 2019 (il “Conte uno”), convintamente europeista e occidentale dal settembre 2019 al febbraio 2021 (il “Conte due”), nuovamente filo-putiniano e anti-atlantista dal febbraio 2021 a oggi (prima in forme più ambigue e sofferte, durante il governo Draghi, poi sempre più esplicite, con il ritorno all’opposizione).

Con la guerra in Ucraina si assiste però a un innegabile salto di qualità. E si torna immediatamente dalla farsa alla tragedia. Naturalmente ora in molti avrebbero buon gioco a ricordare di averlo sempre detto: dalla sinistra non (o anche anti) comunista alla destra (più o meno) liberale, a tutti coloro che per decenni hanno contestato ambiguità, doppio standard e ipocrisie di un certo mondo pacifista (peraltro non solo di matrice ex Pci, ma anche cattolico).

In molti ora potrebbero dire: di che vi stupite? Cosa c’è di diverso dai tempi in cui dirigenti e intellettuali comunisti rilanciavano le peggiori calunnie sulla rivoluzione ungherese? Eppure quella vicenda segnò una spaccatura profonda, anzitutto tra gli intellettuali (che firmarono il famoso appello dei 101) e in parte anche nel gruppo dirigente comunista (il caso più famoso è quello di Antonio Giolitti). Ha però una qualche importanza, per l’identità della sinistra italiana proveniente dal Pci, anche il modo in cui quella vicenda è stata poi raccontata ed elaborata, con tutta l’autoindulgenza, l’autocensura e il senno del poi di cui si è fatto ampio uso. Mi riferisco al tentativo di descrivere uno sviluppo lineare dal tragico errore del ’56, per usare uno dei tanti eufemismi di cui trabocca questa storia, alla scelta di condannare l’invasione di Praga del ’68, a tutto quel che è venuto dopo, con Enrico Berlinguer.

Si potrà legittimamente criticare il modo in cui i comunisti hanno così sminuito le loro responsabilità da un lato e ingigantito il loro ruolo e anche la portata del loro dissenso dall’altro, ma per l’identità di una forza politica, per i valori e gli orientamenti che trasmette ai propri militanti ed elettori, e alle successive generazioni, contano pure le versioni di comodo, le verità ufficiali e i luoghi comuni. Soprattutto i luoghi comuni: ripetuti fino allo sfinimento, introiettati e rilanciati anche da chi non ne abbia avuto alcuna diretta esperienza. Si potrà dunque contestare il rigore storico di quelle narrazioni, ma non il loro senso: una traiettoria che si allontanava sempre di più dagli orrori (e dalle balle) del socialismo reale, per avvicinarsi gradualmente fino a identificarsi (anche qui, s’intende, non senza grande disinvoltura) con la socialdemocrazia occidentale, europeista e atlantista.

L’indegno spettacolo offerto oggi da politici e intellettuali di antica tradizione marxista, comunista o post-comunista pone dunque a chi ha in buona fede condiviso e difeso quella tradizione una domanda decisiva e ineludibile, di carattere morale prima ancora che politico. E cioè: quella narrazione è stata solo un imbroglio, un gioco delle tre carte, un puro incrocio di tatticismi e convenienze, come sempre e inevitabilmente intrecciato ai movimenti delle carriere e delle leadership personali? Quella storia, quella identità, quella tradizione aveva e ha ancora, insomma, un qualche senso, può ancora essere raccontata come l’evoluzione – sia pure sofferta, contraddittoria, difficile – di un grande partito, e del suo popolo, verso posizioni, come si sarebbe detto una volta, sempre più coerentemente democratiche e progressive, o era davvero soltanto una truffa?

Certo, quando il gioco era condotto a colpi di citazioni dal Capitale e dalla Fenomenologia dello Spirito, quando su Raitre poteva capitare di seguire il dibattito sulla teoria del valore di Marx tra Lucio Colletti ed Eric Hobsbawm, quando l’iniziativa politica e culturale abbracciava davvero il mondo intero e le sue infinite complicazioni, era pur comprensibile una qualche esitazione e confusione, o perlomeno una prudente sospensione del giudizio. Ma dopo aver visto gli eredi e i custodi di quella tradizione politico-culturale ripetere le fregnacce dei più screditati guru da social network, parlare di vaccini, green pass e Donbas con gli stessi pseudo-argomenti dello zio scemo al pranzo di Natale, è difficile resistere al sospetto che al cuore di tanta profondità non ci fosse niente di niente.

Chi voglia salvare l’onore di quella tradizione e dunque l’identità della sinistra attuale, che per tanta parte ne discende, dovrà alzare la voce e abbandonare ogni timidezza. Non è più tempo di concessioni alla tattica e allo spirito del tempo. Gli storici di domani non saranno indulgenti come i giornalisti di oggi e non accetteranno giustificazioni.

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

Il comunismo? Ha solo cambiato forma: il libro nero della nuova sinistra. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano l'08 agosto 2023

Il fatto che Il libro nero della nuova sinistra (Eclettica, pp.280, euro 17) richiami solo nel nome il noto Libro nero del comunismo pubblicato nel 1997 da diversi ricercatori del CNRS francese con lo scopo di documentare i crimini e gli abusi compiuti dai regimi comunisti che hanno portato alla morte di 85 milioni di persone, non deve rassicurare più di tanto. Perché gli autori argentini, Nicolás Márquez e Agustín Laje, non ripercorrono altre dolorose storie di politiche sadiche e genocide o repressioni politiche violente, ma tuttavia si concentrano su nuovi e non certo meno pericolosi terreni ideologici sui quali viene combattuta la battaglia rossa contro “il capitalismo”, “la borghesia” e “lo sfruttamento”.

Tutto parte, secondo gli studiosi che inaugurano la collana di Eclettica dedicata al Sud America, dal crollo dell’Unione Sovietica. Con lei, il marxismo-leninismo non si è affatto dissolto e la storia non è affatto finita. Anzi. Senza un riferimento pratico contro cui misurarsi, l’Occidente ha erroneamente trascurato le nuove forme del comunismo, quelle tradotte nelle battaglie ultraprogressiste portate avanti “dall’interno” di un sistema che invece l’Urss puntava a distruggere “dall’esterno”. 

LA SOSTITUZIONE Di fronte all’assenza del contenimento sovietico e alla conseguente necessità di riempire un vuoto, le strutture di sinistra di mezzo mondo si sono ingegnate nella fabbricazione di Ong e contenitori simili, capaci di diffondere il messaggio sotto mentite spoglie, catalizzando molto meglio non solo il proprio libretto, ma anche la propria militanza, i propri standard, i propri clienti e le proprie risorse finanziarie. Così, agli albori dell’ultimo decennio del XX secolo, un’infinità di dirigenti, scrittori, gruppi giovanili, e organizzazioni varie rimasero sparpagliate, senza il supporto discorsivo e senza una rivoluzione da difendere o glorificare, e per tale ragione queste correnti hanno avvertito la necessità di truccarsi e incolonnarsi dietro a nuovi argomenti e bandierine che ossigenassero i loro avviliti e screditati slogan. Silenziosamente, la sinistra rimpiazzò così i progetti guerriglieri con le schede elettorali, soppiantò il suo discorso classista con aforismi egualitari che occuparono un vasto territorio culturale, smise di reclutare “operai sfruttati” e cominciò a catturare anime tormentate o marginali al fine di programmarle e lanciarle alla provocazione di conflitti dall’aspetto nobile. I quali, prima facie, poco o nulla avrebbero avuto a che vedere con lo stalinismo e neppure con il terrorismo sovversivo, ma solo con nuovi concetti all’apparenza pacifici e condivisibili da tutti come “l’inclusione” e “l’uguaglianza” tra gli uomini. Ben presto, le società occidentali si sono accorte che quelle parole d’ordine sarebbero valse solo per “alcuni” uomini: i migranti, gli ambientalisti, i lottatori per i diritti civili solo di alcuni, gli abolizionisti ma solo di capisaldi tradizionali come il diritto alla vita, i sostenitori dell’ideologia di genere (quest’ultima a sua volta distinta in femminismo, pro-aborto e omosessualità culturale), su cui gli autori si concentrano in quest’opera che promette di essere la prima di una serie di approfondimenti dedicati a tutte le nuove forme della lotta proletaria.

L’obiettivo dell’abolizione della famiglia e della proprietà privata di marxsiana memoria sono stati mantenuti. Il fine è sempre lo stesso, semplicemente è cambiata la forma. Come accade ad esempio con l’ordofemminismo, che col pretesto di tutelare la donna dall'uomo padre-padrone ha trasformato le relazioni in un campo di lotta e d’odio permanente. Di pari passo, procede la questione della natalità, volta non già a comprimere le nascite ma pure a esercitare controllo sui figli. Celebri gli esempi di procedimenti al limite dell'”esproprio proletario” della prole (esempio: Bibbiano) perché lo Stato dovrebbe considerare i nascituri una sua proprietà, così da poter effettuare meglio una formattazione ideologica e sociale sulle future generazioni. Per spiegare non solo l’assurdità di fondo delle istante, ma anche le sue pericolose derive, gli autori citano ad esempio opere e idee di pensatrici femministe radicali come Shulamith Firestone, Simone De Beauvoir, Kate Millet, Zillah Eisenstein, femministe radicali, che arrivano ad organizzare la propria architettura rivoluzionaria riscrivendo i canoni di morale, di famiglia, di vita di coppia.

CAMBIARE REGISTRO A fare da minimo comune denominatore, il rapporto con la sessualità e la nascita di pratiche eccessive note come “porno terrorismo”, un nuovo uso dei piaceri della carne volto a riprogrammare i desideri sessuali in chiave da un lato fluida (per distruggere qualsiasi impianto, compresa la gelosia, anche solo vagamente simile all’esclusività dei rapporti vista come forma di “proprietà privata”) e dall’altro traumatica, benedicendo la comparsa di pratiche estreme e finanche violente, purché “paritarie” quando non esercitate, preferibilmente, dalla donna sull'uomo. Il tutto, per contribuire alla distruzione della sovrastruttura familiare e matrimoniale eterosessuale che teoricamente contribuirebbe alla riproduzione del “sistema capitalista”. Infine, la comparsa dell’ideologia del gender come piano di costruzione di una guerra che prima era tra uomini e donne, poi è diventata tra eterosessuali e omosessuali, ora è giunta all’idea che nemmeno il sesso in quanto tale esiste e, ancor più, non dovrebbe più esistere l’identità. Un quadro davvero inquietante, quello tracciato dagli autori che, per chiarezza, hanno estrazione politica liberale e non sono certo dei pericolosi neonazisti. In un certo senso, però, è pure un volume che, ammonendo le destre e i moderati per via della loro colpevole distrazione, quando non sudditanza, cerca di lanciare un disperato appello a cambiare registro. Alla svelta. 

I Nostalgici. Estratto dell’articolo di ilfattoquotidiano.it il 15 Gennaio 2023.

[...] L’incidente musicale che è successo ieri sera al congresso della Cgil di Bologna sta creando imbarazzi e polemiche: quando il neoeletto segretario Michele Bulgarelli è stato proclamato ed è salito sul palco alla presenza del segretario generale Maurizio Landini, dalle casse, al circolo Arci di San Lazzaro di Savena, è infatti partito l’Inno dell’Unione Sovietica, che peraltro ha la stessa musica dell’attuale inno della Russia.

[...]Si sarebbe trattato, a quanto spiegano al sindacato, di un malinteso con la regia: alla proclamazione del segretario sarebbe infatti dovuta partire l’inno dell’Internazionale, storico canto del socialismo mondiale che affonda le proprie origini nella Comune di Parigi. Ma alla consolle qualcosa è andato storto[...].

 [...] Fratelli d’Italia [...]  attacca: “Landini si scusi – dice il capogruppo alla Camera di Fdi Tommaso Foti – e condanni pubblicamente quanto avvenuto ieri sera a Bologna. È un’offesa alle tante vittime del popolo ucraino che combattono per la libertà. E Landini, che era presente all’evento, ne prenda immediatamente le distanze”.

Alla Cgil negano la nostalgia per l’Urss: “L’inno solo un errore materiale”. Ma questo video li sconfessa. Redazione su Il Secolo d’Italia il 14 Gennaio 2023.

L’inno dell’Urss diffuso all’assemblea della Cgil è un errore materiale, come dichiara l’apparato ufficiale della sigla sindacale? Forse. Di sicuro, come documenta il video che pubblichiamo, non è dispiaciuto a nessuno dei partecipanti. Anzi. Qualche anziano nostalgico dei tempi del compagno Stalin, avrà avuto anche i lucciconi agli occhi.

L’inno dell’Urss confuso con l’Internazionale: la scusa non regge

Chiamatela nostalgia canaglia, di sicuro risponde imbarazzatissimo e lapidario, il neo segretario generale della Cgil di Bologna, Michele Bulgarelli inciampato a pochi minuti dalla sua elezione in una figuraccia.

Il vecchio inno sovietico che ha fatto da colonna sonora alla sua proclamazione è difficile da giustificare. “Abbiamo già scritto che si è trattato di un errore materiale e lo riconfermo. Dalla destra d’altra parte che ci dobbiamo aspettare? Non voglio abbassare il livello della discussione”, risponde all’Adnkronos.

Venerdì sera, quando alla fine di una intensa giornata di lavori alla quale ha partecipato il segretario generale Maurizio Landini, è stata proclamata l’elezione a segretario, come previsto, del leader uscente della Fiom bolognese Michele Bulgarelli, dalle casse del circolo Arci di San Lazzaro ,dove era in corso il congresso, è partito l’inno dell’Unione Sovietica nella versione cantata dall’Armata Rossa.

Sulle prime nessuno ci ha fatto troppo caso, tanto che il sindacato pensionati della Cgil ha immortalato il momento e lo ha pubblicato sulla propria pagina Facebook, per poi rimuoverlo poco dopo. La cosa non è però sfuggita agli esponenti di Fratelli d’Italia che hanno attaccato duramente il sindacato. Il capogruppo del partito alla Camera Tommaso Foti ha chiesto le scuse da parte di Landini, parlando di “un’offesa alle vittime dell’Ucraina”.

La musica dell’inno dell’Urss è infatti identica a quella dell’inno della Federazione russa. Cambiano solo le parole che vennero tolte al crollo del regime e poi fatte riscrivere da Putin, all’inizio del ventunesimo secolo, dal poeta Sergei Michalkov, perché fossero più consonanti con il nuovo corso politico.

Landini si scusi – ha detto Foti, seguito da molti altri esponenti del suo partito e del centrodestra – e condanni pubblicamente quanto avvenuto a Bologna al Circolo Arci San Lazzaro di Savena. È un’offesa alle tante vittime del popolo ucraino che combattono per la libertà. E Landini, che era presente all’evento, ne prenda immediatamente le distanze”.

L’inno dell’Unione sovietica come ai tempi di Peppone e Don Camillo

La Cgil di Bologna definisce l’accaduto come un mero errore tecnico: all’atto della proclamazione di Bulgarelli era infatti previsto che dalle casse risuonasse l’inno dell’Internazionale, il canto dei socialisti europei che risale alla Comune di Parigi del 1871.

Chi era in regia avrebbe però fatto confusione ed è partito l’inno dell’Unione Sovietica, senza, peraltro, che nessuno dei presenti ci facesse caso. Il che, se è possibile, è ancora più grave.

Il monopolio della memoria a senso unico. Al termine del congresso nazionale della Cgil a Bologna (la rossa più che la dotta in questo frangente), alla presenza del segretario generale Maurizio Landini, è risuonato a tutto volume l'inno dell'Unione Sovietica. Francesco Giubilei il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Dopo una campagna elettorale basata sull'accusa alla destra di «non aver fatto i conti con la storia» agitando lo spauracchio del «pericolo fascista», la sinistra italiana cala la maschera e dimostra il proprio carattere nostalgico, anche se di tutt'altro genere.

Al termine del congresso nazionale della Cgil a Bologna (la rossa più che la dotta in questo frangente), alla presenza del segretario generale Maurizio Landini, è risuonato a tutto volume l'inno dell'Unione Sovietica. Immancabili i sorrisi, i cenni di assenso e i pugni chiusi tanto dalla platea quanto dal palco in un revival dell'Urss di cui francamente non si sentiva il bisogno.

Eppure quanto accaduto a Bologna non è un episodio isolato ma testimonia un vizio che la sinistra nostrana non ha mai perso ed è la nostalgia del comunismo e, in fondo in fondo, anche degli anni dell'Unione Sovietica. I compagni, troppo impegnati a puntare il dito contro la destra, si sono dimenticati di prendere le distanze dal comunismo e dai suoi crimini e non perdono occasione per dimostrarlo.

Il concetto dei due pesi e due misure non è purtroppo una novità ma la nonchalance con cui la sinistra esercita il proprio monopolio della memoria è sconcertante. Supponiamo per un momento che quanto avvenuto a Bologna fosse accaduto al contrario, ovvero che un sindacato di destra avesse messo a tutto volume l'inno di un'altra dittatura novecentesca al proprio congresso, cosa sarebbe accaduto? La risposta è scontata, avremmo assistito, come è giusto che sia, a un coro unanime di condanna che però non è avvenuto nel caso della Cgil. Eppure c'è una risoluzione del parlamento europeo del 2019 che mette sullo stesso piano comunismo e nazismo condannando la dittatura dell'Unione Sovietica.

Sempre attenta alle indicazioni che arrivano da Bruxelles, la sinistra italiana deve essersi dimenticata dei contenuti di questa risoluzione.

Non a caso l'episodio al congresso della Cgil è solo l'ultimo in ordine di tempo, pochi mesi fa, durante la campagna elettorale, un candidato del PD scriveva: «Buon anniversario della Rivoluzione Bolscevica» corredato da foto di Lenin e Armata Rossa. Che dire poi delle esaltazioni del «modello cinese»: «La Cina contribuisce all'ordine mondiale e il suo sviluppo offre una prospettiva alle nuove generazioni» Massimo D'Alema dixit. Per i compagni italiani è vietato essere nostalgici se non del comunismo, in quel caso vale tutto.

Gennady Zyuganov, l’ultimo comunista di Russia. Emanuel Pietrobon il 13 Gennaio 2023 su Inside Over.

Il comunismo è morto, vinto dalla storia, ma c’è chi ancora crede in quest’utopico e inconcretizzabile ideale di uguaglianza. Da Cuba alla Repubblica Popolare Cinese, passando per Corea del Nord e Vietnam, il comunismo continua a godere di un certo seguito e a fare seguaci. Anche se, certo, non più come in passato.

In Russia, dove l’implosione dell’Unione Sovietica viene vissuta come un trauma nazionale, a portare avanti le tesi dell’ideologia che più di ogni altra ha plasmato il Novecento è il vulcanico Gennady Zyuganov, capo storico del Partito Comunista ed eterno candidato alla presidenza.

Genesi dell'ultimo homo sovieticus

Gennady Andreevič Zyuganov nasce in un minuscolo villaggio nell’oblast’ di Orël, Mimrino, il 26 giugno 1944. Proveniente da una famiglia di insegnanti, Zyuganov studia fisica con l’obiettivo di diventare un professore e di proseguire, dunque, la tradizione ereditata da genitori e nonni.

Il 1961 è l’anno del compimento del sogno di famiglia: Zyuganov riceve tre cattedre presso la scuola in cui si è appena diplomato, la secondaria di Mymrinsk, ottenendo di insegnare matematica, fisica e addestramento militare basico. Ma l’esperienza dura soltanto un anno, perché nel 1962 abbandona l’incarico per studiare matematica e fisica all’università statale di Orël.

Per un breve periodo, dal 1963 al 1966, Zyuganov mette in stand-by gli studi per servire nell’unità di intelligence biologica, chimica e radiologica del Gruppo di forze sovietiche in Germania. Di ritorno a Orël, nel 1966, premerà sull’acceleratore per completare la laurea, conseguita infine nel 1969.

Terminare ciò che aveva iniziato era un dovere nei confronti di se stesso, ma Zyuganov aveva cambiato idea sul proprio futuro: non sarebbe stato un insegnante. Iscrittosi al Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), il giovane diventa in breve tempo il primo segretario della Komsomol di Orël, trampolino di lancio verso gli apparati nazionali.

Dopo un trascorso a Mosca, utilizzato per perfezionare gli studi e per addentrarsi negli ambienti che contano, Zyuganov fa ritorno a Orël. Questa volta, però, per ricoprire il ruolo di capo dell’ideologia e della propaganda della sezione locale del PCUS. Nel 1983, dopo tre anni di capo ideologo regionale, a Zyuganov viene offerta una posizione prestigiosa nella capitale: istruttore nel dipartimento della propaganda del PCUS.

Il trasferimento a Mosca è il coronamento di un sogno. Un sogno destinato a durare poco, però, perché l’epopea sovietica è agli sgoccioli. A Orël lo si poteva ignorare, ma a Mosca la sensazione della fine permeava l’aria. Affranto, ma non vinto, Zyuganov si sarebbe trasformato in uno dei più grandi detrattori del riformismo di Michail Gorbačëv.

Ad un soffio dal trono

Il 1991 è l’anno della discesa in campo di Zyuganov. È l’anno della pubblicazione di due aspre lettere aperte sulla Sovetskaya Rossiya, una indirizzata ad Aleksandr Jakovlev, l’ideologo della perestrojka, e una all’emergente Boris Eltsin. Le lettere sono la prova che Zyuganov, sino ad allora un funzionario semisconosciuto e ininfluente, coltiva aspirazioni presidenziali.

Quando l’Unione Sovietica giunge al capolinea, e con lei il PCUS, Zyuganov si organizza per dare vita al Partito Comunista della Federazione Russa, del quale diventa prima co-segretario e poi, nel 1993, presidente. Aiutato dai modi autoritari, dalla noncuranza per i problemi sociali e dalla pessima gestione dell’economia di Eltsin, che col tempo avrebbero trascinato la neonata Russia in una quasi guerra civile, Zyuganov emerge come il capofila dell’opposizione.

La ricetta per la salvezza proposta da Zyuganov si basa sulla mescolanza di elementi comunisti – controllo statale dell’economia, pianificazione delle attività produttive, rinazionalizzazione delle grandi imprese che sono state privatizzate – e patriottici – il culto della Russia in sostituzione della defunta rivoluzione –, e vuole creare un fronte comune contro Eltsin che trascenda i concetti di destra e sinistra. L’idea piace, così suggeriscono i numeri su tesseramenti e manifestazioni, e Zyuganov si candida alla presidenza nel 1996.

La possibilità che Zyuganov possa vincere e dare seguito alle promesse di restaurare l’Unione Sovietica è molto concreta. È un trascinatore di folle, ha appena conquistato la maggioranza alla Duma, mentre Eltsin è inviso al ceto medio impoverito e ai ceti popolari affamati dalle sue politiche che hanno condotto al cosiddetto “genocidio economico”. Zyuganov sarà fermato, questo giureranno di fare i sette banchieri, perché rappresenta una minaccia per il (nuovo) sistema emerso dalle ceneri dell’Unione Sovietica.

In quello stesso anno, mentre Zyuganov è convinto di sentire il sapore della vittoria nell’aria, ai margini del Forum Economico Mondiale viene stretto il “patto di Davos” tra i sette banchieri e i loro sponsor occidentali. Obiettivo dichiarato del patto, la cui esistenza sarebbe venuta alla luce soltanto anni più tardi, era di impedire la vittoria di Zyuganov finanziando la campagna elettorale di Eltsin e trasformando l’intero mondo dell’informazione in una macchina propagandistica anticomunista.

Il 16 giugno, a ultima scheda scrutinata, l’amara sorpresa per Zyuganov: secondo posto, con il 32% delle preferenze. Eltsin e il nuovo sistema avevano prevalso, anche se di poco (35%), conquistando un ulteriore mandato. Ma il redivivo stato profondo, sopravvissuto alle purghe e in fase di riorganizzazione, di lì a poco avrebbe posto prematuramente fine al dominio di Davos su Mosca. Lo avrebbe fatto l’ultima sera del 1999, data altamente simbolica, costringendo Eltsin a cedere lo scettro ad un oscuro e semisconosciuto securocrate di nome Vladimir Putin.

Fedelissimo di Putin

Che il sogno di ascendere al Cremlino fosse già finito, Zyuganov lo avrebbe capito molto presto, alle presidenziali del 2000: secondo posto, con il 29% dei voti, dietro al roboante 53,4% di Putin. Un risultato inevitabile, impossibile da alterare, giacché il popolo aveva apprezzato l’umiliante uscita di scena di Eltsin e la durezza del neopresidente nei confronti del terrorismo ceceno.

Dopo un periodo di iniziale ostilità, probabilmente genuina, tra Zyuganov e Putin si è instaurato un rapporto basato sulla competizione controllata, non privo, comunque, di episodici disaccordi e tensioni. A Zyuganov è stato affidato il ruolo di capofila dell’opposizione sistemica, cioè quella legalizzata, tollerata e persino utile al Cremlino per dare una parvenza di democraticità al regime, che ha permesso al Partito comunista di sopravvivere, crescere e fuggire a censure e repressione.

Eterno candidato alla presidenza, eterno secondo, Zyuganov ha vinto la stima e il rispetto di Putin, per il quale è un uomo indispensabile – perché in grado di sottrarre voti a radicalismi extraparlamentari –, come dimostrato dagli scambi di regali tra i due e dalla collaborazione parlamentare tra comunisti e Russia Unita. Finta opposizione.

La cooperazione tra Zyuganov e Putin, inizialmente circoscritta all’egemonizzazione del panorama partitico, col tempo si è estesa alla legislazione e alla politica estera. Di Zyuganov è stata l’idea di porre fine alla demonizzazione di Stalin – cosa poi avvenuta a partire dal 2012. Il leader comunista ha supportato l’entrata in vigore della legge sulla propaganda gay. E sempre Zyuganov ha sostenuto il pivot to China e gli sforzi per ravvicinare le repubbliche ex sovietiche nell’Unione Economica Eurasiatica.

Fondamentale è stato il ruolo rivestito da Zyuganov, lo spianatore di tendenze di Putin, nello scoppio della guerra in Ucraina. Dal Partito Comunista è infatti provenuta la proposta di riconoscere l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, in data 15 febbraio 2022, che, approvata dalla Duma sei giorni dopo, ha creato il presupposto legale per l’invasione dell’Ucraina: gli accordi di amicizia, cooperazione e assistenza con le due entità.

Zyuganov non è riuscito a trasporre in realtà il sogno più recondito, quello di sedersi sul trono del Cremlino, ma, intuendo i benefici promananti da un sano e intelligente modus vivendi con Putin, ha ottenuto qualcosa di parimenti importante: il potere di incidere sul corso degli eventi e di trasformarsi in un rivale indispensabile. Perché se è vero che Zyuganov senza Putin sarebbe cieco, lo è altrettanto che Putin senza Zyuganov sarebbe zoppo.

Der Spiegel e la Marx Renaissance. Rinascimento Marx, solo in Italia è chiuso a chiave in soffitta. Michele Prospero su Il Riformista il 3 Gennaio 2023

Il settimanale liberale Der Spiegel sbatte Marx in prima pagina. La copertina del primo numero del 2023 lo ritrae, sornione, con le braccia ricoperte da tatuaggi, interrogato come dispensatore di lumi attorno alle tante crisi del presente (Polykrise): energetica, commerciale, democratica (per l’insorgenza di populismo e autocrazia) e bellica (per la guerra mondiale incombente).

In effetti, se interpellato, il teorico di Treviri molto avrebbe da dire per risalire alla radice delle contraddizioni del tempo moderno. Il titolo con il quale il foglio tedesco inaugura il nuovo anno è comunque già un programma, chiedendosi se, dinanzi alla lunga e generale crisi del capitalismo, non “avesse ragione” proprio lui. La risposta al dilemma è ricercata in un articolo lunghissimo, di oltre 36 mila caratteri. Il pezzo, firmato da Thomas Schulz, Susanne Beyer e Simon Book, indaga le ragioni oggettive della Marx renaissance. La cosa può risultare sorprendente solo nella smarrita provincia italiana. Qui Marx è chiuso a chiave in soffitta. Nell’accademia sedotta dalla pura compilazione, è dimenticato da almeno quarant’anni. E, nella grande stampa d’opinione, molte firme si sono scandalizzate perché, in una recente riunione del Pd, Gianni Cuperlo ha osato citare una frase del filosofo tedesco.

La ripresa di Marx avviene su più livelli, e non si pesca nel suo inesauribile catalogo solo per rimarcare una qualche affinità politico-ideologica. Colpisce, in particolare, la sfacciataggine del Financial Times,che ha l’impudenza di riciclare un po’ di Marx per invocare un nuovo ordine economico in quanto sarebbe giunto il momento di dare il benservito al neoliberismo. Il settimanale di Amburgo ricorda come persino Ray Dalio, fondatore del più grande hedge fund al mondo, dinanzi alle ripetute crisi e agli squilibri della distribuzione, rilegga Das Kapital preferendolo alle apologie inservibili del Wall Street Journal. Anche tra i vertici della cultura ufficiale le metafore marxiane circolano tranquillamente per denunciare i fondamenti dell’attuale assetto sociale. Der Spiegel sente Minouche Shafik, che dirige la London School of Economics, è anche baronessa e membro della Camera dei Lord britannica, dopo essere stata vicepresidente della Banca mondiale.

Il linguaggio di una crossbencher scettica sulla capacità integrativa dell’odierno modello di sviluppo, e che auspica un “nuovo contratto sociale”, non si discosta, almeno nella parte descrittiva dei fenomeni, da quello delle culture più radicali che riesumano, oltre alle istanze del keynesismo di sinistra, anche categorie più specificamente marxiane. Con le sue sollecitazioni a riscoprire il ruolo di programmatore-gestore dello Stato, M. Mazzucato influenza il lavoro del governo del socialdemocratico Scholz. Nel quadro di una piattaforma neo-keynesiana, orientata al Green New Deal, trova un naturale interlocutore nel ministro federale dell’economia e della protezione climatica Robert Habeck, esponente dei Verdi, alle prese con un tentativo di ristrutturazione dei modelli di politica industriale ispirato a un’economia ad emissioni zero. Il motivo politico congiunturale della rinascita dell’interesse per il marxismo sta nella necessità, per la sinistra tedesca, di ridefinire le categorie politiche utili al governo democratico dell’economia dopo la stagione della deregolamentazione.

L’Spd, in realtà, aveva riabilitato Marx già nel 1989, salvo però condividere l’ubriacatura moderata per il “nuovo centro” avviata da Gerhard Schröder sul finire degli anni ‘90. Oggi si cercano “missioni di innovazione” per gestire un’economia verde che richiede il passaggio dal vecchio Stato, che ex post interviene per correggere i fallimenti del mercato, allo Stato nuovo, che progetta, definisce gli scopi, riformula il fondamento della civile convivenza. In questo spazio di riflessione, matura la ricerca di una radicale svolta (Zeitenwende) per costringere il capitalismo a marciare in direzione di un nuovo ordine economico. Oltre al paradigma keynesiano di sinistra, cresce l’attenzione per il marxismo. Il settimanale tedesco richiama soprattutto le analisi di due figure intellettuali: Kohei Saito, che per rispondere alla crisi ha scagliato la natura contro il capitale (affrancando, a suo dire, Marx dallo Zeitgeist modernista dell’ottimismo tecnologico), ed Eva von Redecker, femminista e marxista che ha ridefinito il linguaggio della liberazione contro il governo privatistico del capitale.

Saito è un giovane filosofo giapponese che si è formato in Germania. La sua tesi di dottorato, Natur gegen Kapital (pubblicata da Campus nel 2016), è stata discussa nel 2015 presso la Humboldt Universität zu Berlin sotto la supervisione di Andreas Arndt, uno dei più interessanti studiosi di Marx. I suoi spunti sono stati poi sistematizzati in un fortunato libro del 2020, molto citato tra gli specialisti. Si tratta di una sorta di manifesto del nuovo ecologismo di ispirazione socialista che, una volta tradotto in Giappone, ha venduto nelle librerie mezzo milione di copie. Saito recupera le istanze di una “critica normativa al capitalismo” che procede attraverso gli scritti di Marx successivi al 1868, solo parzialmente raccolti nel volume IV-18 delle Opere complete, di cui il giovane filosofo è curatore. Si tratta di estratti e note sulla chimica agraria, sulla storia del suolo, che avvicinano il pensatore tedesco alla comprensione dell’esaurimento delle risorse che viene determinandosi a seguito dell’uso intensivo dei fertilizzanti artificiali.

Senza indulgere ad una ontologia negativa, nel lavoro di Saito l’esplorazione della contraddizione natura-capitale accompagna Marx verso una prospettiva ecosocialista. Nella consapevolezza dei limiti del sovraccarico dell’ecosfera, il Marx riletto dal filosofo giapponese assume coerentemente l’ipotesi della de-crescita e supera un modello produttivista dallo spiccato tratto prometeico-antropocentrico. Non meno radicale, ma entro un’ottica critica diversa, appare la riflessione di Eva von Redecker, una filosofa formatasi tra Berlino e Cambridge, “con una predilezione per Marx”. La contestazione del governo del capitale, che esercita un dominio di sesso, di razza e si distingue per la depredazione della natura, saluta la portata innovativa dei movimenti di protesta (da quelli dei neri a quelli femminili che agiscono in nome della “maternità della politica”).

Convinta che “la rivoluzione è interstiziale”, la filosofa affida ai movimenti la ricerca di un Sozialismus per il XXI secolo. Una comunità di condivisione (Gemeinschaft der Teilenden), oltre al ripensamento delle regole, deve contestare il rapporto di proprietà imposto da un “capitalismo che distrugge la vita”, che va combattuto per spalancare la vita oltre la merce, la persona al di là del mercato. Nel suo libro tradotto in inglese (Praxis and Revolution. A Theory of Social Transformation, Columbia University Press, 2021), alla contraddizione reale Redecker preferisce la figura retorica (metalepsis) che dal caos totale porta al recupero di un senso. “Le rivoluzioni sociali possono sfidare non solo il modo in cui siamo governati, ma anche chi siamo, chi possiede cosa, come ci relazioniamo gli uni con gli altri e come riproduciamo la nostra vita materiale”.

La cura, il tempo, l’ecologia, la politica fiscale orientata a scopi diversi reclamano una politica attiva. Spetta ad essa progettare un nuovo ordine, non semplicemente proporsi come una sfera reattiva che avanza solo dopo i fallimenti del mercato, con le sue marginalità ed esclusioni. Nella rinascenza marxiana si notano, dunque, diverse componenti che vanno alla ricerca di una soluzione a quello che Der Spiegel chiama esplicitamente un Klimakiller-Kapitalismus, un capitalismo assassino e rapace che uccide il clima, la società, la democrazia. C’è persino il disincanto del finanziere miliardario che percepisce che il sistema così com’è non funziona più. La globalizzazione senza regole si è arenata e sollecita, anche per un paperone da prime posizioni di Forbes, una politica che sappia governare le contraddizioni del meccanismo inceppato e delineare le forme di un capitalismo sostenibile. Si tratta, peraltro, di riflessioni critiche che nascono nel cuore stesso del capitalismo più avanzato, non tra i perdenti della globalizzazione liberista, e denunciano non solo gli eccessi della finanza speculativa, ma smascherano i costi della crescita illimitata, contrapponendo alla centralità dell’azionista i bisogni della società.

Qualcosa però manca nell’odierna domanda culturale di marxismo emergente in Germania (il settimanale ricorda anche che negli Usa il 49% dei giovani tra i 18 e 29 anni è favorevole all’idea socialista). Tra piste ciclabili, redistribuzione, incentivi e sussidi per le imprese attente ai livelli di emissione, indennità alla nascita, è il lavoro, la libertà di chi produce, a non affiorare nei filosofi nipponici e tedeschi come il soggetto della critica trasformatrice. Eppure in Marx, più che l’enfasi sui limiti dello sviluppo, cova un’istanza di liberazione, di esaltazione delle capacità. Con la sua invocazione di un piano razionale, egli non trascura la capacità del mercato di arrestare la caduta tendenziale del saggio di profitto, e quindi non crede ad una crescita zero (Nullwachstum) come base per le grandi innovazioni.

C’è qualcosa di scivoloso nella via della post-crescita (Post-Wachstum), assunta nel dibattito tedesco come condizione per accompagnare la transizione ecologica (con periodi di contrazione del reddito e dei consumi, con fasi di disoccupazione). La riflessione riportata da Der Spiegel non solo trascura la capacità del mercato di rendere produttiva la crisi, ma, oscurando il soggetto del conflitto, rende friabile il terreno per la ricerca di altri beni (beni pubblici) e dei valori d’uso, sottovalutando il peso della cura della persona, della partecipazione (politica e sociale), della formazione continua e dell’istruzione. Merito indiscutibile del settimanale di Amburgo è quello di aver comunque invitato di nuovo Marx a scendere dalla soffitta. Le sue pagine sono ancora un’indispensabile lente per indagare le contraddizioni del presente. Michele Prospero

Karl Marx non era antisemita. Michele Prospero su Il Riformista il 29 Dicembre 2021

Riprendendo alcuni spunti dell’intervista a Fassino di De Giovannangeli nel suo articolo Giuliano Cazzola invitava a cogliere la radice culturale dell’antisemitismo di sinistra e, per individuarne il profilo genetico, suggeriva di spingersi sino al pensiero di Marx. Una tale genealogia non pare però convincente e un rinvio filologico ad alcuni momenti della riflessione marxiana potrebbe contribuire a rimuovere un equivoco interpretativo sorto da talune singole frasi di complessa lettura presenti nel saggio giovanile sulla questione ebraica.

Nei suoi scritti Marx ha stigmatizzato a più riprese l’antisemitismo che cominciava a dare dei segnali di visibilità nelle piazze della vecchia Europa. Il fenomeno era diventato ormai allarmante e Marx in un articolo del 1859 denunciava l’allegria viennese con cui «i nostri prodi buontemponi anticiparono le loro imprese future con un repentino assalto contro i poveri israeliti. Sfasciarono alcune vetrine, picchiarono alcuni ebrei, a molti tagliarono la barba, e un poveretto fu addirittura buttato dentro un barile di catrame. La gente che passava tranquillamente per via veniva apostrofata con la domanda: Sei ebreo? e chi rispondeva di sì veniva duramente picchiato al grido di Macht nichts, der Jud wird geprugelt (via, botte al giudeo)» (Marx, Opere complete, vol. XVI, cit., p. 332).

Oltre alla «esaltazione di questi buontemponi viennesi» (Opere, vol. XVI, p. 332) Marx rigettava le assurde idee formulate da de Gobineau che nella sua opera Sur l’Inégalité des races humaines sosteneva la tesi per cui «la race blanche è una specie di divinità tra le altre razze umane». Rilevava con evidente sdegno Marx che «per gente di questo tipo l’odio verso la race noire è sempre fonte di soddisfazione, perché vogliono avere qualcuno che, a loro parere, esse hanno il diritto di disprezzare» (Opere complete, vol. XLIII, p. 710). La sola differenza che Marx invitava a politicizzare come fondamento di un grande conflitto era quella sociale, non dava alcuno spazio a differenze ascrittive, a contese etnico-identitarie, alle inimicizie ancestrali incardinate sui miti del sangue e della terra.

In alcune pagine molto significative del 1854 Marx (Scritti, p. 92) avvertiva il peso insidioso dei conflitti religiosi («dietro le rivendicazioni religiose si celano altrettante rivalità politiche e nazionali»), della carica repressiva connessa ad ogni indistinzione tra governo politico e verità religiosa («Le dispute tra ecclesiastici sono le più velenose, diceva Mazzarino»). La sua attenzione andava a quanto accadeva in Palestina. «I Luoghi Santi sono abitati da nazionalità che professano differenti religioni: latini, greci, armeni, copti, abissini e siriani». Tra le comunità residenti, scriveva Marx, si sviluppano degli accesi conflitti innescati spesso sulla base di semplici pretesti. Tra le fedi «l’oggetto manifesto della loro rivalità è una stella proveniente dalla grotta di Betlemme, un tappeto, la chiave d’un santuario, un altare, una reliquia, una sedia, un cuscino… qualsiasi ridicola precedenza!». In Palestina si diffondono «le sante zuffe che nascondono semplicemente una battaglia profana non soltanto fra nazioni, ma anche tra etnie» (p. 93). Il ginepraio dei Luoghi Santi rivelava per Marx delle situazioni di oppressione e di violenza. Nel suo affresco si mostrava attratto in particolare dalla condizione ebraica.

«Nulla uguaglia la miseria e le sofferenze degli ebrei di Gerusalemme, che abitano nel quartiere più sporco della città, chiamato bareth-el-yahoud, il quartiere del sudiciume, tra il Sion e la Moriah, dove si trovano le loro sinagoghe: sono oggetto costante dell’oppressione e dell’intolleranza dei musulmani, sono insultati dai greci, perseguitati dai latini e vivono solo delle scarse elemosine inviate dai loro fratelli europei. Per altro gli ebrei non sono nativi del luogo, ma di paesi diversi e distanti, e vengono attratti a Gerusalemme unicamente dal loro desiderio di vivere nella Valle di Giosafat e di morire proprio nel luogo dove aspettano il redentore». In uno scritto di rilevante respiro intitolato Über den Antisemitismus (in Marx-Engels, Werke, band 22, Berlin, 1977, p. 49-50) Engels, attratto dalla portata civilizzatrice della modernizzazione, raffigurava l’antisemitismo come un odioso malanno che proliferava su basi di massa solo in Paesi arretrati (Prussia, Austria, Russia), ma che sarebbe «semplicemente deriso in Inghilterra e in America». Si trattava per lui di forme regressive che annidavano in delle credenze ancestrali scaturite dal risentimento della piccola nobiltà decadente che viveva di prestiti e dalle angustie della piccola borghesia incapace di arrivare «al punto di vista moderno».

Solo lo sviluppo del grande capitale («non importa se ariano, ebreo, cristiano, circonciso o battezzato») avrebbe sprigionato degli effetti costruttivi tali da incidere in profondità nelle mentalità collettive. Engels celebrava il moderno quale momento che “annichilisce” le credenze reazionarie di queste classi che insorgono contro le invidiate fortune degli ebrei (la ricchezza di Rothschild è un nulla rispetto al grande capitale americano). Secondo l’interpretazione di Engels solo dove il capitale era ancora assai debole, e l’economia versava in condizioni di stagnazione, sorgeva l’odio razziale come messaggio capace di fare proseliti tra i ceti più poveri con le maschere di un socialismo arcaico e nazionalista. Da questo punto di vista, precisava Engels, «quindi l’antisemitismo non è altro che una reazione degli strati secondari medievali della società contro la società moderna, che consiste essenzialmente di capitalisti e lavoratori salariati, e quindi serve solo scopi reazionari sotto una solo apparenza socialista». Il lessico socialisteggiante è peculiare nelle ondate reazionarie delle destre radicali che osano rubare simboli sociali per mobilitare le periferie, i perdenti delle modernizzazioni. Anche Spengler, nel primo Novecento, parlerà in termini “socialisti” delle questioni identitarie connesse al tramonto dell’Occidente.

Nella sua riflessione Engels riteneva che l’antisemitismo, come movimento di massa, fosse «una variante del socialismo feudale e non possiamo avere nulla a che fare con esso. L’antisemitismo falsifica l’intera situazione. Non conosce nemmeno gli ebrei che disprezza. Altrimenti avrebbe saputo che qui in Inghilterra e in America, grazie agli antisemiti dell’Europa orientale, e in Turchia, grazie all’inquisizione spagnola, ci sono migliaia e migliaia di proletari ebrei. Questi lavoratori ebrei sono i più sfruttati e i più ignoranti. Abbiamo avuto tre scioperi di lavoratori ebrei qui in Inghilterra negli ultimi dodici mesi, e qui dovremmo fare antisemitismo come lotta contro il capitale? Inoltre, dobbiamo troppo agli ebrei. Tacendo su Heine e Börne bisogna ricordare che Marx era di sangue ebraico; Lassalle era ebreo. Molte delle nostre persone migliori sono ebrei. Il mio amico Victor Adler, in prigione a Vienna, Eduard Bernstein, Paul Singer della cui amicizia sono orgoglioso, e tutto il resto».

Non solo in Marx non è possibile trovare degli agganci reali al sentimento antiebraico, ma nelle sue pagine scorre una esplicita lotta teorica contro l’antisemitismo dipinto come ideologia reazionaria. È giusto come fa Cazzola richiamare il tratto trasversale dei sentimenti antiebraici sempre radicati nelle culture politiche, ma, per individuarli e combatterli, può risultare utile attingere anche al laboratorio di Marx. Michele Prospero

Giorgio Amendola, un liberale che voleva educare gli operai. Non voleva discutere con la Cisl, si opponeva ai consigli di fabbrica, demonizzava l’irruenza operaia. Paolo Persichetti su L'Unità il 21 Giugno 2023

Nel 1968 Giorgio Amendola, pubblicò un audace volumetto dal titolo, La classe operaia italiana, nel quale il leader storico dell’ala destra del Pci azzardava una singolare analisi del ceto operaio criticando la linea del suo partito e del sindacato, accusata di privilegiare quella minoranza di classe operaia che lavorava nelle grandi fabbriche, dimenticando il grosso impiegato nella piccola e media impresa.

Secondo Amendola occorreva ribaltare tutta la linea allora prevalente nei tre grandi sindacati italiani e anche nei partiti della sinistra. Posizione che sembrava non cogliere le dinamiche politiche del conflitto sociale. Furono proprio le lotte condotte nei grandi aggregati industriali a strappare alcune decisive conquiste, all’interno del contratto nazionale, di cui beneficiò soprattutto chi lavorava nelle piccole e medie imprese prive della forza contrattuale e politica delle grandi fabbriche. Conquiste non solo salariali ma soprattutto contrattuali, capaci di intervenire sui ritmi, gli organici, gli straordinari, i lavori nocivi, la mensa, le 150 ore, gli aumenti uguali per tutti.

L’egualitarismo

C’è un aspetto che mandava Amendola su tutte le furie, ma non solo, perché si trattava di una cultura consolidata nel sindacato degli anni 50 e 60 e nei dirigenti del Pci, ovvero l’egualitarismo. Una rivendicazione che spiazzava le gerarchie sindacali ma soprattutto scardinava il sistema disciplinare della fabbrica, strumento di potere di “capi” e “capetti” con il loro sistema di premi, ricatti, compensi e punizioni. Rivendicazione politica innanzitutto, strumento di libertà dentro le officine.

Dove nasceva l’ostilità di Amendola verso il protagonismo dei ceti operai? Probabilmente dalla sua originaria formazione culturale, dalle origini alto borghesi, da una visione elitaria della politica che attribuiva al partito comunista una funzione pedagogica delle masse, che andavano guidate, dotate di una rigida morale da perseguire, gerarchizzate. Per Amendola il partito comunista doveva portare a termine quella rivoluzione borghese che il partito liberale di suo padre Giovanni non era stato in grado di compiere.

La sua classe operaia ideale era fatta di uomini pronti ad accettare l’egemonia e la tutela del partito, disposti a riconoscere la funzione maieutica a quei capi capaci di trasformarli da plebe in operai consapevoli. Ubbidienti e pronti e stringere la cintola per fare i sacrifici necessari al paese al posto di quella borghesia inesistente (sic!) e dimostrarsi così classe nazionale, ceto di governo.

La rude razza pagana

Quando sul finire degli anni Settanta una «rude razza pagana» rifiutò questi vecchi schemi e ruppe con la cultura delle commissioni interne imponendo i delegati “senza tessera”, esprimendo un altissimo grado di autonomia politica, Amendola intravide in questo protagonismo operaio, espressione per altro di una mutata sociologia di classe e di una nuova forma di capitalismo, un nemico insidioso da contrastare, da domare in tutte le forme e maniere.

L’ex segretario della Fiom e poi della Cgil Bruno Trentin, in una conversazione con Vittorio Foa e Andrea Ranieri (La libertà e il lavoro, volume curato da Michele Magno), spiegò il lungo dissenso che lo oppose ad Amendola. Quando vennero gli anni in cui si cominciava a discutere delle trasformazioni del capitalismo – racconta Trentin – Amendola «era su una linea pauperistica, di un Gramsci assolutamente mal letto». Per Amendola era la classe operaia che doveva fare la rivoluzione borghese, «perché c’è una società senza borghesia o con una borghesia stracciona che non è in grado di fare niente». «Una linea – continua Trentin – a cui sfuggivano le trasformazioni reali del nostro capitalismo».

Lui arrivò a ridicolizzare su Rinascita – prosegue sempre Trentin – «la mia proposta di organizzare i disoccupati nelle lotte per il lavoro, e quasi a criminalizzare certe posizioni del sindacato nei confronti dei quadri. Noi ponevamo il problema della loro conquista politica, e lui sosteneva che erano un ceto a sé. Beh, la mia convinzione è che lui era un liberale ma non un democratico. All’interno del partito, e nella sua concezione generale del rapporto tra democrazia e sviluppo economico. Il dissenso con lui si sviluppò su molti terreni. Lui era convinto che l’unità sindacale riguardasse solo la Uil e non la Cisl, che considerava un nemico. La possibilità di dialogo con i cattolici era un problema di rapporto con le gerarchie religiose, non con un sindacato. Rimase su questo coerente fino in fondo; non capiva quella realtà complessa che era la Cisl. In una riunione di partito a Frattocchie, si schierò insieme a Novella contro i consigli dei delegati irridendo a questa esperienza. Diceva che avremmo fatto un centinaio di consigli contro migliaia di commissioni interne: successe esattamente l’opposto. Ma l’attacco fu molto aspro perché fare eleggere dei delegati su scheda bianca, voleva dire, a suo parere, delegittimare il partito e la sua possibilità di presenza nei luoghi di lavoro».

Manifesto antioperaio

Dopo la sconfitta dell’esperienza del compromesso storico e la prima flessione elettorale del Pci del giugno 1979, invece di ragionare sulla posizione suicidaria tenuta dal gruppo dirigente durante il sequestro Moro, temendo un ritorno all’opposizione del partito, Amendola puntò il dito contro una linea – a suo dire – troppo morbida tenuta nelle fabbriche verso l’irruenza operaia, le «rivendicazioni di democrazia diretta», le pratiche di lotta non ortodosse, il contrasto troppo debole verso la violenza operaia, il proliferare di un rivendicazionismo corporativo e contraddittorio.

Rimproverava al Pci «di non avere criticato apertamente, fin dal primo momento» l’estremismo in fabbrica, «per una accettazione supina dell’autonomia sindacale e per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti, abdicando alla funzione che è propria del Pci di diventare forza egemone della classe operaia italiana e del popolo». Dopo il licenziamento dei sessantuno delegati di Fiat Mirafiori, accusati di violenza in fabbrica – esperimento pilota che aprì la strada l’anno successivo al licenziamento di massa di 23 mila operai – in un articolo apparso su Rinascita del 7 novembre 1979, considerato a giusto titolo il suo testamento politico e ritenuto, non a torto, dai suoi critici un manifesto del termidoro antioperaio, Amendola mise all’indice la cultura neomarxista sorta all’inizio degli anni sessanta.

Una requisitoria contro i Quaderni rossi, («che restringevano all’interno della fabbrica lo scontro di classe e consideravano come democraticismo ogni tentativo di allargamento del fronte con le riforme di struttura»), i Quaderni piacentini e Potere operaio, responsabili dei «tentativi di elaborazione teorica che formarono il terreno di coltura dell’estremismo, nell’incontro con l’estremismo di origine cattolica, allevato nel laboratorio della facoltà di sociologia dell’università di Trento», esperienze che avrebbero portato «alla cosiddetta “autonomia” ed infine al terrorismo».

Fenomeni che il Pci non avrebbe contrasto a sufficienza, nonostante il rastrellamento del 7 aprile precedente, le carceri speciali, l’uso degli infiltrati concordato con il generale Dalla Chiesa. Un’accusa ingiusta, alla luce di quanto poi i lavori storici hanno dimostrato, ma soprattutto la prova di una cultura politica timorosa della partecipazione dal basso. Una cosa è sicura, non sarà certo inseguendo l’insegnamento di Amendola che si potranno fondare le basi di una nuova sinistra.

Paolo Persichetti 21 Giugno 2023

Mio padre Antonello Trombadori, togliattiano ma non abbastanza… Duccio Trombadori su L'Unità il 17 Giugno 2023

Mio padre Antonello subì tutta la vita l’influenza politica e morale di Palmiro Togliatti e ne difese le ragioni vuoi nel 1956, dopo la tragica repressione in Ungheria, vuoi in polemica (1965) con la critica damnatio post-mortem di Rossana Rossanda, vuoi quando nel 1988, con il nuovo corso di Occhetto, il profilo del segretario del PCI venne ridimensionato come “oggettivamente corresponsabile” dello stalinismo.

Questa inclinazione “togliattiana” non fu tuttavia esente da aspre divergenze incorse durante “l’ indimenticabile 1956” quando Togliatti imputò a mio padre e Carlo Salinari (condirettori de “Il Contemporaneo”) la responsabilità di avere “giocato al circolo Petofi”, il cenacolo che a Budapest aveva dato il via alla rivolta contro il potere comunista. Mio padre Antonello era diventato un fervente sostenitore di Krusciov, e per anni si illuse nella speranza di una riforma democratica del sistema sovietico con la libera formazione di maggioranze e l’esistenza di diversi partiti.

Un accenno di questa posizione emerse nel Comitato Centrale del PCI (novembre 1961) sui risultati del XXII Congresso del PCUS sovietico, dove Krusciov aveva puntato il dito e liquidato il “gruppo antipartito” degli ultimi fedelissimi di Stalin, da Molotov, a Kaganovic, Malenkov e Voroscilov. Il drammatico dibattito del Comitato centrale vide Togliatti in posizione di minoranza, costretto a non rendere pubbliche le sue conclusioni. Pochi giorni dopo, una burrascosa riunione della Direzione del PCI recuperò una rabberciata unità attorno al vecchio segretario in bilico tra “rinnovatori” (Amendola, Ingrao, Natoli, Alicata) e “conservatori” (Scoccimarro, Roasio, Colombi).

Nella discussione, tuttavia, Togliatti non mancò di denunciare chi, nel passato Comitato centrale, sarebbe uscito con posizioni “antisovietiche”. Ad una richiesta di Mario Alicata (“Vorrei fare una domanda. Tu hai parlato dii accenti antisovietici in alcuni interventi…”) Togliatti rispose: “Negli interventi di Vidali e Trombadori ciò è affiorato”. Letta col senno di poi, quella accusa di Togliatti era davvero insostenibile, come dimostrano i resoconti – resi pubblici nel 2007- dei due “incriminati”, se non per la ingenuità politica di mio padre Antonello, che si era spinto fino a denunciare la “superfetazione burocratica” del sistema sovietico in mancanza di una libera dialettica di posizioni politiche e culturali.

Leggere oggi i giudizi liquidatori e sommari di Togliatti, la dice lunga sul suo pensiero di fondo e sulle illusorie aspirazioni di chi, come mio padre Antonello, puntava ad una riforma “dall’interno” del sistema comunista. E’ stato un limite comprensibile, ma pur sempre un limite, del suo ostinato “togliattismo”. Ignaro, oltretutto, dell’ opinione che Togliatti si era fatto su chi la pensava come lui. Duccio Trombadori 17 Giugno 2023

Le figure a confronto. Berlinguer e Matteotti erano più simili di quanto si possa pensare. Si mossero ovviamente in contesti e tempi diversi, ma furono entrambi due riformisti atipici, rispetto al retroterra che li legava a Pci e Psi. E furono accomunati anche dal no al massimalismo. Roberto Morassut su L'Unità il 9 Giugno 2023

 Il 13 giugno, a Roma, la Fondazione Matteotti metterà a confronto, in un convegno originale, le figure di Giacomo Matteotti e di Enrico Berlinguer. I puristi già alzano il sopracciglio. Ma perché questa iniziativa? Giacomo Matteotti ed Enrico Berlinguer sono stati due grandi leader della sinistra e del socialismo italiano del Novecento, di cui stiamo celebrando i centenari, rispettivamente della morte e della nascita. Due leader ancora molto amati nonostante il tempo trascorso.

Due leader molto diversi e lontani sia temporalmente che politicamente; divisi dalla frattura storica tra socialisti e comunisti e da quella della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, seppur lontani e diversi Matteotti e Berlinguer furono due riformisti atipici nei loro rispettivi partiti. Per Berlinguer si può parlare, più opportunamente, di revisionismo anche se questo termine ha sempre avuto nel vocabolario comunista il senso di un disvalore, oggi fugato. Il riformismo in Matteotti si espresse nel costante tentativo di tenere unite le grandi idealità del socialismo come la giustizia sociale e la pace ed il gradualismo, la concretezza, il pragmatismo, lo studio concreto dei fatti e dei problemi attraverso i quali conseguire conquiste parziali ma fattuali.

Il rifiuto del massimalismo non si scoloriva mai nella svalutazione della frontiera ideale, che restava invece viva e pulsante. Per Matteotti il riformismo non fu mai opportunismo ma scelta ideale e vera strategia di lotta per il raggiungimento finale del socialismo inteso come sintesi di libertà e uguaglianza. Questa considerazione (o costatazione) può apparire banale ma non lo è se si considera invece la modesta fortuna che il riformismo socialista ebbe dagli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale fino, di fatto, alla fine del secolo XX. Il riformismo socialista italiano si è infatti spesso confuso con l’opportunismo e l’idea che si potessero determinare cambiamenti decisivi degli equilibri sociali gestendo pressoché esclusivamente posizioni di governo o di potere.

Veniamo a Berlinguer. Il revisionismo di Berlinguer fu la continuazione e lo sviluppo di un revisionismo iniziato con Togliatti ed ancor prima con Gramsci sui nodi cruciali della democrazia, delle vie per il raggiungimento del socialismo, del rapporto con l’Unione Sovietica.

Questo non salvò però il Pci da un messianesimo di fondo che lo tenne distante dal nodo del governo, almeno fino alle grandi vittorie nelle città della metà degli anni 70. Berlinguer, divenuto segretario nei primi anni 70, nel pieno di una grave crisi della democrazia italiana che rischiava, tra il terrorismo e le pulsioni golpiste di essere travolta, si trovò in condizioni analoghe a quelle di Turati e Matteotti alla vigilia dell’avvento del fascismo.

E anche se gli esiti delle due situazioni furono diverse entrambi dovettero fare i conti con la potente spinta al cambiamento delle masse, i rischi di divisioni interne e di sviluppo di frange estremiste e con la cecità reazionaria della borghesia italiana – nel primo caso – o della forza soverchiante degli equilibri internazionali nel secondo caso. Tanto i socialisti riformisti, quanto i comunisti italiani dovettero operare per tenere insieme la prospettiva generale del cambiamento e del socialismo con scelte politiche immediate e concrete sotto la pressione di forti spinte massimaliste, ideologiche o eversive capaci di confondersi e saldarsi con il fascismo stesso.

Naturalmente lo fecero in contesti completamente diversi ma in un Paese come l’Italia che sempre ha dimostrato la sua resistenza al cambiamento, la forza del suo retroterra conservatore e reazionario disposto a tutto pur di fermare l’ascesa dei lavoratori. C’è tuttavia un ultimo punto comune che va messo in luce e riguarda il loro profilo morale, assolutamente eccezionale e raro nel panorama politico italiano di sempre. Matteotti individuò subito il fascismo come un avversario irriducibile della democrazia e col quale era impossibile giungere ad alcun compromesso. Egli individuò il rapporto tra il fascismo, come nuova forma politica generata dalla disgregazione della democrazia liberale, l’affarismo della nuova classe politica salita al potere (il caso Sinclair Oil) e l’attacco alle posizioni della classe operaia attraverso l’attacco alla democrazia. La “questione morale” fu per lui una questione politica e sociale al tempo stesso.

Berlinguer fu segretario nel momento più critico della democrazia italiana tra gli anni 70 e 80. Si rese conto di come la condizione di democrazia bloccata stesse logorando le istituzioni repubblicane e i partiti e favorendo l’irruzione della violenza e del terrorismo nella politica; uno scenario simile a quello degli anni Venti con l’aggravante di un degrado morale degli stessi partiti. La paura della borghesia italiana e della Corona, negli anni di Matteotti – da un lato – e il timore di un ingresso dei comunisti al governo da parte del blocco militare occidentale – dall’altro – condussero, per un verso, alla fine della democrazia liberale e – per altro verso – alla crisi della democrazia repubblicana fondata sui partiti di massa, trasformati in macchine di potere.

Ed è qui, in questo nesso tra reazione e illegalità o addirittura crimine, molto simile a quello colto e denunciato da Matteotti, che Berlinguer individuò il valore politico e sociale della “questione morale” nella sua famosa intervista della fine di luglio del 1981. Due leader animati da un senso etico della loro missione e da un profilo ideale limpido accompagnato però da un senso pragmatico che oggi, in un’era di politica debole, li rende ancora moderni, popolari e amati.

Di Roberto Morassut Deputato Pd e Vice presidente della “Fondazione Giacomo Matteotti” 9 Giugno 2023

Il destino del riformismo italiano. Matteotti, un uomo solo: un riformista inviso a destra e a sinistra. Riccardo Nencini Il Riformista il 9 Giugno 2023 

All’eroe, al martire, preferisco l’uomo. L’uomo di faccia a una scelta, l’uomo di fronte al destino di uomo. L’uomo che corre dove cova l’incendio per non abbandonare alla sorte i diseredati della sua terra, la provincia più povera d’Italia, la provincia dove il bracciante viene chiamato ‘instrumento vile’, meglio la vacca. L’uomo che, quasi alla cieca, combatte per la sua verità, in solitudine perché nessuno ha annusato il pericolo che dilania il Polesine e, da lì, si sposta in ogni regione d’Italia per mettere in guardia dallo squadrismo agrario che ha ormai i connotati di squadra fascista.

Nel gennaio del 1921, dopo la prima interrogazione su omicidi e bastonature presentata a Montecitorio, viene rapito, seviziato e bandito da una squadraccia. In pochissimi comprendono la gravità della sua denuncia. L’uomo che crede profondamente in un’idea, a tal punto da mettere a rischio la vita. L’uomo che ama un’unica donna fin dal primo incontro all’Abetone, in Toscana, e affida alle lettere sentimenti e passioni perché da anni è un bastardo, un esule inseguito, braccato. L’uomo che abbraccia la vita proprio andando incontro alla morte perché se no non è vita, è rinuncia. L’uomo che lotta contro il ‘mussolinismo’ prima ancora che contro il fascismo, che capisce che Il Duce sta inaugurando una nuova e diversa stagione politica figlia dello spirito germinato nelle trincee e della crisi che ha colpito la piccola e media borghesia privandola di risparmi e soprattutto del ruolo sociale che aveva prima della Grande Guerra.

L’antibolscevico che non crede nell’illusione della rivoluzione e che invece lavora perché vi siano più scuole, più case, più ospedali per alleviare dolore e povertà del proletariato. L’uomo che crede nella democrazia del Parlamento e nella libertà in un’epoca in cui la democrazia è un cane morto, bastonata da fascisti e da comunisti alla stessa maniera. L’uomo è un eretico, un riformista inviso a destra e a sinistra, il destino del riformismo italiano. Una cultura di minoranza che nel pantheon della sinistra comunista non ha mai trovato diritto di cittadinanza.

Quando il cadavere di Giacomo viene scoperto, l’attacco più duro verrà proprio da Antonio Gramsci. Scriverà: “È morto il pellegrino del nulla” che nella vita politica ha sbagliato tutto. Un nemico del proletariato, un socialtraditore, anzi: un socialfascista, l’epiteto usato contro Turati, contro Treves, contro Matteotti, contro i dirigenti riformisti della Cgl, a partire da Buozzi, dai vertici comunisti italiani. Giorni dopo, il comitato centrale del Pcd’I approva all’unanimità un documento che si conclude con una frase di fuoco: i nemici del proletariato sono Mussolini, Sturzo, Turati e Amendola. Tutti incredibilmente allo stesso livello. Perché? Perché i comunisti ritenevano, confidando nella linearità della storia e nella veridicità del marxismo, che il capitalismo fosse in crisi e dietro l’angolo vi fosse la rivoluzione imminente il cui sbocco finale era lo stato comunista. Dunque, chi immaginava accordi parlamentari allo scopo di defenestrare Il Duce altro non era che un traditore della classe operaia. I fatti smentiranno quell’analisi e obbligheranno Gramsci, dal carcere, a fare autocritica.

Oggi sappiamo che Matteotti venne assassinato per la sua irriducibile opposizione politica al Duce e al fascismo e perché aveva scoperto il falso nel bilancio dello Stato – non c’era pareggio tra entrate e uscite ma una voragine di circa due miliardi di lire – e in ultimo per avere raccolto le prove di una tangente di 30 milioni pagata dalla Sinclair Oil ad alti membri delle istituzioni oltre che ad Arnaldo, il fratello del capo. Ne avrebbe parlato alla Camera l’11 giugno 1924. Venne rapito e ucciso il giorno prima.

Un uomo solo, non un eroe lontano dal tempo. Un eretico, una voce fuori dal coro. Sarà per questo che non fu tanto amato, sarà per questo che lo ricordiamo.

Riccardo Nencini

L'assassinio del socialista. L’ultimo discorso di Giacomo Matteotti, il leader socialista ucciso da fascisti. Milizie armate ai seggi per impedire il voto, schede taroccate, minacce e violenze. Il 30 maggio ‘24 il leader del Psi denuncia in Aula il voto farsa. Ecco il discorso che lo portò alla morte per ordine del Duce. Redazione su L'Unità l'11 Giugno 2023

Il 30 maggio del 1924 Giacomo Matteotti, leader socialista, prese la parola nell’aula di Montecitorio e pronunciò un durissimo discorso di condanna del fascismo. Questo discorso gli costò la vita. Dieci giorni più tardi fu rapito accoltellato e ucciso da una squadraccia mandata da Mussolini. Pubblichiamo ampi stralci di quel formidabile discorso. Il presidente della Camera era il giurista Alfredo Rocco, che l’anno successivo diventò ministro della Giustizia.

Presidente.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà.

Giacomo Matteotti.

Noi abbiamo avuto da parte della Giunta delle elezioni la proposta di convalida di numerosi colleghi. Nessuno certamente, degli appartenenti a questa Assemblea, all’infuori credo dei componenti la Giunta delle elezioni, saprebbe ridire l’elenco dei nomi letti per la convalida, nessuno, né della Camera né delle tribune della stampa. (Vive interruzioni alla destra e al centro)Ora, contro la loro convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè, che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti… (Interruzioni).

Voci al centro: “Ed anche più!”

cotesta lista non li ha ottenuti, di fatto e liberamente, ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessario (Interruzioni. Proteste) per conquistare, anche secondo la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono stati attribuiti! Potrebbe darsi che i nomi letti dal Presidente: siano di quei capilista che resterebbero eletti anche se, invece del premio di maggioranza, si applicasse la proporzionale pura in ogni circoscrizione. Ma poiché nessuno ha udito i nomi, e non è stata premessa nessuna affermazione generica di tale specie, probabilmente tali tutti non sono, e quindi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione della maggioranza (Rumori vivissimi). Vorrei pregare almeno i colleghi, sulla elezione dei quali oggi si giudica, di astenersi per lo meno dai rumori, se non dal voto. (Vivi commenti – Proteste – Interruzioni alla destra e al centro) L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo, ripetuta da tutti gli organi della stampa ufficiale, ripetuta dagli oratori fascisti in tutti i comizi, che le elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso – come ha dichiarato replicatamente – avrebbe mantenuto il potere con la forza, Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso.

Una voce a destra:

“E i due milioni di voti che hanno preso le minoranze?”

Roberto Farinacci.

Potevate fare la rivoluzione!

Maurizio Maraviglia.

Sarebbero stati due milioni di eroi!

Giacomo Matteotti.

A rinforzare tale proposito del Governo, esiste una milizia armata… (Applausi vivissimi e prolungati a destra e grida di “Viva la milizia”)

Voci a destra: “Vi scotta la milizia!”

Giacomo Matteotti.

… esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra, rumori prolungati)

Voci: “Basta! Basta!”

Presidente. Onorevole Matteotti, si attenga all’argomento.

Giacomo Matteotti.

Onorevole Presidente, forse ella non m’intende; ma io parlo di elezioni. Esiste una milizia armata… (Interruzioni a destra) la quale ha questo fondamentale e dichiarato scopo: di sostenere un determinato Capo del Governo bene indicato e nominato nel Capo del fascismo e non, a differenza dell’Esercito, il Capo dello Stato. Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. In aggiunta e in particolare… (Interruzioni) mentre per la legge elettorale la milizia avrebbe dovuto astenersi, essendo in funzione o quando era in funzione, e mentre di fatto in tutta l’Italia specialmente rurale abbiamo constatato in quei giorni la presenza di militi nazionali in gran numero… (Interruzioni, rumori)

Roberto Farinacci.

Erano i balilla!

Giacomo Matteotti.

È vero, on. Farinacci, in molti luoghi hanno votato anche i balilla! (Approvazioni all’estrema sinistra, rumori a destra e al centro)

Voce al centro: “Hanno votato i disertori per voi!”

Enrico Gonzales.

Spirito denaturato e rettificato!

Giacomo Matteotti.

Dicevo dunque che, mentre abbiamo visto numerosi di questi militi in ogni città e più ancora nelle campagne (Interruzioni), gli elenchi degli obbligati alla astensione, depositati presso i Comuni, erano ridicolmente ridotti a tre o quattro persone per ogni città, per dare l’illusione dell’osservanza di una legge apertamente violata, conforme lo stesso pensiero espresso dal Presidente del Consiglio che affidava ai militi fascisti la custodia delle cabine. (Rumori) A parte questo argomento del proposito del Governo di reggersi anche con la forza contro il consenso e del fatto di una milizia a disposizione di un partito che impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale e che invalida in blocco l’ultima elezione in Italia, c’è poi una serie di fatti che successivamente ha viziate e annullate tutte le singole manifestazioni elettorali. (Interruzioni)

Paolo Greco.

Voi non rispettate la maggioranza e non avete diritto di essere rispettati.

Giacomo Matteotti.

La presentazione delle liste – dicevo – deve avvenire in ogni circoscrizione mediante un documento notarile a cui vanno apposte dalle trecento alle cinquecento firme. Ebbene, onorevoli colleghi, in sei circoscrizioni su quindici le operazioni notarili che si compiono privatamente nello studio di un notaio, fuori della vista pubblica e di quelle che voi chiamate “provocazioni”, sono state impedite con violenza. (Rumori vivissimi)

Voci dalla destra: “Non è vero, non è vero.”

Giacomo Matteotti.

Volete i singoli fatti? Eccoli: ad Iglesias il collega Corsi stava raccogliendo le trecento firme e la sua casa è stata circondata… (Rumori)

Maurizio Maraviglia.

Non è vero. Lo inventa lei in questo momento.

Roberto Farinacci.

Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!

Giacomo Matteotti.

Fareste il vostro mestiere! A Melfi… A Genova (Rumori vivissimi) i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati

Voci: “Perché erano falsi.”

Giacomo Matteotti.

Se erano falsi, dovevate denunciarli ai magistrati!

Roberto Farinacci.

Perché non ha fatto i reclami alla Giunta delle elezioni?

Giacomo Matteotti.

Ci sono. Io espongo fatti che non dovrebbero provocare rumori. I fatti o sono veri o li dimostrate falsi. Non c’è offesa, non c’è ingiuria per nessuno in ciò che dico: c’è una descrizione di fatti.

Attilio Teruzzi.

Che non esistono!

Giacomo Matteotti.

Da parte degli onorevoli componenti della Giunta delle elezioni si protesta che alcuni di questi fatti non sono dedotti o documentati presso la Giunta delle elezioni. Ma voi sapete benissimo come una situazione e un regime di violenza non solo determinino i fatti stessi, ma impediscano spesse volte la denuncia e il reclamo formale. Voi sapete che persone, le quali hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto, sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso. Già nelle elezioni del 1921, quando ottenni da questa Camera l’annullamento per violenze di una prima elezione fascista, molti di coloro che attestarono i fatti davanti alla Giunta delle elezioni, furono chiamati alla sede fascista, furono loro mostrate le copie degli atti esistenti presso la Giunta delle elezioni illecitamente comunicate, facendo ad essi un vero e proprio processo privato perché avevano attestato il vero o firmato i documenti! In seguito al processo fascista essi furono boicottati dal lavoro o percossi. (Rumori, interruzioni)

Voci: a destra: “Lo provi.”

Giacomo Matteotti.

La stessa Giunta delle elezioni ricevette allora le prove del fatto. Ed è per questo, onorevoli colleghi, che noi spesso siamo costretti a portare in questa Camera l’eco di quelle proteste che altrimenti nel Paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione. (Applausi all’estrema sinistra) In sei circoscrizioni, abbiamo detto, le formalità notarili furono impedite colla violenza, e per arrivare in tempo si dovette supplire malamente e come si poté con nuove firme in altre provincie. A Reggio Calabria, per esempio, abbiamo dovuto provvedere con nuove firme per supplire quelle che in Basilicata erano state impedite.

Una voce al banco della giunta: “Dove furono impedite?”

Giacomo Matteotti.

A Melfi, a Iglesias, in Puglia… devo ripetere? Presupposto essenziale di ogni elezione è che i candidati, cioè coloro che domandano al suffragio elettorale il voto, possano esporre, in contraddittorio con il programma del Governo, in pubblici comizi o anche in privati locali, le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi quasi da per tutto, questo non fu possibile. Su ottomila comuni italiani, e su mille candidati delle minoranze, la possibilità è stata ridotta a un piccolissimo numero di casi, soltanto là dove il partito dominante ha consentito per alcune ragioni particolari o di luogo o di persona. (Interruzioni, rumori) Volete i fatti? La Camera ricorderà l’incidente occorso al collega Gonzales. L’inizio della campagna elettorale del 1924 avvenne dunque a Genova, con una conferenza privata e per inviti da parte dell’onorevole Gonzales. Orbene, prima ancora che si iniziasse la conferenza, i fascisti invasero la sala e a furia di bastonate impedirono all’oratore di aprire nemmeno la bocca. (Rumori, interruzioni, apostrofi)

Enrico Gonzales.

I fatti non sono improvvisati!

Giacomo Matteotti.

Dicevo dunque che ai candidati non fu lasciata nessuna libertà di esporre liberamente il loro pensiero in contraddittorio con quello del Governo fascista e accennavo al fatto dell’onorevole Gonzales, accennavo al fatto dell’onorevole Bentini a Napoli, alla conferenza che doveva tenere il capo dell’opposizione costituzionale, l’onorevole Amendola, e che fu impedita… Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell’avversario, che è al Governo e dispone di tutte le forze armate! (Rumori) Che non fosse paura, poi, lo dimostra il fatto che, per un contraddittorio, noi chiedemmo che ad esso solo gli avversari fossero presenti, e nessuno dei nostri; perché, altrimenti, voi sapete come è vostro costume dire che “qualcuno di noi ha provocato” e come “in seguito a provocazioni” i fascisti “dovettero” legittimamente ritorcere l’offesa, picchiando su tutta la linea! (Interruzioni)

Un’altra delle garanzie più importanti per lo svolgimento di una libera elezione era quella della presenza e del controllo dei rappresentanti di ciascuna lista, in ciascun seggio. Voi sapete che, nella massima parte dei casi, sia per disposizione di legge, sia per interferenze di autorità, i seggi – anche in seguito a tutti gli scioglimenti di Consigli comunali imposti dal Governo e dal partito dominante – risultarono composti quasi totalmente di aderenti al partito dominante. Quindi l’unica garanzia possibile, l’ultima garanzia esistente per le minoranze, era quella della presenza del rappresentante di lista al seggio. Orbene, essa venne a mancare. Infatti, nel 90 per cento, e credo in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati. Per constatare il fatto, non occorre nuovo reclamo e documento. Basta che la Giunta delle elezioni esamini i verbali di tutte le circoscrizioni, e controlli i registri. Quasi dappertutto le operazioni si sono svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista. Veniva così a mancare l’unico controllo, l’unica garanzia, sopra la quale si può dire se le elezioni si sono svolte nelle dovute forme e colla dovuta legalità. Noi possiamo riconoscere che, in alcuni luoghi, in alcune poche città e in qualche provincia, il giorno delle elezioni vi è stata una certa libertà. Ma questa concessione limitata della libertà nello spazio e nel tempo – e l’onorevole Farinacci, che è molto aperto, me lo potrebbe ammettere – fu data ad uno scopo evidente: dimostrare, nei centri più controllati dall’opinione pubblica e in quei luoghi nei quali una più densa popolazione avrebbe reagito alla violenza con una evidente astensione controllabile da parte di tutti, che una certa libertà c’è stata. Ma, strana coincidenza, proprio in quei luoghi dove fu concessa a scopo dimostrativo quella libertà, le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi, da superare la maggioranza – con questa conseguenza però, che la violenza, che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni. E noi ricordiamo quello che è avvenuto specialmente nel Milanese e nel Genovesato ed in parecchi altri luoghi, dove le elezioni diedero risultati soddisfacenti in confronto alla lista fascista. Si ebbero distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone. Distruzioni che hanno portato milioni di danni…

Una voce, a destra: “Ricordatevi delle devastazioni dei comunisti!”

Giacomo Matteotti.

Onorevoli colleghi, ad un comunista potrebbe essere lecito, secondo voi, di distruggere la ricchezza nazionale, ma non ai nazionalisti, né ai fascisti come vi vantate voi! Si sono avuti, dicevo, danni per parecchi milioni, tanto che persino un alto personaggio, che ha residenza in Roma, ha dovuto accorgersene, mandando la sua adeguata protesta e il soccorso economico. In che modo si votava? La votazione avvenne in tre maniere: l’Italia è una, ma ha ancora diversi costumi. Nella valle del Po, in Toscana e in altre regioni che furono citate all’ordine del giorno dal Presidente del Consiglio per l’atto di fedeltà che diedero al Governo fascista, e nelle quali i contadini erano stati prima organizzati dal partito socialista, o dal partito popolare, gli elettori votavano sotto controllo del partito fascista con la “regola del tre”. Ciò fu dichiarato e apertamente insegnato persino da un prefetto, dal prefetto di Bologna: i fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi (Interruzioni), variamente alternati in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto. In moltissime provincie, a cominciare dalla mia, dalla provincia di Rovigo, questo metodo risultò eccellente.

Voci: “No! No!”

Giacomo Matteotti.

Nella massima parte dei casi però non vi fu bisogno delle sanzioni, perché i poveri contadini sapevano inutile ogni resistenza e dovevano subire la legge del più forte, la legge del padrone, votando, per tranquillità della famiglia, la terna assegnata a ciascuno dal dirigente locale del Sindacato fascista o dal fascio. (Vivi rumori interruzioni)

Presidente.

Facciano silenzio! Onorevole Matteotti, concluda!

Giacomo Matteotti.

Coloro che ebbero la ventura di votare e di raggiungere le cabine, ebbero, dentro le cabine, in moltissimi Comuni, specialmente della campagna, la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano, così come altri voti di lista furono cancellati, o addirittura letti al contrario. Non voglio dilungarmi a descrivere i molti altri sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare. Il fatto è che solo una piccola minoranza di cittadini ha potuto esprimere liberamente il suo voto: il più delle volte, quasi esclusivamente coloro che non potevano essere sospettati di essere socialisti. I nostri furono impediti dalla violenza; mentre riuscirono più facilmente a votare per noi persone nuove e indipendenti, le quali, non essendo credute socialiste, si sono sottratte al controllo e hanno esercitato il loro diritto liberamente. A queste nuove forze che manifestano la reazione della nuova Italia contro l’oppressione del nuovo regime, noi mandiamo il nostro ringraziamento. (Applausi all’estrema sinistra. Rumori dalle altre parti della Camera) Per tutte queste ragioni, e per le altre che di fronte alle vostre rumorose sollecitazioni rinunzio a svolgere, ma che voi ben conoscete perché ciascuno di voi ne è stato testimonio per lo meno… (Rumori) per queste ragioni noi domandiamo l’annullamento in blocco della elezione di maggioranza.

Voci a destra: “Accettiamo” (Vivi applausi a destra e al centro)

Giacomo Matteotti.

[…] Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. (Interruzioni a destra) Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni. (Applausi all’estrema sinistra – Vivi rumori) Redazione - 11 Giugno 2023

99 anni il delitto. Cosa c’era davvero dietro il discorso di Matteotti che gli costò la vita. Dieci giorni prima di essere rapito e ucciso, il deputato e segretario del Partito socialista unitario aveva pronunciato alla Camera un discorso durissimo per denunciare irregolarità e violenze che avevano condizionato le elezioni del 6 aprile. David Romoli su L'Unità il 10 Giugno 2023 

Lo chiamavano “Tempesta” per il carattere focoso e indomabile. Quando fu rapito e ucciso, il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti aveva 39 anni ed era segretario del Partito socialista unificato, l’ala più moderata del Psi, quella che faceva capo a Filippo Turati, espulsa dal Partito socialista nell’ottobre del 1922. Dieci giorni prima aveva pronunciato alla Camera un discorso fiammeggiante, nel quale denunciava le irregolarità e le violenze che avevano condizionato le elezioni del 6 aprile 1924, le ultime prima che fosse instaurata la dittatura.

Era stato un atto d’accusa clamoroso che aveva suscitato massima ira tra i fascisti: nei resoconti parlamentari si contano più o meno 60 interruzioni, sempre più minacciose. Matteotti aveva lasciato la sua abitazione vicino a Lungotevere Arnaldo da Brescia nel pomeriggio, forse diretto verso la Camera, forse verso il fiume allora balneabile. Fu preso e caricato su una Lancia Lambda presa a nolo alle 16.30, sul lungotevere. Si difese, scalciò, ruppe con un calcio il vetro che divideva i sedili posteriori da quelli anteriori, riuscì a lanciare dal finestrino il tesserino di parlamentare. Fu accoltellato a morte nella colluttazione.

Uccidere il leader socialista non era nei progetti dei rapitori: non avevano usato alcuna prudenza, si erano fatti notare sulla stessa auto mentre preparavano il sequestro nei giorni precedenti, dopo il rapimento proseguirono col clacson premuto a tavoletta. Non avevano neppure gli strumenti necessari per seppellire il cadavere: dovettero scavare la fossa con il crick. I fascisti coinvolti nell’azione facevano parte di quella che si definiva “Ceka”, come la polizia segreta bolscevica in Russia. Nome pomposo e inadeguato: in realtà si trattava di gruppi di picchiatori e squadristi, quasi tutti ex arditi, senza una vera struttura, violenti ma dilettanteschi e indisciplinati. Quando il parlamentare rapito si difese misero mano al pugnale come erano abituati a fare sin dalla guerra.

Quanti fossero i “cekisti” coinvolti nell’azione non è mai stato accertato. Di sicuro c’erano Amerigo Dùmini, capo della squadra, 30 anni. E con lui Albino Volpi, squadrista particolarmente feroce, probabilmente l’accoltellatore, poi Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria alla guida. Quando si ritrovarono con il cadavere in macchina senza averlo preventivato si limitarono a girare per qualche ora aspettando il buio per poi seppellirlo in una radura vicino Sacrofano, in una fossa scavata con mezzi di fortuna destinata a essere scoperta solo mesi dopo, il 16 agosto.

Gli assassini tornarono a Roma intorno alle 22.30 e Dùmini si recò al Viminale con la stessa macchina nella quale era stato appena ucciso Matteotti. I referenti dei sedicenti “cekisti” erano pezzi grossissimi: Cesare Rossi, capo ufficio stampa di palazzo Chigi e uomo di fiducia di Mussolini, Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf, ma anche, meno direttamente coinvolti, Aldo Finzi, sottosegretario e ministro vicario degli Interni, di cui era titolare lo stesso Mussolini, destinato a essere fucilato vent’anni dopo alle Fosse Ardeatine, e il capo della polizia, l’ex quadrumviro Emilio De Bono. A procurare la macchina era stato Filippo Filippelli, direttore di un giornale di recente fondazione e affarista senza scrupoli.

Dùmini e Filippelli, nel cuore della notte del 10 giugno, nascosero la macchina in un garage, progettando di ripulirla e cancellare le tracce nei giorni seguenti. Non ne ebbero il tempo. La Lancia era stata notata mentre sorvegliava la casa di Matteotti nei giorni precedenti l’assassinio, il portiere di uno stabile aveva preso il numero della targa sospettando la preparazione di un furto. Il capo della Ceka fu arrestato il 12 giugno, due giorni dopo l’attentato, in partenza per Milano con nella valigia i pantaloni della vittima tagliati a pezzi e le parti della tappezzeria della Lancia macchiate di sangue. Nei giorni seguenti furono arrestati anche gli altri componenti della squadraccia.

Perché fu decisa l’azione punitiva nei confronti di Matteotti, sfociata poi nell’omicidio? Il deputato socialista aveva chiesto l’invalidazione delle elezioni ma certamente non ci sperava neppure lui. Il 6 aprile si era votato, per la prima e ultima volta, con la legge Acerbo, approvata dal Parlamento l’anno precedente: garantiva un premio di maggioranza sproporzionato, due terzi dei seggi, a chi avesse superato il 25% dei consensi. Il listone nazionale di cui il Pnf era asse portante ottenne il 60,9% e altri seggi furono conquistati grazie a una lista civetta. Nel complesso, anche senza il premio, il listone sarebbe arrivato intorno ai due terzi dei seggi.

Le elezioni si erano effettivamente svolte in un clima minaccioso e violento che aveva sicuramente condizionato il voto, ma non c’è dubbio sul fatto che i fascisti avrebbero comunque vinto nettamente. Il rischio di una invalidazione delle elezioni era inesistente. Matteotti si accingeva a pronunciare un secondo discorso, denunciando la corruzione di alcuni elementi del governo: una storia di tangenti pagati dalla società americana Sinclair per assicurarsi le ricerche petrolifere in Italia. Alcuni storici ritengono che il vero motivo dell’omicidio sia questo ma è un’ipotesi poco convincente, sia per le dimensioni relativamente limitate dell’affare sia perché era un segreto noto già a molti.

Senza contare che, se l’obiettivo fosse stato eliminare l’uomo politico per impedirgli di denunciare il giro di tangenti, l’azione sarebbe stata meno sgangherata e improvvisata. Matteotti decise l’attacco frontale, consapevole dei rischi che ciò comportava, con l’intento di frenare quella che per lui era la deriva più pericolosa, la seduzione delle aree moderate, politiche e sociali, da parte del fascismo. Mirava probabilmente a contrastare proprio l’obiettivo che perseguiva Mussolini in quella fase. L’antifascismo del leader socialista era in un certo senso diverso dall’antifascismo maturato negli anni della dittatura, poi delle leggi razziali e della guerra.

Tutto questo, nel 1924, era di là da venire. Lo Stato liberale esisteva ancora, la sua occupazione da parte del fascismo era appena agli inizi. L’antifascismo di Giacomo Matteotti era quello di chi, prima della dittatura, aveva individuato l’uovo del serpente e prevedeva i tragici sviluppi a venire con una lucidità di cui difettavano anche grandissimi intellettuali come Benedetto Croce. Per impedire la conquista dei moderati da parte del fascismo Matteotti si era esposto così tanto. Per lo stesso motivo, rovesciato, il delitto costituì per Mussolini un problema enorme. La reazione popolare fu imprevista e altissima.

Nonostante nel Paese i morti si fossero contati a decine e centinaia negli anni dello squadrismo all’attacco, l’uccisione di un parlamentare dell’opposizione fu uno shock per gli italiani. La popolarità del fascismo precipitò, la campagna di stampa fu martellante e l’eco del delitto all’estero enorme. Per un momento sembrò che il fascismo fosse destinato a crollare. Era davvero così? Fu davvero un’ultima occasione, sprecata, per evitare la dittatura? Probabilmente no. L’indignazione popolare era reale e diffusa ma priva di sbocco politico.

Il 13 giugno Mussolini parlò alla Camera, negò ogni responsabilità, promise di fare giustizia. Subito dopo il presidente Rocco sospese i lavori sino a novembre. I partiti d’opposizione, nella stessa giornata, annunciarono la decisione di abbandonare l’aula. La scelta, definita poi “Aventino”, sarebbe stata confermata due settimane dopo quando i partiti d’opposizione annunciarono la decisione di non partecipare più ai lavori della Camera sino a che non fosse stata ripristinata la legalità e sciolta la Milizia fascista. Nella stessa giornata ci fu anche il solo sciopero generale dell’intera crisi: per soli 10 minuti.

La strategia dell’opposizione fu certamente inadeguata, debole e insufficiente, ma in ogni caso difficilmente la crisi avrebbe potuto concludersi con l’abbattimento del regime in formazione. Un tentativo di insurrezione sarebbe stato senza dubbio stroncato nel sangue e avrebbe legato ancor di più i moderati al fascismo. Per rovesciare il fascismo in Parlamento sarebbe stato necessario che tutti i non fascisti eletti nel listone e anche alcuni esponenti del fascismo più moderato si schierassero contro Mussolini, cosa che si verificò solo in minima parte. La caduta di Mussolini poteva essere provocata solo da un intervento imperioso e diretto del re. Gli aventiniani ci speravano, ma era una speranza del tutto vana e infondata.

Mussolini, del resto, reagì con l’abilità politica che gli aveva già fruttato l’ingresso a palazzo Chigi nel 1922. Mise subito alla porta Marinelli e Rossi. Quest’ultimo e Filippelli furono poi arrestati. Il capo del fascismo impose le dimissioni di Finzi agli Interni e abbandonò lui stesso il ministero lasciando il posto a Federzoni, nazionalista approdato al fascismo solo di recente, e operò un rimpasto di governo facendo entrare quattro esponenti della destra liberale o conservatrici ma non fascista. Mussolini contava soprattutto sul tempo, convinto che la tensione si sarebbe abbassata col passare dei mesi e vinse la scommessa.

Nel corso dell’estate non successe nulla e già questo fu un successo per il governo. Priva di prospettive politiche l’indignazione popolare, si attenuò, si riaccese per un attimo dopo il ritrovamento del cadavere del leader assassinato a metà agosto, poi si spense. Quando la Camera riaprì, il 12 novembre, Giolitti passò all’opposizione e si formò così un’opposizione non aventiniana alla quale si aggiunsero poi i comunisti, che abbandonarono l’Aventino per rientrare in aula. Gli altri partiti scelsero però di proseguire nella strategia aventiniana e anche la remota possibilità di dar corpo a una opposizione in aula che avrebbe potuto attrarre una parte dei deputati fascisti più moderati si perse così. Il vento era cambiato, Mussolini era uscito indenne dal momento più critico, neppure la pubblicazione dei memoriali dal carcere di Rossi e Filippelli, che lo chiamavano direttamente in causa, lo mise davvero in difficoltà.

A premere, ora, erano i duri del fascismo. Il 31 dicembre, 33 comandanti della Milizia si recarono a palazzo Chigi chiedendo di passare alla controffensiva cosa che peraltro Mussolini aveva già deciso di fare. Il 3 gennaio, in aula, Mussolini passò all’attacco: “Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto… Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere io sono il capo di questa associazione”. Quello storico discorso, nel quale il duce rivendicava tutto l’operato del fascismo, chiuse la crisi seguita al delitto Matteotti e spalancò le porte alla dittatura, che sarebbe stata formalizzata tra il 1925 e il 1926 con le leggi fascistissime.

I responsabili del delitto furono processati a Chieti, nel marzo 1926, per omicidio preterintenzionale. I mandanti furono tutti assolti e così Malacria e Viola. Dùmini, Volpi e Provenzano furono condannati a 5 anni e 11 mesi ma a tutti e tre furono subito condonati 4 anni per amnistia. Dùmini fu processato di nuovo nel 1947 e condannato all’ergastolo, commutato in una pena di trent’anni per l’amnistia Togliatti. Fu scarcerato nel 1953 per l’amnistia Pella e graziato nel 1956. Subito dopo la grazia si iscrisse al Movimento Sociale Italiano. David Romoli il 10 Giugno 2023

Matteotti riformista del futuro. Pubblicato martedì, 02 aprile 2019 da Corriere.it. Se si domandasse a una persona mediamente informata sulla storia italiana di affrontare il tema «vita e morte di Giacomo Matteotti», quasi sicuramente ci si ritroverebbe di fronte a un interlocutore preparato a parlare più della seconda che della prima. Si sa ciò che avvenne e si sa chi fu il mandante politico e morale — al di là di quanto la richiesta fosse stata esplicita o giocata sulle parole — del delitto. Fu Mussolini, che d’altro canto, nel famoso intervento del 3 gennaio 1925 alla Camera, chiuderà la questione affermando: «Se il fascismo è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono a capo di questa associazione a delinquere». A essere conosciuta meno è la vita del Matteotti politico, dell’uomo che al momento dell’omicidio, nel giugno 1924, è davvero «l’oppositore più intelligente e irriducibile» del nascente regime, come lo definirà Piero Gobetti. Giacomo Matteotti, «Un anno di dominazione fascista», con l’introduzione di Walter Veltroni e un saggio di Umberto Gentiloni Silveri (Rizzoli, pagine 264, euro 17) Matteotti, in effetti, vede prima di altri la natura violenta e l’intenzione totalitaria del fascismo, capisce che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi e che sarebbe diventata una lunga dittatura. E per questo fa ciò che il suo libro Un anno di dominazione fascista dimostra in modo esemplare, ed è per questo che è così importante ripubblicarlo oggi, a quasi un secolo di distanza: mette una determinazione feroce e lucida nel denunciare, in modo tanto puntiglioso quanto coraggioso, le violenze fasciste che si stanno intensificando. Le sue pagine danno ragione alle parole con cui un suo compagno di partito lo descriveva, osservando che «passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose». Sono pagine straordinarie. Matteotti fa un’analisi precisa della situazione economica e finanziaria, numeri alla mano indica come i conti pubblici stiano peggiorando, soffermandosi sulla bilancia commerciale e sul disavanzo, sulle entrate tributarie, sull’evoluzione di profitti e salari, sulla situazione dell’occupazione e dell’emigrazione.  Giacomo Matteotti (1855-1924) È un libro che è il frutto di una tale concretezza e di una tale radicale e coraggiosa passione politica da non poter appartenere che a un vero riformista. E da questo punto di vista, se contribuisce a spiegare le ragioni di una morte, ancora di più racconta, a mio avviso, il senso di una vita. Proprio l’aspetto che di Matteotti, come dicevamo, meno si conosce. Carlo Rosselli, che un giorno sarebbe andato incontro alla sua stessa sorte insieme al fratello Nello, lo definì «un eroe tutto prosa». Nel senso che al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la descrivevano. A interessarlo erano i problemi reali delle persone, dei lavoratori, degli ultimi. A cominciare da quelli delle popolazioni del suo Polesine, dei braccianti del delta del Po, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per il loro riscatto aveva scelto la politica. Aveva scelto il socialismo, lui che proveniva da una famiglia della borghesia agraria molto più che benestante, ricca. Laureato brillantemente in Giurisprudenza, forte di studi all’estero, avrebbe potuto scegliere — avrebbe potuto anche vivere di rendita, se è per questo — una remunerativa carriera di avvocato o decidere di intraprendere quella accademica. Decise diversamente. E fa effetto, in tal senso, pensare alla lettera con cui un mese prima di essere ucciso rispose a quella inviatagli dal professore di Diritto penale e senatore liberale Luigi Lucchini, che gli chiedeva di essere prudente, di lasciare la politica e di dedicarsi agli studi. «Purtroppo non vedo prossimo», scrive Matteotti al suo interlocutore, «il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso». Il fatto che non fosse un teorico della politica e che di questo sia stato sempre orgoglioso non vuol dire che la sua cultura, nel campo che decise di mettere al centro della sua vita, non fosse solida. Si può dire, piuttosto, che pur non sottovalutando l’importanza di quelle che allora si definivano le «questioni dottrinarie», la dottrina per la dottrina non lo interessasse: la considerava utile solo se come sbocco, alla fine, c’era la realtà, c’era la possibilità del suo cambiamento. Un atteggiamento di fondo, questo, che peraltro si può ritrovare in tutta la sua attività di parlamentare e prima ancora di amministratore, come consigliere provinciale di Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come sindaco di Villamarzana. Anche da qui, dalla sua profonda conoscenza del ruolo e dell’importanza di quello che noi oggi chiamiamo «governo di prossimità», veniva il suo essere un acceso sostenitore di un rafforzamento delle autonomie locali. Questa sua esperienza, questo suo essere uomo politico «radicato sul territorio», mentre al tempo stesso non aveva nulla di provinciale — possedeva un forte imprinting europeo e fu persino tra i primi a parlare di «Stati Uniti d’Europa» —, rimarrà presente in lui anche negli anni successivi. Ne sono testimonianza i numerosi interventi alla Camera — eletto nelle file del Partito socialista e poi segretario nazionale del Partito socialista unitario, fondato insieme a Filippo Turati — svolti per sostenere la necessità di un più efficiente funzionamento delle amministrazioni locali, innanzitutto attraverso un rigoroso controllo dei loro bilanci e dei controlli per i grandi lavori pubblici, per evitare abusi e illegalità. Distante da ogni forma di massimalismo e di astrattezza, convinto della necessità di un lavoro di organizzazione sociale che partisse dal basso, Giacomo Matteotti era un riformista vero, che credeva in un graduale e progressivo allargamento della cittadinanza politica e sociale e per questo lavorava con un rigore inflessibile, senza risparmiarsi nulla. Concreto, tenace, apparentemente duttile ma irremovibile sui princìpi, come nel caso della scelta della pace e della ferma opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Matteotti era pragmatico nella ricerca della risoluzione dei problemi e intransigente, persino radicale, dal punto di vista etico e ideale, con una convergenza tra politica e morale che per lui era imprescindibile. Io sento che la sinistra italiana ha un debito morale nei confronti di Matteotti. Egli fu infatti sistemato nel Pantheon degli eroi della resistenza morale e politica al fascismo più per la brutale efferatezza dello strazio della sua vita che per la lucida forza delle sue idee. Matteotti non è stato solo una vittima della violenza fascista. È stato un leader morale e politico della sinistra italiana. Questo è il ruolo che la storia deve riconoscergli. Più di una volta, una vita fa, ho avuto modo di dire e di scrivere che il riformismo è radicalità, oppure non è. Che non è solo ragionevolezza e razionalità, che non può essere solo calcolo ed efficienza. Che il riformismo è governare e amministrare bene, certo, ma è insieme capacità di accogliere passioni, di muovere sensibilità e sentimento popolare attorno a progetti reali di cambiamento. Non ho cambiato idea. E leggendo queste pagine, pensando alla vita di Giacomo Matteotti, continuo a pensare che sia giusto non cambiarla.

Il racconto del segretario del partito socialista. Giacomo Matteotti, il riformista radicale volontario della morte. Corrado Ocone su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Una vita come un romanzo, seppur con esito tragico in questo caso. Non è un modo di dire ma è la modalità narrativa che Riccardo Nencini, senatore socialista nel gruppo di Italia Viva, ha scelto per raccontare la vita pubblica e privata di Giacomo Matteotti: Solo, Mondadori, p. 619, euro 22. Ed è una scelta che, alla prova dei fatti, risulta efficace. Lo è perché ci fa entrare nella psicologia e nel carattere dell’uomo, attraverso la sua semplice vita quotidiana e i suoi affetti e passioni, ma anche perché ci immerge come d’incanto in anni tumultuosi: insieme lontani e vicini (il “noi diviso” dell’Italia sembra essere sempre lo stesso), quelli che vanno dal 1914 al 1924, dai prodromi della Grande Guerra (Matteotti era contro l’intervento) all’affermarsi come regime del fascismo. Perché, anche se la storia raccontata da Nencini si ferma ovviamente a quel 10 giugno dell’agguato fascista al deputato di Fratta Polesine, fu proprio da quell’omicidio, che vasta indignazione e commozione suscitò in tutto il Paese, che gli avvenimenti subirono una rapida e incontrollabile accelerazione. Approdando infine al discorso che Mussolini, il 3 gennaio del 1925, fece alla Camera assumendosi la “responsabilità politica, morale e storica” di quanto accaduto; e alla successiva e definitiva soppressione delle libertà fondamentali garantite dallo Stato liberale. Prima che il romanzo si dipani cronologicamente, Nencini fa un breve prologo; aula di Montecitorio, 30 maggio 1924, il giorno in cui, appena insediatosi il nuovo governo, Matteotti pronuncia un duro e circostanziato discorso sui brogli elettorali che, diffusi un po’ ovunque nel Paese, avevano contrassegnato le elezioni de 6 aprile. È un un discorso duro, circostanziato, pieno di dettagli; interrotto continuamente da fischi e urla; e da un nervosismo mal celato di un Mussolini che ascolta con finta indifferenza. Da quella tornata, anche grazie alla legge elettorale fortemente maggioritaria approvata nel novembre 1923 (la cosiddetta “Legge Acerbo”), era uscita vittoriosa la Lista Nazionale (il “listone”) guidata dal Duce e composta non solo da fascisti ma anche da tutti coloro, pur di altra formazione, che si erano detti disposti a “collaborare” con lui. Questo discorso, con cui Matteotti segnò probabilmente la sua fine (“il volontario della morte” lo definì Gobetti), fu uno degli ultimi atti di un atteggiamento che non aveva fatto mai concessioni al movimento di Mussolini. E che anzi si era battuto pervicacemente, all’interno del Partito Socialista Unitario, di cui era segretario, contro le tendenze collaborazioniste che spesso emergevano. Matteotti conosceva molto bene Mussolini, aveva militato con lui quando il futuro Duce era socialista: entrambi erano figli di una stessa temperie culturale, che però interpretavano in modo del tutto diverso. L’influsso di Sorel e Bergson, quindi l’insistere sull’attivismo e sulla priorità dell’azione, in Mussolini assumeva una spregiudicata curvatura irrazionalistica e nichilistica, che in qualche modo voleva servirsi ecletticamente di un po’ tutte le idee sul campo; mentre in Matteotti si esplicitava in un fastidio per le dispute ideologiche e i dottrinarismi e in un concentrarsi sui problemi concreti delle classi lavoratrici. Da qui la sua straordinaria capacità amministrativa, che gli altri esponenti socialisti, tutti impegnati sui “massimi sistemi” non avevano (la capacità ad esempio di leggere un bilancio e di intervenire con cognizione di causa quando si discuteva quello dello Stato); e da qui anche la sua attenzione ai sindacati, ai corpi intermedi, e alle rivendicazioni salariali che erano per lui il compito impellente che avevano i socialisti. Era sicuramente un riformista, da questo punto di vista, anche se poteva sembrare spesso un radicale per l’intransigenza con cui concepiva le sue idee e combatteva ogni tipo di “cedimento opportunistico”. Era, nello stesso tempo, fra i leader socialisti, il più aperto al mondo (aveva rapporti e viaggiava spesso in tutta Europa) e il più attento al proprio territorio (il Polesine con la sua povertà e le lotte agrarie). Ed era un’altra contraddizione. Come lo era il suo essere di famiglia borghese e benestante, il suo essere intellettuale, ma pure attento e compartecipe ai problemi della povera gente, con cui parlava in dialetto. Tutto questo viene ben tratteggiato nel libro di Nencini, così pure il suo amore per Velia, la donna che sposò e poi ne avrebbe difeso per tanti anni la memoria. Per chi studia gli anni immediatamente seguenti alla prima guerra mondiale, l’impressione è di un intreccio inestricabile di passioni e idee, da cui deriva l’impossibilità di separare con un taglio netto le vicende ma anche le idee dei protagonisti. L’ideologia, in tutte le parti politiche, la faceva da padrona, ottenebrava le menti. Matteotti fa in qualche modo eccezione per coerenza e capacità di visione. Forse fu la capacità di stare coi piedi per terra la cifra ultima del suo riformismo e anche della sua intransigenza antifascista. Il suo radicalismo riformista è molto diverso dal riformismo tout court di Turati. Lo strano impasto di “virtù conservatrici” e “sovversivismo”, per dirla sempre con Gobetti, suscita indubbiamente interesse. E anche un certo fascino intellettuale. Corrado Ocone

Complotti per il Potere. Mussolini, lo storico Petacco sul blog di Grillo: "Non fece uccidere Matteotti, fu un complotto contro Benito", scrive “Libero Quotidiano”. "Mussolini è estraneo al delitto Matteotti": a novant'anni dal delitto dello statista socialista, lo storico Arrigo Petacco, sul blog di Beppe Grillo, lancia nuove teorie sull'omicidio avvenuto nel 1924, che portò alla famosa "secessione sull'Aventino" e di cui Mussolini si professò responsabile il 3 gennaio dell'anno successivo, con un famoso discorso in Parlamento. La ricostruzione dei fatti - "Il fatto è questo", spiega Petacco: "Quel 10 giugno, Matteotti passeggia sul lungo Tevere, e all'improvviso arriva una macchina, una Lancia con tanto di targa che il portiere si affretta anche a registrare. Scendono giù 4 manigoldi, squadristi e lo caricano in macchina, non gli sparano, non lo ammazzano, lo caricano in macchina. Evidentemente è solo un rapimento, solo che durante il tragitto in macchina, il Matteotti cacciato addirittura a forza sotto il seggiolino posteriore della macchina, scalcia: era un uomo forte robusto e coraggioso, scalcia, smadonna, addirittura morde i polpacci di quelli che gli stanno seduti sopra, e alla fine uno dei quattro, con una mano, trova sotto il lunotto posteriore una lima arrugginita e con quella colpisce alla testa Matteotti e lo uccide". Questa la ricostruzione del delitto: e Mussolini? "Il Duce, in quel periodo, voleva agganciare la parte morbida del socialismo, in molti erano già d’accordo con lui a entrare nel governo, solo che la lotta era tra gli estremisti fascisti e gli estremisti socialisti". Alla fine furono proprio loro ad impedire l'apertura di Mussolini ai socialisti: "Lui fu, casomai, vittima di uno scontro tra la destra estremista fascista e la sinistra estremista sociale comunista, che volevano impedire a Mussolini di creare un governo moderato, perché Mussolini in quei giorni sognava ancora di avvicinare i socialisti moderati e fare un partito con loro". E quindi, secondo Petacco, "questo cadavere servì moltissimo alla destra reazionaria, quella per intenderci di Farinacci e altri che volevano impedire a Mussolini di avvicinarsi a socialisti, tanto è vero che dopo poco nacque la dittatura. Quindi Mussolini fu spinto a destra da chi voleva impedirgli il suo avvicinamento ai socialisti, e la situazione fu tale che, ad un certo punto, lui stesso fu costretto a proclamare la dittatura il 3 gennaio del 1925. Visto che non riusciva più a liberarsi di questa colpa, fece un discorso alla camera in cui disse che se i fascisti erano una massa di delinquenti, lui era il comandante di questa banda criminale". Sono almeno tre, secondo Petacco, le ipotesi sul movente dell'omicidio. "Matteotti venne ucciso perché si apprestava a rendere di pubblico dominio intrighi e traffici sporchi di autorevoli personaggi del governo, coperti da potenti coalizioni finanziarie. Oppure Matteotti venne ucciso perché era uno dei principali esponenti del partito socialista, al quale Mussolini meditava di rivolgersi affinché non impedisse la formazione di un nuovo governo basato sulla più stretta collaborazione con la Confederazione generale del lavoro e con le masse operaie. L’ultima per il coraggioso discorso in Parlamento, in cui accusava il fascismo di aver manipolato i risultati elettorali". Insomma, "Mussolini fu coinvolto involontariamente nel delitto Matteotti: lui non c’entrava affatto, non aveva nessun motivo per uccidere il capo dell’opposizione, che aveva battuto clamorosamente alle elezioni di un mese prima. Per il resto è tutta fantasia politica e strumentalizzata che ha praticamente falsato questa vicenda. Comunque il delitto Matteotti fu casuale, non era premeditato, questo è molto chiaro". Ci sono molte perplessità, da parte degli stessi attivisti del blog grillino, sull'intervista a Petacco. Da un "Ci stiamo autodistruggendo", firmato Dino, ad un "Io credo veramente che vi siate bevuti il cervello. Cose incredibili, una giornata in cui si deve solo riflettere e chiedersi come mai abbiamo perso, ve ne uscite con queste troiate: VERGOGNATEVI! C'era gente, tanta, che ha creduto in voi!". Ironico Fausto: "Grazie a questo post risolveremo tutti i problemi del paese. Stiamo proprio perdendo il senno". Ironico anche Bob: "Per la serie 'Caro amico ti scriiivooo, cosi ti distraggo un pò...'". Secondo tanti, l'attenzione di questo post è volta soltanto a spostare l'attenzione dal disastroso risultato delle elezioni regionali, come viene ribadito anche in questo post: "Ho il sospetto che si voglia parare in qualche parte, non sono un complottista, ma questo mi da addito a dei dubbi due o tre, visto l'importanza della giornata odierna... Me li tengo per me, vedremo i prossimi sviluppi, mi sa che qua si è allo sbando".

Democratic departures. Domenico Pecile su L'Identità il 28 Aprile 2023 

Addii, mali di pancia, malumori, scontri interni ovattati a fatica. Così, dopo l’euforia iniziale per la vittoria insperata per la segreteria nazionale sul governatore dell’Emilia Romagna, Bonaccini, la nuova dirigenza del Pd è costretta a fare i conti con un new deal che non tutti riescono a metabolizzare. Le defezioni di Beppe Fioroni e poi di Andrea Marcucci e quelle più recenti di Enrico Borghi, traghettato in Italia viva, e dell’eurodeputata Caterina Chinnici, data molti vicina a Forza Italia, stanno costringendo la segretaria Elly Schlein a fare i conti con se stessa, ovvero con la decisa svolta a sinistra che ha voluto imprimere ai dem. I vertici del Pd cercano di minimizzare il malcontento interno (il leader di Base riformista, Lorenzo Guerini pur non approvando la scelta di Borghi, spiega che “non va liquidata con una semplice alzata di spalle”), ma sono consapevoli che altri fronti stanno per aprirsi, soprattutto da parte dei riformisti e più ancora dei cattolici che non sembrano propensi a seguire le politiche della segretaria sui diritti civili. E tra i big che stanno scalpitando e che male hanno digerito quella che Borghi ha definito “la mutazione genetica del Pd”, ci sarebbe (condizionale d’obbligo) diversi. Ci sarebbe, ad esempio, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che in molti danno in pole position come regista di un possibile nuovo soggetto politico autonomo e di una possibile intesa con Fioroni. Insomma, un nuovo partito moderato e riformista. Un’ipotesi che se dovesse concretizzarsi diventerebbe deflagrante per il Pd. Anche perché il malcontento nei confronti della nuova linea politica alla Mèlenchon potrebbe investire un altro governatore politicamente irrequieto, poco incline ai diktat e spesso battitore libero: Vincenzo De Luca. Ma un altro nome su cui i fari sono puntati è quello di Carlo Cottarelli. In questo caso però, ha spiegato un deputato dem, non c’entrerebbe l’appartenenza all’area riformista e cattolica quanto un malessere personale per l’incarico svolto in Parlamento. Se dovesse lasciare il Pd – eventualità che al momento i dem escludono categoricamente – un approdo potrebbe essere quello di Azione di Calenda. “Con la nuova segreteria è una scommessa per tutti, perché viene da una storia diversa. Io penso che non ci saranno altre fuoriuscite”, è stato il commento del responsabile del Pnrr, Alessandro Alfieri. Il vertice sta correndo al riparo nel tentativo di costruire un argine ai possibili fuggiaschi. Sono in programma diversi incontri soprattutto da parte dell’area cattolica. Da registrare, ad esempio, l’iniziativa delle deputate Marianna Madia e Lia Quartapelle, insieme al senatore Filippo Sensi, per organizzare un ciclo di seminari sul futuro del Pd. L’obiettivo di tutte queste iniziative è di scongiurare altri abbandoni e fare in modo che anche chi in questo momento si sente in grande disagio non lasci la barca. “Io continuo a dire che le ragioni del riformismo debbano stare dentro al Pd è il pensiero riassuntivo del tutto della Madia.

Da parte sua, la Quartapelle assicura che “lavoreremo perché sia il Partito democratico a proporne una di idea sul futuro che questo Governo non ha”. I seminari copriranno i temi della sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, l’immigrazione e l’integrazione e la mancata crescita dei salari. Ma intanto continua a tenere testa l’addio di Borghi. Che ieri ha motivato così il suo rompete le righe: “C’è l’urgenza di costruire il progetto del Terzo polo perché c’è uno spazio aperto al centro, tra quegli elettori che non si sentono attratti dal dibattito delle due curve. Da un lato c’è la Merkelizzazione di Giorgia Meloni, cioè il tentativo della destra di sfondare al centro. Dall’altro il Pd ha deciso di arroccarsi su posizioni identitarie, ma che non consentono di diventare maggioranza nel Paese. Il posizionamento di una sinistra molto massimalista, direi quasi radicale, non permette di creare uno schieramento alternativo alla destra”. E a chi, come Francesco Boccia, invoca le sue dimissioni dal vertice del Copasir, Borghi ribatte che si attiene “alle prerogative della legge. Mi sorprende che di fronte a una manifestazione di un disagio, si sia gradato agli aspetti piuttosto che al disagio”. “I cattolici, i popolari, i liberal-democratici, nella segreteria Schlein, oggi sono ospiti paganti, ma con il tempo saranno sgraditi e anche ingombranti”, è stato l’avvertimento dell’ex ministro Fioroni, dopo l’abbandono di Borghi, avvertendo anche che “qualcuno ha scelto di trasformar il Pd, in modo legittimo, in una sinistra-sinistra”. Sul fronte opposto Matteo Orfini ha affidato a Facebook la difesa della segreteria. “Un partito non è solo la sua leadership. O meglio, molti partiti lo sono ma non il Pd. Nel Pd – ha scritto – c’è spazio per tutti, c’è pluralismo e confronto. E se si è convinti del proprio punto di vista e delle proprie idee si lavora per affermarli, e con quelle idee si cerca di dare una mano, nella chiarezza e nel rispetto reciproco.

Certo, chi guida la nostra comunità dovrà dimostrare di tenerla unita. Ma quella comunità è patrimonio di ognuno di noi e ognuno di noi ha il dovere di lavorare per rafforzarla. Non dimentichiamolo”. Intanto, il leader di Italia viva, Matteo Renzi, continua ad affermare che c’è la necessità di rilanciare il progetto centrista forte del fatto che questa richiesta arriva incessante da più parti.

Partito cancel culture”, “troppo a sinistra”, “un’assemblea studentesca”. Le curiose motivazioni per lasciare il Pd. Diversi esponenti dem hanno annunciato il loro addio dopo la vittoria di Elly Schlein, motivandolo con affermazioni spesso piuttosto originali. Simone Alliva su L'Espresso il 28 Aprile 2023 

Si sono lasciati così, con un certo rancore. Qualcuno per calcolo, altri per insofferenza. Per non continuare a farsi del male dicono, ma in fondo perché in politica ti si nota di più se vai e non resti in disparte. Il primo a sbattere la porta è stato Giuseppe Fioroni, senza pathos. Gli ultimi anni passati nel Partito Democratico con riserbo, forse troppo, tanto da essere scomparso per moltissimo tempo dalla mente degli elettori, quasi subito dopo essere scomparso dalla vista. «Io sono sempre stato uno con le valigie in mano e stavolta prendo atto che è arrivato il momento» ha detto lo storico dirigente della Margherita, tra i fondatori del Pd intervistato da Adnkronos: con la vittoria di Elly Schlein «nasce un nuovo soggetto che non è più il Pd che avevamo fondato e prendo atto della marginalizzazione dell'esperienza popolare e cattolico democratica».

«Sorprende soprattutto per la scoperta che Fioroni era ancora nel Pd», commentarono ironici al Nazareno. Al mantra della segretaria “Non ci hanno visto arrivare”, qualcuno oppose “non lo hanno visto andare via”.

Poi è arrivato il turno di Andrea Marcucci, toscano come Matteo Renzi, che si è sempre detto molto amico dell’ex presidente del consiglio, ma quando ha fondato il nuovo partito ha preferito restare nel Pd. O meglio fermarsi sul pianerottolo, in attesa che qualcuno lo inseguisse per dirgli: “Resta”. Non è successo. «Non rinnoverò la tessera del Pd per il 2023, il partito di Elly Schlein è molto lontano da quello che penso io». Ha annunciato sul proprio profilo Facebook «Mi pare che le anime liberaldemocratiche e popolari, siano già state confinate in retroguardia nel Pd – ha poi spiegato in un’intervista al Giornale -. Nel contempo non si può neanche dire che con Elly Schlein abbia trionfato un'identità socialdemocratica, ad ora mi sembra più un patchwork da assemblea studentesca».

Se ne va anche Enrico Borghi, senatore, ex vicepresidente dell’Anci per i comuni montani, percorso politico nella Dc e nel Ppi, poi nella Margherita e quindi nel Pd di rito lettiano. Si trasferisce in casa Renzi, dopo averlo tanto criticato («Il nuovo Ghino di Tacco, che lucrava sui viandanti da Radicofani», diceva). «Credo in un nuovo progetto riformista alternativo alla destra e distinto da questo Pd». Il partito di Elly Schlein gli sta stretto, dice: «È diventato la casa di una sinistra massimalista figlia della cancel culture americana che non fa sintesi e non dialoga». Borghi rompe e fa rumore ma più per il posto che occupa “abusivamente” secondo i dem: membro del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica non ha intenzione di lasciare solo di cambiare casacca, indossando quella di Italia Viva (anche il partito di Renzi è già rappresentato da Ettore Rosato). Il Pd ha infatti annunciato che porterà all’attenzione dei presidenti di Camera e Senato il fatto che il partito è sottorappresentato al Copasir. 

«Il gruppo dei Socialisti e democratici nel tempo si è spostato sempre più a sinistra. Troppo, per me», dice invece ’europarlamentare Dem Caterina Chinnici, così meglio andare a destra, precisamente verso Forza Italia. Figlia del magistrato Rocco Chinnici ucciso da Cosa nostra, uno dei volti simbolo dell'antimafia, a sinistra ha sempre militato con un certo fastidio e ricambiata dicono nel suo ex partito. «Il mio disagio era del tutto evidente da tempo. A volte non prendevo parte alle votazioni per non essere costretta ad esprimermi in dissenso». Dice al Corriere della Sera, senza nascondere la delusione di fondo per la candidatura in veste Pd alla presidenza della Sicilia. «Altro elemento che mi ha portato a mettere in discussione la mia permanenza. Io da non iscritta avevo dato la mia disponibilità a correre, ma poi non ho avuto nemmeno il supporto di tutto il Pd». Adesso si unirà al al Ppe, nella delegazione di Forza Italia. «Sono stati importanti i contatti sia con Antonio Tajani sia con la mia amica Rita Dalla Chiesa». È politica questione di conoscenze, stile, amicizie.

Non c’è nulla da festeggiare Così Schlein sembra la Meloni”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 28 Aprile 2023

“Scendiamo in piazza non solo contro una destra fascista e confindustriale che imitando Mussolini vuole abolire il Primo maggio, ma anche contro quei sindacati che non hanno difeso i lavoratori”. È quanto sostiene Giorgio Cremaschi, tra i fondatori di Potere al Popolo e già presidente del Comitato Centrale della Fiom, l’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil.

Come sarà la sua “Festa dei lavoratori”?

Sarò a Bergamo con i facchini di Italtrans, bastonati dalla polizia. Spero che stavolta sia una giornata di lotta e non di concertoni.

La priorità è tutelare chi nel 2023 viene pagato quattro euro all’ora?

Saremo in strada contro il ritorno dello schiavismo. Siamo l’unico Paese dell’Occidente in cui sono calati i salari. Neanche nella Grecia, con tutta la crisi che ha avuto, ciò è avvenuto.

Perché?

Si è costruito un sistema creato ad hoc per abbassare gli stipendi. I gruppi dirigenti di Cgil, Cisl e Uil non sono stati in grado di fermarlo. Anzi, sono stati coinvolti nel palazzo. Tutti i minuti ogni lavoratore italiano effettua un confronto tra quanto succede in Francia e quanto non accade in Italia. Quando parlo di “primo maggio di lotta” voglio criticare il moderatismo delle principali sigle del sindacato nazionale, che non hanno più difeso i lavoratori. Hanno aiutato, al contrario, chi voleva attaccarli.

A Parigi si protesta perché Macron innalza l’età pensionabile da 62 a 64 anni. In Italia si finisce di lavorare a 67 anni e nessuno dice niente…

Da oltre un ventennio si fa di tutto per rendere passivo il mondo del lavoro. Non è responsabile solo la destra, ma anche la sinistra, con la speciale collaborazione delle associazioni di categoria più famose. Landini, ad esempio, attacca Meloni dopo averla invitata al congresso della Cgil. Poteva tranquillamente non farla intervenire. In Francia non ci sono rivoluzionari, ma c’è semplicemente chi svolge il proprio mestiere.

Per quali ragioni chi dovrebbe tutelare i deboli non lo ha fa?

Abbiamo subito la cancellazione dell’art. 18, atto di puro fascismo, la legge Fornero e non ci sono state particolari reazioni. Gli operai, però, non hanno l’anello al naso. Ecco perché aumenta la sfiducia verso chi dovrebbe rappresentare delle istanze e non lo fa. Spero, che prima o poi, succeda qualcosa.

Una svolta dovrebbe esserci in una sinistra, ormai portavoce dei privilegiati…

La sinistra prevalente, quella liberista e non la mia, che ha perso e di cui mi onoro di far parte, ha fallito. Il Pd non è mai andato contro Confindustria. È normale che il metalmeccanico ha finito col credere che Meloni fosse progressista.

Schlein si presenta come paladina di quelle battaglie che una volta appartenevano ai compagni del Pci. È davvero così?

Elly è aria fritta gonfiata con i mantici dei mass media.

Tanti, intanto, lasciano il Pd perché lo ritengono casa di una “sinistra massimalista”…

La fuga dei centristi è la dimostrazione di quanto di destra siano i democratici. La verità è che quelli che oggi lasciano il Nazareno, nei fatti, sono sempre stati di Forza Italia. Il Pd, da anni, si muove come un partito di centrodestra.

I dem, però, non sono gli unici a calare il capo di fronte all’Europa…

La politica italiana, nell’ultimo trentennio, è stata deformata da una finta contrapposizione, risolta con l’esecutivo Meloni. Pareva che da un lato ci fossero gli europeisti, il centrosinistra e dall’altro le destre sovraniste. Questo governo ha fatto cadere la maschera. Giorgia ha dimostrato di essere serva della Nato e dell’Ue come le sue opposizioni. In Italia, c’è solo un regime, un partito unico degli affari. Bruxelles ci fa una guerra sociale e nessuno dice niente.

Come fa a sostenerlo?

Basta notare il presappochismo e la faciloneria con cui viene affrontato il ritorno del patto di stabilità, pur trattandosi di una catastrofe. Dal 2024 ci saranno solo tagli. La politica non ha il coraggio di dire da dove si prende i soldi. A mio parere, sarà penalizzato soprattutto il sociale e una sanità al collasso. L’Europa non può e non deve proporci un memorandum come quello della Grecia. Trovo ancora più scandaloso chi fa finta che non sia così. L’Ue ci prepara a lacrime e sangue e tutti gli sorridono. Da Elly e Giorgia, non ci sono differenze.

A proposito della premier, come giudica la scelta di tenere un Cdm il primo maggio?

Non mi sorprende. Basta leggere i libri di storia. C’era una grande differenza tra Hitler e Mussolini: il primo conservò la festa del primo maggio, mentre il secondo la abolì. Il fascismo italiano, d’altronde, non ha mai smesso di essere confindustriale. Meloni conserva solo la tradizione.

La scomparsa del grande pensatore sardo. Perché la sinistra deve ripartire da Gramsci, 86 anni dopo i suoi Quaderni sono la bussola da seguire. Michele Prospero su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

Perché Trockij e non Gramsci? Il bel film di Nanni Moretti si chiude, in un suggestivo rilancio dell’idealità comunista che sembra affiorare nel finale, con il ritratto di Trockij. È lui il simbolo ancora attuale di una causa di liberazione che si ritiene sconfitta, non vinta. Ed è lui anche il pretesto per evocare un tracciato controfattuale e reinventare la storia del movimento operaio (non solo in Occidente). La sua vittoria avrebbe reso possibile un esperimento di società radicalmente diverso rispetto alla repressiva cornice edificata sotto l’egemonia staliniana.

E però, se il volto del despota georgiano è giusto strapparlo dalle pareti della sezione del Pci in quanto emblema della curvatura dittatoriale del mondo nuovo, a sostituirlo forse non bastano l’acqua minerale “Rosa” (in onore di Rosa Luxemburg) e neanche Trockij. Con la massima considerazione per le tesi e l’azione del grande rivoluzionario russo e della raffinata economista e pensatrice polacca, risulta alquanto problematico ritenere che dalla Lega di Spartaco o dal gruppo dirigente sovietico degli anni Trenta, preso nel suo complesso, emerga una compiuta costruzione teorica utile a realizzare le istanze di libertà e di emancipazione che oggi riemergono. Proprio per questo è legittimo chiedersi: perché non Gramsci al loro posto? Va detto con chiarezza, e oltre le soggettive esigenze estetiche di un film, che, se qualcosa di vitale rimane della tradizione comunista ed è ancora oggi spendibile nella battaglia delle idee, questo è legato in larga parte al pensiero di Antonio Gramsci.

Nelle sue pagine si può rintracciare il solo modello capace di indicare risposte politiche e culturali alternative rispetto alle aporie che hanno affondato la Repubblica dei Soviet. A 86 anni dalla morte, il pensatore sardo non rappresenta un semplice martire del movimento operaio, come invece lo presentò Galvano della Volpe. Lo fece quasi per consegnare alla storia del sacrificio un eroe sconfitto sotto il totalitarismo fascista e ridimensionarlo nel ruolo a lui spettante nella galleria del grande pensiero politico del Novecento. Eppure, a distanza di anni, i Quaderni si confermano sempre più come una miniera di risorse concettuali da recuperare per l’analisi della grande crisi del secolo breve e da interrogare con curiosità per la fondazione di un tentativo ricostruttivo della prospettiva socialista in occidente.

Sulla scorta della sua lezione, peraltro, sarebbero state possibili in Italia una ricomposizione del movimento operaio prima del diluvio ma anche una ripartenza efficace dopo l’accumulo di macerie. Tra le pagine più problematiche ed acute dedicate ai Quaderni, ci furono infatti quelle del socialista Giuseppe Tamburrano e dell’azionista Norberto Bobbio. Oggi che è scomparso il soggetto, le tante sinistre frantumate possono ritrovare in Gramsci una bussola da scrutare per riprendere un cammino non sterile tra le contraddizioni della tarda modernità. Nella letteratura internazionale, non a caso, l’interesse per Gramsci non è mai diminuito. Solo nel corso del 2022, sono uscite nuove biografie in inglese, in spagnolo e in francese. Anche negli studi sfornati dagli indirizzi del pensiero cosiddetto post-coloniale, oggi molto in voga nelle accademie, risuonano le categorie dei Quaderni. Si pensi all’innovativo lavoro dello storico Victor Kiernan dal suggestivo titolo Antonio Gramsci and the Other Continents.

Molto significativa è la presenza degli spunti del teorico italiano nei libri dello studioso indiano dei diritti umani Upendra Baxi, esponente di spicco dei Subaltern Studies. Oltre che nei tentativi di sfuggire alle insidie dell’eurocentrismo, ben presente anche nella filosofia marxista dell’800, l’impianto gramsciano è molto utilizzato nella mappatura delle “modernità alternative”, come le ha chiamate Beppe Vacca qualche anno fa. Ai pionieristici contributi di Robert W. Cox che ha travasato il pensiero gramsciano nell’analisi delle relazioni internazionali, alle esplorazioni di Giovanni Arrighi sulla successione storica delle egemonie nell’economia-mondo, si sono recentemente aggiunti molteplici contributi originali. Il punto sul loro impatto lo fa Benno Teschke (Marxism, in C. Reus-Smit, D. Snidal, The Oxford Handbook of International Relations): «L’economia politica internazionale di orientamento neo-gramsciano (IPE, o ‘materialismo storico transnazionale’) – egli scrive – incarna la teoria marxista più influente entro il discorso contemporaneo sulle relazioni internazionali. Sulla base degli scritti non economicistici del comunista italiano Antonio Gramsci, il concetto di egemonia costituisce la categoria analitica centrale per comprendere su base storica gli ordini mondiali al fine di escogitare contro di essi prescrizioni anti-egemoniche».

In questo quadro di influente attualità del pensiero gramsciano, si inserisce anche il ritorno in edicola di una delle creature del comunista sardo, l’Unità. Gramsci osservava che «i giornali puramente politici o d’opinione non hanno mai potuto avere una diffusione grande: essi sono comprati dagli scapoli, uomini e donne che si interessano fortemente della politica». Non poteva sospettare la straordinaria penetrazione raggiunta proprio dal giornale da lui fondato in alcune stagioni della storia repubblicana. Chi immagina soltanto di ripetere l’impresa dei tempi magici del quotidiano comunista è un folle. Ma chi non pensa che valga la pena di infondere energia nella resurrezione della felice invenzione gramsciana è un disertore della battaglia culturale per la democrazia che impegnerà l’Italia nei prossimi anni. Michele Prospero

Il congresso del Partito socialista.

Annabella de Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Gennaio 2023

Corriere delle Puglie 22 gennaio 1921

«I comunisti abbandonano il Partito socialista e i concentrazionisti vi rimangono»: così «Il Corriere delle Puglie» del 22 gennaio 1921 dà notizia della grande scissione avvenuta all’interno di una delle maggiori forze politiche del Paese, già da anni travagliata da profonde divisioni di corrente. Il giorno prima, nel Teatro Goldoni di Livorno si è concluso, infatti, il 17° Congresso nazionale del Partito socialista: è andata al voto la proposta di espellere i riformisti, o «unitari», che auspicavano una correzione del sistema attraverso le riforme e non necessariamente attraverso la rivoluzione. Questi, invece, hanno ottenuto la maggioranza dei suffragi: la fazione comunista, guidata dal napoletano Bordiga e di cui fanno parte anche Antonio Gramsci e Umberto Terracini – che a Torino avevano dato vita al settimanale «Ordine nuovo» – abbandona l’aula. «Ai comunisti che si separano da noi, noi diciamo che ci separiamo da essi con cordiale fraternità», sono le parole del socialista Bacci che compaiono sul «Corriere»; i congressisti escono, così, al canto dell’Internazionale, di Bandiera rossa e dell’Inno dei Lavoratori. Nel frattempo, nel Teatro San Marco di Livorno, si ufficializza la costituzione del Partito comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale: ai giornalisti, però, «è stato negato il permesso di assistere alla seduta».

Antonio Gramsci, il vero fondatore del Pci che viveva con 50 anni di anticipo. David Romoli su Il Riformista il 19 Gennaio 2021

Nel 1975 il Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, allora diretto dal giamaicano e già fondatore della New Left Review, Stuart Hall, pubblicò un volume collettivo destinato a diventare nei decenni successivi una pietra miliare: Resistence Through Rituals. Per la prima volta un gruppo di giovani e giovanissimi studiosi marxisti analizzavano in termini di classe le sottoculture proletarie giovanili che avevano segnato il decennio precedente: Teddy Boys, Mods, Skinheads, presto i Punk. Era uno dei tentativi di riapplicare le categorie marxiste più eretiche, e non a caso quel testo, e gli studi che seguirono, sono la base di qualunque analisi successiva applicata alle subculture. La chiave interpretativa, il punto di partenza lo aveva fornito un intellettuale, studioso, militante e dirigente comunista italiano morto in carcere quasi 4 decenni prima: Antonio Gramsci.

In quegli stessi anni, nella patria di Gramsci, la sinistra era dilaniata da un conflitto durissimo tra l’area istituzionale, il Partito comunista e i sindacati, e quella ribelle, la sinistra extraparlamentare e poi autonomia. Tra gli slogan ricorrenti nelle manifestazioni dei rivoluzionari ne risuonava uno dedicato specificamente ai segretari del Pci: “Gransci, Togliatti, Longo, Berlinguer: che cosa c’entra il primo con gli altre tre” (anche se la formulazione originale era più greve).

I due esempi valgono a indicare la specificità, anzi l’unicità, di Antonio Gramsci nel Pantheon dei segretari del Pci, determinato dalla valenza secondaria del ruolo di leader rispetto a quello, in cui giganteggia, di intellettuale.

Come si sarebbe rivelato il Gramsci segretario può essere oggetto solo di speculazioni azzardate. Mantenne la carica per meno di 10 mesi dal 26 gennaio all’8 novembre 1926, quando fu arrestato, inviato al confino a Ustica, dove si ritrovò con Bordiga, poi nel carcere di san Vittore. La condanna a vent’anni, quattro mesi e cinque giorni di carcere fu comminata dal Tribunale speciale fascista il 4 giugno 1927. In Parlamento svolse un unico intervento, il 16 maggio 1925 (parlò contro lo scioglimento della massoneria). Non era ancora formalmente segretario ma di fatto aveva guidato non ufficialmente il partito anche nel biennio precedente, dunque nella fase cruciale dell’Aventino seguita al delitto Matteotti, anche perché incarnava la linea dell’Internazionale contrapposta alla sinistra di Bordiga. Scontava però il limite di dover guidare un partito che restava nella sua grande maggioranza bordighista.

Nella nascita e prima edificazione del Partito, il pensatore sardo aveva avuto, con tutto il gruppo torinese dell’Ordine nuovo, un ruolo essenziale ma minore rispetto a Bordiga. Le due figure centrali nella nascita del Pcd’I erano per molti versi opposte. Gramsci, sardo di origini albanesi, veniva da una famiglia povera precipitata nella miseria dopo la condanna del padre a cinque anni di prigione per peculato. A 12 anni, nonostante una salute gracile e la statura minuta, appena un metro e mezzo da adulto in conseguenza del morbo di Pott che lo aveva colpito a due anni, lavorava 10 ore al giorno. A Torino arrivò nel 1911, grazie a un’esigua borsa di studio. Si piazzò nono all’esame, sette postazioni sotto Palmiro Togliatti. Il risultato non stupisce. Togliatti era un classico secchione. Gramsci, intelligentissimo e lettore vorace, era più eclettico, capace di passare dalla critica letteraria a quella teatrale, dalla politica, che aveva scoperto ancora prima di lasciare l’isola, a un’analisi sociale brillante.

A differenza di Bordiga, la cui preparazione era rigorosamente tecnico-scientifica, le radici di Gramsci erano filosofiche e crociane. Il suo marxismo non fu mai dogmatico, il suo percorso molto più ondeggiante di quello, rigido fino alle estreme conseguenze, dell’ingegnere napoletano. Nel 1914 Gramsci fu interventista. Come Bordiga, diventò presto leninista ma il loro leninismo era opposto. Per Bordiga, il capo dei bolscevichi non contraddiceva in niente ma al contrario inverava la verità di Marx. Gramsci salutò la Rivoluzione d’Ottobre con un articolo passato alla storia: “ Rivoluzione contro il Capitale”.

Ancora nel 1920, quando Bordiga non vedeva orizzonte che non fosse la scissione del Psi, il dirigente sardo sperava in un rinnovamento radicale del partito e la sua attenzione per l’organizzazione operaia spontanea, per la costruzione di strumenti reali di contropotere e gestione operaia nelle fabbriche fu all’origine del contrasto più profondo tra le future anime del Pcd’I. L’Ordine Nuovo fu il giornale dei Consigli operai, al punto che persino il senatore Agnelli (il nonno del Gianni che abbiamo conosciuto), come ricorderà lo stesso Gramsci nel Quaderno su Americanismo e Fordismo, tentò di contattare il gruppo torinese in nome del comune interesse per una modernizzazione del modo di produzione in fabbrica.

Dopo il delitto Matteotti (1924) quello che era già il vero leader del Pdc’I appoggiò la strategia aventiniana: del resto, nonostante alcuni equilibrismi dettati da esigenze diplomatiche in un partito la cui struttura era ancora bordighista, Gramsci era l’uomo dell’Internazionale e della strategia “frontista” dettata da Mosca e contrastata dalla sinistra di Bordiga. Fu però tra i primi a rendersi conto di quanto quella strategia fosse votata al fallimento. Tentò di correggere la rotta. Il 20 ottobre propose di trasformare l’Aventino in antiparlamento, nella speranza di forzare la mano al re. Le altre forze aventiniane respinsero la proposta. Il 12 novembre un deputato comunista, Luigi Repossi, rientrò in Parlamento per commemorare Matteotti. Il 26 lo seguì l’intero gruppo comunista, rompendo il fronte aventiniano.

Il Gramsci dirigente e poi segretario del Pci non è quello rimasto nella storia, e tanto attuale da poter essere proficuamente adoperato per interpretare fenomeni come il punk oppure per seguire le tracce dell’invasività di un modo di produzione nelle sfere apparentemente distanti della morale o della sessualità. Quello è il Gramsci che, non senza un certo paradosso, ha lasciato un segno indelebile grazie a 33 blocchi di appunti non destinati alla pubblicazione, i Quaderni dal carcere, gli ultimi 12 dei quali furono scritti quando il detenuto aveva formalmente ottenuto, nell’ottobre 1934, una libertà condizionale per gravi motivi di salute che aveva modificato ben poco la sua condizione. Trasferito in una clinica a Formia nel dicembre 1934 rimase tuttavia sotto stretta sorveglianza e con il divieto di curarsi in una clinica meglio attrezzata per paura di una possibile fuga. Il permesso di curarsi a Roma gli fu concesso solo nell’agosto 1935, quando era ormai troppo grave per lasciare il letto. Il 21 aprile 1937 gli fu concessa la piena libertà. Morì sei giorni dopo.

I Quaderni furono consegnati dalla cognata di Gramsci Tatiana Schucht – che viveva in Italia mentre la moglie Giulia era in Unione sovietica – all’ambasciata sovietica che li inviò a Mosca, dove furono affidati a Togliatti. La stessa Tatiana si era occupata di garantire i contatti del detenuto con Mosca, consegnando le sue lettere all’economista amico di Gramsci e “marxista indisciplinato” (come lui stesso si definiva) Piero Sraffa, allora a Cambridge, che le faceva poi pervenire a Mosca. I Quaderni, con le loro preziose e profonde riflessioni sul Risorgimento, la Questione meridionale, i limiti del capitalismo italiano (tanto precise che sono in larga misura ancora valide) e soprattutto con la scoperta del concetto modernissimo di “egemonia” furono pubblicati nel dopoguerra da Einaudi, curati dal dirigente del Pci Felice Platone, supervisionati da Togliatti. David Romoli

(ANSA il 2 gennaio 2023) - E' morto nella sua casa di Catania, a 99 anni, Antonio Pallante l'attentatore di Palmiro Togliatti, contro cui esplose quattro colpi di pistola, tre andati a segno, il 14 luglio 1948, nel tentativo di uccidere il leader del Partito comunista italiano. Il decesso è avvenuto nel luglio scorso, ma la notizia è trapelata soltanto oggi dai familiari. Avrebbe compiuto cento anni il prossimo 23 agosto. 

"Mio padre ci ha sempre detto che quel gesto lo ha fatto semplicemente perché da studente vedeva qualcosa che poteva essere una minaccia per la democrazia, intravedendo il legame tra Togliatti e l'Urss", spiega il figlio.

La sparatoria avvenne a Roma, vicino la Camera dei deputati, da dove il 'Migliore', come era soprannominato Togliatti, era appena uscito in compagnia di Nilde Iotti, che rimase illesa. Pallante, che partì armato da Randazzo, nel Catanese, dove viveva, agì da solo spinto, disse, dalla paura del pericolo dell'espansione del comunismo in Italia. 

Non si è mai più occupato, almeno pubblicamente di politica, ma non si è mai ufficialmente pentito del suo gesto, giudicandolo ripugnante, ma pensando che fosse la cosa giusta da fare per salvare il Paese dal rischio comunista. Il tentato omicidio, commesso dopo la vittoria della Democrazia cristiana alle politiche del 1948, portò l''Italia a un passo dalla guerra civile. 

Ci furono forti manifestazioni di piazza che spinsero Togliatti, ferito alla nuca e al torace, a rilasciare un'intervista dal Policlinico di Roma, dove era stato operato, per tranquillizzare tutti. "Sono fuori pericolo", disse il leader del Pci, "assicurando a tutti i compagni" che presto sarebbe "tornato al suo posto". La Cgil guidata da Di Vittorio sospese lo sciopero generale annunciato e i parlamentari del Partito comunista italiano ritirarono le loro dimissioni.

 A riportare la tranquillità sociale, si ipotizzò, contribuì anche la quasi contemporanea vittoria di Bartali di una tappa e poi del Tour de France. Ex seminarista e poi componente membro della Gioventù Italiana del Littorio per poi fare campagna elettorale nel 1948 per il Blocco Democratico Liberal Qualunquista, un piccolo partito nato da una scissione del movimento antipolitico Fronte dell'Uomo Qualunque, Pallante era un oscuro 24enne studente fuoricorso di Giurisprudenza ed era spinto all'epoca, sostenne poi, da un estremo nazionalismo. 

Dopo la sparatoria fu arrestato dai carabinieri e disse di avere acquistato l'arma a Randazzo e di essere arrivato a Roma con l'obiettivo di assassinare Togliatti. Un primo tentativo, compiuto il 13 luglio del 1948, il giorno prima dell'attentato, era andato a vuoto perché non era riuscito a farsi ricevere nella sede della segreteria del Pci, in via Botteghe Oscure. Processato per tentativo di omicidio fu condannato a 13 anni e otto mesi di reclusione. La pena in secondo grado fu ridotta a dieci anni e otto mesi.

Dopo l'intervento della Cassazione e a un'amnistia scontò cinque anni e tre mesi di carcere e fu scarcerato nel 1953. Dopo avere lasciato la prigione, non essendo stato interdetto dai pubblici uffici, trovò lavoro alla Forestale, come suo padre, e poi alla Regione Sicilia senza interessarsi più, almeno pubblicamente, di politica.

Da cinquantamila.it – La Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Bagnoli Irpino (Avellino) 3 agosto 1923. L’uomo che il 14 luglio 1948 sparò quattro colpi di calibro 38 a Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano.? 

«Partii da Catania come un automa, dovevo compiere una missione, non avevo nulla contro l’uomo, ciò che volevo colpire e cancellare era ciò che lui rappresentava. Arrivai a Roma il 12 luglio, deciso ad incontrare Togliatti. Mi finsi un comunista di Randazzo e chiesi di poter vedere il segretario.

Ma mi fu risposto che avrei dovuto compilare una richiesta per iscritto, specificando i motivi della mia visita. E io non potevo certo farlo... Allora andai a Montecitorio e riuscii ad assistere ad una seduta dei lavori per l’adesione italiana al Patto Atlantico. Ascoltai il discorso di Togliatti e le sue parole furono un ulteriore sprone. Così, saputo che poco dopo sarebbe uscito da una porta secondaria, attesi il suo arrivo seduto sui gradini dell’atrio di via Della Missione. E quando lui uscì, accompagnato da Nilde Iotti, sparai quei quattro colpi. Tre andarono a segno, uno si conficcò su un cartellone» (da un’intervista di Michela Giuffrida). 

Aveva comprato la sua pistola (una Smith & Wesson a tamburo) al mercato nero per 1.500 lire. In valigia gli trovarono una copia del Mein Kampf.? 

Condannato il 3 ottobre del 1953 a dieci anni e otto mesi di reclusione, lavorò come suo padre alla Forestale.

«Di lui – anche i suoi amici più intimi – conoscono solo quello che lui ha voluto far loro conoscere. Che gli sono sempre piaciute le Vespe. Che è molto contento della laurea in Giurisprudenza presa da sua figlia Magda e che stravede per il piccolo Antonio, il figlio di suo figlio Carmelo. Dicono che sia un uomo dai modi molto garbati.

 Mai una parola in più e mai una parola in meno con gli occasionali interlocutori. Religiosissimo. Tutto casa e chiesa. E poi? Poi nulla. Nulla da dire. Nulla da raccontare. Tranne una sorta di leggenda metropolitana che gira negli ambienti musicali di Catania. La voce racconta che lui – “l’attentatore” – sia il proprietario (insieme a un uomo misterioso) di una grande e famosissima azienda di corde per chitarre fondata nel 1958 a Saint Louis, Stati Uniti d’America (…)

  Le poche volte che parla, dice sempre le stesse cose: “Io mi misi in testa un’idea molto precisa: se Togliatti fosse morto, l’Italia si sarebbe salvata. Pensavo che quello fosse l’unico modo di evitare l’invasione dei sovietici, dovevo farlo e l’ho fatto. Ma da quel giorno non mi sono mai più occupato di politica”». (Attilio Bolzoni) [Rep 14/7/1998].

«Molti lo hanno dimenticato ma lui è ancora vivo e abita sempre nello stesso appartamento al quinto piano di uno stabile nel centro di Catania. Giacca da camera, pantofole, si muove a fatica e sente poco, ma è ancora sufficientemente lucido. “La mente – sorride – la tengo allenata con le parole crociate. Poi leggo giornali e libri di storia e geografia”» (Alfio Sciacca) [Cds 16/12/2009].

Morto Antonio Pallante: tentò di uccidere Togliatti nel 1948 (e portò l’Italia sull’orlo della guerra civile). Storia di Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 2 gennaio 2023.

Antonio Pallante, l’attentatore di Palmiro Togliatti, è morto a 98 anni. Il decesso è avvenuto lo scorso luglio, pochi giorni prima del suo novantanovesimo compleanno. Con tre colpi di pistola precipitò l’Italia in una situazione drammatica, che fece temere lo scoppio di una guerra civile. Si è spento a Catania quasi centenario lo scorso 6 luglio (ma la notizia è stata diffusa solo ieri) Antonio Pallante, noto per avere attentato alla vita del segretario del Pci, Palmiro Togliatti, il 14 luglio 1948. Ferito alla nuca e al torace all’uscita da Montecitorio con la sua compagna Nilde Iotti, il leader comunista fortunatamente sopravvisse, anche perché i proiettili erano di qualità scadente. Lui stesso, prima di entrare in sala operatoria, esortò i dirigenti del partito a non perdere la testa. Ma in tutto il Paese i lavoratori entrarono in sciopero e scoppiarono disordini molto gravi, con una trentina di morti tra i manifestanti e le forze dell’ordine. L’Italia aveva celebrato nella precedente primavera, il 18 aprile 1948, le prime elezioni legislative, che avevano visto un clamoroso successo della Democrazia cristiana sul Fronte popolare che vedeva uniti i candidati comunisti e socialisti. Per le sinistre marxiste era stata una cocente delusione, che aveva alimentato un forte sentimento di rivincita. Quando poi venne colpito Togliatti, l’ira popolare esplose in vaste manifestazioni di piazza. La decisione della Cgil di indire lo sciopero generale provocò tra l’altro la rottura dell’unità sindacale, con il distacco della componente democristiana che poi andò a formare la Cisl, nonostante gli sforzi del segretario Giuseppe Di Vittorio per evitare la rottura. Gli scontri durarono quasi due giorni, poi la Cgil revocò lo sciopero e la situazione si andò gradualmente normalizzando, anche grazie alle notizie rassicuranti sullo stato di salute di Togliatti. A distrarre gli italiani contribuì il brillante successo del ciclista Gino Bartali al Tour de France, anche se la notizia arrivò quando l’onda di piena era già passata. Pallante, nato a Bagnoli Irpino (Avellino) nell’agosto 1923, aveva agito di sua iniziativa. All’epoca era uno studente ventiquattrenne con simpatie di destra, che in primavera aveva fatto campagna elettorale per un piccolo partito sorto da una scissione dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Viveva a Randazzo, in provincia di Catania, dove suo padre faceva la guardia forestale. Fu arrestato e poi processato: condannato a 13 anni e otto mesi, poi ridotti in appello a dieci anni e otto mesi, grazie a un’amnistia trascorse in carcere solo cinque anni e tre mesi e fu rilasciato nel 1953. Al figlio raccontava di avere compiuto quel gesto perché in Togliatti vedeva «una minaccia per la democrazia» a causa del legame tra il Pci e l’Unione sovietica. Ma non si era più occupato di politica.

Scomparso a luglio scorso, dopo mesi l'ufficialità. E’ morto Antonio Pallante, sparò a Togliatti “per salvare il Paese dal pericolo comunista”. Redazione su Il Riformista il 2 Gennaio 2023

E’ morto il 6 luglio scorso ma la notizia è stata data solo nelle scorse ore dai familiari. Antonio Pallante è scomparso un mese prima che compisse 99 anni. Viveva a Catania.  Fu l’attentatore di Palmiro Togliatti, leader del partito comunista italiano contro cui esplose quattro colpi di pistola, tre andati a segno, il 14 luglio 1948. Un attentato, compiuto quando aveva 25 anni, che portò il Paese a un passo dalla guerra civile.

Mio padre ci ha sempre detto che quel gesto lo ha fatto semplicemente perché da studente vedeva qualcosa che poteva essere una minaccia per la democrazia, intravedendo il legame tra Togliatti e l’Urss”, spiega il figlio.

Un gesto che avvenne a Roma, nei pressi della Camera dei Deputati dove Togliatti era appena uscito insieme a Nilde Iotti, sua compagna all’epoca. Pallante, che partì da Randazzo, nel Catanese, dove aveva comprato l’arma al mercato nero “per tremila lire”, ha sempre spiegato di aver agito da solo perché preoccupato dal pericolo dell’espansione del comunismo in Italia. Nel corso della sua vita non si è mai occupato di politica.

Figlio di un appuntato della Forestale (dove poi entrerà lui stesso dopo la scarcerazione, per poi passare alla Regione), da giovane frequentò la facoltà di Giurisprudenza e fu presidente del blocco liberale qualunquista. In una intervista concessa a Repubblica venti anni fa: “Tenevo comizi in giro per la Sicilia, i miei erano ideali di patriottismo e di italianità che si scontravano con la politica di Togliatti, propugnatore della causa anti-italiana al servizio di Stalin. Fu proprio in quel periodo che cominciai a pensare ad un’azione che potesse fermare l’uomo che voleva portare l’Italia nel blocco orientale”.

Dopo il tentato omicidio, Togliatti, ferito alla nuca e al torace, ritenne doveroso rilasciare un’intervista dall’ospedale Policlinico di Roma per prova a tranquillizzare opinione pubblica e attivisti. Sono fuori pericolo”, disse il leader del Pci, “assicurando a tutti i compagni” che presto sarebbe “tornato al suo posto”.

Pallante dopo la sparatoria fu arrestato dai carabinieri e disse di avere acquistato l’arma a Randazzo e di essere arrivato a Roma con l’obiettivo di assassinare Togliatti. Un primo tentativo, compiuto il 13 luglio del 1948, il giorno prima dell’attentato, era andato a vuoto perché non era riuscito a farsi ricevere nella sede della segreteria del Pci, in via Botteghe Oscure. Processato per tentativo di omicidio fu condannato a 13 anni e otto mesi di reclusione. La pena in secondo grado fu ridotta a dieci anni e otto mesi. Dopo l’intervento della Cassazione e a un’amnistia scontò cinque anni e tre mesi di carcere e fu scarcerato nel 1953. 

Nell’intervista rilasciata a Repubblica raccontò quella giornata: “Arrivai a Roma riuscii ad assistere ad una seduta dei lavori per l’adesione italiana al Patto Atlantico. Ascoltai il discorso di Togliatti – disse – e le sue parole furono un ulteriore sprone. Così, saputo che poco dopo sarebbe uscito da una porta secondaria, attesi il suo arrivo seduto sui gradini dell’atrio di via Della Missione. E quando lui uscì, accompagnato da Nilde Iotti, sparai quei quattro colpi. Tre andarono a segno, uno si conficcò su un cartellone”.

Poi sottolineò: “Non sono un killer a pagamento, come i servizi segreti americani hanno sempre voluto farmi passare, né ho mai avuto a che fare con i baronati siciliani. Il mio era un sentimento nazionalista, puramente italiano. Non ho agito contro un uomo ma contro un ideale. Il mio obiettivo non era Togliatti ma il Migliore, il capo del comunismo italiano, la longa manus di Stalin”.

Il Pci fermò la rivoluzione in quel luglio infuocato. L’attentato a Togliatti e la morte di Pallante, proiettili marci e guerra civile evitata: “Non facciamo fesserie”. David Romoli su Il Riformista il 4 Gennaio 2023

Non perdete la testa”: c’è chi dubita che davvero Palmiro Togliatti, dalla barella, mentre lo caricavano sull’ambulanza che lo avrebbe portato con massima urgenza al Policlinico, abbia potuto sussurrare queste parole ai principali dirigenti del Pci, i vicesegretari Longo e Secchia, poi Pajetta e Amendola. Era stato raggiunto da tre colpi di rivoltella tra cui uno alla testa, era quasi in fin di vita per la perdita di sangue. Ma, pronunciate o inventate, quelle parole rispondevano di certo al suo pensiero e alla sua lucidità politica.

Dal letto d’ospedale, due giorni dopo, avrebbe così commentato con il medico personale Mario Spallone, che aveva assistito nell’operazione Pietro Valdoni, allora il primo chirurgo d’Italia, gli scontri violentissimi che divampavano in tutto il nord: “Sciagurati. Non facciano fesserie”. Longo e lo stesso Secchia, il “duro” del Pci, la testa non la avevano persa. Nessuno pensò mai di scatenare un’insurrezione che avrebbe portato a una guerra civile che i comunisti non potevano vincere. A sparare, alle 11.45 del 14 luglio 1948, era stato Antonio Pallante, siciliano, 24 anni, morto a quasi cent’anni lo scorso 6 luglio anche se la notizia è stata data solo due giorni fa. “Nazionalista esasperato”, secondo la sua stessa definizione, monarchico e militante in una formazione nata dal Partito dell’Uomo qualunque, Pallante aveva agito da solo contro l’ “agente di una potenza straniera che impediva il risorgere dell’Italia”.

I soldi per la trasferta romana se li era fatti prestare con la scusa di un possibile lavoro dai parenti: 9mila lire, delle quali 1500 erano servite a comprare un revolver Hopkink & Allen vecchio di 40 anni tondi. Funzionava bene ma con un grilletto molto duro e per Togliatti fu provvidenziale. Ancor più lo furono i cinque scadentissimi proiettili comprati dall’attentatore. Se fossero stati meno miseri il segretario del Pci non sarebbe sopravvissuto. La decisione di Pallante fu autonoma e solitaria. Però non si trattò di un gesto folle: il clima, a tre mesi dalla vittoria elettorale della Dc nelle elezioni del 18 aprile, era quello di una contrapposizione frontale e di una demonizzazione assoluta dei comunisti. Il giorno prima dell’attentato, sul quotidiano del Psdi, L’Umanità, il deputato social-democratico Carlo Andreoni, ex trotzkista, aveva scritto senza mezzi termini che il popolo italiano, prima che i comunisti lo vendessero ai russi, avrebbe avuto il coraggio “di inchiodare al muro Togliatti e i suoi complici non solo metaforicamente”.

A Roma Pallante aveva provato a farsi ricevere da Togliatti a Botteghe Oscure, sede nazionale del Partito, ed era stato messo alla porta. Grazie a due parlamentari siciliani era riuscito a entrare a Montecitorio il 13 luglio ma solo in tribuna, giusto per vedere e poter riconoscere l’uomo che aveva deciso di uccidere. Il giorno seguente si era imbattuto quasi per caso nel leader comunista che stava lasciando la Camera, con la compagna Nilde Iotti, dall’uscita secondaria di via della Missione per sfuggire, come faceva spesso, al controllo del militante incaricato di proteggerlo. Qualche settimana più tardi Stalin avrebbe spedito una rampogna durissima ai dirigenti del partito italiano, accusandoli di non aver garantito a sufficienza la sicurezza del segretario.

Togliatti e Nilde Iotti si fermarono sulla porta a parlare con un cronista politico. Quando uscirono, Pallante li seguì per alcuni passi, poi sparò tre colpi e un quarto quando Togliatti era già a terra. Tre pallottole colpirono il bersaglio: due raggiunsero l’emitorace sinistro e scheggiarono una costola lacerando il polmone ma non in modo grave. La terza, alla nuca, sarebbe stata fatale se il proiettile di terza mano avesse sfondato la calotta cranica invece di schiacciarsi contro l’osso. I carabinieri che presidiavano gli ingressi di via della Missione rimasero impietriti: fu la Iotti – che era una ragazzina, non aveva ancora 30 anni – a urlare perché inseguissero e arrestassero l’attentatore. Il leader del Pci fu portato nell’infermeria della Camera, visitato da alcuni deputati medici, quindi trasportato al Policlinico dove Valdoni lo operò tre ore dopo l’attentato.

A quel punto la notizia, confusa e incerta, si era già diffusa ovunque. L’Unità, uscita in una velocissima edizione straordinaria, chiedeva le dimissioni del “governo della guerra civile”. Nelle città del nord gli operai avevano bloccato la produzione, occupato le fabbriche e in alcuni casi, come alla Falck di Milano, sequestrato i dirigenti. I militanti comunisti, senza aspettare gli ordini della Cgil e del partito, avevano tirato fuori le armi nascoste e non riconsegnate tre anni prima, alla fine della guerra civile. Sul Monte Amiata, intorno alla centralina telefonica che permetteva le comunicazioni tra il Nord e il Sud del Paese, si stava scatenando una battaglia destinata a proseguire per 48 ore con efferatezze da entrambe le parti. Gli scioperi e le manifestazioni furono spontanei in tutto il nord, anche se la Cgil di Di Vittorio non perse tempo nel dichiarare lo sciopero generale e la Direzione del Pci, riunita mentre il ferito veniva operato, si associò stabilendo però che lo sciopero dovesse proseguire non oltre le 48 ore.

Di certo una parte del Pci dissentiva dall’indirizzo impresso da Togliatti e concordato con Stalin al ritorno dai 18 anni di esilio nell’Urss, con la svolta di Salerno del 30 marzo 1944: quello di un assoluto legalitarismo democratico e della rinuncia alla presa del potere per via rivoluzionaria. Però nessuno si illudeva su quale sarebbe stato l’esito di un tentativo insurrezionale. Il Pci non soffiò sul fuoco che divampò da solo, agevolato dalla linea dura adottata subito dal ministro degli Interni Scelba: vietò ogni manifestazione e il 15 luglio, in una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri, propose di dichiarare lo Stato di pericolo nazionale, che avrebbe comportato il passaggio della gestione dell’ordine pubblico dai Prefetti all’esercito. A fermarlo fu il no categorico di De Gasperi, per la quinta volta presidente del consiglio, che bocciò la proposta senza appello. Ma per due giorni la situazione al Nord fu davvero al limite della guerra civile: solo il 14 luglio si contarono, secondo le stime del Viminale, 16 morti, tra cui 9 poliziotti e 7 dimostranti. Due giorni dopo il contro complessivo sarebbe arrivato a 31 morti, 600 feriti, migliaia di arresti.

A impedire che la situazione degenerasse definitivamente concorsero diversi fattori. Per decenni si è ripetuta la favola secondo cui a salvare l’Italia dalla guerra civile sarebbe stato Gino Bartali, che a sorpresa e capovolgendo ogni pronostico aveva vinto il 15 luglio una delle tappe più impervie del Tour de France conquistando la maglia gialla. E’ una leggenda: anche se l’impresa sportiva di Bartali può aver avuto un effetto distensivo, si trattò comunque di una elemento di minima rilevanza. Molto più incisiva fu la notizia che il leader comunista era salvo. A tutt’oggi è impossibile dire cosa sarebbe successo se, in una situazione già esplosiva, fosse arrivata la notizia della morte del capo dei comunisti italiani. Probabilmente neppure i dirigenti del Pci sarebbero riusciti a frenare la furia dei militanti e delle masse operaie del nord.

L’elemento chiave fu però proprio la determinazione del Pci nell’evitare lo scontro frontale. Il 15 luglio la Cgil annunciò la fine dello sciopero generale, senza con questo evitare la scissione della componete cattolica che si sarebbe concretizzata una settimana più tardi con la nascita della Cisl. I deputati comunisti ritirarono la richiesta di dimissioni del governo e si adoperarono per far rientrare ovunque la rivolta armata. Togliatti, una volta ripresosi, li avrebbe comunque rimproverati per aver lasciato mano troppo libera ai manifestanti. La visione del “Migliore” era ancora una volta lucida, anche sul piano puramente militare. Le carte del servizio segreto militare, desecretate e pubblicate da Giuseppe Pardini nel suo Prove tecniche di rivoluzione, nel 2018, sostengono che il Pci potesse disporre di due “grandi masse di manovra”, una nell’area Emilia-Toscana e l’altra “nel triangolo Genova-Milano-Torino”, ciascuna tra i 25mila e i 30mila uomini “inquadrati, armati e dotati di munizionamento sufficiente”, alle quali dovevano aggiungersi diverse formazioni partigiane per un totale di altri 40mila uomini.

Il rapporto di forza rispetto ai circa 200mila uomini meglio armati e meglio inquadrati di polizia e carabinieri era tale da portare alla conclusione per cui “senza sottovalutare il valore di queste forze, si può affermare che esse possono essere controllate con sufficiente sicurezza”. L’insurrezione avrebbe dunque ricondotto “il comunismo italiano sulle posizioni di partenza che esso aveva vent’anni fa”. Nessuno ne era più consapevole di Palmiro Togliatti. Pallante fu condannato a 13 anni e 8 mesi, ridotti a 10 anni e 8 mesi in appello e a 6 anni, grazie a un’amnistia, in Cassazione. Era il 1953 e i pochi mesi ancora da scontare gli vennero condonati. Da allora e sino alla morte non ha più commesso alcun crimine. Ha sempre sostenuto di aver sparato “non all’uomo ma all’idea”. David Romoli

Furono i ragazzi di Berlinguer a spegnere il socialismo. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Aprile 2020

Condivido con Fausto Bertinotti lo spirito di apertura e di dialogo per un confronto serrato non certo per una rissa. Nel suo campo i dogmatici e i faziosi sono ben altri. Poi come Fausto sa bene i peggiori fra tutti sono i dorotei (che è una sorta di categoria dello spirito equamente distribuita in tutti i partiti e schieramenti) che preferiscono un rigoroso silenzio perché considerano un lusso inutile la battaglia delle idee e molto più efficace il ricorso alle tecniche della gestione del potere svolte direttamente o per interposto giornale o per interposto pubblico ministero. Con tutta questa genia, non con i comunisti-operaisti come Bertinotti, ho tuttora uno spirito più che “guerresco” (la guerra, quella vera, l’hanno fatta loro alcuni anni fa), ma duramente conflittuale.

Non è stato certamente l’operaismo, ma l’ultima versione del berlinguerismo, quella dei cosiddetti “ragazzi di Berlinguer”, che ha lavorato in modo scientifico a “spegnere”, come diceva Machiavelli, il socialismo italiano e Bettino Craxi. I “ragazzi di Berlinguer” non hanno affrontato il 1989, realizzando un proprio autonomo revisionismo che desse il senso di un trapasso culturale e storico dal comunismo italiano alla socialdemocrazia e all’Internazionale Socialista. È quello che invece hanno provato a fare con tutti i loro limiti e contraddizioni i tanto vituperati miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso e Ranieri) che non a caso sono sempre stati minoritari nel partito e in più di un’occasione hanno rischiato la pelle. Poi, per applicare fino in fondo anche al Pci quella che Togliatti chiamava “l’analisi differenziata” (che in effetti applicò quasi a tutti, anche ai fascisti, molto meno all’Urss), fra i “ragazzi di Berlinguer” ci sono state due opzioni: quella del tutto utopica di Achille Occhetto, che puntava a superare il comunismo italiano da sinistra recuperando temi e suggestioni da Pietro Ingrao, e quella, tutta fondata sulla realpolitik di D’Alema, Violante, Veltroni (al di là delle sue variazioni sul tema).

Come è noto il tentativo di Occhetto fu reso impraticabile da due lati, dallo stesso Ingrao che non voleva superare il comunismo, ma “rifondarlo” e, appunto, dalla componente “realpolitik” dei “ragazzi” che nel frattempo si era collegata in modo profondo a una parte dell’establishment bancario, mediatico, giudiziario di questo paese (esemplare il loro rapporto organico con la Repubblica di Scalfari e di De Benedetti) giocando tutta la partita sull’ingresso nell’area di governo. Questa componente ereditò, gestendola ad un livello più basso ma anche molto concreto, la preclusione berlingueriana nei confronti di Craxi per cui cavalcò fino in fondo quel giustizialismo ispirato sia da un’area della magistratura, sia da Repubblica, sia da un settore del mondo imprenditoriale italiano che aveva dovuto rassegnarsi a lasciar svolgere un ruolo egemone alle forze politiche, in primo luogo alla Dc e poi anche al Psi, fino a quando c’era stata la divisione del mondo in due blocchi e in qualche modo il “pericolo comunista”.

Quel pezzo assai aggressivo del mondo imprenditoriale ritenne che era venuto il momento di togliere la “delega” alla politica e ai partiti. Di conseguenza esso utilizzò il suo volume di fuoco mediatico, si liberò della Dc e del Psi cavalcando Mani Pulite. Lo fece con la massima faccia tosta perché proprio le grandi imprese, in primo luogo la Fiat, erano state l’anima strutturale del sistema di Tangentopoli che via via aveva coinvolto tutto e tutti, sistema di potere del Pci compreso. In quel sistema non esistevano certo dei poveri concussi come spiegarono nelle loro lettere ai Pm di Milano la Fiat e la Cir, Romiti e De Benedetti che sarebbero stati quotidianamente minacciati e rapinati dai perfidi e arroganti concussori nelle persone di Craxi, di Forlani e dei loro accoliti.

Siccome, poi, nello svolgimento dell’operazione a un certo punto qualcuno spiegò a “lor signori” e al pool di Milano che non si poteva far tabula rasa di tutte le forze politiche, ecco che, anche per ragioni di rapporti di forza, fu realizzato un atipico compromesso storico fra queste componenti dell’operazione di Mani Pulite con i “ragazzi di Berlinguer” che, come spiegò lucidamente Massimo D’Alema, ragionava rigorosamente in termini di occupazione degli spazi politici e di potere: «Eravamo come una grande nazione indiana chiusa fra le montagne con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista, in sostanza un progetto annessionistico. Come uscire da quel tunnel? Questo era il nostro progetto strategico: come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana che avrebbe segnato la disfatta della sinistra. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi.

Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affaristico avvinghiato al potere democristiano. Questo era il nostro vero dramma. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta, diventare noi il partito socialista in Italia». Tutto ciò si fondava su una grande mistificazione: come tu ben sai, caro Fausto, il Pci era fra i partiti italiani quello che aveva più fonti di finanziamento irregolare, sia detto senza alcun moralismo: dal finanziamento proveniente dall’Unione Sovietica alla rendita petrolifera dell’Eni, alle cooperative rosse, a una miriade di aziende private.

Non a caso, diversamente dai miglioristi, quel settore del Pds, forse con l’eccezione di qualche riflessione culturale sviluppata da Piero Fassino, fu assai parco sul terreno della revisione ideologica, ma invece assai aperto e attivo su quello delle privatizzazioni. In qualche caso, taluno dei “ragazzi di Berlinguer” si impegnò a tal punto su quel terreno da guidare anche una cordata di “capitani coraggiosi” venendo però contrastato dall’interno stesso del gruppo dirigente del Pds da parte di coloro che oramai avevano rapporti organici con l’establishment finanziario ed editoriale di questo paese. Queste sono le ragioni, caro Fausto, per le quali mantengo una contestazione di fondo che non è certo rivolta al “comunismo” come categoria dello spirito avendo anche la consapevolezza che la dialettica fra quella ipotesi culturale e quella socialista nel senso classico appartiene per larga parte a un passato prestigioso, ma certamente superato.

Invece anche per gli errori politici di Craxi e per il cupio dissolvi che caratterizzò ciò che rimase in campo del gruppo dirigente socialista, certamente nel ’92-’93 i “ragazzi di Berlinguer” vinsero la guerra nei confronti del Psi di Craxi, sia pure transitoriamente e illusoriamente. E allora per il sottoscritto e per altri compagni socialisti, in primis coloro che tuttora danno vita al Psi, a Mondo Operaio e ad alcune significative fondazioni, c’è oggi un obiettivo prioritario, quello di evitare che la storia del movimento operaio italiano si risolva, come è spesso avvenuto nel passato, nella storia fatta dai vincitori.

Credo che su questo terreno qualche risultato significativo è stato raggiunto per tre ragioni di fondo: perché c’è stato un lavoro autonomo fatto da alcuni storici di grande qualità: solo per fare qualche nome mi riferisco a Piero Craveri, a Simona Colarizi, a Andrea Spiri, ai dieci volumi costruiti da Gennaro Acquaviva e da Luigi Covatta; in secondo luogo perché da un certo momento in poi i “ragazzi di Berlinguer” hanno accuratamente evitato il confronto su questo campo preferendo occuparsi di altro e cioè di una gestione sempre più asfittica del potere; in terzo luogo perché alcuni dei più significativi intellettuali di origine comunista (Biagio De Giovanni, Beppe Vacca, Silvio Pons, lo stesso Istituto Gramsci) si sono collocati su una dimensione storico-critica più elevata, insomma, per usare una battuta di Antonio Gramsci, stanno lavorando “fur ewig”, al di fuori e al di là dello scontro che ha diviso i socialisti e i comunisti negli anni ’80 e ’90.

Dicevo che quella del ’92-’94 è stata per molti aspetti una vittoria transitoria e illusoria. Infatti avendo liquidato quello che era considerato il nemico principale, cioè il “social-fascista Craxi”, i “ragazzi di Berlinguer” hanno ritenuto di essere comunque arrivati a una piena conquista del potere politico e invece con loro sorpresa si sono trovati sbarrati il campo da parte di Berlusconi. Da qui prese corpo una sorta di bipolarismo anomalo, ben diverso dal bipolarismo europeo. Poi, anche in seguito alla devastante crisi economica del 2008-2010 quel bipolarismo è andato a gambe all’aria e ha finito col produrre i mostri con cui oggi ci troviamo a fare i conti, cioè il sovranismo razzista di Salvini e il populismo giustizialista e anti politico del Movimento 5 stelle. Non voglio scandalizzare nessuno, ma secondo me fra questi due mostri, la tematica berlingueriana della questione morale e della damnatio di tutti gli altri partiti e poi fra tutta la vicenda di Mani Pulite del ’92-’94, c’è un nesso, una sorta di consequenzialità.

Il grillismo e il sovranismo sono a mio avviso la conseguenza finale dei demoni messi in circolo addirittura da quel Pci che originariamente (dal 1945 in poi) era la forza politica più storicista, più impegnata nella valorizzazione della politica, del ruolo dei partiti, del parlamento e della mediazione: tutto ciò era una delle caratteristiche più significative del Pci, ma del Pci di Togliatti, non di quello di Berlinguer, alcuni tratti del quale (e le battute di Tatò esprimono lo spirito dei tempi) ha incorporato in sé stesso, con tutti gli aggiornamenti inevitabili. Ma più i tratti del VI Congresso dell’Internazionale Comunista, quello per intenderci del social-fascismo, che non quelli del VII, il Congresso dei fronti popolari (vedi a proposito di tutto ciò il bellissimo libro di Paolo Franchi). In questo quadro non capisco perché, caro Fausto, ti identifichi totalmente nell’ultimo Berlinguer, rappresentato come un generoso e appassionato interprete del movimentismo.

No, a mio avviso, l’ultimo Berlinguer fu rattrappito in un chiuso settarismo, certamente nobilitato da un impegno personale condotto usque ad effusionem sanguinis, per una spasmodica e disperata battaglia contro quello che era ritenuto il male e quindi come tale meritevole dell’onore delle armi come si deve a tutti i combattenti che credono fino in fondo nelle idee.

Ciò detto, vengo ad altre osservazioni sull’articolo così felicemente provocatorio di Fausto Bertinotti. A mio avviso il Psi di Craxi, degli intellettuali socialisti, del Progetto Socialista, della tematica sui meriti e i bisogni sviluppata da Claudio Martelli, e sul lavoro di governo di Gianni De Michelis, colse tempestivamente il cambiamento di fase del capitalismo: dal capitalismo fordista a quello del salto tecnologico, dell’innovazione, della fase globalizzante, che richiedeva in Italia una grande riforma dello Stato e rapporti di lavoro meno conflittuali e più partecipativi al limite della cogestione. In un certo senso si è trattato di una posizione che conteneva in sé anche elementi utopici perché una parte della classe operaia era su posizioni duramente conflittuali e una parte del mondo imprenditoriale era sulle posizioni di una sorta di marxismo alla rovescia (non la dittatura del proletariato, ma la dittatura degli imprenditori). Forse se tutto il movimento operaio italiano si fosse spostato sulle posizioni dell’innovazione, della partecipazione, al limite della cogestione sarebbe riuscito a influenzare gli indirizzi del capitalismo e a dare una sponda a quella parte di esso che, partendo da Adriano Olivetti, aveva una visione positiva e dinamica dell’attività imprenditoriale.

Del resto, come Fausto sa meglio di me, perfino sui fatti di Ungheria, per non parlare del piano del lavoro e di molti aspetti della politica sindacale, le posizioni di Peppino Di Vittorio erano molto spesso vicine al riformismo e al revisionismo socialisti, così come quelle di Luciano Lama sulla scala mobile nella sostanza erano molto vicine a quelle di Bettino Craxi e di Gianni De Michelis a testimonianza di una dialettica rispetto alla quale sempre il berlinguerismo ha rappresentato un elemento di rottura. Non a caso Enrico Berlinguer collocò Sergio Garavini accanto a Lama in funzione di guardiano del faro. Quanto poi alla tematica del “Vangelo Socialista” anch’io ritengo che Marx non sia un “cane morto” e che anzi ci offra strumenti di analisi e di interpretazione della realtà, Fausto, non di strategia della rivoluzione. Da quest’ultimo punto di vista la rivoluzione nelle punte alte del sistema capitalistico si è rivelata impossibile e l’unica via praticabile è tuttora quella che si può esprimere attraverso il compromesso socialdemocratico in molteplici versioni.

L’ipotesi marxista di rivoluzione nelle punte alte del capitalismo si è rivelata impossibile e impraticabile, mentre il leninismo, cioè quello che Gramsci chiamò «la rivoluzione contro il capitale», si è rivelato uno stupro storico che, parallelamente al nazismo, ha prodotto una delle versioni più aberranti del totalitarismo (gulag, antisemitismo e carestie).  Per altro verso, però, il capitalismo sta esprimendo una miriade di contraddizioni, di perversioni e di potenziali pericoli rispetto ai quali l’analisi marxista può offrire decisivi strumenti di lettura e di interpretazione funzionali anche alla sua correzione, al suo condizionamento, non alla sua eliminazione. Aggiungo che del capitalismo globalizzato, finanziarizzato e deregolamentato non tanto Marx, quanto Rudolf Hilferding con il suo Capitale finanziario può dare una lettura di straordinaria modernità: diceva Hilferding che l’eccesso di finanziarizzazione dell’economia colpisce entrambe le classi fondamentali del rapporto di produzione capitalistico, cioè gli imprenditori e la classe operaia.

Non si tratta di una questione puramente teorica perché purtroppo oggi la socialdemocrazia europea e lo stesso partito Democratico americano oscillano fra estremi opposti, entrambi segnati da drammatiche sconfitte politiche: da un lato Corbyn, chiuso nel suo dogmatismo paleomarxista, dall’altro lato nella vittoria di Trump non c’è stato solo l’indubbio appoggio datogli dal sistema di internet di Putin applicato alla manipolazione delle democrazie occidentali. C’è anche il fatto che a suo tempo le principali leggi di deregolamentazione del sistema bancario e finanziario americano – che hanno prodotto la crisi dei titoli tossici che ha distrutto fabbriche, pensioni, credito al consumo di tanti americani del ceto medio e della classe operaia – sono state firmate da un presidente il cui nome è Clinton, come il candidato democratico inopinatamente sconfitto da Trump, un presidente fatto davvero su misura per la partita geopolitica di Vladimir Putin, un genio delle mosse nello scacchiere della geopolitica.

Per concludere, colgo l’occasione per un’ulteriore riflessione. Di fronte alle singolari vicende proprietarie ed editoriali di Repubblica Eugenio Scalfari si presenta come il gran sacerdote del liberal-socialismo che evidentemente in questa qualità sta anche interloquendo da pari a pari con il Papa dei cattolici. Effettivamente alle sue origini Repubblica è stato il giornale dei liberal-socialisti. Poi però quel liberal-socialismo si è perso per strada: non c’entrano niente col liberal-socialismo né Berlinguer, specie nella sua fase della questione morale, della quale Scalfari fu l’ispiratore e Repubblica il braccio armato, né Ciriaco De Mita, per il quale sempre Scalfari fece una campagna elettorale dagli esiti disastrosi.

A sua volta Rino Formica rileva ironicamente che, a fronte della scomparsa ormai da trent’anni dei liberali e dei socialisti come forze politiche organizzate, in questi giorni c’è addirittura una sorta di inflazione nella presentazione di prodotti editoriali di varia dimensione (autentici giganti e iniziative lillipuziane) che si autodefiniscono come socialisti liberali. Giustamente Rino rileva che: «C’è troppa confusione sotto il cielo. Mi pare che non si tratta di nostalgie, ma di presentazione di prodotto ignoto coperto da vecchi marchi». Al di là di queste condivisibili osservazioni non si può fare a meno di rilevare che mai il sistema politico italiano, malgrado il dramma che stiamo vivendo, ha presentato caratteristiche così negative.

A livello di maggioranza da un lato c’è, come abbiamo già visto, un Movimento 5 stelle segnato da posizioni populiste e giustizialiste, temperate da un Pd che ha l’unico pregio di assicurare la tenuta di un rapporto con l’Europa, ma che è caratterizzato da una sostanziale assenza di progettualità politica di stampo riformista dominato dalla gestione emergenziale del potere e schiacciato dai meccanismi ereditari della sinistra Dc e del tardo berlinguerismo. A livello di opposizione, le posizioni sovraniste e razziste sono molto pericolose e sempre più contraddittorie con il centrismo popolare di Berlusconi. In mezzo a queste due involuzioni potrebbe farsi strada una forza socialista riformista a condizione che essa sia autonoma dagli opposti blocchi.

Purtroppo, però, di questa forza mancano una nuova leadership, una classe dirigente, iniziative mediatiche di peso, non autoreferenziali. Esistono invece una forte cultura politica e, per altro verso, tante individualità sparse, alcune delle quali segnate da personalismi francamente ridicoli con il tempo che passa. Ma dalla cultura politica e dalle singole individualità alla aggregazione di un soggetto politico realmente autonomo e di peso c’è un salto di qualità assai difficile da realizzare. Comunque, come si dice, mai dire mai. Fabrizio Cicchitto

Stesserati. Edoardo Sirignano su L’Identità il 28 Dicembre 2022

Letta perde tutto. Dopo venuti meno gli elettori, calano anche i tesserati. Il soggetto, guidato dal politico pisano, nell’ultimo anno si ferma a 50mila adesioni. Lo scorso anno erano 320mila. Ciò vuol dire 270mila simpatizzanti in meno. Un dato sulla crisi dem che vale più di mille parole. Stiamo parlando di una forza, che nel 2009, contava circa 800mila iscritti. La giustifica del Nazareno è il nuovo regolamento. Il 70% delle iscrizioni dovrebbe essere online. A deciderlo gli stessi vertici della casa rosa, secondo cui tale metodologia favorirebbe la trasparenza e quindi fermerebbe la cosiddetta “compravendita delle iscrizioni”. Una regola, d’altronde, giusta quando andavano di moda i pacchetti. Nessuno dimentica i cinesi in fila ai gazebo di Napoli. Il problema, però, è che da quando si è deciso di difendere la natura, eliminando plastica difficile da riciclare, è venuta fuori la verità, ovvero che rarità sono coloro che sono disposti a pagare 15 euro per contribuire a una creatura che oggi, come dicono le recenti statistiche e inchieste, tutto è, tranne che democratica. A versare la cifra, al contrario, sono sempre gli stessi.

Il congresso dei soliti

Se entro la fine delle operazioni congressuali, non si andrà oltre gli 80mila tesserati, risultato al limite dell’impossibilità, considerando le difficoltà emerse dopo il 25 settembre, saremo di fronte al congresso dei “soliti”. Considerando che in Italia ci sono oltre 5mila circoli possiamo tranquillamente affermare che alle prossime primarie voteranno i segretari, qualche dirigente o al massimo familiare. A levare il velo è proprio il vademecum, voluto dal docente parigino, oggi a capo di quella che viene chiamata la “setta progressista”. Secondo il nuovo regolamento, con un Pos si possono prendere al massimo due tessere. Si vincerà, pertanto, con “poco” o meglio ancora con “pochi”. Ecco perché le truppe cammellate saranno più che decisive per vincere. Nessuno potrà farne a meno, se non vorrà fare giusto quella che qualcuno chiama la comparsata. L’unico vantaggio è che, sulla carta, si dovrebbero demotivare i furbetti. Non ci dovrebbero essere più false tabelle. Niente di più sbagliato. Le scorciatoie esistono sin dai tempi della preistoria e certamente non basta qualche ammodernamento per farle scomparire. La differenza rispetto al passato è che stavolta non ci saranno più asiatici in fila, ma solo qualche scatoletta piena di bancomat e carte di credito. Gli unici ad essere penalizzati saranno solo i vecchi compagni, gli anziani delle regioni rosse, quelli che davvero condividevano dei valori, che non avendo lo strumento richiesto per partecipare, dovranno accontentarsi di manifestare le proprie simpatie davanti al tavolino del bar del paesello di appartenenza. Per essere parte integrante della comunità della Ztl voluta da Letta, non basta più l’ormai vecchia banconota da 5 euro. Bisogna strisciare, fare il bonifico al capobastone di turno, che così potrà inserire un semplice +1 sul proprio desktop. In un mondo che cambia, come insegna la stessa Greta Thunberg, i dromedari e probabilmente le pecore, prima o poi, non ci saranno più. Ecco perché il Pd, se non cambierà modus operandi, rischia di scomparire, a maggior ragione se il Conte di turno al posto di chiedere i soldi, li promette. Vedi reddito di cittadinanza.

Don Camillo e Peppone

Quel milione e mezzo di persone, che nel 2019, si recò ai seggi per votare il proprio beniamino democratico, stavolta, potrebbe restare a casa. A parte la burocrazia, a queste latitudini, non c’è nulla di nuovo. Per tale ragione, meglio fare un passo indietro: far ritrovare l’entusiasmo recuperando i rossi di Peppone e i bianchi di Don Camillo. Il problema, però, è che soprattutto i primi sono più divisi che mai. L’ultima candidatura di Gianni Cuperlo, nei fatti, serve a togliere solo voti a Schlein. I bianchi, almeno per il momento, sembrano essere più compatti. Non potrebbero bastare neanche gli appelli di Rosy Bindi, che ha chiamato a raccolta i cattocomunisti o Area Dem di Dario Franceschini, ormai uscita allo scoperto, per ribaltare gli equilibri e rendere più accesa la competizione. I democristiani attuali, gli ex renziani, tramite il governatore dell’Emilia Stefano Bonaccini sembrano aver completato da tempo il sorpasso. Bisogna, quindi, trovare ogni escamotage per evitare una rimonta, che però è ancora possibile. A guidare l’ex sardina ci sono vecchie volpi come Francesco Boccia e Michele Emiliano. Conviene, pertanto, far riemergere, sin da subito, le storiche divergenze all’interno della cosa rossa. Chi se la ride è il solo Matteo da Firenze. Quest’ultimo, dopo essersene fuggito nella sicura dimora di Italia Viva, sembra essere pronto per tornare nei preziosi salotti del Nazareno. Il primo amore, d’altronde, non si scorda mai. Solo Calenda non lo ha capito.

Tommaso Rodano per il Fatto Quotidiano il 28 dicembre 2022.

Quasi solitario, probabilmente final e pure un po' triste: per la prima volta in vita sua Dario Franceschini è salito sul carro della perdente, almeno secondo i sondaggi. Ieri l'ex ministro ha spiegato al Corriere della Sera le ragioni del suo appoggio a Elly Schlein e ha pronunciato - altra novità assoluta - incendiarie parole di rinnovamento: "La generazione mia e di Bonaccini ha guidato il partito a vari livelli dalla fondazione nel 2007 a oggi e ora è giusto che lasci il passo". Poi, ancora più netto: "Altro che gattopardismo, Schlein deve cambiare tutto: gruppi dirigenti, abitudini, rendite di posizione, respingendo compromessi al ribasso, anche se a proporglieli fosse uno di noi che la sosteniamo". 

Ecco, i "noi" che sostengono Schlein nel Pd sono in chiara inferiorità numerica: anche Piero Fassino ha deciso di puntare su Stefano Bonaccini e si è portato dietro gran parte dei suoi uomini in Piemonte. È quel Fassino che con Franceschini fondò AreaDem nel lontano 2009: in tutti questi anni i due hanno marciato insieme, la loro corrente è stata quella che ha dato le carte, più di tutte, nelle diverse stagioni del partito. Per i due è quindi la fine di un sodalizio ultradecennale, l'ultimo segnale della solitudine di Franceschini e della sempre più affollata transumanza dei dirigenti del Pd verso il carro del presidente dell'Emilia-Romagna. 

Negli ultimi tempi Bonaccini ha incassato l'appoggio dei sindaci Gori, Nardella, Ricci, Decaro e dei governatori Vincenzo De Luca e Michele Emiliano. (...) 

I suoi nemici maramaldeggiano: la scelta di Franceschini sarebbe ormai "un affare di famiglia", come ha ironizzato l'ex parlamentare Patrizia Prestipino, sposando la teoria per cui la vera sostenitrice di Schlein sarebbe Michela Di Biase, moglie di Dario. Quello di Prestipino, ieri, è stato uno dei pochi commenti all'intervista del Franceschini final. L'altro è di Alessia Morani, ancora un'ex renziana che oggi appoggia Bonaccini: "Franceschini è un politico di razza - ha scritto su Twitter - e mi stupisco che possa dire dall'alto delle sue sette legislature, capogruppo alla Camera, sottosegretario e ininterrottamente ministro che nel Pd dove è stato segretario deve 'cambiare tutto'. Magari iniziare a dare l'esempio facendo spazio, no?".

Da iltempo.it il 28 dicembre 2022.

Stefano Bonaccini non si aspettava l’attacco frontale di Dario Franceschini. L’ex ministro della Cultura è intervenuto a gamba tesa sul presidente della Regione Emilia-Romagna, sfidante di Elly Schlein per le primarie del Partito Democratico. 

Un’intemerata inaspettata e sorprendente, che ha il sapore di provocazione - scrive il Corriere della Sera - ed ha portato il governatore a sfogarsi con i propri collaboratori: “Io ho lavorato al Nazareno come responsabile enti locali per un annetto, poi me ne sono andato perché mi sono impegnato in Emilia-Romagna, dove per due volte di seguito ho vinto le elezioni”. 

Le parole di Bonaccini sono quelle di chi ha intenzione di rottamare la vecchia classe dirigente, proprio ciò che chiede Francescini investendo Schlein: “C’è un gruppo dirigente che è stato sconfitto e che per la maggior parte è sempre lo stesso da anni. Niente di personale, ma vi pare normale che nessun dirigente nazionale di livello sia stato candidato in un collegio uninominale per andare a prendere i voti a uno a uno? Se sei un leader devi dimostrarlo anche nel consenso”.

Evidente l’allusione a Franceschini, candidato capolista al Senato a Napoli. Che tra i due non ci sia un gran rapporto non è un mistero - nessuno è rimasto stupito della scelta di appoggiare Schlein da parte di Franceschini - e il quotidiano sottolinea come sia stato in particolare la rottura tra Pina Picierno e l’ex ministro ad aumentare le ruggini. La vicepresidente del Parlamento europeo non ha gradito la decisione di appoggiare la leader di Occupy Pd e in questa campagna per le primarie correrà con Bonaccini, di cui sarà la vice. Siluri a Franceschini sono arrivati da diversi anti-Schlein, tra cui Francesca Puglisi, Lia Quartapelle e soprattutto Alessia Morani: “Dario è un politico di razza e mi stupisco che possa dire, dall’alto delle sue sette legislature, che nel Pd, di cui è stato anche segretario, deve cambiare tutto. Magari dare l’esempio facendo spazio, no?”.

Vocazione parassitaria La stravagante arroganza di Articolo Uno che non riconosce la propria consunzione. Mario Lavia su L’Inkiesta il 20 Dicembre 2022

Reduce dall’ennesima figuraccia elettorale, la sinistra dalemiana non vuole ammettere che il progetto nato solo in reazione e in odio verso Renzi è ormai fallito

La spocchia ce l’hanno tanti politici, ovunque, a destra e a sinistra. L’arroganza ce l’hanno anche certi soggetti collettivi costituiti da persone che, in sé stesse, arroganti non sono ma che cementati dall’ideologia si sentono in diritto di «metter le brache al mondo», come scriveva Gramsci.

Emblematico è il caso di Articolo Uno, un partito che in limine mortis dovrebbe innanzitutto ammettere che il suo progetto è fallito. Il progetto fu troppo segnato dal sentimento di reazione e in odio viscerale verso Matteo Renzi, all’epoca leader del Partito democratico.

La storia della sinistra è costellata da odi profondi – sorvoliamo qui sulle tragedie che quegli odi scatenarono in passato – e in un certo senso si può dire che si nutre di queste passioni negative, ma un disprezzo come quello dei bersaniani verso Renzi è quasi irraggiungibile.

In questi anni hanno sempre avuto una sola idea fissa: eliminare Renzi e riprendersi il partito. Che poi, paradossalmente, è un partito, il Partito democratico, a cui non hanno mai creduto sino in fondo (come Massimo D’Alema, che se fosse stato per lui non lo avrebbe mai fatto) o lo hanno accettato nella misura in cui si avvicinasse alla reincarnazione del Pci più la sinistra democristiana: cancellato il Partito, il partito era meglio di niente, sempre una specie di Ditta è.

Fatta la scissione, la lista elettorale – Liberi e Uguali, Pietro Grasso: chi se ne ricorda più – negli anni non è riuscita a combinare granché: qualche posto, qualche sottosegretario, un ministro importante, gli uffici in Parlamento, qualche europarlamentare, molta presenza in tv con Pierluigi Bersani che, ormai ex deputato, collabora con Floris e Gruber. I voti sono sempre stati pochini.

Sinistra Ecologia Libertà, Possibile, Articolo Uno, Sinistra italiana, Liberi e Uguali, Rossoverdi e via nebulizzando la sinistra radicale non riesce mai a spiccare il volo, né tanto meno a unirsi.

Adesso la storia dei bersaniani è finita. D’Alema fa consulenze in tutto il mondo e politicamente è finito anche lui. Ci si sarebbe aspettati da Articolo Uno un’analisi dei motivi della sua rapida consunzione, non diciamo un’autocritica che a sinistra è ormai merce rarissima, ma insomma un atteggiamento più consapevole, misurato, modesto, semmai ringraziando il cielo di aver ritrovato il vecchio approdo e accontentandosi delle stanze che gli daranno al Nazareno. Macché.

L’ultima assemblea ha partorito un documento lungo – ça va sans dire – con spunti interessanti anche se tutt’altro che inediti disposti secondo l’ordine classico di questi testi: politica internazionale, economia, questioni sociali, Stato, ambiente, infine donne.

Con un paio di consigli al partito che gli sta aprendo le porte salvandoli dall’oblio: il Partito democratico metta la parola “lavoro” nel simbolo, perché infantilmente pensano che citare il lavoro sia la risposta al «liberismo da espungere», una favola che sta percorrendo tutto il coté giornalistico-politico da Lilli Gruber al Mulino.

E, ancora, si chiede al Partito democratico il «superamento nell’impianto statutario del nuovo partito di meccanismi di investitura personalistica della leadership», un giro di parole per dire addio alle primarie. E non può mancare infine il classico no all’aumento delle spese militari, tra l’altro confermato dal loro punto di riferimento fortissimo Giuseppe Conte nei suoi due governi, oltre che dal partito in cui stanno per entrare.

Enrico Letta, a cui ormai non resta che citare San Paolo («È giunto il momento di sciogliere le vele, ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho mantenuto la fede»), gli ha battuto le mani, clap clap, meno male che qualcuno è arrivato sennò che fase costituente era? Nel documento non si parla dello scandalo che riguarda Antonio Panzeri, ex europarlamentare (che tra l’altro pare che negli ultimi tempi dicesse peste e corna dei compagni di Articolo Uno), anzi, al nome «Panzeri» s’adontano pure.

Bersani ha fatto la battuta più fuori luogo che potesse fare: «Li conoscevamo, non abbastanza evidentemente e del resto se ci sono voluti cinque servizi segreti europei non era così facile capire…». Cioè non è stato garantista, poteva dire «vediamo come finisce», e nemmeno il contrario, cosa che avrebbe richiesto chiedere scusa. Loro sono «incazzati» (parola di Roberto Speranza), ma al pari della sinistra del Partito democratico (d’altronde sono indistinguibili) ritengono che sia sempre colpa di qualcun altro. Cadono sempre in piedi.

Reduci da un fallimento politico, s’incazzano pure, come quegli automobilisti che ti vengono addosso con la macchina, ne scendono e ti aggrediscono, loro che sono dalla parte del torto.

Antonio Polito, il Pd è solo correnti: "Un grande partito può sparire". Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 23 gennaio 2023

«Oramai nel Pd è sempre e solo una questione di gruppi e di correnti». È il giudizio che esprime, al telefono con Libero, Antonio Polito. Editorialista del Corriere della Sera, una decina di giorni fa ha scritto un articolo molto critico sul percorso congressuale dei dem scandendo una serie di «smettetela» rivolta alla classe dirigente del partito e agli sfidanti per la leadership.

Si è appena chiusa l’assemblea, ed è il commiato della leadership di Enrico Letta. Come possiamo inquadrare il momento? 

«Letta è stato una soluzione dignitosa, ma ben lontana dall’essere in grado di risolvere la crisi esistenziale del Pd. Infatti, la sua segreteria finisce con quello che di fatto è un tecnicismo politico».

Cioè? 

«Nel Pd entra una nuova-vecchia componente, Articolo 1, con un bizantinismo».

Spieghiamo. 

«Si è approvato una specie di mini manifesto, che ha uno scopo: consentire a quelli di articolo 1 di rientrare potendo dire ai loro militanti: “non è lo stesso partito di prima, perché c’è un nuovo manifesto”. Però poi si dichiara che questo manifesto non sostituisce il vecchio e comunque potrà essere cambiato con la nuova assemblea. Insomma, un manifesto dei valori senza valore. Un gran pasticcio. Alla fine, tutto si risolve con il rientro di Bersani e D’Alema nel Pd. Così si chiude l’era Letta. Adesso, con l’elezione del nuovo segretario se ne aprirà un’altra e vedremo».

Il percorso congressuale è sembrato più il confronto tra aspiranti nomenklature che tra visioni del mondo... 

«Il dibattito si è troppo a lungo concentrato esclusivamente su alleanze tra correnti, sul “chi sostiene chi”... Al contrario, un dibattito politico ideale sulle ragioni d’essere del Pd e su cosa fare nell’Italia di oggi non l’ho sentito. Si è invece discusso molto sulla scelta tra votare online o no, sulle primarie da fare una settimana prima o una settimana dopo. Incomprensibile per l’elettorato».

Fuori dal perimetro delle discussioni interne esiste ancora un “popolo del Pd”? 

«Esiste ancora. Si tratta di un partito di massa, che ha un radicamento territoriale diffuso, anche con un suo orgoglio storico».

A quale blocco sociale fa riferimento? 

«È un popolo di lavoratori dipendenti, soprattutto pubblici. Le difficoltà maggiori mi pare ci siano sempre con il cosiddetto “popolo delle partite Iva”, dei piccoli e medi imprenditori».

E il legame con il popolo dei disoccupati? 

«Si è completamente perso il contatto. Così come con il popolo del lavoro manuale, degli operai».

 Non è un caso che oggi Landini abbia avviato un’interlocuzione privilegiata con Conte. 

«È chiaro che, oggi, i 5 Stelle di Conte hanno lanciato una grande competizione a sinistra. Hanno fatto una grande cura dimagrante sul piano del consenso, perdendo tutta la componente del populismo di destra che pure c’era e che forse prima è andata alla Lega e adesso a Fratelli d’Italia. Ma hanno lanciato al Pd la sfida per superarlo come vera sinistra italiana. È un’operazione che ha fatto Melenchon in Francia, svuotando il partito socialista.

A testimonianza che anche un grande partito può sparire».

Il “mito fondativo” del Pd è nel discorso del Lingotto di Torino pronunciato da Veltroni nel 2007. Lei, in quell’anno, pubblicava un libro (Oltre il socialismo) che prefigurava la necessità di un partito liberaldemocratico. Il Pd lo è mai stato? 

«No. C’è stata una corrente di questo tipo, minoritaria, che ho sostenuto e che ebbe un ruolo abbastanza centrale nello scrivere le tesi del Lingotto. Veltroni, quando arrivò, trovò solo quel gruppo lì che aveva lavorato e ragionato su come avviare una fase nuova. Purtroppo, oggi gran parte del Pd pensa che l’aver fatto quelle scelte a quel tempo sia la causa delle difficoltà successive. Io invece credo l’esatto contrario, ossia che non aver seguito quelle tesi fino in fondo, annacquandole quasi da subito, o in una democristianeria compromissoria o in qualche rigurgito estremista di sinistra, spiega perché non è nato un partito nuovo».

 Tema alleanze. Il Pd si salva con il Movimento 5 Stelle o con il Terzo Polo? 

«Non mi pare così centrale questo argomento. Valeva prima del voto alle politiche, ed è successo quel che abbiamo visto. Oggi, che senso ha scervellarsi sulle alleanze? Quando si voterà per il segretario, le regionali già si saranno svolte. Poi il prossimo appuntamento saranno le europee, dove si va con il proporzionale. Continuare a discutere di alleanze significa solo fare un favore al Movimento 5 Stelle o a Calenda. Il Pd deve aprire la partita di cosa vuol fare lui, oggi, domani, in Parlamento e nel Paese».

"Nel Pd poco coraggio e troppa subalternità a certa magistratura". L'ex sindaco dem condannato e assolto. "Qualcuno è rimasto fermo al passato". Nicolò Rubeis il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«Il tema di una giustizia giusta dovrebbe unire. Nel Pd c'è un dibattito articolato: tanti dirigenti hanno una sufficiente padronanza della materia, ma ci vorrebbe maggior coraggio da parte loro». Simone Uggetti, ex sindaco dem di Lodi, nel 2016 fu arrestato e condannato a 10 mesi di reclusione con l'accusa di turbativa d'asta. Nonostante l'assoluzione in secondo grado nel 2021 la sua battaglia con la giustizia non è ancora finita. La Cassazione ha annullato la sentenza e Uggetti dovrà presentarsi di nuovo in Aula. «E andrò avanti. Ma tutto questo prescinde da me». Per questo «sono molto importanti» le prese di posizione del ministro Nordio. «Il vero banco di prova sarà la tenuta della sua maggioranza».

Uggetti, nel Pd non tutti la pensano come lei.

«Ci sono due macro argomenti. Intanto non tutti hanno superato culturalmente i fatti del 1992. Non solo quelli di scuola comunista, e questo riguarda anche Enrico Letta che non ha quella provenienza. C'è ancora subalternità rispetto a un certo modo di fare magistratura».

E l'altro?

«C'è la paura di non marcare le distanze dai 5 Stelle. Per qualcuno allearsi con loro è come un percorso obbligato per ricreare un campo di centrosinistra. Ma un partito come il nostro deve dimostrare di avere una propria cultura e autonomia anche sulle posizioni più difficili. E sono sicuro che questo non sia un tema che riguardi solo il Pd».

Si rischia di lasciare il garantismo al Terzo polo?

«Il problema è che il loro vero ispiratore è Matteo Renzi, che quando era premier ha fatto dimettere la ministra Federica Guidi che non risultava neppure indagata. È facile fare i formidabili quando non si è al potere ed è più difficile resistere agli attacchi politici e giudiziari quando si è al governo. Renzi ha avuto una vicenda personale robusta ma se avesse tenuto il punto sulla questione Tempa Rossa non so dire come staremmo oggi. Ha perso un'occasione, era all'apice del potere».

E ora la sta perdendo anche il Pd?

«C'è una fase di transizione e questi non sono temi che si definiscono in un giorno. C'è spazio, però, per un confronto tra sensibilità differenti. Mi auguro, a prescindere dal segretario che spero sarà Stefano Bonaccini, che ci sia la costruzione di una cultura garantista che non abbia il retropensiero dell'impunità».

Il 1992 come lo spartiacque per la sinistra?

«Diciamo che la sinistra ha una responsabilità politica duplice: nei confronti di Bettino Craxi, che ebbe un coraggio incredibile con quel famoso discorso in Parlamento. Con lui i magistrati non cercavano i reati ma la persona. Ma anche nei confronti di Silvio Berlusconi, che non è e non passerà alla storia come un santo, ma ha avuto decine di inchieste subito dopo il suo ingresso in politica. E non è normale. Ma c'è un'altra cosa da sottolineare».

Quale?

«Noto uno strumentale riposizionamento di Matteo Salvini che l'anno scorso ha promosso dei referendum sulla giustizia. La concomitanza con l'arresto di Messina Denaro l'ha portato a posizioni più caute che non si ricordavano così frequentemente nelle sue parole. E pure dentro Fratelli d'Italia ci sono sensibilità diverse, anche se Giorgia Meloni sta tenendo il punto difendendo Nordio».

Come commenta il dibattito sulle intercettazioni?

«Al di là di quello che si può pensare sulla persona, può essere utile la lettura del libro di Palamara. Identifica chiaramente come la triangolazione tra un partito, un magistrato e un giornale possa distruggere la vita di una persona. E le intercettazioni sono uno strumento formidabile che viene utilizzato da questa triade. Il tema non è come va il giudizio, ma la condanna preventiva a mezzo stampa che riporta spesso dichiarazioni parziali e decontestualizzate».

Quindi Nordio promosso fin qui?

«In pagella gli do un otto alle intenzioni, ma è ancora senza voto sugli esiti».

Dieci segretari in 15 anni: il Pd resta inchiodato al passato. Non c'è pace tra le fila del Partito Democratico a sei giorni dalle primarie che decreteranno il nuovo segretario nazionale, in un movimento che non riesce mai a farsi i conti allo specchio. Lorenzo Grossi il 20 Febbraio 2023 su Inside Over.

Se militanti e osservatori esterni non fossero ormai abituati ad assistere a svariate esilaranti sceneggiate di un certo tipo, a qualcuno potrebbe fare una certa impressione quello che sta capitando in questi giorni al Pd. Gli ultimi momenti di campagna elettorale per designare il prossimo segretario del Partito Democratico hanno il sapore di un film ampiamente già visto: una pellicola che potrebbe prendere a prestito il titolo di "Ricomincio da capo", celebre capolavoro del 1993 che, in lingua originale, era uscito nelle sale come "Groundhog Day" (ovvero "Il Giorno della marmotta").

Ma il personaggio di Phil Connors interpretato da Bill Murray, protagonista di quel film dal carattere scorbutico ed egoista, aveva avuto il pregio – nello sviluppo della trama – di riuscire a migliorare sé stesso e aiutare il prossimo. Il Pd, invece, dopo 15 anni abbondanti di storia, rimane costantemente avvitato in un loop temporale dove non intravede alcuna via di uscita: commette gli stessi identici errori del passato e, già che c'è, ne aggiunge anche qualcuno di nuovo. E dire che restare al governo per 11 anni senza vincere una sola elezione politica avrebbe dovuto già aprire più di una riflessione sul fronte dem. Ma, come sosteneva anni fa Curzio Maltese, il centrosinistra alla fine non è nient'altro che una "coa(li)zione a ripetere".

Il Pd si attorciglia su se stesso

Divisioni, litigi, autoreferenzialità, correnti, governismo, mancanza di proposte, perdita di identità, governismo, (presunto) senso di responsabilità, sfaldamento della base e l'intramontabile "analisi della sconfitta": sono solo alcuni dei refrain che ciclicamente tornano all'interno del Partito Democratico in occasione di una debacle elettorale oppure del completamento del percorso delle primarie. Il caso vuole che entrambi questi eventi politici capitino nel febbraio 2023, a distanza di neanche due settimane l'uno dall'altro. Il risultato che sta derivando da questo combinato disposto è quello di un Armageddon totale, dove i "notabili" del partito sembrano condannati a subire la stessa pena che Dante inflisse agli indovini: quella di potere guardare soltanto all'indietro.

È bastato infatti che Stefano Bonaccini – ora nettamente avanti nel voto dei circoli nei confronti di Elly Schlein, in attesa dei gazebo di domenica 26 – si lasciasse sfuggire un giudizio benevolo nei confronti di Giorgia Meloni che subito si è alzato in piedi Andrea Orlando per contrastare l'affermazione del presidente della Regione Emilia Romagna. Come se constatare il fatto che un'esponente politica che ha portato in dieci anni il proprio partito dall'1,9% al 26% è capace, diventasse automaticamente per certi dirigenti "intelligenza con il nemico". Gli stessi dirigenti che erano già responsabili dell'organizzazione nella segreteria di Walter Veltroni nel 2007. Anno dal quale il Pd perderà più di 6 milioni e mezzo di voti e farà fuori nove leader nazionali. Quello che trionferà domenica notte sarà il numero 10: una cifra tonda che però non porta per niente bene. Del resto, da "Dieci piccoli segretari" al finale di "Dieci piccoli indiani" il passo può essere estremamente breve.

Fulvio Abbate per mowmag.com il 27 giugno 2023.

Lo scrittore Fulvio Abbate ha deciso di diffondere attraverso MOW il suo trattato dedicato a una categoria dell’essere sociale e professionale definita “amichettismo”, che inquadra il contesto letterario, mediatico, editoriale, radiofonico “di sinistra” e la sua conseguente ambizione. Un omaggio ai lettori che, attraverso la nostra testata, è scaricabile gratuitamente (di seguito il link) 

Ciò che viene offerto ai lettori di MOW è il pdf gratuito del recentissimo trattato dello scrittore Fulvio Abbate, “L’amichettismo”, dedicato, appunto, a una categoria dell’essere sociale e professionale che lo stesso Abbate ha voluto sancire già da qualche anno con questo lemma ormai attestato nel dibattito e nella discussione pubblici. Dove l’amichettismo inquadra il contesto letterario, mediatico, editoriale, radiofonico, segnatamente “di sinistra”, nella sua prassi d’ambizione sistematica quotidiana. Si tratta di una seconda edizione ampiamente riveduta e corretta che fa seguito a una prima stesura diffusa dal suo stesso autore lo scorso mese in forma ristretta attraverso WeTrasfert. Buona lettura e diffusione. 

Fulvio Abbate nei mesi scorsi è stato insignito dell’onorificenza di Officier des Art et des Lettres dal Ministero della Cultura Francese. Il suo recente romanzo, “Lo Stemma”, un anti-Gattopardo, che ha tema la mediocrità come talento, è pubblicato da La nave di Teseo.

Estratto del libro “L’Amichettismo” di Fulvio Abbate il 27 giugno 2023. 

L’amichettismo non possiede autentico pensiero sulle cose del mondo, si affida semmai alle emoticon, ai cuoricini. L’amichettismo, socialmente, umanamente parlando, mostra un insieme chiuso di relazioni per lo più interessate. Il pensiero del singolo, dell’individuo, della persona si ritrova così sostanzialmente, al suo interno, precluso; assente è ogni vera libertà, negata la stessa fantasia, resta il dominio del conformismo. Ogni dialettica e giudizio propri cancellati, in nome di una ricattatoria complicità che potremmo definire tardo-adolescenziale.

L’amichettismo non custodisce autentiche parole, preferisce semmai il silenzio della complicità, i sottintesi, gli atti di fede. “Giuro…”, “Ti giuro…”, “Per te, per noi, sempre ci sarai, ci saremo…”, ed ecco l’ennesimo “smile”, le ciglia accostate, la bocca socchiusa, le promesse di eterno, stupido, amore militante. 

La lingua dell’amichettismo racconta un educandato ricattatorio, e mette fuori tutti gli altri. L’Altro, il mondo esterno al suo perimetro, al suo giardino fiorito di belle intenzioni percepito come sospetto, “nemico”, ombra minacciosa. 5 Nelle “comitive” del tempo analogico esisteva, sì, un dovere di piccina e candida complicità, primitiva solidarietà da “muretto”, “baretto”, “piazzetta”, “tavernetta”, “cantina”, tuttavia temporaneo, pronto a svanire con l’età adulta, così nel ritrovato disincanto dell’ironia infine conquistata. 

L’amichettismo pretende invece un’adesione perenne, ideologica, propria del ricatto sentimentale, qualcosa di pervasivo, claustrale, un patto di potere illimitato, eterno. “Tu stai con noi, tu sei noi…” Ancora emoticon: cuore, cuoricino, faccina che stringe a sua volta l’ennesimo sospiro ipocrita, e un altro piccino cuore ancora.

Un patto prossimo al giuramento di sangue dei mafiosi, travestito da solidarietà edificante; talvolta presuntamente “politica”, “civile”. Ogni altra parola, ogni altro segno, ogni distinguo, ogni gesto, nulla di tutto ciò è ammesso, compreso, accettato in presenza dell’attitudine amichettistica. La libertà personale infine cessa, muore, spira, addirittura risulta imperdonabile. Il prezzo da pagare per sentirsi parte del medesimo contesto.

6 *** L’amichettismo ha la pretesa sovrana di mostrare il Lato A del Bene. Nel Lato B si trova l’Altro, l’estraneo, l’escluso, la persona sospetta. Colui che c’è modo di marchiare come “rosicone”, lessico plebeo eppure utilizzato anche dai “laureati”, dai lettori delle rubriche di Concita De Gregorio. Si tratta di una propensione che nulla ha di virile, semmai una manifesta femminilizzazione del consenso all’interno di un insieme umano ristretto e definito, impenetrabile al “diverso”, a chi non sia riconosciuto appartenente alla medesima “razza gentile”. WhatsApp cinto dal reticolato virtuale della solita complicità.

L’amichettismo, tendenzialmente, per sua natura, si è imposto in un contesto subculturale che per semplicità definiremo “di sinistra”, nella convinzione manichea, quasi carceraria, che l’altrove sia da guardare, appunto, con sospetto. In nome di un obiettivo etico superiore. Eppure non c’è mai un vero sentimento antifascista nell’amichettismo. 

7 Le figure dell’amichettismo negano ogni autentico scambio di opinioni, idee, pensieri, note, chiose, impegnate come sono nel frattempo a montare di guardia alla trousse delle loro ragioni superiori indiscutibili. L’intelligenza, il pensiero critico, il liberatorio narcisismo individuale, personale, intimo, si ritrovano negati sotto un macigno in definitiva cattolico; la parola, la laicità sostituita da moine, ammiccamenti, espliciti e impliciti abbracci in presenza e perfino a distanza, sentimenti da fine quadrimestre in attesa della partenza per le vacanze della dialettica.

L’amichettismo, letterariamente parlando, assomiglia al tombolo da ricamo, all’imparaticcio a punto croce, evoca ancora strazianti, edificanti sospiri e ditalini, e tuttavia non c’è nulla di davvero profondamente erotico nella sua essenza. Piuttosto petting presuntamente intellettuale proprio di un’adolescenza estenuata ed estenuante: il possesso, l’atto di fede e appartenenza elevati all’ennesima potenza fucsia. Suo proprio colore simbolico, allegorico, “package”, la stessa confezione, la stessa tinta delle confezioni di candelette vaginali. Così nella convinzione della purezza, nell’incapacità di riconoscere il dissimile, nell’impossibilità di presentarsi al mondo, appunto, muovendo, ripeto, dal proprio sentire individuale.

8 L’amichettismo, si sappia, è una prerogativa, un’esclusiva della sinistra “con prenotazione obbligatoria”. A Destra, tra “fascisti”, tutto ciò si chiama invece atto di fede, rito del “Presente!”, “A noi!”, “Boia chi molla!”, e ancora baciamano a madama la marchesa, stretta di mano al generale di corpo d’armata, al notaio, al commercialista, inchino a sua eminenza. Il Rolex, si sappia, a dispetto dei luoghi comuni pronunciati dalla gente e dalla pubblicistica di destra, è prerogativa “borghese”, a sinistra si predilige semmai la linea Serra&Fonseca, prodotta da Michele Serra e moglie, Giovanna Zucconi.

Così annunciato dallo stesso Serra nel bugiardino “d’autore” accluso nella confezione: “Un nuovo profumo, che è anche una nuova maniera di usare il profumo. Di vivere il profumo, di giocare con il profumo. Eau de Moi è una magnifica fragranza unisex. Eau de Moi racconta in maniera ipnotica una natura dalle vibrazioni ancestrali. È insieme rullo di tamburi e canto mistico, è opulenza e astrazione. È materia primigenia (i legni, le terre, il fuoco, il mare) ma ha anche la grazia del paesaggio italiano che le generazioni hanno trasformato in un’opera d’arte”.

Sempre a sinistra, l’amichettismo viene coltivato come un fiore, un fiorellino, campanula di un dovere morale, idealizzato falansterio pervasivo dove il calore è comunque solo apparente, subordinato alle 9 gerarchie interne, nessun vero “soccorso rosso”, solo valore d’uso e di scambio nuovamente circonfuso di emoji. I guardiani, le guardiane, i portinai, le portinaie morali, le vigilesse, le custodi, le badesse, i badessi, le arpie, gli arpii dell’amichettismo giungono storicamente da una subcultura politica che per convenzione definiremo “buonista”, assente a ogni affermazione del conflitto. Negata è così la rivolta individuale, depotenziato in senso nuovamente sentimentale il nome stesso del filosofo Albert Camus, mai più “Mi rivolto, dunque siamo”.

Tutto ciò possibilmente in funzione di un obiettivo d’ambizione professionale - “carriera”, direbbero i semplici - sovente letterario, spettacolare, mediatico, giornalistico, festivaliero indicato tuttavia come “etico”; una forma di puro controllo del territorio dell’ambizione. Non c’è mai vero scambio di informazioni nel contesto, nell’insieme, nel “imbuto magico”, nell’angolo-cottura e nell’angolo-bagno degli amichetti e delle amichette. Perfino l’idea di “sorellanza” mostra qualcosa di claustrale nella realtà quotidiana e relazionale dell’amichettismo, sempre pronto per l’ennesima volta a negare l’estro, la fantasia della persona; finanche l’eros.

Pd, il patrimonio delle fondazioni annega in un mare di debiti. Sono 67 in tutta Italia, e sono state usate dai Ds per schermare un miliardo di beni del vecchio Pci durante la fusione con la Margherita. Contano in totale tremila immobili da gestire. Ma i bilanci sono quasi ovunque in perdita. Sergio Rizzo su L'Espresso il 24 novembre 2023

Dieci anni, hanno retto. Poi si sono dovuti arrendere ed è comprensibile che la cosa non abbia avuto pubblicità. L’ultimo giorno di maggio del 2017, mercoledì, Barbara Porcari è andata dal notaio per seppellire la fondazione di cui era presidente. «Isonzo», l’avevano battezzata il 10 ottobre 2007, quattro giorni prima della nascita del Partito democratico. Con scarsa fantasia, certo. Ma serviva allo scopo e questo era l’importante. Serviva a blindare in uno scrigno impenetrabile tutti gli immobili dell’ex Partito comunista della provincia di Gorizia. Come quella ne erano state create, a partire dagli ultimi mesi del 2007, altre 66 in tutta Italia. Un’operazione gigantesca, a tappeto. Necessaria secondo i suoi ideatori a mettere sotto chiave l’immenso patrimonio del Pci sopravvissuto alle varie traversie e rimasto in dote ai Democratici di Sinistra. 

Incombeva la fusione fra i Ds e la Margherita per far nascere il Pd, ma né l’uno né l’altra avevano alcuna intenzione di aprire i rispettivi forzieri e mettere in comune il contenuto. C’era un sacco di roba. I Ds possedevano, malcontati, circa 3 mila immobili. Per un valore di mercato non molto distante dal miliardo di euro. Dai garage alle sedi di partito, dagli appartamenti ai negozi, dalle case del popolo ai cinema, dalle botteghe artigiane ai capannoni industriali, e poi bar, ristoranti, palestre… Un tesoro sterminato, che si estendeva da Gorizia a Palermo, accumulato in 86 anni dai militanti del più grande Partito comunista dell’Occidente anche al prezzo di sacrifici inenarrabili. Perché mai condividerlo con gli ex democristiani? La Margherita invece non aveva un mattone, ma più di 200 milioni di rimborsi elettorali in pancia. Perché mai condividerli con gli ex comunisti? 

Perciò si scelse di comune accordo la strada di una fusione virtuale: tanto i Ds quanto la Margherita restarono in vita. E il Pd nacque senza un euro di dote iniziale. Già da quello si potevano intuire i problemi politici che sarebbero sorti. Ma mentre i soldi della Margherita potevano restare tranquillamente in banca sul conto gestito dal tesoriere Luigi Lusi (tranquillamente si fa per dire), gli immobili erano invece più a rischio. Molti erano le sedi Ds, che avrebbero però cambiato bandiera: a quel punto che cosa poteva accedere?

Bisognava studiare un meccanismo per schermare tutte le proprietà dell’ex Pci. Chi lo concepì, pare utilizzando pure spunti tecnici di super esperti come il notaio romano Gennaro Mariconda, era un ex comunista tutto d’un pezzo con un passato da ferroviere: l’abilissimo tesoriere dei Ds Ugo Sposetti. Ovvero l’uomo che aveva salvato quel tesoro così grande e prezioso dalla catastrofe dei debiti dell’Unità. Ogni federazione provinciale dell’ex Pci avrebbe creato una fondazione in cui trasferire tutti gli immobili, governata da un consiglio senza scadenza, a vita. E quando uno dei membri fosse venuto a mancare, sarebbe stato sostituito per cooptazione con il voto dei due terzi dei componenti. 

Questa era la regola generale, che secondo i piani doveva essere moltiplicata per 67. Assolutamente geniale. 

Un problema tuttavia esisteva. Ed era Walter Veltroni. Al segretario e promotore del Pd la pietanza non andava affatto giù. Anche perché se l’era trovata cucinata ancor prima di cominciare l’avventura, e senza la possibilità di dire la sua. Repubblica raccontò di un duro confronto fra Veltroni e Sposetti, con il segretario del Pd che avrebbe addirittura accusato il tesoriere diessino di voler creare «una struttura parallela». Parole grosse. Ma è certo che se fosse rimasto in carica Veltroni avrebbe tentato in ogni modo di far saltare quel meccanismo. Poi però si dimise e nessuno ci pensò più sul serio. 

Con il risultato che adesso, passati ormai 16 anni, non sembra nemmeno che le cose vadano per il verso giusto. E qui torniamo alla fondazione Isonzo. Dice tutto il verbale della liquidazione. C’è scritto che gli incassi degli affitti della controllata Immobiliare Isontina si sono andati assottigliando, che ci sono affittuari insolventi, che le entrate non coprono il costo dei mutui, che neppure vendendo parte del patrimonio, stante la situazione del mercato immobiliare, si potranno far tornare i conti. È un bagno di sangue, insomma. Non resta che chiudere baracca e burattini. Locali commerciali, un bar, una palestra… Che fine farà tutta quella roba? 

La verità è che molte delle altre 66 fondazioni soffrono per gli stessi problemi. Molti bilanci sono in perdita strutturale, compromettendo anche l’attività culturale che queste fondazioni dovrebbero promuovere con i proventi degli affitti. Prendiamo l’Immobiliare Porta Castello di Bologna, controllata dalla Fondazione Duemila. Ha 52 immobili, per un valore di bilancio di 18 milioni. Incassa 800 mila euro dagli affitti ma ha 3,7 milioni di debiti e nel 2022 ha perso la bellezza di 1,3 milioni.

Il presidente è Claudio Broglia, ex senatore del Partito democratico. Anche Daniele Buda, presidente della Società culturale ricreativa nuova Rinascita dell’associazione Aurora di Ravenna, proprietaria di immobili per 4,2 milioni compreso un bar ristorante, è un quadro del Pd. Segretario del circolo ravennate Porto Fuori. Forse è normale così, ma anche questo dettaglio fa capire alcune assurdità. 

Molti dei locali di proprietà delle fondazioni Ds sono circoli del Pd. Partito che spesso paga l’affitto, naturalmente modesto, a una società immobiliare (quando non direttamente a una fondazione) amministrata da un esponente del Pd ma che fa capo a un altro soggetto politico. Il quale però nemmeno esiste più. 

La fondazione Isonzo, per esempio, è presieduta da una esponente del Pd, Barbara Porcari, e nel suo consiglio, composto da militanti del Pd, c’è anche il segretario provinciale del Pd Marco Rossi. Ma la fondazione (ora in liquidazione) che controlla il patrimonio immobiliare non è del Pd. E questo è anche un bel problema per il partito. Come per le stesse fondazioni, che oltre a dover fare i conti con affitti calmierati, devono farli pure con le capacità gestionali di chi tiene i cordoni della borsa.

L’Immobiliare modenese, di proprietà della fondazione Modena 2007, ha accumulato negli ultimi due anni perdite per 400 mila euro. Dovute anche alla pandemia, che ha ridimensionato le entrate dei canoni «inclusi quelli dovuti dal Partito democratico, nostro principale affittuario». Ma pur con tutte le difficoltà possibili, che in una delle aree più ricche del Paese una società immobiliare con una quantità ragguardevole di locali adibiti a uffici chiuda i bilanci in perdita significa che qualche problema magari c’è. 

Vero è che il patrimonio rende meno di ciò che potrebbe. La Fondazione Bella ciao di Ravenna ha 9,9 milioni di euro di immobili e 136 mila euro di ricavi. Nemmeno l’1,4 per cento lordo. Con 8 milioni di patrimonio l’immobiliare Provinciale controllata dall’associazione La Quercia di Siena incassa poco più di 200 mila euro ma ne perde 100 mila. Alcune fondazioni, va detto, cedono al Pd le sedi in comodato, sì, gratuito, ma a patto che il partito si faccia carico delle rate dei mutui e delle spese correnti. Cosa che non sempre avviene. La fondazione perugina Pietro Conti, con un patrimonio di 7 milioni e 87 mila euro di incassi, lamenta nel bilancio 2022 che il Pd dell’Umbria deve ancora «onorare impegni» per 79.290 euro. Mica bruscolini. 

Anche per questo la vicenda della Isonzo dovrebbe servire da insegnamento. È proprio sicuro che quel marchingegno concepito con la motivazione di non disperdere il patrimonio del Pci abbia ancora un senso e non sia invece diventato una inutile palla al piede che disperde il patrimonio della sinistra?

Giulia Merlo per “Domani” il 26 maggio 2023.

Anche al tempo del governo Meloni, i grandi vecchi della politica rimangono sempreverdi. Uno di loro è Luciano Violante, che negli anni ha lentamente cambiato pelle, dismettendo i panni apertamente politici di ex dirigente prima del Pci e infine del Pd, per vestire quelli di tecnico. Sempre con una sfumatura di parte, ma fortificando le entrature a destra.  

Utili soprattutto ora che il colore dell’esecutivo si è fatto più scuro ed è alla ricerca di referenti e interlocutori non ostili. Non a caso, negli ultimi tempi Violante si è esercitato in articoli e interviste in cui ha allontanato timori sul fascismo, difeso la nomina di Chiara Colosimo al vertice della commissione Antimafia e criticato i contestatori della ministra Eugenia Roccella, al salone del Libro di Torino.  

Del resto, forte anche dell’aura istituzionale di ex presidente della Camera, la voce più ripetuta è la sua ambizione al Quirinale. Oggi fresco ottantaduenne, il bis del suo coetaneo Sergio Mattarella ne avrebbe tenuta accesa la speranza. Proprio questa sua vocazione alla trasversalità lo sta favorendo con il nuovo vento di destra. 

Negli ultimi tempi il suo è stato il nome più richiamato nelle locandine dei convegni d’area, a partire da quelli della fondazione Tatarella dove Violante è intervenuto per ricordare l’ex avversario politico ed è stato accolto più che calorosamente. 

Tanto da essere diventato ormai il jolly per coprire la quota “sinistra” in tavole rotonde istituzionali. Tuttavia, il ruolo di pontiere gli è sempre stato congegnale: a consolidarlo definitivamente come volto avversario ma non nemico della destra fu però un suo discorso del 1996 da neo presidente di Montecitorio, diventato celebre come l’apertura ai «ragazzi di Salò», in cui disse che serviva uno sforzo per capire le ragioni per cui tanti giovani si arruolarono per la repubblica sociale italiana. 

Non tutto il mondo intorno a Meloni, però, ama Violante e una parte di chi viene dalla destra sociale non apprezza ritrovare un ex comunista ma anche ex magistrato così vicino alla stanza dei bottoni. «Non tutti noi si sono dimenticati che Violante diventò Violante anche con le indagini che fece da magistrato su quelle che all’epoca venivano chiamate “trame nere”», dice una fonte dell’ex Movimento sociale di Roma. Violante, infatti, indagò sulla sigla terroristica neofascista Ordine nero e sui campi paramilitari in val di Susa.

Un passato considerato remoto per i suoi estimatori tra cui l’ex collega di toga e amico Alfredo Mantovano, oggi potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio – un’onta incancellabile invece per i più legati alle tradizioni post-fasciste. Il suo rapporto con il governo, però, è un fatto: corroborato anche formalmente con l’investitura – rivelata da l’Espresso – come presidente del Comitato per gli anniversari nazionali, la valorizzazione dei luoghi della memoria e gli eventi sportivi di interesse nazionale e internazionale. 

Un compito tanto altisonante quanto nebuloso, che però ne certifica il legame con la galassia che ruota intorno a palazzo Chigi. L’attività verrà svolta a titolo gratuito, ma un’entrata fissa per Violante è tornata comunque ad esserci. 

La fondazione 

Dal 2019, infatti, Violante è presidente della fondazione Leonardo-Civiltà delle macchine, un piccolo paradiso dal bilancio di 3 milioni di euro che ha l’obiettivo di essere «un ponte tra la cultura umanistica e industriale» ed è finanziata dalla super partecipata di stato Leonardo, che si occupa di difesa, aerospazio e sicurezza.

La fondazione è stata voluta dall’amministratore delegato Alessandro Profumo, che ha appena concluso il suo mandato. A lui si deve la chiamata di Violante, il quale per i primi tre anni ha rivestito la carica di presidente a titolo gratuito. Allo scattare del primo triennio e quindi dal 2023, però, è stato lo stesso Profumo a proporgli un compenso – accettato - da circa 300 mila euro per un impegno a tempo pieno.  

Cifra decisamente alta, in linea con quella di un manager d’azienda con responsabilità apicali. Cifra, del resto, in linea con quella che percepisce sempre da un incubatore di Leonardo anche un altro esponente del vecchio Pci, amico di Violante ed ex ministro dell’Interno, Marco Minniti. 

Nel 2021, infatti, Profumo ha creato un’altra fondazione che fa capo al colosso delle armi controllata dal ministero dell’Economia: Med-Or, che si occupa di intelligence e geopolitica dei paesi che affacciano sul Mediterraneo e del Medio Oriente. A presiederla ha chiamato proprio Minniti in qualità di esperto di sicurezza nazionale e lui, per diventarne presidente a circa 300 mila euro l’anno, a febbraio 2021 l’ex ministro ha lasciato il Pd e il parlamento.

La fondazione Civiltà delle Macchine, con i suoi 3 milioni di bilancio, è un perfetto ingranaggio inserito nella patinata vetrina di Leonardo. La fondazione si occupa di progetti di sviluppo e in questa fase sta investendo moltissimo sulla transizione digitale e sull’intelligenza artificiale, che sono anche il tassello fondamentale per il Pnrr. 

A voler riassumere gli obiettivi in uno slogan spesso usato da Violante, la fondazione si occupa di promuovere «l’umanesimo digitale». In pratica, si traduce in una fitta attività di convegnistica e di valorizzazione dell’immagine della società madre, Leonardo Spa.

Fiore all’occhiello, però, è la rivista “Civiltà delle macchine”. 

Fondata nel 1953 da Leonardo Sinisgalli dentro Finmeccanica e chiusa nel 1979, nel 2019 è tornata su carta in forma di trimestrale. Dal 2020 al 2021, direttore è stato Antonio Funiciello, che ha poi lasciato per diventare capo di gabinetto di Mario Draghi e lo ha sostituito l’ex giornalista Mediaset Marco Ferrante.  

La rivista può permettersi addirittura due direttori: a capo della parte online, infatti, c’è l’opinionista di riferimento del mondo conservatore Pietrangelo Buttafuoco, il cui nome è girato vorticosamente come volto amico del governo da portare in Rai. La fondazione, infatti, ha fatto da incubatore per una quota di personale tecnico che ha ruotato intorno agli ultimi governi. 

Sotto l’ala di Violante è transitato anche il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, di area leghista ma sostenuto da tutti e tre i partiti. Al momento dell’elezione il suo tratto biografico più noto, dopo quello di avvocato del governatore del Veneto Luca Zaia, era il ruolo di membro del comitato scientifico della fondazione Leonardo. 

Tutto questo, per un bilancio complessivo che risulta a Domani essere di circa 3 milioni di euro: tanti o pochi - soprattutto se ben spesi - a seconda delle prospettive. Certo è che le informazioni sono ben custodite. Dal fascicolo fornito a maggio 2022 all’assemblea degli azionisti di Leonardo, infatti, risulta che il fondo in dotazione assegnato alla fondazione è stato di 120mila euro (il minimo necessario per il riconoscimento della personalità giuridica) e che le principali voci di bilancio sono «costo del personale e costi per servizi».  

Il bilancio completo, però, non viene pubblicato sul sito ma, secondo gli obblighi normativi, solo depositato in prefettura. Se il compenso dei presidenti si equivale, il budget dei due think-tank paralleli è differente. Risulta a Domani che Med-or abbia un bilancio da circa 5 milioni di euro, con l’obiettivo di favorire le relazioni internazionali italiane e «il dialogo costruttivo tra sistemi economici». Circa 8 milioni, sommando le due fondazioni, per rafforzare – dentro e fuori l’Italia – il soft power di Leonardo. 

Pd, dopo Laus altri cinque indagati: una brutta storia di soldi. Luigi Cattaneo Libero Quotidiano il 05 maggio 2023

Mauro Laus è stato indagato dalla procura di Torino per malversazione e truffa. Laus è un deputato del Pd, sconosciuto ai più, ma non a Torino, dove viene considerato l’eminenza grigia del Partito Democratico. Di fatto, dopo il tramonto di Piero Fassino e Sergio Chiamparino, è il capo indiscusso del partito. Una forza che gli deriva dal passato e dal presente di imprenditore nel settore dei servizi (vigilanza e pulizie industriali) con la sua Rear, una ditta che Laus ha inventato agli inizi degli anni 90 e che oggi fattura oltre 30 milioni di euro, grazie anche alle commesse ottenute al Museo Egizio, a quello del Cinema, all’Università, al Teatro Stabile e in altri enti a Verona, Roma e Bardonecchia. E poi c’è il fatto che la Rear ha finanziato la campagna elettorale del sindaco di Torino Stefano Lo Russo («ma ogni spesa e ogni pagamento sono stati fatturati e sono tracciati, insomma, è tutto regolare», fanno sapere dall’entourage del primo cittadino).

AUTODIFESA SUI SOCIAL

Mauro Laus ha preso male il fatto che il suo nome sia emerso come indagato in questa inchiesta condotta dai pm Enrica Gabetta e Alessandro Aghemo e ha tuonato su Facebook invocando la riforma Cartabia: «È singolare», scrive Laus, «che la legge Cartabia abbia introdotto il divieto per gli Uffici della Procura della Repubblica e per gli ufficiali di polizia giudiziaria di fornire informazioni sugli atti di indagine senza formale e motivata autorizzazione e gli interessati vengano messi a conoscenza di essere indagati senza averne avuta prima alcuna informazione ufficiale. Alcuni giornalisti sono più informati di me». Il deputato non ha fatto in tempo a postare la sua protesta sui social che i nomi di due suoi fedelissimi, la presidente del Consiglio comunale di Torino Maria Grazia Grippo e l’assessore agli Eventi Mimmo Carretta (ex segretario provinciale del Pd) ed entrambi già dipendenti Rear, sono comparsi nelle carte giudiziarie, anche loro indagati per le stesse vicende che riguardano il capo corrente fedele a Stefano Bonaccini. Ad onor del vero, una volta eletto in parlamento (la prima volta in senato nella passata legislatura) Laus aveva lasciato la presidenza della Rear ad Antonio Munafò e il posto in consiglio di amministrazione (dove oggi siede la moglie del deputato), pur rimanendo socio della sua “creatura”.

Stando alle ipotesi dell’accusa, che prendono in esame il periodo compreso tra il 2018 e il 2022, la Rear avrebbe ricevuto finanziamenti pubblici per «attività e iniziative ben specifiche», ma i soldi sarebbero stati dirottati altrove. Da qui l’accusa di malversazione per Laus, chiamato in causa come amministratore di fatto. Di denaro pubblico si parla anche nell’ultimo bilancio della Rear. Nel documento contabile si dà conto che «nel corso del tempo, a fronte di investimenti produttivi regolarmente effettuati, Rear ha ricevuto sovvenzioni e/o contributi dalla pubblica amministrazione e/o da società controllate direttamente e/o indirettamente dalla stessa». Sarebbero questi i presunti fondi che, secondo l’ipotesi investigativa della Gdf, sarebbero stati distratti e destinati «a finalità private».

Infine, c’è da registrare che la Direzione generale per la Vigilanza sugli Enti Cooperativi e le Società del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha disposto ieri, su indicazione diretta del ministro Adolfo Urso, l'invio di «una ispezione straordinaria presso la cooperativa Rear, con sede a Torino. La procedura viene a seguito dell’avvio di un’indagine della procura di Torino per malversazione e truffa, che vede coinvolti avario titolo alcuni soci e dirigenti della società».

RESA DEI CONTI

Perché, oltre a Laus, Carretta e Grippo, ci sarebbero altri indagati, almeno otto, tra dipendenti della Rear e persone esterne alla ditta. In consiglio comunale a Torino, così come all’interno del Pd già si parla di resa dei conti, ma a gettare acqua sul fuoco è lo stesso Lo Russo che sembra non avere alcuna intenzione di ritirare le deleghe a nessuno, «così come non è intervenuto con un rimpasto», fanno sapere dal Comune, «quando si è trattato dell’assessore all’Urbanistica Paolo Mazzoleni», indagato a Milano per abuso edilizio. «L’amministrazione continua a lavorare con il massimo impegno, nell’esclusivo interesse della città e nel pieno rispetto del lavoro della magistratura», commenta il sindaco Lo Russo, mentre tutto intorno a lui, già si sussurra di un rimpasto in giunta e di un disegno (improbabile) orchestrato per indebolirlo. 

Inno alle foibe, botte e droga: lezioni di anarchia ai giovani. Nei collettivi e sui social, i gruppi antagonisti cercano di «educare» gli studenti. Che giocano alla rivoluzione. Francesca Galici il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.

Centri sociali e anarchici fanno ancora proselitismo in scuole e università. Niente di nuovo, una strategia che si ripete: una cantera di giovani volubili, sobillati da ideali rivoluzionari, che poi vengono messi nelle prime file dei cortei violenti, come si è già verificato in diversi episodi, anche recenti. Le occupazioni sono il pretesto migliore, i collettivi studenteschi il «piede di porco» delle organizzazioni per infiltrarsi nelle istituzioni scolastiche. Siamo entrati nelle chat di alcuni di questi per capire come funzionano e come si muovono, trovando conferme sul loro modus operandi.

Abbiamo individuato il leader di uno dei collettivi in un giovane non ancora maggiorenne, molto vicino a uno dei centri sociali più attivi nelle guerriglie No Tav. Lui stesso, come dimostrano i suoi social, ha preso parte agli assalti al cantiere di San Didero, l’ultimo nel giorno dell’Epifania. È a lui, figura più carismatica, che fanno riferimento tutti gli altri ragazzini, ammaliati dal fascino dello scontro violento con le istituzioni. Si sentono adulti che giocano alla rivoluzione, insultano gli «sbirri», parlano di «lotta armata» e condividono le foto, diventate celebri, degli Anni di Piombo a Milano. Dicono di volere lo «scontro» con le forze dell’ordine alle quali rispondere con le «botte», ma pochi messaggi dopo spiegano di non poter partecipare alle riunioni del collettivo, perché la loro mamma non vuole.

Il giovane leader inneggia alle foibe e nel Giorno del Ricordo ha cercato di coinvolgere gli altri giovanissimi a partecipare al contro-corteo per mettere in pratica gli insegnamenti del «laboratorio» seguito durante l’occupazione. Quale laboratorio? Quello dell’antifa-boxe. Durante l’occupazione, infatti, in uno dei licei sono stati organizzati alcuni incontri con personaggi esterni alla scuola, spesso provenienti dai centri sociali. Tra questi, appunto, anche quello di boxe-antifascista. Non è mancato il «corso sulla lotta No Tav», il tutto all’interno di un liceo statale, che per alcuni giorni è stato nelle mani di un manipolo di studenti. Nella maggior parte dei licei occupati, anche in quello a cui fa riferimento uno dei collettivi delle chat, si tengono incontri contro il 41-bis e in solidarietà con Alfredo Cospito, che vengono spesso organizzati e gestiti da personaggi vicini al mondo anarchico e dei centri sociali, esterni alla scuola.

L’occupazione a cui fa riferimento uno dei collettivi da noi seguiti è stata camuffata come un gesto di protesta nei confronti del ministro dell’Istruzione Valditara, anche solo per il fatto che sia vivo. Così si legge in una delle conversazioni che si trovano in questa chat, in cui gli pseudo-rivoluzionari parlano anche di cacciare gli «sbirri» in caso di tentativo di sgombero dell’edificio. Un trattamento che vorrebbero riservare anche al dirigente scolastico, per avere la massima libertà di azione. Libertà che, dal loro punto di vista, include anche quella di portare e consumare droga, come scrivono senza remora alcuna nelle loro conversazioni, quando parlano di ragazzi «fatti» durante l’occupazione.

Stando a quanto emerge dai messaggi che si scambiano a ogni ora del giorno e della sera, anche durante le ore scolastiche, a essere maggiormente coinvolti nei collettivi sono gli studenti delle classi inferiori, spesso quelli delle prime classi, che vengono forse attirati dall’idea di fare qualcosa di nuovo e di alternativo, senza comprenderne a pieno le implicazioni. Ragazzini che, appunto, vanno a scuola ed escono accompagnati dalla mamma e dal papà, ai quali gli impavidi «rivoluzionari» si preoccupano di non mostrare gli eccessi di queste occupazioni.

"Nel Pd poco coraggio e troppa subalternità a certa magistratura". L'ex sindaco dem condannato e assolto. "Qualcuno è rimasto fermo al passato". Nicolò Rubeis il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«Il tema di una giustizia giusta dovrebbe unire. Nel Pd c'è un dibattito articolato: tanti dirigenti hanno una sufficiente padronanza della materia, ma ci vorrebbe maggior coraggio da parte loro». Simone Uggetti, ex sindaco dem di Lodi, nel 2016 fu arrestato e condannato a 10 mesi di reclusione con l'accusa di turbativa d'asta. Nonostante l'assoluzione in secondo grado nel 2021 la sua battaglia con la giustizia non è ancora finita. La Cassazione ha annullato la sentenza e Uggetti dovrà presentarsi di nuovo in Aula. «E andrò avanti. Ma tutto questo prescinde da me». Per questo «sono molto importanti» le prese di posizione del ministro Nordio. «Il vero banco di prova sarà la tenuta della sua maggioranza».

Uggetti, nel Pd non tutti la pensano come lei.

«Ci sono due macro argomenti. Intanto non tutti hanno superato culturalmente i fatti del 1992. Non solo quelli di scuola comunista, e questo riguarda anche Enrico Letta che non ha quella provenienza. C'è ancora subalternità rispetto a un certo modo di fare magistratura».

E l'altro?

«C'è la paura di non marcare le distanze dai 5 Stelle. Per qualcuno allearsi con loro è come un percorso obbligato per ricreare un campo di centrosinistra. Ma un partito come il nostro deve dimostrare di avere una propria cultura e autonomia anche sulle posizioni più difficili. E sono sicuro che questo non sia un tema che riguardi solo il Pd».

Si rischia di lasciare il garantismo al Terzo polo?

«Il problema è che il loro vero ispiratore è Matteo Renzi, che quando era premier ha fatto dimettere la ministra Federica Guidi che non risultava neppure indagata. È facile fare i formidabili quando non si è al potere ed è più difficile resistere agli attacchi politici e giudiziari quando si è al governo. Renzi ha avuto una vicenda personale robusta ma se avesse tenuto il punto sulla questione Tempa Rossa non so dire come staremmo oggi. Ha perso un'occasione, era all'apice del potere».

E ora la sta perdendo anche il Pd?

«C'è una fase di transizione e questi non sono temi che si definiscono in un giorno. C'è spazio, però, per un confronto tra sensibilità differenti. Mi auguro, a prescindere dal segretario che spero sarà Stefano Bonaccini, che ci sia la costruzione di una cultura garantista che non abbia il retropensiero dell'impunità».

Il 1992 come lo spartiacque per la sinistra?

«Diciamo che la sinistra ha una responsabilità politica duplice: nei confronti di Bettino Craxi, che ebbe un coraggio incredibile con quel famoso discorso in Parlamento. Con lui i magistrati non cercavano i reati ma la persona. Ma anche nei confronti di Silvio Berlusconi, che non è e non passerà alla storia come un santo, ma ha avuto decine di inchieste subito dopo il suo ingresso in politica. E non è normale. Ma c'è un'altra cosa da sottolineare».

Quale?

«Noto uno strumentale riposizionamento di Matteo Salvini che l'anno scorso ha promosso dei referendum sulla giustizia. La concomitanza con l'arresto di Messina Denaro l'ha portato a posizioni più caute che non si ricordavano così frequentemente nelle sue parole. E pure dentro Fratelli d'Italia ci sono sensibilità diverse, anche se Giorgia Meloni sta tenendo il punto difendendo Nordio».

Come commenta il dibattito sulle intercettazioni?

«Al di là di quello che si può pensare sulla persona, può essere utile la lettura del libro di Palamara. Identifica chiaramente come la triangolazione tra un partito, un magistrato e un giornale possa distruggere la vita di una persona. E le intercettazioni sono uno strumento formidabile che viene utilizzato da questa triade. Il tema non è come va il giudizio, ma la condanna preventiva a mezzo stampa che riporta spesso dichiarazioni parziali e decontestualizzate».

Quindi Nordio promosso fin qui?

«In pagella gli do un otto alle intenzioni, ma è ancora senza voto sugli esiti».

È FINITA L’ÈRA DELL’INNOCENZA. Dai documenti di Biden al caso Qatar, gli scandali che la sinistra non affronta. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 13 gennaio 2023

Da Washington a Bruxelles, per la sinistra è finita l’età dell’innocenza, ma non è ancora iniziata l’era della maturità. I Twitter Files hanno aperto una breccia sulle derive illiberali nel campo dem in Usa. Lo scandalo è finito sotto silenzio, ma a quel punto sono spuntati quei documenti secretati che Biden ha omesso di restituire.

Cosa succede quando un leader politico fa dell’etica la sua bandiera, proietta la propria narrazione valoriale sulla sfera geopolitica, e poi però la sua credibilità frana? In teoria, dovrebbe esserci un vivo dibattito. Invece la progressiva erosione del campo a sinistra ci ha rassegnati ormai a reazioni molli.

E questo appare evidente anche in Europa: mentre i dirigenti del Pd si arrovellavano sulle modalità di voto per il loro congresso, intanto la credibilità della famiglia politica socialista in Ue subiva l’ennesimo colpo. 

Sinistra doppiopesista, ma Biden è come Trump. Lo scandalo delle carte top secret trovate a casa del presidente Usa tenuto nascosto dai media. Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 15 Gennaio 2023

Irresponsabile”, così, senza perifrasi, Joe Biden aveva definito il suo predecessore, Donald Trump, quando nella sua abitazione di Mar-a-Lago erano stati trovati documenti “classificati”, cioè segreti, da una squadra di agenti federali. Erano carte che avrebbero dovuto restare sotto vigilanza alla Casa Bianca perché concernenti nientemeno che la sicurezza nazionale.

Chissà se, nel mentre pronunciava quella inappellabile sentenza di condanna, Biden avrà pensato almeno un attimo che una situazione del tutto simile ma con lui protagonista avrebbe potuto presto arrivare sotto i riflettori e gli occhi di tutti? In verità, per arrivarci, quella situazione avrebbe faticato non poco, sapientemente occultata o sottovalutata fino a che è stato possibile da quei media mainstream che invece si erano fiondati come iene sulla vicenda concernente Trump.

Due pesi e due misure che minano ancor più la credibilità di quel “quarto potere” sulla cui indipendenza non a torto la retorica aveva un tempo costruito l’immagine tutta fasti della democrazia americana. Che oggi “i fatti separati dalle opinioni” nn siano nemmeno più un ideale regolativo, con la grande stampa impegnata in una campagna politica permanente a favore e beneficio dell’agenda progressista, lo dimostra la rete di protezione che si è messa in moto quando si è diffusa la notizia che anche nel garage della casa di campagna del presidente in carica in Delawere erano stati rinvenuti documenti che avrebbero dovuto essere secretati.

Insomma, Biden come Trump: né più né meno. Anzi, con una aggravante di non poco conto: la scoperta era avvenuta due mesi fa durante un trasloco ma la notizia non era stata divulgata subito probabilmente per non ostacolare la campagna elettorale del presidente impegnato nelle elezioni di mid-term. Fra i documenti ce ne sarebbero anche alcuni legati all’Ucraina, ove il figlio di Biden è implicato in una storia oscura di finanziamenti a laboratori che producono armi biologiche.

Davvero imbarazzanti le giustificazioni di Biden che ha prima tentato di minimizzare l’importanza dei documenti, che trattano invece di importanti questioni geopolitiche, e poi ha tentato di far credere che le carte fossero state postate per errore. Ora, comunque, sarà il procuratore generale Merrick Garland a indagare e cercare di far luce sull’intera vicenda così come sta facendo già da un po’ di tempo con la storia simile che ha coinvolto Trump. La morale p che anche in America la sinistra è doppiopesista e ipocrita: pronta a ingigantire le malefatte degli avversari ma tutta anche protesa a sminuire quelle della propria parte politica. Quanto a Biden, l’unica cosa che si può dire è che se giochi a fare il “puro” prima o poi arriva sempre qualcuno che è o si dice più “puro” di te. Corrado Ocone, 15 gennaio 2023

Da libertari a censori. Così negli anni Novanta la sinistra ha inseguito le sirene del politicamente corretto. Luca Ricolfi su L’Inkiesta il 6 Gennaio 2023.

Come spiega Luca Ricolfi in “La mutazione” (Rizzoli), i dirigenti del PDS-DS-PD costruirono la loro identità essenzialmente su basi etico-morali, in contrapposizione a una supposta grettezza e amoralità dell’elettorato della destra

Gli anni di Moravia e Pasolini, di Visconti e Antonioni, con gli intellettuali e gli artisti compattamente schierati contro la censura e a difesa della libertà di espressione, sono un ricordo lontano. Ormai la mutazione è avvenuta: difendere la libertà di espressione non fa più parte del DNA della sinistra, limitare quella libertà per far valere le ragioni del politicamente corretto è diventata un’opzione possibile.

Ma quando si è prodotta quella mutazione? Quando è accaduto che la sinistra smarrisse la sua vocazione libertaria, e incominciasse a inseguire le sirene del politicamente corretto?

Difficile indicare un momento preciso, ma a me pare che il periodo critico siano stati gli anni Novanta. È in quegli anni, infatti, che la globalizzazione falcidia i ranghi della classe operaia, tradizionale base di consenso della sinistra. È in quegli anni che nella sinistra riformista matura l’illusione che il mercato sia in grado di promuovere equità e merito, e forse pure la credenza che, tutto sommato, agli operai superstiti non sia necessaria una speciale protezione. È in quegli anni, infine, che la presenza e gli arrivi degli immigrati diventano massicci, e offrono alla sinistra una nuova opportunità di definire sé stessa.

È da questi cambiamenti epocali che, verosimilmente, ha preso le mosse il lungo percorso che – complice l’arrivo sulla scena del male assoluto Berlusconi – ha indotto i dirigenti della sinistra ufficiale a costruire l’identità del nuovo soggetto PDS-DS-PD essenzialmente su basi etico-morali, in contrapposizione a una supposta grettezza e amoralità dell’elettorato della destra.

Anziché cercare di darsi una base elettorale a partire da un programma economico-sociale, la sinistra ha provato a ridefinirsi come paladina dei nuovi ultimi (gli immigrati) e dei nuovi diversi (LGBT) e, al tempo stesso, come rappresentante della «parte migliore del Paese». Insomma come custode del Bene, argine insostituibile all’avanzata delle destre, fonte perenne di autostima per i propri elettori, sempre più reclutati fra i ceti medi istruiti e urbanizzati.

E come poteva, una sinistra siffatta, non entrare in sintonia con le istanze del politicamente corretto? Come non aderire a un movimento che proclama rispetto delle minoranze, difesa dei deboli, apertura ai diversi, lotta alle discriminazioni, antirazzismo, antisessismo, giustizia sociale, cultura dei diritti? L’antico riflesso condizionato, che per tanto tempo ha portato la cultura di sinistra a giudicare il comunismo per i suoi (nobili) fini, anziché per gli (ignobili) mezzi con cui ha tentato di imporli, ha condotto e conduce la sinistra attuale a giudicare il politicamente corretto per gli obiettivi di giustizia che proclama, anziché per gli strumenti illiberali che adotta.

(…)

Il vero pericolo che corre la sinistra è che la sua ostinazione nel difendere il politicamente corretto e le sue pulsioni censorie offrano alla destra una insperata occasione di intestarsi la difesa della libertà di espressione: una battaglia storicamente non sua, ma che potrebbe benissimo diventarlo in futuro. Sarebbe un esito paradossale, una sorta di secondo swap dopo quello delle basi sociali di destra e sinistra. Se questo dovesse accadere, ci troveremmo di fronte a un inedito assoluto: una destra che difende la libertà di espressione e raccoglie il voto dei ceti popolari, contro una sinistra che difende la censura e attira il voto dei ceti istruiti e delle élite.

Da “La mutazione – Come le idee di sinistra sono migrate a destra” di Luca Ricolfi (Rizzoli), 256 pagine, 18 euro

Qatargate. E l'ex Pci manda in soffitta la questione morale. Pure D'Alema archivia, in nome degli affari, la lezione di Berlinguer. Roberto Chiarini il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Vi immaginate Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti che lasciano la politica per consacrarsi alla consulenza di società (capitalistiche) internazionali? Quella del consulente è invece l'attività che Massimo D'Alema, comunista non pentito, si vanta di aver intrapreso. Al giornalista che gli chiede se non convenga con lui sulla dubbia compatibilità tra la sua originaria passione politica e l'odierna attività di consulente di governi stranieri e di multinazionali risponde che non va confusa l'attività di «consulente» con quella dell'«affarista». È improponibile ogni accostamento tra le sue collaborazioni con società internazionali con i traffici dell'ex compagno di partito Antonio Panzieri, nella cui abitazione di Bruxelles sono stati trovati sacchi sospetti di banconote.

È inoppugnabile - ci mancherebbe - la distinzione tra le due attività sul piano della legalità e pure su quello della moralità. La distinzione regge meno però (ma forse ci sbagliamo) sul piano dell'opportunità. Non è comunque su questo punto che ci sembra essenziale puntare l'attenzione, ma piuttosto su quanto questa mutazione di destini professionali sia rivelatrice di un'altra mutazione in atto nella sinistra italiana e europea. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che il mestiere di manager e di procacciatore d'affari stia diventando la vocazione principe di molte figure di ex leader della sinistra - da Tony Blair a Gerhard Schroeder fino a Massimo D'Alema: tutti ex primi ministri che a fine carriera abbracciano l'attività di business man, pronti a concedere la loro consulenza anche a uomini di stato che non vantano una coscienza democratica propriamente immacolata.

Contrapponendo l'affarismo alla consulenza, come fa il già lider maximo della sinistra italiana, ha voluto far intendere che è l'onestà ciò che fa la differenza. Con ciò, salva inequivocabilmente la sua personale onorabilità. Non coglie però il punto politico chiave della questione che sta alla base dell'impasse in cui s'è incagliata la sinistra ex comunista dopo l'abbandono dell'originaria fede anticapitalista. Politici e intellettuali di sinistra cercano di ridurre lo scandalo delle mazzette all'europarlamento solo a un fatto (indubitabile) di disonestà personale indicando la soluzione al richiamo della lezione di Enrico Berlinguer sulla «questione morale» quando l'allora segretario del Pci denunciava la degenerazione dei partiti ridotti a «macchine di potere» che «hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni».

La sua era certo una meritoria denuncia del malcostume politico ormai imperante. Era però anche un atto d'accusa rivolto all'intero sistema dei partiti su cui si era retta la vita pubblica nazionale dalla caduta del fascismo in poi contro cui veniva contrapposto il popolo tradito.

Non s'è mai prestata adeguata attenzione al fatto che con l'elevazione da parte del Pci della «questione morale» a stella polare della sua futura azione politica il Pci consumava il cambio di due suoi storici paradigmi culturali.

Il primo. Berlinguer superava l'idea del primato della politica che lo aveva permeato il partito per tutto il lungo dopoguerra conferendo al confronto politico un carattere «gladiatorio sui valori» e alla politica una connotazione «alta». Accantonava l'idea che sia la politica a determinare i grandi movimenti della storia, che «la persona venga giudicata in base all'ideologia cui ispira le sue azioni, non per la moralità o immoralità di quelle».

Il secondo paradigma con cui il Pci rompeva era con la precedente valorizzazione del partito a architrave di sostegno della democrazia. Ora individuava la lotta alla partitocrazia quale essenza del suo conclamato nuovismo. Portava acqua con ciò al mulino della tesi, allora popolare, di una società civile sana contrapposta a una società politica malata, e con ciò disarmandosi nei confronti dell'ordine di idee e di comportamenti propri della società capitalistica di cui «la consulenza» finisce per essere la fisiologia e «l'affarismo» la patologia.

Per queste ragioni, la perdita degli anticorpi dall'infezione affaristica che oggi la sinistra lamenta non può limitarsi ad attribuirla al venir meno della tensione morale che contraddistingue ormai la vita di tutti i partiti. Una responsabilità a monte va ricercata nell'aver sostituito di fatto la questione morale alla questione sociale come orizzonte strategico della sinistra.

La superiorità morale del Pci, storia di un tragico equivoco. Giovanni Vasso su L’Identità il 15 Dicembre 2022

I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero”. No, non è un post social di uno dei tanti populisti del web che si scagliano contro ciò che è diventata la sinistra. No, questa frase, che oggi farebbe suonare le sirene democratiche, è stata pronunciata da Enrico Berlinguer e raccolta da Eugenio Scalfari in quell’intervista, ormai mitologica, sulla “questione morale” nella politica italiana. Era il 28 luglio del 1981. “La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss”. Forse sono parole troppo dure, eppure la descrizione che Berlinguer fece quarantadue anni fa della Dc e (soprattutto) del Psi, che stava erodendo consensi ai comunisti, non è molto lontana dalla percezione che gli italiani hanno del (fu?) maggior partito della sinistra italiana che oggi sprofonda, letteralmente, nei sondaggi. La superiorità morale dei comunisti, più che un fatto politico è stato un dogma, una verità di fede, un preciso schema strategico. Tutti rubano, tranne il Pci. Tangentopoli avrebbe dovuto dimostrarlo, la sinistra italiana venne soltanto lambita dall’ondata di avvisi di garanzia che, invece, travolse il Psi di Bettino Craxi. “Ora legale, panico tra i socialisti”, fu il titolo non solo di un giornale ma di una stagione politica. Di Primo Greganti si parlò poco, così come del dossier Mitrokhin e dei rubli da Mosca, mentre infuriava, sulla parte avversa, la polemica Gladio. Achille Occhetto per un attimo ci aveva creduto: i Progressisti avrebbero portato, finalmente, l’onestà al potere. Arrivò Berlusconi nel ‘94, e vinse lui. Aprendo una nuova stagione in cui la sinistra, con il pio e dimesso Romano Prodi, si poneva come argine morale alla decadenza tele-bizantina di cui il Cav sarebbe stato simbolo e causa insieme. Finì anche quella stagione. E gli ex comunisti col santino di Berlinguer in tasca e la Santa alleanza con i democristiani (“buoni”, come scrive Paolo Cirino Pomicino) della Base, si scordarono di badare alla profezia di un grande socialista, Pietro Nenni: “A fare i puri, prima o poi, si trova uno più puro che ti epura”. Arrivò Beppe Grillo e il Vaffa day nel 2008. Fu respinto. Nacque il M5s su gentile (e auto-jettatorio) invito di Piero Fassino. Raccolse l’eredità dei puri, degli onesti, appropriandosi, nel 2018, di tutte le roccheforti che furono rosse. Cinque anni dopo, la parabola era già finita. Ma Giuseppe Conte, piuttosto che rintanarsi sulla questione morale, è sceso in campo agitando le ragioni dei ceti più poveri e del Sud. Gli fecero il funerale, ridacchiando di lui. Oggi si ritrova la possibilità di diventare lui il maggior partito di sinistra in Italia. Enrico Letta, puntando tutto sull’antifascismo, vecchio richiamo della foresta e insieme tentativo di aggiornare la questione morale inquadrandola su base ideologica, ha fallito. Il Pd deve cambiare ma con Bonaccini e la sua vice Schlein già è sotto il 15% dei sondaggi. 

Mozione Qatar. Il grande imbarazzo sulla nuova questione morale della sinistra. Mario Lavia su L’Inkiesta il 14 Dicembre 2022

Prima di trarre conclusioni bisogna aspettare le sentenze, ma la storia dei politici progressisti di Bruxelles merita comunque un chiarimento da parte dei leader vecchi e futuri del Pd e di Articolo 1

Nel tardo 1989, in una drammatica riunione del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca uno degli esponenti più autorevoli di quel partito, intervenne senza giri di parole: «Ligato è un uomo nostro, non possiamo tacerne». Ludovico Ligato era il presidente del Ferrovie, democristiano, ucciso nell’agosto di quell’anno per motivi mai chiariti.

Scalfaro contestava il silenzio dei suoi amici democristiani perché «è un uomo nostro» ma non ebbe successo e il silenzio perdurò. Ecco, la cosa che certe volte fa più paura è questo, il silenzio. Che può significare due cose: o è vergogna o è instupidimento.

Enrico Letta ha chiesto doverosamente chiarezza e annunciato che il Partito democratico si costituirà come parte lesa. Bene. Ma non ci ha detto minimamente come sia stato possibile uno schifo del genere nella sua famiglia politica. Qualcuno anzi si scoccia pure e si dice «incazzato».

Se sono incazzati loro figuriamoci gli elettori. Ci fosse uno che abbia chiesto scusa (premettendo alle scuse l’estenuante ma giusto richiamo al garantismo), che abbia detto una cosa tipo «non ce ne siamo accorti, era una così brava persona», come dicono quelli del piano di sotto quando arrestano l’inquilino del piano di sopra.

E allora: Antonio Panzeri è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Partito democratico e infine Articolo Uno per decenni. «È un uomo nostro»: la frase di Scalfaro non l’ha detta nessun dirigente. È possibile, per quanto inquietante, che nemmeno uno si sia accorto della personalità di costui, forse di un probabile cambio del suo tenore di vita, che so, di un qualche cosa che non quadrasse con il cliché di ex sindacalista votato alla causa dei lavoratori di tutto il mondo, segnatamente, da ultimo, del mondo arabo.

I vari europarlamentari del Partito democratico di questi anni non lo hanno frequentato? Gli assistenti, che a Bruxelles lavorano ora per uno ora per l’altro, non hanno notato nulla? Così come è possibile, anche se allucinante, che i socialisti europei, e in particolare greci, non si siano mai accorti di che tipetto fosse Eva Kaili, una compagna talmente capace da essere eletta vicepresidente dell’Europarlamento su designazione dei socialisti. È possibile, anzi è probabile, che nessuno avesse sospettato alcunché. Ma allora sono tutti degli sprovveduti, dei tontoloni, degli addormentati.

Tra tante persone intelligenti e oneste non uno che avesse rizzato le antenne: un tempo, dispiace dirlo, a sinistra non funzionava così. C’erano gli anticorpi. A partire dalla sensibilità dei dirigenti.

Si dice: le mele marce ci sono sempre. Sì, ma qui sta emergendo un sistema, una rete che probabilmente è stata pazientemente intessuta per anni. Al di là dei luoghi comuni, che dice Pier Luigi Bersani, ex segretario del Partito democratico e leader morale di Articolo Uno che si appresta a rientrare nel Partito democratico? L’arrestato non era un uomo suo? Ha parlato Matteo Renzi, come al solito polemico: Panzeri «se ne andò dal Partito democratico perché diceva che io ero contro i valori della sinistra. Ma quali erano questi valori?».

Renzi era segretario del Partito democratico quando nel 2014 Panzeri venne ricandidato, ma giova ricordare che le liste elettorali sono lottizzate tra le correnti ed è difficile che una corrente metta il becco sulle scelte delle altre: e anche questo nel Partito democratico ci sarebbe da correggere. E Articolo Uno, un partito così piccolo, non si accorge che c’è del marcio a Bruxelles che origina da un suo esponente? Nessuno se n’è accorto ma è proprio questo che sotto il profilo politico preoccupa.

Si aspettano i risultati delle indagini, com’è giusto, e poi dei processi, ma pare veramente difficile a questo punto pensare che si tratti di un errore giudiziario, visto che ci sono personaggi, come il padre della ex vicepresidente greca, che scappano con il bottino; e va sempre ricordato che le responsabilità penali sono personali.

Le responsabilità politiche però no, sono collettive. Sono dei partiti, Partito democratico e Articolo Uno che ormai è nel Partito democratico. Stefano Bonaccini ha ricordato Enrico Berlinguer e la questione morale: solo che ora la questione morale è un problema della sinistra. Quella sinistra che ha il dovere di capire e di spiegare come sia stata possibile questa roba soprattutto per rispetto dei suoi elettori, già frastornati dalla crisi di questi mesi a cui si aggiunge adesso la vergogna di «un uomo nostro» al centro di uno scandalo internazionale. Il grande silenzio è la risposta peggiore.

La lezione del teorico sardo. Gramsci e la questione morale: non è un valore ma strumento di lotta politica. Michele Prospero su Il Riformista il 29 Dicembre 2022

Dinanzi ad ogni scandalo politico, da ultimo quello dei contanti del Qatar, i commentatori recuperano l’intervista di Berlinguer sulla “questione morale”. E se invece si interrogasse di più un analista della crisi come Gramsci? La cosiddetta questione morale è, per il teorico sardo, una “arma ideologica”, come le altre, che può servire in maniera “eccellente” in vista di obiettivi contingenti. Però un uso demagogico della lotta alla “corruzione” è sconsigliato poiché essa, da strumento occasionale per resistere o approfittare di una situazione favorevole, si tramuta così in una maschera che confonde, manipola.

La questione morale, per Gramsci, costruisce una bolla ideologica che impedisce di cogliere i processi reali. “Che gli interessati a che la crisi si risolva, dal loro punto di vista, fingano di credere e reclamino a gran voce che si tratti della «corruzione» e della «dissoluzione» di una serie di «principi» (immortali o no), potrebbe anche essere giustificato: ognuno è il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo ed opera praticamente come fosse vero nella realtà effettuale che l’abito è il monaco e il berretto è il cervello”. Non serve la lamentela sulla decadenza morale, che è solo un aspetto, non la causa, della degenerazione. È essenziale, nella lente di Gramsci, comprendere le ragioni per cui “tutto l’organismo politico è corrotto dallo sfacelo della funzione egemonica”.

La crisi è un fenomeno complesso che appare con le sue “manifestazioni teatrali”, con la “crescente instabilità dei governi”. Si produce una sorta di governismo per cui partiti, fazioni e singole personalità danno luogo a “contrattazioni cavillose e minuziose”. Anche gli accordi personalistici più “scandalosi” sono recuperati per “formare il governo per salvare il paese”. In tutto ciò si avverte l’impatto di una “moltiplicazione dei partiti parlamentari”, con il rincorrersi di “crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti”. Secondo Gramsci, “le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale”. Ma, oltre le immagini della compromissione individuale, esistono le ragioni più durevoli di una questione che presenta molteplici strati. Di là dalla dimensione provinciale della micro-corruzione, quella che procede “sotto forma di pagliettismo meschino e di mania di bassi intrighi”, i Quaderni esplorano la corruzione come espressione di un “marasma”, cioè di una crisi di sistema che viene mascherata dalle calde accuse di slealtà che le parti politiche reciprocamente si scambiano.

I libri dei «destri» dipingono la corruzione politica e morale nel periodo della sinistra, ma la letteratura degli epigoni del Partito d’Azione non presenta come molto migliore il periodo del governo della destra”. L’uso strumentale degli scandali, che ogni partito rinfaccia all’altro rivendicando per sé un’immunità morale, rientra nella fisiologia della schermaglia politica. All’alternanza di governo, di fatto, non corrisponde un “cambiamento essenziale” e durevole delle pratiche che incida nel modo di essere della democrazia. E per questo, invece di cogliere le implicazioni generali della “debolezza generale della classe dirigente”, si accumulano demonizzazioni del regime parlamentare o rimpianti per la “crisi del principio di autorità”, da recuperare con qualche forma di “superstizione” politica. La radice della crisi, però, risiede non nella decadenza morale in quanto tale (“forse, nella realtà, la corruzione personale è inferiore di quanto appare”) o nella dimenticanza di “immortali princìpi”, bensì nella “assurda situazione politica” che raccoglie una dissolvente giuntura storico-critica a seguito della quale “l’apparato egemonico si sgretola”.

Dietro i toni scandalistici, nella lettura di Gramsci, esistono dati di sistema. Spicca, a destra, la mancanza di “un vasto partito conservatore” capace di arginare le variegate forze antisistema, “che negano in tronco tutta la civiltà moderna e boicottano lo Stato”. Al centro, si avverte la latitanza di una credibile aggregazione di tutte “le gamme liberali, dai moderati ai repubblicani, sui quali operano tutti i ricordi degli odi dei tempi delle lotte e che si dilaniano implacabilmente”. A sinistra, infine, affiora solo “in forma sporadica una serie di tendenze sovversive anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire costruttivo”. Agli occhi di Gramsci, in una politica a forti tinte personalistiche, la mancanza di partiti-società determina processi decompositivi. “Non esistono «partiti economici» ma gruppi di ideologi déclassés, galli che annunziano un sole che mai vuole spuntare”. Le parole si sganciano dalle cose, le formule anche più radicali si estraniano dai processi.

La radice di una tipologia di corruzione è connessa all’industrializzazione e alla sua civiltà. La crescita disordinata del moderno apparato produttivo determinò “una formidabile disoccupazione di intellettuali, che provocò tutta una serie di fenomeni di corruzione e di decomposizione intellettuale e morale, con riflessi economici non trascurabili. Lo stesso apparato statale, in tutte le sue manifestazioni, ne fu intaccato assumendo un particolare carattere”. Si tratta, per certi versi, di una corruzione connessa ai processi di modernizzazione che, nelle sue forme esteriori, è destinata ad essere riassorbita dalla crescita della società civile, dalla diffusione di una burocrazia affidabile e di un’etica individuale più matura.

Le manifestazioni di corruzione che i servizi segreti hanno smascherato nel caso qatarino, però, non riguardano i processi molecolari dello Stato in formazione, ma si riferiscono alle crepe dello Stato moderno, ridimensionato al cospetto delle trame mondiali di influenza. La scuola marxista di relazioni internazionali di Amsterdam, nelle analisi dedicate alle compenetrazioni potere-denaro, ripercorre alcuni passaggi di Gramsci. La suggestione che Kees van der Pijl (Class formation at the international level) recupera è soprattutto quella del concetto di corruzione da intendersi come degenerazione che esplode nelle fasi di crisi di egemonia, quando i regimi politici vedono eroso l’equilibrio storico di forza e consenso maturato nel governo efficace dei processi e nella capacità di direzione dell’opinione pubblica.

Si può leggere nei Quaderni: “Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica, presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti sia copertamente sia in caso di pericolo emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste”. Secondo van der Pijl, la crisi attuale della democrazia è visibile nell’usura storica della mediazione politica novecentesca. Per dirla con Gramsci, essa si manifesta con l’alterazione dei “normali” meccanismi vigenti “nel terreno divenuto classico del regime parlamentare”, risultante “dalla combinazione della forza e del consenso che si equilibrano variamente”. L’ordine mondiale definito nel dopoguerra ha perso validità, e sulla scena delle influenze irrompono nuove potenze regionali, emirati e Stati falliti, mentre fioccano offerte di consulenze, arbitraggi speculativi. Emergono trame nuove di potere, con le manovre di banche ombra e l’attivismo di frazioni di élite e centri di corruttela espressi da entità transnazionali (politiche, finanziarie, affaristiche, militari).

I grumi di potere scavalcano la mediazione dello Stato e vedono in movimento gli agenti del capitale internazionale. La corruzione diventa così uno strumento per agire nelle pieghe dell’economia e superare le difficoltà del consenso (per i costi sociali della globalizzazione e la privatizzazione dei servizi) e le scorciatoie della forza. Quello che Gramsci chiamava “l’esercizio «normale» dell’egemonia” è superato da intrecci denaro-potere che coinvolgono sia i paesi centrali che quelli periferici. La ricerca di van der Pijl ricorda che nella top 20 dei finanziatori miliardari di Obama figurano Soros, il gestore di hedge fund Paul Tudor Jones, le banche di investimento di Wall Street, insieme a Google, Microsoft e Time Warner, alcune università della Ivy League, la Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Citigroup, la svizzera UBS e Morgan Stanley. La stessa presidenza reazionaria del “miliardario anticonformista” Trump si configura come una coalizione di super ricchi aggregatasi per spremere il potere e conseguire opportunità di accumulazione. In essa la Goldman Sachs è rappresentata in modo preminente, con Steven Mnuchin come segretario al Tesoro e Gary Cohn come capo consigliere economico. Altri quattro esponenti sono attivi in dipartimenti importanti per inseguire la deregolazione finanziaria e la promozione di “mercati liquidi e vivaci” (ivi).

Sul piano storico, in America la crisi della forma politica si presenta con l’attivismo di imprese commerciali, società di consulenza, banchieri, fiduciari d’affari, responsabili di servizi finanziari che entrano nei ruoli direttivi delle amministrazioni. In Europa, invece, la crisi mobilita la funzione surrogatoria di banche ombra, dell’arbitrato finanziario, delle consulenze. Sorgono ministri tecnocratici, la Bce con la ricetta Trichet si tramuta in una sorta di ufficio del programma dei governi alle prese con la crisi. Il fenomeno delle porte girevoli tra politica e affari, con consigli di amministrazione ospitali per le élite politiche, assume risvolti evidenti: “Il presidente uscente della Commissione Ue Barroso non ha dovuto pensare a lungo a dove trasferirsi ed è succeduto a Peter Sutherland come presidente di Goldman Sachs International nel 2016” (van der Pijl).

La redistribuzione del potere si attua, nelle parole di Gramsci, “senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi cercando di ottenere che la forza appaia appoggiata sul consenso della maggioranza, espresso dai cosí detti organi dell’opinione pubblica -giornali e associazioni- i quali, perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente”. Se i media corrompono le coscienze con le manipolazioni della “politica della paura”, i giri del denaro e delle mediazioni, le manovre degli emirati e degli emissari transnazionali del capitale cercano di occupare il vuoto che la crisi della forma politica ha lasciato. Magari bastasse ripassare l’intervista del 1981 al segretario comunista per fornire una risposta alla privatizzazione della politica. Servono attori e culture per superare la crisi della democrazia, che nel populismo antipolitico trova alleati, non certo argini. 

Michele Prospero

Fu l’ultimo Berlinguer che rese giustizialista il Pci: nacque così il partito delle procure. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Dicembre 2021

Sulla vicenda di Mani Pulite il dibattito è sempre aperto e probabilmente non si chiuderà mai, malgrado gli appelli melensi ad una impossibile “memoria condivisa”: e poi “condivisa” fra chi? Fra chi ha fatto un autentico colpo di mano mediatico-giudiziario e chi lo ha subìto? Dopo un’autentica, anche se atipica guerra civile (gli avvisi di garanzia, gli arresti, i titoli dei giornali, i telegiornali, Samarcanda, gli editti in diretta del pool dei pm di Milano che sono stati il corrispettivo dei carri armati e dei paracadutisti per cui Curzio Malaparte potrebbe scrivere una nuova edizione del suo libro: Tecnica di un colpo di Stato) la memoria condivisa è impossibile, a meno che la storia non sia scritta solo dai vincitori. Ma su questo terreno invece i vinti si sono fatti sentire e continueranno a farlo.

Gli ultimi significativi contributi sull’argomento sono costituiti da due saggi sul Foglio, uno di Luciano Violante (Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia), l’altro di Paolo Cirino Pomicino (Le conversioni di Violante), da un libro assai vivace, con intenti giustificazionisti, di Goffredo Buccini (Il tempo delle Mani Pulite) e un altro di Pier Camillo Davigo, L’occasione mancata (ma la principale occasione mancata è costituita proprio dal libro di Davigo che invece di impegnarsi in una riflessione critica porta avanti, fra minacce e rinnovate condanne, una esaltazione di tutti gli atti del pool e dei suoi protagonisti ). I due saggi sul Foglio si pongono su piani totalmente diversi. Luciano Violante colloca il suo saggio in una dimensione che, per usare una espressione cara a Gramsci, è “fur ewig”, quasi che negli anni cruciali dal 1970 al 2000 egli sia stato uno studioso indipendente. Invece dagli anni ’70 agli anni ’90 Violante è stato uno dei fondatori del giustizialismo sostanziale, ha operato a monte del Parlamento nella costruzione di un rapporto profondo fra il Pci e alcune procure, e poi dalla presidenza della Commissione Antimafia ha contribuito ad elaborare testi assai importanti.

Invece Paolo Pomicino ha scritto il suo saggio con il cervello, con la memoria storica, e anche con la partecipazione di chi da un certo uso politico della giustizia è stato colpito in modo molto duro. Alla luce di tutto ciò Pomicino, nel suo saggio assai polemico, finisce con l’attribuire a Violante il ruolo di deus ex machina di tutto quello che è accaduto. Invece, a nostro avviso, se si vuole andare davvero al fondo della questione, bisogna fare i conti con la storia del Pci dal 1979 in poi. Se li facciamo vediamo che è “l’ultimo Berlinguer” ad essere alle origini di tutto, compresa l’involuzione giustizialista dal Pds. L’azione politica sviluppata dal gruppo dirigente che ha cambiato nome al Pci e ha fondato il Pds (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino e, appunto, Violante) è in assoluta continuità con quel lascito berlingueriano. “L’ultimo Berlinguer” (descritto in modo magistrale in un saggio di Piero Craveri sulla rivista XXI secolo – marzo 2002) ha prodotto due guasti.

In primo luogo ha accentuato, non ridotto, le divisioni verificatesi fra il Pci e il Psi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria: certamente Togliatti era un sofisticato stalinista e anche dopo il XX Congresso lavorò per ricostruire su nuove basi il legame di ferro con l’Urss. Però Togliatti non fu mai un giustizialista (la sua scelta per l’amnistia ebbe un significato profondo) e dal 1944 al 1964 mantenne sempre ferma la scelta strategica fatta dall’Internazionale comunista nel VII Congresso (I fronti popolari, il rapporto preferenziale con i partiti socialisti, la linea gradualista in Europa) e quindi non regredì mai verso il settarismo del VI Congresso (1928) fondato appunto “sul socialfascismo”. In secondo luogo Berlinguer con la sua enfatizzazione della questione morale e con la sua damnatio degli “altri partiti” (quasi che il Pci fosse davvero “diverso” da essi sul terreno del finanziamento irregolare) ha rappresentato una delle fondamentali scuole di pensiero (quella di sinistra), che hanno ispirato la successiva affermazione della demonizzazione dei partiti e dell’antipolitica.

Le altre scuole su questo terreno sono state tutte di destra o di ispirazione confindustriale e poi sono state anche quelle che hanno drenato più consensi. Di fronte all’ascesa di Craxi alla presidenza del Consiglio Berlinguer scartò nettamente la proposta del segretario della Cgil Luciano Lama che era quella di dare una sponda politica e sindacale alla novità costituita dal fatto che per la prima volta un socialista diventava presidente del Consiglio. Anzi Berlinguer fece la scelta del tutto opposta, quella della contrapposizione frontale. Ciò derivava da un’analisi totalmente negativa su Craxi e sul gruppo dirigente socialista sviluppata nel ristretto laboratorio cattocomunista che assisteva Berlinguer nella definizione della politica interna (invece in politica estera egli aveva una autonomia assoluta e faceva tutto di testa sua). In una lettera del 18 luglio 1978 Antonio Tatò, uno dei due consiglieri di Berlinguer in politica interna, scriveva “Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un nemico dell’unità operaia e sindacale, un nemico nostro e della Cgil, un bandito politico di alto livello”.

Di lettere su questa falsa riga ce ne stanno altre. Partendo da un’analisi siffatta in una riunione della direzione Berlinguer sostenne che il Psi puntava ad acquisire la direzione del paese con la presidenza del Consiglio addirittura “sulla base di uno spostamento a destra” dell’asse politico. Berlinguer ammonì “di non dimenticare il periodo del cosiddetto “socialfascismo” in cui le socialdemocrazie avevano aperto la strada alla reazione e al nazismo con le loro posizioni antipopolari e antioperaie (attorno agli anni ‘30) per cui si potevano controllare i toni della polemica ma sarebbe stato un errore non mettere in chiaro la pericolosità della posizione del Psi”. Per chi conosce il valore di certe espressioni “simboliche” del linguaggio comunista la frase usata da Berlinguer a proposito di Craxi sul “socialfascismo” aveva un significato profondo. Da qui una scelta politica di fondo: il nemico da battere era il Psi di Craxi. Per altro verso l’alternativa lanciata a Salerno era contro tutto e tutti. Gli unici alleati possibili erano la sinistra cattolica e quella democristiana. Arriviamo così al 1989.

Cossiga capì subito che il crollo del comunismo avrebbe avuto conseguenze non solo per il Pci ma anche per la Dc, per il Psi e per i partiti laici. Egli sostenne l’esigenza di una profonda autocritica da parte di entrambi gli schieramenti contrapposti che duranti gli anni della guerra fredda avevano messo in atto molte illegalità. Questo invito fu nettamente respinto prima dal Pci di Berlinguer poi dal Pds e anzi Cossiga fu addirittura criminalizzato. A quel punto i cosiddetti poteri forti (dalla Confindustria a Mediobanca alla Fiat alla Cir, ad altri grandi gruppi) ritirarono la loro delega alla Dc e al Psi e anzi manifestarono forti propensioni per l’antipolitica e ancor di più una netta repulsione per la “repubblica dei partiti” e per le imprese pubbliche. Di conseguenza il Pds fu di fronte ad una scelta di fondo.

I miglioristi proposero di rispondere a tutto ciò con la formazione di un grande partito socialdemocratico e riformista e comunque con l’unità fra il Psi e il Pds. Invece sulla base dell’analisi e della linea politica di Berlinguer la risposta di coloro che Folena appellò in un suo libro I ragazzi di Berlinguer fu di segno opposto e fu espressa in modo lucido da Massimo D’Alema: “Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo cambiare nome. Volevamo entrare nell’Internazionale socialista, dunque non potevamo continuare a chiamarci comunisti. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi, era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che aveva lo svantaggio di essere Craxi.

Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affarista avvinghiato al potere democristiano. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista” (Fasanella-Martini: D’Alema). Qui è il punto cruciale. Quando in seguito alla presa di distanza dai partiti tradizionali da parte dei poteri forti decollò il cosiddetto circo mediatico-giudiziario alle origini il Pds non ne faceva parte, tant’è che tremò sapendo bene di essere inserito a suo modo nel sistema del finanziamento irregolare dei partiti. Questa fu la ragione per cui Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani.

A sua volta per una fase Borrelli accarezzò l’idea che a un certo punto “il presidente della Repubblica come supremo tutore” avrebbe “chiamato a raccolta gli uomini della legge e soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo una folla oceanica sotto i nostri balconi, ma un appello di questo genere del capo dello Stato”. Quando fu chiaro che ciò non sarebbe avvenuto il vice procuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, ebbe buon gioco a convincere Borrelli e gli altri che il pool aveva bisogno di un partito di riferimento e che esso avrebbe potuto benissimo essere il Pds, visti gli ottimi rapporti che il Pci aveva avuto con alcune procure strategiche (Milano, Torino, Palermo). Ecco che così il Pds ebbe un rapporto speciale con il pool di Milano e attraverso di esso poté procedere alla occupazione dello spazio storicamente coperto dal PSI distruggendolo per via mediatico-giudiziaria. In una prima fase questo disegno non fu contrastato dalla Dd perché Antonio Gava si illuse che consegnando Craxi e il Psi “ad bestias” tutta la DC si sarebbe salvata.

Le cose non andarono così: quando la ghigliottina si mette in moto essa non si arresta facilmente: in quel caso essa fu interrotta solo per la sinistra democristiana. A proposito di tutto ciò valgono le osservazioni fatte da un personaggio al di sopra di ogni sospetto come Giovanni Pellegrino, del Pds, già presidente della Commissione Stragi: “l’innesto di alcuni magistrati come Luciano Violante nel gruppo dirigente aveva finito col cambiarne (del Pds, n.d.r.) la cultura. Comincia a nascere un “partito delle procure” e si forma una corrente di pensiero secondo cui i problemi politici si risolvono con i processi. Il gruppo dirigente del partito era convinto che cavalcando la protesta popolare e con una riforma elettorale maggioritaria un partito del 17%, quale era allora il Pds, avrebbe conquistato la maggioranza assoluta dei seggi […]. Occhetto e parte del gruppo dirigente pensavano di avere il monopolio della astuzia […]. La nostra astuzia era al servizio di un disegno fragile che alla fine ha prodotto Berlusconi. Berlusconi è nato perché a sinistra in tanti erano convinti che la magistratura poteva essere la leva per arrivare al governo” (in G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Bur). Questi a nostro avviso sono gli elementi fondamentali di una vicenda che ha segnato in modo profondo la storia del nostro paese.

Comunque fra i protagonisti di quella stagione Violante è l’unico che negli anni 2000 ha portato avanti una riflessione critica e sostanzialmente autocritica. A parte il suo lungo articolo sul Foglio Luciano Violante ha il merito di aver fatto una battuta fulminante per commentare la situazione in cui si trova attualmente la magistratura italiana: “la prima riforma della giustizia da fare è quella della divisione delle carriere fra pm e cronisti giudiziari”. Quella battuta ci porta direttamente al libro di Goffredo Buccini. Nel 1992 Buccini era un giovanissimo giornalista del Corriere della Sera. Egli ricostruisce dal lato dei cronisti giudiziari quella che non fu una rivoluzione, ma una confusa guerra civile. Le rivoluzioni sono cose serie e producono anche una nuova classe dirigente di livello, una nuova cultura, nuovi valori. Le cose invece con Mani Pulite non sono andate così: sul mucchio selvaggio dai giovani cronisti descritti da Buccini, sugli avvocati accompagnatori, sugli imprenditori e su alcuni politici presi dalla sindrome di Stoccolma, si innestò una operazione politica fondata sulla scelta di due pesi e di due misure, uno adottato a favore del Pci-Pds e della sinistra democristiana, l’altro per colpire Craxi, i segretari dei partiti laici e l’area di centro-destra della Dc.

Ciò è avvenuto, come abbiamo già visto, perché i poteri forti dopo il 1989 hanno ritenuto di interrompere il loro rapporto globale (compresi i finanziamenti) con i tradizionali partiti di governo (Dc, Psi, partiti laici) per cui hanno dato licenza di uccidere agli organi di stampa da loro condizionati anche andando incontro nell’immediato ad alcune difficoltà di immagine e anche a vicende giudiziarie risolte come fecero Romiti e De Benedetti con alcune confessioni-genuflessioni fatte al pool dei pm di Milano. Di conseguenza un nucleo ben assortito di pm della procura di Milano non ha avuto più alcun condizionamento e si è scatenato “sulla politica”. A quel punto però se la razionalità e specialmente l’equanimità avessero prevalso sarebbero stati ipotizzabili due grandi operazioni. Una ipotesi era quella della grande e reciproca confessione (visto che il Pci era finanziato in modo ancor più irregolare della Dc e del Psi) come sostennero in modo diverso da un lato Cossiga, dall’altro lato Craxi nel suo discorso in parlamento del luglio 1992. Ciò avrebbe dato luogo a nuove procedure, a nuove regole, a una vera amnistia (non quella del 1989 che servì solo a mettere a riparo il Pci da conseguenze penali per il finanziamento del Kgb) e a un nuovo sistema politico di stampo europeo.

L’altra ipotesi sul terreno della equanimità era invece quella di una totale rottura per una ipotetica palingenesi con i magistrati assunti al ruolo di “angeli sterminatori” nei confronti di tutti i peccatori, vale a dire i partiti senza eccezione alcuna e i grandi gruppi imprenditoriali privati e pubblici. Avvenne esattamente il contrario, Mani Pulite fu gestita in modo del tutto unilaterale con i due pesi e le due misure a cui ci siamo riferiti precedentemente. Il libro di Buccini costituisce una straordinaria conferma di questa unilateralità. Tutti i cronisti giudiziari erano di sinistra e nessuno di essi ha mai contestato la grande mistificazione su cui si è fondata Mani Pulite. I segretari della Dc, del Psi, dei partiti laici “non potevano non sapere” e invece, per non far nomi, Occhetto, D’Alema, Veltroni “potevano non sapere” anche quando Gardini si recava a via delle Botteghe Oscure per incontrare uno o due di loro portando con sé una valigetta con dentro un miliardo. Buccini rimane all’interno del paradigma su cui si è fondato Mani Pulite quando sottovaluta il discorso di Craxi alla Camera del 1992, liquidandolo con la battuta: “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”: la sostanza era proprio quella; il finanziamento irregolare riguardava tutti da tempo immemorabile e a loro volta magistrati e giornalisti sapevano tutto benissimo. Solo che, indubbiamente in seguito a un fatto storico come il 1989, ad un certo punto qualcuno (in primo luogo i poteri forti) decise che le regole del gioco all’improvviso cambiavano.

Parliamoci chiaro: con i metodi adottati dalla procura di Milano Togliatti, Secchia, Amendola, Longo, lo stesso Berlinguer per interposti amministratori del partito, De Gasperi, Fanfani, i dorotei, Marcora, De Mita e Donat-Cattin si sarebbero venuti a trovare in condizioni analoghe a quelle di Bettino Craxi, di Forlani, di Altissimo e di Giorgio La Malfa. Buccini descrive anche quali erano i rapporti reali dei cronisti con il nucleo leninista dei pm: “Davigo mi ha preso a ben volere – riservatissimo e un po’ misantropo mi lascia intravedere a volte uno spiraglio di amicizia […] passeggiandomi accanto fra le file di uffici semideserti a quell’ora mi dice che quando nasceranno le Commissioni di epurazione dei giornalisti io dovrei proprio farne parte perché sono un ragazzo perbene: lo guardo e naturalmente deve stare scherzando” (Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, pag. 145). “È un pezzo che mi sto curando Borrelli, Alfonso, suo segretario, mi guarda con il compatimento di uno zio affettuoso […]. La scena è abbastanza umiliante, devo ammetterlo, ma nel mestiere la sostanza conta più del talento” (idem, pag. 166) e “Borrelli mi dice […] in un’ennesima intervista, i colleghi in sala stampa mi sfottono acidi definendomi la penna preferita del procuratore, ma starebbero volentieri al mio posto” (idem, pag. 186). Infine, ma questa è invece un’osservazione assai seria perché va al fondo della questione: “l’indagine si è avvalsa e nutrita dell’uso smisurato delle manette” (idem, pag. 178).

A ciò va aggiunto che ci fu un unico Gip, cioè Ghitti, del tutto allineato, che addirittura parlò della liquidazione di un intero “sistema”. Infine, quanto al libro di Davigo, c’è un punto fondamentale che per molti aspetti è sorprendente e disarmante perché tratta con argomenti puramente giuridici una decisiva questione politica: “le successive indagini fecero emergere l’esistenza di un sistema nazionale in cui le principali imprese che avevano rapporti prevalenti con la pubblica amministrazione pagavano imponenti somme di danaro ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza mentre le cooperative rosse pagavano il Pci (dal 1991 Pds). La questione è stata oggetto di polemiche infinite sull’assunto che il Pci-Pds non sarebbe stato perseguito con la stessa energia con cui sarebbero state svolte le indagini nei confronti degli altri partiti, per poi trarvene l’accusa di politicizzazione agli inquirenti”.

In queste poche righe Davigo liquida una questione fondamentale perché dietro questo pretesto (quello che i segretari del Pci-Pds ignoravano l’apporto delle cooperative rosse mentre a loro volta i pm hanno volutamente ignorato che ad esempio la percentuale fra il 20 e il 30% riservata alle cooperative in sede Italstat, dove tutti gli appalti erano manipolati, era il modo con cui al Pci in quanto tale erano indirizzate enormi tangenti) è stata realizzata la manipolazione che ha portato a un uso politico della giustizia molto mirato. Se poi a questo si aggiunge che quando è stato provato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure per vedere i massimi dirigenti del Pds portando con sé una valigetta con dentro un miliardo si è trovato il pretesto per evitare di inviare ad essi un avviso di garanzia e in sede di processo Enimont il presidente Tarantola addirittura ha rifiutato di accogliere la richiesta dell’avvocato Spazzali di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni perché quello era un processo totalmente dedicato a sputtanare i segretari dei partiti di governo, ecco che la misura è colma e l’unilateralità della operazione Mani Pulite è assolutamente evidente.

Infine non bisogna mai dimenticare che per due volte il pool fece una sorta di “pronunciamiento” contro proposte di legge del governo. Addirittura una volta, dopo aver fatto saltare il decreto Biondi, a Cernobbio il pool presentò una propria proposta di legge per la sistemazione di tutta la vicenda. Infine, ben due esponenti del pool, cioè il vice procuratore D’Ambrosio e il protagonista dell’operazione di “sfondamento” cioè Antonio Di Pietro sono stati eletti per più legislature nelle liste del Pds. Dopodiché oggi il risultato finale di un colpo di mano senza rivoluzione è del tutto evidente: leaders effimeri, che durano lo spazio di un mattino, partiti liquidi e movimenti privi di spessore politico e culturale. La conseguenza è netta. Nel momento più drammatico del nostro paese dal 1945 il destino dell’Italia dipende da due persone: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Fabrizio Cicchitto

Antonio Giangrande: La sinistra ha abbandonato I Diritti Sociali dei tanti (Il popolo dei ceti medio e bassi) poco rappresentati in Parlamento in favore de I Diritti Civili dei pochi (Immigrati, mussulmani, LGBTQIA+, ecc.) sovra-rappresentati in Parlamento rispetto al numero reale nella società italiana.

Le differenze.

A destra Giorgia Meloni: "sono una donna, una madre, sono cristiana"

A sinistra Elly Schlein NON SONO UNA DONNA; NON SONO UNA MAMMA; NON SONO CRISTIANA, NON SONO ITALIANA.

Il vero femminismo non odiava i maschi. Non mi aspettavo che il femminismo ci avrebbe condotti a questo e penso che tale conflitto tra i sessi non sia che una deriva. Vittorio Feltri il 24 Novembre 2023 su Il Giornale.

Dott. Feltri,

sono un giovane uomo che sta assistendo con costernazione e sgomento alla quotidiana incriminazione dell'intero genere maschile. Non nego di essere anche preoccupato per questo clima di caccia alle streghe invertito. Non vorrei apparire esagerato e non vorrei neppure che queste mie parole suonassero come una provocazione, non lo vogliono essere, ma penso che in questa fase storica siano gli uomini ad essere discriminati. Basti considerare che nelle piazze e nelle strade, nei cortei e nelle manifestazioni, in questi giorni non sono stati urlati semplicemente slogan a sostegno delle donne bensì slogan contro i maschi, maschi violentatori, maschi assassini, maschi molestatori, maschi che controllano, che perseguitano, che stuprano. Però questa non è che una minoranza, la peggiore, del nostro genere. Fare credere che siamo tutti criminali è diffamatorio, insultante, doloroso, lesivo della nostra dignità e dei nostri diritti.

Abbiamo inaugurato la guerra al maschio. Eppure in questo caso non si parla di sessismo, di pregiudizio di genere o di violenza di genere. Lei cosa ne pensa? Luca Romano

Caro Luca,

sei uno dei tanti uomini che in questo periodo mi scrivono pensieri di questo tipo, uomini che si sentono ingiustamente etichettati come delinquenti, che vengono redarguiti dall'opinione pubblica, dai media, dalle donne, che avvertono di essere percepiti come sbagliati soltanto perché maschi. Non mi aspettavo che il femminismo ci avrebbe condotti a questo e penso che tale conflitto tra i sessi non sia che una deriva, una stortura, una deformazione del femminismo stesso, che da lotta per l'effettiva parità si è trasformato in una lotta al genere maschile. Il preconcetto si è già imposto. Se un ragazzo fa un complimento, è un molestatore; se dice alla sua donna «sei mia», è un potenziale assassino che considera la femmina una sua proprietà; se scrive un banale sms alla sua fidanzata chiedendole «dove sei?», ecco che viene ritenuto un pericoloso maniaco del controllo. Forse dell'educazione sentimentale e affettiva avremmo bisogno tutti, uomini e donne, adolescenti e adulti, dato che queste schizofrenie ormai sono insite nella società. Eppure il femminismo è stata la più grande rivoluzione del secolo scorso, le donne esprimevano forza, desiderio di affermazione, di emancipazione, di parità rispetto al maschio. Era un femminismo carico di valori e di dignità quello del Novecento. Ne sono venute fuori donne gigantesche, una di loro fu mia amica, Oriana Fallaci. Quando la chiamavo «uoma», per scherzare, lei se la prendeva, rivendicava il suo essere femmina, amava l'essere donna. E questo suo femminismo non l'ha mai spinta a scagliarsi contro il maschio, a vedere in ogni uomo un nemico, anzi, ella stringeva amicizia con i maschi, li riteneva complici, amici, fratelli. Non nego che alcuni abbiano provato invidia nei confronti di Oriana, come del resto le altre donne e colleghe. Quindi non ne farei una questione di genere.

E poi un giorno mi sono accorto che non dibattevamo più di grandi temi, che l'universo femminile era passato dalla lotta per i diritti alla lotta per le vocali. E ora dalla lotta per le vocali alla guerra fratricida al maschio. Comprendo il tuo terrore, la tua preoccupazione, il tuo sgomento. Cosa direbbero le donne se scendessimo in piazza ad urlare insulti che fanno di tutta un'erba un fascio, che pongono tutte sullo stesso livello, che bollano tutte le donne in una certa maniera. Sarebbe uno scandalo. Sarebbe uno scandalo se per le azioni di poche, fossero anche 200, o 1000 le colpevoli di qualcosa, noi discutessimo di «femminilità tossica».

Non amo le generalizzazioni in quanto conducono ad una lettura falsata della realtà e producono ingiustizia.

Non penso che viviamo in una società ostile alle donne, oppressa dal dominio del maschio, in cui le donne debbano vivere in quella paura che ci rimproverano di provare, come se fossimo orchi pronti ad aggredirle. Certo, ancora tanto c'è da compiere per raggiungere una eguaglianza che sia reale, ma tanti passi, enormi passi, sono stati compiuti, tanto è vero che all'interno delle istituzioni, anche quelle europee, non soltanto italiane, primeggiano le signore, come Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo. Le donne comandano, decidono, rivestono ruoli apicali. L'Ue è un organismo sovranazionale guidato dalle donne.

Dove sta questa misoginia? Dove?

GUERRA E IDEOLOGIA. Se Lgbt e femministe preferiscono la sharia, vadano pure. L’Occidente ormai si odia. A tal punto da generare folli paradossi: l’universo gay e quello femminista fanno il tifo per Hamas e l’islam. Salvatore Di Bartolo su Nicolaporro.it il 14 Novembre 2023.

In un Occidente sempre più bramoso di suicidio, l’ipocrisia e il conformismo imperano ormai sovrani. I feroci e ripetuti attacchi dall’interno ai capisaldi della cultura occidentale, unitamente alla sfrenata esigenza di perorare ad ogni costo cause spiccatamente antioccidentali, possono assumere un solo significato: l’Occidente, o perlomeno una parte di esso, si odia profondamente. Talmente tanto da far apparire spesso la civiltà occidentale la più antioccidentale fra tutte le civiltà del nostro tempo.

Tale profondo e ben radicato odio di sé di cui si alimenta l’ormai agonizzante Occidente è infatti sempre più facilmente riscontrabile, con una carica peraltro oltremodo accentuata, in alcune sue frange, soprattutto laddove si annida una mai paga bramosia di tutele e corsie preferenziali.

Accade così che quel mondo minoritario, sempre più rumoroso e ostile nei confronti delle silenziose e sempre più soggiogate maggioranze, dopo aver fatto incetta di diritti e libertà nel tollerante e libero mondo occidentale, abbia inscenato il più classico dei voltafaccia per sostenere la causa dei più acerrimi nemici dell’Occidente.

Si originano così degli autentici paradossi, delle prese di posizione perverse e irrazionali, totalmente incomprensibili almeno senza una cospicua dose di insulsa ignoranza e becero conformismo. Si stenta infatti a comprendere, ad esempio, come il variopinto universo Lgbt, in perenne lotta contro l’oscurantismo occidentale, possa ergersi a paladino dell’Islam più radicale che disconosce le libertà sessuali e perseguita barbaramente le diversità. Oppure, come le agguerritissime femministe, sempre così ostili verso il bigotto e fallocratico Occidente, possano scendere in piazza a difesa di quell’integralismo culturale e religioso che predica, e poi pratica, la sottomissione del genere femminile al volere maschile e la sistematica negazione dei più basilari diritti della donna.

Orbene, laddove femministe e omosessuali avessero lecitamente modificato il loro punto di vista sul tema dei diritti civili, e altrettanto lecitamente avessero scelto di abbandonarsi al fascino irresistibile di imam, burqa e scimitarre, che ben venga. Nessun problema. Se la Sharia li rappresenta più dei valori occidentali e della cristianità, che facciano pure. Che aprano anche le braccia all’indulgente e democratico Islam. Il cotanto odiato Occidente riuscirà, presto o tardi, a farsene una ragione.

Ma ci risparmiassero perlomeno le false invettive, i soliti fastidiosissimi piagnistei e le deliranti lezioncine politicamente corrette intrise di ideologismo, ipocrisia e antioccidentalismo. Non sono più credibili.

In piazza le femministe filo Hamas. La Giornata per le donne, oggi, diventa un delirio su Meloni e Israele. Sinistra spiazzata. Francesco Giubilei il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

L'iniziativa di organizzare per oggi, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, una grande manifestazione dopo l'uccisione di Giulia Cecchettin, poteva essere una buona notizia. Eppure l'appuntamento, invece di restare apolitico e trasversale, si è trasformato in un evento con una connotazione ideologica estrema, a causa delle posizioni degli organizzatori dei cortei di Roma e Messina del movimento transfemminista «Non una di meno». Un evento nato per contrastare la violenza contro le donne si è trasformato in occasione per mettere sul banco degli imputati tutti gli uomini in quanto tali, il governo Meloni e Israele. Anche a sinistra qualcuno se n'è accorto. Carlo Calenda, di Azione, già ieri criticava la linea oltranzista: «Questa non è la piattaforma di una manifestazione contro la violenza sulle donne e per una società meno maschilista e più equa - ha sbottato - Questa è la piattaforma di un collettivo di estrema sinistra antisraeliano e filo Hamas (notoriamente sostenitore dei diritti delle donne). Sorvolo sui restanti deliri veteromarxisti». I leader dell'opposizione, salvo ripensamenti, non dovrebbero partecipare al corteo romano. Chi per impegni concomitanti, chi per una scelta politica. Fatto sta che il documento di «Non una di meno» ha politicizzato il tema: «Quelle di Roma e di Messina non saranno piazze neutre» hanno spiegato dal movimento, accusando il governo di procedere «a colpi di decretazione di urgenza razzista e classista». Come se non bastasse il comunicato infarcito di asterischi e schwa, è in particolare la posizione su Israele a lasciare sgomenti: «Lo stato italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo» perché «schierandosi in aperto supporto dello stato coloniale di Israele, appoggi di fatto il genocidio in corso del popolo Palestinese». Lecito chiedersi cosa c'entri Israele con il tema dei femminicidi ma, se proprio si vuole citare la situazione in Medio Oriente, sarebbe opportuno spendere almeno una parola per le donne uccise, torturate, stuprate, rapite dai terroristi di Hamas. E le transfemministe, sempre in prima linea nel puntare il dito contro Israele («la guerra è la manifestazione più totalizzante della violenza patriarcale, per questo, e più che mai, siamo al fianco del popolo palestinese»), non dicono nulla sull'attacco terroristico di Hamas.

Indignata l'ex ministra Mariastella Gelmini (Azione): «Confondere la lotta contro la violenza di genere con quello che sta accadendo tra Israele e l'organizzazione terroristica Hamas - dice - è inaccettabile. Non dire una parola sugli stupri subiti dalle donne israeliane è un grave errore. Senza fare chiarezza su questo punto (si è ancora in tempo), la piazza rischia di essere un'occasione persa». E anche Maria Elena Boschi (Iv) considera «deliranti» le parole su Israele.

Le manifestazioni di oggi, insomma, sono una grande occasione mancata e testimoniano la spaccatura che si è creata nell'opinione pubblica dopo la morte di Giulia Cecchettin. Partendo dalla necessità di contrastare la violenza contro le donne, sembrano essersi delineate due anime: una che vuole trovare soluzioni di buon senso legate al problema, un'altra che usa questo tema per cercare di cambiare la società in ambiti che nulla hanno a che vedere con la violenza sulle donne. Facile dire a quale delle due categorie appartengono le transfemministe.

Anti tutto. Il demone dell’estremismo si è mangiato la sinistra, e anche il femminismo. Mario Lavia Linkiesta il 24 Novembre 2023

Per la Giornata mondiale sulla violenza contro le donne il Partito democratico va in piazza al fianco di “Non una di meno”, associazione che ha diramato frasi obsolete e dichiarazioni d’odio verso Israele. Elly Schlein non può far finta di niente

Ci deve essere un demone a sinistra che incendia gli animi, fa guizzare le fiammelle dell’ideologia bruciando la possibilità di costruire qualcosa su un terreno comune, e questo demone è segnato dal vecchio marchio di fabbrica estremista degli organizzatori/organizzatrici di tutte le manifestazioni su qualunque argomento.

Accade in Italia anche in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne: ed è singolare – eufemismo – che il Partito democratico oggi vada in piazza fischiettando, senza chiedere qualche chiarimento su una manifestazione connotata nei suoi documenti da violenti accenti filo-Hamas, che è la ragione per cui Italia Viva e Azione non ci saranno.

Sì, ci deve essere come una “centrale” di sessantenni o più che da sempre gode a scrivere piattaforme e documenti, mettere il cappello sulle iniziative più lodevoli, una “centrale” di personaggi che si conoscono tutti tra di loro da sempre, professionisti degli slogan, arruffapopolo anti-tutto, alcuni sbarcano il lunario altri stanno comodi magari pagati da quello Stato che detestano, sono loro da sempre a riapparire all’improvviso per appestare l’aria.

Il demone si è puntualmente risvegliato in vista delle manifestazioni di oggi a Roma e Messina in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne , occasione perfetta specie mentre ancora si piange per Giulia Cecchettin per cercare di unire, di allargare gli orizzonti del femminismo, di parlare un linguaggio non settario, senza peraltro ledere l’autonoma identità del movimento delle donne.

E invece ecco che “Non una di meno”, l’associazione che promuove le manifestazioni di oggi, tira fuori un documento che pare scritto trent’anni fa e che soprattutto, del tutto incongruamente, se ne esce con un attacco a Israele. Che poi se un nesso si può stabilire tra la violenza alle donne e la guerra caso mai sta esattamente nella ripulsa per gli stupri commessi da Hamas il 7 ottobre, per qui corpi di donne devastati e offerti al ludibrio, come hanno rilevato in Francia alcuni artisti e intellettuali francesi come gli scrittori Marc Levy e Marek Halter, l’attrice Charlotte Gainsbourg, la sindaca di Parigi Anne Hidalgo: «I loro nomi erano Sarah, Karine, Céline… Su iniziativa dell’associazione Paroles de femmes, lanciamo un appello alle femministe e ai sostenitori della nostra causa affinché il massacro delle donne in Israele del 7 ottobre sia riconosciuto come femminicidio».

E invece le femministe di “Non una di meno” in un documento del 7 novembre preparato per la manifestazione di oggi hanno pensato bene di scrivere tutt’altra cosa. Sembra un volantino di Autonomia operaia: «Il governo partecipa e finanzia in prima fila all’escalation bellica, con la produzione e invio massiccio di armi, tentativi di moltiplicare le basi militari, oltre quelle già esistenti (non ultimo sul territorio di Pisa, a Capo Frasca, Sigonella e Niscemi), nonché in pratiche di controllo varie; quali ricoprire le Città di Venezia e Messina di telecamere a riconoscimento facciale (prodotte in Israele) già in sperimentazione nel trasporto pubblico di Padova. Uno strumento spacciato come prevenzione di una violenza sistemica che lo Stato risolve in un solo modo: repressione. Le stesse utilizzate per la repressione e genocidio delle nostre sorelle Palestinesi». Toni Negri non avrebbe saputo fare meglio. Lui era un cattivo maestro, ma queste sono alunne penose.

E già che ci siamo ecco l’attacco diretto a Israele: «Lo stato Italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo e schierandosi in aperto supporto dello stato coloniale di Israele, appoggia di fatto il genocidio in corso del popolo Palestinese».

All’Ansa qualcuna di “Non una di meno“ ha detto testualmente: «Porte aperte alle donne israeliane». Grazie tante. E poi: «Noi siamo contro il genocidio di uno stato colonialista nei confronti dei palestinesi, non contro le donne israeliane». Ma questo è diventato il femminismo? Possibile che le femministe vere, le donne di sinistra, le famose intellettuali scrittrici giornaliste registe attrici, non abbiano nulla da dire? Elly Schlein può far finta di niente su questa deriva estremista cui bellamente resta il fianco? Ascolti quello che dice la dem Pina Picierno: «Il 7 ottobre Hamas durante le azioni nei kibbutz ha ucciso e stuprato. Gli esiti delle autopsie e delle refertazioni mediche che ho letto in queste settimane sono terribili, i racconti dei terroristi arrestati fanno rabbrividire e i video che ho visionato dalle bodycam dei terroristi sono la rappresentazione dell’orrore. Queste donne israeliane, le loro storie, le violenze subite sono state escluse dal dibattito femminista così come accadde per gli stupri di guerra avvenuti in Ucraina. In questa giornata che precede il 25 novembre abbiamo il dovere di raccontare quello che avvenne il 7 ottobre, abbiamo il dovere di alzare la voce perché se toccano una toccano tutte, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione e dai conflitti».

La “centrale”, quella del pacifismo imbelle e senso unico che ha condizionato tante manifestazioni sull’Ucraina finendo per dar fiato alle trombe di Vladimir Putin, si è rimessa in moto e il demone rianima le sue lingue di fuoco contro l’Occidente, non contro il califfato, contro “la politica”, non contro i tagliagole di Hamas. E tutto fa brodo, per questa propaganda avvelenata, anche stendere un mantello di odio contro i “nemici”, anzi, le “nemiche” stuprate il Sabato nero. Per loro non c’è pietà, ha sentenziato il demone. Rovinando una giornata importante.

"Famiglia, identità e radici non esistono". Il comizio surreale di Chiara Valerio. La scrittice interviene alla manifestazione Pd dove tiene un discorso insensato in cui ridicolizza i valori della destra per esaltare quelli di sinistra e, rivolta alla piazza, afferma di volere essere come "la pasta aglio, olio e peroncino". Lorenzo Grossi l'11 Novembre 2023 su Il Giornale.

In una manifestazione nazionale del Partito democratico, il cui fil rouge sono stati i classici adagi dell'antifascismo e della superiorità morale della sinistra, sarebbe stata impossibile un'assenza sul palco della scrittrice Chiara Valerio, che è un po' il corrispettivo intellettuale di Elly Schlein (oppure è Elly Schlein a essere l'equivalente politico di Chiara Valerio, bisognerebbe ancora stabilirlo). Grande amica della segretaria del Pd - e già molto legata alla compianta Michela Murgia, l'autrice de La matematica è politica - è riuscita a declamare un surreale discorso dal palco di piazza del Popolo, mettendo in fila una serie di concetti assolutamente incomprensibili ai più. E dire che, per una scrittrice, la chiarezza dovrebbe essere un elemento fondamentale per il ruolo che svolge. Invece no: nella stesura del testo che poi avrebbe letto ai partecipanti la Valerio è riuscita a violare pressoché tutte le famose quaranta regole per una buona scrittura formulate da Umberto Eco.

Dalla pasta alla famiglia: il no sense di Chiara Valerio

Prolissa, retorica e inutilmente sfrontata, Chiara Valerio ha infarcito il suo discorso con metafore arzigogolate il cui senso poteva essere riassunto tranquillamente in questo modo: noi di sinistra siamo dei gran fighi, mentre quelli di destra sono soltanto dei poveri cavernicoli. Per farlo ci ha impiegato quasi una decina di minuti. L'esordio è da "brividi": la pasta aglio, olio e peperoncino viene continuamente tirata in ballo. "Tutte le persone che conosco la sanno cucinare - afferma con una certa dose di orgoglio la scrittrice -. Ogni persona a modo suo: tempo di cottura, peperoncino intero, in polvere o frantumato, piccante o meno piccante, aglio con l'anima o senza". La metafora culinaria serve per dichiarare che, a differenza di quello che avviene in politica, "non c'è tifoseria nel cibo" e ognuno di noi "può accettare le altrui critiche, senza offenderci, e sappiamo consigliare, leggeri di sentimenti come l'invidia". Tutto molto interessante (si fa per dire), se non fosse che è lei stessa a cadere immediatamente in contraddizione, insultando chi non la pensa ideologicamente come lei.

Una Sinistra non così Chiara

Poco dopo, infatti, l'intellettuale tratta il tema della cultura che, secondo lei, "è precedente al concetto di destra e sinistra ma, successivamente alla distinzione tra destra e sinistra, diventa una cosa o un'altra". Ed ecco quindi arrivare qua, implacabilmente, la sentenza di chi ne sa più degli altri: "La cultura di destra vive di parole con la maiuscola: tradizione, razza, sangue, terra, identità, radici. Si nutre di solennità, che è il contrario della vita umana e ci rende stereotipi". Non si capisce molto bene che cosa ci sia di male a valorizzare le proprie radici, identità e tradizioni. Ma Chiara Valerio non ha subbi: così facendo, argomenta ancora, "si accetta e si lavora perché certe diseguaglianze non siano mai sanate, perché certi privilegi non diventino mai diritti e non abbiano mai doveri". La cultura di sinistra invece è esattamente opposta alla "disumanità" di destra: essa è una "cultura della possibilità, delle opportunità e della partecipazione" e dove "l'identità sta tra le persone, non nelle persone".

Le offese contro il centrodestra

Insomma, le persone che sono in piazza a sostenere il Partito Democratico - a differenza di quei pericolosissimi "ignorantoni" che hanno votato il centrodestra - sono riusciti a costruire "una relazione culturale, come la cucina", è la sua certezza. "Nella cucina italiana non c'è autonomia differenziata, non c'è premierato", ovvero le riforme che lei non gradisce. Il paragone serve alla scrittrice per dire che adesso invece "ci siamo inventati la politica-spettacolo, popolandola di nemici, personalismi, populismi. Abbiamo ucciso gusti, sapori, pratiche, sogni e aspirazioni, fantasia e immaginazione, collaborazione generazionale e diritti collettivi e sociali". E tutto questo è successo esclusivamente dal 25 settembre 2022 a oggi. Nei dodici anni precedenti invece, quando c'erano i buoni e bravi al potere (seppur non eletti da nessuno), la politica era notoriamente orientata verso il pluralismo e i diritti civili, come dimostrato dal (quasi) niente fatto da cinque governi politici di centrosinistra da questo punto di vista. Ma ora è il momento di dire basta alla "famiglia con la 'F' maiuscola", perché "non esiste". Così come la terra, l'identità e le radici. "Io dico - conclude - che dobbiamo essere ciascuno aglio, olio e peperoncino". Pubblico in visibilio. Con un comizio del genere, ci si aspetta che il Pd voli nei sondaggi fino al 60% già domani mattina. Del resto, con una lucidità e un'umiltà del genere, ci si chiede come mai i dem non siano così attrattivi tra i cittadini italiani. 

GUERRA E IDEOLOGIA. Se Lgbt e femministe preferiscono la sharia, vadano pure. L’Occidente ormai si odia. A tal punto da generare folli paradossi: l’universo gay e quello femminista fanno il tifo per Hamas e l’islam. Salvatore Di Bartolo su Nicolaporro.it il 14 Novembre 2023.

In un Occidente sempre più bramoso di suicidio, l’ipocrisia e il conformismo imperano ormai sovrani. I feroci e ripetuti attacchi dall’interno ai capisaldi della cultura occidentale, unitamente alla sfrenata esigenza di perorare ad ogni costo cause spiccatamente antioccidentali, possono assumere un solo significato: l’Occidente, o perlomeno una parte di esso, si odia profondamente. Talmente tanto da far apparire spesso la civiltà occidentale la più antioccidentale fra tutte le civiltà del nostro tempo.

Tale profondo e ben radicato odio di sé di cui si alimenta l’ormai agonizzante Occidente è infatti sempre più facilmente riscontrabile, con una carica peraltro oltremodo accentuata, in alcune sue frange, soprattutto laddove si annida una mai paga bramosia di tutele e corsie preferenziali.

Accade così che quel mondo minoritario, sempre più rumoroso e ostile nei confronti delle silenziose e sempre più soggiogate maggioranze, dopo aver fatto incetta di diritti e libertà nel tollerante e libero mondo occidentale, abbia inscenato il più classico dei voltafaccia per sostenere la causa dei più acerrimi nemici dell’Occidente.

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Si originano così degli autentici paradossi, delle prese di posizione perverse e irrazionali, totalmente incomprensibili almeno senza una cospicua dose di insulsa ignoranza e becero conformismo. Si stenta infatti a comprendere, ad esempio, come il variopinto universo Lgbt, in perenne lotta contro l’oscurantismo occidentale, possa ergersi a paladino dell’Islam più radicale che disconosce le libertà sessuali e perseguita barbaramente le diversità. Oppure, come le agguerritissime femministe, sempre così ostili verso il bigotto e fallocratico Occidente, possano scendere in piazza a difesa di quell’integralismo culturale e religioso che predica, e poi pratica, la sottomissione del genere femminile al volere maschile e la sistematica negazione dei più basilari diritti della donna.

Orbene, laddove femministe e omosessuali avessero lecitamente modificato il loro punto di vista sul tema dei diritti civili, e altrettanto lecitamente avessero scelto di abbandonarsi al fascino irresistibile di imam, burqa e scimitarre, che ben venga. Nessun problema. Se la Sharia li rappresenta più dei valori occidentali e della cristianità, che facciano pure. Che aprano anche le braccia all’indulgente e democratico Islam. Il cotanto odiato Occidente riuscirà, presto o tardi, a farsene una ragione.

Ma ci risparmiassero perlomeno le false invettive, i soliti fastidiosissimi piagnistei e le deliranti lezioncine politicamente corrette intrise di ideologismo, ipocrisia e antioccidentalismo. Non sono più credibili.

Fabio Martini per huffingtonpost.it - Estratti venerdì 17 novembre 2023.

Sono nove mesi ormai che Elly Schlein guida il Pd, ma il mondo politico-mediatico fatica ancora a riconoscere e definire i tratti assolutamente originali della sua leadership, il “cuore” della sua personalità. Il rifiuto opposto dalla segretaria del Pd all’invito di Giorgia Meloni a partecipare alla prossima festa di Atreju aiuta a sciogliere l’enigma. 

Nei mesi scorsi non sono mancati, da parte del “nuovo” Pd, segnali di settarismo – un approccio che peraltro accomuna tutti i partiti in questa fase – ma Elly Schlein sta sperimentando qualcosa in più. 

Una forma mai vista di partito personale, secondo un adagio che si potrebbe riassumere così: la purezza del capo è tutto, il resto non conta. Qualcosa che va oltre il tradizionale “il partito sono io”, perché la novità sta invece in questa idea di purezza, di procedere incontaminati nel firmamento politico.

Nei mesi questa suggestione di purezza era stata praticata, avvalorando un’idea davvero originale: chi è venuto prima di Schlein sostanzialmente è “superato”.  

(...)

Ora il rifiuto all’invito di Atreju. Naturalmente Schlein è libera di andare dove crede, con chi crede e di negarsi con le ragioni che la paiono giuste. Al tempo stesso liberi tutti di constatare che mentre la festa dei pretesi “fascisti” di Atreju è da sempre aperta a tutti, la Festa dell’Unità è diventata un ritrovo monocorde, dove si canta una sola canzone: puri, purissimi. Ma soli.

Tra l’altro quelle feste in solitudine sono anche l’approdo forastico e finale di una lunga storia, quella della Festa dell’Unità, che ai tempi del Pci e dell’Ulivo era stato luogo di dibattiti a tutto campo con amici e avversari. Ora il no ad Atreju racconta qualcosa in più: la vocazione a preservare la purezza in una torre eburnea. Una rivendicazione di isolamento che ha i suoi rischi ed evoca una deliziosa e profonda riflessione di Stendhal: “Si può acquistare tutto nella solitudine, eccetto un carattere”. 

Da Bertinotti a Veltroni: un promemoria per Elly. I leader che non hanno avuto paura di Atreju. Guido Liberati su Il Secolo d'Italia venerdì 17 novembre 2023.

«C’era un tempo nel quale Fausto Bertinotti non aveva timore a presentarsi e dialogare, pur dall’orgoglio della diversità delle posizioni, ora colgo che le posizioni sono cambiate», osserva Giorgia Meloni commentando l’annunciato “no” di Elly Schlein all’invito formulato dei giovani di Atreju.  «Io – osserva il presidente del Consiglio – mi sono sempre presentata quando sono stata invitata e sono stata io ad aprire agli inviti. Ricordo diversi capi di governo della sinistra, l’attuale commissario europeo (Gentiloni), Enrico Letta. Sarebbe una delle pochissime volte in cui una persona dice di no».

Una posizione ribadita in queste ore anche dall’ex senatore Pd, Carlo Cottarelli. «Schlein doveva andare ad Atreju e invitare Meloni ad andare alla prossima festa dell’Unità», dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, Cottarelli.

Quando Almirante andò a Botteghe Oscure per rendere omaggio a Berlinguer

Il caso di Elly Schlein che ha detto” No, grazie”, ad Atreju, la festa di FdI. I cronisti politici non possono non ricordare a proposito di ben altre scelte, quanto accadde alle esequie del leader comunista Enrico Berlinguer, nel giugno dell’84. Con un raro coraggio, viste le circostanze e le asperità politiche del momento, ai funerali si presenta Giorgio Almirante. «Sono venuto per salutare un uomo onesto», dice il leader Msi varcando la soglia di Botteghe oscure. Massimo Magliaro, ex braccio destro di Almirante, ha ricordato più volte: «All’uscita mi disse, telefona a donna Assunta. Dille che è andato tutto bene». Non molti anni dopo, nell’88, furono Giancarlo Pajetta e Nilde Iotti a rendere omaggio alla salma di Almirante ai suoi funerali. Altri tempi, altri scenari. Altre personalità politiche.

I precedenti nella tana del lupo: da Fini a Bertinotti

Ma la sostanza del leader che decide di varcare la soglia della “tana del lupo” dell’avversario non cambia. Nel ’95 Walter Veltroni invita Gianfranco Fini ad un faccia a faccia alla festa dell’Unità: “Il valore della festa è questo, confrontarsi tra schieramenti avversari con rispetto e nel comune obiettivo di lavorare per il bene del Paese”, dice Veltroni. L’album dell’94 è invece pieno di foto di Indro Montanelli sotto il simbolo della Quercia: il giornalista è ospite d’onore alla festa dell’Unità di Modena, accolto con una standing ovation (Montanelli ha appena litigato con Berlusconi e lasciato il ‘Giornale’). “Vi prego, basta applausi, ve lo chiedo per legittima difesa”, implora il giornalista. Foto per foto, resta negli annali quella del ’96 del Gabibbo con Massimo D’Alema, in visita agli studi Mediaset: “Un’azienda che è un patrimonio per l’Italia”, dice il segretario del Pds. Poi, con il passare degli anni, la politica cambia. Aumenta la quota spettacolo. E i faccia a faccia insoliti tra i leader si moltiplicano.

Atreju e i faccia a faccia: da Berlusconi a Bertinotti, da Fico a Letta

Atreju ne ha fatto un marchio di fabbrica. Alla festa di FdI si sono visti, negli anni, Silvio Berlusconi, Fausto Bertinotti, Rosy Bindi, Walter Veltroni, Luciano Violante, Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Matteo Renzi, per citarne alcuni. Tutti, Bertinotti incluso, sono rimasti vittime di scherzi e spietate goliardate dei giovani “fratelli” d’Italia. La Schelin non ci sarà.

Lollobrigida sul No della Schlein: “Atreju era un’opportunità di confronto”

Come osserva il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, «se fosse stata invitata e non volesse partecipare è una scelta libera. Noi siamo sempre aperti al confronto e non abbiamo paura di confrontarci in nessun luogo, abbiamo sempre partecipato alle feste del Pd e ad Atreju abbiamo avuto ministri del Pd e dei Cinque stelle». «Sentivo che lei si confronta solo in Parlamento – aggiunge Lollobrigida – Ci mancherebbe, ciò non toglie che i partiti sono un elemento essenziale della vita democratica e i luoghi in cui ci si confronta sulle differenze e soprattutto sulle convergenze per il sistema Italia penso possano essere un’opportunità». 

Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” - Estratti venerdì 17 novembre 2023. 

(...)

Ci vado o non ci vado alla festa di Atreju di Giorgia Meloni? No che non ci va Elly Schlein, che ha preso tempo per rispondere solo per finta, visto che non ha intenzione di cinguettare con la premier, né, tantomeno, di uscirne burattino, o ciuchino, o vassallo, anche se il rischio di finire avvelenata è comunque inesistente. Soprattutto non vuole partecipare al gioco della legittimazione del nemico, che la parola avversario è buona solo per i tempi di pace, e con le elezioni europee alle porte proprio non se ne parla.

Che tanto, per riconoscersi figli di un unico Paese, ci sarà tempo, magari un giorno, quando forse i rapporti di forza si saranno invertiti. 

Non che non si possa andarci lo stesso, quando pare che convenga, alla corte del nemico. Massimo D’Alema ci andò a Mediaset, proprio nella sede e con occhio padronale, a dire che: «Non sono qui per rendere omaggio a Silvio Berlusconi, ma a un’azienda che è un patrimonio per l’Italia». E proprio Berlusconi si autoinvitò a sorpresa sotto casa, alla festa dell’Unità in quel di Arcore, per fare il mattatore, due ore da affabulatore, fino a bamboleggiare: «Vedete, miei cari, sono un compagno anch’io, come voi, però riformista».

E d’altra parte aveva già detto di essere pronto ad iscriversi al Pd, dopo la relazione di Piero Fassino a un congresso. Ma pure Giorgia Meloni, già premier, c’era andata all’assemblea della Cgil a rivendicare il confronto, perché «la ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori». Anche se oggi, dopo la precettazione, sarebbe meno facile. Addirittura, Indro Montanelli salì sul palco di una festa dell’Unità: «Vi prego, basta applausi, ve lo chiedo per legittima difesa». 

La festa di Atreju è l’invenzione geniale di una Giorgia Meloni poco più che ragazzina, debuttò 25 anni fa, nel 1998. Atreju è un bambino Pelleverde nel libro e nel film La storia infinita, e ha occhi scuri che vedono fino all’orizzonte.

Politica e goliardia. Memorabile la «Kazirata» a Gianfranco Fini, quando i giovani di Atreju chiesero all’allora ministro degli Esteri di sostenere la causa dell’inesistente e oppresso popolo kaziro. O quando Berlusconi fu costretto ad inventare per condannare vita e opere di un immaginario dittatore comunista, o quando a La Russa venne chiesto di spiegare la presenza di militari italiani a Paros, o a Veltroni di parlare della borgata Pinarelli. 

Tutto questo prima di finire lei stessa, Giorgia Meloni, infilzata dai due buontemponi russi. Poi sempre meno scherzi e più politica, fino a contendere a Bruno Vespa lo scettro di «Terza Camera» prima dell’elezione del presidente della Repubblica.

(...) 

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” - Estratti venerdì 17 novembre 2023. 

Eppure ad Atreju c’è sempre stato posto per tutti: Platinette ed Enrico Letta, la gara di poker con Pupo e il presepe vivente dagli Abruzzi, il cooking show del divo chef e il cane lupo cecoslovacco, accreditata mascotte della kermesse reperibile nell’albo d’oro digitale dei Fratelli d’Italia con il mitologico nome di Thor, divinità germanica fornita di terrificante martellone.

In questo senso Schlein si è sottratta a un astuto e vantaggioso intrattenimento di cui l’attuale premier è da sempre abile impresaria e stratega. Il punto di partenza e un po’ anche la schermatura culturale di Atreju è l’innesto del fantasy pop sugli incerti orizzonti della destra un tempo orfana, oggi addirittura dimentica del nostalgismo neofascista. Come tante altre cose di quel mondo, se l’era inventata alla fine del secolo scorso Fabio Rampelli, ma il prima possibile l’ha fatta sua Giorgia Meloni, poco più che adolescente, che certamente l’ha cresciuta sagomandola a sua immagine e somiglianza fino a trasformarla in palestra, piattaforma, passerella, laboratorio tricolore, salotto televisivo e infine sagra piaciona del sovranismo. 

Invano qualche anno fa Roberto Saviano ha cercato di togliere ad Atreju la patina destrorsa facendo presente che il ragazzo guerriero del cine film d’importazione “La Storia Infinita” che dà il nome alla festa risulterebbe “cresciuto da tutti” e quindi senza il papà, la mamma e la santa famiglia naturale che tanto sta a cuore ai patrioti. In realtà il Mito è appunto un mito, ma soprattutto l’odierna politica privilegia manifestazioni di natura estesa, sincretica e polivalente che, tradotto dal sociologese, sta a significare il minestrone, di tutto un po’, basta che finisca sui giornali, in tv, sui social, eccetera.

(...)

Per quattro anni di seguito Renzi ha rifiutato l’invito per poi cedere nel 2021. Bertinotti e Letta hanno fatto meno storie, Conte è venuto due volte, una con il figlio Nicolò. Marco Minniti ha acceso la platea raccontando della scrivania del duce e solleticandola con il motto scioglilingua di Italo Balbo: «Chi vola vale e chi vale ma non vola è un vile». Da sindaco ecumenico, e quindi con rassegnazione, Walter Veltroni si è sottoposto al rito goliardico della domanda trabocchetto rispondendo sulle cattive condizioni della borgata Pinarelli, che non esiste. 

Nel 2011 fece scalpore l’uniforme dei giovani volontari con badge tricolore e maglietta nera, però furbamente attenuata da scritta gandhiana in lettere d’oro: “Sii il cambiamento che vuoi vedere”.

Per diversi anni il grande mattatore di Atreju è stato il Cavaliere che su questo palco, montato all’ombra del Colosseo, ha fatto il numero della “zanzara comunista”, con volée e finto schiaffone, e pietosamente ha spiegato il baciamano a Gheddafi: «L’ho fatto per educazione, lì si usa così». 

Nel 2017 risuonò il gioioso riconoscimento di Toti: «Sono andato a fare la pipì e ho trovato il bagno pulito come a casa mia». Nel 2018, all’Isola Tiberina, venne Steve Bannon a parlare dei fratelli Gracchi e l’anno seguente Orban. Poi i titoli, un tempo risoluti e marinettiani - “È tempo di patrioti”, “Sfida alle stelle” si sono un po’ smosciati e l’ultimo Atreju era dedicato al “Natale dei conservatori”. Parabola abbastanza scontata. C’erano pure orsi bianchi animati e danzanti, al collo avevano un fazzoletto rosso, ma nessuno ci ha fatto caso.

Parlano i protagonisti. Premierato, l’ipocrisia della sinistra che dimentica se stessa: testimonianze e documenti a favore del “Sindaco d’Italia”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Novembre 2023

«L’elezione diretta del premier è una idea di sinistra!», scandisce Claudio Signorile. Il leader della sinistra socialista – e intellettuale dall’ascendente francese, pre-mitterandiano – ricorda il congresso di Torino del 1978. «Fu votata con le insegne del Progetto per l’Alternativa, l’alleanza tra la sinistra interna e la corrente di Bettino Craxi, che la volle lanciare con uno storico editoriale su L’Avanti! intitolato “La grande riforma”. Che era duplice, per la verità: elezione diretta del Presidente del Consiglio e rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, ma in parallelo al consolidamento delle prerogative del Parlamento». Da allora il Psi iniziò a tessere la tela del premierato forte provando a coinvolgere l’ala migliorista del Pci.

Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso furono i più sensibili all’argomento, che raggiunse l’acme nel 1989 con la candidatura alle Europee, nella lista del Pci, del politologo francese Maurice Duverger. Costituzionalista e giurista prestigioso, Duverger fu un “prestito” della sinistra d’oltralpe a quella italiana che innestò tutto il suo impegno sul rafforzamento della capacità di guida politica dell’esecutivo. Su quella base animò il Club Jean Moulin, autentico laboratorio della “Nouvelle gauche” parigina che dagli anni Sessanta in poi si impegnò nello studio di sistemi politici «meno deboli», come predicava Duverger. I comunisti italiani che lo vollero tra le loro fila nel Parlamento Europeo erano tanto affascinati dall’esito dello studio di Duverger e Georges Vedel sull’elezione diretta del capo dell’esecutivo da prenderli ad esempio ed ispirazione – due anni dopo, trasformatisi intanto nel Pds – per la legge sull’elezione diretta dei Sindaci che vide la luce nel 1993.

Un modello tanto riuscito da essere rimasto sin da allora attuale. Inscalfibile. È lo stesso protagonista di quella stagione della sinistra, Achille Occhetto, a sottolinearlo al Riformista: «C’è stato un periodo in cui subito dopo l’elezione diretta dei sindaci, su cui mi sono molto impegnato, avevo l’idea che quel modello si potesse estendere a livello del governo centrale, con l’elezione diretta del Sindaco d’Italia». La stagione della primavera dei Sindaci segnò una svolta epocale. Interruppe l’impaludamento continuo delle maggioranze municipali e portò un’ampia partecipazione civica a sostenere i candidati a sindaco che si proponevano per la prima volta al voto diretto. Occhetto tiene a fare una precisazione: «Ho sempre ritenuto che le riforme istituzionali non possono essere viste al di fuori delle situazioni politico-sociali. Da allora sono passati trent’anni in cui sono intervenuti nel contesto politico il populismo e il leaderismo. Elementi che io considero la testa del serpente della crisi politica generale. Quindi sì, ci eravamo orientati sul premierato, ma questa situazione di oggi, questo contesto, cambia la natura di quella proposta».

Premierato, la sinistra di oggi non studia la sinistra di ieri

Nella storia recente della sinistra italiana però il premierato c’è stato, eccome. Sarebbe addirittura stato al centro della fase costituente di quell’Ulivo che è stato il seme del Partito Democratico. Ce lo mette nero su bianco uno dei fondatori dell’Ulivo di Prodi. Arturo Parisi – che capeggiò I Democratici e divenne Ministro della Difesa di Prodi, ripesca il programma della coalizione di centrosinistra: rivendica un documento dal titolo “Il Governo del Primo Ministro”. Vi si legge: «Appare opportuna nel nostro Paese l’adozione di una forma di governo centrata sulla figura del Primo Ministro investito in seguito al voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell’elettorato». E poi, osando ancor più ambiziosamente: «Al Capo dello Stato è affidata la funzione di garante delle regole e rappresentante della unità del Paese, funzione che deve essere marcata rivedendo le modalità di elezione in modo da sottrarla alla maggioranza parlamentare pro tempore, esaminando varie possibili modalità, compresa la sua elezione diretta». Se la sinistra di oggi studiasse le carte di quella di ieri non ci sarebbe spazio per le ipocrisie.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il Bestiario, lo Sbadatigno. Giovanni Zola il 2 Novembre 2023 su Il Giornale.

Lo Sbadatigno è un animale leggendario che, troppo concentrato a realizzare la pace nel mondo, non si è accorto dello scoppio della guerra

Lo Sbadatigno è un animale leggendario che, troppo concentrato a realizzare la pace nel mondo, non si è accorto dello scoppio della guerra.

Lo Sbadatigno è un essere mitologico che, distratto dagli obiettivi imprescindibili dall’Agenda 2030 per rendere la terra un mondo giusto, sostenibile e pulito, ha abbassato la guardia mostrando il fianco al nemico giurato dell’Occidente che si era scordato di avere. Recenti studi hanno ipotizzato che la causa dei cali di memoria dello Sbadatigno siano dovuti a una dieta scarsa di pesce o dall’arroganza di concepirsi troppo buono e giusto per suscitare l’odio di alcuni.

Lo Sbadatigno era troppo impegnato a convincerci che il cambiamento climatico, causato dall’uomo, avesse avviato il Countdown alla fine del mondo, che però ogni cinque anni è costretto ad aggiornare ai cinque anni successivi. Era indaffarato ad assoldare giovani ambientalisti affetti da ecoansia a bloccare le strade e imbrattare monumenti e palazzi storici per sensibilizzare i miscredenti all’Armageddon climatico. Lo Sbadatigno era troppo concentrato a intervenire nei dibattiti televisivi per persuaderci che l’estate avesse raggiunto temperature da record e che l’inverno fosse freddo e piovoso come non si era mai visto dall’uomo di Neanderthal (quello con gli stessi geni dei bergamaschi, per intenderci), per costringerci a ristrutturare casa e acquistare auto funzionanti con elettricità prodotta dal gas e il carbone per vivere in un mondo migliore, pena il deprezzamento dei beni immobili con l’intento dichiarato di combattere la proprietà privata dei risparmiatori. E mentre lo Sbadatigno era impegnato nel titanico sforzo di bonifica economico climatica per fondare un mondo migliore, non si accorgeva che ad Oriente si gonfiava l’odio per l’Occidente e il pericolo del vero Armageddon.

Lo Sbadatigno aveva la mente occupata a difendere le minoranze Lgbtq e il diritto al “desiderio”. Era troppo coinvolto a ballare dietro ai carrozzoni dei Pride per combattere la rinascente dittatura neofascista, ad insegnare nelle scuole, ai bambini delle elementari, che padre e madre sono concetti antropologici sostituibili da Genitore 1, Genitore 2 e Genitore 3, e a sostenere, rinnegando sé stesso, che “l’utero in affitto” fosse cosa buona e giusta per le donne disposte per disperazione a vendere il proprio figlio. Troppo impegnato, lui democratico, a proporre leggi a favore del “reato di opinione” nei confronti dei retrogradi tradizionalisti della famiglia uomo, donna, figli. E mentre lo Sbadatigno urlava contro le discriminazioni di genere, non si accorgeva che ad Oriente si preparava la terza Guerra Mondiale.

Povero Sbadatigno, non si è accorto di cosa stava accadendo nel mondo reale. D’altra parte se le “opere di bene” nascondono grandi business per arricchire l’élite e impoverire il mondo, distrarsi è un attimo.

Estratto dell’articolo di Linda Varlese per huffingtonpost.it lunedì 16 ottobre 2023.

"Il fatto che sia stata la destra a portare la prima donna a diventare presidente del Consiglio in Italia, nonostante la sinistra abbia sempre appoggiato le battaglie femminili e femministe, è stata una delle ragioni che mi ha spinto a scrivere questo libro". Mirella Serri, storica, scrittrice e giornalista, racconta a HuffPost la genesi del suo ultimo libro "Uomini contro" (Longanesi), una ricostruzione delle traiettorie del contrattacco sferrato dalla seconda metà del Novecento agli anni Duemila, nella società italiana e non solo, contro il lungo viaggio dell'emancipazione femminile.  […] 

Mirella Serri, perché non è stata la Sinistra a portare la prima donna a diventare presidente del Consiglio in Italia?

Evidentemente ci sono stati una serie di pregiudizi o di volontà di potere da parte del mondo maschile di sinistra, le due cose non sono disgiunte, che non hanno permesso di dare alle donne quei ruoli istituzionali che a loro spettavano. La sinistra ha sostenuto le lotte delle donne, questo è indiscutibile. Pensi che mentre la destra ha portato la prima donna in parlamento nel 1963, le donne con la Resistenza già impugnavano le armi ed erano comandanti.

Eppure questo non è bastato. D'altronde, come racconta nel libro "Uomini contro", l'ostracismo all'emancipazione e all'affermazione femminile è di Destra quanto di Sinistra. Esempio ne è, appunto, Nilde Iotti.

Ho cercato di mettere in evidenza non solo quello che è passato alla storia come un atteggiamento se vogliamo bacchettone, condizionato da una volontà del Partito Comunista di essere in un certo senso simmetrico alla Chiesa Cattolica, per cui negli anni '50 c'è un ritorno alla famiglia, nonostante negli anni '30 il Partito Comunista non era così, anzi predicava l'amore libero. 

Oltre a questo, che è un tratto abbastanza noto, ho voluto mettere in evidenza ciò che non è mai stato raccontato. Se andiamo a vedere gli scritti di Nilde Iotti dal '45 fino alle metà degli anni '50, è una femminista molto schierata dalla parte dell'autonomia e dell'emancipazione femminile. Poi progressivamente abbandona queste sue posizioni, anzi dice che l'emancipazione e tante altre rivendicazioni appartengono al mondo borghese e non alle operaie che invece si riconoscono in tutto il movimento operaio e non fanno rivendicazioni a parte per le donne. […] 

Non solo. Come racconta, la considerano un'incapace.

Esattamente. Lo stesso Enrico Berlinguer dice che le donne devono essere come Santa Maria Goretti. Le dicono che lei non può camminare da sola, ma deve essere tutelata da loro per avere la presidenza della Commissione Femminile. Questo era il pregiudizio che c'era allora nei confronti di una donna da sola, con quelle caratteristiche: lei viveva fuori dalla famiglia, aveva avuto il coraggio di organizzare una sua relazione fuori dalle convenzioni, insomma era una donna con tante caratteristiche "anomale" che non coincidevano con l'immagine femminile di moglie, sposa e madre esemplare.

Il risultato era che secondo i compagni del suo stesso partito non aveva capacità direzionale. Pensi che Stalin attribuì la responsabilità degli attentati del '48 contro Palmiro Togliatti a Nilde Iotti, con cui il Migliore all'epoca aveva una relazione. Quindi non solo era una donna che non aveva la fermezza d'animo, le virtù, le capacità delle responsabilità politica. Ma quando succedeva qualcosa era colpa sua: era una personalità che quando si intrometteva negli affari governati dagli uomini, li intralciava. Togliatti si impegnò a difendere Nilde e la sua autonomia dai più accesi stalinisti del suo partito. […] 

Poi ci sono gli anni del movimento femminista e l'arrivo di Silvio Berlusconi.

Esatto. Le donne negli anni '80 e '90 cominciano ad avere ruoli importanti nella società grazie anche ai movimenti femministi, ma all'orizzonte si profilano le televisioni di Berlusconi che vendono un'immagine commerciale delle donne: le umiliano, le mercificano, trascurando le loro capacità imprenditoriali e offrendo un’immagine femminile alquanto diversa da quella scolarizzata e acculturata che pur stava crescendo nella Penisola.

Lei ha tratteggiato un percorso altalenante, con molti saliscendi, fatto di piccole conquiste e molti passi indietro. A che punto siamo?

La lunga marcia dell’antifemminismo ancora oggi non si è fermata, arriva ai nostri giorni e li orienta e li condiziona più prepotente che mai. Difficile capire dove siamo. Le barriere per ostacolare l'inserimento delle donne nella politica e nelle istituzioni, per non parlare delle forme di privazione delle libertà che si stanno manifestando nel mondo, oggi sono più che mai inconciliabili con l'idea di democrazia. 

Nel mondo siamo messi malissimo: quello che accade in Iran, in Afghanistan, in Turchia, ma anche in Polonia dove non c'è diritto d'aborto, o in l'Ungheria lo dimostra. In Italia siamo per il momento resistendo, anche se la nostra premier aveva un programma per limitare il diritto all’aborto, prima di diventare presidente del Consiglio.

È un controsenso, per quanto riguarda le lotte femministe, vedere una premier donna che è tuttavia espressione di una destra estrema?

Non c'è dubbio. Se lei va a leggere il programma di FdI o gli stessi libri di Giorgia Meloni, si renderà facilmente conto, ad esempio, che è contro le quote rosa, ma a favore della meritocrazia. Evidentemente, però, ci sono poche donne di merito nella destra, quelle che ci sono nel governo sono poche. 

Crede che con l'elezione di Giorgia Meloni a presidente del Consiglio abbiamo in qualche modo scavallato l'ostacolo dell'inserimento delle donne nelle istituzioni?

Credo di no, anzi possiamo fare grandi passi indietro. 

La storia ci dice che nella maggior parte dei casi si è reso necessario l'avallo maschile affinché una donna raggiungesse un ruolo di prestigio sia a livello professionale che istituzionale. Pensa che oggi sia ancora così? Crede che per Giorgia Meloni ed Elly Schlein sia stato così?

Credo di no. Credo siano due donne meritevoli, in maniera molto diversa. Quello che hanno raggiunto, da due punti di vista diversi, se lo sono meritato, non possiamo dire che siano state messe lì dagli uomini, come fiore all'occhiello.

La sinistra aveva i voti degli operai, non dei poveri. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera mercoledì 27 settembre 2023.

Caro Aldo, lei ha scritto che non erano i poveri a votare a sinistra, ma gli operai. Che differenza c’è? Franco Lepori Roma

Caro Franco, Dov’è la maggioranza dei poveri in Italia? Al Sud. Dove prendeva i voti il partito comunista? Al Nord. A Napoli votavano Pci gli operai dell’Italsider di Bagnoli e dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco, non il popolo dei bassi, che votava Democrazia cristiana con uno spirito non molto diverso da quello con cui oggi vota Cinque Stelle: per avere i soldi dello Stato. Fuori dalle regioni rosse, i comunisti erano forti nei grandi agglomerati industriali del Nord: Torino, Genova, Marghera, la cintura settentrionale di Milano. Negli Anni 70 si iscriveva alla Cgil e votava Pci l’operaio massa: stessa mansione, stesso stipendio (non lauto ma comunque più di chi aveva lavori precari o non aveva lavoro), stessa classe sociale, stesso sistema di valori. Dice: il Pci doveva prendere le distanze da Mosca. Certo. Ma se dopo il crollo del Muro e la fine dell’Unione sovietica nacque un partito della Rifondazione comunista che prese più dell’8%, figurarsi cosa sarebbe accaduto se il tentativo di andare oltre il comunismo fosse stato fatto prima. Ovviamente la prevalenza del Pci fu un grosso problema per la sinistra italiana. Mentre i laburisti inglesi, i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi e spagnoli andavano al governo, la sinistra italiana si divideva e in buona parte restava all’opposizione. Oggi gli operai non ci sono quasi più. E le classi popolari votano a destra, perché percepiscono il Pd come il partito della gente che sta bene. Non che i ricchi votino a sinistra; i veri ricchi votano a destra in tutto il mondo. A sinistra vota la borghesia intellettuale, il ceto medio dipendente; cui i capi della sinistra vogliono aumentare le tasse. Chi la pagherebbe la patrimoniale vagheggiata da Schlein e Fratoianni? I grandi capitali, già al sicuro nei paradisi fiscali?

Quel “falso storico” sulla Resistenza che insistiamo a celebrare. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 29 Settembre 2023

Il Tg3 di mercoledì scorso ha dato molto risalto alle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario delle cosiddette “quattro giornate di Napoli”. Sottolineando la presenza del Capo dello Stato, il quale ha deposto una corona di fiori davanti al monumento dello Scugnizzo, il servizio si conclude sostenendo che la metropoli partenopea “fu la prima città italiana liberata, grazie ad una grande azione di tutto il popolo.”

In realtà, spiace doverlo dire, si tratta di un colossale falso storico, dal momento che le truppe tedesche stanziate nella zona di Napoli avevano già iniziato un ordinato ripiegamento strategico per rallentare l’avanzata degli Alleati, attestandosi sulla linea del Volturno. Molto istruttivo, a questo proposito, il libro di Ezio Erra, politico e intellettuale napoletano scomparso nel 2011, Napoli 1943 – le quattro giornate che non ci furono, edito da Longanesi.

È sufficiente leggerne la presentazione per farsene già una prima, significativa idea: “Davvero Napoli insorse contro i nazisti nel 1943? Davvero ci furono le quattro giornate raccontate dalla storia resistenziale ed esaltate dal cinema? Facendo appello ai ricordi personali e comparando testimonianze dirette e indirette, documenti inediti e analisi obiettive, Erra rievoca le tre settimane dell’occupazione tedesca, concluse con una ritirata della potente e militarmente preparatissima divisione Goering. Una ‘fuga’ turbata da scontri disordinati con gruppuscoli partigiani, passati alla storia come le “quattro giornate di Napoli”. Sulla verità dei fatti si stende un’altra ombra: a liberazione avvenuta 7mila napoletani presentarono domanda al Ministero degli Interni per ottenere la qualifica di “patriota” e quindi le sovvenzioni previste…”

D’altro canto, onde dimostrare in modo indiretto quanto la propaganda abbia ingigantito oltre ogni misura ragionevole i fatti in questione, occorre fare qualche passo indietro, ricordando ciò che avvenne a Roma e dintorni nei giorni immediatamente successivi al fatidico 8 settembre. Come raccontato con dovizia di particolari dall’illustre Liddell Hart, storico militare di fama mondiale, nonostante le netta superiorità delle truppe italiane stanziate intorno alla Capitale, le due deboli divisioni di paracadutisti comandate dal generale Student, contro le stesse previsioni dell’alto comando germanico, riuscirono in breve tempo a disarmare le nostre truppe.

Quindi noi dovremmo credere che dove fallì l’esercito italiano, che comprendeva la divisione corazzata Ariete, la divisione motorizzata Piave, la divisione di fanteria dei Granatieri di Sardegna, più altre truppe sparse qua e là, riuscirono i volenterosi napoletani armati alla bell’e meglio? Io direi che dopo ottant’anni, con molta acqua passata sotto i ponti, potremmo anche permetterci di uscire dalla stucchevole e trita retorica resistenziale, almeno in questa occasione. Claudio Romiti, 29 settembre 2023

Vitalizi, armocromista, eleganza: la sinistra fuori dalla realtà. Lorenzo Grossi il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.

Non solo il caso più recente caso di Piero Fassino, ma sono tanti gli esponenti giallorossi che sono scivolati dialetticamente sul tema degli stipendi e dei costi della politica 

La dichiarazione di Piero Fassino sui "soli" 4mila euro netti abbondanti che ogni parlamentare porta a casa alla fine di ogni mese ha destato particolare scalpore: anche perché quel cedolino mostrato alle telecamere era arrivato in occasione di un suo discorso tenuto alla Camera dei Deputati, in dissenso con il gruppo parlamentare del Partito Democratico, mentre si stava discutendo dello stop ai cosiddetti vitalizi, al quale l'ex segretario dei Ds si era pronunciato in maniera contraria. Tuttavia, il fatto di essersi elevato a portabandiera di questa battaglia - destinata (inevitabilmente) a fare discutere - ha completato una collezione di gaffe generate da esponenti di sinistra che riguardano proprio i tempi personali di bilancio economico: scivoloni dialettici per i quali è stato soprattutto il loro elettorato di riferimento a storcere il naso, frastornato da atteggiamenti pubblici che palesano un movimento politico completamente scollegato dalla realtà.

L'armocromista di sinistra

Il nome di Enrica Chicchio comincia a risuonare in maniera "prepotente" nella seconda metà di aprile di quest'anno: di chi stiamo parlando? La citò esplicitamente AEAlly Schlein in un'intervista rilasciata a Vanity Fair. Chicchio è un'image consultant e personal shopper assunta dalla nuova segretaria del Pd per selezionarle i colori più adatti a essere indossati per creare un outfit "perfetto". Probabilmente per la prima volta della storia della politica emerse la parola "armocromista". Le sue consulenze possono arrivare a costare anche 400 euro l'ora. Un prezzo che non tutti i militanti e simpatizzanti dem possono permettersi, specialmente per un servizio non esattamente di fondamentale necessità.

I due stipendi incompatibili

Appena venne eletto come senatore del Partito Democratico, Andrea Crisanti rivendicò nelle prime settimane da parlamentare il proprio diritto di continuare a percepire, ugualmente, lo stipendio anche da medico nonostante si fosse messo in aspettativa per esercitare il proprio ruolo politico. La vicenda aveva fatto alterare (e non poco) l'Azienda ospedaliera Padova il cui vertice, Giuseppe Dal Ben, aveva giustamente contestato la richiesta del professore: il compenso del microbiologo poteva essere accordato solamente nel caso in cui avesse lavorato nei termini stabiliti dal contratto con l'Università: con un altro lavoro, non poteva pretendere più nulla. Un po' costretto sostanzialmente dalle circostanze, alla fine Crisanti rinunciò allo stipendio da dottore: seppur dopo tanta insistenza altrui.

La casa pagata con le copie di un libro

Lasciando stare per un momento le vicende giudiziarie che stanno riguardando la sua famiglia, l'autodifesa televisiva di Aboubakar Soumahoro fu un disastro dietro l'altro. Il deputato eletto con l'Alleanza Verdi-Sinistra (poi passato al gruppo misto) venne intervistato da Corrado Formigli per Piazzapulita pochi giorni dopo l'esplosione dello scandalo sulle sue cooperative. Due frasi fecero letteralmente il giro dei social. La prima riguardava il fatto che fosse stato grazie ai proventi del sui libro scritto che poté acquistare casa: peccato che fosse complicato riuscire a fornire garanzie alla banca per accedere al credito di 270mila euro esclusivamente con delle copie di un libro che non fu esattamente un best seller. La seconda sottolineò il "diritto all'eleganza" di sua moglie: un "diritto" più che legittimo, se non fosse che lei ostentasse sui social vestiti griffati proprio nel lungo periodi in cui i dipendenti non venivano più pagati.

Gli ex grillini strapagati ma scontenti

Non avevano ancora cominciato a lavorare ufficialmente nei gruppi del Movimento Cinque Stelle in Parlamento, ma già si lamentavano ed erano addirittura pronti a chiedere l'aumento. All'inizio di quest'anno alcuni ex dipendenti dei grillini di Camera e Senato e gli attuali parlamentari manifestarono malumori e denunciarono le presunte pretese dei big pronti a prendere servizio negli staff pentastellati di Montecitorio e Palazzo Madama. Si sottolineavano soprattutto le recriminazioni di Paola Taverna e Vito Crimi, ripescati da Giuseppe Conte a 70mila euro lordi all'anno: circa 3mila euro al mese. Ma si parlò anche di proteste da parte degli altri ex in procinto di rientrare nel Palazzo. Dall'ex ministra Fabiana Dadone all'ex tesoriere del gruppo alla Camera Claudio Cominardi. Insomma: risarciti e già delusi.

Cirinnà tuttofare

"Nei pochi giorni di ferie, cinque per la precisione, sto facendo la lavandaia, l'ortolana, la cuoca. Tutto questo perché la nostra cameriera, strapagata e messa in regola con tutti i contributi Inps, ci ha lasciati da un momento all'altro". A parlare così fu Monica Cirinnà, reduce già dallo stress per i 24mila euro in contanti ritrovati nella cuccia del cane in giardino e di cui nessuno ha mai conosciuto la provenienza. In quello sfogo, raccolto dal Corriere della Sera, c'era tutto: il disprezzo per le mansioni più umili, i capricci di chi non è abituato alla fatica fisica, la spocchia verso i diritti di una lavoratrice, l'indifferenza per la vita interiore dei propri dipendenti, lo snobbismo classista nonché - un elemento che accomuna tutti questi personaggi - la piena incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie parole.

Festa dell'Unità, la nuova lotta di classe: arruolano i ragazzini delle medie. Hoara Borselli Libero Quotidiano l'8 giugno 2023

Sapete cosa c’è in programma alla Festa dell’Unità di Montespertoli? Una cena. Vabbè, che c’è di strano? Da che mondo e mondo le feste dell’Unità son fatte soprattutto di cene, salsicce e canzoni di lotta, no? Sì, ma questa è una cena di classe. Logico, direte voi, la festa dell’Unità è una festa che si ispira ai valori della lotta di classe. No, di classe, di scuola, di medie. I ragazzini delle classi secondarie andranno a fare la cena di fine anno scolastico proprio lì, alla festa dell’Unità. Nella casa del Pd. Ora capite che quando poi si parla di prepotenza non si esagera né punto né poco, come dicono a Montespertoli. Che un partito decida di fagocitare le classi dei ragazzini delle scuole medie va oltre ogni possibile immaginazione. Sì, quando Togliatti, 80 anni fa, inventò questa genialata delle Feste dell’Unità, che servivano al Pci per avvicinarsi al Popolo, per superare il freno delle ideologie, degli schieramenti, per svolgere il proselitismo soft dell’intrattenimento, molto prima, addirittura, che in Italia apparisse la tv, agli attivisti furono insegnati molti trucchi per conquistare le masse, qualcuno forse anche scorretto, ma a nessuno era venuto mai in mente di “catturare” gli alunni di una scuola.

C’è poi da chiedersi un’altra cosa. E gli insegnanti? E il preside della “Renato Fucini” non hanno niente da dire? Si sono allineati agli ordini del partito? Oppure l’idea è stata proprio della scuola? Allora meriterebbe un’attenta riflessione anche il perché di tale scelta. Domanda retorica con risposta scontata. Secondo voi è normale trovare il nome di una scuola pubblica nel calendario degli eventi di una manifestazione partitica? No, non lo è. Viene meno quel principio di imparzialità dell’istruzione pubblica. Nelle recite alle scuole elementari si canta “Bella Ciao”, per festeggiare la chiusura dell’anno, i ragazzini devono riunirsi alla Festa dell’Unità. Scusate ma non sentite puzza di indottrinamento? Ovvio che la platea dei ragazzini faccia molta gola perché sono plasmabili, condizionabili, sono cavie perfette. Ora ci sono a Montespertoli diverse persone che stanno chiedendo al Pd di cancellare l’iniziativa. E alla scuola di scusarsi. Vi ricordate nei vecchi fumetti degli anni Cinquanta il grido che spesso ricorreva: «Contrordine, compagni!»? Beh, seppure per una questione meno drammatica, sarebbe il caso di ripeterlo quel contrordine, se non altro per non superare i limiti della decenza.

Come e quando la sinistra ha perduto il popolo. Storia di Aldo Cazzullo Su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.

Caro Aldo, lei ha scritto che il Pd ha perso il popolo. Siccome la stessa identica frase l’ho sentita dire in tv da Mauro Corona che è uno scrittore e siccome gli scrittori hanno una percezione epidermica della realtà che ci circonda, gradirei un suo approfondimento. Cosa vuol dire per un partito perdere il popolo? Quando si parla di popolo c’è di mezzo la democrazia, di cui credo non si possa, in Italia, più fare a meno. Possibile che un partito a livello nazionale ancora ben saldo non lo sappia? Alessandro Prandi

Caro Alessandro, La sinistra italiana, oltre che nelle regioni rosse, era forte nei grandi conglomerati industriali del Nord: Torino, la cintura di Milano tra Cinisello e Sesto, Genova, Marghera. Nel CentroSud esisteva dove c’era appunto l’industria: a Terni, a Bagnoli, ai cantieri di Palermo. Oggi il sindaco di Sesto è di destra. A Terni c’è appena stato il ballottaggio tra il candidato della destra e il padrone della Ternana, che ha vinto. Che la sinistra abbia perso il popolo non è un’opinione mia o del grande Mauro Corona; è un fatto. La destra offre al popolo protezione dalle sue paure, a cominciare dall’immigrazione senza controllo che comprime salari e diritti e rende più complesso usufruire dei servizi, dalla casa popolare al letto in ospedale, dall’asilo nido al Pronto soccorso. Non aver capito e continuare a non capire che l’immigrazione è un affare per il capitale e un problema per i ceti popolari è un ritardo culturale che la sinistra italiana proprio non riesce a colmare, mentre in America storicamente i più duri sull’immigrazione sono i democratici. Ma ovviamente non è tutto lì. Non si poteva pensare che il fallimento epocale del comunismo non comportasse un prezzo da pagare per gli eredi del più grande partito comunista dell’Occidente. Oggi il Pd non è un partito di sinistra. È un partito di sistema. Non che il sistema sia poi così da buttare. La crisi della destra liberale e repubblicana ha partorito in mezza Europa una destra del tutto impreparata, al di là del talento politico di Giorgia Meloni, ad affrontare le grandi questioni, dall’integrazione europea al cambio climatico. Ma questo è un altro discorso. Il Pd è percepito come il partito della gente che sta bene. Dei «garantiti» che non hanno problemi. Non dico che sia così. Né che manchino temi su cui fare politica, dai salari da aumentare alla sanità pubblica da difendere. Ma di sicuro il tentativo del Pd di riconquistare il popolo minacciando tasse — che saranno pagate non dai veri ricchi già al sicuro nei paradisi fiscali ma dal ceto medio dipendente — è destinato a sicuro fallimento. Il partito democratico è infatti l’unico al mondo a voler aumentare le tasse ai suoi elettori.

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 27 aprile 2023. 

L’ufficialità dovrebbe arrivare il 5 maggio, alla convention di Forza Italia. Caterina Chinnici, europarlamentare del Pd, è pronta a passare nelle truppe azzurre. Sarebbe il secondo addio al Nazareno, dopo quello di Enrico Borghi, senatore appena entrato in Italia Viva, come anticipato stamattina da Repubblica. Chinnici, ex magistrata, è stata eletta all’Europarlamento nel 2014 ed è alla seconda legislatura. L’anno scorso è stata candidata alla presidenza della Regione Sicilia, prima per la coalizione giallorossa, poi solo per il Pd, senza 5 Stelle, dopo la rottura estiva fra Giuseppe Conte ed Enrico Letta.

Chinnici non risponde al telefono, dunque non conferma né smentisce. Ma la mossa è nell’aria, confermano fonti di primo piano del Pd a Bruxelles. E lo stesso trapela da Forza italia. Lo stesso Renzi, oggi pomeriggio in conferenza stampa, è stato allusivo: “Ci saranno altre uscite, dopo Borghi, stavolta non verso Italia Viva o Azione, guardate al Parlamento europeo”.

Pd, si può mettere alla gogna solo chi è nemico dei dem. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano il 17 marzo 2023

Ma come, consigliere Romano? Si è permessa di fare la morale a quei cattivoni che girano in metropolitana per filmare e fotografare le borseggiatrici che ripuliscono i vagoni h24, incassando pure il plauso del Pd, e poi - non più tardi dello scorso novembre metteva alla gogna sui social un suo detrattore? Allora come la mettiamo? La privacy vale solo a corrente alternate?

Quando toccano un esponente di sinistra è giusto pubblicare nome e cognome con relativo commento mentre se si tratta di proteggere pendolari e turisti dalle mani leste delle conosciutissime ladre nomadi è pratica deprecabile mettere i loro faccioni online? Basta intendersi. Il doppiopesismo, però, è sotto gli occhi di tutti.

IL PRECEDENTE Era il 23 novembre, quando Monica Romano - il primo consigliere comunale transgender a Milano, eletto in quota Partito Democratico postava su facebook lo screenshot di un commento ricevuto a un video, da lei pubblicato su TikTok per contestare Checco Zalone «per la sua orribile “satira” ai danni delle persone trans». Due righe che recitavano così: «Quelle come te dovrebbero stare due metri sotto la terra». Una vergogna.

Perché solo così puo definirsi un inequivocabile augurio di morte. Questo è fuori discussione: i social non potranno mai essere considerati una discarica dove poter vomitare di tutto impunemente. E lo stesso, ovviamente, vale anche per gli insulti ricevuti dal consigliere dopo aver bacchettato i giovani che ogni giorno cercano di contrastare le borseggiatrici armati di telefonino.

Però, ed è di fatto innegabile, pubblicando quel commento con tanto di nome e foto ben visibili, l’esponente dem ha fatto la stessa cosa per cui cinque giorni fa si è stracciata le vesti. Un cortocircuito in piena regola.

Con orgoglio, tra l’altro, Romano annunciava sui social che aderiva alla campagna #eiotipubblico, ringraziando l’ideatrice Laura Boldrini per averla coinvolta. L’obiettivo dichiarato, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, era quello di mettere in mot «una catena collettiva di indignazione» e accompagnare ogni post di denuncia con il relativo hashtag.

«Contribuiamo a rendere il web un posto migliore e sicuro»: si chiudeva così il papiro della Boldrini condiviso da parecchie politiche di sinistra contro «una violenza di nuova generazione, che ha il volto del linguaggio d’odio, del sessismo e della misoginia online».

Ma non è tutto. Perché nel recente post in cui il consigliere chiedeva «a quelli che realizzano i video» di smetterla «di spacciare la loro violenza per senso civico», il centrodestra è stato velatamente accusato di lucrare consenso grazie a questa modalità di denuncia online. Scriveva infatti: «Di violenza e squadrismo ne abbiamo già avuti abbastanza davanti a un liceo di Firenze e nelle acque di Cutro».

Quindi, di fatto, sarebbe sbagliato secondo lei usare social e chat rendere virali problematiche che inevitabilmente impattano sul dibattito politico. E allora perché, sul suo profilo facebook, Romano la buttava addirittura sul ddl Zan in merito ai brutti epiteti ricevuti?

ACCUSE POLITICHE - Era l’8 settembre scorso e così scriveva: «Io credo- e nulla me lo toglierà dalla testa che il clima stia cambiando da quando la legge Zan è stata affossata e ancor di più in vista delle prossime elezioni. I geni si sentono al sicuro, sempre più legittimati a esprimere le loro “opinioni”, a offendere e ad aggredire tanto verbalmente quanto fisicamente anche perché sanno che i sondaggi danno le destre in vantaggio». E ancora: «I diritti delle persone Lgbt+, delle donne, delle minoranze etniche o di credo religioso e delle persone con disabilità qui in Italia sono fragili. Mi duole doverlo dire ma l’Italia non è un paese sicuro per noi persone Lgbt+, per le donne e per le minoranze in genere. Stiamo in campana e andiamo tutt* a votare». Con tanto di pugno chiuso e bandiera arcobaleno. Dimenticandosi, oggi come allora, che gli insulti e le minacce sono sempre la strada peggiore da percorrere: non esiste una scala di gravità in base a chi viene colpito, così come non possono esserci due pesi e due misure nel denunciarli. Oppure merita il patibolo social solo chi è nemico del Pd?

Roma, circolo Pd moroso. Ira dei condomini: travolti dai debiti dem. Alessio Buzzelli su Il Tempo il 14 marzo 2023

Torpignattara, quartiere popolare del quadrante est di Roma, c’è un circolo del Partito Democratico che a quanto pare non pagherebbe le rate condominiali da cinque anni, raggiungendo così una morosità complessiva di circa 10mila euro. Un debito che rischia di ricadere interamente sulle spalle degli incolpevoli e sfortunati condòmini, i quali, dopo aver cercato di contattare più volte - e senza successo - il partito dem, hanno pensato di rivolgersi ad un programma televisivo, nel disperato tentativo di risolvere in qualche modo la situazione. Questa la breve e per molti versi paradossale sinossi della storia che andrà in onda questa sera all’interno del format tv Mediaset «Le Iene», ormai da diversi anni divenuto in questo strano Paese una delle poche risorse a disposizione dei cittadini per far sentire la propria voce. A raccontarla sarà la iena Filippo Roma, il quale, dopo aver raccolto l’appello e le testimonianze degli sfortunati vicini di casa del Pd, ha intercettato gli alti papaveri del partito - riunitisi domenica scorsa nel centro congressi la Nuvola per l’investitura della neo segretaria Elly Schlein, - in cerca di risposte. Ma andiamo con ordine.

Per prima cosa, è bene sapere che Torpignattara è un quartiere in cui il Pd e in generale la sinistra ha sempre registrato un alto consenso e in cui le ultime primarie sono state stravinte da Schlein, la quale, nel circolo in questione, ha raccolto ben 370 voti su 456 votanti. Un sostegno popolare che però il partito, stando a quanto raccontato da Le Iene, non avrebbe affatto ricambiato, almeno nel caso del condominio protagonista di questa storia, i cui abitanti, oggi, sono arrivati al limite della sopportazione. «Il problema di questo circolo – racconta l’inquilina Eleonora a Filippo Roma - è che il Pd non paga le rate condominiali da 5 anni, per cui ci stanno mettendo nella condizione di dover sostenere noi queste spese. Parliamo di un debito di più o meno 10mila euro, sono un sacco di soldi». Le parole degli inquilini intervistati oscillano tutte tra la delusione e la rabbia: sia per il senso di ingiustizia che questa situazione inevitabilmente emana; sia perché, da queste parti, 10mila euro sono tanti, troppi soldi; e sia perché ad aver generato questa situazione sarebbero state le mancanze di un partito che si è sempre dichiarato (in teoria) vicino alle classi popolari. Ma a far arrabbiare i condòmini è stata anche la prolungata assenza di risposte da parte del Pd: «Noi – prosegue Laura - abbiamo fatto anche dei decreti ingiuntivi per recuperare questa morosità, ma non abbiamo avuto risposta. Zero. Neanche quando abbiamo provato a contattarli». Il risultato è che oggi gli inquilini rischiano di dover pagare 1.000 o anche 1.500 euro ciascuno per un debito non loro: «pagare quei soldi per noi è un problema – conclude Laura -. Perché è uno stipendio. Ed è impensabile pagare 1.500 euro per chiudere i buffi di un partito».

«Come partito di sinistra dovrebbero darci l’esempio e invece in questo caso siamo noi che glielo stiamo dando – aggiunge Maria Grazia -. Qua ci sono famiglie che stanno veramente messe male per colpa loro. Noi non abbiamo più soldi per pagare e siamo al limite della sopportazione». Un altro condomino, poi, decide di lanciare un appello direttamente alla Schlein: «Ciao Elly - dice guardando in camera - è abbastanza grave che un partito storicamente attento ai bisogni delle fasce più deboli si trovi in una situazione così scomoda da dover mettere le mani in tasca alle famiglie in un quartiere proletario come quello di Torpignattara. Chiediamo che ci vengano restituiti i soldi credo in te sono certo che sarai capace di risolvere la situazione». Dopo aver raccolto le testimonianze degli inquilini, Filippo Roma si è quindi recato al congresso del Pd per sottoporre il problema ai maggiorenti del partito, rincorrendoli qua e là per tutta La Nuvola. Ma le risposte alle sue domande, tra una scrollata di spalle e un sorriso di circostanza, si sono rivelate per gli inquilini a dir poco insoddisfacenti. Eccone alcune di quelle che andranno in onda: «grazie, mi informo» (Debora Serracchiani); «hanno ragione, devono pagare, grazie» (Roberto Speranza); «adesso verrà gestita la cosa, grazie» (Enrico Letta); «compagni di Torpignattara, lunedì vi contatteremo e ci spiegherete che cosa è successo» (Francesco Boccia); «Bisogna sempre onorare i debiti... bisogna pagare le spese del condominio per essere più credibili dopo a guidare il paese. Mi occuperò, glielo prometto» (Stefano Bonnacini); «buongiorno» (Elly Schlein mentre si allontana).

Il passato che ruba il futuro. Negli anni '90, per rappresentare al meglio il masochismo politico dell'Ulivo, fu addirittura inventato un neologismo, tafazzismo. Augusto Minzolini il 7 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Negli anni '90, per rappresentare al meglio il masochismo politico dell'Ulivo, fu addirittura inventato un neologismo, tafazzismo, prendendo spunto da uno strano personaggio in calzamaglia - interpretato da Giacomo Poretti del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo - che adorava schiaffeggiarsi con una bottiglia di plastica gli zebedei. Sono passati più di vent'anni, non c'è più Tafazzi, né l'Ulivo, ma è rimasto quell'innato desiderio di farsi male, appunto il masochismo di sinistra. Una strana sindrome, una malattia nascosta che percorre tutta la storia della sinistra e delle sue molteplici facce nella Seconda Repubblica.

Il culmine di questa patologia sono le primarie. Dovrebbero essere un momento di popolo, per usare un linguaggio un po' datato, e, invece, vanno in scena tutte le contraddizioni, i limiti, le divisioni, le fobie del Pd. Un meccanismo perverso per cui si convocano per contestarne addirittura il risultato ancor prima di svolgerle, dando vita ad una ridda di accuse e controaccuse.

Si parla di tessere gonfiate, come si faceva al tempo della democrazia cristiana. E ancora, si demonizzano ipotetici «intrusi»: Bonaccini azzarda una fila di truppe cammellate grilline ai gazebo in aiuto della Schlein; lei già vede camicie azzurre, verdi e nere, come a sinistra viene descritto il centrodestra, in soccorso di Bonaccini. Per chi poi non fosse ancora contento le primarie possono offrire una radiografia impietosa del Pd attuale: la Schlein, a capo della corrente dei fighetti, a Mirafiori non va oltre i due voti; il governatore dell'Emilia Romagna, per coprirsi a sinistra, con le sue ultime uscite nostalgiche persino del Pci, ha finito per mettere in fuga i riformisti. Per i risultati degli altri candidati - dalla De Micheli a Cuperlo - si rischia un'espressione anonima quanto deprimente: «non pervenuti».

Quindi, un caos, un'autoflagellazione, una coltivazione intensiva di vecchi odi e nuovo rancori che rischia di mettere in embrione una nuova scissione. Almeno se questo grande bailamme servisse a porre le basi di un confronto serio per dare al partito una nuova «identità» (è l'espressione più in voga in questa stagione), un programma, un orizzonte per il presente e magari per il futuro avrebbe un senso. Invece niente: il confronto lascia il posto solo alla zuffa e alle polemiche, con il rischio che il prossimo leader sia scelto da quattro gatti, un numero che servirà solo a certificare il declino del Pd.

A questo punto c'è da chiedersi se valeva davvero la pena darsi una nuova botta agli zebedei, o se invece sarebbe stato meglio, molto meglio, mettere da parte le primarie per marcare una discontinuità e aprire una nuova stagione. La verità è che non era possibile, perché il Pd va avanti per inerzia con le sue liturgie, i suoi costumi che una volta erano la sua forza e ora si sono trasformati nella sua camicia di forza. Un partito schiavo del suo passato, magari anche glorioso perché ha dato la possibilità agli eredi della sinistra della Democrazia cristiana e del Pci di attraversare indenni le tante ere che si sono rincorse nella geologia della politica. Solo che ora è proprio quel passato a rubargli il futuro.

Estratto dell’articolo di Bernardo Basilici Menini e Irene Famà per “la Stampa” il 31 gennaio 2023.

«La condizione delle donne rimane quella della discriminazione. E anche il mio sindacato al suo interno è maschilista». L'accusa arriva dalla senatrice Susanna Camusso. È proprio l'ex segretaria generale Cgil ad avanzare la critica ieri, al Circolo dei Lettori di Torino durante la presentazione del libro "Adesso Tocca a Noi".

 «Chiariamoci: la Cgil è maschilista come lo è qualsiasi luogo collettivo di massa, dove puoi cercare di usare alcuni anticorpi, ma rimane comunque uno specchio della società». Tante occasioni «in cui la tua parola vale meno di quella di un uomo. Non ottieni la stessa attenzione. Ho visto con i miei occhi delegati che chiedevano che a rappresentarli fosse un uomo e non una donna».

Eppure lei è riuscita lo stesso. «Sì, ma bisogna stare attenti all'analisi di questi processi: quando una donna rompe il tetto di cristallo la cosa peggiore e più sbagliata che si può fare è colpevolizzare le altre donne che non ce l'hanno fatta, come a dire "io ce l'ho fatta, perché voi no?" Io ho avuto la fortuna di costruire il mio percorso nei grandi anni del femminismo […]».  Erano gli anni delle rivendicazioni, di una «tensione molto forte che veniva raccolta anche da sindacati e partiti». Oggi, quella tensione, Camusso la vede «scemare e questo è rischioso, perché potrebbe provocare un arretramento. Nei sindacati non vedo abbastanza impegno, si potrebbe fare di più».

Camusso ora siede a Palazzo Madama. A Montecitorio c'è la prima donna premier. «[…] Con Meloni abbiamo una donna che ha sfondato il tetto di cristallo, ma ora tiene incollate le altre donne al pavimento. È uno dei rischi di cui parlavo prima: sta passando il messaggio che se una donna ce l'ha fatta allora la colpa è di tutte quelle che non ci sono riuscite». […]

La biblioteca della sinistra. Il processo a Eichmann visto da Horkheimer. Filippo La Porta su Il Riformista il 25 Gennaio 2023

Scusate se insisto sempre sullo stesso punto, e cioè la assenza di qualsivoglia biblioteca nei nostri partiti attuali. Nessuno riuscirebbe a immaginarla. Un’assenza che alimenta la confusione attuale sui confini tra destra e sinistra. In particolare la sinistra, orfana di tutto, non sa più riconoscere le proprie tradizioni, e a volte sembra perfino che se ne vergogni. Ora, bisogna scegliersi la tradizione giusta e saperla – saggiamente – riattualizzare. Nel Novecento la Scuola di Francoforte – Adorno. Horkheimer, Marcuse… – è una di queste tradizioni, perfino con il suo pessimismo su come va il mondo e sulle cosiddette sorti progressive.

Prendiamo Max Horkheimer, formatosi su Hegel e su Schopenhauer, oltre che su Marx. Nei suoi Taccuini 1950-1969 (Marietti 1989) – preziosi per chiunque intenda oggi rilanciare il bagaglio etico della sinistra – ci invita non tanto a contrapporre progressisti e conservatori quanto a distinguere in ogni singola persona tra l’uomo-massa (conformista, omologato, egoista, pronto a obbedire al capo), cui importa esclusivamente di se stesso, e il vero individuo singolo. Ora questo individuo singolo “si riconosce unito agli altri non tanto nel perseguimento degli interessi immediati, quanto piuttosto nella miseria di coloro che sono esclusi, di quelli che sono malati, perseguitati, condannati, proscritti, ciascuno dei quali è ‘singolo’ in un senso doloroso e disperato”. Perché mai dovrebbe riconoscersi nella miseria degli esclusi? Non per un sentimento umanitario o per una specie di dover-essere cattolico né perché gli esclusi liberando se stessi libereranno tutti, ma perché è in gioco la propria parte “esclusa”, esposta sempre al caso e alla sventura. Insomma la propria paura, che opportunamente vagliata al lume della ragione può fondare quella solidarietà senza cui il singolo non è pensabile.

E ancora: qualche giorno fa ho prodotto alcuni argomenti a favore del garantismo appellandomi perfino alla tradizione ebraica della Mishnà e alla figura di Aronne, molto amato perché incapace di giudicare. Ora, Horkheimer, che era ebreo anche se non si appassionò allo stato di Israele (che per lui sta all’ebraismo come la chiesa cattolica sta al cristianesimo), scrive che l’origine del comportamento morale è dovuto alla mimesi: in particolare, nell’infanzia i gesti della generosità, dell’amore, della “libertà dalla vendetta” sono oggetto di una esperienza così intensa da diventare un elemento permanente del comportamento. Si diventa “morali” imitando, da piccoli, quei gesti, almeno se ci è stato possibile farlo. Così come i cristiani auspicavano la imitazione di Cristo, mentre regole e dogmi sono del tutto secondari. Ma da qui, dalla “libertà dalla vendetta” andiamo al nucleo forse più scandaloso, e certo discutibile, di questi Taccuini. Nel 1961 Horkheimer intende prendere le distanze dalla cattura e dal processo, da lui considerato illegittimo, ad Eichmann (che non ha ucciso in Israele): “I processi penali per calcolo politico appartengono all’arsenale dell’antisemitismo, non a quello del popolo ebraico”.

Il pensatore tedesco manifesta la sua profonda diffidenza per il concetto stesso di espiazione, che per lui implicherebbe qualcosa di tenebroso, evocante i primordi della storia germanica e dell’Inquisizione. Qui introduce una distinzione. Da una parte capirebbe una volontà dichiarata di fare vendetta: se cioè uno avesse perso padre e madre sotto Hitler e avesse scovato il boia in Argentina, ammazzandolo sulla pubblica strada, “come uomo tutti lo avrebbero capito”. Però dall’altra il processo istituito in Israele, con la volontà di “fargli del male” tradisce secondo lui “sentimenti volgari”. Aggiunge che nessun popolo ha sofferto più di quello ebraico – della sofferenza ha fatto il suo elemento di coesione, impedendole di generare cattiveria – : “Gli ebrei non sono ascetici, essi il dolore non l’hanno adorato, bensì subito”. Proprio perciò se un ebreo trovasse naturale di fronte a Eichmann vederlo soffrire, allora contraddirebbe alla sua religione e a tutto il retaggio della sua storia. La punizione di Eichmann “avrà solo il risultato di fargli un po’ di quel male che ha nobilitato i morti”.

Ora, sappiamo che in realtà Eichmann non fu maltrattato né torturato – anzi lo stato di Israele gli pagò l’avvocato (tedesco) -, e nel processo, formalmente ineccepibile dal punto di vista del diritto internazionale, non vi era spazio per ritorsioni. Personalmente continuo a ritenere quel processo legittimo, storicamente e giuridicamente, tuttavia mi colpisce l’atteggiamento di Horkheimer (simile a quello di Martin Buber, e di una parte stessa dell’opinione pubblica di Israele in quel momento): veder soffrire qualcuno non può essere fonte di soddisfazione non solo per un ebreo ma per nessun essere umano. Forse così Horkheimer nega uno strato arcaico della nostra psiche (insomma chiede troppo all’essere umano), e un poco disinnesca quel meccanismo della giusta vendetta che sottende i film d’avventura che ci appassionano. Però se davvero ci si riconosce in coloro che soffrono – per essere stati esclusi – allora non si può godere della sofferenza neanche di chi pure fu un carnefice.

Infine, un aforisma che ribalta un luogo comune diffuso, e che mette radicalmente in discussione la mentalità calvinista che informa di sé la nostra società capitalista, invitandoci a qualche riflessione sulla recente querelle intorno alla meritocrazia. Si intitola: “Felicità senza merito”, e dice così: “Un tale eredita molti soldi. Che bello possa vivere così, senza nessun merito né lavoro né sofferenza! E la gente strilla ‘Com’è ingiusto!’. Ma non vedete che si tratta di quel poco di giustizia che è rimasta in questo mondo? Una felicità – senza merito?”. Pensateci bene: in un certo senso la ricchezza di uno che semplicemente l’ha avuta inaspettatamente in eredità, che non ha fatto nulla per conquistarla e meritarsela, ha qualcosa di meravigliosamente utopico. Mica dobbiamo “meritarci”la felicità, no? La vita non è tanto un compito o una performance quanto un dono. Ecco, credo su questa utopia del “non merito” difficilmente una destra potrebbe acconsentire. Filippo La Porta

Conte a Cortina, i legami Renzi-Arabia e il caso Soumahoro: il complicato rapporto della sinistra col denaro. Christian Campigli su Il Tempo il 04 gennaio 2023

Si sono evitati nel primo dopoguerra, guardati con circospezione con l'arrivo del boom economico, avvicinati, ma con reciproco sospetto, nell'ultimo ventennio. La sinistra e la ricchezza, il lusso, il piacere di usare il denaro guadagnato anche per il futile hanno, da sempre, un rapporto complesso e difficile. Il “peccato originale” è ovviamente insito nella missione stessa del Partito Comunista, ovvero quella di difendere la classe operaia dagli abusi del ceto borghese, preoccupato solo di arricchire le proprie tasche. Enrico Berlinguer, con la sua sobrietà, il suo inconfondibile stile, rappresentava al meglio la sintesi tra rigore morale, straordinaria visione politica e consapevolezza di dover dare per primo l'esempio col proprio atteggiamento integerrimo. Il crollo del Muro di Berlino e l'avvicinamento dei progressisti al capitalismo hanno sciolto certi nodi. Ma solo in apparenza. 

Basta citare tre esempi, di stretta attualità, per rendersi conto di come quel moralismo che vuole il politico di sinistra come un povero intellettuale mal vestito è ancora ben presente nella nostra società. Matteo Renzi quando comprò la villa in via Tacca, a Firenze, nel quartiere più bello della città, Pian dei Giullari, fu letteralmente messo in croce. Senza dimenticare gli attacchi frontali sulla vicenda relativa alle consulenze in Arabia. Nel novantanove per cento dei casi provenienti da fuoco amico. 

 E che dire di Aboubakar Soumahoro, costretto a doversi giustificare, paradossalmente, più per la borsa e gli hotel di lusso amati dalla moglie che per il clamoroso scandalo che ha toccato la cooperativa gestita dalla suocera. Tipico esempio di chi si ferma alla forma e non analizza, a fondo, la sostanza. Infine il viaggio di Giuseppe Conte a Cortina. È evidente anche agli occhi del cieco come l'Avvocato del Popolo non abbia fatto nulla di male nell'utilizzare una parte del suo lauto stipendio da parlamentare per una rilassante vacanza in alta montagna. Per altro in una località italiana. È però altrettanto evidente che, se davvero vuol diventare il leader della sinistra degli ultimi, quelli che non possono mangiare se non mantenuti dallo Stato con il reddito di cittadinanza, dovrà imparare, e alla svelta, la lezione di Enrico Berlinguer. Rigore, trasparenza ed esempio. 

Bianca Leonardi per “il Giornale” il 30 dicembre 2022. 

Nonostante quel buco nero in cui il Pd sta sprofondando, il gioco delle nomine immorali sembrerebbe restare il vizietto preferito dei dem. 

Proprio qualche giorno fa in Regione Puglia è arrivata la nomina a sorpresa, decisa e voluta fortemente dal presidente Michele Emiliano, di Pippo Liscio come nuovo amministratore unico dell'Arca Capitanata. 

Sicuramente quello di Liscio non è un nome nuovo: lui ed Emiliano sono stati infatti coinvolti nell'inchiesta sulla sanità che decretò l'assegnazione del servizio a Sanitaservice, di cui proprio Liscio aveva provveduto allo studio di fattibilità, come soddisfacimento di logiche clientelari in quanto prevedeva la possibilità di far lavorare persone indicate dal politico di turno. Liscio è stato condannato infatti per aver assegnato illecitamente 180mila euro a 22 dirigenti dell'Asl di Foggia.

La nomina lampo di Emiliano ha fatto fuori Danny Pescarella, il cui incarico - terminato lo scorso anno - era stato prorogato proprio dal presidente nonostante un bando al quale parteciparono 42 persone. La poltrona di Liscio ha portato infatti non pochi malumori: «Liscio andava allontanato dalla Sanitaservice, ma non poteva rimanere senza stipendio», rivelano fonti interne.

Ma quello di Emiliano non è un caso isolato e infatti anche la Regione Lazio si trova a fare i conti con Alessio D'Amato, assessore alla sanità e candidato del Pd alle regionali. Il dem è però condannato alla restituzione di 275mila euro, soldi affidati dalla Regione a una Onlus, Fondazione Italia-Amazzonia, che sarebbero stati usati - secondo la sentenza - per scopi personali, precisamente per finanziare l'attività politica di due associazioni riconducibili a D'Amato. 

Ciliegina sulla torta è però il colpo di testa del sindaco di Napoli, il dem Gaetano Manfredi, che ha deciso di puntare tutto su colui che risulterebbe coinvolto nel Qatargate, Andrea Cozzolino. La nomina è arrivata a novembre e per lui è stata creata una cabina di regia ad hoc per la gestione dei fondi Pnrr.

Sebbene Cozzolino al momento non sia indagato nello scandalo europeo, il suo assistente- arrestato- Francesco Giorgi ha dichiarato alla Procura il coinvolgimento del dem nel piano Panzeri. A Napoli, nonostante l'opposizione e le richieste di chiarimento, il sindaco Manfredi sembrerebbe però non avere nessuna intenzione di fare un passo indietro.

Il “caso” La Russa e il Msi, perché i dem vanno a caccia di fantasmi? Come con il Cav demonizzano l’avversario. Ma non sul piano della battaglia politica. Paolo Delgado su Il Dubbio il 28 dicembre 2022

Alla fine dell'inverno 1975 la sinistra extraparlamentare italiana lanciò una grande campagna per mettere fuorilegge il Msi.

Nessun partito si lasciò tentare, tanto meno il Pci. Di lì a poco sarebbero state sciolti gruppi neofascisti radicali, prima Ordine Nuovo nel 1976, poi Avanguardia Nazionale. Nessuno si sognò mai però di procedere allo stesso modo contro il Msi. Sarebbe stato probabilmente impossibile costituzionalmente e di certo politicamente sconsigliabile: forse la seconda considerazione valse ancora più della prima.

Il Msi, soprattutto nella prima fase della sua lunga esistenza, si rifaceva al fascismo e fascisti erano stati ed erano tutti i suoi dirigenti. Ma non a questo si riferisce la Costituzione quando vieta la ricostituzione del Pnf.

Il Msi, nostalgie e coreografie a parte, non si presentava come partito fascista ma tutt'al più come partito che al fascismo guardava come a un'esperienza essenzialmente positiva. Discutibile e forse anche qualcosa di più ma egualmente cosa diversa da un tentativo di ricostruire il partito di Benito Mussolini. Politicamente, la Repubblica e lo stesso Pci aveva capito sin dal dopo guerra che a quella parte minoritaria ma non inconsistente di elettorato di estrema destra bisognava offrire uno sbocco istituzionale perché questo avrebbe garantito la sicurezza della democrazia più di qualsiasi messa al bando autoritaria.

Il Msi rappresentò quello sbocco istituzionale e democratico e lo fece sempre anche negli anni della guerriglia di strada, dei pestaggi e della violenza esercitata e subìta. A differenza dei movimenti apertamente neofascisti, sul Msi non ci sono mai stati sospetti di stragismo, anche se il confine nella galassia di estrema destra era effettivamente labile, soprattutto al livello della base militante, e il ruolo di Pino Rauti è certamente più ambiguo di quello di Giorgio Almirante.

Si tratta comunque di una storia non di ieri ma dell'altro ieri. L'ultimo segretario del Msi è poi stato ministro, vicepremier e presidente della Camera. Se nel 1994, quasi trent'anni fa, era ancora comprensibile porre problemi sulla nomina a ministri degli ex missini, tanto che nel primo governo Berlusconi entrò solo Mirko Tremaglia proprio per evitare lo scandalo, di certo le cose non sono più così nel 2022, anno di grazia nel quale la leader di un partito nato come una sorta di Rifondazione missina è capo del governo grazie al voto degli elettori e non pare sospetta di tendenze assolutiste o antidemocratiche.

La campagna contro La Russa per i suoi elogi del vecchio Msi, in questa situazione, non appare solo poco fondata ma anche frutto di una disperazione culturale prima ancora che politica. E' come se la sinistra e in particolare il Pd o almeno un'area culturale al Pd molto vicina fosse incapace di combattere i rivali politici per quello che sono oggi ma solo avanzando sospetti e denunciando ombre nel pedigree, nella genealogia oppure in aree distanti da quelle dell'impegno politico.

Da questo punto di vista la levata di scudi contro la candidata 5S nel Lazio Daniela Bianchi, perché conduttrice di un programma in tv, non sono molto diverse dalla richiesta di dimissioni dalla presidenza del Senato di Ignazio La Russa.

Si tratta di un'eredità della quale il sistema politico italiano dovrebbe sbarazzarsi una volta per tutte: quella dell'antiberlusconismo, cioè di una battaglia politica combattuta per vent'anni almeno in nome del conflitto di interessi o delle malefatte, vere o presunte, del capo della destra.

Per quanto sbagliata ed esiziale per la cultura politica del Paese intero, quel modo di intendere la lotta politica era però parzialmente spiegata, se non giustificata, dalla natura stessa del berlusconismo, che rendeva quasi impossibile separare la fazione politica dalla personalità e della biografia del suo leader e fondatore. Oggi non vale più neppure quella parziale spiegazione. In termini di efficacia, oltretutto, si trattava di una strategia comunicativa perdente già allora. Oggi lo è ancora di più.

Pino Rauti responsabile del terrorismo nero? Quindi accolliamo a Berlinguer i delitti delle Br…Federico Gennaccari su Il Secolo D’Italia il 28 dicembre 2022.

Prima la Fiamma, ora la nascita del Msi e la figura di Pino Rauti. Ancora una volta politici, giornalisti e intellettuali di sinistra si scagliano contro la storia della Destra dimostrando di non conoscerla affatto (come peraltro non conoscono neppure la storia del Pci) per cui sembrano fare la gara a chi la spara più grossa. Rauti in prima pagina su “Repubblica” come fondatore del Centro Studi Ordine Nuovo viene accusato di portare «la responsabilità politica di tutti gli atti del gruppo” compresi quelli compiuti dal Movimento Politico Ordine Nuovo negli Anni Settanta. Un clamoroso falso.

Cosa c’entra Concutelli con Pino Rauti?

Usando la stessa logica applicata a Rauti da Eugenio Occorsio (figlio di Vittorio, il magistrato ucciso da Pierluigi Concutelli, “capo militare” del MpOn il 10 luglio 1976), si dovrebbe affermare che Enrico Berlinguer era responsabile politico degli atti compiuti da Alberto Franceschini e gli altri comunisti reggiani quando poi sono entrati a far parte delle Brigate Rosse. Chiaramente non si può affermare ciò di Berlinguer, esattamente come non si può addossare a Rauti le responsabilità per quanto compiuto da coloro che nel 1969 non vollero rientrare nel Msi e fondarono, proprio in contrapposizione con Rauti, il Movimento Politico Ordine Nuovo. E poi Evola “ideologo del fascismo e del nazionalsocialismo”.

Ferrara ricorda il milazzismo e i voti missini per Segni e Leone

Abbiamo voluto fare questo esempio per far capire la pretestuosità degli argomenti usati da “Repubblica”,  da politici del Pd e di Azione contro le dichiarazioni di Isabella Rauti e Ignazio La Russa che hanno ricordato l’anniversario del Msi, fondato il 26 dicembre 1946. Vogliono criticare il Msi lo facessero, ma studiassero, leggessero, si documentassero. Non a caso nei giudizi sul Msi si distingue uno come Giuliano Ferrara che da militante e dirigente del Pci è stato un avversario politico, ma non è uno sprovveduto e quindi su “Il Foglio” afferma «che è legittimo, che non crea imbarazzo alcuno, ricordare il Msi» (poi naturalmente da ex comunista ne dice peste e corna). Ferrara, ad esempio, ricorda talune vicende storiche come il governo Milazzo in Sicilia che alla fine degli anni Cinquanta era appoggiato assieme dal Pci di Togliatti e dal Msi di Michelini, nonché il voto missino determinante per l’elezione di Segni e di Leone alla presidenza della Repubblica nel 1962 e nel 1971.

La storia della destra va studiata e conosciuta

Eh sì perché la storia della Destra e del Msi è poco conosciuta ma I libri sulla storia della Destra ci sono, bisogna leggerli. Ne ricordiamo due di Adalberto Baldoni “La Destra in Italia 1945-1969” dove approfondisce e ricostruisce le vicende della fondazione del Movimento Sociale Italiano fino alla morte del segretario Arturo Michelini, e “Destra senza veli 1946-2018. Storia e retroscena dalla nascita del Msi a Fratelli d’Italia”. Leggendoli si potrebbero fare scoperte interessanti da trasformare in quiz. Pino Rauti “il più impresentabile, tra gli impresentabili” e “anima eversiva del neofascismo italiano” come lo definisce Simonetta Fiori su “Repubblica” è stato invitato al congresso di fondazione dei Democratici di Sinistra nel 1997? La risposta è sì, D’Alema volle invitare anche lui, allora segretario del Movimento Sociale Fiamma Tricolore.

I contatti tra Rauti e i giovani del Pci

Rauti e i giovani missini sono stati mai corteggiati dai giovani del Pci guidati da Enrico Berlinguer? Anche qui la risposta è sì. Rauti scrisse anche un articolo per il giornale comunista “Pattuglia” e ci furono incontri e scambi politici nel nome dell’antiamericanismo dovuto precisamente all’opposizione al Patto Atlantico.

Già nel 1952 erano missini i sindaci di Benevento e Foggia

Altre scoperte che si possono fare riguardano la storia del Msi. Quando sono stati eletti i primi sindaci missini di capoluoghi di provincia e i primi assessori? Nel 1993? No sbagliato, quasi quarant’anni prima, nel lontano 1952 erano missini i sindaci a Benevento e a Foggia, mentre assessori vennero nominato anche a Napoli con la prima Giunta Lauro e in altre città dove la coalizione fra missini e monarchici vinse le elezioni.

Potrebbero scoprire che il Msi non è nato come partito neofascista, ma voluto da Romualdi come partito postfascista, e poi è sempre stato più un partito conservatore che altro sin dal 1950 quando i moderati assunsero la guida del partito con Augusto De Marsanich e poi con Arturo Michelini che per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta perseguì la politica dell’inserimento, eleggendo Gronchi alla presidenza della Repubblica nel 1955 e astenendosi su qualche governo fino a sfruttare la possibilità del governo Tambroni (retto alla Camera dal voto determinante missino) nel 1960 ma sbagliando clamorosamente con la scelta di tenere il congresso del Msi a Genova.

Si scatenò la reazione della piazza social-comunista e il Msi dovette rinunciare al congresso e poi al governo per entrare nell’isolamento da cui uscirà più di trent’anni dopo, nel 1993-1994. Un Msi conservatore che infatti è sempre stato contestato da quanti si collocavano nell’estrema destra (e dalla minoranza interna) o si definivano “fascisti” o “neofascisti” e non è mai stato sciolto per ricostituzione del partito fascista, accusa mossa da più procure ma sempre respinta.

Borghi (Pd): il Msi era votato da milioni di persone

Un partito che in quarantasette anni di storia ha tenuto 17 congressi (alcuni dei quali molto animati, forse anche troppo) partecipando alla vita politica italiana, anche se chi ea di destra veniva ritenuto un “cittadino di serie B”. Del resto c’è un esponente del Pd, il senatore Enrico Borghi che pur criticando il Msi riconosce che «sia detto per sgombrare il campo da infantili letture, era certamente legittimato in un sistema democratico ad esistere. Il Msi è stato un partito votato da milioni di italiani, è entrato in Parlamento, e mai nessuno si è sognato (tantomeno Togliatti!) di metterlo fuori legge».

La svolta di Fiuggi non è incompatibile con il Msi

Ricordare il Msi e quel cammino iniziato il 26 dicembre 1946 non vuol dire rinnegare la svolta di Fiuggi, perché la traversata della Destra è cominciata quel giorno con Romualdi, Almirante, De Marsanich e Michelini, poi si è evoluta in Alleanza Nazionale per finire poi con Fratelli d’Italia che ha raccolto il testimone della Destra italiana fino ad arrivare al governo Meloni.

E’ questo che dà fastidio per cui, comprendiamo i tentativi di “Repubblica” e dei vari esponenti del Pd di voler accreditare una Destra “neofascista” e “nostalgica” per mettere in difficoltà la Meloni, ma si rassegnino e soprattutto studino la storia dei partiti, non solo del Msi ma anche del Pci.

Francesco Borgonovo per “La Verità” il 29 Dicembre 2022.

Sarà pure stantio e nauseante, ma va riconosciuto che l'allarme fascismo funziona sempre. Sono bastati un paio di tweet di Ignazio La Russa e di Isabella Rauti sul Msi per far ripartire il circo sulla «minaccia nera», e i media progressisti hanno potuto tirare un sospiro di sollievo: ora possono finalmente levare dalle prime pagine il caso Soumahoro e le porcherie del Qatargate, e possono tornare a infierire come ai bei tempi sui rappresentanti del Male assoluto. 

In fondo, la cagnara sulla memoria del Movimento sociale serve soltanto a questo: a consentire alla sinistra di ribadire (prima di tutto a sé stessa) la propria superiorità morale. Come a dire: noi saremo pure corrotti, ma quelli restano fascisti, ergo siamo sempre i migliori.

Tutto prosegue secondo copione: i parlamentari del Pd che si indignano e pretendono addirittura le dimissioni del presidente del Senato; i maniaci di Twitter che si consumano i polpastrelli a colpi di indignazione; i presunti intellettuali che si mobilitano, ripongono per un istante la fetta di pandoro e si mettono a sbraitare «vergogna!». 

Nel bel mezzo del putiferio, almeno per qualche ora i sacchetti pieni di contanti passano in secondo piano assieme ai favori concessi agli emiri. Chiaro, serve una bella faccia tosta per mettersi a cianciare di pericoli per la democrazia dopo l'euroscandalo, ma sappiamo bene che tra i progressisti il bronzo abbonda, e sembra pure impossibile da scalfire. A dimostrarlo basta un piccolo ma non insignificante particolare.

Fra qualche giorno - per la precisione il 13 gennaio - in prima serata su Rai 3 andrà in onda un documentario intitolato Lotta continua a dedicato al noto movimento comunista. Su queste pagine ne abbiamo già dato conto: ispirato al libro I ragazzi che volevano fare la rivoluzione di Aldo Cazzullo, il docufilm è stato prodotto da Verdiana Bixio per Publispei con Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Documentari e Rai Play.

Insomma, si tratta di un bell'investimento pubblico che verrà adeguatamente esibito sulle emittenti pubbliche. Si tratta, giusto riconoscerlo, di un'opera tecnicamente ben fatta e molto suggestiva, ma che suscita qualche perplessità sul piano politico. 

Il documentario fa udire giusto un paio di voci critiche, tra cui spicca quella di Giampiero Mughini, ma per il resto assomiglia a una celebrazione di Lotta continua, e offre ampio spazio agli ex militanti oggi famosi per rivendicare la bontà del proprio impegno negli anni di piombo. In particolare, colpisce l'atteggiamento dello scrittore Erri De Luca: non solo non rinnega nulla, ma appare anche piuttosto tollerante (per usare un eufemismo) riguardo all'utilizzo politico della violenza.

Quale sia l'impostazione del film lo si evince con chiarezza dal comunicato ufficiale rintracciabile sul sito della Rai. «Sul finire degli anni Sessanta, mentre la rivoluzione anti sistema accomuna i giovani di tutto il mondo», si legge nel testo, «in Italia nasce un gruppo rivoluzionario particolarmente interessante per capacità di aggregazione, aggressività politica e personalità dei dirigenti».

Già: l'aggettivo più indicato per descrivere Lotta continua è proprio «interessante». Sempre dal comunicato ufficiale apprendiamo anche che «la serie racconta le storie, i valori, i sentimenti e i ricordi di alcuni di quei ragazzi. Dopo lo scioglimento del movimento, alcuni di loro sono diventati politici, giornalisti, manager. 

Sono quelli di cui conosciamo i visi e riconosciamo la voce. Altri hanno preferito continuare la lotta attraverso forme più violente e drammatiche, ma la maggior parte ha semplicemente abbandonato l'attività politica. Il capo di tutti, l'uomo che fondò e sciolse Lotta Continua, il ragazzo che conquistò gli intellettuali e sedusse una generazione, Adriano Sofri, ha scontato 15 anni di carcere per un omicidio per il quale si è sempre dichiarato innocente».

Capito? Fu tutto molto affascinante, molto seducente. E pazienza se così, en passant, ci scappò qualche morto. E rieccoci al punto. Il Movimento sociale italiano si è regolarmente presentato alle elezioni per decenni, non è mai stato eversivo (come qualcuno ha provato a insinuare ieri), ha sempre rispettato la prassi democratica. Eppure da sinistra considerano «vergognoso» che qualcuno lo ricordi. In compenso, sulla tv di Stato può andare in onda una serie in cui si racconta che una certa simpatia un movimento extraparlamentare destinato a rimanere nella Storia per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Il nodo è sempre lo stesso: la superiorità morale. A sinistra si ritengono migliori anche e soprattutto quando sbagliano. E pervertono la Storia al punto da trasformare in oro persino i loro anni di piombo.

Post di Mentana asfalta la sinistra: «È vecchia: sul Msi dice lo stesse cose di 30 anni fa». Michele Pezza su Il Secolo d’Italia il 29 Dicembre 2022.

C’è solo il vuoto di idee, di tesi e di programmi dietro l’aggressione a chi, come Ignazio La Russa e Isabella Rauti, ha osato ricordare l’anniversario della fondazione del Msi. A sostenerlo è non è un nostalgico della Fiamma tricolore ma un giornalista distinto e distante dalla destra come Enrico Mentana. È suo il lungo post in cui il direttore di Tg La7 esorta gli ayatollah della sinistra nostrana ad aggiornare il logoro armamentario politico di cui dispongono. «Il Msi – vi si legge – è stato in parlamento dalla nascita fino al passaggio a Alleanza Nazionale. Trentotto anni. E non solo da “emarginato“: nel suo ultimo anno di vita prese il 31% alle elezioni comunali di Roma e, subito dopo, alleato con la neonata Forza Italia e in parallelo con la Lega, vinse le politiche. Molti articoli di oggi sono praticamente uguali a quelli di allora».

Così Mentana su Fb

Acqua gelata per menti intorpidite. Tanto più che il ricordo della nascita del Msi viene puntualmente celebrato. Se quest’anno ha suscitato polemiche è perché a riproporlo, tra gli altri, sono stati il presidente del Senato e una sottosegretaria. A dimostrazione che a dare fastidio non è tanto la commemorazione del Msi quanto il fatto che i suoi eredi siano al governo. Ma torniamo a Mentana. «La novità del 1994 – scrive ancora – fu la fine dell’arco costituzionale, e cioè l’ammissione della destra nel gioco politico grazie al bipolarismo. La novità del 2022 è che quella destra ha vinto le elezioni». Altra acqua gelata. Seguita da altro choc a carico della sinistra.

Chi ha consentito tutto questo, avverte ancora Mentana, non è né La Russa né la Rauti né Giorgia Meloni «ma gli elettori che li hanno votati». Della serie: la verità spesso fa male. «Dar dei fascisti a questi milioni di elettori – infierisce il giornalista – è un po’ più difficile. E sarebbe ora di cominciare ad analizzare più seriamente ed approfonditamente alcuni fatti scomodi ma evidenti». Quali? «Che la destra piace più del centrodestra, e che la sinistra piace sempre meno». Morale: «Coloro che non vogliono questa destra hanno un solo modo per batterla, e non è l’anatema (…), ma un’offerta politica migliore sulla scia di una diversa idea di futuro». Mentana conclude così: «Servono idee più che persone, analisi autocritiche più che invettive, futuro più che nostalgia, politica più che corretta amministrazione». Parole sante.

Anatemi sul Msi e soldi pubblici per il Pci. Francesco Giubilei il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Gli attacchi da parte di numerosi esponenti della sinistra italiana nei confronti di Ignazio La Russa e di Isabella Rauti, colpevoli di aver ricordato la nascita del Movimento Sociale Italiano, si scontrano con una grande ipocrisia di fondo

Gli attacchi da parte di numerosi esponenti della sinistra italiana nei confronti del presidente del Senato Ignazio La Russa e del Sottosegretario Isabella Rauti, colpevoli di aver ricordato il 26 dicembre la nascita del Movimento Sociale Italiano, si scontrano con una grande ipocrisia di fondo. Molte delle persone che oggi puntano il dito contro La Russa e la Rauti, a inizio 2021 celebravano i cent'anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano. Si tratta in larga parte di politici e personalità che non hanno mai condannato i crimini del comunismo e che pretendono di dare patenti di democrazia alla destra. Ora il nuovo bersaglio diventa il Msi arrivando addirittura a chiedere le dimissioni di chi ha ricordato un partito che per quasi 50 anni è stato in parlamento.

Ci sono varie differenze tra la storia del Msi e quella del Pci ma ce n'è una che oggi riguarda i contribuenti. Come si evince dal sito della presidenza del Consiglio, con la legge del 27 dicembre 2019, n. 160, è stato previsto, in occasione del centenario della fondazione del Pci, l'assegnazione di «risorse finalizzate alla promozione delle relative iniziative culturali e celebrative».

Tali risorse servivano per iniziative culturali rivolte «alla promozione e divulgazione, a livello nazionale e/o internazionale con particolare riguardo verso le giovani generazioni degli eventi, delle personalità e delle motivazioni storico, sociali e culturali, che portarono alla fondazione» del Pci. L'ammontare delle somme disponibili ammontava per l'anno 2021 a 800mila euro. Soldi pubblici per celebrare la nascita del Pci di cui «50% da destinare a istituzioni ed enti pubblici e al 50% da destinare ad enti privati senza fini di lucro (per un totale di euro 400.000)». Se i soggetti pubblici ammessi al contributo sono principalmente università, i dati interessanti emergono dai soggetti privati che hanno ricevuto le erogazioni. Tra questi c'è la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna con 31.150 euro, l'Istituto storico della resistenza e della società contemporanea nella provincia di Livorno per 32.620 euro, la Fondazione Gramsci onlus con sede a Roma che ha ricevuto 50.000 euro, così come l'Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. 48.000 euro i fondi erogati alla Fondazione Gramsci di Puglia, 29.000 dall'Associazione Studentesca Universitaria Unica Radio. Quando si fa notare l'incoerenza di accusare chi ricorda il Msi e poi celebrare il Pci, la risposta più frequente è che in Italia abbiamo avuto il fascismo e non un regime comunista. L'obiezione è molto semplice: perché dobbiamo utilizzare quasi un milione di euro pubblici per celebrare un partito che si rifà a un'ideologia che ha fatto milioni di morti come il comunismo? Se gli ex militanti del Pci vogliono ricordare il loro partito sono liberi di farlo, così come gli ex missini perché la storia non si cancella, non chiedeteci però di dover anche utilizzare i soldi dei contribuenti per celebrare il comunismo.

Madame vaccino, che libidine il disagio radical chic. La cantante regina di fluidità nella bufera per l’indagine sui falsi vaccini. Giornali in imbarazzo. Max Del Papa il 27 Dicembre 2022 su Nicolaporro.it.

Di questo passo, salta fuori un Madamgate, tipo Qatar. Anche perché, vedi caso, la faccenda, tanto per cambiare, si gioca tutta a sinistra. Riassunto della puntata precedente: una apprendista cantante, certa Francesca Calearo da Vicenza, in arte Madame, 20 anni, viene pompata secondo lo schema classico di questo business miserabile, alla Maneskin: poca sostanza, tanta tracotanza, compreso il vezzo di maltrattare i fan (i fan? Madame ha i fan?), “che cazzo volete, non vedete che sto mangiando”. Secondo la regola di Eugenio Finardi: “La gente si innamora sempre della gente convinta”. E vagamente stronza. Tu tiratela come fossi la Callas, e i pirla ci crederanno.

Vale anche nel giornalismo, oh, se vale… Questa Madame fa la non allineata, la non binaria e in due anni mette in fila due Sanremi, come tutti quelli iscritti fin da piccoli alla società dello spettacolo di regime, però col cipiglio: oh, io sono bisessuale, non facciamone una cosa, eh. No, guarda, stai facendo tutto tu, tipo la Lucarelli con le palette o la Murgia con la complessità cristiana. Poi viene fuori che la medica della Madame finisce in galera perché fingeva di vaccinare i pazienti, forse compresa la Madame, non binaria anche in senso sanitario e perciò indagata. Sai, quando le piccole ribelli escono fuori come le più conformiste. Ma ci arriviamo tra un attimo.

Oggi, e siamo all’attualità fresca come un uovo di giornata, si viene a sapere che la signorina è stata assoldata dal comune di Roma per il solito spettacolo di piazza di fine anno insieme ad altri ribelli quali la ribollente Elodie, una che quanto a finezza c’è solo da consolarsi (anche lei pare abbia preso a umiliare i fan, dall’alto dei suoi 4 tormentoni penosi), Franco 126, Sangiovanni (eh?) e tutta la pletora dei falsi indie, tutti belli pilotati, indottrinati, conformizzati. E qui scatta la libidine, perché nel frattempo è emersa la storia della Madame. E la farsa è splendida, venendo la festa organizzata da una amministrazione del partito che del regime vaccinale ha fatto la sua ragione di sopravvivenza, fin che gli è riuscito. Ma come, tu sei il partito degli sgherri di Draghi, quello che solo oggi ammette che le sue alchimie servivano a ricattare i cittadini – dopo averlo negato per quasi due anni: si chiama cialtronaggine – e poi tiri dentro una che potrebbe essersi vaccinata per finta?

Difatti l’imbarazzo, come si usa dire in figuredemmerda come questa, è palpabile. Bocche cucite in comune, cucita a doppio ricamo quella della Madamin. Per forza, che deve dì? E, questa volta, passare da martire traumatizzata, bullizzata, ghettizzata, insomma fregarli tutti, è complicato. Business for dummies, cretinetti che la difendono a prezzo di umiliare la loro intelligenza.

Francamente, si fatica a seguire la logica di chi dice: ah, c’era la dittatura, lei ha fatto solo che bene. Davvero? Ma così è troppo facile. Il regime si combatte denunciandolo: cercare di fregarlo con mezzucci squallidi significa non combattere il regime, ma rafforzarlo a tutto scapito dei povericristi che, magari, si ritrovarono ricattati e senza via d’uscita. C’è chi si è compromesso, nell’informazione, pochissimi, nello spettacolo, meno ancora; c’è chi, dopo essersi sierato, è uscito allo scoperto, prendendosi minacce e maledizioni ma senza rinunciare a raccontare effetti collaterali e disastri accessori. C’è chi si è messo frontalmente dalla parte del torto, siccome tutti gli altri posti erano occupati (vero Pelù, Svacco Rossi, e tutta l’armata Brancaleone dei cosiddetti artisti piddini plurimascherati e plurisierati, almeno a loro dire?). E poi ci sono le Madamette che, se confermate le accuse, pare facessero le furbette: avrebbe porto la spalla alla patria, ma per finta, non ha detto una parola contro un sistema del quale pare non fosse convinta, però l’ha sfangata o almeno così credeva (a margine: se era irregolare già l’anno scorso, la sua partecipazione a Sanremo, trasformato per l’occasione in un hub vaccinale con tanto di spot del ciambellano di regime Amadeus e vergognosi siparietti del compare Fiorello, è stata o non è stata truffaldina?).

No, signori belli: la signorina Calearo da Vicenza non si è salvata le chiappe meritoriamente: ha preso in giro tutti noi e tutti voi che magari vi state sputtanando da due anni per combattere, nel vostro piccolo, un andazzo di stampo cinese. Non è neppure vero che la ragazzina non ci speculi: sulla faccenda del gender in apparenza non si è spesa fino alla militanza, essendo consigliata da volpini & volponi, ma non ha mai perso occasione per parlare di sé, di sé e ancora di sé, secondo la regola aurea dell’egolatria social, ma sempre, comunque e in ogni luogo con implicazioni ferroviarie, cioè sono non binaria, ho la fidanzata, non facciamone un dramma, come nella scena dei dentisti neri in “Scappo dalla città”.

Non ha praticato la militanza di partito, ma ha esasperato la propaganda personale così da farsi adottare idealmente dal Partito. Difatti la prendono dappertutto, Sanremo, Primomaggio e Capodanno. Certo, con ribelli così chi ha bisogno dei conformisti. Solo che a questo punto il Sanremo è a rischio: in modo grottesco, perché la punizione è sproporzionata al fatto, questo è certo. Ma siamo, restiamo nel moralismo di sinistra che ha sostituito il Dio della complessità cristiana, in cui non ha mai creduto, con l’idolo, il totem, la siringa: dunque, se bestemmi in chiesa, cioè a Sanremo, i mammasantissima in Rai e altrove si trasformano seduta stante in talebani. Lo stesso, par di capire, per il concertone di San Silvestro, officiato sempre dagli stessi e al servizio degli stessi. Ma chi si vota alla causa piddina, lo deve sapere: questi sono spietati, ti infilano ovunque ma se caschi in disgrazia, se ti fai beccare, non ti hanno mai conosciuto. Funziona se ti chiami Panzeri, perfino se ti chiami Soumahoro e sei moro, o meglio, morto al mondo per loro. Figuriamoci se non funziona per una che si crede Janis Joplin. Tutto va mal, Madame la marchesa. Max Del Papa, 27 dicembre 2022

Lo strano silenzio dei radical chic, l'incubo Covid e Madame: quindi, oggi...Quindi, oggi...: l'assemblea della Juventus, Mattarella senza Covid e il Qatargate. Giuseppe De Lorenzo su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

 Lele Adani racconta di aver avuto un accordo "verbale” con la Rai per commentare la finale dei mondiali in Qatar qualora non ci fosse stata l’Italia. E spiega come mai alla fine è andata diversamente. Sintetizzo a modo mio: è cambiata la direzione Rai, hanno comunque mandato in onda quell’orrore che chiamano Bobo Tv, quindi meglio tenerseli amici per il futuro. Forse sono stato un po’ brusco, ma il senso dell’auto-celebrazione odierna di Adani (“sono un signore”, “Se sei giusto e semini comportamenti corretti, riceverai correttezza”) è questo: meglio farseli amici che nemici.

- L'assemblea degli azionisti della Juventus, riunita all'Allianz Stadium, ha approvato il bilancio 2021/2022, chiuso con una perdita di esercizio di oltre 238 milioni di euro. Mi spiegate quale azienda resterebbe in piedi e, soprattutto, quale potrebbe permettersi di pagare i propri “operai” una decina di milioni all’anno di salario?

- Piccola segnalazione al Corriere: in questo Paese c’è avversione al pagamento delle imposte per due motivi. Primo, perché sono troppo alte. Secondo, perché non forniscono servizi adeguati. E se papà spreca risorse in prebende inutili e bonus a pioggia, sarà permesso ai figli almeno di dissentire?

- Basti pensare a due delle tasse più odiose. Quella di successione e l’Imu. La prima va letta così: dopo aver pagato le imposte sul reddito, crepi e lo stato come ultimo saluto ti sottrae soldi tuoi già tassati. La seconda è simile: dopo aver acquistato un bene, e averci pagato l’Iva, lo Stato si cucca altri euro per il solo fatto di possedere quel bene. E poi mi volete dire che non ci sarebbe di che lamentarsi?

- In Cina milioni di casi Covid e forse pure migliaia di morti. A Malpensa obbligo di tampone allo sbarco. Qualcuno chiede almeno 5 giorni di quarantena per i cinesi. La domanda è: perché siamo così preoccupati se siamo protetti dal vaccino?

- Fa bene il governo a mantenere la barra dritta sulla dicitura padre e madre sulla carta di identità. In fondo, a meno di affitti di utero o di spermatozoi, non c’è alternativa alla biologia: si nasce dall’unione di un uomo e di una donna. La cosa mi pare fattuale.

- Fatemi capire: una delle “prove" dell’inchiesta sul Qatargate sarebbe un video che mostra come una valigia nelle mani di Panzeri “sembra più piena” di quando era entrata qualche ora prima. E quindi se ne deduce che dentro ci fossero dei soldi. Spero per i pm belgi ci sia dell’altro, perché questa “prova” reggerebbe in aula da Natale a Santo Stefano.

- Sia chiaro, non sto dicendo che Panzeri, Kaili e il marito siano innocenti. Però tutto questo rimestare nelle ipotesi e nelle supposizioni di certi giornali, sempre abili a leggere le carte dell’inchiesta, mi ricorda metodologie da prima e seconda Repubblica italiana che non mi piacciono per nulla. Tipo, leggete qui. Scrive Repubblica: “Gli inquirenti sottolineano un elemento: i biglietti aerei sono stati emessi da una agenzia di viaggio di Doha. Una circostanza che fa supporre che siano stati quindi pagati dal governo qatarino”. “Fa supporre” mi pare un tantino vago.

- Si dice che l’evasione sottrae al Fisco 100 miliardi di euro all’anno. Visto come li usa, siamo sicuri di volerli affidare allo Stato?

- Mattarella torna negativo al Covid. Bene, siamo felici per lui. E nulla ora potrà esimerci dall’ascoltare l’ottavo predicozzo natalizio del Capo dello Stato a reti unificate.

- La cantante Madame è solo indagata per falso ideologico a causa delle presunte false vaccinazioni per ottenere il green pass. Essendo solo all’inizio, è innocente. Quindi la sua partecipazione a Sanremo non deve essere in discussione. Punto.

- Resta il fatto che la notizia sia di quelle dirompenti: parliamo in fondo della trasmissione più vista della Tv nazionale, una sorta di rito collettivo. Eppure, chissà come mai, una partecipante indagata all'interno di un'inchiesta per falsi greenpass non merita per il Corriere neppure un richiamino in prima pagina. Lo stesso dicasi per La Stampa, che non riporta proprio la notizia, e Repubblica, che nasconde un pezzettino invisibile nell’angolo basso di pagina 31. Il silenzio dei radical chic - così amanti della fluidità di Madame - è di quelli imbarazzanti: avessero indagato qualcun altro, un Djokovic qualunque, l'avrebbero sotterrato di critiche.

- Franceschini, re delle correnti del Pd, sale sul carro della Schlein che con le correnti non voleva aver nulla a che fare. E nel benedire la candidata, dice al rivale: “La generazione del Pd mia e di Bonaccini ha guidato il partito ai vari livelli dal 2007 ad oggi e ora è giusto che lasci il passo”. Ma soprattutto invita Elly a “cambiare tutto”. Ecco: io inizierei a cambiare da chi è stato segretario dem, sottosegretario e ministro più volte negli ultimi anni. Ovvero rottamerei per primo Dario Franceschini.

- Mi fa però godere “come un riccio appena nato” (cit. Tik Tok) l’atteggiamento della stampa tutta, di Amadeus, del Festival e di tutto il resto nei suoi confronti. Da due giorni, tutti zitti. Nessun pezzo scandalizzato se non qualche cronaca colorita sul suo essere “fuori dagli schemi”. A questo serve essere “nel sistema”, capite? Questa rubrica ricorda infatti il trattamento riservato a Novak Djokovic che scelse di non vaccinarsi. Lo trattarono da appestato, da infame, da reietto. Eppure tra chi come Novak decide di non immunizzarsi alla luce del sole, pagandone le conseguenze, e quelli che per restare nei palazzi ovattati “dei buoni” hanno cercato di esibire un finto green pass, beh: non ho dubbi. Molto meglio Djokovic.

- Va bene, Amadeus ha ragione. È vero che Madame è innocente finché non viene dichiarata colpevole. Però allora questo principio lo dobbiamo applicare a tutti, non solo alla Messa di Sanremo. Un politico viene inquisito per corruzione? Lo si lasci candidare. Un manager viene indagato per aver intascato delle mazzette? Che nessuno osi chiederne le dimissioni. Voglio dire: mi spiegate perché Eva Kaili dovrebbe stare in carcere e invece Madame a cantare a Sanremo? Dal punto di vista legale, sono nella stessa identica posizione.

Natale, il sogno della sinistra: un 25 dicembre senza religione. Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2022

Vicino alla basilica di San Petronio, dove tra poche ore si celebra la Notte Santa, le luminarie compongono i versi che annullano il Natale, il suo senso, la sua storicità. Niente Gesù. Lo privano di carne e ossa, nessun vagito di bimbo. L'amministrazione comunale di Bologna scandisce con le lampadine nella strada centrale dei negozi le due frasi di John Lennon (ispirate dalla sua musa e moglie, Yoko Ono) che affermano la religione del post cristianesimo: «Imagine there' s no heaven... and no religion too», cioè «immagina che non ci sia il paradiso e non ci sia neanche la religione». Il senso è: sarebbe fantastico, allora sì nascerebbe il mondo nuovo. Non ci sarebbero nazioni, nessuna identità particolare, ma un cosmopolitismo che darà all'uomo la pace senza bisogno di cercare Dio.

LA PROTESTA

Informato della faccenda per fortuna un vescovo si è inalberato. Monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia, ha qualificato questa operazione come «insulsa provocazione anticlericale». E lo ha fatto su Avvenire, con ogni evidenza con la benedizione del cardinale Matteo Zuppi, che da questa città capeggia i vescovi italiani, e ha personalmente voluto evitare la polemica. C'è un problema. Qui non si tratta da parte dei citazionisti di Lennon di un uso distorto e fedifrago di «un meraviglioso Inno alla pace», come sostiene il prelato siciliano, il quale trasforma il fondatore dei Beatles in una sorta di precursore di Papa Francesco. Su, un po' di lealtà con gli autori, chieda pure alla artista giapponese che a 89 anni opera ancora tra noi: quelle frasi vogliono dire proprio quel che dicono. Nascono da un'opera di Yoko Ono, non c'è bisogno di nessun Salvatore per arrivare a pace e felicità.

Trattiamo perciò la faccenda per quello che è: non un tradimento del vero Lennon, il quale ha già miliardi di cultori del suo mito, ma un episodio nostrano e sfacciato di cancel culture. Il quale rivela di quale ideologia si nutra la sinistra anche oggi, soprattutto adesso: un'ideologia dove si mescolano ateismo e panteismo, nichilismo e utopia, negando l'essenza stessa della nostra identità di popolo e nazione.

Abbiamo rintracciato un antecedente. La Grande Enciclopedia Sovietica, che a Bologna negli anni '50 valeva più della Bibbia. Essa evidentemente fa ancora scuola. Ovvio, senza le rudezze della propaganda staliniana, ma il concetto è lo stesso: a Natale non è nato nessuno. Nella prima edizione, della colossale opera in 65 volumi, tra le 65mila voci, c'era infatti pure quella dedicata a Gesù Cristo. Tutto un fuoco d'artificio di scienza e di cultura marxista per arrivare alla verità-tà-tà: Gesù detto il Nazareno non è nato in alcun luogo, il personaggio narrato nei Vangeli è un'invenzione, un mito creato per abbindolare le masse popolari. I comunisti pur di impedire che qualcuno osasse porsi la domanda su chi fosse Gesù, troncarono il problema alla radice, negandone non solo morte e resurrezione (come il Corano) ma pure la nascita. Stalin fece insomma con Cristo un lavoro di sbianchettamento come se i Vangeli fossero il dossier Mitrokhin.

ADDIO AL FESTEGGIATO

E così siamo al Natale 2022. Per festeggiare il compleanno di Gesù niente di meglio che far sparire il festeggiato. Idea geniale del Minculpop del soviet municipale: niente Bambinello, zero stella cometa, figuriamoci Madonna e San Giuseppe.

Non che li si neghi apertamente. Non siamo davanti a gente volgare, ma a creature acculturate come volpini - direbbe Ezio Greggio - : fini lettori dei tempi. Nessuno striscione dunque tipo: «Gesù? No grazie». Neppure ci si sogna di emulare anche solo pallidamente la militante di Femen. (Nessun giornale o tg lo ha raccontato: nella chiesa di santa Maddalena a Parigi questa signora del movimento ceco ha mimato l'aborto del Messia, indi orinato sull'altare. Condannata in Francia, è stata considerata vittima dalla Corte europea dei diritti dell'uomo come eroina della libertà di espressione: sul serio, ottobre scorso). L'amministrazione degli Asinelli (nessuna allusione al presepe per carità, è il caso ci querelino) ha deciso, in occasione di quell'evento che pure conta qualcosa nella storia dell'umanità, forse addirittura più di Yoko Ono, di appendere luminarie dove Gesù è consegnato alla muffa degli spettri scaduti. Come voleva il compendio della cultura comunista sopra citato, si tratta di un mito superato, una leggenda ingannevole. Il titolo del Natale post-comunista e post-cristiano di Bologna, ma in piena aderenza all'idiozia dominante (citazione di Lars von Trier), potrebbe essere: dimenticare Betlemme. Noi ci ricordiamo, alla faccia vostra.

Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 27 dicembre 2022.

 «Venite, adoriamo», andrà bene per i personaggi del presepe, ma Michela Murgia e Roberto Saviano pretendono di avere l'ultima parola anche davanti alla grotta di Betlemme. Ce lo spiegano loro com' è andata 2022 anni fa. E all'improvviso, è come se vagonate di opere dei padri della Chiesa si estinguessero di fronte a tanta sapienza.

È la giusta punizione terrena per noi cristiani, che non abbiamo ancora capito che l'Italia è una terra di missione dove ormai la predicazione va fatta come nei Paesi di prima evangelizzazione, cioè in partibus infidelium. 

Come penitenza non ci si può sottrarre nemmeno a una meditazione sul significato del Natale così come ci viene proposta sulle pagine della Stampa e su Twitter, anche se affrontare le omelie degli intellettuali laici sulle pagine evangeliche significa prepararsi a riedificare dalle fondamenta l'edificio di una cultura esegetica di cui ormai si è perduta la consapevolezza in larga parte dell'Occidente ex cristiano.

IL MISTERO

Per spiegare il mistero dell'Incarnazione, e della conseguente Natività di Gesù Cristo, si dice che molti bambini siano diventati re, ma che nell'arco di tutta la storia umana solo un re è diventato bambino. In più occorrerebbe premettere che la scelta di incarnarsi in un infante è unicamente frutto della volontà di Dio. 

Così come anche la decisione di vivere nel nascondimento, rimandando l'inizio della vita pubblica fino all'età di trent' anni. Negli Esercizi spirituali di sant' Ignazio, il prologo della vicenda è spiegato in tre scene: «Le tre divine Persone osservano tutta la superficie o rotondità di tutto il mondo piena di uomini»; «vedendo che tutti scendevano all'inferno, decidono nella loro eternità che la seconda Persona si faccia uomo, per salvare il genere umano»; «e così, giunta la pienezza dei tempi, inviano l'angelo san Gabriele a nostra Signora».

Alla Murgia, critica nei confronti della tradizione cattolica e della «infantilizzazione» di Dio, a suo modo di vedere non fondata sulla Sacra Scrittura, non si può peraltro contestare, come fanno molti commentatori delle sue parole, di non essere in possesso di una formazione teologica. 

Qualsiasi contadina analfabeta sarda del Medioevo, abituata però a pregare tanto, ne avrebbe saputo più di lei, che sembra avere studiato parecchio pur non avendo capito nulla. Ne sarà sorpresa, ma ci sono anche altre fonti della divina rivelazione, come la tradizione della Chiesa. E anche il magistero, cioè l'insegnamento dei Papi e dei vescovi.

D'altra parte, malgrado lo scetticismo della scrittrice, non è nemmeno necessario conoscere a fondo la Parola di Dio per avere qualche informazione in più sull'attesa che traspare in molti passi dei profeti - nei confronti di un Messia. Tant' è che ci sono ebrei messianici convinti che il Salvatore debba ancora arrivare. 

IL CONDOTTIERO

Alcuni nel popolo d'Israele speravano perfino che si trattasse di un condottiero che li avrebbe affrancati armi in pugno dalla dominazione dell'impero romano. 

A loro, e a quanti s' immaginano un Cristo-Guevara, eroe della lotta o della teologia della liberazione, si presenta un neonato inerme, che non vuole scatenare una Rivoluzione facendo leva sulle contraddizioni sociali, ma sanare ciò che le causa. Eppure, allo scrittore Roberto Saviano è parso di dover ricordare «a chi blatera in loro nome» che «Maria, Giuseppe e Gesù sono stati profughi».

Quel che lo «emoziona» è «che si cerchi redenzione in una famiglia stretta intorno a un bambino la cui innocenza lo proclama re». Innanzitutto, la genealogia del Redentore degli uomini, rintracciabile dalla prima riga del primo libro del Vangelo di San Matteo, spiega che proviene da una stirpe di monarchi risalente al re Davide, che decisamente non fu sempre innocente. 

E poi, siccome insegnare agl'ignoranti è una meritoria opera di misericordia spirituale, l'autore di Gomorra merita di essere corretto almeno su un altro punto. Quello che lui definisce «un bambino perseguitato» e «costretto alla fuga insieme alla sua famiglia per salvarsi la vita», non fu mai «respinto ai confini» o «arrestato insieme a chi lo avesse aiutato ospitandolo». Nacque in una provincia dell'Impero romano, la Giudea, poi si spostò in un'altra, l'Egitto, per evitare la strage degli innocenti voluta da re Erode nei confronti dei figli del suo stesso popolo. Infine fu crocifisso, certamente non in quanto straniero, ma in quanto Dio. Poi risorse. Ma ne riparleremo a Pasqua con Murgia e Saviano.

Sinistra umanitaria, Sallusti: fanno i buoni, ma non gratis. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 24 dicembre 2022

È Natale, dobbiamo essere tutti più buoni. Ci sto, a una sola condizione: non passare per fessi, che nel mio mestiere significa andare appresso ai furbi che si fanno passare per saggi, o se preferite ai furbi che intrallazzano facendosi scudo con "l'aiuto umanitario", pratica nobile ma scivolosa. E non è un caso se a scivolare sono soprattutto esponenti della sinistra comunista nel cui pantheon ci sono solo figure che all'umanità hanno fatto più male che bene. Nessuno in queste ore ha il coraggio di mettere in fila tre fatti di cronaca e dimostrare che il vero problema non sono le singole storie ma la cultura comune che le ha generate, per l'appunto la cultura comunista.

Proviamoci. Antonio Panzeri, regista dello scandalo Qatar, è stato un potente segretario della Cgil, poi membro della direzione dei Ds, deputato europeo del Pd e infine socio di Articolo 1, il partito di Speranza, D'Alema e Bersani. A Bruxelles è stato presidente della sottocommissione europea per i diritti umani e ha fondato l'Ong umanitaria Fight Impunity che oggi sappiamo essere un bancomat di famiglia (ieri gli hanno sequestrato altri 240 mila euro di provenienza sospetta).

La storia di Panzeri è molto simile a quella della famiglia Soumahoro, l'immigrato adottato dagli intellettuali di sinistra e portato da Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, a sedere in Parlamento come paladino degli ultimi. Oggi sappiamo che anche l'Ong, ovviamente umanitaria, dei Soumahoro era un bancomat personale che ha dissipato milioni di soldi pubblici.

E arriviamo alla terza storia. Anche in questo caso ci sono di mezzo Fratoianni, Sinistra Italiana e una Ong va da sé umanitaria, specializzata nel soccorso di naufraghi. Fratoianni è infatti l'ultimo padrino politico di Luca Casarini, già attivista no global e comunista a tempo pieno. Il tribunale di Ragusa ha disposto ieri il sequestro di 125 mila euro che l'Ong di Casarini aveva intascato da un armatore danese per liberarlo dalla scocciatura di avere a bordo 27 immigrati casualmente intercettati in mare aperto. L'accusa è di favoreggiamento di immigrazione clandestina, un taxi del mare alla modica cifra di 4600 euro a immigrato. Ma quanto sono umanitari 'sti comunisti? Ma soprattutto, quanto sono fessi i non pochi che ancora gli tengono bordone?

*** Ps. Con affetto e riconoscenza buon Natale a tutti voi lettori. Libero, come tutti i quotidiani, tornerà in edicola martedì 27 dicembre. 

Parla l'ex parlamentare torinese. “Il Pd è un covo di giustizialisti”, parla Stefano Esposito. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Dicembre 2022

L’ex parlamentare torinese Stefano Esposito, deputato del Pd nella XVI legislatura e senatore nella XVII legislatura, si distingue sui social per la posizione garantista, a sinistra: guarda all’inchiesta del Qatargate con tutte le perplessità e i dubbi che gli stessi dem non riescono a esprimere. «Sono un libero cittadino perseguitato dalla giustizia», dice. «E questo mi dà una doppia libertà di parlare».

Qatargate. Che idea si è fatto?

Conoscevo poco Panzeri e Cozzolino, ma difendo il beneficio del dubbio per due che vengono appesi per i piedi già oggi, senza uno straccio di documento processuale. Non sappiamo di che reati sono accusati. Non sappiamo se hanno mai ceduto alla corruzione. Di certo non c’è niente: si parla di servizi segreti, di accordi opachi. Di ong. Nessun atto parlamentare preso in favore del Qatar, per quanto ne sappiamo.

Dicono solo che Panzeri fosse il regista di una rete di soft power qatarino.

Adesso risulta quasi un Richelieu. Nessuno di noi lo sapeva, ma scopriamo che Panzeri era un finissimo stratega, uno che praticamente avrebbe tenuto, lui da solo, in pugno l’intero Parlamento europeo. Lui che non era più stato eletto, poteva davvero condizionare, fino a un mese fa, tutte le scelte europee in politica internazionale? Passavano per lui gli accordi di protocollo con il Qatar? Conoscendo un po’ i meccanismi, tendo a dubitarne.

Perché ci sono articoli di stampa che riporterebbero affermazioni che direbbero: ‘Non abbiamo certezze, ma forse anche Cozzolino era vicino al Qatar’. Comunque vada a finire questa vicenda, Cozzolino è già finito. Non ci sarà modo di riabilitarlo anche se tra poco verrà fuori che non aveva alcuna responsabilità. Il Pd insegue il momento, senza con questo frenare la perdita di consensi. Quando la macchina del fango parte, non si ferma più.

Cosa suggerisce ai candidati segretario del partito?

Dobbiamo incidere nel nostro Dna che non esistono presunti colpevoli, ma presunti innocenti. Ricordo loro che coltivare il dubbio è il primo comandamento di un garantista. E invece oggi l’unico dubbio che viene coltivato è sul grado di colpevolezza dell’indagato. E per me questo è un livello di barbarie inaccettabile.

Il Pd sta diventando grillino?

Questa è una cosa che è iniziata dal 2013: rincorre la cultura grillina. Per il Pd il M5S non è una spina nel fianco, è una spina nel cuore. E purtroppo su questo terreno ha vinto quella cultura lì, e lo dico con grandissimo dolore. Lo dico con dolore: il Pd non difende mai i suoi. Nessuno dei suoi.

Vero. Ma perché, qual è la ratio?

Perché in fondo il Pd non è mai diventato una comunità. È nato da una fusione a freddo che non ha mai prodotto il calore di una comunità. È un brand, ragiona come le aziende in termini di reputazione del marchio a prescindere dalle storie delle persone che lo incarnano.

Chi viene anche solo sfiorato dalle inchieste, porta lo stigma e viene messo al bando.

Se parli con i singoli, è diverso. Ti danno tutti ragione. Però rispondono a una logica perversa, e le azioni del partito sono altre: l’abbandono, la messa al bando. Quando in un gruppo una persona ha bisogno di una mano, e invece di un braccio teso si vede arrivare una pedata, non la si può più definire comunità. Il Pd è una cordata. Quando uno può diventare un peso, perché preso di mira da un magistrato, gli altri tagliano la corda. Lo fanno come riflesso di sopravvivenza, sempre. La lista sarebbe lunga.

Qualche nome merita di essere fatto: Antonio Bassolino, Catiuscia Marini, Simone Uggetti, Filippo Penati, Marcello Pittella… Forse Nordio aggiusterà il tiro sull’abuso d’ufficio, meglio tardi che mai.

Oltre alla riforma dell’abuso d’ufficio, segnalo l’urgenza di mettere mano al traffico di influenze.

Altro mostro giuridico. Quello che ha colpito anche lei.

Il traffico di influenze in Italia può essere applicato a chiunque, per qualunque cosa. Chi ha un ruolo politico non può venir meno alla richiesta di qualche cittadino.

Sull’anarchico Cospito, leader No-Tav, lei che era il portabandiera della Tav, chiede un atto di clemenza. Perché?

Io sono stato un forte propugnatore della Tav e dai comitati ho ricevuto minacce e intimidazioni. Cospito è la mia antitesi, da un certo punto di vista. E dico che su di lui stanno sbagliando tutto. Lo Stato non può agire con cinismo e cattiveria, altrimenti i piani si invertono. Credo che Cospito sia colpevole, ma va messo in condizione di scontare la sua pena con dignità e umanità. Chiunque si dica di sinistra dovrebbe pensarla come me. Ecco, quello che mi stupisce. Che la sinistra, persino davanti al rischio che la vicenda Cospito si traduca in tragedia, perché andrà avanti con lo sciopero della fame, non dica niente. Il silenzio della politica è il segno che siamo morti noi, prima di lui.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Diritti e lavoro: salario minimo o corrida? Tra societal* e social** la sfida del terzo millennio. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 21 Dicembre 2022.

La sinistra - tutte le sinistre, dall’Europa agli Stati Uniti - hanno schiacciato in un angolo i temi economici per investire su quelli civili/individuali. Una tendenza globale, finita al cuore del dibattito francese.Ma se non è la sinistra a occuparsi di stipendiminimi, potere d’acquisto e rincaro delle bollette chi lo farà?

Operai in manifestazione durante uno sciopero generale a Milano negli Anni Settanta (foto di Gianni Berengo Gardin)

Vogliamo pensare a come aumentare il salario minimo per milioni di lavoratori? No, dedichiamoci piuttosto all’abolizione della corrida nelle tre regioni dove è autorizzata. Quando il 24 novembre scorso il partito della France Insoumise ha scelto gli argomenti da mettere all’ordine del giorno nel dibattito parlamentare, si è trovata di fronte a un bivio anche simbolico: da una parte c’erano questioni relative al lavoro, un tempo cavallo di battaglia della sinistra, dall’altra temi legati a valori e stili di vita. Era il giorno della «nicchia parlamentare», cioè la giornata in cui dalle 9 a mezzanotte un gruppo specifico dell’Assemblea nazionale ha il diritto di presentare le sue proposte di legge.

* IL TERMINE FRANCESE ‘SOCIETAL’ GUARDA ALLA VITA DEGLI INDIVIDUI, DALL’ABORTO ALL’EUTANASIA, IN QUANTO PARTE DI UNA SOCIETÀ ORGANIZZATA

All’ultimo momento il partito di Jean- Luc Mélenchon, che pure prima dell’estate aveva fatto della tutela dei lavoratori il cuore della sua campagna elettorale, ha cambiato l’ordine del giorno, temendo di non avere tempo sufficiente per esaminare tutte le sue quattro proposte. Dovendo sceglierne solo due, ha accantonato la prevista discussione sul salario minimo a 1600 euro al mese netti (oggi sono 1300) e sull’istituzione di una commissione di inchiesta su Uber, per parlare del no alla corrida e dell’introduzione del diritto all’aborto nella Costituzione. Tutti argomenti importanti, specie quest’ultimo, ma la strada scelta dalla sinistra radicale è sembrata confermare una tendenza di fondo: la politica affronta malvolentieri i problemi sociali ed economici—collettivi —, preferendo quelli etici, legati a valori individuali. Succede in tutto il mondo, ma in Francia la distinzione si è cristallizzata in due termini contrapposti: social contro sociétal. Il termine social è legato alla vita economica, con il suo carico di difficoltà e pesantezze: frattura sociale, conflitto sociale, il sistema di sicurezza sociale — che per definizione è in perdita. Questioni poco sexy, e poco risolvibili. Sociétal indica invece, secondo il dizionario Larousse, «i diversi aspetti della vita sociale degli individui, in quanto parte di una società organizzata».

** IL TERMINE FRANCESE ‘SOCIAL’ È LEGATO INVECE ALLA VITA ECONOMICA: FRATTURA SOCIALE, CONFLITTO SOCIALE, SISTEMA DI SICUREZZA SOCIALE

Anche qui non mancano questioni profonde e primarie come l’eutanasia o l’interruzione di gravidanza, ma ci si può dedicare anche a temi meno epocali come il menu vegetariano nelle mense scolastiche, o seri ma tutto sommato non centrali come la corrida o la disciplina dei monopattini nelle grandi città. Social evoca fabbriche, operai, lotta di classe, XX secolo. Sociétal è più moderno, significa per esempio chiedersi se giocare a golf sia rispettoso dell’ambiente. Semplificando molto, social sono i negozi chiusi la domenica in virtù delle tutele dei diritti dei lavoratori; sociétal è riflettere su che cosa sia corretto comprare, nei negozi ormai sempre aperti, anche la domenica.

QUEL DIETROFRONT DI FRANÇOIS HOLLANDE: L’ULTIMO PRESIDENTE SOCIALISTA, IN CAMPAGNA ELETTORALE PUNTÒ SULLA GUERRA ALLA FINANZA. MA ALL’ELISEO PREFERI’ FARE LA LEGGE SUI MATRIMONI GAY

Un caso di scuola in Francia è stata la presidenza di François Hollande, l’ultimo capo di Stato socialista. Conquistò il potere anche grazie al celebre discorso del Bourget in cui proclamò «il mio nemico è il mondo della finanza» e annunciò una tassa del 75% per i redditi superiori al milione di euro. Molto social. Una volta arrivato all’Eliseo, Hollande fu raggiunto dalla realtà: niente guerra alla finanza, niente tassa del 75%, ma la legge sul mariage pour tous, le nozze aperte agli omosessuali, il suo lascito più importante. Sociétal vuol dire anche diritti civili fondamentali e sacrosanti, certo, è una categoria che comprende battaglie decisive. Il guaio non è dedicarsi al sociétal, ma occuparsi solo di quello, dimenticando il social.

GILLES CLAVREUL: «LA LINEA STRATEGICA SU LAVORO E CAPITALE PERMETTEVA DI DISTINGUERE FRA DESTRA E SINISTRA.OGGI SUCCEDE SEMPRE MENO»

«Come ci si pone su lavoro e capitale è quello che permetteva di distinguere tra sinistra e destra più o meno in tutte le democrazie occidentali. Oggi accade sempre meno, ed è un fenomeno che riguarda tutti i partiti, anche quelli di sinistra che pochi mesi fa nella campagna elettorale francese promettevano di tornare ai fondamentali occupandosi delle condizioni di vita dei lavoratori», dice l’alto funzionario Gilles Clavreul, assieme al compianto Laurent Bouvet fondatore nel 2016 del movimento Printemps Républicain.

Quel barbecue «simbolo del patriarcato»

È una tendenza planetaria alla quale i francesi sono forse più sensibili, perché individuata già negli Anni Sessanta da Cornelius Castoriadis e Claude Lefort nella rivista Socialisme ou barbarie o da Guy Debord dell’Internationale situationniste. Tutti e tre avevano previsto che la società avrebbe conosciuto un’inversione: quel che Marx chiamava le sovrastrutture politiche e soprattutto culturali sarebbero diventate la vera struttura, al posto dell’economia e delle condizioni materiali. «Il punto di arrivo estremo, o se vogliamo la caricatura di questa impostazione, è rappresentato dalla deputata Sandrine Rousseau che trova il tempo per denunciare il barbecue come simbolo del patriarcato», dice Clavreul.

Il virilismo e il consumo di carne rossa

Sandrine Rousseau, deputata ecologista di Parigi e componente della Nupes (la Nuova unione popolare ecologica e sociale guidata da Mélenchon), è una delle personalità emergenti della politica francese. Interpreta l’impegno ambientalista come indissolubile da quello femminista: secondo lei viviamo nell’«androcene », l’era del capitalismo sfrenato, del riscaldamento climatico e del patriarcato, mali intrecciati.Ma alla fine, più che combattere il capitalismo o quantomeno provare a proporre un’alternativa, Rousseau occupa un enorme spazio mediatico denunciando il maschilismo dei colleghi di partito, oppure individuando nel consumo della carne rossa un segno di deprecabile virilismo. Chi sembra avere imboccato il percorso contrario è Marine Le Pen, che si occupa poco o nulla di questioni sociétal ma molto di quelle social. Già ai tempi del mariage pour tous la leader del Rassemblement national si distinse per lo scarso appoggio offerto agli oppositori delle nozze gay.

Niente difesa della famiglia all’antica

Chi si aspettava che l’estrema destra lepenista facesse propria la causa dei cattolici tradizionalisti indignati per il matrimonio degli omosessuali è rimasto deluso: niente difesa a spada tratta della famiglia all’antica, nessuna profezia di fine della civiltà, semmai un generico rispetto verso le scelte individuali dei singoli. Marine Le Pen si è staccata dall’estrema destra identitaria e tradizionalista, per dedicarsi piuttosto alle classi popolari abbandonate dalla sinistra, specie nel Nord della Francia. Forse è questa una delle ragioni del suo successo e della sua avanzata continua. Marine Le Pen è tra le poche personalità politiche che danno la priorità ai temi social passati di moda: il potere d’acquisto e il rincaro delle bollette, prima ancora dell’immigrazione. E anche riguardo agli stranieri, se il rivale Eric Zemmour fa della lotta all’immigrazione un tema culturale, identitario, sociétal perché legato a una certa idea della Francia tradizionale, alto borghese e «etnicamente omogenea», Marine Le Pen pone la questione in modo più concreto (e social), in termini di sicurezza e salvaguardia dei posti di lavoro per i cittadini francesi.

FUKUYAMA: «LA STORIA SEMBRA ESSERE FINITA NON PERCHÉ LA REALTÀ SIA ORMAI PRIVA DI SOPRASSALTI E TRAGEDIE,MA PERCHÉ UN UNICO MODELLO SOCIO-ECONOMICO SI È IMPOSTO NELLE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI». E PREVALE IL MARKETING POLITICO IN STILE WALMART

Il problema di un’impostazione esclusivamente sociétal della politica è che rischia di precludere una visione d’insieme, collettiva. Il pericolo sta nell’occuparsi di mille cause, magari anche giuste, ma prive di un respiro unitario che unisca i cittadini invece di dividerli. È quel che denuncia in America l’intellettuale di sinistra Mark Lilla, preoccupato per le derive del particolarismo culturale e per la politica ridotta a tutela di categorie e diritti specifici. «Anni fa Laurent Bouvet invitò Mark Lilla a Parigi per una conferenza dopo la vittoria di Trump» ricorda Clavreul «e lui mise a confronto i siti di Trump e Hillary Clinton: il primo conteneva un unico messaggio chiaro,Maga (Make America great again), che si può amare o detestare ma ha il pregio di rappresentare una visione collettiva per il Paese; il secondo era un elenco delle misure a tutela della singole categorie, “faremo questo per la comunità Lgbt”, “quest’altro per i neri”, “questo per gli ispanici” e così via, una specie di marketing politico in stile WalMart».

Onfray: tutti i mali vengono da Maastricht

Secondo Michel Onfray, discusso filosofo protagonista di una recente conversazione catastrofista con Michel Houellebecq sulla sua rivista Front Populaire, in Europa tutti i mali vengono da Maastricht. «Una volta che anche la sinistra ha abbracciato il modello economico liberale, cosa che Mitterrand in Francia ha fatto nel 1983 appena due anni dopo avere vinto le elezioni grazie all’alleanza con i comunisti, ogni speranza di cambiare la società nel profondo è abbandonata. Dieci anni dopo, Maastricht ha sancito in tutta Europa la fine della possibilità stessa delle lotte sociali». In questo Francis Fukuyama, autore mille volte dileggiato della teoria della «fine della storia», sembra averci preso: la storia sembra essere finita non perché la realtà sia ormai priva di soprassalti e tragedie,ma perché un unico modello socio-economico si è imposto nelle democrazie occidentali. Non resterebbero quindi, a sinistra e a destra, che le piste ciclabili e temi tutto sommato periferici come i rave party, che la nuova maggioranza italiana si è affrettata a disciplinare nei primissimi giorni di governo, «o l’uniforme per gli studenti universitari, proposta certo non fondamentale avanzata dai Républicains che stanno eleggendo il loro nuovo leader».

Addio lotta di classe

Per scongiurare la fine delle grandi ambizioni politiche e dell’universalismo Clavreul ha fondato il Printemps républicain, che trova nella difesa della laicità francese un valore attorno al quale possa riunirsi tutta la società, in polemica con la sinistra radicale che alla lotta di classe preferisce talvolta i temi sociétal o la tutela delle singole comunità etnico-religiose, con i francesi neri e arabi chiamati a svolgere il ruolo di un nuovo proletariato di sostituzione, l’unico che possa garantire voti. Una proposta politica che si voglia vincente è chiamata a confrontarsi con più attenzione sui due versanti, il sociétal certo ma anche il caro vecchio social, specie in tempi di inflazione, penuria energetica e difficoltà a pagare le bollette.

«Un modello possibile, soprattutto per la sinistra, potrebbe tornare a essere quello scandinavo » dice Clavreul. «È vero, in Svezia ha vinto la coalizione di destra ed estrema destra, ma in Danimarca la sinistra regge perché torna a occuparsi di questioni classiche come il lavoro, la sicurezza e l’immigrazione, da intendersi qui come una questione sociale, legata alle condizioni materiali di vita». La scommessa danese è occuparsi certo di diritti civili, parità uomo-donna, tutela Lgbt e lotta al razzismo, ma trascurando temi sociétal da sinistra ZTL, come la chiamiamo in Italia, o da destra dei valori, per dedicarsi a preoccupazioni sentite da tutti, come la sicurezza o l’inflazione. Secondo Mark Lilla, il futuro della politica è andare oltre «quei militanti che non sanno parlare più di nulla se non delle loro differenze».

Perché degli scandali della destra in Italia non parla più nessuno? PIERO IGNAZI, politologo, su Il Domani il 20 dicembre 2022 • 18:22

Nei giorni in cui scoppiava il cosiddetto Qatargate  è stato associato alle carceri italiane l’ex senatore e sottosegretario di Forza Italia Antonio D’Alì con la sentenza di concorso esterno all’associazione mafiosa.

Gli appelli a riscoprire la questione morale invocati a gran voce dalla sinistra anti-Pd hanno un suono un po’ farlocco.

Il Pd non ricorre né a difese d’ufficio, né al silenzio, né al garantismo alle vongole sbandierato dalla destra.

Scandali? Solo a destra. Anche se poi non ci sono. Negli ultimi anni la sinistra ci ha abituato a una lettura della realtà adottando il criterio dei due pesi e due misure. Francesco Giubilei il 21 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Negli ultimi anni la sinistra ci ha abituato a una lettura della realtà adottando il criterio dei due pesi e due misure. Implacabili fustigatori e giustizialisti della peggior specie quando si tratta di attaccare personalità, politici, giornalisti, intellettuali di centrodestra, gli esponenti della sinistra nostrana si scoprono all'improvviso garantisti nel momento in cui a sbagliare è uno di loro fedeli al motto «sono compagni che sbagliano».

Con il caso Qatargate si sono però superati e, cercando di difendere l'indifendibile, da giorni assistiamo a perifrasi, giochi di parole, bizzarre giustificazioni, maldestri tentativi di addossare la colpa alla destra. Quando in passato a essere corrotti sono stati esponenti del centrodestra (perché la corruzione non ha colore politico), sul banco degli imputati è finita un'intera area politica e non i singoli, se avviene la stessa cosa a sinistra a causa dei comportamenti di un già europarlamentare del Partito Democratico, il Pd diventa parte lesa.

L'apice di questo modus operandi è stato raggiunto con il tentativo di mettere sullo stesso piano due vicende che nulla hanno in comune: lo scandalo corruzione all'Europarlamento e l'inchiesta giornalistica realizzata nei confronti dell'eurodeputato Carlo Fidanza su una presunta «lobby nera».

Ci ha provato Brando Benifei, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo (lo stesso per cui Eva Kaili era in prossimità di passare al centrodestra) che, intervenendo in televisione, ha affermato: «C'è Fidanza, braccio destro della Meloni per tanti anni, che è a piede libero indagato per corruzione e finanziamento illecito ed è qua al Parlamento europeo». Sulla stessa falsariga il parlamentare Arturo Scotto, coordinatore di Articolo Uno (il partito di Roberto Speranza) per cui «un tale Fidanza accusato di corruzione oltre che essere uno che non lesinava saluti romani».

Paragonare lo scandalo di tangenti e corruzione all'europarlamento con l'inchiesta giornalista realizzata da Fanpage, è fuori luogo per una serie di motivi. Da un lato c'è un affare di corruzione internazionale con un'indagine dei servizi segreti e di polizia che va avanti da tempo, dall'altro di un'inchiesta mediatica con un giornalista infiltrato che cerca di spingere Fidanza a compiere reati.

Nel caso del Qatargate sono stati trovati a casa del vicepresidente del parlamento europeo sacchi pieni di soldi mentre nei confronti di Fidanza non ci sono prove di corruzione al punto che la Procura di Milano sta per chiedere l'archiviazione dell'inchiesta aperta nei mesi scorsi. Cade così anche l'ultimo tentativo di trovare alibi o sviare l'attenzione dallo scandalo dell'Europarlamento cercando di tirare in ballo vicende imparagonabili invece di assumersi le proprie responsabilità politiche.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 20 dicembre 2022.

[…] È giusto che un ex uomo di Stato come Massimo D'Alema faccia il lobbista?

«No, affatto. Offre un esempio negativo. Un uomo di Stato rimane tale sempre». 

D'Alema non fa più politica.

«Un rappresentante dell'élite politica di un Paese democratico è come il sacerdote di una comunità. Dura tutta la vita. Questa dignità si mantiene. Il prete è tale anche da spretato. Tutto ciò autorizza il sospetto che il suo comportamento precedente sia stato insincero di fronte al mandato fiduciario degli elettori». […]

Estratto dell’articolo di Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 20 dicembre 2022.

[…] Nulla a che vedere con le inchieste, ma in questi giorni si è tornato a discutere del ruolo degli ex premier D'Alema e Renzi, che hanno intrattenuto a vario titolo rapporti non propriamente politici con i Paesi e gli emirati del Golfo. Voi più volte avete attaccato Renzi, perché distinguerlo da D'Alema?

«È inaccettabile che un senatore della Repubblica, pagato dai cittadini, vada in giro per il mondo a fare il testimonial di regimi autocratici dietro pagamento di lauti compensi". Non è una frase mia ma di Calenda, pronunciata prima di allearsi con Renzi. Per una volta la penso come lui, ma non dobbiamo personalizzare: nessun parlamentare italiano deve ricevere contributi, a qualsiasi titolo, da un altro Stato. Quanto a D'Alema, ha dismesso da tempo incarichi pubblici. La differenza non è di poco conto».

 A proposito di questione morale, Renzi sollecita una commissione di inchiesta sul Covid per l'operato del suo governo.

«Siamo favorevoli, nessun problema. L'importante è che si voglia approfondire in maniera puntuale e seria, che ci si voglia interrogare sullo stato della nostra sanità e su come è stata gestita la pandemia anche a livello regionale, evitando che venga utilizzata per scopi polemici e strumentali».

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 21 dicembre 2022.

Goffredo Bettini è uno dei pochi che ancora si lascia martellare da passioni politiche primordiali. 

Sanguina a tempo pieno. È il suo genio. Il suo carisma. La gente di sinistra, che ha voglia di sinistra, va quindi alle presentazioni del suo libro, A sinistra, da capo (Paperfirst, pp. 304, 18) per brutale necessità. 

La stagione, come sappiamo, è nebbiosa. Incerta. Mortificante. Non c'è solo questo estenuante congresso del Pd, così pieno di vaghezza, di correnti prima biasimate e poi - sotto sotto - blandite, di slogan gonfi del più stucchevole politichese, tipo che «il partito parte da noi», o di idee bislacche, come quella di cambiargli nome. C'è anche una questione morale battente: il caso Soumahoro e, in queste ore, il Qatargate.

«Osservo con profonda amarezza. Credo che il Pd sia ancora sano, nel suo complesso - dice Bettini -. Ma credo pure che la sinistra sia purtroppo permeabile all'incursione dell'affarismo, perché s' è attenuata una certa critica ai valori dominanti, a quei tragici miti della ricchezza, del lusso, e del successo bramato». 

Bettini indica allora un sentiero e una destinazione. L'incipit del saggio è esplicito: «Il mondo e ogni forma di vita sono attraversati dal confronto tra chi vince e chi perde. Tra la forza e la debolezza. Tra la fortuna e lo scacco». E perciò: in questo conflitto è necessario schierarsi dalla parte dei perdenti («Per Berlinguer era la "spinta propulsiva" nella difesa degli ultimi»). E tuttavia non basta infondere coraggio: occorre creare opportunità, nuovi destini anche a chi, adesso, arranca nella penombra della vita. 

La domanda velenosa è: Bettini ha nostalgia del Pci?

«No, sebbene il Partito comunista sia stato fondamentale nella costruzione della democrazia italiana. Però ho nostalgia di una certa sinistra, questo sì. Ecco perché voglio un Pd che abbia peso e che sia visibile - spiega, con ostinazione -. Che partito è un partito che ha paura di essere mangiato da un altro schieramento? Come si possono fare alleanze se non sai raccontare cosa pensi del mondo?». I partiti, aggiunge, esistono ancora; Fratelli d'Italia, ormai lassù, è un partito «ideologico, strutturato, coeso». 

Il saggio - a lungo in testa alla classifica dei libri politici più venduti - è diviso in due parti. Nella prima c'è una densa lettura storica dell'Italia e del pianeta, la filosofia che s' attorciglia ai destini degli uomini e delle donne, tra rivoluzioni e vittorie, illusioni e sconfitte (gli esempi: Spartacus, i Ciompi, i contadini tedeschi di Thomas Muntzer, Turner, Zapata e altri); un patrimonio immenso: il miracolo - scrive Bettini - dei diseredati. Nella seconda parte si vira invece sul diario politico degli ultimi anni.

La dedica è bella, e nasconde molto del tratto umano di Bettini: «A mio padre Vittorio, fervente repubblicano, che mi ha fatto conoscere "il lampo" della politica». Sono i genitori, quasi sempre, a spingerci su un orizzonte: l'avvocato Vittorio, nobile e gran proprietario terriero marchigiano, e Wilde, che in prime nozze aveva sposato diciassettenne il principe musulmano Xhemal Rexha, albanese e nipote del pascià. «Papà, quando ero bambino, mi faceva leggere Dostoevskij. Avrei preferito ascoltare qualche favola. Invece sentivo parlare solo di politica»: coltissimo (e s' è scoperto che un suo amato poeta è Ezra Pound), snob, scapolo, un braccio rotto da quelli di Autonomia nel 1978, comincia nel Pci, è segretario romano della Fgci, poi Pds, Ds, Pd: deputato, senatore, europarlamentare. Come ha scritto in una magnifica recensione Mario Tronti sul Manifesto , un uomo diviso in due.

Da un lato: «Goffredo l'intellettuale, il vorace lettore di libri, in genere quelli più eretici...». Dall'altro lato «Bettini il politico, il sapiente manovratore, il cardinal Richelieu di tanti reucci, sindaci, governatori, segretari, l'appassionato di cinema diventato regista di celebri operazioni politiche» (sul discusso, stretto rapporto tra Bettini e i 5 Stelle, Tronti è netto: «Non condivido una parola di quanto dice da tempo»). 

Colpisce, in effetti, il silenzio di Bettini sugli attuali candidati alla segreteria del Pd. Un silenzio piuttosto rumoroso. Il libro ha la postfazione di Andrea Orlando: una firma e una presenza che a molti era sembrata molto più che un suggerimento per l'establishment del Nazareno. Sappiamo com' è andata. È anche possibile che non tutti abbiano gradito certe pagine del saggio. Come quando Bettini spiega che il Pd, negli anni, s' è lentamente sempre più chiuso in una dimensione di governo. «Certo evitando lo sfascio del Paese. Ma anche smarrendo la rappresentanza degli strati più popolari».

La responsabilità? «Non abbiamo mai fatto i conti con ciò che accadde nel passaggio dell'89-91. Le colpe più recenti, però, le porta Matteo Renzi. Molti ne furono conquistati. E anch' io fui benevolo verso il suo impeto. Poi, lo straordinario risultato delle Europee nel 2014 smascherò il suo populismo, apologetico della modernità. Da quell'esperienza il Pd uscì piegato, senza più prospettive». Adesso, invece, Bettini è tornato a vederne alcune (naturalmente è lecito temere si tratti di un miraggio).

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 19 dicembre 2022.  

Goffredo Bettini, molti elettori di sinistra sono sotto shock. Esponenti progressisti con sacchi di banconote in casa.

"Sono molto amareggiato. La sinistra è permeabile all'incursione dell'affarismo perché se si affievolisce una critica rispetto ai valori dominanti, al mito della ricchezza, del lusso, del successo a tutti i costi, e ci si stacca da chi fatica a vivere, le difese si possono allentare".

Il timore di molti è che sia solo l'inizio: è difficile pensare che Panzeri sia un caso isolato.

"Le responsabilità penali sono sempre individuali e vanno giudicate nella loro specificità, non gettate in un calderone che travolge tutto. Alcuni indagati sono stati colti in flagrante, con un mucchio di contanti in casa. Altri, come Cozzolino, allo stato attuale non sono neppure indagati, eppure sono finiti nei titoli dei giornali come malfattori. Aspettiamo il lavoro degli inquirenti".

 Il Pd può dirsi estraneo?

"Il Pd è ancora sano nel suo complesso, ma deve rimuovere ogni apologia dell'esistente, che premia il denaro che dà la forza e la forza che disprezza e schiaccia la debolezza". 

Giusto parlare di questione morale? O rischia di essere fuorviante? Forse si ruba e si fanno affari opachi anche perché non c'è più alcuna bussola politica.

"C'è un intreccio tra questione morale e questione democratica, come pensava Berlinguer. Se la rappresentanza si fa incerta, il Parlamento decide e controlla sempre di meno, i poteri sono sbilanciati, le lobby economiche debordano, le decisioni si assumono in cerchie ristrette, opache, nascoste, i partiti sono delegittimati e ridotti a scheletri di potere, è del tutto chiaro che hanno buon gioco gli interessi economici. Finisce il comando della politica e inizia la "festa" del puro profitto". 

[…] Politica, affari e lobbismo. Due ex leader dem ed ex presidenti del Consiglio, Renzi e D'Alema, sono oggi anche consulenti e uomini d'affari. Tutto legale, eppure discutibile.

"Sono casi diversi, anche se entrambi permessi dalla legge. D'Alema si è da tempo dimesso da ogni incarico pubblico e svolge ruoli di consulenza con contratti regolari che finanziano anche le sue attività editoriali e di studio. Renzi è un capo di partito e senatore". 

[…] A proposito di alleanze, che senso ha alle regionali l'intesa Pd-5S in Lombardia, dove peraltro rischia di servire a poco, e non nel Lazio dove c'era già un accordo di governo?

"Nel Lazio rompere l'alleanza che governava è stato un atto di irresponsabilità. Si trattava semplicemente di continuare l'esperienza virtuosa di Zingaretti". 

L'alleanza l'ha rotta Conte, di cui lei è un noto estimatore. Molti lo considerano l'esempio del più vieto trasformismo. E a sinistra l'avete sdoganato voi.

"Conte è stato contestato, disprezzato e insultato. Ha le sue debolezze, ma ha governato bene l'Italia per un anno e mezzo insieme al Pd. Ha commesso un errore nel far cadere Draghi, noi abbiamo fatto l'errore di rompere subito dopo ogni possibilità di dialogo. Ora il M5S fa una corsa solitaria. Può guadagnare qualche voto, ma indebolisce ogni possibile alternativa alla destra".

Vede il rischio che il Pd, per riconquistare gli elettori passati a votare per forze populiste di destra o di sinistra, insegua quel modello?

"Toccare e attraversare il popolo sono il contrario del populismo. Sono le condizioni per una politica umana, non sopraelevata rispetto alle persone. I leader populisti, al contrario, si sostituiscono al popolo. Pretendono di esserne la sola voce e lo privano di sovranità". 

Che cosa le piace e cosa no dei due candidati principali al congresso Pd, cioè Elly Schlein e Stefano Bonaccini?

"Elly Schlein l'avverto più vicina nella lettura critica del modello di sviluppo. Bonaccini è un ottimo amministratore e rivendica una radice storico-popolare che certamente non mi è estranea".

Può essere Gianni Cuperlo il candidato della sinistra dem?

"Cuperlo è un dirigente e un intellettuale di prim'ordine. La sinistra del Pd, che da anni svolge una battaglia concreta e coraggiosa, poteva esprimere una propria candidatura. Temo sia troppo tardi". 

C'è chi dice che nel Pd il problema, prima che ancora che di linea politica, è la credibilità di tutto il gruppo dirigente storico. Quindi anche la sua.

"Il problema del Pd è politico. Sul gruppo dirigente non si può fare di tutta un'erba un fascio. Sarebbe pura demagogia "rottamatrice". Ciascuno ha la sua storia e le sue responsabilità. Per quanto riguarda me, ho influenzato alcune fasi della sinistra, come la nascita del Conte II, in altre sono rimasto appartato. Non cerco nulla se non continuare con passione a trasmettere qualcosa alle nuove generazioni". 

[…] Nel suo libro lei deplora appunto il fatto che la sinistra abbia lasciato sotto le macerie del muro di Berlino anche parte della sua identità e dei suoi valori. Ha nostalgia del comunismo?

"Al contrario. La consapevolezza degli errori ed orrori del socialismo realizzato poteva essere l'occasione di rilanciare i valori di liberazione umana, di giustizia, di ascesa dei diseredati. Questo non è accaduto. Hanno vinto le ideologie neoliberiste e a noi è rimasta solo la possibilità di andare talvolta al governo.

Abbiamo salvato l'Italia, la democrazia e l'economia, ma abbiamo perso di vista i processi "terragni" e la vita concreta delle persone. Superare questa condizione non è nostalgia del comunismo, ma il ritorno ad un necessario conflitto riformatore e democratico. Per quanto riguarda la nostalgia, la considero un sentimento potente che spinge ad agire. Non riguarda quasi mai ciò che hai vissuto, ma ciò che avresti voluto vivere e non ti è stato concesso. È il rovello che induce a tentare, e ancora tentare, una vita migliore"

Qatargate. E l'ex Pci manda in soffitta la questione morale. Pure D'Alema archivia, in nome degli affari, la lezione di Berlinguer. Roberto Chiarini il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Vi immaginate Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti che lasciano la politica per consacrarsi alla consulenza di società (capitalistiche) internazionali? Quella del consulente è invece l'attività che Massimo D'Alema, comunista non pentito, si vanta di aver intrapreso. Al giornalista che gli chiede se non convenga con lui sulla dubbia compatibilità tra la sua originaria passione politica e l'odierna attività di consulente di governi stranieri e di multinazionali risponde che non va confusa l'attività di «consulente» con quella dell'«affarista». È improponibile ogni accostamento tra le sue collaborazioni con società internazionali con i traffici dell'ex compagno di partito Antonio Panzieri, nella cui abitazione di Bruxelles sono stati trovati sacchi sospetti di banconote.

È inoppugnabile - ci mancherebbe - la distinzione tra le due attività sul piano della legalità e pure su quello della moralità. La distinzione regge meno però (ma forse ci sbagliamo) sul piano dell'opportunità. Non è comunque su questo punto che ci sembra essenziale puntare l'attenzione, ma piuttosto su quanto questa mutazione di destini professionali sia rivelatrice di un'altra mutazione in atto nella sinistra italiana e europea. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che il mestiere di manager e di procacciatore d'affari stia diventando la vocazione principe di molte figure di ex leader della sinistra - da Tony Blair a Gerhard Schroeder fino a Massimo D'Alema: tutti ex primi ministri che a fine carriera abbracciano l'attività di business man, pronti a concedere la loro consulenza anche a uomini di stato che non vantano una coscienza democratica propriamente immacolata.

Contrapponendo l'affarismo alla consulenza, come fa il già lider maximo della sinistra italiana, ha voluto far intendere che è l'onestà ciò che fa la differenza. Con ciò, salva inequivocabilmente la sua personale onorabilità. Non coglie però il punto politico chiave della questione che sta alla base dell'impasse in cui s'è incagliata la sinistra ex comunista dopo l'abbandono dell'originaria fede anticapitalista. Politici e intellettuali di sinistra cercano di ridurre lo scandalo delle mazzette all'europarlamento solo a un fatto (indubitabile) di disonestà personale indicando la soluzione al richiamo della lezione di Enrico Berlinguer sulla «questione morale» quando l'allora segretario del Pci denunciava la degenerazione dei partiti ridotti a «macchine di potere» che «hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni».

La sua era certo una meritoria denuncia del malcostume politico ormai imperante. Era però anche un atto d'accusa rivolto all'intero sistema dei partiti su cui si era retta la vita pubblica nazionale dalla caduta del fascismo in poi contro cui veniva contrapposto il popolo tradito.

Non s'è mai prestata adeguata attenzione al fatto che con l'elevazione da parte del Pci della «questione morale» a stella polare della sua futura azione politica il Pci consumava il cambio di due suoi storici paradigmi culturali.

Il primo. Berlinguer superava l'idea del primato della politica che lo aveva permeato il partito per tutto il lungo dopoguerra conferendo al confronto politico un carattere «gladiatorio sui valori» e alla politica una connotazione «alta». Accantonava l'idea che sia la politica a determinare i grandi movimenti della storia, che «la persona venga giudicata in base all'ideologia cui ispira le sue azioni, non per la moralità o immoralità di quelle».

Il secondo paradigma con cui il Pci rompeva era con la precedente valorizzazione del partito a architrave di sostegno della democrazia. Ora individuava la lotta alla partitocrazia quale essenza del suo conclamato nuovismo. Portava acqua con ciò al mulino della tesi, allora popolare, di una società civile sana contrapposta a una società politica malata, e con ciò disarmandosi nei confronti dell'ordine di idee e di comportamenti propri della società capitalistica di cui «la consulenza» finisce per essere la fisiologia e «l'affarismo» la patologia.

Per queste ragioni, la perdita degli anticorpi dall'infezione affaristica che oggi la sinistra lamenta non può limitarsi ad attribuirla al venir meno della tensione morale che contraddistingue ormai la vita di tutti i partiti. Una responsabilità a monte va ricercata nell'aver sostituito di fatto la questione morale alla questione sociale come orizzonte strategico della sinistra.

Qatargate: perché il Pd si processa da solo? I dem sono i primi a condannarsi per l’inchiesta che ha travolto l’europarlamento. Anche se al momento non c’è un solo iscritto al partito che risulti indagato...Valentina Stella su Il Dubbio il 19 dicembre,

Qatargate, la domanda è: perché il Partito democratico si sta processando da solo e addirittura autocondannando politicamente se al momento non ci sono indagati tra le sue fila?

L’INCHIESTA GIUDIZIARIA

Per provare a rispondere alla domanda innanzitutto ricapitoliamo brevemente il punto sull’inchiesta della magistratura belga: il blitz della polizia viene effettuato il 9 dicembre. Vengono arrestati con l’accusa di corruzione, riciclaggio, associazione a delinquere quattro persone: Antonio Panzeri, 67 anni, ex segretario generale della Camera del Lavoro di Milano, eurodeputato dal 2004 al 2019 con il gruppo Socialisti e Democratici (all’inizio Ds, poi Pd, infine Articolo 1), attualmente detenuto come il suo ex assistente Francesco Giorgi, collaboratore dell’europarlamentare Pd Andrea Cozzolino. Quest’ultimo non risulta indagato né ha subito perquisizioni ma si è autosospeso dal gruppo Socialisti&Democratici e in Italia è stato sospeso in via cautelare dal Pd.

In manette anche Eva Kaili, compagna di Giorgi, vicepresidente (sospesa) dell’Europarlamento ed esponente socialista, ancora rinchiusa in carcere. Sulla sua posizione si deciderà il 22 dicembre, in quanto non è stata possibile portarla prima dinanzi ai magistrati a causa di uno sciopero all’interno della prigione dove è detenuta. Per Niccolò Figà-Talamanca, segretario generale di No Peace Without Justice, è stato invece disposto il regime di sorveglianza con braccialetto elettronico. L'ufficio del procuratore federale ha presentato ricorso contro questa decisione della Chambre du Conseil di Bruxelles. Intanto la Ong è stata al momento sospesa in via precauzionale dal Transparency Register del Parlamento Ue, dove era accreditata da dieci anni.

Fermato dalla polizia belga anche Luca Visentini, segretario della Confederazione internazionale dei sindacati. L’uomo è poi stato rilasciato. Ha raccontato al magistrato Michel Claise che nelle tre buste che gli consegnò Panzeri lo scorso 10 ottobre c’erano circa 50 mila euro poi trasferiti al «Fondo di Solidarietà della Ituc, per sostenere i costi di viaggio al Congresso per i sindacati che hanno mezzi finanziari limitati o inesistenti, in conformità con le pratiche della Ituc». Per questo denaro, ha detto Visentini, «non mi è stato chiesto, né ho chiesto nulla in cambio del denaro e non sono state poste condizioni di alcun tipo per questa donazione».

L’ESTRADIZIONE

La Corte d'Appello di Brescia ha dato il via libera alla consegna alle autorità belghe di Maria Dolores Colleoni, 67 anni, moglie di Panzeri, accusata di concorso in associazione per delinquere, corruzione e riciclaggio, accogliendo così la richiesta del mandato d'arresto europeo firmato da Michel Claise, titolare dell'inchiesta. L'avvocato Angelo De Riso, difensore della donna insieme al collega Nicola Colli, aveva presentato «una memoria in diritto», sostenendo che con la consegna al Belgio la 67enne andrebbe in carcere, aggravando così la misura che la vede attualmente ai domiciliari, e questo «violerebbe la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo». Avranno cinque giorni per il ricorso in Cassazione.

LA QUESTIONE POLITICA

Detto tutto questo, in una discussione generale dove impropriamente si stanno mischiando il piano giuridico, quello politico, quello morale, quello mediatico e quello regolatorio sulle lobbying, stiamo assistendo ad una sorta di harakiri da parte del Partito democratico. Come abbiamo visto, nelle sue fila non ci sono indagati. Il problema, dal punto di vista dei dem, sarebbe però che Panzeri lo hanno fatto eleggere anche loro. Eppure il fondatore di Fight Impunity avrebbe commesso i reati che gli vengono contestati non da eurodeputato del Pd ma da lobbista rimasto a Bruxelles dopo l’esperienza politica. Ma il quadro oggettivo della situazione non basta al Pd.

Goffredo Bettini su Repubblica ieri ha detto che «la sinistra è permeabile all'incursione dell'affarismo». Gli ha fatto eco Andrea Orlando su La Stampa sulla reazione dei suoi allo scandalo: «C'è stato un primo momento di spaesamento, poi le risposte sono arrivate, adesso ne devono arrivare altre».

Ma già qualche giorno fa proprio da queste pagine il tesoriere Walter Verini aveva spiegato: «Berlinguer diceva che i partiti devono essere sobri e non occupare spazi impropri, non lottizzare. Nelle nomine vanno privilegiati i criteri di competenza e capacità. Questo è il salto culturale che aiuta un partito a sviluppare anticorpi. Se poi l’occupazione del potere diventa un fine, allora si allentano i legami con l’etica politica che sono fondamentali. La questione morale è un tema politico di grande attualità che deve trovare il Pd preparato e inflessibile».

È paradossale che a menar contro il Pd non siano tanto gli avversari politici quanto il Pd stesso. Nessuno nega che via del Nazareno stia attraversando una profonda crisi di identità, sancita dalle elezioni del 25 settembre, ma non si riesce a capire perché prendersi la responsabilità politica per una questione giudiziaria riguardante l’arresto di un ex esponente, innocente poi fino a prova contraria. Panzeri sarebbe solo la punta di un iceberg caratterizzato da tempo dall’omesso controllo sui candidati, dall’aver abbassato l’asticella della presunta superiorità morale, nell’aver trasformato il potere da mezzo a fine, nell’aver dimenticato la lezione di Berlinguer.

C’è chi all’interno del Pd ci ricorda addirittura la massima di Gaber (anche se a dirla sarebbe stato Gian Piero Alloisio): «Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me». Altri sarebbero persino pronti a farsi carico della questione del non indagato e deputato Aboubakar Soumahoro: eletto sì con Fratoianni, ma il suo partito Avs si è presentato alle elezioni con l’alleanza di centro-sinistra. «Possibile che a nessuno è venuto in mente di controllare?», ci dice una fonte del Pd.

In questo strano corto-circuito c’è poi un’altra fonte di Articolo 1 che invece teme che il Pd voglia addossare tutta la colpa a loro, come pretesto per depotenziare ulteriormente un loro ritorno all’ovile. A questo punto il timore pare assolutamente infondato.

Enrico Morando: «Sotto attacco noi liberali Pd, estranei a tutto: sconcertante». Parla l'esponente dem, presidente di "Libertà eguale": «Nelle analisi secondo cui il Qatargate svelerebbe la crisi identitaria del nostro partito, si punta contro la cosiddetta terza via, la prospettiva indicata dalla componente liberalsocialista a cui appartengo, anche se le poche figure coinvolte provengono dal fronte opposto: com'è possibile?» Errico Novi su Il Dubbio il 21 dicembre,

«Sono sconcertato da un capovolgimento di senso». Spieghi pure, onorevole Morando. «Mi sconcerta il paradosso per cui, nelle analisi di questi giorni sul Qatargate, a finire sotto attacco è la cosiddetta terza via del Pd, la cultura liberalsocialista a cui personalmente appartengo. È davvero spiazzante, considerato che i singoli coinvolti nell’indagine sono al limite riconducibili a quella rispettabilissima area socialdemocratica, a quella sinistra del Pd che la terza via ha sempre osteggiato. Non intendo affatto dire che va messa sotto processo un’altra famiglia, interna al nostro partito, nel quale, oggettivamente, non c’è un solo esponente che risulti indagato. Voglio semplicemente notare però che è incredibile fare il contrario e ribaltare completamente il quadro a danno della componente liberale».

Enrico Morando ha una capacità, incrocia nelle sue osservazioni tre elementi: il congresso dem, il garantismo in affanno nel partito e le distorsioni interpretative degli ultimi giorni. Già parlamentare dell’ala liberal interna al Pd appunto, Morando è il presidente di Libertà eguale ed è tra i sottoscrittori di un documento elaborato in vista del congresso insieme a figure, tra le altre, come Giorgio Gori, Marco Bentivogli, Tommaso Nannicini e Umberto Ranieri, intitolato “Un nuovo inizio”.

Mentre qui pare che si sia giunti addirittura a un capolinea, a una Caporetto del Pd. Non sarebbe più semplice dire, rivendicare che non c’è un solo indagato con la tessera del Pd, nell’indagine sul Qatargate? Un atto di ribellione garantista che rovesci le analisi più critiche, come quella firmata ieri da Ezio Mauro su Repubblica?

Direi che la rivendicazione garantista di cui lei parla è un po’ sopravanzata dalla dimensione che la vicenda assume non certo per il Partito democratico italiano ma per l’intero Europarlamento. Premessa: il ritrovamento di borsate di soldi nella disponibilità di componenti dell’Assemblea di Strasburgo o di loro collaboratori costringe a valutare la gravità del rischio a cui siamo esposti. Solo che non condiviso la prospettiva desolante e un po’ catastrofista, forse, che si dà a proposito appunto del Parlamento Ue. A me sembra chiaro che qui i presunti corruttori, gli autocrati stranieri cercano, Qatar in testa, di comprare un pronunciamento favorevole. E noi stessi ora ci siamo resi conto di quanto siamo influenti e credibili. Non solo e non tanto per le attività regolative svolte dall’Europarlamento, ma per i giudizi di valore che può esprimere, appunto, in relazione a Stati autocratici estranei all’Unione. Vuol dire che Strasburgo è diventata più autorevole, e i suoi giudizi più temuti, di quanto abbiamo pensato finora. Mi pare che una chiave del genere sia rimasta piuttosto esclusa dai commenti di questi giorni. Dopodiché, se questo sorprende, la sostituzione di cui parlavo all’inizio, vale dire la cosiddetta terza via, l’idea liberale del Pd, messa nel mirino nonostante i presunti protagonisti dei casi su cui indagano i giudici belgi provengano da una componente esattamente opposta, è, come detto, incomprensibile. Sconcertante.

Il nodo è l’identità: può esserci nel centrosinistra un partito dall’identità così plurale, vista la concorrenza di Terzo polo al centro e 5S a sinistra?

Rovescio la domanda: abbiamo perso, il 25 settembre, certo. Ma davvero si crede che in futuro un centrosinistra capace di portar via il primato alla destra-centro di Meloni si possa costruire attorno al Terzo polo o al Movimento 5 Stelle? A me sembra assolutamente che non sia così. Che esiste competizione con la destra- centro a patto che vi sia un partito a vocazione maggioritaria, il nostro, capace di rappresentare una vera alternativa.

Ancora a proposito di identità: non sarebbe il caso di distinguersi, sulla giustizia, dal M5S, come lei, Ceccanti e pochi altri avete provato a fare con l’adesione a tre dei cinque referendum, nella scorsa primavera?

Caspita, assolutamente sì. Certo che dobbiamo essere riconoscibili, distinti da una forza, il Movimento 5 Stelle, apertamente giustizialista. Dobbiamo farlo in nome dell’articolo 111 della Costituzione, secondo cui davanti a un giudice terzo e imparziale devono giustapporsi due parti, una pubblica, vale a dire l’accusa, e naturalmente la difesa. Serve la separazione delle carriere, come ricordiamo persino nel capitolo sulla giustizia richiamato sul portale di Libertà eguale. Separare le carriere dei magistrati realizza un principio di civiltà e di equilibrio tra i poteri che nessuno può confondere con le ipotesi di chi aspirava, almeno fino a qualche anno fa, a sottomettere la magistratura alla politica. E noi, che dobbiamo saper interpretare davvero i valori della democrazia liberale, anche nel campo della giustizia, possiamo essere, in questa sfida, credibili come nessun altro.

Qatargate, vero scandalo o montatura dei giornali? Sembra di rivivere la gloriosa stagione di Tangentopoli: ma questa volta a esplodere in mille pezzi sarebbe l’intera Ue. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 20 dicembre,

Che emozione per i giornali questo scandalo del “Qatargate”, probabilmente gli sembra di rivivere la gloriosa stagione di Tangentopoli, le mazzette nascoste nei pouf, i potenti decaduti, la caccia alle mega tangenti, gli avvisi di garanzia che fioccano qua e là. E la prima Repubblica che esplode in mille pezzi.

La suggestione parallela delle vedove di Mani Pulite è che l’inchiesta condotta da Michel Claise, il magistrato belga dalla manetta facile e dal volto sempre a favore di telecamera, potrebbe fare lo stesso con il Parlamento europeo e, per estensione, con tutta la Ue.

L’affaire che rischia di distruggere l’Europa”, gridano da giorni un po’ tutti, aggiungendo di volta in volta dettagli tanto pruriginosi, quanto irrilevanti dal punto di vista giudiziario. È quasi un filone letterario, che si incrocia con le aggressive tecniche di marketing dell’informazione online (i pezzi di colore sulle valigie gonfie di denaro fanno guadagnare più click e visualizzazioni), con titoli drogati a introdurre articoli di fuffa evocativa, puntando il faro sugli emiri dei fondi sovrani petroliferi, sui servizi segreti del Marocco, sugli ex comunisti che diventano lobbisti perdono la testa in un fiume di lusso e quattrini.

Dicono inoltre che nei prossimi giorni spunteranno nuovi, inquietanti risvolti, che l’inchiesta si allargherà a macchia d’olio toccando altri europarlamentari, che i milioni sbucheranno dai divani, dai cassetti, dalle botole e dai controsoffitti. Forse ci sarebbe una vera e propria associazione criminale dietro lo scandalo.

Il clima di isteria generale rischia peraltro di far smarrire la misura anche alle stesse vittime del “Qatargate”, come la presidente de Parlamento europeo, l’avvocata maltese Roberta Metsola che parla di «attacco alla democrazia» da parte di potenze straniere con la stessa gravità di Winston Churchill prima della battaglia di Inghilterra contro la Luftwaffe. Viene un senso di smarrimento a immaginare che le autocrazie del Golfo affidino al pasciuto Panzeri e alla sua banda di amici il compito di smantellare le nostre libertà democratiche.

Pare che le indagini del procuratore Claise vadano avanti da oltre un anno e mezzo ma per il momento il perimetro dei fatti accertati resta limitato come rimangono fumosi e indefinibili gli obiettivi dei corruttori e i vantaggi da loro ottenuti pagando i lobbisti. Cosa potrà aver mai spostato l’elogio del Qatar pronunciato dalla socialista greca Eva Kaili lo scorso 21 novembre di fronte a qualche decina di parlamentari annoiati e distratto?

Intanto, però, Eva Kaili resta in carcere, il procuratore Claise spera infatti che la custodia cautelare la faccia crollare, che la spinga a “confessare” e sembra che in parte ci stia riuscendo. Si chiama tortura psicologica. Gli stessi metodi utilizzati dal pool di Mani Pulite che tanto eccitano i nostri media per i quali il Quatargate più che uno scandalo è una speranza.

Il Papa contro i processi mediatici: «Il caso Lula è paradigmatico». «L’iter processuale è iniziato con notizie false sui media. Guardatevi da coloro che creano l’atmosfera per un processo, qualunque esso sia». Il Dubbio il 18 dicembre,

Nell’intervista al quotidiano spagnolo Abc, in cui Papa Francesco ha annunciato di aver già firmato la lettera di dimissioni in caso di malttia,  il Pontefice ha anche parlato del caso Lula e dei processi mediatici figli delle fake news. Bergoglio è apparso molto colpito dalle vicende del leader brasiliano, rieletto presidente del suo Paese dopo essere stato processato e incarcerato. «È un caso paradigmatico», ha detto il Papa.  Paradigmatico perchè «l’iter processuale è iniziato con notizie false sui media» che hanno creato «un’atmosfera che ha favorito il suo processo». «Il problema delle fake news sui leader politici e sociali è molto serio. Possono distruggere una persona», aggiunge Bergoglio.

Lula era stato condannato per corruzione passiva, ha trascorso 580 giorni in carcere e gli è stato impedito a candidarsi alle elezioni presidenziali del 2018, fino al 2021, quando la Corte Suprema ha annullato tutte le sentenze. «Non so come sia andata a finire. Non dà l’impressione che si sia trattato di un processo alla altezza», prosegue Francesco. «E a questo proposito, guardatevi da coloro che creano

l’atmosfera per un processo, qualunque esso sia. Lo fanno attraverso i media in modo tale da influenzare coloro che devono giudicare e decidere. Un processo deve essere il più pulito possibile, con tribunali di prima classe che non abbiano altro interesse che mantenere pulita la giustizia. Questo caso in Brasile è storico, non mi occupo di politica. Sto raccontando quello che è successo».

L'inchiesta inesistente. Scandalo Qatar, furia manettara e fake news di Repubblica che ricordano il 1992. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Dicembre 2022

A Repubblica non vedono proprio l’ora che scoppi una nuova Mani pulite. Sono talmente eccitati dal Qatargate da arrivare anche ad ‘inventare’ le notizie di sana pianta. Leggendo l’apertura di sabato scorso del giornale diretto da Maurizio Molinari, “Milano, caccia ai soldi”, pareva di essere tornati direttamente al 1992, con le retate quotidiane di politici accusati di prendere mazzette a go go dagli imprenditori. Scorrendo poi il titolo ed il sommario dell’articolo principale, “Conti correnti al setaccio, Milano cerca le mazzette degli ‘amici’ del Qatar. L’inchiesta meneghina è coordinata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale”, il lettore avrà subito pensato che quarto piano del Palazzo di giustizia del capoluogo lombardo, dove ha sede la Procura, i pm, i super eroi senza macchia e senza paura che lottano contro il male, fossero tutti intenti a scrivere richieste di custodia cautelare e decreti di sequestro.

Purtroppo, il desiderio irrefrenabile di manette era destinato a sciogliersi come neve al sole. Ancora ieri mattina, infatti, non risultava aperta nessuna inchiesta a Milano nei confronti dei soggetti tirati in ballo dai giornali in questi giorni, ad iniziare da Antonio Panzeri. Nulla di nulla. Nemmeno mezza iscrizione nel registro degli indagati. L’unica attiva svolta a Milano era stata quella di dare esecuzione a delle richieste da parte dell’autorità giudiziaria belga. Non essendo previsto che i pm belgi vengano in Italia per effettuare delle acquisizioni di atti o verifiche sui conti correnti, costoro avevano delegato per la loro esecuzione i colleghi milanesi. Una normalissima attività di cooperazione internazionale, come se ne fanno a centinaia secondo procedure ben codificate, è stata quindi spacciata per “inchiesta”.

Invece di questa ‘disinformazione’ che ha contribuito a dare una lettura suggestiva degli accadimenti, il giornale di Largo Fochetti avrebbe fatto bene a sottolineare l’inopportunità che tali accertamenti, anche se solo delegati, venissero effettuati da De Pasquale, l’attuale coordinatore del pool affari internazionali e reati economici transnazionali di Milano. Il magistrato è imputato a Brescia per omissione d’atti d’ufficio nel procedimento Eni Nigeria. Se fossero applicate le ‘regole’ di Piercamillo Davigo, diventato celebre con Mani Pulite, De Pasquale non dovrebbe entrare nemmeno in ufficio. “L’errore italiano è stato sempre quello di dire aspettiamo le sentenze”, disse una volta Davigo. “Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo”, aveva aggiunto l’ex magistrato.

Dal momento che è acclarato in una sentenza del tribunale di Milano che De Pasquale non ha depositato atti a favore dei suoi imputati, desta sorpresa che si occupi di questo caso che avrà risvolti sulla politica nazionale e non solo. L’impasse, comunque, è dovuto all’incredibile inerzia del Consiglio superiore della magistratura che ha sul tavolo da un anno e mezzo la sua pratica per incompatibilità ambientale. De Pasquale è a rischio trasferimento da Milano a seguito per le vicende legate a i verbali dell’avvocato Piero Amara e, come detto, al mancato deposito di prove favorevoli agli imputati del processo sulle tangenti in Nigeria. Imputati che sono stati poi tutti assolti. Il Csm, a luglio dello scorso anno, aveva convocato l’allora procuratore Francesco Greco, i suoi vice, alcuni pm e anche il presidente del Tribunale ed il giudice Marco Tremolada che ha presieduto il collegio che ha assolto tutti gli imputati per la corruzione nel fascicolo Eni, per far luce sull’accaduto.

Come se non bastasse, una delegazione composta dai laici e togati del Csm, fra cui il pm antimafia Nino Di Matteo, si era recata personalmente lo scorso gennaio a Milano per ulteriori accertamenti ed acquisizione di testimonianze. Da allora non si è più saputo nulla. È opportuno, allora, che De Pasquale si occupi di rogatorie e dia supporto ai magistrati del Belgio? Paolo Comi

«Il Pd c’entra poco con il Qatargate, ma a chi interessa?

Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia

Il professore Massimo Cacciari, già sindaco di Venezia, punta il dito contro i dem: «Parlino di politica, di amministrazione e di governo. La questione morale ci sarà sempre». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 20 dicembre, 2022

Massimo Cacciari analizza la gestione del Pd sul caso Qatargate, spiega che la questione «di certo non riguarda solo il Pd o la sinistra» e che «la questione morale rimarrà, perché i mascalzoni e i ladri esisteranno sempre, ma sarebbe ora che i dem comincino a parlare di politica, di amministrazione, di governo». Il vero guaio per il Nazareno, insiste, è che «l’opinione pubblica non distingue tra Articolo 1 e Pd».

Professor Cacciari, pensa che il Pd stia sbagliando la gestione del cosiddetto Qatargate, che coinvolge esponenti politici solo di lato riconducibili al Pd?

Diciamo che sono esponenti politici “inventati” da quella parte politica, e su questo non c’è dubbio. Al tempo stesso, però, è anche vero che alcuni hanno una storia così antica, e un’esperienza politica così travagliata, a partire da Pierantonio Panzeri, che con il Pd c’entrano ormai poco. Il problema vero per i dem è che l’opinione pubblica non distingue tra articolo 1 e Pd. Considera tutti come “sinistra” e vede che questi personaggi appartengono o appartenevano al gruppo dei Socialisti e democratici a Strasburgo. Il resto conta poco, e questo è un grosso guaio per i dem.

Crede che la vicenda possa avere delle ricadute politiche per il Pd, nel pieno della corsa alla segreteria e a pochi mesi da elezioni decisive in Lazio e Lombardia?

Non so cosa dicono i sondaggi ma temo che ci saranno effetti catastrofici per l’immagine del Pd. D’altronde, sarebbe anche sciocco da parte del Pd far finta che qualcuno possa distinguere tra i dem e quelli di Articolo 1.

Visto che tra le altre cose si sono presentati anche insieme alle elezioni. Se in casa hai uno che ruba, è chiaro che questo rovina la tua immagine politica. Poi è chiaro che se fosse stato coinvolto, ad esempio, Enrico Letta, sarebbe stato tutto diverso, così come lo fu quando arrivano gli avvisi di garanzia a Bettino Craxi. Ma anche in quel caso il disastro che coinvolgeva Psi e Dc era già avvenuto.

Cosa rischia ora il partito, che è in calo nei sondaggi e che viene tirato per la giacca a sinistra dal Movimento 5 Stelle e al centro dal terzo polo?

Beh, diciamo che quella di cui stiamo parlando sembra una questione abbastanza importante. Poi se si vuol ragionare oltre i fatti contestati, occorre sottolineare che un paese non va in malore per pochi farabutti. Certo invece il partito rischia ma penso che la dirigenza ne abbia consapevolezza.

Questa questione avrà conseguenze fortissime anche dal punto di vista elettorale, di sicuro non gli farà bene ma potrebbe addirittura fargli malissimo. Ne potrebbero beneficare un po’ sia il Movimento 5 Stelle che il Terzo polo. Non certo le destre o la Meloni. Il problema del Pd è di strategia politica, gli è capitata una tegola sulla testa, è vero, ma non è che prima navigavano nell’oro. Il Qatargate sta semplicemente allungando l’agonia.

Non crede che il Pd abbia un atteggiamento masochista, ad esempio nel momento in cui sospende un suo esponente, l’europarlamentare Andrea Cozzolino, che non è nemmeno indagato?

È sempre stato così, da Tangentopoli in poi. Li hanno beccati con le valigie piene di soldi, mi sembra talmente palese la corruzione che c’è poco da parlare di giustizialismo o di masochismo. Bisognerà aspettare le sentenze, questo è chiaro, ma il giudizio politico è sotto gli occhi di tutti. La questione è strachiara e la dirigenza del partito cerca di difendersi come può, anche sospendendo suoi esponenti.

Ha citato il centrodestra: pensa ci sia un po’ di ipocrisia negli attacchi al Pd o è semplice dialettica politica?

Diciamo che in generale questa è la prassi, e in Italia viene accentuata ancora di più. Quando un partito o movimento politico si trova in una situazione di questo genere, gli altri gli si avventano contro come sciacalli. Tutto sommato, mi sembra che questa volta lo stiano facendo in maniera minore che in passato. D’altra parte la Lega ha avuto problemi simili nel recente passato, quindi cosa vuole che dicano…

Si parla molto di questione morale, visto che la sinistra per decenni ne ha fatto il suo cavallo di battaglia e che oggi sembra tornata necessaria. Che ne pensa?

Ma basta con la questione morale. La facciano finita. La questione morale rimarrà, perché i mascalzoni e i ladri esisteranno sempre, ma sarebbe ora che comincino a parlare di politica, di amministrazione, di governo. Ovviamente ci sono quelli che sono stati fuori dal giro magico del gruppo dirigente che da anni decide la candidature, promuove e bocca i nomi, e che ora stanno sparando a zero. Basta vedere le prime dichiarazioni di De Luca e Bonaccini. Tutti a dire che se ci fossero stati loro queste cose non sarebbero successe. Ma per favore, Non è niente di nuovo: tutte cose viste e riviste. Sono comportamenti normali della politica.

Una politica che è stata premiata dal denaro di Marocco e Qatar: perché hanno colpito una certa parte del Parlamento di Strasburgo?

Di certo non riguarda solo il Pd o la sinistra. Ora i riflettori sono puntati su questi personaggi, ma vicende simili coinvolgono tutti. In questo caso Marocco e Qatar hanno cercato appoggi tra i socialdemocratici perché potevano facilmente immaginare che le massime resistenze rispetto al mondiale in Qatar venissero proprio dalla sinistra europea. Con la destra e i filoamericani il problema non si poneva, visto che il Qatar è un alleato strettissimo degli Usa da anni. Quei voti, insomma, già li avevano, non c’era bisogno di comprarseli.

Da “la Repubblica” il 19 dicembre 2022. 

Caro Merlo, Repubblica di giovedì scorso riporta una frase pronunciata da Francesco Giorgi, in carcere per il Qatargate: “Ho fatto tutto per soldi di cui non avevo bisogno”. Mi chiedo allora: perché? Più si è ricchi e più si è corruttibili? Sono insaziabili.

Pasquale Regano - Andria. 

Risposta di Francesco Merlo: 

La frase esprime autocritica etica, pudore e vergogna. Giorgi è infatti un pentito, sconfitto e colpevole, che non va preso alla lettera. I suoi giudici valuteranno se merita la clemenza che implicitamente chiede e cosa offre in cambio. Lei ne fa invece una questione generale di antropologia criminale, crede che ricchezza e corruzione siano direttamente proporzionali.

È pessimo il rapporto che l’Italia ha sempre avuto con “mammona” e non solo perché l’Italia è stata povera e dunque per molto tempo non ha avuto danaro. Ma anche perché la vecchia sinistra ideologizzava, e qualche volta ancora ideologizza la povertà disprezzando il consumo. 

E la Chiesa crede che sia popolato di beati poveri il regno dei cieli e di insaziabili diavoli ricchi quello dei dannati. Totò a chi diceva che l’appetito vien mangiando rispondeva che “in realtà viene a star digiuni”.

Gian Micalessin per “il Giornale” il 19 dicembre 2022.

A volte il passato, anche recente, può sembrare comico. O surreale. Di certo così appaiono, oggi, le cronache dell'ottobre 2012 quando l'allora premier Mario Monti vola in Qatar. Sono passati solo pochi mesi dall'assegnazione dei mondiali di calcio 2022 approdati a Doha sull'onda di compravendite di voti e generose mazzette. Eppure durante la visita l'Emiro non tralascia di esibire al nostro premier la preoccupazione d'investire in un'Italia «in preda alla corruzione».

 In verità l'Italia del 2012 è solo un paese distrutto dallo «spread» e dalle manovre politico-economiche messe in campo per far fuori Silvio Berlusconi. Un paese dove però si possono fare ottimi affari a prezzi di saldi. E proprio la trasferta di Monti apre a Doha le porte della grande svendita.

Il primo frutto della visita è la costituzione, a marzo 2013, della joint venture «IQ Made in Italy Investment Company S.p.A» controllata al cinquanta per cento dalla Qatar Holding LLC e dal «Fondo Strategico Italiano Spa» - la holding di Cassa Depositi e Prestiti. Dotato di un capitale di 300 milioni di euro, destinato ad investimenti nelle eccellenze italiane che spaziano dall'alimentazione al lusso, il fondo acquisisce nel 2014 il 28,4 per cento delle quote di Cremonini, gruppo leader nell'esportazione di carne.

 Ma nell'aprile del 2012 la Qatar Holding ha già messo le mani sugli immobili della costa Smeralda in Sardegna acquisendo quattro hotel extralusso (Cala di Volpe, Romazzino, Cervo Hotel, Pitrizza), la Marina e il Cantiere di Porto Cervo, l'esclusivo Pevero Golf Club e ben 2.400 ettari di terreno. Un giro d'acquisti del valore di 650 milioni di euro a cui si aggiungono il controllo dell'ex-ospedale San Raffaele di Olbia e gli accordi su Meridiana che portano, nel febbraio 2020, al fallimento e alla liquidazione la compagnia aerea. 

Dalla Sardegna le operazioni finanziarie si allargano ben presto all'abbigliamento e al lusso. Nel luglio 2013 la «Mayhoola for Investment», controllata dallo sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani, sborsa 700 milioni di euro per il controllo del marchio Valentino. Un anno dopo, si aggiudica anche il marchio «Pal Zilieri» al prezzo di 37 milioni.

Nel frattempo si scatena la caccia agli alberghi extra-lusso. Nell'aprile 2013 i qatarioti versano 150 milioni di euro per il Palazzo della Gherardesca di Firenze sede del «Four Seasons Hotel». L'hotel fiorentino entra così a far parte di una collezione che già comprende il Gallia di Milano acquisito per 134 milioni, l'«Excelsior De Regis» di Roma pagato 222 milioni e, sempre nella capitale, l'hotel Intercontinental di Trinità dei Monti ed il Westin Excelsior di via Veneto costati oltre 220 milioni.

 Il vero colpo gobbo arriva, però, nel febbraio 2015 quando il Qatar acquisisce, grazie ad un investimento da poco più di due miliardi, i 25 palazzi e grattacieli di Porta Nuova simbolo e volto della Milano del Duemila.

Da Prodi a D'Alema quel vizio a sinistra di fare affari con Stati esteri dai molti buchi neri. Pasquale Napolitano il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il vizietto per lobby e affari accomuna tutti gli ex segretari del Pd e leader storici della sinistra italiana

Il vizietto per lobby e affari accomuna tutti gli ex segretari del Pd e leader storici della sinistra italiana. Da Romano Prodi a Enrico Letta. Tutti i capi passati di quel mondo, smessi i panni della politica, si sono tuffati nel dorato mondo delle consulenze per Nazioni estere e delle relazioni internazionali. Chi alla luce del sole e chi in modalità più o meno segrete. Sono attività molto redditizie a giudicare dalle dichiarazioni patrimoniali, schizzate verso l'alto, non appena Letta e D'Alema hanno mollato la poltrona da capo di partito. Avversari duri ai tempi del Pd, come D'Alema, Renzi e Prodi, sembrano oggi avere in comune la vita da lobbista.

Massimo D'Alema, ex presidente del Consiglio ma soprattutto a lungo leader indiscusso della sinistra italiana, dopo la rottamazione renziana che l'ha buttato fuori dalla vita politica, si è lanciato, con risultati molto interessanti, nel mondo degli affari. È lui stesso che nell'intervista a Tommaso Labate per il Corriere della Sera ammette di essere tra i consulenti della cordata di investitori che vuole acquisire la raffineria Isab di Priolo. Una cordata con al centro l'uomo d'affari qatarino Ghanim Bin Saad Al Saad, a fianco di investitori italiani. D'Alema è il ponte con il governo italiano (prima Draghi oggi Meloni). Però nell'intervista al Corriere tiene a ribadire: «Io però non faccio né l'affarista né il lobbista. Da diversi anni ho un'attività di consulenza prima di avviare la quale, è agli atti, ho scritto al segretario Speranza una lettera di dimissioni dagli organismi dirigenti di Articolo 1. Non ci sono nel mio caso porte girevoli. Ma diverse stagioni nella vita che devono essere scandite da un rigido principio di incompatibilità. Io le ho scandite». Messaggio chiaro. D'Alema è stato però il consulente di un'altra operazione finanziaria che non è andata a buon fine: una compravendita tra Italia e Colombia di mezzi da guerra prodotti da Leonardo-Finmeccanica. Il governo di Bogotà stava trattando con Roma l'acquisto di due sommergibili prodotti da Fincantieri e di alcuni aerei di Leonardo. A un certo punto in questa negoziazione sarebbe entrato, nel ruolo di intermediario il lider Maximo. Un altro ex capo del Pd, Matteo Renzi, si muove bene nel campo delle relazioni internazionali e degli incarichi in società di Paesi esteri. Lo fa in chiaro, alla luce del sole. Passando dalla Russia all'Arabia Saudita. Nulla da nascondere, tutto fatturato.

Il pioniere tra i lobbisti di sinistra è sicuramente Romano Prodi. L'ex presidente del Consiglio e fondatore dell'Ulivo ha costruito una rete di rapporti culturali e lavorativi con Pechino. I libri e le lezioni di Prodi spopolano nelle università cinesi. Ma non solo: negli anni il professore è stato uno dei più convinti sostenitori dell'espansione commerciale e finanziaria della Cina in Italia ed in Europa. Nell'aprile scorso la Verità ha svelato la spinta di Prodi per la produzione in Emilia di auto di lusso made in China. Scorrendo l'elenco dei segretari dem, con il vizietto per gli affari, spunta Enrico Letta, ancora in carica fino al prossimo congresso. L'ex premier nel suo esilio parigino annega l'amarezza tra società cinesi e francesi. Per due anni Letta è stato in Publicis, colosso pubblicitario francese criticato per i rapporti con i sauditi. E poi è stato anche vicepresidente per l'Europa occidentale del veicolo di investimento cinese ToJoy. Tutte lobby e gruppi di interesse che cercano di bussare alla porta dei leader politici. Al Nazareno la porta sembra essere sempre aperta.

Stefania Craxi: «La sinistra è passata dall’oro di Mosca ai soldi del Qatar. Moralisti dei miei stivali». Sveva Ferri su Il Secolo d’Italia il 19 dicembre 2022. 

Resta sempre e comunque «garantista». Per questo Stefania Craxi sulla vicenda del Qatargate non dà «giudizi nel merito» rispetto ai soggetti coinvolti. Ma il giudizio politico lo dà eccome, ricordando che «è un vecchio vizio della sinistra italiana: finire al servizio di potenze straniere». «Oggi siamo passati dall’oro di Mosca ai contanti del Qatar. Io resto la più garantista in assoluto: ma allo stesso tempo non dimentico chi finora mi ha fatto la morale. Ecco, ai tanti moralisti “dei miei stivali” voglio ricordare che, a maggior ragione dopo l’inchiesta di Bruxelles, non sono titolati a dare lezioni», ha sottolineando, spiegando che «se adottassi il metodo usato contro mio padre, oggi dovrei sventolare le manette: ma noi siamo fatti di un’altra pasta».

Stefania Craxi: «A sinistra sono passati dall’oro di Mosca ai soldi del Qatar»

Proprio quel «certo vezzo della sinistra comunista, sempre pronta a fare la morale, affetta da quello che è stato chiamato il “complesso dei migliori”» è per la presidente della Commissione Esteri del Senato l’unica «similitudine» che si può trovare tra il Qatargate e Mani Pulite, due vicende altrimenti troppo distanti per «tempi, contesti e situazioni» per poter essere accostate. «Vedremo come si concluderanno le indagini, ma come diceva Nenni, “se giochi a fare il puro, prima o poi incontri uno più puro di te che ti epura”. Ma i moralisti fanno sempre una brutta fine: è la storia che si incarica di definirli spergiuri», ha detto ancora Craxi, intervistata da La Verità e citando con l’ultima frase il padre Bettino.

La superiorità morale della sinistra, ha quindi proseguito, non è tramontata con il Qatargate, perché «non è mai esistita». «Semmai – ha precisato – c’era ieri e in parte oggi, una “doppia morale”. Altro che virtù pubbliche e vizi privati. Nel ’92 si sono messi al servizio di un’operazione golpista, ricevendo protezione e teorizzando una presunta verginità, proprio loro che, oltre alle tangenti dalle aziende, prendevano soldi e ordini da una potenza militare nemica dell’Italia e dell’Occidente. Per inciso, senza un minimo di autocritica sul passato, ci danno anche lezioni sul piano internazionale, mentre a Bruxelles si riempiono la bocca della parola diritti per poi prendere soldi da governi autocratici».

«Nel Pd fanno bene a dirsi sconcertati, visto anche quello che hanno detto e fatto contro la Lega»

Quanto al fatto che nel Pd si dicano «sconcertati», per Stefania Craxi è giusto «visto anche tutto ciò che più di recente hanno detto e fatto sulla Lega di Salvini. La verità, però, è che i partiti, o come vogliamo chiamare questi succedanei, vivono nella società. E nella società ci sono buoni, brutti, disonesti, persone perbene. Dovrebbero ricordarlo anche quando queste vicende interessano altri, senza sciacallaggi e mistificazioni. Ma si sa: coltivare la memoria non è il pregio di questa sinistra». E, ancora, «visto che sono così solerti sulla trasparenza, perché non accolgono la richiesta del centrodestra di istituire una commissione di inchiesta su Tangentopoli?».

Stefania Craxi: il Qatargate dimostra la debolezza della politica e che «manca l’Europa che serve»

In generale, comunque, la senatrice azzurra ha chiarito che ciò che maggiormente l’ha colpita è stato «il presunto coinvolgimento di assistenti parlamentari, che denota come gli apparati, burocratici e parapolitici, hanno preso il sopravvento sulla politica e le stesse rappresentanze parlamentari». «Ho pensato che la politica è sempre più debole e influenzabile. Il tema dei condizionamenti stranieri verso le realtà occidentali, e soprattutto europee, è preminente. Dobbiamo affrontarlo rapidamente con forza, senza cedere a retoriche più o meno forcaiole, sapendo che è un nodo di sistema che riguarda la qualità delle nostre democrazie», ha proseguito Craxi, per la quale la questione su cui riflettere sono anche «l’assenza di un’Europa politica e una costruzione comunitaria fallace». «Manca – ha chiarito – l’Europa che serve».

I casi di Matteo Renzi e Massimo D’Alema

Il tema del primato della politica torna anche quando Federico Novella, che firma l’intervista, chiede a Stefania Craxi un commento sui comportamenti di Matteo Renzi, «in affari con gli arabi», e Massimo D’Alema, «con il suo ruolo di consulente per una cordata di sceicchi in vista dell’acquisizione della raffineria di Priolo». «Renzi fa il conferenziere, un mestiere svolto da molti ex premier in tutto il mondo, ma, certo, a esperienza politica conclusa. D’Alema, invece, è un caso più unico che raro: lui comunista, come tutt’ora rivendica, si ergeva a primate della politica, continua a fare e disfare nelle retrovie, e poi fa il consulente delle multinazionali? Diciamo – ha commentato l’esponente azzurra – che non Craxi, ma un qualsiasi ex Presidente del Consiglio della prima Repubblica non l’avrebbe mai fatto».

Il fallimento del “modello” della sinistra sul tema migranti

E il fatto che al centro dello scandalo Qatargate, come dei casi Mimmo Lucano e Soumahoro, ci siano i diritti umani? «Anche qui – ha avvertito la presidente della Commissione Esteri del Senato – non mischiamo vicende tra loro dissimili e non pensiamo che tutto sia da buttare via. Conosco bene la realtà di Lampedusa, dove uomini e donne, associazioni, prestano un’opera meritoria in condizioni inaccettabili. L’Europa benpensante e perbenista, dovrebbe andare lì e vedere. Ciò che la sinistra non capisce è che il modello che difendono si presta a storture di ogni tipo, non affronta i problemi, non li risolve. Non aiuta i migranti, ma – ha concluso Craxi – spesso li rende schiavi, merce di un sistema inumano».

Qatargate: “Nemesi contro sinistra e rigore Ue”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Dicembre 2022. L'editoriale di Marco Follini

Oggi, forse i dirigenti della sinistra oltre a battersi il petto, doverosamente, per le mele marce trovate nei loro cesti, dovrebbero anche rivedere la retorica degli anni scorsi. E magari, senza assolvere nessuno dei colpevoli di quella stagione, chiedersi anche se tutta la lettura che è stata data a suo tempo di Tangentopoli non meriti una revisione che la renda meno unilaterale di quanto non sia stata fin qui.

Lo scandalo che in questi giorni si snoda lungo la tortuosa rotta tra Doha e Strasburgo capovolge due stereotipi in una volta sola. Uno è quello della sinistra intesa come primatista morale. L’altro è quello dell’Europa austera e rigorosa. Entrambi minacciano di avere conseguenze a lungo andare.

Del primo aspetto si è parlato in lungo e in largo. Ora, si tratta di responsabilità personali, strettamente personali, e dunque far carico di questa vicenda al gruppo dei socialisti e democratici europei è politicamente (oltre che penalmente) improprio. E tuttavia si avverte un certo stridore tra i comportamenti di alcuni, appena svelati, e tutte le prediche che in questi anni sono discese dai pulpiti della sinistra all’indirizzo dei propri avversari politici. (Molti dei quali, peraltro, se le meritavano tutte.)

Ma la nemesi funziona appunto così. E per tutte le volte che la sinistra ha scagliato le frecce della sua indignazione cercando di colpire i comportamenti non sempre adamantini dei propri avversari, altrettante volte quelle stesse frecce sono tornate indietro al modo di un boomerang. Così oggi la destra non deve neppure fare la fatica di esprimere a sua volta altrettanta indignazione. Anzi, essa sembra quasi pattinare sulle storiacce di questi giorni con una sorta di benevola e forse quasi divertita signorilità.

Ora, è evidente che la sinistra paga alcuni eccessi giustizialisti del suo passato. Quella pretesa di ergersi a campioni della pulizia al cospetto di avversari moralmente meno degni sembra infatti prestarsi magnificamente al proprio rovesciamento. E non appena sul banco degli imputati finiscono alcuni (solo alcuni, sia chiaro) dei suoi esponenti diventa quasi inevitabile imputare loro anche l’eccesso di zelo predicatorio e fustigatorio dei loro antenati di appena qualche stagione fa.

Così, oggi, forse i dirigenti della sinistra oltre a battersi il petto, doverosamente, per le mele marce trovate nei loro cesti, dovrebbero anche rivedere la retorica degli anni scorsi. E magari, senza assolvere nessuno dei colpevoli di quella stagione, chiedersi anche se tutta la lettura che è stata data a suo tempo di Tangentopoli non meriti una revisione che la renda meno unilaterale di quanto non sia stata fin qui. Compito che tradisce un minimo di imbarazzo, ma che a questo punto andrebbe svolto con onestà intellettuale almeno pari all’onestà materiale di cui si mena vanto.

Ma v’è un altro aspetto, più cupo e profondo, che queste vicende stanno portando a galla. Ed è lo stridente contrasto tra l’Europa finanziaria che predica austerità, spulcia nei conti degli stati membri, impone regole contabili fin troppo rigorose per i loro bilanci, si propone come guardiana del nostro collettivo decoro economico in nome delle generazioni che verranno, e il suo Parlamento che diventa così permeabile alle influenze corruttive che abbiamo appena visto all’opera.

Anche in questo caso, non si tratterà di capovolgere i valori morali, tutt’altro. La costruzione europea è fondata su di un certo rigore contabile che è l’altra faccia della medaglia delle diffidenze che corrono tra i suoi paesi e della difformità di alcuni suoi interessi. Dunque, quel rigore somiglia a un precetto costituzionale, che ci piaccia oppure no. Ma è altrettanto evidente che quel precetto sarà più difficile da celebrare al cospetto di quelle mazzette che hanno reso tragicamente evidente la permeabilità delle istituzioni alle influenze più disdicevoli degli stati più lontani dai nostri standard di etica pubblica.

Sono strade in salite, tutte e due. Quella che è chiamata a imboccare la sinistra, ripensando se stessa. E quella che dovrà percorrere un’Europa troppo severa con gli altri per essere indulgente con se stessa. Percorsi faticosi, tutti e due Redazione CdG 1947

Lo scandalo si allargherà Il Pd non può darci più nessuna lezione di morale”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 18 Dicembre 2022

Non si possono fare sempre lezioni di moralità e di superiorità ed accusare sempre altri di aver distrutto la sinistra”. A evidenziarlo Nicola Danti, europarlamentare e attuale vice presidente di Renew Europe.

Lei è stato tra i primi europarlamentari a lasciare il Pd. Aveva già notato qualcosa che non funzionava a Bruxelles?

Come me, altri colleghi di quel gruppo, hanno iniziato l’esperienza a Bruxelles nel 2014, quando con Matteo Renzi il Pd prese oltre il 40%. Ma per qualche ragione, piuttosto che continuare a portare avanti il riformismo che caratterizzò quella stagione, al Parlamento Europeo come a Roma, ho visto tanti iniziare ad allontanarsi, prendere le distanze, arrivando persino a sposare la linea di Conte punto di riferimento dei progressisti. Per me aderire a Renew Europe è stata una scelta di coerenza, questa è la mia storia.

Aveva mai immaginato che potesse venir fuori uno scandalo come Qatargate?

Ciò a cui stiamo assistendo è fuori da ogni più lontana immaginazione. Ognuno di noi, parlo degli eurodeputati, ogni giorno incontra portatori di interesse, lobbisti, rappresentanti di Ong, associazioni, delle più diverse categorie. Il nostro mestiere è ascoltare i punti di visti diversi e poi, liberamente, decidere. Per questo esiste un codice di comportamento, regole di trasparenza e pubblicità che devono essere rispettate. I fatti che stanno emergendo non hanno nulla a che fare con ciò che legittimamente può essere fatto secondo le regole. Sono reati che hanno a che fare con il codice penale, non con il codice comportamento del Parlamento Europeo.

A suo parere il caso può allargarsi e vedere altre persone coinvolte?

Le cose che leggo sui giornali mi sembrano già molto rilevanti. Attendiamo le indagini e i processi per avere più chiarezza. Quello che è certo però è che il danno fatto alla nostra istituzione è enorme e recuperare la fiducia dei cittadini, anche per tutti i deputati che fanno onestamente il loro lavoro, non sarà facile.

Che idea ha rispetto agli ex parlamentari, che dopo aver finito il loro mandato, intraprendono la strada del lobbismo?

La mia idea è che loro come tutti gli altri, abbiano il dovere di rispettare la legge. Il lobbismo, nonostante la narrazione che viene fatta, non è il male. Il male è la corruzione e il non rispetto delle regole.

Prima lo scandalo Soumahoro, oggi quello relativo alle mazzette di Doha. Dove ha origine il cancro della sinistra? Qualcuno dovrebbe pentirsi, come ha chiesto Occhetto, che dichiara di aver pianto per molto meno?

Non si possono fare sempre lezioni di moralità e di superiorità ed accusare sempre altri di aver distrutto la sinistra. Contro di noi, contro Italia Viva e contro Matteo Renzi, è stato usato un vero e proprio armamentario di odio, che dovrebbe proprio essere estraneo alla politica. Mi dispiace ricordare che spesso le espressioni di odio peggiori siano venute proprio da chi per decenni ha coltivato la sua superiorità morale.

Il Pd, a suo parere, oggi ha ragione di esistere? Non sarebbero meglio due partiti: uno moderato che guarda al Terzo Polo e un altro alla sinistra?

Oggi il punto vero non è la più la distinzione, secondo lo schema dalemiano, fra centro e sinistra. La differenza è fra il riformismo, di chi fa politica con serietà e pragmatismo e il populismo ideologico. In questo senso il Pd andando dietro a Conte, Fratoianni e Bonelli, ha intrapreso una china evidente che non ha nulla a che fare con un percorso riformista.

Qualcuno accusa Bonaccini di essere troppo renziano. Con lui potrà esserci un confronto vero?

Se dovessi stare a vedere chi era renziano o troppo renziano avrei una lunga sfilza di dirigenti che ieri si sedevano in prima fila e oggi invece salgono sulle barricate dell’anti renzismo. Voglio fare un favore al Pd, evito di parlare del loro congresso. L’unico consiglio che mi sento di dargli è che cerchino di declinare qualche idea per il futuro piuttosto che parlare di un passato di successo che però hanno deciso di distruggere. Detto questo, credo che il Pd, persino a prescindere dal segretario che sarà eletto dalle primarie, sia destinato ad un rapporto sempre più stretto con il M5S, che avrà come naturale conseguenza, il definitivo tramonto di un approccio riformista interno.

Il Pd ha sbagliato a non sostenere Moratti e consegnare così la Lombardia alle destre?

L’alleanza del Pd con il M5S e il mancato sostegno alla Moratti, è una scelta che non guarda ad alcuna possibilità di vittoria, ma risponde a un chiaro segnale politico di carattere nazionale. È la strada che hanno deciso di percorrere, non avendo imparato evidentemente nulla della lezione delle politiche. Hanno voglia di riperdere, saranno accontentati presto. Noi invece, con Letizia Moratti, giocheremo una partita molto difficile, ma dall’esito non impossibile.

Renzi, a volte, viene accusato di essere troppo generoso nei confronti della Meloni. È d’accordo?

Io ascolto gli interventi in Aula, vedo la protesta per 18app, per il Mes, vedo i voti contrari. Mi pare piuttosto che il Terzo Polo sia l’unico a fare opposizione vera. Ciò significa incalzare la maggioranza, anche facendo proposte, e non protestando e basta. Si chiama politica. E Matteo la fa. Non è la prima volta che lo attaccano per questo.

A suo parere su quali punti può e deve essere intensificata la collaborazione con il governo?

Noi faremo la nostra opposizione, come stiamo facendo, sui contenuti e per questo darà molta noia alla maggioranza, più di quella ideologica della sinistra. Questo, però, non ci impedirà di dare il nostro sostegno costruttivo su singoli aspetti se sposeranno alcune battaglie che condividiamo, come sulla giustizia o sulla posizione atlantista in continuità con quella di Draghi. Insomma, non rinnegheremo le nostre idee e i nostri ideali perché qualcun altro li porta avanti.

La dem Covassi: “L’errore del Pd? Più attento al potere che ai deboli”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 18 Dicembre 2022

Esiste una grande differenza tra fare il lobbista e prendere le mazzette. Il Pd, negli ultimi anni è stato più attento alla gestione del potere che alle istanze della povera gente”. A dirlo Beatrice Covassi, eurodeputata del Partito Democratico e già a capo della Rappresentanza in Italia della Commissione europea.

Che impressione le ha fatto la vicenda Qatargate?

Mi sono insediata lunedì e mi sono trovata subito protagonista di una sessione storica. Si può solo immaginare il clima che si è creato dopo lo scandalo. Ho visto la maggior parte dei colleghi sotto shock. Allo stesso tempo, però, devo dire di aver trovato un’istituzione reattiva.

Cosa intende?

Abbiamo già votato la destituzione della vice presidente Kaili, mai era successa una cosa del genere. Giovedì, invece, prima della fine della plenaria, abbiamo approvato una risoluzione in cui viene chiesto con urgenza l’istituzione di un organismo etico. Abbiamo, poi, sospeso il lavoro del Parlamento sui visti per il Qatar, sul libero accesso di Qatar Airways allo spazio aereo continentale. Ci stiamo, infine, battendo sia per una commissione interna relativa al comportamento dei deputati, che per una commissione d’inchiesta, focalizzata sui fatti corruttivi degli ultimi giorni e sull’influenza dei i Paesi terzi. Deve essere un imperativo accertare tutte le responsabilità e ricostruire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee, migliorando i processi all’insegna della trasparenza, dell’etica e della responsabilità.

Si aspettava che dietro ai suoi colleghi potesse esistere il mondo sommerso, di cui oggi parlano i giornali?

Assolutamente no. Resto convinta del fatto che la stragrande maggioranza dei colleghi sia integerrima.

Quanto il Pd esce danneggiato?

Il primo dolore, da europeista convinta, è stata l’ondata di discredito gettata sull’Ue. La mia sensazione è che in una fase così delicata sia necessario prestare attenzione all’importanza dell’Europa per il futuro di tutti noi.

Cosa ne pensa di questi signori, che dopo aver finito il mandato da deputati intraprendono la carriera da lobbisti?

Esiste una grande differenza tra fare il lobbista e accettare delle tangenti. Stiamo parlando, in quest’ultimo caso, di episodi corruttivi, di rilevanza penale, che nulla hanno a che vedere con un lavoro. Detto ciò, occorre rafforzare le regole, la trasparenza e stroncare comportamenti lassisti.

Achille Occhetto, qualche giorno fa, su queste colonne, ha dichiarato “io ho pianto per molto meno, il Pd dovrebbe chiedere scusa”. È d’accordo?

Non bisogna generalizzare, ma non si può non fare un esame di coscienza sul futuro del Pd, su cosa vuol dire essere progressisti oggi. Serve una forza che torni a far sognare la gente, in grado di avere visione. I mea culpa non bastano e neppure le psicoanalisi collettive. Bisogna ripensare un soggetto politico e avviare una riflessione su determinati temi, a partire dalla selezione della classe dirigente.

In cosa si è sbagliato?

Negli ultimi anni, il Pd è stato più attento a gestire il potere che a interpretare le esigenze della povera gente. Essere di centrosinistra per me vuol dire, come diceva La Pira, stare dalla parte dei più deboli.

Preferisce, quindi, un partito orientato a sinistra e al M5s o uno che sposi la causa del Terzo Polo?

Trovo sbagliato scelte di radicalizzazione tra massimalisti e riformisti. Non possiamo schiacciare il Pd tra il populismo di alcuni pentastellati e il neoliberismo. La nostra forza è originale perché consente di fare sintesi tra più identità, anime e culture politiche. Dire di andare verso Conte o Renzi è assurdo e non risolve i nostri problemi perché la vera sfida è ripartire dai valori di fondo che ci caratterizzano.

Il prossimo congresso potrà dare una mano verso tale direzione?

Lo auspico. Preferivo un congresso basato sui temi e non esclusivamente sui nomi, come quello che sto leggendo sui giornali. I classici schieramenti devono essere superati. Al centro devono esserci le idee, le sfide per l’avvenire. Basti pensare al cambiamento climatico, alla globalizzazione, al digitale o all’intelligenza artificiale. Tutti dimenticano che viviamo già in un “metaverso” che cambia la vita di ognuno di noi.

Chi preferisce tra Bonaccini e Schlein?

Entrambi hanno punti di forza e proposte interessanti. Nei prossimi giorni, seguirò con attenzione quanto diranno. Vedremo chi avrà la capacità di dire no a radicalizzazioni inutili e al contrario di unire e proporre una nuova sintesi che vada oltre l’esistente. Non è detto, poi, che non possano crearsi spazi per altre personalità.

Quale la strada per riprendersi una credibilità perduta?

È importante non solo ridare credibilità alla politica, ma tornare a sognare, a pensare al futuro in modo positivo. Ho una figlia di 11 anni e quando le ho detto che diventavo parlamentare, mi ha chiesto di diffondere il messaggio che il mondo è ancora una cosa bella. Credo ancora che fare politica significhi dare speranza. E questo è il vero bene comune.

Controcorrente, Toti asfalta la sinistra sul Qatargate: "Giudicano e si sentono immuni". Il Tempo il 17 dicembre 2022

Il presidente della Liguria Giovanni Toti, ospite di Veronica Gentili a Controcorrente su Rete4 sabato 17 dicembre, spiega qual è il peccato commesso dalla sinistra riguardo lo scandalo Qatargate, al centro del dibattito della puntata. Secondo Toti la sinistra e anche il Movimento 5 Stelle, hanno sbagliato a giudicare gli errori di qualche politico sentendosi immuni.

"Io mi comporto in questa vicenda come al solito e come ahimè non ho visto comportare altre forze politiche, comprese le forze progressiste di questo Paese. Per me gli imputati, gli accusati, gli avvisi di garanzia sono innocenti fino al terzo grado di giudizio della giurisdizione che li giudicherà" spiega Toti. "Il fatto che qualcuno abbia sbagliato a comportarsi o che ha avuto atteggiamenti illeciti o impropri per il loro ruolo politico riguarda la singola persona e la sua coscienza e le misure che le autorità proposte prenderanno. Non ho mai fatto di tutta l'erba un fascio, non ho mai giudicato una comunità politica sulla base del comportamento di qualche soggetto che ne faceva parte" prosegue.

"Purtroppo, negli ultimi 10 anni, ho visto fare alla politica di questo Paese l'esatto contrario: giudicare un corteo dal fatto che una persona rompesse una vetrina o avesse un braccio alzato come se fosse un corteo di fascisti o facinorosi e dall'altra parte giudicare un atteggiamento lassista come un'attitudine morale perché qualcuno era stato preso con le mani nella marmellata condannando un'intera comunità politica. Ecco, io credo che se tutti la smettessero, ma diciamo che questo è un peccato della sinistra in tutte le sue forme e aggiungo anche il M5S che ha messo il turbo quanto a giudizi semplicistici sul mondo. Questa è sempre stata, dai tempi della questione morale di Berlinguer in poi, un'attitudine della sinistra: giudicare gli sbagli di qualche singola persona attitudine comune ad una comunità umana estesa come quella della destra o di altri e a considerarsi in qualche modo immuni da tutto questo. Bruxelles ci dice che nessuno è immune ma che nessuno deve essere per forza contagiato dal fatto che il suo vicino di scrivania fa qualcosa che non deve fare" conclude Toti.  

Controcorrente, Rampini svela l'errore della sinistra su Kaili: "Dovevano cacciarla". Il Tempo il 17 dicembre 2022

Il caso Qatargate è al centro del dibattito della puntata di controcorrente di sabato 17 dicembre su Rete4. Federico Rampini analizza la vicenda spiegando qual è il problema culturale della sinistra progressista, emerso ben prima della vicenda delle tangenti.  

"Io vedo un problema di cultura della sinistra.  C'è almeno un'imputata eccellente che non è italiana: è Eva Kaili la ex vicepresidente greca. Parto da lei perché mi ha colpito molto la sua frase, divenuta tristemente celebre, e molto antecedente alla vicenda delle mazzette trovate a casa sua. Quando disse che il Qatar era un modello per i diritti umani: un'affermazione ignobile e immonda visti i migranti morti nei cantieri per i mondiali. E subito dopo aggiunse anche: non possiamo dare lezioni sui diritti degli immigrati. Questo è il vangelo di una parte di mondo che si auto definisce progressista e che secondo me non lo è e che profondamente anti occidentale e che sostiene che solo l'occidente si macchia di peccati ignobili contro i diritti umani" spiega Rampini.

"Solo noi siamo oppressori, sfruttatori, colonizzatori mentre il resto del mondo è un'umanità buona che ha diritto di risarcimento nei nostri confronti. È da questa cultura di un mondo che io definisco sedicente e progressista di cui fanno parte anche alcune ong di quella galassia Panzeri e Kaili. Proprio Kaili, secondo me, avrebbe dovuto essere cacciata dal partito socialista greco e quindi europeo solo per quella frase prima ancora che i poliziotti scoprissero a casa sua le banconote. C'è un problema politico che andava affrontato alla radice. Quello che poi fa si che un certo mondo accetta le tangenti perché se vengono dall'emisfero sud del pianeta vengono dalla parte buona dell'umanità che ha subito dei torti e che deve essere risarcita. Questo è il tema serio e grave della cultura progressista. Noi avremo bisogno del Qatar a lungo perché è ricco di gas naturale quindi il commercio con il Qatar lo dovremo fare chiudendoci il naso ma questo non significa che dovremo genufletterci riconoscendogli una superiorità morale che è una cosa indecente" conclude. 

Il dito, la luna, il Qatar e la Russia. Il deep state autoritario internazionale e la corruzione legale dell’Occidente. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 14 Dicembre 2022.

La potenza economica delle non democrazie è cresciuta così rapidamente che oggi possono comprarsi progetti di ricerca, cattedre universitarie, testate giornalistiche, influencer. E non lo fanno lungo le linee del mondo privato, ma con l’infiltrazione pubblica

Del caso Panzeri & Co. penso che l’essenziale – di cui discutere, su cui interrogarsi, di cui davvero preoccuparsi – non stia nel sospetto o nell’accusa di corruzione (ancora tutta da dimostrare) nei confronti degli indagati, arrestati o a piede libero, di un’inchiesta che, anche se non fosse condotta da un magistrato belga incolpevolmente paragonato, da un giornale italiano, ad Antonio Di Pietro, meriterebbe comunque di essere presa con le pinze e nei dettagli, non con la pala e all’ingrosso.

Questo purtroppo si è però abituati a fare in un Paese, che ha un’idea della giustizia costruita sul paradigma di Tangentopoli e in cui la flagranza di reato di uno diventa, per proprietà transitiva, una prova di colpevolezza per tutti e dove comunque, come disse un famoso maître à penser di Mani Pulite, non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti.

Antonio Panzeri, Eva Kaili e tutti gli altri accusati di avere parlato e fatto parlare bene del Qatar dietro laute e non dichiarate ricompense sono il dito – forse penalisticamente sporco, forse no: deciderà un giudice a Bruxelles – di una luna cattiva, ma irraggiungibile per via giudiziaria, rappresentata dall’enorme potere di condizionamento che gli Stati canaglia (al diverso grado di canaglierìa di ognuno) possono esercitare legittimamente e illegittimamente, legalmente e illegalmente, per determinare e propiziare il consenso delle opinioni pubbliche dei Paesi liberi o supposti tali.

È fenomeno che in Italia ha avuto una manifestazione letteralmente mostruosa rispetto alla Russia di Putin, per quasi un ventennio nobilitata e legittimata – gratis et amore Dei, non c’è dubbio – dai vertici dell’establishment politico e economico italiano (dico Romano Prodi e Silvio Berlusconi, mica Marco Rizzo e Giuliano Castellino), molto prima delle frequentazioni dell’Hotel Metropol da parte di Gianluca Savoini per trattare, a quanto pare per finta, la cresta sulle forniture di idrocarburi.

La stessa cosa, mutatis mutandis, ma molto più in piccolo, anzi in piccolissimo, può pure dirsi del Qatar, che ha conquistato i Mondiali di calcio senza neppure far troppo finta di non essere quello che era.

La potenza economica delle non democrazie nel mondo è cresciuta rapidamente negli ultimi decenni. Gli investimenti produttivi, finanziari e pubblicitari di società statali e non statali legate al deep state autoritario internazionale sono sempre più determinanti per l’economia dell’Occidente.

Possono comprarsi o, per così dire, affittare legalmente progetti di ricerca, cattedre universitarie, testate giornalistiche, istituzioni culturali, think tank, opinion leader, influencer e qualunque altra cosa faccia successo e immagine senza bisogno di riempire le valigette di euro in nero, che a Bruxelles sarebbero state trovate a casa di alcuni indagati. E così stanno facendo, con notevole e indiscutibile successo.

La luna che gli stolti non vogliono vedere è che la penetrazione degli Stati canaglia nel soft power del potere occidentale non viaggia lungo le linee della corruzione privata, ma dell’infiltrazione pubblica. Ed è un problema enorme per società e economie aperte e quindi esposte anche a questa forma di cattura ideologica, prima che corruttiva, che può trovare argini effettivi solo sul piano politico-culturale, non su quello repressivo-giurisdizionale.

Pensare di fermare questo fenomeno spiando le vacanze di questo e di quell’altro politico o lobbista non dichiarato è, nella migliore delle ipotesi, un’illusione ingenua e nella peggiore, e più frequente, una forma di cattiva coscienza.

Lo vediamo quotidianamente a proposito della guerra russa all’Ucraina, in cui senza bisogno di dazioni illecite e di mazzette nascoste un pezzo dell’informazione e della politica italiana si è fatta da dieci mesi altoparlante della propaganda moscovita, del «non ci sono prove che…», «però la Nato si era allargata troppo», «la Crimea è sempre stata russa» e «…ma in Donbass era in corso un genocidio». Il «non si dica che Putin non vuole la pace», cioè il refrain gratuito della campagna elettorale di Conte, mentre il famoso pacifista del Cremlino faceva crimini a livello di Srebrenica, è stato molto più invasivo e epidemico delle timide difese dei progressi del Qatar da parte degli eurodeputati socialisti, indiziati di avere difeso a gettone le condizioni di lavoro degli immigrati impegnati a costruire gli stadi per i Mondiali di calcio.

Purtroppo la corruzione politica dell’Occidente – quella che davvero costa, pesa e determina gli esiti delle elezioni, non i viaggi premio dei promoter – è oggi legalissima, perché è indissolubilmente connessa al funzionamento e alla fragilità del mercato politico e mediatico delle nostre democrazie. Questo sarebbe un bel tema di cui discutere, se l’Italian connection di Bruxelles non fosse diventata la nuova forma di scopofilia giudiziaria da cui la politica e l’opinione pubblica italiana non sembra avere intenzione di guarire.

La dispercezione sulla gravità del pericolo e del fenomeno, unita alla perversione guardonistica che fa apparire esistente e vero solo ciò che trova spazio nelle aule dei tribunali, è proprio ciò che ha portato negli scorsi anni a considerare come un atto di folklore la sfilata di Matteo Salvini e dell’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana con le magliette pro Putin nell’aula del Parlamento europeo e porta oggi a spiare con trepidazione e allarme le email riservate pro Qatar di Andrea Cozzolino.

Chi parla bene di Putin, chi traduce in italiano i dispacci della propaganda moscovita, chi spiega che di questo Zelensky e del suo regime nazisteggiante proprio non ci possiamo fidare, può tranquillamente fare il Savonarola contro gli accusati e arrestati di Bruxelles. Rimaniamo un Paese così, a misura di Fatto Quotidiano.

Anacronistiche ossessioni. Anche a sinistra ci sono politici di debole tempra morale, ma non c’è nessuna «questione». Francesco Cundari su L’Inkiesta il 17 Dicembre 2022.

Cosa c’entra il caso Soumahoro con il Qatargate? E cosa c’entrano passati e presenti episodi di corruzione o malversazione con Berlinguer, il Pci e il mito della diversità comunista? Non ha senso commentare l’attualità con il lessico di un’altra epoca

Da giorni sulla stampa e in tv si continuano a mescolare, come fossero due facce della stessa medaglia, l’inchiesta internazionale sulle influenze esercitate dal Qatar nel Parlamento europeo, che ha coinvolto diversi parlamentari ed ex parlamentari del gruppo socialista, e il caso che riguarda la cooperativa gestita da moglie e suocera del deputato eletto con Sinistra e Verdi Aboubakar Soumahoro. Non stupisce che sia la destra a mettere vicende così diverse sullo stesso piano, per farne il piedistallo da cui potersi scagliare contro tutti i suoi bersagli preferiti, dalla sinistra alle ong, dai migranti ai burocrati di Bruxelles. Stupisce che lo facciano la stampa, gli opinionisti e gli intellettuali progressisti. Ma forse non dovrebbe stupire neanche questo.

Da quasi mezzo secolo, ogni mattina, quando si alza il sole, un editorialista si sveglia e sa che non importa quanto grave, esteso o circoscritto, epocale o microspico sia l’episodio comparso in cronaca giudiziaria riguardante un qualche politico di sinistra: da quel momento, volente o nolente, dovrà cominciare a scrivere un commento sulla «questione morale». Dovrà citare due righe da quella lunghissima intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari di ormai oltre quarant’anni fa, dovrà ricordare sempre gli stessi bolsi aneddoti sul mito della diversità comunista, sui militanti di una volta che preparavano tortellini e salamelle alle feste dell’Unità, se necessario allargare il quadro alla pera di Luigi Einaudi e al cappotto rivoltato di Enrico De Nicola, e chiudere quindi con «altri tempi!» o una qualsiasi analoga esclamazione.

Confesso di avere partecipato anch’io, infinite volte, a questo strano rito collettivo, manifestando le mie personali riserve sul valore dell’intervista di Berlinguer a Scalfari e ancor di più sul modo in cui nel corso del tempo è stata enfatizzata e dilatata, fino a catturare e deformare l’intera figura di Berlinguer (uomo politico che, nel bene e nel male, ha fatto e detto parecchie altre cose, assai più rilevanti) utilizzandolo di volta in volta per regolare tutt’altri conti. Resta per me ad esempio indimenticabile come, ai tempi del caso Unipol e della scalata alla Rcs, i grandi giornali evocarono la memoria del segretario del Partito comunista italiano quale icona della separazione tra politica ed economia, confondendolo forse con Milton Friedman. Ma anche questo, già allora anacronistico, è un dibattito di quindici anni fa.

Quante volte ancora dovrà finire questo mito della diversità comunista? Quante volte ancora dovrà essere infranto questo secolare tabù? L’intervista sulla «questione morale» è di quarant’anni fa, il Partito comunista non esiste più da trenta, non è possibile che di fronte a ogni piccolo o grande caso di corruzione, malversazione, malaffare, ogni volta, dobbiamo fare ricorso a un lessico famigliare del secolo scorso, che non ha più nessuna relazione con il presente, e che paradossalmente, anche quando è utilizzato per criticare quella presunzione di superiorità, finisce per alimentarla e confermarla, come se non soltanto i comunisti dovessero essere per principio immuni da qualsiasi tentazione, ma persino i loro discendenti, fino alla settima generazione. Così da giustificare, ogni volta, un nuovo dolente dibattito tra politici e giornalisti, e naturalmente attori, registi e cantautori, tutti lì a parlarci del trauma rappresentato per loro da questo o quello scandalo, e delle sofferenze del popolo della sinistra, e della mutazione genetica dei suoi dirigenti, e della perdita dell’innocenza (ma anche questa benedetta innocenza: quante volte la vogliamo perdere? Quand’è che ci possiamo rassegnare, metterci una pietra sopra e rifarci una vita?).

Siamo forse tutti abbastanza grandi, ormai, per riconoscere che ci sono i ladri, ci sono i farabutti, ci sono politici corrotti o comunque di debole tempra morale, anche a sinistra, e non solo tra quelli che ci stanno antipatici, ma non c’è nessuna «questione» che tenga insieme vicende tanto disparate, passate e presenti.

Il “Qatargate” è uno squallore, ma Panzeri e soci non sono mostri. Il fatto che le persone coinvolte appartengano alla sinistra stupisce solamente gli elettori di sinistra...Daniele Zaccaria Musco su Il Dubbio il 16 dicembre, 2022.

Le valigie con il milione e mezzo in tagli da venti e cinquanta euro nascoste sotto il divano, i viaggi regalo negli hotel a cinque stelle di Marrakesh, le bottiglie di champagne, le vacanze sfarzose, gli yacht, l’abbronzatura, i selfie tutti sorrisoni bianchissimi sullo sfondo di scorci mozzafiato.

Le istantanee del “Qatargate”, che i media vogliono descrivere come un’apocalittica spy story, addirittura un attacco al cuore della democrazia europea, ricordano molto più la trama sbrindellata di un cinepanettone.

Con al centro una combriccola di provinciali arricchiti che si perdono e si trastullano nell’ebrezza del lusso e dei soldi facili fino a quando, poi, non finiscono nei guai. Climax inevitabile.

Come l’ex sindacalista Antonio Panzeri, passato dalla camera del lavoro di Milano dove era soprannominato “il panzer” ai bordo piscina degli emiri del Golfo, roba da far perdere la testa. Ci vedresti bene Renato Pozzetto nei panni di un personaggio del genere, che poi è una delle tante versioni del paraculo, un po’ ruffiano e un po’ mitomane che ha fatto le fortune della commedia all’italiana, lo specchio distorto delle pubbliche virtù che riflette i nostri vizi privati. E in effetti da chi gravita attorno all’Europarlamento, specie da chi ha un mandato popolare, ci si aspetterebbe che le istituzioni europee non vengano usate come un autobus per rimpinguare il conto in banca.

Il fatto che le gran parte delle persone coinvolte nello scandalo appartenga a partiti di sinistra stupisce soltanto gli elettori di sinistra ancora convinti di esercitare una qualche superiorità morale sulla società ed è una manna per la narrazione della destra, che può speculare all’infinito su quanto gli amici del popolo siano lontani dal popolo e le ong che aiutano i migranti un covo di ipocriti e squallidi affaristi che si arricchiscono alle spalle dei poveri diavoli. Questo elemento simbolico conta più di ogni altra considerazione nella percezione mediatica del “Qatargate” perché il contrasto tra predicare e razzolare è accecante.

Va da sé, anzi, dovrebbe andare da sé che nessuna delle persone finora coinvolte è stata condannata da un tribunale, che al momento non ci sono imputati formali e che l’unico europarlamentare indagato è la socialista greca Eva Kaili, attualmente in custodia cautelare in un carcere belga per decisione del procuratore-sceriffo Michel Claise.

I media dicono che l’affaire è destinato ad allargarsi, che ad esempio sarebbero almeno sessanta i deputati europei contattati dai servizi segreti marocchini per aver in cambio non si sa quali favori. «A libro paga!», titolano intanto le edizioni online dei principali giornali anche se i magistrati devono ancora definire i contorni dell’ingerenza di Rabat.

Ma anche nel caso fossero riconosciuti colpevoli al termine di un processo gli eventuali reati commessi dalla combriccola non sembrano andare oltre la frode fiscale (l’unica evidenza è che quei soldi non sono stati dichiarati). Panzeri è soci non hanno infatti stornato fondi pubblici destinati alla costruzione di strade, scuole e ospedali e fino ad ora non si ha notizia di benefici concreti ottenuti dai loro generosissimi finanziatori se non un generico ritorno di immagine.

In un discorso pronunciato nell’emiciclo di Strasburgo Eva Kaili aveva pronunciato parole di grande elogio nei confronti del Qatar, «paladino dei diritti dei lavoratori» se confrontato agli emirati confinanti, salutando la decisione della Fifa di assegnare a Doha i Mondiali di calcio 2022 e bacchettando l’occidente e il suo sguardo “coloniale” nei confronti dei paesi arabi. Intervento imbarazzante alla luce dello scandalo, ma Kaili non ha influenzato nessuna scelta politica, non ha orientato nessuna assegnazione, nessuna votazione.

Avrebbe solo intascato una cospicua somma per “parlare bene” dei suoi facoltosi sponsor. Anche perché nella maggior parte dei casi il lobbismo funziona proprio in questo modo, quasi come un investimento a fondo perduto per avere in cambio un vago ritorno di immagine. In Paesi come l’Italia o la Francia e in parte la Germania il lobbista viene associato automaticamente a una figura losca e traffichina che persegue interessi privati contrapposti al bene generale. Nel mondo anglosassonee così anche all’europarlamento invece è un ruolo regolamentato, con tanto di status ed è considerato come espressione di parte ma legittima della società civile.

Retorica a pagamento. Le "mazzette" del Qatar raccolte dai fondatori di una Ong dal nome fatidico "Fight Impunity" fanno il paio con l'avviso di garanzia alla compagna del deputato del Pd, Aboubakar Soumahoro. Augusto Minzolini il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Le «mazzette» del Qatar raccolte dai fondatori di una Ong dal nome fatidico «Fight Impunity» (combatti l'impunità), vicina alla sinistra, per coprire l'assenza di democrazia e di diritti in quel Paese, fanno il paio con l'avviso di garanzia alla compagna del deputato del Pd, Aboubakar Soumahoro, per la gestione della cooperativa per migranti dal nome altrettanto enfatico, «Karibu», che in lingua swahili significa «benvenuto». Un nome che però cozza con l'accusa di sfruttamento alla base dell'indagine che la riguarda.

In entrambi i casi, infatti, si usano purtroppo delle buone cause e dei giusti valori per specularci su o, peggio, per fare l'esatto contrario di ciò che si professa. Lo dico senza polemica, ma anzi con una punta di rammarico: è l'altra faccia del «buonismo», quando il «buonismo», come avviene spesso al mondo d'oggi, si trasforma in un'ideologia.

Ci sono parole ed espressioni potenti che si trasformano in lasciapassare per mettere in piedi qualsiasi cosa per supposte battaglie ideali, sulle quali c'è però il rischio che qualcuno lucri. I diritti umani, i migranti, la difesa delle libertà, l'ambientalismo, la pace, l'Europa, addirittura la lotta alla mafia (basta ricordare l'inchiesta sulla gestione dei patrimoni sequestrati alle cosche che ha coinvolto un giudice a Palermo): sono tutti temi che vengono avvolti da una spessa patina di retorica che impedisce di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Basta la patente di combattente per una buona causa, spesso indefinita, per diventare intoccabili, per trasformarsi in entità su cui è addirittura peccato nutrire dubbi o riserve. È lo stesso meccanismo alla base di quei banchetti che incontri agli angoli delle strade, dove ti chiedono «una firma per la lotta alla droga», tema sul quale è difficile non essere d'accordo, accompagnata poi dalla richiesta di un obolo di cui non è chiara la destinazione.

Ora, naturalmente, sarebbe sbagliato gettare il bambino insieme all'acqua sporca, ma è anche vero che di certe filippiche che si sentono in tv, di certa retorica a buon mercato che impera nei «talk show», di certo buonismo basico e a volte persino banale che caratterizza alcuni corsivi da quotidiano, si potrebbe pure fare a meno. Anche perché la realtà - come ci ricordano le cronache di questi giorni - è ben più complessa di come si presenta. Per cui i dubbi non sono solo leciti, ma a volte anche funzionali ad evitare pericolosi miraggi che arrecano danni irreparabili a quegli stessi valori che si vorrebbero difendere. Soprattutto bisognerebbe fare a meno di quella retorica, che a volte sconfina nell'ipocrisia, parente stretta di certo buonismo. La verità è che le buone cause si servono con una buona dose di pragmatismo, di realismo e di apertura al confronto, perché le belle idee che si trasformano in ideologia a volte rendono ciechi. È la triste storia del secolo breve.

Come ai tempi di Mani Pulite. Visentini: ho preso i soldi però li ho versati al sindacato. Il leader della sigla Ituc: "Ricevetti in buona fede le donazioni da Panzieri". Luca Fazzo il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Ci sono la Russia, la Bielorussia, l'Iran, l'Afghanistan e il Myammar. Nell'elenco dei Paesi che il mese scorso il congresso mondiale dell'Ituc a Melbourne richiamò con una risoluzione al rispetto dei diritti umani e dei lavoratori brilla un assenza: il Qatar. La potente organizzazione sindacale internazionale, che raduna 388 sigle di centinaia di paesi, è sembrata dimenticarsi di uno dei temi più caldi: le condizioni di sfruttamento della manodopera nei cantieri dei Mondiali di calcio.

Ora quella dimenticanza pesa inevitabilmente sulla figura di Luca Visentini, sindacalista della Uil che nel congresso di Melbourne venne eletto segretario generale della Ituc, arrestato il 9 dicembre a Bruxelles insieme all'ex eurodeputato Antonio Panzeri e ad altre tre persone.

Visentini è stato scarcerato dopo l'interrogatorio, e ieri ha rilasciato una intervista all'Agi definendo «terribile» il periodo trascorso in prigione e fornendo la sua spiegazione sui soldi ricevuti da Fight Impunity, la ong di Panzeri al centro del Qatargate: una «donazione» di diverse migliaia di euro, utilizzata secondo Visentini per i bisogni dell'Ituc, «il sindacato internazionale riceve regolarmente donazioni per campagne e progetti da varie fondazioni e Ong, questa donazione non risultava sospetta in alcun modo ed è stata accettata in assoluta buona fede. Tutto il contributo è stato utilizzato per spese trasparenti e dimostrabili».

Gli inquirenti belgi, a quanto pare, hanno preso in parte per buona la spiegazione, e hanno liberato Visentini (che però risulta essere ancora sotto inchiesta). Ma la spiegazione fornita non dissipa i dubbi sui rapporti tra Panzeri e Visentini. Anzi. Perché nello statuto della ong dell'ex eurodeputato Pd non figura in alcun modo tra le spese sociali il sostegno di colossi sindacali come l'Ituc. E perché nei documenti dell'Ituc è palpabile - anche se nell'intervista Visentini cerca di negarlo - l'atteggiamento benevolo verso il Qatar. Non c'è solo la dimenticanza nei documenti congressuali. C'è un testo dell'ottobre precedente di ossequio quasi comico al Qatar che metterebbe in campo «leggi sul lavoro e un moderno sistema di relazioni industriali». Un testo assai simile a quello pubblicato pochi mesi prima a firma di Panzeri sul sito di Fight Impunity.

Di fatto attraverso Panzeri una parte dei fondi stanziati dal Qatar per addomesticare il parlamento europeo arrivano, tramite Visentini, nelle casse del sindacato internazionale, e ottengono il medesimo risultato. A ottobre, quando viene diffuso il benevolo rapporto Ituc, Visentini non è ancora segretario generale. Ma è a capo della sezione europea ed è in stretti rapporti con la segretaria Sharan Burrow che il mese dopo sarà tra i suoi sponsor nella vittoriosa battaglia per la leadership contro il turco Kemal Ozkan, sostenuto dai potenti sindacati tedeschi.

È dunque uno scenario sempre più tentacolare quello che viene ricostruito delle attività della ong di Panzeri (il cui co-fondatore Gianfranco Dell'Alba ieri si dissocia platealmente, «Panzeri è come mister Hyde»): addomesticare gli eurodeputati non bastava, serviva tenere buoni anche i sindacati internazionali.

Intanto l'australiana Alison Smith, moglie e collaboratrice del segretario di No Peace Without Justice Niccolò Figà Talamanca, anche lui arrestato, diffonde un comunicato: «Siamo certi della correttezza del suo operato. Verrà scagionato da ogni addebito».

La giustificazione che non regge. Esiste la "modica quantità" di consumo di stupefacenti. Non sapevamo però vi fosse il principio di "modica mazzetta". Marco Gervasoni il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Esiste la «modica quantità» di consumo di stupefacenti. Non sapevamo però vi fosse il principio di «modica mazzetta». Eppure il sindacalista Luca Visentini, indagato ma scarcerato nell'inchiesta Qatar, si giustifica dicendo che avrebbe usufruito solo di una «modica donazione» da parte della ong di Panzeri, poi utilizzata per il sindacato. Non siamo giustizialisti mozzaorecchi o moralisti un tanto al chilo, perciò: 1) I soldi in politica sono indispensabili 2) Siamo per il sistema statunitense, ognuno doni a chi vuole e nelle quantità desiderate, purché pubblicamente 3) Visentini, così come Panzeri e gli altri, sono da considerare innocenti fino a condanna definitiva. Ma ci preoccupa un po' l'idea, emergente a sinistra per confondere le acque, che si debba distinguere tra coloro che hanno accettato finanziamenti per il bene del partito (o del sindacato) e invece quelli che li avrebbero utilizzati per vacanze da 9000 mila euro a persona. Da un punto di vista penale non vi sarebbe differenze, ma da quello etico-politico si. Ciò fa il paio con la proposta di un parlamentare dem di ripristinare il contribuito statale ai partiti, in nome del ritorno della supremazia della politica. Eh no, altro che supremazia della politica. Prima di tutto, i partiti dei tempi di Tangentopoli non esistono più: oggi sono agglomerati di correnti o organizzazioni al servizio del capo. Che comunque costano, anzi forse più dei vecchi partiti di massa. E finanziarli in maniera illegale nulla ha a che vedere con la politica. In secondo luogo, i post comunisti utilizzano ora lo stesso refrain dei partiti della prima repubblica: rubavamo, ma per il partito, non per noi. A parte che, come lamentava già allora Rino Formica, «il convento è povero e i frati sono ricchi», chi è in grado di raggranellare, in maniera non trasparente, il maggior numero di risorse economiche, è anche quello che è in grado di condizionare la vita del partito: quindi si ritorna al prevalere della corrente e del capo, altro che supremazia della democrazia. Infine, a proposto di etica, qui non si tratterebbe di mazzette sui lavori pubblici ma di ingenti flussi di denaro da Stati dispotici, che praticano la violazione dei diritti più elementari, delle donne ma anche dei lavoratori. Il sindacato finanziato da regimi che trattano gli operai come gli antichi egizi gli schiavi. Compagni, trovate un argomento migliore.

Occhetto: Lo scandalo? Ho pianto per molto meno il Pd chieda scusa. Edoardo Sirignano su L'Identità il 16 Dicembre 2022

Dopo Qatargate, sarebbe opportuno chiedere scusa. Ho pianto per molto meno”. Così Achille Occhetto, ultimo segretario del Partito Comunista Italiano, noto per le lacrime della Bolognina, simbolo di svolta per la sinistra, commenta il caso Bruxelles, che vede coinvolti diversi esponenti dell’universo dem. Il cofondatore del Partito del Socialismo Europeo, presenta due proposte al nostro giornale. La prima è indirizzata a chi vuole succedere a Enrico Letta e riguarda un atto politico comune per la questione morale, terminando così il valzer di dichiarazione . La seconda, invece, vuole mettere fine a un politica generica di difesa delle Ong.

Cosa ne pensa di Qatargate?

Non posso che pensarne malissimo. Sono particolarmente sconvolto nel vedere qualcosa che, ai miei tempi, era inimmaginabile. Non si poteva mai pensare, dopo le vicende della questione morale, che potesse avvenire un fatto più grande, che qualcuno potesse operare contro i propri valori per ottenere una funzione lobbistica o di denaro. Una mostruosità indicibile.

La sinistra, sin da Berlinguer, si è battuta per la questione morale. Poi cosa è venuto meno?

Berlinguer, nella conversazione con Scalfari, mise sott’attacco la gestione di interessi loschi, macchine di potere e clientele. In quel momento, però, non tutti furono d’accordo. Stiamo parlando di un aspetto da sempre sottovalutato. Sono stato testimone del suo tormento dinnanzi all’irrompere dei primi segnali della devastante questione morale, accompagnata dall’esigenza che i partiti, come diceva il segretario, facessero un passo indietro rispetto ai problemi di gestione. Si trattava, in sostanza, del tema riguardante un’alta riforma della politica.

Se fosse stata effettuata questa riforma, cosa sarebbe cambiato?

Non sarebbe stato necessario il doveroso intervento, come si disse polemicamente, a gamba tesa della magistratura in politica. Per capire, cosa è successo dopo la scomparsa di Berlinguer, occorre fuggire da ricostruzioni di maniera. Le cose non stavano, come si dipingono. Non si può dimenticare l’isolamento di Enrico nell’ultima fase della vita da parte di molti del gruppo dirigente. Allo scontro esterno con Craxi si sovrapponeva un durissimo conflitto interno che tendeva a presentare il segretario del Pci come un uomo superato dalla modernità. Stesso discorso vale per la sua battaglia sulla questione morale, derisa da tanti. Si parlò addirittura di manifestazione démodé. Qui va cercato il nucleo di quanto accade oggi, ovvero non è stata accolta una lezione.

Da quel momento in poi, possiamo dire che si è abbassata la guardia?

Certamente. Da quel momento in poi, è calata l’attenzione su determinate questioni.

Cosa è cambiato oggi rispetto ad allora?

La situazione, per certi versi, è peggiore rispetto a quella denunciata da Berlinguer. Ci troviamo di fronte a un problema sistemico generale. Abbiamo Paesi extraeuropei che fanno lobby attraverso la corruzione. La presidentessa del Parlamento Europeo sostiene che la democrazia è in pericolo. Ciò è grave perché significa che l’inchiesta si allargherà e dimostrerà una verità raccapricciante.

Detto ciò, perché le mele marce trovano la porta d’ingresso in una sinistra, che invece dovrebbe tenerle lontane?

Ong che dovrebbero combattere per i diritti civili, sul Qatar, capovolgono la loro vocazione. Sul piano concreto si capisce il perché, ovvero queste ultime sono volute entrare laddove c’era l’opposizione più forte. Il Pd, infatti, è stato il più duro nel combattere una battaglia. Tuttavia, anche quest’aspetto, non ci esime dall’indagare sul perché a sinistra si trovano dei figuri che imbrattano i nostri valori, contemporaneamente l’Europa, le sue istituzioni e l’Italia. Stiamo parlando di “Italian Job”.

È giusto prendersela solo con qualche collaboratore o bisognerebbe parlare di sistema radicato?

La teoria delle mele marce va superata. Si considera, purtroppo, naturale che chi ha fatto politica, chi ha avuto delle funzioni nelle istituzioni, invece, di andare in pensione e coltivare giardinaggio o cucina debba fare il lobbista. Per quanto riguarda il lobbismo dei politici, sono scandalizzato. Indipendentemente dai risvolti giudiziari, ritengo inconcepibile che una persona che abbia ottenuto notorietà e influenza, grazie al sostegno di cittadini che l’hanno votata per difendere interessi e valori, possa usare le sue funzioni per vendere gas e armi. Così non va. Il tema deve essere affrontato alla radice.

Le lacrime al congresso della Bolognina, ancora oggi, rappresentano una pagina di storia. In questo particolare momento, per cosa varrebbe la pena piangere?

Forse è bene che ciascuno possa piangere anche in privato. Il problema è dimostrare la volontà di fare atti clamorosi.

Ci spieghi meglio…

Faccio una proposta politica. Di fronte allo scempio del Qatargate, chiedo che i candidati alla segreteria del Pd, invece, di fare dichiarazioni separate si distinguano per un atto politico, si uniscano con un documento per rimettere al centro la questione morale, non parlando di mele marce, ma andando alle radici di quella visione distorta della politica e del potere, che ha fatto ad alcuni abbassare la guardia. Pur essendo composta la sinistra prevalentemente da onesti, bisogna metter mano al cesto. Si tratta di una battaglia per la vera sinistra, per i migranti, per i braccianti, quelli veri. Tante sono le realtà oneste, che a causa di pochi, sono messe in condizione di disagio. Altra proposta che voglio lanciare sulle colonne de “L’Identità” è che non si faccia più una politica generica di difesa delle Ong.

Come difenderle?

La sinistra ha il dovere di controllo, di distinguere i buoni dai cattivi. Solo così non si butta con l’acqua sporca il bambino. Serve un esame di coscienza, rivedere una politica e perché no chiedere scusa, come ho orgogliosamente fatto per cose molto meno gravi di quelle attuali. Non c’è niente di male a dire di aver commesso un errore, di aver abbassato la guardia sulla questione morale.

Stesso discorso, d’altronde, potrebbe essere fatto anche per il caso Soumahoro…

Tutto quanto ho detto in precedenza, vale anche per questa triste vicenda.

Parla il candidato segretario Pd. Cosa è il finanziamento pubblico ai partiti, il tema rilanciato da Bonaccini contro il populismo. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Dicembre 2022

Stefano Bonaccini incontra i giornalisti e con il Riformista approfondisce i temi della giustizia e delle riforme per ridurre la burocrazia. L’appuntamento è convocato al teatro Vascello di Roma, un luogo simbolo della sinistra: amato da Pier Paolo Pasolini che vi abitò accanto, diede rifugio e lavoro agli Intillimani, riparandoli dal golpe in Cile. È qui che Bonaccini incorona Pina Picierno – “non in ticket ma in tandem”, precisa – dopo che il mini sindaco del Municipio, il dem Elio Tomassetti, un giovane che sa muoversi bene anche tra i ‘grandi’, gli dà il benvenuto tra gli applausi di quella comunità democratica che cerca di recuperare unità.

Si capisce dai dettagli, dall’emozione che vela la voce del governatore Bonaccini e della vicepresidente del parlamento europeo, che dietro le quinte del Vascello la sinistra torna a fare i conti con la storia. In prima fila siedono Claudio Mancini, Piero Fassino e Alessandro Alfieri, l’ex ministra Valeria Fedeli, Silvia Costa, Iside Castagnola. E il coordinatore della segreteria Pd, Marco Meloni. I sondaggi sono stabilmente a favore: il gradimento della base e la popolarità tra gli elettori mettono in sicurezza la corsa di Bonaccini, ‘Bona’, verso il Nazareno. “Ho 55 anni e non sono mai stato in Parlamento, forse se si parla di nuova classe dirigente posso dire la mia”, si limita a rispondere ai graffi di Franceschini. “Voglio unire i democratici e tornare a lavorare sull’identità del partito, io che rispetto a Gianni Cuperlo sono quello più a sinistra – il tono si fa ora ironico, ora più serio – lavorerò all’apertura di una grande scuola di formazione politica, una esigenza che sento impellente”.

Ma è su alcune riforme in chiave antipopulista che il candidato alla segreteria dem dialoga con Il Riformista. Gli proponiamo alcuni temi: la semplificazione, la riforma dell’abuso d’ufficio e il finanziamento alla politica. “Sono per rivedere l’abuso d’ufficio e permettere agli amministratori locali di fare bene il servizio al quale sono chiamati dagli elettori”, esordisce. L’impianto sanzionatorio deve lasciare il posto alla linearità delle agende amministrative. “Discutiamone insieme: sul funzionamento di certi strumenti non si può fare un problema di destra e sinistra. Penso che di burocrazia ce ne sia troppa, e sono convinto di una cosa: la corruzione e le infiltrazioni – anche mafiose – proliferano quando c’è la giungla normativa. Se si semplifica, si aiuta a combattere l’illegalità. Non servono nuove norme ma buone norme”, dice. E accenna ad un progetto di progressiva eliminazione degli adempimenti: “Ho in agenda, se farò il segretario del Pd, di impegnarmi per la burocrazia zero”.

Parla il pragmatismo dell’amministratore locale, ma per ora non entra nel merito. Teniamoci l’appunto: ‘burocrazero’. “Sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, se guardiamo indietro, si arrivò a quella decisione per una degenerazione per la quale spesso quelle risorse non finivano allo scopo per cui nascevano. Detto questo, sono oggi tra coloro che sono pronti a ridiscuterne. Serve il coinvolgimento di tutte le forze politiche per capire, con la forza della massima trasparenza della rendicontazione necessaria, se non sia arrivato il momento di rivedere quella decisione e di tornare a pensare allo strumento del finanziamento pubblico ai partiti”.

Anche Pina Picierno entra nel merito: “In passato sono stati fatti errori, troppe concessioni hanno reso un servizio al populismo. Adesso va restituita dignità alla politica: la democrazia ha i suoi costi e vanno messi tutti in condizione di fare politica con quei partiti che la Costituzione individua come pilastri dell’agire pubblico”. L’applauso della sala scatta su queste parole. Per questa parte del centrosinistra la riappropriazione della politica riparte dal finanziamento pubblico dei soggetti portatori di democrazia.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchiest

Il Pd fiaccato dagli scandali ora rivuole il finanziamento pubblico. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 16 dicembre 2022

La teoria ha un certo fascino: se oggi il finanziamento pubblico ai partiti non c'è più; se i giornali di partito sono rimasti senza soldi e hanno abbassato le serrande; se la figura dei funzionari di partito- nell'impossibilità di pagar loro gli stipendi- si è praticamente estinta; se, in sintesi, per chi fa politica la poltrona di parlamentare è l'unica possibile fonte di reddito, allora è da ipocriti scandalizzarsi se c'è qualcuno che, per mettersi in sicurezza, si mette a fare il lobbista, nella migliore delle ipotesi. O incassa tangenti, nella peggiore.

Il naturale corollario della tesi è il seguente: ritorniamo ai contributi statali e non avremo più scandali come il «Qatargate» che sta facendo tremare la sinistra. Ragionamento suggestivo, come detto, e finanche condivisibile. Se non fosse per due particolari. Il primo è che la corruzione c'era anche prima, quando i partiti erano generosamente foraggiati dal bilancio pubblico. E, d'altronde, il referendum del 1993 sull'abolizione del finanziamento ottenne un sì plebiscitario (90%) proprio sull'onda del più celebre di quegli scandali, Tangentopoli.

La seconda obiezione, invece, sta nel fatto che fu la medesima sinistra a schierarsi per lo stop ai fondi statali. Prima cavalcando il referendum del 1993, poi abolendo - con il governo Letta nel 2013 - anche i rimborsi elettorali che ne avevano preso il posto.

Eppure sono stati due esponenti del Pd non certo di secondo piano- il vicesegretario Giuseppe Provenzano e Gianni Cuperlo, in procinto di candidarsi alla segreteria- a indicare nella fine del finanziamento pubblico il padre di tutti i mali. Ed è stato incardinato al Senato un ddl per reintrodurlo firmato dal senatore Dem Andrea Giorgis. «Se sopprimi ogni forma di finanziamento della politica argomenta Cuperlo - rimanere nelle istituzioni diventa il traguardo a cui non puoi rinunciare. I soldi gli strumenti per conservare lo status. Le responsabilità sono sempre personali, ma paghiamo anche gli errori di questi anni, a partire dalla selezione dei gruppi dirigenti.

C'è il ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Chi non è nelle istituzioni non esiste». «Se negli anni passati - aggiunge Provenzano all'Huffington Post un'intera classe dirigente non ha avuto le palle, scusi il termine, per opporsi al vento populista, se siamo stati noi ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti, allora vuol dire essere pronti a rinunciare al "professionismo della politica". È un errore, a mio avviso».

Dai rimborsi ai rimorsi il passo è breve. Male obiezioni restano. La prima: la battaglia culturale sul finanziamento pubblico non era il caso di farla quando la decisione di abolirlo fu presa? Ora che i buoi sono scappati non è tardi per chiudere il recinto? E ancora: come conciliano Cuperlo e Provenzano l'improvvisa sterzata anti -populista con l'auspicio a riallacciare i ponti col M5S, il «partito» più populista e anti -casta di tutti? E, infine, dopo giorni di imbarazzato silenzio, davvero l'unica riflessione arrivata da sinistra sul «Qatargate» (e sul caso Soumahoro) è sulla necessità di reintrodurre il finanziamento pubblico? Che fine ha fatto la questione morale? E il tradimento ideale di chi ha sfruttato il «bene» (le coop e le ong) per fare il «male» (corruzioni e tangenti)? E il fatto che lo scandalo abbia colpito solo la sinistra e non la destra? Davvero si può ridurre tutto questo all'assenza di contributi statali? Davvero si rimetterà tutto a posto con quello che Provenzano chiama «l'elogio del funzionario di partito»? Per il Pd, evidentemente, sì. Caso chiuso, compagni.

Da iltempo.it il 15 Dicembre 2022.

Maria Giovanna Maglie umilia il capo delegazione Pd in Ue Brando Benifei. Rilanciando un post dell'account non ufficiale della Lega esteri che riporta l'intervista di Benifei a La Stampa, Maglie esprime il suo parere sulle dichiarazioni rilasciate dal dem europeo. 

"Ridicolo". Il big Pd finisce nel mirino di Maglie, fucilato con una parola

Nell'intervista al quotidiano torinese Benifei prova ad accusare la destra sullo scandalo Qatargate. "Se il Parlamento europeo rischia dei casi di corruzione è colpa della destra che ha sempre bloccato norme più rigide sul tema" dice l'eurodeputato nell'attacco dell'articolo. Non solo. Benifei non esprime una forte condanna nei confronti dell'ex eurodeputato Antonio Panzeri, arrestato con l'accusa di aver preso soldi dal Qatar per influenzare il Parlamento Ue, e punta invece il dito sulla destra perché "hanno un numero di persone inquisite e condannate veramente elevato, anche in Italia". Poi Benifei si lancia in un surreale attacco frontale alla Lega: "Questa vicenda ci scandalizza, ci poniamo il problema di risolvere queste cose, mentre a destra non capisco quanto ad esempio è stata presa con serietà la vicenda dei 49 milioni della Lega o altre gravi vicende giudiziarie". E di fronte a questo tripudio di assurdità Maglie risponde a tono, in modo conciso e calzante come è nel suo stile fare: "Che faccia di..."

Qatargate, "dire che tutta la sinistra è di mazzettari..." Bocchino sbotta e zittisce Padellaro. Giada Oricchio su Il Tempo il 15 dicembre 2022

Il Qatargate scuote il Parlamento europeo e la sinistra. Lo scandalo su un vorticoso giro internazionale di tangenti, con cui il Paese qatariota ha corrotto esponenti del Parlamento UE allo scopo di ottenere appalti, interferire e condizionare le scelte europee, si preannuncia una valanga giudiziaria (sarebbero almeno 60 i deputati coinvolti, nda). Se ne parla a “Otto e Mezzo”, il talk preserale condotto da Lilli Gruber su La7, giovedì 15 dicembre.

Il direttore del Secolo d’Italia, Italo Bocchino, ha condannato senza se e senza ma. “Tutto questo mi fa schifo tre volte. Mi schifo e basta. Mi fa schifo perché queste persone sono state trovate con pacchi di soldi a casa in un modo ignobile e mi schifo perché si sono venduti sui diritti umani, un valore che la sinistra rivendica”.

Al momento, i magistrati belgi hanno fatto arrestare per corruzione Antonio Panzeri, ex parlamentare Pd e Articolo Uno, l'ex vicepresidente dell’Europarlamento, Eva Kaili, eletta nelle liste del Movimento socialista panellenico e il compagno. E questo dà modo a Bocchino di affondare il colpo: “E’ la pietra tombale sulla superiorità della sinistra”.

L’affermazione ha indispettito l’ex direttore de “Il Fatto Quotidiano”, Antonio Padellaro: “La storia della superiorità è una fesseria che non so chi ha inventato… siamo di fronte a una serie di personaggi presi con le mani nella marmellata, ma da qui a coinvolgere un’intera classe dirigente della sinistra no! I dirigenti sono onesti e perbene, è inaccettabile dire che a sinistra sono tutti mazzettari”.

L’ex deputato di Forza Italia ha insistito: “Io non ho detto che sono tutti mazzettari, ho detto che ci sono mazzettari di sinistra con 600mila euro nei trolley che volevano spiegare all’Europa che i diritti umani in Qatar erano perfetti. Questo fa schifo. Ci sarà almeno una ‘culpa in vigilando’? Una sbagliata selezione della classe dirigente? Almirante e Berlinguer non avrebbero mai permesso a personaggi simili di varcare la soglia del loro partito”.   

Francesca Basso per il “Corriere della Sera” il 15 Dicembre 2022.

Le risoluzioni d'urgenza del Parlamento Ue sui diritti umani diventano un caso e si accende un faro sull'accordo sull'aviazione del 2021 tra Ue e Qatar. Tutte le iniziative del Parlamento Ue che riguardano i Paesi del Golfo suscitano ormai sospetto. 

Il Ppe ha deciso «di non partecipare a nessuna preparazione, negoziazione, discussione o votazione in plenaria nel contesto delle risoluzioni d'urgenza» alla luce delle indagini penali in corso «estremamente preoccupato per l'integrità delle posizioni di politica estera del Parlamento Ue espresse nelle risoluzioni d'urgenza».

La decisione del Ppe ha effetto immediato e sarà annunciata in plenaria domani. La decisione non è stata apprezzata da Renew Europe che su Twitter ha spiegato che «il silenzio del Parlamento Ue sulle violazioni dei diritti umani è esattamente ciò che le tangenti del Qatar miravano a ottenere. Noi a Renew Europe siamo determinati a continuare a gridare le atrocità». La replica sempre via social del Ppe è stata che «nulla impedisce al Parlamento di denunciare le violazioni dei diritti umani attraverso la commissione per gli Affari esteri». 

Il Ppe è finito ieri al centro della polemica per il suo eurodeputato ceco Tomá Zdechovský, presidente del gruppo Friends of Bahrain al Parlamento Ue, che il 13 dicembre ha presentato una mozione per una risoluzione sul caso del difensore dei diritti umani Abdulhadi Al-Khawaja in Bahrein.

Su Twitter Maryam Al-Khawaja, figlia dell'attivista condannato all'ergastolo nel 2011 durante la repressione delle proteste, ha contestato a Zdechovský «la sua relazione e i viaggi pagati in Bahrain con il governo». E la danese Karen Melchior ha chiesto a Zdechovský di farsi da parte. 

Nella conferenza dei presidenti di lunedì il Ppe aveva proposto di non presentare la risoluzione sul Bahrain, come elemento di garanzia ma dopo un acceso dibattito, dietro pressione di liberali, socialisti e Left, i gruppi hanno deciso di procedere. C'è chi ha osservato che la mozione non chiedeva nemmeno la scarcerazione di Al-Khawaja. 

Faro acceso anche sull'accordo firmato nel 2021 tra Ue e Qatar per aggiornare le regole per i voli tra il Paese del Golfo e l'Unione, che è già applicato ma deve essere ratificato dagli Stati membri, quindi dall'Ue ma con il consenso del Parlamento Ue (per completare il processo ci vorranno dai 5 ai dieci anni).

L'intesa prevede per le compagnie aeree del Qatar la possibilità di operare voli diretti in qualsiasi aeroporto dell'Ue e viceversa. Ieri l'eurodeputata della Left Leïla Chaibi ha presentato un emendamento che aggiunge la sospensione dell'accordo Ue-Qatar al punto 14 della risoluzione che vota oggi il Parlamento in cui si chiede la sospensione di «tutti i lavori sui fascicoli legislativi relativi al Qatar, specie per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti e visite programmate, fino a quando i sospetti non saranno confermati o respinti».

Eurotangenti, il ruggito del Ppe: «Non è un Qatargate, ma uno scandalo socialista». Valerio Falerni su Il Secolo d’Italia il 15 Dicembre 2022.

Lo scandalo delle eurotangenti fa scricchiolare la cosiddetta “maggioranza Ursula” in auge a Strasburgo e a Bruxelles. A rompere la tregua è un ruggente tweet con cui il Ppe ha deciso di parlare il linguaggio della chiarezza. «Dobbiamo affrontare questa ipocrisia – vi si legge -: il gruppo dei socialisti, “il più santo dei santi” è l’epicentro del Qatargate ed è ora che siano ritenuti responsabili. Le loro lezioni sullo stato di diritto si sono ora dimostrate ipocrite». Della serie: pane al pane e vino al vino. Il tutto a poche ore dal voto dell’Eurocamera sul testo unitario di condanna dell’eurocorruzione. Probabilmente, a consigliare al Ppe di rompere la tregua con i socialisti è stato il timore di un giudizio forfettario sull’accaduto.

Tweet dei Popolari incrina la “maggioranza Ursula”

Da qui la decisione di passare all’attacco. «C’è stato uno sforzo costante per trasformare il Qatargate in una questione esclusivamente istituzionale – si legge ancora nel tweet -. Ma questo scandalo non è orfano. Non è apparso dal nulla. Non è successo da solo. Ha un nome. Ha un indirizzo. E questo è il gruppo S&D». E a beneficio di chi eventualmente non avesse capito, il Ppe ha allegato una foto che riporta la scritta «non è il Qatargate ma uno scandalo S&D». La sortita dei Popolari europei interessa moltissimo anche il nostro Paese, che rischia di veder classificato come italian job lo scandalo qatariota.

Ma il Qatargate non è neanche un italian job

Inutile rimarcare che a tanto contribuisce anche parte della nostra stampa mainstream. Ma è uno scandalo socialista. Del resto, tutto ruota intorno alle ong. Le stesse che, come ha spiegato agli inquirenti uno degli arrestati, Francesco Giorgi, «servono a far girare i soldi». I soldi della corruzione, per l’appunto. Vale per i diritti umani in Qatar, vale per l’accoglienza dei migranti (vedi suocera di Soumahoro), vale per le coop (vedi il Buzzi di Mafia Capitale: «Rendono più della droga»). Un sistema, insomma, da sempre incarnato nella sinistra. Ecco perché ha ragione il Ppe a dire che il pasticciaccio brutto di Bruxelles «non è un Qatargate». Né, aggiungiamo noi, un italian job.

Estratto dell’articolo di Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 15 Dicembre 2022.

[…] L'arresto di Antonio Panzeri ha scoperchiato uno scandalo che ha per protagonisti sindacalisti, politici e persone di sinistra che avrebbero dovuto difendere i diritti dei lavoratori e invece accettavano (tanti) soldi (dal Qatar e non solo) per convincere l'Europarlamento che i 6 mila operai morti nei cantieri dei Mondiali (fonte The Guardian) erano uno scherzo […]

[…] temo che questa storia di corruzione sia una conseguenza patologica dell'affarismo praticato da anni da una parte della sinistra italiana. 

Panzeri è cresciuto nel Pci come fedelissimo di Massimo D'Alema ed è politicamente figlio di quel Filippo Penati che era stato sindaco Pci di Sesto San Giovanni e poi, da presidente della Provincia di Milano, decise di comprare (con soldi pubblici, e a caro prezzo) dal costruttore e re delle autostrade Marcellino Gavio la maggioranza della Milano-Serravalle. Gavio incassò 238 milioni, vendendo a 8,93 euro azioni che solo diciotto mesi prima aveva pagato 2,9 euro e realizzò una plusvalenza di 176 milioni.

Penati dissanguò le casse della Provincia per acquistare una autostrada che […] era già a maggioranza pubblica. […] Gavio utilizzò una parte di quelle plusvalenze (50 milioni) per appoggiare le scalate dei "furbetti del quartierino", sostenendo Giovanni Consorte, il presidente di Unipol (la compagnia d'assicurazioni delle coop rosse, legata al vecchio Pci), nella sua scalata alla Banca nazionale del lavoro.

E Penati fu premiato da Pier Luigi Bersani che lo chiamò a diventare il capo della sua segreteria politica. In quella stessa, cruciale estate del 2005, Piero Fassino, allora segretario dei Ds, telefonò a Consorte (intercettato) e gli pose la domanda destinata a entrare nella storia politica italiana: "Allora, abbiamo una banca?". Era la Bnl, che Consorte credeva di aver conquistato.

[…] Bersani chiama "la Ditta" quel gruppo politico proveniente dal Pci […] "La Ditta" […] connota un gruppo in cui la lunga pratica del potere e la consolidata abitudine a governare hanno avuto l'effetto di saldare la politica con gli affari. Con il rischio di far via via prevalere gli affari sulla politica. […]

Nel Qatargate naufraga la favola buonista delle Ong. Federico Novella su Panorama il 14 Dicembre 2022.

Le frasi di Francesco Giorgi su «Fight Impunity» e «No Peace Without Justice» dicono molto di un mondo dove, dietro uno strato di buone intenzioni si celano troppe cose misteriose

La frase che potrebbe scoperchiare il vaso di Pandora è tutta qui: “Quelle Ong ci servono per far girare i soldi”. Le parole di Francesco Giorgi, fidanzato della vicepresidente del parlamento europeo Eva Kaili e assistente storico di Antonio Panzeri, ben raccontano ciò che rischia di saltar fuori da questa Qataropoli. La chiamiamo così, all’italiana, anziché “Qatar-Gate” , perché italiani sembrano, stando alle accuse, gli uomini chiave attorno ai quali ruota l’inchiesta. Tutti accomunati da un particolare: l’appartenenza alla sinistra globalista, quella che lotta per i diritti dei più deboli, e che vive di lezioni morali impartite all’avversario.

Fatte le dovute premesse (aspettiamo gli sviluppi delle indagini, accertiamo le responsabilità), il dato storico-politico è che mentre ai tempi di Tangentopoli si rubava per sé o per il partito, stavolta, a dar retta agli inquirenti belgi, si ruba spacciandosi per buoni. Si accumulano sacchi di soldi dietro il paravento dei buoni sentimenti nei confronti dei più sfortunati. Alla faccia della tanto sbandierata superiorità morale. E tutto ciò attraverso il cavallo di Troia delle tanto celebrate Ong, organizzazioni non governative e a quanto pare nemmeno tanto “gentili” come qualcuno vorrebbe far sembrare. Sempre border line tra legalità e illegalità, tra propositi di interesse pubblico e cascami di interesse privatissimo. E’ una (nuova?) forma di corruzione, quella nel nome della pace e dell’amore, corruzione vera o presunta, che cela tuttavia una tendenza odiosa. Fare business sulla bontà. Dal caso Soumahoro alla losca vicenda di Mimmo Lucano, fino alla bufera Panzeri che rischia di portarsi dietro le macerie delle istituzioni comunitarie, comincia ad essere lunga la lista degli oscuri accadimenti all’ombra della beneficienza. Cooperative, associazionismi, galassie oscure che dietro il paravento del bene, nascondono ipocrisie e malfunzionamenti, nel migliore dei casi, e vere e proprie truffe, nei casi peggiori. A ulteriore dimostrazione che sono tempi magri, nei quali occorre guardarsi dalla bontà ostentata, o sventolata politicamente. La vera bontà, i veri buoni sentimenti, di solito restano discreti e nascosti: quando risalgono in superficie per essere messi su un piedistallo, quello è il momento in cui farsi prendere dai sospetti. Gli stessi sospetti che in queste ore, a Bruxelles, lasciano immaginare l’impensabile.

"Un'ideologia infame. Ong e sinistra...". La sentenza di Rampini sul Qatargate. Il giornalista denuncia l'ipocrisia anti-occidentale che accomuna "sedicenti progressisti" e "un certo mondo di Ong". Questa ideologia, ha attaccato, "consente tutto, anche di prendere le mazzette". Marco Leardi il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

"Questa ideologia consente tutto, anche di prendere le mazzette". Federico Rampini è entrato a gamba tesa sul Qatargate e sul retropensiero orientato a sinistra che a suo avviso farebbe da sfondo alla vicenda. Invitato a esprimersi sull'inchiesta che ha travolto e imbarazzato le istituzioni europee, su La7 il giornalista ha puntato il dito contro l'anti-occidentalismo di certi "sedicenti progressiti", pronti ad autoflagellarsi e a osservare invece senza altrettanta severità il sud del pianeta.

Qatargate, la lezione di Rampini

Nel suo ragionamento Rampini è partito commentando le vicende di Eva Kaili, l'ex vicepresidente del Parlamento Europeo accusata di aver ricevuto denaro dal Qatar per difendere gli interessi dell'emirato. "Non è stata cacciata dal suo partito di sinistra quando disse delle cose infamanti, ignobili, molto prima che le scoprissero i soldi in casa. Disse che il Qatar è un modello per i diritti umani, cosa vergognosa visto che prima dei Mondiali sono morti tanti migranti nei cantieri. Quello era già un buon motivo per cacciarla...", ha affermato il giornalista genovese, biasimando con forza un'altra e successiva dichiarazione dell'ex socialdemocratica: quella in cui la donna aggiunse "che noi europei non abbiamo nessun diritto di dare lezioni agli altri".

"Ideologia infame..."

Proprio riflettendo su quella affermazione, Rampini ha esteso il proprio discorso, inchiodato una parte della sinistra. "Siamo nel bel mezzo di un'ideologia infame che accomuna certi sedicenti, e sottolineo sedicenti progressisti e un certo mondo di Ong, per cui noi occidentali siamo colpevoli di tutto, gli altri hanno sempre ragione, noi siamo l'impero del male, gli altri sono buoni, vittime innocenti", ha osservato il giornalista, severo con quanti non perdono l'occasione per attribuire all'Occidente una sorta di peccato originale di natura ideologica.

"Nell'emisfero sud, del quale simbolicamente fa parte anche il Qatar, sono tutti migliori di noi. E allora per carità, uno incassa anche le mazzette da quelli lì, perché loro sono buoni anche se possiedono mezza Milano, il Paris Saint Germain... Però loro sono il sud del pianeta mentre noi siamo la razza bianca cattiva. Questa ideologia consente tutto, anche di prendere le mazzette", ha continuato Rampini, ospite di Coffee Break su La7. Chissà che a qualcuno, anche in Italia, non siano fischiate le orecchie.

Il Bestiario. Il Bestiario, l'Eurocorrottino. Giovanni Zola il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L’Eurocorrottino è un leggendario animale che non si accontenta di uno stipendio da 20mila euro al mese

L’Eurocorrottino è un leggendario animale che predica bene ma razzola male e soprattutto non si accontenta di uno stipendio da 20mila euro al mese.

L’Eurocorrottino nasce e opera nel cuore del Parlamento Europeo, al centro delle istituzioni UE, proprio là dove vige l’austera Von der Leyen, colei che rappresenta l’ordine, la giustizia e la superiorità morale della grande Europa unita. Insomma la corruzione di alcuni parlamentari europei è come se un enorme albatros con apertura alare di due metri, l’avesse fatta dritta dritta in testa alla curata e tersa permanete bionda della presidente.

La peculiarità dell’Eurocorrottino non è quella di essere accusato di associazione a delinquere, riciclaggio di denaro e corruzione – di questo sono buoni tutti - ma di aver fatto affari sporchi proprio in nome della difesa dei diritti umani di Paesi che i diritti umani li usano, nel migliore dei casi, per pareggiare le gambe dei tavoli per non farli traballare. L’Eurocorrottino ha l’hobby delle lobby che pagano ricche tangenti per ottenere ingerenza all’interno della UE. A questo riguardo chi accusava Salvini di essere al soldo russo senza lo straccio di una prova, ora potrà occuparsi di una vera e autentica ingerenza.

I fattacci dell’Eurocorrottino naturalmente sono stati ripresi da tutti i giornali e Tg, ma senza l’enfasi che avrebbero usato se l’Eurocorrottino fosse appartenuto al centro destra. In questo caso avremmo assistito a maratone televisive all’insegna dello stracciar di vesti, ma essendo l’Eurocorrottino di sinistra, ci si limita ad affermare che si tratta di condotte personali che non hanno niente a che fare con le appartenenze di partito. Inoltre quando si tratta di “compagni che sbagliano”, il cattocomunista diventa improvvisamente garantista e cita Papa Francesco ripetendo: “Chi siamo noi per giudicare”.

Così, a causa delle malefatte dell’Eurocorrottino, la sinistra si sente addirittura parte lesa. Alcuni detrattori affermano che sia perché il bottino da un milione e mezzo di euro non sia stato diviso in parti uguali tra i compagni. In realtà è perché si tratta di una tremenda figuraccia che ricorda alla lontana l’episodio dei 24mila euro ritrovati in una cuccia e giustificati, da parte del cane stesso, come anticipo per l’impianto fotovoltaico della cuccia.

Infine ora comprendiamo perché tanta insistenza sull’utilizzo del POS da parte della sinistra. Non si tratta tanto di una questione legata alla lotta all’evasione fiscale, quanto al fatto che i contanti servono per riempire i sacchi dei compagni Eurocorrottini.

Qatargate. Se l'incompetenza fa danni peggiori. La corruzione a Bruxelles fa scalpore, ma l'incompetenza e l'autoreferenzialità ideologica fanno molti più danni. Pier Luigi del Viscovo il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La corruzione a Bruxelles fa scalpore, ma l'incompetenza e l'autoreferenzialità ideologica fanno molti più danni. Certo, il malaffare non l'avevamo messo in conto. Per noi italiani, cresciuti con tangentopoli e calciopoli, è strano vedere implicati nel Qatargate i vertici di quelle istituzioni da cui spesso veniamo bacchettati. Sarà che ci portiamo dietro quel complesso di essere noi i furbi, anzi furbastri, che cercano le scorciatoie, mentre non è che siamo i soli a cercarle, quanto magari i più svegli a trovarle. Sarà anche che per decenni la politica italiana ha pompato l'autorità economica e morale di Bruxelles, per usarla come scusa per imporre qualche freno alla spesa, non avendo la forza di dire che meno debito è nel nostro interesse. Fatto sta che non ce l'aspettavamo. Invece avremmo dovuto ipotizzare che la competenza, seppur concorrente con gli Stati Membri, in settori importanti, dall'agricoltura alla pesca, dai trasporti all'energia, potesse dar luogo a fenomeni corruttivi.

Nella transizione energetica, ad esempio, l'Europa sta imponendo all'economia, all'industria e alla società dei limiti e dei costi assolutamente sproporzionati, alla luce della non autosufficienza nelle materie prime e nell'energia, del ritardo dell'industria nelle tecnologie avanzate e, in ultimo, del peso irrisorio delle emissioni europee sui cambiamenti climatici. Forse adesso sarà più agevole per tutti fare la domanda fatidica: cui prodest? Certe decisioni, nell'interesse di chi?

Tuttavia, è anche possibile che tante decisioni incomprensibili non siano frutto di interessi vergognosi di pochi, quanto di incompetenza e inefficienza di tanti. Ideologie scollegate dai fatti e calate in un enorme apparato burocratico, entro cui si muovono figure professionali non sempre all'altezza, ma sempre inebriate da autoreferenzialità, tipica dei contesti dove stanno insieme il potere e la distanza dalle cose reali. Noi italiani abbiamo sempre sottovalutato il potere che sta a Bruxelles, cercando anzi di tenerlo fuori dai confini il più possibile. Per questo, abbiamo spedito in quelle posizioni coloro di cui la politica domestica proprio non sapeva che farne, illudendoci di essere i soli a comportarci così. Sbagliato. Avendo l'occasione di lavorare con gli organismi comunitari, si scopre che anche dagli altri Paesi non arrivano dei fenomeni, anzi. Inoltre, col sistema uno-vale-uno, capita che in una riunione la decisione penda da una parte grazie al parere del maltese che, con tutto il rispetto, vale quanto quello del tedesco.

Sì, la corruzione, in Italia come ovunque, fa notizia e fa arrabbiare. Ma proprio noi dovremmo sapere che al funzionamento del sistema fa più male l'incompetenza e l'arroganza del potere, e pure che c'è un filo rosso che tiene tutto insieme. Quando interi apparati possono operare senza il riscontro di un risultato apprezzabile da parte dei cittadini, allora diventa anche più facile dare ascolto alle sirene che girano con i trolley pieni di soldi.

Pioggia di mazzette, ma la sinistra arrossisce per una battuta del Cav. In Europa impazza il Qatargate, ma a sinistra fanno la morale a Berlusconi perché a una cena ha fatto una battuta ai calciatori del Monza. Andrea Indini il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Borse piene zeppe di banconote. Mazzette per ripulire la fedina penale di uno Stato che, quando va bene, i diritti umani li calpesta. E ancora: Ong che "servivano a far girare i soldi", lusso sfrenato e vacanze da 100mila euro, un'inchiesta che, stando a quanto fanno trapelare gli inquirenti, "non sarebbe circoscritta solo ai quattro fermati ma riguarderebbe diversi europarlamentari a libro paga del Qatar". Eppure, anziché stare davanti a questo girone infernale di corruzione, a sinistra sbroccano (ancora una volta) per una battuta, tra l'altro fatta in un contesto conviviale, di Silvio Berlusconi. C'è chi, come Laura Boldrini, si strappa i capelli in nome del sessismo e chi, dalle parte di Verdi e Sinistra italiana, vorrebbe il Cavaliere "fuori per sempre dalla vita pubblica". E c'è chi chiama in causa persino la Meloni che, dopo aver incassato il via libera di Bruxelles alla legge di Bilancio, è in partenza per il Consiglio europeo e ha ben altro di cui occuparsi.

Ma veniamo alla battuta di Berlusconi che ha lasciato inorridite le anime candide della sinistra nostra. Parte tutto da un video registrato ieri sera e poi affidato ai social. Una volta online, la viralità ha fatto il suo corso. Contesto: cena di Natale del Monza. Nello spezzone incriminato si vede l'ex premier in piedi, in mezzo ai tavoli, chiacchierare disinvolto. "Abbiamo trovato un nuovo allenatore che era l'allenatore della nostra squadra Primavera - racconta - è bravo, simpatico, gentile e capace di stimolare i nostri ragazzi". Quindi la battuta: "Io ci ho messo una stimolazione in più e ai ragazzi ho detto: 'Ora arrivano Juventus e Milan. Se vincete con una di queste grandi squadre, vi faccio arrivare nello spogliatoio un pullman di troie'". Nessuno ai tavoli si è stracciato le vesti né se l'è presa. Hanno riso, come è normale che sia.

A dare di matto ci ha, invece, pensato la sinistra. La grillina Chiara Appendino parla di "concetti miseri", addirittura "pericolosi". Laura Boldrini ci mette il carico da novanta ("Becero sessismo usato come goliardia") e ovviamente chiama in causa tutto il centrodestra: "Ricordo che Meloni, Salvini e Tajani volevano Berlusconi Presidente della Repubblica". È una gara a chi la spara più grossa. "Una vergogna per tutte le italiane e gli italiani", azzarda Marco Grimaldi (Alleanza Verdi e Sinistra). E poi +Europa: "Dagli anni Ottanta a oggi il nostro boomer nazionale attinge allo stesso inventario di insulti con cui ha sempre infestato le cronache politico-mondane". Su Twitter ci si mette pure Monica Cirinnà: "Conferma la cultura patriarcale che riduce le donne a oggetti, anticamera della violenza".

Tutti scandalizzati per quella che, per quanto possa essere considerata da alcuni sopra le righe, resta una battuta, tanto più pronunciata in un contesto tutt'altro che istituzionale. Nemmeno Berlusconi si sarebbe mai aspettato tanto clamore per quella che lui stesso considera "una semplice battuta 'da spogliatoio', scherzosa e chiaramente paradossale". E davanti a questo paradossale finimondo non gli resta che la compassione per i critici di professione. "Forse - azzarda l'ex premier - è solo la loro assoluta mancanza di humor a renderli così tristi ed anche così gratuitamente cattivi nell'attaccare i nemici". Ma, dopo tutto, cos'altro ci saremmo potuti aspettare? Così è la sinistra. Arrossisce quando si dicono le parolacce, ma quasi non batte ciglio davanti a un milione e mezzo di contanti.

Sepolcri imbiancati. Premessa: siamo garantisti convinti, per cui prima di esprimere giudizi o emettere verdetti vale la pena attendere la conclusione delle indagini dei magistrati di Bruxelles. Augusto Minzolini il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Premessa: siamo garantisti convinti, per cui prima di esprimere giudizi o emettere verdetti vale la pena attendere la conclusione delle indagini dei magistrati di Bruxelles. Ma già l'accusa di aver svolto «ingerenze» nel Parlamento europeo in favore del Qatar, Paese dove si stanno svolgendo i mondiali di calcio, famoso per la durezza del regime e l'assenza di ogni rispetto per i diritti umani, lascia di stucco se si pensa che gli indagati appartengono tutti alla sinistra: c'è un ex eurodeputato, Antonio Panzeri, che ha militato prima nei Ds, poi nel Pd e infine ha aderito ad Articolo Uno, il gruppo messo in piedi da Speranza, Bersani e D'Alema; c'è la vicepresidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili; e, insieme a loro, alla moglie e alla figlia di Panzeri e ad altre tre persone, è finito davanti ai magistrati di Bruxelles pure Luca Visentini, segretario generale dell'International Trade Union Confederation, il più grande sindacato del mondo.

Appunto, siamo garantisti, ma intanto nelle perquisizioni degli accusati sono saltati fuori 600mila euro in contanti, somma che solo sceicchi e oligarchi tengono nel cassetto. Il paradosso maggiore, però, è un altro e lambisce i confini della realtà: Panzeri è anche il fondatore di una Ong, la Fight Impunity, impegnata nella «lotta contro l'impunità per gravi violazioni dei diritti umani e crimini contro l'umanità». Sembra di avere di fronte il dottor Jekyll e mister Hyde: da una parte il difensore dei diritti, pronto a lanciare anatemi contro chi vuole un'immigrazione regolata; dall'altra il lobbista che agisce nel Parlamento Ue in favore del Qatar per far dimenticare alla comunità internazionale come vengono calpestati da quelle parti i diritti. Una contraddizione scioccante che dimostra come certe ideologie siano finzioni in cui le parole non hanno valore e i comportamenti smentiscono le teorie. Uno schema vecchio: si predica bene nei discorsi e si razzola male per fame di dollari. Per cui tutto è possibile. La coerenza a sinistra è diventata un sepolcro imbiancato.

Quello che più dà fastidio, però, è come il grande tema dei diritti umani spesso sia brandito come un'arma dalla sinistra contro la destra. O, addirittura, diventi argomento di «razzismo» politico. Basti pensare che il giorno prima di questo euro-pandemonio è stata presentata l'ultima edizione di «Politico 28» nella quale Giorgia Meloni, con il sottotitolo «la Duce», guida la classifica dei cattivi tra i politici europei. E, invece, la storia del Qatar che si infila tra i parlamentari socialisti di Strasburgo, così come le faccende opache che hanno coinvolto quello che fino all'altro ieri il nuovo leader della sinistra italiana, Aboubakar Soumahoro, dimostrano una realtà ben diversa. La verità è che la difesa dei diritti civili non dovrebbe avere un colore politico, ma dovrebbe essere patrimonio comune dell'umanità. Anche perché «pecunia non olet» pure a sinistra: il giorno in cui il suo compagno di partito, Panzeri, è stato messo sotto accusa dai magistrati belgi per aver preso mazzette dagli emiri, Massimo D'Alema ha presentato al governo italiano un compratore per la raffineria di Priolo. Indovinate di che nazionalità? Naturalmente del Qatar.

Il progressismo Pd a misura di islam. La sinistra italiana ha sempre legittimato gli integralisti dell'Ucoii. Gian Micalessin l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Garantisti sì, fessi no. I sacchi di soldi elargiti alla «sinistra» eurobrigata guidata dalla socialista greca Eva Kaili e dall'ex eurodeputato dem Antonio Panzeri non bastano, da soli, per emettere una condanna preventiva. D'altra parte sarà difficile stupirsi se quelle accuse risulteranno, alla fine, quanto mai fondate. L'idillio ideologico-finanziario che lega il Pd italiano e la sinistra europea all'Islam della Fratellanza Musulmana sovvenzionato dal «grande fratello» qatariota dura da oltre un decennio. E l'Italia ne rappresenta, grazie ai governi Pd, una delle culle più accoglienti. Per scoprirlo basta sostituire al nome di Fratellanza Musulmana e Qatar la sigla del loro referente nostrano ovvero quell'Ucoii, Unione delle comunità islamiche in Italia, che - pur rappresentando un'ala minoritaria e non proprio moderata dell'Islam italiano - ne è diventato grazie a governi e amministratori del Pd la voce più ascoltata e autorevole.

Ma per comprendere la pericolosità dell'idillio dem-islamista vanno ricordati alcuni retroscena. Il Qatar da sempre accoglie e protegge la diaspora della Fratellanza Musulmana, un movimento integralista giudicato sovversivo e pericoloso da molti paesi arabi e islamici. Un giudizio non proprio campato in aria visto che tra le fila della Fratellanza sono cresciuti i leader di Hamas prima e di Al Qaida poi. A Doha, invece, è vissuto in esilio, fino alla morte sopraggiunta lo scorso settembre, Yusouf Al Qaradawi, il predicatore simbolo della Fratellanza Musulmana autore di una fatwa in cui pronosticava la riconquista di Roma «attraverso la predicazione e le idee». Predicazione e idee destinate a far assai poca strada senza i soldi riversati in Italia ed Europa da Doha e dai suoi prestanome. Da noi, grazie alle «disattenzioni» dei governi Pd arrivano, dopo il 2013, circa 25 milioni di euro della «Qatar Charity» con cui l'Ucoii conta di realizzare 45 progetti per la costruzione di moschee, luoghi di preghiera e centri culturali islamici. Il tutto mentre Al Qaradawi suggerisce di destinare qualche spicciolo anche al Caim, il Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano, Monza e Brianza. Un'intuizione a dir poco lungimirante visto che subito dopo il sindaco di Milano Giuseppe Sala fa eleggere nelle liste Pd e accoglie in Consiglio comunale la militante islamica Sumaya Abdel Qader. Una militante orgogliosamente velata formatasi, guarda caso, tra le fila del Forum Europeo delle Donne Musulmane, braccio operativo della Fratellanza Musulmana a Bruxelles. Una mossa che alla luce delle attuali cronache la dice lunga sui rapporti intessuti dal Pd con l'Ucoii e i suoi referenti internazionali. Legami confermati dalle scelte dell'ex-ministro della giustizia Andrea Orlando firmatario, nel 2016, della convenzione che affida proprio agli imam dell'Ucoii il compito di prevenire la penetrazione nelle carceri dell'Islam radicale. Una mossa che equivale a mettere la volpe nel pollaio.

Gli imam dell'Ucoii sono, infatti, i principali propagatori del verbo integralista propugnato dalla Fratellanza Musulmana. Ma il pollaio italiano è ben più ampio del ristretto universo carcerario. E lo dimostra la Firma del «Patto nazionale sull'Islam» con cui l'Ucoii diventa nel 2017 un interlocutore ufficiale dei nostri governi. Mentre l'accusa di «islamofobia» diventa l'anatema con cui tacitare qualsiasi critica al diffondersi di un islam radicale garantito dal denaro distribuito all'Ucoii e agli spregiudicati esponenti di un pensiero progressista modellato sul verbo di Doha.

Il karma della sinistra: vittima delle sue crociate su migranti e contanti. Andrea Indini il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Chiamatelo, se volete, karma. Gli scandali dei Soumahoro e, ancor peggio, il giro di mazzette del Qatargate hanno svelato agli occhi dell'opinione pubblica il bieco moralismo della sinistra

Chiamatelo, se volete, karma. Gli scandali dei Soumahoro e, ancor peggio, il giro di mazzette del Qatargate hanno svelato agli occhi dell'opinione pubblica il bieco moralismo della sinistra. Proprio mentre invocavano i porti aperti alle Ong contro il pugno duro della Meloni sull'immigrazione clandestina, i dem si sono trovati completamente ricoperti dal fango degli intrallazzi di «Lady Gucci» e della suocera Marie Therese. E di lì a qualche giorno, mentre si stracciavano le vesti in difesa del bancomat, eccoli a dover fare i conti coi 600mila euro in contanti trovati a casa di Antonio Panzeri e le sacche piene di banconote sequestrate nell'appartamento di Eva Kaili. Un karma «nero», dunque. Le battaglie storiche dei progressisti - la difesa degli ultimi e i diritti umani - messe alla berlina nel giro di una decina di giorni. E, poi, l'emergere di una triste verità: mai come prima d'ora, il famoso adagio «predicano bene ma razzolano male» suona tanto azzeccato.

I due scandali forniscono gli ingredienti giusti per fare a pezzi decenni di moralismo rosso. Non che ci volessero i Soumahoro per svelare agli italiani i maneggi di una certa sinistra nel redditizio business dell'accoglienza. «Con gli immigrati - diceva Salvatore Buzzi - si fanno molti più soldi che con la droga». E l'inchiesta «Mafia Capitale» lo aveva dimostrato in modo inappuntabile. Solo che adesso, coi Soumahoro, lo scandalo fa più male. Perché lo schianto di Aboubakar, il deputato che il primo giorno di legislatura si è presentato a Montecitorio con gli stivali verdi per moralizzare il Parlamento e l'Italia intera sugli stranieri sfruttati nei campi, è ancor più assordante. Proprio lui, che era stato innalzato, in mondovisione, a baluardo dei diritti degli immigrati, è stato tirato in mezzo da moglie e suocera in una storiaccia di coop e soldi spariti. Un classico della sinistra, ma che figuraccia! Un po' com'era stato con Mimmo Lucano. Altro simbolo dell'accoglienza caduto giù dall'olimpo dello star system radical chic. Ora che il tribunale di Locri lo ha condannato a tredici anni e due mesi, lo scansano tutti. Prima, però, correvano a farsi i selfie con lui. Gli stessi che vedevano in Soumahoro un possibile «papa straniero» per un Pd a corto di timoniere e che oggi lo schifano e, sotto sotto, lo incolpano: avrebbe potuto essere il pungolo contro il governo «fascista» che chiude i porti alle Ong e, invece, è solo il volto imbarazzante dell'accoglienza rossa.

Lo stesso imbarazzo lancinante, devono provarlo in tanti dalle parti del Pd per le mazzette degli emiri. I diritti umani svenduti in cambio di soldi. Tanti soldi. Così tanti da riempirci intere sacche. Immaginateveli quei borsoni zeppi di banconote. E pure le valigie, riempite in fretta e furia quando sono scattati i primi fermi. Nemmeno il garantista più garantista di tutto il mondo riuscirebbe a difenderli. E basterebbe questo schifo a calare il sipario sulla sinistra. Se non fosse che da giorni quella stessa sinistra, che oggi viene sorpresa in vasche traboccanti di euro che nemmeno zio Paperone, fa la bulletta coi baristi che non vogliono usare il Pos per incassare un euro e trenta centesimi di caffè.

Forse, prima di invocare i porti aperti, la sinistra dovrebbe dire ai suoi che non si lucra sulla pelle degli immigrati. E, prima di far passare per evasore chiunque si schieri contro l'imposizione del bancomat, dovrebbe dire ai suoi che i diritti umani non sono in vendita. Nemmeno per una vacanza da 100mila euro o per un borsone pieno di contanti.

Gauche Qatar. Le accuse di corruzione a Bruxelles rivelano le fragilità del socialismo europeo e della sinistra italiana. Mario Lavia su L’Inkiesta il 12 Dicembre 2022

Le istituzioni restano forti ma l’indagine è un colpo duro all’immagine dell‘Europa, e getta ombre anche su un’area di ex Pd ora dalemiani. Ma, attenzione, i precedenti insegnano che è meglio essere garantisti fino all’ultimo

Doverosa e non formale premessa: sulla vicenda che sta travolgendo esponenti o ex esponenti del Parlamento europeo bisogna essere garantisti fino all’ultimo, come sempre. Ci sono stati alcuni arresti, è vero, ma ovviamente non basta a decretare la responsabilità delle persone in questione. Ci sono già le strumentalizzazioni politiche tipicamente italiane, con la destra che chiede al Partito democratico di chiarire.

È vero che la vicenda tocca ambienti del socialismo europeo (che tristezza, ndr) ma il Partito democratico in quanto tale non si capisce bene cosa c’entri. Comunque sia, la questione è molto seria. In primo luogo, c’è il colpo all’immagine delle istituzioni europee: «Lo scandalo di corruzione all’Europarlamento è una cosa gravissima. Si tratterebbe di esponenti del Parlamento europeo e di attivisti che avrebbero ricevuto soldi per chiudere un occhio sulle condizioni di lavoro in Qatar. È una vicenda vergognosa», ha detto con chiarezza Paolo Gentiloni.

Non da oggi viene alla luce che il Parlamento europeo e in generale le strutture politiche e organizzative di Bruxelles sono nella costante attenzione di Stati, potentati, lobby, forze economiche palesi e occulte che in mille modi tentano di condizionarne politiche e scelte.

Questa volta è il Qatar ad aver messo in moto azioni tese ad annullare l’immagine negativa di quel Paese sotto molteplici aspetti, in primo luogo in relazione agli scarsissimi diritti dei lavoratori. La domanda sorge spontanea: l’Europa è dunque permeabile alle manovre di questo o quello Stato, di questo o quel potentato? Bruxelles come la nuova Bisanzio, nei cui bazar brulicano faccendieri e corrotti? Il palazzo del Parlamento europeo come un suq arabo?

Probabilmente questo sarà il nuovo stornello da osteria dei sovranisti che da qualche tempo hanno un po’ mollato la presa sull’antieuropeismo, ma che sono sempre in agguato nelle loro tane nazionaliste.

Bisogna rispondere di no, che quelle europee sono istituzioni forti. «I corruttori sono nemici della democrazia», dice giustamente Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo. Ma siccome la struttura è gigantesca, donne e uomini che vi lavorano sono più esposti alle “tentazioni”: a Bruxelles un consigliere parlamentare ha spesso più potere di un deputato, personaggi lontani dai riflettori maneggiano questioni e pratiche di grandissimo rilievo fuori da ogni possibile controllo: è la tragedia delle democrazie quando si trasformano in grandi tecnocrazie.

E poi, al netto del garantismo, possono inciampare nelle “tentazioni” parlamentari oscuri ma ben addentro a certe dinamiche: non è il caso della importante socialista greca Eva Kaili, vicepresidente dell’Europarlamento prontamente sospesa dalla presidente Roberta Metsola, figura di primo piano.

Ma Antonio Panzeri, già Partito democratico poi Articolo Uno, anch’egli subito sospeso, è un ex deputato, comunque una figura non notissima al pubblico. Panzeri però è stato un personaggio importante soprattutto nella sinistra milanese, segretario della Camera del lavoro, poi dirigente Cgil di primo piano, una lunga storia Pci-Pds-Ds-Pd, sempre annoverato tra i dalemiani di ferro. Amico di Massimo D’Alema, uno di sinistra, talmente di sinistra da uscire dal Pd per confluire in Articolo Uno di Pier Luigi Bersani. Il suo partito lo ha sospeso esprimendo «sconcerto», perché per Panzeri è uno di quei compagni su cui non c’è da dubitare, anche se era già incappato in una indagine interna dell’Europarlamento per rimborsi di viaggi legati alla sua Associazione “Milano+Europa” che l’amministrazione considerava non idonei: 83mila euro.

Essendo da anni impegnato sulle questioni dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente, il Qatar deve aver visto in lui un possibile canale per la sua campagna d’immagine, si vedrà se con mezzi leciti o illeciti – frattanto sono stati arrestati la moglie e la figlia e il suo ex collaboratore, quel Francesco Giorgi che in seguito ha stretto una relazione con la Kaili (ricordiamoci sempre che al momento sono soltanto accusati e di tante persone infangate e uscite alla fine pulite: ultimi i casi dell’ex presidente dell’Umbria Rita Lorenzetti ma non si può dimenticare la triste vicenda di Filippo Penati o quella di Calogero Mannino e tante altre).

Ma è chiaro che questa storia scuote la famiglia del socialismo europeo, lambisce un pezzo della sinistra italiana, segnala che il rapporto tra politica e morale si fa problematico proprio laddove la morale venne elevata a spartiacque tra “noi” e “loro” – fu un tratto fondamentale del berlinguerismo – ed è davvero una grottesca ripicca della storia il fatto che in questi giorni sia uscita un’altra notizia che collega il Qatar ai dalemiani, anzi, proprio a Massimo D’Alema in persona, che sarebbe uno dei consulenti dell’uomo d’affari qatarino Ghanim Bin Saad Al Saad, a capo di una cordata per l’acquisizione della raffineria di Priolo, in Sicilia.

Qui tutto lecito, nessuno scandalo, non c’è relazione tra le due cose, l’ex capo dei Ds è da tempo un consulente che agisce in svariate parti del mondo. Però è difficile dar torto al vicesegretario del Partito democratico Peppe Provenzano quando dice che «vedere ex leader della sinistra fare i lobbisti in grandi affari internazionali non è solo triste, dice molto sul perché le persone non si fidano, non ci credono più». E alla fine il gioco di parole viene facile, dalla gauche caviar alla gauche Qatar il passo è breve. Sempre al netto del garantismo.

Dai diritti agli affari: la triste parabola di una sinistra che si è venduta. Tocca a Panzeri dopo il caso Soumahoro. Quella deriva dietro il paravento delle "lotte". Stefano Zurlo il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Quasi cinquecentomila euro in contanti. Mazzette, ipotizzano gli inquirenti. E allora si resta sbalorditi perché Antonio Panzeri è una delle voci storiche del riformismo ambrosiano e italiano, un punto di riferimento per la sinistra che a Milano faticava a toccare palla. Oggi che non è più in prima linea, il suo nome può suscitare interrogativi sbiaditi, ma Panzeri, classe 1955, è stato il leader milanese della Cgil e per un certo periodo si pensava a lui come al possibile successore di Sergio Cofferati, a sua volta per una breve stagione il vero antagonista di Silvio Berlusconi.

Panzeri ha interpretato a lungo una linea pragmatica, forse l'unica praticabile nella metropoli lombarda alle prese con la deindustrializzazione, e certo fa impressione pensare che oggi si sospetti una deriva oltre il confine della legalità: la capacità di leggere la realtà senza gli occhiali dell'ideologia avrebbe lasciato il posto ad altre logiche e altre prospettive. Una parabola avvilente, se sarà confermata dallo sviluppo delle indagini.

Panzeri è per lungo tempo una figura di raccordo fra la Cgil e il partito, naturalmente il Pci e poi le sue evoluzioni. Il tutto in un'epoca in cui le due chiese officiavano lo stesso rito e incrociavano i percorsi dei loro colonnelli. Panzeri è per due mandati segretario della Camera del lavoro di Milano, insomma è ai vertici del sindacato, poi deve lasciare, come da statuto, e inizia la carriera politica. Nel 2004 viene eletto al Parlamento europeo, con 105 mila preferenze, naturalmente nella circoscrizione Nord-Ovest, e sembra portare a Bruxelles le istanze di una sinistra meno legata ai vecchi dogmi ormai in soffitta e pronta a dialogare con il ceto medio e la borghesia meneghina.

Ma le cose vanno diversamente; Panzeri viene rieletto la seconda e la terza volta, ma il rapporto con il Nazareno si consuma: l'europarlamentare esce dal Pd e aderisce ad Articolo 1, poi si ritrova fuori dall'emiciclo: in realtà continua a frequentare il mondo della politica. È direttore della Ong Fight impunity che annovera nel comitato scientifico personaggi come Emma Bonino e Federica Mogherini.

Insomma, l'impegno anche dopo aver lasciato la prima linea: forse, dietro le quinte, se dobbiamo dare credito a quel che sta emergendo a Bruxelles, Panzeri transita in quella fase al partito degli affari. I suoi interlocutori non sono più i lavoratori milanesi, gli operai costretti a reinventarsi dopo il declino delle fabbriche e l'esplosione del terziario; no, dai radar di Panzeri sarebbero usciti anche gli euroburocrati e i funzionari della Ue, o forse no, perché spezzoni dell'apparato si sarebbero integrati fra Bruxelles e Strasburgo con emiri e mediatori mediorientali.

Tutto da dimostrare, in un'inchiesta che per una volta non nasce in Italia. La cronaca giudiziaria ci ha abituato per lunghi periodi a indagini che colpivano il centrodestra. Quando, a finire sotto i riflettori sono i protagonisti dell'altro versante, si tende a catalogarli come un'eccezione. Un'eccezione che ai tempi di Mani pulite tolse dall'imbarazzo l'allora Pds perché i miglioristi furono equiparati ad una variante degli allora impresentabili socialisti.

Qui non è facile cavarsela con le acrobazie semantiche e i distinguo capziosi ma resta il fatto che la storia gloriosa di Panzeri non può essere cancellata. E mette a disagio pensare che possa aver virato in altra direzione, privilegiando intrighi e oboli.

Chissà. La vicenda di Aboubakar Soumahoro, che peraltro non è indagato, insegna che proclami e invettive qualche volta sono solo un paravento: dietro si nascondono pasticci, o peggio rapporti opachi. Certo, sono storie diverse e con differenti profili: fra l'altro da qualche tempo Panzeri era finito nella penombra e non aveva più la notorietà del deputato della sinistra radicale, scintillante campione dell'opposizione al governo Meloni.

Battaglie su battaglie, manifestazioni, assemblee e cortei, talk e interviste. Poi dietro le quinte affiora altro. Non proprio edificante. Anche se sarebbe a dir poco ingeneroso trasformare gli elementi investigativi che arrivano dal Belgio in una sentenza di condanna.

Panzeri, l'indagato è di sinistra? Ecco cosa sparisce dai titoli. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 13 dicembre 2022.

Non è propriamente per resipiscenza garantista che la stampa coi fiocchi fatica a mettere in prima pagina che il presunto colpevole, questo Panzeri, appartiene ai ranghi illustri della Repubblica Bella Ciao. Sarebbe nobilissimo se si trattasse della doverosa cautela con cui si tiene basso il profilo dell'indagato, senza indugiare sui particolari del suo curriculum, fino a che le cose non sono più chiare: ma la vaghissima impressione è che si tratti di tutt'altro e cioè del ricorso al bianchetto sulla notizia che imbarazza non per i pacchi di soldi di cui si parla, ma per il fatto che se ne ipotizzi il maneggio da parte di un plenipotenziario progressista.

Che non si tratti di quella cautela è evidentissimo guardando certi titoli: “Choc in Europa”, “Eurocorruzione”, “La Tangentopoli in Europa”, che sembrano misurati meno sull’esigenza di descrivere uno scandalo generale, che è tutto da dimostrare, e ben più sull’urgenza di rendere trascurabile l’identità politica di chi pare esservi coinvolto. Che andrebbe benissimo un’altra volta, se non fosse che altre volte l’affiliazione è vigorosamente sottolineata e non è neppure la guarnizione della notizia, ma la notizia punto e basta. Ora a sinistra faranno il solito, e cioè lo scaricheranno a prescindere, prima del processo, ma nel frattempo verrà fuori che sotto le spoglie di comunista sindacalista era in realtà un ordoliberista.

La morale di Eva. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2022.

Se ti riempiono un sacco di banconote fino all’orlo per parlare bene del Qatar e tu parli bene del Qatar, sei una politica corrotta, ma lineare. Invece l’eurosocialista (nel senso di socialista sensibile agli euro) Eva Kaili ha scelto una strada più contorta, non limitandosi a tessere l’elogio dei suoi corruttori, ma usandolo per sputare sull’Europa che le passa lo stipendio, quello regolare. Forse avrete visto anche voi le immagini del memorabile intervento al Parlamento di Bruxelles in cui la vicepresidente Kaili proponeva il Qatar come modello sindacale per il nostro Continente: «Impariamo da loro, lì c’è il salario minimo!». Di sicuro c’è quello massimo, riservato a lei e ai suoi compari.

Nell’area socialista è partita la solita corsa a prendere le distanze , come se l’avidità e il lobbismo a favore dei mostruosamente ricchi fossero incompatibili con la loro parte politica, che ne ha invece sempre fornito amplissime testimonianze. L’aggravante di sinistra, se così si può dire, sta in quel non accontentarsi di adulare il finanziatore, ma nel volere trasformare persino l’adulazione a pagamento in una caricatura di battaglia progressista. Che consistano in questo i vantaggi del famoso «multipolarismo» decantato dagli esegeti del modello arabo, russo, indiano, cinese? Definire bieco e corrotto il capitalismo occidentale mentre si prendono le mazzette da quello degli altri.

Paolo Bracalini per ilgiornale.it il 12 dicembre 2022.  

Dalle sardine ai cavallini rampanti, il passo è breve e transita dalla politica. Si tratta di una battuta sbagliata, ma la foto (e il commento) pubblicata sui social da Mattia Santori, leader delle Sardine, non è stata particolarmente apprezzata. «Non ho fatto in tempo a mettermi la camicia che subito Stefano Bonaccini mi ha preso l'auto aziendale» scrive Santori pensando di essere ironico e postando una foto di lui, in abito e camicia visto il clima estivo di Dubai, con a fianco il governatore Stefano Bonaccini e dietro una fiammeggiante Ferrari gialla.

Un simbolo di lusso che non ci si aspetta dai rivoluzionari alla bolognese, dichiaratamente ispirati a ideali «di stampo gramsciano» (cit). Ora, a parte il fatto di essere a Dubai per l'Expo2020 in qualità di consigliere comunale Pd «con delega al turismo», a parte il fatto di essere a braccetto con il governatore, a parte il fatto di farsi la foto tamarra con le auto di lusso sullo sfondo, è tutto il quadretto che stona. I commenti al post glielo fanno notare in massa. «E brava la sardina! Questo ha capito tutto della vita. Vedrai che presto arriverà pure per te una poltroncina ben retribuita», «Passare dalle sardine al caviale è un attimo....», «Ma come è caduta in basso la sinistra», «Ma non avevi detto che non volevi entrare in politica?

Ti stai preparando per accomodarti, giusto? Tra sardine e tonno il posto è già bello che pronto», e via così. Al netto di alcuni che penseranno davvero che Santori avrà come auto di servizio una Ferrari, le altre critiche riguardano l'evoluzione (tipica) della sardina, da movimentisti a politici (ormai organici al Pd emiliano), una parabola già vista. Già un'altra volta Santori era inciampato in uno scatto infelice, quando si era fatto fotografare insieme a Luciano Benetton e Oliviero Toscani, un'immagine che scatenò un mare di polemiche e portò alla scissione di un gruppo romano di Sardine («Un errore politico ingiustificabile»).

Il movimento nel frattempo si è sgonfiato, qualche giorno fa all'anniversario del primo famoso raduno a Bologna, quando riempirono piazza Maggiore, non c'erano migliaia di persone, ma solo poche decine. «Non saremo mai un partito» ha detto Santori. Al massimo una corrente del Pd.

I rivoluzionari che pretendono il diritto al lusso. L'odiosa ipocrisia di chi predica l'inclusione facendo parte di un mondo esclusivo. Francesco Maria Del Vigo il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

C'è una grande confusione sotto l'altra metà del cielo. E più che quella delle donne, intendiamo quella delle professioniste del femminismo. Sono successe troppe cose, tutte insieme e in poco tempo. Troppe cose complicate da decodificare, digerire e poi spiegare a se stessi e agli altri, siano lettori o elettori. Per amor di sintesi elenchiamo i tre eventi principali di questa crisi: la vittoria del centrodestra e quindi l'ascesa di Giorgia Meloni a palazzo Chigi; lo scandalo che ha coinvolto l'onorevole Aboubakar Soumahoro e la moglie Liliane Murekatete, trascinando con loro tutto il mondo dell'accoglienza e del suo apparato ideologico; il Qatar-gate con il coinvolgimento, tra gli altri, della vice presidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili. Tre colpi che hanno fatto tremare anche le più solide certezze della sinistra più convinta della propria superiorità morale e, appunto, di genere.

Ieri, su Repubblica, si è esibita Concita De Gregorio, firma di punta della galassia politica che fonde il progressismo più chic con la difesa più radicale dei diritti delle donne. L'ex direttrice dell'Unità non si nasconde dietro una borsa di Louis Vuitton e, con coerenza, ammette subito la sua missione: difendere Liliane Murekatete. Tentativo più che legittimo, a patto di non sconquassare tutto il sistema di valori con il quale la sinistra per anni ci ha sconquassato le scatole. Cosa che puntualmente avviene. I due pilastri del pensiero della De Gregorio sono le basi della nuova sinistra dei diritti: cioè il diritto al lusso e il diritto all'esibizione del proprio corpo. Il primo teorizzato - con invidiabile coraggio - in diretta televisiva dall'onorevole Soumahoro e il secondo addebitato dalla giornalista a Chiara Ferragni. E potremmo anche fermarci già qui: perché se parlando di diritti siamo passati da Rousseau e Locke ai due sopraccitati, beh, qualche problema c'è, ci è sfuggita almeno una via di mezzo.

E ora, la De Gregorio, per difendere la passione di lady Soumahoro per borse griffate e foto sexy, la paragona proprio alla Ferragni, perché anche lei pubblica foto su Instagram con marchi di lusso e mutande bene in vista. Da queste colonne siamo sempre stati piuttosto severi con la regina delle influencer, ma cosa c'entra con Liliane Murekatete? Al netto di un certo insipido buonismo e uno spiccato qualunquismo vagamente di sinistra, la Ferragni non si è mai occupata di accoglienza e ha fatto i suoi (tanti) soldi nel nome del più spudorato capitalismo, senza nascondersi dietro il paravento dell'umanitarismo e soprattutto senza finire in torbide inchieste su milioni dispensati dallo Stato. Ma è diventata l'ultimo scudo dietro al quale i dem tentano di occultare le loro magagne. Un vizio antico, quello del doppiopesismo rosso. Sinistra al caviale, sinistra da ztl e comunisti col Rolex - per citare solo i più diffusi - non sono solo modi di dire e luoghi comuni. O meglio, nel tempo lo sono diventati, ma si basano su solide realtà fattuali. Per capire geograficamente dove vince la sinistra ormai non serve più consultare gli esperti di flussi elettorali, basta aprire immobiliare.it e cercare dove costano di più le case al metro quadrato. Il Pd, e i suoi cespugli sinistri, sono animali che abitano la fauna dei centri storici. Si sbracciano, dai loro salotti, per il proletariato, ma hanno l'orrore per le periferie proletarie, veleggiano su comode barche a vela - come il famoso Ikarus di D'Alema - lontano dai marosi del populismo e sopratutto del popolo. D'altronde l'ultimo comunista di successo di cui si abbia memoria è Fausto Bertinotti, uno che somigliava molto di più a un lord inglese che a un operaio di Mirafiori. E anche Olivia Palladino, compagna di Giuseppe Conte, neo avvocato degli ultimi, è già finita nel mirino del web per aver sfoggiato borse firmatissime: perfetta per essere la first lady della gauche.

Tra la sinistra e il lusso c'è sempre stato un grande feeling. E non ci sarebbe nulla di male, se non predicassero pauperismo per poi vivere come nababbi, se non detestassero il capitalismo salvo poi esserne ingranaggi oliatissimi, se non predicassero inclusività facendo parte di una della caste più esclusive. Il problema è solo uno: l'ipocrisia. Ultimo vero comune denominatore rimasto alla sinistra.

Alessandro De Angelis per “La Stampa” il 12 dicembre 2022.

In questa storiaccia, che annuncia uno scandalo gigantesco, di corruzione gozzovigliante - soldi nei borsoni che evocano la mazzetta gettata da Mario Chiesa nel water, padri in fuga col malloppo, mogli e figlie che prenotano vacanze faraoniche - peggio del denaro c'è solo la reazione balbettante della sinistra. Ed è proprio questa reazione, che col garantismo non c'entra nulla, a configurare il caso come un elemento di strutturale collasso politico e morale. Non il mariuolo o la classica mela marcia in un corpo sano.

Soumahoro e Panzeri, mutatis mutandis, ognuno con le sue signore, sono due volti dello stesso cinico modello: la disinvoltura, propria o familiare, agita dietro e grazie all'immagine pubblica di difesa dei diritti umani. Circostanza tale da rendere ancora più intollerabili quei comportamenti. 

A meno che il cronista non sia così limitato da non comprendere che non di cedimento morale si tratta, ma di diabolica e raffinata strategia posta in essere da chi, impegnato a criticare il capitalismo, quando si discute il Manifesto dei valori, adesso tace, da Articolo 1 al Pd: chissà, magari sembra corruzione ma è un modo per dissanguare i ricchi della terra, versione aggiornata al terzo millennio dell'esproprio proletario di cui Bruxelles è l'avamposto più avanzato.

Scherzi a parte, in questo assurdo dei principi, c'è chi arriva a consumare il reato senza neanche l'alibi ipocrita del "rubare per il partito", ma l'assenza di una messa a tema della questione morale, da parte dei vertici della sinistra, rivela un meccanismo omertoso generalizzato. Le cui radici sono nel fatto che "può capitare" a tutti, di ritrovarsi tra colleghi o famiglie altri Soumahoro o Panzeri, in un partito schiacciato sul governismo affaristico o dove il tesseramento è affidato ai capibastone.

E dunque, in un clima di appartenenza allo stesso consorzio politico-morale, nessuno ha la forza di difendere i valori, parola ridotta solo a chiacchiera nell'ammuina congressuale sui Manifesti. Accadde lo stesso con Nicola Oddati, responsabile delle Agorà di Enrico Letta, beccato a gennaio a Termini con 14mila euro in tasca, controllo non casuale perché da tempo la procura stava indagando per un presunto giro di favori con imprenditori: si dimise e finì lì. Come finì con la relazione Barca lo sforzo di rinnovamento del marcio partito romano, dopo Mafia Capitale.

In questo quadro si spiega la reazione della destra, tutto sommato misurata. Da un lato, da questa vicenda incassa il terreno ideale per una campagna contro le Ong; dall'altra preferisce (a sinistra) un gruppo dirigente condizionabile a una "piazza pulita" da cui nasca qualcosa di nuovo e insidioso. E non a caso il governo incontra D'Alema, gran consigliere di Conte e della sinistra Pd, nei panni di consulente di un gruppo di investitori qatarini pronti a competere per rilevare la raffineria di Lukoil a Priolo. La destra sa che questi dirigenti sono la sua polizza a vita.

(ANSA il 13 dicembre 2022) - Gli uffici dell'assistente dell'eurodeputato Pietro Bartolo all'Eurocamera di Strasburgo sono stati posti sotto sigillo, ha constatato l''ANSA. I sigilli sono stati apposti questa mattina, ha confermato una persona del suo staff.

Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2022.

Da una parte c'è lo sgretolamento totale e definitivo, sulla scia di Mafia Capitale e dei casi Mimmo Lucano e Aboubakar Soumahoro, del grande castello di ipocrisia creato dalla sinistra oltre quarant' anni or sono con la famosa "questione morale" di Berlinguer. Una roba che, va detto, per essere vista fin dall'inizio con diffidenza non richiedeva grandi sforzi. 

Bastava leggersi non il libro, ma l'ultima pagina della Fattoria degli animali di Orwell per avere le idee chiare: «Le creature volgevano lo sguardo dal maiale all'uomo, e dall'uomo al maiale, e ancora dal maiale all'uomo: ma era già impossibile distinguere l'uno dall'altro». Dove l'uomo era ovviamente lo spietato oppressore e il maiale l'intrepido rivoluzionario.

Ma gli effetti del Qatar gate non si abbatteranno, purtroppo, solo su quel mondo dei buoni e degli onesti a prescindere in cui la corruzione, il mercimonio e lo sfruttamento dei più deboli dietro lo scudo della presunta superiorità morale si sono alimentati e diffusi. 

Tra i molti danni collaterali del clamoroso traffico di mazzette finito nel mirino della giustizia belga tra lobbisti e parlamentari europei di area socialista, molti dei quali legati a doppio filo al nostro Pd (e ai suoi cespugli) sta iniziando a materializzarsi anche quello di una colossale colata di fango sull'intero Paese. 

Per carità, con il passar delle ore si moltiplicano gli appelli a circoscrivere l'accaduto alle persone coinvolte, per evitare che il discredito si allarghi a macchio d'olio. Anche la presidente dell'europarlamento Roberto Metsola ha provato, aprendo la plenaria di ieri tra le urla e le proteste, a spiegare che «questo scandalo non è una questione di destra o sinistra, non è questione di nord o sud».

Epperò nei corridoi dell'europarlamento iniziano a circolare con insistenza espressioni come "italian connection" o "italian job". Ad alimentare la convinzione che si sia trattato di «un colpo all'italiana», del resto, ci sono anche le indagini che, allargandosi, vedono sempre più connazionali coinvolti.

Illazioni e accuse sicuramente velate e dette a mezza bocca, ma non così trascurabili. Al punto che ieri sera persino Antonio Tajani ha sentito il bisogno di respingere pubblicamente l'attribuzione geografica ed antropologica della responsabilità dello scandalo.

«L'Italia», ha detto il ministro degli Esteri in un punto stampa al termine del consiglio degli Affari esteri a Bruxelles, «è un grande Paese: se ci sono dei parlamentari o degli assistenti che hanno commesso dei reati, sono questioni che riguardano le singole persone, non il sistema Italia, come non riguardano il sistema Parlamento». 

Insomma, la frittata è fatta. Dopo il mandolino, la pizza e la mafia ora gli italiani nel mondo dovranno anche giustificarsi di non andare in giro con borsoni zeppi di banconote ricevute da Paesi arabi per ripulirgli un po' il pedigree in materia di rispetto dei diritti civili e sindacali.

E, per ironia della sorte o, come dicono quelli che parlano bene, per eterogenesi dei fini, a svergognare l'Italia in Europa alla fine ci hanno pensato proprio gli amici di quelli che hanno passato gli ultimi mesi a raccontare che a fare figuracce oltreconfine, mettendo in imbarazzo tutto il Paese, sarebbe stato il nuovo governo. 

Le vicende sono troppo recenti per essere dimenticate anche da un popolo con la memoria corta come la nostra. «Questa destra ci porterebbe molto lontano dai valori europei»; «Meloni lavora per sfasciare l'Europa»; «Noi vogliamo un'Italia che conti in Europa». Solo per citare alcune dichiarazioni fatte dal segretario dimissionario del Pd, Enrico Letta, durante la campagna elettorale. Che poi sono le frasi più innocue.

Già, perché tra intellettuali, politici e media di area le accuse che volavano erano ben più pe santi. Comprese quelle sulla imminente demolizione dei diritti civili, a cui alcuni alti esponenti delle istituzioni Ue hanno persi no abboccato, sostenendo che avrebbero vigilato sulle azioni del nuovo governo.

E mentre gli occhi di Strasburgo e Bruxelles erano tutti puntati sul centrodestra postfascista, nemico degli immigrati, omofobo, anti immigrati, anti Pnrr, anti patto di stabilità e anti tutto, gli eurodeputati del Pd si riempivano tranquillamente le tasche di tangenti per difendere il Qatar.

La beffa delle beffe è degli ultimi giorni, con tutte le opposizioni impegnate a descrivere un governo amico degli evasori, dei riciclatori di denaro e di chi gira coi contanti in tasca intenzionato a commettere reati di ogni tipo. 

Salvo poi scoprire che il tetto a 5mila euro inserito in manovra non solo è la metà di quello proposto dalla Ue, ma anche infinitamente più basso della quantità di contante con cui circolano normalmente i "sinistri" finiti sotto indagine nell'inchiesta sul la Tangentopoli Ue. 

Ma non è finita. Della serie il lupo perde il pelo ma non il vi zio, nelle ultime ore i due contendenti per la segreteria del Pd, Elly Schlein e Stefano Bonaccini, hanno fatto a gara a prendere le distanze dallo scandalo Qatar.

«La vicenda è gravissima e ripugnante», ha detto la prima. «Se confermato sarebbe uno scandalo clamoroso», ha detto il secondo. Il sottinteso è che quella ro ba appartiene al vecchio e marcio Pd, non al nuovo che si apprestano a guidare e rifondare. In altre parole, la superiorità morale vale ancora, ma solo per chi li vota.

La superiorità morale del Pci, storia di un tragico equivoco. Giovanni Vasso su L’Identità il 15 Dicembre 2022

I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero”. No, non è un post social di uno dei tanti populisti del web che si scagliano contro ciò che è diventata la sinistra. No, questa frase, che oggi farebbe suonare le sirene democratiche, è stata pronunciata da Enrico Berlinguer e raccolta da Eugenio Scalfari in quell’intervista, ormai mitologica, sulla “questione morale” nella politica italiana. Era il 28 luglio del 1981. “La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss”. Forse sono parole troppo dure, eppure la descrizione che Berlinguer fece quarantadue anni fa della Dc e (soprattutto) del Psi, che stava erodendo consensi ai comunisti, non è molto lontana dalla percezione che gli italiani hanno del (fu?) maggior partito della sinistra italiana che oggi sprofonda, letteralmente, nei sondaggi. La superiorità morale dei comunisti, più che un fatto politico è stato un dogma, una verità di fede, un preciso schema strategico. Tutti rubano, tranne il Pci. Tangentopoli avrebbe dovuto dimostrarlo, la sinistra italiana venne soltanto lambita dall’ondata di avvisi di garanzia che, invece, travolse il Psi di Bettino Craxi. “Ora legale, panico tra i socialisti”, fu il titolo non solo di un giornale ma di una stagione politica. Di Primo Greganti si parlò poco, così come del dossier Mitrokhin e dei rubli da Mosca, mentre infuriava, sulla parte avversa, la polemica Gladio. Achille Occhetto per un attimo ci aveva creduto: i Progressisti avrebbero portato, finalmente, l’onestà al potere. Arrivò Berlusconi nel ‘94, e vinse lui. Aprendo una nuova stagione in cui la sinistra, con il pio e dimesso Romano Prodi, si poneva come argine morale alla decadenza tele-bizantina di cui il Cav sarebbe stato simbolo e causa insieme. Finì anche quella stagione. E gli ex comunisti col santino di Berlinguer in tasca e la Santa alleanza con i democristiani (“buoni”, come scrive Paolo Cirino Pomicino) della Base, si scordarono di badare alla profezia di un grande socialista, Pietro Nenni: “A fare i puri, prima o poi, si trova uno più puro che ti epura”. Arrivò Beppe Grillo e il Vaffa day nel 2008. Fu respinto. Nacque il M5s su gentile (e auto-jettatorio) invito di Piero Fassino. Raccolse l’eredità dei puri, degli onesti, appropriandosi, nel 2018, di tutte le roccheforti che furono rosse. Cinque anni dopo, la parabola era già finita. Ma Giuseppe Conte, piuttosto che rintanarsi sulla questione morale, è sceso in campo agitando le ragioni dei ceti più poveri e del Sud. Gli fecero il funerale, ridacchiando di lui. Oggi si ritrova la possibilità di diventare lui il maggior partito di sinistra in Italia. Enrico Letta, puntando tutto sull’antifascismo, vecchio richiamo della foresta e insieme tentativo di aggiornare la questione morale inquadrandola su base ideologica, ha fallito. Il Pd deve cambiare ma con Bonaccini e la sua vice Schlein già è sotto il 15% dei sondaggi. 

BONIFEI: “Il Pd ha la schiena dritta da Soumahoro a Panzeri serve pulizia e trasparenza”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 15 Dicembre 2022

Siamo i primi a pretendere chiarezza e trasparenza”. A dirlo Brando Benifei, capodelegazione del Partito Democratico al Parlamento Europeo.

La vicenda del Qatar tocca più di qualcuno del Pd. Non Benifei, ma diversi suoi colleghi hanno avuto rapporti con queste persone. Lei non sapeva nulla di tutto ciò…

No, e non vedo come avrei potuto saperlo. Come Partito Democratico ci costituiremo parte lesa nel processo che ora si terrà in Belgio, ed esigiamo la massima chiarezza su una vicenda dai contorni che appaiono assolutamente vergognosi.

Se i parlamentari del vostro gruppo non c’entrano niente, è mai possibile che non sapessero cosa facessero i loro collaboratori?

Gli assistenti parlamentari sono figure di altissima professionalità, che hanno competenze sul fronte legislativo e fanno un lavoro di studio e approfondimento sui dossier. Come potevano alcuni eurodeputati pensare che tra queste figure vi fosse qualcuno che agiva per interessi particolari o corruttivi?

Tutta questa vicenda rischia di penalizzare il vostro partito?

Il Partito Democratico ha dimostrato con i fatti di aver tenuto la schiena dritta sulla questione dei diritti umani in Qatar. Su questo non possono esserci ambiguità di giudizio, parlano i nostri voti e le nostre interrogazioni.

De Magistris dice che non si tratta di qualche mela marcia, ma di un vero e proprio sistema…

Non accetto che passi l’idea che il Parlamento Europeo si sia lasciato corrompere. Se ci sono state influenze su qualcuno si faccia luce rapidamente. Proprio noi abbiamo voluto che il Parlamento Europeo aprisse, anche con una apposita Commissione Speciale, che ha lavorato in questo anno, una vera riflessione sulle influenze e gli attacchi alla democrazia europea da parte di Stati esteri, come la Russia di Putin.

A più riprese ha detto che è solo colpa delle destre. Perché?

Non ho detto che è “solo” colpa delle destre, ma è un fatto che i Socialisti e Democratici siano la forza politica che ha sempre voluto e votato per istituire un organismo indipendente sulle questioni di etica pubblica nelle istituzioni europee e maggiori restrizioni per i lobbisti, mentre i gruppi politici di destra si sono opposti. Ora cambino idea e supportino con noi la richiesta per una commissione d’inchiesta sui fatti di questi giorni.

Cosa vi distingue dalle destre?

Oltre a quanto già detto, ricordo che la destra italiana ed europea non ha votato gli emendamenti di maggiore condanna al Qatar sostenuti dal Partito Democratico e presentati dal gruppo della Sinistra. In questi anni quante volte siamo stati solo noi a spingere per vincolare gli accordi commerciali, a migliori risultati sul tema della tutela dei diritti umani.

Quanto è importante la questione morale nella vicenda e soprattutto che idea avete oggi su Doha, i mondiali e quanto accade a quelle latitudini?

La nostra posizione è sempre stata la stessa: la delegazione che guido al Parlamento Europeo ha tenuto, sin dall’inizio, una linea molto dura nelle votazioni sul Qatar, supportando anche emendamenti fuori dall’accordo principale fra i gruppi politici per essere ancora più netti sulla condanna delle violazioni dei diritti dei lavoratori e della comunità LGBTQ, tema su cui ho anche presentato una successiva interrogazione chiedendo a Borrell di richiamare il nostro Ambasciatore Ue presso il Qatar.

Non ritiene che il Pd, così come le altre forze, debba prestare più attenzione quando sceglie collaboratori e staff?

Mi preoccuperei piuttosto di regolare in modo più stringente le attività degli ex parlamentari, di qualsiasi colore essi siano. Dobbiamo mettere fine al fenomeno delle porte girevoli o di attività usate come paravento. L’ex Presidente della Commissione Barroso è andato a lavorare dopo pochissimo tempo dal termine del suo mandato per la Goldman Sachs, su queste storie c’è stato sempre troppo lassismo. E in questo specifico caso, l’idea stessa che si possa lucrare sulla lotta per i diritti umani mi suscita un profondissimo sdegno.

Come pensate, intanto, di interagire con chi ha come unico fine quello di fare chiarezza su tutto ciò?

Rispondendo nel merito e con i fatti. Siamo i primi a pretendere chiarezza e trasparenza, è il nostro lavoro che viene danneggiato da queste vicende.

In politica può capitare di sbagliare. Occorre, però, determinazione nel prendere le distanze da certi atteggiamenti. Basti pensare al caso Soumahoro, dove c’è molta ambiguità. Questa volta sarà tracciata una linea netta?

L’abbiamo già tracciata e continueremo a farlo, penso che questo scandalo sia l’occasione per migliorare e rendere molto più forte la nostra democrazia europea, non c’è alternativa.

Il Pd fiaccato dagli scandali ora rivuole il finanziamento pubblico. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 16 dicembre 2022

La teoria ha un certo fascino: se oggi il finanziamento pubblico ai partiti non c'è più; se i giornali di partito sono rimasti senza soldi e hanno abbassato le serrande; se la figura dei funzionari di partito- nell'impossibilità di pagar loro gli stipendi- si è praticamente estinta; se, in sintesi, per chi fa politica la poltrona di parlamentare è l'unica possibile fonte di reddito, allora è da ipocriti scandalizzarsi se c'è qualcuno che, per mettersi in sicurezza, si mette a fare il lobbista, nella migliore delle ipotesi. O incassa tangenti, nella peggiore.

Il naturale corollario della tesi è il seguente: ritorniamo ai contributi statali e non avremo più scandali come il «Qatargate» che sta facendo tremare la sinistra. Ragionamento suggestivo, come detto, e finanche condivisibile. Se non fosse per due particolari. Il primo è che la corruzione c'era anche prima, quando i partiti erano generosamente foraggiati dal bilancio pubblico. E, d'altronde, il referendum del 1993 sull'abolizione del finanziamento ottenne un sì plebiscitario (90%) proprio sull'onda del più celebre di quegli scandali, Tangentopoli.

La seconda obiezione, invece, sta nel fatto che fu la medesima sinistra a schierarsi per lo stop ai fondi statali. Prima cavalcando il referendum del 1993, poi abolendo - con il governo Letta nel 2013 - anche i rimborsi elettorali che ne avevano preso il posto.

Eppure sono stati due esponenti del Pd non certo di secondo piano- il vicesegretario Giuseppe Provenzano e Gianni Cuperlo, in procinto di candidarsi alla segreteria- a indicare nella fine del finanziamento pubblico il padre di tutti i mali. Ed è stato incardinato al Senato un ddl per reintrodurlo firmato dal senatore Dem Andrea Giorgis. «Se sopprimi ogni forma di finanziamento della politica argomenta Cuperlo - rimanere nelle istituzioni diventa il traguardo a cui non puoi rinunciare. I soldi gli strumenti per conservare lo status. Le responsabilità sono sempre personali, ma paghiamo anche gli errori di questi anni, a partire dalla selezione dei gruppi dirigenti.

C'è il ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Chi non è nelle istituzioni non esiste». «Se negli anni passati - aggiunge Provenzano all'Huffington Post un'intera classe dirigente non ha avuto le palle, scusi il termine, per opporsi al vento populista, se siamo stati noi ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti, allora vuol dire essere pronti a rinunciare al "professionismo della politica". È un errore, a mio avviso».

Dai rimborsi ai rimorsi il passo è breve. Male obiezioni restano. La prima: la battaglia culturale sul finanziamento pubblico non era il caso di farla quando la decisione di abolirlo fu presa? Ora che i buoi sono scappati non è tardi per chiudere il recinto? E ancora: come conciliano Cuperlo e Provenzano l'improvvisa sterzata anti -populista con l'auspicio a riallacciare i ponti col M5S, il «partito» più populista e anti -casta di tutti? E, infine, dopo giorni di imbarazzato silenzio, davvero l'unica riflessione arrivata da sinistra sul «Qatargate» (e sul caso Soumahoro) è sulla necessità di reintrodurre il finanziamento pubblico? Che fine ha fatto la questione morale? E il tradimento ideale di chi ha sfruttato il «bene» (le coop e le ong) per fare il «male» (corruzioni e tangenti)? E il fatto che lo scandalo abbia colpito solo la sinistra e non la destra? Davvero si può ridurre tutto questo all'assenza di contributi statali? Davvero si rimetterà tutto a posto con quello che Provenzano chiama «l'elogio del funzionario di partito»? Per il Pd, evidentemente, sì. Caso chiuso, compagni.

Da iltempo.it il 15 Dicembre 2022.

Maria Giovanna Maglie umilia il capo delegazione Pd in Ue Brando Benifei. Rilanciando un post dell'account non ufficiale della Lega esteri che riporta l'intervista di Benifei a La Stampa, Maglie esprime il suo parere sulle dichiarazioni rilasciate dal dem europeo. 

"Ridicolo". Il big Pd finisce nel mirino di Maglie, fucilato con una parola

Nell'intervista al quotidiano torinese Benifei prova ad accusare la destra sullo scandalo Qatargate. "Se il Parlamento europeo rischia dei casi di corruzione è colpa della destra che ha sempre bloccato norme più rigide sul tema" dice l'eurodeputato nell'attacco dell'articolo. Non solo. Benifei non esprime una forte condanna nei confronti dell'ex eurodeputato Antonio Panzeri, arrestato con l'accusa di aver preso soldi dal Qatar per influenzare il Parlamento Ue, e punta invece il dito sulla destra perché "hanno un numero di persone inquisite e condannate veramente elevato, anche in Italia". Poi Benifei si lancia in un surreale attacco frontale alla Lega: "Questa vicenda ci scandalizza, ci poniamo il problema di risolvere queste cose, mentre a destra non capisco quanto ad esempio è stata presa con serietà la vicenda dei 49 milioni della Lega o altre gravi vicende giudiziarie". E di fronte a questo tripudio di assurdità Maglie risponde a tono, in modo conciso e calzante come è nel suo stile fare: "Che faccia di..."

Qatargate, "dire che tutta la sinistra è di mazzettari..." Bocchino sbotta e zittisce Padellaro. Giada Oricchio su Il Tempo il 15 dicembre 2022

Il Qatargate scuote il Parlamento europeo e la sinistra. Lo scandalo su un vorticoso giro internazionale di tangenti, con cui il Paese qatariota ha corrotto esponenti del Parlamento UE allo scopo di ottenere appalti, interferire e condizionare le scelte europee, si preannuncia una valanga giudiziaria (sarebbero almeno 60 i deputati coinvolti, nda). Se ne parla a “Otto e Mezzo”, il talk preserale condotto da Lilli Gruber su La7, giovedì 15 dicembre.

Il direttore del Secolo d’Italia, Italo Bocchino, ha condannato senza se e senza ma. “Tutto questo mi fa schifo tre volte. Mi schifo e basta. Mi fa schifo perché queste persone sono state trovate con pacchi di soldi a casa in un modo ignobile e mi schifo perché si sono venduti sui diritti umani, un valore che la sinistra rivendica”.

Al momento, i magistrati belgi hanno fatto arrestare per corruzione Antonio Panzeri, ex parlamentare Pd e Articolo Uno, l'ex vicepresidente dell’Europarlamento, Eva Kaili, eletta nelle liste del Movimento socialista panellenico e il compagno. E questo dà modo a Bocchino di affondare il colpo: “E’ la pietra tombale sulla superiorità della sinistra”.

L’affermazione ha indispettito l’ex direttore de “Il Fatto Quotidiano”, Antonio Padellaro: “La storia della superiorità è una fesseria che non so chi ha inventato… siamo di fronte a una serie di personaggi presi con le mani nella marmellata, ma da qui a coinvolgere un’intera classe dirigente della sinistra no! I dirigenti sono onesti e perbene, è inaccettabile dire che a sinistra sono tutti mazzettari”.

L’ex deputato di Forza Italia ha insistito: “Io non ho detto che sono tutti mazzettari, ho detto che ci sono mazzettari di sinistra con 600mila euro nei trolley che volevano spiegare all’Europa che i diritti umani in Qatar erano perfetti. Questo fa schifo. Ci sarà almeno una ‘culpa in vigilando’? Una sbagliata selezione della classe dirigente? Almirante e Berlinguer non avrebbero mai permesso a personaggi simili di varcare la soglia del loro partito”.   

Francesca Basso per il “Corriere della Sera” il 15 Dicembre 2022.

Le risoluzioni d'urgenza del Parlamento Ue sui diritti umani diventano un caso e si accende un faro sull'accordo sull'aviazione del 2021 tra Ue e Qatar. Tutte le iniziative del Parlamento Ue che riguardano i Paesi del Golfo suscitano ormai sospetto. 

Il Ppe ha deciso «di non partecipare a nessuna preparazione, negoziazione, discussione o votazione in plenaria nel contesto delle risoluzioni d'urgenza» alla luce delle indagini penali in corso «estremamente preoccupato per l'integrità delle posizioni di politica estera del Parlamento Ue espresse nelle risoluzioni d'urgenza».

La decisione del Ppe ha effetto immediato e sarà annunciata in plenaria domani. La decisione non è stata apprezzata da Renew Europe che su Twitter ha spiegato che «il silenzio del Parlamento Ue sulle violazioni dei diritti umani è esattamente ciò che le tangenti del Qatar miravano a ottenere. Noi a Renew Europe siamo determinati a continuare a gridare le atrocità». La replica sempre via social del Ppe è stata che «nulla impedisce al Parlamento di denunciare le violazioni dei diritti umani attraverso la commissione per gli Affari esteri». 

Il Ppe è finito ieri al centro della polemica per il suo eurodeputato ceco Tomá Zdechovský, presidente del gruppo Friends of Bahrain al Parlamento Ue, che il 13 dicembre ha presentato una mozione per una risoluzione sul caso del difensore dei diritti umani Abdulhadi Al-Khawaja in Bahrein.

Su Twitter Maryam Al-Khawaja, figlia dell'attivista condannato all'ergastolo nel 2011 durante la repressione delle proteste, ha contestato a Zdechovský «la sua relazione e i viaggi pagati in Bahrain con il governo». E la danese Karen Melchior ha chiesto a Zdechovský di farsi da parte. 

Nella conferenza dei presidenti di lunedì il Ppe aveva proposto di non presentare la risoluzione sul Bahrain, come elemento di garanzia ma dopo un acceso dibattito, dietro pressione di liberali, socialisti e Left, i gruppi hanno deciso di procedere. C'è chi ha osservato che la mozione non chiedeva nemmeno la scarcerazione di Al-Khawaja. 

Faro acceso anche sull'accordo firmato nel 2021 tra Ue e Qatar per aggiornare le regole per i voli tra il Paese del Golfo e l'Unione, che è già applicato ma deve essere ratificato dagli Stati membri, quindi dall'Ue ma con il consenso del Parlamento Ue (per completare il processo ci vorranno dai 5 ai dieci anni).

L'intesa prevede per le compagnie aeree del Qatar la possibilità di operare voli diretti in qualsiasi aeroporto dell'Ue e viceversa. Ieri l'eurodeputata della Left Leïla Chaibi ha presentato un emendamento che aggiunge la sospensione dell'accordo Ue-Qatar al punto 14 della risoluzione che vota oggi il Parlamento in cui si chiede la sospensione di «tutti i lavori sui fascicoli legislativi relativi al Qatar, specie per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti e visite programmate, fino a quando i sospetti non saranno confermati o respinti».

Eurotangenti, il ruggito del Ppe: «Non è un Qatargate, ma uno scandalo socialista». Valerio Falerni su Il Secolo d’Italia il 15 Dicembre 2022.

Lo scandalo delle eurotangenti fa scricchiolare la cosiddetta “maggioranza Ursula” in auge a Strasburgo e a Bruxelles. A rompere la tregua è un ruggente tweet con cui il Ppe ha deciso di parlare il linguaggio della chiarezza. «Dobbiamo affrontare questa ipocrisia – vi si legge -: il gruppo dei socialisti, “il più santo dei santi” è l’epicentro del Qatargate ed è ora che siano ritenuti responsabili. Le loro lezioni sullo stato di diritto si sono ora dimostrate ipocrite». Della serie: pane al pane e vino al vino. Il tutto a poche ore dal voto dell’Eurocamera sul testo unitario di condanna dell’eurocorruzione. Probabilmente, a consigliare al Ppe di rompere la tregua con i socialisti è stato il timore di un giudizio forfettario sull’accaduto.

Tweet dei Popolari incrina la “maggioranza Ursula”

Da qui la decisione di passare all’attacco. «C’è stato uno sforzo costante per trasformare il Qatargate in una questione esclusivamente istituzionale – si legge ancora nel tweet -. Ma questo scandalo non è orfano. Non è apparso dal nulla. Non è successo da solo. Ha un nome. Ha un indirizzo. E questo è il gruppo S&D». E a beneficio di chi eventualmente non avesse capito, il Ppe ha allegato una foto che riporta la scritta «non è il Qatargate ma uno scandalo S&D». La sortita dei Popolari europei interessa moltissimo anche il nostro Paese, che rischia di veder classificato come italian job lo scandalo qatariota.

Ma il Qatargate non è neanche un italian job

Inutile rimarcare che a tanto contribuisce anche parte della nostra stampa mainstream. Ma è uno scandalo socialista. Del resto, tutto ruota intorno alle ong. Le stesse che, come ha spiegato agli inquirenti uno degli arrestati, Francesco Giorgi, «servono a far girare i soldi». I soldi della corruzione, per l’appunto. Vale per i diritti umani in Qatar, vale per l’accoglienza dei migranti (vedi suocera di Soumahoro), vale per le coop (vedi il Buzzi di Mafia Capitale: «Rendono più della droga»). Un sistema, insomma, da sempre incarnato nella sinistra. Ecco perché ha ragione il Ppe a dire che il pasticciaccio brutto di Bruxelles «non è un Qatargate». Né, aggiungiamo noi, un italian job.

Estratto dell’articolo di Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 15 Dicembre 2022.

[…] L'arresto di Antonio Panzeri ha scoperchiato uno scandalo che ha per protagonisti sindacalisti, politici e persone di sinistra che avrebbero dovuto difendere i diritti dei lavoratori e invece accettavano (tanti) soldi (dal Qatar e non solo) per convincere l'Europarlamento che i 6 mila operai morti nei cantieri dei Mondiali (fonte The Guardian) erano uno scherzo […]

[…] temo che questa storia di corruzione sia una conseguenza patologica dell'affarismo praticato da anni da una parte della sinistra italiana. 

Panzeri è cresciuto nel Pci come fedelissimo di Massimo D'Alema ed è politicamente figlio di quel Filippo Penati che era stato sindaco Pci di Sesto San Giovanni e poi, da presidente della Provincia di Milano, decise di comprare (con soldi pubblici, e a caro prezzo) dal costruttore e re delle autostrade Marcellino Gavio la maggioranza della Milano-Serravalle. Gavio incassò 238 milioni, vendendo a 8,93 euro azioni che solo diciotto mesi prima aveva pagato 2,9 euro e realizzò una plusvalenza di 176 milioni.

Penati dissanguò le casse della Provincia per acquistare una autostrada che […] era già a maggioranza pubblica. […] Gavio utilizzò una parte di quelle plusvalenze (50 milioni) per appoggiare le scalate dei "furbetti del quartierino", sostenendo Giovanni Consorte, il presidente di Unipol (la compagnia d'assicurazioni delle coop rosse, legata al vecchio Pci), nella sua scalata alla Banca nazionale del lavoro.

E Penati fu premiato da Pier Luigi Bersani che lo chiamò a diventare il capo della sua segreteria politica. In quella stessa, cruciale estate del 2005, Piero Fassino, allora segretario dei Ds, telefonò a Consorte (intercettato) e gli pose la domanda destinata a entrare nella storia politica italiana: "Allora, abbiamo una banca?". Era la Bnl, che Consorte credeva di aver conquistato.

[…] Bersani chiama "la Ditta" quel gruppo politico proveniente dal Pci […] "La Ditta" […] connota un gruppo in cui la lunga pratica del potere e la consolidata abitudine a governare hanno avuto l'effetto di saldare la politica con gli affari. Con il rischio di far via via prevalere gli affari sulla politica. […]

Mozione Qatar. Il grande imbarazzo sulla nuova questione morale della sinistra. Mario Lavia su L’Inkiesta il 14 Dicembre 2022

Prima di trarre conclusioni bisogna aspettare le sentenze, ma la storia dei politici progressisti di Bruxelles merita comunque un chiarimento da parte dei leader vecchi e futuri del Pd e di Articolo 1

Nel tardo 1989, in una drammatica riunione del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca uno degli esponenti più autorevoli di quel partito, intervenne senza giri di parole: «Ligato è un uomo nostro, non possiamo tacerne». Ludovico Ligato era il presidente del Ferrovie, democristiano, ucciso nell’agosto di quell’anno per motivi mai chiariti.

Scalfaro contestava il silenzio dei suoi amici democristiani perché «è un uomo nostro» ma non ebbe successo e il silenzio perdurò. Ecco, la cosa che certe volte fa più paura è questo, il silenzio. Che può significare due cose: o è vergogna o è instupidimento.

Enrico Letta ha chiesto doverosamente chiarezza e annunciato che il Partito democratico si costituirà come parte lesa. Bene. Ma non ci ha detto minimamente come sia stato possibile uno schifo del genere nella sua famiglia politica. Qualcuno anzi si scoccia pure e si dice «incazzato».

Se sono incazzati loro figuriamoci gli elettori. Ci fosse uno che abbia chiesto scusa (premettendo alle scuse l’estenuante ma giusto richiamo al garantismo), che abbia detto una cosa tipo «non ce ne siamo accorti, era una così brava persona», come dicono quelli del piano di sotto quando arrestano l’inquilino del piano di sopra.

E allora: Antonio Panzeri è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Partito democratico e infine Articolo Uno per decenni. «È un uomo nostro»: la frase di Scalfaro non l’ha detta nessun dirigente. È possibile, per quanto inquietante, che nemmeno uno si sia accorto della personalità di costui, forse di un probabile cambio del suo tenore di vita, che so, di un qualche cosa che non quadrasse con il cliché di ex sindacalista votato alla causa dei lavoratori di tutto il mondo, segnatamente, da ultimo, del mondo arabo.

I vari europarlamentari del Partito democratico di questi anni non lo hanno frequentato? Gli assistenti, che a Bruxelles lavorano ora per uno ora per l’altro, non hanno notato nulla? Così come è possibile, anche se allucinante, che i socialisti europei, e in particolare greci, non si siano mai accorti di che tipetto fosse Eva Kaili, una compagna talmente capace da essere eletta vicepresidente dell’Europarlamento su designazione dei socialisti. È possibile, anzi è probabile, che nessuno avesse sospettato alcunché. Ma allora sono tutti degli sprovveduti, dei tontoloni, degli addormentati.

Tra tante persone intelligenti e oneste non uno che avesse rizzato le antenne: un tempo, dispiace dirlo, a sinistra non funzionava così. C’erano gli anticorpi. A partire dalla sensibilità dei dirigenti.

Si dice: le mele marce ci sono sempre. Sì, ma qui sta emergendo un sistema, una rete che probabilmente è stata pazientemente intessuta per anni. Al di là dei luoghi comuni, che dice Pier Luigi Bersani, ex segretario del Partito democratico e leader morale di Articolo Uno che si appresta a rientrare nel Partito democratico? L’arrestato non era un uomo suo? Ha parlato Matteo Renzi, come al solito polemico: Panzeri «se ne andò dal Partito democratico perché diceva che io ero contro i valori della sinistra. Ma quali erano questi valori?».

Renzi era segretario del Partito democratico quando nel 2014 Panzeri venne ricandidato, ma giova ricordare che le liste elettorali sono lottizzate tra le correnti ed è difficile che una corrente metta il becco sulle scelte delle altre: e anche questo nel Partito democratico ci sarebbe da correggere. E Articolo Uno, un partito così piccolo, non si accorge che c’è del marcio a Bruxelles che origina da un suo esponente? Nessuno se n’è accorto ma è proprio questo che sotto il profilo politico preoccupa.

Si aspettano i risultati delle indagini, com’è giusto, e poi dei processi, ma pare veramente difficile a questo punto pensare che si tratti di un errore giudiziario, visto che ci sono personaggi, come il padre della ex vicepresidente greca, che scappano con il bottino; e va sempre ricordato che le responsabilità penali sono personali.

Le responsabilità politiche però no, sono collettive. Sono dei partiti, Partito democratico e Articolo Uno che ormai è nel Partito democratico. Stefano Bonaccini ha ricordato Enrico Berlinguer e la questione morale: solo che ora la questione morale è un problema della sinistra. Quella sinistra che ha il dovere di capire e di spiegare come sia stata possibile questa roba soprattutto per rispetto dei suoi elettori, già frastornati dalla crisi di questi mesi a cui si aggiunge adesso la vergogna di «un uomo nostro» al centro di uno scandalo internazionale. Il grande silenzio è la risposta peggiore.

È fin troppo facile, vista l'implicazione di una parlamentare greca nel cosiddetto affare Qatar, evocare la figura della nemesi. Marco Gervasoni il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È fin troppo facile, vista l'implicazione di una parlamentare greca nel cosiddetto affare Qatar, evocare la figura della nemesi. Ma così è. Pensiamoci: l'area politica socialista che, dal crollo del Muro di Berlino in poi, per sostituire una nuova utopia con quella appena morta, è stata la più fanatica sul piano dell'europeismo, sposato con i diritti e il secolarismo multiculturalista, è anche quella che sta danneggiando maggiormente non solo il sogno europeo, come tale irrealizzabile, ma anche la Unione Europea reale. Le banconote di decine di migliaia di euro in casa di parlamentari, ex parlamentari, loro collaboratori; le ong, le sacre ong, utilizzate come organizzazioni di raccolta fondi per spese sembra personali, le vacanze a 9 mila euro, paiono uno scenario che neppure i brexiters più scatenati, i Nigel Farage, le Le Pen e i Salvini di un tempo, avrebbero potuto costruire, nella loro propaganda per l'uscita dalla Ue e dall'euro. E oggi ancora, a gongolare è Orban, che può accusare di ipocrisia il Parlamento europeo, promotore, non senza ragione, di mozioni per condannare la corruzione e la violazione dello stato di diritto in Ungheria. Violazioni certo presenti, ma se poi paragoniamo Budapest a Doha, Orban ne esce come un seguace di Soros.

Non ultimo, l'effetto negativo è anche nei confronti della Russia, la cui propaganda ora afferma di non voler prendere lezioni da un'entità corrotta come la Ue - benché un europarlamentare Pd, non indagato, ma lambito, sia anche uno di quelli che vota regolarmente pro Putin da quando è iniziata la guerra.

Come scriveva nell'editoriale di ieri il Financial Times, «che regalo agli anti europeisti», tanto più che il parlamento si presenta come «la coscienza morale dell'Europa». Certo, siamo tutti garantisti, anzi lo siamo più noi degli esponenti del Pd, che fingono di non conoscere figure elette per diverse legislature e prestigiosi esponenti del loro gruppo, il Pse. Ma certo, i socialisti dovrebbero chiedersi perché i paesi arabi abbiano puntato soprattutto su di loro: la risposta, tra le tante, è che mai nessuno, come loro, ha sviluppato un rapporto cosi forte con l'Islam, con tutto il correlato di tolleranza verso l'immigrazione clandestina e legami con le ong. E chi ha fatto crescere maggiormente l'Islam nelle società europee, se non sindaci e premier di partiti del Pse? Insomma, come nell'antica tragedia, la nemesi non è cieca e finisce sempre per colpire laddove deve.

Superiorità morale, così crolla la bugia. L'opera di corruzione del Qatar nel Parlamento europeo per favorire una sorta di amnesia collettiva - e istituzionale - su come i diritti umani vengono calpestati in quel Paese, ha avuto un unico interlocutore e protagonista: la sinistra. Augusto Minzolini il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

A volte si rimuovono il passato e le proprie convinzioni ideologiche ed etiche in un batter d'occhio. Con un colpo di spugna si cancella dalla memoria ciò che si è predicato per mezzo secolo. L'opera di corruzione del Qatar nel Parlamento europeo per favorire una sorta di amnesia collettiva - e istituzionale - su come i diritti umani vengono calpestati in quel Paese, ha avuto un unico interlocutore e protagonista: la sinistra. Questo, almeno per adesso, è un dato di fatto. E solo ora, in assenza di una linea di difesa credibile, il commissario europeo Paolo Gentiloni, ex premier del Pd, ammette: «Penso che la sinistra abbia riconosciuto che comportamenti di corruzione non sono appannaggio della destra o della stessa sinistra. I corrotti sono di destra e di sinistra».

Ragionamento che non fa una piega, perché l'onestà, come la corruzione, non ha colore. Purtroppo, però, la sinistra, in tutte le sigle cangianti con cui si è presentata negli anni, ha sempre teorizzato il contrario. È sempre vissuta, da Enrico Berlinguer in poi, nel mito della propria diversità, pardon della propria superiorità morale. Un totem che ora viene drasticamente meno. Ciò che è avvenuto a Strasburgo, infatti, mette fine ad una rendita di posizione di cui per decenni ex-comunisti, cattocomunisti, sinistra democristiana, ds, margherite, ulivi e partiti democratici o articoli uno, hanno sempre beneficiato, coltivando un'illusione - o una maleodorante bugia: quella che gli schieramenti politici non si formano sulle idee, ma sull'etica.

Ora è rimasto solo qualche Savonarola da strapazzo a teorizzarlo. Anche perché accettare mazzette da chi considera nel proprio Paese la vita e la libertà delle persone meno di niente mentre si mettono in piedi Ong per la difesa dei diritti umani, dimostra che tutto è in vendita: ideologia, coscienza e anima. Qualcuno ha fatto il paragone con Tangentopoli, ma neppure questo calza, perché la maggior parte degli indagati e dei condannati di allora fu mandato al «patibolo morale» per finanziamento illecito ai partiti, cioè le mazzette nella maggior parte dei casi - non tutti, perché i mascalzoni ci sono sempre stati - servivano a tenere in piedi un'attività politica, cioè coltivare nella società idee, appunto, di centro, di destra o di sinistra. Qui, invece, il paravento degli ideali di libertà e di rispetto della vita umana servono solo a consegnare le vittime che, sulla carta, si difendono ai carnefici. Appunto, si vende l'anima al diavolo.

Per cui non c'è alibi, motivazione, ragione che in questo caso possa coprire il marcio. Questa vicenda è la pietra tombale sulla diversità della sinistra perché la corruzione investe l'ultima bandiera di quel mondo, cioè la difesa dei diritti umani, delle libertà e del rispetto dei lavoratori, le battaglie su cui partiti e sindacati si sono concentrati, dall'immigrazione alla lotta contro le autocrazie. Ma c'è anche un elemento simbolico da non trascurare. La storiaccia è ambientata in un posto che la sinistra ormai da anni ha eletto a luogo sacro contro il populismo e il sovranismo: il Parlamento europeo. E, invece, grazie ai nuovi farisei che oggi si alimentano di «retorica europeista» come ieri di «questione morale», i mercanti hanno violato il tempio.

Il bianco e il nero. "Qatar? A sinistra finalmente sono 'normali'.." "Una vicenda ininfluente" Il caso Qatar e il caso Somahoro hanno sconvolto la sinistra. Ecco le opinioni dei sondaggisti Nicola Piepoli e Antonio Noto. Francesco Curridori il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il caso Qatar e il caso Somahoro hanno sconvolto la sinistra. Per la rubrica il bianco e il nero abbiamo raccolto le opinioni dei sondaggisti Nicola Piepoli e Antonio Noto.

La vicenda delle mazzette arrivate dal Qatar quanto danneggia il Pd e la sinistra?

Piepoli: “Il danno lo hanno ricevuto dalle elezioni, non dal Qatar. Si sono disfatti, hanno lottato per perdere e hanno perso. Di questa vicenda mi vien da dire solo questo: ‘Finalmente sono normali, rubano anche loro’. Che, poi, è ciò che pensa anche l’opinione pubblica. Pensa che sono normali filibustieri, altro che ‘sacre ruote del carro della vita’. E, in effetti, personalmente, ritengo questa una vicenda normale e priva di qualsiasi rilevanza politica”.

Noto: “Il Pd è in calo da mesi. Dalle elezioni a oggi è passato dal 19 al 16%. Non è detto che subirà un’ulteriore flessione dovuta a questa vicenda. Il vantaggio è che i parlamentari europei coinvolti sono poco noti. Il problema che si pone in vista del congresso Pd, casomai, è quello relativo alle regole da darsi per non incorrere in questi rischi?”

Il caso Somahoro com’è stato percepito dall’opinione pubblica?

Piepoli: “Non abbiamo fatto rilevazioni in merito a questo caso, ma posso dire ciò che ho percepito io. Anche in questo caso si tratta di una normale vicenda che non appassiona l’opinione pubblica che, in realtà, è molto più interessata all’esito dei Mondiali di calcio. ‘Panem et circenses’ dell’imperatore Claudio è valido ora come nel 53 a.C.”.

Noto: “C’è stata una forte delusione perché Somahoro era diventato un personaggio pubblico. Non sono i singoli fatti che spostano il consenso però, anche se c’è stata una forte delusione, non è detto che qualcuno cambi la propria intenzione di voto”.

Minacce alla Meloni. Il premier passa come vittima oppure ha sfruttato mediaticamente le intimidazioni ricevute?

Piepoli: “No, la Meloni è una donna che si fa rispettare. È l’unica donna post-fascista in Italia ed è riuscita a imporsi in un partito di maschi. Sono convinto che governerà bene e per cinque anni”.

Noto: “Questi eventi, invece, colpiscono molto gli italiani che sono molto attenti a queste cose. Gli italiani si sentono sicuramente vicini al premier e la Meloni ne esce ‘vittima’ in termini politici”.

Alla Meloni converrebbe elettoralmente ritirare la querela nei confronti di Saviano?

Piepoli: “Ritirare una querela è sempre un atto d’onore e, se lo facesse, avrebbe la mia ammirazione. Ma, se non la ritira, fatti suoi. Non è un qualcosa che tocca l’opinione pubblica. È solo un problema personale. Al Paese interessa che ci siano più posti di lavoro, non Saviano. Chi è Saviano? Che cosa ha prodotto per il Paese?”.

Noto: “Il consenso a un partito politico non cambia come noi cambiamo i programmi televisivi. Il consenso è più duraturo che cambia in base a più fattori. Dovendo pensare al proprio elettorato, non dovrebbe ritirare la querela. Se, invece, volesse rendersi più attraente verso l’elettorato di sinistra che non l’ha votato, allora dovrebbe ritirarla. Fare una scelta o l’altra non sposta consenso nell’immediato”.

Regionali nel Lazio e nella Lombardia. Chi è il favorito?

Piepoli: “I tre candidati della Lombardia sono tutte persone degne e preparate per governare una Regione che ha il Pil della Svizzera. Sul Lazio non abbiamo ancora dati. Al momento, però, posso dire che non c’è alcun favorito certo”.

Noto: “Nel Lazio è difficile dirlo perché mancano ancora i candidati. Il centrodestra, è avanti, ma senza il candidato si può dire poco, ma non è certamente un buon segnale. In Lombardia è avanti Fontana e subito dopo Majorino e la Moratti si contendono il secondo posto. Secondo i nostri sondaggi il candidato del Pd è un po’ più avanti, ma per il momento Fontana è avanti in maniera significativa”.

Majorino: "Chi è Antonio Panzeri", come suicidarsi con una sola frase. Fabio Rubini su Libero Quotidiano 15 dicembre 2022

Da quando è scoppiata "Sinistropoli" è partita la corsa a scaricare le amicizie scomode. Solo che nell'era della tecnologia sfrenata cancellare foto e video imbarazzanti è sempre più difficile. Tra queste "riscoperte" c'è anche quella che riguarda una videoconferenza che ha come organizzatore Pierfrancesco Majorino eurodeputato del Pd e attuale candidato alla presidenza di Regione Lombardia - e tra i relatori quell'Antonio Panzeri arrestato nell'ambito del Quatar-gate, insieme a moglie e figlia. Uno scandalo - e siamo appena all'inizio - sul quale lo stesso Majorino ha usato parole quasi profetiche: «È un episodio che riguarda anche noi, non possiamo far finta di nulla».

I fatti. Siamo nel luglio del 2020, la conferenza è dedicata alla storia di Giulio Regeni e infatti s' inititola "Giulio fa cose". Nell'ambito della chiacchierata ovviamente si tocca il nodo dei diritti umani. E proprio in quest' ottica viene introdotto l'intervento di Panzeri. A presentarlo, anche con una certa enfasi, financo con un po' di emozione, è Majorino, del quale trascriviamo fedelmente le parole: «La violazione dei diritti o la capacità di tollerare la violazione dei diritti non possono in alcun modo non mobilitare al massimo le energie europee. Sono il contrario dei valori che stanno alla base del progetto politico europeo - prosegue l'eponente Pd che deve avere al centro la questione dei diritti umani. Ed è il motivo per cui partiamo con questa nostra chiacchierata chiedendo un contributo a chi è stato presidente della Sottocommissione dei diritti dell'uomo al Parlamento Europeo. Innanzitutto chiedendo all'ex presidente ed esperto- e qui Majorino quasi si entusiasma... mi vien da dire se posso, anche militante in relazione al grande tema dei diritti umani a livello italiano e non solo, Antonio Panzeri, di portarci il primo contributo».

È chiaro, lo diciamo a scanso di equivoci, che Majorino con le mazzette del Quatar non c'entra e che lo svarione sul «militante dei diritti umani» si può derubricare alla voce "errore di valutazione". Nulla però ci toglie dalla testa che se al posto di Panzeri ci fosse stato un esponente di centrodestra, oggi il prode Majorino sarebbe impegnato nell'organizzazione di una bella manifestazione per chiedere di fare piazza pulita. Ad oggi, parole a parte, non ci risultano sforzi del Nostro in tal senso... 

Il percorso della sinistra, da operaia a lobbista. Federico Novella su Panorama il 12 Dicembre 2022.

La vicenda Panzeri, come quelle degli ultimi mesi di altri big italiani del Pd, racconta come sono sempre più i comunisti che non difendono gli interessi degli ultimi ma soprattutto i loro stessi Il percorso della sinistra, da operaia a lobbista

Per quanto sia obbligatorio considerare tutti innocenti fino a prova contraria, lo spaccato che esce dall’eurotangentopoli in salsa Qatar è desolante per diversi motivi. Il primo è che tutti i protagonisti politici sono affiliati alla sinistra europea. A dar retta alle accuse della procura sono loro, i paladini degli ultimi, i primi a tentare di arricchirsi personalmente. Dal fulcro dell’indagine, Antonio Panzeri, fino alla vicepresidente del parlamento Kaili, sacchi di denaro volano sui bei propositi umanitari di chi dice di lottare per i diritti dei più sfortunati. Attendiamo i dettagli dell’inchiesta, e soprattutto aspettiamo di vedere se ci sia qualcosa di più grande sotto la punta dell’iceberg. In particolare dietro quest’ennesima Ong dal nome che è tutto un programma, “Fight Impunity” , creatura di Panzeri dal quale si sono dimesse in blocco le eccellenze italiane ed estere che fino a ieri ne abitavano il board: dalla Bonino al greco Avramoupolos.

In Italia abbiamo appena finito di indignarci per il caso Soumahoro, ed ecco arrivare la tempesta di Bruxelles: vicende diverse, ma equivalenti su un punto: occorre prestare attenzione a chi si professa buono e pio. La bontà può diventare spesso un paravento per nascondere traffici quantomeno oscuri. L’altra certezza, mentre la procura indaga, è che il Parlamento Europeo non sembra esattamente quel palazzo di vetro che vorrebbero raccontarci. Stando a quanto si legge in queste ore, somiglia più ai corridoi bui delle Nazioni Unite, dove transita gente di ogni risma, senza controlli e senza grandi slanci morali. Non poteva che essere così, dal momento che le istituzioni europee , così congegnate, non hanno mai avuto reale legittimità democratica. E laddove non c’è trasparenza, prima o poi arrivano soldi e lobbisti. Il quotidiano “Il Giorno” ha ricordato che 485 deputati hanno lasciato l’europarlamento nel 2019: di questi, il 30% lavora oggi per gruppi di pressione. Panzeri era uno di questi. La politica delle porte girevoli spesso non è illegale, ma si sviluppa selvaggiamente all’ombra di regole deboli e oscure. Come si diceva in principio, sulla materia dei diritti umani sembra essere la sinistra quella più propensa a coltivare rapporti di alto livello. Sul secondo lavoro di Massimo D’Alema, cioè quello della consulenza finanziaria, si è detto molto: ultimamente pare abbia fatto da tramite tra una cordata di sceicchi del Qatar e il governo, per l’acquisizione della raffineria Lukoil di Priolo. Nulla di male, per quanto ne sappiamo. Ma quest’abitudine ha fatto dire al vicesegretario del Pd Provenzano che “vedere grandi leader della sinistra fare i lobbisti la dice lunga sul perché la gente non si fida più”. E qui arriviamo all’ultima certezza di questa storia, a prescindere dagli esiti delle indagini: ad essere morta e sepolta è la cosiddetta “superiorità morale” della sinistra. La sindrome per cui da quella parte politica ci si arroga il diritto di distribuire agli avversari patenti di onestà e limpidezza morale. Una sindrome nata con Tangentopoli, e morta con Qataropoli. Nata con la presunta difesa dei diritti degli sfortunati, e morta con la difesa dei diritti degli Emirati.

Il Pci e quei pregiudizi contro gli omosessuali. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023

Democristiani e comunisti, per quanto si facessero guerra su altre cose, erano su certi punti «pudicamente» allineati. L’espulsione di Pier Paolo Pasolini

«Come se seppe ch’era ‘na vittoria / tutta Piazza Navona strillò evviva / mentre sur parco un fregno ciassalìva / volénnose pija tutta ‘a gloria. / Sotto a lui pe’ gonfiàsselo de boria / ‘na manica de gente assai lasciva, / finocchi e vacche ignude alla Godiva / a strillà: solo noi fàmo la storia». La sera del ‘74 in cui Maurizio Ferrara scrisse quel sonetto romanesco sulla festa scatenata dal No al referendum per l’abolizione del divorzio e satireggiò su quel miscuglio di vecchi militanti comunisti e la variopinta folla di pannelliani, femministe, capelloni, spiriti liberi e perfino avanguardie dei movimenti omosessuali, Elly Schlein doveva ancora nascere. Ma se c’è una che oggi ha buon diritto a festeggiare è lei. Perché domenica ha conquistato un partito per un’eternità ostile ai «diversi».

È proprio così che quarantatré anni fa Fabio Giovannini intitolò un libro scomodo che metteva il dito nella piaga: Comunisti e diversi. Il Pci e la questione omosessuale. Un tema ustionante. Da molto tempo. Non solo in Italia, si capisce. «Nei paesi fascisti l’omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce impunemente», denunciava ad esempio lo scrittore Maksim Gor’kij, tra i cantori del socialismo reale, «Qui dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l’omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. C’è già un detto in Germania: “Eliminate gli omosessuali e il fascismo scomparirà”».

Non meno ostile sarà nel 1950, anche dopo aver saputo delle spaventose mattanze di «diversi» nei lager nazisti, Palmiro Togliatti. Che con lo pseudonimo di Rodrigo De Castiglia, come ricostruisce Paolo Pedote nella sua Storia dell’omofobia, firmerà una feroce recensione a un libro sul comunismo, Il Dio che è fallito, scritto da Ignazio Silone e altri cinque autori tra cui André Gide: «Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti tra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e relativo terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose...».

Quella era, del resto, la società italiana dell’epoca dove democristiani e comunisti, per quanto si facessero guerra su altre cose, erano su certi punti pudicamente allineati. «Il problema sessuale non è, evidentemente, un problema morale: ma, poiché la piccola borghesia cattolica è abituata, ipocritamente, a considerarlo tale, tale lo considera anche il dirigente medio comunista, come, direi, per inerzia», scriverà Pier Paolo Pasolini nel ‘60 su Vie nuove, «Infatti, la questione non è mai stata impostata a chiare lettere: dato che si tratta di una questione secondaria. Ci son questioni più importanti da risolvere...».

Lui stesso, nel ’49, quando insegnava l’italiano ai ragazzi delle medie in Friuli, era stato espulso dal partito e dalla scuola per atti osceni imputati dagli accusatori a «deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e altrettanto decantati poeti e letterati». La lettera all’amico partigiano Carlino, ripresa da Enrico Oliari nel libro Omosessuali? Compagni che sbagliano, è gonfia di sconforto: «Mia madre ieri mattina è stata per impazzire, mio padre è in condizioni indescrivibili: l’ho sentito piangere e gemere tutta la notte. Io sono senza posto, cioè ridotto all’accattonaggio. Tutto questo semplicemente perché sono comunista. Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio della vostra disumanità; capisci bene che parlare di ideologia è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista».

«Malgrado voi». Lo ripeterà in una delle Lettere Luterane: «Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un “tollerato”. La tolleranza è solo e sempre nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che si “condanni”. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. (...) Come cani rabbiosi, tutti si sono gettati su di me non a causa di quello che dicevo, ma a causa di quella “tinta”. Cani rabbiosi, stupidi, ciechi. Tanto più rabbiosi stupidi, ciechi quanto più io chiedevo la loro solidarietà e la loro comprensione. Perché non parlo di fascisti. Parlo di “illuminati”, di “progressisti”. Parlo di persone “tolleranti”».

E lo resterà davvero, a sinistra a modo suo, fino alla notte del novembre 1975 in cui fu ucciso sulla spiaggia di Ostia. Quella morte, anzi, è considerata da Oliari e altri come lo spartiacque, dentro il partito e più in generale la sinistra, tra il «prima» e il «dopo». Perché solo allora, prima volta, un corteo di omosessuali solcò il centro di Roma fino a Botteghe Oscure. Una svolta storica. Una manciata di anni e nell’82, nella Casa del Popolo di via Arduini a Bologna, Franco Grillini, futuro presidente dell’Arcigay, si alzò per spiegare ai compagni li riuniti che non c’erano solo i diritti al lavoro, alla salute, allo sciopero ma anche quello alla propria identità sessuale: «E andavo avanti così sempre più infervorato finché saltò su un vecchio operaio: “Ha ragione il compagno busone!” Scoppiò un applauso e lui: “s’a iel da reder! Cosa c’è da ridere?” Era un uomo semplice e generoso. Magari aveva sbagliato la parola giusta, ma lui aveva capito tutto». Quella Casa del Popolo, oggi, è la sede dei democratici bolognesi. E la rimonta di Elly Schlein e di tanti altri contro i pregiudizi partì anche quella sera di quarant’anni fa.

Politicamente Corretti.

Ora se ne accorge anche Concita: il politicamente corretto ammazza la società (e pure la sinistra). L'ex direttrice dell'Unità bacchetta i compagni e punta il dito contro la dilagante cultura woke. Massimo Balsamo su Il Giornale il 7 luglio 2023.

È bastato un semplice viaggio in Francia a Concita De Gregorio per scoprire il vero volto del politicamente corretto. Sì, l'ex direttrice dell'Unità ha confessato in un editoriale scritto per La Stampa di aver individuato dove si annida il seme dell'autodistruzione della sinistra, citando tre episodi di vita quotidiana a dir poco emblematici. L'analisi della giornalista è tranchant, pressochè senza speranze: così i compagni perderanno per anni.

L'implacabile j'accuse di Concita parte da una scuola di danza parigina, nel prestigioso quartiere Marais, dove i genitori dei piccoli danzatori hanno fatto richiesta al dirigente scolastico che gli insegnanti non istruiscano bambini e adolescenti ai giusti movimenti toccandoli con le mani, ma con un bastone. Anche una semplice mano poggiata su un bambino o su una bambina per spiegare un passo potrebbe configurarsi come una molestia sessuale. La fiera dell'assurdo, in altri termini. Poi il volto di "In onda" ha citato un episodio registrato in un istituto superiore di belle arti: durante alcune lezioni di teatro, un insegnante ha chiesto a una studentessa di legarsi i capelli in una coda:"La sua magnifica sontuosa chioma afro espandendosi in orizzontale copriva completamente i volti dei compagni alla sua destra e sinistra". Una richiesta normale per chi è dotato di buon senso, ma non per chi è drogato di correttezza politica: ecco infatti le accuse di razzismo.

Il terzo e ultimo episodio citato dalla giornalista chiama in causa una famosa femminista transalpina, in prima linea per la libertà delle donne islamiche di non portare il velo. Una battaglia condivisibile e democratica. Ma non per i compagni: la sinistra ha infatti gridato all'islamofobia. Un caso talmente esacerbato da spingere le autorità ad assegnare una scorta alla femminista. "Non può uscire di casa se non accompagnata, le ha spiegato una consigliera municipale appunto di sinistra da cui la celebre femminista è andata a protestare. Rischierebbe di essere aggredita, le ha risposto la politica. Del resto deve aspettarselo, ha aggiunto severa, dato che lei è islamofoba", il racconto di Concita De Gregorio. Casi intrisi di lapalissiano eccesso ideologico, di perdita di giudizio, di insopportabile scellerataggine. La sinistra è ostaggio del politicamente corretto, anche la De Gregorio se n'è accorta e la sua profezia è caustica. Non potrebbe essere altrimenti: la gente è stufa di questa iper-sensibilità e non sembra più disposta a sopportare le scemenze fomentate dall'ideologia woke.

Estratto dell'articolo di Concita De Gregorio per “la Stampa” venerdì 7 luglio 2023.

Torno da qualche giorno in Francia con tre aneddoti che aiutano a mettere a fuoco perché la sinistra non vincerà o non tornerà a vincere per molti anni, in questo e in altri Paesi democratici. Il tema è il «politicamente corretto»: niente di nuovo, dunque. Sono anni che se ne parla e - confusamente prima, più chiaramente poi - si intrasente che lì si annida il seme dell'autodistruzione. Sempre della sinistra, dico. I fatti semplici della vita quotidiana aiutano a capire e animano le discussioni, quindi eccoli. 

Aneddoto numero uno. In una celebre e dalle famiglie ambitissima scuola di danza del Marais, quartiere roccaforte delle élite progressiste parigine, i genitori dei piccoli danzatori hanno fatto richiesta al dirigente scolastico che gli insegnanti non istruiscano bambini e adolescenti ai giusti movimenti toccandoli con le mani, ma con un bastone. La ragione, avrete forse intuito, è che toccare un bambino o una bambina per accompagnare, poniamo, un «pliage» può configurarsi come molestia sessuale. Il fatto che i genitori qui riuniti abbiano così votato non sarebbe ancora niente, in questa storia.

L'acme narrativo arriva quando il collegio dei docenti si riunisce: ballerini celeberrimi ora non più in così giovane età, ex etoiles, maestri e maestre di danza formatisi in decenni di terribili sacrifici, riconosciuti come i migliori nel Paese. Si riuniscono, quindi, e convengono immagino a malincuore – memori del loro passato di allievi - che i genitori sono sostenuti dal sentire comune, dalla nuova legge morale e da quella civile. Bisogna assecondarli. La scuola, oltretutto, è a pagamento e i genitori pagano. Naturalmente è un pochettino complicato educare un corpo ai movimenti senza toccarlo, specie se si tratta di piccoli allievi il cui pensiero astratto non è ancora così sofisticato: di solito accompagnare il concetto espresso a voce con l'esempio pratico aiuta. Non solo coi bambini, ma andiamo avanti.

Come fare? Finalmente, dopo lunghe e reiterate riunioni, s'avanza l'ipotesi del bastone. Certo la parola potrebbe evocare punizioni corporali: diciamo un giunco, suggerisce qualcuno. Perfetto, giunco sia. Quindi ora siamo a questo: entrare in trattativa con la comunità dei genitori nella speranza che il giunco sia di loro gradimento. Altrimenti niente, si andrà a parole. 

Mi sono ricordata di quella volta che, una decina di anni fa, un amico musicista che lavora in una importante orchestra giovanile americana aveva raccontato, assai afflitto, che il professore di violino (straordinario docente) era stato allontanato dall'orchestra, diciamo pure licenziato, per aver «reiteratamente e prolungatamente toccato il braccio e la parte posteriore del busto di un'allieva». Di tutte e tutti gli allievi, si suppone, nell'atto di impostare l'altezza del gomito rispetto alla posizione dell'archetto. Ma una aveva denunciato, e dunque via, maestro a casa. Certo, l'America: si disse fra noi.

Che esagerazione, che rigidità, che inversione di senso.

Che rigidi bacchettoni, si disse anche – c'era un po' quel pregiudizio, sugli americani di provincia. Qui invece siamo a Parigi, in Europa, dieci anni dopo. Siamo al giunco.

(...)

Una importante e celebre polemista femminista, senza il minimo dubbio di sinistra, sostiene la libertà delle donne islamiche di non portare il velo. Attenzione: non. Di portarlo, liberissime, e di non portarlo, altrettanto libere. La sinistra politica la accusa di islamofobia, in una torsione del ragionamento che non mi attardo a descrivere qui, un doppio carpiato che confonde mi pare la libertà di non portare il velo con l'invito a non farlo, ma appunto non entrerei nel dettaglio. La accusano di essere di destra, di essersi venduta. Vive in un quartiere multietnico in cui la sinistra ha incredibilmente vinto le elezioni, una enclave.

Per queste due ragioni le forze dell'ordine l'hanno messa sotto scorta. Non può uscire di casa se non accompagnata, le ha spiegato una consigliera municipale appunto di sinistra da cui la celebre femminista è andata a protestare. Rischierebbe di essere aggredita, le ha risposto la politica. Del resto deve aspettarselo, ha aggiunto severa, dato che lei è islamofoba. Dalla Caporetto di una sinistra possibile per oggi è tutto.

Estratto dell'articolo di Giuliano Guzzo per "la Verità" il 29 giugno 2023.

 Care Big Tech, in nome della «tolleranza arcobaleno» vi chiediamo più censure. Per quanto possa suonare cruda e paradossale, è questa la sostanza di un nuovo appello che 250 celebrità di Hollywood, della tv e della musica hanno rivolto gli amministratori delegati di Meta, YouTube, TikTok e Twitter. L’idea della lettera […] è stata in origine di Glaad, acronimo di Gay & lesbian alliance against defamation, e Human rights campaign. […]

In effetti, la missiva in questione pone l’accento soprattutto sull’odio on line, denunciando come vi si sarebbe stato «un enorme fallimento sistemico nel proibirlo», assieme alle «molestie» e alla «disinformazione anti Lgbtq sulle piattaforme», motivo per cui il tema «deve essere affrontato». […] 

l’appello - sottoscritto da volti noti di prima grandezza, da Amy Schumer ad Ariana Grande, da Demi Lovato a Jamie Lee Curtis, da Judd Apatow a Patrick Stewart - considera pericoloso e da censurare quello che chiama «odio anti trans». […]Non solo. Nella lettera in questione viene pure richiesto ai signori del Web cosa intendano fare rispetto ai «contenuti che diffondono bugie dannose e disinformazione sull’assistenza sanitaria necessaria dal punto di vista medico per i giovani transgender». 

Dunque se si pubblicano sui social, poniamo, le considerazioni recentemente apparse sulla rivista scientifica Current sexual health reports a firma dello psichiatra Stephen Barrett Levine - che ha concluso come «il rapporto rischi/benefici della transizione di genere giovanile vari da sconosciuto a sfavorevole» -, si dovrebbe venire censurati? Sì, a quanto pare. Ma non è tutto. Per essere sicuri di farsi intendere, le star che hanno sottoscritto l’appello chiedono alle Big Tech di applicare gli stessi sistemi di monitoraggio e blocco dei contenuti che vigono durante i periodi elettorali o visti per il «Covid-19». […]

La cosa che fa sorridere è che tale appello arriva nello stesso periodo in cui un’indagine a cura di Summit ministries e McLaughlin & associates ha rilevato come il 61% degli americani ritenga che introdurre i piccoli al transgenderismo, ai drag show e ai temi Lgbt sia dannoso. Come se non bastasse, un’altra rilevazione ha scoperto che il 73% dei cittadini è dell’avviso che le grandi aziende dovrebbero restare neutrali sui temi politici e culturali, versante Lgbt incluso.

[…]

"I partigiani non hanno mai cantato Bella ciao". Così il sindaco gela l'Anpi. Antonfrancesco Vivarelli Colonna, sindaco di Grosseto, non ha risparmiato una "stoccata" all'Anpi nel ripercorrere le origini di "Bella ciao". "Non vi sono prove del fatto che venisse cantata dai partigiani. Veniva invece cantata, con altre parole, dalle mondine di Vercelli". Giovanni Fiorentino il 19 Maggio 2023 su Il Giornale.

"I partigiani non cantavano “Bella ciao”. Allora perché ai nostri giorni, ogni 25 aprile l’Anpi canta proprio quella canzone? Qualcuno mi può aiutare a capire? Sono sinceramente curioso". A chiederlo è il sindaco di centrodestra di Grosseto, Antonfrancesco Vivarelli Colonna, il quale in un video pubblicato nelle scorse ore sulla sua pagina Facebook ha ripercorso le origini storiche del brano. “Perchè Bella ciao viene associata ai partigiani ed intonata il 25 aprile? - ha proseguito - chi lo fa è non solo promotore di una divisione che avremmo dovuto superare, ma a mio avviso non conosce la storia: Bella ciao non veniva infatti cantata dai partigiani durante la guerra civile". Vivarelli, nel sollecitare una risposta, ha sollevato seri dubbi sulle origini storiche della canzone, che solo in un secondo periodo sarebbe a suo dire stata "retrodatata" sino a farla diventare evocativa della guerra civile.

Bella ciao? Era il canto delle mondine

"La prima traccia della canzone risale al 1906: veniva cantata fra le mondine di Vercelli, chiaramente con un testo diverso da quello attuale. Altre tracce portano al 1964, sempre nel medesimo contesto agricolo. Un'altra traccia si ha invece nel 1963: una canzone con il medesimo ritmo era conosciuta in Cina e Corea, legata anche in questo caso a contesti agricoli - ha proseguito il primo cittadino - tornando indietro, un brano musicalmente simile venne inciso a New York da un musicista originario di Odessa, nel 1919. Tra i partigiani circolavano inoltre dei fogli, sui quali erano scritte le canzoni da cantare. E in nessuno di questi figurava Bella Ciao. Idem dicesi per la Brigata Maiella: nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio del fondatore della brigata partigiana, non vi è alcun accenno al fatto che Bella ciao venisse cantata dai partigiani. Perché quindi Bella ciao viene associata ai partigiani?".

I botta e risposta fra Vivarelli e l'Anpi

Il video si conclude con l'invito agli utenti a dare una risposta, sollecitando poi i più giovani ad informarsi. "La popolarità di questa canzone nasce forse dalla sua orecchiabilità - conclude Vivarelli - perché durante la guerra non fu mai cantata". Si profila quindi un nuovo capitolo del botta e risposta a distanza fra l'Anpi e il sindaco della città toscana. La sezione locale dell'Anpi non gradì la scelta della giunta Vivarelli di dedicare una via a Giorgio Almirante, accanto ad un'altra da intitolare invece ad Enrico Berlinguer. Un'ipotesi che era stata accolta con favore, fra gli altri, anche da Antonio Padellaro, di certo non vicino al centrodestra. A dispetto di tutto ciò, l'Anpi ha più volte contestato Vivarelli, impedendogli di tenere il discorso istituzionale nel corso della cerimonia dello scorso 25 aprile (perlomeno in un primo momento). E la polemica, su queste basi, promette di continuare.

La guerra civile che non c’è. L’eterno ritorno dell’onda nera e la debolezza della retorica antifascista minoritaria. Alberto De Bernardi su Linkiesta il 10 Marzo 2023.

L’Italia è una democrazia solida, non un Paese fascista. Nei suoi anni democratici ha saputo costringere i peggiori estremisti a un processo di revisione del proprio bagaglio ideologico (nonostante ci sia ancora qualche nostalgico di troppo)

La deriva

Domenica scorsa Ezio Mauro ha scritto un ponderoso articolo per ricordarci che la storia d’Italia non è mai uscita dallo scontro fascismo/antifascismo: nelle ultime settimane hanno preso forma «due Paesi divaricati» dalla discriminante antifascista, perché Giorgia Meloni si rifiuta di fare «un gesto di chiarezza rispetto al mondo da cui proviene» mentre ordisce il disegno di «neutralizzare la memoria del fascismo» e di cancellare «l’antifascismo come cultura civile del Paese».

Mentre leggevo le parole di Mauro mi sono riecheggiate nella memoria le parole che il 2 giugno del 2018 pronunciò la allora presidente dell’Anpi: «C’è nel Paese – disse – una pericolosa deriva filonazifascista che ha caratteristiche di minoranza ma è dislocata in tante parti d’Italia». Da allora il ritorno dell’onda nera divenne la cifra interpretativa prevalente della situazione politica italiana, con una rincorsa a trasformare tutte le azioni del governo gialloverde di Giuseppe Conte e Matteo Salvini come calchi di tutti gli stereotipi del fascismo.

Con la vittoria della destra sovranista cinque anni dopo, l’onda nera in pochi mesi si è già trasformata nel ritorno della sempiterna «deriva fascista» che si sta impossessando dello spazio pubblico per distruggere l’antifascismo a segnalare purtroppo solo ed esclusivamente un tragico riflesso condizionato della sinistra: evocare l’eterno ritorno del fascismo quale unica chiave di lettura di ogni processo politico che riguardi la destra.

Era «ritorno del fascismo» il centrismo di Alcide De Gasperi e Mario Scelba, il Piano Solo e il «tintinnar di manette» all’epoca del centrosinistra, il «fanfascismo» nei primi anni settanta nella tragica epoca dell’antifascismo militante extraparlamentare, Bettino Craxi e la «grande riforma» nel decennio successivo, ovviamente Silvio Berlusconi e il suo prepotente ingresso sulla scena politica nel 1994, fino a Matteo Renzi, per il quale il termine «fascistoide» è stato utilizzato reiteratamente da alcuni esponenti della sua minoranza interna per definire l’estraneità del suo progetto politico alla tradizione della sinistra italiana.

Nonostante molti studi politologici e sociologici sull’estrema destra in Europa negli ultimi vent’anni abbiano messo in luce sia l’eterogeneità ideologica di quel campo di forze, sia la sua distanza da quel complesso di movimenti e di culture politiche definite con il termine di fascismo, in Italia queste cautele hanno fatto scarsa breccia nella riflessione pubblica; al contrario si è messa in movimento una rincorsa, promossa soprattutto dai militanti dell’estrema sinistra dai suoi intellettuali e dai giornalisti, a coniare neologismi che evocassero lo spettro di Mussolini per definire la nuova maggioranza governativa: oltre al classico nazifascismo prima citato, si è imposto il «fasciogrilloleghismo» fino alla caduta del governo Conte I – poi abbandonato quando Conte è stato arruolato dalla sinistra nell’antifascismo a sua insaputa – ora ritorna in auge sotto forma di «nuovo fascismo».

Questa tumultuosa rincorsa fa venire in mente una affermazione di George Orwell contenuta in suo articolo pubblicato nel 1946: «La parola fascismo ormai ha perso ogni significato e designa semplicemente qualcosa di indesiderabile».

Il ritorno dell’indesiderabile

In effetti «l’indesiderabile» che ritorna, secondo la vulgata a cui si rifà Mauro – è lo sforzo delle destre al potere non solo di interpretare le pulsioni illiberali e antipolitiche di una permanente maggioranza silenziosa che campeggiano nella coscienza pubblica, mai piegata definitivamente ai valori della costituzione democratica, e permanentemente disponibile verso l’antipolitica e verso soluzioni politiche illiberali il cui fondamento è la rimozione – potremmo dire, attiva – del passato fascista della nazione, con l’obiettivo di realizzare la «pacificazione» degli italiani, disancorando la Repubblica dall’antifascismo e dalla Resistenza.

Ma per fortuna – dice Mauro – che c’è l’antifascismo, tornato militante, che impedirà che questa operazione politico-ideologica promossa dal sommerso fascista della Repubblica, ora arrivato al governo, spacchi il Paese in nome di una revisione radicale della storia italiana del ventesimo secolo e del rifiuto del patriottismo costituzionale.

Ma sfugge a Mauro che la debolezza del patriottismo costituzionale non alligna solo a destra per l’irrisolto rapporto con le sue eredità neofasciste, ma purtroppo affonda le sue radici anche nelle culture politiche della sinistra che al grido di «ora e sempre resistenza» ha costruito una retorica politica nella quale la democrazia italiana appare sempre sull’orlo di un rinculo nella guerra civile mai conclusa del ’43-’45 e abbia bisogno di un costante “in più” etico-politico garantito rappresentato dall’antifascismo per reggere l’urto delle destre radicali e illiberali, come non accade nei Paesi che hanno una tradizione democratica più matura e compiuta.

Non c’è bisogno di nessun «in più» antifascista in Germania, in Francia o negli Stati Uniti per combattere l’onda montante del populismo nazionalista e xenofobo, perché basta il radicamento del «paradigma democratico» a mobilitare la partecipazione politica dei cittadini contro Donald Trump o Marine Le Pen o il partito Alternativa per la Germania.

Un «di più» metapolitico, dunque, che copre in Italia un «di meno» storico, quasi antropologico, relativo alla debolezza dell’insediamento della cultura democratica nei «costumi» degli italiani e la permanenza delle tradizionali «malattie» dello spirito pubblico che sono sempre le stesse da quelle denunciate un secolo fa da Piero Gobetti prima che la violenza fascista lo mettesse a tacere per sempre e che sintetizzano il “fascismo eterno” della storia italiana. Un «di più» che è nella disponibilità politica di una presunta “altra Italia” depositaria di tutte le virtù pubbliche, del patrimonio valoriale della costituzione ma permanentemente “inapplicata” e che deriva la sua forza di avere per sé “il senso della storia”.

Libertà o liberazione?

Spia di questa concezione politica è il commento di Mauro allo striscione che gli studenti di destra avevamo issato davanti alla scuola in risposta a quello degli studenti di sinistra: «La scuola non è antifascista, è libera».

Secondo Mauro i giovani del Blocco studentesco avevano contrapposto libertà a liberazione, a riprova dell’estraneità dei giovani di estrema destra alla “patria antifascista”. In realtà – al netto delle violenze inammissibili di Azione studentesca al Liceo Michelangelo di Firenze – dentro l’evocazione della libertà emerge un domanda di agibilità politica e di riconoscimento culturale da parte dei giovani di destra che l’antifascismo militante presente nelle scuole e nelle università ha sempre rifiutato, per un giudizio di indegnità morale di quei giovani.

Mauro non a caso non parla della manifestazione di Firenze dove come in tutte le manifestazioni antifasciste aleggia un «in piu» inaccettabile di violenza verbale contro il nemico – «uccidere un fascista non è reato» urlavano quegli studenti riprendendo uno slogan degli anni ’70, quando giovani fascisti e giovani antifascisti si ammazzavano davvero. Aggiungendo una novità: «Tito ce lo ha insegnato» che evoca un’ esaltazione delle foibe recuperata dai recessi più melmosi e orribili della tradizione comunista.

Esaltare le foibe come patrimonio dell’antifascismo non è casuale: è il risultato di una continua opera di delegittimazione degli sforzi che la cultura democratica – non quella fascista – sta compiendo da molti anni per accogliere le vittime e le loro memorie nella storia nazionale, screditando il “giorno del ricordo” dell’11 febbraio come opera di revisionismo di stato messo in atto dalle destre, occultando scientemente il ruolo che il comunismo jugoslavo ha avuto nei crimini contro gli italiani tra il ’43 e il ’47 e nell’esodo istriano.

Ma qual è la nostra patria

Senza saperlo e senza accorgersene per opera di cattivi maestri quei giovani antifascisti hanno riaperto una frattura profonda nella stessa idea di nazione, tra quella, mai pienamente sconfitta, dei cultori della “patria del socialismo” – il filoputinismo di tanta sinistra radicale affonda qui le sue radici – e la patria democratica, che ha attraversato prepotentemente la stessa Resistenza antifascista, contribuendo a indebolire l’identità nazionale e rendendo flebile proprio il patriottismo costituzionale perché privato di una “forza simbolica” espressione di una comune idea di nuova nazione nata dal crollo di quella del fascismo.

Tra Tito e la democrazia vi è un abisso, che riguarda anche la natura e la tavola dei valori dell’antifascismo: quello comunista di matrice totalitaria, che sovrapponeva la rivoluzione leninista alla lotta per la libertà dal fascismo, e quello democratico che puntava a rigenerare nella libertà e nel pluralismo delle idee e dei valori la storia nazionale dopo la tragedia della dittatura.

Evocare un dittatore che ha lasciato solo macerie nel suo paese come modello di antifascismo significa riprodurre quella frattura dell’idea di nazione, che ha impedito e continua ad impedire a una parte non piccola di italiani e italiane, che pur hanno ripudiato il fascismo, di riconoscersi pienamente nella nazione antifascista, per la presenza al suo interno di chi non aveva colpevolmente dismesso la sua adesione alla “patria” stalinista, vissuta e temuta come minaccia incombente del nuovo ordine repubblicano.

Nacque in questo iato e in queste aporie delle basi ideali della Repubblica il “filo nero” della narrazione “anti-antifascista” della guerra di liberazione e dell’Italia democratica che tanto peso ha avuto e ha tuttora nella coscienza collettiva del Paese, direttamente proporzionale alla debolezza dell’antifascismo che ancora oggi si ostina a non voler riconoscere le sue responsabilità nell’aver reso impossibile quella piena integrazione tra sé stesso e la nazione repubblicana.

Il mito della rivoluzione

Nella misura in cui il mito del comunismo aleggia nei cuori di giovani e vecchi antifascisti, e l’antifascismo si riduce a un altro nome dell’idea di rivoluzione, la Repubblica cessa di avere proprio nella Resistenza il suo inveramento e di non avere i partigiani tra i suoi padri, perché essi erano impegnati a lottare per un altro fine, non per la repubblica che c’è, non per la democrazia faticosamente conquistata: lottavano per i socialismo, per la «democrazia progressiva», per «il sol dell’avvenire» e si sentivano chiamati a disvelare la presenza del vecchio regime e a ipostatizzare lo scontro tra fascismo e antifascismo come cifra più autentica dello spazio politico repubblicano, che non poteva trovare soluzione nella democrazia ma soltanto nel superamento dello Stato borghese e del capitalismo.

In quest’ottica l’antifascismo aveva un solo futuro possibile, non come memoria collettiva e fondamento ideale dello Stato nuovo, ma come ideologia di un cambiamento rivoluzionario, proiettato alla ricerca di un “altrove” che stava, e continua purtroppo a stare, oltre la Repubblica.

Ma questo antifascismo non può che essere minoritario e «di sinistra» – non maggioritario e repubblicano, perché non si propone di chiudere quella tragica ferita identitaria, ma la riproduce all’infinito, di generazione in generazione, creando una sorta di comfort zone identitaria, assai simile, nel suo costrutto psicologico e culturale, a quella di chi si tiene in casa il ritratto di Mussolini, sfila ogni anno con il braccio teso davanti alla tomba del Duce a Predappio o gira la testa dall’altra parte se “i giovani (suoi)” menano le mani o puerilmente assaltano la Cgil, guidati da un ferro vecchio del sovversivismo neofascista degli anni settanta in cerca di visibilità.

Per uscirne bisogna fare uno sforzo di verità: non c’è nessun fascismo alle porte perché sconfitto dall’antifascismo in armi e dalla storia nel ’45, l’Italia è una salda repubblica democratica che ha saputo persino includere i suoi storici avversari – fascisti e comunisti – nelle sue istituzioni politiche, costringendoli a un processo di revisione profondo del proprio bagaglio ideologico, nonostante qualche nostalgico di troppo si aggiri in entrambi i campi, che li ha legittimati ad aspirare al governo del Paese. Di questo gli antifascisti dovrebbero andare fieri, perché è merito loro, invece che evocare Tito e le scintille rivoluzionarie del 1917.

Estratto dell’articolo di Massimo Recalcati per “La Stampa” il 7 marzo 2023.

Un grande filosofo come Gilles Deleuze riteneva che il presupposto di fondo della lotta antifascista avesse come prima e imprescindibile condizione la lotta contro il fascista che ognuno di noi porta dentro di sé.

 L’intolleranza per la differenza, la convinzione dogmatica di detenere una verità assoluta, la giustificazione politica della violenza, l’odio e lo scherno, l’approvazione della censura e l’interdizione della libertà di parola per chi diverge dalla nostra concezione del mondo, un complesso di superiorità inguaribile, la rappresentazione della Destra come culturalmente indegna, il sarcasmo verso la maggioranza quando il suo orientamento non coincide con i nostri desideri, la tendenza a convertire la critica in insulto, sono in se stesse tentazioni fasciste e autoritarie che hanno paradossalmente trovato diritto di cittadinanza anche nella cultura di gruppo dell’antifascismo.

Lo scrivo con amarezza rileggendo oggi l’antifascismo militante dei movimenti della fine degli anni Settanta ai quali partecipai con grande entusiasmo giovanile. I miei cattivi maestri di allora non si rendevamo conto che la militanza antifascista che esaltavamo non era, in realtà, altro che il rovesciamento speculare del mostro velenoso che intendevamo combattere. […] L’assioma ideologico escludeva ogni forma di dubbio: se il cuore dello Stato era un cuore fascista bisognava colpirlo senza indugi. […]

 Ma nel tempo di una democrazia ormai consolidata nel nostro paese da quasi ottant’anni possiamo provare a essere più intransigenti con il nostro fascismo interno? Possiamo provare a rigettare la tentazione autoritaria che attraversa ciascuno di noi e che spesso ha trovato proprio una certa cultura di sinistra cosiddetta antifascista il suo terreno di coltura?

[…] Esiste ancora oggi uno squadrismo culturale di sinistra che insistentemente ignora il fondamento laico, antidogmatico, plurale della democrazia e che manifesta una evidente allergia nei confronti delle sue leggi? Non è forse la stessa cultura di gruppo che finisce per colludere con le ragioni della guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina nel nome di un ideale utopico della pace che ha il solo effetto di giustificare una brutale aggressione militare senza consentire al popolo che è stato offeso la sua legittima difesa? Non è forse la stessa cultura di gruppo che nel nome altrettanto utopico della libertà si opponeva alle misure di prudenza imposte dall’emergenza sanitaria paventando una virata totalitaria dello Stato democratico?

[…] L’aggressione organizzata, l’uso ideologico della violenza, i comportamenti vandalici, l’esibizione dei simboli dell’odio sono chiaramente estranei allo spirito della democrazia. Ai tempi dei movimenti del ’77 per definire questi comportamenti si usava la formula “organizzazione collettiva della forza”. È la stessa edulcorazione del linguaggio operata dal regime putiniano […] Accadeva alla fine degli anni Settanta nel nome dell’antifascismo. Fu per questa ragione che scelsi di abbandonare quei movimenti per avvicinarmi al Partito Radicale di Marco Pannella. […]

 Ora viviamo in un paese dove il fascismo […] non esiste più. Giorgia Meloni, democraticamente eletta dagli italiani, ha giurato sui principi della nostra Costituzione riconoscendoli pienamente. Certo, alcuni dei suoi ministri ci appaiono indegni […] Ma questo non ci dispensa dal difficile compito di provare a essere giusti con le ragioni dell’antifascismo. In uno Stato democratico non dovrebbe mai essere legittimato un uso antifascista della violenza […]

Il caso di Firenze. Chi è Giuseppe Valditara, il neocrociano fedele alla pedagogia di calci e pugni. Michele Prospero su Il Riformista il 26 Febbraio 2023

Uomo di vastissime letture, non a caso è il ministro dell’istruzione. C’è del metodo, e molta sottile metafisica, nelle sue esternazioni che fortunatamente, per il loro incredibile impatto costruttivo sulle menti della Nazione, diventano sempre più frequenti. Ha consultato anche stavolta i grandi classici prima di prendere penna e calamaio per annunciare la dura censura governativa contro la “politicizzata” dirigente scolastica fiorentina. Quali fonti filosofiche ispirano il luminare che Meloni ha voluto giustamente promuovere a prestigioso titolare del ministero di viale Trastevere?

Non c’è dubbio, le sue parole, mai scontate, nascondono un pensiero forte. Nell’affondo inevitabile contro la professoressa Annalisa Savino, il creativo ministro del merito ha sicuramente raccolto e fatto proprio l’insegnamento racchiuso in un’antica pagina di Benedetto Croce. Il grande filosofo, anch’egli con un’esperienza al ministero, benediceva le aggressioni contro gli uomini e le donne delle sinistre che si agitavano con le loro “vuote” idee d’eguaglianza e di socialismo. Avevano ragione, scandiva in “Etica e Politica”, quanti associati in squadre nere prendevano “a scappellotti i creduli in quelle formule insulse e coloro che le vanno ripetendo a uso dei gonzi”.

Non preoccupavano, il cantore della “religione della libertà”, i pestaggi dei fascisti, da lui esaltati anzi in un’occasione come “uomini di vivo senso storico e politico divenuti appassionati partigiani della forza”. La loro violenza politica sugli avversari racchiudeva sì una veemenza “grossolanamente intesa”, ma non si poteva certo pretendere una sottigliezza eccessiva nei modi d’agire che ispiravano un energico e scanzonato movimento politico di rigenerazione nazionale. Gli squadristi comunque, a loro merito, si prendevano la briga di dare degli “scappellotti” ai sostenitori delle “formule insulse” della democrazia. Per questo al loro capo, pure lui un “popolano impetuoso e anche violento”, tributò un applauso scrosciante al Teatro San Carlo.

Giovanni Gentile non credeva di esagerare dipingendo questo Croce, così attratto dalla pedagogia muscolare dei calci e pugni, come “uno schietto fascista senza camicia nera”. Sulle orme del “filosofo dei distinti”, il ministro della verità avrà sentito forte il richiamo etico-politico del filosofo abruzzese, cantore della bella violenza somministrata romanamente contro i “gonzi” come una immancabile pratica educatrice. Alla preside, che si permette senza ritegno di citare Gramsci, e quindi di fare politica, il ministro dalle vaste vedute raccomanda di cimentarsi con la superiorità morale di alcune pagine di Croce. Quelle sì che erano un esempio fulgido di etica pubblica, soprattutto quando ritenevano del tutto salutari, nel loro risvolto “pratico o praticistico”, i movimenti rudi, dal futurismo al fascismo, perché quando agivano per strada menando da par loro andavano celebrati dal momento che “la eventuale pioggia di pugni, in certi casi, è utilmente e opportunamente somministrata”.

Davanti al liceo politicizzato di Firenze, come potevano non materializzarsi quelle esemplari spedizioni pedagogiche dei novelli “partigiani della forza”? Come fa la dirigente scolastica a insorgere, per giunta in bella prosa, per qualche baldo ceffone e a non cogliere tutta la carica liberatrice sprigionata dalla neo-littoriale giovanile pratica persuasiva della “pioggia di pugni”? Si aggiorni sui nuovi metodi didattici in voga nell’età del merito, lasci stare il teorico sardo che odiava gli indifferenti e apprenda i rudimenti della filosofia crociana dello scappellotto. Non possiede proprio i più elementari fondamenti del pensiero, questa professoressa che non conosce il magistero di Croce sui risvolti culturali dei pugni in faccia e la butta in politica scandalizzandosi per la violenza educatrice dispensata sui marciapiedi dagli intrepidi nuovi patrioti.

Mentre Giorgia, la madre, cristiana, patriota, si prende una pausa dalla politica e si fionda in macchina diretta al ristorante di Anzio (fa più notizia con lo Chef e le vongole che a Kiev con i capi di Stato ai quali promette aerei tra colpi di tosse e risate fuori ordinanza), non spendendo neppure una parola dinanzi alle botte distribuite dai toschi degni apprendisti di uno statista alla Donzelli, questa preside ha l’ardire di entrare dritta in politica e prendere le difese di quattro studentucoli, di novelli “gonzi” da rieducare con l’infallibile medicina crociana della pedata e del cazzotto. È proprio a digiuno della pedagogia manesca che a Trastevere non dispiace affatto blandire in nome dell’endiadi pensiero e azione.

Il ministro neo-crociano, colpito da siffatta ignoranza circa i grandi passaggi della cultura nazionale, sta meditando su quale sanzione comminare a una dirigente scolastica che resiste alle forme educative del tempo nuovo. Fuori la politica dalla scuola, ordina inebriato dal richiamo fiorentino ai valori sempiterni della forza e della vitalità. E dentro il liceo entrino presto quei sei audaci pugilatori cresciuti in gagliarda arte politica nelle sedi gigliate di Fratelli d’Italia.

Chi altri infatti, se non questo moderno esemplare di agile somministratore di violenza di piazza per scacciare la politica dalle aule, è degno di essere chiamato in cattedra per chiara fama? Ministro, cacci in fretta l’obsoleta preside e assuma i sei camerati, non servono concorsi, bastano come metro del loro “merito” le pure immagini, prive per una volta di ogni opacità semantica. Hanno i titoli e soprattutto il tirocinio pragmatico necessari per insegnare, crocianamente s’intende, la filosofia dello scappellotto. Michele Prospero

Scuola, il ministro Valditara nega di essere fascista: "Lo dimostrano i miei libri e miei atti". Il ministro dell'Istruzione Valditara, in una intervista, si è dichiarato non fascista: "Mio unico provvedimento contro docente che negava la shoah". Valentina Mericio su Notizie.it il 4 Marzo 2023

Il ministro dell’Istruzione e del merito Valditara ha difeso le sue posizioni proprio nelle ore in cui Firenze si preparava ad accogliere la manifestazione antifascista. In una intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale, il ministro ha ricordato che il padre non era fascista e che anzi il padre era un partigiano delle Brigate Garibaldi: “A casa ho ancora il suo fazzoletto rosso”, ha spiegato.

Scuola, il ministro Valditara si difende: “Non ho bisogno di dare prove del mio antifascismo”

Nel corso dell’intervista Valditara ha rilanciato evidenziando quanto sia importante manifestare in modo democratico e confrontarsi: “Ben venga qualunque manifestazione che dia voce alle idee e alimenti un dibattito democratico. Per parte mia raccolgo e rilancio l’invito del sindaco Nardella per un confronto con lui sui temi dell’antifascismo, di tutti i razzismi, della democrazia e della libertà di opinione: organizziamolo presto. Un confronto che deve essere franco, onesto e sereno”.

In merito ai fatti dei giorni scorsi avvenuti al liceo Michelangelo, il ministro ha sottolineato che nei confronti della dirigente scolastica non verranno presi provvedimenti: “L’unica indagine disciplinare che ho chiesto è stata nei confronti di un docente accusato di aver fatto affermazioni che negavano l’Olocausto. Aggiungi al riguardo che non è compatibile con il pubblico impiego chi neghi la Shoah. Rimettiamo al centro il dialogo e l’ascolto pluralista. Si approfitti di questa occasione per sollevare un dibattito serio nel Paese”.

 Profondo rosso. Augusto Minzolini il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Oggi a Firenze ci sarà il battesimo del nuovo progetto politico della sinistra.

Oggi a Firenze ci sarà il battesimo del nuovo progetto politico della sinistra. Pd, Verdi e post comunisti, grillini, Landini e una spruzzatina di «radical chic» alla Oliviero Toscani, tutti insieme appassionatamente per una manifestazione anti-fascista. Un salto indietro nel tempo di decenni e decenni. Ma, soprattutto, una regressione della sinistra italiana, che per sposarsi con i 5 Stelle ha ritirato fuori dalla soffitta il vecchio armamentario di un tempo.

Ora, tutto è legittimo e rispettabile, ma parlare di fascismo nel 2023 fa un po' impressione. Soprattutto è un argomento che la sinistra tira in ballo ogni volta che è in crisi di idee per criminalizzare l'avversario. Un'arma spuntata che ha come unica conseguenza quella di radicalizzare gli animi e riproporre lo scontro ideologico. Il che potrà pure apparire assurdo, ma è proprio l'obiettivo di Elly Schlein: radicalizzare lo scontro per ridare un'anima al Pd.

Il nuovo vestito del partito è il profondo rosso, proprio per evitare che qualcosa possa nascere o vivere alla sua sinistra. In fondo è una vecchia regola comunista, riletta e riveduta in chiave movimentista. Se cinquanta anni fa il problema del Pci era non farsi scavalcare dai gruppuscoli dei vari Lucio Magri o Mario Capanna, ora la Schlein punta a dire qualcosa più di sinistra - per citare Nanni Moretti - di Giuseppe Conte. Anzi , lo insegue sulle sue tematiche. Siamo, quindi, in un vortice che vede la nuova segretaria del Pd chiedere le dimissioni del ministro dell'Interno e aderire alla manifestazione grillina di solidarietà verso la preside che ha lanciato l'allarme anti-fascista a Firenze.

È evidente che in uno schema del genere la proposta economica del Pd ricalcherà quella dell'anima più massimalista della Cgil: un fisco proiettato verso ogni tipo di patrimoniale e un ambientalismo ideologico. La politica estera, invece, asseconderà il pacifismo disarmato dei grillini. Come pure sulla giustizia sarà cancellata anche l'ombra del garantismo per non dispiacere a Conte e a Travaglio e non prestare il fianco alle loro critiche.

Su questa linea, come è avvenuto in passato, i veri nemici del Pd diventeranno i riformisti, cioè quelli dentro al partito (le loro speranze ecumeniche si trasformeranno sempre più in contraddizioni insuperabili) e l'area di centro che guarda a sinistra. Un'area che per un Pd protagonista di un processo di polarizzazione della politica italiana, va delegittimata. In fondo i massimalisti da sempre individuano nei riformisti i loro avversari giurati. Basta pensare alla faida tra socialisti e comunisti in questo Paese (la vicenda di Bettino Craxi è esemplare).

Polarizzare significa, infatti, obbligare gli altri a schierarsi, a stare di qua o di là. Ed è naturale che l'«antifascismo» sia uno degli argomenti, magari il più comodo in presenza di un governo caratterizzato a destra, con cui scavare un solco. Una patina coniugabile con tutto: con la violenza nelle piazze, con l'immigrazione, con i diritti civili e chi più ne ha più ne metta.

Il delirio antifascista di Montanari getta benzina sul fuoco: vuole “aprire la testa” agli studenti. Federica Argento il 4 Marzo 2023 su Il Secolo d’Italia.

Lo sproloquio antifascista di Tomaso Montanari dal palco di Firenze è la raffigurazione plastica dell’odio e dell’intolleranza. La sinistra condanna la violenza nelle scuole in maniera selettiva: quando a picchiare sono i rossi nessuno lo deve sapere. Vedi i fatti di Bologna. In presenza, nello stesso giorno, di striscioni con Meloni e Valditara a testa in giù davanti al liceo Carducci di Milano la parola d’ordine è tacere.  Nessuno da sinistra ha preso le distanze. Tantomeno Montanari. Invece il problema oggi per il rettore dell’Univeristà di Siena e per quanti lo hanno applaudito al corteo fiorentino è il fascismo.

Secondo lui, che ha anche le traveggole,  “oggi nella politica, nei media, c’è una grande zona grigia di complicità con i fascisti. Ci dicono: questo governo non c’entra nulla con il fascismo e io dico: se il ministro della Scuola intimidisce una preside perché ha parlato di antifascismo allora dov’è che siamo? Fascista è chi il fascista fa”. Il rettore dell’Università per stranieri di Siena getta benzina sul fuoco dal palco di Firenze.

Le sue parole sono pericolose. Praticamente dice che la scuola deve fare politica e instillare un antifascismo in assenza di fascismo. Parole grottesche. Per Montanari la scuola non ha fatto abbastanza nell’opera di indottrinamento e di emarginazione di chi non ha un orientamento di sinistra. “E’ la stessa democrazia ad essere a rischio tra astensionismo di massa e ritorno del fascismo – prosegue nel suo delirio- . Perché non si è lavorato a produrre una massa cosciente. Eppure è a questo che serve la scuola: non a selezionare una classe dirigente ma a formare una massa cosciente, parole di don Milani”. Gli studenti per lui devono essere manipolati fino a diventare “massa cosciente”. Dove pensa di stare, nell’ex Urss?

Vogliamo davvero essere antifascisti? – esplode- . Riportiamo la scuola alla sua funzione costituzionale. Permettiamo che abbia una sua coscienza civile per non tradire anche noi i nostri ragazzi. Perché se accanto ai calci dei fascisti si prendono anche la scuola del ‘merito’ e dell’alternanza scuola-lavoro allora davvero non c’è speranza”. Il riferimento al “merito” è una chiara istigazione in quel contesto di piazza: ragazzi, il ministro Valditara, al quale ha dato poco prima del “fascista”, è il nemico. Dirà qualcosa dei democraticissimi studenti che hanno messo il ministro a testa in giù sullo striscione? Sono “massa” sufficientemente “cosciente”?

Come vuole “aprire la testa” agli studenti

Ad istigare all’odio oggi c’era Montanari e a chi l’ ha applaudito acriticamente.  Il peggio viene alla fine, quando l’ultras Montanari ha usato parole tristemente evocative. “Nessuno di voi, ragazzi, pensi che la testa dei fascisti si apra a forza di colpi con la chiave inglese”. Pensava di usare parole di pacificazione, ma non lo sono affatto.  “Ai fascisti la testa gli si apre con scuola giusta”. Qualche cattivo maestro dovrà farsi un esame di coscienza.

La surreale marcia di Conte e Schlein contro i fascisti (immaginari) Andrea Indini il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il corteo antifascista di Firenze raccatta tutta la sinistra: dall'Anpi alla Cgil, dai 5S ai dem. Impugnano la Costituzione contro una deriva dittatoriale ma chiudono gli occhi davanti alla minaccia anarchica

Ebbene sì: nel 2023 siamo ancora qui a parlare di fascismo. Impossibile farne a meno. Perché il corteo di Firenze - o meglio la surreale "passeggiata antifascista" indetta da Cgil, Cisl e Uil "in difesa della scuola e della Costituzione" - è diventato tutt'a un tratto il collante del sinistrume nostrano, grillini compresi. Accanto ai centri sociali, ai collettivi studenteschi, alle prezzemoline sigle dell'onnipresente associazionismo rosso (Anpi, Acli, Cobas e l'immancabile Anpi), si sono accodati - rullo di tamburi - la neo segretaria nazionale del Pd Elly Schlein e il leader M5S Giuseppe Conte. Tutti a fingere che l'Italia corra un gravissimo rischio: l'instaurazione di una nuova dittatura fascista.

A sentir sproloquiare gente come il segretario della Cgil Toscana, Rossano Rossi (omen nomen), qualcuno tra quelli che oggi hanno marciato a Firenze contro il "disgustoso rigurgito" dello squadrismo nero sembrerebbe credere davvero a questo imperituro allarmismo che àncora la sinistra in crisi di ideali (ma non di ideologia) ai fantasmi di settant'anni fa. "Il fascismo oggi prende il volto delle organizzazioni di estrema destra che picchiano giovani di sinistra davanti alle scuole e assaltano le sedi sindacali", ha sentenziato Rossi. E poi ancora: "Dobbiamo essere partigiani e non indifferenti: Firenze e la Toscana oggi sono il centro dell'Italia democratica e antifascista". Partigiani, appunto. Come all'inizio degli anni Quaranta del secolo scorso. E come oggi, nel nuovo millennio. Tutto muta, tranne loro. Partigiani sempre. Bella ciao e tutto il resto: i pugni chiusi, le bandiere rosse con la falce e il martello, gli slogan. Sempre i soliti, come quello intercettato dal Foglio: "Uccidere un fascista non è un reato". E poi il tiro al ministro, Giuseppe Valditara in primis. E anche i due Matteo, Salvini e Piantedosi. Ma soprattutto lei: Giorgia Meloni. Tutti fascisti, tutti da defenestrare da Palazzo Chigi e dai loro ministeri. Esattamente come li hanno dipinti gli studenti del liceo classico "Carducci" di Milano: premier e ministro dell'Istruzione a testa in giù. Ecco l'"Italia democratica e antifascista", ecco la crème de la crème dei collettivi studenteschi. Stessa risma dei centri sociali che a Bologna hanno preso a bastonate i ragazzi di Azione Universitaria. O dei violenti che alla Sapienza hanno tolto a Daniele Capezzone il diritto a parlare.

A questa combriccola di manifestanti va dato atto che, di generazione in generazione, perseverano con assurda tenacia nella solita, strampalata narrazione. Decine di anni a brandire la Costituzione contro un'immaginaria deriva autoritaria che non si è mai verificata. Ma che importa? "Siamo in piazza per difendere i principi costituzionali", sentenzia Conte. Eppure il governo è stato eletto democraticamente, dovrebbe saperlo, lui che a Palazzo Chigi è stato paracadutato senza nemmeno passare dal voto e quando ci è passato ha perso. Pure la Schlein sembra ignorare il mandato popolare conferito al centrodestra. "Il Pd è ovunque si difende Costituzione", dice. E poi col più classico dei no pasarán: "Quei metodi violenti non passeranno, quei metodi squadristi non passeranno, troveranno questo cordone di solidarietà umana a difesa della scuola come presidio di cultura antifascista". Un cordone di solidarietà umana che, quando a odiare, pestare e minacciare sono i centri sociali, i collettivi studenteschi o gli anarchici, si volta opportunamente dall'altra parte.

Quella surreale marcia fuori tempo. Dopo la marcia su Roma, ecco cent'anni dopo la surreale la marcia su Firenze. Paolo Armaroli il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.

Dopo la marcia su Roma, ecco cent'anni dopo la surreale la marcia su Firenze. Aveva ragione il vecchio Marx, Carlo non Groucho: «La Storia si manifesta una prima volta in tragedia e una seconda volta in farsa». Ieri hanno marciato sul capoluogo toscano i soliti noti: Landini, l'Anpi e compagnia cantante. Gente che ancora non ha digerito che Giorgia Meloni si sia legittimamente insediata a Palazzo Chigi senza sfigurare affatto. Come hanno riconosciuto Letta e Bonaccini, per questo lapidati dai sanculotti delle zone a traffico limitato delle grandi città. Né poteva mancare noblesse oblige la partecipazione straordinaria di Conte, un estremista per prudenza, e della Schlein. I promessi sposi. I Renzo e Lucia dei giorni nostri. Ma, come nelle comiche finali, presto potrebbero prendersi a torte in faccia per via della «roba»: i voti degli elettori.

Che ci sono venuti a fare? Ma è chiaro: per sfogare in corteo la loro rabbia. Novelli Don Chisciotte, hanno voluto ancora una volta combattere fuori tempo massimo contro i mulini a vento di un fascismo immaginario. Roba da matti. Hanno voluto esprimere la loro solidarietà alla preside Savino, sulla cui famosa lettera il ministro Valditara si è permesso di esprimere perplessità non sulle sue opinioni ma sui suoi errori. Perché Gramsci non è morto in carcere. Come ha scritto spensieratamente la preside, abilitata pare all'insegnamento di storia e filosofia. No, Gramsci era da un pezzo in libertà condizionata. Perché la ricostruzione della nascita, e della rinascita, del fascismo da parte della preside è stata ad usum delphini. Perché la sua condanna delle frontiere è assurda. Difatti, oltre a delimitare un territorio, racchiudono un'identità nazionale. Siamo entrati in Europa in quanto italiani. E ne siamo orgogliosi.

Elly ha esordito dicendo che farà vedere i sorci verdi a Giorgia. Sai che paura, ha lasciato intendere la presidente del Consiglio. Lei si aspetta dal Pd un'opposizione durissima. Fuori e dentro il Parlamento. Ma l'opposizione va saputa fare. E la fresca numero uno del Pd ha cominciato con il piede sbagliato. Una manifestazione riesce non per il numero dei partecipanti, un'infinitesima parte della popolazione. Ma se squaderna una buona causa davanti al tribunale dell'opinione pubblica. E invece anche qui a Firenze ieri si è manifestato non «per» ma «contro». Il colmo della mistificazione è poi osannare a parole la Costituzione, quella che Benigni e i suoi cari definiscono la più bella del mondo, e nei fatti proteggere gli studenti che se la mettono sotto i piedi quando pretendono di vietare la libera manifestazione di pensiero come all'università di Roma, a Firenze, a Bologna e altrove a chi non la pensa come loro.

Si può ingannare una persona per tutta la vita, tutti per una volta, ma non si possono ingannare tutti per sempre. Parola di Abramo Lincoln. Ma lo sanno i manifestanti fiorentini di ieri? Lo sanno i promessi sposi?

Unico collante ideologico la mobilitazione totale contro il pericolo fascista (che però non esiste). Rispolverato il vecchio ritornello lo tirano in ballo come pretesto. Francesco Giubilei il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Quasi ogni giorno, dalla campagna elettorale di questa estate a oggi, la sinistra ha rispolverato un suo grande classico: l'antifascismo come strumento politico. Una tendenza destinata a durare per tutto il periodo in cui il centrodestra governerà e che utilizza ogni occasione per tirare in ballo il «pericolo fascista». Lo si è visto con quanto avvenuto al Liceo Michelangiolo di Firenze e con le successive polemiche dopo la lettera della preside del Liceo Da Vinci di Firenze Annalisa Savino e le parole del ministro Valditara culminate con la manifestazione antifascista andata in scena ieri a Firenze in cui, guarda caso, era presente anche la Savino. Già a settembre, pochi giorni prima delle elezioni, Enrico Letta aveva dichiarato: «La moderata Meloni annuncia che cambieranno la Costituzione da soli. Gli italiani domenica, con il loro voto, diranno a questa destra che la Costituzione nata dalla Resistenza e dall'antifascismo non si tocca». Non è andata proprio così. Il suo compagno Nicola Fratoianni era stato ancor più esplicito: «Meloni dice che non è fascista. Ma per governare l'Italia bisogna fare un passo in più, bisogna definirsi antifascista». Una frase significativa che testimonia come non sia sufficiente dirsi non fascisti ma occorra definirsi «antifascisti» come se si trattasse di un'ideologia a cui aderire. Le parole di Fratoianni spiegano che, qualunque cosa dica la destra su questi temi, non basta mai, serve sempre un passo in più fino a dar vita alla famosa destra che piace alla sinistra. Perciò ieri a Firenze la «cosa rossa» è scesa «in piazza per ribadire l'antifascismo come valore fondante» in una manifestazione che, già dagli intenti, è nata contro qualcuno o qualcosa, in questo caso Valditara e il governo. Una grande chiamata a raccolta dalla Schlein a Conte, da Landini all'Anpi. Nelle ultime settimane è stato un profluvio di dichiarazioni e, con la «piazza antifascista» di Firenze (a quando una «piazza anticomunista» (?), si è toccato il punto più alto. Se la Schlein ha parlato di una «risposta allo squadrismo» e di una «scuola come presidio antifascista», il suo collega Giuseppe Provenzano del Pd ha affermato: «I valori dell'antifascismo dovrebbero unire tutte le forze politiche. Oggi è il momento dell'unità di popolo». Tomaso Montanari, rettore dell'Università per stranieri di Siena, ha invece utilizzato toni radicali: «Ci dicono questo governo non c'entra nulla con il fascismo e io dico se il ministro della Scuola intimidisce una preside perché ha parlato di antifascismo allora dov'è che siamo? Fascista è chi il fascista fa». Secondo Rossano Rossi, segretario della Cgil Toscana: «Dobbiamo essere partigiani e non indifferenti: Firenze e la Toscana oggi sono il centro dell'Italia democratica e antifascista». Se per i fatti del Liceo Michelangiolo non si sono sprecate le parole, si registra un silenzio assordante per condannare l'aggressione avvenuta qualche mese fa a Bologna da parte dei collettivi ai danni di alcuni studenti di destra di cui sono state da poco diffuse le immagini. Così come sono mancate frasi di solidarietà al ministro Valditara per le minacce ricevute o prese di distanza dai collettivi quando impedivano di svolgere convegni nelle università pubbliche. Sarebbe davvero paradossale se ancora oggi passasse il messaggio che la violenza è sbagliata ma ci sono alcune violenze più sbagliate di altre a seconda di chi le compie.

No alla violenza fascista”, censura su quella comunista: Repubblica ormai sembra la Pravda. Lucio Meo il 4 Marzo 2023 su Il Secolo d’Italia.

Grande spazio, questa mattina, sui giornali di sinistra, alla manifestazione anti fascista che si svolgerà nel pomeriggio a Firenze a seguito della rissa di qualche giorno fa all’esterno di un liceo fiorentino, tra ragazzi di opposte fazioni. Nulla, o quasi, invece, sulle indagini a carico degli studenti dei Collettivi a carico degli esponenti di Azione studentesca, con otto giovani “compagni” indagati dalla Procura di Bologna anche grazie a un video che riprende le scene di violenza. “Repubblica”, in particolare, saluta il debutto della Schlein a Firenze con una paginata di giubilo, senza dedicare neanche un rigo ai fatti di Bologna. “No alla violenza fascista”, scrive “Repubblica”, ma su quella comunista non c’è spazio neanche per una breve. Magari due righe per dire che a Bologna, menare un ragazzo di destra, non è vero che non è reato…

Repubblica” allarmata per la violenza fascista, ma solo per quella…

La manifestazione antifascista quella che attraverserà le strade del centro storico oggi pomeriggio. Un corteo che riunirà non solo fiorentini, ma anche studenti, genitori, insegnanti e lavoratori da altre regioni: Lombardia, Piemonte, Lazio, Emilia. E poi numerosi volti della politica, con i capi di partito: dalla nuova segretaria nazionale del Pd, Elly Schlein a Giuseppe Conte leader dell Movimento 5 Stelle….”, scrive “Repubblica” .

 Bologna, otto indagati per il pestaggio ai danni degli studenti di destra. Ma nessuno si è mai indignato... (video)

Eppure ieri tutte le agenzie hanno dato la notizia di otto giovani sono indagati dalla Procura di Bologna per un’aggressione, avvenuta il 19 maggio 2022 ai danni di un gruppo di studenti di Azione Universitaria. Le accuse contestate sono di lesioni personali aggravate e rapina.

Le minacce agli studenti fascisti

In particolare, come si legge nel capo di imputazione, contenuto nell’avviso di conclusione delle indagini, gli indagati “in concorso tra loro e con altri non tutti meglio identificati con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, rivolgendo minacce con frasi del tipo “tornate nelle fogne”, “siete morti”, “vi uccidiamo”, “ve ne dovete andare”, nonché per mezzo di violenza consistita in calci, spintoni, pugni e strattonamenti al fine di trame un ingiusto profitto si impossessavano delle bandiere e delle aste per bandiere detenute dagli esponenti del movimento studentesco ‘Azione Universitaria’. Uno degli aggressori in particolare si scagliava con violenza da tergo contro uno dei membri del movimento, sfilandogli così la bandiera che lo stesso portava alle spalle”. Cosine così, secondarie per “Repubblica” nazionale, nel giorno del “no alla violenza fascista…”.

In corteo bandiere e slogan violenti: "Uccidere i fascisti non è reato". Federico Bini il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.

Altro che difesa della scuola e della Costituzione, solo attacco all'esecutivo di centrodestra. Nel mirino i ministri Piantedosi e Valditara. E qua e là anche manifesti di solidarietà a Cospito e contro il 41 bis.

Firenze. Doveva essere una manifestazione a difesa di scuola e Costituzione, quella organizzata ieri da Cgil, Cisl e Uil, dopo i fatti del Liceo Classico Michelangiolo. Invece si è trasformata, come era facile intuire, in un evento strettamente politico e contro il governo Meloni. Gianfranco Pagliarulo, presidente Anpi, attacca: «Meloni, lei piange per le leggi razziali ma non condanna il fascismo!». E qualcuno grida: «Il maresciallo Tito ce l'ha insegnato uccidere un fascista non è un reato».

In piazza si respira un ritorno al passato più che al futuro, riproponendo una sinistra che vuole mettere insieme forze moderate con frange più estremiste e radicali. Slogan «boicottare Israele e Palestina libera», bandiere jugoslave, anarchiche, palestinesi, tante falci e martello, cartelloni con scritto «sono antifascista ma soprattutto comunista», «Valditara e Piantedosi. Dimissioni». Ma forte è anche il sentimento anti-Nato. Spiccano manifesti contro l'imperialismo, il militarismo e le guerre umanitarie, colpevoli di «rapinare risorse e fonti di energia». Il corteo giunge in Santa Croce sulle note di Bella Ciao, e lentamente iniziano ad arrivare prima gli esponenti di primo piano dei partiti e poi i leader. Bonelli, Fratoianni, Serracchiani, Boldrini, Fiano, Verini, Provenzano, quindi la neosegretaria Schlein e Giuseppe Conte. Al momento della foto tra Landini, Conte e Giani, un organizzatore della Cgil si lascia andare ad una battuta: «Sta nascendo il Conte ter» e a fine comizio, sotto il palco un altro sindacalista, soddisfatto dell'esito, strizzando l'occhio al compagno (alcuni si chiamano ancora compagni) esclama: «Bene. Possiamo dire che l'operazione politica è stata compiuta». E se anche i rappresentanti del Pd non lo ammettono chiaramente, da Giani alla Boldrini, parlano di «piazza democratica», è probabile che da qui possa iniziare il percorso per la nascita di un nuovo fronte progressista. Dal palco uno dei ragazzi chiamati a intervenire si lascia andare - si spera a causa della foga del momento ad un «c'è Cospito in carcere e i fascisti liberi». In diversi intervistati, antifascisti lombardi e liguri, c'è solidarietà verso l'anarchico rinchiuso al 41-bis. Qualcuno parla addirittura di «persecuzione politica». Applauditissima e super protetta dagli uomini delle forze dell'ordine la neosegretaria del Pd. Gli elettori democratici apprezzano una svolta più a sinistra, sconfessano Matteo Renzi, «non l'abbiamo mai votato!», e Carlo Calenda. Ma sono comunque i tanti ragazzi dei collettivi e non, che davanti ai vertici dei partiti chiariscono: «Non vengano pure qui a fare passerelle. Dal comune alla regione al governo nazionale hanno partecipato alla distruzione del paese». Come vedrebbe questa alleanza tra Pd e M5s - chiedo ad un passante con la bandiera della Cisl messa in modo un po' garibaldino? «Io sono un cattolico di sinistra. Mi rappresentava Fioroni che però è uscito spero non sia solo un accordo elettorale». Ma dal reddito di cittadinanza, «non sono favorevole», all'invio di armi a Kiev non è in linea con la politica contiana. Insomma, molte sono le contraddizioni nella rossa piazza fiorentina. Anzi, richiamando Mao, «grande è la confusione» nella galassia progressista. Schlein e Conte in fondo al palco parlottano amichevolmente, poi si girano e salutano insieme. L'antifascismo e la lotta al governo Meloni, li unisce, almeno nei discorsi. All'uscita, un gruppo di giovani regala dei giornalini marxisti per la rivoluzione: «L'inganno della transizione capitalista».

La battaglia di libertà: dalla strage di Cutro a Cospito. Il fascismo è processare ingiustamente Berlusconi e tenere Eva Kaili in carcere tra torture e ricatti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Marzo 2023

Oggi si svolge a Firenze una manifestazione antifascista. È stata convocata per protestare contro l’aggressione subita dagli studenti del liceo Michelangelo da parte di una pattuglia di estrema destra, e contro il silenzio del governo di centrodestra su questo episodio. È giusto protestare. Anche se il liceo Michelangelo non credo sia il cuore del problema-Italia.

Io resto dell’idea che se vogliamo fare delle battaglie antifasciste serie, dobbiamo occuparci del fascismo moderno. Che poi ognuno può chiamarlo come vuole ma è un fenomeno reazionario vero, non solo italiano, che rischia di rimandare indietro di molti anni il livello alto di civiltà che l’Europa aveva conquistato in questi anni. Per me l’antifascismo non è un’etichetta. Una bandiera. Un richiamo alla tradizione e all’eroismo dei partigiani. Non è la canzone Bella Ciao o Fischia il vento. Non è un rito. È più radicalmente – molto più radicalmente – una battaglia per la libertà, contro la repressione, contro il giustizialismo, l’ultralegalitarismo, la xenofobia, il razzismo, il nazionalismo, l’autoritarismo. Per me antifascismo vuol dire opporsi ai respingimenti dei profughi, difendere l’articolo 10 della Costituzione, protestare per la detenzione (in assenza di reati) di Dell’Utri o di Contrada e per il carcere duro illegalmente inflitto ad Alfredo Cospito.

È difendere la comandante Carola Rakete, e anche Berlusconi processato ingiustamente, è trovare casa e lavoro ai migranti, denunciare la follia della violazione dell’articolo 11 della Costituzione e del coinvolgimento dell’Italia nella guerra in Ucraina, ed è anche indignarsi per i fenomeni di Torquemadismo in corso in Belgio ai danni di alcuni parlamentari europei. Mi riferisco in particolare alla situazione della deputata europea di nazionalità greca Eva Kaili, che è stata catturata e messa in cella tre mesi fa con l’accusa di essersi fatta corrompere dal governo del Qatar, o forse da quello del Marocco, ma contro la quale, a quanto sembra, non si trovano le prove. La Procura belga ha deciso di usare il carcere come mezzo di indagine. Come si faceva fino al 700.

Lo ha già fatto con il compagno della Kaili, Francesco Giorgi, e con Antonio Panzeri. Loro hanno accettato il gioco, pare, hanno confessato, hanno lanciato qualche accusa contro un paio di parlamentari, seppure senza offrire riscontri, hanno detto quello che i magistrati volevano che dicessero, e in cambio hanno ottenuto uno la liberazione, l’altro un formidabile sconto di pena e la scarcerazione di moglie e figlia. Eva Kaili invece non ha accettato di confessare, si dichiara innocente e fa infuriare gli inquirenti. Che l’hanno arrestata illegalmente, perché lei era protetta dall’immunità parlamentare – inventandosi una inesistente flagranza di reato – l’hanno anche torturata, tenendola 48 ore al gelo e senz’acqua (dopo avergli sequestrato anche il cappotto) in una cella di isolamento con le luci sparate per non farla dormire, e le hanno fatto capire che o parla o resta al gabbio.

Ieri il giudice ha respinto una sua richiesta di liberazione e ha decretato che starà in cella almeno altri due mesi. Cioè che per ora è stata condannata a cinque mesi di prigione senza processo. Poi, se non parla, altri mesi. Sebbene non esistano le condizioni per la carcerazione preventiva (non può scappare, non può reiterare, non può inquinare le prove) e sebbene la Kaili sia madre di una bambinetta di due anni che non vedrà la mamma per almeno cinque mesi (nemmeno nel giorno del suo secondo compleanno), che sono i mesi più importanti della vita di un bambino per i rapporti con la mamma. Chiamatelo medioevo, chiamatelo fascismo, se per fascismo intendete il modello più noto dei regimi autoritari europei, chiamatela pura sopraffazione dello Stato. Di certo è una violazione pazzesca del diritto e una sfida alla politica e alla democrazia. La politica però non reagisce. Si inchina a Torquemada. La stampa non ha neanche bisogno di inchinarsi perché è già prona.

Mi piacerebbe se la manifestazione di Firenze si occupasse anche di questo. E si schierasse a difesa della deputata greca. E poi, soprattutto, mi piacerebbe se si occupasse di Cutro e protestasse per la politica della non-accoglienza (che certo però non può essere addossata solo al governo attuale) che sei giorni fa ha provocato una vera e propria strage di profughi. Avvenimento che a me pare, per la sua gravità, schiacci tutte le altre polemiche. È impossibile spiegarsi come mai i ministri che avevano la responsabilità dei salvataggi non siano stati ancora allontanati. Elly Schlein ha chiesto l’altro giorno le loro dimissioni. Ha fatto benissimo. È un ottimo esordio. Mi auguro che non demorda. Sennò l’antifascismo diventa pura cerimonia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Minaccia fascista immaginaria, violenza anarchica reale. Schlein e Conte marciano contro un minaccia inesistente, gli anarchici devastano Torino in nome di Cospito. Il legame tra le due piazze e i silenzi colpevoli della sinistra. Andrea Indini il 6 Marzo 2023 su Il Giornale.

Le aste dei segnali stradali divelte per distruggere automobili e negozi. A terra, lungo le vie che hanno attraversato, i segni della devastazione. I tombini di ghisa usati allo stesso modo. Per danneggiare, per rompere qualunque cosa gli capitasse a tiro, per far dilagare odio e violenza. Guerriglia urbana in nome di un terrorista al 41 bis, guerriglia urbana per chiedere che quel terrorista venga tolto dal 41 bis nonostante il sangue che ha versato. Violenza su violenza. Nell'arsenale degli anarchici, che ieri pomeriggio hanno protestato a Torino, la Digos ha trovato di tutto. Maschere antigas, scudi, caschi, liquido infiammabile, fumogeni e altri tipi di artifici pirotecnici. E ancora: bastoni, martelli e tenaglie. Sono la prova che il corteo era sceso in piazza non per manifestare ma per spaccare e fare del male agli agenti.

Due piazze distanti. A Firenze il volto "pacifista" della sinistra: l'abbraccio tra la neo segretaria piddì Elly Schlein, il leader M5s Giuseppe Conte e il segretario dell Cgil Maurizio Landini, le bandiere arcobaleno, gli slogan in difesa della Costituzione e della scuola. A Torino il braccio violento della sinistra extraparlamentare: i manifestanti con le tute scure e i volti nascosti nei caschi, le bandiere nere con la "A" rossa di anarchia, gli slogan a inneggiare Alfredo Cospito. Due piazze distanti, ma non troppo. Perché a Firenze, tra le pieghe del "sabato antifascista", è tangibile quello stesso germe di violenza. Lo puoi respirare a pieni polmoni quando la piazza scandisce a gran voce "Il maresciallo Tito ce l'ha insegnato: uccidere un fascista non è un reato". Lo intravedi quando leggi "Tortura di Stato" sui drappi bianchi portati in corteo e senti la solidarietà dei manifestanti per il terrorista. Echi che rimbalzano da una piazza all'altra. Un legame stretto che i dem, i Cinque Stelle e le sigle dell'associazionismo rosso intervenute ieri continueranno a negare come hanno sempre fatto. Ma è un legame che esiste. E fa paura.

La surreale marcia di Conte e Schlein contro i fascisti (immaginari)

Poche ore prima che a Torino esploda la violenza, a Milano gli stessi anarchici appendono sui cancelli di un liceo classico i busti della Meloni e del ministro all'Istruzione Giuseppe Valditara. Appesi al contrario, appesi a testa in giù. Sempre lo stesso germe che si è sparso ieri sera per le vie di Torino. Possibile non vederlo? A sinistra non ci riescono proprio. Sono troppo impegnati a dare la caccia a una fantomatica minaccia fascista. E così succede che, mentre scendono in piazza per difendere il liceo "Michelangiolo" di Firenze, si scordano del raid dei collettivi di Bologna ai ragazzi di Azione Studentesca. E succede anche che, mentre accusano il governo di minare la tenuta democratica del Paese, chiudono gli occhi davanti alle pulsioni anarchiche della loro stessa piazza. Le stesse pulsioni che in un'altra piazza (distante nemmeno così tanti chilometri) sfociano in devastazioni e violenze e mandano in ospedale diversi poliziotti. Forse è per tutto questo che sia sui fatti di Milano sia sulla guerriglia urbana di Torino gravano i silenzi colpevoli di tutta la sinistra.

Gridano al fascismo. Ma le vere minacce sono i vessilli neri della lotta anarchica. I rapporti dell'intelligence: "Si sono mobilitate numerose sigle nazionali e internazionali". Il caso Cospito pretesto per l'azione distruttiva. L'avvertimento: "Se Alfredo muore sarà vendicato". Massimo Malpica il 6 Marzo 2023 su Il Giornale.

C'è un vento nero che soffia sull'Italia, ma non pare essere quello che la sinistra agitava come spauracchio contro il governo Meloni. Il vento agita infatti una nera bandiera anarchica, e non fascista, brandita da mesi per supportare la causa di Alfredo Cospito. «Finché Alfredo respira dobbiamo lottare per lui. Ma se Alfredo muore questi vigliacchi e assassini devono pentirsi di quello che stanno facendo: dobbiamo fargliela pagare». Quasi una dichiarazione programmatica quella dello storico militante anarchico disabile Pasquale Lello Valitutti, che chiarisce l'obiettivo della rivolta anarchica degli ultimi mesi. Una vera escalation, che ha accompagnato le polemiche sul regime carcerario al quale è costretto il leader della Federazione anarchica informale. Le parole di Valitutti, la sua personale opinione su come appoggiare la battaglia del compagno Cospito ed eventualmente vendicarlo se dovesse portare il suo sciopero della fame contro il carcere duro fino alle estreme conseguenze, hanno aperto l'ultimo capitolo del libro delle proteste e delle violenze, il corteo torinese di sabato. Partiti da piazza Solferino, le centinaia di anarchici arrivati da ogni parte d'Italia hanno percorso le vie del centro della città piemontese accendendo fumogeni, imbrattando i muri con simboli anarchici, scritte a favore di Cospito, slogan contro il 41 bis e insulti contro il Guardasigilli Nordio, vandalizzato auto, palazzi, negozi, lanciato bombe carta e petardi e divelto segnali stradali per usarli come arieti nella loro devastazione. Un bilancio da guerriglia, condito dai racconti terrorizzati dei negozianti che non avevano accolto l'invito a sprangare le serrande e dal bollettino della questura sulle decine di militanti fermati in seguito agli scontri. Ma, appunto, il corteo torinese è solo l'ultimo di una lunga teoria di proteste, blitz, assalti e violenze pure e semplici. In tutta Italia, e contro i simboli italiani anche all'estero. Come nel caso dell'attentato incendiario del primo dicembre scorso, ad Atene, all'automobile di Susanna Schlein, sorella maggiore della nuova segretaria del Pd, Elly, e Primo consigliere dell'ambasciata italiana in Grecia. Rivendicato da un gruppo anarchico greco proprio per solidarietà con Cospito. O come l'incendio dell'auto di Luigi Estero, Primo consigliere dell'ambasciata italiana a Berlino, andata in fiamme la sera del 27 gennaio e rivendicata tre giorni dopo dagli uccelli neri, cellula anarchica tedesca, come segno di adesione alla settimana di azione a favore di Cospito proclamata, spiegavano nel loro comunicato, dall'America meridionale.

Non è un caso che nelle stesse ore di questa chiamata internazionale all'azione da parte della galassia anarchica, a Barcellona andava in scena un blitz gemello, con un commando che ha vandalizzato coprendo di scritte contro il 41 bis e a favore di Cospito l'esterno dell'edificio che ospita il consolato italiano nella città catalana. E, sempre tra 27 e 28 gennaio, era stata data alle fiamme anche una torre radio in provincia di Torino, anche qui rivendicando l'attentato con scritte a favore del leader anarchico e con la richiesta di mettere fine al carcere duro.

Impossibile poi contare le scritte e gli insulti contro i rappresentanti di questo e del precedente governo, contro Nordio e contro l'ex Guardasigilli Marta Cartabia, contro i magistrati e contro ergastolo ostativo e 41 bis apparsi sui muri in tutta Italia, da Sud a Nord passando per le isole. E anche secondo l'intelligence, se c'è un pericolo nero in Italia, è quello rappresentato dai vessilli anarchici. Che, stando alla relazione al Parlamento dei nostri 007, è la minaccia «più concreta e vitale, caratterizzata da componenti militanti determinate a promuovere, attraverso una propaganda di taglio fortemente istigatorio, progettualità di lotta incentrate sulla tipica azione diretta distruttiva». Con un'enfasi proprio sulla vicenda Cospito, che ha innescato «una veemente mobilitazione, sostenuta e animata da numerose sigle, italiane ed estere, che si rifanno, per metodiche operative, alla parabola eversivo-terroristica della Fai/Fr».

Manifestazione per Cospito a Torino, danni e feriti. Adesso il Pd sarà contento… di sostenere la battaglia anarchica sul 41bis. Redazione CdG 1947 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Marzo 2023.

Circa cinquecento persone al corteo per l'anarchico in sciopero della fame al 41 bis. Atti vandalici nelle vie del centro, tra vetrine e spaccate e segnali stradali divelti. Due agenti subiscono lesioni. Trentaquattro denunciati: quattro rischiano l'arresto

Trentaquattro manifestanti fermati, quattro dei quali rischiano l’arresto, due poliziotti feriti, vetrine spaccate, danni alle automobili parcheggiate e lanci di lacrimogeni. Questo il bilancio momentaneo del corteo in solidarietà con Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame detenuto al 41 bis, che ha visto sfilare circa 500 persone nel centro di Torino, provenienti da tutta Europa. “Alfredo non deve morire, se muore gliela faremo pagare”, hanno scandito dai megafoni. I manifestanti, molti dei quali nascosti da caschi, maschere e cappucci, e con scudi di plexiglas, dopo aver acceso alcuni fumogeni, hanno lanciato petardi e imbrattato muri e monumenti. E poi bombe carta, vetrine di banche e negozi prese a mazzate e mandate in frantumi, auto vandalizzate, cassonetti bruciati. Questa manifestazione, gli anarchici la preparavano da mesi. In solidarietà a Cospito, per dimostrare anche ancora ci sono e in una città Torino, che per loro è un simbolo.

Nei pressi del mercato di Porta Palazzo le forze dell’ordine hanno lanciato alcuni lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Il corteo si è quindi disperso e separato per poi ricompattarsi poco distante, in piazza Borgo Dora, davanti al Sermig, dove c’è stato un breve contatto con le forze dell’ordine e l’utilizzo di lacrimogeni. Due poliziotti sono rimasti feriti nel corso delle tensioni. Si tratta di un operatore del reparto mobile di Milano che è stato colpito da una bomba carta alla gamba e di una operatrice della polizia scientifica che è rimasta ferita da una bottiglia di vetro alla mano.

Complessivamente sono 350 le persone fermate e identificate, tra queste figurano persone provenienti da Francia, Spagna, Germania, Austria, Belgio e da una ventina di città italiane. Intanto, è salito a 34, al momento, il numero delle persone in stato di fermo e denunciato, la cui posizione è in queste ore al vaglio degli investigatori. Comminati 11 fogli di via. Durante i controlli disposti tra ieri e oggi in vista del corteo anarchico, la Digos ha sequestrato mazze, scudi, maschere antigas, caschi e altro abbigliamento per il travisamento, bombe carta, ma anche garze, cotone e medicine antivomito.

Nella manifestazione sono stati individuati obiettivi sensibili ma nessuno poteva pensare che sarebbero state devastate anche le macchine dei privati o vetrine di commercianti che devono sbarcare il lunario in maniera onesta e dignitosa” ha detto il questore di Torino, Vincenzo Ciarambino, al termine della manifestazione anarchica. “Quando si muovono queste realtà i danneggiamenti sono all’ordine del giorno, ma non riesco a comprendere quelli senza criterio. Posso comprendere un danneggiamento a tema, che non va fatto perché è un reato, ma i danni ai privati non li capisco”, ha detto ancora, aggiungendo: “Siamo sicuri di identificare gran parte degli autori di questi reati”.

Siamo vigili e attenti da diverso tempo – ha risposto poi il questore Ciarambino a chi gli domandava se tema altre azioni di protesta – Seguiamo l’evolversi del percorso giudiziario e sanitario di Cospito, i nostri apparati investigativi, centrali e locali, funzionano per cui siamo pronti a qualsiasi evenienza. Non posso escludere altre manifestazioni a Torino, faremo le opportune valutazioni anche alla luce di quello che è successo stasera”.

Il ministro della Difesa Guido Crosetto chiede la linea del massimo rigore al governo: “Vandali delinquenti, sedicenti anarchici, ieri hanno portato la guerriglia urbana a Torino. Hanno distrutto negozi, imbrattato muri, usato violenza su persone e cose, attaccato le forze dell’ordine. Con questa gente non si tratta. Vanno bloccati, giudicati e puniti”.

Il sindaco di Torino Stefano Lo Russo esprime “ferma condanna per la violenza e gli inaccettabili atti di vandalismo attuati dagli anarchici e piena vicinanza a chi ha subito danni”. La parlamentare pentastellata Chiara Appendino, ex sindaca di Torino, commenta su Twitter: “Questa non è la manifestazione di un pensiero, è una guerriglia intollerabile e incivile“. E le fa eco il ministro Paolo Zangrillo, coordinatore di Forza Italia in Piemonte: “Si tratta di teppisti violenti che scendono in piazza con il solo scopo di distruggere e devastare. Lo Stato è fermo e non farà nessun passo indietro”. Redazione CdG 1947

"Comunismo unica soluzione". Tornano i volantinaggi rossi porta a porta. Volantini dei "Circoli operai" dei "Comitati internazionalisti" sono stati distribuiti casa per casa in Lombardia con richiami al comunismo proletario di Marx. Francesca Galici il 6 Marzo 2023 su Il Giornale.

Formalmente siamo nel 2023 e abbiamo messo cinquant'anni tra noi e gli Anni di piombo, quei bui anni Settanta che nessuno pensava mai di poter rivivere, nemmeno lontanamente, nemmeno nel vago retrogusto di un rigurgito di violenza. Eppure, gli scontri nelle piazze, l'anarchismo violento che rialza la testa, le lotte politiche nei licei che tornano a far notizia e quel sentore di strategia della tensione che torna prepotentemente. Se poi, a questo, si aggiunge anche il volantinaggio casa per casa, il risultato è un vero e proprio salto nel passato.

Questa mattina abbiamo ricevuto un volantino dei "Volontari dei circoli operai, comitati internazionalisti" dal titolo "A ogni governo il suo naufragio e le lacrime di coccodrillo". Già da qui è evidente il tentativo di strumentalizzare la tragedia di Cutro a fine politico ma questo è quanto fanno, da una settimana ormai, quasi tutte le forze politiche dell'opposizione e le Ong. Quindi, niente di nuovo su questo fronte. A colpire maggiormente del volantino che è stato consegnato casa per casa, lasciato davanti agli usci degli appartamenti dei palazzi in una domenica di marzo, è il registro linguistico utilizzato per vergare il manifesto. "Che l'imperialismo sia nemico della vita in molte direzioni è un fatto risaputo. Dalle trincee del Donbass fino alle spiagge del Mediterraneo, la borghesia alimenta le sue mortali contraddizioni", si legge nell'incipit del manifesto, che si rifà evidentemente alle parole d'ordine del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, redatto nel lontano 1848.

Nel volantino di parla di "padroni", "parassitismo", "palazzi del potere" e di "eserciti di sgherri". I "volontari dei circoli operai" che hanno redato il documento attaccano con medesima veemenza tutti i partiti dell'arco parlamentare: "I partiti parlamentari di destra, di sinistra, progressisti, sovranisti e populisti hanno edificato in questi anni una politica spietata". Si riferiscono alle politiche d'immigrazione "ascopo elettorale", alle lacrime versate "per spillare ancora un po' di soldi a Bruxelles". Secondo questi nuovi volontari rossi, tutti gli esponenti politici "seminano razzismo verso i più deboli e i più deboli e raccoglieranno disprezzo".

Quindi, ecco la chiamata, immancabile in questo genere di manifesti: "Nei posti di lavoro, su banchi di scuola, nei quartieri delle città di tutto il Continente una vera e propria classe internazionale sta crescendo". La conclusione, poi, svela la vera natura di questi volantini: "L'internazionalismo è l'unica via, il comunismo l'unica soluzione".

Interviene il Consiglio nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti sul vergognoso giornalismo di “Piazza Pulita”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Marzo 2023.

Avrebbe turbato gli spettatori per stessa ammissione del conduttore del programma durante la lettura del suo editoriale, portata in studio dall’inviata sul luogo del dramma. Ma anche gli attacchi tutt’altro che velati e deontologicamente corretti rivolti alle istituzioni strumentalizzando una tragedia ancora tutta da accertare e metabolizzare.

Con una nota il Comitato esecutivo del Cnog ha reso noto che sono giunte numerose segnalazioni sulla “spettacolarizzazione” della trasmissione “Piazza pulita” in onda su La7 durante la quale sono state mostrate, in chiave di spettacolarizzazione,  le scarpette presumibilmente di uno dei bimbi coinvolti nel tragico naufragio sulle coste di Crotone. “Comportamenti poco deontologici che saranno valutati dai Consigli di disciplina competenti per territorio“.

Quell’insistere della telecamera sulla scarpetta di una delle piccole vittime del naufragio di Cutro, Avrebbe turbato gli spettatori per stessa ammissione del conduttore del programma durante la lettura del suo editoriale, portata in studio dall’inviata sul luogo del dramma. Ma anche gli attacchi tutt’altro che velati e deontologicamente corretti rivolti alle istituzioni strumentalizzando una tragedia ancora tutta da accertare e metabolizzare. 

Il diritto di cronaca è sacro” ricorda il Consiglio Nazionale “ma lo è altrettanto il rispetto della deontologia professionale che impone il corretto comportamento dei cronisti sui luoghi degli eventi e, anche in televisione, continenza e rispetto nel linguaggio, compreso quello non verbale”.

Il Comitato esecutivo  del Cnog pertanto ha deciso quindi di inviare una segnalazione ai Consigli di disciplina competenti per l’apertura di un procedimento sul caso. E forse era ora che qualcuno riportasse sui binari del corretto giornalismo il programma “Piazza Pulita”, visto l’editore de La7 pensa solo e soltanto all’ Auditel….Redazione CdG 1947

Pd, lo stupidario politico-lessicale sulla tragedia di Crotone: parole a caso. Francesco Carella su Libero Quotidiano il  05 marzo 2023

La sensazione che si ricava seguendo le polemiche di questi giorni dopo la tragedia di Crotone è che in Italia sia davvero impresa difficile riuscire a liberarsi dello stupidario politico-lessicale della sinistra di matrice sessantottina.

Ci si era illusi che alcuni strumenti della subcultura comunista fossero stati consegnati in via definitiva al magazzino di un robivecchi. La qual cosa non sembra essere avvenuta a giudicare dalle molte reazioni maturate nella cosiddetta area progressista. Infatti, i “funzionari della verità” - come in una sorta di riflesso pavloviano - invece di attendere il risultato delle indagini, per capire che cosa sia andato storto nella catena delle comunicazioni la notte del nubifragio, si sono affrettati, con la nota sicumera, a dare la “giusta versione” dei fatti: si è trattato di una strage di Stato. Il dizionario della politica italiana compie, in tal modo, un salto indietro di parecchi decenni. Il concetto, famigerato e fuorviante, guadagna un posto di rilievo nel nostro dibattito pubblico all’indomani della strage di piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969 a Milano, quando viene dato alle stampe un pamphlet - per l’appunto “La strage di Stato” - in cui attraverso una dubbia operazione condita di sospetti e coincidenze vengono additati quali responsabili della bomba alla Banca dell’Agricoltura - in disprezzo delle più elementari regole fattuali non solo singoli funzionari o parti di servizi deviati, ma addirittura le più importanti cariche istituzionali del Paese. Vengono fatti i nomi del ministro dell’Interno Franco Restivo, del presidente del Consiglio Mariano Rumor e - tanto per non tralasciare nulla- viene tirato in ballo finanche il capo dello Stato Giuseppe Saragat.

 Dietro quell’orribile atto terroristico si affermava nel libretto - non potevano non esserci personalità di così alto livello in ragione del fatto che essi non solo in quei mesi erano impegnati a contrastare le violenze di piazza commesse dai compagni, ma soprattutto risultavano amici degli Stati Uniti a cui veniva attribuita (manco a dirlo) la regia occulta della strage. Una tale vulgata diventa egemone presso l’establishment politico-culturale della sinistra a tal punto da guidare negli anni a venire l’interpretazione di tutti gli episodi cruenti che segnano la vita pubblica italiana nel secondo Novecento. Una forma mentis che informa di sé ricostruzioni storico-giornalistiche, atti parlamentari, requisitorie giudiziarie fino a ridurre in un unico quadro esplicativo l’intero capitolo dei misteri d’Italia. Tutto finisce nel medesimo calderone, dalle stragi impunite ai servizi segreti deviati, dalle Brigate rosse al terrorismo nero, da Gladio alla P2, dalla morte di Mattei al caso Moro e così per tante altre pagine della storia repubblicana. In tal senso, fare luce sui singoli accadimenti finisce con il risultare secondario rispetto all’opportunità di sfruttarli appieno per ragioni di opportunismo politico. Del resto, riportare ogni singolo atto dentro la logica della strage di Stato significa legittimare la validità del “verbo cominternista” che individua nello Stato democratico-liberale i presupposti di un perenne pericolo fascista al quale è necessario rispondere attraverso una continua mobilitazione popolare guidata dagli unici soggetti in possesso dei titoli giusti per farlo, ovvero i comunisti. Ci si era illusi che tutto ciò appartenesse al passato. Purtroppo, a giudicare dalle polemiche sul naufragio di Crotone sembra che poco sia cambiato. I fatti ancora una volta possono essere sacrificati in nome dell’ideologia.

L’Ucraina proibita. La manifestazione antifascista di Firenze senza la vera grande battaglia contro il fascismo russo. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 6 Marzo 2023.

Sabato hanno marciato tutte le diverse componenti del mondo progressista di osservanza demo-populista, ma non c’erano bandiere della resistenza di Kyjiv, il vero simbolo dell’antifascismo europeo

Ci si può certamente appassionare – chi siamo noi per giudicare – a quella pagina esemplare di monopolarismo bipopulista rappresentata dalla mobilitazione indignata contro il pericolo “fascista” e “comunista”, parteggiando per la sussiegosa retorica del compagno rettore Montanari, che parla melonianamente da padre di uno studente del Liceo Michelangiolo, nella parata della #FirenzeAntifascista, o per le geometrie variabili, con cui il ministro Valditara nobilita o liquida l’epistolario anti-violenza dei dirigenti scolastici alle prese con una patetica riedizione del “settantasettismo” destrorso e sinistrorso: bravo il preside milanese a bacchettare chi lo ha raffigurato a testa in giù, cattiva la preside fiorentina insorta contro il pestaggio dei post-camerati vicini o interni al partito della madre, italiana e cristiana presidente del Consiglio.

Una riflessione più fredda e meno appassionata, ma più veritiera, dovrebbe portare a concludere che la ragione di tutto questo calore, di tutta questa indignata militanza contrapposta continua – esattamente come ai tempi (non) eroici della violenza politica rossa e nera – a poggiare su una denegata contiguità e parentela tra questa destra e questa sinistra nel modo di intendere il rapporto tra i mezzi e i fini e di giustificare i primi alla luce dei secondi. Per gli uni e per gli altri, il problema della violenza cambia con il colore della violenza.

Solo questo spiega perché il partito di maggioranza relativa non abbia pensato di dire una parola sulle violenze che hanno visto protagonisti non dei provocatori, ma dei – chiamiamoli così – camerati che sbagliano, e perché d’altra parte nella manifestazione dell’antifascismo ufficiale, con tutti i leader della sinistra politica e sindacale bella e buona in prima fila, gli slogan tipo «Tito ci ha insegnato che uccidere un fascista non è reato» continuano a essere ascoltati con divertimento o con fastidio, ma non con sdegno, non con un senso di estraneità tale da allontanare questi antifascisti retrò, anche se giovanissimi, da un corteo teoricamente super-democratico.

Ma veniamo al punto centrale, in una prospettiva attualmente antifascista. A Firenze hanno marciato tutte le diverse componenti della composita koinè progressista di osservanza demo-populista. C’era il Partito democratico, c’era il Movimento 5 stelle, c’era la Cgil, c’era l’Arci, c’era l’Anpi, c’erano – qualunque cosa significhi – i movimenti, c’era il ceto medio riflessivo, c’erano gli antagonisti pavloviani nei loro riflessi anti-imperialisti, c’erano tutti i colori dello spettro antifascista nazionale e c’erano ovviamente i pacifisti. C’erano le immancabili bandiere palestinesi e di tutti gli infiniti rivoli della diaspora comunista.

Non c’era però una bandiera dell’Ucraina, che è oggi la vera frontiera della resistenza antifascista europea. Il compenso c’erano svariati censori dei “fascisti ucraini”, che per gli antifascisti di rito anpista-pagliaruliano sono quelli che si difendono dall’aggressione putinana, ma hanno il torto inemendabile di farlo con i soldi e le armi degli alleati atlantici, quindi, secondo la vulgata, del fascismo vincente nell’eterno dopoguerra europeo e planetario.

Non c’era una bandiera ucraina, non c’era uno striscione pro Ucraina e non c’è stata una parola e un briciolo di solidarietà e di commozione per l’esempio di una vera Resistenza di popolo e democratica (in questo certamente diversa da quella italiana, popolata da furbissimi partigiani del 26 aprile e di stolidi banditori di distopie totalitarie).

Cosa questo significhi è troppo chiaro ed eloquente: che l’antifascismo reale è oggi letteralmente proibito nelle piazze della bella gente antifascista della sinistra italiana e che la sua presenza sarebbe suonata sabato addirittura provocatoria, di fronte al generoso sforzo di unità di Elly e Giuseppe che, pronubo Maurizio Landini, si parlavano nell’orecchio, si abbracciavano e si sorridevano.

Le dovute differenze. Il putinismo della destra e il collaborazionismo della sinistra che fa propaganda per l’aggressore. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 6 Marzo 2023.

Le simpatie e gli interessi dei Berlusconi e dei Salvini per l’autocrate russo sono indecenti, ma chi è diventato il megafono della propaganda del Cremlino ha dichiarato guerra a noi stessi

C’è una differenza enorme tra il putinismo che via via è andato sbrigliandosi a destra – nel cedimento delle inibizioni che l’evidenza delle colpe e lo scandalo iniziale degli eccidi frapponevano alla voglia matta della soluzione finale – e un governo di persone perbene messo al posto di quello dei drogati e degli omosessuali di Kyjiv.

Una differenza enorme, dicevo, c’è tra quel riformularsi in progress e sempre meno verecondo delle antiche predilezioni amicali e affaristiche di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, da un lato, e il collaborazionismo pacifista che dall’altro lato, e ormai da un anno, si è fatto ripetitore della propaganda degli aggressori e ha trovato nella guerra all’Ucraina l’occasione per riaffermare una dopo l’altra tutte le proprie qualità essenziali – il ripudio della verità e il richiamo invincibile a farne contraffazione, l’odio irriducibile verso la libertà e verso l’ambizione altrui di difenderla, l’estraneità aggressiva e budellare alle ragioni del diritto e la pretesa di vederle sostituite dalla regola della forza che a fin di bene, a fin di giustizia, a fin di pace, si impone con i massacri, con gli stupri e con le deportazioni sugli intollerabili vagheggiamenti di democrazia degli insubordinati al dovere morale della resa.

Non è la stessa minestra. Le simpatie e gli interessi che legano certuni ai plenipotenziari di quel sistema autocratico hanno lo stesso effetto del pacifismo collaborazionista, ma di quest’ultimo non condividono la causa per così dire costituzionale, l’origine sistematica, l’attitudine a farsi programma politico. La t-shirt con il profilo del denazificatore non ha la portata, né l’intenzione, della vignetta che raffigura Volodymyr Zelensky col braccio fasciato di svastica. Lo sproloquio sulla guerra che comincia per le avidità territoriali ucraine non ha il significato, né l’obiettivo, delle teorie cospirazioniste che l’accademia malvissuta ha messo in scena in un anno di teatro sui crimini dell’occidente.

Sono differenze che non descrivono differenti gradi di colpa, anche perché quelli che ne sono rispettivamente portatori si consorziano in un fronte comune, come abbiamo constatato recentemente. Ma sarebbe un errore capitale considerarle una stessa cosa. Una è complicità da clan, una specie di favoreggiamento parentale, l’altra è la guerra aperta a tutto ciò che dovremmo essere e rappresentare.

Schlein e Conte, il corteo antifascista è una farsa. I leader di Pd e 5Stelle saranno presenti alla manifestazione del 4 marzo a Firenze. Max Del Papa su Nicola Porro il 2 Marzo 2023.

Compagna, il popolo non copre le bollette. Dategli dell’antifascismo. La lunga marcia verso la fusione dei fissati, dei fanatici, sinistra social comunista mezza piddina e mezza grillina, passa per Cospito e il liceo Michelangiolo, per la professoressa Savino che teme la risacca diciannovista, per il sabato antifà. È qui che si incontreranno gli stati generali di due leader di laboratorio, Elly e Beppi, e la vedremo, ah se la vedremo, chi è più sovversivista, movimentista, massimalista. Perché non c’è dubbio che nella Firenze delle ombre rosse, delle cosche rosse i casini scoppieranno e grandi casini: le minacce, garantite, alla Meloni nel garantismo carrierista dei soliti, le foto bruciate, le devastazioni democratiche, la guerriglia proustiana, i pupazzi impiccati per i piedi, il vaneggiare a pugno chiuso degli spiaggiati da centro sociale.

Nella Firenze dell’eterna ebollizione più o meno armata, del misterioso comitato esecutivo delle Bierre che non si è mai localizzato ma dove comandava il terrorista prof. Senzani, implicato coi Servizi italiani e gradito ospite di quelli americani. Roba che i vecchioni del Pd sanno benissimo come la sa il prof. Prodi delle sedute spiritiche fantasma per indirizzare a Gradoli (la via non il paese, cazzo!), a vana ricerca dei carcerieri di Moro. Prodi, amico, collega e sodale del padre della ragazza Schlein in seno al centro di potere il Mulino. Chi invece non sa niente di queste convergenze parallele è la generazione S, come Schlein, come Sardine. Quella che in nome dell’amore ti fa fuori senza complimenti. Cinica, ecco una continuità ittica col comunismo degli squali e dei piranha, al punto da usare un naufragio con un centinaio di morti per attribuirlo al governo e un regime di relativo isolamento su un balordo non innocuo per attribuirlo al governo.

Benzina sul fuoco da chi cerca l’incendio della prateria e lo cerca nella Firenze dei furori da centro sociale, sostenuta dalla stampa irresponsabile. Oggi come allora la provocazione miserabile fino alla messa in conto del morto da addebitare al regime fascista. Tanto fascista che finora si è preoccupato di andar d’accordo con gli ineffabili poteri forti, ineffabili ma non indicibili visto che i nomi li conoscono tutti: il Colle, la finanza totale della quale il massimo rappresentante Draghi dice “Noi decidiamo tutto o almeno ci proviamo, voi subite comunque”, la Unione Europea comitato d’affari della grande industria, i finanzieri eversivi come i Gates e i Soros che sostengono i manga di nome Elly o Greta, i burattinai perversi tipo Schwab, l’informazione unica che da questi è pagata e può farti scoppiare tra i piedi un ordigno mediatico in qualsiasi momento.

La verità è che il governo si muove sulle uova, i Piantedosi, i Valditara sono disastrosi nella comunicazione temendo conseguenze che, si mettessero l’anima in pace, arriveranno comunque. C’è un ordine costituito che non è modificabile, che può essere solo arginato come per la demenziale transizione all’auto elettrica e questo Giorgia Meloni lo sa e cerca di barcamenarsi. E c’è una effervescenza antagonista per le allodole, che lavora per il regime vero, un regime sovranazionale e finanziario. Per cui diventa fondamentale la recita dei sovversivi d’ordine che a Firenze vanno da comparse più o meno consapevoli di una rappresentazione di potere per il potere. O, per farla facile: ci va bene che in questa fase siate voi al comando purché sia chiaro che è un comando nominale, di facciata, che possiamo farvi fuori come e quando vogliamo. Poi magari si sbagliano anche loro, ma il senso del sabato (anti) fascista fiorentino è questo ed è palese.

La grande farsa della contrapposizione tra donne di vertice, la post fascista e la neocomunista, sta nella attribuzione alla premier di condizionamenti atlantici contro i quali si opporrebbe la pacifista e antagonista segretaria piddina che è una carica oggi patetica. Che Meloni abbia coltivato sponde atlantiste è chiaro e non è un delitto, ma ad uscire dalle fabbriche americane degli influencer politici, a sponsorizzare le tematiche del neorevisionismo pubblicitario americano, gender, clima, isteria antifà, ad avere un passaporto americano, connessioni con l’egemonia politica e culturale americana, è il nuovo capo del partito grillino democratico. Ma, siccome vale tutto, può benissimo valere che una adunata d’ordine venga partecipata dai leader d’ordine, del nuovo ordine, globalista, finanziario, in veste filosovversivista, sotto l’egida dell’antifascismo militante in sostegno a un insurrezionalista anarcoide bombarolo. Max Del Papa, 2 marzo 2023

Elly’s Island. La battaglia contro il decreto anti-ong non si può fare abbracciati al M5s. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 3 Marzo 2023.

Accusare il governo di avere tanti morti sulla coscienza per norme assai più morbide di quelle varate a suo tempo da Conte è una scelta discutibile di per sé, ma ripetere quelle parole mentre si sfila a braccetto con l’Avvocato del popolo sarebbe imperdonabile

Dinanzi a una tragedia come quella di Cutro è sempre molto difficile tracciare il confine tra doverosa richiesta di chiarezza e speculazione politica, legittima indignazione e strumentalizzazione di parte.

Certo sarebbe più facile abbassare i toni se l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dinanzi a una tragedia analoga, nel 2015, non avesse dichiarato pubblicamente che il governo Renzi avrebbe dovuto essere «indagato per strage colposa». O se l’attuale ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, per prima cosa non fosse andato in conferenza stampa a stigmatizzare il comportamento delle vittime, a suo giudizio responsabili di avere messo a rischio la vita di se stessi e dei loro cari, aggiungendo poi, in quell’occasione come nei numerosi interventi successivi, dichiarazioni se possibile ancora più grottesche. La migliore di tutte l’ha detta in audizione in Senato: «Io sono talmente capace di emozionarmi che lo faccio prima che le tragedie avvengano».

Quella del ministro, insomma, è una sensibilità predittiva, quasi profetica. Sarebbe bello se una simile dote lo portasse a dimettersi prima della prossima figuraccia.

Non bastassero le molte ombre sull’accaduto, l’inspiegabile lentezza nei soccorsi, il rimpallo di responsabilità, le contraddizioni emerse dalle diverse ricostruzioni, l’opposizione avrebbe dunque ancora mille buone ragioni per chiedere le dimissioni di Piantedosi, e bene ha fatto la nuova segretaria del Pd, Elly Schlein, a guidare questa battaglia.

Dopo tante discussioni sull’identità della sinistra, e la necessità di maggiore radicalità, maggiore nettezza, maggiore autenticità, ci sono però nelle sue prime mosse e nei suoi primi interventi alcune vistose omissioni (tu chiamale, se vuoi, rimozioni).

Schlein ha dichiarato immediatamente, nel suo primo discorso da segretaria, che la strage di Crotone «pesa sulle coscienze di chi solo qualche settimana fa ha voluto approvare un decreto che ha la sola finalità di ostacolare il salvataggio in mare». Parole molto pesanti, e anche approssimative, che hanno offerto l’occasione al governo di ricordare facilmente come la strage sia avvenuta in una tratta non coperta dalle navi delle ong. Ma soprattutto parole che mal si conciliano con la scelta di rilanciare il rapporto con Giuseppe Conte, cioè il presidente del Consiglio responsabile di quei decreti sicurezza che avevano esattamente tale finalità, ostacolare l’opera delle ong, ed erano da questo punto di vista anche assai più duri (senza contare che secondo l’ex portavoce della guardia costiera, l’ammiraglio Vittorio Alessandro, intervistato ieri da Repubblica, il primo governo Conte ha anche la responsabilità di avere «imbrigliato» l’azione della guardia costiera, assegnando un ruolo strategico al Viminale, in una logica più di polizia che di soccorso). Come si può dunque da un lato dire che tanti morti pesano sulla coscienza di chi ha approvato un decreto che ostacola i salvataggi e dall’altro apprestarsi a manifestare insieme a Conte a Firenze, in quello che da giorni viene presentato come il primo atto del nuovo corso unitario del Pd?

Anche in parlamento, intervenendo in commissione contro il ministro Piantedosi, Schlein ha scandito: «Voi dovreste chiedere una missione di ricerca e soccorso in mare europea, una Mare Nostrum europea, e finirla con una criminalizzazione spietata delle organizzazioni non governative che stanno solo sopperendo alla mancanza di una missione con pieno mandato umanitario da parte dell’Unione europea nelle rotte più pericolose».

Non tedierò il lettore con il ripasso di tutte le dichiarazioni e gli atti legislativi con cui il Movimento 5 stelle ha proceduto in questi anni alla criminalizzazione delle ong, oltre a votare contro l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Per chi fosse interessato all’argomento, ne troverà un’esauriente ed equanime raccolta, insieme con le perle di tanti altri leader, compresi fior di democratici, in un bel libro di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone: «Com’è successo» (Fandango). Per i più pigri, mi limito a ricordare che è al Movimento 5 stelle che dobbiamo la definizione di «taxi del mare», nonché alcuni degli emendamenti più odiosi ai decreti sicurezza (per inasprirli, ovviamente) come quello sulla confisca delle navi delle ong.

Per di più, nel suo intervento in commissione, Schlein invitava il governo a chiedere la riforma del trattato di Dublino, ricordava di essersene occupata a suo tempo come parlamentare europea e incalzava il ministro con queste parole: «…ho potuto spesso rimarcare la totale assenza delle forze che oggi governano questo paese alla discussione che lei sa essere la più importante per l’Italia, perché è quello strumento che blocca centinaia di migliaia di richiedenti asilo nel primo paese europeo dove mettono piede anziché avere, prendo le sue parole di prima, una risposta che non è quella insufficiente del ricollocamento volontario che non ha mai funzionato, ma un sistema di redistribuzione obbligatorio delle responsabilità sull’accoglienza che valorizzi anche i legami significativi dei richiedenti asilo con tutti i paesi europei; l’avevamo ottenuta questa riforma, nel 2017, senza il voto delle forze che oggi governano il paese».

Per la cronaca, a votare contro la riforma nel 2017 è stato anzitutto il Movimento 5 stelle (la Lega, per dire, si astenne). In compenso, quel sistema di ricollocamenti volontari «che non ha mai funzionato» è esattamente il sistema ottenuto da Conte al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2018, e sbandierato allora ai giornali come un risultato storico (sì, esatto, proprio come ha fatto Meloni poche settimane fa: non c’è presidente del Consiglio italiano che in questo campo non ottenga risultati storici, a chiacchiere).

Il Partito democratico di Schlein ha dunque ora due strade davanti a sé: continuare a incalzare il governo su questo terreno, inchiodando ciascuno alle proprie responsabilità (con la necessaria dose di autocritica per le scelte passate, ad esempio sugli accordi con la Libia), oppure abbassare i toni e cercare magari altri terreni su cui radicalizzare lo scontro. Sono entrambe scelte legittime, che hanno pro e contro sia in linea di principio sia da un punto di vista puramente tattico. Ma quale che sia la scelta, bisogna essere conseguenti, e misurare bene le proprie parole: accusare il governo di avere tanti morti sulla coscienza per un decreto assai più morbido di quello varato a suo tempo da Conte è una scelta discutibile di per sé, per le ragioni già dette, ma ripetere quelle parole mentre si sfila a braccetto con il leader grillino sarebbe davvero imperdonabile.

Comunismo? Nessun problema a parlarne malissimo. Risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023

Caro Aldo, in occasione della guerra nella ex Jugoslavia mi colpì il fatto che la violenza e la volontà di sopraffazione perpetrata dal governo di Milosevic i media italiani si affrettarono a catalogarla come espressione del «nazionalismo serbo», senza mai fare riferimento alle radici comuniste di quel regime. Ora, a dieci mesi dalla aggressione russa in Ucraina, vedo ripetersi la stessa situazione: perché nessuno ha il coraggio di dire che si tratta dell’aggressione di un regime che conserva il comunismo nel proprio Dna? Si condanna il fascismo, si ripete che bisogna stare in guardia dai rigurgiti di quel passato. Non vedo però lo stesso slancio nel dire che se la pace e il benessere globale sono in questo momento in grave pericolo la colpa è delle guerre scatenate o minacciate dalle dittature comuniste di Russia, Corea del Nord e Cina. Marco Di Piazza

Caro Marco, Non leggerei la guerra in corso come uno scontro tra comunisti russi e anticomunisti ucraini. Vladimir Putin viene definito ora comunista, ora fascista. In realtà non è né l’uno né l’altro; è un nazionalista russo, che aggredendo l’Ucraina ha commesso sia un crimine, sia un errore. Quanto al regime cinese, si dice comunista, ma pratica in realtà una forma di liberismo ipercapitalista, accompagnato dalla privazione della libertà, dei diritti civili, della democrazia. Ciò detto, non ho nessun problema a concordare con lei sul fatto che il comunismo sia stato un’immane tragedia, costata la vita a milioni di persone. Il comunismo non è stato uguale dappertutto, ad esempio in Bulgaria ha assunto forme molto diverse da quelle che aveva in Cambogia; ma ovunque ha preso il potere con la violenza e l’ha mantenuto con polizia politica, carcere, campi di prigionia, eliminazione fisica degli oppositori. Ovunque il bilancio del comunismo è fallimentare, dal punto di vista politico, morale, economico. Dai regimi comunisti non è nato «l’uomo nuovo»; anzi, i Paesi a lungo governati dai comunisti, compresa la Russia, hanno sovente espresso leader e partiti animati da xenofobia e nazionalismo estremo, talvolta degenerato nella guerra. In Italia i comunisti non sono mai andati al potere, e per fortuna. Noi abbiamo conosciuto un’altra e diversa forma di totalitarismo, il fascismo, che abbiamo inventato ed esportato in mezzo mondo. I comunisti italiani hanno combattuto il fascismo e hanno scritto con i cattolici e i liberali la Costituzione repubblicana. Però l’egemonia comunista sulla sinistra italiana l’ha tenuta a lungo lontana dal governo, e a lungo è stata una delle cause (sia pure sempre meno importante) dell’evidente diffidenza che la maggioranza degli elettori nutre nei suoi confronti.

La doppia morale delle piazza. Due piazze, due misure. Probabilmente alla borsa valori della morale "radical" una città nel caos, due poliziotti menati, 5 anarchici fermati e 140 identificati, vetrine spaccate valgono molto meno di una rissa. Francesco Maria Del Vigo il 6 Marzo 2023 su Il Giornale.

Due piazze, due misure. Probabilmente alla borsa valori della morale «radical» una città nel caos, due poliziotti menati, 5 anarchici fermati e 140 identificati, vetrine spaccate, auto danneggiate, bastoni e bombe carta valgono molto meno di una rissa scatenata fuori da un liceo fiorentino da alcuni giovani militanti di destra. Altrimenti non si spiega l'imbarazzante silenzio della sinistra e della stampa progressista sugli scontri di sabato a Torino. Se il casino lo fanno gli anarchici dalle parti del Pd non si scompongono troppo e non lanciano accorati appelli per la tenuta democratica del Paese oppure, come ha fatto Elly Schlein, si prendono 24 ore di riflessione per condannare un evento dall'evidente gravità. Perché gli anarchici non vanno di moda, non sono abbastanza à la page. Bisogna, invece, agitare sempre il fantasma di un Ventennio che non c'è, che sopravvive solo nelle campagne elettorali della sinistra e nella testa di chi dell'antifascismo in assenza di fascismo ne ha fatto una redditizia professione.

Sabato però il sistema è andato plasticamente in corto circuito, svelando tutta la sua ipocrisia. Mentre a Firenze Pd, M5s e Cgil manifestavano contro il ritorno delle camicie nere immaginarie, gli anarchici reali mettevano a ferro e fuoco il centro di Torino per difendere Alfredo Cospito e chiedere l'abolizione del 41 bis e quindi, in ultima analisi, facendo un favore anche a tutti i mafiosi che sono sottoposti a questo regime carcerario.

Le immagini della guerriglia sono impressionanti, eppure nessuno si è sconvolto. Poche righe sui giornali, poco spazio in televisione e pochissime reazioni dalla «società civile», evidentemente abituata a tollerare queste inciviltà. Perché la violenza politica, se non è di destra, non fa notizia, non spaventa. Ed è questo il grande pericolo che la sinistra finge di ignorare, davanti al quale preferisce voltare la testa.

Non ci sono solo gli anarchici di Torino, ci sono anche gli antagonisti, il popolo dei centri sociali e quegli estremisti (sempre di matrice anarchica) che non vedono l'ora di mettere a testa in giù la Meloni e Valditara, come hanno fatto, sempre sabato, a Milano su uno striscione fuori dal liceo Carducci. E, di questo, è responsabile anche quel mondo che contribuisce ogni giorno, metodicamente, a creare un surreale e antistorico clima da «guerra civile» permanente. A forza di evocare il fantasma dell'estremismo, alla fine si manifesta davvero. Dall'estrema sinistra, però.

La politica a scuola porta alla stupidità di piazza. Marcello Bramati su Panorama il 7 Marzo 2023

La manifestazione milanese di sabato ha dato ancora una volta prova che la protesta di piazza risponde con violenza alla violenza. E di generazione in generazione, anziché costruire, non si fa che affondare

L'immagine del Ministro dell'Istruzione, Valditara a testa in giù a due passi da piazzale Loreto. Mancava solo questa, ma immancabilmente qualcuno ha pensato bene di esporre dal liceo Carducci di Milano l’immagine capovolta del ministro, rievocando la fine di Benito Mussolini, appeso in una stazione di benzina a poche centinaia di metri dal liceo teatro del fattaccio. E così la violenza dei fatti di Firenze della scorsa settimana fuori dal liceo Michelangiolo ha indignato, ha dato spazio a risposte e reazioni ufficiali, ha fatto scrivere e discutere, ha chiamato alla piazza e la piazza ha chiuso il cerchio rispondendo con toni ugualmente violenti. Si è consumata un’altra occasione per costruire, preferendo esasperare di giorno in giorno, ingaggiando una gara a chi la sparasse più grossa, più feroce, più aggressiva. Da un piazza non ci si può aspettare una riflessione pacata o un elemento di innovazione, perché la piazza di per sé si riunisce per lanciare un grido indignato, forte, compatto, una protesta che possa unire centinaia e magari migliaia di persone dopo un avvenimento considerato scandaloso. E’ sempre stato così, contro una guerra, contro una tassa, contro un governo, contro una politica. Dappertutto. Perché però va sempre a finire che si esageri? Sulle proteste di piazza serve un ragionamento complesso che superi fazioni, semplificazioni e riduzionismi, per cui è necessario premettere che l’episodio di copertina non riguarda l’intera protesta, che la manifestazione ha certamente ospitato anche migliaia di persone disposte anche a prendere le distanze da immagini di violenza, che si possa criticare o meno il ministro Valditara o la preside Savino ed essere comunque inorriditi da questa escalation di toni e di modi. Dalla piazza non si pretende l’elemento costruttivo, dunque, ma da chi scende in piazza ci si possono aspettare almeno alcuni elementi di buon senso. Innanzitutto, evitare gli stereotipi. Protestare come si faceva cinquant’anni fa, riproponendo i soliti cliché e modalità stanche di generazioni ormai in pensione non può più funzionare. E la rincorsa all’immagine più scioccante non può funzionare, non aiuta la causa e non è difficile capirlo. In secondo luogo, bando a ogni tipo di violenza. Chi manifesta in piazza dovrebbe ormai sapere che basta una sbavatura per segnare una protesta con un’immagine che la contraddistinguerà per sempre, eppure inevitabilmente arrivano lo slogan da censurare e l’immagine del ministro appeso di turno. Chi scende in piazza per denunciare la violenza di un gesto, di una presa di posizione, di un modus operandi non può peraltro rispondere con la stessa moneta nascondendosi dietro un ruolo sociale differente dal bersaglio delle critiche, il ministro dell’istruzione in questo caso. La piazza ha i muscoli, così come li ha l’uomo di potere, in altri modi. Niente di nuovo, infatti lo ha scritto Alessandro Manzoni duecento anni fa nei Promessi Sposi, quando narrò le dinamiche della folla denunciando il pericolo di violenza e irrazionalità che sovrastano la volontà del singolo e portano ad azioni terribili e a istinti che, in branco, si manifestano. Renzo nei capitoli ambientati a Milano del romanzo è sconvolto dall’uomo che, nel mezzo della protesta, porta con sé l’occorrente per inchiodare alla porta il vicario di provvigione, il politico contro cui ci si sta scagliando. Sempre Renzo, un semplice “montanaro” - come lo definisce Manzoni, con la sua genuinità capisce che se la folla chiede pane e distrugge i forni, il pane non si potrà certo infornare nei pozzi. Infine, quel che più conta, la piazza non può esaurirsi con la manifestazione dello sdegno in attesa di una nuova adunata. Chi scende in piazza, dal giorno dopo dovrebbe mettersi al lavoro, valutando alternative a ciò che ha ritenuto intollerabile tanto da dedicare mezza giornata per contestare. Come? Leggendo, convocando assemblee, dialogando, soprattutto studiando. Le manifestazioni ambientaliste di questi anni sono state adunate oceaniche, ma la spinta propulsiva si è smorzata nel momento in cui il fierone del corteo ha preso il sopravvento sul tema culturale, forte, e su quello politico, ugualmente robusto. Le persone in marcia dovrebbero passarsi libri, a centinaia, dovrebbero darsi appuntamento in università per chiedere lezioni aperte di geografia e di scienze ambientali, dovrebbero commentare insieme i testi di studiosi come John McNeill che passa in rassegna con chiarezza, complessità e lucidità la storia dell’ambiente del XX secolo, dovrebbero chiedere a gran voce riflessioni politiche che tenessero conto delle sintesi scientifiche su queste tematiche. Eppure non c’è la percezione che tra un “Friday for Future” e l’altro tutto questo accada. Analogamente, quando si protesta per la scuola, il giorno successivo servirebbe che tutti invocassero stati generali per ripensarla daccapo, a cento anni dalla sua riforma gentiliana che ancora oggi le dà la sua forma ingessata e pensata per il primo quarto del secolo scorso. Bisognerebbe invitare chi può provare a farsene carico di mettercisi, convocando assemblee in parchi, teatri, riunioni online. Ancora una volta, leggendo e studiando, ascoltando e proponendo, studiando ancora. Gesù parlava con i dottori del tempio a dodici anni e teneva loro testa. Le attuali generazioni più giovani leggono e studiano per tenere testa alla generazione che li fa arrabbiare, o si limitano a passare da una protesta all’altra e da un corteo al prossimo?

Estratto dell’articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2023.

«Il Signor Maestro ci ha spiegato che gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c’è Credere, Obbedire, Combattere». C’è poi da stupirsi se tanti bambini degli anni Trenta, […] era al servizio del fascismo, si buttarono a capofitto dalla parte del Duce nella repubblica di Salò?

 No, risponde lo storico Gianni Oliva nel libro Il purgatorio dei vinti (Mondadori), dove spiega come parte di quella generazione finì nella sciagurata avventura repubblichina al fianco dei nazisti autori delle peggiori stragi e nefandezze della Seconda guerra mondiale. Fino a venir rinchiusi in campi di prigionia come quello di Coltano […]

Una storia poco nota e ricostruita attraverso le vicende politiche e umane di giovani prigionieri allora ignoti, come ovvio dato che molti avevano vent’anni o addirittura quindici o quattordici, ragazzini intrappolati dalla retorica mussoliniana […] al punto di cercar «la bella morte» […] Al netto delle memorie di qualche nostalgico, scrive Oliva, «Coltano appare soprattutto lo specchio dello smarrimento ideologico e morale lasciato dal 1943-45: molti dei prigionieri sono ragazzi del 1925-26, adolescenti o poco più infiammati dall’educazione littoria, avviliti dal “tradimento” dell’armistizio, indignati con il re e con Badoglio […]».

[…] si chiede lo storico, «dove sta la differenza tra il partigiano e il milite di Salò rinchiuso a Coltano? Tra il garibaldino, il badogliano, l’azionista e quello che si è arruolato tra i paracadutisti della Repubblica sociale, come Dario Fo? O è andato volontario nei bersaglieri di Mussolini, come Raimondo Vianello? È ancora Calvino a rispondere: la differenza è la storia. “C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi”.

Ed ecco tante storie di tanti ragazzi. Da Walter Chiari a Giorgio Albertazzi, da Ugo Tognazzi a Mauro De Mauro, da Marcello Mastroianni a Enrico Maria Salerno, da Gorni Kramer a Carlo Mazzantini fino appunto a Raimondo Vianello, che oltre quarant’anni dopo, nel 1998, spiegherà in un’intervista alla rivista «Lo Stato» di Marcello Veneziani come e perché fece quella scelta chiudendo con una battuta: «Non rinnego né Salò né Sanremo».

[…] Nell’immaginario collettivo i repubblichini rappresentavano «il male assoluto». Su cui scaricare le responsabilità anche di quanti nel Ventennio si erano spellati le mani per Mussolini. Ed è proprio su questo punto che Il purgatorio dei vinti, citando Rosario Romeo («La Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il proprio passato») batte e ribatte: «Quando mai i manuali e i docenti ci hanno insegnato che l’Italia ha perso la guerra? Per tutti noi, cresciuti nella cultura dell’Italia repubblicana, la fine del secondo conflitto mondiale è il 25 aprile, l’insurrezione partigiana nelle città del Nord, i giorni radiosi della Liberazione. La “vulgata” antifascista ha preso l’unica esperienza del 1940-45 che ci metteva dalla parte giusta della storia, la Resistenza, e l’ha trasformata nella foglia di fico dietro cui nascondere colpe, corresponsabilità, vergogne».

[…] Il senso, traduce Oliva, è che «vi è stato un ventennio di dittatura fascista che ha dominato gli italiani con la forza della coercizione e ha tenuto il Paese legato insieme con il filo di ferro della repressione e della paura, e vi è una nuova Italia che, prima con l’antifascismo clandestino, poi con la cobelligeranza e la Resistenza partigiana, ha concluso la guerra nel fronte dei vincitori» […] Per dirla con Benedetto Croce, il fascismo fu solo «una parentesi». Ma fu davvero così? Risponde lo storico torinese: «Si tratta di una rielaborazione storicamente impropria che dimentica le folle di giovani in delirio il 10 giugno 1940 quando il Duce annuncia da Palazzo Venezia l’entrata in guerra contro la Francia e la Gran Bretagna […]».

Senza fare i conti col passato: «La criminalizzazione di Salò serve soprattutto ad assolvere tutti coloro che sono stati fascisti sino al 25 luglio e che negli anni del regime hanno costruito carriere, ricevuto onori, lucrato fortune più o meno illecite». Una scelta che peserà, e Dio sa quanto, sulla storia a venire...

Per l’Anpi commemorare quel ragazzo massacrato nel 1975 nell’istituto Molinari di Milano è un’iniziativa «deviante». Daniele Zaccaria Il Dubbio il 13 marzo 2023

Secondo l’Anpi commemorare Sergio Ramelli nell’istituto tecnico che aveva frequentato è un’iniziativa «deviante» che confonde i nostri giovani, «un episodio estrapolato da una situazione storica che va contestualizzata». Un linguaggio orrendo e involuto per dire che, in sostanza, quel ragazzo massacrato in modo barbaro davanti il portone di casa non merita un ricordo pubblico perché era un militante di estrema destra, un iscritto al Fronte della gioventù, insomma un “fascista”.

Di certo a non sapere chi fosse Ramelli era il gruppetto di giovani che ha ha contestato la cerimonia in presenza della sottosegretaria all'Istruzione Paola Frassinetti, inscenando un piccolo presidio davanti all'Itis Molinari di Milano assieme agli esponenti della Rete Milano Antifascista Antirazzista Meticcia e Solidale, e dei sindacati di base Adl Cobas e Usb. «Lo diciamo senza censure, Ramelli era un picchiatore fascista!», ringhiano gli studenti. E con loro anche alcuni professori dell’istituto, una cosa questa che fa davvero impressione. Perché se l’ignoranza di un liceale è fisiologica e tollerabile, quella del suo insegnante diventa imperdonabile.

Lo sanno i docenti barricaderi del Molinari che Ramelli quando venne assassinato aveva l’età dei loro figli? Gli stessi per i quali si tormentano ogni giorno a causa di un’unghia scheggiata, una linea di febbre o magari perché si sono annoiati al corso di nuoto.

Sergio Ramelli fu ucciso il 13 marzo del 1975 alle 12.50 mentre rientrava a casa dalla scuola. Frequentava l’ultimo anno di un istituto privato perché al Molinari non poteva più starci, i collettivi antifascisti lo avevano puntato e picchiato a più riprese, una volta anche davanti al padre accorso a chiedere spiegazioni ai dirigenti scolastici: «Sergio è motivo di turbamento per tutti», fu il raggelante commento della preside prima che gli suggerisse di cambiare scuola.

Il commando era composto da militanti del servizio d’ordine di Avanguardia operaia. Lo avevano pedinato per diversi giorni, volevano conoscere orari e abitudini per essere sicuri di non fallire, di dargli la lezione che meritava. A sferrare i colpi sono Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo (verranno condannati per omicidio preterintenzionale) e lo fanno con violenza inaudita, volteggiando la famigerata Hazet 36 la chiave inglese marchio di fabbrica della caccia ai “neri” e dell’antifascismo militante negli anni di piombo.

«Si stava coprendo il capo, io gli tiro giù le mani e lo colpisco , lui è stordito e si mette a correre, si trova il motorino tra i piedi e inciampa, cado con lui e lo colpisco un’altra volta, non so dove, al corpo, alle gambe», ha raccontato Costa durante il processo. Meno nitidi i ricordi di Ferrari Bravo: «Fu così breve che ebbi la sensazione di non aver portato a termine il mio compito». E invece lo avevano portato a termine: Ramelli è sdraiato a terra in una pozza di sangue, sul marciapiede ci sono alcuni frammenti di materia cerebrale. È in coma e muore 17 giorni dopo in un letto di ospedale.

Sergio Ramelli non proveniva da una famiglia fascista, i genitori votavano democrazia cristiana e non si interessavano di politica. Si iscrive al Fronte della gioventù a 16 anni per anticonformismo, al Molinari come in quasi tutte le scuole dell’epoca gli studenti di sinistra erano infatti la stragrande maggioranza. Inizialmente i camerati lo scambiano per una “zecca” perché aveva i capelli lunghi e non proprio l’aria dell’estremista attaccabrighe. Timido e taciturno non è mai stato un picchiatore uno che amava lo scontro fisico, ma neanche il fervore ideologico, «apprezzava Adriano Celentano ed era tifoso dell’Inter ma senza fanatismo», racconta la madre Anita a Luca Telese in Cuori Neri. Il fatto che sia stato identificato come un minaccioso squadrista fa parte di un vero e proprio processo di psicosi collettiva alimentata dal furore politico di quei tempi balordi.

Tutto inizia con un tema di italiano in cui Ramelli critica le Brigate Rosse definite un pericolo per la democrazia e un’organizzazione manovrata dall’alto. Quel compito in classe finisce non sa come nelle mani di un leaderino studentesco che appende i fogli protocollo in bacheca accanto a una scritta: “Ecco il tema di un fascista”. Così comincia la persecuzione di Ramelli e la catena di eventi che porterà al suo omicidio. Un giorno alcuni esponenti dei collettivi entrano nella sua classe e lo trascinano qualche minuto per i corridoi per sottoporlo a una breve gogna tra gli applausi dei compagni e l’indifferenza dei professori. Un’altra volta lo bloccano per le scale e lo pestano fino a fargli perdere i sensi. Le cose precipitano in un’escalation irrefrenabile che Ramelli accetta stoicamente, non chiedendo mai aiuto a nessuno, neanche ai suoi camerati, e finché gli è stato possibile, nascondendo tutto alla famiglia. Una morte annunciata quella del ragazzino milanese con lo sfregio finale dei commenti sarcastici dei suoi vecchi professori e il licenziamento di Anita Ramelli dalla tipografia in cui lavorava perché «madre di un fascista».

Una storia raccapricciante quella di Sergio Ramelli, che l’Anpi dovrebbe rispettare invece di infangare con le sue stucchevoli lezioncine, ma evidentemente per loro quel ragazzino massacrato a colpi di chiave inglese non merita neanche un fiore.

«La scuola è il presidio della Costituzione. Sull’antifascismo non può essere neutrale». Ai miei tempi, in classe si parlava dei meccanismi della Repubblica. Dei diritti e dei doveri dei cittadini. Anche quello era un modo di fare politica. Oggi all’insegnante si chiede di non sbilanciarsi sull’attualità. Ma i giovani vanno educati alla partecipazione. Viola Ardone su L’Espresso il 13 settembre 2023.

Quando andavo alla scuola elementare, la maestra ci faceva cantare Bella ciao prima che iniziassero le lezioni. Era un rito laico quotidiano, un modo per dirsi buongiorno e per ricordare da dove proveniva la scuola pubblica nella neonata Repubblica italiana. Non c’entrava la politica, anche se era una scelta politica.

La bandiera dell’antifascismo era come una sola larga coperta che abbracciava tutto l’arco costituzionale e non solo un partito. Alla scuola media la professoressa di Storia faceva accurate lezioni sui meccanismi della Repubblica, sugli organi e i poteri dello Stato, sui diritti e i doveri dei cittadini. Era politica anche quella, evidentemente, i ragazzini dovevano sapere che cos’era stata la dittatura e che cos’è la democrazia. Sapere distinguere, fare le differenze: anche questo è politica. La scuola era la capitale dell’antifascismo, piantonava la Costituzione.

Oggi da insegnante mi sembra che tutto questo dalla scuola sia quasi sparito. Lo studio della Storia e dell’Educazione civica ha un ruolo sempre più marginale nel monte ore e l’insegnante che porta l’attualità in classe viene guardato talvolta con sospetto.

Si pretende che il docente abbia un ruolo neutrale, che non abbia o almeno non manifesti un’idea sul presente sul passato e sul futuro. E se il numero dei votanti cala di tornata in tornata elettorale il motivo è anche da ricercare in questo “congelamento” della scuola rispetto alle tematiche dell’attualità, della contemporaneità, della politica in generale.

Le nuove generazioni vanno educate alla partecipazione, certamente non suggerendo loro per chi votare (come se poi loro facessero quello che diciamo noi!) ma spiegando che in quel congegno fragile e imperfetto che è la democrazia risiede l’unico antidoto al pensiero unico, alla censura, alla violenza. E che non bisogna mai aver paura di sostenere le proprie idee con le armi del dialogo e del confronto.

Una dirigente scolastica che commenta un gravissimo episodio di violenza e che citando Gramsci condanna il fascismo e l’indifferenza di quelli che non vi si oppongono con fermezza, è una persona che sta facendo “politica” nel senso più nobile del termine. Una preside che autorizza gli alunni a tenere un’assemblea di istituto per discutere di droghe leggere e legalizzazione e si vede arrivare la polizia a scuola a interrompere il dibattito, come è successo recentemente a Piazza Armerina, sta facendo “politica”, cioè sta insegnando a ragionare, a discutere e a confrontarsi. Un professore che il giorno dopo la tragedia di Cutro stigmatizza le parole del ministro dell’Interno che colpevolizza le vittime invece che spronare alla solidarietà sta facendo politica, perché il principio solidarista è uno dei principi cardini della Costituzione antifascista.

Sarà forse per questo che, il giorno dopo l’aggressione neofascista di Firenze, ho sentito il bisogno di condividere in classe con i miei alunni le parole della preside Savino e mi è tornata in mente la mia maestra di tanti anni fa che, nel suo completo beige e camicetta bianca, si alzava in piedi e insieme a noi intonava le parole di un vecchio canto che comincia così: «Una mattina, mi son svegliata…».

Se la scuola chiude ai «fascisti» ma apre a Cospito. Andrea Soglio su Panorama il 27 Febbraio 2023.

In un istituto di Roma parlerà il legale del detenuto al carcere duro in un convengo contro il 41 bis. E nessuno protesta, nessuno prova ad equilibrare la cosa. Eppure, basterebbe poco

Siamo reduci da una settimana che ha avuto al centro delle cronache e delle polemiche politiche il pestaggio (dai contorni tutti ancora da appurare vista la ridda di versioni esistenti) avvenuto tra studenti di destra contro altri di sinistra all'esterno di un Liceo di Firenze. Un fatto deprecabile che ha ottenuto le prime pagine dei giornali per la successiva circolare inviata agli studenti dalla Preside dell'Istituto che parlava di deriva e pericolo fascista nella scuola ed in Italia. Inutile dire che Annalisa Savino, la direttrice della scuola, è stata subito assunta a paladina di libertà, diritto, difesa del bene e del giusto e non solo dal mondo politico-giornalistico di sinistra. Al suo fianco infatti si è schierata ad esempio l'associazione nazionale presidi: «La lettera della preside del liceo di Firenze, Annalisa Savino, è un esempio di sensibilità civile e di pedagogia repubblicana» hanno scritto. Verrebbe da chiedere ad entrambi, alla novella paladina del bene e del giusto, ed ai vertici dell'associazione cosa ne pensano invece dell'iniziativa di un altro Istituto Superiore di Roma, il Mamiani dove è stato invitato a parlare l'avvocato di Alfredo Cospito, il leader anarchico in sciopero della fame da quasi quattro mesi per protestare contro il regime di carcere duro, il cosiddetto 41 bis, a cui è stato condannato come confermato pochi giorni fa dalla Cassazione. Per l'ennesima volta. Tutto nasce dall'iniziativa del Collettivo Autorganizzato Mamiani che ha dedicato a questo tema un'assemblea degli studenti, invitando appunto il legale di Cospito. Se pensate si tratti di un appuntamento «super partes» con il quale si vuole fare informazione chiara ed approfondita sul tema beh, sappiate che gli stessi componenti del Comitato hanno con orgoglio affermato che «Abbiamo aderito alle piazze in suo sostegno esprimendo fermamente la nostra opposizione alla sua detenzione forzata». Insomma, vista l'aria che tira l'assemblea si trasformerà più che in uno spazio di formazione e confronto in un assalto al 41 bis, per la gioia di Cospito, di qualche decina di boss mafiosi. Il Preside della scuola si è limitato a dare l'autorizzazione all'incontro, con il benestare alla lista degli ospiti. E con questo se ne sono lavati le mani. Resta il fatto che, ancora una volta, si lascia spazio aperto alla politica dentro quello che è il luogo sacro dell'educazione e della formazione. Resta in fatto che se una cosa del genere invece che in favore di un anarchico fosse stata organizzata a favore di un estremista di destra avremmo avuto i picchetti contrari (come accaduto alla Sapienza, lo ricordate) al grido di «Fuori i Fasci dalla scuola!». Che esista una disparità politica nel mondo della scuola è risaputo, da sempre. E forse non è più nemmeno un errore portare la politica DENTRO la scuola. Il problema è che non c'è equilibrio, c'è semper e solo una campana, tra l'altro sempre quella. Eppure sarebbe stato semplice riequilibrare il tutto. Sarebbe bastato che il Preside avesse imposto ai ragazzi del Comitato di invitare anche Roberto Adinolfi, l'ex dirigente di Ansaldo, gambizzato con lo stile delle Brigate Rosse proprio da Cospito. Per completezza di informazione e soprattutto di «formazione» dei ragazzi che, devono capire bene chi sia la vera vittima.

Torino, corteo degli anarchici per Cospito: pomeriggio di scontri con la polizia. Cinque arresti. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

Manifestazione nazionale, antagonisti anche da Grecia, Germania, Spagna: vetrine spaccate e auto danneggiate. In serata guerriglia a Porta Palazzo, 34 fermi e 150 persone identificate

La galassia antagonista è tornata in piazza a Torino in segno di solidarietà ad Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame contro il regime del 41 bis. Una manifestazione nazionale, annunciata da lunedì con un volantino che è stato tradotto in francese, spagnolo, inglese e tedesco. E da venerdì sera in città sono arrivati diversi attivisti dal nord Italia e dall’estero. 

Il corteo con un centinaio di partecipanti è partito alle 18 da piazza Solferino. Un gruppo di ragazzi con un carrello del supermercato pieno di pietre scudi e bastoni è stato subito intercettato dagli agenti del reparto Mobile. Pochi minuti dopo il corteo si è diretto verso via Cernaia. 

Vetrine spaccate in centro

Numerose le vetrine di negozi spaccate lungo il percorso e alcune auto danneggiate. Divelti anche cartelli stradali. Dal centro, i manifestanti si sono poi diretti nell'area di Porta Palazzo dove sono state esplose diverse bombe carta. A quel punto le forze dell'ordine hanno replicato con i lacrimogeni. Il corteo in seguito si è diviso in due tronconi salvo ricompattarsi davanti al Sermig, teatro di scontri con la polizia. Nelle strette vie che ospitano il mercato del Balon si sono susseguiti lanci di petardi e di bottiglie. 

Nel corso dei tafferugli alcuni anarchici sono rimasti a lungo chiusi nell'edificio che ospita Radio Black Out. 

Arresti

Il bilancio è di cinque manifestanti arrestati in flagranza; 34 i fermati. In tutto sono 150 le persone  identificate dalla Digos.

Gli antagonisti sono giunti nel capoluogo piemontese da Caserta, Avellino, Imperia, Bologna, Milano, Trento, Taranto e anche da Francia, Spagna, Grecia e Germania.

Le misure di sicurezza

Venerdì, in via Pietro Micca, in un tratto dove è passato il lungo serpentone dei Fridays for future, è comparso uno striscione nero che annunciava l’appuntamento per il corteo: «Contro il 41 bis Cpr e carcere, 4 marzo piazza Solferino». Tutte le misure di sicurezza sono state rafforzate, così come la sorveglianza degli obiettivi sensibili, a cominciare dal Palazzo di giustizia ei controlli ai punti di ingresso della città. 

«Se Alfredo Cospito muore i responsabili «saranno storicamente giustiziati dagli anarchici» dichiara Pasquale Valitutti, 76 anni, storico esponente anarchico italiano, rispondendo alle domande dei cronisti. «Questa - ha precisato - è la mia personale opinione. La mia speranza. Quando si creeranno le condizioni i responsabili saranno giustiziati. Non adesso, non da me e non da quelli che sono qui in piazza. Gli anarchici sono l'unico gruppo politico che dimentica rapporti di forza e ragioni di opportunismo per fare giustizia. La sanno fare. E la fanno».

Da giorni le forze dell’ordine monitorano «le chiamate» che rimbalzano sui siti d’area, social network e trasmissioni radiofoniche. Proprio durante un intervento in radio una delle promotrici ha annunciato «una manifestazione decisa e molto arrabbiata», ma a preoccupare è stata anche la rivendicazione arrivata nei giorni scorsi da parte del misterioso «Gruppo di Solidarietà Rivoluzionaria - Consegne a domicilio» dopo il ritrovamento, la scorsa settimana, di un ordigno incendiario inesploso di fronte al Tribunale di Pisa. «A colpi di esplosivi — si legge nel documento — saranno colpite le strutture e mutilati gli uomini del potere. Per ogni morto in mare, in carcere, di lavoro, nei Cpr, non una ma 100 bombe al padronato».

Estratto dell’articolo di Sara Bernacchia per “la Repubblica” il 6 marzo 2023.

Andrea Di Mario, preside del liceo classico Carducci di Milano, sceglie una circolare per condannare l’affissione davanti alla scuola dello striscione “Ma quale merito, la vostra è solo violenza” con la A simbolo di anarchia e accompagnato dai volti della premier Meloni e del ministro dell’Istruzione del Merito, Giuseppe Valditara, appesi a testa in giù.

 Lo definisce un gesto «brutale, brutto, violento, pesante», espressione di un linguaggio e di modi «per noi completamente inediti e preoccupanti e che rifiutiamo». E scrive a studenti e famiglie per ribadire che la scuola - l’istituto, tra l’altro, si trova a pochi metri da piazzale Loreto - continuerà «come sempre e sempre più a promuovere i valori della democrazia, della tolleranza e del pluralismo», scegliendo come strumento «il confronto» e rifiutando «la logica da curva violenta».

La circolare di Di Mario arriva sabato sera, idealmente per mettere il punto su una vicenda da cui anche gli studenti del Carducci si sono dissociati con forza e la cui responsabilità, secondo gli investigatori, sarebbe da attribuire a pochi soggetti isolati. A riaprirla, però, è il ministro Valditara, che pubblica su Twitter il testo e fa i «complimenti ad un preside coraggioso, consapevole del suo alto ruolo istituzionale».

Il paragone con il commento - di tutt’altro genere, però - riservato alla circolare con cui Annalisa Savino, preside del liceo Leonardo Da Vinci di Firenze, all’indomani del pestaggio fuori da un altro liceo fiorentino ha sollecitato i propri allievi a non essere indifferenti e ha avvicinato l’aggressione a quelle fatte agli albori del fascismo, è inevitabile così come la polemica. […]

Intanto, chiarita la posizione dell’istituto nella circolare, il preside del Carducci sceglie di non intervenire ulteriormente in un dibattito ormai solo politico. Del resto l’invito a non banalizzare parole e situazioni lo aveva già fatto nel testo: «Abbiamo ricevuto un danno, doloroso, rispetto a tutto quello che in questa scuola si sta facendo e non vogliamo che i nostri studenti siano vittima di un circuito, banale, che banalizza la stessa lettura della realtà».

Scontri a Firenze, il deputato Marco Furfaro pubblica la foto dei presunti colpevoli. Christian Campigli su il Tempo il 19 febbraio 2023

La violenza è l'antitesi della politica. La prima porta automaticamente all'estinzione della seconda. Un concetto basilare, ma che, evidentemente, a Firenze ancora non riesce a essere compreso da tutti. La scazzottata di fronte al liceo classico Michelangiolo, tra gruppi di sinistra e attivisti di destra, non può che essere giudicata per quello che è: un atto stupido, ingiustificabile, che deve essere fermamente condannato. Ma da entrambe le parti. Perché più passano le ore, più quella che la sinistra da salotto, che abita nelle ville in collina e d'estate si ritrova a Capalbio, aveva bollato come "l'ennesimo episodio di squadrismo fascista" si sta, piano piano, trasformando in una cruenta (e stupida) cavalleria rusticana tra adolescenti. Sia chiaro, nessuna giustificazione. Chi ha commesso dei reati, se ce ne sono, dovrà essere condannato. Ma da un giudice togato. Non da qualche prezzolato intellettuale progressista.

In queste ore convulse, durante le quali la sinistra ha manifestato la volontà chiara non di giungere alla verità ma di colpire Giorgia Meloni, Fratelli d'Italia e tutto l'universo conservatore, abbiamo assistito anche a un deputato pistoiese, Marco Furfaro, eletto nelle liste del Partito Democratico, che ha postato su Twitter una foto. Nella quale, senza nessun pixellaggio (ovvero quella tecnica con la quale si possono oscurare i volti delle persone presenti nell'istantanea), espone in bella mostra il viso dei presunti colpevoli. Presunti, appunto. Perché al momento non c'è nemmeno un avviso di garanzia. Invece il deputato, ignaro che alcuni di quei ragazzi sono minorenni, li espone al pubblico giudizio. E magari a qualche azione ritorsiva dei gruppi di estrema sinistra presenti nel capoluogo toscano. Insomma, un clamoroso autogol. Che ha spaventato, e non poco, i genitori di questi adolescenti. Che magari hanno sbagliato, magari hanno commesso anche uno o più reati ma che hanno il sacrosanto diritto di essere giudicati da un tribunale della Repubblica Italiana. E non da una giuria di tromboni progressisti. 

"Facciamo girare le loro foto...". Ora gli antifà schedano i ragazzi di destra. I compagni schedano i militanti di Azione studentesca: "Tutti devono riconoscerli". Matteo Carnieletto il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

"Vogliamo fare un applauso a quel compagno che si è buttato in mezzo a quei bastardi che stavano prendendo a pedate un altro ragazzo. Vogliamo anche rivendicare di aver fatto girare la foto di quegli stronzi. Quella foto gira non per servire una strategia repressiva ma perché la faccia di quei pezzi di merda deve essere conosciuta da tutti. Si devono riconoscere quando vanno a prendere il caffè. Quando vanno dall'ortolano. Quando vanno a fare la spesa. Quando vanno sulla tramvia. Perché quel peso se lo devono sentire addosso". A parlare è un "compagno" del centro popolare autogestito Firenze sud durante il corteo antifascista di ieri. Quello, dove per intenderci, i manifestanti hanno urlato minacce contro il presidente del Consiglio (Meloni fascista, sei la prima della lista) e slogan inneggianti a Josip Broz Tito e alle foibe. Gli stronzi in questione sono i ragazzi di Azione studentesca, coinvolti in una rissa di fronte al liceo Michelangiolo di Firenze il 18 febbraio scorso.

Su queste pagine, abbiamo già avuto modo di spiegare come la storia raccontata dai "giornaloni" di sinistra sia per lo meno parziale. Quello che colpisce, ora, è l'atteggiamento degli antifascisti fiorentini, le vittime di questa storia.

Negli ultimi mesi non solo si sono segnalati per violenza. Ora stanno facendo anche girare le foto dei ragazzi di destra affinché vengano riconosciuti. "Non per una strategia repressiva", sia chiaro. Non perché qualcuno li possa riconoscere e magari menare. Ma solo perché affinché possano portarsi addosso il peso di aver pestato altri ragazzi.

Ora: non vogliamo scomodare l'antico adagio latino "excusatio non petita, accusatio manifesta" (scusa non richiesta, accusa manifesta"). Ci basta solo ricordare una storia.

Sono i primi mesi del 1975 e un ragazzo di Milano, che a vederlo sembra un capellone, scrive un tema in cui condanna duramente le Brigate rosse. Il tema viene letto in classe dal professore, a voce alta. È l'inizio del processo. Il tema viene sottratto e affisso in corridoio. Tutti devono sapere cosa pensa quel capellone. Tutti, vedendolo, devono fargli sentire addosso il peso delle sue parole. Passano i giorni. Questo ragazzo dal viso pulito continua a fare quello che ha sempre fatto. Studia e fa politica.

Il 13 marzo, però, accade qualcosa di diverso. Il capellone parcheggia il motorino in una via non distante da casa. Comincia ad assaporare il rientro. La mamma, la famiglia pronta ad abbracciarlo e, forse, pronta a tirare un sospiro di sollievo vedendolo tornare a casa ancora una volta. Ma questi pensieri vengono interrotti.

Mentre sta camminando, infatti, quel ragazzo viene colpito con una violenza inenarrabile da diversi colpi di chiave inglese. Uno. Due. Tre. Contarli è un esercizio inutile. Ancora. Il ragazzo prova a difendersi ma non c'è più nulla da fare. Attorno a lui c'è solo un lago di sangue. I compagni di Avanguardia operaia vogliono portare a termine il compito. Qualcuno urla di piantarla. Che se continuano così lo ammazzano. Ma è troppo tardi. I capelli, una volta morbidi, di quel ragazzo sono ora imbrattati di sangue. Quel ragazzo non si sveglierà più. Passerà 47 giorni in coma prima di morire. Quel ragazzo era Sergio Ramelli. Quel ragazzo doveva portare addosso il peso di aver scritto quelle parole.

«ll fascismo è nato con i pestaggi nei marciapiedi, ignorati dagli indifferenti»: la lettera da applausi della preside. L’Espresso il 22 Febbraio 2023

Il documento della dirigente scolastica del liceo scientifico Da Vinci Annalisa Savino, che cita Gramsci, rivolto agli studenti dopo il pestaggio squadrista avvenuto nella città e diventato virale sui social

Cari studenti,

in merito a quanto accaduto lo scorso sabato davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, al dibattito, alle reazioni e alle omesse reazioni, ritengo che ognuno di voi abbia già una sua opinione, riflettuta e immaginata da sé, considerato che l’episodio coinvolge vostri coetanei e si è svolto davanti a una scuola superiore, come lo è la vostra. Non vi tedio dunque, ma mi preme ricordarvi solo due cose.

Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti. "Odio gli indifferenti" - diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in un carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee.

Siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni. Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza. Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato col suo nome, combattuto con le idee e la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene 100 anni fa ma non è andata così.

Estratto da open.online il 23 Febbraio 2023.

Un professore che lavora al liceo Michelangiolo di Firenze racconta oggi a La Nazione la sua versione dell’agguato. E punta il dito contro i Collettivi di sinistra. Anche se non vuole che il giornalista faccia il suo nome. Perché la sua «è una scuola molto politicizzata».

 Così, secondo il testimone, si è accesa la miccia: «C’era questo volantinaggio dei ragazzi della destra. Sono usciti quelli dei Collettivi e hanno cominciato ad insultarli e strappare i volantini. Hanno tirato delle spinte e a quel punto quelli di Azione Studentesca hanno cominciato a picchiare. E sicuramente hanno esagerato».  […]

La dirigente del Leonardo da Vinci di Firenze. Chi è la Preside della lettera antifascista: Annalisa Savino, il pestaggio al liceo Michelangiolo, l’uscita del ministro Valditara. Redazione su Il Riformista il 23 Febbraio 2023

Per il ministro dell’Istruzione Valditara quella lettera contro il fascismo è stata “impropria”, gli è “dispiaciuto leggerla”. L’avevano letta tutti o quasi la lettera della Preside del Liceo Leonardo Da Vinci di Firenze, Annalisa Savino, ispirata e scaturita dall’aggressione che si era consumata sabato scorso davanti al liceo Michelangiolo dello stesso capoluogo toscano. Parole di condanna al fascismo, perché quei sei ragazzi – tre maggiorenni e tre minorenni – facevano parte di Azione Studentesca. Sei contro due. La Procura di Firenze sta indagando.

Cari studenti – aveva scritto la dirigente – in merito a quanto accaduto lo scorso sabato davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, al dibattito, alle reazioni e alle omesse reazioni, ritengo che ognuno di voi abbia già una sua opinione, riflettuta e immaginata da sé, considerato che l’episodio coinvolge vostri coetanei e si è svolto davanti a una scuola superiore, come lo è la vostra. Non vi tedio dunque, ma mi preme ricordarvi solo due cose. Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti. ‘Odio gli indifferenti’ – diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in un carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee” .

Savino è diventata Preside del Leonardo Da Vinci nel settembre del 2021. Laureata in Filosofia, aveva studiato al liceo scientifico e all’Università di Firenze prima di abilitarsi all’insegnamento. Ha insegnato alla scuola primaria e vinto il concorso da dirigente. Ha diretto l’IC di Gambassi Terme e per otto anni l’IC Ghiberti di Firenze. Alla Leonardo da Vinci arrivava dopo dieci anni di direzione ma alla sua prima volta in una secondaria di II grado.

Mi piacerebbe comunicare il fatto che per me è una grande comunità, non mi piace l’idea di una scuola azienda, ma di un istituto come grande comunità educante. La scuola statale pubblica offre varie opportunità di studio e di crescita e per questo è una scuola inclusiva di per sé. Ovviamente questo per me vale anche per un liceo che si presenta ed è considerato come una scuola selettiva. Nella mia idea il liceo non seleziona, bensì è una scuola che promuove l’impegno e la forza di chi ce la mette tutta e lo fa dopo aver garantito a ciascuno pari opportunità e condizioni per potersi impegnare”, raccontava in un’intervista a Leomagazine.

La lettera “messaggio sui fatti di via della Colonna” della dirigente era diventata virale ieri sui media nazionali. E proseguiva: “Siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni. Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza. Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato col suo nome, combattuto con le idee e la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene 100 anni fa ma non è andata così”.

Parole che non colpevolizzavano – degli aggressori erano stati diffusi sui social perfino le foto a volto scoperto -, che non incitavano ad alcuni tipo di violenza, che condannavano la violenza squadrista e fascista come fa la Costituzione. “Come non avere preoccupazioni in questo momento storico globale per il futuro di tutti noi? Il mio voleva essere un messaggio agli studenti affinché non fossero indifferenti a quanto accaduto a Firenze davanti al Liceo Michelangiolo. La peggior cosa è pensare che questi episodi non contino niente e che tutto sempre evolva verso più rosei orizzonti. La violenza politica è un pericolo e va sempre stigmatizzata”, aveva commentato Savino in un’intervista a Il Corriere della Sera.

Non dello stesso avviso il ministro. “È una lettera del tutto impropria, mi è dispiaciuto leggerla, non compete ad una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà: in Italia non c’è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c’è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo o con il nazismo. Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole; se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure”, ha detto il ministro a Mattino 5.

Prima di oggi nessun membro del governo Meloni si era espresso sulle violenze al liceo Michelangiolo: nessuno fino a oggi, Valditara è stato il primo.

La tristezza di vedere una preside lanciare «l'allarme fascisti», che non c'è. Federico Novella su Panorama il 23 Febbraio 2023

Sta facendo discutere quanto accaduto in un liceo fiorentino giorni fa e da cui la sinistra ha rilanciato l'ennesima allerta fascisti, con la complicità della dirigente della scuola e della sua lettera agli studenti

C’è poco da fare. Ogni occasione è buona per suonare l’allarme fascismo. Da ultimo, il fattaccio certamente deprecabile avvenuto al liceo Michelangelo di Firenze, dove alcuni ragazzi del movimento di destra Azione Studentesca hanno preso a calci e pugni quelli di sinistra. Certe cose vanno condannate duramente, e i responsabili puniti senza sconti. Siamo d’accordo. Ma approfittare di questo fatto per lanciare appelli alla Resistenza contro il rigurgito fascista, questo no. Eppure i proclami partigiani sono subito partiti, dapprima con l’etichettatura spiccia del sindaco Nardella, che ha parlato di “atto squadristico”. E poi tramite una lettera-manifesto firmata da Annalisa Savino, la preside di un altro liceo fiorentino, il Da Vinci: “Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone – scrive - È nato ai bordi di un marciapiede qualunque con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa”. Non solo, la suddetta preside aggiunge una postilla politica significativa: “Chi decanta il valore delle frontiere va chiamato con il suo nome”. Un’equazione limpida, su carta intestata della scuola pubblica: difendere le frontiere uguale fascismo. Così è davvero troppo. Il Ministro Valditara stamattina ha scelto di intervenire, per condannare una lettera “impropria”: “Non compete a una preside lanciare messaggi di questo tipo: in Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo. Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole”. Il ministro effettivamente centra il problema. Ciò che è accaduto in quel liceo è grave e va perseguito. Ma approfittare dell’accaduto per gridare al regime, al ritorno delle armate delle tenebre in camicia nera, significa strumentalizzare politicamente i ragazzi: tutti i ragazzi, gli aggressori e gli aggrediti. I quali diventano pedine manovrate a piacimento per fini squisitamente politici. La reazione scomposta dei dirigenti scolastici ci fa capire che in Italia restano ancora in piedi, granitiche, le casematte culturali di certa sinistra vetero-marxista. Le ultime ridotte intellettuali che passano da certi licei fino alle grandi kermesse come il Salone del Libro. Chi non si allinea è fascista in automatico. Un clima di semi-terrore ben rappresentato dalle parole di un testimone che insegna sempre al Liceo Michelangelo, il quale intervistato da “La Nazione” , racconta che ad accendere la miccia dello scontro sarebbero stati in realtà gli studenti dei collettivi di sinistra. Perché questo docente non è intervenuto? Per gli stessi motivi per cui oggi chiede di restare anonimo: “Questa è una scuola molto politicizzata, vorrei continuare a lavorarci senza problemi”. Insomma, chi accetta la vulgata antifascista è in regola: chi parla è perduto. Se questo è il senso critico coltivato nelle scuole, povere le nuove generazioni.

"Il fascismo è nato così...". La retorica che piace solo a sinistra. Marco Leardi il 22 Febbraio 2023 su il Giornale.

La missiva di una preside dopo la rissa al Michelangiolo di Firenze: "Fascismo nato ai bordi di un marciapiede". Nessun riferimento alle violenze antifasciste. E la sinistra plaude

"Ho voluto fornire spunti di riflessione ulteriori...". Le intenzioni erano sicuramente sincere. Peccato che la lettera scritta dalla preside di un liceo fiorentino dopo la rissa studentesca del 18 febbraio scorso abbia di fatto alimentato le divisioni. Nella pagina firmata da Annalisa Savino - dirigente scolastica dell'istituto "Leonardo Da Vinci" - ci abbiamo infatti ritrovato molta retorica e quale dimenticanza. La preside difatti ha evocato il fascismo e i totalitarismi senza menzionare nemmeno di striscio le provocazioni antifasciste che a Firenze avevano reso il clima tesissimo, contribuendo poi a far sfociare le agitazioni nel deprecapile episodio del Michelangiolo.

La lettera della preside

"Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a se stessa da passanti indifferenti. 'Odio gli indifferenti', diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee", ha scritto la dottoressa Savino nella missiva indirizzata gli studenti, alle loro famiglie e al personale scolastico. Argomentazioni che ci convincono poco e che riteniamo viziate da qualche azzardo nell'analisi. Innanzitutto evocare la nascita del fascismo a fronte di una brutta rissa per motivi politici ci pare un'esagerazione. Anche perché su quel marciapiede non c'erano solo gli studenti di destra ma anche i loro coetanei di sinistra. Ed entrambi, a quanto pare, avrebbero concorso all'epilogo violento.

Le provocazioni antifasciste e l'indifferenza

Nei giorni precedenti al pestaggio al liceo, peraltro, a Firenze si erano verificate minacciose provocazioni provenienti dagli ambienti antagonisti. Prima della rissa al Michelangiolo - secondo quanto ricostruito da una nostra fonte - i collettivi di Sum avevano persino organizzato una spedizione punitiva contro i ragazzi di Azione studentesca. Ma in quel caso tutto era avvenuto sotto una certa "indifferenza" (per richiamare Gramsci, giustappunto). Forse la preside del liceo "Da Vinci" non ne era informata.

"I totalitarismi in momenti come questi..."

Rivolgendosi ai destinatari della missiva, la dirigente scolastica ha poi aggiunto: "Siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni. Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza". Anche qui però ci permettiamo di dissentire. Scomodare i totalitarismi in riferimento all'attualità ci sembra infatti una forzatura.

Ancor più opinabile il successivo passaggio della lettera: "Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa ma non è andata così". All'indomani di una scazzottata a sfondo politico, tuttavia, simili argomentazioni rischiano di accentuare ancor più certe divergenze. Non sarebbe stato più semplice ribadire - senza troppi giri di parole - che la violenza è da combattere sempre, comunque la si pensi in politica?

"Riflessione pacata", il plauso di Nardella

La lettera, come accennato, ha ottenuto plausi da sinistra. "Grazie alla Preside del liceo 'Leonardo Da Vinci' per questa riflessione chiara e pacata. Firenze sarà sempre antifascista", ha scritto sui social il sindaco di Firenze, Dario Nardella. E agli antifascisti violenti (quelli che inneggiano alle foibe e lanciano petardi contro la polizia) nessuno dice niente?

Basta scuola di parte. Anche oggi (e pure domani e anche dopodomani probabilmente) la sinistra ha il suo nemico del giorno. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 24 febbraio 2023.

Anche oggi (e pure domani e anche dopodomani probabilmente) la sinistra ha il suo nemico del giorno. Il bersaglio contro il quale scaricare il proprio arsenale di odio politico e, in alcuni casi, financo antropologico. Il cattivo del giorno che - ormai è anche pleonastico ripeterlo -, viene tacciato di non-sufficiente-antifascismo, filo fascismo, protofascimo, insomma mettete un po' il prefisso che vi pare purché si parli di fascismo, è Giuseppe Valditara, ministro dell'Istruzione e del Merito. Il quale ha sicuramente il merito di non bazzicare i luoghi comuni e di dire le cose fuori dai denti. Magari, a volte, anche un po' troppo. Ma non in questo caso. Facciamo un piccolo sunto dei fatti, con la premessa necessaria che si tratta di eventi di questi giorni e non degli anni Settanta. Il 18 febbraio, a Firenze, un gruppo di ragazzi di Azione studentesca aggredisce fuori dal liceo scientifico «Leonardo da Vinci» alcuni coetanei di sinistra. Un gesto criminale del quale si sta occupando l'autorità giudiziaria. Due giorni dopo - lunedì 20 -, la sinistra, gli antagonisti e i centri sociali scendono in piazza per chiedere la «liberazione dal fascismo e dal governo Meloni». C'entra come i cavoli a merenda con la rissa, ma facciamo finta di niente. Incidentalmente i sinceri difensori della democrazia inneggiano alle foibe, a Tito e minacciano di morte la premier («Meloni fascista, sei la prima della lista», originale eh?), ma facciamo finta di niente anche in questo caso. Non c'è molto da stupirsi: la sinistra ha occupato l'intera campagna elettorale gridando al ritorno delle camicie nere e alla fine qualcuno ha finito per crederci, come era ampiamente prevedibile. Ma la questione è un'altra: il clima è rovente, gli animi surriscaldati, le passioni politiche esasperate e cosa pensa di fare la preside del Michelangelo? Scrive una circolare infuocata nella quale, dopo aver giustamente condannato l'agguato, sottolinea come il fascismo sia nato così (da una rissa per strada? Analisi raffinatissima...) e richiama tutti all'allerta democratica. Come cercare di spegnere un incendio con un Canadair pieno di benzina. Un gesto politico, certamente non didattico. Al quale il ministro dell'Istruzione, ieri, ha risposto con decisione: «É una lettera del tutto impropria, non compete ad una preside lanciare messaggi di questo tipo. Vedremo se sarà necessario prendere misure».

Una frase sensata che ha scatenato un putiferio di polemiche. I presidi sono la rappresentazione dello Stato e delle Istituzioni nelle scuole. Sono il presidio di legalità più vicino ai giovani. Non devono fare i piromani, semmai i pompieri. Non devono trasformare le aule e i corridoi dei licei in terreno di scontro per una guerra civile finita più di settant'anni fa, ma soprattutto non devono strumentalizzare e aizzare i ragazzi per fini politici. Altrimenti si finisce per delegittimare la scuola stessa: operazione che la sinistra, dal 1968 a oggi, porta avanti con grande pervicacia. Anche a colpi di circolari politicizzate.

Quei "cattivi maestri" dei giovani e la visione distorta della politica. Quanto accaduto a Firenze non è altro che conseguenza dell’ideologia: per un’idea, infatti, non si ricorre alla violenza. La causa è sempre la stessa: vedere nell’altro non un avversario ma un nemico, un mezzo con il quale affermarsi, costi quel che costi. Suor Anna Monia Alfieri su Il Giornale il 23 febbraio 2023.

Quanto accaduto a Firenze non è che uno dei tanti episodi della dilagante violenza fra i giovani. È certamente triste e al contempo interessante constatare che sempre più spesso i fenomeni di violenza avvengono o in famiglia o tra i giovani. A questi poi occorre aggiungere la non meno inquietante violenza delle strade legata a certe manifestazioni ispirate alla politica, o meglio, perché la politica è cosa ben diversa, a una visione distorta della politica e delle sue rivendicazioni. Ulteriore prova che si tratta di fenomeni che sono conseguenza dell’ideologia: per un’idea, infatti, non si ricorre alla violenza. La causa è sempre la stessa: vedere nell’altro non un avversario ma un nemico, un mezzo con il quale affermarsi, costi quel che costi. Che il fenomeno violento avvenga tra le mura domestiche, nei bagni di una scuola o sulla pubblica piazza, poco importa: l’altro non è un mio simile, non conta nulla, io basto a me stesso.

Altro fattore che sicuramente contribuisce a innescare la violenza tra i nostri giovani è la solitudine cui ormai da almeno tre decenni li abbiamo abbandonati. Cosa fa un adolescente quando torna da scuola e non ha altra alternativa se non l’ozio del parchetto o i tentacoli dei social, con le idee che circolano e che i nuovi mezzi di comunicazione contribuiscono ad amplificare? Ecco i cattivi maestri! La loro categoria abbraccia i settori più disparati: la pubblicità, gli influencer, certi cantanti e personaggi dello spettacolo e, aggiungiamoci, certi nostri politici. Perché si tratta di maestri cattivi? Perché i messaggi che diffondono sono ispirati alla logica del guadagno, della popolarità, del fare cassa alle spalle di chi non ha gli strumenti per comprendere l’inganno. In altre parole, i cattivi maestri intercettano e sfruttano la fragilità di chi li segue. Pensiamo ai messaggi violenti lanciati in prima serata dal palco di Sanremo, dalla Tv pubblica. E’ ovvio, che se chi occupa determinati ruoli o gode di una certa visibilità mediatica si lascia andare a comportamenti violenti, i giovani si sentiranno legittimati a fare lo stesso.

Allora, occorre invertire la rotta e fare nuove proposte ai giovani, proposte credibili e in grado conquistarli, ampliando le occasioni di aggregazione sana e costruttiva. Al di là delle molteplici e belle proposte già esistenti e provenienti dalle diverse realtà educative o del volontariato, anche la scuola può e deve fare molto: al mattino si sta in classe e si apprende, al pomeriggio si ritorna a scuola e si studia assieme o si svolgono attività con uno sguardo sempre proiettato all’altro, al suo bene. Non è educativo che un ragazzo di 15 anni trascorra i suoi pomeriggi nella noia del parchetto o del centro commerciale, né che abbia come unico impegno la palestra intesa non ad un benessere psicofisico ma come esaltazione del proprio io. E poi, mi si consenta di dire anche questo: ricordo che, quando ero ragazza, i miei amici i cui genitori avevano un’attività in proprio (un negozio, un bar, una ditta) aiutavano i loro genitori. Il figlio del padrone veniva affidato all’operaio più esperto e imparava il mestiere. Ora, ovviamente nel massimo rispetto della normativa giuslavoristica e della sicurezza sui luoghi di lavoro, smettiamola di dire che, se un ragazzo di 15 anni segue il proprio papà sul furgone, si cade nel reato di sfruttamento del lavoro minorile!

Ancora un’ultima considerazione: quale esempio sta offrendo la politica ai nostri giovani? Il governo eletto dai cittadini è continuamente oggetto di polemiche e di ostruzionismo. Non voglio prendere le parti di nessuno ma occorre che tutti i partiti compiano un esame di coscienza e si pongano la domanda: perché la mia parte politica non ha ottenuto la maggioranza? Come posso adempiere al mio mandato di opposizione in modo serio e costruttivo, non per il bene della mia parte ma per il bene pubblico? Quando si compiono delle scelte, occorre poi assumerne le conseguenze. È inutile, pertanto, condannare la violenza o i diversi fenomeni che la cronaca ci fa conoscere e poi fomentare quella stessa violenza accusando l’altra parte politica. È necessaria una nuova e motivata coerenza, una nuova etica nella politica. Non solo non si finanziano illegalmente i partiti, ma si rispetta un codice di comportamento, pur nella legittima dialettica. Chissà che una scuola nuova, liberamente scelta dai genitori, una scuola aperta alle diverse realtà benefiche operanti sul territorio, unita ad una politica diversa siano le due premesse al cambiamento e alla fine della violenza giovanile.

Estratto da video.repubblica.it il 25 febbraio 2023

Un nuovo video circolato nelle chat degli studenti del liceo Michelangiolo di Firenze documenterebbe in maniera nitida quanto accaduto sabato scorso. Dalle immagini del breve filmato si vede con estrema chiarezza come i ragazzi dei collettivi di sinistra abbiano provato a difendersi dall'aggressione dei militanti di Azione studentesca rimanendo però accerchiati nel giro di pochi istanti. I due studenti che stavano facendo volantinaggio davanti al liceo tentano di reagire ma vengono colpiti ripetutamente dai loro aggressori e gettati a terra. Non una rissa quindi ma una vera e propria spedizione punitiva. La Digos ha sequestrato i telefoni dei ragazzi indagati per analizzare video, foto e chat. Lesioni e percosse le ipotesi di reato.

Liceo di Firenze, l’ex preside: “Io insultato e mai difeso”. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2023

Continua a far discutere quanto successo davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, con la rissa scoppiata sabato scorso tra alcuni attivisti di Azione Studentesca e i militanti dei Collettivi di sinistra. Adesso a prendere la parola è un ex preside di quell'istituto, Massimo Primerano, che ha confessato di essere stato minacciato perché di destra. Nonostante questo, però, nessuno lo avrebbe mai difeso e supportato. L'uomo ha commentato un post del sindaco di Firenze, Dario Nardella, nel quale il primo cittadino esalta la lettera della dirigente scolastica del liceo Leonardo da Vinci.

Negli anni in cui ero preside, dal 2005 al 2012, lei era vicesindaco. In quel periodo, le violenze erano tutte di matrice anarchica ed i cosiddetti collettivi di sinistra non disdegnavano affatto di usare mezzi verbalmente e fisicamente violenti in nome di un antifascismo usato come slogan ed un modo di agire che niente aveva da invidiare ai metodi fascisti", ha scritto l'ex preside. Che poi ha raccontato di come gli fu "danneggiato lo scooter, giunsero minacce pesanti alcune delle quali sono sempre visibili nella bacheca all’ingresso del Liceo". Stando al racconto dell'uomo, lo slogan contro di lui era "Primerano fascista".

 Il paradosso, ha sottolineato l'ex preside, è che all'epoca fu pure "candidato in una lista di sostegno al Pd. Ma guarda caso né lei né alcuno dei suoi colleghi mi sostenne. Anzi accadde di peggio: ricevevo telefonate di sostegno forte da esponenti politici che il giorno seguente non disdegnavano di fare sia in consiglio comunale che sui giornali dichiarazioni apertamente critiche sul mio operato". Marcando la distanza con la preside che ha scritto la lettera sul fascismo, Primerano ha spiegato: "Non feci lettere agli studenti e neppure le inviai ai giornali per il rispetto al ruolo istituzionale che avevo cucito addosso. Mi aspetterei da politici seri una condanna contro qualunque forma di violenza indipendentemente da chi la pratica e non in base a chi la pratica, senza fare il tifoso. Chiedo troppo?".

Il pestaggio, la lettera e le reazioni. Cosa è l’antifascismo oggi: una caccia ai fantasmi. Alfredo Antoniozzi su Il Riformista il 26 Febbraio 2023

Caro direttore

Ti ringrazio per la citazione nel tuo apprezzabile articolo sulle polemiche scaturite dalla lettera della preside di Firenze. Premessa: ci sono cascato anche io. Ho probabilmente fatto ciò che la professoressa si attendeva e cioè dare eco alla sua iniziativa. Non voglio più entrare nel dibattito sul fascismo e l’antifascismo. È un problema della sinistra inseguire i fantasmi. Un po’,se mi consenti, come accade nel calcio, dove tanti tifosi piuttosto che pensare alle loro squadre-( io sono laziale) tirano sempre in ballo la Juventus come totem di sopravvivenza. Usciamo da questa mediocrità. Il fascismo è morto a Salò.

Nel merito delle tue obiezioni rispondo che la Scuola fa fatica a uscire da una narrazione strabica. Ad esempio Gramsci, straordinario pensatore che Mussolini temeva più di tutti, non era proprio un riformista. Tant’è che Turati ruppe con lui proprio sull’idea di organizzazione della sinistra. Per cui mi sembra paradossale che tanti commentatori politici di estrazione cattolica come la mia lo mettano insieme a Don Milani nell’interpretare la lettera della professoressa Savino. Il comunismo nel mondo è stata una tragedia. La più grande. E in Italia, se le elezioni del 48 fossero andate diversamente, questa tragedia si sarebbe potuta ripetere. Tutto questo la scuola lo omette. Così come omette di raccontare ciò che è stato vissuto nell’Europa dell’est.

Io credo che continuare a proporre fantasmi (scelta legittima ci mancherebbe ma già pagata a caro prezzo da Enrico Letta) sia un pessimo insegnamento per i nostri ragazzi. Avrei voluto che in quella missiva, diventata ormai più celere di tanti romanzi, la dirigente scolastica dicesse ai ragazzi che la violenza tra fazioni ha solo prodotto morti e distrutto vite negli anni settanta. Che la tolleranza è l’unica, grande arma della democrazia. Avrei voluto che, insieme all’antifascismo, citasse il partito radicale (le cui idee erano lontane anni luce dalle mie) e la non violenza come metodo di lotta politica.

Sai meglio di me che tanti antifascisti di rilievo della Repubblica erano stati fascisti di avanguardia. E che, come scrissero tanti intellettuali di spessore, c’è una sorta di fascismo insito nell’antifascismo che prevarica. Però tutto questo va storicizzato. Necessariamente. Perché è impensabile che 80 anni dopo si paventino spettri che non esistono. Il nemico comune a cui tutti dovremmo guardare è il nichilismo, l’idea di una società priva di sentimenti e di valori. La nostra Repubblica è nata da un dolore enorme. Dalle ceneri di una guerra. E la vera, triste realtà è che ancora oggi è la guerra il nostro avversario da abbattere.

Così come, non è una divagazione, le giovani generazioni sono risucchiate da problemi che sembrano più rilevanti di 40 anni fa: alcol, consumo di droghe, ludopatia, attività criminali. Costruiamo una condivisione pedagogica comune che recuperi i giovani alla politica, che insegni loro il rispetto reciproco. E non cerchiamo, direbbe Brecht, il bisogno esasperato di eroismi inventati. Abbiamo bisogno di combattere un’altra indifferenza che e quella della rassegnazione. E senza credibilità non saremo giudicati all’altezza. Se la sinistra vorrà indicare nell’antifascismo il problema dell’Italia continuerà a farsi del male. Come direbbe Nanni Moretti.

Con stima. ALFREDO ANTONIOZZI (deputato di FdI)

È vero, onorevole Antoniozzi, Brecht scrisse contro gli eroismi inutili. Ma lei sicuramente saprà che Brecht, che era tedesco, questa sua idea non la scrisse nella sua casa di Berlino ma in un appartamento di Santa Monica, California. E sa anche perché. Non poteva vivere a Berlino, in quegli anni, né in un’altra città tedesca o italiana perché in Germania e in Italia governavano i fascisti e i nazisti che avevano abolito la libertà e mettevano in prigione, o uccidevano, gli avversari. E proprio in quegli anni iniziarono lo sterminio degli ebrei, che spinse l’umanità al punto più basso della civiltà umana.

Lei dice: cose passate. Vero. Non del tutto. Ci sono ancora delle persone viventi che scamparono per miracolo ai lager e ai forni crematori. Oggi sono vecchi, hanno ottanta o novanta anni. Ricordano: ricordano bene, tutto. Poi ci sono delle persone che avrebbero ottanta o novant’anni, ma non esistono più perché furono bruciate nei forni di Auschwitz o di Buchenwald quando erano bambini. Capisce, onorevole, che non è facile dimenticare l’orrore fascista? Che non riguarda la Svezia, o l’Australia, o l’Etiopia, o l’Iran. Riguarda noi: la nostra “nazione”, direbbe Giorgia Meloni. Le orrende vergogne delle quali si è macchiata.

Per questo in Italia l’antifascismo è ancora un valore. Dopodiché io penso che l’antifascismo non sia un affare di bandiere, etichette, appartenenze, retorica. Né che esistano i “possessori” dell’antifascismo. L’antifascismo è una idea, assolutamente facoltativa, che attraversa la sinistra, il mondo cristiano e la destra liberale, ed è un’idea che non vive di anatemi ma di lotta agli autoritarismi e alle illiberalità. Per me l’antifascismo è la battaglia contro i divieti, la repressione, il giustizialismo, le gerarchie, gli obblighi, le leggi ingiuste, le sopraffazioni dello Stato. È la difesa di tutti, soprattutto dei più deboli, soprattutto dei detenuti. Per me l’antifascismo è anche la difesa dei fascisti, che devono avere pieno diritto ad esistere e ad esprimersi: e ogni discriminazione nei loro confronti è un atto fascista.

Esistono ancora i fascisti nel nostro parlamento? Io credo di si. In molti partiti la illiberalità, l’autoritarismo, il giustizialismo sono valori viventi. Sono persino identità: nei 5Stelle soprattutto, ma anche tra i Fratelli d’Italia, nella Lega, persino nel Pd. Esistono, i fascisti, e hanno diritto di esistere. Tra loro, mi par di capire, c’è anche il ministro dell’Istruzione che vuole proibire la politica nelle scuole. Mi chiedo solo questo: è opportuno che il ministro della scuola sia di idee fasciste? PIERO SANSONETTI

"Siete morti". L'agguato choc degli studenti di sinistra. Il video esclusivo. L'aggressione nel maggio 2022 agli studenti di Azione universitaria a Bologna. Ecco le fasi dell'agguato in un video esclusivo. Francesca Galici il 3 marzo 2023 su Il Giornale.

Da settimane, ormai, la sinistra cavalca le polemiche su quanto accaduto all'esterno del liceo Michelangiolo di Firenze. Violenza esecrabile, perché mai nessun atto violento può essere giustificato, ma la sensazione è che si stia sfruttando quell'evento a scopo politico come rimostranza contro il governo Meloni. Eppure, meno di un anno fa, qualcosa di simile è accaduto a Bologna, solo che le parti erano invertite: un gruppo di studenti di Azione Universitaria è stato sorpreso e aggredito alle spalle dai collettivi rossi.

La denuncia della violenza era stata fatta nell'immediato da parte delle vittime ma nessuno, a sinistra, si era mobilitato con la stessa foga o con la stessa veemenza con la quale si chiede oggi al centrodestra di dissociarsi, attribuendo alla politica nazionale la responsabilità dei fatti. Oggi che le indagini sono state chiuse e che ci sono otto studenti dei collettivi indagati, possiamo mostrare il video esclusivo di quell'aggressione, che mostra il modo con il quale è avvenuto l'assalto, che ha i contorni di un vero e proprio agguato.

"Tornate nelle fogne", "siete morti", "vi uccidiamo". Queste alcune delle frasi pronunciate dagli aggressori e riportate, nero su bianco, nell'avviso di conclusione delle indagini firmato dal pm Stefano Dambruoso. La procura contesta agli indagati non solo le lesioni aggravate ma anche la rapina: con "calci, spintoni, pugni e strattonamenti" si sarebbero infatti impossessati delle "bandiere e delle aste" degli studenti di Azione Studentesca.

"Ci hanno accerchiati, arrivavano da tutte le parti, saranno stati una ventina: è stato un agguato", così raccontava Dalila Ansalone, consigliere del quartiere Santo Stefano e consigliere di Azione universitaria all’Unibo, quanto avvenuto sotto i portici del teatro comunale. Non fu certo una passeggiata di salute quell'aggressione, visto che sia lei che Stefano Cavedagna, consigliere comunale di Bologna, ebbero una prognosi di 16 giorni, con lesioni di vario tipo tra le quali il trauma cranico. Se la violenza è violenza, perché da sinistra non si è usato lo stesso metro di valutazione per condannare ed esecrare quell'aggressione, che non ha nulla di meno rispetto a quanto accaduto a Firenze?

L'impressione, nonché la certezza, è che come al solito nel nostro Paese ci siano aggressioni giuste e aggressioni sbagliate. Nel video che abbiamo ricevuto è evidente che si sia trattata di un'azione punitiva, probabilmente premeditata, che aveva lo scopo di colpire gli "avversari" politici. Non sono erano segnalati precedenti di rilievo recenti tra le due fazioni, c'è stata semplicemente la volontà dei collettivi rossi di assalire gli iscritti ad Azione universitaria per la loro fede politica. Nulla di diverso rispetto a quanto accadeva negli anni Settanta ma ben distante da quanto accaduto a Firenze, invece, dove la rissa è nata dopo la provocazione dei collettivi ai quali gli studenti di destra, sbagliando, hanno reagito con violenza.

Prendere a pugni i ragazzi di destra non fa notizia: se lo meritano. Ecco il video del pestaggio dei militanti di FdI avvenuto a Bologna nel maggio 2022. Nessuno ne parla. Perché? di Giuseppe De Lorenzo su Nicola porro.it il 3 Marzo 2023

Non siamo mica sciocchi: non ci aspettavamo certo che, dopo la nostra esclusiva sul pestaggio di alcuni studenti di destra a Bologna, i grandi giornali ci venissero dietro. Per carità, ci siamo abituati: se a prendere le botte, vere e documentate, sono i giovani di Fratelli d’Italia nessuno fa un frizzo. Ne parlano i quotidiani locali per qualche giorno, poi tutto finisce nel dimenticatoio. Se invece di fronte a un liceo fiorentino scoppia una rissa, subito la stampa democratica fa scattare le trombette dell’antifascismo militante, sgorgano editoriali sulla difesa della Costituzione e contro lo squadrismo fascista. Lo ripetiamo: ci siamo abituati. Però è pure giusto mettere a nudo l’ipocrisia del sistema mediatico italiano, oltre che di quello intellettuale e giornalistico.

Di casi da raccontare ce ne sarebbero a bizzeffe, senza dimenticare i collettivi che alla Sapienza hanno impedito a Daniele Capezzone di parlare. Ma limitiamoci agli episodi simili: prendiamo i fatti di Bologna, che risalgono al maggio del 2022, e quelli più recenti di Firenze.

La sera del 19 maggio, una decina di giovani di Azione Universitaria è in via Zamboni a Bologna per controllare i risultati delle elezioni universitarie. Escono dal portone tranquilli, chiacchierano, tutto fila liscio come l’olio. Finché non vengono circondati e malmenati da una ventina di persone. A confermarlo c’è l’avviso di conclusione indagini contro 8 ragazzi, in cui si parla di “pugni, calci e spintoni”, di un trauma toracico, di lesioni guaribili in 16 giorni e minacce tipo “vi uccidiamo”, “tornate nelle fogne”, “siete morti”. Un vero e proprio agguato, certificato anche dai video delle telecamere di sorveglianza che circondano l’ingresso della Facoltà di Lettere bolognese. Si vedono distintamente i ragazzi di Azione Universitaria aggrediti alle spalle da un gruppo militanti di sinistra. Le immagini non lasciano spazio all’immaginazione: botte, pugni, spintoni. Violenze, insomma. Gravi tanto quanto quelle emerse dai filmati della rissa di fronte al Michelangiolo. Se non di più.

E arriviamo a Firenze. Ogni violenza è deprecabile e su questo sito lo abbiamo detto e ridetto: gli alunni di Azione Studentesca hanno fatto male a reagire con i pugni. Però va pure ridimensionato il contesto: secondo alcuni testimoni, infatti, a far scattare la miccia sarebbero stati gli studenti dei collettivi infastiditi da un banale volantinaggio degli avversari “di destra” di fronte alla loro scuola. Un professore, intervistato dalla Nazione, l’ha detto chiaro e tondo: “C’era questo volantinaggio dei ragazzi della destra. Sono usciti quelli dei collettivi e hanno cominciato ad insultarli e strappare i volantini. Hanno tirato delle spinte e a quel punto quelli di Azione Studentesca hanno cominciato a picchiare”. Una rissa, insomma, e non quel “pestaggio squadrista” cui i media si sono aggrappati per giorni basandosi su un’unica versione dei fatti.

Morale della favola. Domani a Firenze è prevista una grande manifestazione antifascista “in difesa della scuola e della Costituzione”. Il corteo protesterà “contro ogni forma di violenza” e per esprimere “solidarietà alla preside Savino”, quella della delirante lettera sul fascismo. Saranno presenti anche Elly Schlein e Giuseppe Conte, nella più classica delle farse. Ci permettiamo di dare un suggerimento: in piazza proiettate pure il video del pestaggio dei collettivi ai danni dei militanti FdI. Così magari anche Repubblica e gli altri giornali se ne accorgono e ne parlano un po’. Oppure ci volete dire che se sei di destra le botte te le meriti? Giuseppe De Lorenzo, 3 marzo 2023

Minacce e violenze dai collettivi rossi. E la sinistra tace. Pd e 5S attaccano il governo sulla rissa studentesca di Firenze. "Non dicono nulla...". Ma nelle stesse ore i progressisti tacciono sulle minacce dei collettivi di sinistra: un vizio non certo nuovo. Marco Leardi su Il Giornale il 24 febbraio 2023.

La sinistra s'è lanciata nella rissa, sperando forse di ammaccare il governo a suon di polemiche. Con il passare delle ore, la discussione sulla scazzottata studentesca di Firenze è stata infatti trascinata dai progressisti sul terreno dello scontro tra partiti. E meno male che le ideologie andavano tenute fuori dalla mischia. Dalle opposizioni si è alzato così un coro unanime di contestazioni al governo, reo - a giudizio di Pd e Cinque Stelle - di non aver condannato con fermezza l'aggressione "squadrista" del liceo Michelangiolo. Guai peraltro a mettere in dubbio quella narrazione e a spiegare che anche i collettivi rossi avevano contribuito ad accendere la miccia delle tensioni.

Pestaggio a Firenze, sinistra contro il governo

"Il governo non ha detto nulla sull'aggressione neofascista contro gli studenti di Firenze", ha tuonato deputato dem Nicola Zingaretti. Ed Elly Schlein è andata all'attacco del ministro Valditara. Ma il colmo è che tali recriminazioni provengono da un partito che troppo spesso non ha battuto ciglio di fronte alle aggressioni e alle minacce degli antagonisti.

Il silenzio progressista sui collettivi rossi

Nelle stesse ore in cui pretendevano un pronunciamento del governo, i progressisti tacevano sulle minacce al ministro dell'Istruzione provenienti dai collettivi studenteschi torinesi. "Valditara a testa in giù", aveva scritto sui social un giovane vicino ai centri sociali, ma l'esponente politico non aveva ricevuto alcun sostegno da sinistra (come da lui stesso testimoniato). A solidarizzare con il collega di governo era stato invece Matteo Salvini, che in tutta risposta si era beccato una minaccia dai collettivi rossi. "Sappia che a piazzale Loreto c'è ancora posto", gli avevano comunicato tramite i social. Ma al momento non si registrano diffuse condanne da sinistra, a eccezione di quella pronunciata dal sindaco di Torino, Stefano Lo Russo. Uno su mille ce la fa (a prendere le distanze senza indugi). Il silenzio piddino e pentastellato aveva anche accompagnato le minacce anti-Meloni al corteo di Firenze con cori offensivi sulle foibe.

Gli inni alle Br e la Meloni appesa

Ma pure in passato i progressisti si erano stranamente trattenuti dallo stigmatizzare alcune gesta dei collettivi studenteschi. A ottobre, ad esempio, gli antagonisti volevano impedire la realizzazione di un convegno di Azione Universitaria alla Sapienza di Roma e la sinistra, invece di redarguire questi ultimi, aveva polemizzato con il Viminale perché la polizia li aveva respinti. Analogamente, non si erano udite voci di condanna contro i giovani che inneggiavano alle Brigate Rosse durante un'assemblea sul caso Cospito nel medesimo ateneo romano. Eppure, cosa sarebbe costato? Nulla, visto che quelle idee sono fortunatamente estranee ai partiti della sinistra parlamentare. All'elenco dei recenti imbarazzi di sinistra aggiungiamo poi quello sul fantoccio della Meloni appeso a testa in giù a Bologna. Un gesto talmente grave da spingere il sindaco Pd Matteo Lepore a condannare l'accaduto. "Violenza inaccettabile", disse il primo cittadino.

Ma raramente da sinistra arrivano prese di posizione così esplicite, soprattutto quando a sgarrare sono i "bravi" ragazzi dei collettivi studenteschi o i loro amici militanti dei centri sociali. Per questo ora certe polemiche rivolte contro il governo sul caso del liceo Michelangiolo appaiono strumentali, se non addirittura ipocrite.

Il surreale antifascismo del nuovo millennio. Se non avessimo visto l'altro ieri con i nostri occhi qui a Firenze la cosiddetta manifestazione antifascista degli studenti del liceo Michelangiolo, avremmo pensato a una rievocazione cinematografica del tempo che fu. Paolo Armaroli il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Se non avessimo visto l'altro ieri con i nostri occhi qui a Firenze la cosiddetta manifestazione antifascista degli studenti del liceo Michelangiolo dopo gli scontri tra giovani di destra e di sinistra, avremmo pensato a una rievocazione cinematografica del tempo che fu. E allora diciamo una buona volta le cose come stanno dal punto di vista storico e costituzionale. Morto il fascismo per indisposizione del dittatore, ben presto anche l'antifascismo storico quello vero al quale ci inchiniamo e non quello da barzelletta che si è visto in seguito non ha più ragion d'essere.

Tirando le cuoia, l'antifascismo verace partorisce due creature. Da una parte si afferma la democrazia liberale di Alcide De Gasperi e dei suoi alleati. Ed ecco la scissione di Palazzo Barberini del gennaio 1947, quando Giuseppe Saragat rompe con Pietro Nenni perché opta per una scelta di civiltà, e il trionfo del 18 aprile 1948 del leader democristiano, che conferma una scelta di campo irreversibile. E dall'altra i Nenni e i Togliatti, allora uniti dal patto di unità d'azione, che si schierano a favore di Peppone Stalin, uno spietato dittatore come pochi altri. Nell'immediato dopoguerra nostalgici del fascismo, monarchici e comunisti si contavano a milioni. Mentre adesso sono quasi scomparsi del tutto. Comunisti compresi, da quando Achille Occhetto, meglio tardi che mai, pensò bene di disfarsi di un partito considerato sempre più imbarazzante. La pretesa di resuscitare adesso il monolite antifascista è semplicemente surreale, visto e considerato che non è più un monolite dagli anni dell'immediato dopoguerra. Tutti dobbiamo invece osservare la Costituzione. Una Carta che si fonda soprattutto su due articoli: l'articolo 3 e l'articolo 21, entrambi caratterizzanti un ordinamento liberaldemocratico. Il primo sancisce il principio di eguaglianza davanti alla legge senza discriminazione alcuna. Il secondo riconosce a tutti il diritto di libera manifestazione del pensiero. Ora, sarà anche vero che la nostra è la Costituzione più bella del mondo. E se lo dice Benigni, che pure non è un costituzionalista, possiamo crederci. Resta il fatto che è una illustre sconosciuta. Ne abbiamo avuto la riprova proprio in questi giorni. Alcuni studenti dei Collettivi di sinistra del liceo classico Michelangiolo di Firenze, con in mano un cestino dell'immondizia, hanno invitato alcuni giovani di destra a deporvi i loro volantini considerati robaccia e a togliere il disturbo sui due piedi perché udite, udite non ne condividono il contenuto. E nel corso della manifestazione dell'altro ieri hanno chiarito si fa per dire il loro pensiero: «Se arrivano davanti alle scuole, troveranno chi li scaccia». Urge un corso accelerato di educazione civica. Che aspettano i professori a farsi parte diligente?

La vergognosa risposta di Fratelli d’Italia alla lettera della preside: «Parli dei morti del comunismo e delle foibe». Mauro Munafò su L’Espresso il 23 febbraio 2023.

Il messaggio della dirigente scolastica del liceo Da Vinci sui pericoli del restare indifferenti di fronte alle azioni fasciste scatena le reazioni del partito di governo. Che ripetono il solito ritornello benaltrista. Mentre il ministro Valditara minaccia azioni contro la preside: «Lettera ridicola»

«E allora le foibe?» recitava il tormentone di Caterina Guzzanti nel suo personaggio di Vichi, attivista di Casapound che, quando le si chiedeva conto dei mali del fascismo, cambiava subito discorso. Sono passati più di dieci anni da quelle imitazioni, ma il ritornello della Destra resta lo stesso: si verificano aggressioni di matrice squadrista, ma guai a chiamarle per nome. Perché, se lo fai, allora devi anche ricordare quanto male ha fatto il comunismo.

Ed è esattamente quanto successo in questi giorni. Dopo l’aggressione ai danni di alcuni studenti minorenni da parte di sei persone legate alla sigla di Destra Azione Universitaria (movimento giovanile del partito di Giorgia Meloni) davanti a un liceo di Firenze, le formazioni governative avevano fatto finta di nulla (il ministro Salvini aveva trovato il tempo di parlare dei cani in Turchia, ma non di quanto accaduto).

Ieri la lettera della dirigente Annalisa Savino del liceo Da Vinci di Firenze, in cui ricorda il pericolo del fascismo quando gli indifferenti non reagiscono, ha però smosso le coscienze anche a Destra. Fronte da cui si sono mossi in fretta non tanto per condannare le azioni squadriste, quanto per attaccare Savino e le sue parole.

Alfredo Antoniozzi, vice capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, ha subito attaccato: «Alla preside raccomandiamo alcune integrazioni: i novanta milioni di morti generati nel mondo dal comunismo, le foibe, le sanguinarie repressioni di Praga e Budapest, l'attualità di una Cina in cui non esistono i diritti civili». Stesse parole usate da Francesco Giubilei, ideologo della nuova Destra e consulente del ministro alla Cultura, che su Twitter ha attaccato: «Surreali le circolari dei presidi dei licei fiorentini che fanno politica paventando il ritorno del fascismo dopo quanto accaduto al Liceo Michelangiolo. Domani ci aspettiamo una circolare sul pericolo del comunismo dopo il corteo dei collettivi in cui si è inneggiato alle foibe».

Ancora più duro l’intervento del ministro dell’Istruzione Valditara che, a Mattino 5, attacca la preside autrice della lettera e minaccia di intraprendere iniziative contro di lei: «È una lettera del tutto impropria, mi è dispiaciuto leggerla, non compete a una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà: in Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo. Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole; se l'atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure. Di queste lettere non so che farmene, sono lettere ridicole, pensare che ci sia un rischio fascista è ridicolo».

Il corteo "anti-violenza" inneggia alle foibe e a Tito. A Firenze 2.000 in piazza insultano il governo. Ma quando i pestaggi sono rossi, silenzio totale. Francesco Giubilei il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Dopo i fatti avvenuti nei giorni scorsi al Liceo Michelangiolo, i collettivi studenteschi, le sigle della sinistra e le associazioni antifasciste, sono scese in piazza lunedì nel tardo pomeriggio a Firenze in una manifestazione che si è trasformata in una sfilata degli orrori. Il corteo, nato per protestare «contro l'aggressione subita da due giovani davanti al Liceo Michelangiolo» (anche se in un nuovo video si sostiene sia avvenuta «non un'aggressione ma una rissa»), si è aperto con lo striscione «Liberiamoci dal fascismo e dal governo Meloni».

Si potrebbe già obiettare sul collegamento tra quanto avvenuto fuori dal liceo fiorentino e il governo ma è nulla rispetto allo spettacolo andato in scena per le strade del capoluogo toscano. I manifestanti, circa duemila, si sono radunati a Campo di Marte per poi dirigersi verso via Frusa, sede di Azione Studentesca (il movimento a cui appartengono i militanti coinvolti nei fatti del Liceo Michelangiolo).

Nel tragitto sono stati intonati cori contro la polizia e i giornalisti e, mentre circolava un volantino di solidarietà all'anarchico Alfredo Cospito e contro il 41Bis, si è alzato un coro di minacce al presidente del Consiglio: «Meloni fascista, sei la prima della lista». Non paghi, alcuni dei presenti hanno inneggiato alle foibe gridando «Viva le foibe» a cui è seguita la canzoncina «il compagno Tito ce l'ha insegnato...» per poi concludere con «fascista di merda, ti lascio morto in terra».

A fare da contorno le bandiere dell'Urss e della Jugoslavia comunista di Tito, un contesto da cui di certo non può arrivare nessuna lezione di democrazia. E, non a caso, il corteo è culminato con un lancio di bottiglie contro gli agenti di polizia schierati in assetto antisommossa. Eppure, nonostante il tenore dell'iniziativa, non è arrivata una parola di condanna da parte di politici e opinionisti di sinistra che nei giorni scorsi hanno accusato il governo di non prendere le distanze da Azione Studentesca.

Lo stesso silenzio che si registra ogni volta che i collettivi occupano le università e impediscono con l'uso della forza lo svolgimento di eventi o conferenze su temi o con ospiti a loro non graditi. D'altra parte, quando gli aggressori sono di estrema sinistra, nessuno dice niente. A maggio, a Bologna, alcuni esponenti di Fdi e Azione universitaria sono stati assaliti da militanti dei centri sociali. Quel giorno - la vicenda è raccontata nel portale di Nicola Porro - intervennero le forze dell'ordina. La procura di Bologna ha chiuso le indagini chiedendo il rinvio a giudizio per otto aggressori di sinistra. Di questo fatto non si è parlato né sono state organizzate manifestazioni.

Due pesi, due misure. I presidi degli istituti fiorentini condannano quanto accaduto al Michelangiolo e, dopo i dirigenti scolastici dell'Istituto Salvemini Duca d'Aosta e del Liceo Pascoli, anche la preside del liceo Leonardo Da Vinci è intervenuta affermando che: «Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque». Mentre la Procura ha aperto un fascicolo nei confronti di sei ragazzi coinvolti nelle violenze del Liceo Michelangiolo, l'auspicio è che i dirigenti scolastici fiorentini prendano allo stesso modo le distanze da quanto andato in scena per le strade di Firenze perché le minacce, la violenza e inneggiare a regimi totalitari o a dittatori, deve sempre essere condannato da qualsiasi parte arrivi.

Inneggiano alle foibe e a Tito: ecco cosa rischiano ora i compagni. Durante il corteo di ieri a Firenze cori per inneggiare a Tito e alle foibe. L'Unione degli istriani: "Pronti a querelare". Matteo Carnieletto il 22 Febbraio 2023 su il Giornale.

La risposta è arrivata dall'Unione degli istriani. Secca. Chiara. Definitiva. Dopo aver visto i video in cui gli antifascisti fiorentini inneggiano a Josip Broz Tito e alle foibe, l'associazione di esuli di Trieste si è detta pronta a querelarli.

L'annuncio è stato dato in un comunicato in cui l'Unione, dopo aver ripercorso le offese degli antifà, afferma: "Non postiamo il video, non volendo pubblicizzare quello che comunque gira già dappertutto sui social: di bandiere rosse, ed addirittura jugoslave, con quella lurida stella vermiglia, ne abbiamo viste abbastanza, dal 1954 in avanti e ben prima, quando eravamo ancora a casa nostra, in Istria. Stavolta però l'Unione degli Istriani non intende stare a guardare. Il presidente Massimiliano Lacota in una nota diramata poco fa ha fatto sapere, a chiare lettere, che il limite è stato oltrepassato".

E, per rendere ancora più chiara l'idea, Lacota ha annunciato: "Denunciamo una volta per tutte questi delinquenti del linguaggio che si permettono di infangare la nostra memoria, che è quella dei Martiri delle Foibe. È giunto il momento di che si assumano le loro responsabilità davanti alla legge per queste manifestazioni di intolleranza, che non possono più rimanere impunite".

Una dura presa di posizione è venuta anche da Giampaolo Giannelli, coordinatore toscano Unione degli Istriani, che in una nota ha affermato: "A seguito degli avvenimenti accaduti all'esterno del liceo Michelangelo, gli studenti dei collettivi di sinistra hanno organizzato una manifestazione antifascista. Peccato che la manifestazione, oltre a momenti di tensione culminati nel lancio di petardi contro la polizia, abbia visto sventolare le bandiere della ex Jugoslavia di Tito, il massacratore di migliaia di italiani. Peccato, soprattutto, che si siano ascoltati cori vergognosi inneggianti a Tito ed alle foibe, tutti documentati da video che circolano in rete. Ci aspettiamo da parte della politica, tutta - aggiunge -, una ferma condanna dell'accaduto, che costituisce una grave offesa ai nostri martiri ed alle famiglie che hanno affrontato il dramma dell'esodo per sfuggire alla ferocia dei partigiani comunisti titini".

Nessun agguato, hanno iniziato i collettivi rossi”: la testimonianza di un prof del liceo di Firenze. Penelope Corrado su Il Secolo d’Italia il 23 Febbraio 2023.

Un professore che insegna al liceo Michelangiolo di Firenze racconta oggi a La Nazione di avere assistito personalmente agli scontri e che non c’è stato un agguato, ma una rissa. Inoltre, secondo la testimonianza di questo insegnante la storia è andata esattamente al contrario di come è stata narrata finora sui giornali e dagli studenti di sinistra. A scatenare la violenza sono stati, infatti, secondo questo docente, i Collettivi di sinistra.

L’agguato di Firenze? Lo hanno fatto i collettivi ai ragazzi di destra

Al giornalista de La Nazione Stefano Brogioni, che vorrebbe riportare il suo nome, il professore chiede di ometterlo, per evitare “comprensibili” ritorsioni. Perché la sua «è una scuola molto politicizzata». «Lavoro da molti anni al Michelangiolo ma non voglio che esca il mio nome. Sabato mattina stavo entrando a scuola e ho visto quello che è successo». Docenti costretti a mantenere l’anonimato, il che la dice tutta sul vero clima di terrore e di intimidazione che regna in certi ambienti. Altro che “pericolo fascista”.

Il prof testimone: “Hanno iniziato i Collettivi, poi c’è stata la reazione”

Ecco infatti, secondo questo testimone oculare, come sono andate davvero le cose: «C’era questo volantinaggio dei ragazzi della destra. Sono usciti quelli dei Collettivi e hanno cominciato ad insultarli e strappare i volantini. Hanno tirato delle spinte e a quel punto quelli di Azione Studentesca hanno cominciato a picchiare. E sicuramente hanno esagerato». Il professore dice di non essere intervenuto per gli stessi motivi per cui vuole l’anonimato: «Sto bene in questa scuola e vorrei continuare a lavorarci senza problemi».

Intanto la Digos lavora sul precedente del Pascoli: non ci sono immagini dell’accaduto. Per il Michelangiolo la procura indaga per violenza privata a carico di 6 persone segnalate dalla polizia.

Altro che vittime: ecco tutte le provocazioni degli antifascisti. Dalla sede di Casaggì imbrattata alle targhe, che commemorano i martiri delle foibe, distrutte. Ecco le violenze (nascoste) della sinistra fiorentina. Matteo Carnieletto il 22 Febbraio 2023 su il Giornale.

Tutto era partito come un raid. Un raid fascista, ovviamente. Era stata la grancassa mediatica di sinistra a puntare il dito contro Azione studentesca per i fatti del 18 febbraio scorso quando, davanti al liceo Michelangiolo di Firenze, si era registrata una rissa che aveva visto opporsi studenti di destra e di sinistra. Un frame e un video, sapientemente tagliato, erano stati usati per dimostrare che, alla fine, quelli di Casaggì avevano aggredito gli antifascisti, accanendosi su di loro. In realtà, alcuni video diffusi successivamente dimostrano il contrario. Ovvero che quella del liceo Michelangiolo altro non è che una rissa. Stupida e violenta come tutte le risse. Ma non un raid punitivo.

Se si uniscono i fatti precedenti e successivi a quel 18 di febbraio, però, si scopre una realtà diversa. Una realtà dove la sinistra è più provocatrice che vittima. Partiamo dallo scorso agosto, quando la sede di Casaggì/Azione studentesca di Firenze viene imbrattata con parole minatorie. La scritta "Fratelli d'Italia" viene sporcata con dello spray nero e la firma antifà. Poi la parola "servi", con una celtica impiccata. E una serie di complimenti come "fate cagare, servi bastardi, Firenze vi odia, merde, infami, gli unici stranieri sono qui, fasci infami". E infine la minaccia: "fascistello okkio".

Passano i mesi e la tensione tra le opposte fazioni resta alta. Il caso Cospito non fa altro che peggiorare le cose. Anarchici e antifà alzano la testa e, in più di una occasione, imbrattano i muri di Firenze. Ma non solo. A fine gennaio, al direttore del Tirreno, Luciano Tancredi, arriva una busta contenente un proiettile.

È febbraio, però, il mese caldo. Ignoti distruggono la lapide che commemora i morti delle foibe. Qualche giorno dopo, questa viene sostituita ma viene subito imbrattata con la scritta "vendetta".

Arriviamo così al 9 febbraio scorso. Quel giorno, davanti al Pascoli, alcuni ragazzi di destra vengono aggrediti da giovani incappucciati e armati di cinghie. "Nessuno è intervenuto. Nessuno ha fatto niente. Poi si sono diretti verso gli altri ragazzi ed è iniziata una vera e propria aggressione premeditata dei ragazzi del collettivo", ci ha raccontato ieri una fonte legata alla sinistra fiorentina. E poi il 18 febbraio, giorno del presunto raid fascista che si è poi rivelato essere una "semplice" rissa. "Ogni collettivo sceglie le modalità con cui affrontare questo tipo di volantinaggi", ci aveva detto ieri una fonte vicina ai collettivi. Che aveva poi specificato: "C'è chi cerca il dialogo e chi invece non dice una parola e inizia a fare a botte. Quelli del Michelangelo hanno scelto una via di mezzo".

Ieri, infine, un corteo organizzato dagli antifà fiorentini, arrivato di fronte alla sede di Casaggì. Le immagini, ma soprattutto gli slogan urlati, parlano chiaro. Oltre a quelli contro il presidente del Consiglio - "Meloni fascista, sei il primo della lista" - anche veri e propri cori di minacce: "Le sedi fasciste si chiudono col fuoco, ma coi fascisti dentro se no è troppo poco", "viva le foibe", "il compagno Tito ce l'ha insegnato, ogni fascista va infoibato", "fascista di merda, ti lascio morto in terra", "fascisti carogne, tornate nelle fogne".

Difficile pensare che coloro che hanno scandito questi slogan possano considerarsi vittime.

"Militanti FdI pestati a calci e pugni": indagati 8 di sinistra. Ma nessuno ne parla. Chiuse le indagini per i militanti di estrema sinistra che aggredirono alcuni esponenti di Azione Universitaria. Tutti zitti (a differenza di Firenze). Matteo Milanesi su Nicola Porro il 22 Febbraio 2023.

È la grande malattia dell’estrema sinistra, quella della formula "uccidere un fascista non è reato", degli anni di Piombo mai tramontati, delle città sfasciate durante i loro cortei (rigorosamente non autorizzati). In nome della resistenza e della democrazia, si cerca di ribaltare il principio entrando nel campo del paradosso: attraverso la violenza, i comunisti vogliono eliminare – per alcune frange non solo politicamente, ma anche fisicamente – tutte quelle forze politiche che si pongono in contrasto con le idee della sinistra radicale, rigorosamente comuniste. Insomma, in nome della libertà, della pace e del 25 aprile, si danno vita a veri e propri atti di teppismo contro l’avversario di turno.

Il motto è sempre lo stesso: "I fascisti non possono avere spazio in questo Paese". Poco importa se, vent’anni fa, la parola "fascista" era associata a Silvio Berlusconi, come titolò una celebre apertura de L’Unità: "Berlusconi come Mussolini". O ancora, poco importa se "fascista" era pure Matteo Salvini, quando la Lega toccava punte del 30 per cento. Ed infine, poco importa se "fascista" è Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio in carica e a capo di un partito che domina lo scenario politico italiano. Insomma, come ricordava il giornalista Daniele Capezzone: "Fascista è qualsiasi partito non di sinistra che raggiunge almeno il 15 per cento". È fascista pure quest’ultimo, nonostante il suo passato politico da radicale con radici libertarie, visto che i collettivi dell’Università La Sapienza non gli permisero di tenere una conferenza con alcuni esponenti di Fratelli d’Italia.

L’obiettivo, quindi, non è quello di combattere l’avversario politico con la forza delle idee, ma quello di squalificarlo, escluderlo, cacciarlo dalle piazze dove legittimamente esercita diritti inalienabili della nostra Costituzione. Esatto, la stessa Carta del ’48, così tanto sventolata dalla sinistra, alla ricerca di un continuo "pericolo fascista" (poi puntualmente inesistente).

I fatti di Bologna

Un caso plastico di questa rappresentazione lo abbiamo avuto a Bologna, quando lo scorso maggio alcuni esponenti di Fratelli d’Italia e Azione Universitaria (il movimento giovanile di FdI che agisce all’interno degli atenei) sono stati assaliti da alcuni facinorosi dei centri sociali, tutti nati tra il 1988 ed il 2001 (di cui il più grande recidivo). Il fatto risale allo scorso maggio, ma sembra essere passato letteralmente in sordina, riservandolo solo a qualche articolo di cronaca locale del bolognese. Eppure, in questo caso, si può letteralmente parlare di un’aggressione premeditata. Come raccontato ai tempi dall’allora capogruppo di Fratelli d’Italia in Emilia Romagna, e oggi senatore, Marco Lisei: "Una decina di ragazzi e ragazze di Azione Universitaria si trovavano tranquillamente insieme in via Zamboni alla Facoltà di Lettere per vedere i risultati delle elezioni universitarie. Usciti dalla Facoltà di Lettere, in prossimità di Piazza Verdi, venivano circondati da una ventina di persone e malmenati". Un agguato che rese necessario l’intervento del 118 e dei carabinieri.

Due pesi, due misure

Il caso è stato oggetto di un’indagine portata avanti dalla Procura di Bologna, terminata a metà settembre – come nicolaporro.it può rivelare in esclusiva – con la richiesta di rinvio a giudizio di tutti gli otto aggressori di estrema sinistra. Oltre alle minacce, con frasi quali "vi uccidiamo", "tornate nelle fogne", "siete morti", si sono susseguiti "calci, spintoni, pugni, strattonamenti" che hanno comportato lesioni personali, trauma cranico e toracico agli esponenti di Azione Universitaria. Eppure, sui media mainstream, il nulla più assoluto, nessuno (o quasi) articolo di condanna contro l’attacco premeditato, nessun tipo di solidarietà offerta agli aggrediti.

Un trattamento ben diverso rispetto a quello di Firenze, dove da giorni è diventato caso nazionale il video in cui alcuni giovanissimi (nati tra il 2002 ed il 2007) tirano calci e pugni a due esponenti dei collettivi di sinistra davanti al Liceo Michelangelo. Subito si è allarmata l’opinione pubblica rispolverando il vecchio "pericolo fascismo", parlando di azione premeditata a danno dei giovanissimi di sinistra. Eppure, come ricostruito dalla Digos, pare non si sia trattata di un’aggressione, ma di una rissa per motivi politici, sfociata durante un volantinaggio di Azione Studentesca (il gruppo giovanile di Fratelli d’Italia).

Da una parte, però, sul caso di Firenze si è aperta una vera e propria questione nazionale, che ha posto al centro anche il premier Giorgia Meloni, colpevole – secondo gli intellettuali antifa – di non aver condannato le violenze con una dichiarazione pubblica, e quindi di avallare implicitamente questi atti "squadristi". Dall’altra, invece, sui fatti di Bologna i giornali di sinistra non hanno sprecato neanche una riga, nonostante si trattasse di un’azione da far invidia pure i facinorosi comunisti degli anni di Piombo.

"Calci, pugni, spintoni"

La Procura della Repubblica di Bologna descrive i fatti in modo agghiacciante: "In concorso tra loro e con altri non tutti ancora identificati, e al fine di conseguire il profitto del delitto (sottrarre bandiere e aste di bandiera detenute dal movimento Azione Universitaria), cagionavano a C.S. lesioni personali giudicate guaribili in giorni 16, sferrando a più riprese calci, pugni e spintoni. Così come nello stesso contesto dell’aggressione a S.A., che riportava un trauma toracico giudicato guaribile in giorni 6″. E ancora, l’aggressione avveniva in una chiara sproporzione numerica, in cui un militante di Fratelli d’Italia veniva "percosso e aggredito con pugni e calci da quattro soggetti".

Insomma, azioni da forze squadriste dei momenti più bui degli anni ’70, come ricordato ancora dal senatore Lisei: "Da quando ho iniziato a fare politica, ho solo subito e ho visto subire a tanti ragazzi di tutto. Sputi, insulti, banchetti ribaltati, spinte, oggetti lanciati, aggressioni. Galeazzo Bignami è stato più volte menato, io sono stato aggredito, molti nostri giovani idem. L’ultimo caso 7 mesi fa, alcuni ragazzi e ragazze di Azione Universitaria uscivano tranquillamente dall’università, gli aspettava un gruppo di circa 20 persone, organizzati per fare un vero e proprio agguato, calci, pugni, spinte e diverse denunce. Avete mai letto qualcosa a livello nazionale?".

Un fatto mascherato per una ragione molto semplice: l’unica colpa dei ragazzi di Azione Universitaria era quella di essere di destra, responsabilità non perdonata neanche dal giornalismo progressista. D’altro canto, si sa, "uccidere un fascista non è reato". Ora, aggredire violentemente chi non è di sinistra non è reato. E in nome di questo folle parametro, tutto diventa giustificabile. Sia politicamente, che giornalisticamente.

Matteo Milanesi, 22 febbraio 2023

Estratto dell’articolo di Filippo Fiorini per lastampa.it il 23 Febbraio 2023.

Ci sono volute 24 ore perché un'esponente di livello del governo Meloni prendesse posizione, con distinguo, sul pestaggio subito sabato da due studenti del liceo Michelangiolo di Firenze da parte di almeno 6 giovani militanti di destra, ma ne sono bastate 20 perché lo stesso esecutivo condannasse la lettera che la preside di un altro istituto cittadino ha rivolto ai suoi alunni, per metterli in guardia dai pericoli sociali della militanza praticata con le botte.

Prima, il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Tommaso Foti, per il quale «gli episodi di violenza politica sono sempre da condannare, al netto di quella che sarà la dinamica da accertare», poi il ministro dell'Istruzione, Giuseppe Valditara, che poco fa a Mattino Cinque ha definito «impropria» la lettera aperta scritta dalla preside Annalisa Savino e ha detto di essersi sentito «dispiaciuto», dopo averla letta, nonché di valutare provvedimenti contro la dirigente scolastica. Nella stessa intervista, Valditara ha anche chiesto solidarietà bipartisan per una minaccia di morte rivoltagli sui social.

«Non compete ad una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà», ha spiegato Valditara, che oltre ad essere titolare dell'Istruzione è un noto giurista ed esponente della Lega di Salvini. «In Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo e con il fascismo», ha proseguito il ministro, intervistato da Francesco Vecchi, conduttore del mattutino di Mediaset.

 Il passaggio più contestato, di una lettera che in rete ha incassato la stima di molti, è l'ultimo paragrafo. «Il Fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate di migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a se stessa da passanti indifferenti», scriveva Savino in uno dei passaggi iniziali e più citati, proseguendo più avanti poi con: «Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura, senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da se».

[…] «Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico non abbia più posto nelle scuole», ha risposto il ministro, «se l'atteggiamento dovesse persistere, vedremo se sarà necessario prendere misure». […]

Giorgia Meloni e il pressing antifascista su Palazzo Chigi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 22 febbraio 2023

Non si tratta soltanto della somma rottura di palle per l’ennesimo strillo “antifa” sulla notizia di un’aggressione addebitata, in ipotesi anche fondatamente, a giovani di destra: che è una cosa pessima e da sanzionare, quando accertata, ma che davvero non può essere messa a riprova, come invece si fa, dell’emergenza nera a far tempo dal 25 settembre dell’anno scorso, vale a dire da quando il Paese è stato sottratto alle cure democratiche dell’antifascismo curricolare. E non si tratta nemmeno di indugiare sulla penosa militanza politico-giornalistica che denuncia lo squadrismo o invece lo trascura secondo che a menare le mani e a devastare le cose sia il teppistello di destra anziché quello, statisticamente molto più attivo, imbandierato di rosso e d’arcobaleno. Si tratta piuttosto della ridicola pretesa che Palazzo Chigi sia una specie di “dichiarificio”, con Giorgia Meloni e i componenti del governo e la maggioranza parlamentare chiamati con urgenza indifferibile “a prendere le distanze” dai fatti dell’altro giorno a Firenze.

BELLA CIAO”

A parte il fatto che non risulta che analoga pretesa sia stata mai rivolta a un presidente del Consiglio di sinistra nei casi, davvero non proprio rarissimi, di violenze commesse da picchiatori e sfasciavetrine comunisti, pacifisti, ecologisti, abbruciatori di bandiere statunitensi e israeliane e via delinquendo, c’è che al governo compete semmai di tutelare l’ordine pubblico e di proteggere i cittadini (non quelli di sinistra: tutti) dalla violenza: ma il fatto è che questo compito non c’entra proprio nulla con le proclamazioni di antifascismo da protocollo, come invece reclama qualche stupidotto che in buona sostanza imputa al presidente del Consiglio di non aver opposto ai fatti di Firenze una requisitoria resistenziale sulle note di “Bella Ciao”.

 La cosa che piacerebbe a questi avventizi del sistema democratico, refrattari anche alla sola idea che al governo non stia chi ripete le tiritere da 25 aprile, è che l’azione politica di una maggioranza di destra si esaurisca e si consumi nel dar prova simbolica e ciarliera di antifascismo militante, in buona sostanza ammettere che la propria presenza al potere ha irresponsabilmente affidato il Paese alla violenza delle squadracce. E dunque emendarsi da questa colpa civile e costituzionale dichiarando che il fascismo è lì in agguato, tra i ninnoli dell’abitazione del presidente del Senato e nelle strade di Firenze lungo le quali imperversano i manipoli neri.

 TUTELA DEMOCRATICA

Non occorrerebbe avere simpatie né verso il presidente del Consiglio né verso la maggioranza che lo sostiene per reagire con l’irritazione dovuta a questa insopportabile pretesa di tutela democratica: che proviene da una schiatta assai disponibile allo sbrego autoritario e di legalità, pure violento, se solo si attiva democraticamente tra i propri ranghi e ai danni degli avversari. 

Antonio Giangrande: A proposito di primarie ad Avetrana ed in tutta Italia…fascismo e comunismo facce della stessa medaglia: sete di potere o di poltrone.

Cosa accomuna gli interisti ai comunisti? Quando si perde è perché gli altri hanno rubato.

Ad Avetrana, tanti anni fa, il sottoscritto emergeva in politica. Presidente di Alleanza nazionale, non sono stato mai accettato perché non avevo il sangue nero ed i miei sostenitori non erano di destra, ma erano dei moderati. Per la nomenclatura ero buono solo a portare voti ai soliti noti. Li mandai a fanculo…e sostenni Conte a sinistra che con i voti dei miei sostenitori vinse le Comunali.

Ad Avetrana, a sinistra c’è Emanuele Micelli, mai accettato dai comunisti perché non ha sangue rosso. Alle primarie 2016 tutta la nomenclatura comunista era schierata contro di lui in previsione di una futura scissione del PD e la cui figura della Petracca, (con i soliti 200 voti degli ultracomunisti) era solo specchio per le allodole. Il vero intento era contarsi per valere. Micelli per la nomenclatura è buono solo a portare i voti dei moderati alle elezioni…per Conte e per altri. Voti dell’aria moderata che, però, non sono accettati alle primarie: perché fanno schifo ai comunisti.

Lo schifo per i voti moderati ha fatto sì che il mio interesse per chi si professa diverso è cessato e da allora la sinistra ad Avetrana ha sempre perso, nonostante, per fottersi i miei voti, hanno messo mio fratello nelle loro liste e che io stesso non ho votato. Fino a che, a sinistra come a destra, le nomenclature locali saranno più interessate alle poltrone che alle cose reali, perderanno sempre, perché non è vittoria quella con il 50% di astensione. Messaggio di gente che manda a fanculo gli schieramenti con le solite facce.

… fascismo e comunismo facce della stessa medaglia: sete di potere o di poltrone per persone incapaci.

Estratto dell’articolo di Maria Teresa Meli per il “Corriere della Sera” domenica 22 ottobre 2023.

Vincenzo De Luca, nel suo libro, «Nonostante il Pd» (Piemme), sostiene che Schlein non ha rinnovato il partito…

«[…] ho solo rilevato con un linguaggio semplice, con un linguaggio comprensibile dalle persone normali, una grande anomalia politica: si è annunciato un processo di rinnovamento e di quasi palingenesi del Pd, senza aver mai chiarito chi sono i responsabili del disastro elettorale cui è stato portato il partito. Trovo bizzarro ritrovare sulla scena, come se fossero turisti svedesi capitati qui per caso, e senza neanche un accenno di autocritica, tutti quelli che hanno deciso e avuto responsabilità per un decennio. In queste condizioni, l’annunciato rinnovamento è una finzione».

E quindi?

«È necessario riprendere il cammino, sulla base di un’operazione verità. Il tempo degli opportunismi è scaduto. Occorre battersi perché sia rispettato il lavoro dei militanti, siano rotte le gabbie delle correnti che sono soltanto contenitori vuoti che servono a garantire le candidature per le successive campagne elettorali, nella totale indifferenza al destino del Pd e del Paese. 

Intendo sollecitare la definizione di un programma di governo che, partendo dal nostro insediamento nel mondo del lavoro e della povera gente, sia tale da parlare alla maggioranza della società italiana, a tutti i ceti dinamici e produttivi, presentandosi come alternativa credibile a questo governo».

Scrive che è «demenziale» eleggere alla segreteria chi non è del Pd.

«Confermo convintamente». 

Sostiene che nel Pd è pieno di nullità. Qualche nome?

«Denuncio il fatto che nel Pd vige la selezione in negativo (più perdi, più ti promuovono); denuncio la presenza di soggetti che, entrati da qualche mese nel partito, parlano con una supponenza da statisti, offendendo il sacrificio e il lavoro di chi è impegnato nei territori da solo, e di chi combatte da decenni; […]».

Scrive che il Pd è superfluo.

«Il Pd non è la sinistra […] Non ha futuro un Pd che non parla di sicurezza, che pregiudica i rapporti con tutto il mondo cattolico, che non parla di impresa e di ceti professionali; che non propone una riforma profonda della giustizia e non fa sua una battaglia a fondo contro il mostruoso groviglio burocratico-amministrativo-giudiziario che blocca ogni energia positiva […] L’impostazione tutta ideologica sul tema dei diritti, sicuramente importante, non è un programma politico per il governo dell’Italia. […] Non esiste un Pd nel quale anime morte parlano una lingua morta, incomprensibile alle persone normali e che non riesce mai a creare entusiasmi collettivi». […]

Ecco tutti i flop della sinistra. Francesco Curridori il 9 Aprile 2023 su Il Giornale.

Da Rifondazione Comunista ad Articolo Uno, passando per i Verdi, la sinistra radicale in Italia non ha mai sfondato. Nessuno ha mai superato il 10%

L’ingresso di Alfredo D’Attorre e Sandro Ruotolo nella segreteria Pd di Elly Schlein sancisce la fine di Articolo Uno, il partito fondato sei anni fa da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza dopo la rottura con Matteo Renzi.

Articolo Uno è l’ennesimo partitino che nasce e muore a sinistra del Pd. La sinistra radicale, in Italia, dai tempi di Rifondazione Comunista a oggi, ha sempre avuto una vita alquanto travagliata e non è mai riuscita a emulare le imprese di Syriza, Podemos oppure de La France Insoumise. È bene evitare di addentrarsi nei meandri di tutte le scissioni che hanno attraversato la storia della sinistra italiana e concentrarsi sui partiti che hanno caratterizzato la Seconda e Terza Repubblica. Partiamo proprio da Articolo Uno che, al suo esordio elettorale, in occasione delle Politiche del 2018, prese il 3,3%, eleggendo 10 parlamentari in totale. Nel 2019, con l’uscita di Renzi dal Pd, inizia il riavvicinamento alla ‘casa paterna’ e, in vista delle Europee di quello stesso anno, gli ‘scissionisti’ bersanian-dalemiani corrono dentro le liste del Pd, ma non eleggono nessun rappresentante a Bruxelles. Va meglio nel 2022 quando, inseriti nella lista Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista, eleggono solo cinque deputati, tra cui il segretario nazionale nonché ex ministro della Salute, Roberto Speranza. Entro quest’anno si prevede lo scioglimento definitivo di questo fallimentare soggetto politico.

A dir la verità neanche Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti , pur riuscendo ad andare al governo, non ebbe mai dei risultati poi così eccellenti, ottenendo il suo massimo storico nel 1996 con l’8,6% in occasione delle elezioni Politiche che decretarono la vittoria dell’Ulivo. Non andò meglio a Sinistra Ecologia e Libertà di Nichi Vendola che, alle Politiche del 2013, pur eleggendo ben 37 parlamentari, prese solo il 3,2%. Un risultato decisamente onorevole, ma assai lontano a quelli che all’epoca otteneva Alexis Tsipras in Grecia. A conti fatti, nessun partito di estrema sinistra italiana ha mai superato il 10%.

In questa rapida carrellata, però, è bene includere anche i Verdi. Oggi il movimento guidato da Angelo Bonelli ha cambiato nome , si chiama Europa Verde e lo scorso 25 settembre è riuscito a rientrare a eleggere in Parlamento dei suoi rappresentanti dopo 17 anni. Nel frattempo, nel resto d’Europa, mentre i grillini rubavano le tematiche ambientaliste agli ecologisti italiani, i Verdi raggiungevano il 10% o, addirittura, come nel caso tedesco in occasione delle Europee del 2019, superavano il 20%. In Italia, invece, gli ambientalisti alle ultime elezioni Politiche hanno raggiunto il 4%, ma presentandosi compagnia di Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni. Alla luce di questi magri risultati, c’è da supporre che l’Italia non ami le svolte esageratamente progressiste e, quindi, il tentativo della Schlein di spostare l’asse del Pd sempre più a sinistra può risultare alquanto fallimentare.

La storia delle primarie dem. Primarie Pd, totem del partito che volevano aprire a un vero potere decisionale dal basso. David Romoli su Il Riformista il 25 Febbraio 2023

Il Pd? È il partito delle primarie”, “le primarie sono l’identità del Pd”: non molto tempo fa era frequente sentire affermazioni del genere in bocca ad analisti e giornalisti ma soprattutto negli accampamenti del Pd. Non era un’esagerazione. Le primarie non sono state solo una via per indicare il candidato o il segretario di turno ma un vero elemento identitario, l’unico di cui il partito fondato da Veltroni nel 2008 sia riuscito dotarsi, la celebrazione collettiva del patto, vero o presunto, tra i vertici e gli elettori, il segno tangibile della discendenza di quel partito dall’esperienza dei padri fondatori ulivisti, dei Prodi e Parisi che le primarie se le inventarono nel primo decennio di questo secolo. Non che la funzione di propaganda sia mai stata secondaria: il rito è sempre stato anche questo. Ma non solo questo.

La partenza fu trionfale e sembrò aprire la strada a un vero potere decisionale dal basso. La coalizione che si preparava a sfidare la possente destra di Silvio Berlusconi nelle elezioni politiche del 2006 esordì con due elezioni regionali, in Calabria e in Puglia. In Calabria non c’erano problemi: Agazio Loiero, il candidato scelto dai partiti del centrosinistra, la futura Unione, vinse senza sforzo. La sorpresa arrivò invece in Puglia: Nichi Vendola, il candidato di Rifondazione comunista, prevalse a sorpresa sul nome indicato dal Pd e in particolare da Massimo D’Alema, che in Puglia aveva costruito la propria roccaforte, Francesco Boccia. Il 16 gennaio 2005, con 79.296 votanti, Vendola prevalse e poi, d’impeto strappò la Puglia alla destra che metteva in campo Raffaele Fitto.

Il vero debutto furono però le primarie di coalizione del 16 ottobre 2005 per la scelta del candidato alle prossime politiche: non c’era partita, la vittoria di Romano Prodi era certissima. Gli obiettivi del rituale erano altri: lanciare la campagna elettorale con una immensa prova di forza, cementare l’alleanza tra i leader dei partiti che aderivano all’Unione. Si candidarono tutti: Bertinotti, Mastella, Di Pietro e Pecoraro Scanio più l’outsider Ivan Scalfarotto. Accorsero ai gazebo oltre 4.300mila elettori. Prodi si assicurò il 74,17% dei consensi, Bertinotti, con il 14,69% andò peggio del previsto, Mastella, col 4,56%, un po’ meglio. Il vero vincitore, però, sembrò essere il metodo delle primarie. Aveva partecipato una massa di elettori enorme, superiore a ogni aspettativa.

Il viatico per il trionfo nelle elezioni politiche appariva indiscutibile e forse anche per questo la coalizione, sentendosi già certa della vittoria, non affrontò la prova con il mordente necessario. L’Unione vinse, ma di strettissima misura: la classica vittoria di Pirro, Prodi restò al governo per meno di 20 mesi. Il limite delle primarie era già evidente: alla chiamata rispondevano quelli che erano già convinti di votare per il centrosinistra, la capacità di allargamento della platea era invece inesistente. Le primarie del Pd si svolsero due anni dopo, il 14 ottobre 2007, e siglarono la fondazione ufficiale del nuovo partito il giorno stesso. Partecipavano Walter Veltroni, sulla cui vittoria non c’erano dubbi, con Franceschini vice, Rosy Bindi, Enrico Letta. Aveva annunciato la candidatura anche Bersani: Letta avrebbe dovuto figurare come suo vice. Le pressioni del vertice lo costrinsero a ripensarci: chiese disciplinatamente di votare per Veltroni e Letta rimase solo. Pannella e Di Pietro chiesero di candidarsi anche loro. Gli fu impedito a norma di regolamento.

Doveva essere una prova di forza e lo fu, per il partito in culla e per Veltroni. Negli 11mila gazebo sparsi in 7mila comuni si recarono, secondo le stime non verificate fornite dal Pd 3.554mila persone, sedicenni e immigrati inclusi. Veltroni prese il 75,82%, Bindi il 12,93%, Letta l’11,02%. La fondazione del Pd innescò il conto alla rovescia per il governo Prodi: Veltroni riteneva di non poter aspettare anni, altrimenti la spinta della novità in campo e delle affollatissime primarie sarebbe stata neutralizzata. Ma la stessa illusione ottica di cui era stata vittima l’Unione tre anni prima si ripeté nel caso del Pd, che si convinse di poter battere col “partito a vocazione maggioritaria” la destra salvo sbattere su una realtà arcigna prima nelle elezioni politiche del 2008, poi in quelle sarde del 2009. Eletto a furor di gazebo nell’ottobre 2007, Veltroni si dimise 14 mesi più tardi, dopo la mazzata sarda.

Nelle nuove primarie, 25 ottobre 2009, le regole cambiarono. Si votava in due turni: prima i circoli del Pd, poi i gazebo chiamati a scegliere tra i candidati che su base nazionale superavano nei circoli il 5% su base nazionale o comunque il 15% fino a un massimo di 6. Si scontravano Franceschini, già segretario-ponte dopo l’uscita di scena di Veltroni e Bersani: il primo sostenuto essenzialmente dai “veltroniani”, il secondo dall’area dalemiana. Outsider il medico romano Ignazio Marino che passò a sorpresa il primo turno. La candidatura di Beppe Grillo fu respinta grazie a un cavillo. I votanti furono di nuovo moltissimi, 3.100mila persone. Bersani ce la fece con il 53,2% contro il 34,3% di Franceschini e il 12,5% di Marino che comunque grazie a quella prova si trovò la strada spianata per vincere le primarie per la candidatura alla guida del Comune di Roma, poi effettivamente conquistata.

Lo scontro nelle primarie del 2009 fu reale anche se la vera battaglia nel Pd sarebbe stata combattuta solo nel 2012, nelle primarie di coalizione per la candidatura nelle politiche del 2013. Bersani e Matteo Renzi provenivano entrambi dal Pd ma intendevano guidarlo in direzioni opposte. Le regole prevedevano due turni, salvo che uno dei cinque concorrenti superasse il 50% dei consensi già nella prima tornata, il 25 novembre 2012, alla quale parteciparono 3.110mila elettori. Al ballottaggio arrivarono, come previsto, il segretario e il sindaco di Firenze. Votarono 2.802mila, prevalse Bersani col 60,9%. Ma per l’ennesima volta le primarie si dimostrarono un viatico ingannevole.

Il Pd, grande favorito, non vinse le elezioni politiche del 2013, Renzi si vendicò della batosta subita silurando prima Marini e poi Prodi nell’elezione del capo dello Stato, Bersani rassegnò le dimissioni e proprio Renzi lo sostituì nello stesso 2013, l’8 dicembre, dopo aver vinto primarie senza storia. Oltre a lui, i candidati in corsa dopo i congressi dei circoli erano Gianni Cuperlo e l’ex renziano Beppe Civati. Con il 67,55% dei 2.814mila votanti nei gazebo Renzi li schiantò senza sorprese. Renzi è stato il solo segretario del Pd, sinora, ad aver vinto due primarie. Nella prova del 20 aprile 2017 il numero degli elettori scese però vertiginosamente, sino a 1.817mila voti validi.

Il segretario, dopo aver spopolato nei circoli, si affermò con il 60,17% contro Orlando ed Emiliano ma il secondo mandato ebbe vita breve: le dimissioni arrivarono subito dopo la sconfitta elettorale del marzo 2018. Le successive primarie, quelle del 3 marzo 2019, le ultime sinora, sono state una formalità. Zingaretti le stravinse col solito 66% contro Maurizio Martina e Roberto Giachetti, candidati quasi di bandiera, ma su una platea elettorale ulteriormente smagrita: 1.582mila votanti. Zingaretti ha retto due anni, fino al marzo 2021 e per incoronare il successore Letta, che a due anni non c’è arrivato, sulle primarie si è soprasseduto. Se l’esperienza ha un senso, si potrebbe dire che forse il metodo delle primarie non è precisamente il migliore e se quella è “l’identità del Pd” forse sarebbe ora di aggiornarla. David Romoli

La bufala totale della partecipazione record alle primarie del PD. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 28 Febbraio 2023

«Rivendico con grande orgoglio che siamo l’unico partito a fare questa festa di democrazia, questa grande affluenza è dimostrazione che le scelte fatte erano quelle giuste». «La conferma che il PD è rimasto l’unico vero partito in Italia. Nessuno degli altri sarebbe mai in grado di mobilitare così tante persone». Queste le parole gonfie d’entusiasmo con cui l’uscente segretario dem Enrico Letta e l’ex presidente Romano Prodi hanno commentato l’esito delle primarie del Partito Democratico. Entusiasmo scaturito da aspettative basse più che da risultati sorprendenti. Le votazioni della scorsa domenica hanno infatti attratto, secondo le stime del Nazareno, poco più di un milione di elettori. Circa 200mila in più rispetto alle aspettative dello stesso Partito Democratico, pronto a brindare a un declino popolare piuttosto che alla “festa di democrazia”. Si tratta, infatti, dell’ennesimo record negativo battuto dai dem, con l’affluenza per le primarie al minimo storico dal loro esordio nel 2007, quando l’elezione di Walter Veltroni coinvolse 3 milioni e mezzo di votanti.

A due settimane dal tonfo dell’affluenza alle regionali, continua il declino della partecipazione popolare alla vita politica del Paese, a dispetto dell’entusiasmo di politici e addetti ai lavori. Le ultime primarie del Partito Democratico, che hanno portato all’elezione di Elly Schlein, confermano il calo costante che avvolge la scelta popolare del segretario dem. Il 14 ottobre 2007, per la prima volta in Italia, la guida di un partito venne assegnata attraverso le primarie, una consultazione aperta anche ai non tesserati. All’appuntamento elettorale che premiò Walter Veltroni si presentarono 3 milioni e mezzo di persone, più del triplo di quanto accaduto domenica scorsa. Due anni dopo, oltre 3 milioni di elettori affidarono la guida del Nazareno a Pier Luigi Bersani, in carica fino alla vicenda dei 101 falchi tiratori che allontanarono Romano Prodi dal Quirinale.

Seguì una fase di transizione, il cosiddetto “traghettamento politico”, che tutto sommato non allontanò gli elettori dalle primarie. Nel 2013, quando Matteo Renzi divenne segretario del PD, si presentarono infatti 2,8 milioni di votanti. Il punto di svolta nella disillusione politica da parte dei cittadini arrivò nel 2017, quando “il rottamatore” venne sì confermato ma con un’affluenza quasi dimezzata (1,8 milioni di persone). Nel mezzo c’era stata la non trascurabile esperienza a Palazzo Chigi seguita dalle dimissioni per la bocciatura ai referendum del 4 dicembre 2016. Le politiche del 2018 sottolinearono la caduta libera del partito, fermo al 19% dei consensi (a fronte del 26% di cinque anni prima). Seguirono le dimissioni di Renzi come segretario ma non si registrò nessuna inversione di marcia per le primarie successive che  elessero Nicola Zingaretti perdendo tuttavia circa 200mila elettori rispetto al 2017. A distanza di cinque anni, il Partito Democratico ha perso un altro mezzo milione di voti confermando la propria fase discendente.

L’involuzione del numero degli elettori negli anni non può essere letta come il venir meno dell’entusiasmo della novità rappresentata dalle primarie, introdotte in Italia proprio dal Partito Democratico. L’esame del Nazareno deve essere introspettivo e rivolto dunque al proprio percorso politico, arricchitosi negli anni di misure impopolari. Si pensi al Jobs Act, al Memorandum con la Libia e o alla legge elettorale “Rosatellum”, tutti elementi di un tradimento nei confronti dei propri elettori consumatosi su più livelli: da quello economico a quello dei diritti umani, passando per la centralità del votante in occasione delle elezioni. Aristotele era solito affermare che chi è causa del suo mal pianga se stesso. Gli esponenti dem invece esultano. [di Salvatore Toscano]

La bufala dell'affluenza record. Manca un (ex) elettore su tre ma è tutto a posto. Il primo problema sul tavolo della neosegretaria del Pd Elly Schlein sta in un numeretto, sempre che lei lo voglia vedere: -33%. Felice Manti su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Manca un (ex) elettore su tre ma è tutto a posto. Il primo problema sul tavolo della neosegretaria del Pd Elly Schlein sta in un numeretto, sempre che lei lo voglia vedere: -33%. L'affluenza alle primarie di domenica ha superato il milione di persone, soglia minima per considerare il sistema del voto ai gazebo sufficientemente credibile. La stragrande maggioranza dei giornali festeggia il grande successo democratico, e in tempi di vacche magrissime qualche ragione per esultare c'è. Ma più di 500mila persone rispetto al 2019 - quando venne eletto Nicola Zingaretti - hanno deciso di restare sul divano. Segno che la disaffezione della base, già espressa nettamente alle recenti elezioni regionali con un'affluenza crollata al 40% soprattutto «da sinistra», si è cronicizzata, e non si torna più indietro. Se Lazio e Lombardia erano due partite politiche dall'esito ampiamente già scritto e fondamentalmente irreversibile, stavolta la leadership del Pd era più contendibile, e questo avrebbe dovuto rianimare la partecipazione popolare. In fondo, per l'elettore Pd si trattava di scegliere tra due identità diverse, una più massimalista e una più riformista, sebbene entrambe agganciate a vecchi schemi di finta contrapposizione al sistema economico e alle lobby. Se non è successo un motivo ci sarà. Il Pd infatti è (ancora per poco...) il più classico dei catch-all parties o partiti acchiappatutto, secondo la definizione coniata da Otto Kirchheimer tanto cara al grande ideologo ombra di Bettino Craxi, Luciano Pellicani. Un movimento di massa che vuole attrarre consensi pescando al suo interno sensibilità diverse - per non dire opposte - sullo stesso argomento, che sia il cattolico e il gay, l'operaio e l'imprenditore. Un'operazione che ha senso politico soprattutto in campagna elettorale. Chi è rimasto a casa evidentemente ha scelto di abbandonare questa nave alla deriva radical decisa dalla nuova nocchiera, proprio perché per alcune sensibilità ormai non c'è più spazio, come conferma l'addio di Beppe Fioroni. E questo riaccende i riflettori sulla partecipazione. Se si guarda al precedente del 2019 qualcuno maligna che i voti presi dalla Schlein (587mila) siano gli stessi di Cuperlo e Civati nel 2013 (510mila), Vendola nel 2012 (486mila), Marino nel 2009 (380mila). «La sinistra del Pd tiene. Il resto sparisce. O forse scappa», twitta il direttore del Foglio Claudio Cerasa. Allora con 500mila voti si stava all'opposizione, oggi si scala un partito che ha l'illusione di voler rappresentare tutta la sinistra. C'è anche chi maligna che l'affluenza ai gazebo Pd sia stata gonfiata da chi sapeva che la vittoria della Schlein avrebbe sparigliato le carte delle alleanze. Quel che appare scontato è che la sconfitta di Bonaccini riavvicina i Cinque stelle, apre praterie per la transumanza dei delusi nelle fila del Terzo Polo, che siano gli ultimi renziani, semplici riformisti o semplicemente cattolici, traccia un solco ancora più ampio rispetto ai partiti moderati del centrodestra come Forza Italia, che potrebbe in parte beneficiare dell'effetto centrifuga innescato dalla vittoria della Schlein. Per il Pd è un nuovo inizio o l'inizio della fine? Lo sapremo alle Europee 2024.

Estratto dell’articolo di Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2023.

Ma quanto hanno pesato davvero gli elettori degli altri partiti nelle primarie che hanno portato Elly Schlein a guidare il Pd? Tra le rilevazioni sul tema, la più solida sembra quella di Candidate & Leader Selection, gruppo di ricerca della Società italiana di scienza politica, […] realizzata con il metodo degli exit poll: interviste all’uscita dei gazebo e quindi la certezza che gli intervistati alle Primarie del Pd avessero davvero votato. […]

 Secondo questo studio il 5% delle persone che hanno scelto Schlein, alle Politiche di settembre aveva votato Movimento 5 Stelle. Sarebbero poco più di 25 mila persone.

Non poche. Ma non abbastanza per ribaltare il risultato, visto il vantaggio di oltre 80 mila voti sullo sfidante Stefano Bonaccini.

 Diverso il discorso per Verdi e Sinistra. Da qui verrebbe il 13% delle preferenze andate alla nuova segretaria. «Sono circa 75 mila voti, — spiega uno dei componenti del gruppo di ricerca, Marco Valbruzzi, politologo dell’Università Federico II di Napoli — una cifra simile al distacco rispetto al concorrente». Ma Sinistra e Verdi sono molto vicini al Pd per storia e orientamento, con bacino elettorale in parte sovrapponibile.

Nel conto c’è da mettere anche un 4% di voti arrivati a Schlein dalle persone che nelle ultime elezioni hanno votato +Europa, il partito di Emma Bonino. Anche questo pacchetto, da solo, non sarebbe stato capace di spostare gli equilibri. E anche qui i bacini elettorali sono abbastanza contigui, e lasciano quindi poco spazio ai soliti sospetti.

 In misura minore anche Bonaccini avrebbe avuto un aiuto «esterno». Il 6% delle sue preferenze sarebbe arrivato da chi a settembre aveva scelto il Terzo polo. […]

C’è poi un’altra rilevazione, quella di Noto sondaggi. […] Secondo questa ricerca il 22% delle persone che sono andate negli oltre 5.500 gazebo aveva votato Movimento 5 Stelle. Uno su cinque. Oltre 200 mila persone che, in questo caso, sarebbero state davvero in grado di ribaltare il risultato. Anche se tra gli intervistati, il 13% ha detto di aver votato Schlein, il 2% Bonaccini. Mentre gli altri, cioè la stragrande maggioranza, non hanno risposto. YouTrend non ha fatto rilevazioni sul tema. Ma il direttore Lorenzo Pregliasco si dice scettico su numeri così consistenti. […]

Vota cinque volte Elly Schlein alle primarie del Pd: polemica per un video finito sui social. Valerio Morabito su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023

Il video, già da questa mattina, spopola sui social network. Protagonista un militante del gruppo di estrema destra «Brescia ai bresciani». Non ha esitato a replicare il segretario cittadino dei Dem Gaglia: «Ci sono controlli incrociati ai seggi, ma episodi simili possono capitare vista l’affluenza di ieri»

Polemiche post-primarie a Brescia. Stamattina il gruppo di estrema destra «Brescia ai bresciani» ha postato sui canali social un video in cui ha mostrato un proprio militante “camuffato” con una mascherina di protezione individuale che richiama la bandiera della pace, maglione e polacchine votare per cinque volte in vari seggi cittadini allestiti ieri per eleggere il nuovo segretario del Partito Democratico. «Abbiamo dato la nostra preferenze a Elly Schlein, in tutti e cinque i seggi, in onore del suo zaino rubato a Brescia in quel mondo reale che lei non conoscerà mai», hanno commentato dal gruppo «Brescia ai bresciani».

Non si è fatta attendere la replica da parte dei dirigenti locali del Pd. «Ieri c’è stata una buonissima affluenza ai seggi — ha affermato Tommaso Gaglia, segretario cittadino dei Dem — soprattutto in alcune fasce orarie. Il meccanismo per votare è chiaro: al seggio bisogna presentarsi con documento di identità e tessera elettorale. Episodi del genere, come in passato, possono capitare. Di solito si svolgono controlli incrociati per evitare casi del genere. Ovvero, quando un elettore si presenta in una sezione che non è la sua, si chiama il presidente del seggio di appartenenza della persona che vuole votare e gli si chiede di segnarlo proprio per non avere un doppio voto». Al di là di questo caso, il segretario del Pd Gaglia ha tenuto a ribadire che «tutto ciò non può mettere in secondo piano il successo di partecipazione delle primarie a Brescia».

«Le primarie sono politicamente nefaste» Egidio Lorito su Panorama il 27 Febbraio 2023.

Piero Ignazi, politologo, analizza il successo e la svolta di Elly Schlein, partendo però da un'accusa contro le primarie, strumento nelle mani di chi non ha creato il partito

Piero Ignazi, politologo dell’Università di Bologna, analizza i risultati delle elezioni primarie del Partito democratico che hanno sancito la vittoria della giovane Elly Schlein: «Mi attendo un’opposizione più grintosa, perché prima il Partito democratico risultava letteralmente ripiegato su sé stesso, senza leadership. Ma, detto questo, restano i dubbi sulle primarie». La 37enne Elly Schlein, con il 53% dei consensi ricevuti, è la prima donna ad assumere la guida del più importante partito della sinistra italiana contemporanea: dopo aver sconfitto Stefano Bonaccini, presidente dal 2014 della regione Emilia Romagna - che nelle previsioni della vigilia sembrava essere il più accreditato alla vittoria finale - ora alla giovane deputata si aprono le porte della segreteria di un partito ridotto in consensi e potere. Superare difficoltà e problemi innanzi a cui in tanti avevano fallito, sarà la sua missione più prossima. Da non sottovalutare, in ogni caso, la circostanza che la Schlein sia stata vicepresidente dell’Emilia Romagna proprio come vice del presidente Bonaccini. Sulla sua carriera, oggi tutta in ascesa, avranno sicuramente pesato le notevoli professionalità familiari: suo padre, Melvin Schlein, professore emerito di Scienze politiche in America, è nome di punta della sede bolognese della Johns Hopkins University; sua madre, Maria Paola Viviani, è ordinaria di diritto pubblico comparato nell’Università degli Studi dell’Insubria. Intanto, quasi a marcare la distanza siderale con il nuovo partito che sembra essere nato dopo la vittoria della giovane neosegretaria, Giuseppe Fioroni, storico fondatore del Partito democratico ed ex ministro dell’Istruzione, ha lasciato lo stesso Pd. Professore, Elly Schlein è la nuova segretaria del Partito democratico! «Si tratta di un passaggio generazionale di indubbio rinnovamento, una spinta verso posizioni più nette, caratterizzanti, radicali, e quindi anche una forma di rinnovamento interno al partito che mi aspetto profondo. Mi riferisco alla nuova classe politica che da ieri è chiamata a gestire partito, iscritti, elettori e strategie politiche». Per alcuni si tratta di una sorpresa, per altri del risultato più auspicabile. Cosa dice la scienza politica? «Sorpresa direi no, perché era chiaro che la competizione si sarebbe risolta praticamente all’ultimo voto: infatti non abbiamo registrato scarti giganteschi. Serrata, certo, la competizione lo è stata, ma nell’aria il cambiamento di passo lo avvertivamo. Certo è che queste primarie hanno ribaltato il voto degli iscritti al partito, circostanza da tenere a mente…». Vista l’età, in molti già intuiscono come si comporterà la neosegretaria.

«Non avrà difficoltà anche perché il Partito democratico, con la sua giovanissima storia politica, non è annoverabile tra i partiti che necessitano di un’opera di svecchiamento immediata. È ovvio che la Schlein porterà con sé tutta la nuova leva del gruppo dirigenziale attorno cui costruire il “nuovo” Partito democratico. Attendiamo di capire se sarà leale sino in fondo, rompendo con il passato, o se verrà recuperato qualcuno di esperienza, come personalmente mi auguro, perché è inevitabile che anche nei momenti di “svecchiamento” l’esperienza politica non possa essere gettata via». Si è trattato di elezioni aperte anche ai non iscritti al Pd: in questi casi non si corre il rischio di falsare il risultato finale? «Non credo si tratti di falsare il risultato, perché questo aspetto non credo si sia mai verificato a livello nazionale. Detto questo, sono tra coloro che da sempre considerano nefaste le primarie, nel senso che la scelta del segretario di un partito debba necessariamente essere affidata a chi ha deciso convintamente di farne parte, non ai simpatizzanti, ai “senza tessera” , a chi passi quel giorno dalle parti di un gazebo e voglia provare l’ebrezza di votare. Il responsabile di un partito, almeno nella dimensione classica nella quale pensiamo a tale soggetto, deve essere espressione di coloro che hanno deciso di farne parte, di contribuire alla sua nascita ed organizzazione. Che è diverso, ovviamente, dal pensiero degli elettori». Politologicamente la sua è un’analisi impeccabile!

«E’ nella natura delle cose pensarla così: l’elettorato rappresenta un nucleo, informe e variabile, non etichettabile che non potrà mai essere chiamato come responsabile delle decisioni politiche. Queste ultime graveranno sugli iscritti che hanno approvato una linea politica e una classe dirigenziale e saranno proprio loro i responsabili delle scelte, delle decisioni e dei risultati elettorali. Se non ci sono i classici paletti all’interno dell’organizzazione di un partito, allora l’organizzazione stessa non ha senso». La sua elezione farà ripartire l’opposizione al governo Meloni? «Non c’è dubbio! L’opposizione sarà necessariamente più grintosa, ma non perché prima non lo fosse, ma solo perché prima il Partito democratico risultava letteralmente ripiegato su sé stesso, in questo processo di definizione della propria leadership. Ora sia per la combattività che per l’energia che tutti riconoscono alla neosegretaria, sono più che convinto che il cambio di passo sarà notevole». Intanto registriamo una novità: due donne si dividono il campo politico italiano… «Guardi, qui la deluderò. Non ho mai pensato alla circostanza di avere una donna al comando di un partito, piuttosto che alla guida di un organo istituzionale o di quant’altro: non è in questi termini che il problema della politica italiana merita di essere affrontato. Appartengo ad una generazione che ha vissuto in prima persona il “femminismo” , quello per intenderci che ha rappresentato una vera rivoluzione. Erano gli anni in cui le donne si impossessarono letteralmente di un ruolo politico, divenendo esse le sole attrici. Siamo alla continuazione di quella linea evolutiva, senza diventare -oggi- fattore traumatico o storico». La novità c’è, indubbiamente! «Certo, ma l’importanza dello specifico femminile in politica lo si vede nelle battaglie che le donne sono in grado di portare avanti, non nella circostanza di occupare una carica…». Intanto qualche effetto collaterale lo registriamo. Giuseppe Fioroni, storico fondatore del Partito democratico ed ex ministro dell’Istruzione, ha lasciato il partito… «Sarò ancora più drastico. Riesumare dall’oblio l’ex Ministro Fioroni può dare l’impressione della ricerca del classico “quarto d’ora di celebrità”. Appare come improvvisamente destato solo per protestare per la sconfitta del suo candidato, Stefano Bonaccini». Professore, come stampa non possiamo non evidenziare la fuoriuscita dell’ex ministro… «Certo, e faccio notare come chi non ha avuto il proprio candidato eletto, abbandonando il partito, possa apparire come scarsamente identificato proprio con il partito…». Forse Fioroni ed altri temono un eccessivo spostamento a sinistra «Penso che chi ragioni così abbia poco a cuore il proprio appartenere ad un partito».

*** Piero Ignazi, originario di Faenza, classe 1951, politologo, professore Alma Mater dell’Università di Bologna, si è perfezionato all’Istituto Universitario Europeo di Firenze e al Department of Political Sciences del Mit di Boston. Visiting professor in numerose università (Tunisi, Parigi, Treviri, Denver, Lille, Oxford, Madrid, Montreal), è stato presidente del Corso di laurea in Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze politiche e della facoltà felsinea. Membro dell’Editorial board dell’“International political sciences review e del comitato scientifico della Rivista italiana di Scienza politica, è stato direttore de Il Mulino. Autore di numerosi saggi sui partiti politici, tra cui spiccano quelle sulla destra italiana ed europea, ha coniato per il Msi-Dn la definizione di “polo escluso” .

Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1 il 17 marzo 2023.

Chi sono i cacicchi del Pd? “Questa è una terminologia già usata in passato, è una grammatica tipicamente del Pd, di sinistra, ideologizzata. Io però ho visto tanti cacicchi che la Schlein l’hanno sostenuta, quindi forse sarà un problema. Anche se è vero che quando si diventa papi non ti importa più dei cardinali…” Così a Rai Radio1, ospite a Un Giorno da Pecora, il sindaco di Benevento Clemente Mastella, intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro.

Secondo lei alcuni ‘cacicchi’ avrebbero tirato la volata a Schlein? “Accipicchia, certo che si. Orlando ad esempio, mica è un ragazzino lui”.  Esser cacicco è una questione di età? “E’ una questione di voti, di amicizie, di storia”. E Franceschini? “E’ li da tanti anni, ma lo conosco da tanti anni. Diciamo che è un mezzo cacicco va…”

Chi è il maggior ‘cacicco’ allora? “Ora vogliono mettere addosso l’etichetta di maggiore cacicco a De Luca, ma secondo me ce ne sono tanti - ha detto Mastella a Rai Radio1 - è ingiusto prendersela solo con lui. Ad esempio anche Emiliano lo è, così come Crisafulli”.

 Io candidato a guidare la Campania? "Sono felicemente sposato con la mia comunità, faccio il sindaco di Benevento, però mai dire mai, vediamo. Biden ha cinque o sei anni più di me e si vuole ricandidare a guidare gli Stati Uniti, perché io non potrei candidarmi alla Regione?” Così a Rai Radio1, ospite a Un Giorno da Pecora, il sindaco di Benevento Clemente Mastella, intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro.

Il terzo mandato a De Luca? Deve decidere il popolo, i sindaci non possono avere il terzo mandato e i governatori si, mi sembra un po’ strano”. Se si candidasse l’attuale presidente della Campania, lei forse non avrebbe la forza per batterlo. “E chi lo ha detto? Prima del Covid, nei sondaggi, io vincevo contro De Luca”.

Se si candidasse potrebbe battere anche De Luca? “Certo – ha affermato Mastella a Un Giorno da Pecora – se mi candido lo faccio per vincere. Chissà, magari mi candido io e non lui”.

Chi sono i «cacicchi» con cui ce l’aveva Schlein. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 14 marzo 2023

Dopo le parole della segretaria all’assemblea nazionale, le cronache hanno voluto accreditare la versione rituale dell’attacco ai capicorrente, equamente distribuiti nella sua mozione e in quella di Stefano Bonaccini.

Invece ce l’aveva con quelli del tesseramento gonfiato, e dei congressi annullati che si sono visti in piena campagna per le primarie. 

Nel mirino il caso di Caserta, che non ha l’anagrafe degli iscritti. Difficile, anche tecnicamente, che il possibile commissariamento della federazione provinciale non si estenda a tutto il Pd campano. De Luca: «Vedo un periodo di grande effervescenza e di grande allegria davanti a noi».

Quando domenica scorsa, all’assemblea nazionale del Pd, Elly Schlein ha scelto parole di fuoco contro «cacicchi e capibastone» sapeva o non sapeva di citare Massimo D’Alema? Forse no. L’attuale segretaria aveva 12 anni nel 1997 quando l’allora segretario del Pds se la prendeva contro il «partito dei sindaci» che rischiava, secondo lui, di diventare «un accampamento di cacicchi», signorotti che nel Messico e nel Perù del medioevo combattevano guerricciole piccole ma sanguinose contro gli spagnoli conquistatori.

L’allusione micidiale di D’Alema era soprattutto all’allora potente sindaco di Napoli Antonio Bassolino: la preoccupazione era dovuta al fatto che il combinato disposto fra i deputati eletti col sistema uninominale e la forza dei sindaci votati ad elezione diretta dal 1993 producesse «una versione moderna del vecchio notabilato, la continuazione in modi diversi della vecchia Italia».

Le parole di Schlein sono state lette in maniera più estensiva, come una variazione della sua annunciata guerra contro le correnti. Che poi è un grande classico per il Pd, a parole, naturalmente. Contro le correnti si è stato duro Enrico Letta – tranne lasciare oggi un drappello di parlamentari che risponderebbero a Marco Meloni, suo braccio destro –, e prima di lui Nicola Zingaretti si è dimesso in protesta contro i capicorrente (che erano appena diventati ministri del governo Draghi, a sua insaputa), dopo due anni di segreteria in cui aveva governato facendo patti, appunto con le correnti.

Ancora prima c’era stata la promessa di Matteo Renzi, quella di «usare il lanciafiamme» sulle aree organizzate: è finito a organizzare una corrente sua. Poi ha riconosciuto il generale fallimento: «Il mio errore più grande è stato non ribaltare il partito. Non entrarci con il lanciafiamme come ci eravamo detti. In alcuni casi il Pd ha funzionato, in altre zone è rimasto un partito di correnti. Ritengo che le correnti siano il male del partito».

«NON CEDO UN MILLIMETRO»

Una tradizione di promesse rimangiate. E per fortuna del Pd, in molti casi: perché in un partito allo sbando è successo che spesso l’unica cosa che ha tenuto sono state proprio le filiere. In ogni caso per questa tradizione le parole di Schlein sono state pigramente interpretate dai media nella stessa rituale maniera: «Non vogliamo più vedere capibastone e cacicchi vari, su questo non cedo di un millimetro», ha detto la segretaria alla platea della Nuvola. Ma prima aveva fatto una premessa. Che può orientare e affinare l’interpretazione di quello che aveva in testa: «Non vogliamo più vedere irregolarità sui tesseramenti, abbiamo dei mali da estirpare».

CAMPANIA VERSO IL RI-COMMISSARIO

L’impressione, verificata con fonti molto riservate ma molto vicine alla segretaria, è che la premessa offra la vera chiave delle intenzioni di Schlein. Non ce l’aveva con i capicorrente, del resto equamente distribuiti nella sua mozione e in quella di Stefano Bonaccini. Ce l’aveva con quelli del tesseramento gonfiato, e dei congressi annullati che si sono visti in piena campagna per le primarie. 

A Napoli, nel corso del congresso, sono state stracciate 974 tessere non regolari. Irregolarità corpose sono state denunciate anche a Avellino. E a Salerno, per ammissione della stessa commissione provinciale per il congresso, non c’è un’anagrafe degli iscritti. A Caserta sono state escluse 485 iscrizione fatte con PayPal, Carta di credito e prepagate superiori a 3 pagamenti, 1.236 tessere fatte con bonifico da stesso conto, 110 tessere ripetute a stesso soggetto.

Per queste ragioni è difficile, anche tecnicamente, che il possibile futuro commissariamento della federazione provinciale di Caserta non si ri-estenda a tutto il Pd della Campania, già commissariato e dove già il commissario Francesco Boccia si è dimesso durante le primarie per protesta contro le irregolarità di Caserta. In regione l’appoggio a Bonaccini del presidente Vincenzo De Luca aveva un obiettivo non esplicito: il nulla osta per far approvare dal consiglio regionale la possibilità di concorrere per un terzo mandato.

La cosa poteva non dispiacere anche al presidente della Puglia Michele Emiliano, che però ha già un aspirante successore che si scalda a bordo campo, il sindaco di Bari Antonio Decaro, bonacciniano della prima ora ma anche fra i più veloci a complimentarsi con la nuova segretaria e a mettersi a disposizione del suo “nuovo corso”. Con la vittoria di Schlein, quella del terzo mandato è una storia chiusa: se anche la legge fosse approvata, difficilmente la segretaria del rinnovamento accetterebbe l’eterno ritorno di quello che lei considera il cacicco per antonomasia. De Luca, da par suo, promette comunque fuochi d’artificio: «Vedo un periodo di grande effervescenza e di grande allegria davanti a noi», ha spiegato ai cronisti. Schlein è avvisata.

L’eventuale percorso formale verso il commissariamento però è semplice, al netto dei possibili ricorsi: la segretaria indica alla commissione di garanzia le sue proposte, la commissione istruisce la pratica, e infine la direzione nazionale ha 30 giorni per votarla.

VOTI MIGRANTI

Oltre alle irregolarità denunciate, ci sono i fenomeni in cui la segretaria vuole vedere chiaro. Affiorati nelle cronache per lo più. È successo in Calabria, a Cosenza. E nel Sud del Lazio, nella zona del frusinate, dove ha vinto Bonaccini grazie all’appoggio di Antonio Pompeo (Base riformista), Francesco De Angelis e Sara Battisti, stravotata consigliera regionale nota alla cronaca per l’episodio che ha portato alle dimissioni il suo compagno Albino Ruberti da capo di gabinetto del sindaco di Roma Roberto Gualtieri: in un filmato diffuso dai media, lei lo scongiurava di contenere l’irritazione («Vi sparo, vi ammazzo. Vi dovete inginocchiare») contro due commensali, dopo una cena a Frosinone. Alla cena c’era anche De Angelis. Storia poi spiegata dagli interessati come «un diverbio per motivi calcistici»; e così consegnata all’oblio. 

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

I soldi per le primarie e le denunce interne sul sistema De Luca ignorate dal Pd. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 28 marzo 2023 Clientele, fondi regionali, progetti faraonici che hanno cambiato il volto di Salerno, costruttori di successo, appalti, cooperative infiltrate dai clan. Nei giorni scorsi abbiamo svelato i pilastri su cui si regge il “sistema” De Luca.

Ma c’è ancora un capitolo inedito nei documenti ottenuti da Domani. Riguarda le tecniche di creazione del consenso di cui ha beneficiato Vincenzo De Luca,  grazie alle quali ha dominato la scena di Salerno prima e poi gli ha permesso di fare il grande salto alla presidenza della regione, rieletto per un secondo mandato nel 2020.

 A rivelare i meccanismi nascosti della macchina del consenso deluchiana sono due politici del Pd, uno dei due intercettati. Dialoghi del 2015, anno delle primarie, e allegati a un’informativa del nucleo investigativo dei carabinieri di Caserta inviata alla procura antimafia di Napoli, impegnata all’epoca in una delicata indagine sul famigerato clan dei Casalesi, l’incarnazione di Gomorra.  «La campagna elettorale per le primarie a De Luca è costata oltre 300 mila euro», dice uno di loro.

Pd, Schlein mette fine al regno di De Luca: in Campania arrivano due commissari. Conchita Sannino su La Repubblica il 2 Aprile 2023

Primo segnale di stop, la segretaria invia Camusso e Misiani: "Basta capibastone". Ma il governatore: "Non decidono a Roma il mio destino"

Visto che aveva assicurato "Mettetevi in pace: io mi candiderò in eterno", ora troverà un santo a cui votarsi. Elly Schlein manda due commissari in Campania. E invia un primo, clamoroso segnale di stop al "viceré" Vincenzo De Luca. 

Cala il sole sul dominio di Salerno? Tolleranza zero, in ogni caso, sulla strada di "cacicchi e capibastone". Proprio come indicato nel discorso d'insediamento.

Il "partito dei cacicchi": la prima corrente del nuovo Pd è quella pugliese. Di 120 membri della direzione nazionale del Partito Democratico, 12 vengono dalla Puglia, che con quelli di diritto diventano 15. Tutti referenti di Michele Emiliano. Annarita Digiorgio il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.

È la prima corrente del Pd: quella dei pugliesi. Di 120 membri della direzione nazionale del Partito Democratico, 12 vengono dalla Puglia, che con quelli di diritto diventano 15. Tutti referenti di Michele Emiliano. E proprio sul suo nome resta un mistero. Infatti le agenzie hanno battuto anche la sua presenza tra i membri di diritto della direzione in quanto Presidente di Regione. Ma lo statuto, nonché la proposta fatta da Schlein il 13 marzo, parla chiaro: ne fanno parte i Presidenti di regione se iscritti al Pd.

Ma Michele Emiliano non è e non può essere iscritto al Pd. Glielo hanno vietato la Corte Costituzionale e il Csm, finché sarà membro della magistratura, dalla quale non si è mai dimesso. Sanzione che però il governatore pm tende ad ignorare, partecipando costantemente, sui palchi e alle riunioni, alla vita di partito. E nel frattempo piazza i suoi.

A cominciare dalla vice presidente Pd Loredana Capone, la primadonna di Emiliano. Presidente del consiglio regionale pugliese, ruolo che dovrebbe essere di garanzia per tutte le parti, fedelissima del governatore. Emiliano è riuscita a piazzarla alla vicepresidenza del Pd, in quota Schlein, nonostante la stessa Capone avesse presentato la candidatura di Bonaccini nella sua prima uscita pubblica dal palco di Bari. In quel momento infatti Loredana Capone era accanto a Emiliano per Bonaccini segretario, prima che il cacicco pugliese decidesse di dividere equamente i suoi uomini (e le sue donne) tra i due candidati favoriti. In modo da garantirsi appoggio personale chiunque avesse vinto, e piazzando i suoi in ogni corrente. Non a caso, da non iscritto, Emiliano è stato il primo a buttarsi sul carro di Schelin dopo la vittoria. Non è ancora detto che il nuovo segretario gli garantisca il terzo mandato, o un’eventuale candidatura alle europee. Del resto proprio la neo vicepresidente Loredana Capone era stata trombata alle ultime politiche dalla segreteria nazionale di Letta, che al suo posto aveva candidato la napoletana Valeria Valente, facendola eleggere nel collegio del Salento.

Gli altri pugliesi eletti in direzione sono: Adalisa Campanelli (articolo1), Rosa Cascella, Alessia De Santis, Titti De Simone (staffista di Emliano), Marco Lacarra (deputato, ex segretario regionale), Laura Manta, Ubaldo Pagano (onorevole), Raffaele Piemontese (assessore regionale), Paola Romano (assessore di Decaro), Michele Mazzarano (consigliere regionale), Francesco Boccia e Alberto Losacco (franceschiniano). I componenti di diritto: Antonio Decaro, sindaco di Bari, Domenico De Santis, segretario regionale, Pino Giulitto, segretario del Pd della Città metropolitana di Bari.

Ripartire da Gramsci. Democrazia e ‘sinistre’, la lezione di Gramsci. Perché il richiamo a Gramsci resta così attuale, se non per quella “rivoluzione in Occidente” da lui concepita nel quadro della democrazia? Danilo Di Matteo su L'Unità il 3 Settembre 2023 

Quando Antonio Gramsci concepì il nome della nostra testata, pensava a una sinistra che procedesse unita, “dagli anarchici ai repubblicani”, oltre all’unità tra lavoratori della fabbrica e della terra, tra proletari e intellettuali, tra Nord del Paese e Mezzogiorno. E in effetti oggi andrebbe recuperata la ricchezza e la pluralità feconda della sinistra.

Passione per la sinistra, direi. La semplificazione del quadro politico in due schieramenti non implica necessariamente un impoverimento culturale, ideale e relazionale di ciascuno di essi. Una sinistra delle differenze, anche linguistiche, a più voci non corrisponde a litigiosità, smembramento, confusione e maggiore conflittualità interna. Al contrario: si giunge alla guerra per bande, alla divisione in clan o alla faida quando il tessuto democratico di un soggetto politico è povero e il senso della sua azione si riduce all’occupazione di nicchie di potere.

Vi è un rapporto particolare fra la convivenza all’interno di una società – quella italiana, ad esempio – e la convivenza tra diversi all’interno di una forza politica. Si tratta, è ovvio, di situazioni dissimili. Convivere in uno Stato democratico, pur con le differenze e articolazioni interne, è un dovere, un must, come direbbe fra gli altri Salvatore Veca; pena la retrocessione miseranda nello stato di guerra permanente di tutti (e di tutte) contro tutti (e contro tutte). Convivere fra diversi in uno stesso partito o in una stessa altra organizzazione politica o sociale è, invece, una scelta. Scelta di singoli e di gruppi. Ciononostante, l’esercizio quotidiano della democrazia, la pratica democratica è, nel secondo caso, altrettanto difficoltosa e complessa, più che mai irta di ostacoli, al limite dell’impossibile.

Eppure è di tale esercizio che si nutre la democrazia di un popolo o di un insieme variegato quale è la costruzione europea. Da ciò la riflessione che condividevo giorni fa con lo storico dell’agricoltura Alfonso Pascale sulla democrazia come la più autentica utopia concreta. E, in fondo, perché il richiamo a Gramsci resta così attuale, se non per quella “rivoluzione in Occidente” da lui concepita nel quadro della democrazia? Come rilevato anche da Nadia Urbinati, poi, il pensiero gramsciano scorge e riconosce l’autonomia della società civile rispetto allo Stato e alla politica, accogliendo in ciò uno dei frutti più importanti dell’elaborazione liberale.

Vi sono una ricchezza, una varietà e un carattere fecondo della società che non possono non arricchire una comunità politica quale è un partito. La riduzione del Pd, per tanti lustri, al confronto sterile fra “ex” (comunisti e democristiani) o fra “post” (di nuovo, democristiani e comunisti) ha immiserito sia quella forza politica, sia l’Italia intera. Le ha immiserite penosamente. Quasi si trattasse di una “dialettica” tra fantasmi, tra ciò che non è più (o, nella migliore delle ipotesi, tra ciò che non è ancora).

L’avvento della generazione dei millennial, per contro, può ridestare la speranza, può suscitare un’aspettativa più ambiziosa. Sta a loro, e a noi con loro, per paradossale che possa apparire, ridare slancio a una sinistra ambiziosa e sanamente articolata al proprio interno, “dagli anarchici ai repubblicani”. Una sana tensione e passione per il pluralismo, quello vero. Danilo Di Matteo 3 Settembre 2023

I Quaderni e le lettere. Perché rileggere Gramsci: prima del partito e prima delle classi, c’è la persona. Gramsci non voleva tanto unire l’arte e la vita quanto fare di sé un lettore informato, consapevole della propria epoca e dei conflitti che in essa si agitano. Filippo La Porta su L'Unità il 31 Agosto 2023

L’estate è tempo di classici, e anche di classici del pensiero. Stavolta ho riletto una parte dei Quaderni e delle lettere di Gramsci. Per introdurre al pensiero e alla figura di Gramsci, che qui non indagherò in tutta la sua complessa elaborazione politica, comincio da una frase tratta dalla corrispondenza con la moglie Giulia: “[uno non può interessarsi a una comunità] se non ha profondamente amato creature umane individuali”. Una frase in sintonia involontaria con una risposta che diede Hannah Arendt a un intervistatore (la intervista è disponibile su YouTube), e che più o meno suona così “Non amo il popolo ebraico, come non amo il proletariato, si possono amare solo persone singole, concrete”.

Non si amano entità astratte, soggetti collettivi, classi sociali. Una volta Silone disse che il socialismo, che sopravvive in quanto tale ad ogni dio che è fallito, non era altro che “un’estensione dell’esigenza etica dalla ristretta sfera individuale e familiare a tutto il dominio dell’attività umana”, perciò “bastava applicare alla società i principi ritenuti validi per la vita privata”. Certo, per tornare a Gramsci, era un bolscevico, fu chiamato il Lenin italiano – un Lenin senza Rivoluzione –, e di lui ammiratore (“il più grande uomo di stato moderno”), quasi ossessionato dalla soggettività politica – dispiegata appunto dalla Rivoluzione d’Ottobre -, da un atto di volontà che sempre è una forzatura.

In ciò influenzato dal filosofo Gentile: la realtà non è un dato bensì un atto, l’azione che modifica le cose, di qui il partito come moderno Principe. Comunque, anche se al centro delle sue preoccupazioni troviamo questioni di strategia e tattica, guerra di movimento e di posizione, egemonia e consenso, partito e alleanze, la gamma dei suoi interessi era così ampia, e aveva una tale sensibilità culturale, che i Quaderni del carcere costituiscono un capitolo fondamentale della storia delle idee. Molto al di là del loro orizzonte ideologico e della coerenza dottrinaria. Non fu solo un originale pensatore marxista ma un saggista finissimo, critico della cultura e diagnosta di civiltà, moralista dotato di immaginazione sociologica, attento interprete della modernità. In tal senso appartiene più alla famiglia degli Ortega, Weber, Kraus, Benjamin che a quella di Korsch o dei compagni di partito come Togliatti (dei cui scritti politici ben poco rimane).

Si può considerare tra i più noti intellettuali italiani del ‘900 all’estero, forse accanto a Primo Levi o anche a quel Benedetto Croce con cui sempre polemizzò: la sua idea della politica come palingenesi e rifondazione spirituale della nazione era distante dal liberalismo. In odore di trotzkismo venne in parte emarginato dal partito stesso, ma questa è una storia intricata in cui preferisco non addentrarmi. Per lui non ci sono “intellettuali”: l’essere umano è un “intellettuale” poiché “non vi è attività umana da cui si possa escludere un intervento intellettuale”. Come peraltro osservava profeticamente Marx nei Grundrisse a proposito della intelligenza, della conoscenza come principale forza produttiva nel capitalismo avanzato. La sua figura di intellettuale si avvicina all’amateur di Edward Said: non l’esperto o specialista, non l’intellettuale “mandarino” separato, con i suoi privilegi, ma chiunque si fa veicolo di un pensiero critico. In questo consiste il suo impegno.

Ma c’è un possibile, un po’ sorprendente accostamento a Che Guevara suggerito dallo scrittore argentino Ricardo Piglia. La differenza tra i due come profondità e qualità di pensiero è incommensurabile, però entrambi avevano una passione divorante per la lettura. Piglia ce lo presenta in L’ultimo lettore (2007) come “il più grande lettore della sua epoca”, e forse l’ “ultimo lettore” (almeno in senso pieno). La lettura è una attività altamente creativa, ma di solito viene un po’ svalutata in quanto attività passiva, incapace di dare la fama. Si tratta di una passività però ricettiva, creativa. Proprio Borges, un maestro di Piglia, rispose una volta: “Che gli altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quello che ho letto”. La lettura è un’arte umile, appartata. Piglia ne parla in un ritratto di Che Guevara, che appena sbarcato dalla nave Granma, gravemente ferito, e in procinto di morire, si ricordò di un racconto di Jack London per consolarsi. In quel racconto trovò un modo degno per morire.

D’altra parte il Che venne anche fotografato mentre in Bolivia si arrampica su un albero con un libro in mano, in piena guerriglia (dove tutti dovrebbero alleggerirsi di peso!). I suoi vizi dichiarati erano il tabacco e la lettura. Piglia osserva che si trattava di una lettura in stato di emergenza. Vero, ma l’esistenza è sempre “in stato di emergenza”, e perciò occorre chiedere a qualsiasi libro, anche il più mediocre, nientemeno che delle ragioni di vita. Poi Piglia passa a Gramsci, simmetrico e antitetico al Che. Una volta in prigione Gramsci diventa un lettore infaticabile, inesauribile. Come uomo isolato e costretto all’immobilità legge di tutto e disordinatamente: classici, feuilleton, propaganda fascista, gialli, saggi politici e storici, pubblicazioni cattoliche, e da ogni lettura “trae conclusioni considerevoli”.

Ancora prima di immaginare un soggetto collettivo sa che ognuno deve costruirsi una propria soggettività e “si pone in prima persona come esempio di tale costruzione”. Essere “in prima persona” nell’autocostruzione, mettere se stesso come individuo concreto, prima di ogni classe sociale o partito-Principe. Ora, Il Kerouac ritratto da Piglia, accostato al Che e a Gramsci, potrebbe – con il suo proposito di unire l’arte e la vita, di scrivere ciò che si vive – evocare perfino D’Annunzio.

Ma proprio Gramsci non voleva tanto unire l’arte e la vita quanto fare di sé un lettore informato, problematico, consapevole della propria epoca e dei conflitti che in essa si agitano. Anche lui scriveva ciò che viveva, ma vivendo in carcere la sua esistenza coincide con la lettura: dunque scriveva di quello che leggeva, preziosa mediazione con il mondo. Il suo era un impegno a leggere, e lo immaginiamo verosimilmente – borgesianamente – più orgoglioso di quanto leggeva piuttosto che di quanto poteva scrivere e pubblicare. Filippo La Porta 31 Agosto 2023

L'articolo del 27 aprile 1950. Carcere di Turi, dove Antonio Gramsci trascorse la sua vita da recluso. Il vecchio recluso Faedda racconta: “Coraggio, presto andremo via di qui”. Paolo Persichetti su L'Unità l'1 Giugno 2023

Nonostante l’immunità parlamentare, l’otto novembre del 1926 Antonio Gramsci venne fermato e arrestato insieme a tutti gli altri parlamentari del gruppo comunista.

Tre giorni prima erano stati varati alcuni provvedimenti «per la sicurezza e la difesa dello Stato», ulteriore tappa delle norme «fascistissime» progressivamente approvate dal dicembre 1925 e che avevano dato forma allo Stato totalitario: sciolti tutti i partiti e le associazioni che si opponevano al regime; soppressi tutti i giornali d’opposizione; abolito il diritto di sciopero, istituito il confino di polizia per i dissidenti; introdotta la pena di morte per chi avesse attentato alla vita dei Reali e del Duce; istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, lo stesso Mussolini assunse l’interim dell’Interno.

I comunisti si erano fatti trovare largamente impreparati di fronte alla svolta autoritaria tanto che alla fine del 1926 circa un terzo degli effettivi del partito erano in carcere. Condotto in un primo tempo nella prigione romana di Regina Coeli, Gramsci fu assegnato al confino di Ustica ma subito poi trasferito nel carcere di san Vittore a Milano per l’istruttoria. Nel maggio del 1928 fu condannato nel corso del maxi processo al gruppo dirigente del Pcd’I a una pena di reclusione poco superiore a vent’anni.

Assegnato al carcere di Portolongone fu trasferito per ragioni di salute nella prigione di Turi, in Puglia. In seguito ai provvedimenti di amnistia e di condono per il decennale fascista, la sua condanna fu ridotta a 12 anni e 4 mesi. A causa di un aggravamento delle sue condizioni di salute, dopo diverse richieste nel 1933 viene trasferito in una clinica a Formia. Il 25 ottobre 1934 ottiene la libertà condizionale, che al contrario di oggi non prevedeva il «ravvedimento» da parte del detenuto. Nei mesi successivi si trasferisce a Roma, presso la clinica Quisisana, per un lungo periodo di degenza. Riacquisita la piena libertà nell’aprile 1937, muore il 27 dello stesso mese a causa di un’emorragia cerebrale.

***

Questo articolo di Domenico Zucaro è apparso sul numero dell’Unità del 27 aprile 1950

Turi aprile – Un po’ appartata e quasi isolata dai giardini pubblici se ne sta la casa penale di Turi, dove per più di cinque anni rimase «ristretto» Antonio Gramsci.

[…]

Indietro nel tempo

Sono passate le nove del mattino. E’ l’ora migliore per la visita. Due guardie carcerarie mi fanno entrare. Avverti la presenza di un qualche cosa che domina su tutta la vita di un penitenziario, dal momento che ti senti chiudere il grosso portone alle spalle. Allora non ti rimane che seguire i movimenti dell’agente-portinaio, numero uno, poi del secondo, di tutti gli altri infine. Entriamo cosi nel regno del «Regolamento». Sfoglio il grosso libro matricola. Giro le pagine e si va indietro nel tempo: a me interessa il numero 7047 che era quello di Antonio Gramsci durante la detenzione in questa casa penale.

[…]

Una dura odissea

Nello stesso imbarazzo mi sono trovato quando ho preso contatto con altre cose che riguardano direttamente Gramsci e sono ancora qui vive. Allora da tutto l’insieme ho avuto una nozione delle sue sofferenze, della condizione in cui per 5 anni e 4 mesi ha vissuto Gramsci in questo penitenziario.

Antonio Gramsci pare fosse stato assegnato in un primo tempo al penitenziario di Portolongone per scontare la pena di 20 anni e 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Alla richiesta del pm Isgrò, secondo il quale il cervello di Gramsci per vent’anni non avrebbe dovuto funzionare, il Presidente del Tribunale Speciale, Generale Saporiti, aderì in pieno ed aggiunse una pena accessoria di L. 6.200 di mutui e 3 anni di vigilanza, come risulta dal foglio matricolare.

Invece, date le sue condizioni di salute, Gramsci ebbe per destinazione Turi. Così il 19 luglio 1928 insieme a due detenuti comuni lombardi, condannati per appropriazione indebita e falso, vi giunse dopo una traduzione durata più di 15 giorni. Questo trattamento indiscriminato metteva Gramsci sullo stesso piano dei detenuti comuni mentre ai detenuti politici in condizione di salute precaria spettava la traduzione diretta. A Gramsci fu riservato sempre il trattamento peggiore nei suoi trasferimenti da un carcere all’altro: lunghe soste su binari morti, viaggi su carri bestiame in pieno inverno e cosi via.

Soltanto nel trasferimento da Turi a Civitavecchia gli fu consentila la traduzione più comoda. Difatti sul foglio matricolare, il 19 Novembre 1933 è la data di trasferimento, e si sa che fu preso in forza lo stesso giorno dalla Casa Penale di Civitavecchia. Allora Gramsci era già in condizioni di salute disperate.

Il carcere di Turi nella classificazione degli stabilimenti di pena viene considerato come casa di cura per detenuti infermi. Ma non vedo come possa in buona fede essere sostenuta una tale distinzione, non so se e sufficiente per questo una misera infermeria sprovvista quasi di ogni specie di attrezzatura e la presenza saltuaria di un medico.

Il compaesano di Gramsci

I detenuti politici avevano un cortile tutto per loro, diviso dai «comuni», a mezzo di un doppio muro, tra cui corre una specie di camminamento. Qui Gramsci veniva nelle ore stabilite dal regolamento e s’incontrava con gli altri compagni che allora erano una cinquantina. E forse anche lui aspettava ansioso «l’ora dell’aria», come sempre hanno fatto e fanno i detenuti. Di questi ce n’è ancora uno. E’ l’ergastolano Faedda che vedeva tutti i giorni Gramsci. Quest’uomo ora ha 73 anni ed è nativo di Bazanta, paese vicino ad Ales, luogo di nascita di Gramsci.

Faedda nel 1928 è stato lo scopino del Teatro dei «politici» – : cioè faceva pulizia nelle celle, portava il vitto giornaliero ai detenuti e così lasciava pacchi, libri, riviste, ccc. Mi dice che allora per questi servizi riceveva dall’Amministrazione 14 lire al mese. Ma tutti i «politici» gli regalavano sempre qualcosa in natura. Quando al mattino entrava nella cella di Gramsci lo trovava già al lavoro e spesso faceva con lui una chiacchierata in dialetto sardo. Se poi era di buon umore, ben volentieri Gramsci scherzava con lui — Mi batteva la mano sulla spalla e mi diceva: «Coraggio Faedda, presto andremo via da qui» — racconta Faedda — Non gli chiedevo nulla, ma lui mi regalava o una pagnotta di pane o del vino o del formaggio. Una volta mi diede due sigari.

I ricordi del secondino

La guardia scelta Vito Semerano — anche lui ha conosciuto Gramsci — presta servizio in questo penitenziario da 23 anni; attore faceva il turno nel braccio «politici», al primo pia-no. Forse Semerano è stato l’uomo che ha avuto il maggior rispetto in questo luogo per Gramsci. E questa considerazione mi viene suggerita da un particolare che Semerano mi racconta.

Ci troviamo davanti alla porta della cella di Gramsci e lui mi parla delle sofferenze negli ultimi tempi di Gramsci per il suo stato grave di salute. Specialmente il sistema nervoso doveva essere molto scosso e non poteva dormire. So che per regolamento la luce nell’interno della cella deve rimanere sempre accesa durante lo notte. — A una certa ora la spegnevo — mi dice Semerano. Era lui infatti di sorveglianza durante la notte; quando poi era di turno durante il giorno spesso entrava in cella e trovava Gramsci al tavolo di lavoro.

Attività instancabile

– Copiava sempre dai libri — mi dice — e mi chiederà i quaderni per scrivere. Quando ne aveva riempito uno, me lo consegnava ed io lo passavo al direttore. Una volta bollale le pagine, veniva depositato in magazzino. Gramsci preferiva depositare i suoi quaderni per evitare che nelle perquisizioni venissero sciupati. Qualche volta si faceva comprare dell’inchiostro fuori dal carcere perché migliore.

Chiedo, a Semerano quanti quaderni consumasse in un mese; lui ricorda che arrivava a portargliene anche una quindicina. Gli dico che adesso quei quaderni sono già usciti in parte stampati in diversi volumi e comprendono tutta l’opera che Gramsci ha scritto in questa cella. Semerano mi sorride e mi fa appena sentire la sua voce: – Avevo compreso che erano molto importanti! –. Semerano ricorda ancora che alla partenza da Turi furono riempite quattro casse di libri e manoscritti.

La lapide di marmo murata sulla facciata dei penitenziario serve soltanto per dare una nozione al pellegrino di passaggio, perché la maggior parte dei turesi ha nella memoria la propria immagine di Gramsci. Molti ricordano i tempi in cui Tania, cognata del recluso, aveva preso alloggio nel piccolo albergo Lauretta. Allora, per diverso tempo, e alle volte anche per più di un mese, mi dicono, la s’incontrava sovente nelle strade e alcuni osavano interrogarla con gli occhi, altri invece o le facevano visita o la invitavano a casa, perché Tania era sempre sola. Doveva essere anche vigilata dalla polizia, ma questo pericolo per i turesi contava fino a un certo punto di fronte ai doveri dell’ospitalità. — Non si poteva lasciare una donna sola nel dolore — mi dice qualcuno.

Forse allora nessuno di qui aveva mai visto Gramsci, eppure non si faceva che parlare di lui. Al centro di ogni commento stava il fatto importante dell’epoca; si tratta del rifiuto di Gramsci a inoltrare domanda di grazia. Ma già da come aveva impostata e poi portata a conclusione la sua ragione di essere rapporto al mondo e agli uomini, Gramsci era entrato nell’immagine popolare con tutti i caratteri del simbolo: Maestro, Liberatore, Martire, e così è scritto anche sulla lapide di marmo all’ingresso. Sulla lapide è scritto anche: – In questo carcere — visse in prigionia — Antonio Gramsci — Maestro Liberatore Martire — che ai carnefici stolti — annunciò la rovina — alla Patria morente — la salvazione — al popolo lavoratole la vittoria. Paolo Persichetti 1 Giugno 2023

Cent'anni dopo. Antonio Gramsci e i suoi quaderni sono la bussola del presente. Michele Prospero su L'Unità il 21 Maggio 2023 

Ha scritto Wittgenstein che le teorie sono come una lente. Servono per osservare meglio le cose, cercando di scrutare oltre le apparenze. Perché allora utilizzare gli occhiali di Gramsci? I Quaderni (Einaudi, 1975) esplorano i problemi nodali che si ripropongono nelle giunture critiche della modernità. Ne ha interpretato bene il nucleo concettuale il sociologo Alessandro Pizzorno in un suo saggio degli anni 60 (ora contenuto nella raccolta La maschera dei classici, Laterza, 2023), nel quale egli avverte che “la nozione di «crisi organica» è forse l’elemento più interessante della teoria politica di Gramsci; e sorprende vedere che essa non è stata oggetto di approfondimento”.

L’opera gramsciana è in effetti anche un’indagine sulla lunga crisi dei trent’anni che sconvolge la civiltà italiana ed europea dopo il 1914. La prima guerra mondiale, letta nei Quaderni come “frattura storica”, appare come l’epilogo di “un mucchio” di molteplici scompensi (“è difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche”, p. 1756) che si intrecciano tra loro e, “modificando la struttura generale del processo precedente”, conducono alla catastrofe della vecchia Europa.

La “crisi organica”, che “incide sugli elementi costanti”, è diversa dalla crisi congiunturale e ciclica, la sola ammessa da Luigi Einaudi, il quale suggeriva misure politiche immediate di contenimento per superare degli intralci solo momentanei. Più attrezzato nel cogliere l’impatto strutturale della crisi, si rivelò un filosofo, agli occhi di Gramsci verboso e astratto, come Ugo Spirito: la sua proposta di una “economia secondo un piano e non solo nel terreno nazionale, ma su scala mondiale, è interessante di per sé”. La “crisi organica” ha infatti ricadute generali, incide sulla politica, sulle economie e sul senso comune, con esiti che sfuggono alle capacità terapeutiche a disposizione delle singole autorità nazionali.

Mancando politiche condivise da parte degli Stati, ciascuna nazione è esposta a squilibri che affronta in maniera autonoma. Il sistema economico tedesco, nel quale spicca la centralità dell’industria, viene investito da crisi cicliche (l’inflazione) e organiche (la crisi-panico del ’29) che distruggono la Repubblica di Weimar. Le stesse dinamiche critiche non hanno il medesimo effetto catastrofico in Francia, e soprattutto in Inghilterra. Qui, invece dell’industria tradizionale con le sue classi, sono presenti il settore del proletariato commerciale e il mondo dei servizi, con “banchieri, agenti di cambio, rappresentanti”.

La “crisi organica”, per Gramsci, è sempre aperta ai più variegati esiti (“in ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso”). A Berlino si assiste alla rovina economica della classe media, colpita a morte dall’inflazione. Anche la disoccupazione si presenta con un “ritmo accelerato” assente invece a Parigi. Oltre all’economia, contano le istituzioni politiche e le soggettività della società civile. Ulteriore aspetto della “crisi organica” è, in tal senso, la “crisi del programma e dell’organizzazione scolastica, cioè dell’indirizzo generale di una politica di formazione dei moderni quadri intellettuali”: la mancanza di un ceto intellettuale di tipo moderno (specialista, oltre che politico) sprigiona effetti dissolutivi che inaridiscono le capacità di tenuta delle democrazie.

La “crisi organica” indica, nel laboratorio gramsciano, un processo storico che spezza i rapporti di potere abbracciando la cultura, i livelli cosiddetti sovrastrutturali, la geopolitica. L’emersione di sfide inedite accompagna l’erosione dell’egemonia delle classi dirigenti. Il loro vuoto di direzione conduce all’esplosione delle capacità di integrazione di un sistema. Attraverso l’attitudine egemonica, nelle situazioni normali le classi dirigenti governano con le risorse del consenso e riescono ad integrare le classi subalterne entro una cornice di stabilizzazione del raccordo tra Stato e società.

Nei paesi a più fragile statualità, processi inediti di mobilitazione mettono a nudo una crisi di rappresentanza, con il dileguarsi del riconoscimento della società civile nell’azione dei ceti governanti. Una grande crisi esterna (una guerra che infrange l’ordine internazionale alterando anche la tenuta psicologica delle masse rurali e del ceto medio impoverito) o una contrazione endogena (la celere mobilitazione di masse prima passive, e quindi mero oggetto di potere, che in un tempo accelerato tendono a farsi Stato) nel quadro di Gramsci spezzano le forme della politica e arrugginiscono i meccanismi consolidati dell’autorità. “Si parla di crisi di autorità e ciò è appunto la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”.

La “crisi di autorità” parte dall’alto, per l’incapacità delle strutture tradizionali del potere di resistere a una brusca caduta di sostegno. Lo scoppio di emergenze svela, in questo caso, l’inadeguatezza delle classi politiche nel governare le nuove istanze di partecipazione (suffragio universale, politica di massa). Un sommovimento dal basso, invece, si verifica quando la mobilitazione accelerata sfibra le attitudini integrativo-responsive del sistema (frattura centro-periferia, rapporto Stato-Chiesa, conflitto capitale-lavoro). In entrambi i casi, l’ordinamento rivela una crisi di rappresentanza e, avverte Gramsci, “i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali”. Il potere ufficiale dimostra un deficit di assorbimento delle domande popolari, mentre il contro-potere dei soggetti emergenti evidenzia la sua inadeguatezza nel guidare la mobilitazione sociale verso obiettivi di innovazione.

Il “mucchio delle crisi”, che la guerra salda, palesa insomma l’urto tra dimensione di massa dell’agire politico, con le esperienze collettive di mobilitazione, e deficit di rappresentanza delle élite. I liberali perdono il controllo della fiumana in movimento, i socialisti smarriscono la conduzione realistica del conflitto, aperto ora a moltitudini a digiuno di una consapevolezza storico-politica. Un prodotto dell’età di massa, rileva Gramsci, è il diffondersi di aspettative di rigenerazione, con “convinzioni mistiche” circa una imminente trasformazione palingenetica.

In politica divampa un sentimento di entusiasmo mitico, si crede nell’azione risolutiva. La prima lunga “crisi organica” dei trent’anni ha avuto come sbocco il cesarismo, che irrompe come una soluzione accattivante quando nello scontro “prevale l’immaturità delle forze progressive”. Le forze della conservazione, secondo Gramsci, hanno due strade per rispondere alla crisi di rappresentanza: la “rivoluzione passiva”, con la costruzione del meta-partito che assorbe i diversi spezzoni delle élite in crisi (la “soluzione organica” alla crisi), e il “cesarismo”, che si fa strada agitando “il martello del dittatore” per sedare il pluralismo arrembante.

Cosa suggerisce Gramsci per l’oggi? La seconda lunga “crisi organica”, il trentennio che va dal 1994 ad oggi, ha conosciuto il collasso della mediazione e l’esplosione della funzione rappresentativa. Queste ondate, nel segno dell’antipolitica e del populismo, si presentano, a detta di Gramsci, anche per via della flaccida “struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica”. Con l’astensionismo e la fuga dalla politica (nel 2013 oltre 10 milioni di elettori abbandonarono le due maggiori forze politiche della Seconda Repubblica), esplode la “delicata e pericolosa” crisi della rappresentanza.

In tale congiuntura, osserva Gramsci, con la caduta nell’oblio dei leader “che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono”, i partiti “non son più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe”. In un tale scenario, essenziale è intervenire sulla causa principale del fenomeno. Le pagine gramsciane aiutano a decifrare la genesi della “crisi organica”, che si presenta quando “la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso”. Non c’è dubbio che, nel caso italiano, questa “grande impresa politica” mancata è rappresentata da un efficace governo del processo di europeizzazione (moneta comune, mercato unico, legislazioni armonizzate).

Il contraccolpo della cessione di competenze per l’integrazione europea ha visto affiorare il cosiddetto sovranismo, che sfrutta la diffusa sensazione di declino dovuta a uno svantaggio competitivo e alla caduta della crescita. La percezione di una perdita di protezioni, e anche di relativo benessere, è all’origine dell’eclissi della rappresentanza. La diagnosi gramsciana è che “la crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo”. Investiti dalla crisi strutturale, i partiti della sinistra non riescono a guidare le classi subalterne, e i ceti popolari vengono sedotti da attori nuovi, i quali agitano con successo spinte demagogiche contro gli euro-burocrati e le élite distanti dalle masse.

Per questo, nelle giunture critiche, ai ceti dominanti riesce spesso l’operazione di varare cambiamenti cosmetici che, in nome del nuovo, riescono a coprire la resistenza del vecchio. Lo spiega bene Gramsci: “La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato”. Con il berlusconismo, i governi gialloverdi e il fascismo democratico attuale, il vecchio blocco dominante conserva il potere con le maschere del nuovismo.

Dinanzi ai fallimenti storici che rompono la capacità rappresentativa della politica, Gramsci suggerisce di somministrare antidoti più efficaci. Si tratta, cioè, di risolvere i nodi della crisi endogena (concependo un governo innovativo della dimensione europea) e di progettare la ricostruzione della rappresentanza per orientare le culture di massa altrimenti spaesate. La ridefinizione di un collegamento tra la sinistra, i sindacati e le classi subalterne è un processo indispensabile per la tenuta dell’ordinamento costituzionale, perché nella crisi “il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici”. Come fare a non soccombere in questo pantano, ecco a cosa serve oggi la lente di Gramsci. Michele Prospero 21 Maggio 2023

I Quaderni 100 anni dopo. Alla crisi della mondializzazione Gramsci rispondeva “W l’Europa”: il no alle piccole Patrie. Di fronte alla crisi radicale della mondializzazione nel secolo scorso, il pensatore comunista non predica chiusura e isolamento, ma una risposta globale a un fenomeno globale: l’Unione europea. Michele Prospero su L'Unità il 19 Giugno 2023 

Le pagine di Gramsci contengono una riflessione complessa sulla crisi della prima mondializzazione, che si arresta bruscamente con le guerre e i nazionalismi del ‘900. Il grado di interdipendenza imposto dalle dinamiche sovranazionali del mercato altera il rapporto tra il territorio della politica (nazionale) e lo spazio dell’economia (globale). Davanti ai ritmi più veloci di un’economia-mondo dominata dagli scambi e dal regime espansivo del capitale, i Quaderni registrano il restringimento della “maggiore autonomia delle economie nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale” (Q, 1567).

Anche se la risposta ai fallimenti del mercato e al panico finanziario del ’29 sembra rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia, e quindi la funzione dell’apparato amministrativo nella gestione della vita quotidiana, i diversi modelli politici esistenti (americano, sovietico, corporativo-nazionalista e liberale europeo) possono soltanto rallentare, ma non certo cancellare, gli intrecci del meccanismo internazionale degli scambi. Processi oggettivi conducono all’evaporazione dell’autonomia degli strumenti dell’economia nazionale, e quindi ad un tendenziale indebolimento delle risorse della sovranità politica.

Gramsci parla di un vero e proprio “processo di disintegrazione dello Stato moderno” (Q, 690). Ciò accade per effetto delle più robuste catene di interconnessione che stringono sia dall’alto, perché “un carattere è «nazionale» quando è contemporaneo a un livello mondiale (o europeo) determinato di cultura ed ha raggiunto (s’intende) questo livello” (Q, 1660), sia dal basso, con la moltiplicazione di luoghi e soggetti che definiscono nuove sedi di iniziativa politica e di rappresentanza. Non è possibile sviluppare alcuna analisi di un caso nazionale senza aver prima decifrato i rapporti in corso nell’ordine sovranazionale: perciò è opportuno cogliere “la realtà italiana come inserita in un sistema internazionale, come dipendente da questo sistema internazionale”. Appurare come un singolo paese si integri nelle trame conflittuali dell’economia mondiale è un tassello per la comprensione delle sue effettive capacità competitive nello scacchiere globale e per la valutazione delle sue opportunità di consolidamento istituzionale.

Per afferrare l’evoluzione nei rapporti tra spazi politici ed economie, Gramsci cerca di coniugare l’analisi materialistica (“i rapporti internazionali precedono o seguono i rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente”) e talune suggestioni geopolitiche (“anche la posizione geografica di uno Stato nazionale non precede ma segue le innovazioni strutturali, pur reagendo su di esse in una certa misura” Q, 964). La geopolitica, valutando il peso della dimensione spaziale nelle relazioni estere degli attori statuali (“nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica”), ammette la possibilità che con i dati economici, pur essenziali, possa interferire il calcolo politico, l’iniziativa strategica che incide “nella misura appunto in cui le superstrutture reagiscono sulla struttura, la politica sull’economia”.

Se si vuole intendere il grado di autonomia di una singola economia nazionale rispetto al giogo delle interazioni globali, giova molto l’intreccio di analisi economico-sociale (“ogni innovazione organica nella struttura modifica organicamente i rapporti assoluti e relativi nel campo internazionale, attraverso le sue espressioni tecnico-militari”) e indagine politico-militare (“i rapporti internazionali reagiscono passivamente e attivamente specialmente sui rapporti politici (di egemonia dei partiti)“. Accanto a paesi che mostrano un’accentuata dipendenza, perché “la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali”, si riscontrano entità con una più ampia libertà di manovra.

Per cogliere regolarità e discontinuità nella presenza di uno Stato all’interno del sistema-mondo, oltre alle letture in termini di classi servono anche talune istanze della geopolitica: “Già prima della guerra Rodolfo Kjellén, sociologo svedese, cercò di costruire su nuove basi una scienza dello Stato o Politica, partendo dallo studio del territorio organizzato politicamente (sviluppo delle scienze geografiche: geografia fisica, geografia antropica, geopolitica) e della massa di uomini viventi in società in quel territorio (geopolitica e demopolitica)” (Q, 193).

Nell’ottica gramsciana, per la comprensione delle strutture della politica mondiale bisogna considerare i tre “elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati”. E cioè: “1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare”. A questi tre indicatori di carattere più quantitativo egli aggiunge, come quarto indice, anche “un elemento «imponderabile»”, vale a dire “la posizione «ideologica» che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia” (Q, 38). Il possesso di questi fattori conferisce una spiccata capacità di influenza (“un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza”). Oltre alla forza reale delle armi esiste la dimensione “ideologica” dell’egemonia, con la quale una superpotenza riesce ad “ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere”.

Tutto ciò rivela che nell’economia e nelle relazioni internazionali il rapporto interstatale ha carattere asimmetrico per via dell’impatto che, entro uno schema polare centro-periferia, è determinato dal momento cruciale dell’“egemonia”, la quale oltrepassa il dato delle capacità militari effettuali. Spiega Gramsci: “Il modo in cui si esprime l’essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l’influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione”.

Accanto a paesi che dispongono di significative risorse per sprigionare un “influsso” e determinare una certa “ripercussione” sui processi politici ed economici, esistono anche delle statualità di rilevanza insignificante. Le più grandi entità politiche, dotate di una forza tale da consentirgli di rivendicare il ruolo di “potenza egemone”, sono però in grado di esercitare pressioni, concordare aiuti, fornire assistenza, e quindi di proporsi come Stati guida alla testa di un’alleanza di nazioni che si contende, in rivalità con altre aggregazioni, il governo del mondo. Considerazioni geopolitiche si impongono per tutti gli attori; anche la Russia all’ideologia deve anteporre il calcolo delle opportunità: “non è da illudersi neanche su questo argomento. Se in Russia c’è molto interesse per le quistioni orientali, questo interesse nasce dalla posizione geopolitica della Russia e non da influssi culturali più universali e scientifici” (Q, 1723).

Nella valutazione di Gramsci, occorre registrare la fine della centralità economico-politico-militare europea e l’emersione di una dimensione mondiale più eterogenea (“in realtà ci ha finora interessato la storia europea e abbiamo chiamato «storia mondiale» quella europea con le sue dipendenze non europee”). Quello che risalta, scrutando un orizzonte globale che travalichi il consueto spazio europeo, è il fenomeno nuovo della “«prepotenza» americana”. Occorrono inedite categorie, anche se, con riferimento all’“americanismo”, “non si tratta di una nuova civiltà, perché non muta il carattere delle classi fondamentali, ma di un prolungamento ed intensificazione della civiltà europea, che ha però assunto determinati caratteri nell’ambiente americano”.

Il mutamento epocale dell’acquisita portata mondiale dei fenomeni economico-politici e culturali rende ardua la tenuta di una rivoluzione in un paese. Però anche il destino della “guerra di posizione” in occidente è affidato a un’asimmetria spaziale tra il profilo della sovranità, circoscritto alla dimensione nazionale, e le vicende militari e dei commerci, inafferrabili se non entro un complicato scacchiere globale. La crisi radicale della prima mondializzazione non spinge Gramsci a ripiegare verso il sovranismo (la sua persuasione è che si assiste ad un autentico “impoverimento del concetto di Stato”). Nel tempo presente si allargano le esperienze, crescono le connessioni, si intensificano le relazioni e inevitabilmente “la personalità nazionale è legata ai rapporti internazionali” (Q, 1962).

Lo Stato nazionale, che i Quaderni leggono dal punto di vista genealogico come espressione politico-culturale del moderno bisogno di dare organizzazione politica ad un territorio, mostra la sua provvisorietà, quale ente politico sovrano, dinanzi alla maturazione di un carattere europeo della coscienza politica: “Esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola «nazionalismo» avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale «municipalismo»” (Q, 748).

I fenomeni di integrazione economica e politica sollevano in Gramsci domande significative. Si tratta di lavorare sulla scia di certe sue intuizioni di interprete delle trasformazioni occorse al territorio politicamente organizzato in Stato ma operante ormai entro le dinamiche economico-militari aperte nello spazio mondiale. Ha visto bene G. Baratta (Antonio Gramsci in contrappunto, Carocci, 2007, p. 248) quando ha rintracciato nell’istanza di un “postmoderno principe”, in grado di gestire la costruzione politica di una società̀ civile europea, come uno dei messaggi teorici fondamentali che i Quaderni lasciano in eredità. Michele Prospero

I Quaderni cent'anni dopo. Cosa è il populismo, Grillo e Salvini descritti da Gramsci cento anni fa…

Il populismo è oggi una categoria tra le più inflazionate. Non manca chi sentenzia: visto il carattere onnipervasivo del fenomeno, anche la sinistra dovrebbe aderire allo spirito del tempo e diventare una forza populista come le altre. In tal senso, Ernesto Laclau, accettando la contrapposizione tra moltitudine ed élite, cerca di ricavare da Gramsci una “ragione populista” rivolta alla fabbricazione di un capo carismatico che avanza con la maschera antisistema. Michele Prospero su L'Unità il 23 Maggio 2023 

Il populismo è oggi una categoria tra le più inflazionate. Non manca chi sentenzia: visto il carattere onnipervasivo del fenomeno, anche la sinistra dovrebbe aderire allo spirito del tempo e diventare una forza populista come le altre. In tal senso, Ernesto Laclau, accettando la contrapposizione tra moltitudine ed élite, cerca di ricavare da Gramsci una “ragione populista” rivolta alla fabbricazione di un capo carismatico che avanza con la maschera antisistema.

È corretto un uso populista di Gramsci? Nei Quaderni, la locuzione “populismo” indica la rinuncia al ruolo fondativo del conflitto di classe per l’inseguimento di un popolo concepito come unità mitica. In direzione di una comunità fittizia, non sconvolta dal conflitto sociale, il populista si specializza nella “esaltazione delle masse popolari genericamente, con tutti i suoi bisogni elementari (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, riprodursi)” (Q, p. 812).

Gramsci legge i populismi, nel campo letterario e in quello politico, come un momento connesso alla separazione delle élites dal popolo: “Non solo in Italia: anche nei paesi dove la situazione è analoga, si sono avuti fenomeni analoghi: i socialismi nazionali dei paesi slavi (o socialrivoluzionari o narodniki ecc.)” (Q, 397). Questo tipo di populismo evoca un’inclinazione alla radicalizzazione della protesta sotto la direzione di ceti intellettuali insoddisfatti che rifiutano la politica organizzata e il conflitto di classe.

Il ricorso a certi “sentimenti critici elementari”, che inventano il popolo come un’entità coesa e perciò mitizzata, implica anche una forma di democratismo. Il limite di questa cultura, agli occhi di Gramsci, è quello di appartenere a sensibilità sorte prima del 1848 e quindi inadeguate a cogliere il proletariato come soggetto storico che reclama differenze, impone partizioni. La saldatura operaia tra condizione economica e soggettività politica rende anacronistica ogni concezione unitaria della comunità.

Secondo Gramsci (Q, 915), il popolo quale organismo compatto non è un dato reale, dal momento che “l’opinione pubblica è il contenuto politico della volontà politica pubblica che potrebbe essere discorde”. Esistono cioè dissidio e conflitto, non c’è omogeneità. Lontano da un pensiero critico, il populismo assume le forme dell’antipolitica e lo stile retorico demagogico. Alle “frasi superficialmente scarlatte” Gramsci preferisce il politico realista, che avversa la manipolazione e gli schemi moralistici. Contro i manicheismi che vedono un popolo buono opposto a una élite cattiva, i Quaderni assumono un conflitto aperto e costruttivo “per gli uomini che rappresentano la «tesi» come per quelli che rappresentano l’«antitesi»” (Q, 1595).

Le deformazioni populiste, che delegittimano l’avversario, le élite, la “casta”, agli occhi di Gramsci impongono una regressione rispetto alla civiltà del conflitto. In opposizione agli stampini del linguaggio dei populisti, i Quaderni recuperano uno spirito di scissione, cioè la soggettività della classe che si percepisce nella sua autonomia (Q, 333). La soluzione populista prevede una ostilità demagogica verso la politica e il ricorso a polemiche “di carattere psicologico o moralistico”.

Il populismo nega ogni ancoraggio della politica alla geografia delle classi sociali e richiede quadri deformanti, scorciatoie semantiche. La mentalità demagogica si riduce alla “forma mentis di considerare la politica e quindi la storia come un continuo marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione. L’attività «critica» si è ridotta a svelare trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi” (Q, 1595).

Mentre auspica un pensiero critico-sistematico, Gramsci (nulla a che vedere con il culto del senso comune alla De Man e con la “scienza popolare”) disprezza la “letteratura popolare in senso deteriore” vista come “degenerazione politico-commerciale”, che però va studiata e compresa lo stesso: anche le costruzioni intellettuali scadenti possono rivelare tendenze reali. La fraintesa categoria di “nazionale-popolare” rinvia piuttosto a Shakespeare, alla tragedia greca, alla più elevata produzione culturale, e non ha nulla di riconducibile al primitivo, agli “ammiratori del folklore”, agli “stregonisti” (Q, 329).

Le suggestioni populiste, che Laclau ricava dai Quaderni, cozzano con la struttura del pensiero gramsciano. Il rifiuto dell’antipartitismo (il partito-filtro è un essenziale veicolo della modernità politica) e il ruolo fondamentale assegnato alla mediazione (cultura, scuola, organizzazioni, società civile, rappresentanza) rendono evidente il divario tra Gramsci e le visioni populiste. La critica del capo carismatico (la leadership esige il riconoscimento della capacità di direzione entro aperti canali di raccordo), la valorizzazione della funzione dell’élite (la costruzione di nuovi gruppi dirigenti è il compito della politica), il rigetto di ogni interpretazione complottistica delle complesse vicende storico-politiche e dei processi di mondializzazione dell’economia e delle culture, rendono Gramsci incompatibile con ogni vago populismo di sinistra.

Più attenta al profilo analitico dei Quaderni si mostra l’antropologa Kate Crehan (Gramsci, Culture and Anthropology, Londra 2002, p. 155), la quale comprende che Gramsci è “radicalmente estraneo a qualsiasi forma di populismo”. L’antidoto a una narrazione suggestiva e potente capace di sfidare la logica e la coerenza, non risiede nella velleità di fabbricare da sinistra, come alternativa ai modelli trionfanti a destra, un linguaggio uguale e contrario, cioè un populismo gauchista che rinunci al materiale per rifugiarsi nell’immaginario. Secondo Crehan (The Common Sense of Donald J. Trump: A Gramscian Reading of Twenty-First Century Populist Rhetoric, Londra 2018), con l’arsenale di Gramsci è possibile comprendere come contrastare la “retorica populista” dell’era Trump.

Dinanzi a un imprenditore che con un “movimento del senso comune” indossa il costume del politico-antipolitico, non basta la celebrazione della serietà, del rigore, della competenza. A nulla serve graffiare il tycoon rilevandone le contraddizioni, gli errori grammaticali nei tweet, lo scarto tra promesse e realizzazioni possibili, le seriali bugie. L’incoerenza è un principio costitutivo del “senso comune” populista.

La bassa oratoria “irrazionalista” di Trump, che si scaglia contro il modo di vivere dell’élite metropolitana, prevale perché, con le sue metafore sempre politicamente scorrette, riesce a “collegarsi con una vasta schiera di americani arrabbiati attraverso latrati reiterati all’infinito. Come ha osservato Gramsci, la ripetizione è il miglior mezzo didattico per lavorare sulla mentalità popolare” (Crehan). Un magnate che sfonda con un linguaggio rozzo ma apparentemente “autentico” parla un gergo che suona come veritiero al cospetto della sensibilità modellata dai social e dalla tv spazzatura. Per mettere sotto scacco il leader populista, non serve contrapporre al suo dialetto antipolitico la serietà del mestiere della politica, né tantomeno rincorrerlo sul terreno del “common sense”.

Contro l’assenza di rigore logico-sistematico (il “lorianesimo”) e la “teratologia intellettuale”, il pensiero gramsciano respinge ogni schematismo elementare. Per il pensatore sardo, “riferirsi al senso comune come riprova di verità è un non senso” (Q, 1440). In vista di una indagine critica, “il senso comune è un concetto equivoco, contraddittorio, multiforme” (Q, 1399), che va maneggiato con coerenza analitica per afferrare la complessità dei processi. Per smontare il populismo, che naviga nell’apparenza e nel simbolico, è indispensabile riportare le narrazioni al livello delle sofferenze materiali, delle diseguaglianze, dei conflitti. Così si rende tangibile, sul piano dell’esperienza reale, il peso dell’esclusione e con il supporto della cultura critica si dà un quadro coeso all’alternativa politica.

Questo sembra essere il suggerimento che Gramsci ricava dalla lettura dell’esperienza del boulangismo come ribellione antipolitica. Sebbene sia evidente che dietro ai movimenti di tipo populista c’è lo zampino di poteri esteri e di centri nazionali di influenza, l’analisi non può ridursi a una scoperta degli intrecci oscuri, finanziari e organizzativi. Gramsci precisa che, al di là di ogni “tinta moralistica” che voglia rintracciare la presenza di mire opache e calcoli interessati, l’attenzione “deve dirigersi alla ricerca degli elementi di forza e degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro intimo: l’ipotesi «economistica» afferma un elemento di forza, la disponibilità di un certo aiuto finanziario diretto o indiretto (un giornale che appoggi il movimento è un aiuto finanziario indiretto) e basta. Troppo poco. La ricerca quindi, come ho detto, dev’essere fatta nella sfera del concetto di egemonia”. Va superato “l’errore teorico e pratico” di chi, postulando l’esistenza di un “raggruppamento dominante”, rinuncia a comprendere le cause e la capacità espansiva dei movimenti populisti. Il concetto di egemonia, nota Gramsci, suggerisce invece un’altra strada. “Quando un tale movimento si forma l’analisi dovrebbe essere condotta secondo questa linea: 1) contenuto sociale del movimento; 2) rivendicazioni che i dirigenti pongono e che trovano consenso in determinati strati sociali; 3) le esigenze obbiettive che tali rivendicazioni riflettono; 4) esame della conformità dei mezzi adoperati al fine proposto; e 5) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non in forma moralistica, presentazione dell’ipotesi che tale movimento necessariamente sarà̀ snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci credono. Invece quest’ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (dico che appaia tale con evidenza e non per un’analisi «scientifica» [esoterica]) esiste ancora per suffragarla, cosi che essa appare come un’accusa morale di doppiezza e di malafede ecc. o di poca furberia, di stupidaggine. La politica diventa una serie di fatti personali”.

La connessione del populismo con le domande sociali insoddisfatte nell’ordine politico esistente sollecita un riconoscimento del fondamento oggettivo, al di là delle semplificazioni, dei movimenti di protesta. Il “nucleo di verità” del fenomeno populista non può essere trascurato proprio se si intende denunciare il carattere “necessariamente snaturato” di forze che agitano simboli e riferimenti tra loro contraddittori. Percepire i dati reali, ricostruire il senso delle cose a partire dal vissuto, dare significato ai singoli frammenti quotidiani, questo è il percorso che Gramsci suggerisce per definire una politica capace di ristabilire momenti di connessione emotiva dopo la crisi di rappresentanza. Michele Prospero 23 Maggio 2023

I Quaderni 100 anni dopo. Società civile, né con lo Stato astratto né con l’individuo: la via di Gramsci. Michele Prospero su L'Unità il 28 Maggio 2023 

Come avverte Seymour M. Lipset (Istituzioni, partiti, società civile, Bologna, 2009, p. 341), Gramsci ha avuto il merito, che per certi versi lo colloca sulla scia di Tocqueville, di aver intuito «la necessità di una densa società civile che emergesse dal capitalismo rendendo possibile la dialettica democratica». Allo Stato di diritto, con le sue tecniche formali e procedure garantiste, egli affianca una robusta società civile, dotata di aggregazioni, strutture, reti di iniziative. L’incastro dei tre poteri statuali, di per sé, non risolve il problema della certezza del diritto. Servono altri accorgimenti. E, nelle pieghe della società civile, sono indispensabili solidi organismi capaci di svolgere autonome funzioni politiche e culturali.

Meccanismi di protezione dall’abuso di potere e congegni per la tenuta del sistema politico richiedono una cultura civica, forme di partecipazione, l’organizzazione plurale dei soggetti. Il programma che Gramsci tratteggia è quello di «costruire nell’involucro della società politica una complessa e bene articolata società civile, in cui il singolo individuo si governi da sé, senza che perciò questo suo autogoverno entri in conflitto con la società politica» (Q, 1020). Al disegno liberale classico, che vedeva solo due poli, lo Stato astratto e l’individuo irrelato, Gramsci aggiunge una terza dimensione: una variegata società civile capace di presentarsi con le sue formazioni plurali operanti nella quotidianità. Riconoscendo un qualche debito verso Hegel, i Quaderni fissano nella “società civile articolata”, oltre che una garanzia reale rispetto all’arbitrio del potere, anche il campo della mediazione, che assicura una vita democratica consolidata proprio grazie al ponte di collegamento tra la sfera rappresentativa-generale e l’ambito economico-particolare.

Per primo fu Norberto Bobbio (Gramsci e la concezione della società civile, Feltrinelli, 1976) a rilevare una diversità rispetto alla marxiana società civile intesa come elemento di “causazione meccanica” della struttura economica. Al terreno delle relazioni materiali Gramsci non sostituisce, ma aggiunge, la considerazione di una multiforme società civile. Oltre alla trama delle classi, essa contiene infatti anche ambiti della soggettività che la rendono il luogo della mediazione, della cultura, degli apparati educativi, delle sovrastrutture di socializzazione.

Per un verso, la politica moderna richiede una sfera astratta e separata dallo Stato che trascende il corporativismo dei micro-interessi e scavalca il localismo dei piccoli territori. Per un altro, la tendenza a cucire relazioni spinge oltre l’atomismo di individui che vagano senza legami. Gramsci scorge nel moderno le dinamiche che inducono a riprodurre connessioni, istanze di associazione, processi di mobilitazione: «Il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile» (Q, 1346).

Da un lato, la società civile comprende la famiglia, il vicinato, le reti comunitarie o “rapporti sociali”. Dall’altro, in essa affiorano i momenti della pressione collettiva, i costumi, la moralità, le forme relazionali non sollecitate dal meccanismo sanzionatorio, i modi di pensare, le superstizioni. Una dinamica sociale ricca di esperienze e la diffusione di pratiche partecipative sono tratti caratteristici del moderno, che proprio nella società civile sviluppa il campo dell’egemonia politica e culturale. Società civile è anche l’individuo, ma colto nella sua fisionomia di socius che nelle esperienze mondane si aggrega, si organizza con altri in un gruppo.

Nella “struttura massiccia delle democrazie moderne” contano le ideologie e le “associazioni della vita civile”, le “trincee” e le “fortificazioni permanenti” rappresentate dalle “grandi organizzazioni popolari di tipo moderno”. Considerata la nuova configurazione sociale, che ospita formazioni economiche insieme ad organismi collettivi con una proiezione politica generale, è indispensabile per Gramsci estendere la nozione di sovrastruttura. Grazie ad una più ricca articolazione della società civile, che oltrepassa l’economico per accogliere anche le strutture del pluralismo organizzato, si creano le condizioni perché si diffondano molteplici soggettività. Di riflesso, la società politica si amplia, per cui non “è tutto lo Stato”. La statualità, che non è tutta racchiusa nello Stato-governo che amministra l’uso della forza legittima, si presenta anche sotto le insegne dello Stato-comunità, ossia sviluppa momenti di sintesi con i caratteri della società civile. Si affaccia definitivamente una dimensione pubblica allargata, che supera lo Stato-coercizione.

La tendenza del ‘900 è quella di ridimensionare la centralità direttiva dello Stato quale entità che ha il monopolio delle funzioni pubbliche, per definire una società politica come realtà più inclusiva rispetto alla mera statualità e aperta ai mondi vitali della società civile (sindacati, partiti, associazioni). Il quadro concettuale abbozzato da Gramsci appare come “mediato da due tipi di organizzazione sociale: a) dalla società civile, cioè dall’insieme di organizzazioni private della società, b) dallo Stato” (Q, 476). La società civile, più che una semplice somma di individui, indica una sfera caratterizzata da organismi strutturati che si rapportano l’uno con l’altro e tutti, nel loro insieme, con il momento della statualità.

Questa significativa estensione delle figure espressive di politicità, che oramai scavalcano lo Stato, dimostra che le formazioni sociali e i movimenti d’opinione, uniti ai rapporti di forza reali, incidono sull’effettiva dislocazione del potere. La crescita effettiva della capacità auto-organizzativa della società civile e la maturazione ad ogni livello di istanze soggettive in grado di influire sui processi collettivi non vengono considerate da Gramsci in alternativa alla sfera politica, dove operano partiti e organi istituzionali, ma come componenti essenziali di un potere responsabile che non travalichi rispetto ai compiti direttivi e integrativi riconosciuti dalle forme giuridiche moderne.

Su questa base affiorano i limiti ideologici delle teorie liberali, che, in nome di una statica separazione tra Stato e società, prospettano la figura dello Stato minimo, il quale monopolizza i beni pubblici puri e affida al mercato la cura dell’interesse particolare. Le sue attribuzioni, annota Gramsci, si contraggono sino a configurare “uno Stato le cui funzioni sono limitate alla tutela dell’ordine pubblico e del rispetto delle leggi. Non si insiste sul fatto che in questa forma di regime (che poi non è mai esistito altro che, come ipotesi-limite, sulla carta) la direzione dello sviluppo storico appartiene alle forze private, alla società civile, che è anch’essa «Stato», anzi è lo Stato stesso” (Q, 2302).

Nei teorici liberali la distinzione tra Stato e società (ridotta a spazio immateriale degli scambi) perde rigore analitico e diventa una maschera dell’ideologia. La rivendicazione di una distanza tra pubblico e privato, in nome dell’autonomia del calcolo economico, è anch’essa il risultato di una soluzione politica che fissa una particolare configurazione dei rapporti tra società e Stato, governo e attività economica. Anche il liberismo, che restituisce iniziativa alle forze private, invoca una decisione politica, al pari delle politiche pubbliche di regolazione che accorciano il divario tra Stato e società. Nelle dinamiche del ‘900 affiora un impasto di interessi economici e regole giuridiche per cui, entro certi versi, “società politica e società civile sono una stessa cosa” (Q, 460).

Riconosciuto questo processo di integrazione tra pubblico e privato, Gramsci non accetta però la lettura proposta da Gentile, secondo cui è ormai un fatto storicamente realizzato l’unità tra società e Stato dato che quest’ultimo rappresenta l’intero. Alla tendenza che intreccia politica ed economia il teorico sardo contrappone una contestuale richiesta di differenziazione, per cui, parlando di Stato, bisogna “distinguere tra società civile e società politica, tra dittatura ed egemonia” (Q, 1425). Non è possibile esaltare alla maniera di Gentile la ritrovata osmosi (sostanziale, di stampo etico-politico) tra società e Stato, perché gli assetti materiali continuano ad operare secondo la logica dell’accumulazione e le forme del potere registrano rigide esclusioni del pluralismo. Proprio il ricorso a misure coattive per l’esercizio della forza rivela l’assenza di ogni effettiva ricomposizione tra le due sfere. La demarcazione tra dittatura ed egemonia è l’anello mancante della filosofia politica di Gentile, che non offre una soluzione convincente ai dilemmi della rappresentanza dinanzi alle trasformazioni dell’epoca.

Il problema degli istituti rappresentativi e la funzione della società civile sono invece al centro della riflessione gramsciana. Nei regimi dove assenti risultano i filtri e le dense articolazioni del pluralismo, proprio la mancanza di una mediazione della società civile accentua i ritrovati del populismo autoritario capace di sedurre individui atomizzati. La capacità di resistenza del sistema democratico dinanzi all’impatto della crisi economica, del disagio sociale, delle manifestazioni di piazza e del ribellismo polimorfo dipende anche dalla costruzione di reti connettive, credenze comuni, strutture che conservano l’ordine sociale anche senza il diretto intervento del momento coercitivo. Privi di una fitta trama di soggetti della mediazione, collocati tra Stato e società, i regimi politici di massa non si consolidano. Le gracili istituzioni di governo liberale, ancorate a un quadro parlamentare statico e alle scorciatoie del trasformismo, si presentano come entità evanescenti, sprovviste di anticorpi ed esposte a miti distruttivi o seduzioni cesaristiche.

Anche le forze del cambiamento non possono trascurare la funzione costruttiva dei corpi intermedi. Senza il pluralismo organizzato di una società civile vertebrata, proliferano sedimentazioni spontaneistiche, pratiche unilaterali di rivolta sognate dal sindacalismo rivoluzionario, suggestioni antipolitiche. Gramsci è ben consapevole che, quando saltano i soggetti della mediazione politica, può prevalere la soluzione carismatica, l’elemento teatrale, il mito della decisione fulminea che sospende i riti della rappresentanza e costringe alla resa. Michele Prospero 28 Maggio 2023

I Quaderni 100 anni dopo. Antonio Gramsci era contro i governi tecnici, sono la resa della politica. L’allestimento di larghe coalizioni accresce la vulnerabilità di un sistema in preda alle forti contestazioni che vengono alimentate enfatizzando l’estraneità del ceto politico rispetto all’opinione pubblica tradita. Michele Prospero su L'Unità il 2 Giugno 2023

I governi tecnici sono un ritrovato specificamente italiano, anche se non mancano delle occasionali imitazioni in giro per l’Europa. Per uscire dalle crisi determinate da situazioni emergenziali, affrontare congiunture assai impegnative che richiedono sacrifici nel campo della politica economica e finanziaria, o anche gestire una qualche questione “morale” scoppiata all’improvviso, sono stati inventati i governi di larghe intese o di unità nazionale. La convinzione di Gramsci è che l’efficacia di questi rimedi di carattere eccezionale è alquanto dubbia.

In frangenti difficili si diffonde un attivismo ansiogeno volto a “formare il governo per salvare il paese”. Le forze politiche (in sofferenza per via delle “crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti”), le fazioni, ma anche le singole personalità, considerata la “moltiplicazione dei partiti parlamentari”, danno luogo a “contrattazioni cavillose e minuziose” per assicurare la governabilità.

L’allestimento di larghe coalizioni, con l’invenzione di soluzioni ibride sospese tra politica e tecnica, accresce la vulnerabilità di un sistema in fibrillazione, in preda alle forti contestazioni che vengono alimentate enfatizzando l’estraneità del ceto politico rispetto all’opinione pubblica tradita. I partiti sono in difficoltà dinanzi alla scarsa possibilità degli elettori di distinguere ancora tra le forze in campo, e in questo clima di ammucchiata prosperano movimenti antipolitici e di protesta.

L’antipolitica non è la causa della degenerazione e del collasso della “funzione egemonica”, piuttosto, intesa come mobilitazione irregolare, essa ricava la sua forza effettiva dalla crisi della capacità rappresentativa dei partiti e dei soggetti sociali. Gramsci invita perciò a riflettere su “come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica”.

Quando la normale conflittualità democratica è sospesa, in vista di una convergenza occasionale ritenuta la sola in grado di salvare il paese dalla catastrofe, diminuiscono le capacità di risposta della politica e, al posto di quest’ultima, emergono altri poteri non legittimati dal voto. I partiti, affidando il governo delle situazioni critiche ad agenti esterni, smarriscono la propria funzione e, ritirandosi dalla cabina di comando proprio nel cuore dell’emergenza, si presentano come degli organismi surrogabili perché inessenziali. Soprattutto il ricorso a soluzioni tecniche, maturate al di fuori della contesa elettorale, accentua la crisi di rappresentanza e lascia deperire il senso della missione delle forze politiche.

Nella crisi della funzione egemonica delle classi dirigenti, che si verifica in frangenti storici particolari, emergono gruppi eterogenei i quali intendono sostituire i soggetti organizzati cavalcando la regressione della politica dal piano dell’“egemonia” e della “catarsi” culturale a quello del mero fatto economico, dell’interesse corporativo statico. I ceti politici non scompaiono; accade semplicemente che “al partito politico e al sindacato economico «moderni» si «preferiscono» forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo «malavita»; quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari sia legate alle classi alte” (Q, 815).

L’antipolitica è una manifestazione ricorrente nella storia d’Italia: contro la politica organizzata e il parlamentarismo, si sollevano periodicamente ondate di delegittimazione che invocano trasparenza e riprovazione di ogni compromesso. Mentre declina la rilevanza del partito quale regista del governo parlamentare, caduto in discredito e aggredito da un uso demagogico della lotta alla “casta”, cresce la presa sociale degli organismi non maggioritari, cioè l’influenza di centri non misurati dal consenso elettorale, come la burocrazia, la finanza, i media.

Se i poteri tecnici denunciano la scarsa autorevolezza del ceto politico e la sua incapacità nel cogliere la complessità delle sfide epocali, le campagne di opinione che inneggiano all’“onestà” ricorrono all’esaltazione di una interpretazione moralistica della funzione pubblica che, dietro l’apparenza di una lotta senza quartiere contro la “corruzione”, in realtà rifiuta le regole della democrazia, le mediazioni, gli istituti del pluralismo.

Nell’indagine gramsciana sulle “cause della catastrofe”, emerge il ruolo di strutture che alimentano la fabbrica dell’“apoliticità irrequieta” della società civile e aggrediscono la forma politica con la riduzione dei vari schieramenti a scandalo, inciucio, cricca. Rispondendo al dialetto demagogico con la responsabilità dei governi a base tecnica, i partiti in declino accelerano la loro eutanasia e alimentano il fuoco della semplificazione antipolitica con cui proliferano le candidature più o meno carismatiche.

Gramsci è persuaso che il governo di grande coalizione, in tempi di dissoluzione sistemica che affiorano quando improvvisamente “l’apparato egemonico si sgretola”, non è in alcun modo “il più «solido baluardo» contro il cesarismo”. Espressione di consueti movimenti trasformistici, condotti all’insegna della prudente arte dell’assorbimento degli eterogenei soggetti barbarici visti come esemplari alieni da romanizzare, esso rappresenta “un grado iniziale di cesarismo”, non certo un argine alla dissoluzione egemonica in corso (Q, 1620).

Il profilo del capo, che si propone al pubblico con velleità magiche, non conta per le sue effettive capacità di direzione, la sua reale levatura di statista, le sue doti fuori dal comune. Per questo motivo anche indossando una maschera della tradizione popolare è possibile ascendere alla scrivania di Palazzo Chigi. Gramsci è chiaro al riguardo: “Si può avere soluzione cesarista anche senza un Cesare, senza una grande personalità «eroica»” (Q, 1195). Figure scialbe o puramente demagogiche sono agevolate nella loro scalata dalle facili denunce – spesso alimentate dalle politiche inerziali dei governi di unità nazionale – del fallimento dei partiti, che vengono dipinti come un corpaccione di eguali.

Le insidie contenute nelle fasi di larga coalizione si avvertono soprattutto in sistemi politici come quello italiano, nel quale spicca, a destra, la mancanza di “un vasto partito conservatore” capace di arginare le variegate forze antisistema “che negano in tronco tutta la civiltà moderna e boicottano lo Stato”. Il disarmo dei partiti, che rinunciano a rappresentare con creatività la sintesi tra classe e progettualità, spiana la strada agli stivali di un Cesare, il quale si impone recitando il copione della velocità, della disintermediazione, della decisione.

Per smontare la macchina seduttiva del capo carismatico, Gramsci sconsiglia di imitare le risorse simboliche e linguistiche dell’avversario. E insiste, piuttosto, sulla necessità di un paziente lavorio di ricostruzione del soggetto e delle forme della mediazione politica. Secondo il normale funzionamento del regime rappresentativo, in aula “uno degli indirizzi politici diventava «statale» in quanto il gruppo parlamentare del partito più forte diventava il «governo» o guidava il governo. Che, per la disgregazione parlamentare, i partiti siano divenuti incapaci di svolgere questo compito non ha annullato il compito stesso né ha mostrato una via nuova di soluzione: così anche per l’educazione e la messa in valore delle personalità” (Q, 1809).

La crisi del parlamentarismo e la decomposizione delle forze organizzate tradizionali, incapaci di progetto e di egemonia, fanno saltare gli equilibri della rappresentanza. Dinanzi all’erosione dell’ordine politico, è vana l’operazione di scimmiottare il nuovo che avanza: l’originale vince sempre sulle cattive imitazioni. Gramsci si concentra perciò sulla necessità di non rinunciare al governo parlamentare perché, anche se il modello è in crisi da quando i partiti sono allo sbando, l’incapacità di rappresentare nelle assemblee le differenze “non ha annullato il compito stesso”.

La ricerca di “vie nuove” non prevede la ricusa del parlamentarismo, che, nonostante i suoi acciacchi procedurali, rimane un modello politico più efficace di altre forme organizzative del potere pubblico. Le alternative alla democrazia parlamentare sono ben peggiori. Non solo in Germania, la pratica plebiscitaria dell’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica ha alimentato i miti romantici del sangue e della terra. Anche entro regimi non dissolti nel culto della persona, si pongono problemi di orientamento, controllo, limitazione delle masse.

È anche questa la ragione dell’ostilità di Gramsci alla “rivendicazione popolare elementare” che nelle Repubbliche spinge per “l’elezione a tempo del capo dello Stato” offrendo, però, solo “una soddisfazione illusoria” (Q, 752). In tempi di crisi del carattere rappresentativo delle liberaldemocrazie, e di irruzione di leader dal preteso tocco provvidenziale che si esibiscono in pubblico gridando che “la pacchia è finita”, le categorie di Gramsci tratteggiano una mappa concettuale che le culture democratiche devono recuperare per scongiurare la catastrofe degli ordinamenti costituzionali da anni sotto assedio. Michele Prospero 2 Giugno 2023

Nasce e muore facendo politica. Enrico Berlinguer, il trascinatore gentile: “La mia fortuna? Fedele agli ideali della mia gioventù”. La rubrica “Uomini forti, destini forti” di Carmine Abate. Storie di uomini e di donne che con la loro vita hanno reso grande il nostro Paese. Carmine Abate su Il Riformista il 21 Luglio 2023

Enrico Berlinguer è stato tante cose. Un punto di riferimento trasversale. Il comunista che riusciva a mettere d’accordo gli avversari. Lo stile calmo e sobrio, il carattere mite ma deciso, il sorriso malinconico e speranzoso, i modi da uomo perbene, non potevano lasciare indifferenti nemmeno gli opposti schieramenti politici. Probabilmente è anche grazie a queste caratteristiche umane che Moro trovò in lui il riferimento ideale per mettere in campo un progetto politico senza precedenti, tentando di avvicinare mondi apparentemente antitetici.

Enrico Berlinguer nasce a Sassari, in Sardegna, nel 1922. Ha una formazione classica; frequenta la facoltà di Giurisprudenza della sua città, senza però completare gli studi. Dalla stessa città proviene anche un altro protagonista indiscusso della nostra Repubblica, nonché cugino di Berlinguer: Francesco Cossiga. Il giovane Enrico si iscrive al Partito Comunista Italiano nel 1943 e dirige la sezione giovanile a Sassari. Conosce Togliatti l’anno successivo mentre accompagnava a Salerno suo padre, che era stato compagno di liceo del leader comunista.

Non impiega molto a fare colpo su Togliatti e a trasferirsi a Roma per lavorare come funzionario nel PCI. Nel 1946 diventa segretario del Fronte della Gioventù e riesce addirittura ad avere un breve incontro con Stalin a Mosca. È una continua scalata nel partito quella di Berlinguer, che viene nominato prima segretario della FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana) e poi ottiene il suo primo incarico internazionale con la nomina al vertice della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica.

La carriera fulminea del ragazzo sardo ha una brusca frenata negli anni ’50 quando conclude la sua avventura alla segreteria della FGCI, che nel frattempo aveva perso migliaia di iscritti. Berlinguer si sposa e torna a vivere così nella sua Sardegna, a Cagliari, dove ricopre incarichi regionali. Rimane pochissimo però lontano da Roma perché Togliatti lo richiama per andare a far parte della direzione centrale del partito.

Nei primi anni ’60 le posizioni di Berlinguer si fanno notare per le crescenti rivendicazioni di autonomia rispetto alle decisioni del partito comunista sovietico. Il 1964 è un anno importante.

Togliatti muore e il segretario del PCUS Chruscev viene messo alla porta in circostanze poco limpide. Berlinguer vuole dei chiarimenti in merito e decide di recarsi a Mosca, dover ribadisce le sue perplessità sul modus operandi del partito.

Alle elezioni politiche del ’68 l’ottimo risultato personale e del partito proiettano Berlinguer verso la segreteria del PCI, ottenuta nel 1972 dopo aver battuto nel derby interno il futuro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

L’anno successivo Berlinguer è a Sofia, dove era andato a trovare il capo di Stato della Bulgaria, quando un camion militare investe la sua macchina diretta all’aeroporto. Berlinguer è vivo per miracolo. Due dirigenti del partito rimangono gravemente feriti e l’interprete muore. Soltanto molti anni più tardi Emanuele Macaluso rivelò che per Berlinguer quello di Sofia non fu un incidente ma un attentato. Il politico sardo era diventato infatti un soggetto scomodo per Mosca e non è un segreto che lui stesso si aspettasse qualche ritorsione.

Il nome di Berlinguer, come accennato prima, è associato al progetto politico di avvicinamento alla DC. Un disegno e un desiderio che lo accomunava ad Aldo Moro e che iniziò ad emergere già da alcuni articoli del leader comunista agli inizi degli anni ’70:

“Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare, questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento. Ecco perché noi parliamo non di una alternativa di sinistra ma di una alternativa democratica, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico”.

Mi paiono parole sufficienti per comprendere la chiarezza della dichiarazione di intenti di Berlinguer. Il segretario del PCI aveva capito che per realizzare concretamente le riforme che aveva in mente e di cui il Paese aveva bisogno, non si poteva prescindere dalla collaborazione con la Democrazia Cristiana. Come sappiamo, l’idea dell’ingresso a pieno titolo dei comunisti al governo ventilata da Moro, naufraga con il rapimento e l’uccisione del presidente democristiano.

Berlinguer continua il suo impegno sulla strada di quello che lui stesso definì eurocomunismo e che porta il suo PCI ad un progressivo allontanamento e quindi a un definitivo strappo con Mosca. Il politico sardo arriverà a dire in un’intervista a Giampaolo Pansa di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della NATO, non senza tuttavia evidenziare dubbi e criticità. È comunque a mio avviso indicativo il fatto che il leader del maggior partito comunista occidentale arrivi in qualche maniera a rinnegare l’Unione sovietica, aprendo le porte all’europeismo e all’atlantismo. In questo credo si sia visto tutto il pragmatismo e la lungimiranza di Enrico Berlinguer. Non rimane indifferente rispetto al marcio della politica italiana del tempo, che lui stesso denuncia in una storica intervista su Repubblica a Scalfari, ponendo il tema della questione morale.

A proposito di interviste leggendarie; nel 1983, durante una puntata di Mixer, Berlinguer spiazza tutti con una risposta apparentemente semplice ma che è rimasta impressa nell’immaginario collettivo. Alla domanda di Gianni Minoli su quale fosse la qualità a cui è più affezionato, il segretario comunista risponde: “Quella di essere rimasto fedele agli ideali della mia gioventù”.

Berlinguer nasce e muore facendo politica. L’anno successivo si trova a Padova per un comizio in vista delle elezioni europee. Mentre parla è costretto a fermarsi anche se non vorrebbe. Lo colpisce un ictus che qualche giorno dopo, l’11 giugno del 1984, lo porta a spegnersi. L’eredità umana e politica di Enrico Berlinguer è consegnata alla storia ed è ancora viva, per quanto nessuno finora sia riuscito appieno a raccoglierne il testimone, o quantomeno ad avvicinarsi all’immagine di quell’uomo esile e determinato, in grado di trascinare intere folle senza eccessi e che rimarrà per sempre nella mente degli italiani.

“Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita”

Carmine Abate. Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti

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4 dicembre 1977. Storia della vignetta di Forattini su Berlinguer che seppellì il compromesso storico. Forattini su “Repubblica” ritrae il leader del Pci in pantofole mentre sorseggia il thè disturbato dalla eco di massa proveniente dalla piazza. Duccio Trombadori su L'Unità l'8 Luglio 2023 

L’indimenticabile e maledetto 1977. Il PCI, dopo un balzo elettorale che lo aveva portato quasi alla pari con la DC, sosteneva con l’astensione parlamentare (la “non sfiducia”) un governo monocolore presieduto da Giulio Andreotti, con l’impegno a fronteggiare una assai brutta situazione economica e sociale (inflazione, recessione, debito pubblico) in presenza di una strisciante guerra civile alimentata, se non auspicata, da varie forze interne e internazionali, con la presenza di gruppi estremisti armati, di sinistra e di destra, infiltrati e organizzati, in parte clandestini, nel mondo del lavoro e in quello studentesco, che scuotevano seriamente le fondamenta delle istituzioni democratiche.

Berlinguer, con equilibrio e tenuta ideologica, aveva intrapreso e sostenuto la controversa politica di ‘austerità’ (condizione necessaria per affrontare la crisi) generando malumori esterni ma anche interni al Partito comunista e al sindacato CGIL dove, in polemica con Luciano Lama, varie correnti (soprattutto i metallurgici) mal digerivano i sacrifici richiesti e reclamavano a parole una ‘sterzata a sinistra’ sul piano politico. La quale si annunciò il 2 dicembre 1977, qualche giorno dopo l’assassinio brigatista del giornalista de La Stampa Carlo Casalegno, con lo sciopero generale ed una imponente manifestazione nazionale operaia di CGIL-CISL-UIL, che sfilò per le vie di Roma reclamando una svolta nella politica economica.

Fu quella un’evidente “pressione dal basso” sulla politica del PCI considerata troppo “attendista”. A dare manforte ci si mise pure Forattini, che pubblicò una vignetta con Berlinguer in pantofole mentre sorseggia il thè disturbato dalla eco di massa proveniente dalla piazza. Quella vignetta produsse il suo notevole effetto. Quasi per reazione a quell’immagine che lo canzonava, il segretario del PCI puntò diritto dove voleva, forse, già andare: vale a dire a far cadere il governo Andreotti per ottenere l’ingresso diretto del PCI in una maggioranza di governo con la DC.

Se questa era l’idea perseguita da Berlinguer, tale non sembrava essere quella di buona parte del PCI, per diverse ragioni, a partire dalla cosiddetta ‘destra’, che temeva di toccare equilibri interni e internazionali: ricordo in proposito il disappunto di Paolo Bufalini, quando esponeva le sue inquietudini in privato, parlando con mio padre, durante gli abitudinari incontri al desco de La Carbonara; ma soprattutto non corrispondeva al progetto di Aldo Moro, il quale, nel suo previdente temporeggiare, se non escludeva le intese con il PCI, aveva però sempre precluso l’ipotesi di un governo con i comunisti.

Forse toccato dalla vignetta di Forattini (che fece clamore, con sommo gaudio di Scalfari per le vendite di Repubblica) o forse no, fatto sta che Enrico Berlinguer da quel momento accelerò la scalata alla ‘stanza dei bottoni’ (fino al punto di dichiararsi favorevole anche ad una improbabile maggioranza “laica” senza la DC) e aprì una crisi di governo -forzando le intenzioni del Presidente democristiano- che iniziò nel gennaio 1978 e si concluse il 16 marzo 1978 sull’onda emotiva del tragico sequestro di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta da parte dei ‘comunisti combattenti’ delle Brigate Rosse.

Perché Berlinguer ebbe timore di vedersi caricaturato con le pantofole e il giornale in poltrona, davanti ad un thè fumante, non mi è mai risultato chiaro. Più chiari e anche purtroppo più infausti mi sono sempre apparsi i risultati della sua reazione a quella simbolica e compromettente vignetta.

Duccio Trombadori 8 Luglio 2023

Le figure a confronto. Berlinguer e Matteotti erano più simili di quanto si possa pensare. Si mossero ovviamente in contesti e tempi diversi, ma furono entrambi due riformisti atipici, rispetto al retroterra che li legava a Pci e Psi. E furono accomunati anche dal no al massimalismo. Roberto Morassut su L'Unità il 9 Giugno 2023

 Il 13 giugno, a Roma, la Fondazione Matteotti metterà a confronto, in un convegno originale, le figure di Giacomo Matteotti e di Enrico Berlinguer. I puristi già alzano il sopracciglio. Ma perché questa iniziativa? Giacomo Matteotti ed Enrico Berlinguer sono stati due grandi leader della sinistra e del socialismo italiano del Novecento, di cui stiamo celebrando i centenari, rispettivamente della morte e della nascita. Due leader ancora molto amati nonostante il tempo trascorso.

Due leader molto diversi e lontani sia temporalmente che politicamente; divisi dalla frattura storica tra socialisti e comunisti e da quella della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, seppur lontani e diversi Matteotti e Berlinguer furono due riformisti atipici nei loro rispettivi partiti. Per Berlinguer si può parlare, più opportunamente, di revisionismo anche se questo termine ha sempre avuto nel vocabolario comunista il senso di un disvalore, oggi fugato. Il riformismo in Matteotti si espresse nel costante tentativo di tenere unite le grandi idealità del socialismo come la giustizia sociale e la pace ed il gradualismo, la concretezza, il pragmatismo, lo studio concreto dei fatti e dei problemi attraverso i quali conseguire conquiste parziali ma fattuali.

Il rifiuto del massimalismo non si scoloriva mai nella svalutazione della frontiera ideale, che restava invece viva e pulsante. Per Matteotti il riformismo non fu mai opportunismo ma scelta ideale e vera strategia di lotta per il raggiungimento finale del socialismo inteso come sintesi di libertà e uguaglianza. Questa considerazione (o costatazione) può apparire banale ma non lo è se si considera invece la modesta fortuna che il riformismo socialista ebbe dagli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale fino, di fatto, alla fine del secolo XX. Il riformismo socialista italiano si è infatti spesso confuso con l’opportunismo e l’idea che si potessero determinare cambiamenti decisivi degli equilibri sociali gestendo pressoché esclusivamente posizioni di governo o di potere.

Veniamo a Berlinguer. Il revisionismo di Berlinguer fu la continuazione e lo sviluppo di un revisionismo iniziato con Togliatti ed ancor prima con Gramsci sui nodi cruciali della democrazia, delle vie per il raggiungimento del socialismo, del rapporto con l’Unione Sovietica.

Questo non salvò però il Pci da un messianesimo di fondo che lo tenne distante dal nodo del governo, almeno fino alle grandi vittorie nelle città della metà degli anni 70. Berlinguer, divenuto segretario nei primi anni 70, nel pieno di una grave crisi della democrazia italiana che rischiava, tra il terrorismo e le pulsioni golpiste di essere travolta, si trovò in condizioni analoghe a quelle di Turati e Matteotti alla vigilia dell’avvento del fascismo.

E anche se gli esiti delle due situazioni furono diverse entrambi dovettero fare i conti con la potente spinta al cambiamento delle masse, i rischi di divisioni interne e di sviluppo di frange estremiste e con la cecità reazionaria della borghesia italiana – nel primo caso – o della forza soverchiante degli equilibri internazionali nel secondo caso. Tanto i socialisti riformisti, quanto i comunisti italiani dovettero operare per tenere insieme la prospettiva generale del cambiamento e del socialismo con scelte politiche immediate e concrete sotto la pressione di forti spinte massimaliste, ideologiche o eversive capaci di confondersi e saldarsi con il fascismo stesso.

Naturalmente lo fecero in contesti completamente diversi ma in un Paese come l’Italia che sempre ha dimostrato la sua resistenza al cambiamento, la forza del suo retroterra conservatore e reazionario disposto a tutto pur di fermare l’ascesa dei lavoratori. C’è tuttavia un ultimo punto comune che va messo in luce e riguarda il loro profilo morale, assolutamente eccezionale e raro nel panorama politico italiano di sempre. Matteotti individuò subito il fascismo come un avversario irriducibile della democrazia e col quale era impossibile giungere ad alcun compromesso. Egli individuò il rapporto tra il fascismo, come nuova forma politica generata dalla disgregazione della democrazia liberale, l’affarismo della nuova classe politica salita al potere (il caso Sinclair Oil) e l’attacco alle posizioni della classe operaia attraverso l’attacco alla democrazia. La “questione morale” fu per lui una questione politica e sociale al tempo stesso.

Berlinguer fu segretario nel momento più critico della democrazia italiana tra gli anni 70 e 80. Si rese conto di come la condizione di democrazia bloccata stesse logorando le istituzioni repubblicane e i partiti e favorendo l’irruzione della violenza e del terrorismo nella politica; uno scenario simile a quello degli anni Venti con l’aggravante di un degrado morale degli stessi partiti. La paura della borghesia italiana e della Corona, negli anni di Matteotti – da un lato – e il timore di un ingresso dei comunisti al governo da parte del blocco militare occidentale – dall’altro – condussero, per un verso, alla fine della democrazia liberale e – per altro verso – alla crisi della democrazia repubblicana fondata sui partiti di massa, trasformati in macchine di potere.

Ed è qui, in questo nesso tra reazione e illegalità o addirittura crimine, molto simile a quello colto e denunciato da Matteotti, che Berlinguer individuò il valore politico e sociale della “questione morale” nella sua famosa intervista della fine di luglio del 1981. Due leader animati da un senso etico della loro missione e da un profilo ideale limpido accompagnato però da un senso pragmatico che oggi, in un’era di politica debole, li rende ancora moderni, popolari e amati.

Di Roberto Morassut Deputato Pd e Vice presidente della “Fondazione Giacomo Matteotti” 9 Giugno 2023

La figura del leader Pci. La lezione di Enrico Berlinguer: prima di essere un politico era un uomo leale con il popolo. Perché il dolce Enrico è stato tanto amato? Perché era ieratico, dicevano. Ma soprattutto perché, prima d’essere un politico, era un uomo leale col popolo. Danilo Di Matteo su L'Unità il- 8 Giugno 2023

In un libro-intervista del 1999 di Nicola Guiso a Sandro Fontana si può leggere, tra l’altro: “Donat-Cattin fu però quasi solo a non credere all’eccezionale statura politica di Berlinguer…”. “È vero. A tanti, forse affascinati dalla figura ieratica, dallo stile sobrio e dalla severità dei costumi del segretario comunista sfuggiva che le sue proposte politiche spesso erano viziate da moralismo, oppure da tatticismo derivato in maniera acritica dalla tradizione togliattiana e gramsciana del Pci; e che non potevano non risultare inadeguate rispetto ai problemi vitali e complessi della società italiana”. Tanto che il leader di “Forze nuove” giunse a definire il leader comunista “un commesso di Togliatti”.

Ipotizziamo per un istante che ciò corrisponda al vero. Come mai Berlinguer è stato, come direbbe Emanuele Macaluso, “il segretario più amato”? Perché in tanti, con la testa, con il cuore o con la pancia poco importa, continuano a dire “Se ci fosse Berlinguer!” oppure, semplicemente, “Quando c’era Berlinguer…”, dove i puntini di sospensione paiono più espressivi di mille discorsi? Qualcuno evoca come spiegazione addirittura il suo volto scarno o il suo aspetto gracile e indifeso, tali da suscitare tenerezza.

Discorsi come quello di Fontana, in realtà, presuppongono una divisione netta e un abisso tra la dimensione propriamente politica (il politico, direbbe Carl Schmitt) e “il resto”. Così non è, non può essere. Accanto alla politica, alla sfera del “politico”, non vi è (solo) l’apolitico, o l’impolitico. Vi è piuttosto anche uno spazio (soprattutto pubblico) prepolitico e, magari, post-politico. Uno spazio tale da preparare o da anticipare la gestazione di proposte politiche e da dare loro un senso, una direzione. Uno spazio, poi, in grado di suscitare stati d’animo squisitamente politici, più che mai politici: la fiducia e la credibilità prima di tutto. Proprio gli ingredienti che oggi sembrano quasi introvabili, in politica e non solo.

Inoltre, a proposito del “post-politico”, vi è la capacità di guardare oltre le strettoie della cronaca, oltre i limiti angusti di un presente scialbo: si guardi all’intervista rilasciata dal leader comunista nel dicembre 1983 per l’inserto de l’Unità dedicato all’utopia negativa di George Orwell oppure alla considerazione senza pari che egli nutriva per la “questione femminile”, cogliendo mirabilmente, ad esempio, il nesso tra emancipazione e liberazione della donna, delle donne. Uno dei pochi grandi temi, forse l’unico, che dagli anni Sessanta giunge sino a noi, attuale e delicato più che mai. (Anche) questo è stato il “dolce Enrico”.

Di Danilo Di Matteo 8 Giugno 2023

Berlinguer e quel patto con la DC che poteva cambiare tutto: ma la morte di Moro spazzò via il sogno Paolo Franchi su L'Unità il 18 Maggio 2023

La sera del 21 giugno 1976 si assiepò sotto le Botteghe Oscure, per festeggiare il più grande successo elettorale del Pci, una folla mai vista, quasi una rappresentazione fisica del 34 e rotti per cento che aveva votato comunista: vecchi militanti e allegre famigliole coi bambini, materialisti storici (e talvolta anche dialettici, alla faccia di chi erroneamente pensava che l’unico vero merito di Federico Engels fosse quello di aver mantenuto Carlo Marx) e cattolici praticanti, quadri di partito da una vita “sdraiati sulla linea” e gruppettari che avevano votato comunista seguendo l’indicazione di Lotta Continua, femministe non ancora diventate “storiche” e compagne dei quartieri popolari e delle borgate tuttora ispirate al modello dell’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, borghesi (piccoli, medi, e pure grandi) e proletari (in molti casi, sottoproletari).

Verso le dieci Berlinguer parlò a questa folla osannante: grazie compagne e compagni, la nostra avanzata è straordinaria in tutto il Paese, festeggiamola e, da domani, ancora al lavoro e alla lotta, perché nuovi e difficili compiti ci attendono. Bene, benissimo, nessuno si aspettava, nell’ora della grande festa, riflessioni particolarmente approfondite su un voto che pure, di lì a poco, a molti dirigenti del Pci (ricordo per tutti Gerardo Chiaromonte, uomo di finissima intelligenza e di cosmico pessimismo) sarebbe parso paradossalmente eccessivo, perché rovesciava sul partito un sovraccarico di domande spesso contraddittorie a dir poco.

Nanni Moretti, nel Sol dell’Avvenire, indica in chiave onirica nel 1956 la grande occasione persa dal Pci: se Togliatti, invece di schierarsi con l’Unione Sovietica, avesse preso le parti degli insorti di Budapest, la nostra storia e pure le nostre storie sarebbero andate molto diversamente. Sicuramente è così, ma sul piano storico e politico una simile scelta era, per il Migliore e per la grande maggioranza del partito di allora letteralmente impensabile: se le nostre nonne avessero avuto le ruote, anche il traffico urbano sarebbe oggi assai diverso.

Vent’anni dopo, però, le cose stavano in tutt’altro modo. Non solo perché i comunisti italiani, soprattutto a partire dal “grave dissenso” e dalla “riprovazione” manifestati nel 1968 a proposito dell’invasione della Cecoslovacchia, avevano fatto significativi passi avanti sulla strada della revisione e dell’ autonomia dall’Unione Sovietica, e Berlinguer era giunto a dichiarare di sentirsi più tranquillo sotto l’ombrello della Nato. Ma anche, e soprattutto, perché il voto del 20 e del 21 giugno, per eterogeneo che fosse, una evidenza la esprimeva: un terzo degli elettori italiani aveva messo una croce sul simbolo comunista (“il primo, in alto, a sinistra”, si ricordava fino all’ultimo con orgoglio agli elettori più anziani e/o meno acculturati) perché vedeva nel Pci “di lotta e di governo” la forza principale di una possibile alternativa, o meglio di una successione democratica alla Dc, che alla guida del governo ci stava ininterrottamente da trent’anni. Allora mi chiedo, anch’io in chiave onirica, si parva licet alla Moretti, quale altro corso avrebbe preso la nostra storia se Berlinguer, nella tarda serata di quel 21 di giugno, avesse semplicemente detto: “Abbiamo vinto in due, il Pci e la Dc, e questo impone a noi e a loro di trovare un qualche accordo per dare un governo al Paese. Ma il voto al Pci esprime una domanda di cambiamento politico e sociale, in una parola di alternativa, fortissima. Per non deluderla, per non restare in una situazione di stallo, dobbiamo cambiare anche noi”.

Ma Berlinguer queste parole non le disse. Di un revisionismo comunista (teorico, culturale, politico, organizzativo e, perché no, anche storico) che avrebbe dato linfa vitale alla costruzione, in forme originali, di quella presenza egemone di un partito socialista che in Italia, caso unico nel panorama europeo, non è mai esistita, quasi non ci fu traccia: anzi, cominciarono a manifestarsi da subito i segnali della guerra civile a sinistra destinata a concludersi, di lì a non troppi anni, con la comune rovina delle parti in lotta. Finita con l’assassinio di Aldo Moro la stagione dell’unità nazionale, il Pci – quello di Berlinguer, e ancora di più quello dei suoi successori – si ritrovò privo di una prospettiva politica. Ed entrò in agonia, una lunga agonia, ben prima del 1989, sul finire del quale Achille Occhetto, per evitare che quanto restava del suo esercito restasse intrappolato sotto le macerie del Muro di Berlino, promosse non una revisione, ma (per paradosso inspirandosi alla tradizione della Terza Internazionale) una svolta, assai più radicale di quella di Salerno. O meglio, disse lui (ispirandosi inconsapevolmente al medesimo slogan di Ronald Reagan nelle elezioni presidenziali del 1980), un Nuovo Inizio.

Probabilmente non poteva fare altrimenti, il “fattore tempo” di cui parlava Giorgio Amendola giocava contro di lui. Ma lo stile, politicista e scanzonato, fu quello dei parlamentini universitari seppelliti dal Sessantotto, e segnatamente dell’Unione goliardica italiana, di cui era stato (come Marco Pannella, ma pure Bettino Craxi, Gianni De Michelis e, per parte comunista, Claudio Petruccioli) un esponente importante. La storia, la tradizione, la cultura politica, il modello di partito del Pci, mai sottoposti a una seria revisione che mettesse in chiaro ciò che si dava per morto e sepolto e ciò che invece si considerava vivo e vitale, furono accantonati, o, per essere più precisi, sempre più vigorosamente sospinti sotto il tappeto; e ogni richiamo a quello che un tempo si chiamava il movimento operaio e socialista soppresso anche nel nome del nuovo partito, il Pds (co – erede, assieme a Rifondazione comunista, del vecchio Pci), non casualmente definito, prima che nel 1991, a Rimini, prendesse formalmente corpo, “la Cosa”.

Tutto questo ha contribuito non poco a far sì che un’eredità difficile, ma importantissima, come quella del comunismo italiano sia stata letteralmente dissolta, come se quel “grumo di vissuto” (la definizione è di Pietro Ingrao) di intere generazioni non avesse niente da dire alle generazioni successive, e non ci fosse nulla da trasmettere, se non orrori e tristezze su cui era meglio far calare l’oblio. Più tardi, mentre i post comunisti, assieme a vari altri post, in primis democristiani, si mettevano senza fortuna in caccia di una indefinibile idea politica “nuova” e del partito, anch’esso “novissimo”, in grado di incarnarla, del Pci e di ciò che esso è stato si sono occupati pressoché solo gli anticomunisti, nel migliore dei casi per farne la caricatura, nel peggiore per rappresentare la sua storia come una tragedia dai risvolti criminali ed eversivi, quanto meno alla pari, se non addirittura peggiore, di quella fascista: così che da tempo non solo sui morti di Reggio Emilia del luglio 1960, ma pure sulle migliaia e migliaia di partigiani e partigiane comuniste caduti nella Resistenza si fa pendere (magari chiamando a sostegno l’incolpevole Norberto Bobbio) il sospetto che non siano morti per la libertà e la democrazia, ma per imporre una dittatura di partito.

Trentadue anni, e trentadue anni come questi, sono molti, moltissimi. Sicuramente troppi per riesumare il Pci: ma questo non intende farlo (spero) nessuno. Forse non troppi, invece, per rielaborare la sua vicenda storica, cercando di rintracciarvi, tra tanti peccati per opere e per omissioni, tanti colpevoli ritardi, tante contraddizioni irrisolte, anche un filo rosso da tirare per contribuire alla fioritura di una forza politica popolare e di sinistra per fare l’opposizione che merita al governo più a destra della storia della Repubblica. “Un giornale è un giornale è un giornale” si diceva, parafrasando Gertrude Stein, all’Unità di una volta, per rivendicare un minimo di autonomia dal partito. “Un giornale è un giornale è un giornale”, si potrebbe dire anche all’Unità appena tornata, tanto più perché il partitone da cui essere autonomi non c’è più da un pezzo e, semmai, bisogna vedere se e come dare una mano a costruirne un altro, si tratti di un nuovo Pd o no non è qui il caso di discutere. Ditelo pure, se volete, ci mancherebbe. Ma senza dimenticare che quella vecchia storia è in una certa misura anche la vostra, per il nome che portate e non solo: chi non ha un passato, si tratti di un giornale o di un partito, non ha nemmeno un futuro. Abbiatevi intanto gli auguri di cuore di uno che un comunista italiano lo è stato per un tratto importante della sua vita, e resta convinto, sulla scia di Arthur Koestler, che la cosa più insopportabile nel fare dell’anticomunismo sia la compagnia degli anticomunisti. Paolo Franchi 18 Maggio 2023

(ANSA domenica 30 luglio 2023) È morto a 86 anni dopo una lunga malattia Vittorio Prodi, fratello dell'ex presidente del Consiglio Romano. Anche lui è stato impegnato in politica: presidente della Provincia di Bologna dal 1995 al 2004, è stato parlamentare europeo per due mandati, eletto nel 2004 per la lista di Uniti nell'Ulivo e poi nel 2009. Laureato in fisica, è stato professore all'Università di Bologna e ricercatore in vari istituti. È stato anche presidente dell'Azione Cattolica di Bologna dal 1986 al 1992.

UN ALTRO LUTTO PER IL PROFESSORE. È morto Vittorio Prodi: ex parlamentare europeo fratello di Romano. Laureato in fisica, è stato professore all'Università di Bologna e presidente della Provincia di Bologna dal 1995 al 2004. Il Dubbio il 30 luglio 2023

È morto dopo una lunga malattia a 86 anni Vittorio Prodi, fratello dell’ex presidente del Consiglio Romano. Un nuovo lutto per l’ex premier dopo la morte della moglie, Flavia Franzoni. dopo una lunga malattia.  Vittorio Prodi, fisico e docente dell’università di Bologna, era stato presidente della Provincia di Bologna dal 1995 al 2004, quando era stato eletto al Parlamento europeo per l’Ulivo. Era stato riconfermato per un secondo mandato a Strasburgo nel 2009. È stato anche presidente dell’Azione Cattolica di Bologna dal 1986 al 1992.

Tra i primi a esprimere il suo cordoglio Enrico Letta che su Twitter scrive: «Piango la scomparsa di Vittorio Prodi, amico e compagno di viaggio, sempre impegnato e attento a come coniugare al futuro i valori di giustizia e di solidarietà. Un grande, fraterno abbraccio a Romano e a tutti i suoi cari».

Per il sindaco di Bologna, Matteo Lepore «Vittorio Prodi è stato il simbolo di una stagione di impegno politico e istituzionale che sul nostro territorio, da metà degli anni novanta, ha coinvolto tante persone della cosiddetta società civile in un nuovo impegno per la collettività e il bene comune. Alla famiglia va l’abbraccio mio e della città di Bologna».

E sempre su Twitter il deputato del Pd, Lorenzo Guerini, scrive: «Ricordo con affetto Vittorio Prodi. Lo conobbi quando ero un giovane Presidente della mia Provincia: sempre prodigo di attenzione e consigli, capace di comprendere i problemi degli altri, rigoroso nel rispetto delle istituzioni. A Romano sentite condoglianze e un caro abbraccio». 

Piero Fassino vicepresidente della Commissione Difesa della Camera, manda «un abbraccio affettuoso a Romano e alla famiglia per la perdita di Vittorio Prodi, già Presidente della Provincia di Bologna e Europarlamentare. Ricorderemo la bontà d’animo, la passione civile, la tensione morale. E il sorriso aperto e sempre accogliente. La terra gli sia lieve». 

Andrea De Maria, deputato Pd, ricorda «l’uomo delle istituzioni di grande intelligenza e umanità. Con lui ho condiviso tanti momenti di incontro e di impegno. Ricordo con quanta passione, da Presidente della Provincia di Bologna, fu protagonista della nascita della Scuola di Pace di Monte Sole a Marzabotto. Vittorio ha meritato davvero la riconoscenza della nostra comunità civile e politica».

Il cordoglio per la scomparsa del professr Vittorio Prodi è unanime. Le condoglianze arrivano anche dai parlamentari di Italia Viva, Ettore Rosato e dal presidente del gruppo al Senato, Enrico Borghi, così come dai parlamentari della Lega tra i quali il vice capogruppo della Lega alla Camera, Domenico Furgiuele e il vice capigruppo della Lega al Senato Mara Bizzotto (vicario) e Nino Germanà. E in una nota il capodelegazione di Fratelli d’Italia- Ecr al Parlamento europeo, Carlo Fidanza, scrive: «Ho avuto il piacere e l’onore di condividere con il professor Vittorio Prodi la seconda delle sue due legislature al Parlamento europeo. Uomo di rara cultura e di altrettanto garbo e umiltà, ha servito le istituzioni con dedizione e rigore. Le stesse parole che ho ritrovato nei messaggi che da questa mattina, appresa la notizia, ci siamo scambiati con i colleghi di centrodestra eletti a Bruxelles nel 2009. Lo ricordo con stima e affetto unendomi, anche a nome della delegazione di FdI al Parlamento europeo, al cordoglio di chi gli ha voluto bene». 

(ANSA l'1 agosto 2023) - "Fate figli e fate politica". E' questa l'esortazione di don Matteo Prodi, al termine dei funerali del padre Vittorio, da lui stesso celebrati questa mattina nella chiesa di Sant'Anna a Bologna. "Ripeto quello che già dissi al saluto a Matteino (il nipote di Vittorio morto a 16 anni in un incidente stradale in bici, ndr): fate figli, come non mi interessa. 

La Chiesa si dice che è frustrante e castrante sulla sessualità. Io oggi vi dico di fare figli, con chi volete, non importa". Parole che fanno scattare una risata collettiva in chiesa. Ma don Matteo spiega le sue ragioni: "Perché se non abbiamo una famiglia numerosa, se mi muore l'unico zio che ho è un disastro, se me ne muore uno di venti è faticosissimo ma è uno di venti. Quindi purtroppo mi risulta - prosegue- che dopo il mio appello al saluto a Matteino non sia successo niente.

Se volete vi mando un tutorial su YouTube - scherza e insiste - fate figli, fate famiglie numerose, perché se sorella Morte arriva a visitarci nell'unica persona a cui vogliamo bene è un disastro; se viene a visitarci quando la comunità è come per fortuna siamo noi di 120-130, questa è una grande fortuna". Il secondo consiglio rivolto in particolare ai giovani presenti al funerale è: "fate politica. Il cardinale Zuppi a Camaldoli ricordava che chi ha scritto quel codice, quella carta incredibile aveva 24, 26, 28, 30 anni. Oggi se un trentenne si presenta gli fanno fare 40 anni di gavetta e a 70 anni celebrano il funerale, non serve. Quindi - spiega - fate politica perché è il modo più sublime per cambiare il mondo. Il mondo è a una svolta (cita il libro del padre Vittorio) ma è a una svolta se qualcuno svolta, se no si va dritti".

(ANSA l'1 agosto 2023) - "Non è un periodo bello. In quattro mesi due fratelli e la moglie. Però c'è un grande affetto tra di noi e dagli amici e dai cittadini per Vittorio". Così Romano Prodi davanti alla chiesa di Sant'Anna in via Siepelunga a Bologna, poco prima dell'arrivo del feretro del fratello Vittorio, morto dopo una lunga malattia.

Ai funerali sono presenti tra le tante autorità cittadine anche i ministri Matteo Piantedosi e Anna Maria Bernini, che si sono stretti attorno all'ex-premier e a tutta la famiglia Prodi. "Vittorio era una persona intelligente. Era dolce e buono - prosegue Romano Prodi, parlando con i cronisti - Non ha mai preso la politica come avversità. Tanti hanno parlato di lui con affetto e in parte appartiene al rito per una persona defunta. Ma c'è di più. Tutti quelli che hanno lavorato con Vittorio hanno visto una disponibilità e una bontà fuori misura"

(AGI Dagospia il 13 giugno 2023) "Con enorme dolore", Romano Prodi, insieme ai suoi figli Giorgio, Antonio e a tutta la sua famiglia, annuncia che oggi, "all'improvviso - informa sempre una nota dell'ufficio stampa dell'ex presidente del Consiglio - si è spenta sua moglie, Flavia Franzoni". 

Flavia Franzoni è stata docente di Metodi e tecniche del servizio sociale alla facoltà di Scienze politiche di Bologna, ha lavorato per vent’anni (fino al 1995) all’Istituto regionale per i servizi sociali, di cui è stata direttrice. Nel 1996 ha partecipato con il marito, Romano Prodi, alla campagna elettorale per le politiche, vinte poi dall’Ulivo. Nel 2005 scrive con il marito il libro “Insieme” che si aggiudica il premio speciale alla Capri-San Michele (la più importante rassegna in ambito cattolico per la narrativa, vinta due volte da Ratzinger).

(ANSA Dagospia il 13 giugno 2023) - Flavia Franzoni, la moglie di Romano Prodi, è morta mentre si trovava in viaggio con il marito e alcuni amici, tra cui l'ex ministro Arturo Parisi, su un sentiero francescano in Umbria. Stavano facendo un cammino a piedi, ieri sera avevano dormito a Gubbio e oggi erano in direzione di Assisi. Flavia Prodi è caduta all'improvviso, forse a causa di un malore. 

Estratto dell’articolo di Mauro Giordano per corrieredibologna.corriere.it il 13 giugno 2023.

A raccontare qualcosa del fiorire del loro sentimento è stato spesso proprio l’ex premier Romano Prodi: «Eravamo vicini di casa, ci siamo conosciuti a Reggio Emilia e io facevo la corte a Flavia. Lei era bella, io brutto, però dopo tre anni ce l’ho fatta e oggi siamo qui. Il trucco? La manutenzione. Il segreto è la manutenzione degli affetti, necessaria, perché nella vita ci sono sempre difficoltà e inconvenienti ma se c’è affetto si supera tutto». 

Così il «Professore» raccontava la scintilla che era scoccata con Flavia Franzoni, la moglie morta improvvisamente a 76 anni.  Con Romano Prodi, suo inseparabile marito erano sposati dalla fine degli anni ’60.

[…]  La storia d’amore di Flavia Franzoni e Romano Prodi è iniziata tra i banchi dell’Università di Bologna (lui professore, lei studentessa) e si sono sposati nel lontano 1969. Il 31 maggio 2019 hanno festeggiato il loro 50esimo anniversario di nozze, alla presenza di parenti, amici e degli amatissimi figli Giorgio e Antonio Prodi. Sei i loro nipoti: Chiara, Benedetta, Maddalena, Davide, Giacomo e Tommaso. 

Insieme vivevano a Bologna e lei vanta una carriera di successo nel mondo accademico. Era una nota docente universitaria di Metodi e tecniche del servizio sociale della Facoltà di Scienze politiche di Bologna, e ha lavorato per circa 20 anni (fino al 1995) all’Istituto regionale per i servizi sociali ricoprendo anche l’incarico di direttrice. Nel 1996, fu sempre vicina a Romano Prodi durante la campagna elettorale per le politiche vinte poi dall’Ulivo. 

Flavia Franzoni è morta mentre si trovava in viaggio con il marito e alcuni amici, tra cui l'ex ministro Arturo Parisi, su un sentiero francescano in Umbria. Stavano facendo un cammino a piedi, avevano dormito a Gubbio e oggi erano in direzione di Assisi. Flavia Prodi è caduta all'improvviso, forse a causa di un malore. […]

Flavia Franzoni, come è morta la moglie di Romano Prodi. Il Tempo il 13 giugno 2023

Flavia Franzoni, la moglie dell’ex presidente del Consiglio Romano Prodi è morta per un malore durante un’escursione. A renderlo noto è stato il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico in un comunicato spiegando di essere intervenuti «nel pomeriggio di oggi per prestare soccorso alla donna incosciente su un tratto della via di Francesco dove era impegnata in un’escursione. Sul posto, su richiesta della centrale operativa del 118 di Perugia, sono giunte via terra due squadre del Soccorso Alpino con personale tecnico e sanitario. Purtroppo, nonostante i numerosi tentativi di rianimazione effettuati sotto un violento temporale che ha anche impedito l’arrivo dell’elisoccorso, per la moglie del Presidente Prodi, non c’è stato più nulla da fare e ne è stato quindi constatato il decesso da parte di un medico giunto successivamente insieme a un’altra squadra di soccorso del 118 regionale. La restante parte del gruppo di escursionisti è stata dunque accompagnata ai mezzi di soccorso poco distanti e la salma recuperata e trasportata nel primo punto carrabile disponibile». Il soccorso alpino ha concluso la nota «esprimendo la propria vicinanza e le proprie condoglianze al Presidente Romano Prodi, ai figli Giorgio, Antonio e a tutta la sua famiglia». I camminatori si trovavano nei pressi di Gubbio, a circa un chilometro dalla chiesa di Caprignone, tra le frazioni di Bellugello e Buscina. Franzoni si è spenta a 76 anni.

E’ morta la moglie di Romano Prodi, Flavia Franzoni a causa di un malore improvviso. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Giugno 2023  

L'ex docente universitaria aveva 76 anni. Il cordoglio di Mattarella, Meloni e La Russa. Zuppi: "Esempio di vita e fede". Casini e Bonaccini: "Donna speciale"

“Con enorme dolore”, il presidente Romano Prodi, insieme ai suoi figli Giorgio, Antonio e a tutta la sua famiglia, ha annuncia che “all’improvviso, si è spenta sua moglie, Flavia Franzoni“. come reso attraverso un comunicato dell’ufficio stampa di Romano Prodi. I Prodi erano in viaggio con alcuni amici, tra cui l’ex ministro Arturo Parisi, su un sentiero francescano in Umbria. Lunedì sera avevano dormito a Gubbio e oggi erano in direzione di Assisi.

Flavia Prodi, aveva 76 anni ed era sofferente da tempo di cuore, stava facendo insieme al marito la camminata da Perugia ad Assisi in una zona piuttosto impervia, è stata colta da malore improvviso ed è caduta all’improvviso, probabilmente colpita da un malore. Numerosi e vani i tentativi di rianimarla. Per il recupero della salma è dovuto intervenire sotto un violento temporale anche il soccorso alpino.

La signora Prodi , era stata docente alla facoltà di Scienze politiche di Bologna. Ha lavorato per vent’anni (fino al 1995) all’Istituto regionale per i servizi sociali, di cui è stata direttrice.  Studiosa di Welfare insieme al marito con cui era sposata dal 1969 ha partecipato alla campagna elettorale per le politiche, nel 1996, vinte dall’Ulivo.

Il cordoglio delle istituzioni

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha espresso a Romano Prodi il proprio “profondo cordoglio e i suoi sentimenti di vicinanza” per la scomparsa della moglie. “La mia più sentita vicinanza a Romano Prodi per la scomparsa della moglie Flavia. Un abbraccio e un pensiero alla famiglia e a tutti i suoi cari”. scrive su Twitter la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

“Attonito nell’apprendere della scomparsa di Flavia, mi stringo a Romano Prodi e ai suoi figli in questo momento di grande dolore. È stata senz’altro una donna speciale che lascerà un vuoto immenso; penso in queste ore a quanto Romano e Flavia siano stati una coppia esemplarmente unita in tutti i momenti della loro vita” così il senatore Pier Ferdinando Casini.

Al cordoglio si è unito anche il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei: “L’Arcidiocesi di Bologna e il suo arcivescovo – affermano i vicari generali Stefano Ottani e Giovanni Silvagni – affidano a Dio, padre della vita e della misericordia, Flavia Franzoni Prodi, morta improvvisamente questo pomeriggio, ricordando il suo grande impegno sociale e accademico. Non si possono dimenticare Flavia e Romano sempre insieme, nelle occasioni ufficiali e nella fedele partecipazione alla vita ecclesiale, anzitutto nella loro parrocchia di San Giovanni in Monte e nelle varie celebrazioni diocesane, offrendo un esempio silenzioso ed eloquente di vita e di fede“.

“Rimango senza parole nell’apprendere la notizia. Ripenso ad un’infinità di momenti, di parole, di sentimenti. Penso con immensa gratitudine a tutto quello che Flavia ha fatto e rappresentato”  scrive su Twitter l’ex segretario del Partito Democratico ed ex presidente del Consiglio, Enrico Letta. Redazione CdG 1947

Flavia Franzoni: una vita dedicata all’insegnamento. Rifiutò più volte di essere candidata sindaca di Bologna. Marco Marozzi su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023 

Flavia Franzoni, la compagna di una vita dell’ex premier Romano Prodi. Docente alla facoltà di Scienze Politiche a Bologna 

Bologna - Le risate sulla mortadella. Sì, perché il Dottor Mortadella era Nino Andreatta, il maestro di tutti che faceva («da cani, non so recitare») il Dottor Balanzone. Flavia Franzoni e Romano Prodi erano Romina e Al Bano. E ogni tanto Claudia Mori e Celentano. «Siamo la coppia più bella del mondo… Lui stonatissimo, unico di nove fratelli a non saper di musica. Io un poco meglio». La scuola economica di Bologna è nata anche così. Con le feste nel teatrino attaccato alla Questura. I professori che diventavano attori, cantanti, mimi, maghi. Nino Andreatta il capo di tutti, scontroso e complice. Flavia Franzoni era una sua laureata, fra le prime della specializzazione in Economia che lui aveva fondato a Scienze politiche. C’erano Alberto Clò, ministro con Dini, e Fabio Gobbo, sottosegretario con Prodi, altri geniacci. Flavia era super corteggiata, nelle foto del matrimonio, 1969, lei è una bellezza padana, lui ha degli occhialoni da Elton John.

«Con Andreatta ci siamo dati del lei per tutta la vita. Un insegnamento» diceva la discepola, molto meno conciliante del marito. E Flavia Franzoni la cercavano perché era Flavia Franzoni. Non perché la moglie di Prodi. «Ci vuole chi dia un’immagine di sinistra, piaccia ai cattolici e sappia sul serio di welfare» raccontavano gli interlocutori. Lei ascoltava. «Professoressa, si candidi». Poi diceva no: temeva si pensasse che era la moglie di Romano Prodi. Anche ai capi Pd che dopo Cofferati (e di nuovo dopo il Comune commissariato) le chiedevano di farsi sindaco, «o sindaca, non importa, non sono la persona giusta». Cercavano affidabilità, certezze e novità. Lei dava consigli, ma dopo il no. Ne diede pure a Matteo Renzi, quando stava sorgendo e voleva sapere qualcosa di economia da Bologna, via Gerusalemme. Romano e Flavia. «Guarda che tu sei un po’ troppo liberista» lo ammonì lei, pur in anni affettuosi.

Flavia era lo svincolo per tutti. «Sì, mi sarebbe piaciuto avere anche una bimba, — raccontò con Prodi premier — Giorgio e Antonio mi rifaranno con le nipoti». Così è successo: Chiara, Benedetta, Maddalena a fianco di Davide, Giacomo e Tommaso. Ha insegnato Metodi e tecniche del servizio sociale a Scienze politiche di Bologna, ha lavorato per vent’anni all’Istituto regionale per i servizi sociali, di cui è stata direttrice. Ha seminato esperti di welfare e assistenti sociali in tutta Italia. La morte l’ha incontrata vicino ad Assisi, terra e cielo, «nubilo et sereno» di Francesco.

Con Prodi si erano conosciuti in parrocchia, a Reggio Emilia, lui di otto anni più grande vicino di casa, cattolico adulto, lei di famiglia liberal-laica, babbo Giovanni, professore di chimica pure del futuro capo scorta di Prodi premier, fratello piccolo Vittorio, mamma Paola, signora spiritosissima come la cugina Franca Pilla, a dicembre signora di 102 anni, nel 1946 sposa a Bologna di Carlo Azeglio Ciampi. Uno dei due politici, con Andreatta, che Prodi aveva in casa a Bruxelles, dove Flavia arrivava ma non ha mai abitato, come a Palazzo Chigi. Autonoma, con il marito sempre a braccetto a Bologna. «Insieme», il libro scritto in coppia: nelle due operazioni al cuore, «a Bologna dove c’è eccellenza mondiale», nelle grandi scelte condivise con un gruppo piccolissimo di amici, sempre quelli.

Dall’amore con Prodi alle passioni politiche. Addio a Franzoni, anima gentile dell’Ulivo. MARCO DAMILANO su Il Domani il 13 giugno 2023

È morta improvvisamente Flavia Franzoni, la moglie dell’ex premier Romano Prodi, mentre passeggiava su un sentiero francescano. Esperta di welfare, impegnata nel terzo settore, non ha mai cercato un ruolo sulla scena. È il volto di un’Italia pulita affezionata allo Stato

Flavia c'era sempre, c'è sempre stata, insieme a Romano. “Insieme”, si intitolava il loro libro, scritto come tutto il resto, insieme. Erano insieme anche ieri, quando Flavia Franzoni Prodi se n'è andata, all'improvviso, tra Perugia e Assisi, durante una delle camminate per i sentieri dell'Italia centrale che per loro significava l'inizio delle vacanze, come quelle verso Santiago di Compostela, «con sette ciclisti e quattro mogli alla guida di automobili al seguito», raccontava Flavia.

Fare un viaggio con loro in macchina, pigiati in tre dietro, voleva dire passare caselli autostradali, strade di campagna, luci nella notte e paesi all'orizzonte, il profilo di un'Italia che conoscevano in ogni angolo e che li appassionava. Per ogni luogo un racconto, una curiosità. L'ultima volta in Veneto, dopo una serata a Bassano del Grappa, avevamo parlato di Marostica, la città degli scacchi viventi.

Erano insieme, da sempre, entrambi reggiani, con sette anni di differenza. Il matrimonio, il 31 maggio 1969, celebrato dall'allora amico don Camillo Ruini con il nuovo rito post conciliare, con duecentocinquanta invitati, «tantissime», scriveva Flavia, «gli amici di tutte le fasi della nostra vita, dalla scuola all'università, ai colleghi, agli amici della parrocchia e persone casualmente presenti alla cerimonia», unico assente, perché al solito in ritardo, uno dei testimoni, il professor Beniamino Andreatta.

LA NASCITA DELL’ULIVO

Erano insieme, Romano e Flavia, quando nell'estate del 1994 il Professore decise di impegnarsi in politica, al potere c'era Silvio Berlusconi, in un incredibile intreccio di destini. «Bisogna fare qualcosa...», mormorò don Giuseppe Dossetti nella piccola cella di Monte Oliveto, non c'era spazio, Flavia si poggiava sul suo letto. Non parlava, «scrisse su una lavagna parole che non abbiamo mai dimenticato». Nacque l'Ulivo.

Ricordo la festosa allegria con cui Romano e Flavia, con Arturo Parisi che era con loro ieri, e Sandra e Roberta Zampa, raccontavano la primavera 1995. Impossibile distinguere una voce dall'altra, come separare due fiumi.

La partenza del pullman, «fatta in casa», per la prima tappa Romano prese una cartina del Touring, puntò il dito sul Sud, a occhi chiusi: Tricase, provincia di Lecce. «Non sapevamo neppure se ci fosse un teatro, a Tricase...». Nello studio del Professore c'è la foto di loro due, Romano e Flavia, davanti alla sala da cui cominciò il giro d'Italia, terminato un anno dopo, il 21 aprile 1996, con la vittoria dell'Ulivo di Prodi sulla invincibile armata di Berlusconi, la festa in Santi Apostoli.

IL SOGNO

Erano insieme, ancora, nella notte più bella, il coronamento di un sogno e di un progetto. Primo gennaio 2002, i bancomat di mezza Europa diffondono le prime banconote di euro. Prodi, presidente della Commissione europea, è a Vienna, le usa per regalare un mazzo di rose rosse e bianche a Flavia, raggiante, bellissima. Un pensiero romantico ma anche un tributo.

Era esperta di Welfare, impegnata nel Terzo Settore e nella cooperazione sociale da studiosa e esperta, nella fondazione Zancan a lungo presieduta da don Giovanni Nervo, un laboratorio di vero riformismo di questo Paese, e nell'Iress, proponeva un welfare «municipale e comunitario», si potrebbe dire personalista, attento alle persone: la sanità, la scuola, i servizi sociali, le famiglie, i bambini, «affezionata allo Stato»: «Negli anni in cui sembrava prevalere “il privato è bello” comunicavamo una aspettativa positiva nei confronti del pubblico».

Era lei, che non mai cercato un ruolo sulla scena, l'anima sociale dell'Ulivo e l'intelligenza che non smetteva di ragionare sulle soluzioni più utili, attenta a ogni innovazione. Era Flavia, accanto a Romano, il volto di un'Italia del dopoguerra pulita, limpida, tenace, ironica, discreta, un volto nascosto, come sconosciuti sono i tanti volti e le tante persone che mandano avanti questo Paese.

Era la mamma di Giorgio e Antonio e una nonna in dialogo con le generazioni successive. La loro casa di via Gerusalemme a Bologna è sempre stata aperta e a un certo punto, immancabimente, la discussione finiva al tavolo della cucina.

L'ultima volta abbiamo parlato a Roma, a lungo, si faceva sera, c'era la penombra e una coperta sul divano, la discussione continuava. Flavia c'era sempre, c'è sempre stata, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, in tutti i giorni della vita. Una coppia di laici cristiani non sarà mai separata, con Romano ci sarà sempre. «Insieme», scriveva Flavia, «siamo diventati in tanti». E questo aumenta il rimpianto.

MARCO DAMILANO. Giornalista e saggista, è stato direttore de L'Espresso dal 2017 al 2022. Collabora con Domani e, da settembre 2022, conduce una striscia quotidiana di informazione in onda su Rai3

È morta Flavia Franzoni, moglie di Romano Prodi. “Enorme dolore”. Si è spenta d’improvviso per un malore durante un'escursione. Aveva 76 anni. Il Dubbio il 13 giugno 2023

Si è spenta all'improvviso Flavia Franzoni, moglie di Romano Prodi. Lo comunica l'ex premier in una nota. "Con enorme dolore, il Presidente Romano Prodi, insieme ai suoi figli Giorgio, Antonio e a tutta la sua famiglia, annuncia che oggi, all'improvviso, si è spenta sua moglie, Flavia Franzoni", si legge. La signora Prodi aveva 76 anni, è stata docente di Metodi e tecniche del servizio sociale alla facoltà di Scienze politiche di Bologna. Insieme al marito ha partecipato, nel 1996, alla campagna elettorale per le politiche, vinte poi dall’Ulivo.

Franzoni è morta per un malore durante un'escursione, spiega il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico in un comunicato spiegando di essere intervenuti "nel pomeriggio di oggi per prestare soccorso alla donna incosciente su un tratto della via di Francesco dove era impegnata in un'escursione. Sul posto - su richiesta della centrale operativa del 118 di Perugia sono giunte via terra due squadre del Soccorso Alpino con personale tecnico e sanitario", si legge nella nota.

"Purtroppo, nonostante i numerosi tentativi di rianimazione effettuati sotto un violento temporale che ha anche impedito l'arrivo dell'elisoccorso, per la moglie del Presidente Prodi - non c’è stato più nulla da fare e ne è stato quindi constatato il decesso da parte di un medico giunto successivamente insieme a un'altra squadra di soccorso del 118 regionale. La restante parte del gruppo di escursionisti è stata dunque accompagnata ai mezzi di soccorso poco distanti e la salma recuperata e trasportata nel primo punto carrabile disponibile", continua il soccorso alpino che "esprime la propria vicinanza e le proprie condoglianze al Presidente Romano Prodi, ai figli Giorgio, Antonio e a tutta la sua famiglia".

Flavia Franzoni, chi era la moglie di Prodi: biografia, carriera e malattia. La donna è morta improvvisamente a 76 anni. Il Messaggero Martedì 13 Giugno 2023 

É morta a 76 anni Flavia Franzoni, moglie dell'ex presidente del Consiglio Romano Prodi. «Con enorme dolore, il Presidente Romano Prodi, insieme ai suoi figli Giorgio, Antonio e a tutta la sua famiglia, annuncia che oggi, all'improvviso, si è spenta sua moglie, Flavia Franzoni», si legge in una nota dell'ufficio stampa dell'ex presidente della Commissione Ue e del consiglio dei ministri. Ma chi era la moglie di Romano Prodi?

Biografia e carriera accademica: chi era Flavia Franzoni

Flavia Franzoni viveva a Bologna e vanta una carriera di successo nel mondo accademico. È una nota docente universitaria presso la cattedra di Metodi e tecniche del servizio sociale della Facoltà di Scienze politiche di Bologna, e ha lavorato per circa 20 anni (fino al 1995) all’Istituto regionale per i servizi sociali ricoprendo anche l’incarico di direttrice.

Nel 1996 partecipa insieme al marito Romano Prodi alla campagna elettorale per le elezioni, politiche vinte poi dalla coalizione dell'Ulivo, di cui Romano era leader.

Il suo primo mandato sarebbe durato fino al 1998. Il marito avrebbe poi vinto di nuovo le elezioni nel 2006, per poi lasciare Palazzo Chigi due anni più tardi. 

La storia con Romano Prodi

La storia d’amore di Flavia Franzoni e Romano Prodi è iniziata tra i corridoi dell'’Università di Bologna: lui era già professore, lei ancora studentessa. I due si sono sposati nel lontano 1969. Il 31 maggio 2019 hanno festeggiato il loro 50° anniversario di nozze, alla presenza di parenti, amici e degli amatissimi figli Giorgio e Antonio Prodi. Sei i loro nipoti: Chiara, Benedetta, Maddalena, Davide, Giacomo e Tommaso.

A raccontare qualche dettaglio della loro storia d'amore è stato proprio l’ex premier, come riporta Bologna Today: «Eravamo vicini di casa, ci siamo conosciuti a Reggio e io facevo la corte a Flavia. Lei era bella, io brutto, però dopo tre anni ce l’ho fatta e oggi siamo qui. Il trucco? La manutenzione. Il segreto è la manutenzione degli affetti, necessaria, perché nella vita ci sono sempre difficoltà e inconvenienti ma se c’è affetto si supera tutto».

La malattia

Flavia Franzoni è morta all'improvviso. Al momento non sono stati resi noti altri dettagli sul motivo del decesso. É possibile che la donna da tempo soffrisse di complicazioni cardiache, ma non ci sono ancora conferme in merito.

Il delitto di Cogne e la presunta parentela (smentita) con Annamaria Franzoni

"Annamaria Franzoni è la nipote di Romano Prodi", la voce che qualcuno aveva messo in giro all'epoca del delitto di Cogne, nel gennaio 2002. Era una bufala: la fake news, ripresa violentemente da Il Giornale, costrinse lo stesso Prodi a smentire e a minacciare azioni legali contro il quotidiano. La notizia prese forza perché si notò che il cognome della moglie del leader bolognese è lo stesso della signora Annamaria, Franzoni. Ma come ribadito anche dallo stesso Prodi, non c'è alcun collegamento fra sua moglie Flavia Franzoni, originaria della provincia di Reggio Emilia, e la famiglia della Valle d'Aosta, proveniente dalla zona montana vicino Bologna.  

«Annamaria Franzoni è la nipote di Prodi»: la bufala sul delitto di Cogne torna alla ribalta. Leggo.it 

di Luca Calboni

Intorno a ogni evento mediatico, anche quelli più crudi, un alone di mistero si crea intorno alla vicenda o ai suoi protagonisti. Non fa eccezione il delitto di Cogne: per l'omicidio del piccolo Samuele, morto il 30 gennaio del 2002, si iniziò a vociferare di una certa parentela che avrebbe legato la mamma del piccolo, Annamaria Franzoni, e un noto personaggio politico. La fake news circolò all'epoca dell'omicidio - in cui nemmeno avevamo gli smartphone e i social network - e adesso torna a essere spacciata per verità all'uscita della donna dal carcere.

Annamaria Franzoni è la nipote di Romano Prodi, si disse all'epoca. Era una bufala: la notizia, che fu ripresa violentemente da Il Giornale, costrinse lo stesso Prodi a smentire e a minacciare azioni legali contro il quotidiano. La notizia prese forza perché si notò che il cognome della moglie del leader bolognese è lo stesso della signora Annamaria, Franzoni. Ma, come ribadito anche dallo stesso Prodi, non c'è alcun collegamento fra sua moglie Flavia Franzoni, originaria della provincia di Reggio Emilia, e la famiglia della Valle d'Aosta, proveniente dalla zona montana vicino Bologna. 

Non è l'unica bufala che è girata intorno al delitto e ad Annamaria Franzoni: nel 2005, dopo la fine della sua detenzione in carcere, circolò la notizia che la donna avrebbe lavorato nell'asilo "Cip e Ciop" di Cogne. Peccato che nel paesino valdostano non ci sia alcuna struttura con quel nome... Venerdì 8 Febbraio 2019

Aveva 76 anni. E’ morta Flavia Franzoni, moglie di Romano Prodi: “Un dolore enorme”. Redazione Web su L'Unità il 13 Giugno 2023

Sono stati inseparabili per 54 lunghi anni. Uniti nella vita e nella politica, sempre. Ma all’improvviso Flavia Franzoni si è spenta lasciando il marito Romano Prodi, ex presidente del Consiglio per la prima volta e per sempre. Aveva 76 anni. Si è spenta all’improvviso mentre era su un cammino in Umbria insieme al marito. A darne il triste annuncio “con enorme dolore” il presidente Romano Prodi, insieme ai suoi figli Giorgio, Antonio e a tutta la sua famiglia.

Franzoni è stata docente di Metodi e tecniche del servizio sociale alla facoltà di Scienze politiche di Bologna. Sono tantissime le occasioni in cui è stata vista accanto al marito nella sua vita pubblcia. Erano sposati da 54 anni, nel 2019 avevano festeggiato anche le nozze d’oro. Nel 2015 uscì il libro scritto dai due coniugi a 4 mani dal titolo “Insieme”. Franzoni raccontava: “Insieme è la parola e il concetto che più ricorre in queste pagine. Si riferisce a noi che abbiamo scritto un libro a doppia firma dopo una vita di esperienze comuni. Si riferisce alla grande famiglia in cui ci siamo trovati a vivere. […] “Assieme” (così come di solito dice lui) è anche la parola più usata da Romano in economia, quando descrive lo sviluppo dei distretti industriali o quando afferma che “riacchiappare” lo sviluppo richiede il lavoro comune e la concertazione continua di imprese, istituzioni pubbliche, forze sociali, università”. “Un libro a due voci in cui, avendo avuto una parte prevalente nello scrivere racconti di vita quotidiana, ho cercato di individuare le esperienze che più hanno contribuito a “farci una idea” su temi come la famiglia, la scuola, l’educazione dei figli, la politica. “Insieme” dunque, ma come sottotitolo avrei potuto aggiungere “in tanti”»

Nelle stesse ore del cordoglio per la morte di Silvio Berlusconi, il mondo della politica si stringe intorno a Prodi e alla famiglia, dal Pd alla Lega. Comune è il ricordo di una “donna straordinaria”, così come la definisce Pier Luigi Bersani. “Rimango senza parole. Abbraccio Romano con Giorgio e Antonio. Ripenso ad un’infinità di momenti, di parole, di sentimenti. Penso con immensa gratitudine a tutto quello che Flavia ha fatto e rappresentato”, scrive l’ex segretario dem Enrico Letta su Twitter. Pier Ferdinando Casini si dice “attonito.. È stata senz’altro una donna speciale che lascerà un vuoto immenso; penso in queste ore a quanto Romano e Flavia siano stati una coppia esemplarmente unita in tutti i momenti della loro vita”. Il dem Andrea Orlando la ricorda come “una donna solare ed intelligente animata da una grande passione civile”, il commissario Ue Paolo Gentiloni come una “donna forte e sempre presente nelle storie comuni di questi decenni”, il capogruppo in Senato Francesco Boccia come una “donna animata da una straordinaria passione civile. Ha dedicato la sua vita all’aiuto degli ultimi”. E la segretaria Elly Schlein parla a nome di tutto il Pd: “Siamo tutte e tutti sconvolti. E in questo momento di enorme dolore vogliamo stringerci attorno a Romano Prodi e a tutta la loro famiglia. È impossibile riassumere lo spessore intellettuale, le qualità e la passione civile di Flavia Franzoni, sempre così attenta alle fragilità sociali e impegnata a fianco degli ultimi, grande innovatrice delle politiche sociali. Ci mancheranno, tanto, la sua capacità di analisi e la sua profondità di pensiero, il suo consiglio sempre prezioso”. “Sono giorni di profonda tristezza. Condoglianze a Romano Prodi, che oggi ha perso l’amata moglie Flavia. Ci stringiamo al suo dolore e a quello dei suoi cari”, twitta Matteo Salvini. Condoglianze dal presidente della Camera Lorenzo Fontana, dal leader di Azione Carlo Calenda e dal capogruppo alla Camera Matteo Richetti, dal fondatore di Italia viva Matteo Renzi e dal leader di +Europa Riccardo Magi, da Maurizio Lupi di Noi moderati, dall’eurodeputato di Renew europe Sandro Gozi: “Ciao carissima Flavia, ti ricorderò sempre con tanto affetto e tanta amicizia”. Redazione Web 13 Giugno 2023

Estratto dell’articolo di Fabio Martini per la Stampa il 14 giugno 2023.

Un giorno, celiando ma non troppo, Flavia Franzoni disse di sé: «Io? Non esisto…». Ma il marito Romano Prodi, che le voleva un gran bene, nel corso di una notte speciale (L'Ulivo aveva appena vinto le elezioni del 1996) spiegò come stavano le cose: «La Flavia è il mio unico consigliere politico!». 

Flavia Franzoni, scomparsa ieri all'età di 76 anni, a causa di un malore mentre camminava in un bosco dell'Umbria assieme al marito Romano Prodi e al comune amico Arturo Parisi, è stata una donna che ha vissuto le luci della ribalta con uno stile tutto suo: sempre un passo indietro nelle occasioni pubbliche, vicinissima dietro le quinte. Poco appariscente e molto influente. Uno stile diverso da tante consorti di uomini importanti. Una anti-first lady. 

Albertina Solliani, amica di una vita di entrambi: «Un rapporto a due paritario e di stima reciproca. Colpiva la spontaneità di Flavia, la capacità di dire liberamente, pur selezionando, tutto ciò che la passava per la testa. Con un filo conduttore: la coerenza con i valori di tutta una vita vissuta assieme».

Un rapporto a due senza interruzioni e paritario: anche in questo stava – e resterà per sempre – la differenza antropologica tra i Prodi e un certo mondo del centro-destra. Dunque, due metà che si completavano: stava esattamente in questo l'originalità e il miracolo che teneva assieme – sempre assieme da 54 anni – Flavia Franzoni e Romano Prodi. 

Si erano sposati nel 1969.

Lei aveva 22 anni, lui 30, lei era stata attiva nell'Azione cattolica, lui insegnava già all'Università di Bologna. Si erano conosciuti quattro anni prima. Ha raccontato una volta Prodi: «Eravamo vicini di casa, ci siamo conosciuti a Reggio Emilia. Io facevo la corte a Flavia. Lei era bella, io brutto, però dopo tre anni ce l'ho fatta e ora siamo qui!». 

(...)

Nelle biografie di entrambi non compare un episodio significativo. È il 1992: Pierluigi Castagnetti, braccio destro del segretario della Dc Mino Martinazzoli, a Prodi (che era tornato all'insegnamento) fa una proposta molto significativa: «Helmut Kohl ti stima molto e vuole che entri nella prossima Commissione e fra due anni vuole che ne diventi Presidente», Castagnetti torna da Martinazzoli: «Credo che la contrarietà di Flavia sia stata determinante». Certo, i ragazzi, Giorgio e Antonio, erano ancora piccoli, sta di fatto che Flavia (e Romano) Prodi lasciano passare quel primo treno per Bruxelles. Passeranno sette anni e quella seconda volta andò diversamente: Prodi diventò presidente della Commissione europea. 

Flavia Franzoni c'era sempre. C'era nella prima campagna vincente dell'Ulivo, quella del 1996 e, dietro le quinte, c'era anche in quella complicatissima del 2006. A un certo punto si deve decidere se affrontare o meno Berlusconi in due faccia a faccia televisivi, terreno ostico per il Professore.

Qualcuno sconsiglia Prodi, ma Flavia va controcorrente: «Accetta, andrai bene» e accompagna la speranza con un consiglio: «Per un professore sempre un po' preoccupato per quel che gli altri pensano di lui, è giusto restare sé stessi mentre la cosa da temere di più è la forzatura; può trasformarsi in ridicolo». 

Schiva, Franzoni aveva una idiosincrasia per gli appuntamenti mondani, ma anche per i formalismi: una volta fu vista rientrare a palazzo Chigi con le buste della spesa in mano. Senza parere, era protettiva col marito e si coglieva uno sguardo spesso ironico verso gli assembramenti dei giornalisti in attesa per rubare una battuta.

Flavia Franzoni aveva problemi cardiaci e 13 anni fa, quando fu costretta a operarsi, il marito trascorse un periodo di grande ansia. Raccontò lei stessa: «Romano si disperò». Un rapporto di simbiosi che l'amico Andrea Papini una volta ha sintetizzato così: «Flavia non è decisionista ma la sua opinione entra regolarmente nel circuito di pensiero di Romano». Ecco perché, nel breve comunicato che annunciava la scomparsa della moglie, il Professore ha voluto usare due parole, due parole che, chi conosce i coniugi Prodi, sa quanto siano vere e quanta pena si porteranno dietro: «Un immenso dolore».

Francesco Rosano per il Corriere della Sera il 15 Giugno 2023.

È prima mattina quando una signora appoggia una rosa rossa sul portone di via Gerusalemme, a Bologna. Ne arrivano molte altre nella lunga giornata di cordoglio che accompagna il ritorno a casa di Flavia Franzoni, docente universitaria esperta di welfare e inseparabile moglie di Romano Prodi, scomparsa martedì per un malore mentre con il marito e alcuni amici — tra cui Arturo Parisi e il medico Francesco Conconi — percorreva un sentiero francescano tra Gubbio e Assisi, in Umbria. 

Il presidente della Cei Matteo Zuppi, che per tutti queste parti è ancora «don Matteo», nonostante gli impegni romani ha fatto di tutto per stare vicino alla famiglia Prodi e presiedere i funerali che si svolgeranno domattina nella chiesa di San Giovanni in Monte, subito dopo la camera ardente allestita nella parrocchia frequentata dalla famiglia. Il parroco, don Stefano Guizzardi, ha consolato nelle ore più difficili i figli Giorgio e Antonio. «Sono persone molto forti, ma è stato un dolore molto duro perché è stata una tragedia imprevedibile».

L’ex ministro Giulio Santagata, l’uomo che nel 2005 si inventò quella «Fabbrica del programma» diventata poi modello per decine di campagne elettorali del centrosinistra, arriva a testa china. «Vado ad abbracciare Romano — sussurra — è terribile». 

Le persiane all’ultimo piano sono aperte, come quando il Professore e Flavia salutarono i sostenitori venuti ad applaudirli nel gennaio 2008 dopo la caduta del secondo governo Prodi. Una sconfitta che divenne festa nella città simbolo del centrosinistra. «È dal ‘95, dall’entrata in politica di Romano, che non abbiamo un momento, qualche giorno tutto nostro. Ora spero di averlo...», confessò quel giorno Franzoni al Corriere della Sera . Anti first-lady per eccellenza, capace di liquidare Piero Chiambretti con un ironico «Io non esisto!» sotto i portici di Strada Maggiore. O di stemperare con una battuta i momenti politici più salienti: «Romano arriva a casa con Veltroni? Scongelerò l’erbazzone».

«Un esempio silenzioso ed eloquente di vita e di fede», ha detto il cardinale Zuppi dei coniugi Prodi. Insieme, come il titolo del libro scritto a quattro mani nel 2005, fino alla fine. Per l’ex premier un vuoto troppo grande da colmare, ma a lenire il dolore c’è la sterminata famiglia che ieri gli si è stretta attorno. I figli Giorgio e Antonio, i sei nipoti, la sorella Fosca e gli altri familiari.

E poi colleghi e amici di una vita, quei «prodiani» che dopo mille diaspore alla fine tornano sempre qui. 

L’ex presidente dell’Enel Piero Gnudi e l’economista ed ex ministro Alberto Clò, Angelo Tantazzi di Prometeia insieme alla moglie Teresa, l’ex senatrice Albertina Soliani, l’ex ministro Patrizio Bianchi, la senatrice dem Sandra Zampa e la portavoce Roberta Zampa. Flavia Franzoni, per tutti loro, era un pezzo anche della propria famiglia.

Il Pd, che aveva già rinviato la direzione nazionale per la morte di Silvio Berlusconi, domani lo farà di nuovo per il funerale di Bologna: l’assise è stata rimandata a lunedì 19 giugno. 

La commozione di Romano Prodi in chiesa: «Tra me e Flavia 54 anni di felicità». Marco Imarisio, inviato a Bologna su Corriere della Sera il 16 giugno 2023. 

Il professore ai funerali della moglie: «Prima di Assisi ci siamo chiesti se dal paradiso si vede la nostra piazza. Penso proprio di sì»

«Ho visto Flavia sorridermi l’ultima volta sul sentiero per Assisi, sono stati giorni di pura felicità. Siamo stati 54 anni sempre insieme, in tutti i giorni della nostra vita, ai quali vanno aggiunti due anni di corteggiamento». Romano Prodi fa una pausa. Stringe i due fogli che ha tenuto tra le mani fin dall’inizio della cerimonia. Cerca la forza di andare avanti, e lo fa con un sorriso. «Mai mi sono pentito di avere tanto insistito». E per un attimo sembra quasi che il sorriso si trasferisca sulle labbra di tutte le persone stipate nella chiesa di San Giovanni in Monte, la sua e la loro parrocchia. «Perché poi abbiamo condiviso tutto. Ma non pensate però che la nostra lunga vita insieme sia stata solo di scambi intellettuali o di preoccupazioni. Insieme, abbiamo vissuto cielo e terra, anche terra, c’è stata tanta felicità tra noi».

Il funerale

A questo porta l’amore tra due persone. A un funerale che non si conclude solo nel dolore, ma su un’onda collettiva di tenerezza, a un muto invito a volersi bene, a cercare nella condivisione degli affetti l’ingrediente principale delle esistenze di tutti. È impossibile non cominciare da qui, dalle parole così intime del professore, un uomo che in tanti anni di scena pubblica abbiamo conosciuto senz’altro come bonario, ma capace anche di asprezze, di artigli sfoderati. Cosa importa chi c’era e chi non c’era. Chi scrive deve riferirlo, per completezza di informazioni. A cominciare dalla lunga e affettuosa telefonata fatta al vedovo dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Abbiamo visto Enrico Letta che ha accompagnato il feretro dalla casa di via Gerusalemme fino al sagrato della chiesa, abbiamo visto l’abbraccio forte, sentito, tra Prodi e Mario Draghi, che poi si è seduto in prima fila accanto a Mario Monti, ai rappresentanti del governo, più alta in carica la bolognese Anna Maria Bernini, ministra dell’università. E poi il sindaco Giacomo Lepore, Elly Schlein che non ha trattenuto la commozione mentre ascoltava il saluto dal pulpito dei figli e dei nipoti di Flavia Franzoni, tutte testimonianze di una vita spesa nell’impegno per i più deboli, fin dalla giovinezza. Accanto a lei, Stefano Bonaccini, suo rivale alle primarie democratiche, e dietro di loro una folta rappresentanza di due generazioni di dirigenti del Pd, da Piero Fassino a Giuseppe Provenzano.

L’omelia di Zuppi

Adesso che l’elenco è più o meno completo, dobbiamo raccontare di un funerale che ha reso omaggio alla vita piena di Flavia Franzoni, che è stata molto ma molto più che la moglie di un importante personaggio delle istituzioni. «Una persona riservata, in un mondo sguaiato, pieno di vanagloria davvero vana, di penosa esibizione perché riduce l’amore nelle apparenze. Flavia preferiva la sobria e solida vicinanza alla vita vera, partendo dai più fragili, legandosi a loro nella sua ricerca accademica mai chiusa nei corridoi, ma facendo dei luoghi dell’umanità le vere aule dove imparare e vivere, da studiare con cuore e intelligenza, con curiosità e interesse, per provare l’urgenza di cambiare e la programmazione per costruire le soluzioni». Con la sua sensibilità, il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, pronuncia una omelia che al tempo stesso è bilancio di una vita intera, parlando di lei e solo di lei, rivolto alla famiglia che ha saputo costruire, tralasciando tutto il resto, il contorno, i cinque ex presidenti del Consiglio che siedono tra i banchi, oltre a quelli già citati c’era anche Massimo D’Alema, presunto «nemico» storico di Prodi che invece prima di entrare in chiesa trova anche lui parole davvero sentite: «Ha vissuto tutto il suo impegno, la sua fede religiosa, il suo impegno civile a servizio degli altri».

La famiglia

L’intera cerimonia e ogni intervento di parenti e amici sembra un’ottima rappresentazione di quel che si intende per cattolicesimo democratico. Ma conta soprattutto la persona, quello che ha fatto, quello che è stata, dice Zuppi. «Scelse sempre di vedere il mondo a partire dai poveri e non viceversa», dice riepilogando il suo percorso di studio e di lavoro. «Con tanta passione civile per i servizi sociosanitari e sociali, uniti alla comunità umana. Con prossimità e cura, che ripeteva con la pazienza di un lavoro all’uncinetto». Sul banco dei familiari, Romano Prodi è circondato dai figli e dai due nipoti più piccoli, Davide e Giacomo, che si appoggiano sulle sue spalle e intanto lo sorreggono, lo accarezzano e gli stringono la mano, abbracciandolo di continuo. «A me ha sacrificato la carriera, ma non ha rinunciato al suo continuo studio» dice il professore nell’ultimo messaggio rivolto a lei. «Mi è sempre stata vicina, in una continua condivisione, con un radicalismo dolce, ma persuasivo, convinta davvero che per ogni rottura sia necessario rammendare. Alla vigilia della nostra partenza per Assisi, ci siamo chiesti se dal Paradiso si possa vedere piazza Santo Stefano» conclude, citando la piazza accanto alla loro abitazione. «Penso proprio di sì». Sul sagrato, mentre il feretro viene caricato sull’auto per il suo ultimo viaggio, i due nipoti bambini parlano con gli amici. E parlando di cose alte, del dramma degli immigrati, dei poveri, di quello che gli ha insegnato la nonna. Le mele non cadono mai lontano dall’albero.

Romano Prodi ai funerali della moglie: «Siamo stati 54 anni cielo e terra. Non mi sono mai pentito di averti corteggiato a lungo». Romano Prodi ai funerali della moglie: "Siamo stati 54 anni cielo e terra. Non mi sono mai pentito di averti corteggiato a lungo"

Le parole dell'ex premier per Flavia Franzoni nella chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna

Nino Luca, inviato a Bologna su CorriereTv il 16 giugno 2023

In 54 anni di matrimonio, Romano Prodi e la moglie Flavia Franzoni hanno «sempre parlato di tutto e sempre condiviso tutto». Lo ha detto il professore in un passaggio del messaggio al termine del funerale della moglie, nella chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna. «Abbiamo sempre condiviso tutto - ha sottolineato Prodi - dalla nostra presenza in questa città tanto amata, alla mia presidenza dell'Iri, e poi alla vita politica a Roma e a Bruxelles. Abbiamo proprio sempre parlato di tutto, e ho chiesto a lei infiniti consigli e anche ieri pomeriggio, parlando con Giorgio e Antonio, mi è venuto spontaneo dire ‘questo lo chiedo a Flavia’». 

La sua era «una presenza intellettuale discreta e raffinata, una intelligenza all'avanguardia con generoso disinteresse», ha aggiunto il professore. La moglie era «affezionata alla città e allo Stato. Aveva come obiettivo costruire un'Italia molto seria». «Questi sono i pochi pensieri che voglio condividere con voi nel momento in cui salutiamo Flavia per l'ultima volta - ha concluso Prodi - Non pensate che la nostra vita insieme sia stata solo fatta solo di scambi intellettuali: abbiamo vissuto insieme cielo e terra, anche terra. Con felicità tra di noi, con gli amici e nelle vacanze con tutta la tribù. Proprio alla vigilia della partenza per Assisi, mentre camminavamo come sempre, per le vie di Bologna, ci siamo chiesti se dal Paradiso si vede possa eventualmente vedere piazza Santo Stefano. Io credo proprio di sì», ha concluso. Flavia Prodi verrà sepolta nella tomba della famiglia Prodi, nel cimitero di San Ruffino, frazione di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia.

I funerali. "Abbiamo condiviso tutto". Il saluto commosso di Romano Prodi alla moglie. Chiara Pazzaglia, Bologna venerdì 16 giugno 2023 su Avvenire

Al termine delle esequie celebrate a Bologna dal cardinale Zuppi, ha preso la parola l'ex premier. Gli ultimi due giorni tra Gubbio e Assisi? "Pura felicità. La nostra unione è stata cielo e terra"

Esordisce scusandosi, Romano Prodi, di fronte alla platea di fedeli che gremisce la chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna, la parrocchia sua e de “la Flavia”, come la chiama, con l’immancabile articolo determinativo davanti al nome. Parla a braccio, dopo la nipote Chiara, che si commuove raccontando di quei pomeriggi trascorsi a casa della nonna con fratelli e cugini, sempre presente nella vita dei nipoti, sempre con una porzione di tortelli reggiani nel freezer, da scongelare per le loro visite improvvise. E Prodi si unisce al ricordo amorevole della moglie raccontando dei “due giorni di pura felicità” che hanno preceduto la sua morte improvvisa, mentre camminavano sulla strada tra Gubbio e Assisi con alcuni amici. Subito racconta di come lui e la moglie avessero condiviso tutto, nei 54 anni di matrimonio “e due di corteggiamento, di cui non mi sono mai pentito, nell’aver insistito così tanto” ricorda. “Persino preparando il funerale coi miei figli mi veniva da dire: questo lo chiedo alla Flavia”, dice con tangibile commozione.

Perché nessuna decisione, politica o di vita, nessuno scritto, nessun discorso ha preso o preparato senza prima essersi consultato con lei, a cui riconosce di aver “rinunciato alla carriera” per seguirlo, “ma senza mai rinunciare ai suoi studi”, di cui era molto appassionata, alla sua vita intellettuale, tutta rivolta a trovare soluzioni efficaci e innovative per i servizi sociali, per i poveri, per gli ultimi. “Abbiamo sempre condiviso tutto”, ripete, “insieme”, come il titolo del loro libro, scritto a quattro mani, anzi, “assieme”, come si dice in Emilia. E “assieme” erano nel momento dell’ultimo respiro di Flavia: “mi aveva sorriso anche poco prima, sul sentiero”, dice Prodi, con quel sorriso che tutti i bolognesi ricordano di lei, quando la incontravano per strada, a passeggio sotto i portici. Un “dolce radicalismo” quello della Franzoni, ricordato anche dal Cardinale Zuppi nella sua omelia, una che “pensava che per ogni strappo dovesse esserci un rammendo”, prosegue il marito. Poi una nota politica, sull’impegno dietro le quinte da first lady, ai temi in cui era Presidente del Consiglio: “Flavia sognava un’Italia limpida e discreta, era affezionata alla comunità, alla sua città, a questo Paese”.

E, a giudicare dalla quantità di fedeli e parrocchiani presenti e commossi, era decisamente ricambiata. È poi il momento di ricordare l’impegno sociale, con Casa Santa Chiara, quelli caritativi e infine la sua grande religiosità. “Ma la nostra unione è stata cielo e terra”, dice Prodi: non solo uno scambio intellettuale, ma tanto amore, tanta felicità, la casa sempre piena di amici, le vacanze spensierate, la presenza affettuosa e un po’ severa coi figli, molto meno severa coi nipoti, “che non hanno mai lasciato la casa vuota, anche quando eravamo rimasti solo noi due”, quella casa bolognese di via Gerusalemme, meta di pellegrinaggi politici, ma che è sempre stata la loro casa, qualunque impegno avesse assunto lui in quel momento. Non a caso, per gli incarichi più importanti, avevano aspettato che i figli fossero già grandi, per non doverli spostare da Bologna. Alla fine, cedendo alla commozione ormai incontenibile, dice: “Pochi giorni fa ci eravamo chiesti: chissà se dal Paradiso si vede bene Piazza Santo Stefano?” Gli fa eco il Cardinale Zuppi: “Secondo me si vede bene e anche il cielo da oggi si vedrà meglio, da Piazza Santo Stefano, con una stella in più”.

Loro due insieme un grande esempio di amore. Ciao cara Flavia Franzoni, sempre stata Flavia e mai “la moglie di Romano Prodi”. Sandro Gozi su Il Riformista il 16 Giugno 2023

All’inizio di gennaio 2003, mia mamma Vanda e mia suocera Anna sono a Bruxelles. Mia figlia Federica era nata da qualche giorno, e mentre erano sole a casa con la piccola neonata suona il campanello: sono Flavia Prodi, posso salire? Le due signore si guardano, con un po’ di sorpresa e un po’ di apprensione. Non si aspettavano la visita della moglie del Presidente della Commissione europea, di cui ero consigliere e membro di gabinetto.

Flavia si presenta con il suo sorriso e la sua semplicità, bastano pochi attimi per mettere tutte a loro agio e passa qualche ora a discutere con una spontaneità e una sensibilità sorprendente: dei bimbi, dei suoi figli, di Bologna, di Bruxelles, dell’Europa e di molto altro. Quando qualche anno dopo Flavia e Romano Prodi vengono a trovarmi nella mia Sogliano al Rubicone, ricordo ancora le risate per una signora del posto che incrociandoci prima mi chiede se sono “il figlio della Vanda” e poi saluta Flavia e Romano, molto divertiti per questo tipico saluto da piccolo paese: “sembra di essere a Scandiano”, commentarono ridendo. Due episodi che spiegano molto di Flavia e di Romano. Flavia è sempre stata Flavia, mai “la moglie di Romano”.

Aveva una grande influenza, ma la esercitava nella discrezione e nel silenzio. E la sua spontaneità era accompagnata da un grande tatto anche quando non era d’accordo con il suo interlocutore. Ho sempre nutrito un grandissimo rispetto per questa donna molto intelligente, molto legata a Bologna e allo stesso tempo molto aperta all’internazionale e al mondo. Era atipica, perché in un’epoca di immagine e di apparenza era una First lady assolutamente di studio, di riflessione, di idee, di pensiero. Era sempre presente, accanto a Romano.

Ed era sempre pronta a dare un consiglio quando, come tanti loro amici, andavo in via Gerusalemme per salutarli e raccontargli come andavano le cose. Incontravo spesso Arturo Parisi, e i tre insieme mi facevano capire molto bene cosa voglia dire essere veramente amici. Quel trio – Flavia, Romano e Arturo – da un lato mi rassicurava molto, perché sapevo di potermi fidare e affidare alla loro esperienza. Dall’altra, davanti a tre professori di quel calibro, mi sentivo spesso un po’ sotto esame, e ogni volta mi chiedevo quale potesse essere la loro valutazione.

Anche se ero sempre molto contento quando Flavia mi chiedeva informazioni e valutazioni su politiche o programmi europei – sul fondo sociale, sul servizio civile europeo, su elementi innovativi ed europei del nostro modello di welfare -, anche perché quegli scambi erano sempre accompagnati da analisi e condivisioni della sua esperienza sul campo. Poi, quando si avvicinava l’una, in qualche minuto ci si trovava a tavola: tortellini, bollito e ottime mostarde nel fine settimana non mancavano mai. Io contribuivo ogni anno, in gennaio, con quel formaggio di fossa che ha reso famoso Sogliano. Anche questi ricordi di normali domeniche bolognesi rimarranno sempre con me.

Flavia e Romano erano una coppia fortissima: solo passare qualche ora con loro dava l’esempio di un matrimonio riuscito e di una grandissima intesa e complicità, di un grande amore. “Insieme”, è veramente parola che li descrive meglio e non a caso è stata scelta per un loro libro. Poi Flavia era una professoressa molto competente – su welfare, sociale – con una notevole conoscenza dei modelli anche di altri Paesi. A me sembrava molto più interessata alla società civile che alla politica tradizionale: credo che il primo Ulivo le debba molto, proprio per questa apertura nel 1995 alle forze migliori della società civile, che fu uno dei segreti del successo di quel pullman partito da Tricase, nel Salento.

Su questo, come su molto altro, sono convinto che Flavia abbia molto influenzato il successo di Prodi nel 1996. Dal suo impegno per le donne, senza mai concedersi alibi, alle idee per i giovani e le politiche per la famiglia, alla grande capacità di analisi e il saper scrutare il futuro partendo dalle vicende della vita reale, Flavia – come hanno ricordato molti amici – metteva sempre al centro la persona, le persone. In un’intervista La Stampa in un lontano 2007, che politicamente è molto più di una vita fa, intuì prima di altri il rischio dell’ondata di antipolitica: “Per noi la politica è senso civico”, disse. “Temo molto che l’antipolitica diventi sfiducia nelle istituzioni. È come se non ci si rendesse più conto di quanto ognuno di noi costa allo Stato, per l’istruzione, per la sanità, per i servizi. Non tutto va bene, certo, ma da qui ad attaccare le istituzioni…”.

Parole pronunciate oltre 25 anni fa e oggi quanto mai attuali. Perché una grande qualità di Flavia era quella di capire le tendenze, i movimenti ti della nostra società, molto più attraverso un’analisi delle dinamiche sociali che di quelle strettamente partitiche. Credo che anche su questo, ci fosse una grande complementarietà con Romano, altrettanto aperto ma più focalizzato sugli aspetti di governo, economia, industria e grandi questioni globali. Anche su questo, molto, moltissimo “insieme”.

Attorno a loro, Flavia e Romano hanno costruito, col loro esempio, con la loro intelligenza, una famiglia di grande simpatia e di grande apertura, che rifletteva tanto le loro personalità. Bastava stare poco a casa loro per accorgersene subito. Senza dubbio, un modello. Importante: perché i modelli esistono, e quando mettono la persona e i valori al centro, con sincerità e grande forza, come Flavia e Romano, fanno tanto bene a tutti.

Io sono tra quelli che, a Bruxelles, a Bologna, a Roma hanno avuto il grande privilegio e la grande fortuna di conoscerli insieme da vicino. E ho potuto imparare moltissimo da quella coppia tanto affiata quanto simpatica. Ti ricorderò sempre con grande affetto e grande amicizia.

Ciao, cara Flavia

Sandro Gozi

Pierluigi Bersani diventa attore: «Interpreto salumieri, rider, lavoratori. Non certo damerini del Settecento». L’ex segretario del Pd, appassionato di cinema, partecipa a un videoclip dei Têtes de bois interpretando diversi ruoli. «Un esercizio di sana autoironia, preziosa per la salute mentale. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 24 novembre 2023

Pierluigi Bersani ha un problema: «Mi piacciono troppe cose». Chi lo conosce lo sa, ma sa pure che valuta con molta attenzione le mille proposte che riceve ogni giorno da quando è un ex-parlamentare. Così Andrea Satta, frontman dei Têtes de bois, ha mandato avanti Sergio Staino. «Hanno un’idea stramba e coraggiosa, sono bravi, vuoi incontrarli? È l'ultima volta che l’ho sentito», sospira Bersani. I Têtes de bois però sono bravi davvero. Uniscono musica e militanza, rock, folk e azioni esemplari come l’invenzione del “palco a pedali”, mille ciclisti che pedalando sotto il palco creano l’energia per il concerto, l’hanno fatto con Greta Thunberg a Roma e con don Ciotti a Latina per la giornata dedicata alle vittime delle mafie. 

Così Bersani si è ritrovato con Milena Vukotic e la scrittrice Maria Grazia Calandrone dentro a un bizzarro videoclip extralarge che sarà al Torino Film Festival il 29 novembre, “Coupon, il film della felicità”. E non in un solo ruolo, ma tanti. Lo vedremo al banco dei salumi, perché siamo in un supermercato. Poi alla cassa con baffi e occhialoni da presbite. Ma anche con la tonaca di un prete che gioca a bocce. Alla fine è un rider con tanto di casco e parrucca che canticchia in ascensore dopo aver consegnato allo stesso Satta due pizze che forse hanno mangiato insieme, chissà. 

L’esperienza dev’essere stata divertente perché l’ex-segretario del Pd ancora ride. «Era un esercizio di sana autoironia, preziosa per la salute mentale. Mi piaceva anche questa critica ironica e amara alla false promesse dal consumismo, oggi che la gente non riesce più nemmeno a guardarsi negli occhi. Poi i Têtes de bois, in pista da trent’anni, hanno sempre dimostrato una generosità che meritava altrettanta generosità». 

Anche il regista Agostino Ferrente, autore di docu memorabili come “Selfie” e “L’orchestra di Piazza Vittorio”, non è uno qualunque. Anni fa sempre con Satta avevano già arruolato Margherita Hack in un altro videoclip, “Alfonsina e la bici”. Ma affidare a Bersani il ruolo di un rider, simbolo della Gig-Economy, ha un sapore diverso. «Quelli che interpreto sono tutti lavoratori. Se mi avessero vestito da aristocratico del Settecento con la parrucca avrei rifiutato, ma rider o salumiere mi vanno benissimo», dice Bersani, che da piacentino è un vecchio amico di Bellocchio e uno spettatore attento al cinema di ogni genere.

«Mi appassionano i film che ti sollecitano intellettualmente ma puoi guardare anche con gli occhi di un bambino, il capostipite è “Barry Lindon». Oppure quelli che riescono a descrivere un uomo nella sua complessità, né buono né cattivo, da Peckinpah a Eastwood e Kurosawa, o certe macchine perfette come “La finestra sul cortile”. Se penso a oggi prendo su Matteo Garrone, il suo è un realismo che mette le ali, “Io capitano” ma anche “Dogman”, “Reality”, “Gomorra”, “L’imbalsamatore”... roba seria! Di Bellocchio mi ha sorpreso la svolta quasi civica, da “Traditore” a “Rapito”, anche se “Marx può aspettare” non si batte. Torni a casa la sera e pensi alla tua di famiglia, un’analisi così radicale della sua storia personale che diventa universale». Mentre “Il sol dell’avvenire” provoca una delle sue contagiose risate. “Cosa posso dire? Quella rappacificazione finale sotto la faccia di Trotskij mi corrisponde abbastanza... rivedere tanta Storia senza rinnegarla, anzi inserendola in un solco di speranza, è un gesto importante. Come dire: poteva andare in un altro modo ma siamo ancora qui con le bandiere».

Moretti però si permette addirittura di cambiare la Storia del Pci di fronte ai fatti d’Ungheria. E qui Bersani si fa serio. «Qualche settimana fa all’lstituto di storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Piacenza, che dirigo, si è tenuto un convegno proprio sulla storia controfattuale. E se le cose non fossero andate così? È solo un espediente ma mette a fuoco i bivi. Che potesse andare diversamente in quel 1956, date le condizioni reali della politica di allora, è molto opinabile. Tuttavia quello fu un bivio, c’è poco da fare… Facile dire: si poteva evitare Berlusconi se si fosse fatto l’Ulivo prima, bella forza, non è stato possibile, ma certamente era così. Tutto questo ha anche un valore formativo, educativo. Noi lavoriamo con le scuole, se il passato avrebbe potuto essere diverso significa che anche il futuro è nelle tue mani, ti metti lì di buzzo buono e vedi cosa puoi fare. Con Marco Bellocchio, sempre generosissimo, abbiamo mostrato “Esterno notte” a tante classi quinte superiori di tutta Italia, per poi discuterne in rete con lui e con lo storico Miguel Gotor. Temevamo che proporre ai giovani il caso Moro fosse come parlare degli Assiri. Invece si sono appassionati. E questo dà speranza a chi oggi deve ricostruire l’alternativa». 

Curiosa coincidenza, anche il lungo speciale tv in bianco e nero che saluta con toni trionfali l’avvento in Italia dei supermercati all’americana, incorporato alle immagini e alle note di “Coupon”, risale al fatidico 1956. La storia è maestra ma è soprattutto dispettosa.

Salvatore Cannavò per “il Fatto quotidiano” - Estratti venerdì 24 novembre 2023.

“Per fare politica bisogna essere normali”. Al punto da mettersi nei panni di una serie di personaggi anonimi, lavoratori soprattutto, accomunati da umanità e sguardo sincero, tutti dalla parte degli ultimi, condizione con cui l’ex segretario del Pd è a proprio agio: “Son sempre il figlio di un meccanico”. 

Bersani attore è già notizia. Ma la partecipazione al film, un corto di venti minuti, di Agostino Ferrente e Andrea Satta, Coupon, il film della felicità, che sarà presentato al Torino Film Festival, non è l’anticipazione di una nuova carriera – “non ci penso proprio” – piuttosto, tramite le vie tortuose dell’arte, una testimonianza politica. La recitazione in via straordinaria del politico emiliano si accompagna a una presenza d’eccezione nel cortometraggio, quella di Milena Vukotic, 88 anni, che riesce a illuminare di grazia la propria presenza in scena.

(...)

Nei dieci minuti in cui apparirà nel film, l’ex segretario del Pd interpreta sette personaggi e il solo elencarli delinea una scelta di campo: un salumiere, un fruttivendolo, un cassiere, un prete, uno scaffalista, un testimonial di un poster pubblicitario e infine un rider, con una parrucca bionda e il casco da bici in testa. Personaggi del popolo che lavorano accanto agli ultimi, “personaggi da poveri cristi” chiosa Ferrente, come il prete che gioca a bocce in una Roma agostana popolata da chi non ha i mezzi per andare in vacanza. 

Anche “l’angelo custode” del film, che accompagna il protagonista nel suo sogno stralunato alla ricerca del “coupon della felicità” in un supermercato della periferia resa deserta dal caldo, ha il profilo di un senzacasa eppure felice, interpretato da Paolo Lombardi, voce importante del cinema italiano, che per fare questo film ha scelto di non nascondere la patologia neurologica che lo affligge. 

Bersani, così, a differenza del Silvio Berlusconi che si faceva raffigurare nei vari mestieri del mondo da piccoli pupazzetti falsi e di plastica – Berlusconi-operaio, Berlusconi-presidente, Berlusconi-saldatore – appare credibile, come chi quei mestieri li ha fatti davvero, mettendoci dentro uno sguardo empatico e intriso di etica del lavoro. “La realtà è fatta così – dice – e io ho molta empatia con la vita reale”. Ricorda la telefonata di Sergio Staino, a cui il film è dedicato, che gli girò l’idea nata da Satta e Ferrente, di fare questo film. “Poi mi misi ad approfondire l’attività di Satta, il suo lavoro da pediatra con gli immigrati e l’impegno dei Têtes de Bois: a chi fa questo tipo di cose non riesco a dire no”.

Bersani sottolinea anche il valore dell’autoironia, “consigliabile ai colleghi della politica”. Alla fine della proiezione ne ha anche per il ministro Lollobrigida, ricordando che la storia politica italiana è piena di persone che perdevano i treni e viaggiavano in ritardo.

Per Ferrente è stato lui “il più bravo di tutti”, per la capacità di dare un volto noto, politico, a un film che parla di solitudine e di poesia. 

La solitudine in fondo è il filo rosso della storia. “La solitudine – dice Bersani – crea un vuoto d’aria e non consente di divenire massa critica. Questo film aiuta, per questo ha una sua politicità”. Satta dice che la solitudine diventa isolamento proprio quando riferendosi al supermarket, “la carta fedeltà diventa la tua sola famiglia”. E Ferrente, invece, mette l’accento sull’abbraccio delle solitudini tra il rider-Bersani e il poeta-cerca punti della felicità. 

“Scusi il ritardo – dice il primo mentre effettua la consegna, rivelando un’amarezza intima ma anche la dignità del lavoro – ma mi stava per investire un Suv”. In due battute, la condizione del lavoro oggi.

Serracchiani e il flop Bonaccini, spunta l'elenco: "Quanti soldi avevano dato". Giada Oricchio su Il Tempo il 04 marzo 2023

Stefano Bonaccini ha perso le primarie per diventare nuovo segretario Pd, ma qualcuno ne è uscito più sconfitto. Chi? Ad esempio Debora Serracchiani e Andrea Marcucci che hanno contribuito economicamente alla campagna elettorale del presidente della regione Emilia-Romagna senza avere il ritorno sperato.

L’agenzia di stampa Adnkronos ha spulciato i conti dei sostenitori privati del “Comitato Bonaccini per la segreteria Pd” scoprendo che a gennaio ha ricevuto 61mila e 435 euro. La metà di questi è arrivata da deputati e senatori.

Nel dettaglio, la famiglia Marcucci ha versato ben 15mila euro: 5mila da parte dell'ex capogruppo al Senato nonché imprenditore nel campo farmaceutico; 5mila euro dal fratello Paolo e altri 5mila dalla sorella Maria Lina, fondatrice di Videomusic.

Tra i benefattori delusi ci sono anche i capigruppo di Camera e Senato Debora Serracchiani e Simona Malpezzi. La neo segretaria Elly Schlein sta valutando di affidare i loro incarichi a suoi fedelissimi, ma dopo l’incontro con Bonaccini si è rafforzata l’ipotesi che Serracchiani possa restare al suo posto. La vicepresidente della Camera Anna Ascani, la senatrice Valeria Valente, l’ex ministro Piero Fassino, il segretario del Pd romano Andrea Casu e Carlo Cottarelli hanno versato 500 euro a testa.

Nell’elenco stilato dall’Adnkronos, figurano le imprese del gruppo Gvm fondato da Ettore Sansavini, specializzato nella gestione di ospedali, cliniche, poliambulatori e centri medici di eccellenza in Italia e all’estero, il "Ravenna Medical Center srl", il "Villa Torri Hospital srl", il  "Maria Cecilia Hospital Spa" di Cotignola e la clinica privata "Villalba srl" oltre al "Primus Forlì medical center srl".  

La delusione di Bonaccini: «Ora tutti daremo una mano a Elly». Maria Teresa Meli, inviata a Casalecchio di Reno (Bologna), su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023.

Il governatore dell’Emilia-Romagna sconfitto da Schlein: «Lei ha saputo dare il segno del rinnovamento, non bisogna cedere a sirene che ci portano altrove». L’amarezza tra i suoi. Guerini a un compagno di partito: «Abbiamo ammazzato il Pd»

E poi è solo l’amarezza. E il rammarico. Stefano Bonaccini capisce l’antifona all’ora di pranzo. «Mi butto sul divano»: il presidente dell’Emilia-Romagna finisce di mangiare e si dedica al relax in casa. Sa che la giornata, anche tra qualche ora, non cambierà: «Loro avevano i tre quarti del gruppo dirigente, sarebbe stato difficile invertire la rotta». Ma davanti al suo comitato elettorale a tarda sera Bonaccini annuncia: «Ho chiamato Elly e mi sono messo a disposizione perché lei è stata più capace di me di dare un segno di trasformazione al Pd. Tutti le daremo una mano». Ma prima del risultato c’è la lunga attesa. Poco più tardi delle nove di sera dal quartiere generale del presidente della regione Emilia-Romagna esce Dario Nardella e non riesce ad ammettere la sconfitta.

Qui il ritratto - con una ricca foto story - di Stefano Bonaccini

In realtà è dalla mattina che arrivano a Bonaccini i dati dell’affluenza che premia la sua avversaria interna: «Gli elettori hanno voluto così, noi come promesso daremo una mano». Passa un’oretta, i dati non cambiano, se non per progressivi aggiustamenti, nello staff del governatore il nervosismo aumenta, lui calma gli animi. Ma i suoi supporter non sono altrettanto tranquilli: «Il Pd non esiste più». Bonaccini frena, anche se in cuor suo non è in disaccordo: «Adesso bisognerà ricostruire e non cedere alle sirene che ci portano altrove». Lorenzo Guerini, grande sponsor del presidente della regione Emilia-Romagna, mastica amaro e a sera dice a un compagno di partito: «Abbiamo ammazzato il Pd». Bonaccini non la pensa troppo diversamente ma non può essere così che lascia l’agone della politica nazionale, perciò insiste con i suoi a «continuare a lavorare per il partito». Ma in realtà il governatore teme che così non sarà, che qualcuno andrà via. Con l’amico Dario Nardella e il braccio destro Andrea Rossi si sfoga: «È andata, non starò tutta la notte ad aspettare». E infatti con il passare delle ore la forchetta si allarga e Bonaccini, che dovrebbe prendere la parola al suo comitato preferisce, invece non farsi vedere.

La sua rincorsa alla segreteria era la rincorsa perfetta, aveva aspettato e aveva deciso di non dare l’assalto a Zingaretti. Poi ha desistito ancora, lasciando campo libero a Enrico Letta. E ora era sicuro fosse giunto il suo momento. Alla fine ha compreso che non era ora nemmeno questa volta. Non era questo il suo momento. E «forse non lo sará mai più», sospira lui. Già, mai più, e non sarà più facile tornare indietro. La politica ha cambiato passo e Bonaccini si deve adeguare. Non sarà così per i suoi supporter, che evitano di mette la faccia sulla sconfitta. Nel frattempo i dem traballano e sussultano. Un pezzo degli ex popolari manda un comunicato per spiegare che visto che Bonaccini non c’è forse non ci saranno nemmeno loro. Il governatore legge attentamente il comunicato stampa di questo presunto addio: «Prende forma il processo di ricomposizione dell’area politica popolare». Già, sono gli ex ppi che se ne vanno via dopo aver capito che Schlein sarà la leader del nuovo Partito democratico.

Ma Bonaccini non ha intenzione alcuna di soffiare sul fuoco della scissione. Anzi, farà di tutto per «tenere insieme il partito» quello è l’imperativo. Almeno per lui. Anche se sa bene che dopo la vittoria di Schlein in molti vorranno andarsene. Ma Bonaccini è uomo di partito e non ammette «fughe o sfuriate». Preferisce accettare il risultato senza contrastarlo, e poi c’è la Regione Emilia-Romagna a cui ha promesso di dedicarsi di più. E lì resterà «convinto e determinato». Che restino dentro il Partito democratico convinti e determinati tutti quelli che lo hanno appoggiato è veramente da vedere.

Si imbrogliano pure tra loro. "Tessere gonfiate" alle primarie Dem. Bonaccini avanti. Di solito è l'atto finale quello più tragico ma il Partito Democratico - lo sappiamo - sa stupire. Le prime giornate del voto nei circoli, ossia la fase embrionale del congresso, sono già accompagnate da toni psicodrammatici. Francesco Boezi il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Di solito è l'atto finale quello più tragico ma il Partito Democratico - lo sappiamo - sa stupire. Le prime giornate del voto nei circoli, ossia la fase embrionale del congresso, sono già accompagnate da toni psicodrammatici. Si va dal caso delle «tessere gonfiate» a Caserta, in Campania, alle differenze temporali che sta interessando l'arrivo dei risultati, passando per l'aumento d'intensità delle reciproche differenze comunicative e tematiche tra correnti. Le statistiche a disposizione sino a questo momento, del resto, provengono soprattutto dal Centro-Nord, mentre ogni candidato sta tentando di cavalcare una narrativa che è giocoforza basata su esiti più che parziali. Stefano Bonaccini, che comunque viene dato in largo vantaggio, continua ad aprire a Terzo Polo e Movimento 5 Stelle, evidenziando le «battaglie» che le tre formazioni politiche dovrebbero portare avanti «insieme» e insistendo - questo però soltanto all'interno dei dem - sulla necessità di costruire una nuova «classe dirigente».

Umori diversi in casa Schlein, dove si continua a protestare per quanto sarebbe accaduto nella Regione governata da Vincenzo De Luca. «Dobbiamo sconfiggere il partito 'degli eletti' e delle tessere senz'anima e senza cuore. Lo spettacolo indecente del tesseramento 'gonfiato' in Campania è la dimostrazione evidente della degenerazione politica, culturale e morale del Pd, concepito e praticato, come il partito degli eletti e degli amministratori», dichiara Nicola Corrado, che della mozione Schlein è il coordinatore provinciale a Napoli. Ma a tenere banco non è solo il presunto caos casertano: Sandro Ruotolo, portavoce della Schlein per l'intera Regione, presenta un ricorso che riguarda Salerno. «Per ammissione della stessa commissione provinciale - incalza Ruotolo - , non si è adempiuto alla correzione dell'anagrafe con le indicazioni nazionali. Non si sono pubblicizzati i congressi di circolo con le 48 ore d'anticipo previste dal regolamento. Non è stato inviato il calendario alla commissione nazionale e quello inviato al regionale è stato mandato quando i congressi si erano già tenuti. Ma cosa c'è da nascondere?», si chiede Ruotolo. Bonacchini dal canto suo si scaglia contro ogni anomalia. Ma dalle parti dei sostenitori della Schlein - è evidente - che si respira aria di sospetti. Tra le fila del Pd, c'è chi prova a ridimensionare la questione, parlando di «personaggi locali ingovernabili sul piano nazionale». Che sarebbero poi gli stessi protagonisti del caso- tessere. Fatto sta che in alcune fattispecie, come in quella di Salerno, c'è chiede che i congressi vengano annullati.

Comunque sia, la Schlein, che è considerata l'underdog di questa competizione, punta forte sulla Toscana, dove ieri si è presentata e dove la partita viene definita «aperta» da più di qualche vertice del Partito Democratico.

In generale, la sensazione è che la sfida possa chiudersi 60% a 40% in favore del governatore dell'Emilia Romagna. Un dato che i bonacciniani si aspettano di confermare anche per le successive fasi congressuali, quando a votare non saranno soltanto gli iscritti. Parecchio distaccati tanto Gianni Cuperlo quanto Paola De Micheli. Entrambi dovrebbero uscire dalla competizione prima del turno finale. Per ora le statistiche raccontano la seguente situazione: Stefano Bonaccini ha ottenuto il 50,22%, mente la Schlein il 36,37%. Gianni Cuperlo ha il 8,6% e Paola De Micheli il 4,1%. Al netto di tutto, la sensazione è che al Nazareno non siano soddisfatti per la partecipazione. La stessa che non la scia ben sperare in vista delle prossime elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio.

Pd, ecco come si è autodistrutto e chi sta con chi, nelle primarie. di Milena Gabanelli, Simona Ravizza e Alessandro Riggio su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

In una democrazia le istituzioni funzionano correttamente quando c’è una solida maggioranza che governa e una forte opposizione che controlla. Per dirla con le parole di Adenauer: «In Parlamento una buona opposizione è una assoluta necessità che deve essere esercitata da un grande partito di opposizione». Un ruolo storicamente esercitato dal Pci, poi Pds, Ds e infine Pd, un partito che è riuscito a sbriciolarsi da solo. In 15 anni, dal 2007 a oggi, i segretari sono 8: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi, Maurizio Martina, Nicola Zingaretti ed Enrico Letta.

Il più longevo, e al tempo stesso il più divisivo, è Renzi, l’unico a vincere due volte la sfida per la segreteria, oggi è leader di un altro partito. Nessun segretario Pd ha mai concluso il mandato di quattro anni previsto dallo Statuto. I motivi delle dimissioni: sconfitta elettorale o spaccature nel partito diviso in correnti.Vediamo dove si posizionano oggi le diverse anime e come le Primarie stanno definendo nuovi equilibri. Lo facciamo incrociando i database dei politologi Luca Verzichelli (CIRCaP-Università Siena), Luca Carrieri (Unitelma-Sapienza), e Giulia Vicentini (Università Napoli Parthenope) e una laboriosa raccolta di informazioni sul campo.

Le correnti

Il Partito democratico riunisce già dalla sua origine due fazioni: una più di sinistra e laica e un’altra più centrista e cattolica. Succede che quando una delle due diventa minoranza, a seguito della sconfitta alle Primarie o alla perdita della leadership, si arma dando vita a una nuova corrente. Nel corso del tempo le divisioni ne generano di nuove, che vanno oltre le differenti sensibilità politiche e sconfinano in lotte di potere nel mantenimento di interessi personali.

Partiamo dalle correnti: come si formano e chi sono i principali esponenti.

Ala sinistra, che a sua volta riunisce cinque sottocorrenti.

1) I Giovani Turchi: lanciati da Matteo Orfini nel 2010 in piena era berlusconiana. Fanno parte la deputata Chiara Gribaudo e il senatore Francesco Verducci. Si sono staccati e ora sono autonomi il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il senatore a lui vicino Claudio Mancini.

2) Sinistra Dem: creata da Gianni Cuperlo a un mese dalla sconfitta alle Primarie contro Renzi nel dicembre 2013. La sostiene il senatore Andrea Giorgis.

3) I Dems: fondati da Andrea Orlando nell’agosto 2017, a pochi mesi dalla propria sconfitta alle Primarie di aprile contro Renzi. Tra gli esponenti di spicco, i parlamentari Peppe Provenzano (vicesegretario Pd con Letta) e Antonio Misiani (responsabile economico del Pd).

4) Prossima: lanciata nel maggio 2021 dopo le dimissioni di Zingaretti dai suoi fedelissimi Stefano Vaccari (responsabile dell’organizzazione Pd), Marco Furfaro (responsabile Comunicazione) e Valentina Cuppi (presidente Pd). Tra i più conosciuti Cecilia D’Elia (portavoce delle Donne democratiche), l’ex sindaco di Bologna Virginio Merola e Ouidad Bakkali.

5) Coraggio Pd: creata da Brando Benafei nell’autunno 2022.

Area Dem: nasce nel 2009 per volontà di Dario Franceschini dopo la sconfitta alle Primarie contro Bersani. L’ex coordinatore della Margherita rappresenta i cattolici di sinistra, come i parlamentari Bruno Astorre (segretario regionale Pd Lazio), Alberto Losacco (commissario Pd Marche) e Anthony Barbagallo (segretario regionale Sicilia). Nel tempo aderiscono ad Area Dem anche deputati e senatori ex comunisti come Piero Fassino, Franco Mirabelli, Marina Sereni e l’ex ministra di origine diessina Roberta Pinotti.

Base Riformista (nota come gli ex renziani): esordisce nel maggio 2019 per arginare le fuoriuscite dal partito verso Italia Viva, che Renzi fonderà pochi mesi dopo. È capitanata da Lorenzo Guerini e conta tra le sue fila i deputati Antonella Forattini, Andrea Rossi, Luciano D’Alfonso, Mauro Laus, Nicola Carè e i senatori Alessandro Alfieri, Simona Malpezzi, Alfredo Bazoli, Dario Parrini, Daniele Manca e Nicola Irto.

26 febbraio: o si svolta o si muore

I separati in casa ora devono scegliere il nuovo segretario in una sfida che sta rimescolando le correnti. Gli autocandidati sono 4.

Stefano Bonaccini, 55 anni, prima tessera Pci, da sempre nel Pd, una carriera politica costruita sul territorio come assessore comunale poi consigliere regionale e 2 volte presidente dell’Emilia-Romagna. Con la sua rielezione nel gennaio 2020, facendo leva sulla buona Sanità e la tenuta del sistema produttivo in anni di crisi, riesce ad arginare una avanzata del centrodestra a trazione salviniana che sembra inarrestabile. Nella corsa alle Primarie Bonaccini compatta Base riformista, la stragrande maggioranza di sindaci e governatori del Pd, più sostenitori come Deborah Serracchiani e Graziano Delrio. È appoggiato anche da una parte di Area Demcome Fassino, la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno, quel che resta dei Giovani Turchi, i lettiani Marco Meloni e Anna Ascani, e la mini-corrente di Brando Benifei, capodelegazione Pd al Parlamento Europeo.

Elly Schlein, 37 anni, tessera Pd nel 2013, lasciata a maggio 2015 in contrasto con Renzi, ripresa il 12 dicembre 2022 dopo la candidatura alle Primarie. È promotrice della campagna di mobilitazione nazionale OccupyPd dopo i 101 traditori di Prodi al Quirinale nel 2013. Entra nel Parlamento europeo nel 2014, dove non si ricandida per aspettare le Regionali del gennaio 2020: eletta, ma non decisiva per la vittoria di Bonaccini perché la sua lista prende solo il 3,77%. Si dimette da consigliera subito dopo per diventare vicepresidente di Bonaccini, carica che lascia per diventare deputata nelle elezioni del settembre 2022. Tra i temi forti ambiente, immigrazione, diritti civili e voto online. Nella corsa alle Primarie è sostenuta dalla parte di Area Dem vicina a Franceschini, da esponenti di spicco dei Dems come Andrea Orlando e Peppe Provenzano, dagli zingarettiani di Prossima e dal lettiano Francesco Boccia. Si è potuta candidare alle Primarie perché l’Assemblea nazionale del Pd cambia l’art.12 comma 6 dello Statuto che prevedeva che solo gli iscritti si potessero presentare.

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Paola De Micheli, 49 anni, consigliere comunale e assessore dalla fine degli anni Novanta, poi 4 volte deputata ancora in carica, 2 volte sottosegretaria, Commissaria al sisma e ministro delle Infrastrutture nel Conte II. Nel 2013 appoggia Cuperlo attaccando duramente Renzi sulla vicenda dei voti mancati a Prodi per il Quirinale. Nel 2019 coordina gli eventi di Piazza Grande ai tempi della campagna di Zingaretti a segretario Pd, di cui diventa poi vice. Dal 2016 al 2018 è presidente della Lega Pallavolo Serie A. La sostiene un gruppo di lettiani come Vito Defilippo e l’ex segretario provinciale di Genova Alberto Pandolfo.

Gianni Cuperlo, 61 anni, segretario nazionale della Fgci nel 1988, consigliere per la comunicazione di D’Alema premier nel 1999, 4 volte parlamentare e ancora in carica. Alle Primarie del 2013 prende il 18,2% dei voti contro il 67,6% di Renzi e diventa presidente del Pd per un mese per poi dimettersi. Lo sostengono il senatore Andrea Giorgis e Barbara Pollastrini.

Come si vota

Le Primarie si compongono di due fasi. La prima è riservata agli iscritti che votano dal 3 al 12 febbraio nei circoli, e da dove usciranno i due candidati con più voti. La seconda sarà il 26 febbraio con il voto aperto a tutti i cittadini. Per la prima volta potranno votare online gli italiani residenti all’estero, i fuori sede, i malati e i disabili.

Da sempre chi vince la prima tornata vince anche la seconda. Ma la forza del nuovo segretario/a dipenderà dall’affluenza ai gazebo: passata dai 3,5 milioni del 2007 a 1,6 del 2019. Se diminuiscono ancora, sarà complicato adempiere al mandato, che è quello di riportare voti a un partito al minimo storico, e castigato proprio per le sue guerre intestine.

Politica all’italiana. Gassman, Tognazzi e il declino di un partito democratico ridotto ad amici miei. Mario Lavia su l’Inkiesta l’1 Febbraio 2023

Poche idee, la Iena e le polemiche appaltate agli attori. Quella che doveva essere una costituente si sta rivelando la sceneggiatura di una commedia

Se la più forte polemica a sinistra è tra Alessandro Gassman e Ricky Tognazzi il momento è grave ma non serio, verrebbe da dire. E non certo perché quelle dei due attori non siano voci degne di attenzione ma per il pomo della discordia che li divide: nientemeno lo strano caso di Dino Giarrusso entrato/non entrato nel Partito democratico. A causa dei loro cognomi non si può fare a meno di pensare che sia una scena de I mostri. Invece è realtà: Gassmann ha annunciato che non voterà mai più Pd, Tognazzi ha replicato dicendo che l’ex Iena è una bravissima persona. 

Ora, non si pretendono polemiche come quella tra Togliatti e Vittorini e nessuno si era illuso che il congresso dovesse ospitare scontri dialettici sui rapporti di produzione o sulla conquista delle casematte del potere però a tutto c’è un limite: e con lo scivolone mediatico e politico targato Giarrusso causato non si è capito bene da chi questo limite è stato abbondantemente superato. 

Dopodiché, archiviato questo episodio incommentabile, non è che dal fronte delle primarie stiano giungendo altre notizie clamorose. I big si fanno i loro conti: mi conviene di più appoggiare lui o appoggiare lei? In assenza di una vera dialettica sui contenuti, di un confronto sulle idee, questa è l’unica bussola che sta guidando i comportamenti dei dirigenti, e non solo a livello centrale, dando tutti per scontato che il problema non è capire chi vince ma di quanto vince, e quindi quanti posti spetteranno ai perdenti, che poi dovranno sbranarsi tra di loro per spartirseli tra orlandiani, zingarettiani, franceschiniani, schleiniani “veri”. 

Dall’altra parte, Stefano Bonaccini avrà il problema di garantire un adeguato peso più che ai singoli personaggi al vero grande correntone di questo congresso, i sindaci, vere bocche da fuoco del campo bonacciniano, e i governatori tipo Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, mica dei pesi leggeri. Non se ne esce, da queste alchimie tutte interne: d’altronde nessuno è arrivato con la mitica “Costituente” (a parte i bersaniani, Laura Boldrini, e, se non abbiamo capito male, anche un’intellettuale non precisamente amica del Pd come Nadia Urbinati). 

Quante persone in carne e ossa in questa situazione esclusivamente dominata dalla conta tra correnti vecchie e nuove si metterà in fila ai gazebo? C’è da essere preoccupati, al Nazareno. Poi certo se la Cgil ci si mette di buzzo buono potrebbe portare un po’ di gente, soprattutto lo Spi, il sindacato dei pensionati guidato da Ivan Pedretti che pare parteggi per Elly perché Bonaccini con lui non si è fatto sentire. 

Se fosse scaltro, il Pd potrebbe fare del 26 febbraio, data delle primarie, una giornata di mobilitazione contro un governo che, come si è visto ieri con l’incredibile intemerata di Giovanni Donzelli, pare scegliere la strada della radicalizzazione dello scontro politico. Ma in ogni caso domina il grande vuoto di idee e da questo punto di vista il congresso – come lo chiamavano? Della rigenerazione? – è già un’occasione mancata malgrado l’annunciato vento di novità promesso da una Elly Schlein più timida delle previsioni e che anzi rischia di confermare nel più clamoroso dei modi che il Pd, come ha crudelmente detto Giuliano Amato, non è più un partito ma «una dirigenza», una specie di sindacato di un certo ceto politico che lavora per la sua sopravvivenza. 

Ancora più a sinistra (escludendo da questo discorso il post-Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte totalmente fermo in attesa di fregarsi le spoglie del Pd) forse sarebbe possibile una stagione di movimento all’incrocio tra pacifismo-neutralismo anti-Zelensky (penosa la polemica su Sanremo) e mobilitazione estremista sull’onda del caso Cospito, e non è facile capire le ragioni di una perdurante riflusso giovanile a cospetto di un evidente malessere sociale ed esistenziale di una parte delle nuove generazioni: probabilmente er Movimento non c’è perché non ci sono più le organizzazioni e i leader di una volta, e si sceglie l’estraneità, l’indifferenza. A proposito, vedremo alle Regionali del 12 febbraio (altre batoste per le opposizioni) quanto andrà male l’affluenza, soprattutto dei giovani.

E ancora, sul lato opposto, c’è da osservare che il riformismo interno ed esterno al Pd stenta molto a riprendere la parola, come se avesse da farsi perdonare da qualcuno la stagione renziana e restasse a metà strada tra la battaglia interna al partito e la costruzione di qualcosa che non c’è ancora; mentre ancora più in là l’area Terzo Polo/+Europa secondo Swg arriva all’11,4 per cento, solo tre punti sotto il Pd, dato al 14,2: qualcosa vorrà dire anche se non è chiarissimo come si intende dare uno sbocco pratico a questi orientamenti. 

È chiaro che siamo in una fase molto aperta e ricca di incognite: il congresso del Pd, i passi avanti che dovrà fare la federazione Azione-Italia viva se vorrà arrivare pronta come un vero partito nuovo alle elezioni europee del 2014, il traguardo con cui tutti dovranno fare i conti, a partire ovviamente dal governo che già vede un pochino scolorare la sua luna di miele a causa del fatto, come dice Azione, che non sta facendo niente.

Il pericolo per il riformismo italiano è però quello dell’attendismo, di perdere un anno a guardarsi l’ombelico, di trascorrere tutto il 2023 a ciurlare nel manico aspettando Godot. Che, come si sa, non arriva mai.

Dal “Foglio” il 31 gennaio 2023.

Al direttore - Caro Cerasa, torna D’Alema, arriva Giarrusso e vuole che un cammello abbia difficoltà a passare dalla cruna di un ago.

Valerio Gironi

 Risposta di Claudio Cerasa

Come dice Luciano Capone, il Pd dovrebbe stare attento, perché le iene di solito arrivano quando ci sono cadaveri da spolpare.

Estratto dell’articolo di Laura Cesaretti per “il Giornale” il 31 gennaio 2023.

Per una ex Iena che bussa, un ex ministro che dice «no grazie». Dopo due giorni, il Pd ancora non riesce ad uscire dal farsesco pasticcio in cui lo ha ficcato la furbata del grillino Giarrusso (e la scemenza di chi, nel Pd, gli ha aperto le porte).

 Per fortuna l’ex titolare della Farnesina Luigi Di Maio, che ha imparato da tempo l’arte della diplomazia, blocca sul nascere un nuovo tormentone al Nazareno: no, grazie, non ha alcuna intenzione di entrare nel Pd.

«In merito a quanto riportato dal quotidiano “Il Giornale” su una mia iscrizione al Partito Democratico, smentisco categoricamente […]». Insomma, l’ipotesi di una sua adesione è frutto di qualche millanteria. Del resto per un partito che […] continua in maggioranza a pensare che sia necessaria e auspicabile un’alleanza stabile col populismo filo-putiniano dei Cinque Stelle guidati da Conte, non sarebbe una mossa astuta quella di imbarcare il nemico mortale di Giuseppi, l’ex ministro degli Esteri che diede il via alla scissione di M5s contro di lui.

[I dem] nel frattempo sono ancora alle prese con l’incauto acquisto fatto dallo staff del favorito alla segreteria Bonaccini […]. Nelle sue file si è scatenata la caccia al colpevole: chi ha invitato alla kermesse del candidato a Milano Dino Giarrusso, già fervente grillino, anti-vax, insultatore seriale del Pd […]? Nessuno, a quanto pare. O, almeno, nessuno si assume la responsabilità dell’incidente che ha scatenato una valanga di critiche e polemiche […] .

Estratto dell’articolo di Valerio Valentini per “il Foglio” il 31 gennaio 2023.

L’imputato alla sbarra la mette sul ridere. “Lo abbiamo fatto apposta, cosicché Matteo Renzi potesse attaccarci e i nostri avversari la smettessero di dirci che Stefano Bonaccini è un suo amico”. Insomma Andrea Rossi, nel cortile di Montecitorio, sceglie l’ironia, per cavarsi d’impaccio.

 E’ lui, quest’uomo sempre affabile alla seconda legislatura dopo dieci da sindaco nella sua Casalgrande, nel reggiano, il supremo organizzatore della campagna congressuale di Bonaccini. E anzi, per Bonaccini, Rossi è qualcosa di più. E’ l’uomo-macchina, come usa dire. E’, cioè, il referente romano, e non da oggi. […] E si capisce che allora è con lui, più che con altri, che Bonaccini se la sia presa per il fattaccio di Dino Giarrusso. “Mi assumo le mie colpe”, sorride lui, aspirando il fumo di una sigaretta. “Sono inciampi che possono capitare”. 

[…] Perché dietro all’invito sul palco milanese c’è in verità un disegno più ampio, più strutturato, una trama che da mesi lega il Pd a Giarrusso. Almeno da quando, cioè, la mancata candidatura in Sicilia, che lui sperava di ricevere da Giuseppe Conte, lo ha portato in rotta col M5s.

Lui andrebbe fatto entrate nel nostro gruppo a Bruxelles”, diceva ai colleghi Brando Benifei, che guida la truppa europea del Pd. […] Ora, dicono, Giarrusso “si è messo a disposizione”. Sin da fine dicembre, almeno. Quando, un po’ a sorpresa, lo si vide comparire nella platea del teatro Vascello di Roma, mentre Bonaccini lanciava la sua corsa al nazareno in tandem con Pina Picierno. Eurodeputata anche lei, e non a caso. Del sud pure lei, e pure questo ha un valore, in questa storia. Perché, oltre a esibire i suoi follower, Giarrusso vantava [...] anche quelle 117.211 preferenze raccolte, tra Sicilia e Sardegna, alle Europee del 2019. E insomma era forte in quel meridione in cui Bonaccini [...] temeva qualche smottamento. Era audace sui social. […] [...] deve essere parso un buon affare. Prima che Giarrusso si mostrasse Giarrusso.

È colpa di Ponzio Pilato: il Pd e il caso Dino Giarrusso. Susanna Turco su L’Espresso il 30 Gennaio 2023.

Cosa dice dei dem che verrà l’autogol di Stefano Bonaccini, nella kermesse di Milano che doveva consacrare il candidato favorito alle primarie e che ha finito per aggrovigliarsi sull’ex grillino

È colpa di Giarrusso. È colpa di Benifei. È colpa di un senatore. È colpa della scaletta. È colpa del responsabile della scaletta. È colpa del microfono. È colpa di Ponzio Pilato. Era da tempo che nel Pd non si vedeva una così fantasiosa caccia al colpevole, scatenata d'altra parte da uno scivolone mediatico clamoroso come non se ne vedevano da tempo: la arraffazzonata adesione al Pd (con rampogna incorporata) da parte della ex Iena, europarlamentare eletto coi M5S, Dino Giarrusso, che sabato dai microfoni della Convention milanese di Stefano Bonaccini ha annunciato il suo ingresso nel partito di via del Nazareno, dominando di lì in poi tragicamente la scena dell'intera due giorni dove, in assenza di altre notizie di spicco, la sua mossa ha fatto da padrona sulle cronache. Con valanghe di critiche e indignazioni, sia del gruppo dirigente, sia soprattutto degli elettori dem, incarnati tutti da Alessandro Gassman. L’attore, parlando di un partito «cavallo di Troia» continuamente «riempito di individui che non sono richiesti», ha proclamato su Twitter: «Non vi voto mai più». Con Bonaccini che ha aspettato ben 24 ore prima di prendere le distanze dall'ex Iena, peraltro richiedendo delle preliminari «scuse» di Giarrusso per le «ferite» inferte, parole che suonano a loro volta abbastanza stonate in un contesto che è politico assai più che personale.

Una faccenda fantozziana, dall'inizio alla fine. Non si sa nemmeno, per dire, se Giarrusso possa iscriversi davvero: la commissione congresso del Pd sta valutando se sia ammissibile la richiesta da parte di un soggetto che abbia dato vita nei mesi scorsi a un movimento con il sindaco di Messina Cateno de Luca, vigendo nello statuto del partito il divieto di doppia tessera. Ma la questione burocratica sarebbe il meno. Il problema è politico.

Anzi, politico-mediatico. L'ultimo individuato, nella serie dei possibili colpevoli del misfatto, è infatti Andrea Rossi, uomo macchina del governatore emiliano-romagnolo, organizzatore della festa dell'Unità di Villalunga, quella regionale che ogni anno apre la stagione e fa concorrenza alle maggiori. Il che è come guardare il dito che indica la luna. Da più parti nel Pd dicono infatti chiaramente che il responsabile di tutto è alla fine proprio Stefano Bonaccini. Colui che i retroscena più compiacenti indicano come «esterrefatto» o «preso alla sprovvista» dall'uscita di Giarrusso, il quale secondo gli asseriti accordi sarebbe dovuto andare sul palco del Talent Garden di Milano a parlare di comunicazione e che invece ha esondato aderendo al Pd in maniera scomposta.

Ora: non si sa se sia peggio un politico che non sappia tenere le briglie della scaletta degli interventi, oppure un politico che non sappia calcolare l'effetto sugli elettori di una certa adesione. Bonaccini ha scelto - come si evince dalle ricostruzioni – di accreditare la prima ipotesi (non sapevo), ma gli cade addosso anche la seconda (non immaginavo).

Come è potuto accadere, in ogni caso, un tale iato tra le intenzioni e l’effetto ottenuto? Ricordano da più parti al Nazareno che Giarrusso s'era già affacciato una volta a una iniziativa di Bonaccini. Fu al Teatro Vascello, a Roma prima di Natale, il pomeriggio in cui il governatore ufficializzò il ticket con Pina Picierno. Anche lì c'era Giarrusso, ai cronisti disse stava là «per ascoltare» e la faccenda non scandalizzò nessuno, né opinione pubblica, né giornali. Deve essere dopo questa specie di prova generale, di apparente via libera mediatico, che Bonaccini - molto aperto a tutti gli apporti come si è visto in queste settimane - ha dato il placet per il Talent Garden dove però la mezza notizia che un mese prima era passata sotto silenzio è infine esplosa: e i molti apporti sono apparsi troppi, e il suo Pd (non solo a Gassman) una specie di Cavallo di Troia. Certo poi la kermesse di Milano era, dice Bonaccini, «una due giorni molto bella», peccato non se ne sia saputo altro.

Bonaccini: sono stato comunista, ma sapevo che il comunismo era una tragedia. Vittoria Belmonte su Il Secolo D’Italia il 20 Gennaio 2023.

A energia disponibile o alternativa, in Eni preferiamo energia disponibile e alternativa. Per sostenere il presente e il domani di tutto il Paese.  

Ha iniziato a fare politica nel Pci. Glielo ricorda Aldo Cazzullo in una intervista sul Corriere e Stefano Bonaccini, aspirante segretario dem, non si tira indietro.  «Non posso e non voglio dire di non essere mai stato comunista. Sono stato un comunista emiliano. E non ho nulla di cui vergognarmi; anzi, ne sono orgoglioso». Sì, ma il comunismo è stata una tragedia, lo incalza Cazzullo. E lui candido: «La nostra parte ne era consapevole da decenni. Quando Occhetto disse che dovevamo cambiare nome e simbolo, pensai: finalmente. E convinsi i miei genitori: anche loro consapevoli della necessità di cambiare, ma con qualche magone in più».

Lo dice senza troppa preoccupazione, tanto sa che nessuno imbastirà processi mediatici come avviene per altri leader, quelli della “parte sbagliata”. Per Bonaccini il comunismo era una tragedia sì, ma solo in Urss.

Mentre “il comunismo sovietico ha distrutto la libertà. Lasciatemi però ricordare che i comunisti italiani hanno contribuito a liberare il Paese. E a fare dell’Emilia una Regione tra le più ricche d’Europa, mentre nel ’46 era tra le più povere d’Italia”. Un ritratto caramelloso del comunismo emiliano che stride con quanto affermato, sempre in una intervista a Cazzullo, da Iva Zanicchi (che è di Ligonchio): là – affermò la cantante – certi contadini hanno ancora il ritratto di Stalin…

Quindi Bonaccini non nasconde una certa ammirazione per Giorgia Meloni. «Una che ha fatto la gavetta. Per lei è stata particolarmente dura, perché è una donna, e la politica italiana è molto maschilista». E torna a ribadire che se vincerà le primarie le chiederà un incontro “per dirle che la considererò sempre un’avversaria, mai una nemica. E se ci sarà da votare un provvedimento del governo che condividiamo, nell’interesse nazionale lo faremo». Incontro non finalizzato a un futuro, ipotizzabile governo istituzionale, che Bonaccini esclude. «No. In questa legislatura staremo dove ci hanno collocati gli elettori: all’opposizione. Al governo andremo solo se vinceremo le prossime elezioni».

 Bonaccini: «Schlein? L’affetto non verrà mai meno. Il problema al cuore, le figurine Panini a memoria e il comunismo». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Il governatore: «Sono stato un comunista emiliano e non ho nulla di cui vergognarmi. Anzi, ne sono orgoglioso. Gli occhiali a goccia? Li ha scelti mia moglie»

Bonaccini, qual è il suo primo ricordo?

«Il pallone. Fin da quando avevo due anni giocavo a pallone tutto il giorno. A cinque mi fermai».

Perché?

«Un problema al cuore: il foro di Botallo, che di solito si chiude alla nascita, era rimasto aperto. Mi regalarono una divisa da portiere. Ma io volevo giocare centravanti. Non capivo perché non potevo correre e sudare come gli altri. A nove anni fui operato, ad Ancona».

Come andò?

«Tre mesi d’ospedale. Adesso è un’operazione di routine, ma nel 1976 dovettero aprirmi lo sterno. Mia mamma Anna, emigrata in Svizzera, poi operaia in maglieria, lasciò tutto per stare al mio capezzale. Mio papà camionista, Guglielmo detto Ciccio, partiva la domenica mattina con il suo camion per venirmi a trovare. La sera tornava al paese, Campogalliano».

Ha poi ripreso a giocare a calcio?

«Fino a 38 anni. Centravanti. Sognavo di fare il professionista; ma mi sono fermato al Ganaceto. In compenso ho coltivato la passione per le figurine».

Panini?

«Ovviamente. Ho duecento album completi. Ogni primo gennaio, che è il mio compleanno, gli amici mi regalano un album nuovo. Alla presentazione del libro di Luigi Garlando sulle figurine Panini mi hanno fatto un test: dovevo riconoscere i calciatori, con il nome coperto. Tutti, dal 1970 in avanti. Non ne ho sbagliato uno».

Guardi che la prenderanno in giro, diranno che è matto...

«Semmai malato di calcio (Bonaccini ride). Con una buona memoria. Da bambino facevo i campionati da solo, giocando con le figurine...».

Lei iniziò a far politica a vent’anni nel Pci.

«Non posso e non voglio dire di non essere mai stato comunista. Sono stato un comunista emiliano. E non ho nulla di cui vergognarmi; anzi, ne sono orgoglioso».

Il mese scorso a Livorno si è fatto fotografare sotto la storica bandiera rossa. Lo sa, vero, che il comunismo è stato una tragedia?

«La nostra parte ne era consapevole da decenni. Quando Occhetto disse che dovevamo cambiare nome e simbolo, pensai: finalmente. E convinsi i miei genitori: anche loro consapevoli della necessità di cambiare, ma con qualche magone in più».

Erano comunisti anche loro?

«Militanti. Ma quando in tv vedevano Moro, Zaccagnini, Tina Anselmi, dicevano: “L’è na breva persauna”, è una brava persona. Il comunismo sovietico ha distrutto la libertà. Lasciatemi però ricordare che i comunisti italiani hanno contribuito a liberare il Paese. E a fare dell’Emilia una Regione tra le più ricche d’Europa, mentre nel ’46 era tra le più povere d’Italia».

Togliatti diceva che gli emiliani sono bravi ad amministrare, non a fare politica.

«Ma l’unico uomo di centrosinistra che ha battuto Berlusconi è Romano Prodi».

Qual è il suo primo ricordo pubblico?

«In casa si parlava di piazza Fontana, dell’Italicus. Ma il vero choc fu il 2 agosto 1980. Stavo guardando la sintesi dell’Olimpiade di Mosca, arrivò la notizia: è esplosa una caldaia alla stazione di Bologna. D’istinto pensai: come fa una caldaia a esplodere d’estate? Da allora non ho mai perso un corteo del 2 agosto, per ricordare la strage fascista».

Lei sa che la sentenza di condanna è molto contestata.

«Per me fa fede la lapide. Come dice Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione delle vittime, sulla lapide è scolpita la sentenza: la strage fu opera di fascisti, con la collaborazione di servizi segreti deviati».

Oggi c’è un pericolo fascista in Italia?

«No. Giorgia Meloni non è fascista. Semmai il pericolo è un sovranismo amico di Paesi che hanno torsioni autoritarie, come l’Ungheria. E l’assalto a Capitol Hill, come quello di Brasilia, è stato tecnicamente fascista. Purtroppo la destra italiana ha avuto simpatia per Trump e Bolsonaro».

Che cosa pensa della Meloni?

«Una che ha fatto la gavetta. Per lei è stata particolarmente dura, perché è una donna, e la politica italiana è molto maschilista. Se vincerò le primarie, le chiederò un incontro».

Per dirle cosa?

«Non certo per discutere del bilancio. Per dirle che la considererò sempre un’avversaria, mai una nemica. Ci troveremo contro molte volte. Ma se c’è da accogliere i migranti, noi ci siamo: a Natale qui in Emilia-Romagna ne sono arrivati 130 salvati in mare, non dimenticherò mai i loro occhi; nessuno deve morire annegato. E se ci sarà da votare un provvedimento del governo che condividiamo, nell’interesse nazionale lo faremo».

Si comincia così e si finisce con il governo istituzionale.

«No. In questa legislatura staremo dove ci hanno collocati gli elettori: all’opposizione. Al governo andremo solo se vinceremo le prossime elezioni».

E della Schlein cosa pensa?

«L’amicizia e l’affetto non verranno mai meno. Se toccherà a me, la coinvolgerò nella segreteria. Se toccherà a lei, mi metterò a sua disposizione».

Franceschini appoggia Elly.

«Dario ne ha pieno diritto».

Ma lei non voleva smantellare le correnti?

«Le correnti del Pd sono troppo cristallizzate. Così non servono a discutere, ma a dividersi».

Conferma che alle prossime elezioni i vari leader dovranno candidarsi nei collegi?

«Certo. E, se come temo la destra non cambierà la legge elettorale, le liste usciranno dalle primarie, non dalla segreteria».

Prima dovete fare le primarie del 26 febbraio. Quanta gente andrà a votare?

«Tanta. Ci scommetto. Siamo l’unico partito a farle. La sinistra in Italia esiste ancora. Ha voglia di riscatto. E lo dimostrerà».

Intanto il Pd è al 14% nei sondaggi. Non rischia la scomparsa?

«Peggio. Rischia l’irrilevanza. Io sono per tornare alla vocazione maggioritaria. Che non significa non fare alleanze, che sono necessarie. Significa non delegare nulla a nessuno. Non delego i voti di sinistra ai 5 Stelle, né i voti moderati al Terzo polo. Vogliamo andare a prenderceli noi. E anche a prenderli a destra».

Conte evoca Berlinguer, parla della «nostra storia».

«Se Conte è così di sinistra, non si presenterà più alle elezioni da solo; perché così diventa il migliore alleato della destra».

Reddito di cittadinanza?

«Non va abolito, va cambiato. Emiliano in Puglia e io in Emilia-Romagna fummo i primi a creare il reddito di solidarietà. Ma chi lo riceve deve essere accompagnato al lavoro. Oggi in Italia c’è una grande questione: il potere d’acquisto. Basta parlare di cuneo fiscale».

Perché?

«Perché la gente al bar pensa che sia una tassa per una città piemontese. E noi dobbiamo studiare Gramsci, Gobetti, Dossetti, Bobbio, i nostri padri nobili, e nello stesso tempo dobbiamo saper parlare come la gente al bar. Parliamo del taglio delle imposte sul lavoro. L’imprenditore stabilizza un precario? Lo Stato lo fa risparmiare».

Autonomia?

«Sì, però non quella di Calderoli. Non si devono spostare soldi da una Regione all’altra, ma consentire a ognuna di programmare gli investimenti e tagliare la burocrazia».

Lei alle primarie del 2012 sostenne Bersani, e nel 2013 Renzi.

«Pierluigi ha sempre la mia stima e il mio affetto. Renzi fu sostenuto dalla grande maggioranza degli elettori e dei dirigenti del Pd. Poi fu lui ad andarsene».

Renzi la definì il Bruce Willis di Campogalliano.

«Ero già pelato, ma non avevo ancora la barba...».

Si è parlato molto del suo cambiamento di look. A cos’è dovuto?

«Sempre al cuore. Ebbi un malore. Dovevo perdere peso, e l’ho fatto: dieci chili in tre mesi».

E i famosi occhiali a goccia?

«Li scelse mia moglie Sandra. Pensi che sui social mi hanno attaccato per le foto con due ragazze. Erano le mie figlie, Maria Vittoria e Virginia».

Chi è davvero Bonaccini?

«Uno che non si deprime e non si esalta. Ligabue direbbe una vita da mediano. La prima elezione a presidente fu mesta: mi indagarono nell’inchiesta spese pazze, fui prosciolto; vinsi, ma votarono in pochi. La seconda elezione fu una battaglia straordinaria: votò quasi il 70%, ebbi la maggioranza assoluta».

Salvini era al massimo storico.

«Tutti i sondaggi mi davano battuto. Ero presidente dell’associazione che riunisce centomila enti locali europei, potevo farmi eleggere a Bruxelles. Invece ho cominciato a girare i 330 comuni dell’Emilia-Romagna. Di ognuno so dire il nome, il numero degli abitanti, il nome del sindaco...».

Come le figurine Panini.

«È una Regione meravigliosa. Pensi solo alla musica: Verdi e Toscanini, e poi Pavarotti, Vasco, Dalla, Morandi, Bertoli, Zucchero, Carboni, Curreri, Mingardi, Nek, Casadei, Pausini, Milva, Iva Zanicchi, Orietta Berti che è testimonial dei nostri prodotti alimentari, Cremonini, Guccini. E i Nomadi. Fondati nel 1963. Ora celebreremo il sessantesimo anniversario...».

Oltre ai Nomadi, lei vorrebbe nel Pd D’Alema e Bersani?

«Voglio un Pd aperto e plurale; ma penso prima agli elettori che a singoli politici. Quello che ho in testa sarà un partito dalla forte impronta riformista. Di sinistra, ma non ideologico, né massimalista. Che sappia far sognare, e tradurre gli ideali in realtà».

Un nome?

«Prima di tutto le persone che si sono allontanate dal Pd. Poi: Liliana Segre, la più autentica testimonianza per le nuove generazioni della differenza tra il bene e il male. E Federico Buffa, per parlare un po’ di calcio».

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” - Estratti mercoledì 8 novembre 2023.

Meloni vs Schlein. Per la segretaria del Pd sarà un match lungo. Non si esaurirà col voto delle Europee del prossimo giugno, anche se per molti, soprattutto nei dintorni del Nazareno, sarà quello il test chiave per la sopravvivenza della leader del primo partito della sinistra italiana. 

Raccontandosi a Bruno Vespa, per il nuovo libro del conduttore di Porta a Porta , “Il rancore e la speranza”, in uscita oggi per Mondadori, Schlein fa capire che non si sente vincolata al risultato che i democratici otterranno fra 7 mesi. «Io penso che il Pd avrà un ottimo risultato», dice in premessa. Ma «sono stata eletta, comunque, per quattro anni per accompagnare il partito alle prossime elezioni politiche. Di qui ad allora ci saranno molte elezioni amministrative e regionali, ma il nostro obiettivo è il 2027, se questo governo non cadrà prima». Con la premier, Schlein racconta di sentirsi, di tanto in tanto, da ultimo per la nuova legge contro la violenza di genere: «Siamo avversarie, con una visione del Paese e del mondo agli antipodi, ma ci rispettiamo».

A dispetto di chi la macchiettizza come un’agit-prop movimentista o addirittura come un’erede della sinistra massimalista, Schlein è convinta che non perderà l’elettorato cattolico moderato, una delle due anime fondative del Pd. «Penso di no», risponde al padrone della “Terza Camera”, elencando le battaglie attorno a cui sta imperniando il suo Pd, dal salario minimo al diritto alla casa, alla sanità.

(...) 

Si intesta una “sterzata”, dunque, Schlein. «Stiamo riportando il Pd dove la sua gente sperava di ritrovarlo. Forse si era spostato troppo dall’altra parte. E questo aveva prodotto una frattura con i nostri mondi di riferimento: la scuola, il lavoro, l’accoglienza ». A proposito di “spostamenti”, Schlein con Vespa torna anche sulle ragioni del suo addio ai dem, datato 2015. «Fu una scelta sofferta, ma dovuta alla forte contrarietà alle riforme che il governo Renzi stava portando avanti, pur non essendo presenti nelle tesi con cui aveva vinto le primarie. Jobs Act, “Sblocca Italia”, una riforma costituzionale che non condividevo e una brutta riforma elettorale, passata a colpi di fiducia. Uscii per una frattura che si era già consumata con una parte dell’elettorato».

Nell’intervista a Vespa, Schlein muove altre critiche a chi l’ha preceduta. Insiste sulle colpe del centrosinistra, che non ha cambiato la Bossi-Fini quando avrebbe potuto, «ci siamo fatti male da soli, un grave errore compiuto per subalternità alla destra». O, sempre in tema di immigrazione, per la mancata riforma del trattato di Dublino, per cui «non spinsero nemmeno i governi di centrosinistra, né quello gialloverde di Lega e M5S». 

Quanto ai 5 Stelle, Schlein con Conte continua a mostrarsi morbida, evitando di ricambiare gli attacchi. Anche quando Vespa le ricorda che l’ex premier accusa i dem di volere l’accoglienza generalizzata dei migranti. «Conte, evidentemente, non ha letto le nostre sette proposte », replica Schlein. Ma la vis polemica si smorza subito: «La nostra gente è stanca dei litigi tra vicini».

Lasci il Pd per farlo vivere. Schlein non ha storia ed esperienza, è incapace di esprimere una linea politica: si faccia da parte. Il Pd oggi è un partito fantasma, non esiste. Non solo ci troviamo di fronte alla scomparsa della sinistra, ma anche a un sistema democratico che si sta inceppando per assenza di opposizione. Piero Sansonetti su L'Unità il 7 Novembre 2023

Elly Schlein è segretaria del Pd da otto mesi. Finora la sua segreteria non ha prodotto nulla. Il Pd oggi è un partito fantasma, non esiste. L’unica battaglia che ha combattuto, e perso, è quella per il salario minimo. Che poi non è stata una iniziativa del Pd. Il Pd si è limitato ad accodarsi ai 5 Stelle e lo ha fatto in modo confuso e fallimentare. Portando la battaglia alla sconfitta. Su tutto il resto è stato un susseguirsi di silenzi e di dichiarazioni contorte e incomprensibili.

L’apice della non esistenza è stato raggiunto in queste settimane. Il mondo intero è scosso dalla guerra in Palestina ed in Israele. Se ne discute ovunque. In tutte le grandi città dell’Occidente si sono svolte grandissime manifestazioni. L’Onu è intervenuta molte volte per chiedere il cessate il fuoco. Sul campo si intrecciano questioni molto complesse. I diritti dei palestinesi, i diritti di Israele, l’antisemitismo, l’antislamismo, l’uso del terrorismo e della guerra, il diritto alla terra, il pacifismo e l’interventismo.

Di fronte a tutto questo il Pd ha scelto la sua linea: il silenzio. Silenzio assoluto. Una linea molto simile a quella che ha tenuto sulla scuola, sul welfare, sulla giustizia, sulla sanità, sull’accoglienza ai migranti, sul fisco. Seguo la politica italiana da un po’ più di cinquant’anni. Non mi era mai successo di assistere a nulla del genere. In nessun luogo dello schieramento politico. Un partito – anzi il secondo partito italiano, in questo caso, quello più ricco di tradizioni, di cultura, di sapere, di eredità – ridotto a una ameba. Al nulla del nulla.

Il danno è enorme. Non solo ci troviamo di fronte alla scomparsa della sinistra, ma anche a un sistema democratico che si sta inceppando per assenza di opposizione. Sebbene i numeri dicano che i partiti dell’opposizione hanno raccolto, alle ultime elezioni, più voti dei partiti della maggioranza. La democrazia ha bisogno sempre di reggersi su due gambe. Maggioranza e opposizione. Sennò sbanda, va fuoristrada. È quello che sta succedendo.

Abbiamo una maggioranza che si muove incontrastata e va in difficoltà solo quando incontra alcuni modesti contrasti interni, oppure per le vicende familiari della presidente del Consiglio, o per l’intrusione di qualche comico russo. E tutto questo succede mentre per la prima volta, nel dopoguerra, la destra estrema – erede del Msi di Almirante – ha preso il potere e lo gestisce più o meno in perfetta solitudine.

Non voglio riaprire la discussione sul rischio fascista, che è una discussione inutile. Ci troviamo di fronte a una svolta reazionaria che non ha precedenti nella storia della Repubblica, perché avviene senza nessuna mediazione moderata, e rischia non soltanto di avere un peso fortissimo sulle politiche sociali, ma anche sull’orientamento generale dell’opinione pubblica.

L’Italia sta rompendo gli ormeggi e si sta allontanando velocemente dalle sue vecchie rive socialiste, liberali e cristiane. Tutto questo mentre la crisi economica morde, e morde soprattutto i più poveri. E mentre è chiaro a chiunque lo voglia vedere che il modello dello sviluppo di questi ultimi trent’anni non funziona più. Va ripensato. Va definita di nuovo la relazione tra capitale e lavoro, tra imprenditori e lavoratori e Stato, va immaginato un nuovo welfare.

È in questa condizione di assoluta emergenza politica che il Pd si è consegnato, per motivi non facili da capire, a una parlamentare priva di storia politica, di esperienza e di conoscenza politica, del tutto estranea alla vita del partito, e che fino a questo momento si è mostrata incapace di esprimere una qualsiasi linea politica. Nessuno riesce neppure a immaginare quale idea di paese abbia l’onorevole Schlein, né tantomeno quali siano le battaglie che intende aprire, e con quali alleanze, e in quale prospettiva.

Il tempo è scaduto. L’Italia ha bisogno del Pd, ha un urgente bisogno del Pd per ricostruire una battaglia politica moderna, per combattere il governo di destra, per ricreare gli equilibri democratici che sono saltati. La loro assenza rischia di travolgere la forma e l’essenza della democrazia repubblicana.

Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un capitolo del libro di Vincenzo De Luca molto molto critico verso Elly Schlein. Il linguaggio del governatore della Campania è sempre colorito, però è difficile dargli torto. Tutta la storia della segreteria Schlein è riassumibile in quella che lei ha voluto chiamare la lotta ai “cacicchi”.

E in che cosa consiste questa lotta? Nel togliere potere ai vecchi dirigenti del Pd per promuovere un piccolo circolo, forse volenteroso, ma del tutto inadeguato, da ogni punto di vista, a guidare un partito, tanto più a guidare il più grande partito dell’opposizione.

Torniamo al punto di partenza. Il tempo è scaduto. È assurdo aspettare le elezioni europee. Per quale ragione andrebbero aspettate? Per dosare nel modo giusto cacicchi vecchi e nuovi nelle liste per le elezioni di giugno? No, grazie.

Ora serve proprio un gesto di grande responsabilità. Da parte della segretaria e da parte dei vari dirigenti e delle tante anime del partito. Non c’è tempo da perdere. Il Pd non può restare in sonno. Va rimesso in pista, deve tornare nel gorgo della lotta politica. Con Schlein questo non è possibile.

DI Piero Sansonetti 7 Novembre 2023

Le critiche ad Elly Schlein. L’Unità, il Partito Democratico e il giornalismo. La differenza con l’Unità del secolo scorso è molto grande. Allora c’erano i partiti che erano gigantesche macchine di organizzazione e di formazione dell’opinione pubblica e della democrazia. Oggi i partiti non esistono più in quanto tali. Piero Sansonetti su L'Unità il 10 Novembre 2023

In molti ci hanno detto che noi dell’Unità non avevamo nessun diritto di chiedere a Elly Schlein – sulla base di argomenti in tutta evidenza assolutamente ragionevoli – di lasciare la segreteria del Pd per permettere a questo partito di riprendere vita, anima, leadership e attività politica.

Non ho capito perché non abbiamo questo diritto. Persone non iscritte al partito, e forse anche molto lontane da esso, hanno il diritto di scegliere il segretario del partito, e addirittura persone non iscritte al partito possono ambire (con successo) a diventarne segretario o segretaria. E invece un giornale deve rispettare in buon ordine le gerarchie del politburò, e non è autorizzato ad esprimere liberamente le proprie opinioni.

Perché? Mistero. Ammenochè questo atteggiamento non sia un residuo astioso della vecchia cultura stalinista. Che è stata sempre il punto debole del gigantesco patrimonio politico e teorico della sinistra italiana e del vecchio partito comunista.

Sono molto colpito dalle reazioni che ho ricevuto all’articolo nel quale mettevo in discussione l’autorevolezza e l’efficacia della segreteria di Elly Schlein. Anche perché non è un segreto che la grande maggioranza, sia del corpo del Pd sia del suo gruppo dirigente, è perfettamente d’accordo con me su questo punto. Semplicemente ritiene intempestiva la richiesta. Nessuno però mi ha spiegato dove è l’errore del mio ragionamento.

Ripeto le domande essenziali che ho proposto:

Il Pd è stato in prima linea nella battaglia per la pace in Ucraina e per fermare l’azione dei governi che hanno più volte violato l’articolo 11 della nostra Costituzione, partecipando ad una azione di guerra?

Il Pd è stato in prima linea, dopo l’orrore del 7 ottobre, per chiedere di fermare – come ha fatto l’Onu e persino il ministro degli esteri dell’Europa – la ritorsione israeliana condotta coi bombardamenti a tappeto, la distruzione di ospedali, la violazione del diritto internazionale, la realizzazione di molti crimini di guerra?

Il Pd ha guidato la battaglia politica per denunciare che in meno di un mese le truppe israeliane hanno portato a termine la più grande strage di bambini mai vista in una guerra (dati e denuncia forniti dall’Onu)?

Il Pd ha partecipato, o appoggiato, le manifestazioni pacifiste che si sono svolte in questi giorni?

Può il Pd gettare alle ortiche le sue tradizioni profonde, pacifiste, che nascono addirittura dai primissimi anni del dopoguerra?

Poi ci sono tutti i dubbi che riguardano la politica italiana. Fisco, sanità, scuola. Ne parleremo un’altra volta. Posso però accennare appena al fatto che l’unica proposta di intervento fiscale radicale, e dunque di cambio della politica economica del governo, non è venuta dal Pd ma dal “Fatto Quotidiano”, che ha dettagliatamente proposto alcune forme di tassa patrimoniale.

Già: Dal “Fatto Quotidiano”. Che non è nemmeno un giornale di sinistra. La qualcosa serve a introdurre un’altra discussione. Quella sul compito dei giornali, e in particolare dell’Unità. In Italia il panorama della stampa non è eccellente. Neppure lontanamente paragonabile al panorama della stampa in paesi come gli Stati Uniti, o la Francia, o Israele. Noi, dal punto di vista dell’informazione, assomigliamo di più – scusate l’esagerazione – alla Russia. La stragrande maggioranza dei giornali è centrista o di centrodestra.

Poi ci sono un gruppo agguerrito di giornali dichiaratamente di estrema destra, poi c’è il fatto Quotidiano che oscilla tra posizioni qualunquiste e posizioni di sinistra. Infine c’è Il Manifesto e c’è l’Unità. Cioè gli unici due quotidiani di sinistra. Tutti e due con radici molto antiche. Il manifesto è erede della grandiosità intellettuale di un gruppo di giornalisti e pensatori che ebbero un gran peso nella politica e nella sinistra nel secondo novecento e all’inizio di questo secolo.

Parlo di Rossanda, Castellina, Pintor, Parlato, ma anche di Lucio Magri, di Aldo Natoli e di molti, molti altri un po’ meno conosciuti ma di grande valore , compresi gli ultimi direttori, Norma Rangeri e Andrea Fabozzi. L’Unità invece nasce dall’iniziativa di Gramsci, negli anni venti, ma poi soprattutto dalla geniale intuizione di Togliatti, dopo la Liberazione, che ne fece uno dei più importanti giornali sul piano nazionale, e anche europeo.

L’Unità di Togliatti, e poi di Longo e di Berlinguer, ma anche di Ingrao, di Reichlin, di Chiaromonte e Macaluso è stata la spina dorsale del più grande partito comunista libero del mondo. Questo era il Pci. L’Unità rappresentò per il Pci, e per la sinistra, il più forte strumento di informazione, di formazione, di organizzazione di massa e di ricerca ed elaborazione teorica.

Oggi cosa è, o cosa può essere, o cosa deve essere l’Unità? Io penso che – ridotte le dimensioni e la potenza editoriale – debba ambire ad assomigliare molto, nello spirito e nella missione, alla vecchia Unità. La differenza con l’Unità del secolo scorso è però molto grande. Allora c’erano i partiti che erano gigantesche macchine di organizzazione e di formazione dell’opinione pubblica e della democrazia. Oggi i partiti non esistono più in quanto tali.

Non hanno nemmeno la parvenza di una struttura democratica, sono verticistici, oligarchici, poteristi e autoritari. Scollegati dal popolo. Al loro interno non funzionano più né meccanismi di selezione, né di formazione, né di costruzione teorica. Si sono riorganizzati, per sopravvivere, come comitati elettorali piramidali. La democrazia per i partiti non è più qualcosa da costruire ma una greppia da sfruttare per ricevere potere e risorse.

In queste condizioni la funzione della stampa oggettivamente si modifica. La stampa è chiamata ad un ruolo di supplenza. Non è in grado di produrre organizzazione e democrazia, ma può produrre teoria e sollecitare battaglie politiche. Tanto più necessaria in un paese governato a bacchetta dalla destra e nel quale l’unico luogo di opposizione, paradossalmente, risiede in Vaticano.

L’idea sulla quale abbiamo deciso di rimettere in pista l’Unità, d’accordo con l’editore, è questa. Vogliamo svolgere questo ruolo. Imporci come punto di riferimento per le battaglie, pacifiste, garantiste, riformiste, libertarie ed egualitarie. Diventare un luogo aperto di cultura e di elaborazione politica.

Siamo convinti che per avere qualche possibilità di successo sia necessario interfacciarsi con le strutture della politica. Quali? Beh, oggi ci sono le Ong, alcune associazioni, brandelli di partiti e di sindacato. In queste condizioni si rischia di essere schiacciati. Occorre un partito. Un partito che inizi a pensare se stesso non come un accrocchio di potere ma come un centro politico. Abbiamo il diritto di gridare questa esigenza, senza sottometterci alla realpolitik della prudenza? Piero Sansonetti 10 Novembre 2023

La risposta alla segretaria. Cosa erano L’Unità e il Pci, lezione di storia a Elly Schlein. Schlein dice che questo giornale è caduto in basso ed è lontano dalla sua storia originaria. La stessa storia che lei ha detto di non conoscere...Piero Sansonetti su L'Unità il 9 Novembre 2023

Ha suscitato molte polemiche la presa di posizione del nostro giornale su Elly Schlein. Che era molto semplice. Abbiamo soltanto osservato che un partito che da otto mesi non riesce a prendere posizione e a dare battaglia sui temi fondamentali dello scontro politico – e che lascia via libera al governo Meloni, e che resta muto e attonito di fronte alle guerre – non è più un partito.

E siccome invece l’Italia ha bisogno di un partito di sinistra, è bene cambiare alla svelta il gruppo dirigente del Pd. Nessuna delle critiche che abbiamo ricevuto è sul merito delle tre osservazioni. E nessuno ha provato a rispondere alle domande che abbiamo posto. Semplicemente ci è stato detto che abbiamo sbagliato i tempi del nostro intervento: dovevamo rinunciare a disturbare il manovratore fino alle elezioni europee.

Il problema è che il manovratore, al momento, si limita a manovrare su piccole questioni di potere. E forse ha in mente, come compito essenziale, quello di compilare le liste elettorali per le europee in modo da soddisfare o punire i vari capi corrente, amici o nemici. Mentre a noi sembra che la politica sia un’altra cosa. E abbia altre urgenze.

La prima urgenza, credo sia chiaro a tutti, è la guerra. Personalmente sono convinto che un partito politico moderno e di sinistra debba essere costruito su tre pilastri: il pacifismo, il garantismo, l’egualitarismo. E che il pacifismo non sia il più fragile di questi pilastri, ma anzi sia il più robusto, sostenuto da una ideologia antica e radicata, che accompagna tutta la storia della sinistra, ma è anche arricchita da significativi settori liberali e dal pensiero e dalle idealità cristiane.

Elly Schlein, da quello che capisco, è molto lontana da questa idea. Considera la politica internazionale un problema secondario. È uno dei motivi – ma ce ne sono altri – per i quali a me sembra urgente che compia il gesto generoso di fare un passo indietro e permetta a persone più esperte di prendere in mano il partito.

Un partito politico, anzi, il più importante partito politico dell’opposizione, di fronte a questa grande strage di bambini – la più grande di tutti i tempi, ha detto ieri il segretario generale dell’Onu – non può voltarsi dall’altra parte perché è impegnato nella scelta del candidato sindaco di Firenze. La Pira non sarebbe stato d’accordo.

P.S. Ho sentito che in tv l’onorevole Schlein ha spiegato che l’Unità è caduta in basso, in mani lontane dalla tradizione del giornale. Tranquilla. Non è così. L’Unità è nata come giornale del Pci e come giornale di quel partito ha vissuto i suoi tempi migliori.

So che lei ha dichiarato anche in tv di non potere giudicare il Pci perché quando è stato sciolto lei era piccola. Se vuole un aiuto, glielo do volentieri: posso raccontarle tantissime cose del Pci e dell’Unità, per la quale ho lavorato trent’anni anche con importanti incarichi dirigenti, accanto a direttori di straordinarie doti giornalistiche e umane.

La storia del Pci e dell’Unità è una storia ricchissima, piena di sapere, di impegno, di vita e di lotte. E piena di idee e di politica vera. Quando Alfredo Romeo, che oggi è l’editore dell’Unità (e che da ragazzo militava nella Fgci), mi ha chiamato per chiedermi di dirigere l’Unità, mi ha detto proprio questo: devi riportarla alle vecchie tradizioni di lotta che furono del Pci. Lo so: questo non piace a Elly Shlein. Credo che sia uno dei motivi della sua inadeguatezza. Piero Sansonetti 9 Novembre 2023

Vincenzo De Luca demolisce Elly Schlein: "Nel Pd se sei ciuccio vai avanti". Libero Quotidiano il 07 novembre 2023

Vincenzo De Luca continua a bastonare il Pd. Il governatore della Campania non usa toni teneri quando parla del suo partito e va all'attacco: "Nel Pd attuale il metodo scelto è la selezione in negativo: più sbagli, più sei un ciuccio e più vai avanti. Il loro problema è non avere concorrenti nella prossima campagna elettorale per quando devi fare le liste, e non governare l’Italia", afferma il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca presentando il suo libro "Nonostante il Pd" nel Tennis club di Napoli. "Con questo gruppo dirigente non ho da spartire niente - aggiunge - ma non mi sento di tradire quelli che hanno combattuto con me e che ci hanno creduto".

Ma non finisce qui: "Il Pd era un grande partito, ma per non aver avuto il coraggio di cogliere la modernità, quel grande partito, tra gli applausi, ma è morto, tra le bandiere al vento, ma è morto. Perché la realtà non abbiamo saputo governarla", afferma De Luca. 

A questo punto arriva l'affondo: "Per una forza come la nostra non abbiamo spiegato ancora - aggiunge il governatore - perché gli operai votano a destra, hanno votato per la Lega. Sul piano culturale, sociologico, non abbiamo capito come si è trasformata neanche la figura dell’operaio". Nel partito ci sono "gruppi dirigenti che io chiamo anime morte, perché - spiega - non contano nulla nelle aree sociali di appartenenza, non li conoscono nemmeno. Quando vai al disastro elettorale devi chiederti: ma chi ha governato per dieci anni? Chi ha fatto parte della segreteria? Chi è stato nel governo senza nessun merito? Non ci sarà il rinnovamento perché i vecchi marpioni e capicorrente sono tutti lì. Nel mio libro dico che sembrano turisti svedesi capitati per caso". "Io - osserva ancora il governatore - sono contro la rottamazione, che è politicamente idiota e umanamente volgare, ma a un certo punto un giudizio di merito devi proporlo, o l’Italia non la governi mai".

Vincenzo De Luca show da Fedez, nuova bordata a Schlein: "La dialettica?..." Libero Quotidiano il 05 novembre 2023

Vincenzo De Luca ha annunciato che sarà lui il prossimo ospite di Muschio Selvaggio, il podcast condotto da Fedez e dedicato a tematiche di cultura e di società. Attraverso un post pubblicato sui suoi canali ufficiali, il presidente della Regione Campania ha anticipato la sua prossima ospitata. "Domani, alle 12 andrà in onda la mia intervista con Fedez e Davide Marra, ospite del podcast 'Muschio selvaggio'", ha scritto. Solamente due settimane fa Vincenzo De Luca era stato uno degli interlocutori di Fabio Fazio a Che tempo che fa, il programma di politica e di attualità che va in onda ogni domenica sul Nove. 

Il format del podcast non ha di certo intimorito Vincenzo De Luca che, anche in quest'occasione, ha ribadito la sua necessità di smarcarsi dalla segretaria del Partito democratico Elly Schlein. "Abbiamo un gruppo dirigente che nella grande maggioranza, per quello che mi riguarda, è un gruppo dirigente di anime morte", ha detto senza tanti peli sulla lingua.  

Un gruppo dirigente di anime morte, ha continuato quindi il suo ragionamento De Luca, "che non rappresentano nulla né sul piano territoriale, né sul piano sociale e spesso nemmeno sul piano della grammatica e della sintassi". Incitato dai due conduttori, il politico ha confermato quanto sempre dichiarato in merito all’attuale guida del partito: "I contenuti programmatici sono, diciamo, flebili. La dialettica? Peggio". 

Vincenzo De Luca e l’ambigua accusa a Elly Schlein: «Ha tre cittadinanze». DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 25 ottobre 2023

Nel catalogo dei colpevoli del declino del Pd il presidente campano fa scivolare un’allusione curiosa: che la segretaria “Elena” sia influenzabile da «fattori esterni»

Grazie al suo temperamento pirotecnico, le ultime interviste e le comparsate tv del presidente della Campania Vincenzo De Luca aggiungono frizzi e lazzi a quello che ha scritto nel libro in promozione, Nonostante il Pd (Mondadori).

La tesi di fondo è nota agli amanti del genere. Il presidente rivendica i successi in regione e fa capire che si ricandiderà per un terzo mandato, con o senza il Pd, insomma «nonostante il Pd». Ma il tema si pone fra tre anni. Il punto implicito è non che a quel traguardo arrivi De Luca, ma che ci arrivi il partito. «Il futuro del Pd non è garantito», scrive «il suo declino – in assenza di una svolta sostanziale, che non si vede – è fra gli scenari da non escludere».

IL CATALOGO DEGLI INNOMINATI

Da qui la compilazione del catalogo di quelli che ritiene responsabili della possibile sciagura, peraltro tutti suoi avversari interni. La più bersagliata è naturalmente la segretaria nazionale, nominata sistematicamente con il nome all’italiana, l’onorevole “Elena” Schlein. De Luca l’accusa di non poter rinnovare il partito per aver accettato alle primarie il sostegno di «tutti i principali responsabili del disastro elettorale». Sul podio anche Antonio Misiani, commissario del Pd campano, «contatore dei piccioni a Venezia, nel film Totòtruffa ’62».

Ci sono quelli neanche degni di una citazione per nome, come Dario Franceschini, al quale lancia un invito che è quasi a una sfida a duello: «Spero che mi tocchi, prima o poi, il privilegio di incontrarlo (da solo), per manifestargli tutta la mia commozione e ammirazione: dai canti gregoriani, dal biancofiore simbol d’amore, a main sponsor della rivoluzione in cammino».

La «nullità politica» dovrebbe essere il deputato Marco Sarracino, già segretario del Pd di Napoli, giovane ma combattivo non "deluchiano”, titolare di una «stupidissima interpretazione sulla vicenda del Comune di Napoli»: De Luca rivela la regia della corsa di Gaetano Manfredi, ma circolano versioni diverse.

Segue giudizio tranchant su un «membro della segreteria», «anche esteticamente impresentabile: una sorta di spinone a pelo lungo»; la zampata si indovina per Sandro Ruotolo, ex senatore, ex giornalista del gruppo di Michele Santoro, oggi vicino a Schlein, il primo a chiedere il commissariamento del Pd Campania.

Un commissariamento che De Luca contesta alzo zero, e per cui se la prende non solo con Misiani, ma – è la novità – con il capo della minoranza Stefano Bonaccini. Anche lui non è nominato, ma se il commissariamento, è «un miserabilissimo tentativo di ribaltare il risultato delle primarie in Campania, nelle quali l’onorevole Schlein era risultata perdente per 30 a 70», Bonaccini, sostenuto da lui, ne esce come core ingrato, troppo cedevole a una «cialtronata» «giocata, per settimane, contro il presidente della Regione Campania», cioè sé medesimo.

L’INTERESSE DELLA NAZIONE

Ma il passaggio più curioso, indecifrabile e velenosetto, si trova alla fine del capitolo «Dopo le primarie». Qui la prosa battutara frena di botto, il tono è diverso: «Va rilevata, infine, quella che a me pare perlomeno una anomalia. Le cronache ci informano che la segretaria Pd ha una tripla cittadinanza (italiana, americana, svizzera). Io credo che un leader nazionale debba garantire ai cittadini italiani che le posizioni che assume non siano influenzate da fattori estranei agli interessi nazionali».

Dunque Schlein, in quanto detentrice di due passaporti esteri, non fornisce «garanzia» di non essere «influenzata» dagli interessi di altri stati, come un agente straniero? E magari nel caso (a oggi per lo meno improbabile) di un incarico di governo, non sarebbe affidabile in un paese che ha avuto come premier e come vicepremier due amiconi di Putin? Al netto di rivelazioni, il dubbio sembra più adatto a un avversario nazionalista che a un compagno di un partito (moderatamente) internazionalista. E infatti il passaggio è stato notato da qualche fanzine sovranista.

Forse De Luca allude all’interesse per Schlein da parte della piattaforma americana Social Changes, già organizzatrice della campagna di Obama, e che alle scorse politiche italiane ha sostenuto qualche candidato di sinistra; fra cui, guarda caso, il senatore Misiani: il vituperato commissario della Campania.

Interrogato sul punto, De Luca minimizza: «Ho solo preso atto di un dato oggettivo, di cronaca, peraltro sollevato da tutti i commentatori e dai giornali al momento dell’elezione». In realtà però nel libro scrive «io credo», non «prende atto» di «anomalie» notate da altri.

Schlein sa bene che, se a suo tempo la corsa per il terzo mandato alla regione non sarà anche in nome del Pd, De Luca venderà cara la pelle. Lui non ha fretta: perché non si sa chi fra tre anni sarà il segretario Pd, la tradizione dem rema contro di lei. Lei comunque è avvertita: se lo scontro sarà con lei, sarà senza esclusione di colpi.

DANIELA PREZIOSI

Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Compagni nostalgici, ora la sinistra si aggrappa ai suoi nonni. Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 03 ottobre 2023.

Ma quale Elly Schlein. Ma quale ricambio generazionale e rinnovamento del partito. Ma quale apertura ai movimenti. Quando bisogna andare contro il centrodestra e il governo Meloni, la sinistra preferisce buttarsi sull’usato sicuro, richiamando in servizio degli ex mostri sacri che oggi, però, sembrano più adatti al ruolo di “nonni nobili”. Così ecco che Repubblica, la Stampa e In altre parole, il programma di Gramellini in onda su La7, rispolverano nell’ordine Giuliano Amato (ex premier, 85 anni), Lamberto Dini (ex premier pure lui, 92 anni) e Achille Occhetto (mancato premier nel 1994 per colpa di Berlusconi, 87 anni). La colpa non è loro, sia chiaro, e tutti speriamo di arrivare a quell’età nella stessa forma, ma il fatto che i progressisti siano costretti a inseguire le solite vecchie glorie (a questi tre di solito si aggiungono Prodi e Bersani), dimostra che da quelle parti hanno qualche problema. Se da un lato si riempiono la bocca con i giovani, le donne e la “destra retrograda e nostalgica”, dall’altro sono loro che non riescono a staccarsi da un passato non più recente in cui la sinistra era, nonostante tutto, più in forma di oggi. Segno evidente che le nuove leve (la Schlein, certo, ma anche il suo gruppo dirigente) non sono considerate poi così autorevoli e così credibili.

E allora ascoltiamoli, questi tre sermoni. Amato, parlando di immigrazione in un’intervista a Repubblica, ha proposto di riconoscere lo status di “rifugiato per fame”.

«L’Europa», ha spiegato, «deve uscire dall’equivoco in cui ha finito per cacciarsi negli anni della grande crisi economica, quando fu lasciata aperta solo la strada per i rifugiati politici. Quale fu la conseguenza? Chiunque volesse arrivare dichiarava di essere un perseguitato politico, mentre moltissimi erano perseguitati dalla fame». «Non è ammissibile sul piano dei diritti umani», ha aggiunto Amato, «che si accolgano i perseguitati dei regimi e si respinga chi scappa da carestia e fame. Che cosa tornano a fare in quei Paesi se non c’è niente da mangiare?». Insomma, addio espulsioni...

Lamberto Dini, sentito dalla Stampa, ha dato invece un giudizio generale sul governo Meloni. L’esecutivo, secondo l’ex premier, «tiene una linea di ferma coerenza in politica estera con l’appoggio all’Europa, agli Stati Uniti e alla Nato». Non offre però «un sostegno altrettanto solido alle regole della finanza pubblica della Commissione Ue e alla politica monetaria europea. Giudicano negativamente il Mes, il patto di Stabilità, il rialzo dei tassi della Bce: sono critiche sbagliate che minano la credibilità del Paese e influenzano i mercati, lo spread e il costo del debito». Insomma, dovremmo esultare per il rialzo dei tassi?

La Nadef, ha continuato, «prevede un ulteriore aumento del debito pubblico, invece di indicare almeno una lieve diminuzione: questo è il problema. Peserà sull’atteggiamento degli investitori, compromettendo l’affidabilità italiana di fronte ai mercati. Mi sembra che l’esecutivo non sia perfettamente cosciente di questi pericoli, credo per mancanza di esperienza in materia». Eccola qui, un’altra frecciata... E infine, nel salotto esclusivo di Gramellini, si è accomodato Achille Occhetto. Che ha difeso la Schlein e le ha consigliato: «Per le prossime elezioni noi dobbiamo creare il campo più largo possibile per sconfiggere questa destra». E poi: «C’è un’Italia che vuole un’altra Italia rispetto a quella che vuole la destra. E ci dovrebbe essere l’alleanza di questa Italia diversa, per cambiare il registro politico negativo e pericoloso che sta di fronte a noi, indipendentemente dalle diverse posizioni dei partiti. Come avvenuto nel Cln...». Insomma, sempre a guardare ai bei tempi andati. La solita sinistra con un grande avvenire dietro le spalle...

Quattro e mezzo. La batosta tv di Schlein è la prova dello scollamento con l’intellighenzia di sinistra. Mario Lavia su L'Inkiesta il 16 Settembre 2023

La segretaria del Partito democratico ha mostrato tutti i limiti della sua leadership nell’intervista con Lilli Gruber e Massimo Giannini su La7. L’ultimo episodio di una crescente distanza con l’establishment che una volta la sosteneva

Un massacro. Nella puntata di giovedì sera di Otto e mezzo, Elly Schlein, la leader della sinistra italiana, è stata duramente messa in mezzo da due giornalisti di indiscussa fede di sinistra, Lilli Gruber e Massimo Giannini. Hanno fatto quello che devono fare i giornalisti, cioè mettere in difficoltà il politico di turno. Certo, ma non basta questo a spiegare il tono energico e gli sguardi velenosi che Lilli di solito riserva, che so, a un Matteo Renzi. Sembrava, Lilli, il Nanni Moretti di “Palombella rossa” («Ma come parlaaaa?») rinfacciando a Elly una frase pronunciata al Tg della sera: «Lei oggi ha detto, parlando di Lampedusa, che è la dimostrazione del fallimento delle politiche di esternalizzazione del Governo. Ma chi la capisce se lei parla così?». 

Il primo uppercut ha fatto male. Ha colpito Elly su un suo punto di forza, la freschezza, l’immediatezza, il superamento del politichese. Lei poi ha spiegato cosa intendeva dire ma ormai era troppo tardi: «Deve spiegarlo agli italiani», non a noi, infieriva Giannini. Gruber poi non ha mai mollato l’osso, tutta tesa a far venire fuori che sull’immigrazione, al di là delle solite e scontate bordate a Giorgia Meloni, il Pd non ha una linea, Elly ha provato a imbastire un discorso – Dublino, Viktor Orbán, le Ong – ma il doppio misto Gruber-Giannini picchiava, la destra fa schifo okay e Marco Minniti è superato, e allora? Allora boh: ricette futuribili, poco comprensibili. Come se non sapesse cosa dire. 

Non che la questione sia facile e se non sei un superprofessionista alla Massimo D’Alema, alla Matteo Renzi, alla Walter Veltroni, alla Pierluigi Bersani, almeno alla Dario Franceschini, non ne vieni fuori e resti alle corde mentre quelli menano in due («e se eravamo in tre te menavamo in tre», Alberto Sordi, “Riusciranno i nostri eroi”), con il direttore della Stampa sobrio ma inesorabile fino alla domanda sulla diminuzione delle spese militari con la penosa risposta «decideremo quando saremo al governo», Elly che va al tappeto impigliandosi nelle suo stesse parole. E sulla sanità, dove prenderete i soldi? Dalla lotta all’evasione fiscale: nemmeno Cirino Pomicino rispondeva così. 

Ma a quel punto era in confusione: capita andar male in tv ma non in questo modo, non la giovane Elly. Non le è bastata la parlantina gentile e il sorriso stavolta un po’ forzato che le conosciamo per sovvertire l’andamento di una trasmissione aggressiva, tipo esame di maturità («Ma questa è una tortura!», ancora Moretti, “Ecce Bombo”) che forse segnala e suggella qualcosa che sta accadendo tra la leader del Pd e il mondo di riferimento giornalistico-intellettuale che l’ha supportata con convinzione scorgendo in lei la liberatrice dalle scorie renziane, riformiste e finanche veltroniane. 

Gruber e Giannini sono due giornalisti di punta dello schleinismo vissuto appunto come atterraggio di ritorno del Pd sugli amati lidi della sinistra senza aggettivi, per questo fa effetto la loro delusione, persino la costernazione, davanti a una leader che «non è chiara, questo è il limite della sua segreteria» (Giannini dixit) – una sentenza che vale più di mille editoriali – su cosucce tipo l’immigrazione, il Jobs act, le spese militari (e meno male che non si è parlato di politica economica).

Quella stessa delusione che è alla base del silenzio su Schlein che da qualche tempo Romano Prodi osserva, così come tutto un giro intellettuale prodiano che ha smesso di esaltare la segretaria del Pd, si veda la freddezza dei commentatori del Domani, dell’Espresso, su su fino alla Stampa e soprattutto Repubblica, che pur restando il giornale di riferimento del Pd però non si spertica più nei clap clap che salutarono la vittoria di Elly alle primarie, mentre il Corriere semplicemente la ignora e persino Paolo Mieli ha riconosciuto che da Gruber «non ha fatto una gran figura» che detta da lui che la ama è il massimo della critica, Marco Damilano non ne parla e vola alto, non si leggono più pezzi a sostegno di varie note colleghe (Elly ha colpito molto le donne, le intellettuali, le giornaliste) che pure la esaltavano. 

Se questa analisi è giusta vuol dire che per il Pd si apre un nuovo problema. Già totalmente espunto dalla Rai e odiato da Mediaset il partito di Elly Schlein perde credito persino nell’amica La7 e arranca molto nel rapporto con i grandi giornali. Ma il fatto nuovo è che a perdere appeal non è genericamente il Pd ma è lei, essendo chiaro che il problema non è solo e tanto nel non aver coltivato (e da tempo) un serio lavoro sull’informazione ma proprio nel disincanto rispetto a una leader di tipo nuovo che in una prima fase aveva riacceso quegli entusiasmi che ora vanno smorzandosi senza peraltro che se ne siano conquistati di nuovi, il che è tra le ragioni che spiegano perché il Pd «non schioda dal venti per cento» (Gruber). E la domanda sorge spontanea: non è che tutto un certo coté intellettuale e giornalistico di sinistra sta mollando Elly Schlein? Forse la puntata di Otto e mezzo è stata un turning point. E tante discese politiche sono cominciate così.

 L’arabesco di Elly Schlein in tv: ovvero, quel che si dice una supercazzola. L’intervista andata in onda giovedì sera, su la7, ha infatti qualcosa di surreale: a una attenta analisi, il problema della comunicazione di Elly Schlein non sta tanto in quel che dice, ma in come lo dice. Phil su Il Riformista il 16 Settembre 2023

“Come parla? Come parla? Le parole sono importanti!”. In questo caso non è l’esclamazione di Nanni Moretti in una scena cult di Palombella rossa, che termina con lo schiaffeggiamento di una giornalista che aveva osato dire in rapida successione kitsch e cheap. Eppure quel “chi la capisce se parla così?” che Lilli Gruber rivolge ad una stranita segretaria del Pd durante 8 e mezzo, entra di diritto nel blob della politica.

L’intervista ha infatti qualcosa di surreale: Elly con la scioltezza di un doppiopetto celeste Portofino, gli arabeschi della camicia, un po’ di fiatone da eccesso di esuberanza, appare come una scialba reincarnazione di Chance il giardiniere. E dire che nel talk de La7 non era neanche ricorsa a “più acerrimo” (iper superlativo usato dopo la morte di Silvio Berlusconi) ma ben più banalmente stava spiegando il “fallimento delle politiche di esternalizzazione del Governo”. Che poi, per passare ad un’altra citazione, Elly almeno ha riscoperto la “supercazzola prematurata” di tognazziana memoria.

Ad un’attenta analisi, non sono tanto le cose che vorrebbe dire (e che non riesce a rendere comprensibili), ma il modo in cui le dice. In una lingua che di corrente, ha poco o nulla. Una sorta di esperanto, frutto di un patchwork tra un campus americano e la Terrazza di Ettore Scola. Un’involuzione, figlia anche dell’ambizione di chi ha rilevato quasi per caso un partito che disprezza. Per questo fa a modo suo, ignorando tutto quello che il Pd era prima del 25 febbraio.

Un cronista meticoloso ricorderebbe i molti precedenti: il termovalorizzatore (“è stato deciso prima del mio arrivo”), la promozione di esponenti estranei al Pd, il Jobs Act, le spese militari, il no ad una candidatura locale per le suppletive di Monza, e via di seguito. Insomma mettetevi comodi, al resto ci penso io. Non a caso, è Ennio Flaiano ad insegnare che in Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Che oltre ad essere spesso la trama delle sue camicie, è anche lo slang preferito da Elly. Phil 

La sinistra ha un problema con la verità. Vietato dire che Elly Schlein ha fatto quello che ha fatto. Cioè un portentoso cursus honorum che la ha portata, a trentotto anni, ad essere la prima segretaria donna del Partito Democratico. Francesco Maria Del Vigo l'11 Agosto 2023 su Il Giornale.

Vietato dire che Elly Schlein ha fatto quello che ha fatto. Cioè un portentoso cursus honorum che la ha portata, a trentotto anni, ad essere la prima segretaria donna del Partito Democratico. Un lungo ma veloce percorso, durante il quale - come scrive lei stessa nel suo curriculum - ha ricoperto anche l'incarico di «Vicepresidente e Assessora al contrasto alle diseguaglianze e transizione ecologica: Welfare, Patto per il clima, politiche abitative, Terzo Settore, politiche socioeducative per l'infanzia e l'adolescenza, politiche giovanili, cooperazione internazionale allo sviluppo, economia solidale, relazioni internazionali, rapporti con l'UE, Agenda 2030». Un sacco di roba e non ci sarebbe certamente da vergognarsene e ancor meno sarebbe un particolare da omettere, se nel frattempo non ci fosse stata una disastrosa alluvione in Emilia Romagna. Così queste innocue parole del viceministro delle Infrastrutture Galeazzo Bignami, agli occhi degli esponenti del Pd, diventano improvvisamente dinamitarde: «La Schlein ha grosse responsabilità su una incuria del territorio per cui forse dovrebbe chiedere scusa. Lei era assessore al clima». Una dichiarazione piuttosto aderente ai fatti che ha scatenato una santabarbara di polemiche che smaschera la malafede di chi, evidentemente, ritiene di avere la coda di paglia.

«Un Bignami di falsità. Elly Schlein non è mai stata assessore al clima in Emilia-Romagna. Un viceministro che mente al Paese dovrebbe dimettersi, ma, come abbiamo già visto con la vicenda Santanchè, questo nel governo Meloni non accade», attaccano i presidenti dei gruppi Pd di Camera e Senato, Chiara Braga e Francesco Boccia, in una nota. Ma sono loro a mentire, perché sarebbe bastato guardare alcuni documenti, non esattamente clandestini, per evitare la figuraccia. Tra le deleghe dell'allora «assessora» Schlein il clima compare in ben tre documenti: sul sito personale della segretaria dem, su quello della Regione Emilia Romagna e sul curriculum vitae che lei stessa ha depositato ed è ancora visibile sul sito del Ministero dell'Interno. Ma a sinistra, evidentemente, hanno un problema con la verità e coltivano ancora quell'antico vizio di rimuovere e sbianchettare quello che fa comodo a loro.

La figuraccia dei dem. "La Schlein? Mai stata assessore per il clima". Il viceministro ai Trasporti Bignami attacca sul post-alluvione. E il Pd nega la realtà. Pasquale Napolitano l'11 Agosto 2023 su Il Giornale.

Carta canta. Il Pd si schianta in Emilia Romagna tra fake e veleni. Elly Schlein, da vicepresidente della giunta regionale dell'Emilia Romagna, aveva tra le deleghe anche il Patto per il Clima. Il viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami «smaschera» la segretaria che, imbarazzata, prova a nascondere le responsabilità politiche (da ex assessore regionale) sull'alluvione in Emilia Romagna. La scontro, durissimo, si accende durante la visita nella città di Bologna di Bignami per l'inaugurazione di un banchetto a sostegno del governo nel cuore di Bologna, sotto le finestre di Palazzo d'Accursio.

Il viceministro picchia duro: «Quello che è avvenuto qui in Emilia-Romagna non è solo frutto del clima. Frutto di un

ideologismo ambientalista di cui gli esponenti di ultima generazione del Pd rappresentano l'esempio di fulgida intelligenza e che trovano in Elly Schlein la sacerdotessa. Ricordo che lei era assessore per il clima. Ha grosse responsabilità su una incuria del territorio per cui forse dovrebbe chiedere scusa. Invece che chiedere scusa vengono a insegnarci come dobbiamo risolvere i problemi che loro hanno creato. Hanno una faccia tosta che è incredibile. Ci lasciassero lavorare. Loro hanno creato il problema e noi lo stiamo risolvendo. Avessero almeno la decenza di non dire balle per coprire le loro responsabilità».

L'affondo, rilanciato anche in un video su Instagram, arriva al culmine di una settimana di tensione tra il viceministro (bolognese) e il Pd. Schlein smascherata? Il Pd implode e sbrocca. Anche perché, la tensione nel partito in Emilia Romagna è alle stelle. Si rincorrono voci sullo stop di Schlein al terzo mandato per il governatore Stefano Bonaccini. E' la terra della resa dei conti. La segretaria scomoda i due capigruppo in sua difesa: «Un Bignami di falsità. Elly Schlein non è mai stata 'assessore al clima' in Emilia-Romagna. Un viceministro che mente al Paese dovrebbe dimettersi, ma, come abbiamo già visto con la vicenda Santanchè, questo nel governo Meloni non accade. Respingiamo con forza il tentativo di rovesciare addosso al Partito Democratico le responsabilità del governo. L'unica verità che Bignami poteva dire e non ha detto è che il governo Meloni ha completamente abbandonato l'Emilia-Romagna. La presidente del consiglio è corsa a mettere i piedi nel fango mentre ancora pioveva ed era già in moto la macchina dei soccorsi, facendo solo una passerella inutile durante la quale ha promesso ristori e indennizzi a imprese e famiglie. Risultato? Le amministrazioni li stanno ancora aspettando. I sindaci stanno anticipando le spese rischiando il default e loro sono ancora lì che fanno i cruciverba» - replicano Chiara Braga e Francesco Boccia. La polemica si infiamma. Parte una batteria contro Bignami.

I dem, però, restano in silenzio su un'altra accusa, pesantissima, mossa da Bignami: «Schlein non voleva Bonaccini commissario per la ricostruzione». Silenzio tombale. Guido Ruotolo la prende alla larga: «Il viceministro Bignami, quello che si traveste da nazista per sfizio, dovrebbe chiedere scusa alla segretaria Elly Schlein». Quello del Pd è un autogol. Perché spunta la scheda della Regione Emilia Romagna dalla quale si evince chiaramente la delega (Patto per il Clima) di Schlein. «Forse Elly non l'avrà vista arrivare». La situazione diventa imbarazzante quando il deputato Fdi Beatriz Colombo fa notare: «Schlein aveva anche la delega Montagna e Aree Interne, esattamente i luoghi dove il maltempo ha causato danni e vittime». Caporetto per Schlein e il Pd, che ha negato persino la realtà controllabile sui siti istituzionali.

(ANSA il 20 giugno 2023) - "Oggi siamo impegnati in una battaglia per la riforma della giustizia. Ho detto e ribadisco che non hanno titolo a parlare in primo luogo dirigenti del Partito Democratico, non ha diritto a parlare chi non ha fatto nulla, per anni, di sostanziale". 

Così il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca commentando la riforma dell'abuso d'ufficio "Non ha diritto a parlare - ha aggiunto De Luca - chi ha assistito al calvario di 5mila persone che in Italia hanno subito procedimenti per abuso in atto d'ufficio e poi risultati innocenti. Non ha diritto a parlare chi non ha capito che l'abuso in atto d'ufficio va eliminato". 

"Io - ha aggiunto De Luca - sostengo con forza l'eliminazione che è il presupposto per ragionare in maniera serena. Va cancellato il vizio d'origine dell'abuso in atto d'ufficio, cioè il trasferimento delle materie amministrative sul piano penale, cosa indegna ma accettata, subita e tollerata, per anni". 

Il governatore della Campania ha affrontato l'argomento a margine dell'intitolazione di una sala del Consiglio Regionale a Roberto Racinaro, ex rettore dell'Università di Salerno ed ex consigliere regionale, che uscì assolto dopo un lungo calvario giudiziario.

(ANSA il 20 giugno 2023) - "Ricordare Roberto significa combattere a viso aperto per la civiltà del diritto, per affermare il principio che la libertà è un valore sacro che può essere intaccato soltanto per motivi gravissimi. Non come accade ancora oggi per questioni francamente ridicole". Lo ha affermato il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca commentando la riforma dell'abuso d'ufficio, a margine dell'intitolazione di una sala del Consiglio Regionale in ricordo di Roberto Racinaro, ex rettore dell'Università di Salerno ed ex consigliere regionale, che uscì assolto dopo un lungo calvario giudiziario. 

Per De Luca la riforma in corso dell'abuso di atto d'ufficio serve ad "avviare una battaglia di civiltà - ha detto - in questo paese, contro il rapporto malato che si è costituito fra sistema dell'informazione e alcune procure, contro lo squilibrio interno alla magistratura. Vi è un sistema in cui non vengono premiati quei magistrati, che sono la stragrande maggioranza, che coltivano il diritto e hanno un senso della sacralità della propria missione, ma quelli che perdono tempo a fare gossip e pubblicità per promuovere la propria carriera. 

Dobbiamo fare questa battaglia perché l'Italia entri in un contesto di civiltà del diritto che per larga parte si è perduto. La giustizia è al servizio dei cittadini, non viceversa: questo è il principio che dobbiamo affermare".

Claudio Cerasa per Il Foglio - Estratto il 20 giugno 2023.

La relazione tenuta ieri da Elly Schlein alla direzione nazionale del Partito democratico offre una fotografia utile per ragionare attorno allo stato di salute del più importante partito d'opposizione. La direzione doveva essere un'occasione per fare chiarezza, per indicare una strategia, per delineare una traiettoria, per mettere in campo una gagliarda visione del futuro.

Ancora una volta, però, dinanzi al tentativo ambizioso di spiegare se stessa, Schlein si è presentata di fronte ai suoi interlocutori in versione slime. Lo slime , come sanno tutti i genitori che il sabato mattina spendono senza rendersene conto cospicui patrimoni nelle edicole di quartiere, è una sostanza gelatinosa, viscosa, che sguscia via, che non aderisce alle superfici e che tende a non avere forma. 

Elly Slime, nel suo lungo ragionamento di ieri, ha offerto la stessa impressione. Discorsi vuoti. Concetti astratti. Parole a vanvera. Concretezza zero. L'ambigua socialconfusione messa in campo dal leader del Pd non la rende però una paladina dell'anti politica ma la rende la regione nazionale della non politica.  

L'anti politica, come ha potuto facilmente registrare chiunque abbia seguito il Movimento 5 stelle in questi anni, aveva un'agenda precisa, aveva obiettivi definiti, aveva progetti cristallini. Progetti detestabili ma ambiziosi che coincidevano con una precisa idea dell'Italia. 

L'Italia che sogna Elly Schlein, invece, è un'Italia a-politica, senza fuoco, vuota, senza direzione, intrappolata nell'agenda del nonsense, ed è un'Italia perfettamente e drammaticamente sintetizzata ieri dalla segretaria con una formula alla quale immaginiamo la cerchia stretta della leader del Pd avrà lavorato giorno e notte: “Sogniamo un nuovo piano industriale per stare a testa alta nelle transizioni”. 

L'Italia sognata da Schlein è, nel migliore dei casi, un'Italia che esiste come proiezione delle ombre proiettate da Meloni e Salvini. Nel peggiore dei casi, invece, è un'Italia che cerca un modo come un altro per declinare gli unici tre concetti concreti, si fa per dire, enunciati dalla leader del Pd con la stessa empatia contenuta in un algoritmo: più lavoro, più giustizia sociale, più conversione ecologica. 

La socialconfusione di Elly Schlein non è però solo un mix letale tra una politica costruita sul modello ChatGPT e una leadership impostata sul modello slime .

Ma è qualcosa di peggio. Perché mostra una totale indifferenza rispetto a una china pericolosa che sta prendendo la leader del Pd: andare sistematicamente contro il suo partito, contro la sua storia, contro la sua cultura, contro la sua stessa circoscrizione.  

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Sulla giustizia, sta regalando il garantismo alla destra, per la disperazione degli amministratori locali del Pd. Sull'economia, sta regalando alla destra le battaglie sulla crescita, parola misteriosamente tabù per la leader democratica. Sui diritti, sta regalando alla destra anche battaglie non di destra come il tema del no alla surrogata, battaglia trasversale come dimostra il no alla Gpa portato avanti con orgoglio in campagna elettorale dal partito socialista spagnolo.  

E anche sulla difesa dell'Ucraina, nonostante una qualche buona volontà mostrata ieri da Schlein sul tema – “Putin è un criminale”, “serve una pace giusta”, “su Kyiv pieno supporto del Pd, anche con aiuti militari – il Pd continua a vivere ostaggio di una assoluta ambiguità che sta consentendo al centrodestra ex putiniano di uscire come l'unico vero baluardo italiano sul fronte della difesa dell'Ucraina dall'invasione del terrorismo russo…

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Estratto dell'articolo di Francesca Galici per il Giornale il 20 giugno 2023.

Elly Schlein è confusa. Il Pd che guida da una manciata di mesi è ormai allo sbando e stando a un'indiscrezione lanciata da Dagospia sarebbe addirittura quasi commissariata dai fedelissimi di Dario Franceschini, Sereni, Losacco e Braga, che sarebbero stati posizionati in fondo alla sala per controllare eventuali derive. 

(...) 

No, non due filosofi o statisti omonimi dei due artisti, ma proprio loro, utilizzando i testi delle canzoni come glossario per le citazioni. La direzione nazionale del Pd è stata appunto scambiata da Elly Schlein per un'assemblea di istituto con una platea di ripetenti incalliti, vista l'età media dei partecipanti. "Sono affezionata a un pezzo che dice tra la partenza ed il traguardo in mezzo c’è tutto il resto. E tutto il resto è 'giorno dopo giorno, e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire'", dice il segretario citando "Costruire", brano del 2006 di Niccolò Fabi. Ma non solo, perché nel tentativo di spegnere le polemiche interne è ricorsa al testo di "Le cose che abbiamo in comune", di Daniele Silvestri: "Concentriamoci sulle cose che abbiamo in comune, che sono 450".

Quindi, ha completato il suo excursus di citazioni con Diodato: "Se ai nostri elettori chiedessero di dedicarci una canzone, una di queste probabilmente sarebbe ‘Fai rumore’ di Diodato, che dice: ‘Fai rumore e non lo so se mi fa bene, se il tuo rumore mi conviene, ma fai rumore sì che non lo posso sopportare questo rumore innaturale tra me e te’. Anziché fare rumore di canto e controcanto tra noi, e lo dico a me per prima, proviamo a parlare di ciò che ci unisce con loro".

Sono lontani i tempi dei politici di sinistra che citavano i loro predecessori, gente come Antonio Gramsci, per esempio. Con Elly Schlein si torna alle arringhe adolescenziali. Ma il segretario doveva essere in un mood musicale alternativo, perché da quanto si apprende avrebbe anche proseguito con le sue metafore: "Lavoriamo tutti insieme in modo corale, serve un'orchestra capace di suonare il medesimo spartito". Inevitabili le battute di chi ritiene imbarazzante una simile segreteria: "Non ho capito, era alla direzione nazionale del Pd o a Sarabanda?". Inutili altri commenti.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per 7-corriere.it/sette il 16 giugno 2023.

Al Nazareno, la sede del Partito democratico, è tutto un Marta di qua, Marta di là, certo oggi Marta è nervosetta ma è fatta così, e comunque è a lei, a Marta, che devi chiedere, bisogna passare da lei, è lei che deve darci prima l'okay: e allora vediamo un po' chi è, chi non è, chi pensa d'essere questa Marta Bonafoni, la nuova custode del tempio dem, la madre badessa con tonaca radical chic, la potente (poi vedremo per quanto) coordinatrice della segreteria di Elly Schlein, ormai senza più trench, perché andiamo verso l'estate. 

Intanto: Marta è romana e ha 46 anni, un figlio (Rocco), una laurea in Scienza della Comunicazione ed è consigliera alla Regione Lazio (terzo mandato, non uno scherzo: un po' perché è complicato essere eletti, un po' perché i consiglieri regionali hanno stipendi belli paffuti - siamo sugli 11 mila euro lordi al mese). Certo è politica di nicchia, di territorio.

(...)

Il colpaccio, però, lo fiuta il 18 settembre del 2018: a borgo Hermada, tetra frazione di Terracina, Latina, dove vive gran parte della comunità Sikh che lavora, con le catene del caporalato, nei campi dell'Agro Pontino. È lì che Marta incontra Elly. Si annusano. Si piacciono politicamente. Soprattutto: Elly capisce che Marta è ambiziosa, leale, infaticabile e ruvida (non guasta). Marta ha naso, e pensa: tu guarda se questa non mi diventa sul serio segretaria del partito. Scommettono una sull'altra. E vanno all'incasso.

Dovreste vederla e sentirla, Marta, adesso. Il piglio. La saccenza. Un filo di arroganza. Che poi: fanno tutti e tutte così, quando ricevono le chiavi del tempio. Pensano che sia per sempre. Il potere, invece, brucia in fretta (tranne che per il Cavaliere, s'intende). È un soffio. Eri lì che rilasciavi interviste di una pagina, Marta, ma poi ti volti - e puff! - ti è rimasto solo il ricordo dell'armocromia di Elly (tra l'altro, vedi tu il destino: la madre di Marta, a Roma, gestisce un negozio chicchissimo).

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 21 giugno 2023.

Il giorno dopo, letto meglio e scarnificato, riascoltato sui social, del discorso tenuto da Elly Schlein alla direzione nazionale del Pd restano, sostanzialmente, un paio di punti. La generica chiamata a «un’estate militante» e la stravagante evocazione di una colonna sonora mixata, le frasi poetiche e i ritornelli di alcuni cantautori utilizzati come collante politico per una relazione che avrebbe dovuto invece illuminare finalmente un sentiero, indicare una strategia, dare concretezza a un’agenda finora piena di slogan e di ritardi. Non siamo nemmeno nel Pantheon di Elly: siamo nella Sanremo di Elly. 

Il che piacerà (forse) ai gggiovani. Ma provoca un certo turbamento non solo tra i dirigenti già critici, se non dichiaratamente ostili (da Stefano Bonaccini a Lorenzo Guerini, passando per Gianni Cuperlo e finendo a Beppe Sala e Michele Emiliano), ma anche tra quelli che, ufficialmente, ancora la sostengono (restano muti, però dovreste vedere con che musi lunghi).

Capi e capetti soffiano preoccupati. Ricordano gli interventi in direzione dei precedenti segretari. Enrico Letta citava Papa Francesco e Jacques Delors, Luigi Pirandello e Alessandro Manzoni (poi, vabbé: il ministro Francesco Lollobrigida avrebbe scoperto che Manzoni era un eroico «patriota»), e solo una volta Letta evocò il gruppo musicale degli Scorpions (più che altro, si disse, per fare un po’ il fico). E Matteo Renzi? Passava da Blaise Pascal («Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende», su misura per lui, Renzi) a John Steinbeck, da Joseph Conrad al Riccardo III, con lo strepitoso monologo del peggior cattivo dell’universo shakespeariano.

Dario Franceschini andava da Aldo Moro a Victor Hugo, Nicola Zingaretti da Gramsci a Greta Thunberg. Le celebri metafore di Pier Luigi Bersani erano così efficaci che furono studiate da Umberto Eco. E — dicono con amarezza numerosi dem — lasciamo stare il fondatore del partito, Walter Veltroni, che ci faceva stare tra Enrico Berlinguer e don Milani, tra Vittorio Foa e T.S. Eliot.

Elly, invece, si affida a Daniele Silvestri (tra l’altro, bravissimo nel suo mestiere). Pd diviso? «Concentriamoci sulle cose che abbiamo in comune, che sono 4.850…». A Niccolò Fabi, sognando il viaggio che dovrebbe portarla dalle primarie a Palazzo Chigi: «Tra la partenza e il traguardo, c’è tutto il resto». Infine, la Schlein s’interroga e si risponde (citando Diodato): «Se ai nostri elettori chiedessero di dedicarci una canzone, una di queste probabilmente sarebbe Fai rumore».

(...)

Il più cinico tra i cacicchi dem, pensando alle prossime Europee, canticchia sottovoce Lucio Dalla: «L’anno che sta arrivando/ tra un anno passerà/ io mi sto preparando/ è questa la novità…».

Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica” il 10 giugno 2023

Caro Merlo, leggendo le varie lettere, noto un certo accanimento verso la segretaria Pd. Nel clima così eccitato dalla destra le riconosco una difficoltà enorme nel rimettere assieme le varie anime e formare il pensiero del Pd. Sono convinto ci riuscirà, sperando che non si rassegni a mollare tutto.

Alberto Montanari – Mantova 

Risposta di Francesco Merlo

Caro Montanari, in politica estera, la sinistra non è eccitata dalla destra, ma da sé stessa, dalla lotta contro i suoi fantasmi. Elly Schlein, raggomitolata in un guscio di simpatica timidezza, sta via via sfaldando la compattezza del Pd sul sostegno all’Ucraina, sul ruolo della Nato in difesa della democrazia, sull’invio di armi in aiuto della guerra di resistenza di Zelensky. Non ha cambiato la linea che Enrico Letta mantenne ferma , ma ha rilanciato l’ideologia della doppiezza di cui è impastata tutta l’Italia politica, anche la sinistra dove molti vorrebbero restare. 

Ma il Pd non è la chiesa di Zuppi che dall’ambiguità può trarre forza e Schlein, a costo di sfidare la popolarità, almeno sui valori atlantici, sull’aggressione di Putin, sulle armi all’Ucraina e sulla lealtà all’Occidente non può limitarsi a fare ogni tanto capolino con un’elegante voglia di ritirarsi, di indietreggiare dal frastuono volgare. Questo inatteso ritorno della doppiezza sta ovviamente favorendo gli slittamenti verso il cosiddetto “pacifismo”, ultimo goffo approdo dei Cinque Stelle di Conte che è ormai diventato il megafono italiano di Putin.

Ma Conte, maschera del trasformismo, è posticcio qualunque parte reciti. La doppiezza invece non fa bene a Schlein. Non è infatti la fatica di chi si sta liberando di un mestiere per impararne un altro, ma il tormento di chi si mette addosso un vecchio vizio, abbraccia una filosofia ormai logora, si intossica di un veleno spirituale, si costruisce una brutta idea di sé stessa. Si sdoppia appunto in due Schlein e l’una caccia l’altra.

Propaganda Live, l'Inno nazionale "drag" è un autogol: "Agevolate la destra". Il Tempo il 02 giugno 2023

Nel giorno della Festa della Repubblica l'apertura di Propaganda Live, il programma condotto da Diego Bianchi in arte Zoro su La7, è affidata all'Inno nazionale, Il canto degli Italiani, altrimenti chiamato Fratelli d'Italia come il primo verso del testo. L'esecuzione è stata affidata alle Karma B, duo di drag queen, che si sono esibite in abito tricolore su un arrangiamento partito in modo soft, e poi sfociato in una marcetta ritmata. 

"Quello che potrebbe sembrare una provocazione allo stato attuale delle cose – ovvero vedere due drag queen che cantano l’inno d’Italia –, in realtà non lo è. Perché per noi questa è una 'dichiarazione' d’amore per il nostro Paese. E sottolineiamo 'nostro' in quanto, secondo noi, tutti i cittadini e le cittadine – di qualsiasi genere ed etnia –, hanno il diritto di trovare il loro posto in questo Paese", hanno dichiarato le due drag queen  prima della performance. 

Un 2 giugno celebrato in modo particolare dalla trasmissione di intrattenimento più amata dalla sinistra, e che è suonato a molti utenti dei social come una nota stonata. "Vi amo però ci sono dei limiti che non possono essere superati. Inno e Tricolore in un giorno come questo non dovrebbero essere trattati così. Non è una questione di interpreti perché l'inizio era tollerabile, magari non da tutti, poteva 'starci', il seguito no. Con affetto", scrive un telespettatore su Twitter. "Satira o cattivo gusto?", chiede un altro, mentre un utente sottolinea l'autogol in cui sarebbe incorso il programma: "Il peggior inizio che propaganda live potesse fare… avanspettacolo da ventennio. La destra non si batte così, si agevola".

Estratto dell'articolo di ansa.it il 12 giugno 2023

La Capitale si tinge dei colori dell'arcobaleno dei diritti. Sabato in migliaia dal primo pomeriggio in piazza della Repubblica da dove è partita la parata dell'orgoglio Lgbt con i carri dell'edizione 2023 intitolata Queeresistenza. 

Un Pride preceduto da alcune polemiche dopo la revoca del patrocinio da parte del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca e le registrazioni di figli di due coppie di mamme fatte ieri dal sindaco Roberto Gualtieri criticato da Fdi. Gualtieri ha sfilato in testa al corteo.

 "Le trascrizioni si fanno in tutta Italia, chi ha chiesto al prefetto di intervenire sbaglia è stata fatta una cosa normalissima". Lo dice il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, in testa al Corteo del Roma Pride. 

"Sono qua oggi perché è importante, perché il Pd sarà sempre nei luoghi della tutela e della promozione dei diritti Lgbtq+. A partire dal matrimonio egualitario, le adozioni e riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali. Siamo qui perché è importante e giusto esserci. Ed è invece sbagliato che non ci sia la regione Lazio. Ci siamo con i nostri corpi e siamo qui in mezzo alle associazioni a supportare il Pride, come siamo a supporto e abbiamo aderito come PD a tutta l'onda Pride". Lo ha detto la segretaria del Pd Elly Schlein arrivando al corteo del Roma Pride. "Non dimentichiamo che chi oggi governa l'Italia sono gli stessi che hanno affossato con un applauso, difficile da dimenticare, una legge di civiltà come la legge Zan - ha ricordato - . Una legge che c'è in tutto il resto d'Europa, una legge contro l'odio e le discriminazioni anche sull'orientamento sessuale che c'è in tutti i paesi d'Europa".

Gli organizzatori del Pride:'Siamo un milione, mai così tanti'. Fonti della questura parlano di 40mila. "Siamo un milione, ma vista tanta gente al Pride". Così gli organizzatori dal carro che apre il Roma Pride sulle note di di Paola e Chiara, madrine della parata 2023. Assieme alle due cantante, icone gay friendly, anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Tanti gli slogan ritmati nel lungo e colorato corteo contrappuntato da arcobaleni e il fuxia, colore queer. "Viva l'amore", "Viva il Pride. Ora è sempre resistenza", qualche motto irriverente contro il presidente della Regione Lazio Rocca (- Rocca + Rocco) e contro il ministro Roccella, tante bandiere arcobaleno oltre a paillettes, lustrini e piume.

Qualche momento di tensione all'inizio del corteo tra alcuni attivisti e il Movimento 5 Stelle, quando all'arrivo del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, alcuni hanno alzato le bandiere pentastellate volgendole verso le telecamere. Così è partito l'urlo contro i grillini: "abbassatele. Al Pride non si portano le bandiere di partito". Sono invece circa 40 mila le persone che stanno prendendo parte al Roma Pride 2023 secondo i dati forniti dalla Questura.

 +Europa al Roma Pride 2023 con un suo carro: a bordo la leader Emma Bonino, il segretario Riccardo Magi, il deputato Benedetto Della Vedova, la tesoriera Carla Taibi, il vicesegretario Piercamillo Falasca, dirigenti e militanti del partito. Sul carro anche il giornalista e divulgatore scientifico, Alessandro Cecchi Paone con il compagno Simone Antolini, l'attrice hard Roberta Gemma, esponenti della comunità iraniana e bielorussa che sfilano in solidarietà con i propri popoli oppressi da dittature. C'è anche una Venere di Botticelli usata dal governo nella campagna "Open to meraviglia" in versione LGBTI+: la Venere indossa una t-shirt di +Europa con la scritta "Open to love". […]

"La Schlein? È una 'amichettista' che parla agli Erasmus". Lo scrittore Fulvio Abbate spiega cosa sia l'amichettismo, ossia quell'indole di una certa sinistra radical chic di negare il pensiero individuale in nome di un patto di sangue da parte dei vari sodali. Francesco Curridori l'8 Giugno 2023 su Il Giornale.

“L'amichettismo è la negazione di un pensiero individuale, ossia il doversi riconoscere, in nome di una complicità superiore all'interno di un gruppo definito che ha degli scopi di ambizione". A spiegarlo è lo scrittore Fulvio Abbate, che si trova nelle librerie col suo ultimo libro Lo Stemma (La nave di Teseo) e che nelle scorse settimane ha messo a disposizione gratuitamente sui suoi social un trattato sull'amichettismo.

Come e quando ha inventato il termine amichettismo?

“Sì, il conio dell'amichettismo appartiene a me e nessuno può rivendicarlo perché l'ho usato la prima volta 2-3 anni fa in occasione di una vicenda che investiva il chitarrista Roberto Angelini della trasmissione di Zoro che aveva assunto in nero una rider e quando questa ragazza è stata fermata dalla guardia di finanza durante il lockdown, invece di scusarsi l'ha definita una pazza incattivita. E, tutto un coro di un certo cotè spettacolare letterario romano, invece di difendere questa ragazza di cui non conosciamo il nome, ha confortato con cuoricini ed emoticon, In quel momento io scrivo un articolo su Huffington dove conio l'espressione amichettismo”.

La segretaria del Pd, Elly Schlein, ha qualcosa a che fare con l’amichettismo?

"Elly Schlein è assolutamente significativa dell'amichettismo sia per il linguaggio che utilizza che è un linguaggio perché è come se non parlasse all'elettorato storico della sinistra, ossia alle fasce più deboli della società, ma è come se si rivolgesse agli Erasmus e agli iscritti della scuola Holden di Baricco. La percezione che si ha della Schlein è come se fosse un personaggio di un film di Nanni Moretti. E sarebbe meglio che Nanni Moretti la mettesse nel suo prossimo film che non immaginarla alla guida di una forza politica, che fra mille difficoltà dovrebbe comunque avere un'impronta di sinistra".

In sintesi, l’amichettismo può definirsi lo spalleggiarsi a vicenda e in modo anche un po' ipocrita dei radical chic di sinistra?

“Innanzitutto, la massima espressione, diciamo della gauche caviar di sinistra sono io che ho scritto anche un pamphet con Bobo Craxi. Io, però, ritengo di sapermi relazionare con chi è altro da me, mentre nella dimensione amichettistica che puoi assimilare alla Schlein o alla Murgia è come se esistesse unicamente quel loro mondo, come se fosse un commento inespugnabile. E nell'amichettismo ci sta anche un progetto di potere che riguarda l'ambito letterario, editoriale e radiofonico tant'è vero che a me viene subito in mente Radio 3 e il salone del libro di Torino".

Anche la solidarietà espressa da alcuni intellettuali di sinistra nei confronti di Roberto Saviano che è finito sotto processo dopo la querela di Matteo Salvini?

"Uno può essere solidale con Saviano. Il problema sono le forme perché se la solidarietà si esprime, come spesso accade nel contesto amichettistico, con le emoticon siamo in presenza di una dimensione tardo adolescenziale. Ma, fondamentalmente, ripeto, l'amichettismo nega l'individualità perché ha paura dell'individualità perché il gruppo ha la pretesa spesso di possedere un pensiero unico intoccabile in nome di un patto di comune appartenenza, molto spesso non disinteressata”.

Massimo D’Alema è fuori dalla cerchia dell’amichettismo?

"No, D'Alema è un politico puro che adesso si occupa d'altro, è un uomo d’affari. Dal punto di vista culturale questo atteggiamento amichettistico è più assimilabile a quello che Veltroni ha rappresentato nel contesto politico e culturale romano. D’Alema, invece, non ha mai pensato di scrivere un poliziesco o di fare un film per avere l'applauso di tutti. Penso a quando Enrico Lucci delle Iene va a intervistare il pubblico di persone famose e di potere che va alle prime dei film di Veltroni. Tutti dicono che è un capolavoro".

Quali altri intellettuali o radical chic di sinistra rientrano nell'amichettismo?

"Anche Moretti rientra pienamente nell'amichettismo anche perché diciamo pretende una sorta di patto di complicità e di sangue assoluto da parte degli altri. E, infine, anche Fabio Fazio, ovviamente è l'emblema dell'amichettismo".

Vincenzo De Luca attacca Elly Schlein sui social: «Volgare radical chic senza chic». Il governatore della Campania critica sui social e di fronte ai cronisti la segretaria del Pd dopo la revoca dell'incarico del figlio. E anche la nomina di Ciani scuote il partito. Picierno: «Grande confusione sotto il cielo». Simone Alliva su L'Espresso il 7 Giugno 2023

«In politica, come nella vita, non c'è nulla di più volgare dei radical-chic senza chic». A scriverlo su Facebook è il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca, in un post che sembra un riferimento alla decisione della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, sulla decisione di rimuovere da vicecapogruppo del Pd alla Camera Piero De Luca, il figlio del governatore della Campania.

Sembra, dicono, o forse no. Tuttavia il governatore è stato sicuramente più chiaro a margine della presentazione del festival su Massimo Troisi con una risposta data ai cronisti: «Se inviterei Schlein? In questa stanza sono vietate le brutte parole». 

La scelta di retrocedere da vicecapogruppo del Pd alla Camera a segretario con delega per il Pnrr, riforme e sicurezza Piero De Luca ancora pesa e agita il Pd dall’interno. 

Il diretto interessato, il giorno prima, aveva affidato a una nota il suo rammarico per le scelte nell'ufficio di presidenza del Pd, sottolineando che si era «consumata una sorta di vendetta trasversale che non fa onore». 

Tra i quattro nuovi vicepresidenti c’è Paolo Ciani, segretario del movimento cattolico Demos, l’unico eletto nelle liste del Pd a votare – lo scorso gennaio – contro il decreto Ucraina che prorogava l’autorizzazione l’invio di armi fino alla fine del 2023. Intervistato da Repubblica il neo vicepresidente ha dichiarato che il Pd potrebbe cambiare idea sull'invio di armi all'Ucraina.

E contro questa dichiarazione ha preso posizione la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno: «Paolo Ciani diventa vicecapogruppo del gruppo del Pd, dichiara di non volersi iscrivere al nostro partito ma di volerne cambiare la linea su Ucraina. Grande confusione sotto il cielo. Una cosa però mi pare importante ribadirla: il sostegno del Pd alla resistenza Ucraina non cambia e non cambia», ha scritto in un tweet Picierno.

Elly, ultima vestale del Sessantotto. L'ultima sessantottina. A 38 anni chiude il '68. La travolgente sconfitta di Elly Schlein alle elezioni comunali della scorsa settimana, in controluce, nasconde un passaggio epocale per la politica di sinistra. Francesco Maria Del Vigo il 3 Giugno 2023 su Il Giornale.

L'ultima sessantottina. A 38 anni chiude il '68. La travolgente sconfitta di Elly Schlein alle elezioni comunali della scorsa settimana, in controluce, nasconde un passaggio epocale per la politica di sinistra. Cioè la fine del mito fondativo della falsa rivoluzione studentesca che diviene - in via definitiva - il suo esatto opposto: un mito distruttivo. Sia chiaro - e su queste colonne lo potete leggere sin dalla nascita di questo quotidiano - il Sessantotto non ha creato un bel niente, se non delle rendite di posizione ben remunerate per le comparse - borghesi e annoiate - che hanno partecipato a una carnevalata che nell'immaginario progressista ha subìto, anno dopo anno, una mitopoiesi al limite del ridicolo. Ma per più di una generazione, come il ricordo di un rito di iniziazione, ha scandito le dinamiche, definito le gerarchie e persino tratteggiato gli usi e i costumi di una cultura di sinistra che voleva essere contro(cultura) ma si è calcificata in un mainstream ortodosso e rigoroso. Eppure, diluitisi i ricordi con gli insuccessi elettorali, crollate miseramente a terra le ideologie, sparpagliati come in una diaspora i suoi componenti, il Sessantotto ha continuato a sopravvivere camminando sulle gambe di coloro i quali non lo avevano né fatto, né vissuto. Quindi ulteriormente trasformato e deteriorato, con abitudini che sono diventate tic, diritti che hanno manifestato tutta la loro essenza di rovesci e vezzi rivoluzionari sempre più imbolsiti.

In questo Elly Schlein, classe 1985, appare una conservatrice delle ritualità del Sessantotto, l'ultima vestale del big bang della sinistra Novecentesca. Quel sovrappiù di verbosità intellettualoide, al termine del quale, con lo sguardo un po' smarrito, dopo venti minuti di logorrea, ci si chiede: «Ma cosa cavolo voleva dire?». Quell'ossessione per la collegialità assembleare da liceo occupato (possibilmente in centro città e con ottime frequentazioni) per cui tutto sembra deciso, limitato e concertato dopo infinite e fumose riunioni, quando poi in realtà pensa a tutto il solito politburo. Quell'aspetto un po' delabré e raffazzonato, perché in fondo ci sono da salvare i destini del mondo dalla barbarie capitalista e dalle orde fasciste, non si possono mica perdere ore davanti all'armadio o allo specchio. E infatti poi si paga una armocromista da centinaia di euro all'ora per finire, come una influencer qualunque, sulla copertina di Vogue, non sulle pagine di Lotta Comunista (anche perché non hanno foto...). E, ancora, quella voglia, a dire il vero sempre più stanca, di épater le bourgeois, magari con la solita litanìa sui diritti civili più estremi, l'immigrazionismo senza se e senza ma e l'ecologismo più talebano. Argomenti che non sbalordiscono più nessuno, tantomeno i borghesi, categoria della quale fa parte lo stesso ceto dirigente del Pd. Ecco, il segretario dem è l'epigono finale di questa sinistra che ha stufato anche la stessa sinistra. Elly è l'ultima ad aver lasciato l'assemblea fumosa di cui sopra e ha chiuso la porta. Sul Sessantotto. Per questo il suo fallimento è anche la fine degli ultimi fastidiosi lasciti di quell'era. Con 55 anni di ritardo. Ma è pur sempre un successo.

Estratto dell'articolo di Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2023. 

(...)

Perciò, adesso, la domanda che rimbomba nel Pd — cento giorni dopo la vittoria alle primarie — è: Elly Schlein ha capito? O meglio: vuole capire che così, con questa agenda movimentista e ambigua, piena di slogan e sostanziale vaghezza, non andiamo da nessuna parte? 

Raccontare la complessità della sua breve segreteria con la sconfitta alle recenti Amministrative sarebbe politicamente riduttivo (resta però un fatto che l’unica vittoria dem, ottenuta a Vicenza, è stata del giovane Giacomo Possamai, gelido e lucido nel chiedere a Elly di «non farsi vedere in giro»).  

(...) 

E le tremende occhiate tra stupore e delusione, i sospiri rassegnati — «Vabbè: comunque è chiaro che ora dobbiamo tenercela fino alle Europee» — di tanti che invece l’hanno accompagnata fin qui.

Telefona un ex segretario (se indovinate chi è, siete dei fenomeni: il Pd ha cambiato dieci segretari dal 2007): «La Schlein, per cominciare, dovrebbe eliminare un po’ di arrogante solitudine, quell’aria da portatrice di purezza assoluta, che diventa solo specchio di una sinistra elitaria». La rimproverano: sei chiusa in un bunker. Con Gaspare Righi (ombra personale e ascoltassimo capo segreteria), Marta Bonafoni (coordinatrice e custode della segreteria: modi severi e un filo saccenti, ora che finalmente può andare in tv), Igor Taruffi (il capo dell’organizzazione: entusiasmo, ma esperienza limitata a Bologna e dintorni) e Flavio Alivernini, il portavoce incaricato di dirci che Elly parlerà dopo, anzi domani, forse, vediamo, magari fa solo una diretta social.  

(...)

Lorenzo Guerini, capo del Copasir e di Base riformista, uscendo da una riunione: «Sembrava di stare in un’assemblea del liceo» (metafora per dire: straparlano). Una certa dose di vaporosità la coglie anche Romano Prodi. 

Mentre Elly — commentando l’alluvione dell’Emilia-Romagna, di cui è stata vicepresidente — salta dalle mutazioni globali all’economia sostenibile, lui ragiona sulla mancanza d’investimenti e di manutenzione. Elly, da quelle parti, le sue, s’è vista con clamoroso ritardo, e in una strada deserta dell’Appennino (paura di contestazioni?). Giorgia Meloni, sua teorica competitor, si era intanto già offerta ai tigì con gli stivaloni nel fango. 

Perché — dicono — Elly dà sempre l’impressione di arrivare tardi, un po’ molliccia, un po’ generica. (...) quanto alla Rai: si è accorta di cosa sta succedendo tra viale Mazzini e Saxa Rubra?

La scongiurano: ascoltaci. 

Il grande saggio del partito, Luigi Zanda: «Si lasci aiutare». Il potente Goffredo Bettini (sì, tranquilli: vedrete che nel Pd resta potente) rilascia un’intervista ad Avvenire, ma per parlare della Gpa (il tortello magico farebbe bene a preoccuparsi). L’autorevole Andrea Orlando, definitivo: «C’è un partito da costruire». Gianni Cuperlo: «La segreteria di Elly non è frutto di spirito unitario» (elegante eufemismo). Struggente lettera a Repubblica di Morani/Di Salvo/Fedeli/Rotta: «Il Pd non deve diventare massimalista». Intanto, però, Fioroni, Marcucci, Borghi e Cottarelli se ne sono andati. 

Pierluigi Castagnetti organizza assemblee di catto-dem riformisti e ostili. Marianna Madia e Lia Quartapelle tengono seminari «in cui parliamo di cose concrete: tipo sanità e immigrazione». Alessandra Moretti boccia l’idea di Elly che, alle Europee, vuole avere solo donne capolista: «Le liste si costruiscono con persone capaci». Paola De Micheli: «Servono contenuti». Graziano Delrio: «Ma se vuole chiederci consigli, noi siamo qui». Dario Nardella: «Anche perché non può decidere tutto nel chiuso di una stanza». Quale? 

Nella sede del Nazareno, si vede poco (non ha ancora arredato il suo ufficio, al terzo piano). A Montecitorio, si vede pure meno (dato al 30 aprile scorso: presente a 567 votazioni elettroniche su 1.551, media del 36%). I militanti dem bolognesi sono furibondi: «È irreperibile». 

I tutor di Elly, in teoria, dovrebbero essere Dario Franceschini (che in un’intervista ha suggerito di avere pazienza) e Francesco Boccia (che le parla un po’ di più e prova a suggerirle tracce di linea politica). Ma l’autostima di Elly è fortissima. Il timore di molti è che il suo programma sia proprio solo quel nome così esotico (nemmeno più il suo trench, perché andiamo verso l’estate).

Cremaschi: “Pertini che parlava per il popolo abolì questa cerimonia armata”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 2 Giugno 2023

di EDOARDO SIRIGNANO

“Un altro 2 giugno di guerra e non di pace. Mentre in Emilia Rompagna non si sa come rimuovere i detriti, il Parlamento Europeo destina i soldi del Pnrr ad armi e munizioni e nessuno dice nulla. Si preferisce lasciare paesi immersi nella terra, mentre il nostro esercito, che poteva ripulirli in pochi giorni, deve farsi trovare pronto per un’eventuale guerra volutada Kiev e Stati Uniti”. A dirlo il sindacalista e opinionista Giorgio Cremaschi, tra i fondatori di Potere al Popolo e già presidente del Comitato Centrale della Fiom.

Che significato assume questa Festa della Repubblica?

Avendo preso parte a una manifestazione a Bologna dei giovani che spalano fango, noto ancora di più il contrasto tra le esigenze enormi delle persone, del territorio e le spese per il conflitto in Ucraina. Nella giornata di ieri, c’è stato un voto ignobile del Parlamento Europeo.

Perché lo definisce tale?

Si è detto che i soldi del Pnrr possono essere utilizzati per armi e munizioni. Nello stesso tempo, in Emilia, a parte le solite chiacchiere, il pubblico lascia un vuoto. Mancano mezzi per il soccorso e la rimozione dei detriti. L’esercito, purtroppo, non c’è perché impegnato in esercitazioni legate al conflitto di Zelensky. Paesi che potevano essere già ripuliti restano sporchi. Il ritardo è enorme. Per dirla in breve, siamo un Paese che affonda nel fango e noi utilizziamo quelle poche risorse che abbiamo per la guerra di Stati Uniti e Kiev. Siamo di fronte a un’infamità e non ce ne rendiamo conto.

Come giudica la linea Schlein sull’argomento?

Schlein dice di essere la sinistra, di non fare di tutta un’erba un fascio. La verità è che Elly non riesce a distinguersi da Giorgia Meloni.

Perché?

Il Pd poteva smarcarsi dall’attuale maggioranza votando no al Parlamento Europeo. Non lo ha fatto. Ha preferito, invece, approvare finti emendamenti, con la consapevolezza che sarebbero stati bocciati. La classica mossa per mantenere equilibri interni al partito. Se Bonaccini era segretario e l’attuale leader presidente, forse avrebbe fatto qualcosa in più. La sardina è totalmente prigioniera del Pd e del suo ex governatore.

Considera, quindi, virtuosa la linea Bonaccini?

A Bologna, in modo simbolico, abbiamo scaricato tre carriole di terra davanti alla Regione. La prima è destinata, appunto, all’istituzione di cui Schlein era vice presidente, che ha pensato solo a opere devastanti, dimenticandosi della manutenzione territorio. Basti pensare all’autostrada di diciotto corsie intorno a Bologna. L’altra, poi, spetta al governo Meloni che non ha fatto ancora nulla sulle zone alluvionate. Un ritardo scandaloso e peggio ancora chi non protesta. Bonaccini si dimentica della sua gente solo perché vuole essere nominato commissario. Una terza, infine, è diretta a Ursula von der Leyen. L’Europa, oggi, è austerità, guerra e liberismo economico.

A Roma, intanto, è in atto la tradizionale parata tra istituzioni e forze armate…

È sufficiente effettuare un paragone tra Mattarella e Pertini. Il secondo abolì la parata del 2 giugno e disse di chiudere gli arsenali e aprire i granai. Aveva, poi, il coraggio di denunciare le inadeguatezze di interventi e soccorsi. Un esempio è quanto detto durante il terremoto dell’Irpinia. Re Sergio, invece, ha fatto una parata in Emilia, senza dire niente e guardare nulla. Visto l’evento eccezionale, è venuta fuori così la contraddizione tra il migliore Presidente della Repubblica che abbiamo avuto e l’attuale.

Come a fa a sostenere un’accusa così grave, considerando che il Capo di Stato è ritenuto da sempre un’istituzione indiscussa e al di sopra di ogni dibattito partitico?

Mattarella non ha il coraggio di parlare a nome delle persone. L’unica volta che rimprovera il palazzo è solo quando ci sono palazzi più grandi. Mi riferisco all’Ue e alla Nato. È in atto la sopravvalutazione di un personaggio, che non è altro che il classico monarca. Altro che Repubblica. Questo è certamente un aspetto della crisi della nostra democrazia.

Estratto dell’articolo di Giovanni Orsina per “La Stampa” il 3 Giugno 2023

Attribuire a Elly Schlein la responsabilità del pessimo risultato che il Partito democratico ha ottenuto nelle ultime elezioni amministrative sarebbe sbagliato e ingeneroso. Non soltanto perché si tratta di un voto di portata limitata, né perché è diventata segretaria del partito da poche settimane. Ma perché le difficoltà dei democratici sono, a ben vedere, la manifestazione locale di una crisi più generale nella quale la sinistra versa in pressoché tutte le democrazie avanzate, come hanno dimostrato da ultimo anche le elezioni greche e spagnole. Il discorso va allargato, allora: da quale malessere sono affette, le forze politiche progressiste? 

La risposta che propongo è: da un malessere soprattutto culturale. Ma come – si obietterà – ma se da settimane non si parla d'altro che della presunta egemonia culturale della sinistra! Adesso scopriamo invece che la cultura non è il punto forte del progressismo, ma è quello debole?

[…] Mi sembra che il progressismo sia in effetti culturalmente egemone, per lo meno nel senso che, all'interno delle istituzioni e fra le professioni in senso lato culturali, quanti vi si riconoscono sono in larghissima maggioranza. Ma mi sembra pure che a quest'egemonia non corrisponda la capacità di elaborare un pensiero adeguato alla nostra epoca. 

Un'incapacità che rende il predominio sterile ma anche, paradossalmente, più visibile e irritante di quanto non sarebbe altrimenti. Negli ultimi decenni la cultura progressista ha perso in larga misura il contatto con la realtà. Si è molto concentrata sui propri valori, su come riteneva che la realtà dovesse essere in astratto, e si è troppo spesso dimenticata di descriverla, comprenderla e concettualizzarla, invece, per com'è in concreto. 

[…]   Fra la loro cultura e le vite concrete della maggioranza degli esseri umani si è così aperto uno iato che, col tempo, si è venuto facendo sempre più ampio e profondo. È anche in quello iato che è nata l'insurrezione politica cosiddetta populista.

Schlein […] non può avere colpa se le elezioni amministrative le ha vinte la destra. È lecito invece domandarsi di che tipo di cultura sia portatrice, ovvero se sia la persona adatta a ricostruire il collegamento perduto fra il progressismo e la realtà. 

Almeno per quel che si è sentito finora, temo che la risposta a questa domanda debba esser negativa: il mondo mentale di Schlein appare largamente dominato dalle petizioni di principio. E non è questione di radicalismo. […] 

Prendiamo due esempi ormai «classici», la guerra in Ucraina e la costruzione di un termovalorizzatore a Roma. Due argomenti sui quali, com'è noto, Schlein ha mostrato più di qualche titubanza. A partire da quel che ho scritto sopra, mi pare che queste ambiguità si spieghino così: i valori ambientalisti e pacifisti della segretaria democratica la spingerebbero a frenare sull'Ucraina e a opporsi senz'altro al termovalorizzatore; la realtà tira però, con prepotenza, nella direzione diametralmente opposta; e alla fine Schlein è costretta a piegarsi, ma lo fa malvolentieri.

Accetta così di far convivere le proprie convinzioni con la lezione dei fatti, ma è una convivenza forzata e artificiale. Ecco: una cultura vitale non subisce i fatti come un pugno in faccia. Una cultura vitale, anche radicale, assorbe la realtà, la fa propria, si avvolge e ricostruisce intorno a essa, la digerisce e rielabora. La sa pensare per com'è e ne sa pensare al contempo il cambiamento per come vorrebbe che fosse. 

E la destra? La cultura di destra è forse più adeguata alla realtà di quella di sinistra? Assolutamente no. […] La destra non vince le elezioni malgrado le manchi l'egemonia culturale, allora – le vince proprio perché non ce l'ha. Perché viaggia leggera, perché può mettersi in contatto diretto, senza alcuna mediazione, col senso comune degli elettori. E in quel senso comune […] si trova tuttavia la realtà per come la vivono le persone qualunque. Non poca cosa, per chi desideri raccoglierne il voto.

Tendenza Orsini. La débâcle di Elly Schlein sul voto europeo pro e contro la resistenza ucraina. Mario Lavia su L'Inkiesta il  Giugno 2023

La spaccatura del Partito democratico sugli aiuti a Kyjiv è un brutto segnale, per il partito e soprattutto per la segretaria: non avere una linea chiara sulla questione più importante del momento fa temere il peggio per tutti gli altri dossier 

«Grazie con tutto il cuore, viva Elly Schlein»: è un tweet della “pagina Orsini”, e sarà pure un maramaldeggiare di certi “pacifisti”, alias “neutralisti” (se non peggio), una provocazione a bella posta, e però è un commento che ci sta. Ci sta perché la segretaria del Partito democratico non ha saputo o voluto fare quello che un leader normalmente fa: dare la linea in maniera chiara.

Sulla questione del voto a Bruxelles sul regolamento “Asap”, che è il provvedimento sulle munizioni a Kyjiv, e che è soprattutto una nuova cornice per distribuire fondi europei all’industria militare, ieri all’Europarlamento il Partito democratico si è un’altra volta diviso.

La maggioranza del gruppo a favore e in sintonia con il gruppo socialista, a cominciare dalla vicepresidente del Parlamento Pina Picierno che da sempre è in prima linea a favore dell’Ucraina, ma con quattro astenuti (Pietro Bartolo, Achille Variati, Franco Roberti e Camilla Laureti, quest’ultima componente della segreteria nazionale), uno contrario (il solito Massimiliano Smeriglio, che nemmeno è iscritto al Partito democratico ma lo frequenta dall’epoca zingarettiana e fa parte del gruppo S&D), uno è non pervenuto (Giuliano Pisapia), mentre tra i favorevoli ci sono anche Patrizia Toja e Alessandra Moretti, che erano risultate astenute ma si erano sbagliate a votare (e vabbè, capita).

Asap è l’acronimo, che letteralmente sta per Act in Support of Ammunition Production (legge a supporto della produzione di munizioni) ma non facciamola tanto lunga: questo voto, nella sostanza, riguardava gli aiuti militari (le munizioni) alla Resistenza ucraina.

Bartolo, Variati, Roberti e Smeriglio sono da sempre su una posizione diversa da quella del Partito democratico, cioè sì alle armi fino a che sarà necessario, una linea che era stata declinata con grande chiarezza dall’ex segretario Enrico Letta – e approvata in tutte le sedi svariate volte – ma che Elly Schlein ha sempre confermato pur condendola con un di più di argomentazioni a favore della “trattativa” e in questo caso dal no all’utilizzo dei fondi del Pnrr per gli aiuti.

Mercoledì su Instagram (altro che disintermediazione) Schlein aveva detto due cose: supporto a Kyjiv, e no all’utilizzo dei fondi Pnrr per le armi, ma senza chiarire altro. Il testo che i dem hanno dovuto votare però contiene entrambe le cose: sì all’aiuto a Kyjiv, e sì all’utilizzo anche di quei fondi.

Qual è la linea, quindi? Il Partito democratico sapeva benissimo che i suoi emendamenti contrari all’uso dei fondi del Pnrr sarebbero stati respinti (anche perché se un Paese volesse disporre del Pnrr per le armi a Kyjiv non può esserci nessuna Schlein che potrebbe impedirglielo), e dunque questa battaglia semmai va fatta in sede nazionale, dove intanto la destra, contrariamente a certi segnali, non ha affatto escluso di ricorrere ai soldi del Piano di ripresa e resilienza.

Ma in ogni caso quella di Schlein, con l’appoggio del responsabile Esteri Peppe Provenzano, era una scusa per poter caso mai giustificare un voto di astensione. Insomma, un trucchetto, un espediente, una scusa, o come si dice adesso una supercazzola. Solo che se la supercazzola parte dalla segretaria del partito ognuno si sente più o meno libero di fare quello che gli pare: è stato come minimo un esempio di scarsa capacità di direzione politica e come massimo un capolavoro di ambiguità.

Forse si pensa di strizzare così l’occhio ai seguaci di Michele Santoro e Moni Ovadia (di Orsini si è detto) o magari di non perdere il rapporto con i Cinquestelle, ovviamente schierati contro gli aiuti militari, e a quei nuovi arrivati nel Partito democratico che provengono da Sel, Articolo Uno e compagnia bella che non a caso occupano bei posti nella segreteria (abbiamo detto di Laureti).

Il gruppo europeo del Partito democratico risulta veramente inaffidabile sulla questione più importante di questa fase storica – la difesa dell’Ucraina –, perché va bene la coscienza personale ma qui c’è ormai una frazione attiva (quante colpe ha Nicola Zingaretti, fu lui a fare le liste delle Europee del 2019). E, a parte questo, c’è da osservare che per Elly Schlein è estremamente rischioso mostrarsi ondivaga su questo terreno. Perché se non tiene sull’Ucraina figuriamoci sul resto. Altro che «mettetevi comodi», qui è un disastro.

Maternità surrogata, armi all'Ucraina; il Pd si divide e mostra la debolezza di Elly Schlein. Andrea Soglio su Panorama il 03 Giugno 2023.

I due temi di giornata politica vedono il Nazareno in difficoltà, con parlamentari che votano contro le indicazioni della segreteria

Da lunedì sera, dopo la pesante sconfitta nei ballottaggi, nel Pd e nel mondo dell’informazione politica analisti di lungo corso, opinionisti vari ed esponenti del partito, pro e contro il neo segretario Elly Schlein hanno dato le loro spiegazioni al risultato deludente del Partito Democratico e della sinistra in generale. Opinioni tutte corrette e rispettabili. Ma una cosa è emersa chiara nelle ultime 24 ore: il Pd è un partito in mille pezzi. Due esempi solo oggi su tutto: maternità surrogata e armi all’Ucraina. Ieri in Commissione alla Camera la maggioranza ha approvato la mozione che chiede la condanna in tutto il mondo della maternità surrogata. Il Pd non ha votato contro, si è astenuto. Che nel linguaggio parlamentare vuol dire: non sappiamo quale sia la nostra linea. Oppure, e sarebbe peggio, ce l’abbiamo un’idea ma non possiamo dirla per non turbare la parte cattolica del nostro partito. Elly Schlein infatti è molto ma molto vicina alle opinioni di chi è favorevole anche alla maternità surrogata, ma non può andare fino in fondo, non può sterzare così forte ancora di più a sinistra. Glielo ha ricordato Goffredo Bettini, uno dei fondatori, filosofi, totem dei nuovi dem, che sulle colonne dell’Avvenire (un giornale non scelto a caso quello della Cei) ha spiegato che «la maternità surrogata comporta per lo più rapporti mercificati. Ci sono passaggi di denaro. I poveri offrono il corpo, i ricchi lo utilizzano. Inoltre si trasforma il legittimo desiderio di genitorialità in un diritto che interferisce e programma circa il destino di un altro essere umano. È una mercificazione del corpo della donna…». E uno… Secondo problema e seconda divisione: oggi in Europa si è votata la legge a sostegno della produzione di munizioni della Ue per rafforzare la capacità produttiva a sostegno dell’Ucraina. Che la questione sia delicata, che il Pd si presentava stamattina a Bruxelles senza una linea chiara e senza unità lo dimostra il tam tam di agenzie arrivate fin dal mattino. Cominciava di buon ora il Capogruppo in Europa, Benifei: «Sì a sostegno Ucraina, no a utilizzo Pnrr e fondi coesione. La destra supporti i nostri emendamenti a regolamento munizioni». Si va in aula; l’emendamento del Pd, come previsto, non passa. Si va al voto. La prima notizia è clamorosa: sei parlamentari della delegazione Pd hanno votato a favore, 5 sono stati gli astenuti, contrario Smeriglio. Passano 10 minuti e da Bruxelles arriva di corsa la precisazione: «Comunichiamo per correttezza di informazione che le europarlamentari del Partito democratico Alessandra Moretti e Patrizia Toia hanno votato a favore nel voto finale sul regolamento ASAP. A causa di un errore tecnico nel voto finale compare nei registri l’astensione ma entrambe le eurodeputate hanno votato a favore e hanno già proceduto a chiedere la correzione. La delegazione ha dunque espresso 10 voti a favore, 4 astensioni e un voto contrario da parte dell’eurodeputato Smeriglio che, va ricordato, è membro indipendente non iscritto al Pd…». Tensione, posizioni singole, divisioni, voti a favore, astenuti, contrari. Tutto palpabile, tutto clamorosamente evidente. Il Pd non ha una linea, non ha il coraggio delle sue idee e, soprattutto, il suo segretario non ha il controllo dei suoi parlamentari a Roma ed a Bruxelles. Su una cosa ha ragione il segretario del Partito Democratico: «Il lavoro da fare è lungo…». Ecco, lungo e complicatissimo

Jena per “La Stampa” il 30 maggio 2023.

Per poter vincere, la sinistra deve fare una mossa a sorpresa: diventare di destra.

Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” - ESTRATTO il 30 maggio 2023. 

Troppa vaghezza, e troppa solitudine. Elly Schlein è stata eletta segretaria del Pd poco più di due mesi fa: non ha preparato lei queste amministrative, non ha scelto lei i candidati, non è quindi imputabile esclusivamente a lei questa sconfitta. Che è netta, sonora, bruciante, talmente tanto da lasciare un partito a terra come un vaso di coccio infranto.

Non si sa da quale pezzo cominciare, per rimetterlo insieme. Non lo sa chi guida il Pd a Roma e non lo sa chi lo incarna sui territori. È tutto, interamente, da ricostruire. E non bastano la freschezza di una vittoria a sorpresa alle primarie, la giovinezza di una leader inaspettata, la novità di una donna finalmente alla guida. 

Sono stati, questi elementi, una spinta iniziale: hanno tirato su i sondaggi, ridato speranza a un popolo di centrosinistra che ha visto - per gli imperdonabili errori dei suoi leader in lotta - spianare la strada al governo più a destra della storia repubblicana. Ma non poteva bastare e infatti, alla prima prova concreta, vera, sul territorio, non è bastato. Serviva un progetto, e quel progetto non c’è. 

La vittoria del giovane Giacomo Possamai a Vicenza, città già di centrosinistra (in un territorio dominato dalla Lega), ma fortemente in bilico e infatti lo scarto è stato di soli 500 voti, non può essere di alcuna consolazione. 

Fanno tenerezza i parlamentari Pd che si affrettano a mettere sui social le foto al suo fianco, come potessero nascondere il disastro tutt’intorno. E non può essere un modello, così come non lo è stata la Verona di Damiano Tommasi, che infatti era lì ieri a congratularsi e dire: «Abbiamo del lavoro da fare insieme».

È una maggioranza larga, certo, arriva fino a quel terzo polo che non si è capito bene da che parte sia stato, in queste elezioni dalle geometrie ultravariabili, ma è - al fondo - la vittoria di un ragazzo che ha fatto da solo chiedendo ai leader nazionali, Schlein compresa: «Per favore, non venite». Il Pd e il centrosinistra vincono dove i suoi leader non mettono la faccia: non un buon auspicio. 

Se si aggiunge a questo la mancata riscossa nell’ex Toscana rossa, Siena, Massa, Pisa che cadono al ballottaggio invertendo una tendenza finora sempre confermata, e cioè che al secondo turno è il centrosinistra a mobilitarsi e il centrodestra a restare a casa, si capisce la portata della débâcle.

……………….Il punto sono le idee. E le idee, di grazia, quali sono?

Il Sud che non ha punito Meloni per lo smantellamento del Reddito di cittadinanza, anzi ha concesso alla destra vittorie bulgare come quella di Catania, ha visto gli elettori di FdI, Lega e Forza Italia mobilitati in nome del Ponte sullo Stretto, della grande opera dei sogni e degli interessi, perfino di un’imposizione fiscale comprensiva perché le tasse non possono essere «pizzo di Stato». 

Quelli di centrosinistra, per cosa avrebbero dovuto muoversi? Chi ha difeso il loro diritto al lavoro e alla dignità? Chi ha avuto il coraggio di dire No a un’opera su cui tanto puntano le mafie e che si troverebbe a collegare un territorio abbandonato a un altro territorio abbandonato. Senza strade decenti, ferrovie decenti, infrastrutture decenti, ma con un grande inutile ponte che se davvero si facesse sottrarrebbe risorse a tutto il resto?

Lo diceva ieri a Metropolis Massimo Cacciari: che messaggio hanno dato questo Pd e questo fronte progressista? Che promessa hanno fatto, che riscatto hanno proposto? 

Stentano a intravedersi, nella lunga marcia cominciata da Elly Schlein, tanto il progetto quanto la squadra. Può il Partito democratico non avere un’idea univoca sul Ponte sullo stretto? Può vedere smantellato senza creare una resistenza comune un sussidio che ha salvato parte del Paese dalla povertà assoluta, quando la crisi ha morso più forte. 

Può non lottare neanche un minuto per il pluralismo nel servizio pubblico, salvo poi lamentarsi perché Rainews ha trasmesso in diretta il comizio del centrodestra unito a Catania. C’è un percorso che ha portato a quella diretta ed è stato fatto di silenzi su quel che in Rai sta accadendo come se fosse sempre successo, e invece non è vero. 

………………………… 

La vaghezza riguarda molte, troppe posizioni. Poi c’è il resto. Ci sono le alleanze, con il terzo polo dilaniato e i 5 stelle esangui. Schlein ha ragione quando dice che la costruzione di un’alternativa non si fa da soli. Ma ha torto se pensa che non sia in capo a lei, una responsabilità soprattutto sua, lo sforzo della costruzione di un campo che tiri dentro il Movimento, ma non lasci alle ortiche e alle sue faide intestine l’area di centro. 

……….. È stata troppo sola, Elly Schlein, in questi due mesi. E lo è stata per scelta. Sola e circondata da pesi piuma. La comunicazione si è concentrata su di lei, ma è una ricetta che funziona a destra, non dentro al Pd. Se la segretaria non è in grado di ingaggiare il corpo del partito nella battaglia e in un solido progetto comune, chi sta lì ad aspettare che fallisca avrà vinto la scommessa.

C’è un barlume di consapevolezza, quando dice: «Non si cambia in due mesi e non passa mai da singole persone». Ma se quella consapevolezza c’è, bisogna agire di conseguenza. C’è molto lavoro da fare, a sinistra. Ed è un lavoro di squadra.

 Stefano Folli per “la Repubblica” - Estratto il 30 maggio 2023.

……………………………

Non è questione di circostanze sfortunate o del poco tempo avuto dalla neo-segretaria per rimodellare la propria creatura. Le proporzioni della sconfitta chiamano in causa la strategia, l’idea di partito che la leader ha coltivato. Di qui il massimalismo delle scelte, il rinchiudersi nel circolo ristretto dei collaboratori fidati, la mancanza di un nesso politico o anche solo pratico tra il vecchio e il nuovo gruppo dirigente. 

L’altro giorno l’immagine solitaria di Schlein nella sua breve ricognizione delle aree alluvionate era la più malinconica ma veritiera fotografia di una leadership che non incide. Che non comunica alla maggioranza degli italiani, ma solo all’arcipelago delle minoranze. Probabilmente pochi avevano previsto il quasi “cappotto” nei Comuni, ma gli ottimisti, coloro che credevano in un risultato confortante, erano ancora meno. 

Qualcuno nel Pd dovrà farsi coraggio e dire che non tutto è perduto, che alle elezioni europee manca un anno e quindi c’è tempo per risalire la china. A patto di parlare un linguaggio di verità, visto che Spagna e Grecia stanno scivolando a destra, indice di una spinta che potrebbe cambiare l’assetto politico dell’Unione.

Nel Pd la fascia degli scontenti si sta allargando. Finora certi argomenti sono stati respinti con un’alzata di spalle da Schlein. Eppure il richiamo al riformismo economico e istituzionale è tutt’altro che banale: equivale al tentativo di raccordarsi con una tradizione laica e cattolica che è stata in apparenza abbandonata in nome di una radicalizzazione poco meditata e soprattutto fallimentare nel rapporto con gli elettori.

Si è tentato di inseguire i Cinque Stelle con l’obiettivo di recuperare un po’ di voti, neutralizzando Conte e il suo gruppo. Il risultato è che i 5S proseguono nel loro declino e il Pd li segue a ruota. 

Da oggi si può continuare con la retorica ovvero ci si può disporre a un bagno di realismo. A partire dal fatto che la vocazione riformista, tipica dei momenti migliori del centrosinistra storico, va recuperata il più presto possibile. Questo comporta non un’auto-critica in stile sovietico, ma un riesame delle priorità. Il rischio è che dal Pd nascano due partiti: uno riformista e uno massimalista. Un regalo troppo grosso a Giorgia Meloni. 

Estratto dell’articolo di Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 30 maggio 2023.

Il 16 maggio, all’indomani del primo turno di questa tornata di elezioni amministrative, La Repubblica titolò a tutta pagina: “L’onda di destra si è fermata”, perché loro sono un giornale che ha il polso del Paese. Bene, ieri, turno di ballottaggio, il Centrodestra ha vinto a valanga ovunque meno che a Vicenza, non a caso l’unica città in cui il candidato della sinistra ha tenuto ben alla larga la neo segretaria Elly Schlein.

[…] Insomma, non solo non c’è alcun effetto Schlein, ma neppure un effetto Fabio Fazio o Lucia Annunziata: gli italiani non vedono alcun pericolo di derive autoritarie, semmai ribadiscono di non avere alcuna intenzione di seguire il nuovo Pd in avventure ideologiche, in uteri in affitto, in finte paci in Ucraina insomma in derive comunistoidi. 

[…] Continuino pure Saviano e la Murgia ad abbaiare alla Luna che ormai è chiaro che rappresentano solo loro stessi; continuino pure La Repubblica e La Stampa a raccontare ogni giorno un’Italia impaurita e arrabbiata che non esiste; prendano atto, gli uni e gli altri, che la crisi delle sinistre non ha confini e che ieri […]in Spagna il premier socialista Sanchez si è dimesso e ha indetto nuove elezioni politiche.

Adesso Giorgia Meloni […] può alzare l’asticella della sua scommessa e provare a dare l’assalto al fortino europeo […]. Tra un anno infatti si vota per le Europee, le sinistre sono nel pallone, Macron non sa che pesci pigliare, destre conservatrici e popolari stanno invece preparando una inedita alleanza e se questo vento non cambierà direzione be’ allora molte cose dovranno cambiare anche nelle politiche dell’Unione. […]

Estratto dell’articolo di Stefano Folli per “la Repubblica” il 30 maggio 2023. 

Il centrosinistra scompare al secondo turno del voto nei Comuni. […] il Pd, con la sua debole o inesistente rete di alleanze, si è come dissolto  […].  Unica vera eccezione, Vicenza. [...] Ma forse si dovrà ricordare che il candidato vicentino, Possamai, ha fatto la campagna chiedendo che il vertice romano del partito non si disturbasse a dargli una mano e restasse nella capitale. […]

A voler essere impietosi si dovrebbe dire che il Pd è al suo “anno zero”. [...] Elly Schlein si è insediata da poco e quindi le vanno riconosciute, entro certi limiti, le attenuanti. 

Le ironie di Salvini vanno messe nel conto e peraltro qualcuno potrebbe ricordargli che i dati elettorali […] consolidano la leadership di Giorgia Meloni e consegnano lui, […] che pochi anni fa vantava un consenso del 34 per cento, alla condizione definitiva di junior partner del centrodestra. Detto questo, è evidente che soltanto un irresponsabile potrebbe sottovalutare il disastro del centrosinistra […]. 

[…] Le proporzioni della sconfitta chiamano in causa la strategia, l’idea di partito che la leader ha coltivato. Di qui il massimalismo delle scelte, il rinchiudersi nel circolo ristretto dei collaboratori fidati, la mancanza di un nesso politico o anche solo pratico tra il vecchio e il nuovo gruppo dirigente.

[...] l’immagine solitaria di Schlein nella sua breve ricognizione delle aree alluvionate era la più malinconica ma veritiera fotografia di una leadership che non incide. Che non comunica alla maggioranza degli italiani, ma solo all’arcipelago delle minoranze. […]

Qualcuno nel Pd dovrà farsi coraggio e dire che non tutto è perduto [...]. A patto di parlare un linguaggio di verità, visto che Spagna e Grecia stanno scivolando a destra, indice di una spinta che potrebbe cambiare l’assetto politico dell’Unione. 

Nel Pd la fascia degli scontenti si sta allargando. Finora certi argomenti sono stati respinti con un’alzata di spalle da Schlein. Eppure il richiamo al riformismo economico e istituzionale è tutt’altro che banale: equivale al tentativo di raccordarsi con una tradizione laica e cattolica che è stata in apparenza abbandonata […].

Si è tentato di inseguire i Cinque Stelle con l’obiettivo di recuperare un po’ di voti, neutralizzando Conte e il suo gruppo. Il risultato è che i 5S proseguono nel loro declino e il Pd li segue a ruota. 

Il […] rischio è che dal Pd nascano due partiti: uno riformista e uno massimalista. Un regalo troppo grosso a Giorgia Meloni.

Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per “Il Foglio” il 20 maggio 2023.

[...] siamo convinti che ella, ovvero Elly, cioè Schlein, faccia politica travestita da paracadutista, ma che alla fine si lanci sempre dal pianterreno. Prendiamo spunto adesso dal lungo colloquio pubblicato ieri da Repubblica, bontà sua. 

Tra le domande alle quali sostanzialmente la segretaria del Pd non ha risposto, o quelle alle quali ha risposto con la voce di Letta  o quelle che lei infine non ha voluto nemmeno che le venissero fatte, viene forse fuori il ritratto di una magnifica anguilla democristiana. Altro che partito nuovo e “scintilla della Rivoluzione d’ottobre”, come diceva il vecchio Bettini. 

Per prima cosa, il lettore deve sapere che lo staff di Schlein ha rifiutato preventivamente tre argomenti che Repubblica le aveva sottoposto tra gli altri: la maternità surrogata, i diritti Lgbt assieme alla fidanzata Paola, e la storia dell’armocromista. Niente domande su questi argomenti, ha chiesto Schlein. 

[…] 

E allora Schlein non parla di utero in affitto, non vuole parlare di politica queer, persino l’armocromista le deve sembrare troppo audace, sicché alla fine, se ci si aggiungiamo anche gli argomenti sui quali accetta le domande ma non dà le risposte (tipo il termovalorizzatore di Roma) viene da sospettare una delle seguenti cose. O Schlein ha paura di dire ciò che pensa, o forse Schlein non pensa quello che tutti pensano che lei pensi. Ovvero ciò che comunica la sua estetica non corrisponde al suo contenuto.

In definitiva ella, cioè Elly, è probabilmente un caso che sarebbe piaciuto a Marshall McLuhan quando teorizzava che il medium è il messaggio. Ma che succede se dentro a una bella bottiglia di Sassicaia ci metti il solito Tavernello? Prima o poi qualcuno che capisce di vino se ne accorge, e fa una denuncia ai Nas.

Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 13 Maggio 2023.

Consigli non richiesti. Ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita su La7 c’era Elly Schlein. Da vecchio studioso di comunicazione mi permetto alcuni suggerimenti. Per essere comprensibile, Schlein dovrebbe parlare più adagio, rispondere a tono e abbandonare ogni ideologismo (precisazioni, inquadramenti, proclami, princìpi…). In tv funziona il concreto (esempi, fatti, immagini) non l’astratto che è la tomba di ogni eloquio carismatico, in tv funziona una partecipazione più calda, personale e meno dottrinale.

Un esempio: sul capitolo riforme, Schlein ha annunciato «barricate» sull’autonomia differenziata di Calderoli, perché «è una riforma che spacca il Paese». In questi casi, per aumentare l’attenzione dello spettatore, sarebbe il caso di spiegare prima cosa significhi «autonomia differenziata». Poi ha posto le sue condizioni per instaurare un dialogo costruttivo: «Queste sono le condizioni: se è un dialogo vero e se tiene insieme una moratoria delle autonomie». Un dialogo vero che tiene insieme una moratoria delle autonomie? Cosa significa?

[…] A un certo punto, la pur brava Alessandra Sardoni le ha fatto una domanda chilometrica (vizio diffuso fra i giornalisti). Alle domande «omnibus» non si risponde, si chiede gentilmente una riformulazione. All’inizio dell’intervista, a domanda secca Schlein rispondeva in modo pertinente, rendendo vane tutte le bagatelle che abbiamo scritto sull’armocromia. Se viene mostrato un sondaggio con il Pd che cala di un punto, ci vuole la battuta pronta: «Dopo stasera risaliremo di due», cose del genere, cose un po’ galvanizzanti. Eviti, infine, di chiamare per nome il conduttore: «Mi faccia dire, Corrado…». Dica e basta. E scusi la mia intromissione.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per “Corriere della Sera - Sette” il 16 maggio 2023. 

[…] Chiara Gribaudo  […] è una politica di professione. Già alla terza legislatura, tutti sanno che è molto rampante, molto […]. Nessuno è perciò rimasto sorpreso da come e quanto abbia brigato per diventare capogruppo alla Camera, anche se, alla fine, la Schlein ha dovuto fare i conti con le correnti interne (è una balla che se ne frega), e così a guidare le truppe dem è finita Chiara Braga, perché poi – persino nel Pd – ogni tanto la bravura e l’esperienza vengono riconosciute. 

La Gribaudo c’è rimasta non male, malissimo. La nomina a vice-presidente del partito l’ha […] vissuta come un contentino. […] ma non deve farsi sopraffare dall’amarezza. Anche perché  […] può assumere un ruolo fondamentale. A patto di uscire dal “tortello magico” […] e di sottrarsi al coro del quanto sei brava Elly, non t’hanno visto arrivare e ora, poverini, non capiscono nemmeno quello che hai in testa.

La Gribaudo potrebbe infatti ritagliarsi il ruolo di Grillo Parlante (favola di Pinocchio) e riferire alla sua amica i nostri dubbi: Elly crede di guidare un partito o un movimento che si batte per i diritti civili? Cosa pensa sul Pnrr, oltre la generica frase da bar «è una straordinaria occasione che stiamo perdendo?» 

E sulla Sanità? E sulla guerra in Ucraina? È stata una buona idea farsi intervistare, per la prima volta, in esclusiva, da Vogue – nota rivista di riferimento della classe operaia, dei precari, degli ultimi? Dire che spende 300 euro a seduta con un’esperta di armocromia porta consenso? La Gribaudo avrebbe insomma il delicato compito di spiegare alla sua amica che qui ancora nessuno ha capito se sotto il famoso trench verde c’è anche un po’ di politica.

Elly Schlein e la sinistra sono rimasti a Marx. Libero Quotidiano il 09 maggio 2023

Gli affitti delle case nelle medie e grandi città sono schizzati all’insù facendo ripartire la grancassa di chi a sinistra vorrebbe mettere un tetto massimo al canone. Ovvio che chiunque di noi è a favore di un canone equo ma tornare all’equo canone - legge in vigore in Italia dal 1978 al 1998 - sarebbe una autentica follia. Siamo convinti che in una democrazia liberale lo Stato non possa scaricare sui privati il costo delle sue inefficienze, in questo caso il degrado da una parte e la mancanza di sviluppo dell’edilizia pubblica dall’altra.

Nel Manifesto del Partito comunista Karl Marx scriveva: «I comunisti possono riassumere le loro teorie in questa proposta: abolizione della proprietà privata». Ecco, la storia ha ampiamente dimostrato quanto questa teoria, là dove è stata applicata, sia risultata economicamente e socialmente fallimentare e la stessa storia ci racconta come le storture prodotte dal libero mercato capitalista si contrastano efficacemente non con meno ma con più libertà, a partire dal rendere più conveniente investire e quindi essere proprietari di un bene da mettere a reddito attraverso la leva fiscale. Se le università italiane, alcune delle quali eccellenze mondiali, non hanno pensato per tempo a come agevolare i loro studenti nel vitto e nell’alloggio non è che adesso si presenta il conto a un cittadino che ha investito i suoi risparmi nell’acquisto di una casa.

Se i comuni hanno dissipato l’immenso patrimonio lasciato in eredità dagli amministratori che negli anni Cinquanta e Sessanta erano riusciti a dare case pubbliche decorose e poco onerose a milioni di italiani non è che la soluzione è requisire i beni dei privati o limitarne la loro rendita. No, uno Stato che non è in grado di tutelare la proprietà privata non pensi di poterla limitare. Intendo che siamo l’unico Paese al mondo dove l’occupazione abusiva così come la non corresponsione del canone d’affitto come da contratto non è considerato un reato grave e quindi perseguito a dovere. Se gli affitti sono eccessivamente alti è non solo ma anche perché il rischio è alto, è perché la moda del “green” tutto e subito obbliga i proprietari a interventi assai onerosi. Insomma, prima di puntare il dito contro i proprietari la sinistra si faccia un esame di coscienza.

Estratto dell'articolo di Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” l'8 maggio 2023.

Il lavoro deve essere «di qualità», l’impresa «buona» e «le politiche sociali devono essere rimesse al centro dell’agenda». Senza dimenticare l’importanza degli «investimenti sulle piste ciclabili» e del «trasporto pubblico più sostenibile». A sentire parlare Elly Schlein, reduce da «un bellissimo» tour a sostegno dei candidati in Lombardia e veneto, viene da chiedersi perché non abbiano fatto segretario del Pd Nicola Fratoianni. A sparacchiare qualche vuoto slogan buonista era capace pure lui, che in più non porta il trench, ha un decennio di esperienza parlamentare alle spalle e si capisce quando parla.

C’è stato un tempo, però, in cui la numero uno del Nazareno i conti con la realtà, volente o nolente doveva farli. Il problema è che spesso non tornavano. Come quando tra il 2021 e il 2022, con Stefano Bonaccini presidente dell’Emilia-Romagna e lei vice, la Regione ha dovuto restituire al ministero delle Infrastrutture 55,2 milioni di euro su 71,9 complessivi per l’incapacità di spenderli nei tempi previsti. 

Già così viene un po’ da ridere, considerate le continue accuse al governo sui ritardi nella messa a terra del Pnrr. Ma il bello è che quei soldi avrebbero potuto contribuire a contenere il disastro che si è scatenato sul territorio con le alluvioni di qualche giorno fa. 

(…)

Possibile che i solerti amministratori del Pd, oggi a capo del partito, abbiano combinato un tale pasticcio? Macché, è tutto un abbaglio. 

«Open», ha risposto con solerzia la Regione, «ha avuto notizia di un rilievo della Corte dei conti, datato e comunque già superato, rispetto a fondi stanziati per la navigazione sul Po, sistema idroviario Padano-veneto, che nulla hanno a che fare con la sicurezza idraulica e la prevenzione del dissesto». In ogni caso, fanno sapere, «tali risorse risultano già recuperate e tuttora nella disponibilità della Regione grazie ad un accordo con il Ministero». In altre parole, Matteo Salvini ha salvato capra e cavoli rifinanziando il piano. 

Quanto agli scopi degli stanziamenti Bechis continua a sostenere che nell’incartamento c’è ben altro rispetto alla navigazione del Po’. Anche se fosse, resta il fatto che quei 55 milioni dovevano essere spesi entro il 2022 e invece, come afferma la Regione, saranno impiegate nel piano triennale per la navigazione interna che è stato «approvato dalla Giunta in una delle ultime sedute». In pratica, tutto è ripartito da zero. Con un paio di anni di ritardo.

 Il passo falso sulla spesa dei fondi non è comunque l’unica cosa che la Schlein ha dimenticato della sua permanenza al governo dell’Emilia-Romagna. Tra le poche cose su cui ha deciso di prendere una posizione netta c’è infatti il no all’autonomia. «Siamo assolutamente contrari», ha ribadito ieri da Treviso, «a questa forzatura di Calderoli, che ha scavalcato il confronto pieno con Regioni e con il Parlamento.

E pensiamo che quella proposta divida ulteriormente un Paese che ha bisogno invece di essere ricucito nelle sue fratture». Pronta la replica del leghista Fabrizio Cecchetti: «Certo stupisce che la Schlein che ogni giorno ripete ossessivamente che l’autonomia è pericolosa e spacca il Paese, per due anni e mezzo, dal 2020 al 2022, da vice presidente della Regione Emilia-Romagna non abbia mai detto una parola contro l’autonomia portata avanti dalla sua giunta regionale. Eppure parliamo sempre della stessa Schlein, no? Dubito si tratti di un’omonima». 

Nessuna risposta, ovviamente, dalla segretaria del Pd, che è troppo impegnata a snocciolare la sua agenda. 

(…)

Vocazione landiniana. Schlein sta appaltando alla Cgil la lotta politica del Partito democratico. Mario Lavia su L'Inkiesta il 5 Maggio 2023

La segretaria dem è andata ovunque, ma sempre a manifestazioni di altri. Perché il Pd non organizza una manifestazione per rimettersi in piedi, elaborare un programma, costruire rapporti

La movimentista Elly Schlein deve ricordarsi che adesso guida un partito politico. Anzi, il suo mandato è quello di resuscitarlo, non di appiattirsi né tantomeno di sciogliersi nei movimenti. Perché diciamo questo? Perché, del tutto opportunamente, domani la segretaria del Partito democratico sarà a Bologna per la prima delle tre manifestazioni di Cgil Cisl e Uil contro il decreto lavoro e più in generale contro la (non) politica economica del governo Meloni. Poi ce ne sarà un’altra sabato 13 a Milano e una terza sabato 20 a Napoli. 

La Cgil non esclude lo sciopero generale. Un crescendo per disegnare un maggio italiano che ovviamente non somiglierà per niente alla protesta francese, e per fortuna. Non mancano gli esagitati che twittano «oggi in Francia domani in Italia», incuranti della piega violenta che ha preso la protesta contro Emmanuel Macron e la sua legge che innalza l’età pensionabile di due anni, come quasi sempre avviene in un Paese storicamente duro come la Francia ove reazione e rivoluzione sono sempre in agguato. Protesta che da sindacale è diventata presto un’altra cosa, un grande ribollire umano dove politica e irrazionalità si mescolano nell’estetica dei cassonetti bruciati e nel mito dei casseurs all’ombra di un estremismo politico che fa da contraltare alla mai sopita tentazione reazionaria dei francesi: ormai di lotta sindacale a Parigi c’è ben poco, è tutto un agitarsi incontrollabile. Mentre da noi è stata sempre un’altra storia. 

È la democrazia dei partiti, bene o male. C’è un governo e c’è un’opposizione. Poi ci sono i movimenti, che sono un altra cosa. Per questo sarebbe un errore pensare che i sindacati debbano supplire all’inerzia del Pd, inerzia dovuta a molti fattori a cominciare dalla lunga anchilosi del Pd iniziata con la sconfitta di Matteo Renzi al referendum, poi con la reggenza di Maurizio Martina, quindi con segreteria di Nicola Zingaretti e culminata con quella di Enrico Letta. 

Ora, Schlein sarà a Bologna per dare il segnale che il Pd sta dentro la protesta. Legittimo, coerente. Con il rischio però, se il Pd fa solo questo, di dare la forte sensazione di delegare al sindacato una lotta che è tutta politica, un errore strategico in cui si confondono i ruoli con il rischio di una vera e propria deriva ideologica (scommettere sul vecchio pansindacalismo nipotino di George Sorel) e di un affastellamento di slogan in grado di provocare magari un bel casino “francese” e null’altro. 

La piazza sindacale è un conto ma la questione vera è la seguente: perché il Pd non organizza una propria manifestazione politica (o meglio, più manifestazioni) contro la politica generale di questo governo? Cosa impedisce a Elly Schlein di andare su un palco in una piazza di Roma, di Milano, di Palermo? È andata ovunque, la segretaria, ma sempre a manifestazioni di altri. Su questa o quella questione. E tuttavia un partito è tale se riesce a fare una sintesi positiva di una serie di motivazioni critiche che va incanalato, va fatto diventare politica. Altro che patto con Landini. 

Peraltro dal punto di vista politico uno spazio di opposizione a un governo che sta suonando il piffero della mancetta nera esiste e in più in campo c’è, se non solamente, soprattutto il Pd, visto che Giuseppe Conte non ha intenzione di spendersi in un movimento di protesta contro il governo Meloni per la buona ragione che da questo può sempre rosicchiare qualche briciola di potere pur mantenendo Schlein sotto pressione con le chiacchiere e apparendo ormai chiaro che nel dibattito pubblico il Movimento 5 stelle dell’avvocato ha ormai poco da dire. 

Il problema è che malgrado il buon impatto della nuova leader con l’opinione pubblica – al netto dell’armocromia – il Pd non riesce a rimettersi in piedi, a elaborare un programma, a costruire rapporti. Nemmeno a discutere prima che i fatti avvengono: e così si trova a votare una mozione di Nicola Fratoianni contro gli accordi con la Libia stipulati dal governo Gentiloni beccandosi platealmente il dissenso di un ex ministro come Enzo Amendola e di esponenti come Lia Quartapelle e Marianna Madia. 

È un partito che trasmette incertezza, permanentemente impelagato nelle vicende degli assetti interni o nelle polemiche pseudo-identitarie (vedi la penosa questione del presunto cambio del nome del gruppo parlamentare a Bruxelles dove i socialisti europei pongono l’esigenza di togliere l’aggettivo «democratici» e lasciare solo «socialisti», un partito che non riesce a dettare la famosa agenda. Nei sondaggi il Pd è arrivato a superare il 20 per cento e questo è un fatto. Ma viene voglia di riprendere la nota battuta di Palmiro Togliatti che a Giancarlo Pajetta che gli dava notizia dell’occupazione della Prefettura milanese rispose: «Bravo, e ora che te ne fai?».

Estratto dell’articolo di Alessandro Da Rold per “la Verità” il 7 maggio 2023.

Non si è scomodato neppure il vignettista Altan, che per anni ha riempito le pagine dell’agenda Smemoranda con il suo operaio metalmeccanico Cipputi. Ci si poteva aspettare magari una vignetta […] a ormai più di un mese dal licenziamento di 160 persone dell’azienda che per anni è stato un baluardo della sinistra italiana […].  

Del gruppo Smemoranda - che comprendeva oltre al noto marchio di agende, Zelig, Gut distribution, i punti vendita C’Art e Nava, […] - non si parla più. A Milano, nei salotti frequentati dal sindaco Beppe […] è vietato citarla. La Cgil non si è neppure scomodata con un comunicato di solidarietà. 

Ieri a Bologna è andata in scena l’ipocrisia di un sindacato, quello di Maurizio Landini che, con ben due rappresentanti all’interno del gruppo Smemoranda, per anni non avrebbe mai risposto alle richieste dei lavoratori che avevano avvertito i vertici sui rischi degli investimenti a Shanghai, Miami o nella televisione Zelig. […] raccontano alcuni ex dipendenti alla Verità, «in molti si erano rivolti ai due esponenti della Cgil per una mobilitazione di protesta o almeno un comunicato per rendere nota la situazione drammatica dei conti dell’azienda».  

Caso vuole che, mentre 160 persone tra le varie società sono state licenziate, i due rappresentanti sindacali siano tra le poche decine di persone rimaste in cassa integrazione. Non ci sono mai state proteste o picchetti, neppure un corteo di solidarietà.  E pensare che Nico Colonna, storico direttore di Smemoranda, si è formato nei collettivi studenteschi del ’68. Lui, come anche i fondatori Gino Vignali e Michele Mozzati. […]

Per non parlare dei quotidiani. Il Corriere della Sera, che con Rizzoli ha pubblicato per anni i libri di Gino Vignali e Michele Mozzati, tace. Si è limitato a raccontare il rischio della chiusura dello storico Teatro Zelig. Per di più il 24 aprile scorso, sulla pagina online del Corriere, è comparsa un’intervista ai due soci fondatori Gino e Michele dove si spiega che le colpe del fallimento sarebbero di Covid e guerra. «Purtroppo è andata così, ma non ci pentiamo di niente», dicono i due quasi all’unisono.

[…] Difficile che il buco da 40 milioni di euro (ma c’è chi sostiene siano il doppio) nei bilanci sia dovuta solo all’emergenza sanitaria degli ultimi due anni o al conflitto tra Russia e Ucraina. 

Anche i giornali del gruppo Gedi, da Repubblica alla Stampa, non ne scrivono. Non poteva andare diversamente. Basta guardare la compagine degli azionisti, dove compaiono cognomi importanti della tradizione aristocratica milanese, dai Moratti ai Borromeo. Dall’ex presidente dell’Inter Massimo Moratti al direttore Nico Colonna, da Vitaliano Borromeo a Gianni Crespi fino all’ex amministratore delegato Andrea Bolla, e da cui non è arrivato nemmeno un commento o una nota sul fallimento del gruppo Smemoranda.

I lavoratori che alla fine di marzo sono rimasti a casa senza lavoro si sono affidati a diversi studi legali del lavoro e attendono il 9 ottobre, quando si terrà al tribunale di Milano l’udienza per la messa in liquidazione della società. C’è chi spera di recuperare gli stipendi arretrati, Tfr e ferie non godute, o almeno parte dei contributi pensionistici. Dietro a Smemoranda group, infatti, ci sono manager che nel 2020 avrebbero deciso di non pagare più i contributi dei propri dipendenti senza comunicarlo. Non solo.  

Ci sono imprenditori che, mentre i dipendenti erano a casa in cassa integrazione (quasi 20 mesi durante la pandemia) si sono aumentati gli emolumenti assegnando premi produzione a loro stessi[…] durante i mesi di cassa integrazione c’è chi ha continuato a lavorare, anche fuori dall’orario di lavoro, per consentire all’azienda di mettere sul mercato i prodotti e continuare a fatturare. […] Peccato che la sinistra e la Cgil, da sempre attenti ai lavoratori e alla tutela dei diritti, abbiano deciso di guardare dall’altra parte.

Estratto dell'articolo di Nanni Delbecchi per “il Fatto Quotidiano” il 3 maggio 2023.

Elly Schlein si stupisce che si parli tanto del suo abbigliamento, della sua personal shopper Enrica Chicchio, e noi ci stupiamo del suo stupore. Se dice qualcosa di sinistra sul mercato del lavoro, come ha fatto il 1° maggio, ci fa piacere, è quanto ci aspettavamo dal segretario del Pd. Ma se parla di armocromia, ci prende alla sprovvista. 

Qualcuno dice: la attaccano perché è donna. Su Repubblica, Concita De Gregorio parla di invidia estetica e sociale da parte di quelli che vorrebbero essere come lei, ma se lo sognano: Silvio Berlusconi non avrebbe potuto dirlo meglio. Ma non è così, come dimostrano illustri precedenti amati da quel che resta della satira, i tweed e i cachemire di Bertinotti, il loden di Monti, le felpe “onori e oneri” di Salvini...

Vogliamo dirlo che gli uomini hanno almeno imparato a incassare, mentre appena si fa una qualsiasi critica a una donna, apriti cielo, dagli al sessista, l’hai criticata perché è donna? 

Comunque Schlein è ricorsa alla consulenza di Chicchio, citiamo dal profilo Instagram dell’armocromista, “per trovare la palette colori valorizzante in completa armonia con le caratteristiche cromatiche di ciascuno di noi” […]

Palette e secchiello, si diceva una volta. Così la segretaria Pd ha fatto “qualcosa di glauco”, come il colore del trench di taglio sartoriale prescritto dall’armocromista, e pour cause: “Glauco è una tonalità di verde, grigio e azzurro da molti definita salvia” (noi, che eravamo rimasti al trench del Tenente Colombo, siamo tra quei molti).  

[...] 

Basta perdere le ore davanti allo specchio: un pezzo chiave, e via, in piazza. Bandiera glauca la trionferà, evviva la palette e la libertà.

Dal profilo Twitter de “La Zanzara” il 30 aprile 2023.

Cruciani: "D'altra parte, da dove poteva ricominciare la sinistra? il popolo, gli operai da cosa potevano ricominciare? Da un consulente di armocromia. Io non sapevo nemmeno che esistesse l'armocromia. Sono ignorante, ma nessuno di voi, 99,9% italiani, sapeva che cosa fosse, fino a poche ore fa, l'armocromia. Nelle mie categorie, Elly è un inverno, ma vai a fanculo va!". 

“La nuova leader del PD si dice di sinistra, vuole riportare la sinistra al governo, il popolo, i lavoratori, e cos'è che rivela? Che ha una consulente d'immagine esperta in armocromia. I colori inverno, amico mio! Ma come cazzo si fa?!". 

Parenzo: Mi dovete spiegare voi per quale motivo Nicola Porro può mettersi le sue cravatte di Hermes e nessuno dice niente. Se una persona di sinistra si veste in maniera elegante, allora diventa ridicola?".

Estratto da dire.it il 30 aprile 2023.

Elly Schlein continua ad essere al centro del gossip. Dopo la sua vita sentimentale, con scatti rubati di lei con la compagna che hanno occupato per giorni le prime pagine dei giornali, ora a tenere banco è il look della prima donna segretaria del Pd. 

Schlein ha infatti rivelato al settimanale Vogue, per cui ha posato, di affidarsi per le scelte di abbigliamento ad un’esperta di immagine attirando su di sé numerose critiche. “Le mie scelte dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo – ha raccontato alla rivista di moda-. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio“. 

[…]

Estratto dell’articolo di Federico Chiara per vogue.it il 27 aprile 2023. 

(..) 

Elly, come si vince una discussione?

Innanzitutto c’è bisogno di un ingrediente fondamentale, cioè l’essere molto convinti di quello che si dice. Bisogna avere approfondito gli argomenti. Non mi fido dei politici che fanno i tuttologi: ognuno di noi ha il suo percorso di studi e professionale, ed è competente su alcuni temi, sugli altri invece occorre documentarsi, e occorre farlo mettendosi anche nei panni di chi non la pensa come te. Bisogna spiegare le proprie ragioni non con le proprie parole, ma partendo da un punto di vista diverso da quello personale. 

Il tuo approccio alla politica segna una discontinuità col passato e forse anche per questo piaci. Come si fa un discorso game-changer?

Io provo semplicemente a guardare bene chi ho davanti, quando parlo. In linea generale penso che dobbiamo riuscire a entrare in connessione con le persone che vogliamo rappresentare e dobbiamo farlo con un linguaggio inclusivo, che si rivolga a tutti e a tutte. 

Sta emergendo una nuova consapevolezza nella società e soprattutto nelle giovani generazioni. C’è una mobilitazione europea che tiene insieme la giustizia sociale e la giustizia climatica, passando per la dignità del lavoro, contro lo sfruttamento e il precariato e per l’uguaglianza nei diritti, nelle opportunità di partenza.

Faccio un esempio “londinese”: qualche anno fa andai alla Women’s March on London, si era da poco insediato Trump e in piazza non c’erano solo i movimenti femministi. Partecipavano anche i movimenti ecologisti, i movimenti sindacali, quelli che si battono per il diritto allo studio, chi manifestava solidarietà ai migranti e per il contrasto alla povertà. Era come se tutte queste lotte fossero intrecciate. 

In questo momento è molto comune aderire a forme di estremismo che rompono le prassi della comunicazione con metodi piuttosto forti. Come nuoti contro questa deriva politica?

Faccio spesso una battuta: non lasciamo l’internazionalismo ai nazionalisti. Lo dico perché nel mondo c’è ormai una specie di “internazionale di nazionalisti" e questo è un paradosso, cioè, il muro di Orban in qualche modo rafforza i porti chiusi di Salvini e di Meloni, le idee di Farage rimbalzano in quelle di Trump utilizzando la stessa retorica di odio, di intolleranza, scegliendo gli stessi nemici. Facciamoci caso: su cosa costruiscono la loro retorica i nazionalisti? Su un capro espiatorio, l’origine di tutti i mali è chi nelle nostre società fa più fatica. È sempre colpa di una persona “diversa”, di un migrante, di una persona Lgbtq+, di una donna troppo emancipata per i loro gusti. Sono questi i nemici contro cui cercano di costruire un facile consenso. 

Beh, certo non rincorrendo a quel tipo di retorica, ma ribaltandola, e dimostrando che in realtà non c’è un “noi” e un “loro”: la grande avversaria dovrebbe essere la diseguaglianza. Te lo spiego con un’immagine. I nazionalisti puntano il dito verso il basso, cioè dicono: se stai male è perché arriva qualcuno che minaccia la tua situazione – di solito è una persona che sta peggio di te, che ti ruberà il lavoro, che prenderà lo spazio che non hai più tu, che avrà la casa popolare eccetera. Invece dobbiamo spostare quel dito verso l’alto.

Si vedrebbe allora che in questi anni c’è chi ha continuato ad arricchirsi in modo sproporzionato, mentre larghe fasce della società si impoverivano. Il problema non è l’ultimo arrivato, magari con una barca attraversando il Mediterraneo, ma è chi ha fatto molti profitti evadendo ed eludendo il fisco, senza quindi contribuire in maniera proporzionata al benessere di tutti gli altri, e ridurre le diseguaglianze.

Come smascherare le ipocrisie che vedi in questa fase storica?

Ti faccio un esempio: quando ero europarlamentare ho lottato molto per riformare il regolamento di Dublino, ma nelle 22 riunioni di negoziati, quando si discuteva per condividere le responsabilità sull’accoglienza tra vari Paesi europei, non ho mai visto la Lega, non ho mai visto la destra che oggi è rappresentata da Giorgia Meloni. 

Perché non c’erano?

Il motivo è che non hanno il coraggio di dire ai loro alleati nazionalisti, come Orban, che anche loro devono fare la propria parte nell’accoglienza. E ti faccio un altro esempio: in Europa abbiamo un problema di evasione ed elusione fiscale che sottrae risorse fondamentali agli investimenti per sostenere le imprese nella conversione ecologica, per l’istruzione, per la sanità. 

Perché lo dobbiamo accettare? Io vorrei vedere i sovranisti, quelli che difendono il diritto di ogni Stato ad agire autonomamente, spiegare come le differenze tra i sistemi fiscali europei concedano ad alcune multinazionali di ottenere delle aliquote prossime allo zero. Vorrei che i nostri nazionalisti andassero da lavoratrici e lavoratori a spiegare che quando difendono la sovranità nazionale stanno difendendo anche quella di alcuni Stati europei a creare delle agevolazioni fiscali enormi per le grandi multinazionali che pagano quasi zero tasse, quando loro, i lavoratori, sono tassati sopra il 40%. Ci sono delle contraddizioni forti in questo fronte di destra e nella sua narrazione. Bisogna avere gli argomenti per riuscire a spiegarlo.

(…) 

A proposito di eccellenze, tante persone cercano di mantenere livelli disumani di rendimento e poi vanno in burnout. Tu come eviti di “bruciarti”, in un periodo in cui sei tirata da tutte le parti?

Mah, guarda, non ho una ricetta chiara. I rischi ci sono quando hai un lavoro che ti assorbe molto e che magari implica anche una responsabilità verso gli altri. A volte ti senti schiacciato. Io provo a rimanere comunque sempre in contatto con me stessa, ad ascoltarmi, a capire quando sto tirando troppo e a difendere alcuni spazi. Poi la sera cerco di decomprimere guardandomi una serie tv oppure giocando alla PlayStation. 

Quali sono le serie o i film più utili, in questo senso?

Come genere amo i gialli con ambientazioni scandinave, paesini di montagna, boschi… Ma sono anche una fan di serie di culto come Stranger Things, Vikings, The Crown. 

Nell’adolescenza hai scritto recensioni di film. Quali sono i titoli e i registi che hanno costituito il tuo immaginario?

Premetto che cinematograficamente sono onnivora. Però ho amato molto il cinema di Kim Ki Duk, regista coreano purtroppo scomparso con il Covid. La mia formazione è legata alla frequentazione del Festival del Cinema di Locarno e l’anno che arrivò il suo film Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera io ero nella giuria giovani: l’abbiamo premiato. Il suo è un cinema molto delicato, denso, con una fotografia intensa. Tra gli altri preferiti ci sono i film di Tarantino, di Ken Loach e i classici del cinema italiano – come L’armata Brancaleone – che guardavo in casa grazie alla collezione di videocassette di mio babbo. 

Una lezione imparata lavorando alle campagne di Obama?

Nella campagna del 2008 abbiamo iniziato a utilizzare in modo intelligente i social media, anche se eravamo agli albori. Si trattava di una Grassroots Campaign, ogni persona dava un proprio contributo come poteva, e io ero una volontaria. Quando ho partecipato alla seconda campagna, nel 2012, siccome avevo già esperienza, formavo i volontari e c’erano file di persone di ogni estrazione sociale che desideravano partecipare.

La lezione più importante che ho imparato è proprio questa: se hai una visione a 360° del futuro che vuoi costruire per il tuo Paese, puoi attrarre persone e realtà molto diverse, che poi si incontrano. Ma ho anche realizzato, dopo la vittoria di Obama nel 2008, che le aspettative molto alte sono un’arma a doppio taglio, perché da un lato ti danno lo slancio, ma è anche facile deluderle, almeno parzialmente. 

E tu, personalmente, come riesci a trasmettere fiducia nel futuro?

Tutte le battaglie che ho fatto in questo percorso politico un po’ strano – perché non avrei mai pensato di fare politica in modo così attivo – sono state rafforzate dal farle in maniera plurale, collettiva. È la non-solitudine che ti dà quella speranza e quella fiducia, è il condividere un’idea che ti aiuta a trasmetterla. Lo dico sempre: io non basto, non credo nell’uomo o nella donna soli al comando. Credo nella forza di una mobilitazione collettiva che può cambiare davvero le cose. 

Un pensiero molto controcorrente in Italia

Infatti, perché siamo circondati da partiti personali il cui destino è legato inscindibilmente a quello del leader. Se ho scelto di candidarmi alla guida del Partito Democratico, è perché mi sembra l’unico partito non personale in Italia e questa è la sua grande forza.

Qual è la differenza tra una leadership femminile e una leadership femminista?

Lo dico provocatoriamente verso Giorgia Meloni: non ci serve una premier donna se non si batte per migliorare le condizioni delle altre donne, perché il soffitto di cristallo non lo rompi da sola, è proprio fisica, non lo rompi con un solo punto di pressione. Se la maggioranza delle donne sono ancora discriminate nel lavoro, nell’accesso ai servizi, nel subire violenza di genere, e quindi neanche arrivano a vederlo quel soffitto… A cosa serve una premier donna? 

Qual è il tuo processo per prendere decisioni difficili?

Non c’è un iter particolare, ma un metodo – che è quello dell’ascolto anche delle opinioni diverse. Io ho sempre voluto che nella mia squadra ci fosse qualcuno che non la pensava come me, che fosse un po’ più conservatore, così da decidere con equilibrio. Per esempio, durante la pandemia, in Emilia-Romagna, per i problemi dell’educazione ho creato un tavolo in cui sedevano i gestori degli asili, i pedagogisti, la sanità, i sindacati. Eravamo in 70, quindi facevamo discussioni di minimo quattro ore, però uscivamo con scelte molto equilibrate perché tenevano insieme dei punti di vista così preziosi. 

Passando a un argomento più frivolo – ma forse non troppo visto che è parte importante della comunicazione, anche di quella politica – tu credi nel cosiddetto “power dressing”?

Allora, se sapessi che cos’è, ti potrei rispondere! Scherzi a parte, le mie scelte di abbigliamento dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio. 

Parliamo di musica: c’è qualche canzone, qualche band che ti aiuta a darti la carica?

Ti faccio una confessione: sono una grande appassionata di musica e suono il pianoforte da quando avevo 5 anni, anche se non sono mai stata costante. Durante le lezioni di pianoforte facevo arrabbiare il maestro perché ogni tanto mi addormentavo sulla tastiera. Poi ho continuato, da autodidatta, senza grandi risultati, fino a quando ho comprato di nascosto coi miei risparmi una chitarra elettrica, avrò avuto 15 anni, per strimpellarla in qualche band. In questi ultimi tempi ho avuto poco tempo per ascoltare musica e ho capito che questo incide negativamente sulle mie giornate, sul mio umore. Come per il cinema, devo dirti che ascolto cose molto varie, ma soprattutto musica indie come i Mumford & Sons, i Radiohead e i canadesi Rural Alberta Advantage – una loro canzone, Four Night Rider, mi dà sempre la carica.

Come mai ti piacciono tanto?

Il batterista, Paul Banwatt, ha un modo di suonare molto particolare, tutto sincopato, è come se fosse una voce in più. 

Li hai mai sentiti dal vivo?

Sì, una volta sono partita da sola, come una pazza, alla volta di Amsterdam per andare a un loro concerto, poi dopo lo show sono andata a cercarli e li ho conosciuti in un whisky bar di Amsterdam, dove abbiamo passato il resto della notte a chiacchierare ed è nata una cosa bella, ci siamo anche rivisti quando sono venuti a Varese a suonare. Ti svelo un altro ricordo, a cui sono molto legata: ero a Bologna, ai tempi dell’università, una mattina mi sveglio e guardo fuori nel mio cortiletto, tutto bianco, intonso, grazie a una nevicata pazzesca. Allora lego il cellulare a una pentola e la pentola alla finestra, perché allora non c’erano selfie stick e compagnia bella, e comincio a filmare, prendo la chitarra elettrica e suono proprio Four Night Rider nella neve, facendo cose pazze. Quel video ce l’ho ancora, mi piace riguardarlo. 

A questo punto voglio proprio ascoltarmela, questa canzone! Ma invece, parlando di attivisti e leader politici, chi sono quelli che ammiri di più?

Sicuramente guardo con molta attenzione questa nuova generazione di leader femministe che si battono per la giustizia sociale e per la giustizia climatica. Ho molta stima di Alexandria Ocasio-Cortez, di Ayanna Pressley, Ilhan Omar e Rashida Tlaib – sono una squadra, c’è una leadership condivisa, plurale. Ho molto apprezzato Jacinda Ardern, la premier neozelandese che ha recentemente concluso la sua esperienza di governo. Credo che a un avanzamento sul terreno delle politiche di contrasto all’emergenza climatica abbiano contribuito le mobilitazioni di Fridays for Future partite da attiviste come Greta Thunberg e Vanessa Nakate. E vorrei ricordare un’altra attivista, la brasiliana Marielle Franco, purtroppo uccisa a causa della sua lotta per l’emancipazione delle persone che vivono nelle favelas. 

So che tu non hai l’automobile. Parliamo di mobilità sostenibile, bicicletta, treno…

Uso molto la bicicletta, o meglio la usavo perché me ne hanno rubate due nel giro di sei mesi e sono rimasta un po’ traumatizzata. Viaggio spessissimo in treno. Ma soprattutto mi interessa capire quali politiche mettiamo in campo per sostenere questa svolta nei trasporti. Faccio un esempio. Durante la pandemia, in Emilia-Romagna, abbiamo investito per rendere gratuito il trasporto pubblico locale per i giovani fino ai 19 anni, soprattutto nelle fasce di reddito più basse. Questo significa tenere insieme giustizia sociale e climatica, perché facciamo risparmiare una famiglia e al contempo creiamo una cultura di mobilità sostenibile alternativa. L’Italia è un Paese che può investire moltissimo sul cicloturismo, ormai alla portata di tutti anche grazie alla mobilità elettrica. Chi pensa che sia un argomento di nicchia non ha visto le stime, secondo cui porterebbe un indotto di più di 40 miliardi di euro all’anno in Europa. Inoltre le ciclovie possono generare nuova occupazione: 1 km di pista ciclabile fatta bene può creare 4/5 posti di lavoro. Insomma, investire sul turismo sostenibile, sul turismo lento, è anche una via per fare buona impresa e sviluppare lavoro di qualità. 

Cos’altro possiamo fare in concreto per combattere il cambiamento climatico su base individuale?

Possiamo ridurre l’utilizzo della plastica, fare la raccolta differenziata che sostiene l’economia circolare. Questi sono i principi importanti, ma bisogna essere facilitati da politiche pubbliche adeguate, che abbandonino la dipendenza dalle fonti fossili. L’Earth Overshoot Day, che segnala quando abbiamo già consumato le risorse naturali che possono essere rigenerate dal pianeta, ogni anno arriva sempre prima. Quindi dobbiamo riuscire a spingere sull’energia pulita e rinnovabile, sole, vento, acqua. In Italia abbiamo un grande potenziale, ma purtroppo non c’è ancora un piano industriale verde. Altro esempio concreto sono le comunità energetiche, poco conosciute ma molto efficienti: permettono alle persone, alle aziende, ai comuni, alle scuole di autoprodurre energia pulita e rinnovabile, magari con i pannelli solari sui tetti, per condividerla e scambiarla. Questo è un “win win”, perché realizza una doppia convenienza: da un lato si risparmia in bolletta, e dall’altra parte si riducono le emissioni. 

Come trovi un equilibrio tra vita privata e vita pubblica?

Guarda, sono un disastro. Il crescente impegno politico ha implicato molte rinunce, per una come me che all’università, a Bologna, usciva praticamente tutte le sere. Ora questa parte è molto ridotta, cerco di difendere gli spazi di vita personale ma non è facile. 

In effetti è successo che un magazine abbia invaso la tua privacy, pubblicando la foto della tua compagna. Come ti sei sentita quando è successo?

È stato un outing, che è sempre una forma di violenza come lei ha chiarito. Io concordo pienamente. 

Come ti vuoi battere per i diritti Lgbtq+ in Italia?

Innanzitutto vorrei ridurre la distanza che ci divide dai Paesi del Nord Europa. Noi non abbiamo nemmeno una legge contro l’odio e la discriminazione, quella che ha portato avanti Alessandro Zan, con cui lavoriamo tutti i giorni, affossata dalla destra con quel vergognoso applauso nell’Aula del Senato. Lo ricordi?

Certamente.

Quello è, diciamo, un minimo sindacale. Poi naturalmente ci stiamo battendo per il matrimonio egualitario. Love is love: questo è lo slogan con cui accompagniamo le associazioni nella battaglia. Ma mancano anche i diritti delle figlie, dei figli delle coppie omogenitoriali, per cui abbiamo molti passi avanti da fare. E occorre farlo con una mobilitazione permanente, cercando il supporto dei sindaci e tentando di portare avanti questa battaglia in Parlamento. 

Giugno, che è ormai alle porte, è anche il mese del Pride. Come lo celebri e cosa rappresenta per te?

È un mese di orgoglio e di rivendicazione. Come tante e tanti altri, lo celebro andando alle manifestazioni nelle città, molto partecipate non solo dalla comunità Lgbtq+, ma da tutti quelli che non vogliono vivere nel Medioevo dei diritti e andare verso l’Europa e verso il futuro.

Estratto dell’articolo di Giovanna Vitale per repubblica.it il 29 aprile 2023.

Far dimenticare l’armocromista, riprendendosi le piazze di sinistra. Elly Schlein prova a riporre nell’armadio il trench sartoriale — cui comunque non intende rinunciare: al Nazareno non sono convinti che l’intervista a Vogue sia stata un errore, anzi, svela un pezzo d’identità di una leader giovane e cosmopolita, in una parola pop — e rispolvera l’eskimo. In senso metaforico però, ché quello verde feticcio delle rivolte sessantottine, la sua personal shopper gliel’ha fatto ormai buttare. 

(...) "Sono colpita di vedere quanto appassioni la questione del mio look, non vorrei si sottraesse attenzione alle cose che sto dicendo su lavoro, diritti, clima, economia, e ho ribadito in tutte le risposte all’intervista che ha fatto tanto discutere", si è sfogata ieri a Sestri Levante. "Io sono una che non capisce di abiti e trucchi, non è il mio, non ho tempo e non credo sia uno dei problemi del Paese il fatto d’essermi rivolta a un’amica che fa quel mestiere". 

Intravede una venatura di sessismo, la leader dem: "Delle donne si parla più dell’aspetto che di quel che dicono, purtroppo. Io non penso al look, sono sincera non ipocrita, non costruita e lo ammetto in trasparenza. Preferisco denunciare la figuraccia sul Def della maggioranza o la provocazione del decreto lavoro che aumenta la precarietà con più contratti a termine e tagli ai sussidi povertà". 

Riparte dunque da qui, dall’opposizione dura al governo, il racconto di Schlein e del nuovo corso del Pd. Ignorando i frizzi degli avversari, pronti ad approfittare delle sue difficoltà. "Mi sono commosso quando ho saputo che la segretaria si avvale di una armocromista a 300 euro l’ora. Si chiama Enrica Chicchio: cacchio, verrebbe da dire", la battuta del governatore De Luca: "Se mi paga la metà, sarei in grado di proporre un risultato migliore". 

Ancor più perfido Renzi, che a sfregio difende Schlein paragonando la sua vicenda a quella accaduta a lui una decina di anni fa, quando si fece fotografare su Vanity Fair con il chiodo alla Fonzie: "Ovviamente quelli che allora mi accusarono di personalismo oggi plaudono alla svolta giovanile della segretaria" scrive il capo di Iv nella sua newsletter. "Ma il punto per me è un altro. La politica. Le differenze fra noi non sono sul trench ma sull’utero in affitto, il termovalorizzatore, il nucleare" e così via elencando. "Dalle idee non si scappa. La fuga dei riformisti dal Pd". Enrico Borghi e Caterina Chinnici, "non nasce dalle interviste a Vogue ma dalla mancanza di chiarezza sui contenuti". 

Anche qui, la risposta dell’inquilina del Nazareno è netta: "Non bisogna dare valore politico a prese di posizione personali. Chi ha lasciato aveva già da tempo simpatie per Renzi e Berlusconi". La strada è tracciata, nessuno gliela farà cambiare. Tanto meno una polemica sulla tinta del suo nuovo spolverino.

Travaglio contro Schlein e l'armocromista: cosa significa. Veleno sulla piddina. Giada Oricchio su Il Tempo il 29 aprile 2023

Né con la destra né con la sinistra. Marco Travaglio, direttore de “Il Fatto Quotidiano”, ha dedicato un caustico editoriale a Elly Schlein, dopo che la neo segretaria del Pd ha rivelato, in un’intervista al mensile “Vogue”, di pagare tra i 150 e i 300 euro l’ora, Enrica Chicchio, armocromista che le abbina gli outfit alla carnagione della pelle.

Il giornalista si domanda con quale “microscopio i Fioroni, Marcucci e Borghi appena fuggiti dal Pd vi abbiano intravisto tracce di “massimalismo” e scrive: “Chissà quando Borghi e gli altri buontemponi che si fanno chiamare cattolici e riformisti l’hanno vista mangiare preti o incendiare chiese; e dove han colto nel Pd la ‘mutazione genetica massimalista, figlia della cancel culture’”. 

Il direttore intinge il pennino nel veleno: “Qui l’unica cancellazione è quella dell’eskimo a favore del trench di taglio sartoriale. Ma a ben vedere il massimalismo affiora in questo passaggio: ‘Io provo a rimanere sempre in contatto con me stessa, ad ascoltarmi, a capire quando sto tirando troppo, a difendere alcuni spazi’ - scrive Marco Travaglio - Esplicita citazione della tipa di Moretti in Ecce Bombo: Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…. Poi dice che uno si butta a destra”.

Armocromia, Alemanno sbotta: "Radical chic". De Gregorio muta. Giada Oricchio su Il Tempo il 29 aprile 2023

L’armocromia di Elly Schlein è diventata un tormentone. Se ne parla anche durante l'ultima puntata del talk di La7 “In Onda”, sabato 29 aprile. L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha rifilato una frecciatina maliziosa alla segretaria del Partito Democratico: “La cosa che mi fa impressione è che la prima intervista di Schlein è a Vogue… obiettivamente uno si aspettava qualcosa di diverso”. Il conduttore David Parenzo lo ha rintuzzato: “Non era la prima…” e la collega Concita De Gregorio: “Ma no, no…”.

Alemanno ha graffiato ancora: “Se (Schlein, nda) voleva portare il Pd a sinistra, lo sta portando verso una sinistra molto di elite, aristocratica che non rispecchia il momento storico”. De Gregorio si è sentita chiamata in causa e ha replicato: “Questo dei radical chic è il classico argomento di chi non sa come rispondere, io lo conosco molto bene. Si mette sempre in azione quando non c’è altro da dire. Blocca il pensiero. L’argomento del comunista che va a sciare è passato di moda” e Alemanno: “Allora non offrite il fianco… non bisogna nemmeno esagerare in senso opposto”.

La conduttrice ha spiegato che non c’è niente di male ad adeguare l’aspetto fisico al pensiero, ma l’ex ministrosi è preso l’ultima parola: “In ogni caso questo dimostra come ormai l'elettorato della Schlein sia l'élite e non più la classe operaia”. 

L'«armocromia» delle operaie di Mirafiori: «Elly Schlein? E chi è?» Nicolò Fagone La Zita su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2023.

C'è poi chi attacca: «Bonaccini l'abbiamo visto solo alle primarie, lei neppure allora»

La parola «armocromia» è diventata virale in poche ore, rimbalzando tra i commenti social e le ricerche Google. Il motivo sta in un'intervista che la leader del Partito Democratico, Elly Schlein, ha rilasciato al magazine Vogue Italia, dove ha ammesso di ricorrere all’aiuto di una consulente di immagine (Enrica Cricchio) per decidere cosa indossare e quando. Un’armonocromista specializzata nello studio accurato di look e colori per determinare quali tonalità valorizzino maggiormente una persona. Un dettaglio per cui la prima segretaria donna del Pd è disposta a spendere fino a 300 euro l’ora. Frasi che hanno suscitato un (anacronistico?) sdegno, non solo tra gli avversari politici. Ma questa «attenzione», in senso negativo, non vale per le lavoratrici della fabbrica di Mirafiori. Oggi la prima a uscire dai cancelli di corso Tazzoli, per il cambio turno dell’ora di pranzo, è stata una ragazza di circa 25 anni. «Cosa penso dell’armonocromista della Schlein? Sinceramente non so cosa dire» ammette la giovane, prima di lasciarsi sfuggire un «ma chi è la Schlein?». La stessa risposta la fornirà l’80% delle donne intervistate, su un campione di 20 persone. 

Ciò che stupisce è che sono proprio le giovani donne a non conoscere il profilo della leader del Pd, il «pubblico» che vorrebbe intercettare e da cui cerca sostegno. Affermazioni che rendono l’idea della distanza tra il mondo della politica e quello di tutti i giorni. «Non mi interessa la sua vita privata – afferma invece Nina Leone, 58 anni, addetta alla catena di montaggio – per ora non esprimo giudizi, ma di certo è una figura nuova e spero che risvegli la sinistra. Noi operai non ci riconosciamo più nel Pd. Finché il partito non si occuperà di politica industriale, occupazione e stipendi, rimarrà questo disinteresse. Qui a Mirafiori l’azienda incentiva ad andarsene, non c’è futuro. Sono preoccupata soprattutto per i nostri figli, costretti a restare precari». La donna è nata in provincia di Bari, e come tanti è venuta a Torino per cercare lavoro. «Ma oggi non ci si trasferisce più dal sud al nord, ma dal nord all’estero». 

E sull’esperta di stile aggiunge: «Mi sembra una politica sterile, ognuno coi propri soldi fa ciò che vuole. Mi preoccupa di più che un politico come Renzi sia alla guida di un giornale. Aspetto di vedere cosa potrà fare la Schlein per la famiglia e le donne, visto che siamo noi a pagare sempre il prezzo più alto nei momenti di crisi». «Una volta eravamo tutti iscritti al partito e ben informati – aggiunge la collega Mary Epifania, 49 anni – ma dopo anni di tradimenti nessuno si interessa più, e non informandosi purtroppo si diventa ignoranti. Quello che posso dire sulla Schlein è che io certamente non userei così i miei soldi, neanche se avessi il suo stipendio. Ma è evidente che il suo status quo è diverso da chi vorrebbe rappresentare». 

Un’altra lettura arriva da Grazia, 51 anni: «Viviamo in un mondo dove conta solo l’immagine, l’apparenza, di che ci stupiamo? Bonaccini l’abbiamo visto solo durante il periodo delle primarie, chissà quando tornerà. La Schlein non ha fatto neanche quello». Se esattamente trent’anni fa il lancio delle monetine contro Bettino Craxi, all’uscita del Raphael di Roma, determinava la fine della Prima Repubblica, oggi quell’interesse, anche di contrasto, verso la politica, sembra perso. Come se qualcuno avesse risposto, all’indomani della protesta verso il segretario del Partito Socialista, «Bettino Craxi chi?».

Dagospia il 29 aprile 2023.DALLE BOTTEGHE OSCURE ALLE BOUTIQUE LUCENTI - IL VIZIETTO DEL LUSSO DEI SINISTRATI: DALLE SCARPE E BARCHE DI D'ALEMA AI PULLOVER DI CACHEMIRE DI BERTINOTTI FINO ALLA CONSULENTE PER IL LOOK DELLA SCHLEIN – LA FOTO NELLA BOUTIQUE DI LOUIS VITTON CHE HA ROVINATO IL NATALE A PIERLUIGI BERSANI - É LA SINISTRA DEI DIRITTI, COMPRESO IL “DIRITTO ALL’ELEGANZA” TEORIZZATO DA ABOUBAKAR SOUMAHORO…

Estratto dell'articolo di Paolo Bracalini per “il Giornale” il 29 aprile 2023.

Se può colpire il fatto che Elly Schlein si avvalga di una consulente per il look, a botte di 300 euro l’ora, la propensione al lusso non è affatto una novità nel campo progressista. Anzi, dietro i moralismi bacchettoni sulla volgarità dei ricchi, si nasconde una snobberia che conduce inevitabilmente al lusso. Già senza uscire dal Pd i precedenti abbondano. 

Il primo ex comunista a scoprire i piaceri dell’eleganza è stato Massimo D’Alema. La sua trasformazione coincise con l’esperienza da premier e i consigli degli allora spin doctor per togliergli di dosso l’aria da funzionario del Pci e rifarsi un look da leader progressista occidentale. 

L’operazione partì dai piedi, con le celebri scarpe da un milione e mezzo di lire. Lo raccontò Repubblica: «Dopo che Velardi lo aveva portato dal suo sarto napoletano per togliergli le giacche Upim, D’Alema ha imparato ad apprezzare autentiche chiccherie come le scarpe fatte a mano. Non molto tempo fa, in una cena a casa dell’amico Alfredo Reichlin, ne sfoggiava un paio costate un milione e mezzo. 

Incredulità degli astanti: “Ma sono fatte a mano». Quella storia delle scarpe D’Alema se l’è portata dietro a lungo («Costano 120 euro, non mille» precisò dopo anni). Poi sono arrivati la barca a vela, sua passione non proprio operaia («Perché indigna? Il mio è un amore autentico»), i vini pregiati, di cui è diventato prima estimatore, poi produttore, con la tenuta in Umbria, e quindi la nuova professione da mediatore di affari internazionali. Ma senza andare lontano da D’Alema, è bastata una foto per rovinare il Natale a Pierluigi Bersani, ex segretario Pd uscito dal Pd perchè troppo a destra. La foto lo ritraeva dentro la boutique di Louis Vuitton a Roma. 

Un regalo per la moglie. Può o non può comprare una sciarpa di lusso un leader di sinistra?

Ma certo che può, mica siamo in Unione Sovietica. 

Chiedere informazioni a Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione Comunista, ancora ricordato - oltre che per i ruoli ricoperti, come la presidenza della Camera - anche per i maglioncini di cachemire, incarnazione della sinistra appunto in cachemire. Un lusso, però, sostanzialmente a sua insaputa. «L’unico maglione comprato fu il primo. Lo prese mia moglie al mercato dell’usato, però quando la leggenda prese corpo, me ne furono regalati. Il più bello da due operaie di una fabbrica di cachemire. Me lo mandarono con una lunga lettera. Scrivevano: fa male ad arrabbiarsi per le polemiche, noi siamo proletarie e vorremmo che lei valorizzasse il nostro lavoro» ha raccontato Bertinotti al Corriere.  

(...) 

La specialità non è solo italiana. Il leader di «Podemos» Pablo Iglesias ha comprato una villa da 660mila euro, quasi 300metri quadri con parco e piscina. Il leader della sinistra francese Jean-Luc Mélenchon ha un appartamento in centro a Parigi, una casa in campagna e vola sempre in business class perchè odia «stare schiacciato come una sardina in economy». Non risulta che abbia, però, una personal shopper. É la sinistra dei diritti, compreso il «diritto all’eleganza» teorizzato da Aboubakar Soumahoro.

Estratto dell’articolo di Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” giovedì 10 agosto 2023.

«Perché è sempre stato un uomo ingombrante, non allineato, fuori dagli schemi», dice lei. Secondo lui, invece, «perché nella cultura che si era venuta formando dopo la crisi delle grandi organizzazioni politiche, a partire dal Partito comunista italiano, la memoria del Pci si era smarrita. E quindi, visto che sotto l’aggressività del berlusconismo il comunista doveva essere brutto, sporco e cattivo, faceva notizia il comunista che riusciva a stare in un luogo non brutto, non sporco e non cattivo».

Lella e Fausto Bertinotti riescono a dividersi anche sulle ragioni di fondo che li hanno portati a diventare, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, la coppia più glamour della politica italiana. Una specie di Instagram vivente prima che ci fosse Instagram, che si è nutrita di feste, salotti, mostre, cene. 

Quelle che Dagospia definiva le «Berty-nights». Sono diversissimi, anche per formazione politica: comunista ortodossa lei, donna di partito; conflittuale e spontaneista lui, uomo di sindacato, anche se poi ha finito per fare il leader di partito e il presidente della Camera. 

La loro storia insieme inizia a Varallo Pombia, provincia di Novara, all’inizio degli anni Sessanta.

LELLA: «Era il mio paese e anche quello dei suoi genitori, dove lui veniva in vacanza» FAUSTO: «E dove mi sarei trasferito da Milano a diciott’anni, dopo la fine del lavoro di mio padre come macchinista delle ferrovie».

Come vi siete conosciuti?

L: «Lavorando in una colonia estiva organizzata dal comune per i bambini del paese.

[…] Io 16 anni, lui 22. Lui direttore della colonia, io una delle sue assistenti. Cominciavamo la giornata facendo l’alzabandiera e cantando l’inno nazionale».

F: «L’inno nazionale non me lo ricordavo. Ma sei sicura?».

L: «Certoooooo!». 

Amore a prima vista?

F: «Non proprio. L’anno successivo a quello in cui ci siamo conosciuti non ci siamo visti perché avevo la maturità e sono rimasto a Milano».

L: «Dopo però ci siamo sposati subito».

Poi andate prima a Novara, dove Fausto fa il sindacalista nel tessile. E poi Torino, dove più avanti sarebbe diventato segretario della Cgil piemontese.

F: «Furono gli anni decisivi per la mia formazione. Gli anni dell’autunno caldo, del conflitto con la Fiat. Gli anni Settanta». 

Voi che trent’anni dopo sareste diventati amici di uno dei suoi collaboratori, Mario D’Urso, avevate mai incontrato l’Avvocato Agnelli?

L: «Mai».

F: «Solo durante le trattative, mai in privato. A Torino a un sindacalista era vietato incontrare da soli il dirigente o il proprietario di una fabbrica qualsiasi, figurarsi quello della Fiat».

E anche gli anni del terrorismo, coi sindacalisti che erano un obiettivo sensibile delle Brigate rosse. Mai avuto paura?

F: «Mai».

L: «Io sì. Un giorno, lo ricordo perché c’era sciopero dei mezzi, sorprendo una coppia di sconosciuti dentro il portone del palazzo; a seguire, un signore che guardava dentro la nostra macchina; avevano anche citofonato, prima, e una voce diceva “scusi, abbiamo sbagliato”. A sera, dopo un comizio di Fausto, vedo un’auto che ci segue. Finisce che chiamo la polizia. Infatti, dopo la perquisizione di un covo delle Br, avevano trovato il suo nome tra quello degli obiettivi da colpire». (Bertinotti minimizza, ndr ).

La politica vi ha mai diviso?

F: «Di recente sì».

L: «Per qualche anno non ho votato, alle ultime elezioni ho scelto il Movimento 5 Stelle».

F: «Io invece ho votato per la cosa più a sinistra che c’era sulla scheda, Potere al popolo.

Così, l’ho detto a Lella, sono sicuro che non eleggo nessun parlamentare». 

Era vera la storia del comunista in cachemire?

F: «Mi infastidisce ancora oggi il doverne parlare». 

È una leggenda dura a morire, quanto c’è di vero?

L: «Adesso parlo io! È una bufala che nasce un po’ a causa mia. Secondo voi, uno che faceva il sindacalista con lo stipendio di operaio specializzato poteva permettersi il cachemire? Non direi. 

Andò così: un giorno, al mercato di via Sannio, a Roma, vedo un maglioncino a girocollo di cachemire usato e lo prendo (indica il marito, ndr ) per questo povero disgraziato che di vestiti aveva poco e nulla. Costo: ventimila lire. La leggenda del cachemire inizia là e prosegue quando, al compleanno dei suoi sessant’anni, gli amici gli portano regali in cachemire: chi dei calzini, chi una sciarpa… Pensi che dopo, per colpirlo, c’erano giornalisti che andavano al negozio di abbigliamento sotto casa nostra per chiedere che cachemire vendessero e che cosa comprava Bertinotti. Il negoziante rispondeva “ma non trattiamo cachemire e Bertinotti non ne compra”. Solo che poi non lo scrivevano».

F: «Di questa storia stupida conservo un solo ricordo bello. Tre compagne operaie del cachemire che, tramite Ramon Mantovani, mi fecero avere un maglioncino bellissimo, accompagnato da una lettera che faceva più o meno così: “Compagno Bertinotti, perché sei così infastidito quando si parla di cachemire? 

È il nostro lavoro e la nostra vita. Tra l’altro, quello che spendi per comprarlo, poi lo risparmi perché dura nel tempo, al contrario di altri tessuti”». 

Sempre divertiti nei salotti romani?

L: «In un periodo no, tutt’altro. Fu quando cadde il governo Prodi nel 1996, con Fausto che aveva avuto un coraggio incredibile a prendere quelle decisioni. Alcuni amici smisero per un certo periodo di invitarci. E in alcune cene fui anche costretta ad alzare la voce per difenderlo. Anche a distanza di anni, accusavano mio marito di aver fatto tornare Berlusconi. Ricordo che una volta mi misi a urlare: “Ma allora non sapete neanche la storia. Caduto Prodi, arrivarono i governi D’Alema e Amato, sempre di centrosinistra. Poi è finita la legislatura e voi non siete stati in grado di battere Berlusconi!”».

F: «Un pezzo della borghesia progressista, soprattutto romana, subiva da anni un deficit di politica. Per loro esisteva come collante solo l’antiberlusconismo e null’altro. Per cui quelle venivano vissute come scelte di rottura, anche se di fatto era solo politica».

[…] Siete mai stati gelosi l’uno dell’altra e viceversa?

L: «Gelosa mai. Sono possessiva, il che è peggio. Comunque sia, non ho mai indagato, spiato o controllato nelle cose di Fausto». 

F: «Io la gelosia non la conosco. Per certi aspetti, però, vado anche oltre. Mettiamola così: togliendo di mezzo il tradimento, che è un’operazione decisamente impegnativa, l’eccessiva attenzione nei confronti di un’altra persona al di fuori della coppia, anche se questa persona è di sesso femminile, mi darebbe terribilmente fastidio».  […]

Estratto dell'articolo di Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 29 aprile 2023.

"Faccio l'intervista, ma a una condizione - dice Fausto Bertinotti - che non si parli per l'ennesima volta del mio famoso golfino di cachemire, che peraltro mia moglie aveva comprato al mercatino dell'usato, come ho detto un migliaio di volte. Sono stufo, il golfino ha diritto all'oblio". 

D'accordo, niente golfino. Ma che ne pensa della nuova segretaria Pd col personal shopper?

"La capisco, oggi c'è grande attenzione alle forme di comunicazione estetica. Fa parte di questo nuovo mondo, non è il mio, ma lo guardo con curiosità".

Dirlo è stato un errore di comunicazione?

"Non credo. Di uno dei leader più austeri della politica italiana, Palmiro Togliatti, si ricorda l'invito ai parlamentari comunisti ad indossare l'abito blu per andare alla Camera. Era l'idea di portare l'estetica nella dignità della carica. Oggi l'abito viene indossato per mostrare la propria appartenenza a un mondo".

Quale è il mondo di Schlein?

"Quello delle canzoni di Sanremo. O delle serie Netflix. Noi ci prendevamo in giro: le Clarks sono di sinistra, le Church's sono di destra. Solo che allora queste cose erano marginali, anzi sottoponibili al divertissement. Oggi occupano un posto rilevante, l'immagine dice chi sei".

Di Occhetto invece si ricorda il completo marrone.

"Ma no, Achille era l'uomo che aveva fatto l'ultimo intervento al funerale di Togliatti e che propose lo scioglimento del Pci".

Ci si ricorda di quel completo perché lo indossò al confronto tv con Berlusconi.

"Perché Berlusconi fa dell'immagine il perno della sua politica, il primato del leader sul partito. E l'immagine diventa decisiva. È stata la controrivoluzione".

Senza parlare del cachemire, possiamo dire che lei è stato un politico elegante. Il personal shopper ce l'ha mai avuto?

"No, appartengo a una generazione diversa. L'eleganza era un debito nei confronti dei padri, che ci insegnavano che a scuola, per quanto poveri, dovevamo portare il meglio che potessimo, per essere alla pari con gli altri. Mio padre, vecchio socialista anarchico, aveva una cravatta di seta e un fazzolettino bianco nel taschino e al lavoro aveva a che fare tutti i giorni col carbone. Giuseppe Di Vittorio insegnò ai suoi braccianti a dismettere il tabarro per indossare il cappotto dei borghesi".

È un uomo anche mondano, Bertinotti. Schlein sembra approcciarsi a quel mondo. Ha fatto discutere la cena a casa di Baglioni, ai Parioli. Consigli?

"Di fregarsene, anzi diciamo di alzare le spalle. Questa modalità di commentare ingiuria chi fa i commenti. Tiri avanti tranquilla". 

(...)

Non lo è?

"Troppo spesso ha una vivacità nei toni, che però non sono supportati dalla radicalità della scelta. Noto questo ritorno all'uso del 'si però', del 'no ma', insomma del 'ma anche'".

E Conte? Qualcuno addirittura dice che sia il nuovo Bertinotti.

"Lasciamo stare Bertinotti. Non è neanche Mélenchon, che sta nel campo della rivolta, nel tumulto. E qui non ne vedo l'ombra. Uno può guardare con interesse a Conte, per esempio sulle armi, ma è un'altra cosa. Sta dentro un ripensamento delle culture populiste trasversali, né destra né sinistra, come dicevano".

(...)

Lettera a Francesco Merlo pubblicata da Repubblica il 29 aprile 2023.

Elly, Elly: meglio del “personal shopper” un’amica che ti conosce e vuole bene.

Carmelo Tutino — Pieve Santo Stefano 

La risposta di Francesco Merlo

Davvero lei pensa che Hillary Clinton e Angela Merkel si facessero vestire dalle amiche? In tutti i Paesi del mondo i leader politici, uomini e donne, si servono dei consulenti di immagine, che sono professionisti. Ovviamente, se non avessero avuto straordinarie qualità, carisma e fortuna, a Tony Blair e a Barack Obama non sarebbe servito a nulla curare l’immagine.

Ma, se non l’avessero curata, non sarebbero diventati i due grandi leader che abbiamo conosciuto. È vero che Elly Schlein non ha ancora mostrato le sue qualità, ma rivela la sua ambizione la scelta di affidarsi a una personal shopper, armocromista, consulente di immagine, cool hunter, trend setter, fashion designer, influencer e avanti con le definizioni che via via rendono di moda la moda. È la collaudata figura professionale che Renzo Arbore parodizzò in “lukkologo” e affidò a Roberto D’Agostino. 

Insomma, è roba vecchia, e prenderla in giro ormai è solo spirito di patata. Rimane da vedere se Elly Schlein sarà alla altezza dei suoi abiti.

Dagospia il 28 aprile 2023. Il tweet di Vittorio Feltri

Cara signora Schlein mi permetta di darle un consiglio, lei non ha bisogno di una armocromista bensì di un bravo chirurgo plastico.

Estratto dell'articolo di Mario Giordano per “La Verità” il 28 aprile 2023.  

Avanti popolo, alla riscossa, bandiera glauco trionferà. Contrordine compagni: lo sappiamo che siete affezionati alle vostre bandiere rosse, ma dovete aver pazienza. Non s’abbinano alla palette di colori del compagno segretario Elly Schlein.

Per cui siete pregati, seguendo le indicazioni del giornale di partito (ovviamente Vogue) di rimetterle nell’armadio e di sostituirle al più presto con le bandiere glauco, «una delicata tonalità di verde, grigio e azzurro, da molti definita salvia» che «si sposa perfettamente all’incarnato delicato» del compagno segretario, come si vede da apposito trench, indossato per le foto sul giornale di partito (sempre Vogue). Così ha deciso il comitato centrale make up, presieduto dalla compagna armocromista Enrica Chicchio. 

(...)

E se per caso, compagni, non sapete che cosa siano la palette, la nuance e l’armocromista, anche detta «image consultant», non preoccupatevi: saranno presto organizzate le nuove Frattocchie, ovviamente in via Montenapoleone a Milano, per educarvi al nuovo Pci, Partito cromista italiano, che si fonda su alcuni principi base. 

Il primo dei quali, ovviamente, è: «Scegliere le giuste cromie», come spiega sempre la fondatrice della corrente guardaroba, Enrica Chicchio, autrice di memorabili saggi del tipo: Armocromia e abbronzatura, Colori pastello: caldi o freddi?, Un, due tre(nch) e Come vestire boho-chic.

Opere che, cari compagni, d’ora in avanti andranno compulsate come le lettere dal carcere di Gramsci. In fondo, anche la boutique può essere una prigione. 

A svelare questa nuova, importante, svolta della sinistra italiana (dopo la Bolognina la Armocromina), è stata la stessa segretaria Schlein in una intervista sul giornale di partito (sempre Vogue). (...) «In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio».

A quest’ultima non è parso vero di trovarsi tanta pubblicità a buon mercato e, quindi, ha cominciato a pubblicare post sui social e a concedere interviste ai siti per farsi bella: «Sono orgogliosa di lavorare con Elly Schlein e di scegliere con lei le giuste cromie», ha detto. 

E ha aggiunto: «L’armocromia è una pratica nata per le dive di Hollywood». Lotta dura, maquillage senza paura. Cari compagni, cercate di adeguarvi: da domani via la tuta blu, presentatevi al tornio con un trench pastello. Del resto, come aveva anticipato un altro compagno famoso, Aboubakar Soumahoro, esiste il diritto all’eleganza. Per quello al lavoro, ripassate più tardi. 

Certo la compagna armocromista, del collettivo Mirafiori (pardon: collettivo Hollywood), eroica sezione metalmeccanici (pardon: sezione image consultant), non ha proprio tariffe proletarie: costa 140 euro l’ora più Iva per una consulenza sui colori; 300 euro l’ora più Iva per accompagnare i clienti a fare shopping; mentre per il guardaroba dice che «dipende» (da che cosa non si sa). 

Roba da far tremare il portafoglio. Se volete, poi, si occupa anche di «tailor made closet room»: cioè realizza la cabina armadio ideale, caso mai ci fosse posto per farne una nel vostro bilocale.

E vi può offrire anche la sua «capsule collection in armocromia»: maglioncini e cardigan coloratissimi, ovviamente con l’armonia garantita, di cui non sono noti i prezzi. Ma non saranno sicuramente popolari nemmeno questi, considerato che la nuova guru della sinistra, sul suo sito, impazzisce per lo stile di Naomi Campbell (ah, la sua palette!) e la devotion bag di Dolce e Gabbana, una borsa difficile da trovare a meno di 2.000 euro. 

Tutto non proprio alla portata di un operaio. Però vale la pena fare sacrifici per ottenere certi risultati. Come ha dimostrato la nuova segretaria Pd che, grazie all’armocromista, è riuscita a inserire nel partito qualcosa di nuovo. Il trench. 

Ecco il programma giusto, dunque: più trench per tutti. O anche: un, due tre(nch), come da apposito documento. «Abbiamo sostituito l’eskimo con un trench di taglio sartoriale. 

(...)

Chi l’ha detto che la rivoluzione non è un pranzo di gala? È un pranzo di gala con abbigliamento chic. Dunque tirate fuori le nuove bandiere, studiate il manifesto del partito voguista, indossate il trench come ogni rivoluzionario che si rispetti e correte in corteo felici. Dal rosso al glauco, ormai dovreste essere rassegnati a vederne di tutti i colori.

Estratto dell’articolo di Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 28 aprile 2023.  

Direttore Antonio Polito, […] sulla nuova consulente di Elly Schlein ironizzano in molti. A lei, editorialista del Corriere della Sera, già senatore del Pd, che impressione fa?

«L’operazione ha un senso politico. Lei si presenta per come è, non per quello che dice. In Schlein c’è un’attenzione estrema per il linguaggio del corpo. I suoi trench larghi sono l’equivalente delle felpe di Salvini e della pochette di Conte». 

Il senso di tutto questo qual è?

«Molto semplice: io sono come voi, mi vesto come voi e sono al passo con i tempi. È una scelta di comunicazione chiara».

Ma “voi” chi?

«Schlein si rivolge a un pubblico diverso dalla vecchia classe operaia: la sua “sinistra sinistra” è una sinistra che non mette al centro la questione sociale, ma i diritti e le libertà individuali. 

Lei parla ai ceti urbani metropolitani, della media borghesia metropolitana, delle classi, per semplificare, “chiacchierone”, che partecipano al dibattito pubblico. È questo il suo bacino elettorale». 

La famosa “sinistra Ztl”.

«Per la verità una volta, su Twitter, ho scritto che siamo in presenza di un’evoluzione: dalla Ztl alle aree pedonali. Una fascia ancora più ristretta. E questo, accentua, inevitabilmente, la frattura con i ceti popolari».

Ma questa strategia, dal punto di vista elettorale, a cosa porta?

«A Schlein non gliene frega niente della strategia. Lei pensa: “Ho quattro anni di tempo prima delle elezioni”. Il suo unico obiettivo è la competizione interna nel centrosinistra. 

La necessità, adesso, non è costruire un consenso maggioritario, ma creare il “suo” consenso […] L’obiettivo non è prendere il 49% alle Politiche, ma superare il 20-22% alle Europee del prossimo anno per dire: “Avete visto? 

La mia cura per il Pd funziona”. La priorità è arrivare davanti al M5S e non essere fagocitata da Conte. Altro che la coalizione. Attenzione, però». 

A cosa?

«Voi di destra (ride, ndr) non crediate che a Schlein questa strategia tolga voti.

Forse non le darà i consensi per il raggiungimento della maggioranza, ma questo non vuol dire che non ci sia una parte dell’opinione pubblica attratta da una figura come lei».

[…] È diventato virale anche il video, tratto dalla prima conferenza stampa, in cui Schlein, con linguaggio involuto, parla parla senza dire praticamente nulla.

 «Ah sì, il video della supercazzola, come sento dire. Scusi, ma che deve dire? […] Ci sono cose su cui Schlein non può, o non può ancora, prendere posizione. 

Ad esempio su utero in affitto e termovalorizzatore. Lei deve evitare il più possibile di parlare di temi divisivi. 

Così, in un italiano originale e complicato, usa formule tipo “io sarei favorevole, ma devo sentire tutti etc etc”. Avete fatto caso che parla pochissimo di politica? Schlein non si occupa di politica». 

Perdoni la banalità: sotto il trench niente?

«Nella politica di oggi, l’apparire è essere. E Schlein non fa eccezione: il modo con cui ti presenti dice di te più di tanti programmi. […] Per questo va su Vogue, sta sempre in piazza e si concede solo ai conduttori tv alla moda: interpreta un modello nuovo di sinistra, più movimentista». 

E l’elettore di sinistra si accontenta?

«Chi vota Pd pensa: “Schlein ha preso un partito a pezzi, che aveva smarrito ogni linea”. E ora si aggrappa a lei, il cui unico messaggio è stato: “Sarò più radicale” […]».

Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” il 28 aprile 2023.

L’ultimo giro di giostra, la scelta della segretaria di farsi intervistare da Vogue il 25 aprile, sta facendo impazzire le chat dei dem. Non succedeva dai tempi del Big Bang, con la decisione di Matteo Renzi di buttare alle ortiche l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. «Che poi intervista esclusiva a Vogue (nota rivista de sinistra) rilasciata il 25 aprile, la Festa della Liberazione... Non ho proprio parole. Forse sono sbagliato io...». «Ecco perché non ha detto niente alla manifestazione, aveva l’esclusiva...». Fino all’eterno ritorno alle paure «leopoldiane», quelle cioè di un partito scalabile con l’arma a doppio taglio delle primarie: «Quello della Schlein sembrava un aumento di capitale, invece era un’opa ostile...». 

(…) 

Ma la mossa con la quale Elly ha spiazzato tutti si chiama armocromia. Che sarebbe poi l’analisi e lo studio dei colori della persona, uno dei trend più amati, che serve per la cura dell’immagine e ora scatena ironie sui social. «In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio». Che pare prendere per il suo lavoro dai 140 ai 300 euro l’ora e che le consiglia di preferire il trench sartoriale all’eskimo, come le dive di Hollywood, racconta la personal shopper a Repubblica . Apriti cielo, si bofonchia: «Che poi si veste malissimo!». 

«E poi vorrei sapere chi la paga, lei o il partito?». La paga Elly, non c’è dubbio alcuno, ma il solo fatto che si facciano circolare tali domande rende il clima.

(…)

Estratto dell’articolo di Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” il 28 aprile 2023.

[…] Elly Schlein ha affidato la sua prima intervista per la carta stampata a Vogue Italia, ha pronunciato la parola "armocromista", ed è diventato anche il giorno del primo passo falso della nuova segretaria del Pd […] una giovane leader politica in ascesa si affida ai consigli di una personal shopper per migliorare la propria immagine. Legittimo, forse addirittura necessario in un'epoca di sovraesposizione mediatica. 

La rivelazione potrebbe essere archiviata nella categoria "colore" se la consulente, Enrica Chiacchio […] non chiarisse che il suo lavoro […] è (giustamente) retribuito, e che le sue tariffe non sono esattamente low cost, 140 euro all'ora più Iva, cifra che sale a 300 per lo shopping. […]

una scelta che sembra contrastare con le dichiarazioni della segretaria: «La grande avversaria dovrebbe essere la diseguaglianza» sottolinea a Vogue. Ma se è vero che è sulle decisioni politiche che Schlein dovrà essere giudicata, e non certo per il suo trench, è vero anche che esiste una evidente questione di opportunità. 

Se l'obiettivo è «riuscire a entrare in connessione con le persone che vogliamo rappresentare», è lecito chiedersi chi siano le persone che il Pd di Elly intende rappresentare. Se quelle persone sono i più fragili, coloro che restano indietro, i giovani che chiedono un lavoro dignitoso, le donne che rivendicano parità di salario, allora l'uscita di Schlein segna una disconnessione con quel popolo.

Se l'indicazione è portare il Pd fuori dalle Ztl, sembra difficile che possa essere fatto con una scelta comunicativa che va nella direzione opposta e offre pericolosamente il fianco a critici e avversari, a partire dalla scelta della testata, una delle più prestigiose riviste di moda del mondo, per vocazione più attenta al lusso che al precariato. 

Certo, è un incidente di percorso che in passato ha segnato altri leader della sinistra, da Massimo D'Alema, che fu preso di mira per le scarpe firmate e per la barca a vela, a Fausto Bertinotti, a cui si rimproverò il maglione in cachemire: come a dire che il rapporto tra sinistra e ricchezza è sempre stato un nodo dolente […] Il tema, ancora una volta non è il pauperismo, né a una giovane donna emblema della modernità si richiede di incarnare il rigore postbellico.

[…] Se il successo di Schlein è determinato dalla novità che incarna e dalla complessità che rappresenta, la scelta che oggi a molti appare un autogol potrebbe essere frutto di una strategia più ampia che facciamo tuttavia fatica a intuire. Ma se anche così fosse, resta la perplessità per ciò che appare. Semplicemente […] è una questione di stile.

Estratto da repubblica.it il 28 aprile 2023.

"Abbiamo appreso da un'intervista rilasciata dall'onorevole Schlein, nuova segretaria del Pd, che la stessa si avvale della consulenza di una armocromista, cioè di una esperta che consiglia la scelta dei colori nell'abbigliamento. 

Un'armocromista che si fa pagare 300 euro all'ora. La signora si chiama Enrica Chicchio. 'Cacchio' verrebbe da dire". Io vorrei suggerire una cosa all'onorevole Schlein: se mi paga la metà di quanto prende Enrica Chicchio io sarei in grado di proporre un risultato dal punto di vista cromatico anche migliore". Lo ha detto il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca nel corso di una diretta Facebook.

(..) Personalmente ho avuto un movimento di commozione davanti a questa notizia. Noi che siamo modesti artigiani della politica, noi che non siamo moderni e non veniamo neanche da famiglie facoltose rimaniamo impegnati e interessati sulle cose che riguardano banalmente la vita degli esseri umani di carne ed ossa".

Professione armocromista. Daniela Missaglia su Panorama il 28 Aprile 2023.

Sui social spopola da anni questa nuova professione, a cavallo tra il mental coach e il consulente di immagine. E a cascare nella rete dei colori e delle stagioni oggi non sono solo gli influencer ma anche i politici

Alla vigilia della Festa dei Lavoratori c’è una professione che s’impone in tutta la sua attualità: l’armocromista. Sdoganato dalla giovane ed eclettica segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, questo neologismo mai fino ad oggi pronunciato da alcuno, è diventato materia di discussione corrente, oggetto di editoriali graffianti e persino di polemica politica. Siffatto new-job si riferisce a quella figura professionale che, con parcelle fino a quattrocentoeuro all’ora, aiuta il cliente non tanto ad abbinare gli abiti fra loro, ma a farneconciliare in modo efficace il colore con l’incarnato del committente. Sul presupposto che il pigmento e le caratteristiche estetiche di ciascun soggetto si sposino al meglio con determinate tinte e modelli di vestiti, l’armocromista elargisce i suoi preziosi e prezzolati consigli a chi ritenga di volerne usufruire. Adesso che la segretaria del partito erede della sinistra ha fatto coming-out su Vogue, abbiamo appreso che esiste questo nuovo redditizio sbocco professionale, a mezza via fra un truccatore esperto in palette colori, un consulente d’immagine e un culture d’arte contemporanea, quale è infatti Enrica Chicchio, l’armocromista della Schein (e della sua compagna). Ci lamentiamo che non c’è lavoro, che i nostri giovani faticano a rendersi indipendenti e che le scuole non abilitano a professioni in linea con i tempi, ora sappiamo che esiste un filone da coltivare.

A patto di trovare clienti danarosi e convinti di migliorare l’outfit e sublimare la resa estetica indossando tailleur che contrastino il pallore, le occhiaie o le orecchie sporgenti. Il tutto con plurimi vantaggi perché un buon consiglio dell’armocromista che magnifichi la silhouette e l’immagine incide sull’autostima, con essa sull’umore, con esso sul successo in campo amoroso e lavorativo, con essi sul portafoglio. Come alla ‘Fiera dell’Est’ di Branduardi, l’armocromistaparte dalla tinta di un maglione e ti risolve la vita in tutti i suoi aspetti, con buona pace di psicologi, mental coach, formatori professionali, consulenti familiari, resi inutili al pari di un paio di dopo-sci all’equatore. Dobbiamo quindi ringraziare Elly Shleinperché ci ha disvelato un mondo che non conoscevamo e che si ancora ad una dimensione innovativa del lavoro. Altro che attaccarla con accuse di un elitarismo incompatibile con la base dei suoi elettori: si svecchino questi ultimi, imparino che la lotta per i diritti civili e sociali non è antitetica all’eleganza estetica. Il buon Fausto Bertinotti, comunista duro e puro, non aveva forse lanciato la moda del cachemire e del portaocchiali di pelle? Dove sta scritto che per difendere i lavoratori bisogna vestirsi nelle catene di abiti scadenti abbinati in modo improbabile? Quattrocento euro l’ora, bazzecole. Compagni dei campi e delle officine, la soluzione c’è, non siate taccagni.

ZTElly e l’armocromista. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2023.

Ringrazio Elly Schlein perché fino a ieri ignoravo colpevolmente l’esistenza dell’armocromia, l’arte di abbinare i vestiti alla carnagione. Ignoravo anche che esistessero persone pagate 400 euro l’ora per segnalarmi che il maglione grigio topo con losanghe arancioni in stile fidanzato di Bridget Jones sbatte terribilmente con le occhiaie giallastre. E non mi scandalizza che una giovane leader politica affronti questi temi apparentemente voluttuari su una prestigiosa rivista di moda. Il problema è che quella di Elly Schlein a «Vogue» non era un’intervista qualsiasi. Era la prima da segretaria del Pd, per di più alla vigilia della Festa del Lavoro, un tempo «core business» della ditta. E per la sua prima uscita pubblica, quella che dà il tono di una leadership, mi sarei aspettato una conversazione sul salario minimo, o una di politica estera con i quotidiani stranieri, oppure una sui diritti civili con qualche settimanale popolare. A scanso di equivoci, avrei provato la stessa sorpresa se il segretario del Pd fosse stato Bonaccini e avesse concesso la prima intervista a un giornale sportivo per parlare del Bologna o a una rivista di parrucchieri per indagare il senso del suo pizzetto. Oltre a quelli dell’armocromista, a Schlein potrebbero far comodo i consigli di un cromista della comunicazione o, meglio ancora, di un friggitore di salsicce della festa dell’Unità. Con permesso, vado ad armonizzare il maglione. Non vorrei mai che scoppiasse la rivoluzione e non avessi niente da mettermi. Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. Chi non è ancora abbonato le modalità per farlo e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale.

Che noia infinita le battute su Schlein e la sinistra Ztl. Tutto cominciò negli anni ‘80 con l’arrivo al potere a Parigi dei socialisti di François Mitterrand che, appena approdano al governo, dimenticano il radicalismo della campagna elettorale per dedicarsi alla bella vita e alla mondanità: è la cosiddetta gauche caviar...Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 28 aprile 2023

Le battute sarcastiche sulla “sinistra Ztl” sono gradevoli come una gara di peti tra adolescenti e spiritose come una cartella esattoriale. Ricordano quei vecchi repertori dell’avanspettacolo che non fanno più ridere nessuno ma che vengono riproposti ogni volta con ostinazione.

L’ultimo a infierire è Massimo Gamellini sul Corriere della Sera che ci regala uno spassosissimo gioco di parole dedicato alla segretaria del Pd, ribattezzata “ZTElly” per via della ormai celebre intervista a Vogue in cui confessa di pagare una professionista consigliarle gli abbinamenti di vestiti. Un passaggio estrapolato da un lunghissimo colloquio in cui ha parlato un po’ di tutto, lavoro, emergenza climatica, giustizia sociale, diritti civili, immigrazione, femminismo, rapporti con le destre. L’unico che però ha attirato l’attenzione morbosa dei nostri media i quali hanno fatto a gara nel liquidare la povera Schlein come una specie di Maria Antonietta del terzo millennio. Un giochino patetico che ha alimentato ad arte la gogna sui social con relativi inviti alla decapitazione su pubblica piazza.

Andando a curiosare in rete non è la prima volta che la neo-segretaria viene descritta con sommo disprezzo come un’aristocratica dei quartieri alti, una snob lontana dalla gente comune e dagli storici valori della sinistra. Durante la battaglia delle primarie che la vedeva opposta al “concreto” Stefano Bonaccini fu Antonio Polito a lanciare la stoccata: «Con Elly Schlein segretaria il partito delle Ztl diventerebbe il partito delle aree pedonali». Anche Antonello Caporale sul Fatto Quotidiano all’indomani dell’inattesa vittoria su Bonaccini ha ricamato un originalissimo articolo sulla gauche Ztl che va alla corte di Elly.

Tutto cominciò negli anni 80 con l’arrivo al potere a Parigi dei socialisti di François Mitterrand che, appena approdano al governo, dimenticano il radicalismo della campagna elettorale per dedicarsi alla bella vita e alla mondanità: è la cosiddetta gauche caviar, incarnata dall’azzimato ministro della cultura Jack Lang.

Un concetto che scivola verso Italia all’inizio degli anni 90 con la sinistra “radical chic” versione Capalbio, il borgo della Maremma frequentato da vari Occhetto, Petruccioli, Asor Rosa, Bassanini, Caracciolo, che venivano irrisi e bollati dalla stampa di destra come rivoluzionari da aperitivo sulla spiaggia. Negli anni successivi i nemici del popolo sono diventati ai maglioni di cachemere di Fausto Bertinotti, con tutto il lepido corredo di freddure sul “comunista con la erre moscia” che avrebbe tradito la classe operaia per i salotti e altre amenità. Luoghi comuni propagati soprattutto dall’allora Pds e dai prodiani, indignati per ritiro della fiducia al governo del “professore” da parte del segretario di Rifondazione.

Oggi tocca a Elly Schlein subire l’orda qualunquista e le logore menate sulla sinistra dei centri storici e delle piste ciclabili che ha smarrito la diritta via della periferia e dimenticato il popolo. Una lagna innocua ma di cui faremmo decisamente a meno.

Elly Schlein, Vogue e la look-strategy. L'intervista diventa un caso. Giovanna Vitale su La Repubblica il 28 Aprile 2023. 

Per vestirsi l'inquilina del Nazareno si affida a una consulente di immagine e personal shopper. Noto: "Altro che scivolone, esce da un cliché"

Una e bina, di lotta e di salotto. Qual è la vera Elly Schlein? La segretaria del Pd che il 25 aprile ha sfilato in piazza a Milano col fazzoletto rosso al collo? O la giovane donna in trench color glauco - delicata tonalità di verde, grigio e azzurro - che nello stesso giorno compariva levigata ed elegante sulle pagine patinate di Vogue? È quel che si sono chiesti in tanti scoprendo che, per la Festa della Liberazione, la leader della principale forza di opposizione non aveva solo scelto di rilasciare a una rivista di moda la sua prima intervista da capo della sinistra, ma pure di rivelare ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato.

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 27 aprile 2023.

"Elly non ha un look da centro sociale. Abbiamo sostituito l'eskimo con un trench di taglio sartoriale. Ma sarebbe controproducente snaturarla nel look rispetto a quello a cui siamo abituati". Parola di Enrica Chicchio. Chi? È la consulente d'immagine della neo-segretaria del Pd, Elly Schlein, che ne ha parlato in un'intervista a Vogue, presentandola come "un'esperta in armocromia". Insomma di make-up, colori, abbinamenti vari. Ma per la leader dem fa anche la personal shopper (le compra i vestiti), racconta a Repubblica Chicchio.

Quando vi siete conosciute?

"Un anno e mezzo fa, anche se nell'ultimo periodo la collaborazione è diventata più intensa. Anche perché Elly adesso ha meno tempo".

(...)

Tariffe?

"In genere chiedo 140 euro all'ora, più Iva, per il lavoro sui colori. Sullo shopping, saliamo a 300 euro l'ora. Per il guardaroba dipende. Con Elly ho un forfait, ma ovviamente non posso parlare di cifre esatte".

Fa anche la personal shopper, per Schlein?

"Sì. Puntiamo su un look istituzionale, ma senza stravolgerla. Col nuovo incarico ha poco tempo e ha bisogno d'aiuto, per queste cose".

Ma chi ricorre oggi all'armocromia?

"È una pratica nata per le dive di Hollywood, ai tempi del Technicolor. In Italia ha preso piede da dieci anni, anche se solo negli ultimi due si è alzata davvero l'onda. E io ora la cavalco".

E Schlein, professionalmente parlando, come la definirebbe?

"Acqua e sapone. Nelle categorie dell'armocromia è un 'inverno'".

Cioè?

"Per lei vanno bene i colori freddi, contrastanti, saturi. Così guarda al suo target di riferimento, cioè a sinistra, ai giovani. E alla sostenibilità". 

Estratto dell’articolo di Fosca Bincher per open.online il 27 aprile 2023.

Probabilmente a qualche vecchio partigiano e soprattutto a qualche dirigente ex comunista sarà stato nascosto, ma proprio il 25 aprile mentre veniva fotografata nelle piazze della liberazione, Elly Schlein appariva in posa sul sito di Vogue Italia che accompagnava con una bella intervista di Federico Chiara gli insoliti scatti di Enrico Brunetti (in collaborazione con Dorothea Orsini, Fulvia Tellone, Simone Belli Agency e con la post produzione di Big Sky Studios). Insolita perché tutto fin qui si sarebbe pensato di un segretario del Pd meno che vederlo in posa negli studi fotografici della rivista più famosa della moda mondiale. Ma anche perché Schlein svela all’intervistatore un piccolo vezzo. 

«Le mie scelte di abbigliamento dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo», spiega Elly, che continua: «A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio».

Il segreto della prima segretaria del Pd è dunque un’armocromista. Chicchio è una bolognese che si presenta come «consulente di immagine» e «personal shopper». Per 140 euro online offre una consulenza di analisi del colore e spiega: «L’Armocromia (analisi del colore) è il primo step della consulenza d’immagine. Ha l’obiettivo di trovare la TUA palette colori valorizzante in completa armonia con le tue caratteristiche cromatiche. 

Grazie a questa consulenza: scoprirai l’armonia dei colori che applicati alla vita di tutti i giorni , diventeranno alleati preziosi nella scelta di abbigliamento, accessori e gioielli; acquisirai maggiore consapevolezza sui futuri acquisti limitando perdite di tempo e denaro; acquisterai solo capi di colori che ti valorizzano cromaticamente; imparerai a creare abbinamenti, percependo che un uso corretto del colore non modifica la tua personalità, ma la rinforza». Sappiamo che Schlein è amica di Chicchio, e quindi è probabile che la sua consulenza sui colori che veste la leader del Pd sia stata del tutto gratuita.

(…)

È scoppiato l'Armocromiagate. Cos’è l’armocromia, l’analisi del colore e il caso di Elly Schlein e della consulente Enrica Chicchio. Vito Califano su Il Riformista il 27 Aprile 2023 

Potrebbe passare alla storia come ArmocromiaGate, perché no. Elly Schlein ha rivelato di avere una consulente d’immagine. “Le mie scelte di abbigliamento dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio”, ha detto a Vogue Italia. E apriti cielo: si è partiti con le battute, i meme, gli sfottò di avversari e i commenti degli odiatori. Come se la politica non fosse comunicazione, come se la comunicazione non fosse anche forma, estetica. Cosa c’è di così scandaloso in tutto ciò?

La nuova segretaria del Partito Democratico, la prima donna nella storia della formazione, si è raccontata in una di quelle interviste a tutto campo in cui si passa da questioni cruciali per il paese ad aneddotica sul personaggio: passioni, interessi, hobby. Quel passaggio sull’armocromia e sull’armocromista di fiducia hanno bucato l’attenzione di media e pubblico. Definita anche analisi del colore, analisi del colore personale o stagionale, corrispondenza della tonalità della pelle, si tratta in estrema sintesi di un metodo per scegliere e determinare i colori dell’abbigliamento in armonia con la carnagione della pelle, quello degli occhi e dei capelli di una persona per studiare e costruite i propri outfit e il proprio guardaroba.

Il metodo sarebbe nato agli inizi degli anni 80 negli Stati Uniti. Considerato titolo fondamentale se non fondativo è Color Me Beautiful di Carole Jackson. A seconda di colori più caldi, freddi, brillanti o tenui si può individuare una stagione di riferimento a partire da categorie come sottotono, valore, intensità e contrasto. Il sottotono è la “temperatura” della pelle, il valore è l’elemento predominante tra chiaro e scuro, l’intensità indica la brillantezza e il contrasto la differenza di valore tra elementi. Il primo passo per capire quali sono i colori in palette è individuare la propria stagione di riferimento. Per scoprirla si ricorre a consulenti che fanno dei test di persona, senza trucco e possibilmente senza abbronzatura.

Così Enrica Chicchio spiega l’armocromia, sul suo sito ufficiale: “Il primo step della consulenza d’immagine. Ha l’obiettivo di trovare la TUA palette colori valorizzante in completa armonia con le tue caratteristiche cromatiche. Grazie a questa consulenza: scoprirai l’armonia dei colori che applicati alla vita di tutti i giorni, diventeranno alleati preziosi nella scelta di abbigliamento, accessori e gioielli; acquisirai maggiore consapevolezza sui futuri acquisti limitando perdite di tempo e denaro; acquisterai solo capi di colori che ti valorizzano cromaticamente; imparerai a creare abbinamenti, percependo che un uso corretto del colore non modifica la tua personalità, ma la rinforza”.

A commentare questa svolta estetica ma anche comunicativa di Schlein anche Rossella Migliaccio, tra le prime e più esperte in Italia di armocromia, a Vanity Fair Italia. “Credo che il fatto che Elly Schlein abbia parlato apertamente di questo cambio di look sia anche una strategia per avvicinarsi all’elettorato, soprattutto a quello più giovane, perché lei non ha solo parlato di una ‘consulente d’immagine’, ha citato proprio l’armocromia, sapendo benissimo che è un grande trend sui social tra i millenial e la Gen-Z. Non sono affermazioni che si fanno a caso in un’intervista su Vogue. Mi sembra del tutto chiaro che volesse parlare ai i più giovani”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

 Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 29 aprile 2023.

[…] Nei giorni scorsi ha suscitato clamore l’intervista a Vougue di Elly Schlein, neo segretaria del Pd, che ha fatto conoscere a tutti gli italiani questa tecnica da molti ignorata, rivelando di essersi affidata, per il suo look e il suo abbigliamento, ad una consulente d’immagine specialista in Armocromia, e di essere stata indirizzata da lei, in base alle scelte cromatiche per il suo stile e il trucco, alle tonalità dell’ Inverno, seguendo parametri specifici dell’analisi del colore dalla tavolozza cromatica creata appositamente, compatibile con l’ombra della sua pelle, del fisico e del ruolo sociale, incluso quello politico. 

Ma come si svolge una seduta di armocromia professionale? Prima di tutto l’esperta/esperto di turno analizza la cliente, che indossa soltanto una t-shirt bianca, studiando il viso, l’elemento dominante, completamente struccato e deterso, scrutando le caratteristiche cromatiche della pelle del volto e della cute di tutto il corpo, poi il colore dell’iride e quello dei capelli, delle labbra, delle orecchie e delle vene sottocutanee.

Dopodiché vengono utilizzati quattro drappi colorati, divisi in quattro sezioni, stagione per stagione, i quali, una volta accostati al viso, illuminano più o meno intensamente la pelle, e vengono selezionati ed individuati quelli che minimizzano eventuali difetti estetici, e che esprimono le migliori nuance di accostamento. Da tali dati vengono poi realizzate delle combinazioni di colori personalizzate, scegliendo tra le tonalità che illuminano di più la carnagione, per le palette di make-up e di abiti da realizzare più adatti a quello specifico incarnato. 

Naturalmente vengono valutate anche le alterazioni vascolari che il corpo subisce durante lo sforzo fisico o l’esposizione al sole, quando la pelle tende ad arrossarsi o a cambiare tono per l’abbronzatura, ed una volta stabilito quali gradazioni può raggiungere si stila il verdetto: se la carnagione si esalta con il drappo arancione, il sottotono è caldo e la stagione di riferimento è la Primavera, se i colori dominanti sono quelli chiari, e l’ Autunno se sono scuri.

Se il tessuto scelto è invece fucsia il sottotono di riferimento è freddo, con la scelta dell’Estate per chi ha tonalità chiare, e Inverno per quelle scure. L’Armocromia oltre ad indirizzare verso le stagioni armocromicamemte fredde (estate e inverno) o quelle calde (autunno e primavera) per il make-up, è in grado di armonizzare su tali dati anche i colori dei capi da indossare per valorizzare il proprio look in rapporto al tono della pelle, occhi e capelli, senza preconcetti legati all’età o al genere, esplorando nuove tonalità e sfumature lontane dai classici grigio e nero. […]

"L'unica sua armatura è il potere delle sue idee". Chi è Enrica Chicchio consulente d’immagine di Elly Schlein: “Via l’eskimo, non è da centro sociale”. Vito Califano su Il Riformista il 27 Aprile 2023 

A gli scandalizzati, gli indignati di professione: se politica è comunicazione, è anche moda, tendenze, stile. Elly Schlein ha una consulente di immagine. La nuova segretaria, prima donna al vertice del Partito Democratico ha rilasciato un’intervista a Vogue Italia in cui ha rivelato che a curare la sua immagine è Enrica Chicchio. “Le mie scelte di abbigliamento dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio”. Consulente d’immagine e personal shopper, è friulana di Cividale, in provincia di Udine, ma vive a Bologna, la città della segretaria dem.

“La consulenza di immagine aiuta privati e aziende a valorizzare il proprio potenziale”, si legge nella presentazione del suo sito ufficiale. Chicchio dopo quindici anni di lavoro nell’ambito dell’arte contemporanea è passata a “declinare il gusto estetico così maturato” nel settore dell’immagine. “Questa professione nasce grazie ad una grande passione che mi ha accompagnato attraverso il vissuto quotidiano delle persone. Nel mio lavoro è fondamentale indirizzare il cliente nella giusta direzione, in piena consapevolezza con lo stile richiesto e in linea con i suoi gusti. Chi è in grado di comprendere questo tipo di visione o ha già sperimentato questo servizio, sa che va incontro ad un grosso vantaggio in termini di risparmio economico e di tempo”. A Repubblica ha confermato che la consulenza di Schlein è a pagamento, non gratis come avevano scritto alcuni media.

Chicchio ha definito Schlein una donna “inverno”: da colori freddi, contrastanti e saturi. Sempre a Repubblica ha commentato: “Elly non ha un look da centro sociale. Abbiamo sostituito l’eskimo con un trench di taglio sartoriale. Ma sarebbe controproducente snaturarla nel look rispetto a quello a cui siamo abituati”. Sui social ha postato una fotografia scattata da Enrico Brunetti per la rivista di moda della segretaria dem e ha osservato: “Sono orgogliosa di lavorare con Elly e scegliere con lei le giuste cromie, dietro le quali si veicolano messaggi importanti. In queste foto per Vogue Italia abbiamo optato per un trench color glauco, una delicata tonalità di verde, grigio e azzurro-da molti definita salvia. Questa tinta è il risultato di un adattamento ambientale (tipico delle piante mediterranee): sposa il suo incarnato delicato e richiama il verde che nei nostri ricordi si accompagna a giornate immerse in quella natura che va protetta e custodita. Non mi piace il concetto di ‘power dressing’, non è più il tempo del potere e della prevaricazione per affermarci sugli altri. Abbiamo bisogno di autenticità, di un look che rappresenti noi stessi. L’unica armatura di Elly è il potere delle sue idee. Saranno la sua passione e adesione ai suoi ideali a difendere il suo (difficile) lavoro”.

Così spiega l’armocromia, analisi del colore, definita “il primo step della consulenza d’immagine. Ha l’obiettivo di trovare la TUA palette colori valorizzante in completa armonia con le tue caratteristiche cromatiche. Grazie a questa consulenza: scoprirai l’armonia dei colori che applicati alla vita di tutti i giorni, diventeranno alleati preziosi nella scelta di abbigliamento, accessori e gioielli; acquisirai maggiore consapevolezza sui futuri acquisti limitando perdite di tempo e denaro; acquisterai solo capi di colori che ti valorizzano cromaticamente; imparerai a creare abbinamenti, percependo che un uso corretto del colore non modifica la tua personalità, ma la rinforza”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell'articolo di S. S. per lastampa.it il 27 aprile 2023.

Via l’eskimo, avanti il trench. Elly Schlein lo indossa in piazza il 25 aprile e pure in un servizio su Vogue, dove parla di tutte le battaglie che vuole combattere, e dice: dobbiamo rendere comprensibile la complessità; c’è un modo intelligente di usare i social per fare politica; l’outing subito dalla mia compagna è violenza; sui diritti Lgbtq+ ci vuole una mobilitazione permanente. 

Vogue le chiede se crede nel power dressing, lei risponde: non so bene cosa sia, ma comunque mi faccio aiutare da un’armocromista. Ed è su questo che tutti si soffermano. E allora si indaga sull’armocromista, Enrica Chicchio, e su quanto costino le sue consulenze. E si dibatte se sia opportuno che la leader di un partito di sinistra possa spendere 300 euro all’ora per farsi dire che è un “inverno”, e quali colori deve indossare, e quali vestiti le si confanno.

[…] 

Toscani, come inquadra questo trench gate?

«Come l’inizio della Schlein». 

Qualcuno, invece, dice che potrebbe essere la sua fine.

«Stupidaggini. È la donna del futuro e continua a dimostrarlo. Fa incazzare i conservatori di destra e di sinistra, parla un linguaggio nuovo, è nuova, vince, e va su Vogue». 

E a cosa le serve?

«Se chiedi a una donna in gamba se preferisca essere bella o intelligente, lei ti risponderà: bella». 

Quindi Schlein è andata su Vogue per essere bella?

«Ci è andata perché glielo hanno consigliato» 

E ha sbagliato?

«Certo che no. Ha sbagliato chi l’ha fotografata: quelle foto sono brutte. E ha sbagliato chi l’ha vestita. Lei è una ragazza in jeans con le sue giacchettine, deve continuare così. È elegante, sobria, fresca. Ha stile. La ricordo sempre benvestita». 

Quando si è benvestite?

«Quando nessuno si accorge dei vestiti che hai addosso. Ed è in questo senso che Schlein è la donna del futuro: una donna con la quale a nessun maschietto verrebbe in mente di fare il cretino. Una che ti colpisce per quello che pensa e fa, e che non passa inosservata per come si muove e non per quello che ha addosso». 

Non è inopportuno che la leader di un partito di sinistra, una che ha vinto perché è l’icona del mondo nuovo e che si batte per i diritti delle minoranze, riveli a una rivista patinata che paga qualcuno per decidere come vestirsi

«Inopportuno? Ma non si è mica fatta fotografare mentre beve champagne in una vasca d’oro. Non capisce molto di moda, si fa aiutare: può permetterselo. Siamo davvero così provinciali da credere che questo sia un tradimento dei suoi valori?”. 

Pare di sì.

«Del resto a Parigi bruciano le borse di Vuitton. Cosa c’entrano le borse di Vuitton?». 

Sono simboli.

«Se Schlein si vestisse da operaia, la accuserebbero di apologia del comunismo. E invece lei, giustamente, archivia il trench». 

Che c’è di male nell’eskimo?

«Niente. Certo è che potremmo provare ad andare oltre i Beatles e i Rolling Stones». 

Vogue ha scritto che Schlein ha fatto alla politica italiana quello che ha i Maneskin hanno fatto alla musica: l’ha “svecchiata, demascolinizzata, internazionalizzata”.

«Verissimo. È bravissima. Io ho votato per lei quando tutti dicevano che avrebbe perso. E la voterei ancora, convintamente». 

[…]

Dello stile di Meloni che dice?

«Volgare. Rossetto esagerato, ombretto sgargiante». 

È popolare.

«Popolare? In Armani?». 

Ma è di destra, lì il problema non si pone.

«E sarebbe il momento che non si ponesse nemmeno a sinistra. La vera contraddizione è che a sinistra sia dia tanta importanza a queste piccolezze, a questioni di facciata». 

L’armicromia è un diritto del popolo, allora?

«E perché no? Non è anche questa la libertà?».

E la Liberazione?

«Ma da cosa, scusi? Io solo questo vorrei dire sul 25 aprile: non c’è stata nessuna liberazione, i fascisti li abbiamo sbattuti fuori dalla porta e sono rientrati dalla finestra. Sono ancora qui, più raffinati di una volta». 

Perché raffinati?

«Perché non hanno bisogno di vestirsi con la camicia nera, fare il saluto romano. Non hanno insicurezze identitarie. Li caratterizza quello che fanno. Fanno Cutro». 

Cos’è il fascismo?

«Un’opera d’arte italiana. Possibile solo in un paese come il nostro: corrotto, ignorante e corruttibile come nessun altro». 

Perché la sinistra non riesce a essere popolare e la destra sì?

«Io so solo che per il popolo si può morire ma tante volte non ci si può vivere insieme». 

Ha detto una cosa un po’ classista.

«Vede? Lei nota solo la seconda parte, quella più sciocca e provocatoria, anziché la prima: morire per il popolo non la colpisce quanto il non poterci sempre vivere assieme. È la stessa ragione per cui si fa un gran fracasso su come veste Elly Schlein». 

Non proprio su come veste.

«Senta, ma se mi offrono il caviale e a me il caviale piace, perché non dovrei mangiarlo?». 

Perché il caviale è il simbolo di un privilegio.

«Questo è provincialismo politico. Lo stesso di chi rompeva le palle a Bertinotti per i pullover di cachemire. Non c’è niente di più provinciale di un piccolo comunista». 

E lei lo può dire.

«Certo che posso. Io sono di sinistra. Molto di sinistra. Sono un radicale». 

[…]

Non c’è il rischio che Schlein sembri lontana dai problemi della gente?

«Siete voi che siete lontani dalla gente. È una priorità per voi ma non per lei. È importante per il pubblico ma non per lei. La sua politica il suo modo di pensare non cambia per una foto su Vogue». 

Il punto è quello che rivela di lei.

«Ma per favore, ma perdiamoli per strada questi analisti di cosa rivela un portafogli!» 

Lei parla da intellettuale.

«Io sono un operaio».

Ma parla da intellettuale se pensa che risultare vicina alla gente non sia un problema che Schlein deve porsi.

«Ma infatti lei piace alla gente. Alla sua gente. Che questa stupidaggine la prenderà per quello che è. Andiamo avanti, diamoci da fare».

L’abito non fa la segretaria. Schlein lasci perdere l’armocromista e si faccia consigliare dalla più chic di Bologna. Guia Soncini su L'inkiesta il 28 Aprile 2023

A che serve farsi fotografare da Vogue se ci si atteggia a una che non bada a queste sciocchezze? Cecilia Matteucci potrebbe spiegarle come si fa, come ha già insegnato a Nanni Moretti 

Il 25 aprile del 2023 in Italia sono successe due cose importanti. Una è che Nanni Moretti ha presentato il suo film nei cinema bolognesi – tenete questo dettaglio a mente, poi ci torniamo. L’altra è che Vogue Italia ha deciso, in omaggio all’anniversario della Liberazione di anticipare sul suo sito uno degli articoli che saranno sul numero che uscirà in edicola il 3 maggio: l’intervista a Elly Schlein.

Sono passati due giorni (i tempi di reazione dell’internet sono fermi allo sviluppo e stampa), e improvvisamente ieri tutti parlavano di due righe in mezzo a quest’intervista, due righe in cui Elly Schlein dice: «In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio». E qui, mi spiace per voialtri che volete leggere di quell’avvincentissimo argomento che è l’armocromia, possiamo finalmente parlare del vero tema, che è Bologna.

Bolognese è la direttrice di Vogue, Francesca Ragazzi. Bolognese è l’intervistatore, che dà del tu alla Schlein come fossero vecchi amici benché non si conoscessero (il guaio di Bologna è che ci conosciamo anche se non ci conosciamo). Bolognese è Elly Schlein, sebbene a vedere come si veste pare che la sua parte svizzera prevalga e una delle ragioni per cui nessuno mi nomina direttrice di Vogue è che a me non sarebbe mai venuto in mente che il non stile della Schlein valesse le pagine di Vogue.

Bolognese è questa tal Chicchio, che ieri ha risposto a una giornalista che non poteva dare ulteriori interviste, ma «bella palette» (detto dei colori indossati da colei che le stava richiedendo l’intervista; non è dato sapere se ella ne sia stata lusingata; forse no, giacché pare che la Chicchio non sia molto stimata dalle altre armocromiste, e fatico a interpretare questa diceria: in un mondo rovinato dagli stylist, non essere stimata dalle armocromiste è un punto di merito?).

Immagino che la ragione per cui la Chicchio ha negato l’intervista alla tapina di cui ha però lodato la palette sia la stessa per cui io ho ricevuto segnali contraddittori dal fotografo che ha scattato le foto della Schlein – sì ti parlo alle cinque, no non ti parlo se prima non passi per la redazione e chiarisci che taglio vuoi dare all’articolo, no è meglio che non ti parli comunque – e cioè: la leggendaria discrezione Condé Nast.

Anna Wintour avrà sgridato la Chicchio per aver detto che la tinta del trench della Schlein è «glauco» («da molti definita salvia»: da molti che parlano italiano, sì)? O per aver detto a Repubblica che prende trecento euro l’ora? (Capolavoro: far irritare la sinistra poveraccista per cui la moda non è pil ma pensiero debole, e far trasecolare la sinistra fighetta, «ma veramente paga una specialista per poi essere una di cui tutti sospiriamo che si veste proprio come una svizzera?»).

Vogue America da sempre pubblica le donne della politica, da Hillary Clinton a Michelle Obama, da Kamala Harris a Laura Bush. Solo che, tra il servizio di Elly Schlein che evidentemente teme d’apparire frivola, e quelli delle donne d’un paese che ha le idee chiare sull’importanza dell’immagine, c’è tutta la differenza che passa tra professioniste per le quali i vestiti sono un linguaggio, e dilettanti che si fanno truffare dall’armocromia.

Vogue non fa miracoli, e non avrebbe certo, a fine servizio fotografico, trasformato Elly Schlein – una che le idee le espone male e i vestiti li porta peggio – in Alexandria Ocasio-Cortez: una che trasforma i tutorial di trucco in comizi politici, che rende fotogeniche le più da liceali delle idee, e che sa avvolgersi il culo in un vestito con lo slogan giusto e far diventare un abito da sera non più solo un involucro ma la rivoluzione che il secolo di Instagram si può permettere.

Vogue non fa miracoli, e infatti dopo essere comparse su quelle pagine si resta come si è: Kamala Harris stilosa, e Hillary Clinton malvestita. Però nel tempo che passi su quelle pagine hai un senso: il vestito da sposa di Dior indossato da Melania Trump venne scelto assieme ad André Leon Talley, all’epoca braccio destro della Wintour, in quello che divenne l’articolo di copertina. Elly Schlein – identitariamente tentennante: essere quella che si fa fotografare da Vogue o essere quella che non bada a queste sciocchezze? – finisce per non essere nulla.

Finisce per rifiutare il guardaroba scelto dai professionisti del giornale e arrivare sul set fotografico coi suoi vestiti, e farsi scattare con addosso qualcosa che s’è portata da casa, come quello fosse L’Espresso e non Vogue, come i vestiti non fossero un linguaggio (e allora perché pagare una per sceglierteli?). Finisce per rispondere alla domanda sul power dressing con «se sapessi cos’è», che è come farsi intervistare da Quattroruote e rispondere «ah, boh, non ho la patente».

Martedì, mentre Vogue metteva sul sito le foto in cui la Schlein è vestita come càpita ma almeno non ha i soliti occhiali da sole in testa, Cecilia Matteucci pubblicava sul suo Instagram una foto. Quando avevo otto anni, Cecilia Matteucci era una signora che si vestiva come una matta. La guardavo, a bordo piscina al circolo del tennis, come si guarda un’aliena: chi è questa tizia tutta sbrilluccichi e vestiti strani?

Venticinque anni dopo, quando ormai sapevo com’erano fatte le modaiole, mi sembrava perfettamente normale incontrarla dietro le quinte della sfilata di Prada, che andava a omaggiare Sua Miuccità, e aveva la borsa di McQueen che tutte volevamo: a Milano, la Matteucci era perfettamente vestita da sfilata, e alla me piccina Bologna non aveva dato gli strumenti per capirla.

Adesso, che di anni ne ho cento, mi sembra che la Matteucci sia l’unica finestra bolognese su Milano o su New York, l’unico orizzonte di non provincialismo nell’abbigliamento. Lunedì ha incontrato per strada Nanni Moretti. La foto che ha instragrammato è stupenda, lei col rossetto rossissimo, i capelli biondissimi, gli occhiali glitteratissimi, e Nanni col sorriso educato di quello che trent’anni prima l’avrebbe buttata in piscina, ma oggi sono due persone anziane ognuna coi suoi tic e insomma ci vuol pazienza.

Continuo a fissare quella foto chiedendomi che faccia farebbe Elly, se Cecilia le chiedesse una foto. Ma, soprattutto, chiedendomi se la Matteucci proprio non possa fare un’opera di bene per la sinistra tutta e recuperare il gusto per i colori di quando ne avevamo uno e non cercavamo di inseguire la stregoneria degli abbinamenti, e rifare lei il guardaroba a Elly Schlein. Cecilia veste Elly è il servizio di Vogue che vorrei.

Rivoluzione armocromunista. La “Nouvelle Vogue” del Pd e la caduta degli infingimenti congressuali. Francesco Cundari su L'inkiesta il 28 Aprile 2023

Col passare del tempo, per la nuova segretaria sarà sempre più difficile conciliare la continuità con Letta e la retorica del cambiamento radicale, il «trench sartoriale» scelto dalla personal shopper e il fazzoletto partigiano, le foto posate e l’allarme democratico

Con l’intervista di Elly Schlein a Vogue Italia e quella di Marco Meloni a Repubblica il grande rinnovamento del Partito democratico si è presentato finalmente con il suo vero volto, i suoi valori autentici e anche con i giusti colori abbinati. Tra i due interventi c’è una perfetta simmetria, politica ed estetica. Direi persino, rubando le parole alla segretaria del Pd, una sorta di armocromia.

Il coordinatore della segreteria di Enrico Letta, infatti, ha finalmente chiarito come la nuova leader sia in perfetta continuità con la linea del suo predecessore (il quale a sua volta, aggiungo io, era in perfetta continuità con il segretario precedente, Nicola Zingaretti), per lo stupore dell’intervistatrice, Giovanna Vitale, che infatti replica: «Non è un po’ lunare sostenere che Schlein sta proseguendo la linea Letta? Non è stata lei stessa a porsi in forte discontinuità con il passato?». Il bello è che hanno perfettamente ragione entrambi: è lunare, ma è anche la verità (ufficialmente, per la precisione, Letta non appoggiava nessun candidato, Meloni stava con Stefano Bonaccini e Francesco Boccia, altro importante esponente della segreteria Letta, guidava il comitato Schlein, schema che nel totocalcio si definirebbe una classica tripla: 1 X 2).

Va detto che Meloni sottolineava la continuità di Schlein con Letta per meglio stigmatizzare la scelta del deputato Enrico Borghi, che ha appena abbandonato il Pd per passare con Italia Viva. Quel che gli premeva dire era che «lasciare il partito nel quale si è stati eletti per traslocare in una micro-forza personale è una mancanza di rispetto per chi lo ha votato». Il che, per inciso, non sembra così diverso da quello che ha fatto Schlein nel 2015, quando da parlamentare europea ha lasciato il Pd per Possibile di Pippo Civati, e si potrebbe discutere anche di quanto differisca dal comportamento degli scissionisti di Articolo Uno nel 2017, l’una e gli altri riaccolti proprio da Letta con tutti gli onori, giusto in tempo per permettere a Schlein di candidarsi alla segreteria; peraltro dopo averla candidata ed eletta alla Camera, facendone la principale portabandiera del Pd in campagna elettorale (salvo vederla scomparire dai radar un minuto dopo il catastrofico risultato, per poi riapparire al momento di presentarsi alle primarie, secondo uno schema di gioco che le è consueto, ma che temo non sia facilmente conciliabile, nemmeno dal punto di vista etimologico, con la posizione di leader).

Osservazioni di questo genere appartengono però a una vecchia concezione della politica, me ne rendo conto, e a un’ancor più antiquata concezione della logica, con i suoi noiosi nessi di causa-effetto e il suo arido principio di non contraddizione (un culto praticamente in via di estinzione). È tempo dunque di smetterla con i dettagli e venire al cuore della novità.

Nello stesso giorno, il 25 aprile, mentre da un lato sfila in piazza per la festa della Liberazione, dall’altro Schlein concede un’intervista a Vogue Italia in cui spiega: «In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio». Personal shopper prontamente intervistata, a sua volta, da Repubblica, che subito ci illumina sull’essenza della rivoluzione armocromunista: «È una pratica nata per le dive di Hollywood, ai tempi del Technicolor. In Italia ha preso piede da dieci anni, anche se solo negli ultimi due si è alzata davvero l’onda. E io ora la cavalco». Quindi, con professionale discrezione, precisa: «In genere chiedo 140 euro all’ora, più Iva, per il lavoro sui colori. Sullo shopping, saliamo a 300 euro l’ora. Per il guardaroba dipende. Con Elly ho un forfait, ma ovviamente non posso parlare di cifre esatte». E infine, implacabile, aggiunge: «Elly non ha un look da centro sociale. Abbiamo sostituito l’eskimo con un trench di taglio sartoriale. Ma sarebbe controproducente snaturarla nel look rispetto a quello a cui siamo abituati».

Il trench di taglio sartoriale è presumibilmente lo stesso sfoggiato dalla segretaria del Pd alla manifestazione di Milano, con il fazzoletto partigiano al collo (sul taglio del fazzoletto non si hanno notizie, e non mi intendo abbastanza di moda per valutare a occhio se si tratti di un foulard di Chanel o di un vile reperto da bancarella dell’usato). Del resto la stessa Chicchio, commentando su Instagram le foto di Vogue, si dice «orgogliosa di lavorare con @ellyesse e scegliere con lei le giuste cromie, dietro le quali si veicolano messaggi importanti».

Resta da valutare come sarà possibile conciliare le foto posate per una rivista di moda il 25 aprile e le dichiarazioni sui rischi per la democrazia italiana, un vertice del partito infarcito di giovani e meno giovani esponenti della sinistra eco-gruppettara (ai quali le foto posate per una rivista di moda appariranno verosimilmente molto più compromettenti di qualunque scatto rubato) e una leader che, dopo essersi presentata come una via di mezzo tra Rosa Parks e Rosa Luxemburg, sembra fare di tutto per corrispondere al cliché della sinistra radical chic, ricca e lontana dal mondo reale, quale vorrebbe dipingerla la destra. Certo è che, sommando le due cose, radicalismo gruppettaro e armocromia al potere, la “Nouvelle Vogue” del Pd non promette straordinarie capacità espansive.

Elly Schlein porta la sinistra dall'Unità e Gramsci a Vogue e la Ferragni. Andrea Soglio su Panorama il 27 Aprile 2023

Per una delle prime interviste il neo segretario dem sceglie la rivista simbolo del mondo della moda

Cari Compagni, nuove disposizioni dalla direzione del Partito: l’organo di stampa ufficiale non è più l’Unità, glorioso quotidiano fondato da Antonio Gramsci 99 anni fa. No. E non è nemmeno La Repubblica e neanche La Stampa. Sbagliato. Ora in tutte le sezioni, in tutte le Case del Popolo ancora aperte, in bella mostra all’ingresso deve comparire Vogue. Ecco la casa della nuova sinistra, della sinistra della neo segretario Elly Schlein, la rivista più patinata di sempre, quella citata da Madonna in una nota canzone, quella che ha ispirato il celebre film: «Il Diavolo veste Prada». Il simbolo dello stile nel mondo, la Bibbia per chi vuole essere alla moda, il simbolo supremo dell’apparenza. Qui la Schlein si è svelata nel suo essere politico, persona, donna. Dicendo cose che possono spiegarci in maniera finalmente chiara quelle che saranno alcune delle sua battaglia politiche. Prendiamo su tutte la questione del salario minimo. Operai, netturbini, panettieri, minatori ecco la proposta del neo segretario del: 400 euro l’ora. La cifra che versa per 60 minuti di lavoro, ad una sua preziosa collaboratrice o, come l’ha definita la Schlein, un «armocromista» (ammettiamo l’ignoranza di aver conosciuto un termine mai sentito prima d’ora e ci scusiamo se abbiamo passato la nostra vita senza averne uno tutto nostro). Seguono poi foto in posa, abbigliamento curato e tutto quello che serve per un servizio patinato. Giusto? Sbagliato? Non sta a noi dirlo, anzi. Se per il segretario era giusto presentarsi sulle pagine di una rivista di moda ha di sicuro ragione lei. Sta di fatto però che la distanza dal paese reale, e soprattutto dal popolo della sinistra, aumenta ogni giorno che passa anche con operazioni come questa. C’era una volta il comunista, l’operaio, la periferia, le lotte sindacali, gli scioperi, luoghi dove si scatenava la rabbia popolare, dove si chiedeva dignità e parità economica e sociale arrivando persino alla follia della lotta armata. C’era una volta il comunista e la sinistra che stava non dalla parte ma in mezzo ai più deboli. Oggi ci sono i radical-chic, con la casa nel centro delle grandi città, ci sono i comunisti col Rolex, come canta Fedez, passati dal pensiero guida di Karl Marx a quello di Chiara Ferragni. Questo è adesso il comunismo in Italia. Quanta nostalgia di Peppone, delle Feste dell’Unità con le orchestre di liscio. Da domani tutti a scuola di armocromia e per il menù, basta salamelle, meglio un hamburger di seitan.

Elly Schlein, sotto l'ideologia niente. Federico Novella su Panorama il 21 Aprile 2023

 La prima conferenza stampa del nuovo segretario Pd ha ricordato frasi simili alle famose "supercazzole“ di Tognazzi o le "interviste impossibili" del Trap a Mai dire Gol

Anche qualche sostenitore, a mezza bocca, lo ammette. La prima conferenza stampa del segretario Pd Elly Schlein è definibile con una parola soltanto: “Incomprensibile”. Voli pindarici, interminabili labirinti di parole, arzigogoli verbali che tornavano al punto di partenza senza dire nulla. Insomma, è la Schlein ma sembra Cirino Pomicino. Per gli amanti della commedia all’italiana e di “Amici Miei”, un livello superiore di “supercazzola” due punto zero. Prendiamo l’annosa questione del termovalorizzatore di Roma, un tema che sta dividendo il partito tra realisti e turboambientalisti. Schlein l’ha affrontata così: “Ci piace portare il Pd verso un futuro che, anche grazie alle nuove norme europee, sempre di più investa e costruisca dei cicli positivi, diciamo, della circolarità uscendo dal modello lineare”. E comunque “parlerò con gli amministratori”. Tutto chiaro?

Mi dispiace per quella sparuta frangia di elettori del PD che vota quel partito senza tornaconti personali, di estrazione cattolica, che si è vista catapultare in questo circo Barnum delle banalità. Amici, la vostra segretaria non sa niente, ma proprio niente di niente. #Schlein Guarda su Twitter 9:58 AM · 20 apr 2023 898 Rispondi Condividi Leggi 370 risposte Altro capitolo spinoso: la guerra in Ucraina. Putin va fermato? “Ho ribadito appoggio all’ambasciatore ucraino”, però sulle spese militari “sono perplessa”, in quanto che “sono più favorevole a politiche di difesa europea”. Chi? Come? Quando?, si chiedono sbigottiti i giornalisti in platea. Si va avanti così, con un certo affanno nel respiro, lenzuolate di nulla interrotte dalla mescita dell’acqua da borraccia rigorosamente biodegradabile. Sulla maternità surrogata, che ne pensa? “Sono favorevole, però ascolto chi è contrario”. Abbattono l’orso Jj4, che ne pensa? “Sono molto attenta al benessere del mondo animale”, dice. Però, aggiunge, “saranno le autorità a decidere, e comunque non ho letto la sentenza del tar”. L’uditorio resta basito, e sotto sotto si chiede: “Ma cosa ha detto?”. Se questo è il debutto di fronte alla stampa della nuova segreteria “che non le manda a dire”, c’è poco da fare: non ha detto assolutamente nulla. Oltre a qualche problemino organizzativo, si intravede l’incubo della realtà che presenta il conto oltre agli slogan. E la realtà è quella di un partito in cui le correnti sono tutt’altro che morte: anzi, già costringono la neo-segretaria ad equilibrismi verbali non degni di una rivoluzionaria radicale, ma piuttosto di un oscuro notabile democristiano. O meglio ancora, consoni al Veltroni della fondazione del Pd, quello che nell’interpretazione di Crozza fondava la sua filosofia sul “ma anche”: «Stiamo con le donne che sgobbano ma anche con i mariti che le sfruttano, cerchiamo la serenità ma anche la disperazione, siamo con i lavoratori sfruttati ma anche con i padroni che li sfruttano, questa è un’idea nuova ma anche vecchia, potete applaudire ma anche no».

Il "fantastico" mondo patinato di Elly Schlein. La consulente d'immagine e la raccolta differenziata, il pantheon e la PlayStation: la Schlein si racconta a Vogue in una intervista a 360°. Peccato non parli dei veri problemi del Paese. Andrea Indini il 27 Aprile 2023 su Il Giornale.

Il particolare più spassoso di tutta la lunga intervista a Vogue è sicuramente che la compagna Elly Schlein ha un'armocromista tutta sua. Le consiglia quali vestiti e soprattutto quali colori indossare. Per chi non lo sapesse (io non lo sapevo) l'armocromista è una consulente d'immagine che aiuta ad avere il look perfetto scegliendo il pantone perfetto in base alla "stagione". Pazzesco, no? La consigliera del primo segretario donna del Partito democratico si chiama Enrica Chicchio e, in un'altra intervista (a Repubblica questa volta), racconta di prendere dai 140 ai 300 euro l'ora per dispensare consigli di moda. "Elly non ha un look da centro sociale", svela. "Abbiamo sostituito l'eskimo con un trench di taglio sartoriale. Ma sarebbe controproducente snaturarla nel look rispetto a quello a cui siamo abituati". Dal cachemire di Fausto Bertinotti al trench di taglio sartoriale, il salto nel nuovo millennio è fatto. Ecco la sinistra 4.0.

Ma torniamo all'intervista. Qui dispensa pillole di vita, aforismi che nemmeno i libri autoaiuto o i biscotti della fortuna. Innanzitutto l'ingrediente fondamentale: "Essere molto convinti di quello che si dice". Senza essere tuttologi, mi raccomando. "Occorre farlo mettendosi anche nei panni di chi non la pensa come te", spiega Elly (possiamo chiamarla così?). "Bisogna spiegare le proprie ragioni non con le proprie parole, ma partendo da un punto di vista diverso da quello personale". Tutto chiaro, no? Andiamo avanti. Ecco altre chicche da Bacio Perugina: "Non c'è un 'noi' e un 'loro'", "Dobbiamo rendere comprensibile la complessità" e "Bisogna accettare che possiamo perdere. Se non si sa perdere, non si può vincere". Ma la più bella di tutte è probabilmente questa: "È la non-solitudine che ti dà speranza e fiducia, è il condividere un’idea che ti aiuta a trasmetterla". Pausa di riflessione: riflettete e interiorizzate.

Ora possiamo andare avanti.

L'intervista, corredata da un interessante book fotografico, è un compendio delle giornate patinate dell'ex sardina. Si parla anche di politica, per carità, ma volete mettere quanto è più cool la vita della leader con lei che ci racconta quanto faccia fatica a "rimanere sempre in contatto" con se stessa? Dopo tutto è una persona come tutte le altre. E come capita a tutti il lavoro ("il crescente impegno politico" nel suo caso) l'ha obbligata a molte rinunce. "Per una come me che all'università, a Bologna, usciva praticamente tutte le sere - spiega - ora questa parte è molto ridotta, cerco di difendere gli spazi di vita personale ma non è facile". Per carità c'è chi se la passa peggio, magari senza uno straccio di impiego o a tribolare con la rata del mutuo sempre più cara e la spesa al supermercato che ormai costa un occhio della testa. Ma questo è un altro discorso. Ed è poco glamour farlo su Vogue. Meglio parlare di diritti. Quelli degli omosessuali, per esempio. "Love is love", è il matra di Elly che torna a chiedere una legge contro l'odio e la discriminazione (un ddl Zan bis) e diritti per i figli delle coppie arcobaleno. E poi la raccolta differenziata. Una preghiera: fate la raccolta differenziata, per amore di Elly. Riducete l'uso della plastica, sostenete l'economia circolare e, se potete, andate a vivere in comunità energetiche. Lì potrete autoprodurvi "energia pulita e rinnovabile" e poi condividerla e scambiarla.

Ha tante passioni, Elly. Intanto la sera gioca con la PlayStation e guarda serie tv. Niente polpettoni radical chic. Le piacciono quelle di culto tipo Stranger Things. E poi il cinema. Kim ki Duk e Tarantino, Ken Loach e i classici del cinema italiano. Infine la musica, quella indie tipo i Mumford & Sons e i Radiohead. Tutto molto cool, tutto molto commerciale. Come il pantheon a cui si ispira. Alexandria Ocasio-Cortez in cima alla lista, ça va sans dire. E, ovviamente, Greta Thumberg. Tutte donne, ovvio. Veri esempi di leadership femminista. Mica come quell'altra, Giorgia Meloni. "Non ci serve una premier donna se non si batte per migliorare le condizioni delle altre donne". Lei premier, invece, sarebbe tutta un'altra storia. Ma sorvoliamo. Il dietro le quinte, il pubblico vuole il dietro le quinte. Ed eccovi un'altra chicca: non usa la macchina, Elly. Non ce l'ha proprio, in barba agli italiani che tutte le mattine si devono ficcare dentro a quelle bare di metallo per andare al lavoro. Lei si muove in bici. O meglio, si muoveva. Poi gliene hanno rubate un paio in poco tempo ed è rimasta "traumatizzata". Traumatizzata, già. Ora viaggia in treno. Ma le due ruote (senza motore) restano il primo amore. Tanto che per l'Italia sogna "un turismo sostenibile, un turismo lento": il cicloturismo.

Col maggio alle porte la Schlein ci tiene proprio a porre l'accento su un tema a lei molto caro. "È un mese di rivendicazione - racconta - lo celebro andando alle manifestazioni nelle città". Non parla certo del Primo maggio e della Festa del lavoro (per carità, ormai è démodé) ma del Gay Pride. Di lavoro, di inflazione e, più in generale, dei veri problemi che affliggono gli italiani parlerà (forse) nella prossima intervista. Non c'è fretta. Non sono poi così importanti.

Estratto dell’articolo di Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 20 aprile 2023.

Nella prima conferenza stampa da segretaria del Pd, Elly Schlein si è ben guardata dal dire quello che pensa, cioè che è contraria a mandare armi all’Ucraina, a costruire un termovalorizzatore a Roma, a vietare la gestazione per altri e a sopprimere l’orsa del Trentino. 

Ha invece affermato che «bisogna sostenere il popolo ucraino senza aumentare la spesa militare» (tradotto: nessun addio alle armi, scusate), che sul termovalorizzatore ha «ereditato una scelta già fatta» (non voteremo coi Cinquestelle, ma restiamo amici), che è «personalmente favorevole alla gestazione per altri, ma disponibile al confronto» (non se ne fa niente, almeno per ora) […].

Sarebbe facile inchiodarla alla sua incoerenza […]. La verità è che la politica non è un mestiere per opinionisti ma per mediatori […]. E qui si misura la nostra incoerenza di elettori, che da un lato vorremmo politici con convinzioni nette e immutabili, ma dall’altro diffidiamo di quelli talmente innamorati delle loro idee da non tener conto di tutti gli interessi in gioco. […] Facciamocene una ragione: anche il professor Orsini, se diventasse ministro della Difesa, uscirebbe da un vertice Nato sottobraccio a Biden .

 Estratto dell’articolo di Francesco Curridori per “il Giornale” il 20 aprile 2023.

«Abbiamo bisogno di politiche lungimiranti che non causino irregolarità». Elly Schlein torna in pista dopo giorni di silenzio per attaccare il governo Meloni sul tema dell’immigrazione, proprio mentre in Senato si discute il decreto Cutro. 

«Dobbiamo lavorare per tutelare chi arriva in modo legale in questo paese, ma la strada non è lasciare i richiedenti asilo per strada», dice la Schlein nel corso della conferenza stampa di presentazione della sua segreteria, assicurando i presenti che il Pd continuerà a battersi contro l’abolizione della protezione speciale e a «spingere sull’accoglienza diffusa». «Questo decreto cerca di portare l’Ungheria in Italia», tuona la neosegretaria del Pd che, ancora una volta, non va oltre gli slogan.

Basta consultare la mozione che la deputata dem ha depositato quando si è presentata alle primarie del Pd per rendersi conto che non esiste una reale proposta di gestione dei migranti alternativa al centrodestra. C’è la proposta di approvare una legge sullo Ius soli e la volontà di opporsi «alla politica disumana e illegale di chiusura dei porti, ai blocchi navali e agli accordi con paesi terzi come la Libia per respingere illegalmente le persone verso paesi in cui sono sistematicamente violati i diritti umani». 

Per la Schlein vale il principio secondo cui «chi è in pericolo va sempre soccorso e salvato», ma non è dato sapere chi se ne debba occupare dopo. Secondo la segretaria promuovere il modello di accoglienza diffusa è «l’unico […] in grado di garantire piccole soluzioni abitative diffuse nei territori con servizi di inserimento sociale, coinvolgimento dei comuni e delle comunità, trasparenza sui fondi».

Ma il modello dell’accoglienza diffusa è il modello Riace del sindaco Mimmo Lucano, condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di reclusione per i reati di truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. Insomma, non esattamente il modello ideale da riproporre in questo momento storico. […] Quel che colpisce nel «modello Schlein» è, infatti, la totale assenza di cifre. […]

Elly Schlein è democristiana e parla come Draghi. Prima conferenza stampa della neo segretaria del Pd. Due ore, domande su qualsiasi cosa. Il punto di fuoco è il Pnrr: «Occasione da non perdere, vigiliamo e collaboriamo». Poi il lavoro, i migranti, la gestazione per altri e il nì sul termovalorizzatore. E quarantacinque parole per dire che De Luca il terzo mandato se lo può scordare. Susanna Turco su L'Espresso il 19 Aprile 2023

Sorpresa: Elly Schlein è democristiana. La novità, invero già nota presso i cronisti emiliano-romagnoli che l’ebbero a seguire in Regione, coglie l’auditorio folto della prima conferenza stampa della neosegretaria al terzo piano della sede del Pd come un fulmine, una illuminazione.

Elly Schlein sa essere democristiana e parla come Mario Draghi, anzitutto di Pnrr. Addirittura, in almeno due casi, utilizza la medesima locuzione con la quale il banchiere europeo, da presidente del Consiglio, apostrofava nella sala stampa di Palazzo Chigi i cronisti che gli avevano fatto una domanda ma nel frattempo avevano cambiato di posto: «Dov’è?». Roba da far venire i lucciconi agli occhi a tutti i nostalgici del supertecnico, e non sono pochi

Elly Schlein parla come Mario Draghi ed ha un linguaggio tecnico per il quale a volte non basta aver preso una laurea.

E in questo è a suo modo un’anti-Meloni, pur a sua volta preparata, ma decisamente meno complessa nell’eloquio. Per dire che Vincenzo De Luca si può scordare il terzo mandato impiega circa 45 parole prima di arrivare a: «Il mio orientamento è piuttosto sfavorevole».

Per dire che sul termovalorizzatore di Roma valgono le decisioni già prese ma poi il futuro andrà da un’altra parte (quindi sì a Gualtieri, no ai termovalorizzatori in generale) con tanti saluti ai Cinque stelle che infatti subito l’attaccano, enumera in sintesi i tecnicismi del «percorso circolare dei rifiuti», che va sostituito a quello «lineare», occupandosi delle «materie prime ma anche delle materie seconde». Le materie seconde cosa sono? Nella terza fila dei cronisti qualcuno ha un mancamento. «Vabbè, Letizia, io devo fare un collegamento, ho trenta secondi, che ha detto? Il titolo quale è?».

Bisognerà forse anche occuparsi di una qualche semplificazione del messaggio, per il momento vale che la segretaria ha risposto per quasi due ore alle domande dei cronisti. Qualsiasi domanda: cosa pensa dell’abbattimento dell’orsa («sono sensibile al benessere animale, ma non ho approfondito la sospensiva del Tar»), preferisce Renzi o Calenda, quale è la strategia sul Pnrr, sì o no alla gestazione per altri («sono favorevole ma mi confronterò con i femminismi plurali»), quali alleanze per il futuro, per sei volte questioni sul termovalorizzatore di Roma, un sostanziale no all’aumento delle spese militare («ho una maggiore perplessità rispetto alla posizione di Orlando»).

Più un agevole manuale su cosa non va nella politica dell’immigrazione di Giorgia Meloni («invece di gestire il problema si crea un’emergenza e ci si candida poi a risolverlo»). Alla fine è soprattutto chiaro il metodo («no alla donna sola al comando, siamo una squadra») che snocciola un’idea di opposizione poco italiana: schierare temi e argomenti, non puntare a far cadere il governo.

La prima segreteria si terrà a Riano romano, dove nell’agosto del 1924 ritrovato il corpo di Matteotti. Il segno di un augurio di buon 25 aprile per Giorgia Meloni.

La linea che non c’è. Schlein ha una risposta precisina per ogni cosa, ma di idee forti ancora non se ne vedono. Mario Lavia su L'Inkiesta il 20 Aprile 2023 

La segretaria del Pd, come tutto il partito, dimostra di avere un insieme di posizioni. Quel che manca, però, è una visione per il Paese (e come vorrebbe realizzarla)

Malgrado la nuova bipolarizzazione del sistema politico, che si deve anche grazie al suicidio del Terzo Polo, si fa ancora fatica a individuare con chiarezza un vero match tra Giorgia Meloni e Elly Schlein: forse lo vedremo alle Europee 2024, l’appuntamento della vita per l’una e per l’altra (anche se la premier non si candiderà personalmente, è probabile che la segreteria del Partito democratico invece lo farà).

Per il momento si assiste a un governo che fa pochino, ma ne dice di tutti i colori, e un’opposizione sin qui afona e addirittura litigarella al proprio interno. Pressata da più parti perché dicesse qualcosa, Schlein ha ritrovato la voce e ieri ha tenuto la sua prima conferenza stampa al Nazareno per spiegare che il suo partito è ben in campo su tutte le questioni importanti. Ma il punto che forse i giovani dirigenti non hanno nelle proprie corde è proprio questo, che non si tratta solo di avere un insieme di posizioni, come si dice adesso, «sui temi», perché in teoria un grande partito dovrebbe avere una linea generale, una strategia delle alleanze politiche e sociali, un’idea di Paese, un progetto a lungo termine o almeno a medio termine.

Insomma, per esser chiari, e indipendentemente dal giudizio che si può dare di ciascun passaggio, Romano Prodi aveva l’Ulivo, Massimo D’Alema la grande riforma costituzionale, Walter Veltroni la ricomposizione dei riformismi in un solo partito, Pier Luigi Bersani l’uscita dal berlusconismo a sinistra, Matteo Renzi la modernizzazione liberale del Paese, persino Nicola Zingaretti aveva una linea politica, per quanto sgangherata – l’amalgama con i grillini.

Quale sia invece l’idea forte di Elly Schlein non è ancora chiaro. Ha più o meno una risposta su ogni singola questione (ieri le hanno persino chiesto dell’orsa Jj4, il che segnala un’idea della politica ormai molto televisiva da parte dei giornalisti, ma questo è un altro discorso), ha saputo dribblare i punti più controversi, ha voluto dare un’immagine più responsabile con una disponibilità a un tavolo sul Pnrr, meno movimentista di quella che si è costruita sin qui, e anche più “democratica” dal punto di vista interno, respingendo l’idea della donna sola al comando. Ma l’impressione è che, al contrario di Mr. Wolf, Elly più che risolvere i problemi li eviti.

Come sul termovalorizzatore di Roma, una «scelta già presa» dal sindaco dem Roberto Gualtieri che non è il caso di rimettere in discussione seppure obtorto collo: un bel dribblare i problemi. Ma la “linea”, ecco, quella non c’è.

Dinanzi ai numeri parlamentari d’altronde c’è poco da fare. Perché è vero che nella maggioranza si litiga su tutto ma nei voti non ci si divide mai, e questo è frustrante; così come è vero che i partner dell’opposizione fanno a gara a dare fastidio, ma anche qui Schlein ha scartato Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni – due che non perdono occasione di fare i più puri della situazione – un po’ alla Roberto Baggio dei bei tempi: quelli hanno presentato ordini del giorno contro il termovalorizzatore di Roma e la numero uno del Nazareno non ha avuto difficoltà a dire che il Partito democratico voterà contro. D’altronde era un trucchetto da quattro soldi, da quando in qua questioni di tale portata si affrontano con inutilissimi ordini del giorno?

Naviga dunque a vista, il Nazareno, affronta una cosa per volta come se la politica fosse un inventario di problemi, una serie di esami universitari – oggi vado a dare Ambiente, tra un mese darò Sanità e così via – ed Elly questo lo fa bene (ha anche chiamato gente esperta in segreteria) ma insomma l’Italia che ha in mente e soprattutto come ci vorrebbe arrivare ancora non si intravede.

Siamo stati due ore al Nazareno per sentire una ventina di risposte precisine, nulla da dire, e ne siamo usciti esattamente come ne eravamo entrati. La linea, noi, non l’abbiamo capita. Domani c’è la Direzione, venerdì la segreteria si riunirà a Riano, appena fuori Roma, dove il 16 agosto 1924 venne ritrovato il cadavere di Giacomo Matteotti. Il senso è fin troppo chiaro.

Che partito è il Pd? Ecco la segreteria Schlein: canne, battaglie arcobaleno e amore per l'Urss. Edoardo Romagnoli su Il Tempo l’08 aprile 2023

Doveva essere una segreteria unitaria, ma alla fine Elly Schlein ha concesso a Bonaccini pochi posti destinati alla «minoranza» prendendosi tutto il resto. Non è un caso se già due giorni fa dalla corrente di Base Riformista, guidata dall’ex ministro Lorenzo Guerini, alcuni hanno espresso malumori. L’accusa a Bonaccini è che: «Ha giocato una partita per sè» non riuscendo a capitalizzare il peso che aveva nel partito. Critico anche Cuperlo: «Elly aveva parlato di unità e pluralismo, ma in realtà non si è voluta riconoscere la ricchezza delle differenze espresse dagli iscritti nel congresso dei circoli».

Sono 20 componenti: 10 uomini e 10 donne. Chi sono i nomi? Alessandro Alfieri si occuperà di riforme e Pnrr, Davide Baruffi di enti locali, Marta Bonafoni sarà la coordinatrice della segreteria, terzo settore e associazionismo mentre Stefania Bonaldi avrà la delega alla pubblica amministrazione e alle professioni e innovazioni. Di conversione ecologica, clima e green economy e agenda 2030 si occuperà Annalisa Corrado, Alfredo D’Attorre avrà la delega all’università, Marco Furfaro sarà il responsabile delle iniziative politiche dei dem, ma tratterà anche di welfare e contrasto alle diseguaglianze. Maria Cecilia Guerra sarà le responsabile delle politiche del lavoro, Camilla Laureti di politiche agricole e alimentari, di partecipazione e formazione politica si occuperà Marwa Mahmoud mentre Pierfrancesco Majorino avrà la delega delle politiche migratorie e diritto alla casa. Irene Manzi alla scuola, istruzione, infanzia e povertà educativa, invece Antonio Misiani all’economia, finanze, imprese e infrastrutture, Giuseppe Provenzano agli esteri, europa e cooperazione internazionale. Vincenzo Rando avrà la delega al contrasto alle mafie, legalità e trasparenza, Sandro Ruotolo si occuperà di informazione, cultura e memoria, Marina Sereni di diritto alla salute e sanità, mentre Debora Serracchiani sarà la titolare della giustizia.

A chiudere Igor Taruffi all’organizzazione del partito e Alessandro Zan di diritti. Scorrendo i nomi si può già avere un’idea sul Pd che sarà: un partito che si riassesta a sinistra e che avrà nella legalizzazione, nei diritti Lgbtq+ e nello ius soli le sue parole d’ordine. Su Alessandro Zan Schlein è stata chiara: «Ai diritti per frenare Meloni».

L’ideatore del disegno di legge che portava il suo cognome e che prevede l'inasprimento delle pene contro i crimini e le discriminazioni contro gli omosessuali si occuperà di diritti civili. Marwa Mahmoud, consigliera comunale di Reggio Emilia, è un’attivista per lo ius soli e in passato fu al centro di una polemica per aver votato contro una proposta della Lega di rimuovere una via dedicata al dittatore jugoslavo Tito.

Da evidenziare anche il nome di Marco Sarracino, deputato campano, anche lui al centro di una polemica per un post su Instagram del 7 novembre 2019 in cui inneggiava alla Rivoluzione d’ottobre con tanto di foto di Lenin e dell’Armata rossa. Poi il fedelissimo Marco Furfaro che, insieme a Schlein, è un grande sostenitore dell’autocoltivazione della cannabis. Se vale qualcosa il motto che recita: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei», possiamo già immaginare quali saranno le priorità del nuovo Pd. 

Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per Il Foglio il 27 marzo 2023.

(…) Su, lo racconti senatore (ci stiamo rivolgendo a un senatore del Pd). “Elly è capricciosa”. Coraggio, ancora. “Anonimo, eh!”. Si fidi senatore, vada! “Abbiamo paura di lei”. A questo punto lo dica per intero. “Lo dico: Elly è cattivella. E’ Elly Queen I”.

 (…)

  Il problema è serio. In Transatlantico tutti sanno che Elly ha i suoi “favoriti/e”. Uno è Marco Furfaro, probabile vicesegretario, venerato come fosse  Gian Carlo Pajetta. Prima delle primarie ragionava della raccolta differenziata di Centocelle, oggi, giustamente, preferisce “soppesare le parole” perché “il momento è delicato”. Ecco, “il momento è delicato”, tanto più dopo la sfuriata che “Elly Queen I” avrebbe avuto con Ciccio Boccia. Il senatore fonte aggiunge: “Elly, mi dicono sia collerica”. Dato che con i parlamentari del Pd Elly non parla, ai parlamentari del Pd non resta che osservare e  studiare Elly come fosse la farfalla rara “Papilio palinurus”. Una militante di partito a cui raccontiamo il pezzo: “Sciagurati!  Accostata alla farfalla... Questo è chiaramente un rigurgito di maschilismo. Anche la parola queen. Volete  fare spirito perché i Queen…”. Sembra di stare dentro un’osteria all’ orario di chiusura. E’ la verità. Nel partito di Elly se sbagliate metafora vi tagliano la testa.

(…)

Tra i pochi che hanno la forza di telefonarle c’è Angelo Bonelli, il leader dei Verdi, che ha portato i sassi dell’Adige in Aula. Bonelli ha un’interlocuzione (così si dice)  con Schlein, ma è troppo impegnato a battere sui tasti. Sul divanetto del Transatlantico sembra  Indro Montanelli con la sua Lettera 22: “Sto scrivendo un articolo. Se parlo con Elly? Certo, io so quando chiamarla. Scelgo i momenti giusti”.

 (…)

Anche Pier Ferdinando Casini se ne guarda bene: “Devo fare 500 km. Vado a raccontare chi era Gerardo Bianco”. Il momento si è fatto perfino più delicato da quando la sardina Jasmine Cristallo, voluta da Schlein in direzione, va ospite a “Otto e mezzo”, in quota Pd, ma solo perché, confida il senatore impavido, “è amica di Travaglio che, se noti, attacca Schlein ma difende Cristallo”. Ovviamente c’è l’amministrazione del regno Pd. A Rai 3, la destra sta per scippare alla sinistra il programma Agorà ma Schlein  fa un po’ Maria Antonietta: “E dategli le brioche. Non lo sapete che il futuro è il web?”.

(…)

 Estratto dell'articolo di Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 27 marzo 2023.

 Elly Schlein «rottama» i cacicchi ma si riprende nel Pd i «dinosauri» dal vecchio Pci. Si riaffacciano al fianco della segretaria gli intellettuali rossi, molti dei quali hanno spadroneggiato a Napoli e in Campania negli anni di Antonio Bassolino.

 Dalla città partenopea, ecco che puntuale arriva l’appello dal mondo della cultura per la nuova «eroina» della sinistra.

 Un copione già visto con gli ex leader del Pd Zingaretti, Renzi e Letta. È la mossa per ritornare in pista. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca li ha pensionati, tenendoli fuori dalla gestione del potere in Campania. Ora si riaccende la luce della speranza con Schlein. Spulciando i nomi nulla di nuovo sotto il sole di Napoli. Sono i soliti.

(...)

Intanto resta sul tavolo il nodo dei capigruppo. Non c’è ancora l’intesa. La segretaria tenta il blitz. Oggi all’assemblea dei gruppi riproporrà i nomi di Chiara Braga e di Francesco Boccia come capigruppo, rispettivamente, di Camera e Senato. Nell’incontro di venerdì il presidente Stefano Bonaccini aveva detto ai suoi di attendere una «proposta» dalla segretaria in vista del voto dei capigruppo previsto per martedì.

 E solo dopo l’elezione dei capigruppo, si assicura, si penserà alla composizione della segreteria. Si tratterebbe però - fanno sapere dall’entourage di Bonaccini – «di una fuga in avanti». Non c’è alcun accordo sulla scelta dei capigruppo. La trattativa sarebbe ancora in corso, ieri ci sarebbe stata una telefonata Schlein-Bonaccini per sbloccare lo stallo. Ma non si esclude la conta con l’ala vicina al governatore dell’Emilia-Romagna, pronto a calare i propri candidati. L’opzione è di puntare su Simona Bonafè alla Camera per far saltare i piani di Schlein.

Paolo Cirino Pomicino per Dagospia il 27 marzo 2023.

Che disastro questo nostro sistema politico. La novità di Elly Schlein, il nuovo segretario del PD, è vecchia quanto il mondo. La prima cosa, infatti, è l’abolizione della democrazia nei gruppi parlamentari.

 Io sono cresciuto in un mondo in cui i parlamentari sceglievano con il proprio voto il capogruppo. Alla stessa maniera i presidenti di commissione venivano votati dai membri della stessa commissione del partito cui era stata affidato la presidenza.

Insomma, i parlamentari venivano votati e nella vita parlamentare continuavano a votare. Il partito garantiva l’autonomia dei gruppi e se per caso il segretario di turno indicava un nome quel nome veniva battuto dal voto.

 Il caso di Gerardo Bianco fu il più clamoroso perché non era questa la scelta del partito. Alla stessa maniera nel 1983 in commissione bilancio i candidati alla presidenza eravamo io e Andreatta candidato di de Mita. E naturalmente vinsi io la battaglia.

Cari amici del PD avete preso solo i vizi del vecchio PCI non avendo né la cultura e men che meno la capacità politica. Spiace davvero dirlo, ma chi ha conosciuto la democrazia parlamentare si vergogna del costume democratico di oggi in cui impera il partito personale e i vari cerchi magici che saranno pure cerchi ma di magico non hanno proprio nulla. Schelein rinnovi questo costume, diversamente nulla cambierà e tutto peggiorerà.

Correnti e serpenti. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 25 Marzo 2023

È una Elly Schlein a due facce quella che segna sul calendario il suo primo mese da segretaria del Pd. Agli occhi dei tanti c’è una Schlein alla ribalta, che tocca le piazze italiane tra manifestazioni e cortei, palchi e platee prendendo applausi e recuperando consensi tra gli elettori. Ma anche una Schlein che sfila con gli omologhi europei tra i palazzi delle istituzioni comunitarie, stringendo molte mani e spesso accordi – o meglio, promesse – per far risentire la presenza del Partito Democratico con i colleghi. E c’è la Schlein che con l’armatura di guerra recuperata qualche settimana fa dalle soffitte del Nazareno si appresta, appena le è possibile, a fare la guerra in Parlamento a tutta la maggioranza, ma soprattutto alla premier Giorgia Meloni. Un duello che funziona e che è apprezzato da chi la politica la racconta, ma anche dagli elettori, che sembrerebbero essere tornati a fare capolino dalle parti della sinistra. I sondaggi parlano sì di una Meloni (anzi, di Fratelli d’Italia) che mantiene saldamente il 30%, ma soprattutto di una Schlein (anzi, di un Pd) che recupera punti collocandosi – seppur dieci punti indietro – al secondo posto. È vero che le intenzioni di voto, non significano sempre una vera preferenza nella realtà, ma almeno al momento il Nazareno possono tirare un sospiro di sollievo. Ma solo se si parla di numeri. Perché l’altra faccia della medaglia ci racconta una storia un po’ diversa.

L’ALTRA FACCIA

La faccia che Schlein ci ha mostrato in Parlamento, a Bruxelles, a Rimini, a Milano e a Firenze è quella sicura, quella di ripartenza del Pd, quella di entusiasmo e di ritorno a sinistra. Ma come in una trasposizione de Il Ritratto di Dorian Gray, dentro al Nazareno si nasconde il quadro con la vera faccia – o almeno quella che rappresenta la reale situazione del partito. Non riescono più a nascondersi dietro i sorrisi i malumori legati alla nuova divisione delle poltrone che si allontanano dal gruppo degli sconfitti. A Elly Schlein, dopo la luna di miele post primarie, che l’ha vista andare di fiore in fiore a raccogliere consensi, le aspetta un fine settimana di fuoco tra proposte e accordi con i colleghi, per fare il passo decisivo verso la scelta dei nuovi capigruppo alla Camera e al Senato scelti tra i suoi fedelissimi – Francesco Boccia e Chiara Braga – non accettati dall’ala riformista. Chiaro che, alcune poltrone, come la vicepresidenza, andranno verso il gruppo di minoranza, ma nonostante i tentativi di equilibrismo, c’è maretta. La dirigenza è cambiata, ma è il solito Pd: gli sforzi di Schlein di prendere nuova posizione su tematiche peculiari – vedi diritti civili, lavoro, alleanze – a nulla possono contro i capisaldi dei dem, un ginepraio da cui è difficile uscire e su cui è difficile mantenere il controllo. Lo ha dimostrato, per ultimo, il voto positivo all’invio di armi in Ucraina, la nuova segretaria non ha tentato la staccata, anzi, ha dimostrato di poter fare ben poco. Eppure, anche quando una posizione riesce a prenderla, non sempre i capi bastone del Pd sembrano sostenerla.

UN BONACCINI NELL’ARMADIO

Difficile per Elly Schlein remare contro vento, difficile gestire un partito frammentato e ancora ricco di franchi tiratori. E così, i toni trionfalistici della nomina di presidente di Stefano Bonaccini, si trasformano in sussurri. Oggi, lo sconfitto delle primarie ha convocato una riunione con i parlamentari che lo hanno sostenuto in campagna elettorale – tra cui le “uscenti” Serracchiani e Malpezzi – per fare il punto della situazione in vista della riunione dei gruppi fissata per lunedì pomeriggio. Non sembra essere stata gradita “l’autogestione” di Schlein sulla scelta dei capogruppo, ma Bonaccini rimane presidente di garanzia del partito e, nonostante “l’accordo lontano” tra le parti, deve cercare di evitare lo strappo interno. Bonaccini e Schlein hanno promesso una “gestione unitaria” e per ora questa non sembrerebbe essere rispettata. Eppure, se in molti sembrano chiedere al governatore dell’Emilia-Romagna di erigersi a capo dell’opposizione interna, lui rimane fermo alla promessa fatta all’assemblea di due settimane fa quando la neosegretaria lo ha nominato presidente. E così il “secondo” di Schlein dovrà provare a dare una botta al cerchio e una alla botte: tenere le redini di un partito – su cui Schlein sembra avere poca presa – e tenere a bada gli esponenti della base riformista ed ex renziani che sembrano gradire sempre di meno la piega presa dal nuovo Partito Democratico.

Like a Rolling Schlein. L’impantanata segreteria del Pd e la solita sceneggiata sulle correnti. Mario Lavia su L’Inkiesta il 27 Marzo 2023.

Dopo qualche settimana di pace è iniziata la classica guerra sotterranea, mentre l'idea estemporanea di creare un governo ombra sembra più un palliativo per distribuire più cariche che una soluzione politica

C’è una sfasatura evidente, proprio una contraddizione aristotelica, tra le caratteristiche politiche e personali di Elly Schlein e le abitudini appiccicose e di potere dei gruppi dirigenti del Pd. Lo stiamo vedendo in questi giorni. Mentre lei corre di qua e di là a sostenere varie battaglie di piazza e/o sui diritti civili, si sbraccia sul tema dell’immigrazione con una linea aperturista molto diversa da quella delle passate stagioni, sposa cause libertarie magari minoritarie, i Dirigenti-del-Partito si agitano alla ricerca di un posto al sole nella nuova stagione. 

Lo stridore è come quello di una pietra che rotoli senza che si sappia bene dove andrà a fermarsi: la contraddizione sarà gestibile o l’ancien régime minerà la rivoluzione? È molto probabile che Schlein non sia a proprio agio in queste polemiche e trattative interne, e anche gli sconfitti di Stefano Bonaccini un po’ di confusione ce la stanno mettendo anche loro. 

La minoranza si è subito rotta soprattutto a causa dei classici salti della quaglia in cui eccellono vari personaggi che sono stati renziani, lettiani, franceschiniani, di sinistra, bonacciniani e oggi schleiniani, ma è un riflesso scontato, certi casi (pochi) sono in buonafede, altri rappresentano la solita triste corsa sul carro del vincitore. 

Ora il mix tra la rinuncia di Bonaccini a fare il capo della minoranza (poiché sta trattando su una segreteria unitaria) e la transumanza di alcuni sconfitti – lettiani soprattutto – che senza sprezzo del ridicolo si fanno chiamare “ulivisti” verso la nuova segretaria produce un effetto pantano che è piuttosto in contraddizione, come detto, con il nuovo corso schleiniano, imperniato sulla radicalità e il carisma personale. 

Oggi ci sarà la riunione congiunta dei gruppi parlamentari con la nuova leader, poi martedì i due gruppi parlamentari eleggeranno Francesco Boccia al Senato e Chiara Braga alla Camera: il primo atto di forza della segretaria che forse ricompenserà i bonacciniani con qualche posto in segreteria e probabilmente dovrà farlo se non vorrà che l’elezione di B&B venga sporcata da molte schede bianche. 

In tutto questo non c’è granché di nuova politica ma vabbè. Dunque sembrerebbe che si vada verso un partito bifronte, da una parte la persistenza del potere dei cacicchi, quelli che hanno dato vita alle guerre civili di questi anni; e dall’altro quello di Elly Schlein fondato sul carisma della leader, sui suoi gesti, sul suo messaggio radicale. 

Avrà molto da fare, la segretaria, per soddisfare la fame di posti di dirigenti, mezzi dirigenti, ex sottosegretari, ex ministri, rimasti a piedi, e se dovessimo fare una previsione diremmo che nel prossimo futuro assisteremo a una moltiplicazione di cariche proprio per piazzare tutti, magari raddoppiando gli organismi: c’è davvero bisogno di un governo ombra – esperimento fallito per due volte, con Achille Occhetto nell’91 e con Walter Veltroni nel 2008 – quando basterebbe una segreteria forte e autorevole?

Se il governo ombra fallì con quei due leader perché dovrebbe funzionare oggi? Purtroppo per Schlein non servono trovate e scorciatoie: ma un’idea di Paese che parli a tutto il Paese. Che finora non si è vista.

Schlein, 168 intellettuali chi sono: l’appello per dare una mano al Pd. Libero Quotidiano il 26 marzo 2023

Ad un mese esatto dalla vittoria nelle primarie che le hanno consegnato le chiavi del Partito Democratico, non si arresta l'ondata di entusiasmo attorno alla segretaria dem Elly Schlein. A dichiararle pieno sostegno, oggi, è stato un nutrito gruppo di intellettuali, 168 per la precisione, che dalle colonne del quotidiano 'Il Mattino di Napoli' ha pubblicato un appello alla sinistra affinchè ritrovi piena coesione attorno alla figura di Schlein. L'intento è chiaro sin dal titolo della lettera aperta: "Una speranza e un'opportunità per la sinistra. Vogliamo dare una mano".

Tra i tanti a sottoscrivere l'appello ci sono scrittori, docenti, esponenti della società civile e sindacale di sinistra. Il documento, che chiama a raccolta la sinistra attorno alla neo segretaria del Partito democratico, è rivolto a quanti "sentono la necessità di una grande forza della sinistra democratica, progressista, femminista ed ecologista, ma che in questi anni l'hanno persa di vista nelle titubanze e nelle debolezze che hanno sfigurato il mondo del lavoro, i luoghi della formazione, gli stessi assetti istituzionali. Mostrando, tra le altre cose, un'ingiustificata indulgenza nei confronti del devastante progetto del regionalismo differenziato che rischia di lacerare per sempre il tessuto civile e sociale del Paese". Quindi si legge che "il successo di Schlein è stata una ventata d'aria nuova che ha restituito alla sinistra una speranza e un'opportunità che sembravano essere state cancellate dalle divisioni, dagli errori e dagli appannamenti ideali del campo progressista".

Felice di questo sostegno naturalmente Schlein: "Il nuovo corso del Pd si arricchisce ogni giorno di presenze e di testimonianze attive che fanno forza a questa comunità. Voglio per questo ringraziare tutte e tutti i 168 intellettuali che hanno sottoscritto l'appello 'Una speranza e un'opportunità per la sinistra. Vogliamo dare una mano'. Perché é esattamente questo quello che desideravamo suscitare: la condivisione, insieme, di un impegno, di una passione, di una visione comune. Solo così, tutte e tutte insieme, ce la faremo a ricostruire fiducia con le persone e dar vita a una vera alternativa a questo governo, che si batta per la giustizia sociale e climatica, per il lavoro di qualità e i diritti".

Elly Schlein, gli esordi da leader: jeans, piazza e tv (senza improvvisare). Maria Teresa Meli su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2023

Elly-pop, come qualcuno al Nazareno ha ribattezzato la segretaria, ha dimostrato sin dal suo esordio alla guida del Pd che non intendeva seguire i tradizionali binari della politica italiana. La notte della vittoria ha rilasciato una dichiarazione ai giornalisti ma non ha previsto domande. Ciò che doveva restare dell’incontro con i rappresentanti dei media doveva essere soprattutto l’iconica frase: «Anche stavolta non ci hanno visto arrivare».

E anche dopo Schlein ha evitato di tenere la classica conferenza stampa che da sempre segna il debutto dei leader dem. Meglio la piazza o le trasmissioni tv. Non quelle nazional-popolari. Piuttosto, i programmi pop quel tanto che basta. Perciò ha detto subito di sì a Fabio Fazio e ad Alessandro Cattelan. Con entrambi i conduttori ha mostrato un volto sorridente, con entrambi ha svicolato di fronte alle domande più spinose.

La Schlein di lotta si presenta in piazza con il parka e talvolta con il pugno chiuso. La Schlein televisiva arriva in blazer e camicia spesso fantasia. Punto fisso del suo abbigliamento, le sneakers bianche e i jeans, che lei porta senza cintura. Per questa ragione ogni tanto la si vede contorcersi: niente di grave, semplicemente sta rimettendo a posto la camicia che è fuoriuscita dai jeans un po’ larghini.

Qualche opinionista, ma anche più di un Pd, l’ha criticata perché non ha ancora ben spiegato quali siano i punti del suo programma, se non per generici accenni. Ma Schlein è tutt’altro che naif: lei fa politica così e addio schemi tradizionali. E poi vuole ancora prendere le misure: rispetto al suo partito, agli alleati e agli avversari.

Schlein è una che pianifica: non improvvisa. Ed è questo uno dei motivi che la spinge a eludere le domande più delicate. Va da Fazio, blazer glicine, jeans e sneaker, lui le chiede se è stato un errore rompere con i 5 Stelle e lei ribatte parlando del salario minimo che può essere una «battaglia comune di tutte le opposizioni». Fazio tenta un’altra strada: è più vicina a Conte o a Calenda? La segretaria dem replica: «Preferiamo stare vicino alla gente che non ce la fa». Fazio non si arrende: e il termovalorizzatore del sindaco pd Gualtieri? Schlein lo disarma con un: «Su argomenti come questo ci confronteremo con gli amministratori locali». Però non dice di no a una foto con i Cugini di Campagna, anche loro ospiti della trasmissione, che dopo confesseranno di non sapere chi sia Schlein.

Non è che a Cattelan sia andata meglio l’altro ieri sera. Quello che la segretaria dem voleva dire lo ha detto: è «favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere» e capisce gli attivisti di «Ultima generazione», anche se non ne condivide i metodi. Però il conduttore gli chiede anche della reazione di Nardella davanti a palazzo Vecchio imbrattato e lei sorvola. In compenso è prodiga di particolari su di sé e confessa di sentirsi ancora un’universitaria che beve le birrette sotto i portici. Nel finale non disdegna di esibirsi al pianoforte in «Imagine» di Lennon.

Poi c’è la piazza. Anzi, le piazze. Il suo primo atto da segretaria è stato quello di andare alla manifestazione antifascista di Firenze. Poi c’è stato il corteo di Milano per il riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali (Schlein ha annunciato una proposta di legge ad hoc), il Congresso della Cgil e la manifestazione di «Libera» contro le mafie. E anche se Prodi, che la leader dem stima e ammira, ha ammonito «guai alla sola piazza», Schlein non ha intenzione di disertare le manifestazioni. In compenso ieri ha disertato l’aula e l’intervento di Meloni. «È a Bruxelles per preparare la sua due giorni in quella città», spiegavano al Nazareno. E in effetti ieri sera ha cenato con i suoi eurodeputati e oggi è attesa al prevertice del Pse. Ma molti dem sono rimasti spiazzati dalla sua assenza e qualcuno malignava: «Si parlava di Ucraina, tema su cui Conte ha fatto l’ultrà pacifista e lei ha preferito non farsi coinvolgere nelle polemiche e nelle dichiarazioni».

Da repubblica.it il 21 marzo 2023.

"Sono favorevole" alla legalizzazione della cannabis. "Penso che sarebbe un buon modo di contrastare le mafie e la criminalità organizzata". A dirlo è Elly Schlein durante la registrazione della trasmissione Stasera c'è Cattelan, in onda stasera su Rai2.

 Dove la cannabis è stata legalizzata, ha osservato la segretaria del Pd, "come negli Stati Uniti e non solo, si dimostra che c'è un uso più consapevole, che non è un incentivo all'utilizzo soprattutto per la fascia preadolescenziale ed è sicuramente un modo per scalfire il crimine organizzato che gestisce il traffico di cannabis. Quindi secondo me bisogna andare su questa strada''.

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 Schlein, il Pd e l'ansia da prestazione

Parlando del suo nuovo incarico alla guida del Partito democratico, Schlein ha raccontato di avere "ansia da prestazione" per il ruolo che ricopre. "Sapevamo quello che ci aspettava, una strada in salita e abbiamo messo le scarpe comode apposta", ha ironizzato. "Sentiamo una grande responsabilità di costruire l'alternativa a chi governa dopo anni di disillusione verso la sinistra e verso il Pd - ha proseguito - La sento tutta un po' d'ansia da prestazione, ma questo ci motiva ogni giorno a cercare di rimanere con i piedi ben saldi per terra e provare a migliorare ogni giorno".

Poi ha aggiunto: "Il clima è molto cambiato, si è risvegliata la speranza". Per questo, ha concluso Schlein, "sto bene, è un periodo molto bello, intenso, sicuramente non ci siamo ancora fermati dalla notte delle primarie. C'è stata una partecipazione straordinaria - ha ricordato parlando dei gazebo e della sfida con Stefano Bonaccini - con oltre un milione di persone e non era scontato, venivamo da un periodo molto difficile dopo alcune sconfitte pesanti e si è risvegliata una speranza".

 Infine, Schlein si è seduta al pianoforte e ha suonato Imagine di John Lennon, cantata da Cattelan. La segretaria ha raccontato di aver sentito la canzone "in piazza, a Milano", alla manifestazione in occasione della giornata in memoria delle vittime di mafia.

Estratto da open.online il 21 marzo 2023.

 […]Elly Schlein ha fatto parte della nazionale parlamentari femminile, «per sensibilizzare sulle discriminazioni che le sportive professioniste ancora vivono nel mondo dello sport», ed era una vera appassionata, ma ammette che non segue «il campionato da un bel po’». Ospite di Stasera c’è Cattelan su Rai2, la 37enne deputata ha parlato del suo rapporto con il calcio e soprattutto del tradimento compiuto a un certo punto.

[…] Da Alessandro Cattelan però rivela che la sua fede calcistica, all’inizio, era un’altra. «Ho tifato da piccola il Milan, poi Juventus», dice al conduttore, che le chiede come si possa cambiare squadra, «quando ho capito di chi era», ironizza Schlein, riferendosi all’ex presidente del Milan Silvio Berlusconi. «Ora simpatizzo per il Bologna, tifo la Nazionale soprattutto», aggiunge la segretaria dem, «giocavo a calcio prima ma ora sono un po’ anchilosata».

 Anticipazione da "Diva e Donna" il 21 marzo 2023.

Il volto dell’amica del cuore di Elly Schlein: questa è la grande esclusiva del nuovo numero di Diva e Donna (Cairo Editore), in edicola domani. Nelle foto pubblicate dal settimanale, scattate tra Livorno e Firenze, la leader dell’opposizione è in compagnia di una donna ma fa di tutto per evitare di farsi vedere in pubblico con lei, che tra l’altro tiene al guinzaglio il suo cane: entrano separate alla stazione di Firenze e prendono il treno per Bologna in vagoni diversi.

 La leader del Partito Democratico ha raccontato di avere amato molti uomini e molte donne precisando: «In questo momento sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta».

Estratto dell'articolo di L. D. C. per “la Repubblica” il 22 marzo 2023.

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La coltre di riserbo è rimasta intatta fino a ieri, quando Diva e donna ,settimanale del gruppo Cairo, ha pubblicato la paparazzata. Nello scatto si vedono Schlein e una ragazza dietro al finestrino di un’automobile. In un’altra foto, la ragazza porta a spasso una cagnetta (si chiama “Pila”). È di Schlein.

 Il settimanale fa due più due e racconta della caccia alle foto, «scattate tra Livorno e Firenze», e di alcuni presunti escamotage della coppia per dribblare gli obiettivi: Schlein e la compagna (il magazine la chiama «l’amica del cuore», molto anni ‘80) «entrano separate alla stazione di Firenze e prendono il treno per Bologna in vagoni diversi». La foto in un battibaleno fa il giro del web. La rilancia Dagospia, poi i quotidiani del gruppo Cairo.

 Schlein e i suoi non dicono nulla. «La segretaria sta limando il suo discorso sull’Ucraina, non parla di gossip».

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E che lei si chiama Paola, «una ragazza sarda di 28 anni», dice chi un po’ le conosce. «Vivono insieme a Bologna e forse cercheranno casa a Roma», dato che la deputata Chiara Gribaudo, coinquilina di Schlein nella Capitale, sta facendo i bagagli dall’appartamento che dividono in centro.

L. Sal. per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2023.

È il settimanale Diva e donna a pubblicare per primo e in esclusiva le immagini della compagna di Elly Schlein, da pochi giorni nuova segretaria del Partito democratico.

Nelle foto pubblicate dalla rivista, scattate tra Livorno e Firenze, la leader dell’opposizione è in compagnia di una giovane donna, che ha il suo cane al guinzaglio. Elly Schlein e Paola, questo il nome di battesimo secondo Diva e Donna , cercano di non farsi vedere in compagnia, come del resto hanno sempre fatto finora. Per questo entrano separate alla stazione di Firenze e poi prendono il treno per Bologna salendo su due vagoni diversi.

 La leader del Partito democratico ha raccontato di avere «amato molti uomini e molte donne», aggiungendo che «in questo momento sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta».

 Schlein, prima donna segretaria del Pd, aveva fatto pubblicamente coming out nel 2020, durante una puntata del programma L’assedio di Daria Bignardi: «Premetto che di solito non parlo mai e sono molto riservata sulla mia vita personale — aveva detto — ma in questo caso faccio un’eccezione: sì, sono fidanzata, ho avuto diverse relazioni in passato. Ho amato molte donne e amato molti uomini, in questo momento sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta».

Sono passati tre anni da quell’intervista, rilasciata quando era stata appena nominata vicepresidente della Regione Emilia-Romagna come vice di Stefano Bonaccini, che poche settimane fa ha battuto alle primarie del Pd.

 Già allora, come nei mesi successivi, non aveva voluto rivelare l’identità della sua compagna: «Cammina sempre fianco a fianco, questo è l’importante», si era limitata a dire. Una scelta di riservatezza che forse da oggi, dopo la pubblicazione di quelle immagini, sarà ancora più difficile mantenere.

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Flavia Perina per “La Stampa” il 6 aprile 2023.

C’è innanzitutto una doppia solidarietà da dare. A Paola Belloni, la compagna di Elly Schlein il cui nome e volto sono stati rivelati da una foto rubata. A Rachele Silvestri, la deputata di FdI che è stata obbligata a fare un test del Dna per tutelare suo figlio, appena nato, dalle maldicenze su una paternità “irregolare” frutto della relazione con un dirigente sposato del suo partito.

 Sono due casi molto diversi ma che raccontano bene la difficoltà italiana di sintonizzarsi con l’irruzione femminile sulla scena nazionale e la resistenza ad abbandonare il vecchio vizio del gossip rosa come strumento di lotta politica.

Gli uomini (molti uomini) non si spiegano nemmeno perché la Belloni si sia risentita di quella foto: in genere le ragazze associate ai potenti ci tengono a farlo sapere in giro e posano volentieri per servizi che sembrano paparazzate ma sono in realtà photo-opportunity apparecchiate con cura.

 Non capiscono neanche l’urgenza dell’on.Silvestri di rendere pubblico, allo scopo di smentirlo, un pettegolezzo che nessuno aveva ancora pubblicato, perché sono pochissimi gli uomini a cui viene in mente che il neonato in questione, fra pochi anni, sarà un bambino capace di leggere, capire, stare su internet, e un dubbio sulla figura del suo «vero papà» potrebbe travolgerlo.

Ma la doppia solidarietà non basta. Se il personale è politico (e queste vicende parallele dimostrano quanto lo sia) bisogna andare oltre. Ora che le donne comandano il gioco dei due principali partiti, ora che sono loro le arbitre del discorso pubblico, possono fare qualcosa di più che mettersi in difesa, rimproverare, ammonire.

 Ad esempio farsi le spalle larghe e intestarsi la guerra all’impero del gossip maschile che da un ventennio governa una larga parte del dibattito pubblico, una piccola ma potente macchina fangosa che ha usato abitudini, relazioni, persino vestiti o pettinature per demolire le avversarie interne, attaccare quelle esterne, intorbidare reputazioni o pretendere atti di sottomissione.

Quando Silvestri attribuisce a «un uomo, probabilmente un politico» il pettegolezzo, studiato «per attaccare figure del mio partito e insinuare un degrado da basso impero», o in alternativa a «cacicchi in cerca di gloria», evoca il meccanismo che ha sostituito il confronto delle idee con le dinamiche tipiche di certe corti rinascimentali dove la maldicenza era il primo strumento per assicurarsi il favore del sovrano.

 Ne abbiamo viste di ogni, in Italia, dove quasi tutte le parlamentari di successo hanno dovuto combattere il sospetto di essere sgualdrine fortunate, e di questa malignità si è fatta addirittura una scuola di pensiero: non molti anni fa un vecchio liberale come Piero Ostellino difendeva il diritto della donna «consapevole di essere seduta sulla propria fortuna» a farne «partecipe chi può concretarla», avvalorando la tesi che nessuna dovesse arrabbiarsi più di tanto se le davano della puttana.

Ora che le donne comandano, possono demolire questa paccottiglia insieme all’intero coté che l’ha accompagnata. I titoli sulla «patata bollente» o sulle «oche giulive», la denigrazione delle avversarie fondata sui capelli rossi (Ilda Bocassini), sulla nazionalità e il ceto sociale (Carola Rakete), sulle treccine (Greta Thumberg), sull’eccesso di idealismo (Malala Yousafzai), sull’esorbitanza dell’impegno (le due Simone, Silvia Romano), ma anche, dall’altra parte, la malcelata convinzione che dietro l’affermazione di ogni donna di destra ci fosse una storia di prestazioni sessuali ben remunerate.

Ora che le donne comandano, e una di loro sta con una donna, si può legittimamente aspirare anche a mandare al macero la retorica che è stata il sottotesto di tanti fidanzamenti o matrimoni da copertina, utilizzati per segnalare la “normalità” o l’affidabilità dei leader, dal celeberrimo bacio di Achille Occhetto alla moglie sulla spiaggia di Capalbio (indicato da molti come il primo cedimento della sinistra alla personalizzazione della politica) fino alle più recenti performance balneari di Luigi Di Maio.

Le fidanzate e le mogli che lo desiderano possono mettersi in mostra, quelle che non vogliono hanno il diritto di scocciarsi se vengono riprese, e anche qui la necessità di un passo avanti è evidente: oltre la lamentela, si può finalmente normalizzare l’idea che il canone femminile in politica sia diverso da quello delle “vestali laiche” della Prima Repubblica.

 Tutti le ammiriamo, e in molti casi le rimpiangiamo, ma il prezzo che pagarono all’Italia maschilista e familista di allora fu enorme e per molti versi orribile, dai sacrifici imposti a Nilde Iotti per occultare un amore che mezzo mondo conosceva fino al “contenimento estetico” che tutte dovettero usare per non essere accusate di leggerezza e vanità.

Quel gioco dominato dagli uomini funzionava bene perché aveva nel mirino una minoranza dotata di scarso potere. La storia ha rovesciato i rapporti di forza, e le donne devono esserne consapevoli. Farsi le spalle larghe e lavorare per silenziare l’impero del sopracciò maschile che giudica le ragazze e le signore spettegolando sui loro amori, sui loro vestiti, persino sui loro figli, è possibile, è necessario, migliorerà la vita di tutte.

Rachele Silvestri? Corna e tresche: tutte le malelingue della politica. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 07 aprile 2023

«Lo sai cosa fa? Lo sai con chi va? E con chi si vede?/Il pomeriggio dopo palestra, verso le sei/ Lei sale da lui all’ultimo piano, lei va da quell’uomo/ Ha un uomo maturo, si dice sposato, tanto più grande di lei». Quando, nel 1994, l’urticante talento di Ivan Graziani cantava Maledette malelingue – l’inesorabile condanna del pettegolezzo Rachele Silvestri aveva dodici anni. Oggi ne ha trentasei male malelingue continuano ad annichilire mondi, affetti, dignità. Oggi, la deputata Silvestri passata dal Movimento Cinque Stelle a Fratelli d’Italia, trafitta dal pettegolezzo, è stata costretta, attraverso una lettera aperta sul Corrierone contro le cattive coscienze della politica, a rivelare di aver fatto il test del dna al figlioletto di tre mesi. Questo perché travolta –lei e il compagno- dalla calunnia che ne attribuiva la maternità ad una presunta liaison con potente ministro di Fratelli d’Italia. Ovviamente, era una balla clamorosa.

 LA CALUNNIA È TEMPESTA

Ma la deputata, a cui va la piena solidarietà anche dei colleghi che l’hanno strapazzata, si è chiesta: in quanti modi il corpo di una donna può essere violato, calpestato, abusato? «Quante volte il dono della procreazione può essere strumentalizzato e degradato? In nome di cosa è giustificabile la violenza su un bambino appena nato?». Quesiti feroci. Contestualmente, è arrivato come un tuono nella quiete familiare e protetta di Elly Schlein, anche lo scoop di Diva e donna in cui si disvelano fattezze, nome e privacy di Paola Belloni, compagna della segretaria del Pd. Una ragazza, a quel punto, costretta dall’evidenza giornalistica a fare outing (non coming out, che è una scelta volontaria) sulla propria sessualità. Era un po’ di tempo che non si verificavano pesanti irruzioni della vita privata dei protagonisti della politica nella vita pubblica come queste. La calunnia in politica non è un venticello, è crudeltà e tempesta.

La società di sondaggi Youtrend, una decina di anni fa, inaugurò perfino un «osservatorio del gossip politico sull’onda lunga berlusconiana»; anche se, in effetti, Silvio, a quei tempi, non solo creava simulacri di gossip extraparlamentare, ma addirittura quasi se ne compiaceva. E spesso li alimentava, sulla base di quella “funzione sociale del pettegolezzo” che permette di confrontare sé stessi e il proprio valore con la realtà, sulla base della teoria di Leon Festinger il grande psicologo esperto di dissonanza cognitiva. Anche se credo che Berlusconi ascoltasse più Alfonso Signorini che Festinger. Comunque sia, il caso Minetti o le “cene eleganti” -se si esclude la rilevante parte giudiziaria non incisero minimamente sul fascino pop del Berlusca. Il quale, anzi, ne uscì col machismo fortificato. Ma era Berlusconi. Per gli altri è diverso. Il gossip, per fare male, segue regole semplici: deve riguardare una terza persona assente nel momento in cui se ne parla; la persona di cui parla dev’essere conosciuta anche indirettamente dai pettegoli;devono essere espressi giudizi valutativi anche con linguaggio del corpo. L’ultimo oggetto di uno stillicidio al limiti dello stalkeraggio è stato il deputato di Azione Matteo Richetti accusato di molestie sessuali ai danni d’una acclarata mitomane che lo conosceva appena.

E l’ombra del gossip si è allungata spesso e volentieri sulle donne. Donne spesso belle e in carriera. Il pettegolezzo Fini-Prestigiacomo consumato negli anfratti di una caffetteria romana contribuì alla scissione di An. Quello tra la Carfagna e lo stesso Berlusconi fece scattare l’orgoglio della ministra contro la Costamagna in un’indimenticata intervista Rai (in cui Mara reagì evocando un gossip altrettanto potente che aleggiava su Luisella e Santoro). Il connubio Renzi-Boschi allo zenith del potere era visto come qualcosa di più di un’osmosi politica.

Un presunto incontro clandestino omosex con calciatori, in uno yacht in mezzo al mare, nutrì le dicerie sulla vita convulsa di un ex notabile Dc. Cosa che, decenni prima, avvenne con un Presidente del Consiglio vistosi sessualmente rappresentato in un film del ‘73, Nonostante le apparenze e purché la nazione non lo sappia... All’onorevole piacciono le donne (ma in realtà erano uomini). La pellicola, con Lando Buzzanca, costò l’ostracismo al regista Lucio Fulci.

LA DENUNCIA FINALE

Per dire. I palazzi del potere sono innalzati per definizione dall’arte del dubbio insinuato e cementati attraverso la malalingua divenuta, in chiave amorosa, arma politica. Eppure, un limite invalicabile resta. Rachele Silvestri cita il Nobel Elie Wiesel nella necessità di denunciare la cattiveria del gossip e si augura che «nessuno sia indulgente con l’autore della calunnia e con chi contribuisce a diffonderla: non siate neutri, abbiate il coraggio di spezzare la catena dell’indifferenza». E lei, coraggiosamente, ha denunciato. È un inizio doloroso, ma è un inizio... 

Richieste di privacy e collere pubbliche: cortocircuito rosa. Tanto per cambiare la politica si infebbra di fatti privati. Figli illegittimi che illegittimi non sono, fidanzate segrete che segrete non rimangono. Valeria Braghieri il 6 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tanto per cambiare la politica si infebbra di fatti privati. Figli illegittimi che illegittimi non sono, fidanzate segrete che segrete non rimangono. Ciò che sorprende è come ognuno di noi stia nel solco dell'attenzione in maniera diversa. Paola Belloni, la compagna di Elly Schlein, si è lamentata perché i giornali sono andati a stanarla nella sua intimità, sono piombati indelicatamente sulla sua storia d'amore, sbattendo in copertina una foto di lei ed Elly nella quale, come se non bastasse, Paola aveva calcato in testa un mortificante berretto di lana. Un po' come se le fossero andati a leggere il diario segreto (malgrado il lucchetto a forma di unicorno e il nascondiglio sotto al letto), e avessero scoperto frasi e dediche e disegni di cuori trafitti che grondano sangue e struggimento. Si è sinceramente stupita, Paola, dell'intromissione degli organi di informazione nella sua vita privata. Come se non fosse una donna che sta con il neo-segretario del Pd, che poi è una donna a sua volta. E sì, questo, incontrovertibilmente, aumenta la curiosità. Ma a dire il vero è stupefacente che Paola si sia stupita. Anche se nello stranirsi, ne ha approfittato per postare una sua foto in grazia di Dio (cioè posatissima, con chioma di velluto e senza berretto di lana), per sostenere la causa delle famiglie omogenitoriali e per parlare della legge contro l'omolesbobitransfobia.

Ma le cose toccano ognuno in modo diverso, appunto. E quindi sempre ieri, c'era l'esempio di segno opposto: Rachele Silvestri, deputata FdI, che l'attenzione della stampa se l'andava a prendere di proposito. Nella fattispecie chiedeva ospitalità su una pagina del Corriere della Sera per depositare una granitica verità a futura memoria del suo bambino: non è vero che sei il figlio che ho avuto di nascosto con un politico sposato, queste sono tutte cattiverie messe in giro da certe malelingue che vogliono affossarmi politicamente e tu, piccolo mio, sei il figlio stra-voluto e concepito «alla luce del sole» da me e dal tuo papà. La dimostrazione del fatto che non ho nulla da nascondere? La prova del Dna.

Abbiamo guardato e riguardato la notizia come fosse una macchia di ruggine nel granturco. C'è qualcosa che gratta in gola in quel tono misto di acciaio e ghiaccio. Altro che diario segreto: il Dna. È quasi più intimo dell'utero, più sacro e misterioso della fede. È qualcosa da proteggere con le unghie e con i denti e cosa sceglie di fare la Silvestri, per proteggerlo? Lo affida alla prima pagina di un giornale: «I veleni politici e la difesa di mio figlio». Lo ha voluto mettere subito nero su bianco perché certe frasi vanno dette a tempo. Prima che un giorno quello cresca e venga punto dal malinteso, prima che un refolo di malignità rimasto a terra gli disturbi il passo.

Come a dire che se è vero che i giornali intossicano, è vero anche che sono in grado di guarire, ti puntano i riflettori in faccia ma ti mettono pure al riparo: un pareggio inaspettato tra vizi privati e collere pubbliche.

Paola Belloni, la compagna di Elly Schlein, esce allo scoperto e attacca: «Contro di me un atto ingiusto».  Martina Pennisi su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2023

Il post Instagram della compagna della segretaria del Partito democratico: per la prima volta conferma e commenta la relazione, accusando i giornali di aver fatto outing

«Comunicare a mezzo stampa l’intimità affettiva di una persona è un atto ingiusto e si chiama outing. Io ne son stata travolta, ma per fortuna non annichilita, perché ho una rete amicale e familiare che mi sostiene». Paola, che adesso ha anche un cognome: Belloni, esce allo scoperto e commenta le voci e le foto sulla sua relazione con la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein .

In un post Instagram con una foto posata, la donna accusa la testata che per prima ha pubblicato la sua foto — mentre il nome era già noto — di averla esposta contro la sua volontà: «Mi rendo conto che essere la compagna di una figura pubblica vi abbia fatto pensare di avere il diritto di esporre me quanto è esposta lei», scrive.

E tocca i temi che le stanno a cuore: «In Italia non abbiamo il matrimonio egualitario, non abbiamo tutele per i figli e le figlie di famiglie omogenitoriali, non abbiamo una legge contro l’omolesbobitransfobia. Siamo un Paese dove migliaia di “Spatriati”, per dirla con Desiati, vivono o lasciano le proprie province pieni di graffi e di segreti. Il coming out è una scelta personale, che deriva anche da un’analisi della propria rete sociale».

Chiude con una battuta: «Ammetto però che la foto con la papalina di lana in testa e con il sacchetto dei bisogni di Pila in mano era notevole. Avete regalato meme alle mie amiche per i prossimi dieci anni». E una speranza: «Detto tutto questo ora torno alla mia vita privata che spero resti sempre la stessa. Anche se senza papalina. L’ho buttata».

Nel profilo poche foto, una delle quali con la scrittrice Michela Murgia, in cui Belloni mostra un tatuaggio con l’opera che l’artista MP5 ha realizzato per Morgana, il podcast e il libro di Murgia e Chiara Tagliaferri.

Un volto, un nome, un cognome e delle idee chiare: ora Paola Belloni ed Elly Schlein camminano «fianco a fianco» anche pubblicamente.

Il Bestiario, la Fidanzatigna. La Fidanzatigna è un animale leggendario, compagna della seconda donna più importante d’Italia, che pretende di mantenere l’anonimato. Giovanni Zola il 6 Aprile 2023 su Il Giornale.

La Fidanzatigna è un animale leggendario, compagna della seconda donna più importante d’Italia, che pretende di mantenere l’anonimato.

La Fidanzatigna è un essere mitologico che si lamenta per essere stata fotografata furtivamente insieme alla sua fidanzata, attualmente segretaria del secondo partito italiano che non ha tenuto nascosto di stare con una donna. La Fidanzatigna scrive sul suo Instagram: "Non mi hanno vista arrivare" e quindi hanno tirato fuori i teleobiettivi. (…) comunicare a mezzo stampa l’intimità affettiva di una persona è un atto ingiusto e si chiama outing. Io ne son stata travolta, ma per fortuna non annichilita, perché ho una rete amicale e familiare che mi sostiene. Mi chiedo solo cosa sarebbe successo se io questa rete non l’avessi avuta”.

Il falso vittimismo della Fidanzatigna è pari solo alla sua finta fragilità. Esigere di non avere qualche riflettore addosso e pretendere di nascondere il proprio orientamento sessuale ricoprendo il ruolo di fidanzatina lesbica nazionale, la connota come estremamente ingenua o estremamente falsa, sicuramente inadatta ad accompagnare sentimentalmente un personaggio pubblico in vista. Ma il vittimismo raggiunge il suo apice quando la Fidanzatigna aggiunge: “Il coming out è una scelta personale, che deriva anche da un'analisi della propria rete sociale”. Insomma sembra che le foto pubblicate abbiano messo in grave difficoltà la Fidanzatigna che adesso verrà additata come figlia di un dio minore.

La Fidanzatigna dimentica che nella società odierna, già a partire dalle scuole medie, va di gran moda, grazie al bombardamento ideologico LGBT, dichiararsi bisessuali con la stessa limpidezza con la quale un tempo dicevamo di preferire la Bmx Shimano alla Graziella. La Fidanzatigna dimentica anche che oggi occorre appartenere alla comunità LGBT per fare strada in molti settori professionali come televisione, teatro, moda e che moltissimi ruoli dirigenziali in società multinazionali sono ricoperti da non eterosessuali. La storia della discriminazione omosessuale sul lavoro è una vecchia barzelletta che non fa più ridere e addirittura si potrebbe affermare di una discriminazione al contrario.

A pensare male, la Fidanzatigna sembra, con l’”Operazione vittima” (ho bisogno della mia privacy, lasciatemi vivere la mia vita in pace) sembra – dicevamo - aver spazzato via l’idea di voler approfittare della popolarità e del potere della donna politica con cui convive. Stiamo a vedere.

Il piagnisteo acchiappaclic della donna di Elly. Alla fine il trucco è sempre lo stesso: lamentarsi pubblicamente per la improvvisa visibilità ottenuta per ottenerne ancora di più. Francesco Maria Del Vigo il 6 Aprile 2023 su Il Giornale.

Alla fine il trucco è sempre lo stesso: lamentarsi pubblicamente per la improvvisa visibilità ottenuta per ottenerne ancora di più. Perché in fondo è sempre chic fingersi annoiati e anche un po' disgustati per essere finiti sulla prima pagina di un rotocalco. Si scrive privacy e si legge voglia di follower. In tutti i sensi.

Certo, non abbiamo dubbi che Paola Belloni (nella foto), compagna della neo segretaria del Pd Elly Schlein, avrebbe preferito finire sulla copertina di Micromega o di Internazionale, invece che su Diva e Donna, ma da qualche parte bisogna pur sempre incominciare, no? Per un ritratto sul New Yorker c'è sempre tempo.

Così lunedì sera - immaginiamo dopo cogitabonde meditazioni e dibattiti rigorosamente collegiali - la first lady dell'opposizione rompe gli indugi e affida tutto il suo livore per la privacy violata a un post pubblicissimo sul suo profilo accessibile a chiunque su Instagram. Il tutto corredato da una bella foto posata, con tanto di fotografo taggato. Alla stregua delle più rodate influencer.

E poi principia la rampogna con una prosopopea in bilico tra il sempiterno nannimorettismo, la dialettica di una assemblea di istituto incastrata in un infinito loop sessantottino e - non c'è neppure bisogno di dirlo - tutte le ossessioni lgbtqia+. «Non mi hanno vista arrivare e quindi hanno tirato fuori i teleobiettivi», attacca citando la Schlein, ma pure la Meloni. E poi subito due colpi di schwa da mandare ko il buon senso: «Car* giornalist* di @divaedonna_settimanale, comunicare a mezzo stampa l'intimità affettiva di una persona è un atto ingiusto e si chiama outing. Io ne son stata travolta, ma per fortuna non annichilita». Si parte col vittimismo e si arriva subito alle rivendicazioni di genere, anche se forse la massima rivendicazione sarebbe stata proprio non nascondere la propria relazione, ma quelli sono fatti così privati che infatti adesso le recriminazioni vengono ostese su un social pubblico: «In Italia non abbiamo il matrimonio egualitario, non abbiamo tutele per i figli e le figlie di famiglie omogenitoriali, non abbiamo una legge contro l'omolesbobitransfobia. Il coming out è una scelta personale, che deriva anche da un'analisi della propria rete sociale». Si sente già profumo di politica, molto radical e ancor di più chic, perché alla fine - non senza ironia - il problema era (come direbbero gli influencer) l'outfit: «Ammetto però che la foto con la papalina di lana in testa e con il sacchetto dei bisogni di Pila in mano era notevole. Avete regalato meme alle mie amiche per i prossimi dieci anni». Certo, molto meglio il ritratto d'artista appena pubblicato o la foto con Michela Murgia, immagine che spiega più del programma del Pd la nuova linea del Pd. Nel frattempo, tra una lamentela e l'altra per la troppa visibilità, i follower della Belloni, in meno di 20 ore, sono passati da 200 a 2000. Al momento - a giudicare dalle elezioni in Friuli - questo è l'unico effetto Schlein.

La foto con la Murgia e il post accusatorio: cosa c'è dietro l'attacco della compagna della Schlein. Francesca Galici il 5 Aprile 2023 su Il Giornale.

Se non avesse fatto un post polemico nessuno avrebbe più parlato di lei: invece Paola Belloni evidentemente vuole i riflettori, al di là delle inutili e pretestuose accuse

Con un ritardo di diverse settimane, Paola Belloni si è accorta che le foto insieme a Elly Schlein sono state pubblicate sul quotidiano Diva e Donna. O forse ci ha messo alcune settimane a elaborare e mettere giù il pensiero che ha poi pubblicato sul suo profilo social, con tanto di foto posata e firmata da un fotografo, che nulla ha da invidiare ai patinatissimi ritratti delle star. Come fa notare il sito Dagospia, il dubbio è che il lamento della compagna del segretario del Partito democratico sia solamente strumentale, utile alla propaganda e alla propria visibilità.

"Si chiama outing". La compagna di Schlein si lagna delle foto uscite sui giornali

Infatti, nel profilo di Belloni, come spesso accade a quelli di chi non ha particolari interessi lavorativi nel tenere aggiornata la propria immagine social, non venivano caricate da molti mesi nuove immagini. Un silenzio social che non ha insospettito nessuno, visto che non c'erano sospetti (almeno ufficiali) sul suo ruolo nella vita di Schlein. Poi, però, all'improvviso qualcosa cambia e dopo la pubblicazione delle immagini da parte del settimanale Diva e donna torna a condividere le immagini sul suo profilo. Ovviamente, non foto di gattini e di tramonti ma qualcosa che si avvicina di più all'idea di narrazione che sussiste da quelle parti. Quindi, ecco che per esempio compare la foto insieme a Michela Murgia in cui Belloni mostra con orgoglio il tatuaggio sul suo braccio. Non un disegno qualunque ma il logo del podcast della scrittrice.

Poi ecco che compare il lunghissimo post, un j'accuse alla stampa italiana e in particolare al settimanale edito da Cairo, che secondo la compagna di Schlein non avrebbe dovuto pubblicare le foto insieme al segretario del Pd in quanto lei non sarebbe un personaggio pubblico. Anzi, si accusano i giornalisti di aver fatto "outing". La verità, però, come sempre è un'altra. Elly Schlein è il numero uno di uno dei partiti politici più importanti del nostro Paese ed è stata fotografata in un luogo pubblico insieme alla donna. Per delicatezza, per altro, il settimanale non ha parlato di lei come della sua compagna ma l'ha definita un'amica. Ma non ci è voluto molto per capire chi fosse in realtà quella bella ragazza mora, soprattutto perché la stessa Schlein, in tv, aveva annunciato di essere fidanzata con una donna.

Ed è forse con lei che dovrebbe prendersela Paola Belloni, non con i giornalisti che hanno fatto il loro lavoro, anzi, il loro dovere, attenendosi al diritto di cronaca. E se questo non le piace, dispiace, ma di chiama democrazia, che viene difesa anche attraverso il gossip. I personaggi pubblici sanno a cosa vanno incontro e così anche chi sta loro accanto, uomo o donna che siano, qualunque orientamento sessuale abbiano. Perché qui non c'entra niente l'accusa di aver fatto outing: è stata fatta informazione.

Chissenefregava. Signore e signori, la lettera di Rachele Silvestri al Corriere non vale un corno. Proprio come ha fatto la compagna di Elly Schlein parlando delle sue foto su Diva e donna, la parlamentare ex grillina ora di Fratelli d’Italia ha sentito il bisogno di alimentare una cosa di cui nessuno sapeva niente. E così ha solo peggiorato la situazione. Guia Soncini su L’Inkiesta il 6 Aprile 2023

Rachele Silvestri, mi rivolgo a lei. A lei che fino a ieri non avevo mai sentito nominare. A lei che ieri era sulla prima pagina del Corriere della sera con un testo che in confronto la lettera a sé stessa di Chiara Ferragni era scritta da Gadda. A lei che paragona il suo essere oggetto di pettegolezzi all’essere sopravvissuti ad Auschwitz.

Rachele Silvestri, io le voglio parlare, a lei che sembra un’americana moralista che parla d’un’ipotesi di corna come si parlerebbe di tragedie vere, ma Google dice che è nata ad Ascoli Piceno e non nello Utah.

Rachele Silvestri, stia lì un attimo, poi torno, ma prima credo di dover spiegare ai lettori le circostanze, perché non ci crederà ma ieri c’era anche chi aveva delle bollette da pagare, delle corna proprie da curarsi, delle bozze da chiudere, delle valigie per Pasqua da preparare, e insomma non è che proprio tutti tutti tutti si siano informati sulla Ciranda de pedra di cui ha deciso di rendersi protagonista.

Dunque lei ieri compare sul Corriere con questo articolo che, sebbene sia alla seconda legislatura da parlamentare, non parlava d’una sua qualche proposta di legge. L’ultima che risulta da lei presentata, sul sito della Camera, è del marzo 2022, ma mi piace soprattutto l’interpellanza sulle mascherine che presenta nel 2021 spiegando che la fascia d’età tra i 6 e i 12 anni «ha esigenze di ossigenazione maggiore rispetto agli adulti». Le son sempre stati a cuore i bambini.

E ora è diventata mamma, Rachele Silvestri. E io che non sono mamma non posso capire. Molte cose, ma soprattutto non posso capire la sua letterina al Corriere, e non solo per una sua certa qual tendenza a mettere una inopportuna virgola tra il soggetto e il predicato (una interpellanza sul fallimento dell’istruzione obbligatoria, onorevole Silvestri, non la vogliamo presentare?).

«Non bisogna essere una donna per capire lo schifo, la violenza, l’umiliazione. Mi chiedo: ma in quanti modi il corpo di una donna può essere violato, calpestato, abusato?». Ora, a parte l’uso delle triplette da ginnasiale che cerchi di far colpo sul professore belloccio, io di fronte a queste righe penso: ohibò, sarà una storiaccia di stupro, come minimo. Di violenza coniugale. Di molestie sul luogo di lavoro. E invece.

«Quante volte il dono della procreazione può essere strumentalizzato e degradato?» (non le veniva il terzo participio). «In nome di cosa è giustificabile la violenza su un bambino appena nato?» (oddio, ma forse devo smetterla con questo tono scherzoso, ’sto porco schifoso dopo di lei ha stuprato pure un neonato?). E invece.

Cita persino Elie Wiesel, dai, è chiaro che si tratta di qualcosa di molto grave, altrimenti finisce che il dio della mancanza di senso delle proporzioni ci fulmina tutti. E invece.

E invece siamo dentro la più classica commedia all’italiana: il figlio della Silvestri, dicono i pettegoli, sarebbe non figlio di quello con cui sta ufficialmente la Silvestri, ma figlio d’un corno, come diciamo noi emancipati (i retrogradi direbbero: figlio della colpa). L’avrei saputo se non fossi solita saltare le prime pagine dei giornali. In prima, dove il Corriere aveva messo l’incipit, c’erano tre righe degne d’una lettera a Cronaca Vera: «Sono stata costretta a fare il test di paternità per mio figlio di soli tre mesi. E il padre è proprio Fabio, il mio compagno».

Ed è stata costretta anche a scrivere al Corriere, perché questo non è mica solo un sospetto di corna, è una questione di trasparenza istituzionale: se il figlio non è figlio della colpa, neanche la carriera della Silvestri lo è. È lei a collegare le due cose, a me che sono meno contorta non verrebbe mai in mente. Il mio mondo è pieno di adultere che non fanno carriera, nel suo invece ci sono questi sillogismi: «Mio figlio sarebbe, quindi, nato da una relazione clandestina, grazie alla quale io avrei anche ottenuto la mia candidatura».

Ora, benedette ragazze, dico a questa deputata ma anche alla fidanzata di Elly Schlein, io non so se voi ci siate o ci facciate, ma lasciate che ve lo dica avendo più anzianità di voi su questo pianeta e quindi avendo visto più pettegolezzi (una componente indispensabile e neanche troppo malsana della società): così fate peggio.

Quando la fidanzata della Schlein fa un post per dire che Diva e donna le ha fatto outing, non fa altro che prendere le informazioni che pochi ambienti politici e giornalistici avevano su di lei e sulla goffa gestione dell’inevitabile messa in pubblico della sua relazione con una segretaria di partito, e renderle informazioni che anche il grande pubblico ha.

Non fa altro che alimentare una cosa di cui non si ricordavano neanche più quelle che sfogliano i vecchi numeri di Diva e donna dal parrucchiere (erano foto uscite da due settimane, che nei tempi di cicli di notizie di questo secolo sono due secoli).

Non fa altro che stuzzicare la curiosità: senza quel post, a me non sarebbe mai arrivata una foto di lei con tatuato sul braccio il ritratto d’una nota scrittrice, perché nessuno di quelli che conosco si sarebbe incuriosito: chi se ne frega di con chi va a letto Elly Schlein, se non è proprio quella con cui va a letto a farne un caso.

Quando Rachele Silvestri scrive un testo del genere, non fa altro che far partire migliaia di messaggi. Alla stazione successiva, ci sono molti più «Lollobrigida» tra i messaggi ricevuti di quando partiva. Benedette ragazze, possibile che siate così inattrezzate ad affrontare la vita pubblica in un secolo in cui la vita pubblica è affare di più o meno tutti i privati cittadini?

Ma ora, scusate la lunga divagazione, vorrei finalmente porre la domanda che sono venuta qui a formulare. Rachele Silvestri, dico a lei. Il test di paternità, lei che scrive al Corriere che le hanno violato il corpo (al massimo la reputazione, che è quanto di più incorporeo), il pettegolezzo come male principale del mondo, le comari che malignano sulla sua carriera, i giornalisti che insinuano che a chiedere il test sia stata la moglie del presunto fedifrago, la gita di Pasquetta in cui la non più malignata cornuta potrà finalmente avvolgere le uova nei ritagli del Corriere e ridere in faccia alle cognate. Rachele, non sente anche lei tantissimo la mancanza di Pietro Germi?

Dalla cannabis libera agli eco-vandali: lo "spottone" tv della Schlein. Il segretario dem va ospite da Cattelan e attacca il governo: "Vuole portarci indietro nel tempo". Poi l'ok alla cannabis legale e la discutibile difesa degli eco-attivisti. Marco Leardi il 21 marzo 2023 su Il Giornale.

Cannabis libera e diritti Lgbt. La musica intonata da Elly Schlein è sempre la stessa: quella del progressismo militante. Il solito spartito "de sinistra" la nuova leader Pd lo ha eseguito anche in un contesto di intrattenimento televisivo. Ospite di Stasera c'è Cattelan in onda questa sera su Rai2, la deputata dem ha ribadito di essere favorevole alla liberalizzazione delle droghe leggere e, interpellata dal conduttore sul tema, è partita con uno "spottone" politico per sostenere le proprie convinzioni in merito. "Dove è stato fatto, negli Stati Uniti e non solo, si dimostra che c'è un uso più consapevole che non è un incentivo all'utilizzo soprattutto per la fascia pre adolescenziale", ha detto.

Cannabis libera e famiglie arcobleno: l'ospitata tv della Schlein

Poi l'ulteriore argomentazione a sostegno della marijuana libera e legale. "È sicuramente un modo per scalfire il crimine organizzato che gestisce il traffico di cannabis. Secondo me bisogna andare su questa strada", ha affermato la Schlein, chiaramente senza avere alcun serrato contraddittorio, visto il contesto di intrattenimento che certo non si prestava a un dibattito sul tema. Nella sua ospitata su Rai2, il segretario Pd ha anche menzionato il tema dei diritti Lgbt, a partire dalla recente manifestazione di Milano promossa dai dem e dalle famiglie arcobaleno. "I figli e le figlie di queste famiglie omogenitoriali vengono ancora purtroppo molto spesso discriminati e quindi volevamo essere al loro fianco, per chiedere di riconoscere che i loro sono diritti fondamentali", ha dichiarato la leader Pd.

L'attacco al governo: "Vuole portarci indietro nel tempo"

Poteva poi mancare l'attacco all'esecutivo? Ovviamente no. "Io credo che bisogna lottare di più perché la pressione che è stata fatta sul Comune di Milano ma adesso anche sul Comune di Padova per smettere di trascrivere è frutto dell'ideologia che guida questa maggioranza di governo, che ci vuole riportare molto indietro nel tempo", ha affermato Schlein. E nemmeno stavolta il segretario Pd è stata confutata nelle sue legittime ma opinabilissime opinioni. Anzi, Elly ha pure rilanciato la proposta di legge dem sul matrimonio egualitario: mossa propagandistica piuttosto fine a se stessa, visto l'indirizzo contrario sul tema dell'attuale maggioranza in Parlamento.

La (fallace) difesa degli eco-attivisti: "Chiedono di ascoltare la scienza"

Su Rai2, la deputata luganese ha quindi parlato del tema climatico ribadendo la propria simpatia per gli ambientalisti d'assalto di Ultima Generazione. "Al di là del metodo scelto, che posso non condividere, non dobbiamo però fare l'errore di guardare troppo il dito e non la luna", ha affermato Elly, riferendosi al folle blitz contro Palazzo Vecchio a Firenze. E ancora, la leader Pd ha aggiunto: "Di quella mobilitazione mi piace la consapevolezza che loro stanno chiedendo solo di ascoltare la scienza. Quando ci siamo trovati ad affrontare il dramma della pandemia, noi politici e istituzioni abbiamo dovuto affidarci a chi ne sapeva di più. Ma se l'abbiamo fatto con la pandemia, perché non lo facciamo invece sul clima?". Peccato però che le tesi degli eco-attivisti non rappresentino la scienza in toto né esprimano verità assolute, visto che sull'argomento anche gli esperti hanno pareri e approcci differenti.

Dopo aver intonato il ritornello progressista, Elly ha suonato - ma per davvero - al pianoforte. Alla tastiera la leader Pd ha eseguito Imagine di John Lennon, mentre Cattelan cantava.

Leninisti e antisionisti. L'allegra brigata Schlein. C'è chi inneggia alla rivoluzione russa e chi odia Israele. Ecco chi sono i fedelissimi della leader Pd. Pasquale Napolitano il 7 Marzo 2023 su Il Giornale.

I compagni di Elly Schlein «sognano» un'Italia senza partiti di destra, con la canzone partigiana Bella Ciao nuovo inno nazionale, Lenin nel pantheon degli eroi nazionali, droghe libere per tutti e la cancellazione dello Stato d'Israele. La vittoria al congresso contro Stefano Bonaccini dell'ala radicale del Pd apre un ricambio generazionale. I giovani di Elly si fanno avanti. E portano in dote le loro «folli» idee. Idee da tradurre nel manifesto politico della nuova sinistra. Chi sono i fedelissimi nella squadra di Schlein? Quali le proposte dell'allegra Brigata di Elly? Al grande pubblico molti sono sconosciuti.

Il 12 marzo la neosegretaria si insedierà con il via libera dall'assemblea nazionale. Schlein vuole affidare l'incarico di coordinatore nazionale della segreteria al deputato Marco Furfaro: un fedelissimo che già salta da un talk all'altro. Furfaro come primo atto della legislatura ha depositato, insieme al collega Stefano Vaccari, una proposta di legge per il riconoscimento di Bella Ciao come secondo inno nazionale dell'Italia. Per fortuna, non vuole abolire Fratelli d'Italia. Ma Furfaro però è netto: «Bella Ciao va cantata in tutte le feste nazionali (2 giugno, 25 aprile). Lo dobbiamo a chi ha lottato e ha sacrificato la propria vita per restituire libertà e democrazia al nostro Paese». E c'è da giurare che appena Schlein diventerà capo del governo lo farà. Lo sponsor numero due (dopo Franceschini) della candidatura di Schlein è stato Peppe Provenzano. L'ex ministro del Sud non ha esitato a chiedere lo scioglimento di FdI, il primo partito italiano, che poi ha vinto le scorse elezioni politiche. Idea geniale: sbarazzarsi dell'opposizione per spianare la strada verso Palazzo Chigi ad Elly. Provenzano protestava, dopo un comizio di Giorgia Meloni in Spagna per Vox: «Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano. In questo modo FdI si sta sottraendo all'unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato». Provenzano dixit: sciogliamo FdI. Poi si è scusato. Ma le parole valgono più delle smentite.

In ascesa nella nuova era Schlein c'è Marco Sarracino, in pole per l'incarico di responsabile dell'organizzazione. Sarracino finì al centro delle polemiche per un post sui social in cui celebrava la rivoluzione bolscevica con tanto di foto di Lenin. In Basilicata Schlein può contare su un altro fedelissimo: Raffaele La Regina. Un nome già conosciuto al Giornale che prima della presentazione delle liste per le Politiche tirò fuori i post contro Israele. Una posizione negazionista in cui si metteva in dubbio l'esistenza dello Stato al pari degli alieni. Si scusò. Ma la polemica andò avanti. Alla fine fu costretto a lasciare la guida della lista Pd alla Camera: Parlamento sbarrato. Ora ci riprova con Elly.

Meriterebbe un articolo a parte Mattia Santori, il leader del defunto movimento delle Sardine. Dalla guida contromano alle sue parabole incomprensibili sull'autismo. La più famosa e controversa delle proposte di Santori è quella lanciata nell'agosto 2021 quando l'allora candidato Pd alle elezioni comunali di Bologna aveva annunciato il suo «sogno», vale a dire «il primo stadio del frisbee a Bologna». Ora potrà chiedere alla segretaria di mettere il suo sogno nel manifesto del Pd.

Estratto da “La nostra parte”, di Elly Schlein (ed. Mondadori, 2022)

Quante di noi vengono da storie e provenienze che si intrecciano fra diverse città, Paesi e continenti? Il frutto di possibilità offerte e non negate, di partenze scelte oppure forzate, di incontri casuali, di fiori che spaccano l’asfalto, di sinergie lasciate libere di crearsi e non soffocate. Di come avrebbe potuto essere ma non è stato, di come invece poi è stato, nonostante tutto. Così è anche la storia della mia famiglia.

 Sono figlia di madre italiana, di Siena, e padre americano; nata e cresciuta in Svizzera da «straniera». Nipote di un nonno e una nonna paterni entrambi emigrati. Mio nonno si chiamava Herschel Schleyen, nato nel 1892 a Zolkiew (oggi Zovkva), una piccola città poco distante da Leopoli. All’epoca in cui mio nonno la lasciò era ancora sotto l’Impero austro-ungarico, mentre oggi si trova in Ucraina. Conta poco più di diecimila abitanti, ma ha una sua storia importante.

 Quando mio nonno partì, l’ascesa del nazismo era ancora lontana, ma l’antisemitismo era già molto diffuso: gli ebrei venivano diffamati, esiliati, uccisi. Un fratello e una sorella l’avevano già preceduto emigrando negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, e mio nonno deve aver deciso di seguirli per provare a dare un futuro migliore a sé e alla famiglia che sperava di costruire.

Secondo i documenti che abbiamo potuto rintracciare in vecchi archivi e catasti di New York, arrivò tra il 1911 e il 1914 a Ellis Island, dove, come usava, gli cambiarono il nome: diventò Harry Schlein. Sul documento che registra il suo ingresso c’è scritto che lavorava come sarto, quindi probabilmente questo è il mestiere che ha svolto finché è vissuto a New York. Dopo qualche tempo si sposò con mia nonna, Ethel Fox, la cui famiglia era emigrata nel 1907 dalla Lituania, e si trasferirono nel New Jersey, dove aprirono prima un piccolo negozio di gelati, caramelle e giornali, poi di vestiti.

 A Elizabeth sono nati e cresciuti i loro figli Herbert e Melvin, mio padre. Non ho purtroppo mai conosciuto mio nonno e mia nonna paterni, lui è morto quando mio padre non aveva ancora vent’anni, lei prima della mia nascita. Ne conosco l’aspetto grazie alle poche fotografie rimaste, la postura elegante e rigorosa, il volto buono. So che il nonno lavorava tantissimo, dall’alba fino all’ora di cena. Tornava a casa stanco come può esserlo chi sceglie ogni giorno il sacrificio per offrire ai suoi figli le possibilità che non ha avuto, a costo di non vederli crescere.

In casa non si parlava di ciò che si era lasciato indietro, ma con i numerosi fratelli, sorelle e nipoti che erano rimasti a Leopoli, nel frattempo annessa alla Polonia, il nonno intratteneva un folto scambio epistolare. Fino a quando la situazione si è fatta drammatica, come testimonia una delle lettere che abbiamo rinvenuto e conservato.

 Era di un suo giovane nipote, Marek, preoccupato per il clima sempre più ostile agli ebrei e per le prime leggi razziali. In quella lettera, scritta in inglese quasi perfetto, si capisce che il nonno e la nonna lo stavano aiutando a emigrare.

 Cara zia e caro zio,

 grazie molte per le vostre lettere e il gentile invito. La notizia della vostra decisione di aiutarmi ad arrivare in America mi dà grande gioia, perché la mia posizione in Polonia è veramente pessima. Come sapete in questi cinque anni ho lavorato in uno studio legale e, quando stavo per diventare avvocato, il governo ha chiuso gli albi e per questo è ormai impossibile per un ebreo diventare avvocato. È molto difficile, se non praticamente impossibile, ottenere qualsiasi altro impiego.

La situazione peggiora di giorno in giorno. Tutti coloro con cui parlo stanno pensando di emigrare da qui e trovare un posto qualsiasi nel mondo dove poter vivere più tranquillamente, senza la minaccia permanente della guerra e le quotidiane dimostrazioni antisemite.

 Persino persone che hanno lavori ben pagati ora sono alla ricerca di amici o parenti in tutte le parti del mondo, tramite cui ottenere un affidavit o un permesso di immigrazione. Le onde antisemite in Polonia stanno crescendo così rapidamente che non siamo in grado di prevedere cosa succederà domani. Qualsiasi lavoro, anche il migliore, per un ebreo non è altro che un sogno illusorio che potrebbe svanire domani.

Tutto questo mi ha indotto a pensare di lasciare la Polonia e di costruire il mio futuro in un altro Paese. Ma l’emigrazione dalla Polonia è molto difficile perché noi, ebrei polacchi, non siamo graditi nel mondo. Perciò vi sono molto grato che mi stiate rendendo possibile andarmene via da qui. Per quanto riguarda il mio futuro in America, al momento non so cosa farò una volta là. Sto imparando alcuni mestieri pratici, e ottenendo alcune raccomandazioni, credo che in qualche modo me la caverò.

 Altrimenti, in America le porte dell’intero mondo saranno aperte per me e potrei andare più lontano, il che è impossibile dalla Polonia. Nel frattempo, la cosa più importante è ottenere un affidavit. Poi vedremo. Cara zia, ti prego di informarmi su quali documenti hai mandato al consolato degli Stati Uniti d’America a Varsavia e ti prego di mandarmene copia il più presto possibile, perché ne ho davvero bisogno. Da ultimo vi mando il mio nome e la data di nascita per evitare errori e problemi inutili: Marek Schlajen, 09/01/1911. Vi mando tanto amore dalla mia famiglia e da me. Vostro, Marek

 Purtroppo Marek non è mai arrivato. La lettera ingiallita dal tempo è della fine del 1938. L’anno seguente Hitler diede avvio all’invasione della Polonia, poi seguita dall’occupazione sovietica per effetto del patto Molotov-Ribbentrop. Così iniziò la seconda guerra mondiale, che interruppe ogni contatto del nonno con tutta la sua famiglia, di cui non abbiamo mai più avuto notizie.

 Per quanto tempo, quanti anni, avrà provato a rintracciarli, dopo che erano stati spazzati via dall’orrore nazifascista? Tutto ciò che è rimasto sono lettere e cartoline, una manciata di fotografie in bianco e nero, con i volti espressivi e bellissimi di bambini che non sono mai cresciuti, i cugini di mio padre.

 In Galizia, regione tra i Carpazi e la Vistola dove viveva una vasta comunità ebraica, si è scritta una delle pagine più atroci ed efferate dell’orrore dell’Olocausto. I nazisti organizzarono con la collaborazione dei nazionalisti ucraini dei pogrom massicci, di una violenza che non si può immaginare: ammazzavano anche 30.000 persone al giorno.

Decine di migliaia di ebrei furono rinchiusi nel ghetto di Leopoli, deportati al campo di concentramento di Janowska nell’immediata periferia della città oppure fucilati alla cava di argilla e sabbia nel bosco. A Leopoli morirono oltre 130.000 ebrei. Non riesco nemmeno a immaginare il dolore di mio nonno, cosa significhi perdere da un giorno all’altro le tracce di fratelli, sorelle e nipoti, se sia arrivato mai il momento in cui la speranza di ricevere una lettera abbia lasciato spazio alla consapevolezza di quel che poteva essere accaduto. Senza sapere mai.

E allora la sua partenza e le fatiche profuse nel lavoro per i figli assumono un significato ancor più forte. Mio padre ha potuto studiare in un Paese libero, ha avuto l’opportunità, con tanto impegno e dedizione, di costruirsi un futuro migliore. È così che è diventato professore universitario, ma se penso all’origine di quel forte senso del dovere e della responsabilità, della dedizione al lavoro che ci ha trasmesso, credo che le radici risiedano in quel che ha passato mio nonno.

Quando gli si è presentata l’opportunità di continuare i suoi studi in Europa, dopo la laurea negli Stati Uniti, mio padre l’ha colta ed è tornato. Ha fatto tappa in Austria, in Germania e in Italia, al Bologna Center of the School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University. Negli anni Settanta a un convegno sul federalismo ha conosciuto mia madre, Maria Paola Viviani, che già insegnava all’Università di Milano.

 Dopo il matrimonio, per un’opportunità di lavoro si sono trasferiti a Lugano, dove hanno avuto tre figli: mio fratello Benjamin, mia sorella Susanna e me. Mia madre faceva quotidianamente la pendolare con Milano, dove insegnava Diritto costituzionale e pubblico comparato. A me ha insegnato molto di più, ma una cosa su tutte: provare a mettersi sempre nei panni dell’altro, anche in mezzo a una discussione. Provare a vedere le cose dal punto di vista di chi non la pensa come te.

Suo padre, Agostino Viviani, era l’unico laico e socialista in una bella e numerosa famiglia cattolica. Si laureò in Giurisprudenza a Siena nel 1933, unico studente a non essere iscritto ai Gruppi universitari fascisti e unico, nel giorno della laurea, a non indossare la camicia nera. Nel 1937 vinse il concorso per diventare procuratore legale. L’anno successivo vennero promulgate le leggi razziali, eppure lui A Leopoli morirono oltre 130.000 ebrei. Non riesco nemmeno a immaginare il dolore di mio nonno, cosa significhi perdere da un giorno all’altro le tracce di fratelli, sorelle e nipoti,. I vertici del Partito nazionale fascista lo diffidarono in più di un’occasione. Accadde, per esempio, quando assunse la difesa di un commerciante ebreo della città. Il nonno ignorò la diffida, si presentò comunque in tribunale ed esordì convinto: «Oggi non difendo il cliente, ma l’amico».

Durante la guerra, come tanti, si rifugiò con la famiglia nelle campagne per sfuggire ai bombardamenti. Aveva già sposato mia nonna, Elena Giraldi, con cui ebbe due figli, Mario e mia madre Maria Paola. Collaborava con la Resistenza: avvisava le famiglie ebree dei rastrellamenti imminenti, nel tentativo di sottrarle alla deportazione.

 Nel 1943, grazie a una soffiata arrivata di notte, sfuggì a un tentativo di cattura dei fascisti: nel letto ancora caldo la nonna infilò i figli piccoli, mentre il nonno scappava da un passaggio segreto verso i campi. Nei giorni successivi i fascisti, per farlo costituire, arrestarono suo padre e alcuni suoi fratelli, che però vennero rilasciati nel giro di pochi giorni, solo grazie all’intercessione dell’arcivescovo.

 Mio nonno nel frattempo riparò a Firenze, dove molto dopo lo raggiunse il resto della famiglia, tra le fatiche di nonna Elena di procurarsi cibo e quanto occorreva per vivere insieme ai due bambini, vendendo ogni cosa per non far loro mancare il pane e un po’ di frutta. Nel 1945, avuta notizia della Liberazione, l’intera famiglia fece ritorno nel senese.

Erano in tanti e avevano una sola bicicletta, che usava chi di volta in volta fungeva da vedetta e andava in avanscoperta per verificare che la strada fosse libera da insidie, mentre gli altri seguivano a piedi. Dopo la guerra il nonno fu tra i fondatori del Partito socialista del lavoro e fece parte della Consulta nazionale, insieme a Lelio Basso lavorò ad alcuni dei processi che segnarono la storia, come quello per i fatti di Abbadia San Salvatore e dei morti del 7 luglio 1960 di Reggio Emilia.

 Quello politico fu un approdo naturale per lui, che non tollerava le ingiustizie e amava sostenere anche le cause più difficili, che altri direbbero perse. Fu presidente della commissione Giustizia del Senato, relatore della riforma del Diritto di famiglia del 1975 (che riconobbe diritti paritari ai coniugi e ai figli naturali avuti fuori dal matrimonio). Contribuì alla riforma penitenziaria e del codice penale, alla battaglia per la legalizzazione dell’aborto e a quella per la responsabilità civile dei magistrati.

 In pessimi rapporti con Bettino Craxi, all’inizio degli anni Ottanta lasciò il Psi, militò nei Radicali, e poi concluse la sua carriera nel Consiglio superiore della Magistratura, del quale fece parte fino al 1998 come membro laico, arringando in modo appassionato tutta la vita per una giustizia giusta.

Due famiglie così diverse, quelle di mia madre e di mio padre, così lontane, eppure intrecciate dai grandi sconvolgimenti del secolo scorso e dagli incontri casuali, dai sacrifici fatti per assicurare un futuro migliore ai propri figli. Mio padre è americano, ma è uno dei più convinti europeisti che conosca. Forse perché la storia di questa nostra famiglia ricorda il motivo per cui si è fatta l’Unione europea. Per provare a costruire un futuro di pace in un continente che si è sempre fatto la guerra, per provare a condividere le risorse anziché litigarsele, per puntellare le fragili democrazie e porre fine agli orrori provocati dai nazionalismi e dai regimi autoritari.

 Queste storie sono la fonte di silenzi e dolori che non conoscerò mai fino in fondo, e che però so aver segnato e formato le persone che amo, quindi anche me. Sono nata nel 1985, quando già esisteva il primo nucleo della grande Unione che conosciamo oggi, nell’unico Paese che non ne faceva parte, pur essendo geograficamente il suo cuore: la Svizzera.

Ho vissuto a Lugano fino a quando, diciottenne, mi sono trasferita a Bologna per frequentare l’università. Sono quindi cresciuta in un Paese in cui l’alta percentuale di stranieri presenti nella popolazione sin dagli anni Venti del secolo scorso non è bastata a evitare che si radicasse il seme del pregiudizio contro gli immigrati, che dà ancora oggi i suoi frutti avvelenati. Eppure, nonostante le battute di qualche compagno di classe facessero male, sono convinta che proprio l’esperienza di crescere in scuole che negli anni Novanta accoglievano i figli degli immigrati spagnoli, portoghesi o in fuga dalle guerre nei Balcani sia stata quella che più mi ha insegnato come tutte siamo simili nelle nostre diversità, e dobbiamo essere eguali nei diritti e nelle opportunità. Dalle scuole, dalla crescita insieme, infatti, viene la più forte e concreta speranza per una maggiore inclusione sociale.

Mi hanno sempre chiamata Elly, un diminutivo che usavamo in famiglia, ma in realtà mi chiamo Elena Ethel, perché porto con orgoglio i due nomi delle nonne che non ho mai conosciuto. Sono anche io la somma di storie e appartenenze diverse e incompiute, e questo mi ha segnata. In parte ti mette alla ricerca costante di un modo per completarle, ma al contempo ti fa sentire di appartenere a qualcosa di più grande, ti fa sentire che cosa vuol dire essere cittadina europea e del mondo.

 Per tante giovani, in Italia e all’estero, non è così. Per chi nasce e cresce in un Paese che non lo riconosce. Per chi viene respinto. O per chi, non potendo ricordare qualcosa che non ha vissuto in prima persona e che non ha vissuto nessuno che conosce da vicino, ha bisogno di memoria, di musei, di libri, di testimonianze. Non sempre, però, ne trova.

 A Leopoli, dove sono stata nell’autunno del 2018 insieme ai miei genitori per cercare tracce della famiglia di mio padre, senza purtroppo riuscire a trovarne, sembra che i pogrom non ci siano mai stati. La grande sinagoga di Zolkiew è miracolosamente ancora in piedi, imponente e bella, ferita e vuota, sfregiata, i muri densi e freddi che hanno visto e assorbito il male del mondo. Il silenzio rimbomba, lì dentro, fa un rumore sordo come la rimozione dell’accaduto.

A Leopoli non c’è un museo, non c’è un’indicazione sulla mappa per raggiungere quello che è stato il campo di concentramento dove i nazisti costringevano una piccola orchestra di ebrei a suonare, mentre ne venivano uccisi a migliaia. Come faranno le nuove generazioni a evitare i tragici errori del passato recente, se nessuno si preoccupa di tenerne viva la memoria?

 Il nazifascismo è stato sconfitto, ma la minaccia del suo rigurgito non è mai sopita. E non è solo quella diretta, di chi ancora oggi nega, di chi ancora oggi esalta, di chi ancora oggi ha nostalgia di quel regime liberticida e assassino, ma anche quella indiretta. Fa bene l’Anpi a insistere che le organizzazioni neofasciste vengano sciolte, come chiede la Costituzione.

C’è ancora tanto bisogno di antifascismo. Perché quell’ideologia cambia pelle e prova a tornare, e trae linfa vitale ogni volta che incontra l’indifferenza davanti alle ingiustizie. Ogni volta che qualcuno tace davanti a un insulto, una violenza, una prevaricazione, una discriminazione.

 Mi spaventa assistere al riaffiorare ciclico degli argomenti pericolosissimi dello stesso becero nazionalismo che ci ha portato soltanto guerre, odio e massacri. Soprattutto oggi, quando è palese che le sfide della contemporaneità non possiamo affrontarle nascondendoci dietro le frontiere. La sfida climatica, quella migratoria, quella fiscale, la lotta alle diseguaglianze, la pandemia, la pace: non possono trovare soluzione piena nella sola dimensione nazionale. In un mondo così interconnesso, un battito d’ali di farfalla dall’altra parte della Terra può produrre conseguenze ovunque.

Vale per la pandemia da Covid-19, come è stato per la crisi economico-finanziaria del 2008-2009. Ma vale anche per l’evasione fiscale delle grandi multinazionali, che sbeffeggiano i sistemi fiscali di mezzo mondo; vale per le infiltrazioni mafiose, che ignorano con disinvoltura ogni frontiera; vale per la desertificazione, le tempeste extratropicali e l’innalzamento del livello del mare. Vale per le migrazioni, che si orientano là dove sembrano essersi concentrati diritti e prospettive, nonostante i muri che vengono eretti.

 Si sono globalizzati i mercati, la finanza, l’innovazione tecnologica, il riscaldamento globale, la mobilità selettiva (che esclude i poveri), ma non si sono costruiti processi globali di avanzamento dei diritti e della giustizia sociale. Non c’è da stupirsi se c’è chi si mette in moto verso i luoghi dove si sono concentrati sempre di più ricchezze, diritti e opportunità. È la stessa cosa che fece mio nonno, ben prima della globalizzazione e della diffusione della rete.

È lo stesso motore che ha fatto partire i milioni di italiani emigrati tra Ottocento e Novecento in Argentina, negli Stati Uniti, nel Nord Europa o in Australia. La ricerca di una vita dignitosa è la stessa che fa partire oggi quelle centinaia di migliaia di giovani italian? che si trasferiscono all’este- ro in cerca di possibilità che l’Italia non garantisce più. Altri sono i protagonisti e altre le geografie, altri i contesti di partenza e le difficoltà del viaggio, ma la storia è simile, non fa che ripetersi. Siamo noi a doverne scrivere una diversa. Viviamo tempi segnati da ingiustizia sociale e ambientale.

(...)

Il Bestiario, la Gattoparda. La Gattoparda è un leggendario animale che vuole dare una svolta a sinistra al Pd senza rinunciare al pullover di cachemire. Giovanni Zola l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La Gattoparda è un leggendario animale che vuole dare una svolta a sinistra al Pd senza rinunciare al pullover di cachemire.

La Gattoparda è un mitico essere creato in laboratorio e programmato per essere una predestinata della politica italiana di sinistra, tanto da presentarsi come candidata per diventare “La Segretaria” del Pd. Di fatto i meriti per ricoprire un ruolo così importante sono un mistero, un po’ come un mistero è stata la scelta di Mattia Binotto alla guida della Ferrari, ma con la differenza che, se non altro, Mattia faceva cambiare le gomme in 2,2 secondi.

D’altra parte nessuno si è permesso di fermare la volontà della Gattoparda di candidarsi come “La Segretaria” del Pd, in quanto, se solo avesse voluto, avrebbe potuto comprare il Pd insieme a tutto Largo del Nazareno solo grazie alla paghetta settimanale del padre miliardario. Ma si sa, da diversi anni ormai più si è ricchi e più si è di sinistra, probabilmente per cercare di levarsi di dosso il senso di colpa che nasce dall’andare in vacanza alla casa ai Caraibi il ponte dal 25 aprile al primo maggio.

La Gattoparda sembra voler proporre un vento nuovo di ricostruzione del Pd proponendo pochi ma innovativi concetti chiave. Mentre infatti i suoi predecessori hanno insistito su principi, per quanto sacrosanti, come lavoro, diritti, giustizia sociale e ambiente, lei invece, in una sorta di rivoluzione copernicana, insiste su concetti come lavoro, diritti, giustizia sociale e ambiente.

Ma la vera novità su cui la Gattoparda insiste per conquistare il ruolo de “La Segretaria” del Pd, è una decisa svolta a sinistra, facendo attenzione a non esagerare, in quanto se si svolta quattro volte a sinistra si torna sempre al punto di partenza. La Gattoparda quindi auspica una mobilitazione collettiva, dai volontari delle feste dell’Unità che le hanno insegnato a friggere le salamelle e a limonare durante il concerto degli Inti Illimani, ai presidenti delle cooperative che tanto hanno preso e nulla hanno dato, fino agli amministratori delle grandi città che tanti sacrifici hanno fatto per limitare il traffico a favore dei milionari del centro storico.

Insomma per la Gattoparda è arrivato il momento di ricostruire una nuova comunità senza più rinunciare a tre punti fondamentali: un’identità chiara, proprio come lei che si dichiara bisex, comprensibile, proprio come lei che ha tre cittadinanze, e coerente, proprio come lei che è di sinistra ma un patrimonio che supera il PIL del Luxemburgo.

AGI il 2 dicembre 2022. Ignoti hanno incendiato nella notte ad Atene un'automobile della consigliera Susanna Schlein, n.2 dell'ambasciata italiana in Grecia. L'auto è andata completamente distrutta dopo un'esplosione. Lo riferisce in una nota la Farnesina, che "condanna con la massima fermezza il grave atto criminoso a danno del primo consigliere della sua famiglia".

Svegliata da alcuni botti in rapida successione, prosegue la nota, la consigliera Schlein si è subito accorta del tentativo di appiccare il fuoco a una seconda auto di sua proprietà, nei pressi della quale è stata rinvenuta una bottiglia molotov con la miccia semi-consumata. La polizia greca sta effettuando i necessari rilievi scientifici ed investigativi. La Farnesina esprime vicinanza e massima solidarietà alla consigliera Schlein e alla sua famiglia.

Tajani visiterà l'ambasciata

 "Attentato contro il Primo Consigliere dell'Ambasciata d'Italia in Grecia. Ho telefonato a Susanna Schlein per esprimerle la mia solidarietà. Oggi sarò ad Atene per incontrare il primo ministro Mitsotakis. Visiterò l'ambasciata d'Italia", scrive su Twitter il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 2 dicembre 2022.

Potrebbe essere collegato alle proteste per la detenzione di Alfredo Cospito, l’anarchico di 57 anni condannato all’ergastolo e sottoposto al regime di 41 bis, l’attentato contro il primo consigliere dell’Ambasciata d’Italia in Grecia Susanna Schlein, sorella della possibile candidata alla guida del Pd Elly Schlein, ad Atene.

È la convinzione di chi sta indagando sull’incendio che ha distrutto l’auto della diplomatica ma che poteva avere conseguenze più gravi. Secondo i primi accertamenti svolti ad Atene e riferiti in queste ore ai vertici di Farnesina e Viminale c’era una seconda molotov vicino a un’auto che si trovava sotto la finestra della camera da letto di Schlein e all’impianto del gas. «Se fosse esplosa poteva provocare vittime», è la convinzione degli investigatori.

«La mia famiglia è ancora molto scossa per il terribile rischio che abbiamo corso questa notte. È stato del tutto inaspettato. Ora dobbiamo guardare avanti e non avere paura, affidandoci all’azione della magistratura italiana e greca per identificare i responsabili», ha commentato la stessa Schlein che vive ad Atena con il marito e i due figli.

Cospito è stato condannato per l’attentato di dieci anni fa contro Roberto Adinolfi, l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare che fu gambizzato, e di aver messo due pacchi bomba nel 2006 nella Scuola per allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo.

Lo scorso aprile è stato deciso il regime di 41 bis dopo il sequestro di alcune lettere con esponenti anarchici Cospito ha cominciato lo sciopero della fame e nei prossimi giorni è prevista una decisione sui giudici per il suo ricorso. Nell’attesa in molti Paesi, sono cominciate mobilitazioni e proteste. Gli investigatori ellenici ritengono che l’azione nei confronti di Schlein possa essere maturato proprio tra i gruppi più estremisti.

La diplomatica: Primo Consigliere dell'Ambasciata italiana in Grecia. Chi è Susanna Schlein, la sorella della dem Elly obiettivo di un attentato: "Pista anarchica". Redazione su Il Riformista il 2 Dicembre 2022

L’auto di Susanna Schlein era parcheggiata nei pressi di un condominio, ad Atene. È stata incendiata, appiccato il fuoco la scorsa notte e la vettura è andata completamente distrutta. La ricostruzione dell’Ansa riporta le prime notizie sulle indagini della polizia greca sul rogo doloso e la nota della Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, che cita l’ipotesi di una pista anarchica dietro quello che il ministro degli Esteri Antonio Tajani non ha esitato a definito "attentato". Susanna Schlein è Primo Consigliere dell’Ambasciata italiana della capitale italiana in Grecia e sorella di Elly Schlein, deputata ed esponente del Partito Democratico, vice presidente dell’Emilia Romagna, probabile candidata alla segreteria dem.

L’incendio stava per causare danni anche a un’altra auto della diplomatica, che si è svegliata nel cuore della notte, per via di alcuni botti in rapida successione e si sarebbe accorta del tentativo di appiccare il fuoco anche alla seconda vettura. Le autorità hanno infatti rinvenuto nelle vicinanze dell’azione una bomba molotov con una miccia mezza esaurita. Sul posto sono intervenuti vigili del fuoco. La Farnesina ha condannato con massima fermezza l’atto criminoso ed espresso la sua vicinanza e solidarietà alla diplomatica.

"Esprimo la vicinanza mia personale e del Governo italiano al Primo Consigliere dell’Ambasciata d’Italia ad Atene, Susanna Schlein, e la profonda preoccupazione per l’attentato che l’ha colpita – ha scritto in una nota la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni in una nota – , di probabile matrice anarchica. Seguo la vicenda con la massima attenzione, anche tramite il Ministro degli Esteri Antonio Tajani, oggi in visita ad Atene".

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annunciato infatti in un post sui social network che oggi si recherà ad Atene: "Attentato contro il Primo Consigliere dell’Ambasciata d’Italia in Grecia. Ho telefonato a Susanna Schlein per esprimerle la mia solidarietà. Oggi sarò ad Atene per incontrare il Primo Ministro Kmitsotakis. Visiterò l’Ambasciata d’Italia", si legge su Twitter. Susanna Sylvia Schlein ricopre un incarico che costituisce il terzo grado della carriera diplomatica italiana. Ad Atene Schlein è la seconda persona in carica dopo l’ambasciatrice Patrizia Falcinelli.

Elly Schlein qualche giorno fa ha annunciato di aver aderito al percorso costituente del Pd. Potrebbe sciogliere la riserva nei prossimi giorni per la candidatura ai vertici del Partito. 37 anni, nata a Lugano, figlia di un politologo statunitense e di una docente italiana. Si è dichiarata apertamente bisessuale. È stata eurodeputata nelle liste del Partito Democratico prima di passare a Possibile fino al giugno 2019. È vicepresidente della Regione Emilia Romagna. Si è candidata indipendente nelle liste della coalizione di centrosinistra ed è stata eletta alle elezioni politiche dello scorso 25 settembre. Il Guardian l’ha definita "stella nascente dell’alleanza della sinistra italiana" e l’ha paragonata alla parlamentare statunitense Alexandria Ocasio Cortez, considerata il volto della nuova sinistra.

Estratto dell’articolo di Francesco Mazzanti per corriere.it il 28 febbraio 2023.

«Premetto che di solito non parlo mai e sono molto riservata sulla mia vita personale, ma in questo caso faccio un’eccezione: sì, sono fidanzata, ho avuto diverse relazioni in passato. Ho amato molte donne e amato molti uomini, in questo momento sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta». Elly Schlein, eletta ieri a sorpresa segretaria del Partito democratico, aveva risposto così alla domanda di Daria Bignardi durante una puntata della trasmissione televisiva L’assedio, andata in onda a febbraio del 2020.

Schlein era appena stata nominata vicepresidente della Regione Emilia-Romagna da Stefano Bonaccini. «Cammina sempre fianco a fianco, questo è l’importante», aveva risposto la neosegretaria del Partito Democratico, in riferimento alla sua compagna, alla domanda di Daria Bignardi.

 (…)

Ora, finalmente, il Nazareno è guidato per la prima volta da una donna che rappresenta, appunto, un modello differente da quello incarnato dalla premier. «Sono una donna. Amo un’altra donna e non sono una madre, ma non per questo sono meno donna», aveva detto Schlein in piazza del Popolo, lo scorso settembre, alla chiusura della campagna elettorale del Pd prima delle elezioni politiche. «Non siamo uteri viventi – aveva concluso –, ma persone coi loro diritti».

Estratto da “La Stampa” il 28 febbraio 2023.

 L'elezione di Elly Schlein è descritta da molti media stranieri come una «svolta storica» per il Partito democratico, che ora ha trovato la sua «anti-Meloni». Il settimanale tedesco Der Spiegel descrive Schlein «queer e progressista» e «l'alternativa alla premier post-fascista». Spiegel fa un paragone con la democratica statunitense Alexandria Ocasio-Cortez «per la sua inaspettata ascesa al potere e lo zelo attivista». […]

 La tv americana Cbs sottolinea «il coraggio in due campagne presidenziali statunitensi», e la sua elezione come la scelta di fatto «del leader dell'opposizione». Le Soir definisce l'elezione di Schlein la scelta tra «trasformarsi o morire» perché il Pd è il «baluardo indebolito del centrosinistra italiano». Per Liberation “gli elettori hanno scelto di svoltare a sinistra” […]

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 28 febbraio 2023.

Anche Elly Schlein, come tutti, ha un segreto: «Mio padre non sapeva del vizio delle sigarette, c’ho messo più tempo a confessargli che fumavo che a rivelargli i miei orientamenti sessuali».

 Ora Schlein non fuma più, svapa: «Mi sento più a mio agio con gli altri». Bisognerà dunque cercarne altri, di segreti della neosegretaria del Partito democratico. Anche i suoi orientamenti, appunto, sono pubblici da quando decise di rivelare in un’intervista la sua bisessualità: «Ho amato uomini, ho amato donne, ora sono felice con una ragazza”.

 [...] Elly – all’anagrafe Elen Ethel, i nomi delle nonne materne - è scaltra. [...] Dicono sempre i detrattori, e ce ne sono tanti nel Pd, lo scoprirà presto, che sia un po’ naif, e però anche qui c’è da discuterne. L’ex grillino Dino Giarrusso, che le aveva fatto sapere di essere pronto a sostenerla, lei l’ha mandato a stendere; Bonaccini se lo è ritrovato sul palco della sua convention congressuale e prima o poi Ilvo Diamanti ci svelerà quanti voti alle primarie gli è costato.

[...] Le piace definirsi nerd. [...] Ama suonare la chitarra elettrica, i giochi da tavolo (Trivial Pursuit, il super quiz di cultura generale è il preferito), i videogiochi. [...] le piace molto anche Zerocalcare.

Sui social compare ogni tanto l’adorato cane Pila. Nel 2008 sfrutta l’appoggio da un parente per partecipare da volontaria alla campagna di Barack Obama: «Lì ho capito che non bisogna chiedere i voti, ma mobilitare le persone sulle idee» [...] «Non voglio una sinistra da centro storico», dice dopo l’exploit alle Regionali, tuttavia è proprio nelle Ztl (Zone a traffico limitato) di Roma, Torino e Milano che ha surclassato Bonaccini, cosa che certo incoraggerà i buontemponi della destra che l’hanno soprannominata ZtElly.

Ecologista (cita spesso il verde sudtirolese Alex Langer), femminista, intersezionalista, come vuole la cultura dominante negli atenei statunitensi basata sull’analisi del grado di privilegio di cui si gode (bianco, maschio, etero, ricco è il peggio), Schlein ha promesso alla trasmissione radiofonica Un gioco da pecora che avrebbe tinto i capelli di rosso in caso di vittoria. Non pensate lo abbia fatto al buio. Il giorno in cui scoppiò il caso Giarrusso, il sindaco di Firenze Dario Nardella, sostenitore di Bonaccini, fece un comunicato: «Stop alla corsa sul carro dei vincitori». I collaboratori lo lessero a Schlein che disse: «Pensa quando scopriranno che non è nemmeno il carro giusto». Era già sinceramente convinta di vincere. Magari aveva pure già deciso di tingersi i capelli.

Travaglio sul tweet di Schlein: «Sì, è vero, ho un sorrisetto da st...» Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023.

Il direttore del Fatto quotidiano giustifica il suo atteggiamento rievocando il contesto in cui maturò. E punzecchia la neo segretaria del Pd

«Quel sorrisetto da st... lo detesto anche io».

È l’ammissione che Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano, oggi fa sul suo giornale rievocando un tweet a lui dedicato da Elly Schlein riemerso in questi giorni dopo la vittoria della deputata alle primarie del Pd.

I fatti risalgono a dieci anni fa.

Era il 7 marzo 2013 e si facevano i conti con i risultati delle elezioni politiche. C’erano un M5S in forte crescita con il 25,6% e un Pd con il 25,4% diviso se avanzare o non avanzare intese con i Cinque Stelle per formare una maggioranza e quindi un governo (che i pentastellati non volevano).

Durante la trasmissione televisiva Servizio pubblico di Michele Santoro, presente Travaglio, Elly Schlein inviava un tweet: «Quel sorrisetto del c... di Travaglio, che potrebbe avere solo uno stronzo».

Schlein aveva 27 anni, avrebbe poi guidato il movimento Occupy Pd per contestare le manovre dentro ai dem che avevano portato alla bocciatura in Parlamento di Romano Prodi a presidente della Repubblica.

Il direttore del Fatto oggi riconosce dunque l’appropriatezza della critica di Schlein rivoltagli dieci anni fa, spiegando però che quel sorrisetto «mi esce sempre fuori quando mi confronto con uno st... o una st...ta».

Concludendo, in riferimento alla segreteria conquistata nel dopo Letta da Schlein: «La storia si vendica sempre, con quel sorrisetto da st...a».

"Quel sorrisetto del c...". Elly Schlein e quel tweet di fuoco su Travaglio. Sui social è tornato alla ribalta un tweet del 2013 in cui Elly Schlein, allora giovane attivista dem, si scagliava con toni forti contro Travaglio. Dieci anni dopo, la situazione è un po' cambiata. Marco Leardi su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

A volte ritornano (i tweet del passato). Rimestando nel grande calderone dei social network, capita che riemergano vecchi contenuti in grado di suscitare uno scalpore presente. È il caso di un seccatissimo cinguettio pubblicato da Elly Schlein nel 2013 contro Marco Travaglio. Dieci anni fa, l'allora attivista di centrosinistra si scagliò contro il direttore del Fatto Quotidiano con un commento di fuoco. Tenetevi forte, eccolo qui: "E quel sorrisetto del caz*o di Travaglio, che potrebbe avere solo uno stronzo che ha altri due passaporti nella tasca interna del cappotto".

A distanza di tempo, qualche utente smanettone di Twitter ha ritrovato quel reperto social. E subito il cinguettio postato dalla Schlein il 7 marzo 2013 da Bologna (così riporta la geolocalizzazione) è tornato clamorosamente alla ribalta, sospinto nelle ultime ore da una serie di commenti e di retweet. All'epoca, Elly era una simpatizzante di centrosinistra vicina alle posizioni di Romano Prodi e di lì a pochi mesi avrebbe lanciato l'iniziativa Occupy Pd, per dare voce al malumore di parte della base giovanile dem rispetto alla nascita del governo Letta con una maggioranza basata sulle larghe intese.

Non è chiaro cosa allora avesse provocato quella reazione della Schlein, che - a giudicare dal tweet -pare non avesse gradito le espressioni del giornalista torinese. Un decennio dopo molte cose sono cambiate, innanzitutto nei toni di Elly, divenuta nel frattempo deputata e segretario di quel Pd che un tempo voleva "occupare". Di recente, in una sua ospitata a Otto e Mezzo su La7, è stato proprio Marco Travaglio a evocare il passato della (ex) attivista luganese, menzionando in particolare il suo impegno iniziato a intensificarsi dieci anni fa.

"Ricordo anche che nel 2013 con la campagna Occupy Pd, Schlein cominciò a contestare il partito, quando cioè prima col golpe bianco dei 101 franchi tiratori contro Prodi e poi col secondo golpe bianco della rielezione di Napolitano, si impedì quell’intesa col M5s che Beppe Grillo aveva proposto in caso di elezione di Stefano Rodotà al Quirinale coi voti del Pd e dei 5 Stelle. Quindi, è un appuntamento mancato. Abbiamo praticamente perso 10 anni", ha affermato il direttore del Fatto Quotidiano.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 2 marzo 2023.

Quel sorrisetto del cazzo di Travaglio, che potrebbe avere solo uno stronzo...”. Era la sera del 7 marzo 2013 e così twittava Elly Schlein durante una puntata di Servizio Pubblico. Il Pd di Bersani aveva appena non-vinto le elezioni, i 5Stelle erano passati da zero al 25,5% e da Santoro parlavamo della non-soluzione proposta dai dem al conflitto d’interessi di B..

 Qualcuno ieri ha riesumato quel tweet, come se si potesse giudicare una persona da due righe scritte a 27 anni. E in effetti si può. Bisogna sempre diffidare di chi non dice parolacce. E quel sorrisetto da stronzo lo detesto anch’io, ma mi esce sempre fuori quando mi confronto con uno stronzo o una stronzata (in quel caso, la non-soluzione eccetera).

 […] Bersani fece una cosa buona: tentò un approccio coi 5Stelle appena entrati in Parlamento per un appoggio esterno al suo governo, arduo da pretendere visto che avevano i suoi stessi voti ma non avevano voce in capitolo sul programma né sui ministri.

Ma fece pure una cosa pessima: mentre Grillo lanciava, dopo le Quirinarie online, la candidatura di Rodotà per il dopo-Napolitano, il Pd si accordava con B. per eleggere Franco Marini.

Nacque così, dalla base giovanile, il movimento Occupy Pd, con lo slogan: “Noi MARINIamo il Colle. Votate Rodotà”. Poi, trombato Marini dai franchi tiratori, Elly&C. si riconobbero nella candidatura Prodi, osteggiata da B. e tutt’altro che sgradita ai 5S (alcuni di loro addirittura lo votarono). Ma anche il Prof fu impallinato […] E lì si capì che Bersani non controllava più il partito proprio per le sue avance ai 5Stelle: i capibastone già puntavano su Enrico Letta, noto nipote di suo zio, per una bella ammucchiata con B..

[…] Il finale è noto: il pilota automatico Napolitano rieletto da Pd, FI e centristi, Rodotà votato da 5S e Sel, Bersani a casa, governo Letta con gli sconfitti alle elezioni per tener fuori i vincitori, Schlein e gli altri di OccupyPd che stracciano le tessere. Ora, 10 anni dopo, Elly occupa davvero il Pd distrutto da Letta col pilota automatico di Draghi. La storia si vendica sempre, con quel sorrisetto da stronza.

Estratto dell'articolo di Paolo Bracalini per “il Giornale” il 2 marzo 2023.

Il fenomeno Elly Schlein non è nato da un giorno all’altro, c’è un lavoro dietro. I giornali stranieri la chiamano «l’americana», ricordando tutti – a partire dal Washington Post – il suo passaporto Usa e l’esperienza da volontaria al seguito della campagna di Barack Obama nel 2008. Ci sono altri legami a stelle e strisce.

 Uno porta alla Social Changes, sedi a Milano e Roma, «una società che opera a livello internazionale per trasformare il modo in cui i progressisti affrontano le campagne elettorali», leggiamo sul sito dove campeggia l’immagina di Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata radical dem a cui si ispira proprio la Schlein.

Il fondatore è Arun Chaudhary, curatore delle campagne digitali di diversi candidati dem negli Stati Uniti ma soprattutto primo videomaker ufficiale della Casa Bianca con Barack Obama. La società è molto attiva anche in Italia sul fronte progressista, la loro è una missione, «quando troviamo una persona o una causa per cui vale la pena combattere, la nostra prima domanda non riguarda i soldi a disposizione». Infatti spesso non solo non lo chiedono, ma ce li mettono loro, finanziando candidati Pd.

 […] Tra questi talenti progressisti (sinistra Pd) da supportare c’è anche Elly Schlein, ma anche Brando Benifei, capogruppo Pd al Parlamento europeo, e Caterina Cerroni, segretaria nazionale dei giovani del Pd, anche lei femminista e ecologista. Nelle regionali del 2020 in Emilia-Romagna Social Changes ha sostenuto la campagna elettorale della Schlein, risultata campionessa di preferenze e quindi vice di Bonaccini in Regione.

Di lì poi il coming out della Schlein («Ho amato uomini e donne. Ora sto con una ragazza») in tv nel programma di Daria Bignardi. Il cui figlio, Ludovico Manzoni, lavorava proprio alla Social Changes in veste di «political expert», come rivelò Luca Fazzo sul nostro Giornale.

 Non è chiaro se abbiano aiutato la Schlein anche per le primarie Pd, abbiamo provato a contattare la Social Changes ma al momento senza risposta.

L’altro legame americano discende dalla famiglia, cioè dal padre, Melvin Schlein, professore emerito di Scienze politiche alla Franklin University di Lugano. Il suo ruolo si intreccia con quello del suo coetaneo Romano Prodi, a Bologna. Le loro due carriere si incrociano, racconta Italia Oggi, «il Professore come uomo di punta della casa editrice Il Mulino, Melvin Schlein come direttore (1969-1973) della John Hopkins University di Bologna[…]».

E il ruolo di Prodi è stato significativo nell’ascesa della Schlein, che politicamente sboccia proprio con il movimento «Occupy Pd» nato come protesta dei giovani Pd contro il siluramento del Professore nell’elezione del Quirinale Una «novità», la Schlein, ma già con un interessante passato alle spalle.

Estratto dell'articolo di Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 2 marzo 2023.

Elly Schlein ribattezzata 'Elly Shloma', definita 'garante dell'ebraismo internazionale', una ebrea o 'direttamente collegata a loro'. La vittoria alle primarie della candidata emiliana è stata accompagnata da tutta una serie di commenti e riferimenti di natura antisemita pubblicati sui social e segnalati dall'Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica di Milano.

 "Alcuni utenti - si legge nel report del Cdec - riprendono il mito accusatorio dell''ebraismo internazionale', degli 'ebrei ashkenaziti e di Soros, sempre legando tutto alle sue origini ebraiche paterne per alimentare l'idea che tutto faccia parte di un complotto ebraico. Una utente sostiene che gli ebrei, dopo 2.000 anni, si stanno vendicando degli italiani che 'li hanno cacciatì da Israele, mentre un altro sostiene di cominciare a comprendere Hitler'".

La 'colpa' di Schlein per l'appunto sarebbe quella di avere un papà ebreo, nonostante lei stessa nella campagna elettorale abbia specificato di non essere tale. L'Unione Giovani Ebrei d'Italia (Ugei) denuncia poi che questo tipo di contenuti sono stati condivisi anche da alcuni politici: Chiara Bonomi, assessore alla sicurezza urbana del comune di Abbiategrasso (Mi) e Nella Corrado, consigliere comunale ad Arluno (Mi), che nel fare un un elenco dei 'difetti' di Schlein hanno menzionato l'essere 'ebrea ashkenazita'.

(…)

La fogna social. Gli insulti antisemiti a Schlein e la tragicommedia del giornalismo impegnato. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 4 Marzo 2023.

Il bieco razzismo anti ebraico e l’impeto civile di chi ci tiene a specificare che no, per carità, la nuova segreteria del Pd non è affatto ebrea

A volte l’impeto civile del giornalismo impegnato gioca brutti scherzi. Vedi per esempio quello che l’altro giorno rigonfiava la prosa di un pezzo vigorosissimo e democratico assai (non importa firmato da chi e dove pubblicato, conta la mission), doverosamente rivolto a denunciare il rigurgito di insulti antisemiti che la fogna social ha dato fuori in direzione di Elly Schlein.

«La “colpa” di Schlein», si spiegava in quel fremente componimento, «per l’appunto sarebbe quella di avere un papà ebreo, nonostante lei stessa nella campagna elettorale abbia specificato di non essere tale». E perdio! Non vuoi insorgere davanti a un simile schifo? Vuoi forse lasciare indifesa la vittima di questa ignominia? La insultano in quanto ebrea, questi sporchi vigliacchi, “nonostante” lei non lo sia manco per nulla. Lei lo ha pure specificato, accidenti, ma quelli niente, glielo dicono lo stesso. Stronzi. La mamma in realtà è ariana, o a dir poco etrusca, e ciò “nonostante” questi manipoli di negazionisti la trattano da ebrea. Una vergogna incommensurabile.

Tu metti un mascalzone che dice «sporco neg*o» a un mulatto “nonostante” questo abbia specificato che ha il papà bianco: che fai, ti giri dall’altra parte e non condanni come si deve il fatto increscioso? Stai a vedere che dobbiamo lasciar correre gli insulti razzisti nonostante siano immeritati. Eh no. La verità, signori miei, la verità prima di tutto: Elly Schlein non è ebrea, quindi gridare che è un’ebrea schifosa implica una contraffazione di gravità inaudita. Basta con queste pericolose fake news. E a chi si azzardasse a dirle «brutta lesbicaccia» diciamo chiaramente che prima deve portare le prove.

Estratto dell'articolo di Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 3 marzo 2023.

Molti del centrodestra esultano in questi giorni. E chi dice meno male che c’è lei (Elly Schlein) non ha capito nulla della neo segretaria del Pd. Non ha capito che se fosse stato eletto Bonacciani per il governo sarebbe stata non dico una passeggiata, ma una classica opposizione di sinistra.

 […]

E che dire del suo look da molti descritto come sciatto. Cos’ha di sciatto? Le sue giacche sembrano addirittura sartoriali. Sì, ma sono colorate e di due taglie in più, criticano. Colorate come dettano gli stilisti che contano da Prada a Giorgio Armani: le abbiamo appena viste sfilare in passerella durante la fashion week milanese. Di due taglie in più? Esattamente, stile anni Ottanta (bentornati). Sono le nuove misure della moda, specialmente con le spalle enfatizzate. Esattamente come i blazer di Elly.

Che vi aspettavate che la Schlein si presentasse in tubino nero Colazione da Tiffany o in tailleur iperfemminile magari pure con lo spacco sexy?

 Il suo stile è un altro, ed è chiaro e preciso: jeans, camicia tinta unita o a fantasia, oppure a righe e a volte in denim (in alternativa la maglietta preferibilmente bianca) e giacca a tinte accese o dalla stampa molto simile a quella realizzata recentemente da Prada.

Parka e zainetto per concludere il look, studiato a tavolino (come tutto il resto), l’ideale per salire sul palco e fare un comizio o presentarsi alla conferenza stampa e per ricevere gli applausi dopo la vittoria. E chi scrive che l’estetica del nuovo numero uno del partito dell’opposizione rappresenta le basi diffuse tra i giovani dell’estrema sinistra, ovvero sciatteria, noncuranza e indifferenza, purtroppo non ha capito niente. […]

Antifascista, azionista e membro del Cnl. Chi era Agostino Viviani il nonno di Elly Schlein: avvocato, socialista e garantista amico dei radicali. Marco Perduca su Il Riformista il 2 Marzo 2023

Dei personaggi pubblici si sanno le cose più inutili mentre se ne tralasciano altre spesso più significative per il ruolo che ricoprono. Dopo aver scandagliato le sue relazioni amorose, l’abbigliamento e il parrucchiere si è perfino parlato del naso di Elly Schlein tralasciando di ricordare che è anche nipote di un grande avvocato penalista e Senatore della Repubblica: Agostino Viviani.

Nella diatriba natura vs cultura qui si tifa per la seconda e, proprio come Schlein, si è a favore dello ius soli, oltre che di quello culturae, ma se è vero che il Dna non tramanda tratti politici, la famigliarità con esempi di rispetto della legalità costituzionale potrebbe in effetti “do the trick” – come si dice in una delle lingue della cosmopolita neo segretaria del Partito Democratico. Agostino Viviani, nonno materno di Schlein, è stato un tribuno della plebe del XX secolo che da legislatore fece tesoro di queste sue esperienze in Senato in anni in cui la politica non aveva paura della propria ombra e non era alla spasmodica ricerca di consenso anteponendolo ai principi costituzionali. Antifascista azionista e membro del Cnl, prima ancora che legislatore socialista, visti i temi affrontati pienamente liberale e quindi radicale, Viviani è stato un “principe del foro” anche se più abile che noto.

Dopo aver difeso mezzadri e “popolino”, negli anni Settanta e Ottanta ha assistito esponenti delle Brigate rosse, Proletari armati per il comunismo, Prima linea e Comunisti organizzati per la liberazione proletaria. In una della sue interviste di fine carriera confessò che “nell’assistere ad abusi nelle aule dove si cerca giustizia, credevo di dover morire a causa del fegato ingrossato e dei dispiaceri nel veder quanta ingiustizia ci sia nel nostro paese […]. E invece sono ancora vivo e vegeto e mi sto lentamente convincendo che pur sicuro di perdere la nostra battaglia [per una giustizia giusta, ndr], essa può rappresentare una spinta, una speranza per incidere una traccia nel futuro, per i nostri figli, per i nostri nipoti”. Si diceva i nipoti, anzi la nipote.

Secondo la vulgata patriarcale le colpe dei padri non ricadono sui figli – stesso dicasi dei meriti, ciò non toglie che, avendoci Viviani lasciato nel 2009 – quando Elly aveva 24 anni – discutere con un nonno di tal fatta con cui si condividevano interessi e impegni civici e politici, tra un una fetta di buristo e un ricciarello, magari alla vigilia di un Palio dove correva la Pantera, potrebbe aver consolidato consapevolezze e convinzioni saldamente ancorate ai valori di giustizia e libertà. Se la mozione Schlein è generalista su praticamente tutto, e conoscendo dov’è stata scritta e chi la sosteneva se ne può capire il perché, il vissuto e gli insegnamenti famigliari fatti di esempi pubblici non possono non far parte del vissuto di Schlein e della sua educazione politica.

Nel 1972, amico di una vita di Lelio Basso, Viviani fu eletto senatore nelle liste del Partito Socialista Italiano. In quanto esperto in materia, fu presidente della Commissione Giustizia e designato dal ministro di Grazia e Giustizia a far parte della Commissione consultiva per la riforma del codice di procedura penale. Nel bel mezzo degli “anni di piombo”, la 2a Commissione del Senato contribuì a elaborare, approvandole, fondamentali riforme strutturali come quella del diritto di famiglia del 1975 che, secondo Viviani, aveva come obiettivo principale il riconoscimento “della perfetta parità dei coniugi, riconoscimento della funzione e della posizione che la donna ha saputo guadagnarsi nella società e nella famiglia, riconoscimento della priorità dell’interesse dei figli siano essi nati nel matrimonio o fuori da esso”.

Non è un caso se il Viviani parlamentare frequentò da subito il Partito Radicale – prima formazione di “sinistra liberale” a eleggere nel 1976 una donna segretaria: Adelaide Aglietta. Una vicinanza che lo portò a diventare presidente del Consiglio Federativo del Partito negli anni ‘80. Altra importante legge fortemente voluta da Viviani fu la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 con norme che introducevano nel sistema italiano una regolamentazione all’avanguardia per i suoi tempi. In quello stesso anno Viviani partecipò all’elaborazione della legge sulla disciplina degli stupefacenti la cui riforma fu letteralmente istigata da una disobbedienza civile di Marco Pannella che venne arrestato dopo aver fumato uno “spinello” in una conferenza stampa nella sede del Partito Radicale.

Nella successiva legislatura, quando quattro radicali entrarono per la prima volta alla Camera, Viviani tornò in Senato dove fu confermato all’unanimità presidente della Commissione Giustizia. Ed è nelle settimane del rapimento e omicidio di Aldo Moro che sotto la guida di Viviani il Parlamento approva “Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza”. Sempre nell’estate del 1978 verranno adottate anche la legge che abolirà i manicomi e la definitiva strutturazione del Sistema Sanitario Nazionale. In anni in cui in Italia si sequestravano, gambizzavano o assassinavano politici e magistrati la politica non si faceva intimidire. Viviani era anche un grande oratore, piacevole da ascoltare per il suo, non, accento senese che rendeva il suo eloquio pressoché perfetto -, l’archivio di Radio Radicale è ricco di suoi interventi, un gran parlare che non era mai fine a se stesso, arricchiva solidi argomenti giuridici a sostegno di riforme strutturali per l’affermazione dello Stato di Diritto in un Paese dove ancora vigeva un codice penale adottato negli anni ‘30.

Verso la fine della VII Legislatura Viviani fu firmatario unico di un disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati frutto anche della pratica forense che lo aveva visto spesso confrontarsi aspramente con l’incontrollata, e per sua stessa ammissione spesso illegale, funzione giurisdizionale. Mal gliene incolse. Quella proposta segnò la fine della sua carriera parlamentare, infatti, per via degli attacchi dell’Associazione Nazionale Magistrati, il neoeletto segretario del Psi Bettino Craxi decise di non ricandidarlo alle politiche del 1979. Di lì a due anni Viviani si dimise dal Psi e tornò a fare l’avvocato difensore. Nel 1987 Viviani si prese una rivincita nei confronti dei suoi “avversari” facendo parte del comitato promotore del vittorioso referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, una riforma che Giuliano Vassalli, suo ex-collega di partito e finissimo giurista, di lì a poco annullò.

Nel 1990 Vassalli avrebbe inoltre pensato la peggiore legge in materia di stupefacenti stravolgendo quel poco di buon senso che Viviani era riuscito a includere nella normativa sulle droghe di 15 anni prima. Dal 1994 al 1998 fu membro laico del Csm grazie a quell’esperimento liberale che fu la prima Forza Italia che, tra gli altri, aveva fatto eleggere alla Camera l’avvocato di Enzo Tortora Raffaele della Valle. Nel ricordarne la figura nell’anno della sua morte, il giurista Giuseppe Di Federico, anch’egli al Csm dal 2002 al 2006 ricordò che Viviani “per riequilibrare i rapporti tra accusa e difesa riteneva fosse necessaria una riforma che dividesse il corpo dei giudici da quello dei Pm. Gli fu obiettato, tesi ricorrente, che in tal caso diminuirebbero le garanzie processuali per il cittadino in quanto un Pm distaccato dal giudice perderebbe la cultura della giurisdizione”.

Sono anni che non si trova traccia di quella “cultura della giurisdizione” – anche nel Csm – come sono decenni che non si trova traccia di una politica che da sinistra ne denunci l’assenza. Fermo restando che i meriti dei nonni eccetera, nel momento in cui si paventa la trasformazione del Pd in un “partito radicale di massa” sarebbe auspicabile potersi confrontare con l’eccezione che conferma la regola della non ereditarietà genetica e finalmente porre al centro della politica italiana il rispetto dello Stato di Diritto, il cuore della politica radicale. Marco Perduca

La politica come passione. Chi è Elly Schlein, la nuova segretaria del Pd: la storia di famiglia, l’ascesa politica fino alla vittoria alle primarie. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Febbraio 2023

A 37 anni Elly Schlein è la prima donna ad essere stata eletta segretaria del Pd. Ed è anche la più giovane segretaria del partito. Ha battuto Stefano Bonaccini alle primarie con il 53, 80%: un risultato per nulla scontato visto che lo sfidante era ritenuto come ampiamente favorito anche nei sondaggi. Da settembre Shlein è una deputata, precedentemente è stata per due anni e mezzo vicepresidente della Regione Emilia Romagna, durante la presidenza di Bonaccini. Prima ancora è stata europarlamentare. La sua carriera politica è iniziata da giovanissima.

Nata a Lugano, in Svizzera, la sua passione politica è probabilmente frutto di una storia familiare che ha radici molto profonde. Suo nonno materno era Agostino Viviani, partigiano e poi senatore del Partito Socialista e presidente della Commissione Giustizia del Senato e, dal 1994 al 1998, membro laico del Consiglio superiore della magistratura. Il nonno paterno invece emigrò negli Stati Uniti da Leopoli, che oggi si trova in Ucraina, per sfuggire alle persecuzioni contro gli ebrei, approdando come tanti che cercavano rifugio a Ellis Island. Suo padre è Melvin Schlein, un politologo e accademico statunitense, professore emerito di Scienze politiche e ha un passato da assistant director nella sede bolognese della Johns Hopkins University. Sua madre è italiana, Maria Paola Viviani, è professoressa ordinaria di diritto pubblico comparato presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi dell’Insubria. Suo fratello è il matematico Benjamin Schlein (1975) e sua sorella Susanna Schlein (1978) è primo consigliere diplomatico all’Ambasciata italiana ad Atene ed ex-capo della cancelleria consolare dell’ambasciata italiana a Tirana. Nel 2020 mentre era ospite a L’Assedio, il programma di Daria Bignardi, Schlein aveva fatto coming out, dicendo di avere una ragazza ma si è sempre dichiarata bisessuale.

Schlein arrivò a Bologna a 19 anni, dove studiò giurisprudenza e mosse i primi passi nella politica universitaria. Si laureò con il massimo dei voti con una tesi di laurea sulle persone straniere detenute nelle carceri italiane. Nel 2008 partecipa a Chicago come volontaria alla campagna elettorale di Barack Obama per le elezioni presidenziali statunitensi di quell’anno; nel 2012, sempre a Chicago, partecipa anche alla campagna di Obama per la sua rielezione alle presidenziali. Nel 2013 diventò una delle animatrici di OccupyPD, un movimento formato soprattutto da giovani attivisti e attiviste del partito che si opponevano all’eventualità di un governo di “larghe intese” con il centrodestra. Si fece subito notare tanto che a 29 anni si candidò alle europee e vinse con 53mila preferenze. Al Parlamento Europeo Schlein si è occupata soprattutto di immigrazione.

Nel 2015 Schlein uscì dal Partito Democratico in polemica con la svolta imposta al partito da Matteo Renzi per unirsi a Possibile, il partito di sinistra fondato da Pippo Civati, da cui però si allontanò progressivamente. Dopo anni lontano dal partito iniziò a lavorare a una lista con cui si sarebbe presentata alle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Risultò la candidata col consenso personale più alto e Stefano Bonaccini, che vinse confermandosi per un secondo mandato consecutivo, la nominò vicepresidente affidandole la delega al welfare e alle politiche per il clima. Alle politiche di settembre 2022 si è candidata alla Camera del Deputati come indipendente nelle liste del PD, in posizione di capolista in un collegio plurinominale in Emilia Romagna. Una volta eletta si è dimessa da vicepresidente della regione. Fa parte della commissione Affari costituzionali. Poi la vittoria alle primarie Pd e il suo nuovo ruolo da leader.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Schlein e Conte, il corteo antifascista è una farsa. I leader di Pd e 5Stelle saranno presenti alla manifestazione del 4 marzo a Firenze. Max Del Papa su Nicola Porro il 2 Marzo 2023.

Compagna, il popolo non copre le bollette. Dategli dell’antifascismo. La lunga marcia verso la fusione dei fissati, dei fanatici, sinistra social comunista mezza piddina e mezza grillina, passa per Cospito e il liceo Michelangiolo, per la professoressa Savino che teme la risacca diciannovista, per il sabato antifà. È qui che si incontreranno gli stati generali di due leader di laboratorio, Elly e Beppi, e la vedremo, ah se la vedremo, chi è più sovversivista, movimentista, massimalista. Perché non c’è dubbio che nella Firenze delle ombre rosse, delle cosche rosse i casini scoppieranno e grandi casini: le minacce, garantite, alla Meloni nel garantismo carrierista dei soliti, le foto bruciate, le devastazioni democratiche, la guerriglia proustiana, i pupazzi impiccati per i piedi, il vaneggiare a pugno chiuso degli spiaggiati da centro sociale.

Nella Firenze dell’eterna ebollizione più o meno armata, del misterioso comitato esecutivo delle Bierre che non si è mai localizzato ma dove comandava il terrorista prof. Senzani, implicato coi Servizi italiani e gradito ospite di quelli americani. Roba che i vecchioni del Pd sanno benissimo come la sa il prof. Prodi delle sedute spiritiche fantasma per indirizzare a Gradoli (la via non il paese, cazzo!), a vana ricerca dei carcerieri di Moro. Prodi, amico, collega e sodale del padre della ragazza Schlein in seno al centro di potere il Mulino. Chi invece non sa niente di queste convergenze parallele è la generazione S, come Schlein, come Sardine. Quella che in nome dell’amore ti fa fuori senza complimenti. Cinica, ecco una continuità ittica col comunismo degli squali e dei piranha, al punto da usare un naufragio con un centinaio di morti per attribuirlo al governo e un regime di relativo isolamento su un balordo non innocuo per attribuirlo al governo.

Benzina sul fuoco da chi cerca l’incendio della prateria e lo cerca nella Firenze dei furori da centro sociale, sostenuta dalla stampa irresponsabile. Oggi come allora la provocazione miserabile fino alla messa in conto del morto da addebitare al regime fascista. Tanto fascista che finora si è preoccupato di andar d’accordo con gli ineffabili poteri forti, ineffabili ma non indicibili visto che i nomi li conoscono tutti: il Colle, la finanza totale della quale il massimo rappresentante Draghi dice “Noi decidiamo tutto o almeno ci proviamo, voi subite comunque”, la Unione Europea comitato d’affari della grande industria, i finanzieri eversivi come i Gates e i Soros che sostengono i manga di nome Elly o Greta, i burattinai perversi tipo Schwab, l’informazione unica che da questi è pagata e può farti scoppiare tra i piedi un ordigno mediatico in qualsiasi momento.

La verità è che il governo si muove sulle uova, i Piantedosi, i Valditara sono disastrosi nella comunicazione temendo conseguenze che, si mettessero l’anima in pace, arriveranno comunque. C’è un ordine costituito che non è modificabile, che può essere solo arginato come per la demenziale transizione all’auto elettrica e questo Giorgia Meloni lo sa e cerca di barcamenarsi. E c’è una effervescenza antagonista per le allodole, che lavora per il regime vero, un regime sovranazionale e finanziario. Per cui diventa fondamentale la recita dei sovversivi d’ordine che a Firenze vanno da comparse più o meno consapevoli di una rappresentazione di potere per il potere. O, per farla facile: ci va bene che in questa fase siate voi al comando purché sia chiaro che è un comando nominale, di facciata, che possiamo farvi fuori come e quando vogliamo. Poi magari si sbagliano anche loro, ma il senso del sabato (anti) fascista fiorentino è questo ed è palese.

La grande farsa della contrapposizione tra donne di vertice, la post fascista e la neocomunista, sta nella attribuzione alla premier di condizionamenti atlantici contro i quali si opporrebbe la pacifista e antagonista segretaria piddina che è una carica oggi patetica. Che Meloni abbia coltivato sponde atlantiste è chiaro e non è un delitto, ma ad uscire dalle fabbriche americane degli influencer politici, a sponsorizzare le tematiche del neorevisionismo pubblicitario americano, gender, clima, isteria antifà, ad avere un passaporto americano, connessioni con l’egemonia politica e culturale americana, è il nuovo capo del partito grillino democratico. Ma, siccome vale tutto, può benissimo valere che una adunata d’ordine venga partecipata dai leader d’ordine, del nuovo ordine, globalista, finanziario, in veste filosovversivista, sotto l’egida dell’antifascismo militante in sostegno a un insurrezionalista anarcoide bombarolo. Max Del Papa, 2 marzo 2023

Elly’s Island. La battaglia contro il decreto anti-ong non si può fare abbracciati al M5s. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 3 Marzo 2023.

Accusare il governo di avere tanti morti sulla coscienza per norme assai più morbide di quelle varate a suo tempo da Conte è una scelta discutibile di per sé, ma ripetere quelle parole mentre si sfila a braccetto con l’Avvocato del popolo sarebbe imperdonabile

Dinanzi a una tragedia come quella di Cutro è sempre molto difficile tracciare il confine tra doverosa richiesta di chiarezza e speculazione politica, legittima indignazione e strumentalizzazione di parte.

Certo sarebbe più facile abbassare i toni se l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dinanzi a una tragedia analoga, nel 2015, non avesse dichiarato pubblicamente che il governo Renzi avrebbe dovuto essere «indagato per strage colposa». O se l’attuale ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, per prima cosa non fosse andato in conferenza stampa a stigmatizzare il comportamento delle vittime, a suo giudizio responsabili di avere messo a rischio la vita di se stessi e dei loro cari, aggiungendo poi, in quell’occasione come nei numerosi interventi successivi, dichiarazioni se possibile ancora più grottesche. La migliore di tutte l’ha detta in audizione in Senato: «Io sono talmente capace di emozionarmi che lo faccio prima che le tragedie avvengano».

Quella del ministro, insomma, è una sensibilità predittiva, quasi profetica. Sarebbe bello se una simile dote lo portasse a dimettersi prima della prossima figuraccia.

Non bastassero le molte ombre sull’accaduto, l’inspiegabile lentezza nei soccorsi, il rimpallo di responsabilità, le contraddizioni emerse dalle diverse ricostruzioni, l’opposizione avrebbe dunque ancora mille buone ragioni per chiedere le dimissioni di Piantedosi, e bene ha fatto la nuova segretaria del Pd, Elly Schlein, a guidare questa battaglia.

Dopo tante discussioni sull’identità della sinistra, e la necessità di maggiore radicalità, maggiore nettezza, maggiore autenticità, ci sono però nelle sue prime mosse e nei suoi primi interventi alcune vistose omissioni (tu chiamale, se vuoi, rimozioni).

Schlein ha dichiarato immediatamente, nel suo primo discorso da segretaria, che la strage di Crotone «pesa sulle coscienze di chi solo qualche settimana fa ha voluto approvare un decreto che ha la sola finalità di ostacolare il salvataggio in mare». Parole molto pesanti, e anche approssimative, che hanno offerto l’occasione al governo di ricordare facilmente come la strage sia avvenuta in una tratta non coperta dalle navi delle ong. Ma soprattutto parole che mal si conciliano con la scelta di rilanciare il rapporto con Giuseppe Conte, cioè il presidente del Consiglio responsabile di quei decreti sicurezza che avevano esattamente tale finalità, ostacolare l’opera delle ong, ed erano da questo punto di vista anche assai più duri (senza contare che secondo l’ex portavoce della guardia costiera, l’ammiraglio Vittorio Alessandro, intervistato ieri da Repubblica, il primo governo Conte ha anche la responsabilità di avere «imbrigliato» l’azione della guardia costiera, assegnando un ruolo strategico al Viminale, in una logica più di polizia che di soccorso). Come si può dunque da un lato dire che tanti morti pesano sulla coscienza di chi ha approvato un decreto che ostacola i salvataggi e dall’altro apprestarsi a manifestare insieme a Conte a Firenze, in quello che da giorni viene presentato come il primo atto del nuovo corso unitario del Pd?

Anche in parlamento, intervenendo in commissione contro il ministro Piantedosi, Schlein ha scandito: «Voi dovreste chiedere una missione di ricerca e soccorso in mare europea, una Mare Nostrum europea, e finirla con una criminalizzazione spietata delle organizzazioni non governative che stanno solo sopperendo alla mancanza di una missione con pieno mandato umanitario da parte dell’Unione europea nelle rotte più pericolose».

Non tedierò il lettore con il ripasso di tutte le dichiarazioni e gli atti legislativi con cui il Movimento 5 stelle ha proceduto in questi anni alla criminalizzazione delle ong, oltre a votare contro l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Per chi fosse interessato all’argomento, ne troverà un’esauriente ed equanime raccolta, insieme con le perle di tanti altri leader, compresi fior di democratici, in un bel libro di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone: «Com’è successo» (Fandango). Per i più pigri, mi limito a ricordare che è al Movimento 5 stelle che dobbiamo la definizione di «taxi del mare», nonché alcuni degli emendamenti più odiosi ai decreti sicurezza (per inasprirli, ovviamente) come quello sulla confisca delle navi delle ong.

Per di più, nel suo intervento in commissione, Schlein invitava il governo a chiedere la riforma del trattato di Dublino, ricordava di essersene occupata a suo tempo come parlamentare europea e incalzava il ministro con queste parole: «…ho potuto spesso rimarcare la totale assenza delle forze che oggi governano questo paese alla discussione che lei sa essere la più importante per l’Italia, perché è quello strumento che blocca centinaia di migliaia di richiedenti asilo nel primo paese europeo dove mettono piede anziché avere, prendo le sue parole di prima, una risposta che non è quella insufficiente del ricollocamento volontario che non ha mai funzionato, ma un sistema di redistribuzione obbligatorio delle responsabilità sull’accoglienza che valorizzi anche i legami significativi dei richiedenti asilo con tutti i paesi europei; l’avevamo ottenuta questa riforma, nel 2017, senza il voto delle forze che oggi governano il paese».

Per la cronaca, a votare contro la riforma nel 2017 è stato anzitutto il Movimento 5 stelle (la Lega, per dire, si astenne). In compenso, quel sistema di ricollocamenti volontari «che non ha mai funzionato» è esattamente il sistema ottenuto da Conte al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2018, e sbandierato allora ai giornali come un risultato storico (sì, esatto, proprio come ha fatto Meloni poche settimane fa: non c’è presidente del Consiglio italiano che in questo campo non ottenga risultati storici, a chiacchiere).

Il Partito democratico di Schlein ha dunque ora due strade davanti a sé: continuare a incalzare il governo su questo terreno, inchiodando ciascuno alle proprie responsabilità (con la necessaria dose di autocritica per le scelte passate, ad esempio sugli accordi con la Libia), oppure abbassare i toni e cercare magari altri terreni su cui radicalizzare lo scontro. Sono entrambe scelte legittime, che hanno pro e contro sia in linea di principio sia da un punto di vista puramente tattico. Ma quale che sia la scelta, bisogna essere conseguenti, e misurare bene le proprie parole: accusare il governo di avere tanti morti sulla coscienza per un decreto assai più morbido di quello varato a suo tempo da Conte è una scelta discutibile di per sé, per le ragioni già dette, ma ripetere quelle parole mentre si sfila a braccetto con il leader grillino sarebbe davvero imperdonabile.

Spocchia e ipocrisia della sinistra rosa sulla Schlein. Dalla Murgia alla De Gregorio, teorizzano che non tutte le donne sono uguali e che non tutte le donne al potere sono un bene per l'Italia. È la solita spocchia di una sinistra fuori dalla realtà. Andrea Indini su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Elly Schlein donna come Giorgia Meloni? Macché! Se qualcuno si fosse mai posto il dubbio, Michela Murgia l'ha già fugato. Il succo è questo: non tutte le donne sono uguali. O, ancor peggio: non tutte le donne al potere sono un bene per il Paese. Solo quelle di sinistra, ovviamente. Niente di nuovo sotto il sole, per carità. Laura Boldrini lo aveva già teorizzato l'indomani della vittoria del centrodestra alle politiche: "Non tutte sono uguali. Alcune sono peggiori di altre". E così quelle stesse donne che lo scorso settembre si erano incupite (diciamo pure incazzate) nel vedere le destre portare il primo presidente del Consiglio donna a Palazzo Chigi, oggi fanno i salti di gioia per l'elezione del primo segretario donna del Partito democratico. Traguardo (se di traguardo si può parlare) che Fratelli d'Italia raggiunse quasi dieci anni fa.

Per carità non tutte sono brindano. Quelle dell'apparato, per esempio, sono meste, guardinghe. La maggior parte stava con Bonaccini. Adesso temono che la Schlein sfili loro la sedia da sotto il sedere. Ma fuori dal Nazareno, sulla stampa progressista e sui social sono tutte a brindare. Prendete Concita De Gregorio. "La rivoluzione senz'armi, senza testosterone, con la gentilezza del sorriso", scrive oggi su Repubblica. A suo dire l'elezione della Schlein non cambia solo la storia del Partito democratico e più in generale della sinistra, ma addirittura "ruota l'asse cartesiano della realtà". Che spettacolo pirotecnico di giornalismo. E il botto finale? Eccolo: "La 'donna nuova' Giorgia Meloni - teorizza - torna a essere quello che è: l’ultima erede di un partito del Novecento, una storia antica. Invecchia, Meloni, al cospetto di una donna ancora nei suoi trent’anni che non origina dal comunismo come lei dal fascismo". In confronto, l'esultanza notturna della Boldrini ("Meloni, arriviamo") si sbriciola in nulla.

La Schlein piace perché è donna. Non donna come la Meloni, però. Donna di sinistra. "Giorgia Meloni è la donna sbagliata per noi nel partito giusto per lei - pontifica la Murgia su Instagram - mentre Elly Schlein è la donna giusta per noi nel partito sbagliato per lei". Sul Domani Giorgia Serughetti (filosofa) ne teorizza addirittura il differente modello di leadership. "Femminista" e non "femminile. "La differenza - spiega - è quella che passa tra l’agire 'per le donne', per i loro diritti, e il semplice 'essere donna'. Tra il collettivo e l’individuale". In soldoni: come spiegato già ieri da Chiara Valerio su Repubblica, la Schlein "sta lì come rappresentante non di se stessa ma della maggior parte di noi". La Meloni, invece, non rappresenta le donne, rappresenta solo se stessa.

Cosa renda tanto speciale la Schlein da rappresentare tutte le donne (o, se non tutte, almeno la maggioranza), ce lo spiega ancora la De Gregorio: è "una giovane di questo tempo", e cioè "non figlia politica di, non madre, fino all'altro giorno non iscritta al partito che guida, non eterosessuale". Cosa c'entrino il fatto che non sia madre e non sia eterosessuale (se non per metterla in contrapposizione con la Meloni), però, lo sa solo lei. Resta il fatto che, a suo dire, tutto questo non rassicura i conservatori. Anzi, dice, li fa diventare pazzi. In realtà a uscire pazze sono solo loro, le donne progressiste, così in difficoltà a trovare i distinguo, a sentenziare chi è davvero donna e chi no, a decidere chi rappresenta chi. È la solita supponenza della sinistra radical chic. Dove con radical chic non intendiamo certo, come scrive la De Gregorio, "colta, beneducata, corretta", ma altezzosa, spocchiosa e completamente lontana dalla realtà.

Estratto dell'articolo di Paolo Bracalini per “il Giornale” l’1 marzo 2023. 

(...)

La stampa di area Pd ha accolto con la banda al completo di fanfare e tromboni l’arrivo della Schlein, la nuova eroina della sinistra chiamata a sconfiggere l’oscuro regno del centrodestra. L’entusiasmo trasuda dagli articoli in effusioni talora scomposte per la troppa infatuazione. Capita sempre con ogni nuovo premier o leader del Pd (ma si estende anche extra confine, da Zapatero a Tsipras, Hollande, e altri amori esotici finiti male), è colpa dell’emozione.

Tanto più che Elly ha tutte le carte in regola: donna, fluida sessualmente, femminista, giovane, inclusiva, ben introdotta nei vertici Pd ma con l’immagine della outsider che ce la fa da sola «grazie alla sua forza» (La Stampa), non grazie alle truppe cammellate di Franceschini, Boccia e Bettini. Sono arrivati persino a definirla una «underdog», cioè la «sfavorita» che si deve sudare ogni gradino, proprio lei che arriva da una agiata famiglia di professori universitari, nel difficile contesto sociale di Lugano, triplo passaporto, avi illustri, buone scuole, ottime relazioni, volontaria al seguito di Obama, una origine ultra privilegiata semmai. Ma nell’ubriacatura da Schlein si può vedere doppio.

Anche al Manifesto sono colpiti, finalmente una «femminista» e «una donna che ama un’altra donna» in un partito «storicamente maschilista» come il Pd. «È la donna giusta per noi», scrive invece la scrittrice femminista Michela Murgia, che aveva espresso dubbi persino sul fatto che la Meloni fosse una donna, politicamente parlando, in quanto di destra.

Ma la supera Concita De Gregorio, che inventa una nuova categoria di razzismo, quello anagrafico. La tesi è che, siccome la Schlein è più giovane, la Meloni automaticamente non lo è più, così di botto in un giorno. Dopo essersi commossa per la «rivoluzione senza testosterone, con la gentilezza ferma del sorriso» della neosegretaria italo-svizzera, spiega che la Meloni «invecchia al cospetto di una donna ancora nei suoi trent’anni che non origina dal comunismo come lei dal fascismo». Anche il fatto di non essere eterosessuale né madre, «niente di tutto quello che rassicura i conservatori», la ringiovanisce, mentre la Meloni «torna ad essere quello che è: l’ultima erede di un partito del Novecento, una storia antica». Una vecchia, superata. E neanche tanto donna, visto che non è femminista.

La Schlein invece è la festa di quel mondo. Per Linda Laura Sabbadini «ha ridato speranza a donne, giovani, anziani, a lavoratori, precari e non, disoccupati e pensionati», fuochisti, ferrovieri, facchini, uomini di fatica, aggiungerebbe Totò.

 Tutto d’un tratto ci si è accorti di avere a sinistra una grande leader, una «in grado di stimolare passioni politiche spente, di ridare fiducia a un esercito di scontenti, di spingere i più giovani a partecipare», tutto questo, «rovesciando la piramide del Pd, rompere con quella storia della sinistra», scrive Norma Rangeri sul Manifesto.

Vasto programma per l’ex vicepresidente dell’Emilia Romagna, e certo non basterà chiamare la sardina Santori per realizzarlo. Il rischio abbaglio è forte, ma l’eccitazione per la novità è troppa. Improvvisamente la Schlein, fino a ieri nemmeno iscritta al Pd, è la leader del Pd che serviva per riorganizzare tutto il campo progressista e sconfiggere la destra. Vuoi mettere lei con Bonaccini, «un governatore di lungo corso, uomo, di mezza età», spiega l’ex finiana Flavia Perina. Tutti infatuati della nuova leader, che deve però conquistare ancora tutto. A parte la simpatia dei media, quella ce l’ha già.

Chi è Elly Schlein, l’anti-Meloni “astro nascente della sinistra italiana”: da Occupy Pd alla candidatura alle primarie. Redazione su Il Riformista il 5 Dicembre 2022

Ci aveva pensato il Guardian a incoronarla a distanza, qualche mese fa, a ridosso delle elezioni politiche, “astro nascente della politica italiana”. Elly Schlein: da Occupy Pd alla candidatura alla segreteria del Partito Democratico, da “Coraggiosa” alla Bella Ciao intonata dai presenti all’evento di ieri al Monk a Roma. Dopo settimane di voci è arrivata infatti la candidatura ufficiale alla segreteria dem nelle primarie che si terranno nei primi mesi del 2023, presumibilmente a marzo. Schlein da sabato è sotto protezione, dopo l’attacco alla sorella diplomatica, Susanna Schlein, ad Atene. Vuole riportare il partito a sinistra, parla di rinnovamento, di progressività fiscale, del diritto alla casa, della scuola pubblica.

Siamo qua non per fare una nuova corrente, siamo un’onda non una corrente nuova. Non ci saranno mai gli schleiniani”, ha detto ieri durante l’incontro “Parte da noi” la candidata un po’ Alexandria Ocasio Cortez, un po’ Greta Thunberg, un po’ sinistra giovanile un po’ sinistra in cerca di facce nuove e che nel Pd forse neanche si riconosce. Il congresso è cominciato da poche settimane, a fine febbraio gli iscritti si esprimeranno sui candidati alla segreteria. I due candidati più votati saranno sottoposti al voto degli elettori del partito alle primarie. Il duello annunciato, al momento, sembra quello tra Schlein e Stefano Bonaccini: un derby considerando che fino a qualche settimana fa Schlein era vice del governatore dell’Emilia Romagna. La terza candidata è l’ex ministra Paola De Micheli.

La storia di Elly Schlein

Schlein, per via dei suoi trascorsi dentro e fuori il Pd, a intermittenza vicina e lontana, è un po’ outsider e un po’ giovane promessa. È nata in Svizzera, nel 1985, da madre italiana e padre americano. Lui politologo, lei docente. Il nonno, Agostino Viviani, era un noto avvocato senese antifascista, senatore del Partito Socialista. Il nonno paterno, Harry Schlein, era emigrato negli Stati Uniti da una famiglia di origine ebraica da Leopoli per sfuggire alle persecuzioni. Ha due fratelli, un maschio e una femmina. Quest’ultima, Susanna, Primo Consigliere d’Ambasciata ad Atene nei giorni scorsi vittima di un attentato per il quale la sorella è stata messa sotto protezione.

 Bologna si è laureata in Giurisprudenza, dopo essere arrivata in Italia a 19 anni, con una tesi sulle persone straniere detenute nelle carceri italiane. La carriera politica cominciò in università, con le due elezioni al Consiglio di Facoltà come rappresentante degli studenti. Da giovane è stata volontaria nella campagna elettorale di Barack Obama, un’esperienza che raccontò in un blog. Al 2013 risale l’iniziativa OccupyPd: una protesta contro i 101 franchi tiratori che affossarono l’elezione di Romano Prodi a Presidente della Repubblica. Quella piattaforma, contraria a ogni accordo per un governo di “larghe intese” con il centrodestra, avanzò anche 102 proposte per cambiare il centrosinistra. Schlein ne fu il volto più riconoscibile.

L’anno dopo fu candidata ed eletta nelle liste del Pd alle Europee dopo essere entrata nella direzione nazionale. Una sorpresa quelle 53mila preferenze che le valsero a 29 anni l’elezione. A Bruxelles si è occupata soprattutto di immigrazione: è stata per due anni relatrice dei Socialisti Europei alla riforma del regolamento di Dublino. Dal partito però uscì in aperto contrasto con il segretario dell’epoca Matteo Renzi – “Se la Schlein va alla segreteria mezzo Pd viene da noi, è un dato di fatto. Se Pd e 5 stelle si mettono d’accordo chi ha l’animo riformista non può stare con Conte e Casalino”, aveva pronosticato a inizio ottobre l’ex premier e leader di Italia Viva. L’eurodeputata entrò in Possibile con Pippo Civati, dal quale pure si allontanò dopo qualche tempo. Provò a mettere insieme una lista unitaria di sinistra per le elezioni europee del 2019, un tentativo che si arenò.

Si candidò invece alle Regionali del 2020 con la piattaforma ecologista-progressista “Coraggiosa” a sostegno della ri-candidatura del Presidente Bonaccini. A San Giovanni in Persiceto aspettò e interrogò il segretario della Lega Matteo Salvini con un gruppo di attivisti sulle politiche migratorie dell’Unione Europea e su altri temi. “Finalmente, dopo anni che faccio la stessa domanda a Salvini senza risposte, ieri sera gliel’ho fatta in faccia. Perché a Bruxelles non siete mai venuti alle 22 riunioni di negoziato sulla riforma migratoria più importante per l’Italia?“, scriveva nel post del video che divenne virale sui social. Schlein risultò primatista di preferenze, con 22mila vori personali raccolti tra tre collegi. A Bologna prese più voti del solo Pd e venne nominata vice presidente con delega al Welfare e Politiche per il clima. Bonaccini fu confermato governatore. 

Alle ultime elezioni politiche del 25 settembre 2022 si è candidata come capolista, da indipendente, nelle liste Pd pur non essendo iscritta al Pd, in un collegio plurinominale in Emilia Romagna ottenendo un seggio alla Camera. Dopo l’elezione si è dimessa da vice presidente dell’Emilia Romagna. Fa parte della commissione Affari Costituzionali. Al Partito Democratico si dovrà iscrivere appositamente per correre alle primarie.

Schlein è una convinta europeista, apprezzata da chi a sinistra appoggia posizioni progressiste, le lotte sull’accoglienza dei migranti, le battaglie civili come la parità di genere, i diritti delle minoranze, contro le discriminazioni verso la comunità LGBTQIA+. Durante una puntata della trasmissione di Daria Bignardi, L’Assedio, fece lei stessa outing. Nel suo discorso di ieri ha parlato di diritti, lavoro, giustizia sociale e ambientale. Ha difeso il reddito di cittadinanza, attaccato le trivellazioni, i condoni e il consumo di suolo. “Se lo facciamo insieme io ci sono, non mi tiro indietro, costruiamo insieme questa candidatura per dimostrare che io posso diventare la segretaria del nuovo Pd. Insieme a voi voglio diventare la segretaria del nuovo Pd”.

C’è una bella differenza tra il dirsi femminili e femministe, se decidi di non difendere i diritti delle donne, a partire da quelli sul proprio corpo”, aveva detto dal palco dell’evento di chiusura di campagna elettorale da Milano lo scorso settembre. “Sì, sono una donna, amo un’altra donna e non sono una madre. Ma non per questo sono meno donna”, aveva aggiunto ribaltando il tormentone della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

La sfida tra Schlein e Bonaccini. Se Elly Schlein punta alla segreteria del PD studi prima la storia del PCI…Michele Prospero su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

La vulgata giornalistica vuole che con Elly Schlein, da quasi dieci anni accasata nelle istituzioni anche grazie all’onda lunga della “rottamazione”, il Pd viri finalmente a sinistra e ritrovi di colpo l’intransigenza e le radici da troppo tempo smarrite per colpa del virus contagioso del governismo. E che con Bonaccini, invece, l’ancoraggio risieda tutto nelle pieghe del moderatismo quale tratto di un riformismo di destra (del partito) che nelle grigie amministrazioni locali ha trovato terreno fertile.

Secondo questa ricostruzione, il suo campo d’azione sarebbe in una zona ambigua, dove ad attenderlo troverebbe per giunta lo spettro inquietante di un Renzi redivivo, barcamenantesi dietro le quinte nel ruolo di gongolante regista occulto. Tuttavia, per cogliere le differenze tra i due principali candidati alla segreteria del Nazareno, risulterebbe utile accantonare il “renzometro”, adoperato pigramente sui media per misurare la loro passata distanza o vicinanza dal capo fiorentino. Meglio sarebbe affidare alla storia la ricostruzione dell’età renziana. E muovere, per attingere un’essenziale diversità identitaria tra gli sfidanti, dalla risposta da loro fornita alla stessa domanda dei giornalisti.

Interpellata da Lilli Gruber circa il suo rapporto con la cultura politica comunista, che è una delle due correnti ideali fondative del Pd, Schlein ha balbettato che preferiva non rispondere, essendo nata solo nel 1985. Lei che è venuta al mondo dopo Locke, Constant, Tocqueville non potrebbe dare un giudizio valutativo neppure sul liberalismo. E una stizzita astensione, nel classificare le cose e i movimenti politici, dovrebbe dichiararla anche sulle correnti democratiche o autoritarie sorte prima del fatidico 1985, quando matura il tempo del giudizio. La storia e le culture, però, non iniziano con la propria data di nascita. Non ci sarebbe altrimenti motivo, considerata la rassicurante anagrafe del primo sospiro emesso da Giorgia Meloni, di interrogarsi sulle ricadute del fascismo e cantare in un locale romano, per stigmatizzarle, “Bella ciao”.

Culturalmente più onesto, perché per nulla reticente, si rivela il discorso di Bonaccini. Il quotidiano Italia Oggi gli chiede: “La sua prima tessera è stata quella del Pci. Imbarazzato?”. Avrebbe potuto cavarsela frugando nel repertorio zeppo di amnesie inventato da Veltroni, e invece così risponde: “Sono orgoglioso delle mie origini politiche nel Pci. E’ stata una grande storia. Il Pci è stato un punto di forza della stabilità del nostro sistema politico. Ma ha dato anche una spinta notevole all’alfabetizzazione di tanta gente e difeso le fasce più deboli della popolazione, emancipandole. Ha contribuito alla stesura di una Costituzione che è stata un modello per molti paesi, ha tenuto alto il valore dell’antifascismo”. Non si potrebbe formulare meglio il senso attuale dell’orgoglio comunista, rivendicato da Bonaccini per via degli effetti rilevanti dell’azione del vecchio partito nel consolidamento democratico e civile del Paese. Che Schlein, munita di “zaino e taccuino”, consideri invece una storia ormai morta quel laboratorio di pensiero e di analisi, che legami profondi presenta con i Quaderni di Gramsci, conferma i guasti del nuovismo, il quale alla fatica della riflessione preferisce il gesto, la trovata della comunicazione, che spesso si rivela, per struttura, un chiacchiericcio senza memoria.

C’è del vero nel rilievo secondo cui ad entrambi i candidati manchi ancora una marcata visibilità nel dibattito politico nazionale. Per colmare la lacuna, Bonaccini dovrebbe lavorare anche per ampliare il ventaglio del suo sostegno oltre le soglie del buon governo dei territori. Un dialogo con la sinistra di Orlando e Cuperlo lo aiuterebbe molto nell’arricchimento della proposta politica. Gioverebbe, oltre che alla rassicurazione sulla tenuta organizzativa del partito dopo il congresso, anche al consolidamento della coalizione al suo seguito, che, altrimenti, rischia di pagare il prezzo dell’essere troppo schiacciata, nella geografia interna, attorno all’area di Base Riformista. Le istanze monotematiche (nuovi diritti civili e libertà individuali, giustizia climatica) che Schlein avanza sono una componente essenziale dell’agenda programmatica di tutte le formazioni della sinistra occidentale. Altra cosa, però, è l’effettiva possibilità di tramutare un’importante sensibilità settoriale (ambiente, tematiche di genere) nella cultura politica necessariamente sfaccettata chiamata a dirigere un organismo complesso come un partito.

Già rasenta il paradosso il fatto che una non ancora iscritta al Pd si candidi direttamente alla guida della segreteria. Senza aver avuto un qualche ruolo negli organismi dirigenti, senza aver ricevuto un mandato collettivo dai componenti dell’organizzazione, è possibile che il vento forte dei media accompagni una outsider alla conquista dei galloni della leadership interna. In questo senso, Schlein, osannata dai numerosi media che si mostrano amici come la risoluzione alla malattia mortale del Nazareno, in realtà appare come una manifestazione della decadenza di un partito. Non esiste forza politica in occidente che non sprigioni un visibile senso della partizione. Non si riscontra alcun soggetto rilevante che non avverta la necessità di presidiare la propria autonomia organizzativa dalle interferenze ambientali. E non è data notizia di partiti che non affidino esclusivamente all’apprendimento intra-organizzativo la valutazione dei canali dell’ascesa e della caduta della leadership.

Tra gli osservatori, ci si esercita già nel prevedere l’effetto dissolvente che una vittoria mutilata di uno qualsiasi dei due rivali avrebbe sulla tenuta del Pd. È evidente che una copertura a sinistra servirebbe molto a Bonaccini per conferire un’indispensabile garanzia di gestione unitaria alla sua segreteria. Non è vero che il suo trionfo – a cui dovrebbero nell’immediato seguire le dimissioni da presidente della regione, perché non è ammissibile che il leader dell’opposizione non sia presente in Aula – sarebbe accolto da grida di giubilo nel terzo polo. E’ lampante che, con l’autonomismo del politico emiliano, proprio Calenda vedrebbe ridimensionati sensibilmente gli spazi per un’espansione elettorale e sarebbe costretto a reimpostare le forme della competizione.

Con il successo congressuale di Schlein, e quindi con i paventati rischi dell’indebolimento drastico della matrice ideale-programmatica di un partito di governo, si aprirebbero, invece, dei sentieri vasti per tentare la rinascita egemonica del centro della “serietà”, che al momento si segnala in affanno. Anche Conte (e l’appoggio del Fatto quotidiano sembrerebbe confermarlo) non avrebbe molto da temere dall’eventuale concorrenza dei temi civili e ambientali di Schlein. Potrebbe confidare, al contrario, che dalla possibile fuga verso il terzo polo della residua sinistra di governo esca fuori un Pd così rimpicciolito e smarrito nelle certezze da diventare un agevole spazio di occupazione. Michele Prospero

Elly Schlein e il comunismo, le sue parole a Otto e mezzo. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 05 dicembre 2022

Secondo Lilli Gruber la «stampa di riferimento della destra italiana» scriverebbe cose «tremende» su Elly Schlein, candidata come prossima segretaria del Partito Democratico. Schlein ha dato appuntamento ai suoi sostenitori al centro culturale Monk di Roma per annunciare ufficialmente la propria candidatura alla segreteria del partito, anche perché il suo nome è uno di quelli emersi più di frequente nel dibattito su chi avrebbe preso il posto di Enrico Letta. 

BENALTRISMO

A Otto e Mezzo su La7, imbeccata non solo dalla Gruber ma anche da Massimo Giannini de La Stampa e Lina Palmerini del Sole che sembravano quasi volerle "aprire" la strada verso la segreteria di un partito ucciso dal correntismo, dal politichese, dal moralismo straccione e dalla totale mancanza di idee, Schlein ha mostrato i tipici caratteri di ciò che ha contribuito ad affossare il Partito democratico: una marea di benaltrismo, di non detto, di approccio "peace and love" di facciata che poi finisce per diventare regolamento di conti nei salotti del potere. Schlein a Roma presenta un «percorso collettivo» (cosa sarebbe? Una comune come quelle che dirigono le scuole occupate?) ma evita con tutte le forze di ammettere di voler prendere in mano le redini del Pd che, con una svolta radicale come quella che incarnerebbe la già vice governatrice dell'Emilia Romagna insieme al suo rivale per la segreteria Stefano Bonaccini, rischierebbe addirittura la scissione. Il che, visto il numero di elettori rimasto, significherebbe sparire. Ieri, peraltro, è stato l'ultimo giorno di "normalità" per la Schlein, già posta dalla Prefettura di Bologna in via precauzionale in uno stato di "vigilanza radiocollegata con passaggi frequenti e numerose soste". 

Una "scorta soft", in attesa che domani un Comitato per l'ordine e la sicurezza possa approfondire la questione della sua protezione e valutare i provvedimenti. Poche ore prima dell'ospitata in tv, infatti, ad Atene è stata incendiata l'auto di Susanna, sorella di Elly, primo consigliere dell'ambasciata italiana di Atene. Vicino all'auto di Susanna Schlein è stata trovata una bomba molotov inesplosa e questo fa pensare alle persone che stanno indagando sull'accaduto che l'attacco fosse mirato contro il consigliere in particolare. Sul caso stanno indagando la polizia greca e la procura di Roma. Elly Schein ha detto a Gruber che è stata proprio sua sorella a darle la forza di continuare il proprio lavoro, proprio come sta facendo anche lei ad Atene: «Mia sorella è tornata subito a lavoro, l'ho voluto fare anche io». «Non dobbiamo avere paura», ha detto Susanna Schlein a sua sorella. 

L'ANTI MELONI

La Gruber la definisce «l'anti Meloni». Un bel complimento, anche per via di questo parallelismo familiare visto lo straordinario legame tra Giorgia Meloni e sua sorella Arianna, ma visti i risultati raggiunti dal premier è fin troppo generoso. Un altro epiteto che sa di "auspicio" più che di verità. Sebbene sia stata posta palesemente di fronte ad una platea di giornalisti "tifosi", Schlein è riuscita a cadere nel vittimismo più volte, come quando ha rimproverato i presenti di voler fare certe domande solo a lei e non ai colleghi uomini sull'annosa questione degli equilibri di potere tra i capibastione del Pd (di cui non ha nemmeno la tessera), quando in realtà è un tema dibattuto da vent' anni. O come quando, appunto, fomentata dalla Gruber contro la "stampa di destra" ha sostenuto che chi la definisce «comunista, anticapitalista, ecologista, privilegiata, ebrea ma antisraeliana» voglia muovere delle accuse false e che «puzzano di sessismo, di antisemitismo e di omobilesbotransfobia».

Epperò, un potenziale segretario di partito dovrebbe iniziare ad abituarsi al fatto che alcune posizioni politiche debbano essere o rivendicate con orgoglio o smentite con franchezza. Pur senza abiurare il comunismo e le sue nefandezze, sostiene di essere una «nativa democratica» poiché «nata nel 1985» e quindi di non aver avuto tempo di aderire al comunismo. La Meloni invece, che è nata 32 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le associazioni col fascismo se le deve beccare ancora. Per doppia morale, mania di persecuzione e capacità di schivare gli argomenti, Schlein al Nazareno potrebbe arrivarci col tappeto posto davanti. Rosso.

Pd, l'ora di Schlein. Dietro di lei la Ditta e Franceschini re dei tradimenti. Pasquale Napolitano il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Elly Schlein vuole scrivere una «storia nuova» nella sinistra italiana. Ma si affida alla «vecchia ditta».

La parlamentare, con tripla cittadinanza (italiana, svizzera e statunitense), lancia la scalata al Pd. Partito al quale non è ancora iscritta. E infatti il primo atto di Elly Schlein sarà la sottoscrizione della tessera dei democratici. Al Monk di Roma, l'ex vicepresidente dell'Emila Romagna, annuncia la discesa in campo: «Se lo facciamo insieme io ci sono, non mi tiro indietro, costruiamo insieme questa candidatura per dimostrare che io posso diventare la segretaria del nuovo Pd. Insieme a voi voglio diventare la segretaria del nuovo Pd», annuncia la deputata dem accompagnata dalle note di Bella Ciao.

Al suo fianco tutta la nomenclatura della sinistra italiana: Letta, Orlando, Franceschini, Zingaretti, Boldrini. Tra i volti nuovi spicca la sardina Mattia Santori, costretto ad accodarsi dopo una fulminante (e non felice) carriera da leader. Le primarie si svolgeranno il 19 febbraio 2023. Al momento gli unici due sfidanti di Elly saranno e il governatore dell'Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e l'ex ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli. L'orizzonte della sfida di Schlein è la rottamazione del Pd e la costruzione di una cosa rossa nella quale far riconfluire D'Alema e Bersani. Schlein diventa la zattera per la vecchia ditta. È quasi uno scherzo del destino, per lei arrivata in politica grazie alla rottamazione renziana.

Tra gli sponsor della marcia verso la guida del Pd di Elly c'è, quasi a sorpresa, l'intramontabile Dario Franceschini. L'uomo dei mille tradimenti, pronto a cambiare leader ad ogni congresso. Pare che a favorire il matrimonio tra Schlein e Franceschini sia stata Michela De Biase, moglie dell'ex ministro. Però Franceschini è bravo a fiutare l'aria della vittoria e tuffarsi sempre sul cavallo vincente.

Stavolta la vittima del tradimento è Andrea Orlando che aveva sperato fino all'ultimo in un asse con Franceschini. Un copione già visto. Da lettiano e bersaniano, l'ex ministro della Cultura passò in un nano secondo sul carro di Matteo Renzi nel 2013. E poi ancora una doppia mossa: appoggiò la nascita del governo Gentiloni nel dicembre del 2016, dopo le dimissioni di Renzi, per poi riappacificarsi con l'ex sindaco di Firenze al congresso del 2017. Un esperto di posizionamenti. Anche dopo la caduta di Renzi alle politiche del 2018, Franceschini fu scaltro a riciclarsi nell'era zingarettiana. Franceschini punta sul carro di Elly. Mandando all'aria l'accordo con Orlando. Il tradimento è servito.

Cosa farà adesso Orlando? L'ex ministro della Giustizia dovrebbe appoggiare la Schlein. Una parte della sua corrente, con Peppe Provenzano in testa, è già al fianco della parlamentare emiliana. Lui aspetta e non decide: «Se Bonaccini rappresenta il vecchio ed Elly Schlein il nuovo si vedrà nello sviluppo del lavoro del comitato costituente ma a sorpresa le istanze di novità e di cambiamento arriveranno dal mondo cattolico, dal mondo ambientalista» - commenta Orlando ospite del Caffè della domenica di Maria Latella a Radio 24.

In attesa di Orlando, la marcia di Schlein inizia. Non si torna indietro: «Parte da noi una storia nuova che possa costruire l'alternativa che merita questo Paese. Il governo Meloni ha già dimostrato il suo volto». E subito marca la differenza con il suo sfidante Stefano Bonaccini sull'autonomia differenziata: «Il disegno di Calderoli di autonomia differenziata va rigettato con forza. È un modello che cristallizza le diseguaglianze, che affonda le sue radici nella secessione. Non possono esserci compromessi. Il Paese va ricucito, non diviso ulteriormente».

Il governatore dell'Emilia si era espresso a favore dell'autonomia differenziata. Eccoli i primi colpi dell'eterno e noioso congresso dem.

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 9 dicembre 2022. 

Uno nessuno centomila Franceschini. C'è un motivo se l'ex ministro della Cultura ha stilato una lista dei modi in cui viene definito nel Palazzo: «Il manovratore, Andreotti, il gattopardo, Richelieu...». 

L'elenco è lungo. In fondo è ciò che appare agli occhi dei suoi interlocutori, siccome viene costantemente indicato al centro di ogni trama. Anche quando giura di non esserne coinvolto. L'ultimo caso è il sostegno alla candidatura di Schlein per la guida del Pd, sulla quale si narra ci sarebbero le sue impronte. Ne parlavano giorni fa persino due esponenti del centrodestra, che lo conoscono perché come lui sono figli della Dc. 

«Dario non l'ho proprio capito», diceva Rotondi. E Cesa di rimando: «Come fai a non capire. Lui sceglie chi poi vince».

Invece Franceschini ritiene stavolta di non aver fatto un calcolo ma un azzardo, nel senso che considera arrivato il momento di agire nel Pd con uno «strappo, uno sprazzo di novità». Lo ha spiegato ai compagni di corrente: «È cambiato il mondo, è cambiata la politica ed è cambiato il modo di fare politica». 

Ai suoi occhi Bonaccini tranquillizza la macchina del partito, che si sente «rassicurata» perché il governatore è espressione del buon governo emiliano ed è in «piena continuità» con la tradizione Pci-Pds-Ds-Pd. Ma non invertirebbe la tendenza verso un lento quanto inesorabile declino. Al contrario Schlein incarna «una nuova sinistra, puntata sui diritti civili, sull'ambientalismo. È giovane, molto mediatica, più strutturata di quanto sembri».

Cogliendo le perplessità dell'uditorio, Franceschini è stato ancor più diretto: «Chi l'avrebbe detto che Meloni sarebbe diventata premier?

Dobbiamo capire che questa è la stagione della radicalità. Perciò bisogna provarci con Schlein, che è una sveglia».

Anche troppo a sentire alcuni deputati dem. Quando alla Camera si sono votate le mozioni sull'Ucraina, l'hanno vista infrangere la disciplina di gruppo, evitando di votare contro il documento «tardo-pacifista» di Sinistra e Verdi. 

Ma senza dichiararlo. L'escamotage - non apprezzato dai suoi compagni - avrà fatto sorridere Franceschini, artefice di molte manovre parlamentari e convinto che Schlein abbia il profilo idoneo per ricomporre l'area progressista e contrastare l'azione di M5S.

Perché, secondo l'ex ministro, è quello con i grillini il fronte su cui combattere oggi: l'atteggiamento aggressivo di Conte sull'elettorato di opposizione sta erodendo fasce di consenso. E serve un Pd «più innovativo» per contrastarlo. 

Ecco l'analisi che utilizza per ribattere alla tesi di un pezzo del partito, secondo cui «per cinismo e opportunismo» avrebbe puntato su Schlein per sopravvivere alla sconfitta insieme ad altri del sinedrio. 

Tesi che peraltro confligge con la versione opposta, anche questa giunta alle sue orecchie: e cioè che è diventato matto o si è rimbecillito.

Certo, colpisce la scelta di Franceschini, che negli anni del liceo andava in classe con la copia del Popolo, sebbene sapesse che i «compagni» gliela avrebbero bruciata. È passato molto tempo da allora. Oggi l'ex ministro riconosce che il Pd rischia di spegnersi. E per evitarlo indica una linea che attraversa trasversalmente le correnti del partito e le spacca. 

L'altro ieri la sinistra interna si è riunita e si è divisa in tre: Zingaretti e Orlando per Schlein; Gualtieri per Bonaccini; mentre Bettini pensa ancora a Ricci o Amendola. Allo stesso modo nel gruppo lettiano, Meloni è per il governatore emiliano e Boccia per la sua attuale vice in regione. La verità è che tutte le aree sono destinate a scomporsi. In futuro saranno una o centomila, si vedrà. Di sicuro per Franceschini questa è l'«ora della radicalità». E del «primum vivere».

Siamo alle solite. Schlein occupa lo spazio vitale della Ditta, seguiranno guai. Mario Lavia su L’Inkiesta il 9 Dicembre 2022.

Andrea Orlando, Gianni Cuperlo o chi per loro potrebbero scendere in campo per estromettere la giovane candidata dalle primarie, per poi arrendersi a una sconfitta onorevole con Bonaccini

Gli eredi della Ditta soffrono Elly Schlein. Prima di rassegnarsi a sostenerla ci penseranno non una ma dieci volte. Prima bisogna verificare se è possibile scendere in campo direttamente nella speranza di tagliarle la strada. Come? Puntando ad arrivare secondi nella votazione degli iscritti, quella che seleziona i due che poi si sfideranno nelle primarie aperte del 19 febbraio, dando per scontato che nei circoli Partito democratico vincerà Stefano Bonaccini.

Si ristabilirebbe così una competizione più “domestica” tra la sinistra dem e il “centro” del partito, con imprevedibili appoggi e spostamenti di ruolo e con l’estranea Schlein che in questo schema farebbe la parte che ebbe Ignazio Marino nelle lontane primarie del 2009, quando l’illustre chirurgo nelle sezioni finì appunto terzo dopo Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini (ai tempi però anche il terzo poteva partecipare alle primarie aperte, ora come detto vanno solo i primi due).

Sarebbe un bel colpo di scena se in campo scendesse Andrea Orlando, che sin qui è parso piuttosto incerto sul da farsi, o Gianni Cuperlo, che parlando con La Stampa non ha escluso di poter correre lui o un altro esponente della Ditta che fu (Peppe Provenzano si è chiamato fuori, ma allora chi?), tenendo conto la sinistra resta malgrado tutte le peripezie una corrente ancora abbastanza strutturata nella base del partito.

La Ditta – dicono i malevoli – deve difendere il suo spazio che è seriamente minacciato da Schlein, i cui contenuti pure non sono lontani da quelli di Orlando o Cuperlo, sebbene agli occhi di questi ultimi (e in generale dei dalemiani-bersaniani) sembrino meno “politici” di come li affrontano loro. Torna qui un’antica diffidenza “di pelle” che gli eredi del Partito comunista nutrono nei confronti di una eterodossa che secondo loro maneggia la politica senza la Politica con la “P” maiuscola, un po’ la versione aggiornata dell’idiosincrasia dei comunisti verso i “gruppettari” di una volta: Elly per loro naviga troppo in superficie, non coglie la complessità, si sarebbe detto un tempo.

Non è un caso se finora da Orlando o da Goffredo Bettini per non parlare direttamente di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema non sia venuto un fiato in favore di Elly Schlein della quale pure condividono la radicalità della critica al “neoliberismo”, qualsiasi cosa voglia dire, cioè all’idea, come ha detto la candidata alla segreteria, che «il modello di sviluppo neoliberista si è dimostrato assolutamente insostenibile per le persone e per il pianeta». Una visione che la filosofa Claudia Mancina ha definito «millenaristica» e che per gli eredi della Ditta non è roba da appaltare a un’estranea ma che al contrario va portata avanti direttamente dalla sinistra dem.

Come sempre, poi, c’è dietro tutto questo anche il fatto piuttosto antipatico che il partito di Bersani e Speranza, Articolo Uno, avrebbe fatto tutto un percorso per rientrare nel Partito democratico vedendo alla fine il proprio spazio naturale occupato da Elly e dai suoi: tanta fatica per niente! Ecco perché i Bersani e i D’Alema stanno pensando a scendere in campo attraverso un loro candidato.

Sia Cuperlo che Orlando hanno già perso in due primarie diverse, nel 2013 il primo e nel 2017 il secondo, entrambi battuti da Matteo Renzi. Il che non esclude che ci riprovino, uno dei due o qualcun altro. Ma devono mettere in conto il rischio di perdere persino tra gli iscritti, superati dalla “estranea” Schlein e dal favorito Bonaccini: che alle primarie se la vedrebbero tra di loro, senza la Ditta.

Elly e la sinistra delle anime belle. Fulvio Abbate su L’Identità il 2 Dicembre 2022

Va Elly Schlein alla conquista del Partito democratico. Sicura di piacere ai ragazzi e alle ragazze che amano, metti, la trasmissione di Zoro, e compiaciuti si sorridono nella convinzione d’essere il sale, di più, la zuppa di farro della terra, magari gli stessi che in Soumahoro scorgevano il nuovo Cristo tra i muratori, tra i migranti. Elly Schlein su Twitter si presenta così: "Parlamentare alla Camera eletta da indipendente nel Gruppo PD-Italia democratica e progressista. Salveremo il mondo con un pollo di gomma con carrucola."Elly Schlein non è dadaista, eppure minaccia molta fantasia, e intanto sorride a sua volta a chi sembra saperla lunga in fatto di anticonformismo, merce perfetta per una borghesia giovanile letterariamente glam. "Elly Schlein domenica si candida alla segreteria del Pd dal palco del Monk. Una candidata indie", subito un commento plaude alla sua decisione.

"Indie" sta per indipendente. Si spera anche dall’entusiasmo amichettistico di chi ritiene che la sinistra debba soprattutto essere galateo per "anime belle", piscinetta ideale, fosforescente come in un quadro di David Hockney: azzurro e splash! Accompagnata ancora dalla voce di una Billie Eilish, cantante a sua volta indie pop. Quanto al "Monk", dove Elly Schlein motiverà l’intento di conquista del Pd, leggiamo, è un locale "volutamente ispirato dal talento onnivoro e rivoluzionario del pianista jazz Thelonious Sphere Monk, nasce a Roma nel quartiere Casalbertone/Portonaccio, a meno di un chilometro da uno dei più importanti punti di snodo della capitale ovvero la Stazione ferroviaria e metropolitana di Tiburtina. E’ uno spazio multiforme e variegato votato alla condivisione, al benessere e alla fruizione funzionale e consapevole dei contenuti culturali, in un continuum di stimoli ed esperienze". Una carta da visita senza prenotazione obbligatoria che, per estensione, sembra restituire gli stessi desiderata politici di Elly Schlein. Un altro utente ancora di lei scrive: "E’ brava, è donna, è di sinistra: la perfetta antagonista della Meloni". Bene, cosa deve fare la sinistra per essere tale? Semplice, assomigliare a un non meno ospitale CAF cui possano rivolgersi i più deboli per avere garantiti i diritti minimi di democrazia, e di cittadinanza. Quali questi ultimi? Sempre più semplice: case, scuole, ospedali, libertà civili, laicità e garanzie di tolleranza, compresa rispetto all’ambito delle pulsioni sessuali. Ci sarebbe poi, pensando all’invecchiamento vertiginoso della popolazione, da ragionare sulle case di riposo, anzi, sugli ospizi. Che siano degni di questo nome, così da non correre il rischio d’essere picchiati e malversati da un personale crudele, così come avviene in un romanzo di Gianni Celati, "Le avventure di Guizzardi". Ho voluto scrivere "ospizi" in omaggio a un lemma, diciamo, ottocentesco, affinchè sia chiaro il rimando al germe del socialismo da cui la sinistra dovrebbe trarre se stessa, sia pure in forma indie. Immaginando il seguito, ipotizzando davvero che Elly Schlein raggiunga la cima del Nazareno, ce la vidi tu dietro la scrivania di triste fòrmica dell’agognato CAF? Avrà parole esatte, proprie, adeguate per rispondere all’umile Italia, per dirla con Pasolini (evocato nel logo di Portonaccio-Casalbertone dove si trova il "Monk"?) di chi attende gli arretrati da una vita o semplicemente il buono-pasto dei già citati diritti di cittadinanza minimi? O sarà molto più semplice immaginarla circonfusa dagli emoticon della bella gente che ha ridotto la sinistra all’ammazzacaffè. Al ginseng, tutto vero, ma pur sempre ben oltre l’amaro. Polli di gomma con carrucola di tutti i paesi unitevi.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 20 Novembre 2022.  

Elly Schlein, un nome da imparare perché la ragazza ci darà soddisfazione. Deputata, ex vice presidente della regione Emilia Romagna, Elly Schlein, 37 anni, pur non essendo iscritta al partito - e già questa è una anomalia - si è candidata alla segreteria del Pd. Il suo curriculum si adatta perfettamente al caos identitario che regna dentro quel partito.

Tre passaporti, uno italiano, uno americano e uno della Svizzera dove è nata da genitori di nazionalità diversa, padre americano e madre italiana. Padre americano, dicevamo, ed ebreo ma lei è decisamente anti atlanti sta e non nasconde le sue simpatie per i palestinesi, così come nonostante abbia avi ucraini è contraria al sostegno militare a Kiev. Dichiaratamente bisessuale, a Daria Bignardi che la intervistava ha confessato che «ho avuto diverse relazioni in passato: ho amato molti uomini e ho amato molte donne. In questo momento sto con una ragazza e sono felice finché mi sopporta...».

Politicamente ha frequentato da esterna tutte le correnti del Pd, da quella più radicale di Pippo Civati fino a quella più moderata del governatore Stefano Bonaccini al quale ora vuole contendere la futura leadership del partito. Fin qui le note biografiche che in verità sono ben più ricche di colpi di scena. In sintesi: comunista, anticapitalista, ecologista terzomondista, utopista ma anche europeista (ha fatto una legislatura al parlamento europeo nelle fila del Pd, ovviamente da esterna) ma soprattutto ambiziosissima.

Chi, se non lei che vuole essere ed è stata, nonostante la giovane età, ha sperimentato tutto e il contrario di tutto, può mettersi alla guida del Pd? Il suo motto su Twitter è: "Salveremo il mondo con un pollo di gomma con la carrucola in mezzo", personaggio - così mi dicono i ben informati - della serie di videogiochi Monkey Island ambientato in una misteriosa isola dei Caraibi. Ecco, questa è la donna che sta per scalare la sinistra italiana, conta di farlo con un pollo dotato di carrucola. Ma il bello è che con il casino che c'è potrebbe farcela, dalle sue parti del resto i polli certamente non mancano. E allora sì che ci divertiremo tutti.

Dagospia l’11 novembre 2022. PER CONDANNARE IL PD ALL’OPPOSIZIONE ETERNA NON C’E’ NULLA DI MEGLIO DI ELLY SCHLEIN – LA VICEPRESIDENTE DELLA REGIONE EMILIA SCENDE IN CAMPO: "PARTECIPO AL CONGRESSO PD, NON STO A GUARDARE" – FIGLIA DI LUMINARI, BISESSUALE, AMAZZONE LGBTQ, EBREA ASCHENAZITA MA ANTI ISRAELE, LA SINISTRATA CHE SEMBRA USCITA DA UN FILM DI GUADAGNINO E’ SOSTENUTA DA FRANCESCHINI (CHE AUSPICA UN TICKET CON NARDELLA) - LEI SI SCAGLIA CONTRO LE CORRENTI: "ANCORA SI PENSA CHE DIETRO UNA DONNA DEVE ESSERCI SEMPRE UN UOMO CHE LA SPINGE" (IN CHE SENSO?) - COSA FARANNO ORLANDO E BETTINI?

Silvia Bignami per repubblica.it l’11 novembre 2022.

 Elly Schlein fa un passo avanti. Aderisce "con grande piacere" al percorso costituente del Pd, e di fatto si rende disponibile a correre per la segreteria. Non da sola però, ma "con tante e tanti" che vorranno accompagnarla: "Ci sono, ma serve un percorso collettivo". Di sicuro "non resto a guardare - dice - C'è già una nuova classe dirigente che aspetta una opportunità. Forse è proprio questa. Ascolterò le tante reti che ci sono in questa società. Non è oggi il momento di avanzare corse solitarie, ma è il momento di costruire una visione collettiva insieme. Diamoci un appuntamento. Riconciliamoci con i mondi fuori che non si sono sentiti accolti". Una chiamata a incontrarsi, insomma, per partire tutti insieme. 

In una diretta Instagram, la parlamentare, ed ex vicepresidente della Regione Emilia Romagna, spiega: "Finora non ho voluto alimentare un processo troppo schiacciato sui nomi. Ho visto anche il mio nome circolare e ho parlato con tante e tanti di voi di cosa serve per sciogliere i nodi irrisolti e le contraddizioni di questi anni. Io trovo molto significativa l'apertura di un processo costituente e ricostituente del Pd dopo la botta delle elezioni. E' un gesto non scontato. 

Ora - prosegue - non serve solo una frettolosa corsa a cambiare il gruppo dirigente, ma una riflessione larga e aperta su cosa vogliamo diventare. A me interessa aderire a questo percorso per portare un contributo di proposte. Non certo da sola, ma con tante e tanti altri che hanno condiviso queste proposte". 

Schlein precisa anche di voler mettere insieme una rete di movimenti che riconcili il Pd con tutta la società fuori che si è allontanata dai partiti della sinistra: "Teniamoci strette e teniamoci stretti" dice la parlamentare: "Io non ho mai creduto che le traiettorie individuali possano cambiare le cose, sono le traiettorie collettive che contano. Affolliamo questo percorso, dobbiamo essere parte del cambiamento. Qui si apre una occasione nuova. Nove anni fa non ci fu l'apertura e l'intelligenza di fare autocritica, per riconnettersi con i bisogni essenziali delle persone. Se si apre una opportunità di questo tipo che facciamo? Stiamo a guardare? Io credo di no. Dobbiamo rimettere in discussione tutto. L'unico modo per riuscirci è vivere questo cambiamento. Serve una casa comune". 

Tenendosi lontano però dalla cooptazione delle correnti: "Scalziamo quelle dinamiche di cooptazione che abbiamo visto spesso: tra le tante ricostruzioni alcune mi hanno fatto sorridere. In questo Paese ancora si fa fatica a pensare che una donna possa farsi strada senza che ci sia un uomo che la spinge da dietro. Finora ho sempre rifiutato la cooptazione, non le seguirò certo adesso. C'è già una nuova classe dirigente, se le si da una occasione. Forse è proprio questa." E forse si deve partire anche dalle Regionali in Lombardia e Lazio, dove il centrosinistra si presenta di nuovo diviso: "La maggioranza mostra le prime divisioni, ma anche il campo progressista si dimostra diviso. E' irresponsabile proseguire in queste divisioni, anche in vista degli appuntamenti regionali".

Elly Schlein sarà dunque della partita. Una decisione che arriva dopo che a lungo il suo nome è stato tirato in ballo nell'ambito del congresso dem, con le correnti e diversi dirigenti nazionali del partito che, nonostante non vi fosse alcun accordo con Schlein, hanno tentato di riposizionarsi anche sul suo nome. Schlein, che è stata per due anni vicepresidente della Regione Emilia Romagna, potrebbe affrontare nell'assise Pd, se dovesse proseguire nella sua corsa, l'attuale numero uno dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini, pure lui disponibile a correre per la segreteria, con l'appoggio di tanti amministratori e dell'ala riformista del partito. Un derby tra il numero uno dell'Emilia Romagna e la sua ex vice, mentre sempre emiliano romagnola è pure la terza candidata per ora in campo, la piacentina Paola De Micheli, che oggi presenterà la sua candidatura al circolo Pd di Bologna Passepartout.

Si vedrà se davvero questa sarà la gara. Per arrivarci infatti restano ancora aperti molti passaggi, dall'assemblea nazionale (probabilmente il 19 novembre) che dovrà fissare le regole della contesa congressuale,  al voto nelle sezioni, durante il quale verranno selezionate le candidature: solo i primi due classificati nel voto degli iscritti accederanno poi alle primarie aperte, che secondo le regole (modificate da Nicola Zingaretti) si trasformeranno così in un ballottaggio.

La data votata dalla direzione per le primarie, il 12 marzo, è stata approvata come mediazione tra le anime del partito, profondamente spaccato tra chi chiede tempi rapidi e chi invece avrebbe voluto un percorso costituente anche di un anno. Bonaccini insiste però da tempo per accorciare i tempi, supportato anche da un gruppo di oltre 150 amministratori, e da una lettera al Nazareno sottoscritta da una pattuglia di democratiche tra cui l'europarlamentare Elisabetta Gualmini. Letta aveva nella sua "chiamata" alla costituente aperto alla possibilità di accorciare i tempi. Se davvero, come sembra, sarà possibile farlo, toccherà all'assemblea nazionale Pd provarci.

Elly Schlein, "ecco chi c'è dietro di lei": adesso si capisce davvero tutto. Libero Quotidiano il 10 ottobre 2022.

Elly Schlein "è il più perfetto prodotto da laboratorio liberal-radical-progressista e euro-atlantico: gauche al ragù e sociostile bourgeois-bohème", scrive Luigi Mascheroni nel suo articolo su "Gli insopportabili" su Il Giornale. Che ricorda che la Schlein, neo paladina del Pd e aspirante segretaria, è "cittadina americana, svizzera e italiana, figlia di luminari, un passaggio dal Dams così, per sfizio - volontaria nelle due campagne elettorali di Barack Obama, bisessuale, amazzone delle battaglie Lgbtq, una giovinezza trascorsa nella confort zone fra la Ztl e il ddlZan, famiglia dell'establishment ed ebrea aschenazita ma rigorosamente anti Israele - outfit da centro sociale senza mai averci messo piede, e frequentazioni che non si possono definire di ambito proletario. Perfetta per candidarsi a prossimo segretario del Partito democratico", ironizza Mascheroni.

Classe 1985, la Schlein "è bravissima. Ma ancora più brava è l'agenzia di comunicazione politica americana che l'ha presa sotto la sua ala: la Social Changes, famosa per aver curato le campagne digitali di molti candidati dem negli Stati Uniti, a partire da Barack Obama, e che è sbarcata da tempo in Italia con l'obiettivo di 'costruire una sinistra transnazionale in grado di battere la destra'".

Ma attenzione, conclude Mascheroni, i suoi amici sono: "Fabrizio Barca, Alessandro Zan, Gassmann, Sandro Veronesi, il regista Gabriele Muccino, la Boldrini, la Murgia, Concita De Gregorio, Daria Bignardi, la Michielin, Rula Jebreal e la Ferragni". Della serie, "dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei".

Iuri Maria Prado per “Libero quotidiano” il 25 settembre 2022.

Dunque il Pd ricomincia da Elly Schlein, vicepresidente della Regione Emilia Romagna e candidata di spicco della lista-scioglilingua "Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista" (potevano scriverlo tre volte, quattro volte, "democratico": vedi mai che tirava su i sondaggi). E se c'era bisogno di una riprova del fatto che il centrocomunista non ha da opporre alla controparte un bel nulla, se non un vacuo identitarismo da cinepanettone democratico, appunto, eccola qui: la via lesbo-arcobaleno al progressismo autunno-inverno 2022.

A impostarla in questo modo sono loro, è lei, che contro le rivendicazioni materno-cristiane dell'avversaria adopera lo slogan da telenovela open minded «Sono una donna, amo una donna», che è insieme superfluo e insufficiente per preferirla all'altra e conduce soltanto alla domanda essenziale: e chi se ne frega? Salvo forse che in qualche poco determinante centro anziani in cui si sospira sul mondo andato a rotoli per colpa dei capelloni e della minigonna, infatti, un elettore che non vota per una candidata perché è omosessuale verosimilmente non esiste, e che non esista è ovviamente una buona cosa.

E allora non si capisce per quale motivo mai il curriculum sessualmente orientato dovrebbe dire qualcosa di apprezzabile sulla presentabilità politica di una persona e non ridursi, piuttosto, a quel che è: vale a dire soltanto un'altra specie di populismo in versione Erasmus, un'etichetta (ma auto-imposta) sul solito pacco di fesserie della solita sinistra che a Dio-Patria-Famiglia oppone Fedez-Greta-Zan, e all'avvento delle destre pericolose la guarentigia democratica del Sabato Progressista. 

Il tutto, ma guarda un po', nel preannuncio della seconda stagione dell'affascinante avventura con i 5Stelle del Professor Graduidamende, quello con cui a sinistra son certi di andare d'accordo dalla A alla Z sugli interscambiabilissimi programmi di grassazione e redistributivi che sono il nerbo trasversale dei garanti dell'Italia statalista e parassitaria. 

Quando dice, a proposito delle donne, «non siamo uteri viventi, siamo persone», Elly Schlein avrebbe perfettamente ragione: avrebbe, perché il guaio è che in controluce la sua alternativa non è una raccomandabile compostezza civile asessuata,mala preminenza morale degli “uteri di sinistra”, una roba di cui,francamente, uno (e si spera anche una) farebbe volentieri a meno. 

Il problema di questi qui resta sempre lo stesso anche con l’innesto di queste qui, e cioè che al possibile difetto liberale altrui oppongono il sicuro, ma moltiplicato, difetto liberale loro, con il reddito da 25 Aprile e il diritto acquisito all’endorsement della stampa coi fiocchi, con il comizio legittimato in coming out e con le aule sorde e maschiliste finalmente aperte al bivacco dei manipoli Lgbtq.

È una sinistra parecchio convenzionale quella che pretende di riformularsi in una specie di laburismo sindacal-ecologista che mette in Costituzione l’obbligo gay friendly e tanta galera democratica per chi fa il saluto sbagliato. Parecchio convenzionale e soprattutto parecchio vecchia, se al posto dei lucertoloni che andavano in pellegrinaggio a Mosca presenta i virgulti che in piega sessualmente corretta ne continuano in purezza la tradizione.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 10 ottobre 2022.  

Elly Schlein è la risposta a una domanda che nessuno ha fatto. E per di più è sbagliata. 

E nemmeno l'argomento in realtà interessa molto. Tema: come sarà la nuova sinistra?

Di sinistra ma non piddina (pro memoria: chiarire se è iscritta o no al Partito democratico), ultra gender oriented, così femminista da essere trans-femminista, così ambientalista da essere ecosocialista, e talmente a vocazione internazionale da percepire Bologna una città che si attraversa a piedi come una metropoli cosmopolita, Elly Schlein è il più perfetto prodotto da laboratorio liberal-radical-progressista e euro-atlantico: gauche al ragù e sociostile bourgeois-bohème. 

È cittadina americana, svizzera e italiana, figlia di luminari, un passaggio dal Dams così, per sfizio - volontaria nelle due campagne elettorali di Barak Obama, bisessuale, amazzone delle battaglie Lgbtq, una giovinezza trascorsa nella confort zone fra la Ztl e il ddlZan, famiglia dell'establishment ed ebrea aschenazita ma rigorosamente anti Israele - outfit da centro sociale senza mai averci messo piede, e frequentazioni che non si possono definire di ambito proletario. Perfetta per candidarsi a prossimo segretario del Partito democratico.

Elly Schlein è il nuovo volto di quella sinistra di lobby e di potere che ha trasformato la battaglia delle idee in pura ideologia e ha scambiato i diritti sociali con quelli civili, inseguendo i secondi e dimenticandosi i primi. 

E comunque, chi ha detto che sembra uscita da un film di Guadagnino è un genio.

Elly Schlein, super star della New left alle tagliatelle, è una di quelle persone di cui non condivi le opinioni, ma i privilegi sì. 

Privilegiata, mojito e arcobaleno, cannabis light e eutanasia, slogan e retorica («Possiamo unire le lotte per la giustizia sociale e ambientale, nel segno dell'intersezionalità, attorno a una visione condivisa: ecologista, progressista e femminista insieme», «Giusto! Sono d'accordo con il compagno busone»), la Schlein è l'upgrade bolognese di Alexandria Ocasio-Cortez, nuove chierichette del pensiero egemone che piacciono a tutti coloro per i quali i partiti democratici non sono mai abbastanza di sinistra. Forza Elly, che portiamo il Pd al 4%! 

Elly ti presento Schlein.

Ma chi è Elena Elly Ethel Schlein? La risposta più stupida ma non del tutto sbagliata sarebbe: la Serracchiani più le Sardine.

In realtà, la storia anzi un'epopea è più complessa. Comincia in Ucraina e finisce a Bologna, passando per New York, la Resistenza e la Svizzera: persino l'Europa non è abbastanza. Vorremmo essere lei. E ha solo 37 anni... 

Elly Schlein nasce a Lugano nel 1985. Il padre è americano, discendente da ebrei originari di Leopoli poi emigrati negli Stati Uniti, professore di Scienze politiche alla Franklin University Switzerland di Lugano. La madre, già preside della facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi dell'Insubria, è nipote di Agostino Viviani, celebre antifascista, senese, senatore del Partito Socialista Italiano. Solo il pedigree vale un 15%. Wow! (anche se lei preferisce dire «Woke»).

Epifanie. All'età di cinque anni Elly suona il pianoforte. Adora anche la chitarra elettrica. Giovanissima è appassionata di cinema, poi aspirante regista e lavora per Cinecittà Luce. Si diploma a Lugano e poi si laurea in Giurisprudenza a Bologna (con due tesi: sui migranti in carcere e sui diritti dello straniero, già allora per fare dispetto a Salvini). Poi è una delle Lemnie dem che lanciano la campagna di mobilitazione #OccupyPd. Aderisce alla linea civatiana (come ha detto qualcuno la Schlein sarebbe tipo Pippo Civati, ma senza l'irresistibile femminilità di Pippo Civati). Nel 2014 è eletta parlamentare europea nel Pd - da cui si dimette perché non sopporta, ricambiata, Matteo Renzi) e nel 2020 diventa vicegovernatore dell'Emilia-Romagna con un numero impressionante di voti. «Yes, we can». Che se sei un nerd si dice «Ma sì, ci sta».

Elly, non si può negare, è bravissima. Ma ancora più brava è l'agenzia di comunicazione politica americana che l'ha presa sotto la sua ala: la Social Changes, famosa per aver curato le campagne digitali di molti candidati dem negli Stati Uniti, a partire da Barak Obama, e che è sbarcata da tempo in Italia con l'obiettivo di «costruire una sinistra transnazionale in grado di battere la destra». 

E così i new liberal credo obamiano e Open Society Foundations - si prenderanno il Pd italiano. Per trasformarlo in un partito radicale di massa: diritti individualistici più turbocapitalismo occidentale. Perché se il gay pride è sponsorizzato da Amazon e Netflix qualcosa vorrà pur dire.

«Società aperta», immigrazionismo, cancel culture, posizione sulla Russia molto tiepida e sessualità fluida. Il meraviglioso mondo di Elly. 

Non si è ancora capito se Elly Schlein sia l'anti Meloni o la nostra aspirante Sanna Marin. Il Guardian la vede come la rifondatrice della sinistra, come ai tempi di Jeremy Corbyn (e non andò benissimo). Per Renzi invece se lei diventasse segretaria del Pd mezzo partito si iscriverebbe a Italia viva. «E sono stato prudente». Imprudente, furba, incisiva, ricca, determinata (come dice chi la conosce bene «è una per la quale l'amicizia conta fino a un certo punto: lei è proiettata sul potere»), esibita sensibilità ambientalista, parlantina spinta (con un pizzico di fuffa), autostima fortissima e ars oratoria deboluccia gli slogan sono un po' da studentessa appena tornata da una manifestazione di Lotta continua anni '70 e svolgimenti da temino di liceo (i grandi problemi dell'umanità, la disuguaglianza, l'inquinamento, il superamento del patriarcato, la fame nel mondo, i monopattini, «Chi non canta Bella ciao è incivile»), Elly Schlein è solo un po' meno idealista di Alessia Piperno, più ideologica di Fratoianni, meno cinica della Cirinnà, empatica come Carola Rackete e amabile quanto Fiano.

Dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei. Personaggi che sostengono la causa Schlein: Fabrizio Barca, Alessandro Zan, Gassmann, Sandro Veronesi, il regista Gabriele Muccino, la Boldrini, la Murgia, l'amichettista Concita De Gregorio «Elly è la soluzione perfetta!» Daria Bignardi, la Michielin, Rula Jebreal e la Ferragni.

Gnè, gnè, gnè.

Comunque, la copertina fluid che le dedicò l'Espresso... beh, diciamo che non è stata tra le più riuscite del settimanale.

Cose belle per Elly: i talk show, la decrescita felice, i videogiochi (Monkey Island), il cinema di Guadagnino (stiamo scherzando, dài), la sinistra bancaria, la frase «Ci siamo ricongiunti con il fuori» («Ma che cazzo vuol dire?», «Boh»), gli asterischi, la scevà, le donne (ma anche gli uomini).

Cose non così belle per Elly: le larghe intese, Matteo Renzi, il Jobs act, i franchi tiratori che impallinarono Prodi, e forse anche Prodi, il ticket con Bonaccini, Bonaccini, la Tav, i binari (è una battuta...), il nucleare, i parrucchieri, gli uomini (ma anche le donne).

Domanda: ma era davvero così importante parlare della propria bisessualità?

«Sono un donna, sono una lesbica, non sono una madre». Ma chi se ne frega? E comunque bisogna andare oltre il genere. Dobbiamo essere inclusivi! Via quei pronomi maschili e femminili. Egli, ella, esso, essa, Elly...

Per il resto, ci sono persone che una volta famose diventano insopportabili. E persone che sono già insopportabili prima ancora di diventare famose.

E non è questione di maschile o femminile.

Elly Schlein ha vinto le primarie Pd: battuto Bonaccini, è la prima segretaria del partito. Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023.

Dopo un lungo testa a testa, ha superato Stefano Bonaccini. Messaggio di Giorgia Meloni: «Spero che la sua elezioni possa aiutare la sinistra a guardare avanti»

Dopo un lungo testa a testa, Elly Schlein, a sorpresa, vince le primarie del Pd. Con l’80 per cento di schede scrutinate, si aggiudica il 53,8% contro il 46,2 di Stefano Bonaccini. «Anche stavolta non ci hanno visto arrivare», scherza nella sua prima dichiarazione. Schlein diventa la prima segretaria donna e la prima ad aver vinto ai gazebo avendo perso, però, la conta tra gli iscritti. L’altra leader, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, si congratula e trasmette «alla sinistra» un messaggio che contiene un sottotesto: «Spero che l’elezione di una giovane donna alla guida di via del Nazareno possa aiutare la sinistra a guardare avanti e non indietro».

Fondamentali per l’affermazione di Schlein i risultati delle grandi città: Milano, Roma, Torino, Bologna, Firenze, ma anche Palermo e Napoli. E la sua è una vittoria a trazione nord, anche se conquista la Sicilia. Alle 23.20 Stefano Bonaccini concede la vittoria e invoca l’applauso per l’avversaria. «Elly è stata più capace di intercettare una richiesta di rinnovamento. Sento la responsabilità di darle una mano». Dario Franceschini, grande elettore di Schlein, restituisce il senso di un risultato clamoroso: «Un’onda travolgente di speranza, rabbia, orgoglio, cui nessuno credeva. Il popolo democratico sceglie di farsi guidare verso il futuro da una giovane donna. Inizia una nuova storia».

Appena avviato lo spoglio, Schlein risulta subito avanti all’avversario dato per favorito alla vigilia. I primi dati però arrivano tutti dal Nord, territorio in cui la segretaria è più forte, e il divario sembra colmabile. Prima ancora della battaglia sui numeri, tra i due comitati la battaglia è di nervi: sui tempi dello spoglio. Un’ora dopo la chiusura dei seggi, Dario Nardella, coordinatore della mozione Bonaccini, annuncia che per scrutinare il milione di schede dei votanti «ci vorrà tutta la notte». Un tentativo di minimizzare i primi risultati parziali. Poi lo stillicidio di percentuali — a cominciare da quelle di Youtrend — divulgate attraverso i social. Dal Nazareno si tenta di dare un colpo di freno: «I dati che stanno circolando in questi minuti non sono ufficiali. Quelli ufficiali li darà il Pd». Nella sede del partito non sembrano essere pronti al ribaltamento dei risultati rispetto al voto degli iscritti.

Al comitato di Schlein, invece, si respira già entusiasmo, testimoniato anche dall’arrivo di tutti i big. I sostenitori della deputata si concentrano sul «dato travolgente della città metropolitana di Milano», 69%, per e iniziare a festeggiare. Manca però sempre il risultato del Sud, di Campania e Puglia, governate dagli sponsor più forti di Bonaccini: Vincenzo De Luca e Michele Emiliano. È quando anche dalla Campania la vittoria del governatore dell’Emilia-Romagna non si rivela così larga che si capisce che per lui la rimonta non è a portata di mano.

La giornata delle primarie, funestata dalla morte per malore di uno scrutatore in un seggio di Reggio Calabria, parte con una buona partecipazione. L’alta affluenza, profilatasi già dal mattino, può favorire Schlein, e i sostenitori di Bonaccini lo sanno. Così fanno partire il tam tam di messaggini: «Andate a votare». Al suo seggio di Roma, si presenta il segretario uscente, Enrico Letta, che dopo settimane di disciplinato silenzio, si toglie qualche sassolino dalla scarpa: «Ci sono stati mesi in cui sono stato oggetto di mille ironie. Il metodo per il congresso era giusto». Stefano Vaccari, responsabile organizzazione, celebra l’affluenza e prova ad allontanare «gli sciacalli»: «Il Pd non è morto come tanti dicevano».

Ma da fuori dei confini dem si guarda alle conseguenze di un cambio di guida così radicale in casa Pd. Con un interesse che Maria Elena Boschi di Italia viva, esprime lesta, a spoglio in corso: «Si apre una stagione molto interessante per i riformisti».

Elly Schlein annuncia un’opposizione dura: «Un mandato a cambiare davvero». Lorenzo Salvia su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023.

L’ex vice di Bonaccini e il discorso della vittoria: «Adesso saremo un bel problema per il governo Meloni»

«Care tutte e cari tutti, ce l’abbiamo fatta. Sono immensamente grata perché insieme abbiamo fatto una grande rivoluzione. Anche stavolta non ci hanno visto arrivare». Mancano pochi minuti alla mezzanotte quando Elly Schlein fa il suo primo intervento pubblico da segretaria del Pd. «Il popolo democratico è vivo e ha una linea chiara. Ci chiede di cambiare davvero». E poi l’avviso: «Saremo un bel problema per il governo Meloni, organizzeremo una vera opposizione».

I risultati delle primarie

L’emozione c’è, la soddisfazione ancora di più. Forse anche un po’ di sorpresa. Ma i primi segnali della vittoria erano arrivati già un paio di ore prima. «Ma allora ha vinto davvero?», dice aprendo la porta della sala riunioni un ragazzo dello staff, vestito nero, sguardo incredulo. Dietro la porta c’è Elly Schlein, con tutto il suo stato maggiore. Sono quasi le nove e mezza di sera, applausi, qualche grida di giubilo. Al comitato Schlein si è appena materializzato Nicola Zingaretti, ex segretario del Pd. In molti interpretano questo arrivo, data la sua proverbiale prudenza, come il segnale che la vittoria sia una realtà. Come gli abbracci che Nico Stumpo si concede con amici e collaboratori, «abbiamo vinto anche a Tor Bella Monaca!».

Spazio Diamante, teatro tra il Pigneto e Tor Pignattara, zona di tendenza che non è centro ma non è neanche periferia. E comunque fa molto «sinistra ecologista e femminista», come da slogan ripetuto più volte in questa campagna elettorale. Sfondo viola, camicia bianca, mani sui fianchi, inevitabile sorriso. «Parte da noi!» dice l’immagine di Schlein sui manifesti e sugli schermi del comitato. Fino a tarda sera bisogna accontentarsi di questo. Lei aspetta prima di fare dichiarazioni ufficiali. Non si vuole sbilanciare nemmeno quando dal suo staff filtra che, oltre che a Tor Bella Monaca, «Elly è in vantaggio in 14 Regioni», «che ha vinto anche a Napoli, Bologna, Palermo e Firenze». Come se non ci credesse fino in fondo.

I risultati arrivano più tardi del previsto. Schlein, invece, arriva in sede che ormai mancano dieci minuti alle nove di sera, un’ora abbondante dopo rispetto al programma iniziale. Segno che ha voluto attendere che i primi segnali positivi si trasformassero almeno in tendenza. E già in quel momento la tendenza sembra più che positiva. Passa nella sala stampa ma è solo per un saluto, niente domande. Camicia a scacchi rosso e nera, giubbotto blu, sneaker, il suo staff la accoglie con un ricco applauso, perché adesso qui ci credono davvero non solo per dovere professionale. «Buon lavoro a tutti», tira dritto lei, e poi si chiude nella stanza di cui sopra per aggiornare il punto della situazione. Dalle città stanno arrivando i primi dati, che la danno in vantaggio. Eppure fino a pochi minuti prima nel suo staff tenevano a bada i trionfalismi, dicendo che in ogni caso «Elly» ha vinto perché ha spostato a sinistra il dibattito nel Pd. Vero, ma somigliava molto al presagio della sconfitta. Una sorpresa anche per loro?

A scrutinio in corso Schlein si limita a una dichiarazione tramite agenzie: «Da stamattina ai gazebo c’è stata la fila, anche dove pioveva». Linea ecumenica sulla grande partecipazione popolare. Ma non solo, perché l’alta affluenza concentrata nelle grandi città forse è stata la chiave di questa partita. «Se nelle grandi città, saremo avanti, la partita è aperta», commentava lo staff nelle ora in cui ancora si mettevano le mani avanti, mugugnando contro i «cacicchi e i capibastone». Un momento in cui l’obiettivo sembrava essere il «grande pareggio». Spiegando che questa è un’elezione simile a quella per il presidente degli Stati Uniti, dove non contano solo i voti per il front runner ma anche le preferenze per i delegati. Ma ormai la strategia del grande pareggio è superata. Resta la vittoria a sorpresa. E una notte per festeggiare.

L. Sal. per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2023.

 «Non ha funzionato l’uomo solo al comando, non funzionerebbe la donna sola al comando». Così Elly Schlein ha sempre detto, dai palchi di questa lunga corsa congressuale, di «voler fare squadra». E al di là delle buone intenzioni di cui è lastricata ogni campagna elettorale — e delle frecciate al concorrente più volte accusato di renzismo, sinonimo di accentramento — Schlein ha tuttavia un motivo in più per insistere sul concetto di squadra.

Lo ha avuto nei giorni della sfida e lo ha ancora di più oggi. E questo perché la squadra dovrebbe essere lo scudo migliore contro il pressing da parte dei tanti big del partito che hanno via via appoggiato la sua candidatura. E di quelli che proveranno all’ultimo a salire sul carro.

 (...)

È per tutto questo però che Elly Schlein, appunto, punta intanto a mandare avanti la sua, di squadra, che ci si aspetta ad alto tasso di donne e quarantenni. Quali sono i nomi? In prima fila c’è Michela Di Biase, oggi deputata del Pd, capogruppo in consiglio comunale a Roma ai tempi (difficili) di Raggi. E anche moglie di Franceschini, da molti considerato uno dei padri della candidatura di Schlein. Poi c’è Stefano Vaccari, responsabile nazionale organizzazione del partito, che pure è legato a Bonaccini da un lungo rapporto. Nella lista ci sono anche le Sardine, il movimento di attivisti nato a Bologna nel 2019, volto noto Mattia Santori. Forse una sorpresa, sicuro una nemesi visto che quell’associazione «dal basso» era stata creata proprio per sostenere Bonaccini nelle elezioni per il seconda mandato come presidente dell’Emilia-Romagna.

Un ruolo lo dovrebbero avere anche tre nomi che vengono dalla sinistra della sinistra, tragitto più volte rivendicato da Schlein.

Il primo è Nico Stumpo, oggi tra i pochi eletti di Articolo Uno, e che nella segreteria di Pier Luigi Bersani era responsabile dell’organizzazione del Pd. Poi Arturo Scotto, anche lui in Parlamento con Articolo uno, dopo un passato con Sel e Nichi Vendola. Della partita dovrebbe far parte anche Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud nel governo Conte due ma, a differenza di Franceschini e Orlando, non in quello Draghi. E anche di un’altra generazione, avendo da poco superato i 40 anni. Se però Schlein ha detto più volte di voler una sinistra «ecologista e femminista», è lecito aspettarsi altre donne nella sua squadra. Un ruolo dovrebbe avere anche Stefania Bonaldi, ex sindaca di Crema, che in questa campagna ha coordinato la rete degli amministratori locali. Ci dovrebbero essere anche Chiara Gribaudo e Chiara Braga. Tra gli altri nomi il portavoce di Schlein Flavio Alivernini e quello della mozione che l’ha sostenuta Marco Furfaro. Senza contare che sul carro del vincitore si fa spesso la fila e non sempre si trova posto.

Estratto dell’articolo di Francesco Rosano per corriere.it il 27 febbraio 2023.

«Noi dobbiamo fare la sinistra». Il mantra che ha scandito la campagna per le primarie di Elly Schlein, la deputata dem che ha battuto Stefano Bonaccini per la guida del Pd, è una dichiarazione di intenti che accompagna dall'inizio la rapida ascesa dell'ex vicepresidente dell'Emilia-Romagna.

 Elena Ethel Schlein è nata nel 1985 a Lugano ed è figlia di due accademici: la madre, l’italiana Maria Paola Viviani Schlein, è stata preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi dell’Insubria; il padre, lo statunitense Melvin Schlein, è professore emerito di Scienze politiche e ha un passato da assistant director nella sede bolognese della Johns Hopkins University.

 Scuole ad Agno, maturità a Lugano, la candidata alle primarie del Pd ha studiato al Dams di Bologna e poi a Giurisprudenza. Indole nerd (è una fan del videogioco Monkey Island), cinefila, amante dell'indie-rock statunitense, per due volte volontaria negli Usa per la campagna elettorale di Barack Obama.

Nativa democratica di area civatiana (quando Pippo Civati era nel Pd), nel 2013 è l'animatrice di «Occupy Pd», il movimento di protesta contro i 101 franchi tiratori che in Parlamento hanno fermato la corsa di Romano Prodi verso il Quirinale. Nel 2014, con Matteo Renzi segretario, arriva in Europarlamento: eletta nel Nord Est con oltre 50 mila preferenze. Lo strappo con il Pd renziano arriva in fretta sul Jobs act.

 Nel 2015 Schlein approda a Possibile, ma nel 2019 si rompe il sodalizio con Civati ed Elly inizia a ballare da sola. Alle porte ci sono le Regionali in Emilia-Romagna, la sinistra che accompagna Stefano Bonaccini cerca un volto. Schlein diventa la capolista di Emilia-Romagna Coraggiosa, rassemblement di sinistra che ha tra gli sponsor anche l’ex governatore Vasco Errani. La lista non arriva al 4%, ma Schlein – complici un video virale in cui incalza Matteo Salvini, un forte investimento sui social e il favore delle Sardine - supera le 22 mila preferenze su tre province. Il salto alla vicepresidenza della Regione è scontato.

L'anti-Meloni

Si capisce in fretta, però, che l’Emilia-Romagna le sta stretta. Rimbalza negli studi dei principali talk-show, fa coming out: «In questo momento sto con una ragazza e sono felice». L’Espresso le dedica una copertina da possibile leader di una futura Cosa Rossa. Dopo la nascita del governo Draghi e le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd, è lei a fare il primo passo: «Diamoci un appuntamento», lancia l'appello nel marzo 2021 alla galassia della sinistra, specificando che «la soluzione non è rientrare in un Pd in grande confusione».

Andrà diversamente. Alle Politiche sceglie di correre col Pd in Emilia-Romagna, blindata nel listino proporzionale. Veste i panni dell'anti-Meloni. «Sono una donna. Amo un’altra donna e non sono una madre, ma non per questo sono meno donna», dice dal palco di Piazza del Popolo a Roma ribaltando l’iconico discorso della leader di Fratelli d’Italia.

 (...)

Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per corriere.it – 18 febbraio 2023

 […] Davvero lei è certa di vincere?

«Ne sono assolutamente convinta. Lo sento. Avverto una mobilitazione incredibile. Lei non ha idea di quanta gente voglia partecipare. Giovani che non avevano mai fatto politica. Anziani che mi dicono “non prendevo la tessera da trent’anni”, quindi non erano mai stati nel Pd». […]

Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per corriere.it il 27 febbraio 2023.

 Elly Schlein l’aveva detto al Corriere con una sicurezza impressionante — «sono convinta di vincere» —; ma ci credevano in pochi, oltre a lei e al suo mentore Franceschini («una come Elly nasce ogni dieci anni»).

 [...] A guardare la vittoria di Elly Schlein con gli occhiali della politica, la si potrebbe definire un regalo a Renzi e Calenda, che erano finiti in un angolo dopo il flop della Moratti e ora esultano: il voto palesemente antirenziano di ieri apre spazio al centro e quindi all’odiato Renzi. Neppure Giorgia Meloni è dispiaciuta: il presidente dell’Emilia Romagna appariva un avversario più solido e sperimentato di una giovane priva di esperienza amministrativa.

Eppure mai come stavolta a guardare la vittoria della Schlein con gli occhiali della politica si rischia di non capire nulla.

 Il segno del nostro tempo è la rivolta contro l’establishment, il sistema, e tutto quanto è percepito come «vecchio».

 Certo, la Schlein era sostenuta da una parte della nomenklatura del Pd, a cominciare appunto da Franceschini. Ma rispetto [...] al «comunista emiliano» Bonaccini, una giovane donna che al Pd sino a poco fa non era neppure iscritta ha rappresentato il Nuovo.

 [...]  Il Pd non è più il partito delle coop, dell’asse tosco-emiliano, degli artigiani rossi. È un partito di borghesia metropolitana, attento ai diritti civili, alle ragioni della piazza e dei movimenti, dalle Sardine agli «antifa». Elettori che l’aggressione di Firenze ha motivato , e che non hanno perdonato a Bonaccini le parole con cui riconosceva alla Meloni una certa capacità. [...]

Ora può succedere di tutto. Che il partito si ricompatti, o che i centristi ex renziani raggiungano il loro vecchio capo. Che il Pd ribadisca la linea filo-ucraina o la ammorbidisca. Che il rapporto con i Cinque Stelle rinasca o che aumenti la competizione a sinistra. Che gli elettori liberali, moderati, cattolici guardino altrove o che la nuova segretaria sappia avvicinare alla politica una nuova generazione, che in parte si è mossa – per la prima volta – già ieri.

 L’esperienza del passato è che non esiste un posto più precario della segreteria del Pd. Eppure una segretaria come Elly Schlein il partito non l’ha mai avuta; e non solo perché non ha mai avuto una leader donna.

Finora il Pd è stato retto da ex democristiani [...] o da uomini formatisi nel Pci ma navigatori di lungo corso, ben noti all’opinione pubblica [...]. 

Elly Schlein è una novità e un esperimento. Se la gente percepirà che dietro di lei ci sono i soliti, non sarà una novità e non sarà un esperimento lungo. Lo stesso accadrà se la forte carica ideale che la anima assumerà un carattere ideologico distante dalla realtà, se la nuova leader si rivolgerà al Paese come vorrebbe che fosse, non come è. Eppure è possibile anche che Elly Schlein sia destinata a sorprendere ancora una volta.

Pd, primarie 2023: Elly Schlein è la nuova segretaria del Pd. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2023.

Grande sconfitto il partito dei "governatori" ed i sindaci del Pd a partire da De Luca ed Emiliano , con a ruota il sindaco di Bari Antonio De Caro e quello di Taranto Rinaldo Melucci, che avevano sostenuto a spada tratta Stefano Bonaccini.

Elly Schlein è la nuova segretaria del Partito democratico. È la prima donna alla guida del partito. Ed è la più giovane: ha solo 38 anni. La deputata conquista il Nazareno ribaltando il voto dei circoli . “Congratulazioni e in bocca al lupo“, così Stefano Bonaccini le ha concesso la vittoria dopo l’annuncio dei dati ufficiali all’80 per cento dello scrutinio che davano la Schlein in vantaggio col 53,8% dei voti. “Abbiamo fatto una piccola grande rivoluzione e anche stavolta non ci hanno visti arrivare”, sono state le sue prime parole in conferenza stampa. L’affluenza è stata attorno al milione, non sono i 3,5 milioni del 2007 quando venne eletto Walter Veltroni ed 1,6 milioni del 2019.

Auguri ad Elly Schlein segretaria del Pd. Riuscirà laddove io non ce l’ho fatta. Complimenti a Stefano Bonaccini per tutto, anche per le parole di stasera. Grazie infinite alle migliaia di volontari che hanno reso possibile questo successo di democrazia e partecipazione”, il tweet di Enrico Letta, segretario uscente.

Vi chiedo di mandare un grande abbraccio a Elly Schlein. Le ho fatto un grande in bocca al lupo per la responsabilità che assume alla guida del Partito Democratico. Mi metto a disposizione, sono pronto a dare una mano“, dice Bonaccini concedendo la vittoria a Schlein quando lo spoglio non è ancora concluso. “Siamo ormai all’80% dei seggi scrutinati: Bonaccini raggiunge il 46,2% e Schlein al 53,8“, dice Silvia Roggiani, presidente del comitato congresso Pd, al Nazareno.

Io sento, e non ho dubbi che la sentono tutti quelli che mi hanno dato una mano da vicino, sentiamo la responsabilità di metterci a disposizione per dare una mano a Elly e a tutta la comunità del Partito democratico. Noi ci sentiamo parte di questa grande responsabilità. Grazie a tutti voi per la mano che mi avete dato, grazie ai volontari che hanno tenuto aperti i seggi. Grazie a chi ha fatto in modo che quella di oggi fosse una bella giornata di democrazia e partecipazione”, dice Bonaccini rivolgendosi al suo comitato.

E’ un mandato chiaro, per cambiare”, dice la nuova segretaria dem nella sua prima dichiarazione. “Vi sono immensamente grata perché insieme abbiamo fatto una piccola grande rivoluzione. Anche stavolta, non ci hanno visto arrivare. Il popolo democratico è vivo, c’è ed è pronto a rialzarsi. Lavoreremo su questa fiducia, è un mandato chiaro per cambiare. Saremo un bel problema per il governo di Giorgia Meloni“. evidenziando la priorità di “ricostruire fiducia e credibilità che si è spezzata in questi anni. Non tradire mai la fiducia del popolo è la più grande responsabilità”.

Un’onda travolgente cui nessuno credeva. Un’onda di speranze, di rabbia, di orgoglio, di entusiasmo che ha portato il popolo democratico a scegliere di farsi guidare verso il futuro da una giovane donna. Oggi inizia davvero una nuova storia“, le parole di Dario Franceschini su Twitter.

Una vittoria netta. Un messaggio chiaro. Grazie ad Elly Schlein per avere fatto l’impresa. Grazie ai nostri militanti e agli elettori che hanno reso possibile questa bella giornata. Grazie a Stefano Bonaccini per il messaggio unitario delle sue parole di questa sera”, commenta su Twitter Andrea Orlando .

Grande sconfitto il partito dei “governatori” ed i sindaci del Pd a partire da De Luca ed Emiliano , con a ruota il sindaco di Bari Antonio De Caro e quello di Taranto Rinaldo Melucci, che avevano sostenuto a spada tratta Stefano Bonaccini. Redazione CdG 1947

Elly Schlein è la nuova segretaria nazionale del Partito Democratico. Con un testa a testa durato fino alle 23 inoltrate, la Schlein è la prima donna alla guida del partito. Decaro: "Ora l'obiettivo sia l'unità del partito e del centrosinistra". Boccia: "Oggi nasce un nuovo Pd". REDAZIONE ONLINE La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Febbraio 2023.

E' la prima donna alla guida del partito. Ed è la più giovane: ha 38 anni. «Ringrazio il popolo democratico, un popolo che si è riunito e ha risposto alla chiamata. Ora la responsabilità è non tradire questa fiducia - sono state le sue prime parole rivolgendosi al suo comitato elettorale -. Ora al lavoro per una vera e profonda conversione ecologica, saremo quel partito che non si dà pace finché non avrà posto un limite alla precarietà. Ce l’abbiamo fatta - continua -, insieme abbiamo fatto una piccola grande rivoluzione, anche questa volta non ci hanno visto arrivare. Il popolo democratico è vivo e è pronto a rialzarsi, con un mandato chiaro a cambiare».  «Saremo un problema per il governo Meloni - ha proseguito il nuovo segretario -; daremo un contributo a organizzare le opposizioni a difesa dei poveri, contro un governo che li colpisce, saremo a difesa della scuola pubblica nel momento in cui il governo tace davanti a una aggressione squadrista. Staremo a fare e barricate contro ogni taglio alla sanità»».

Poi, un saluto all'avversario Stefano Bonaccini: «Mando un saluto caloroso a Stefano Bonaccini, ringraziandolo per il confronto alto e rispettoso che abbiamo avuto. Ringrazio Cuperlo e De Micheli, e i loro sostenitori, da domani lavoreremo insieme nell’interesse del Paese. Lavoreremo per l’unità, il mio impegno è di essere la segretaria di tutte e di tutti, per tornare a vincere».

Con un breve discorso, lo sfidante ha riconosciuto la sconfitta: "La prima cosa che chiedo è mandare un applauso a Elly Schlein - ha detto Bonaccini - l'ho sentita e le ho fatto i complimenti, in bocca al lupo per la grande responsabilità che assume alla guida del partito. Ha prevalso Elly e io sono a disposizione per dare una mano". Nessuna scissione, ha ribadito Bonaccini: "Da domani tutti dobbiamo dare una mano per il rilancio del Pd, sentiamo la responsabilità di metterci a disposizione, dobbiamo dare una mano a Elly. Io l'ho sempre detto: se avessi vinto avrei chiesto ad Elly di darmi una mano, ha prevalso Elly e senza chiedere nulla per me sono pronto a dare una mano".

I dati della giornata sono andati fin da subito oltre le aspettative: quasi 600mila i votanti alle 13. Alla fine sono stati un milione. Non sono i 3,5 milioni del 2007 o l'1,6 milioni del 2019. Ma si tratta di un risultato comunque insperato alla vigilia, quando i due contendenti stentavano a sbilanciarsi e, messi alle strette, dicevano che già un milione di elettori sarebbe stato un successo. Le aspettative per la nuova stagione del Pd si concentrano anche sulla capacità di chi va a sedersi al Nazareno di costruire una nuova squadra, di voltare pagina con i dirigenti.

Per tutta la campagna, i due sfidanti si sono rinfacciati la vicinanza o l'appoggio dei vari esponenti di vertice del partito, accusati della crisi del Pd culminata nell'ultima sconfitta, quella delle politiche di settembre: Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e dem al 19,1%. Chi prende le redini del partito è chiamato a dimostrare già dai nomi il senso del cambiamento. Non ci sono ruoli e compiti già definiti. Però ci sono i propositi di Bonaccini e di Schlein e i volti di chi li ha affiancati in questi mesi. Il presidente dell'Emilia Romagna ha più volte detto di puntare sugli amministratori locali. La competitor punta invece su donne e giovani. Schlein ha scelto come portavoce della mozione il deputato Marco Furfaro. In squadra con lei ci sono anche le deputate Chiara Braga e Chiara Gribaudo, il deputato Marco Sarracino, oltre al senatore Francesco Boccia. La giornata dei due candidati è iniziata alle urne. Bonaccini ha votato nella sua Campogalliano, in provincia di Modena. Poi, nel pomeriggio, si è spostato a Casalecchio di Reno, a 10 chilometri da Bologna, per attendere i risultati del voto. Per Schlein, gazebo a Bologna e, qualche ora più tardi, viaggio in treno fino a Roma, per seguire le fasi dello spoglio nel comitato allestito in un teatro, lo Spazio Diamante.

Boccia: "Oggi nasce un nuovo Pd"

"Oggi nasce un nuovo Pd - commenta Francesco Boccia, portavoce della mozione Schlein - chiederemo a chi non si è ancora iscritto di farlo perché sarà un partito aperto e sempre più inclusivo. Ellly è una forza della natura, ha unito la sinistra finalmente e ora avrà la forza e l’energia della sua generazione per unire il fronte alternativo alla destra".

Decaro: "Buon lavoro: ora l’obiettivo comune sia l’unità del partito e del centro sinistra”

"Da domani a chi ha vinto il Congresso toccherà tenere dentro tutte le anime del Partito Democratico, a partire da chi ha partecipato a questa giornata con passione - dichiara Antonio Decaro -. A Bari e in Puglia, la mozione di Stefano Bonaccini ha ottenuto la maggioranza dei voti e di questo voglio ringraziare tutti i cittadini che ancora una volta hanno dimostrato grande fiducia nei confronti di molti amministratori di questa terra. L’obiettivo comune, da oggi, deve essere lavorare per ricostruire il campo largo del centro sinistra capace di battere le destre in tutte le competizioni elettorali, dalle amministrative alle politiche, per costruire il Paese unito e giusto che abbiamo sempre sognato e che governando possiamo realizzare. 

Buon lavoro al nuovo Partito democratico guidato da Elly Schlein. A lei il testimone di una grande comunità progressista e riformista che deve avere la forza di tornare ad essere il primo partito di opposizione al Governo Meloni”. 

Estratto dell'articolo di A. Bul. per “il Messaggero” il 27 febbraio 2023.

La prima sfida, più che al governo Meloni (che pure Schlein evoca nel suo primo discorso, nella notte, da segretaria del Pd) sembra rivolto alle correnti interne del Pd. E anche a quei capibastone che, da Franceschini ad Orlando, passando per Zingaretti, l'hanno sostenuta in questa campagna elettorale delle primarie. La parole d'ordine è «cambiamento».

 Del Paese sì, certo. Ma (soprattutto?) del partito. In quel «c'è un chiaro mandato per cambiare», molti leggono in chiaroscuro le prime mosse della nuova segretaria. Azzeramento al Nazareno? Molti sono pronti a scommettere che sarà così. Che le vecchie correnti saranno ridimensionate. «È il cambiamento che ci chiede il nostro popolo», ripetono i suoi. A cominciare dalle due capigruppo, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi. Espressione di un «vecchio Pd», secondo gli uomini più vicini a Schlein. E, oltretutto, schierate entrambe con Bonaccini al congresso.

 (...)

In campagna elettorale, Bonaccini più volte aveva attaccato sul sostegno alla deputata da parte della vecchia guardia dem. Franceschini, Orlando, Provenzano: tanti i protagonisti dell'apparato schierati con lei. «Non ho padrini», ha ripetuto più volte lei, «nessuno si aspetta niente». «Ora vedremo se è davvero così», pungono a tarda sera dall'ala moderata dei dem. Dove nessuno crede davvero che i capibastone che hanno aiutato la paladina di OccupyPd nella missione del "sorpasso" non avranno la tentazione di passare all'incasso.

Altro fronte caldo è il capitolo alleanze. Schlein non ha mai fatto mistero di guardare più in direzione dei Cinquestelle che del Terzo polo: più a sinistra, insomma, che al centro. Ed è con il Movimento di Giuseppe Conte che si accenderà la sfida ai consensi, ora. «Adesso è presto per affrontare questa discussione ribadiscono dal comitato della neosegretaria Ci penseremo quando sarà il momento». Per qualcuno però, il verdetto è già scritto: «Auguriamoci di non consegnarci ai grillini», è la sconsolata speranza di un esponente di lungo corso del "partito" Bonaccini. Tra cui c'è anche chi se la prende con le regole del congresso: «Gli iscritti hanno votato Bonaccini. Siamo l'unico partito che va contro quello che hanno deciso con una schiacciante maggioranza i propri tesserati. Legittimo, ma bisogna prenderne atto».

Estratto dell’articolo di Lorenzo D'Albergo per repubblica.it il 27 febbraio 2023.

L’istantanea, a suo modo, è destinata a restare negli archivi del Pd romano. Elly Schlein, fresca vincitrice delle Primarie del 2023, entra nella sede del comitato elettorale sulla Prenestina. Varcata la soglia dello Spazio Diamante, la neosegretaria si imbatte subito in Michela Di Biase. Le due deputate si abbracciano e si incontrano due mondi: da una parte Schlein in jeans, sneakers bianche e giaccone, dall’altra la collega onorevole in tailleur. La stretta dura pochi istanti.

 Ma segna l’inizio della rivoluzione: se Schlein può fare affidamento su qualcuno a Roma, dove le correnti soffiano sempre fortissimo e i malumori locali fan presto a diventare mal di pancia nazionali, quel qualcuno sarà sicuramente Di Biase. Una che conosce nel minimo dettaglio gli ingranaggi del partito, inclusa la sua immarcescibile tendenza al complotto e alla fronda.

Il curriculum politico della 42enne è lungo. Si parte dal 2006, con la prima candidatura (con elezione) al consiglio del VII Municipio di Roma. Bis nel 2008, stavolta da capogruppo. Percorso simile in Campidoglio, dove è consigliera di maggioranza con Ignazio Marino sindaco e nel 2016 trova la riconferma da capogruppo. Il Pd questa volta, però, è all’opposizione. Governa Virginia Raggi. L’avventura si interrompe nel 2018 con la promozione in Regione, al fianco del governatore ed ex segretario Nicola Zingaretti. A coronare l’ascesa nel 2022 è l’elezione alla Camera.

(…)

 Ora, dicono i dem della sua area, sarebbe lei il “volto nuovo” del Pd romano che verrà. Lo stesso partito che, tra municipio, Campidoglio, Regione e Parlamento, rappresenta ormai da 17 anni. Per Schlein una guida per uscire indenne dalla giungla del potere capitolino. Dove la corrente che fa riferimento al sindaco Roberto Gualtieri, tanto per dire, adesso è chiamata ad assorbire la batosta per la sconfitta di Stefano Bonaccini, candidato del cuore del primo cittadino.

Comunista”, “cyborg del correttismo”, “addio Pd”. Le reazioni della Destra (e dei renziani) alla vittoria di Elly Schlein. L’elezione della nuova segretaria del Pd scatena i terzo polisti, gli ultracattolici, membri della maggioranza e le testate vicino al governo. E non mancano gli insulti sessisti. Simone Alliva su L’Espresso il 27 Febbraio 2023

Elly Schlein si prende la segreteria del Partito Democratico e torna l’incubo del comunismo. I primi a scivolare su commenti al veleno sono gli ex dem passati al Terzo Polo: intonano il de profundis per il Pd, twittano paragoni che dovrebbero suonare come insulti. Da Ivan Scalfarotto a Maria Elena Boschi è una batteria di mortaretti azionata in serata dai social strategist. "A occhio, pare che il PD abbia trovato la sua Jeremy Corbyn" scrive su Twitter il senatore di Iv-Azione Scalfarotto. “Dopo anni di ambiguità, il principale partito di csx assume una chiara fisionomia: la stessa di Ocasio-Cortez, di Corbyn, di Melanchon”, segue a ruota il deputato renziano Luigi Marattin. Carlo Calenda: “Dopo l’elezione di Schlein il campo è ben definito: PD/5S su posizioni populiste radicali”.

Le critiche partite dal Terzo Polo fanno un giro completo e si mescolano a quelli degli intellettuali e dei punti di riferimento della destra di Governo. L’ideologo della destra Francesco Giubilei, presidente della fondazione Tatarella e collaboratore del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano scrive: “Con la vittoria di Elly Schlein alle primarie, il Pd si radicalizza e guarda ad Alexandria Ocasio-Cortez come riferimento: diritti civili, ambientalismo ideologico, immigrazionismo, politicamente corretto, cancel culture e linguaggio inclusivo sono il nuovo programma. Auguri”.

Ma in questo falò di parodie sono i quotidiani di destra a rinvigorire la guerra berlusconiana contro il comunismo, reinventando il pericolo della minaccia rossa. Per il Giornale l’elezione di Schlein è il chiaro segnale di “un’altra rifondazione comunista” la neo-segretaria naturalmente “radical chic” sarebbe riuscita in un “golpe” che tuttavia tiene “Pd chiuso in salotto”. Schlein “cyborg del correttismo”. Su Libero il direttore Alessandro Sallusti interpreta il “ribaltone dem” come un riflesso: “Effetto Meloni nel Pd, forse invidiosi…”.

Mentre Carlo Fidanza, eurodeputato meloniano, commenta la notizia sfoderando un rosario complottismi cari alla destra europea: "Il suo programma è piuttosto radicale: antifascismo militante, ambientalismo ideologico, immigrazionismo, agenda arcobaleno e femminismo, assistenzialismo e odio sociale – spiega Fidanza -. Il tutto con la benedizione del filo-cinese Romano Prodi e del profeta woke George Soros, che già nel 2014 a annoverava tra gli eurodeputati affidabili per la sua Open Society".

La vittoria di Elly Schlein terrorizza anche il mondo del fondamentalismo cattolico. La cosiddetta “agenda arcobaleno”, disturba il gruppo anti-Lgbt Pro-Vita. È passata mezzanotte quando Stefano Bonaccini si congratula con Elly Schlein: “Adesso si apre una nuova stagione per il Pd” scrive su Twitter, poco sotto arriva la risposta del gruppo anti-diritti: “Una nuova stagione, l'ultima”. A seguire il “commento politico” che è un frullatore di paure tra droga libera, guerra e abortismo sfrenato.

Con Elly #Schlein Segretaria/e/i/o/u, il Partito Democratico si assesta definitivamente su posizioni di abortismo sfrenato, ideologia genderfluid radicale, ecologismo anti-umano, droga libera e guerra alla Libertà Educativa delle famiglie. Le impediremo di distruggere l'Italia”. Sulla stessa linea Mario Adinolfi: “Solo un cattolico stordito può votare Pd ora”.

Non mancano naturalmente gli attacchi omotransfobici e sessisti. Mentre sale tra le tendenze il nome di Pippo Franco, per via di alcuni fotomontaggi con il volto del comico al posto di quello di quello della segretaria Pd. È l’avvocato Carlo Taormina a mettere il sigillo allo zoo di vetro dei social: dopo averla descritta come: “appare come l’operaia partigiana romagnola che gira per le montagne col forcone per infilzare gli anticomunisti”, si chiede: “Ma Schlein è trans?”

Ellyday…rivoluzione Pd. E’ già c’è aria di guerra. Edoardo Sirignano su L’Identità il 27 Febbraio 2023.

Elly vince le primarie. La vice riesce a spuntarla contro il suo ex governatore Stefano Bonaccini. La rimonta, come annunciato da oltre un mese su queste colonne, alla fine, è realtà e il viceré di Modena mantiene solo il Sud delle truppe cammellate di De Luca ed Emiliano.

Il vento a favore della parlamentare spira soprattutto a Nord Ovest, così come nei grandi centri, dove non c’è partita ai gazebo. A Rome e Milano l’ex sardina asfalta l’avversario. Il Pd vero, non quello delle tessere, intende dare un colpo agli apparati. Così i venti punti di vantaggio dell’omone in Ray Ban si sciolgono come un gelato e addirittura il simbolo del mondo Lgbt mette la freccia. La parte progressista del partito si prende la rivincita auspicata da anni. Nel comitato romano, allestito per l’occasione, arrivano Zinga, Orlando, De Biase e chi ne ha più ne metta. Dall’altra parte, invece, dopo un giustificato silenzio, c’è l’appello all’unità dal modenese. Il clima, all’apparenza, sembra essere disteso.

La prima segretaria donna della sinistra, però, dopo aver battuto i signori dei circoli, ha già in mente un’altra sfida: superare le destre: “Saremo un problema per Meloni – sono le sue prime parole da successore di Letta”. L’affluenza, al di sopra delle aspettative, è certamente un segnale confortante, ma la partita per Palazzo Chigi è tutta un’altra storia. Per vincere le politiche non basterà qualche consiglio di Bettini o la sempre vincente organizzazione di Boccia. Ecco perché sono in tanti a non farsi prendere dai facili ottimismi. La rivoluzione di Elly non risolve i problemi atavici di un partito, che esce con le ossa rotta dalle ultime politiche. Dai mea culpa bisognerà ricominciare.

Una cosa è certa, la 37enne riporta la speranza al Nazareno, così come un’identità, che fa ben sperare in ottica alleanze. Tra le prime telefonate alla nuova leader ci sarebbe stata proprio quella del leader dei gialli Giuseppe Conte. A sorridere, comunque, c’è pure Matteo Renzi. La creatura centro è soltanto sua e non dei suoi ex amici, usciti sconfitti a partire da Firenze. Questa è la nuova pagina del centrosinistra nazionale. Difficilmente sarà difficile far peggio del docente parigino, la cui gestione, secondo i numeri, batte ogni record negativo. Adesso, comunque, inizierà la prova del nove, quella di fatti. Elly sarà in grado di cambiare il Jurassik Pd, invitando con le azioni le Serracchiani di turno a fare un passo di lato? Più di qualcuno, sostiene che la guerra interna alle mozioni non sia ancora finita. Se per Schlein l’obiettivo si chiama governo, c’è chi, tra i suoi, grida vendetta. La distensione, secondo chi conosce i dem, quindi, durerà solo una nottata. C’è chi è già in fermento per prendersi l’orticello perduto.

Elly Schlein: vero cambiamento nella sinistra italiana o ritocco cosmetico? Salvatore Toscano su L'Indipendente il 27 febbraio 2023.

Si è concluso nella notte lo spoglio di un ballottaggio unico nella storia del Partito democratico. Elena Ethel (detta Elly) Schlein ha conquistato la leadership dem, ribaltando il voto dei “gazebi” e dunque degli iscritti, che pochi giorni fa avevano invece premiato il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Elly Schlein è nata nel 1985 a Lugano, in Svizzera, da una famiglia di estrazione borghese. La madre, l’italiana Maria Paola Viviani Schlein, è stata preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi dell’Insubria. Il padre, lo statunitense di origine ebraica Melvin Schlein, è professore emerito di Scienze politiche e ha un passato da assistant director nella sede bolognese della Johns Hopkins University. Dopo l’istruzione primaria ad Agno e la maturità a Lugano, Schlein si è trasferita a Bologna, dove ha studiato al DAMS prima di approdare definitivamente alla facoltà di giurisprudenza e laurearsi nel 2011.

La sua carriera politica inizia nel 2008, quando vola a Chicago per fare da volontaria nella campagna elettorale di Barack Obama. Nell’aprile del 2013, nei convulsi giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica e dei 101 franchi tiratori che affossano la candidatura di Romano Prodi, Elly Schlein partecipa alla mobilitazione nazionale di protesta OccupyPD contro le larghe intese tra centrosinistra e centrodestra. Nello stesso anno sostiene la candidatura del deputato Pippo Civati alla carica di segretario del partito e nel 2014 viene eletta al Parlamento europeo, interrompendo il sostegno al Pd durante l’era Renzi. Quattro anni dopo fonda la lista civica “Emilia-Romagna Coraggiosa” a sostegno della candidatura di Stefano Bonaccini come presidente della regione. In seguito alla vittoria del centrosinistra, Schlein diventa consigliere e, su nomina dello stesso Bonaccini, vicepresidente della regione nonché assessore al Contrasto alle diseguaglianze e transizione ecologica.

La nuova leader del Pd si definisce “una nerd anni ‘90”, appassionata di videogiochi e film. In campagna elettorale ha dichiarato: «sono una donna, amo un’altra donna e non sono una madre. Ma non per questo sono meno donna», ribaltando il tormentone di Giorgia Meloni. Nell’ascesa verso il Nazareno, Schlein non si è risparmiata nelle stoccate verso l’attuale presidente del Consiglio. Si pensi al commento: «C’è una bella differenza tra il dirsi femminili e femministe, se decidi di non difendere i diritti delle donne, a partire da quelli sul proprio corpo». Quasi un’ossessione, rilanciata anche nel primo discorso da segretaria dem, quando Schlein ha dichiarato che il Pd «sarà un problema per Giorgia Meloni».

La nuova leader del Nazareno pare dunque intenzionata a continuare lungo la strada dell’antifenomeno, che è già costata una débâcle alla sinistra nelle ultime elezioni. Alla base della bocciatura popolare c’è la convinzione che l’accanimento verso il nemico politico sia più compatto dell’appoggio al proprio programma, spesso sfilacciato da correnti e contraddizioni interne. Un tratto tipico dell’ultima era Pd. Si pensi al Rosatellum o al taglio dei parlamentari, misure realizzate con il favore del Nazareno e finite in un secondo momento per essere criticate dagli stessi esponenti dem. Enrico Letta le ha addirittura individuate come cause della sconfitta alle elezioni del 25 settembre. Da ricordare poi i dietrofront sul memorandum con la Libia (firmato dal dem Gentiloni nel 2017) e sul Jobs Act. Misure ampiamente criticate dalla stessa Schlein, che intende realizzare un programma «capace di ricucire le fratture», di seguito riassunto per aree e punti.

Lavoro ed economia

Salario minimo (9,5 euro all’ora).

Limitazione dei contratti a termine, seguendo l’esempio della Spagna.

Stop al Jobs Act.

Sì alla patrimoniale e all’aumento delle tasse sulle successioni.

Settimana lavorativa di 4 giorni.

Sì al reddito di cittadinanza.

Investimenti nella transizione digitale ed ecologica per creare nuovi posti di lavoro (almeno 450mila, secondo Schlein).

Diritti

Sì allo ius soli per ottenere la cittadinanza italiana.

Liberalizzazione delle droghe leggere.

Opposizione al decreto ONG.

Istituzione di un congedo parentale paritario, pienamente retribuito (di almeno 3 mesi) e non trasferibile tra i genitori.

Maggiori fondi alla sanità.

Sì al matrimonio egualitario e alla legge contro omobilesbotransfobia, abilismo e sessismo.

Ambiente

No trivellazioni, no nucleare.

Investimenti nell’energia pulita e rinnovabile, con aiuti alle aziende coinvolte nella transizione.

Nuova legge e fondo sul clima, con la creazione di un piano fiscale “eco-friendly” capace di azzerare progressivamente i sussidi ambientalmente dannosi.

No a discariche e inceneritori.

Scuola e università

Educazione sessuale all’interno delle scuole.

Più tempo pieno e obbligo scolastico a 18 anni.

Contrasto alle classi pollaio e parallelo potenziamento della scuola all’aperto.

Investimenti sui nidi e strutture sociali.

Innalzamento della soglia della no tax area e delle borse di studio universitarie.

Aumento dei posti di specializzazione delle facoltà di medicina.

Politica estera

Sostegno all’Ucraina, con l’UE che dovrebbe farsi portavoce di una soluzione di pace.

No al rinnovo del Memorandum con la Libia ma riforma a livello comunitario della gestione e redistribuzione dei migranti.

Rilancio del progetto federalista europeo.

Riforme

Modifica del sistema elettorale, con particolare riguardo per l’abolizione delle liste bloccate.

Piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione e rilancio del 2×1000.

Paletti”, come la scuola, all’autonomia differenziata presentata da Calderoli.

Un programma che sicuramente colloca Schlein nella corrente più a sinistra del Pd ma che rischia di risultare un mero catalizzatore di applausi negli elettori soprattutto alla luce della sovrastruttura in cui è immerso. All’anti-melonismo, che rischia di disperdere le energie del partito dai suoi rinnovati obiettivi, si aggiunge la striminzita analisi della struttura sociale ed economica del Paese. Invocare misure per abbattere le diseguaglianze del Paese attrae applausi e consensi. Non citare le radici di queste diseguaglianze permette di ottenere l’acquiescenza della struttura economica al potere, che si alimenta mediante l’attuale status quo. Accennare alle tasse sugli extraprofitti in risposta al decreto carburanti del governo Meloni non basta a dar vita allo scontro frontale con il neoliberalismo, ideologia politico-economica ormai tipica della “sinistra” in Italia e capace di ingannare i propri elettori. Nello specifico, gli interventi pubblici indossano vesti “socialiste” ma sotto l’abito nascondono la natura cooperativa nei confronti del mercato, nonostante le disuguaglianze e i fallimenti ivi creati a cui lo Stato dovrebbe rimediare. Nell’idea neoliberista, lo Stato interviene nell’economia per garantire che il sistema concorrenziale resti in piedi, perseguendo il funzionamento redistributivo dal basso verso l’alto. Si pensi che uno dei massimi esponenti del neoliberalismo, Friedrich August von Hayek, è stato il padre dell’idea di reddito di cittadinanza: «serve un reddito minimo di cittadinanza a livello sufficiente affinché i poveri non raggiungano un grado di disperazione tale da rappresentare un pericolo fisico per le classi ricche». 

Sulla fiducia nei confronti del programma presentato da Elly Schlein pesa anche il suo passato recente alla guida dell’Emilia-Romagna. La nuova segretaria del Pd ha infatti chiesto il rispetto di precise condizioni per entrare in maggioranza, come la decarbonizzazione entro il 2050 e l’utilizzo delle rinnovabili al 100% entro il 2035. Misure che, fatta eccezione per poche voci, trovano oggi un consenso generale. Nessuna clausola, invece, nei confronti delle politiche regionali che mortificano le prerogative del pubblico nella pianificazione territoriale o affossano il welfare universale a vantaggio di quello aziendale. [di Salvatore Toscano]

Le ipotesi dei nuovi protagonisti. La squadra di Elly Shlein: da Di Biase alla sardina Santori, i volti della nuova segretaria Pd. Redazione su Il riformista il 27 Febbraio 2023

Dai big ai nuovi volti, come sarà il Pd guidato da Elly Shlein? In campagna elettorale la neosegretaria Pd ha sempre detto di “voler fare squadra”, sottolineando di “non essere una rottamatrice” con la promessa di “cambiare i nomi, più che il nome”. Tutto è ancora da vedere ma il Corriere della Sera delinea già qualche ipotesi di come sarà composta la sua squadra che ci si aspetta ad alto tasso di donne e quarantenni.

Tra le ipotesi, in pole position c’è Michela Di Biase, deputata del Pd, capogruppo in consiglio comunale a Roma ai tempi di Raggi e moglie di Dario Franceschini. Poi c’è Stefano Vaccari, responsabile nazionale organizzazione del partito, legato a Bonaccini da un lungo rapporto. Nell’elenco figurano anche le Sardine, volto noto Mattia Santori. Un ruolo potrebbero averlo anche tre volti legati alla “sinistra della sinistra”. Il primo è Nico Stumpo, tra i pochi eletti di Aricolo Uno, che nella segreteria di Pier Luigi Bersani era responsabile dell’organizzazione del Pd. Poi c’è Arturo Scotto, anche lui parlamentare di Articolo Uno, dopo un passato con Sel e Nichi Vendola. Infine Giuseppe Provenzano, ex ministro per il Sud nel secondo governo Conte, che ha da poco superato i 40 anni.

Viste le premesse e le promesse di Shlein di una “sinistra ecologista e femminista” è lecito aspettarsi che la squadra venga rinfoltita di volti femminili. Il Corriere ipotizza un maggiore coinvolgimento anche di Stefania Bonaldi, ex sindaca di Crema che nella campagna ha coordinato la rete degli amministratori locali. Spuntano anche i nomi di Chiara Gribaudo e Chiara Braga. Tra gli altri anche il portavoce di Schlein Flavio Alivernini e quello della mozione che l’ha sostenuta Marco Furfaro. Che ne sarà dei big come Dario Franceschini, Nicola Zingaretti, Francesco Boccia, Andrea Orlando? Questo è ancora tutto da vedere.

Estratto dell’articolo di Niccolò Carratelli per lastampa.it il 27 febbraio 2023.

Qualcuno rivela di aver incontrato al proprio circolo il regista Nanni Moretti, «anche lui ha votato per Elly e ho detto tutto». L’ottimismo si fa largo, «siamo in vantaggio in 14 regioni», ma i dati ufficiali dalla sede del Nazareno non si vedono. Si moltiplicano, invece, gli arrivi al comitato. […]

Estratto dell’articolo di Giovanna Casadio per repubblica.it il 27 febbraio 2023.

 Bonaccini e Schlein evitino una coabitazione a freddo nel Pd". Achille Occhetto - con basco, sciarpa e fumando la pipa - è in fila al gazebo di piazza Farnese. Attende paziente di votare alle primarie. Il leader, che con la svolta della Bolognina ha archiviato il Pci, cambiando la storia della sinistra, confida: "Io voto Schlein e credo che il successo di partecipazione si debba soprattutto all'aria fresca che lei ha portato".

[…] "Io ho visto la freschezza dei partecipanti, il segno di un allargamento. E questo lo si deve a Schlein, perché ha avuto il merito di avere rinfrescato, aperto le porte, fatto entrare aria nuova. Entrambi gli sfidati poi sono persone capaci e meritevoli di fiducia".

 […] Chi vota?

"Voto Schlein. Su di lei ho un giudizio positivo, ma da tempo, quando le primarie per la segreteria dem erano lontane. Feci un dibattito a Bologna con lei, Prodi e Bersani che muoveva dall'intreccio tra questione ambientale e sociale, centrale nel mio ultimo libro. Scoprii grande sintonia. Elly ha avvicinato il partito ai giovani, incarna il ricambio generazionale e di genere".

 Il Pd è a un bivio: o cambia o muore? Ci sono similitudini con la "sua" svolta della Bolognina?

È a un bivio, sì. L'interpretazione giornalistica, piuttosto rudimentale, parla di una area più politicista e di continuità (Bonaccini) e di un'altra più movimentista e che si rivolge più a sinistra (Schlein). Ma il problema è di evitare il cristallizzarsi di due unilateralità. Per quanto riguarda la Bolognina, anche il Pd deve buttare il cuore oltre l'ostacolo, ma sono situazioni profondamente diverse".

 Quindi quale consiglio dà al/alla neo leader?

"Che non si può creare una coabitazione a freddo, ma occorre al nuovo Pd una fusione tra pragmatismo e utopia del possibile dentro cui collocare i passi, anche piccoli, di un riformismo che sia però guidato da una visione. Come dice Gianni Cuperlo c'è un limite delle primarie".

 […]  Battere la destra di Meloni si può?

"Non so in quanto tempo, ma si può e si deve, però trovando la propria identità ideale e politica. È finito il tempo di chiedere a un partito per definirsi se si allea con Calenda o con Conte".

Dagospia il 27 febbraio 2023. Da “Radio Cusano Campus”

Il filosofo Massimo Cacciari è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta da Gianluca Fabi e Roberta Feliziani su Radio Cusano Campus.

 Sulla vittoria della Schlein alle primarie del Pd. “Le incognite sono enormi -ha affermato Cacciari-. Sono rimasto molto sorpreso da questa affermazione che indica una volontà, poi vedremo da parte di chi, di un cambiamento netto rispetto al gruppo dirigente che ha retto il Pd finora. E’ certamente positivo che una persona giovane si affermi. E’ evidente che sul risultato abbia avuto l’affermazione precedente della Meloni.

Il Pd non poteva a questo punto, dopo la novità straordinaria della Meloni, continuare con il funzionario, perché tale è Bonaccini. Poi c’è da vedere bene l’articolazione del voto. Non c’è dubbio alcuno che il voto indica l’affermazione della Schlein soprattutto in alcuni ambiti della popolazione, non sono certo stati gli operai a votare la Schlein, i voti li ha presi nelle grandi città.

 Oltre al fatto che bisogna dire che dal punto di vista del voto non c’è novità, perché sono andati a votare esattamente quelli che di solito vanno a votare il Pd. Si tratta di un partito che ha un minimo di radicamento sociale che non è propriamente un’area di sinistra. Ultima questione, bisognerà vedere se la Schlein riuscirà a dirigere questo partito, sarà molto complicato, perché al di là delle dichiarazioni scontate di Bonaccini si tratta di ricucire una spaccatura netta all’interno del Pd, anche nel suo gruppo dirigente.

La cosa paradossale è che sia diventata segretaria una persona che si è iscritta al partito qualche mese fa, Renzi era qualcosa di analogo, ma non così clamoroso. La Meloni fa politica attiva da una vita ed era leader del suo partito da anni. La Schlein come dirigente di partito ha fatto questa battaglia e basta, deve dimostrare ancora tutto”.

 Cacciari non ha votato alle primarie. “Io non ho votato.

 Al di là della donna giovane e il maschio vecchio, non ho capito di cosa l’una e l’altro volessero fare. Semplicemente non c’era programma politico, erano pure chiacchiere”.

Occhetto ha plaudito alla vittoria della Schlein. “Occhetto ha un dente avvelenato tale nei confronti della dirigenza del Pd che avrebbe applaudito chiunque avesse fatto fuori gli oligarchi”.

 Sui migranti. “La Schlein dirà che bisogna essere buoni, accoglienti e antifascisti. Questo va bene, ma poi?”.

Il Pd “Indietro tutta” di Schlein: si torna a canne libere e lotta di classe. Christian Campigli su Il Tempo il 28 febbraio 2023

Un passato da studiare, da prendere ad esempio e da reinventare in un presente difficile. Per sognare un futuro di trionfi. Elly Schlein, il neo segretario del Partito Democratico, sembra avere le idee chiare su quali siano le ricette giuste per riportare i dem oltre il venticinque per cento. Alla base del programma della trentasettenne c'è un evidente spostamento dell'asse politico verso sinistra. Basta col partito salottiero, radical chic, votato dai professori universitari con la giacca di velluto a costine e dai ricchi residenti della Ztl. Il nuovo Pd vuol tornare alle origini, vuol parlare nuovamente agli operai, a chi risiede (e da molti anni vota Lega e Fratelli d'Italia) nelle case popolari poste in modesti rioni periferici, a chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Per assolvere a questo ambizioso progetto, Elly Shlein ha chiarito sin da subito che servono alleanze strutturali. Che però mantengano la barra nella rive gauche. Tradotto: chiusura totale al Terzo Polo di Renzi e Calenda, ricerca di un dialogo costruttivo con Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, ma, soprattutto, con Giuseppe Conte.

La nativa di Lugano ha in mente uno schema bipolare secco: centrodestra da un lato, sinistra dall'altro, nel mezzo un centro isolato (almeno secondo la valutazione del neo segretario dem). «Senza la base, scordatevi le altezze». Una massima che sottintende la necessità immediata di tornare tra la propria gente, nei territori. E di farlo destinando ai circoli almeno il trenta per cento del due per mille del partito. Per quanto riguarda le «regole del gioco», Elly Shlein vuole tornare ad una legge elettorale che preveda le preferenze. Basta a candidati decisi nelle segrete stanze dei partiti. Grande spazio al tema ambientale: no assoluto e deciso al nucleare (bollato come costoso e pericoloso), risorse pubbliche da aumentare sensibilmente sulle energie rinnovabili. Grande attenzione anche all'aspetto più strettamente culturale: deve passare il messaggio che il risparmio energetico non è un vezzo, ma un'assoluta necessità. Il nuovo Pd presenterà una legge nazionale sul consumo zero di suolo; non va poi dimenticato l’impegno sulla decarbonizzazione. Ma che Partito Democratico sarebbe senza una nuova gabella da imporre agli Italiani? L'idea è quella di varare una sorta di piano fiscale eco-friendly, per azzerare i sussidi ambientalmente dannosi e legare le imposte indirette alle emissioni di Co2. In poche parole, pagherebbe meno chi inquina meno. E, al contrario, vi sarebbero maggiori oneri contributivi per chi sporca maggiormente aria e terra.

Il lavoro torna al centro della politica di sinistra. Superamento del Jobs Act renziano, considerato «una frattura con il mondo del lavoro e con i lavoratori», sarà necessario limitare al massimo i contratti a termine, rendendo più conveniente il lavoro stabile, abolendo le forme più precarie come gli stage gratuiti. Verrà presentata anche una legge sul salario minimo e non verrà toccato il reddito di cittadinanza. Sul tema immigrazione, Elly Schlein vorrebbe una riforma del trattato di Dublino, che imponga il principio di solidarietà. «Non si fa politica sulla pelle dei migranti tenendoli bloccati in mare o nei porti. Servono meccanismi di redistribuzione». Infine l'ampio tema dei diritti civili. «Dobbiamo batterci per una legge contro l’omobilesbotransfobia, l’abilismo e il sessismo. Vogliamo che il matrimonio sia un istituto aperto a tutte e tutti, con il pieno riconoscimento dei diritti delle famiglie omogenitoriali e la fine della discriminazione subita dalle loro figlie e figli». Di fondamentale importanza, almeno per il nuovo Pd, lo Ius soli, «perché la cittadinanza non sia riconosciuta per sangue». Infine, la cannabis che, nelle intenzioni del neo segretario, andrà legalizzata.

Rizzo a valanga su Schlein: “Rappresenta il mainstream del totalitarismo globalista e liberista”. Il Tempo il 27 febbraio 2023

La nomina di Elly Schlein a segretaria del Partito Democratico non convince per nulla Marco Rizzo. L’ex segretario del Partito Comunista è stato intervistato da Affari Italiani, sparando a zero sulla vincitrice delle primarie dem: “Si potrebbe dire che il manifesto del Festival di Sanremo sia in sintesi la proposta politica di Schlein. Lei rappresenta perfettamente il mainstream del totalitarismo globalista e liberista costruito in questi anni. Un'agenda che in primo luogo per le nuove generazioni si muove a tambur battente, dal mangiare insetti al gender, dal politicamente corretto alla guerra e all'invio di armi, dal totale disiniteresse per i diritti sociali all'esaltazione per quelli civili”.

Adesso - continua ancora Rizzo - arriva il personaggio che può declinare gli ordini e i comandi della globalizzazione capitalista, Schlein è perfetta e ha tutte le caratteristiche politiche e pseudo-culturali per incarnare il personaggio che, dopo che verrà scalzata Giorgia Meloni, nonostante il suo inginocchiarsi al potere atlantico ed europeo, potrà essere la nuova direzione di un'Italia priva di sovranità popolare e di qualunque indipendenza e autonomia”.

Estratto dell’articolo di Stefano Baldolini per repubblica.it il 3 marzo 2023.

Come da tradizione, non mancano le polemiche tra comunisti italiani sulla nuova segretaria Pd, Elly Schlein. Marco Rizzo, presidente onorario del Pc, la considera uno 'spartiacque'. "Incarna al meglio la nuova sinistra fucsia e radical-chic, - fa sapere sui suoi social Rizzo - nemica della classe media lavoratrice, nemica della classe operaia, nemica delle famiglie. La sua agenda è quella di Sanremo: gender fluid, filo UE NATO e guerra, trans-femminista e gretina, contro le auto e le prime case. Un ottimo 'prodottò delle élites liberiste e mondialiste. Risulterà anche un ottimo spartiacque, chi sta con lei, come il rifondarolo Acerbo, sta contro di Noi".

Di segno opposto è in effetti la posizione di Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, che invece auspica che la vittoria di Schlein "rappresenti una vera rottura rispetto al solito Pd neoliberista e guerrafondaio che abbiamo conosciuto dal 2008 a oggi, da Veltroni a Renzi e Letta, dal governo Monti a quello Draghi". A chi sulla sue pagine social gli fa notare cosa ne pensi, Acerbo risponde: "Non considero Rizzo comunista e tanto meno di sinistra". Anzi, confida a Repubblica, ci tiene a far sapere che "Rizzo è un fascista". 

Se i leader delle forze politiche che hanno raccolto l'eredità del Pci litigano, va comunque segnalato che nella cosiddetta sinistra radicale la nuova inquilina del Nazareno è stata accolta con più uniforme curiosità. Certo, c'è attesa per i provvedimenti e soprattutto per le decisioni che Schlein vorrà prendere sul conflitto russo-ucraino, tema com'è noto, assai sensibile nell'area che non si riconosce nei dem.

 (…)

Fluida, green, ultra femminista. La guru della "gauche al ragù". Luigi Mascheroni il 10 Ottobre 2022 su Il Giornale. Svizzera, americana e italiana, super progressista e trans-chic. La politica bolognese predestinata a guidare il (nuovo?) Pd

Elly Schlein è la risposta a una domanda che nessuno ha fatto. E per di più è sbagliata.

E nemmeno l'argomento in realtà interessa molto. Tema: come sarà la nuova sinistra?

Di sinistra ma non piddina (pro memoria: chiarire se è iscritta o no al Partito democratico), ultra gender oriented, così femminista da essere trans-femminista, così ambientalista da essere ecosocialista, e talmente a vocazione internazionale da percepire Bologna un città che si attraversa a piedi come una metropoli cosmopolita, Elly Schlein è il più perfetto prodotto da laboratorio liberal-radical-progressista e euro-atlantico: gauche al ragù e sociostile bourgeois-bohème.

È cittadina americana, svizzera e italiana, figlia di luminari, un passaggio dal Dams così, per sfizio - volontaria nelle due campagne elettorali di Barak Obama, bisessuale, amazzone delle battaglie Lgbtq, una giovinezza trascorsa nella confort zone fra la Ztl e il ddlZan, famiglia dell'establishment ed ebrea aschenazita ma rigorosamente anti Israele - outfit da centro sociale senza mai averci messo piede, e frequentazioni che non si possono definire di ambito proletario. Perfetta per candidarsi a prossimo segretario del Partito democratico.

Elly Schlein è il nuovo volto di quella sinistra di lobby e di potere che ha trasformato la battaglia delle idee in pura ideologia e ha scambiato i diritti sociali con quelli civili, inseguendo i secondi e dimenticandosi i primi.

E comunque, chi ha detto che sembra uscita da un film di Guadagnino è un genio.

Elly Schlein, super star della New left alle tagliatelle, è una di quelle persone di cui non condivi le opinioni, ma i privilegi sì.

Privilegiata, mojito e arcobaleno, cannabis light e eutanasia, slogan e retorica («Possiamo unire le lotte per la giustizia sociale e ambientale, nel segno dell'intersezionalità, attorno a una visione condivisa: ecologista, progressista e femminista insieme», «Giusto! Sono d'accordo con il compagno busone»), la Schlein è l'upgrade bolognese di Alexandria Ocasio-Cortez, nuove chierichette del pensiero egemone che piacciono a tutti coloro per i quali i partiti democratici non sono mai abbastanza di sinistra. Forza Elly, che portiamo il Pd al 4%!

Elly ti presento Schlein.

Ma chi è Elena Elly Ethel Schlein? La risposta più stupida ma non del tutto sbagliata sarebbe: la Serracchiani più le Sardine. In realtà, la storia anzi un'epopea è più complessa. Comincia in Ucraina e finisce a Bologna, passando per New York, la Resistenza e la Svizzera: persino l'Europa non è abbastanza. Vorremmo essere lei. E ha solo 37 anni...

Elly Schlein nasce a Lugano nel 1985. Il padre è americano, discendente da ebrei originari di Leopoli poi emigrati negli Stati Uniti, professore di Scienze politiche alla Franklin University Switzerland di Lugano. La madre, già preside della facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi dell'Insubria, è nipote di Agostino Viviani, celebre antifascista, senese, senatore del Partito Socialista Italiano. Solo il pedigree vale un 15%. Wow! (anche se lei preferisce dire «Woke»).

Epifanie. All'età di cinque anni Elly suona il pianoforte. Adora anche la chitarra elettrica. Giovanissima è appassionata di cinema, poi aspirante regista e lavora per Cinecittà Luce. Si diploma a Lugano e poi si laurea in Giurisprudenza a Bologna (con due tesi: sui migranti in carcere e sui diritti dello straniero, già allora per fare dispetto a Salvini). Poi è una delle Lemnie dem che lanciano la campagna di mobilitazione #OccupyPd. Aderisce alla linea civatiana (come ha detto qualcuno la Schlein sarebbe tipo Pippo Civati, ma senza l'irresistibile femminilità di Pippo Civati). Nel 2014 è eletta parlamentare europea nel Pd - da cui si dimette perché non sopporta, ricambiata, Matteo Renzi) e nel 2020 diventa vicegovernatore dell'Emilia-Romagna con un numero impressionante di voti. «Yes, we can». Che se sei un nerd si dice «Ma sì, ci sta».

Elly, non si può negare, è bravissima. Ma ancora più brava è l'agenzia di comunicazione politica americana che l'ha presa sotto la sua ala: la Social Changes, famosa per aver curato le campagne digitali di molti candidati dem negli Stati Uniti, a partire da Barak Obama, e che è sbarcata da tempo in Italia con l'obiettivo di «costruire una sinistra transnazionale in grado di battere la destra». E così i new liberal credo obamiano e Open Society Foundations - si prenderanno il Pd italiano. Per trasformarlo in un partito radicale di massa: diritti individualistici più turbocapitalismo occidentale. Perché se il gay pride è sponsorizzato da Amazon e Netflix qualcosa vorrà pur dire.

«Società aperta», immigrazionismo, cancel culture, posizione sulla Russia molto tiepida e sessualità fluida. Il meraviglioso mondo di Elly.

Non si è ancora capito se Elly Schlein sia l'anti Meloni o la nostra aspirante Sanna Marin. Il Guardian la vede come la rifondatrice della sinistra, come ai tempi di Jeremy Corbyn (e non andò benissimo). Per Renzi invece se lei diventasse segretaria del Pd mezzo partito si iscriverebbe a Italia viva. «E sono stato prudente».

Imprudente, furba, incisiva, ricca, determinata (come dice chi la conosce bene «è una per la quale l'amicizia conta fino a un certo punto: lei è proiettata sul potere»), esibita sensibilità ambientalista, parlantina spinta (con un pizzico di fuffa), autostima fortissima e ars oratoria deboluccia gli slogan sono un po' da studentessa appena tornata da una manifestazione di Lotta continua anni '70 e svolgimenti da temino di liceo (i grandi problemi dell'umanità, la disuguaglianza, l'inquinamento, il superamento del patriarcato, la fame nel mondo, i monopattini, «Chi non canta Bella ciao è incivile»), Elly Schlein è solo un po' meno idealista di Alessia Piperno, più ideologica di Fratoianni, meno cinica della Cirinnà, empatica come Carola Rackete e amabile quanto Fiano.

Dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei. Personaggi che sostengono la causa Schlein: Fabrizio Barca, Alessandro Zan, Gassmann, Sandro Veronesi, il regista Gabriele Muccino, la Boldrini, la Murgia, l'amichettista Concita De Gregorio «Elly è la soluzione perfetta!» Daria Bignardi, la Michielin, Rula Jebreal e la Ferragni. Gnè, gnè, gnè.

Comunque, la copertina fluid che le dedicò l'Espresso... beh, diciamo che non è stata tra le più riuscite del settimanale.

Cose belle per Elly: i talk show, la decrescita felice, i videogiochi (Monkey Island), il cinema di Guadagnino (stiamo scherzando, dài), la sinistra bancaria, la frase «Ci siamo ricongiunti con il fuori» («Ma che cazzo vuol dire?», «Boh»), gli asterischi, la scevà, le donne (ma anche gli uomini).

Cose non così belle per Elly: le larghe intese, Matteo Renzi, il Jobs act, i franchi tiratori che impallinarono Prodi, e forse anche Prodi, il ticket con Bonaccini, Bonaccini, la Tav, i binari (è una battuta...), il nucleare, i parrucchieri, gli uomini (ma anche le donne).

Domanda: ma era davvero così importante parlare della propria bisessualità?

«Sono un donna, sono una lesbica, non sono una madre». Ma chi se ne frega? E comunque bisogna andare oltre il genere. Dobbiamo essere inclusivi! Via quei pronomi maschili e femminili. Egli, ella, esso, essa, Elly...

Per il resto, ci sono persone che una volta famose diventano insopportabili. E persone che sono già insopportabili prima ancora di diventare famose.

E non è questione di maschile o femminile.

La cyborg dei radical chic. Alla fine ribaltando ogni pronostico ha vinto lei: Elly Schlein, radicale e radical chic. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 27 Febbraio 2023.

Alla fine ribaltando ogni pronostico ha vinto lei: Elly Schlein, radicale e radical chic. Fluida, internazionale - è cittadina italiana, americana e svizzera - ultrafemminista, talebana dell'ecologismo, anti capitalista, pacifista e soprattutto ossessionata dall'antifascismo in assenza di fascismo. Non a caso quando ha annunciato la sua candidatura lo ha fatto sulle note di Bella ciao. Insomma, facce nuove per idee vecchie. Praticamente una rifondazione comunista, aiutata anche delle truppe cammellate grilline che pare si siano recate in massa ai gazebo per «contizzare» le primarie, lanciando di fatto un'opa sul Pd.

La Schlein, figlia di docenti universitari, nipote di un senatore e sorella di una diplomatica, piace alla gente che piace. Non a caso aveva già vinto nei circoli di Milano, città-incubatrice per i nuovi effimeri idoli della sinistra champagne & caviale. E questa vittoria cambia anche geograficamente il Pd. Con la sconfitta di Bonaccini l'ombelico del mondo dem si sposta dalla storica Emilia Romagna e dalle province e si rintana nelle ztl. Trasloco che era già avvenuto dal punto di vista elettorale, ma che non aveva ancora trovato una sua rappresentazione nella leadership che, quasi per pudore, dissimulava questo spirito molto urbano e poco popolare. La nuova segretaria invece è il triplo concentrato di questa sinistra salottiera, ne incarna i tic intellettuali, le manie e il sesquipedale complesso di superiorità culturale e antropologica. Da questo punto di vista Elly è perfetta: sembra sfornata da un algoritmo iper politicamente corretto di una di quelle piattaforme che producono film e serie tv cucinate con il manuale Cencelli del buonismo. Ha esattamente tutto quello che dovrebbe avere, è un cyborg del radicalchicchismo.

Perfetta per chi?, verrebbe da chiedersi. E verrebbe anche da rispondersi: per la destra. Il Pd, cercando al suo interno una Meloni in salsa gauche (senza il precedente di Fdi una donna avrebbe scalato così velocemente i vertici dei dem?) alla fine è riuscito a fare un regalo alla premier stessa. Il nuovo partito schleiniano sarà necessariamente più estremo, più divisivo, più arroccato sulle proprie posizioni e dunque molto più di sinistra. Non sappiamo se sia un bene per il Nazareno, ma abbiamo il sospetto che sia un'assicurazione sulla vita per la maggioranza di centrodestra.

Il bianco e il nero. "Schlein è la novità". "No è la 'sinistra woke' delle Ztl". L'onda Elly Schlein si abbatte sul Pd. Ecco l'opinione dei politologi Piero Ignazi e Luigi Di Gregorio. Francesco Curridori su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

L'onda Elly Schlein si abbatte sul Pd. Per la rubrica Il bianco e il nero ne abbiamo parlato con Piero Ignazi, docente di scienze politiche e sociali all'Università di Bologna, e Luigi Di Gregorio, docente di Scienza Politica presso l'Università della Tuscia di Viterbo.

Come e perché Elly Schlein è riuscita a vincere?

Di Gregorio: “Sintetizzerei così: perché è la novità, perché è donna e perché esprime un profilo del partito più chiaro rispetto a Bonaccini. Tre cose che funzionano, sommandosi l’una con l’altra. La voglia di novità è sempre presente negli elettori, specie in quelli delusi e disorientati. L’idea di avere finalmente anche un segretario donna e giovane aiuta. E un profilo del partito netto serve a dare un segno distintivo e identitario all’offerta politica. E dunque è più probabile che più elettori vi si riconoscano, rispetto a un’offerta meno marcata. Aiuta in termini di notorietà, riconoscibilità e identità”.

Ignazi: “Ha vinto perché, per molti, ha rappresentato un rinnovamento profondo e un’impronta più radicale su tanti temi”.

Come sarà il nuovo pd e dove lo porterà la Schlein?

Di Gregorio: “Questo lo vedremo. Personalmente ritengo che quella stessa piattaforma valoriale e programmatica che l’ha fatta vincere ieri possa essere un bel problema per il Pd. La sinistra liberal e global di cui parla Luca Ricolfi nel suo ultimo libro (“La mutazione”) è in difficoltà un po’ ovunque in Occidente ed è perfettamente in linea con le priorità di Elly Schlein: una sinistra woke, ossessionata dal politicamente corretto, che punta tutto sui diritti civili e ha perso per strada i diritti sociali. Non a caso, un po’ ovunque, è in grado di vincere solo nei centri delle grandi città, da cui la formula del partito ZTL. Se Schlein vuole provare a riconquistare i voti delle periferie e delle province deve, a mio avviso, ibridare non poco questo tipo di offerta”.

Ignazi: “Il Pd, dopo questa lunga fase congressuale, sarà un partito rivitalizzato e farà un’opposizione molto pugnace. Si caratterizzerà come il partito cardine a quello opposto al governo”.

È la vittoria del nuovo oppure della "ditta", dato che la Schlein era sostenuta da gran parte dell'apparato del PD?

Di Gregorio: “È la vittoria del nuovo perché lei non era neanche iscritta al partito prima delle primarie e perché il voto dei non iscritti ha di fatto ribaltato quello degli iscritti. Ma è anche la vittoria di quella porzione di apparato che ha 'fiutato il vento' e che ha ancora una specie di conto aperto con Renzi e l’era renziana. Esattamente il momento in cui Elly Schlein abbandonò il Pd”.

Ignazi: “Credo che 1,3 milioni di elettori abbiano votato soprattutto per come lei si presenta e non pensando alle alchimie delle correnti che interessano pochissime persone. Il grande pubblico, quello che si presenta in queste occasioni, guarda ad altri aspetti. Guarda alla proposta di una giovane che non era poi così alternativa e distante da Bonaccini però la Schlein è sembrata più dinamica”.

Il fatto che una donna come la Meloni sia a Palazzo Chigi ha favorito la vittoria della Schlein?

Di Gregorio: “In qualche modo si. Finché Meloni era segretaria di un partito minore, evidentemente la sua 'anomalia virtuosa' non è riuscita a generare un effetto domino. Oggi che è Presidente del consiglio e guida il primo partito italiano verosimilmente è riuscita a dare una bella spallata al cosiddetto 'soffitto di cristallo'”.

Ignazi: “Difficile da sostenere. Può essere una componente, ma il problema del ruolo delle donne in politica è di lungo periodo. Non l’abbiamo scoperto, di certo, con la Meloni”.

Lei prevede una scissione nel PD?

De Gregorio: “Se diamo un peso al concession speech di Bonaccini, nel momento in cui riconosce la vittoria di Schlein, non dovrebbe esserci alcuna scissione. Però quest’ultima non dipende tanto da chi ha perso quanto da chi ha vinto. Il Pd è ancora un partito simil-novecentesco, in cui contano le correnti, i gruppi di potere, i territori e molto meno il leader (eccezion fatta per la parentesi renziana). Queste caratteristiche lo rendono più solido di altri partiti in termini elettorali – ha uno zoccolo duro maggiore e più resistente proprio perché non oscilla in base alla popolarità del leader – ma anche più ancorato a certe percentuali – i leader popolari sono spesso la prima ragione per cui si sceglie un partito. Dunque, se ci sarà una scissione o meno, dipenderà dal tipo di gestione del partito da parte della nuova segreteria e da quanto Schlein potrà essere o meno un valore aggiunto in termini di consenso”.

Ignazi: “Penso di no perché Bonaccini si è sempre dimostrata una persona leale. Ci sarà l’uscita di qualche persona che evidentemente riteneva che il Pd dovesse rimanere un partito moderato”.

Pd okkupato: dem da centro sociale. Dieci anni fa la Schlein sognava di occupare il Pd. Ieri l'ha occupato. E al Nazareno già tira aria da centro sociale. Una sorta di rivoluzione tipo i meet up di grillina memoria, ma molto più radical chic. Andrea Indini su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Dieci anni fa Elly Schlein sognava di occupare il Pd. Ieri l'ha occupato. E al Nazareno già tira aria da centro sociale. Nella mozione congressuale a supporto della sua candidatura alla guida del Partito democratico c'è infatti una parola che più di tutte ricorda quelle okkupazioni da pugno chiuso. Una parola che più di tutte fa gelare il sangue. Più dei vaneggiamenti contro il patriarcato, più dello ius soli, più dei deliri green. Quella parola è: redistribuzione. Perché, ogni volta che la sinistra ce l'ha imposta, ha sempre introdotto nuove tasse.

Mattia Santori, uno che la Schlein la conosce molto bene, lo ha detto non appena le è riuscito il colpaccio. "Sarà un partito senza più mezze misure - ha spiegato in una intervista alla Stampa - un partito più radicale nelle sue scelte". Detto da uno che il Nazareno lo ha già occupato con tanto di sacco a pelo possiamo star certi che le premesse sono tutt'altro che buone. Ma non dobbiamo sta lì a fantasticare più di tanto. È tutto nella mozione congressuale. Una sorta di Pd grillinizzato che volta le spalle all'ala più moderata e riformista e spiega le vele a sinistra. Ve la ricordate quando Elly decise di sfidare Stefano Bonaccini? La candidatura annunciata in pompa magna in un circolino cult di Roma: niente palcoscenico, lei seduta in cerchio con i kompagni, Bella ciao intonata a gran voce e quei pugni chiusi alzati al cielo. Un quadretto che nemmeno negli anni Sessanta ce lo saremmo potuti immaginare.

Dieci anni fa la Schlein sognava di occupare il Pd. Ora che lo ha occupato, probabilmente sogna già di occupare pure Palazzo Chigi. E, nella malaugurata ipotesi in cui anche questo sogno diventi realtà, sappiamo già cosa ci attende. Il libro dei sogni dell'ex sardina per l'Italia rispecchia quel folklore anni Sessanta ancora legato a Bella ciao e pugni chiusi. Folklore da centro sociale, appunto. Una sorta di meet up di grillina memoria, ma molto più radical chic. Dove la spinta sociale (a parte quando parla di redistribuzione, auspica nuove tasse e difende il reddito di cittadinanza) lascia il passo alla lotta per i diritti civili: maggior coraggio sui diritti Lgbtqia+ (leggi: un altro ddl Zan), nuove cittadinanze (leggi: ius soli) e pure una nuova visione sulle politiche migratorie (leggi: porti sempre aperti e niente respingimenti). E poi la legalizzazione della cannabis, di cui il sodale Santori non solo è consumatore da quando ha 18 anni ma anche produttore. Sembra quasi di scorrere la pagina Instagram di Fedez o, ancor peggio, ascoltare certi monologhi da Festival di Sanremo.

Dalla patrimoniale alla carbon tax. La passione di Elly per tasse e utopie. Oltre i proclami continui su precarietà e lavoro ci sono vecchi sogni pentastellati e statalisti. Proposta "horror" sulla casa: la requisizione. "Recuperare parte del patrimonio privato sfitto". Gian Maria De Francesco su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

«Il Pd riparta dal lavoro». Quante volte si è sentita questa esortazione durante le pensose analisi delle ripetute sconfitte del principale partito di centrosinistra. Elly Schlein ha preso l'invito in parola cosicché «lavoro» e i termini derivati ricorrono 109 volte nella sua interminabile mozione congressuale. Seguono «diritto/diritti» (59), «persone» (55) e «dobbiamo» (54), segno evidente che l'attenzione al lavoro e ai diritti delle persone sono fatti incontrovertibili per il suo Pd e, dunque, non c'è null'altro da fare che adeguare la realtà alle idee della segretaria. La prescrittività del «dobbiamo» è inequivocabile.

Quando la sinistra utilizza questi termini c'è poco da stare tranquilli. E Schlein non fa nulla per rassicurare i diffidenti. Il suo programma economico sembra una riproposizione delle utopie pentastellate anziché un aggiornamento dei velleitarismi della sinistra radicale. Basti pensare alla dottrina fiscale di Elly. «La strada da seguire è spostare il carico fiscale dal lavoro e dall'impresa alle rendite e alle emissioni climalteranti», si legge nel pletorico testo. In pratica, la Schleinomics perseguirà gli obiettivi sfuggiti in precedenza agli inquilini del Nazareno: imposta patrimoniale e carbon tax per le imprese che emettono CO2. Insomma, il modo migliore per far fuggire ricchezze e imprenditori dal Paese. Volendo essere impertinenti, si potrebbe dire che questa parte gliel'abbia scritta l'ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco che non a caso è di recente tornato in libreria con il suo vecchio pallino La guerra delle tasse. Perché per questa sinistra il gettito non è mai abbastanza.

«Superare la balcanizzazione dell'Irpef e la proliferazione di regimi speciali di favore. Difendere i principi di equità». I mantra di Elly sono quelli del ministro che i detrattori motteggiavano con il nomignolo Dracula. «Far pagare le tasse a chi evade con la tracciabilità dei pagamenti, l'utilizzo delle banche dati e il rafforzamento delle agenzie fiscali», ovvero niente di nuovo rispetto a quanto visto con Prodi, D'Alema e compagnia bella. Il Grande Fratello del fisco, in fondo, è il vero trait d'union fra i piddini e i giacobini guidati da Giuseppe Conte, forze entrambe convinte che la ricchezza sia legata indissolubilmente alla commissione di qualche misfatto. Tant'è vero che il primo passo sarà affrontare il tema dei grandi patrimoni «in un'ottica redistributiva» a partire dalla tassa sulle successioni e donazioni.

Il lavoro e i diritti per questo nuovo-vecchio Pd si difendono solo a colpi di stangate fiscali. Elly Schlein è nell'ordine contraria alla flessibilità dei contratti (quindi al Jobs Act) e vuole solo posti a tempo indeterminato con l'applicazione del salario minimo e della settimana di 4 giorni. Elly Schlein vuole più investimenti pubblici per la scuola (aumento stipendi dei docenti), per le pensioni (stop Fornero), per il reddito di cittadinanza (che non va cancellato ma riformato) e per la sanità. Tutto a carico dello Stato, ovviamente.

Elly Schlein non spiega quanto costerà ingigantire quello Stato onnipervasivo che Reagan e Thatcher volevano affamare, ma ci dà un'idea su chi dovrà pagare per la sua intransigenza eco-redistributiva e palingenetica. I privati cittadini. La patrimoniale? Sì. Un mondo a zero emissioni costi quel che costi? Sì. Infine, una chicca per gli appassionati dell'horror di sinistra la sua personale proposta per la crisi abitativa. «Recuperare al mercato degli affitti una parte del patrimonio privato sfitto per aumentare la disponibilità di alloggi a canone calmierato». Perché la proprietà privata va rasa al suolo: o con le tasse o con le requisizioni. Stalin docet.

Le armi all'Ucraina poi Israele e Cina. Tutte le ambiguità in politica estera. Incertezza per la linea Schlein sugli aiuti a Kiev. Finora non ha votato contro ma si dice pacifista. Dubbi di Bindi e Gori sull'ancoraggio alla Nato. Timori nel mondo ebraico per precedenti e gaffe. Alberto Giannoni su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Ambiguità, per ora è questa la cifra della politica estera di Elly Schlein, neo segretaria del Pd, da Kiev al Medio oriente. E un'ombra d'inquietudine attraversa i sostenitori della causa ucraina, come le comunità ebraiche, comprensibilmente attente alle posizioni dei partiti su Israele.

Dove andrà a parare la sinistra italiana? Sull'immigrazione, Schlein ha una linea molto chiara: accoglienza senza limiti. Su tutto il resto invece prevalgono omissioni e confusione. Così, se prima era difficile delineare una politica estera targata Pd, adesso pare impossibile. Un'era è finita. Prima ancora che nascesse il Pd, gli ex pci hanno fatto di tutto per superare (o mascherare) il loro tradizionale anti-americanismo (e antisionismo), riuscendoci anche grazie a leader di estrazione dc come Romano Prodi e Matteo Renzi. Enrico Letta non è stato da meno. Fedele alla Nato, il suo ultimo atto da segretario è stato la visita all'ambasciata ucraina: «È questa l'eredità che lascio al Pd».

Questa fase è chiusa e quella che si aprirà non è affatto chiara. Per questo i timori degli ucraini potrebbero essere condivisi anche a Washington. E le frecciatine dell'ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini non passano inosservate. Tutti hanno notato che, nel suo primo discorso da segretaria, Schlein non ha citato l'Ucraina. L'ha notato anche Rosi Bindi. «Non mi piace il silenzio sulla guerra in Ucrania - ha detto ieri la ex ministra cattolica - sarò molto attenta su questo tema. Dovrebbe dire parole chiare a riguardo, in gioco c'è un nuovo assetto mondiale».

Che Schlein stia dalla parte di Kiev non ci sono dubbi, ma è sulle armi che si gioca la vera partita. Sugli aiuti all'Ucraina Elly non ha votato in dissenso dal partito, ma nelle dichiarazioni ha marcato un'identità «pacifista». Anche nella mozione congressuale si nota questa ambivalenza: «Sosteniamo e sosterremo il popolo ucraino con ogni forma di assistenza necessaria a difendersi - si legge - Senza però rinunciare alla nostra convinzione che le armi non risolvano i conflitti». «Da pacifista credo che non saranno le armi a porre fine a questa guerra» ha detto Schlein negli ultimi giorni.

E ora? Il suo Pd svolterà - e a quale prezzo - verso un pacifismo integrale, come ha fatto - per convenienza - anche Giuseppe Conte - oppure resterà sulla linea «armi ma anche pacifismo»? E come il capo dei 5 Stelle avrà un debole per la Cina? Di Pechino Schlein parla poco, ma pare mettere la Cina sullo stesso piano degli Usa. Se il partito resterà «nella sfera atlantica» se l'è chiesto anche Giorgio Gori, sindaco di Bergamo ma sopratutto ultimo lucido «grillo parlante» del riformismo in casa dem. Domanda giusta. Il «Guardian» di recente ha paragonato la «stella nascente della sinistra italiana» alla deputata newyorkese (e radicale) Alexandria Ocasio-Cortez. E c'è chi evoca i profili infausti del laburista Jeremy Corby e del comunista francese Jean Luc Melenchon.

A sinistra divampa un anti-occidentalismo che è ostile a Israele. Schlein ne è fuori? Non rassicurano le singolari dichiarazioni di un anno fa (al congresso di Articolo 1) sulla «asimmetria» dello scontro in atto, che però era fra lo stato ebraico e Hamas; tanto meno rassicura la sua partecipazione (nel 2018 a Milano) alla Conferenza dei Palestinesi in Europa, insieme a sfegatati nemici di Israele come i Bds (fautori di boicottaggio e sanzioni). In questo quadro è solo un dettaglio la recente «gaffe» sul suo naso, quando rispondendo a quelli che ha definito «ignobili sentimenti antisemiti», inconsapevolmente e confusamente ha «confermato» - come ha rilevato, critica, la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello - uno stereotipo antisemita fra i più odiosi.

Un partito elitario e nichilista. Il Partito comunista, infine, si è trasformato in un partito radicale di massa, elitario e nichilista. Alessandro Gnocchi su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Il Partito comunista, infine, si è trasformato in un partito radicale di massa, elitario e nichilista. In meno, rispetto alla creatura di Pannella, c'è il garantismo, in più l'ossessione del politicamente corretto. Il Partito democratico è stato solo un passaggio e infatti assistiamo già al suo smembrarsi. Con Elly Schlein termina una storia che ha visto il partito dei lavoratori abbandonare... i lavoratori e sposare le minoranze, qualunque esse siano, anche inventate di insana pianta. Lo aveva previsto, molti anni fa, il grande filosofo Augusto Del Noce. Il Sessantotto è stato il tentativo di sostituire la religione con la politica. Il marxismo ha svalutato l'ordine tradizionale dei valori. Il mondo nuovo però non è arrivato e la società è ricaduta nel vecchio ordine, totalmente sconsacrato. Non esistono più il vero o il falso, il bene o il male. Esistono soltanto il progressivo e il reazionario. A questo si è arrivati attraverso un neo-illuminismo che si esprime nelle equazioni di progressismo, filosofia militante, politica della cultura, rinnovamento radicale attraverso la scienza, liberazione dei pregiudizi, demitizzazione, secolarizzazione. Stiamo citando, quasi alla lettera, Il suicidio della rivoluzione (Rusconi, 1978) di Augusto Del Noce. Continuiamo a seguire le sue riflessioni. La nuova via al socialismo s'è rivelata funzionale al passaggio dal vecchio al neo-capitalismo. La grande industria è «progressiva» (sempre Del Noce) al contrario di quella «reazionaria» di origine famigliare e agraria. La contestazione, eliminando il sacro, ha causato il trionfo delle forze che diceva di voler abbattere o correggere: l'economicismo, il positivismo, lo scientismo. In questo mondo, l'omologazione, imposta con la scusa dell'uguaglianza, è fondamentale: l'efficienza del mercato esige consumatori fatti con lo stampino. Gli interessi di grande industria e sinistra politica sono coincidenti e trovano terreno comune nel materialismo. Elly Schlein, con la sua attenzione quasi esclusiva ai diritti, e la sua politica economica contro il ceto medio, è l'inveramento della evoluzione prevista da Del Noce. I lavoratori sono interessati? A quanto pare, no. Infatti la Schlein vince nel centro delle grandi città. Il Partito democratico porta a compimento un processo storico, al termine del quale si troverà, probabilmente, ancora più piccolo di quanto i fondatori ritenessero possibile. Peccato, in una società aperta sinistra e destra sono ugualmente preziose, a patto che facciano il loro dovere.

Il Pantheon di Elly. Si ispira alla Ocasio-Cortez per le tasse, alla Rackete per l'immigrazione e alla Murgia per le battaglie femministe. Ecco i suoi punti di riferimento: tutti in declino...Francesco Giubilei su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Analizzare i riferimenti politici e culturali di un leader di partito è il modo migliore per comprendere il suo operato, come si muoverà e quali linee programmatiche adotterà sui principali temi del dibattito pubblico. Per provare a tratteggiare il pantheon del nuovo segretario del Partito Democratico Elly Schlein, bisogna avventurarsi in parte nel mondo della sinistra radicale e in parte in quello della sinistra radical chic.

In tal senso uno strumento utile è il suo libro La nostra parte. Per la giustizia sociale e ambientale, insieme in cui la Schlein tocca gli argomenti che le stanno più a cuore a partire dalle lotte per la giustizia sociale e ambientale «nel segno dell'intersezionalità, attorno a una visione condivisa: ecologista, progressista e femminista insieme». Da qui la necessità di «redistribuire ricchezze, sapere, potere e accompagnare la conversione ecologica, restituire dignità al lavoro e superare il patriarcato, realizzando una società inclusiva».

Più che idee originali, si tratta di temi presi in prestito da altri illustri maestri a partire dal suo idolo Barack Obama, non a caso la Schlein nel 2008 partecipò come volontaria nell'ultimo periodo della campagna elettorale di Obama.

In queste ore è in voga un altro paragone con la pasionaria del Partito Democratico americano Alexandria Ocasio-Cortez, il 14 settembre 2021 la Schlein condivideva un articolo sul suo profilo Twitter con la foto della Ocasio-Cortez vestita con l'abito «Tax the rich». La didascalia non lasciava spazio a interpretazioni: «Più chiaro di così», corredata dagli hashtag «#TaxTheRich #Progressività #Redistribuzione», quasi un programma economico in poche righe.

Da un lato all'altro dell'Oceano Atlantico, sono numerosi i paragoni con il già leader dei laburisti inglesi Jeremy Corbyn la cui esperienza alla guida della sinistra in Gran Bretagna è stata piuttosto disastrosa. La Schlein il 23 febbraio 2018 condivideva un tweet di Liberi e Uguali con scritto: «Spero che la foto di Grasso con Corbyn non sia un momento elettorale, ma l'inizio di una collaborazione per un lavoro comune delle forze di sinistra in Europa». Riferimento del nuovo segretario del Pd è stato anche l'idolo della sinistra radicale europea, il greco Alexis Tsipras, nel 2015 la Schlein da europarlamentare lodava il «bell'intervento in plenaria» di Tsipras.

Il pantheon della Schlein non si limita al mondo politico ma anche alla società civile tra i paladini (o le paladine) dei suoi cavalli di battaglia come l'immigrazione e l'ambiente.

È del 3 ottobre 2019 il suo endorsement a Carola Rackete sull'immigrazione: «Ha ragione Carola Rackete. Serve subito la riforma di Dublino e l'apertura di vie legali e sicure in tutti i Paesi UE». La Schlein ha elogiato in varie occasioni anche Greta Thunberg, non ultima la dichiarazione secondo cui Greta con le sue proteste: «Ha permesso di far entrare il tema dell'emergenza climatica nelle agende politiche europee».

Pochi giorni fa è arrivata la sua apertura anche agli eco-vandali di Ultima Generazione affermando che «il dialogo è possibile con loro e con tutte le mobilitazioni ecologiste», mentre nel 2020 definiva «le piazze come nuovo place to be paragonando i ragazzi di Black Lives Matter» con quelli «ancor più giovani di quelli dei Fridays for Future».

Immancabile la vicinanza con la paladina delle femministe, la scrittrice Michela Murgia che ieri le ha dedicato un lungo post sottolineando le difficoltà a cui andrà incontro la Schlein nel nuovo ruolo di segretario del Pd sottolineando «siamo entrambe gramsciane».

Tra i giornalisti spesso citati dalla Schlein c'è anche Roberto Saviano, nel 2017 definiva «perfetto» un suo articolo su La Repubblica sull'immigrazione mentre di recente, nella querelle tra il giornalista e Giorgia Meloni, ha preso le sue difese. Il quadro è completo.

Altro che machista, l'Italia è femminista. L'imprevista vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito Democratico, in un colpo solo demolisce due luoghi comuni alimentati dalla sinistra stessa. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

L'imprevista vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito Democratico, in un colpo solo demolisce due luoghi comuni alimentati dalla sinistra stessa. Notate bene: sono due veri e propri pilastri delle prefiche progressiste e, ancor di più, di chi ama lamentarsi a tutti i costi dell'arretratezza del nostro Stivale, così giusto per spargere un po' di fango in giro per il mondo.

Partiamo dal primo mito da sfatare: «L'Italia non è un Paese per donne».

Quante volte lo avete sentito ripetere? Proviamo a immaginare: a bizzeffe. Dunque, sicuramente in molte realtà sociali e lavorative il cammino per la parità di genere è ancora lungo, ma la politica, da questo punto di vista, ha dimostrato che c'è spazio per tutte e ha dato il buon esempio. L'Italia è l'unico paese europeo che ha una donna premier e un'altra a capo del primo partito di opposizione. Alla faccia delle deliranti accuse di machismo e patriarcato che le varie Boldrini (nella foto) e Murgia hanno sparpagliato per anni su libri, giornali e televisioni. L'Italia retriva, che ha bisogno del razzismo al rovescio delle quote rosa per garantire alle donne un accesso alla carriera non esiste più. È un racconto sopravvissuto solo nella narrazione distorta delle ultra femministe e che ora stenta a rimanere in piedi. Un tabù, quello della partecipazione femminile, che specialmente in politica è stato infranto dal centrodestra, non solo in Italia ma anche in Europa, due nomi su tutti: la presidente della Commsione europea Ursula von der Leyen e quella Parlamento europeo Roberta Metsola. Il secondo caposaldo che crolla è quello dell'«Italia paese per vecchi». Altra ossessione ampiamente diffusa nell'aera progressista.

Elly Schlein è nata nel 1985 e Giorgia Meloni nel 1977. Niente a che vedere con i dati anagrafici dei politici della Prima Repubblica.

Cade definitivamente al suolo anche il mito negativo della gerontocrazia italica, già pesantemente colpito dal successo di Matteo Renzi, presidente del Consiglio più giovane della storia repubblicana. Il quale, involontariamente, ha anche dimostrato quanto essere giovani non sia automaticamente una garanzia di qualità e successo. Così come non lo è essere donna, contano solo le capacità. Ma, se non altro, abbiamo fatto piazza pulita di due odiosi luoghi comuni.

Ecco la "vocazione minoritaria". Adesso gli elettori del Pd non potranno addebitare le prossime sconfitte elettorali ai dirigenti del partito: c'è la loro firma in calce alla vittoria di Elly Schlein. Pier Luigi del Viscovo su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Adesso gli elettori del Pd non potranno addebitare le prossime sconfitte elettorali ai dirigenti del partito: c'è la loro firma in calce alla vittoria di Elly Schlein.

S'erano lasciati essendo «minoranza in Parlamento ma maggioranza nel Paese», secondo la lettura della Serracchiani (foto) delle elezioni politiche. Adesso hanno risolto, votandosi ad essere minoranza pure tra i cittadini. Una scelta legittima, intendiamoci. Se uno ha delle idee è giusto che le rappresenti attraverso un partito. Se poi dovesse risultare che quelle priorità siano tali per una piccola parte, anche benestante e privilegiata, pazienza. Andrebbe ancora bene. Ma non per il Pd, che pretende siano di tutti, o almeno della maggioranza. Come mai, uno si chiede. Perché il Pd, e qui sta la sua ineffabile unicità, non persegue quelle ricette politiche solo perché sono le sue, ma perché le ritiene oggettivamente giuste. «Una serata triste per il Paese», sintetizzò sempre la Serracchiani, esegeta del Pd-pensiero, all'indomani della sconfitta di settembre. Non per il Pd, per il Paese, capite?

Non hanno mai voluto accettare che anche quando le politiche dell'allora Pci erano condivise da moltitudini di elettori, fino a un terzo, non era perché fossero giuste (la storia ha detto che non lo erano) ma solo perché ne intercettavano la priorità, che al tempo era la lotta di classe. Quali sono quelle di oggi, che dovrebbero chiamare a raccolta folle tali da far tremare il Governo? Beh, quelle della Cgil ovviamente, con opzione sul populismo pentastellato. Precisamente, con le parole della neo-segretaria. «Difendere la scuola pubblica»: dopo averla picconata per decenni, mettendo al centro il personale e appiattendo la professionalità dei docenti. «Porre un limite alla precarietà e ai contratti a tempo determinato»: dopo aver reso eroico fare impresa e creare ricchezza, al punto che le uniche opportunità di lavoro vengono da palate di debito pubblico, stile super-bonus. «Lottare per la giustizia climatica e per una vera, profonda conversione ecologica»: non contenti del caro energia che famiglie e imprese stanno sopportando.

Con l'elezione di domenica si chiude il lungo equivoco di un partito che volle essere liberal a sua insaputa; che si professava di sinistra ma nel nome rinunciava alla S; che stava nell'economia di mercato e nell'alleanza atlantica mentre flirtava con la Cgil, non sapendo né volendo rinnegare della matrice comunista gli errori, e non solo gli orrori, che è facile. Auguri alla compagna Elly.

Schlein prima donna alla guida del Pd: quel suo comizio-risposta a Giorgia Meloni. “Sono una donna. Amo un’altra donna e non sono una madre, non per questo sono meno donna”. Antonio Lamorte su Il riformista il 27 Febbraio 2023

Elly Schlein sarà la prima donna alla guida del Partito Democratico. Ha sovvertito ogni pronostico, ribaltato le previsioni e i risultati del voto nei circoli. È stata eletta alle primarie con il 53,80% dei voti: un esito netto su Stefano Bonaccini. “Abbiamo fatto da ponte tra il dentro e il fuori, per liberare le energie migliori. Ma anche un ponte intergenerazionale. Mi hanno molto colpita i messaggi di alcune donne di più di 100 anni, che oggi sono andate a votare per me e che hanno detto che erano 90 anni che aspettavano di votare per una segretaria”, ha detto nel suo discorso nella notte Schlein.

Elezione storica: in Italia ora il governo, e il principale partito alla sua guida, e il principale partito di centrosinistra – il primo di opposizione è secondo i sondaggi Movimento 5 Stelle – sono guidati da donne. Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Due underdog. Così si era definita la prima nel suo discorso in Parlamento dopo le elezioni politiche che l’avevano fatta diventare prima Presidente del Consiglio donna nella storia italiana. Così è stata definita la seconda: partita sfavorita, protagonista di una rimonta storica. Due donne, due underdog diversissime: per estrazione, ideologia, visione.

La periferia e la borghesia, Roma e Bologna, la sede del Fronte della Gioventù alla Garbatella e la campagna elettorale di Barack Obama negli Stati Uniti. “Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”, aveva detto la leader di Fratelli d’Italia in un discorso a Piazza San Giovanni a Roma nel 2019 diventato emblematico. “Sono una donna, amo un’altra donna e non sono una madre. Ma non per questo sono meno donna”, aveva replicato nel comizio finale della campagna elettorale per le ultime politiche dello scorso settembre in Piazza del Popolo a Roma Schlein.

C’è una bella differenza tra il dirsi femminili e femministe, se decidi di non difendere i diritti delle donne, a partire da quelli sul proprio corpo”. La stessa Schlein in una puntata de L’Assedio, la trasmissione di Daria Bignardi, nel 2020, aveva dichiarato: “Premetto che di solito non parlo mai e sono molto riservata sulla mia vita personale, ma in questo caso faccio un’eccezione: sì, sono fidanzata, ho avuto diverse relazioni in passato. Ho amato molte donne e amato molti uomini, in questo momento sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta”. Schlein era appena diventata vice presidente dell’Emilia Romagna. “Cammina sempre fianco a fianco, questo è l’importante”.

La nuova segretaria dem non aveva e non ha mai rivelato l’identità della compagna. “Non siamo uteri viventi ma persone coi loro diritti”. Il Nazareno che per la prima volta sarà guidato da una donna era stato travolto dalle critiche quando alla nomina dei ministri del governo Draghi non aveva presentato neanche una donna. Con Elly Schlein, 37 anni, si apre un’altra era per i dem. Lo scorso settembre, a pochi giorni dalle elezioni politiche – in cui sarebbe stata eletta deputata da indipendente – , la nuova segretaria era stata definita dal The Guardian “la stella nascente della sinistra italiana”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Operazione Speciale Occupy Pd. La gran novità Schlein non è una buona notizia né per l’Italia né per l’Ucraina. Christian Rocca su L’Inkiesta il 27 febbraio 2023.

La segretaria del Partito democratico rappresenta la nuova sinistra dei diritti, minoritaria, velleitaria e grottesca quanto si vuole, ma l’unica alternativa radicale al riformismo dell’era Clinton-Blair. L’altro vincitore delle primarie però è Conte, ora bisogna evitare che lo sia anche Putin

L’elezione di Elly Schlein a segretario del Partito democratico è un fatto nuovo e per certi versi entusiasmante, ma non è una buona notizia né per il Pd né per l’Italia né per l’Ucraina.

L’operazione speciale contro il Pd è riuscita in pieno: una parlamentare sveglia e coraggiosa di 37 anni, ma totalmente estranea al partito che piaccia o no ha retto con serietà il paese negli ultimi quindici anni, ha conquistato una comunità politica che voleva occupare, che detestava e a cui non era nemmeno iscritta fino a qualche settimana fa, grazie al voto alle primarie aperte anche dei non iscritti al Pd, dopo che gli iscritti invece avevano scelto il suo avversario Stefano Bonaccini.

Schlein rappresenta la sinistra social (senza la “e” finale) di oggi, una sinistra minoritaria dei diritti di genere e delle lotte intersezionali e quanto di più lontano esista in natura dagli interessi dei lavoratori (i quali, infatti, votavano le destre di Meloni, Lega e Cinquestelle già prima di Schlein, figuriamoci d’ora in avanti).

Il Pd era già attraversato da tendenze radicaleggianti e dal populismo anticapitalista, ma Schlein è l’esponente legittima di questa unica proposta politica nata nella sinistra mondiale per ripudiare l’era clintonian-blairiana, malgrado si tratti di un’impostura ideologica evidente e sia anch’essa di importazione anglo-americana.

Da Jeremy Corbyn in Gran Bretagna a Bernie Sanders in America non è che questa ala radicale della sinistra abbia mai convinto gli elettori, semmai ha indirettamente contribuito a realizzare le più catastrofiche avventure politiche inglesi e americane degli ultimi anni, dalla Brexit a Trump, né si può dire che si tratti di una novità, ma lo stesso vale per le più recenti, fallimentari e ideologicamente annacquate gestioni del Pd.

Schlein non è nemmeno la versione italiana di Alexandria Ocasio Cortez, perché le mancano le origini di svantaggio sociale della deputata del Bronx, essendo la neo segretaria del Pd nata in Svizzera da due genitori docenti universitari (padre ebreo americano di origini ucraino-lituane, mentre il nonno materno era il senatore socialista, gran garantista e membro del Csm in quota Forza Italia, Agostino Viviani), ma allo stesso tempo Schlein è la Ocasio Cortez privilegiata che il nostro sistema politico si può permettere.

Schlein ha offerto agli elettori di sinistra una vera proposta di cambiamento rispetto al continuismo di Bonaccini, con il quale semplicemente l’attuale agonia del Pd si sarebbe prolungata (a proposito: vive congratulazioni a Enrico Letta per questo ennesimo successo politico).

Conosco le obiezioni della sinistra riformista sconfitta ai gazebo: come fa Schlein a essere una vera proposta di cambiamento se politicamente è nata con Prodi e alle primarie ha ricevuto il sostegno di due dei precedenti segretari (Bersani e Zingaretti), di Franceschini, di Orlando, di Provenzano e di chi ha guidato il partito e il paese ininterrottamente per anni e in ogni possibile combinazione di potere?

Obiezioni legittime, eppure Schlein incarna davvero il cambiamento molto popolare sulle timeline che contano di Twitter, e per questa ragione ha vinto le primarie contro il possibile gestore dello status quo.

La conseguenza diretta della sua elezione è la fine del Pd a vocazione maggioritaria e la trasformazione del partito in una specie di “Arci diritti” destinato a rappresentare la parte più elitaria delle ztl cittadine, oltre che il Pigneto, Nolo e la brigata dei cuoricini sui social. La cosa più preoccupante è che in breve tempo potrebbe portare il Pd a essere fagocitato definitivamente da Rocco Casalino e da Giuseppe Conte.

Ma il guaio non è solo per il Pd: l’elezione di Schlein non è una buona notizia nemmeno per l’Italia, perché il paese perde il pilastro costituzionale e repubblicano su cui si è appoggiato in questi anni, perde l’unico partito dotato ancora di qualche adulto nella stanza capace di governare situazioni complesse come quelle che stiamo vivendo.

Non è una buona notizia nemmeno per l’Ucraina, che a sua volta perde un serio sostenitore della sua battaglia per la sopravvivenza, per la libertà e contro l’aggressivo imperialismo russo di stampo “Dio, Patria e Famiglia”. Ed è un paradosso che l’unica leadership politica italiana rimasta a combattere il ritorno del fascismo in Europa sia quella dell’ex missina Giorgia Meloni (finché dura). Il fronte atlantista, poi, ora si restringe ad Azione-Italia Viva e a Fratelli d’Italia (finché dura).

Gli unici che possono festeggiare la vittoria di Schlein, oltre ai suoi sostenitori, sono i Cinquestelle e il cosiddetto Terzo Polo. Ma mentre Giuseppe Conte ora ha la strada spianata per rivendicare (senza scoppiare a ridere) il ruolo che fu di Enrico Berlinguer, e per esercitare sulla giovane segretaria la sua egemonia culturale da leader fortissimo di tutti i progressisti, Renzi e Calenda non sono ancora riusciti a liberarsi dei loro partiti personali né, fino a questo momento, a offrire un’alternativa seria e credibile agli elettori riformisti e liberali del Pd che ora, a meno di umilianti voltafaccia, non potranno seguire una leader neo, ex, post marxista che professa la decrescita felice e crede che la domanda di elettricità costituisca un grave problema per la società.

La vittoria di Schlein è una storia formidabile foriera di grandi novità, ma l’altro vincitore certo è Giuseppe Conte. Occhio, però, che non lo sia anche Vladimir Putin.

Segretario Elly. Vince Schlein e fa la storia del Pd (poi che storia sarà, be’, è un’altra storia). Mario Lavia su L’Inkiesta il 26 febbraio 2023.

A sorpresa il voto nei gazebo, aperto anche ai non iscritti al partito, ribalta quello delle sezioni che avevano scelto Bonaccini. Una svolta con enormi conseguenze, a cominciare dall’Ucraina

Hanno preferito un bene non sperimentato a un male già noto, per parafrasare Tomasi di Lampedusa. La grande affluenza ai gazebo ha ribaltato il risultato dei circoli del Pd e ha portato alla vittoria di Elly Schlein, determinando un terremoto nella storia di questo partito e a probabili scossoni non da poco nella politica italiana.

Ma è un voto che ha del pazzotico, una vittoria di misura che spacca il partito come una mela con una prevalenza di Elly-la-Nuova forse dovuta anche a voti di persone di altri partiti: è il brutto delle primarie. E tuttavia il cosiddetto “popolo delle primarie” che come i clienti ha sempre ragione ha travolto “il Partito”, ha sparato su un quartier generale che evidentemente aveva stufato (anche se in quel teatro dell’assurdo che è diventato il Pd escono premiati proprio i Franceschini e gli Zingaretti, i Boccia e gli Orlando, grandi sostenitori di Schlein, cioè i massimi protagonisti della catastrofe etica e politica del partito culminata il 25 settembre).

Nel fuoco incrociato di rabbia e politicismo è rimasto ferito a morte Stefano Bonaccini, adesso ci sarà modo di riflettere sulle ragioni di una sconfitta che contraddice, come dicevamo, la volontà degli iscritti che nei circoli avevano premiato alla grande il governatore dell’Emilia-Romagna, ed è la prima volta che si registra questo scollamento impressionante tra iscritti e elettori, tra partito e società, effetto nefasto di anni e anni di chiusura del Pd agli umori profondi del Paese, infatti già segnalati dall’esito disastroso delle elezioni politiche.

Schlein da parte sua è la risultante “fisica” di anni e anni di delusioni, ambizioni, lotte intestine, inadeguatezza programmatica e comunicativa, il frutto imprevisto di una crisi del Pd che prosegue in un certo senso da subito dopo la sua nascita, bravissima a cogliere tutto questo pur rimanendo “un enigma avvolto in un mistero”: giacché le incognite che si parano dinanzi alla vita del partito sono molte e tutte da far rabbrividire.

Eccone alcune. Resterà unito, il Pd? Posta così la domanda non ha una risposta facile. Il punto vero è capire se Schlein cambierà la linea del partito sulla questione più importante, l’Ucraina: se, per essere chiari, il Pd schleiniano dovesse prendere posizione contro un nuovo invio di armi o anche solo mostrare una incertezza sulla linea atlantista che meritoriamente Enrico Letta aveva imposto, allora sì che molta gente, e di primo piano, se ne andrebbe.

Di fronte a una diserzione dalla battaglia a fianco di Zelensky i riformisti non potrebbero che andarsene. E forse anche dinanzi a scelte filo-grilline che non farebbero danno a Giorgia Meloni ma al Paese. Elly non è stata proprio nettissima sulle armi, a differenza di Bonaccini. Rendiamoci conto che la nuova leader potrebbe incrinare la (relativa) compattezza del Parlamento, o addirittura non garantire i voti necessari, stante i maldipancia di Berlusconi e Salvini sulla questione. Si vedrà presto. L’altro problema di non piccolo momento riguarda la natura di un partito diviso tra Nord (molto schleiniano) e Sud (molto meno schleiniano) o ancora tra metropoli e provincia. Un partito disarticolato, schizofrenico, spaccato.

E ancora: Schlein sarà “libera” o dovrà garantire qualcosa ai suoi supporter? Il gruppo dirigente sarà realmente innovativo, come in fondo è lei, o sarà fatto con il solito bilancino stile-Cencelli?

Infine, ma non ultimo: il Pd sta andando in braccio a Giuseppe Conte, magari “liberando” energie verso il Terzo Polo che già pregusta nuovi acquisti. Insomma, la vittoria di Elly Schlein è un fatto storico per il Pd, per la sinistra, per l’Italia. Uno di quei fatti storici che solo, appunto, la Storia potrà chiarire.

Le panzane rassicuranti. Elly Schlein, la Ragazza Ricca che si appassiona ai problemi della società pasciuta di massa. Guia Soncini su L’Inkiesta il 28 Febbraio 2023.

La neo segretaria del Pd non sa la differenza tra «energia» ed «elettricità» e parla come miss Italia che vuole la pace nel mondo. E ovviamente vince le primarie del partito

Se permettete parliamo di Ragazze Ricche. No, non di me – cioè, non subito. Parliamo del fatto che il Pd ha una nuova segretaria (dovremo smetterla col riempimento automatico «ma come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati»), e che quella segretaria è innanzitutto una Ragazza Ricca.

Prima che arrivino i non comprenditori di testo e tono (l’unica vera maggioranza stabile in questo povero secolo), e mi ammazzino di noia dicendo «ha 37 anni, non è una ragazza, solo in Italia sei ragazza in eternoooo», esplicitiamo le citazioni (cosa mi costringete a fare, santiddio).

No, la Ragazza Ricca non è il femminile di Anson Hunter, il ragazzo ricco del racconto di Scott Fitzgerald. Cioè, può esserlo: Anson Hunter aveva il complesso di superiorità dei nati ricchi, e in effetti solo quel genere di complesso può farti pensare che non ti schianterai al primo dibattito con Giorgia Meloni – ma non è questo il riferimento letterario che m’interessa.

«Amava la vita e l’allegria, era del tutto ineducata, scriveva l’italiano con incredibili errori di ortografia, era follemente generosa sia con gli amici che con gli estranei. Sempre, e fondamentalmente, era una ragazza»: l’istantanea con cui Susanna Agnelli la descrive così è di quando sua madre – Virginia Boubon del Monte, vedova Agnelli – ha trentacinque anni.

Non importa che fosse «praticamente squattrinata»: era la madre degli eredi Agnelli, non aveva mai dovuto lavorare un giorno in vita sua o lavare i panni al fiume. Era una Ragazza Ricca.

Quando domenica mattina mi sono svegliata e l’iPad non si connetteva alla rete, non ho capito la notizia (tu quando arriva una notizia ti scansi, mi disse un giorno un giornalista: quanta ragione aveva). Avevo guardato due ore e un quarto di Elly Schlein intervistata da un tizio che non conoscevo per verificare se dicessero il vero quelli che sostenevano che la candidata alla segreteria del Pd ignorasse la differenza tra «energia» ed «elettricità» (dicevano il vero), ma non ho comunque collegato.

Il wifi non andava perché l’elettricità era saltata, e io non l’ho comunque preso per un segno. Neanche quando qualcuno mi ha fatto presente che, comunque andasse, il prossimo segretario del Pd sarebbe stato un emiliano, neanche allora ho capito. Ho solo borbottato, come al solito, che mai s’è visto un popolo così di scemi che si spacci con tanto successo per popolo di geni: neanche gli americani hanno un ufficio stampa buono quanto gli emiliani.

Poi la Ragazza Ricca ha vinto le primarie, e amiche furibonde (sì, ho amiche cui interessano i destini del Pd: mi piace la nicchia) mi hanno telefonato chiedendomi cosa diamine fosse «il femminismo linotipista, ciclotimico, come si chiama» (intendevano: intersezionale). Mentre spiegavo che è un femminismo che dice che se sei femmina e bianca sono cazzi, ma se sei femmina e gialla sono cazzissimi, ho pensato: ma femmina e ricca fa meno punteggio, no?

Epperò una ventitreenne non Ragazza Ricca mica potrebbe andare a fare la volontaria nella campagna di Obama. E d’altra parte solo una Ragazza Ricca può baloccarsi coi pronomi e altre questioni tipiche d’un mondo abbastanza pasciuto da aver risolto i problemi essenziali e potersi dedicare all’arredo d’interni.

Il tizio che non conoscevo, quello dell’intervista da due ore e un quarto, m’è parso molto meglio degli intervistatori medi dei mezzi di comunicazione classici noti a noi adulti. Certo, nonostante l’accento sardo sembrava fosse cresciuto all’estero e avesse imparato l’italiano su Google Translate, coi suoi modi di dire in doppiaggese quali «se devo mettermi nelle scarpe di altre persone», ma almeno obiettava a qualcuna delle puttanate di Schlein, almeno alle più gigantesche (lui direbbe: super; lui e Schlein sono due quasi quarantenni il cui lessico rispecchia la scelta di rivolgersi a quelli che usano «super» come unico accrescitivo, a quelli più facili da intortare: i ventenni).

«Fammi fare l’avvocato del diavolo», premetteva per attutire l’obiezione, quando Schlein diceva che dovevamo rinunciare all’elettricità e darla agli africani poveri: «Non è colpa mia, il Chad». È stato lì che ho capito che aveva ragione quel mio amico: ha, purtroppo, vinto la sinistra bolognese.

Quella che tra le obiezioni non prevede il «non me ne devo occupare io». Quella che ti rende difficilissimo buttare la spazzatura nei cassonetti, certa che tu, cittadino sinceramente progressista, vorrai e potrai ogni settimana sacrificare ore del tuo tempo a compattare i rifiuti. Che di fianco a ogni cassonetto bolognese ci siano mucchi di spazzatura non dice a chi governa che la più parte dei cittadini non sia disposta a fare il lavoro per cui paga una tassa sull’immondizia.

Perché, a parole, siamo tutti civili, e io non sento altro che bolognesi medi riflessivi che dicono che certo, è nostra responsabilità, e chissà questo ceto responsabile come produce la città più zozza d’Italia, sarà quel problema dei nonni tutti partigiani d’una nazione che vota tutta a destra.

Quando Schlein dice «non esiste giustizia sociale senza giustizia climatica» è proprio quella roba lì, bolognese di buone intenzioni e pochissimo senso pratico; io, che buone intenzioni pochissime, penso che in effetti per i poveri è un doppio guaio: non possono permettersi l’aria condizionata.

Quando dice «il caro energie in una società così diseguale colpisce più duramente le fasce di reddito più basse», vorrei tanto chiederle in quali società pensa che il rincaro d’un prezzo non lo soffrano di più i poveri. Sembra quella direttrice media riflessiva di newsmagazine (ora che ci penso, anche lei era il primo direttore donna di newsmagazine: a grandi traguardi simbolici non sempre corrispondono grandi sostanze) che sospirava sui reportage dall’Africa: come sono belli questi bambini poveri.

Vi direi che da quell’intervista si capiva l’imminente vittoria generazionale perché a un certo punto Schlein faceva una battuta sull’acronimo «cbcr», e la sala rideva e io pure; ma il suo intervistatore, suo coetaneo, «cresci bene che ritorno» non l’aveva mai sentito dire. Quindi non era una cosa di scuole del Novecento: era una cosa di scuole bolognesi.

D’altra parte la conversazione tra i due mi ha dato un altro elemento di riflessione sul tema che in questo momento m’interessa di più, che incredibilmente non è il futuro del Pd ma la falsa coetaneità. Schlein era all’asilo quand’io ero al liceo: allora c’era una distanza enorme tra di noi, ma a un certo punto si è tutti adulti, tutti fintamente coetanei. Però Alessandro Masala (l’intervistatore) e lei parlano con nostalgico struggimento di Fantaghirò, e io a stento so cosa sia; loro erano alle elementari e io vivevo da sola e uscivo tutte le sere: certi divari generazionali sono per sempre.

Come è per sempre la sinistra bolognese, fatta di rassicuranti panzane («La società più sicura, ce lo insegna la storia d’Italia, è quella più inclusiva, che non marginalizza», dice Schlein, e io penso: ma la storia di quando, che nella brevissima storia d’Italia prima di ora c’erano i cartelli «non si affitta ai meridionali»?); fatta di generiche rassicurazioni che dicano che noi siamo i buoni, mica come risolvere i problemi specifici.

Masala le chiede della flat tax e di spiegare perché dovrebbe votarla quella classe media che poi si ritroverebbe a pagare più tasse, «ognuno vota col portafoglio», e lei, giuro, risponde «non mi convincerai comunque a essere contro i migranti». Sembra miss Italia che vuole la pace nel mondo, e il perché due settimane dopo vinca le primarie lo si capisce all’inizio della registrazione.

Quando Masala esce sul proscenio e ringrazia la platea del teatro per essere lì mentre alla tv c’è Sanremo. È una platea milanese, ma la sinistra bolognese è una categoria urgeografica: la sinistra urbolognese. Quella che Sanremo per carità, stasera vado a teatro a sentire cosa dice la Elly. Quella che si percepisce colta dicendo, come fosse il 1982, «io la tv neppure ce l’ho». Però ho l’abbonamento a teatro: ah, davvero i poveri non possono permetterselo?

L’Italia di Elly. Domenico Pecile su L’Identità il 9 Febbraio 2023.

Il Guardian l’ha paragonata alla neyorkese Alexandra Occasio Cortez, definendola “La stella nascente della sinistra italiana”. Che assieme a Gianni Cuperlo si contende tutto l’elettorato dem che guarda a Sinistra. Lei è sicuramente quella che si giocherà la segreteria del partito contro il presidente dell’Emilia Romana, Stefano Bonaccini. Ma è consapevole che potrà contare per il rush finale anche proprio nei voti di Cuperlo. Non soltanto, ma le voci di un possibile appoggio al ballottaggio anche di Paola De Micheli si fanno sempre più insistenti. Come dire che la partita con il presidente dell’Emilia Romagna è tutt’altro che persa in partenza.

I GRANDI SPONSOR

Ma chi sono i grandi sponsor che appoggiano la nuova pasionaria, vice presidente di Bonaccini, ex europarlamentare, femminista, ecologista con triplice cittadinanza (italiana, svizzera, statunitense)? Di certo buon parte della Sinistra del partito (eccezion fatta per Matteo Orfini) che fa riferimento all’ex ministro Andrea Orlando e quanti avevano aderito ad Articolo 1 dell’ex ministro Roberto Speranza. E tra i nomi di spicco della nomenklatura del Pd, attuale o ex, data molto vicina alla Schlein o che ha già dichiarato l’appoggio vanno annoverati Pier Luigi Bersani, Livia Turco, l’ex ministro Dario Franceschini, il segretario uscente Enrico Letta, l’ex segretario Nicola Zingaretti, le ex ministre Livia Turco e Rosy Bindi, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini. Confermato anche l’appoggio di Mattia Santoro, leader e promotore del movimento delle Sardine.

Un patto di ferro speciale la Schlein lo ha stretto con il candidato alla presidenza della Regione Lombardia, Pierfrancesco Majorino, con Antonio Misiani, parlamentare e responsabile economico del Pd, con i parlamentari Franco Mirabelli e Chiara Braga e con Stefania Bonaldi, ex sindaco di Crema.

Nel vicino Veneto, avrà l’appoggio del parlamentare Alessandro Zan, di Matteo Favero, responsabile ambiente del Pd e del capogruppo in Regione, Vanessa Camani. In Friuli Venezia Giulia, il gruppo è capeggiato da Enzo Martines, ex segretario dem di Udine, ex vicesindaco ed ex consigliere regionale il quale si dice convinto che nel braccio di ferro finale del congresso arriveranno anche i voti degli ex Giovani turchi.

La candidata alla segreteria nazionale confida molto anche nel risultato del Piemonte – trascinata dal senatore Federico Fornaro e dalla deputata Chiara Gribaudo – dove è di poco staccata da Bonaccini. Anche la Liguria pare essere una roccaforte della Schlein il cui gruppo di fuoco è capeggiato dal segretario provinciale Simone D’Angelo. In Emilia Romagna il suo sponsor principale è il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, in Toscana i suoi sostenitori sono capeggiati dal parlamentare Marco Furfaro, mentre nel Lazio oltre all’appoggio di Zingaretti potrebbe avere anche quello di Goffredo Bettini che si dichiara ancora incerto tra la pasionara e Cuperlo.

In Campania ha l’appoggio del segretario di Napoli, Marco Serracino e dell’ex senatore Sandro Ruotolo. In Sicilia tra gli sponsor della Schlein figura l’assessore regionale, Teresa Amato, ma soprattutto di Peppe Provenzano, vice segretario nazionale dem, mentre in Abruzzo il portavoce del Comitato che la appoggia è guidato da Lino Guanciale.

In Puglia la pattuglia è composta, tra gli altri, dalla segretaria della Cgil, Gigia Bucci, dal consigliere regionale Giuseppe Romano e dalla presidente del consiglio regionale, Loredana Capone. Elly Schlein, come detto, confida, per il testa a testa, nell’appoggio di tutta la pattuglia che ha appoggiato Gianni Cuperlo il quale ha sparigliato le carte tra i sostenitori della Sinistra del partito.

Compagna Schlein, il nuovo che arretra e scorda gli operai. A Mirafiori soltanto due voti. Entusiasmo a Mirafiori tra il popolo della sinistra. Là dove regnava Giuanìn Lamiera, al secolo Gianni Agnelli così chiamato dai lavoratori duri e puri della Fiat, detta la Feroce, si sono tenute le primarie del piddì. Tony Damascelli il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Entusiasmo a Mirafiori tra il popolo della sinistra. Là dove regnava Giuanìn Lamiera, al secolo Gianni Agnelli così chiamato dai lavoratori duri e puri della Fiat, detta la Feroce, si sono tenute le primarie del piddì. Solerti fedeli all'insegna del partito avevano allestito, al di qua del Sangone, nel rione operaio che ospita il circolo Mirafiori sud, rione operaio, un locale adibito alle votazioni per le primarie del partito. Ai cancelli della fabbrica oggi Stellantis si era presentato a gennaio il compagno Stefano, nel senso di Bonaccini che aveva incontrato i delegati di Fiom e Uilm promettendo che, in caso di sua elezione a segretario il partito sarebbe stato vicino ai lavoratori. I quali, però, stando ai risultati delle primarie torinesi sono loro lontani dal partito succitato, infatti, a parte l'assenza giustificata per febbre del vicepresidente del circolo, De Martino Gianluigi, l'affluenza registrata è stata a livelli di riunione condominiale, si sono presentati al seggio in 24, oltre la metà degli iscritti che sono 51, lo stesso governatore dell'Emilia Romagna ha raccolto 13 preferenze, alle sue spalle Gianni Cuperlo ha avuto 9 voti e a chiudere la triade Elly Schlein gratificata dall'affetto di 2 preferenze che nemmeno Vasco Rossi ai festival di Sanremo. Evaporano le istanze di movimentismo della stessa Elly? Nessuno può saperlo, la propaganda si muove, corre lungo gli studi delle emittenti televisive, illustri opinionisti sponsorizzano idee dei candidati, il Partito Democratico conta più agiografi che elettori, il distacco dal paese è evidente ma tenuto sotto vuoto spinto e spento. Da Genova arrivano altri mormorii malmostosi, di Ornela Casassa l'insegnante che ha rifiutato un lavoro a paga bassa e chiede alla sinistra dove mai sia finita mentre su questo campo, quello del salario e della dignità del lavoro, dovrebbe muoversi.

È un brutto momento per il partito, al punto che l'accusa viene da dentro, Valentina Cuppi è la presidente del Piddi, direi all'insaputa del mondo e degli stessi iscritti e no, massimo dirigente però scadenza dopo un triennio vissuto nel canneto, mentre altrove, in stanze più importanti venivano decise strategie ed alleanze ma Lei, in quanto donna e pure presidente o presidentessa niente, nemmeno un fiore e allora la Valentina ha reagito, sfogandosi con uno dei fili vicini all'idea o ideologi, Repubblica ça va sans dire: «Nelle stanze in cui si decideva davvero io non c'ero mai. C'erano solo uomini di una certa età». Che poi certa non si sa bene che cosa significhi, un po' come le preferenze delle primarie. Del resto la stessa Valentina Cuppi, candidata alle politiche del settembre scorso, terza in lista alla Camera nel collegio di Bologna, non era stata eletta. Non c'è bisogno di un pallone spia made in China per sondare e capire l'aria che tira (qualsiasi riferimento è puramente voluto) tra i figuranti sempre più intellettuali e sempre meno consapevoli dello scollamento tra dibattito politico e realtà sociale, con il tentativo, quasi patetico, di rispolverare linguaggi antichi, lotta di classe, borghesia padrona che ormai nulla hanno più a che fare con lo stesso identikit del piddì, già pds e poi ds. L'esito delle primarie di Mirafiori dovrebbe essere un segnale d'allarme per chi gode di immunità e impunità politica, se è ritenuto irrilevante il numero dei partecipanti allora si mette in dubbio lo stesso valore degli iscritti mentre le due preferenze riservate a Elly Schlein sono il nuovo che arretra, la risposta chiara a chiacchiere e distintivi. Il partito di governo e di opposizione, nel breve spazio di un mattino, è un ossimoro dinanzi al quale il popolo ha capito il giro del fumo, Cipputi non ha più le stesse aspettative verso il partito e verso il sindacato. E cerca altrove le risposte.

Estratto dell’articolo di Renato Farina per “Libero quotidiano” il 27 febbraio 2023.

[…] Il padre è un ebreo americano. Ebbene lei ha stinto il suo connotato giudaico, dicendo che non è ebrea, poiché la madre non è israelita, e a chi ha provato squallidamente a ridire in chiave antisemita sul suo naso, lei ha risposto che invece «è etrusco». Meritandosi una piccata risposta Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma: «Non sei di grande aiuto contro l’antisemitismo». […]

Gaffe di Elli: "Mi attaccano per il naso ebreo". E persino la comunità ebraica la bacchetta. La dem: "Adunco perché etrusco". Dureghello: "Così confermi lo stereotipo". Domenico Di Sanzo il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Naso adunco, dunque ebreo. Parola di antirazzista di sinistra che risponde al nome di Elli Schlein, candidata alla segreteria del Pd, iper progressista e politicamente correttissima che viene bacchettata dalla Comunità Ebraica. Ecco la cronaca dell'ennesimo cortocircuito. Succede che Schlein dà un'intervista a Tpi per denunciare di essere vittima di odiatori antisemiti che sui social la prendono di mira per il suo «naso ebreo Schlein» che avrebbe «ereditato» dal padre. «Io non sono ebrea, perché la trasmissione avviene per linea matrilineare», smentisce la deputata. Poi precisa che il suo «è un naso tipicamente etrusco». Nonostante le buone intenzioni, l'effetto è cacofonico, stonato. Parlando di nasi ebrei e nasi etruschi, Schlein conferma i pregiudizi che afferma di voler combattere.

Se ne accorge Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma. «Se per rispondere a un deprecabile attacco antisemita sul tuo naso confermi lo stereotipo su cui si fonda, non sei di grande aiuto contro l'antisemitismo», twitta Dureghello. Che rincara la dose contro la goffa dichiarazione dell'aspirante segretaria del Pd. «Non esistono nasi etruschi, ebraici o fenici, esistono caratteristiche che ci rendono unici e di cui non bisogna vergognarsi», insiste Dureghello, all'attacco della malcapitata Schlein. L'esponente della Comunità Ebraica coglie nel segno, individua una contraddizione. E infatti Schlein viene bersagliata sui social per la sua gaffe. L'utente Giuseppe La Malfa commenta così su Twitter un post della parlamentare: «Ma cosa ti è venuto in mente con questa polemica sul naso, pensavi di dire altro e invece hai confermato queste dicerie sugli ebrei, mi dispiace molto ma hai sbagliato». Schlein pubblica la foto del pubblico che ha partecipato al suo evento di ieri a Viareggio, ma Vittorio Pavoncello sentenzia: «Come avevano il naso? Ariano?» Raul Pacino ironizza: «Sono tutti etruschi».

Se Schlein voleva raggiungere lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla piaga dell'antisemitismo, di certo non ha centrato l'obiettivo. L'intervista a Tpi ha avuto un effetto boomerang. Dall'entourage della Schlein fanno fatica a nascondere l'imbarazzo e si limitano a dire che le frasi incriminate «sono state interpretate male». Difficile impostare un'autocritica, soprattutto per chi ha fatto una bandiera politica della lotta a tutte le discriminazioni. E però associare la forma di un naso a una discendenza, a una provenienza, è un tic pericoloso. Non un lapsus freudiano, ma una leggerezza che fa arrossire. Chi non arrossisce è il deputato dem Peppe Provenzano, che ha subito offerto solidarietà a Schlein per gli insulti antisemiti. Peccato, però, che il vicesegretario uscente sia stato il maggiore sponsor politico di Raffaele La Regina, candidato del Pd alla Camera in Basilicata alle ultime politiche, che ha dovuto ritirarsi dopo un'inchiesta del Giornale sui suoi tweet in cui negava l'esistenza dello Stato di Israele.

Non ho il naso da ebreo”. E ora Comunità Ebraica replica a Schlein. La presidente Ruth Durehello: “Non esistono nasi etruschi o fenici”. Elly aveva detto: “Il mio non è ebraico”.  Redazione su Nicolaporro.it il 5 Febbraio 2023.

Mentre c’è chi accusa questo sito di “razzismo” solo perché ha avuto l’ardire di criticare l’intervista di Paola Egonu, molti si sono persi un significativo tweet di Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma, che mette alla berlina Elly Schielin e il suo “naso etrusco”. Già, perché emulando un po’ Egonu (o viceversa), l’altro giorno la candidata segretaria del Pd si è lanciata in una lacrimevole intervista a The Post Internazionale – TPI lamentando di essere diventata “un bersaglio” di chissà quali hater.

Non ci permettiamo ovviamente di disquisire sulla bellezza o meno del naso di Elly Schlein, per non essere tacciati pure di body shaming. Ma insomma anche lei ritiene che sia “una parte importante del mio corpo”. Un pezzo che è diventato “prima un simbolo” e poi “un bersaglio”. Di cosa? O di chi? “Si è attivato un vero e proprio esercito di odiatori che parte dal mio naso e dal mio cognome per esprimere ignobili sentimenti antisemiti. Gli stereotipi sono quasi sempre ingannevoli”. E giù la spiegazione dettagliata: “Per quanto sia orgogliosissima del lato ebraico della mia famiglia paterna, io non sono ebrea, perché come sapete la trasmissione avviene per linea matrilineare. Ma la cosa più folle è il dibattito sul mio naso. Perché non è un ‘naso ebreo Schlein‘ che ho ereditato da mio padre, come scrivono i razzisti nella rete. È un naso tipicamente etrusco“.

Se per rispondere a un deprecabile attacco antisemita sul tuo naso confermi lo stereotipo su cui si fonda, non sei di grande aiuto contro l’antisemitismo. Non esistono nasi etruschi, ebraici o fenici, esistono caratteristiche che ci rendono unici e di cui non bisogna vergognarsi.

Insomma, nessun “naso ebreo” ma un “naso etrusco”. Posto che le eventuali differenze sono decisamente difficili da appurare, in realtà è proprio questa distinzione tra tipologie di nasi ad aver fatto saltare sulla sedia la presidente della Comunità Ebraica romana. “Se per rispondere a un deprecabile attacco antisemita sul tuo naso confermi lo stereotipo su cui si fonda, non sei di grande aiuto contro l’antisemitismo – scrive su Twitter Ruth Dureghello – Non esistono nasi etruschi, ebraici o fenici, esistono caratteristiche che ci rendono unici e di cui non bisogna vergognarsi”. Sarebbe bastato dire: il mio naso può piacervi o meno, ma col mio essere ebreo o no non c’azzecca. Invece Elly s’è lanciata sulla sua origine etrusca. E “a naso” non ci ha fatto una bella figura.

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 5 giugno 2023.

Per capire lo spessore politico di Francesco Boccia, gran puparo di Pulzelly Schlein, si può citare la celebre dichiarazione: «Elly rappresenta la speranza di un cambiamento epocale che la sinistra aspetta da tempo. Con lei alla guida del Pd torneremo a vincere». Voto alla spocchia: 10. Alla preveggenza: 2. 

Eterno Numero 2, sempre braccio destro di qualcuno di sinistra, intramontabile assistente civico del capo di turno, una vita sotto il sole di Puglia all’ombra del potere e un cursus honorum che eccelle nel ricicciarsi - da cui il soprannome: «Ciccio» – Francesco Boccia, da Bisceglie, Vescégghie, circoscrizione elettorale Barletta-Andria-Trani, terra di santi, polipetti in pignata e di Don Pancrazio Cucuzziello, è probabilmente il più grande perdente di successo della storia della Seconda Repubblica. Mai preso un voto, mai vinto un’elezione, mai guidato una corrente ma infilandosi in tutte, fra massimalisti, riformisti, clan e famigghie. Come il sughero, e gli strunzi, sta sempre a galla. Negli anni Ottanta, ancora studente, sedeva già al Tavoliere della Dc.

Poi, Sta ci ha vìnde, sta ci ha pèrse, è stato con D’Alema (che lo candidò alle primarie per la presidenza della Regione Puglia contro Vendola, che straperse due volte...), con Prodi (che lo fece Commissario liquidatore del Comune di Taranto), con Letta (che è stato il suo demiurgo), poi renziano («Io amico di Letta scelgo Renzi: è lui la sintesi tra Ulivo e futuro»), a lungo controfigura di Michele Emiliano, zingarettiano quando è servito, moderatamente draghiano, ponte pericolante fra Pd e CinqueStelle («Conte è un alleato serio e affidabile», cioè il contrario di lui) e poi tra i primissimi a scommettere su Elly Schlein. La quale lo ha ripagato delegandolo a trattare le nomine in Rai, dimenticandosi chi è la moglie e cosa fa in tv... È giust. Meta-morfosi e metà opportunista. Come si dice dalle sue parti, Ci cangia ddefrisca. 

(...)

Chi ha detto che la capacità di contenere moltitudini è nel Dna di Francesco Boccia?

Dna apulo, apolide (dalla Puglia imperiale a Milano, da Londra a Roma), biscegliese a metà strada fra la Volturara Appula di Giuseppe Conte e la Ceglie Messapica di Rocco Casalino - la gauche alle cime di rapa-55 anni e in politica dai tempi del Dolmen della Chianca, una giovinezza dorata come la panatura delle cozze fritte, quando i Boccia guidavano con mano capitalistica una fiorente azienda tessile e «Ciccio» giocava felice in un villone con decine di stanze e campi da tennis, una Laurea minore a Bari e poi però un master alla Bocconi, università della quale gli sono rimaste le camicie Oxford e l’occhialino da professore tendenza London school of Economics; quindi il matrimonio di larghe intese e dialetto stretto con Nunzia De Girolamo, Nostra Madonna del Sannio, Forza Italia e un debole per la tv (e non staremo a fare la battuta che il camaleontismo politico di Boccia è affinato dall’abitudine di andare a letto tutte le sere con la destra), una crisi dimezza età brillantemente superata col solito selfie nudo in bagno, deputato della Repubblica dal 2008, tre sinistre fa, e oggi Senatore;

 una passione per il calcio che gli ha riservato persino più delusioni della politica (è juventino e attaccante della Nazionale di calcio dei Parlamentari, ma i gol fatti sono come le preferenze prese: pochi), attico terrazzato alla Balduina, col Cupolone a vista, Francesco cicc’ cott’ Boccia dopo 35 anni in politica è incredibilmente percepito come il nuovo che avanza. Inteso come «avanzo», non come verbo di moto. Ciao Maschio...

(...)Il primo è Enrico Letta, il secondo è il think tank estivo che si tenne dal 2005 al 2012 nella cittadina trentina di Dro, da cui il nome «veDrò», sul lago di Garda, da cui l’espressione «Ma Garda un po’ chi c’è...», noto appuntamento politico-lobbistico, un po’ felice comitiva dei post-Boomers in carriera, un po’ setta salottiera, un po’ prova generale di un futuro Grand Rassemblement senza pregiudiziali ideologiche, al di là della destra e della sinistra, anzi: che tenga dentro la destra e la sinistra.

Voluto da Enrico Letta, nipote di suo zio, e organizzato dalla sua factotum Benedetta Rizzo, già fidanzata di Boccia – lei porta lui, lui porta i salumi di Bisceglie, poi lui conosce Nunzia De Girolamo e da quel momento, berlusconiana lei, antiberlusconiano lui, fanno coppia fissa ogni anno alla convention bipartisan – «veDrò», tra un working group trasversale e un cocktail sul prato della ex centrale elettrica di Fies, raccolse il meglio del peggio della finanza, della comunicazione e della politica. 

(...) Intanto, nel dicembre 2011, Nunzia del Pdl e Francesco del Pd - la coppia più plasticamente iconica della convention - si erano sposati. E la cosa ai «vedroidi» piacque molto.

Cose che piacciono a Francesco Boccia: gli ziti di Gragnano con cui lo conquistò la moglie Nunzia, ricordare il suo amico (di destra) Franco Califano, le pittole, le commissioni Bilancio, le giornaliste di Sky, le supercazzole arcobaleno della compagna Elly, fare le vacanze nella villa a Pantelleria di Myrta Merlino e Tardelli, la tribuna Monte Mario all’Olimpico gratis - patate, cozze, checozze e il potere a scrocco – e gli F35, con i quali, e non fu una bella gaffe, «si spengono incendi, si trasportano malati, si salvano vite». 

Cose che non piacciono a Francesco Boccia: le autonomie, i politici del Nord, il Nord, essere fatto passare per un vecchio democristiano, dover guardare la moglie Nunzia strusciarsi con quel manzo catanese di Raimondo Todaro a Ballando con le stelle, fare le interviste doppie con lei sui giornali gossippari, i no-vax (Boccia è il genio che si inventò le ronde anti-Covid), le primarie del Pd, il Pd in generale, le multinazionali del web, dover scegliere fra la demagogia piddì e la demagogia grillina, le inchieste del Fatto quotidiano sui plagi accademici (i suoi); e fare previsioni. 

A proposito delle quali, per fare il paio con quella su Elly Schlein ’Mbìzze la rècchie e séinde bboune!-va ricordato quello che Francesco Boccia disse sotto il palco del comizio di chiusura della campagna elettorale di Letta, a Piazza del Popolo, il settembre scorso, prima della nota débâcle. «La vedo molto bene». Dài, dobbiamo solo aspettare. Appena cadrà Elly Schlein lo vedremo all’Isola dei famosi. In coppia.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” Il 6 marzo 2023.

Il banco, a poker, non perde mai. E come diceva un vecchio notabile piddino: nel partito democratico il banco (sinonimi: scranno, stallo, scanno, seggio, per estensione sedia, «seggia», poltrona) è dove siede Dario Franceschini.

 Kingmaker del cattoprogressismo della Seconda Repubblica e mezzo (quasi Terza), vero Frank Underwood dell’Area Dem, un vasto ducato ideologico che dal movimento dei Cristiano sociali, poco più che comunistelli di sacrestia, si estende fino ai confini dell’esarcato Cinque Stelle, Dario Franceschini con Elly Schlein, vinta per interposta person*, si è aggiudicato la quinta edizione delle primarie del Pd, su sei celebrate. Le uniche che ha perso sono quelle in cui era candidato lui.

Candidato ab aeterno, pensoso e felpato, ante ministrum natum, politico di rara scaltrezza e scrittore politicamente impegnato, già uno dei ragazzi di Zaccagnini, da cui il suo andare a zig Zac per i sentieri parlamentari: prima moroteo, demitiano poi della corrente di Martinazzoli, quindi prodiano, dalemiano, veltroniano, fedelissimo di Bersani, Gran Elettore di Enrico Letta e poi suo Gran Traditore (immortale la vignetta di Osho: «Giuda gli spiccia casa») quindi rottamatore renziano, zingarettiano convinto, quando infine è stato il momento di scegliere tra Bonaccini e la Schlein, ha mandato avanti la moglie, Michela Di Biase. Ma dietro Michela Di Biase c’è sempre il marito, cioè lui.

Fu Matteo Renzi, uomo che di machiavellismi se ne intende, a dire: «Se volete sapere chi vincerà il congresso guardate con chi sta Franceschini».

 Stella dell’orsa politica post-democristiana, dalla Dc ai Popolari, dalla Margherita al Pd, teorico di un sano populismo in salsa centrista, ora promotore di una innaturale unione civile con la sinistra radicale di potere e fluidità - il cattogaysmo come progetto politico - Franceschini è tutto e niente. Le idee non sono mai state il suo forte. Ma sa sposare quelle degli altri al momento giusto. Dario, dicono gli amici, è ossessionato dal potere.

E dà il peggio di sé quando non ce l’ha.

Politico freddo, razionale, mimetico - bisogna riconoscere che è bravissimo: sparisce quando il Pd va male, riappare quando qualcuno vince – distaccato, andreottiano, sintetico, da cui il soprannome «lapiDario», Franceschini è stato Ministro per i beni e le attività culturali – un posto di manovra strategico - in quattro governi diversi, Renzi, Gentiloni, Conte e persino Draghi che lo mal sopportava, per un periodo complessivo di sette anni, un record. LeggenDario.

La cultura come se fosse cosa sua.

Romano per questioni di Palazzo ma inestirpabile dalla sua Ferrara – dalla contrada Santa Maria in Vado, che nello stemma ha un unicorno, prefigurazione delle prossime battaglie Lgbtq (a proposito: auguri) al liceo Roiti e la laurea in Giurisprudenza: la buona borghesia del Delta padano, le inutili lezioni di sassofono, i cineforum coi film d’essai, Cosmè Tura e la salama da sugo – «Ciuffolino», così soprannominato per il vezzoso capello ribelle, è il vero intellettuale di riferimento del mondo salottiero, cinematografaro, presenzialista, teatrale, televisivo e festivaliero della sinistra d’egemonia e di prosecchino.

Dario, insegnami a cadere sempre in piedi.

Eminenza grigia e cuore rosso, 64 anni di cui più o meno cinquanta in politica,

 Franceschini – un bonzo inamovibile per Giuliano Ferrara, un enigma per tutti i leader del Pd – come ogni buon cattolico ha abbondato coi matrimoni. Due. La prima moglie era un’insegnante, ferrarese; dopodiché ha conosciuto Michela Di Biase, che se non ci fosse il MeToo diremmo che era la bonazza del Partito, tanto carina quanto romana – «coatta» non si può dire – e un accento che nemmeno alla trattoria “Da Nerone”, il cui massimo pensiero è quello consegnato tempo fa a Vanity Fair, e a chi se no? «C’è bisogno di riflettere, di approfondire, di tornare a studiare. E c’è bisogno di più donne, in politica ma anche nelle aziende». I Franceschinez: un partito-azienda.

 Va mo là, fògat! Da ferrarese Franceschini ha aiutato in maniera munifica il Museo dell’ebraismo di Ferrara - strano... - e ha disinnescato gli scontri in campo culturale con Sgarbi-fratello affidando i suoi romanzi (e per alcuni anni anche la figlia, come ufficio stampa) alla Sgarbi-sorella, prima Bompiani poi La nave di Teseo, libri di solito recensiti dal Corriere della sera come se fosse Balzac (ma nel 2007 vinse in Francia il Premier Roman di Chambery, battendo in finale Walter Veltroni, tiè!).

(…)

 Però, dài. Si può scherzare su tutto, ma Franceschini è stato il nostro miglior ministro della cultura. Televisiva. Al netto della piattaforma per lo streaming a pagamento di eventi e spettacoli «ItsArt», la Netflix della cultura: un disastro. Al netto di «Very Bello», la piattaforma turistica pensata per accompagnare l’Expo 2015 costata migliaia di euro e morta in culla. Al netto di «Italia.it», il sito di promozione del Belpaese lanciato e poi sparito dietro il caos dell’Enit. Al netto delle criticità della «18app», il bonus per comprare libri che gli studenti scambiavano con qualsiasi altra cosa. Al netto di tutto ciò – e la nomina dei direttori di museo stranieri forse è stata davvero una debolezza da provinciali – Franceschini ha dimostrato non solo che con la cultura si mangia, ma ci si può abbuffare.

Certo, magari scontentando qualche purista dei beni culturali à la Tomaso Montanari, ai quali la sua visione manageriale e turistica non piace.

 (…)

Claudio Bozza per “Sette – Corriere della Sera” il 4 febbraio 2023.

Seduto sul divano di casa, a due passi da piazza Venezia, l’ultimo segretario del Pci ha davanti a sé una parte della sua sterminata collezione di pipe. Sono più di cento. A un certo punto ne afferra una. E probabilmente ha in testa ciò che diceva Sandro Pertini: «Fumo la pipa per bruciare le amarezze».

 Ma stavolta non ci sono più da bruciare solo quelli che definisce i suoi «30 anni di solitudine» dopo la Svolta della Bolognina. Stavolta Achille Occhetto deve sopportare il più straziante dei dolori: la perdita di un figlio. Malcolm, 52 anni, se ne è andato a ottobre, colpito nel sonno da un infarto: «Insieme abbiamo cavalcato milioni di onde nel nostro Mediterraneo. Lui sempre al mio fianco, sempre un po’ più a sinistra di me», ricorda commosso.

 Ma «Akel», così lo ribattezzò suo padre Adolfo, è uno che non si arrende. Che non è, e non vuole essere sconfitto. Così dice che suo figlio vivrà sempre nella sua memoria. E sogna una sinistra risorta. Prima fa una disamina (lucidissima) della crisi in cui si è cacciata la sua parte politica. Poi dice che «Elly Schlein è la ventata di aria fresca che si può far entrare dalla finestra». A 86 anni, andando indietro di decenni, non toppa una data, una citazione, il «Segretario».

Il primo ricordo della sua vita?

«Avevo 6 anni. A Champoluc, in Valle d’Aosta, eravamo sfollati durante la guerra. Nella canonica che ci proteggeva viene portato improvvisamente un partigiano con la testa tutta fasciata. Grondante di sangue. E sono svenuto».

 La folgorazione per la politica. C’è stato un momento preciso?

«A casa mia a Torino, durante la Resistenza, c’era la sede clandestina della sinistra cristiana, dove entravano nottetempo gappisti, oltre a cattolici, comunisti, socialisti... Il Partito d’Azione. Il 25 aprile i miei genitori mi dissero: “Vieni a vedere!”.

Era una giornata tersa di sole: dal balcone vedevo sfilare i carrarmati, sui quali svettavano la bandiera rossa e quella tricolore. Erano i carrarmati che gli operai della Fiat avevano preparato per il giorno in cui le brigate partigiane sarebbero scese dai monti per liberare la città. Quella giornata è rimasta nel mio cuore: fu lì che decisi che sarei stato sempre a sinistra».

 Per chi ha votato il 25 settembre scorso?

«Faccio una premessa: la mia critica al Pd parte dal suo difetto di fondo, cioè che invece di essere stata una contaminazione di valori veri, così come appunto avvenne per la ricostruzione post fascismo, è stata una contaminazione di apparato, una fusione a freddo. Questo difetto di fabbrica è ormai irrimediabile. Però, consapevole che la destra avrebbe vinto con ampio margine, dopo tanto tempo ho deciso di votare il Partito democratico per diminuire la distanza dal primo partito, FdI».

Trentatré anni dopo la Bolognina la sinistra è di nuovo in profonda crisi. Questa è più o meno nera di quella di allora?

«La situazione è profondamente diversa. Allora non si trattava solamente di noi. Dovevamo fare i conti con un mutamento epocale: cambiavano tutti i parametri della politica mondiale e tutta la geopolitica. Questo era il grande problema: non era fare i conti con il Pci, bensì con il mondo. E allora lo dissi chiaramente: “La campana del nuovo inizio suona per tutti”».

 Lei archiviò il Pci. Oggi è il Pd che deve essere superato?

«Non mi piace la parola “archiviare”. Non sono stato io che, un giorno, mi sono alzato e ho chiuso il Pci. Io mi sono assunto l’onere della proposta. Ma è il Pci che, in ben due congressi, in una discussione capillare che ha coinvolto intere famiglie, tutte le cellule di fabbrica e di scuola ha portato i comunisti italiani, e non Achille Occhetto, a cambiare quella storia. È stata la più grande discussione democratica che un partito abbia mai fatto. Altro che primarie!».

Il Pd rischia di fare la fine dei socialisti francesi?

«Spero di no. Dipende ancora da tutti loro. È vero, tuttavia, che la crisi del Pd si inscrive in quella di gran parte del socialismo europeo: subalternità al neoliberismo sul piano economico e il rifugiarsi esclusivamente dietro i diritti civili, abbandonando la centralità del mondo del lavoro e dei lavori».

 Elly Schlein ha preso la tessera del Pd proprio nel quartiere della sua storica svolta. Può essere lei, una donna, la “nuova Bolognina”?

«Ho accolto con gioia questa scelta altamente simbolica in un locale in cui, accanto alla fotografia di Berlinguer c’è la bandiera rossa da me autografata. Tanto più che, in questi 30 anni di solitudine, ho dovuto organizzare da solo le celebrazioni ogni 10 anni di quell’evento. Il Pd non ha capito che senza la Svolta non ci sarebbe stato né l’Ulivo, né il Pd».

 Ma torniamo a Schlein.

«Siamo due generazioni diverse: io vengo dalla storia del Novecento, non ho mai abbandonato le basi fondamentali della storia della sinistra italiana, e sono abituato al ragionamento a tutto tondo, che cerca la sintesi.

Però io mi ricordo che Togliatti, quando ero segretario della Fgci, ci inviò un messaggio in cui diceva, salvando bonariamente le nostre intemperanze: “Ogni generazione arriva agli ideali del socialismo per vie profondamente diverse”.

 Ho incontrato Elly alla presentazione del mio libro Perché non basta dirsi democratici Ecosocialismo e giustizia sociale: c’era una grande sintonia intorno a un problema di fondo, cioè la ricerca di una sintesi alta tra questione sociale e ambientale, che è di grandissima attualità, perché sono i temi che vengono dalle nuove generazioni».

 Chi vincerà le primarie del Pd?

«Non lo so, ma una cosa è certa: Schlein, indipendentemente da una sua vittoria, mi sembra che stia iniziando a cambiare la base e potrebbe portare forze nuove, spalancare le porte e dimostrare di essere davvero contro le consorterie, dal momento che vuole ribaltare, come dice, la piramide. È un valore aggiunto».

Suo padre Adolfo fu l’amministratore delegato di Einaudi. Da ragazzino, nella vostra casa a Forte dei Marmi, avevate ospiti come Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Italo Calvino... Che estati erano?

«Di Pavese ricordo che una volta, discutendo a tavola, si lamentò, perché una rivista comunista aveva censurato un suo articolo. Io sbottai: “Anche i comunisti fanno queste cose?”. E lui mi disse: “Achille ricordati che, dappertutto, oltre al buono c’è sempre in agguato anche il cattivo”. Ma soprattutto ho ben impressa la cartolina che Cesare ci inviò appena rientrato a Torino: “Vi ringrazio dell’ospitalità e vi auguro una vita felice”. Una settimana dopo si tolse la vita: quelle parole, purtroppo, erano il segno che aveva già preso questa tragica decisione. Calvino era un simpatico giocherellone. Natalia Ginzburg passava interi pomeriggi con mia madre, parlando di cose di donne, con quella puntigliosità che poi ritroveremo in Lessico famigliare».

Un rimpianto?

«Una delle mie canzoni preferite è Non, je ne regrette rien di Édith Piaf. No, non rimpiango niente».

 La delusione più forte?

«Che sia stata contestata nei fatti la mia affermazione che, con la svolta, bisognava uscire, da sinistra, dalle rovine del cosiddetto socialismo reale. Il che ha condotto alla deriva pericolosa che tutti conosciamo».

 Un desiderio?

«Per la politica vorrei vedere rinascere una sinistra degna di questo nome. Diversa, perché diverso è il mondo che ci circonda, ma che sappia ricollegare passato, presente e futuro uscendo fuori dall’eterno presente. E poi vorrei tanto partire a vela, come i grandi navigatori, dal monumento alle Scoperte, situato a Belém sulla riva del fiume Tago in Portogallo, per giungere in America sotto la Statua della Libertà, come i nostri emigranti. Ma non ho più l’età».

Un aneddoto per ciascuno di questi personaggi: Berlinguer, Berlusconi, Craxi, Moro, Andreotti? E sul suo arcinemico D’Alema? Si aspettava che finisse a fare lobbista, anche per aziende che operano nella Difesa?

«Ho avuto tanti amici, ai quali dovrei chiedere il permesso per nominarli. E nessuno di questi personaggi merita di essere ridotto in un flash. Per quanto riguarda il lobbismo dei politici sono scandalizzato in generale. Perché indipendentemente dai risvolti giudiziari, ritengo inconcepibile che una persona che ha ottenuto notorietà e influenza grazie al voto di cittadini che li hanno votati, perché rappresentassero i loro interessi privati e questi valori, la usino invece per interessi privati e ultronei».

Immagino si riferisca a D’Alema...

(Occhetto rimane impassibile).

 Ha paura della morte?

«Francamente non mi fa piacere. Più della morte temo la malattia invalidante, e uno Stato che mi impedisce di decidere della mia vita».

 E dopo?

«Invidio quelli che sanno cosa c’è. Io la penso, aggiornando il suo pensiero, come Montaigne. Con la morte viene smagnetizzata la scheda della nostra memoria. Quindi non solo non ci siamo più noi, ma è come non ci fossimo mai stati: né noi, né l’universo che ci circonda. Ma l’assurdità dell’esistenza, di cui parlava Camus, ha un meraviglioso risvolto vitale che ci consente di essere, comunque, i piccoli mattoni di una vicenda tanto misteriosa quanto affascinante. Amo la vita».

A ottobre ha perso Malcolm, uno dei due suoi figli. Con che forza reagisce al dolore, alla morte, una persona come lei, che è già nei libri di storia?

«Ecco, la morte di cui ho sempre avuto paura è quella di un figlio. Purtroppo l’ho incontrata e mi ha detto: “Non è vero, quanto dicono gli antichi, che quando ci sei tu non ci sono io e quando ci sono io non ci sei più tu. Eccomi, sono qui davanti a te”. Ma per fortuna c’è ancora la mia memoria che tiene il mio Malcolm in vita. La sua gentilezza, la sua vitalità, le cavalcate su onde da paura che ci hanno fatto solcare i mari del nostro Mediterraneo, il suo starmi vicino, sempre un po’ più a sinistra ma con rispetto. E poi i suoi furori, in cui ribolliva la parte di sangue somalo, contro il razzismo, ma anche contro ogni forma di razzismo alla rovescia. E tante altre cose ancora».

Quando lei ha annunciato la morte di suo figlio, via Facebook, ha ricevuto centinaia di migliaia di messaggi di vicinanza.

«Sono rimasto colpito dal cordoglio generale. Ho pensato che questo è forse il dolore universale che unisce tutti: la morte di un figlio. Malcolm era volato da suo fratello. Dopo aver abbandonato il cinema, con tanti anni passati negli Usa, si era messo a studiare ingegneria. E aveva deciso di andare a cercare un nuovo lavoro alle Canarie. Là c’era già suo fratello Massimiliano, che con la sua compagna ha aperto una libreria che sta avendo successo. Malcolm era partito il giorno prima delle elezioni. È l’ultima volta che l’ho visto, ma sarà sempre con noi».

Radical burqa. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2023.

Bisogna stare davvero male con sé stessi, ma tanto male, per sentirsi disturbati da questa foto. Lei è Alessia Morani del Pd e ha postato un’innocente e persino elegante istantanea della sua cena di compleanno, senza supporre che avrebbe scatenato da parte di esponenti ed elettori (maschi) del suo partito. In sostanza i crivellatori da tastiera l’hanno accusata di essere sconveniente. Il vicepresidente di un circolo Pd di Madrid (la notizia è che il Pd ha ancora dei circoli, addirittura a Madrid) l’ha rimproverata per l’uso di foto «inappropriate». A parte che, se anche si fosse fatta un selfie in tanga maculato dentro una vasca piena di rapper ricoperti di ostriche, sarebbero pur sempre fatti suoi, ma di grazia si può sapere che cosa c’è di inappropriato in questa foto? Il filo di trucco, gli orecchini, il pizzo sul decolleté? Secondo certi esimi rappresentanti del progressismo internazionale, per risultare credibile una donna che fa politica dovrebbe indossare solo tute sformate, evitare il rimmel come il demonio e autoflagellarsi da mattina a sera con un bastone per lavare i pavimenti. Un altro gliel’ha proprio scritto: «Per dimostrarti competente, devi mortificare la tua femminilità». Capito? E poi sono gli stessi che firmano le petizioni a favore delle donne iraniane e che davano del bigotto a Ratzinger. Ora eccoli qui, a combattere eroicamente contro il rossetto. Una delle poche cose rosse che gli rimanevano.

Alessia Morani, quella foto postata sui social presa di mira dalle critiche del Pd: «Il mio è un partito maschilista». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

L’esponente del partito: «Era una foto sobria, per niente volgare o ammiccante. Non mi aspettavo il fuoco amico. Mi hanno scritto robe da medioevo. Al Pd sono maschilisti, a destra ci danno lezioni»

Alessia Morani, quella sua foto vestita elegante sui social ha scatenato una bufera, commenti pungenti anche cattivi...

«Si mettono sempre in conto gli odiatori. Ma ci sono stati attacchi del mio partito, non me li aspettavo. Era una foto sobria, composta, per niente ammiccante o volgare. Non capisco. Una foto che il mio compagno mi ha scattato per il mio compleanno, il 3 gennaio. Ero seduta e di profilo, completamente vestita. Ma anche fosse stata in costume che male ci sarebbe stato?».

Gli attacchi del suo partito, ovvero il Pd. Che dire?

«Intanto mi si rafforza la convinzione che il mio è un partito profondamente maschilista».

E poi?

«Il problema è che vogliono che si mortifichi la femminilità . Qualcuno me lo ha scritto: “dovresti fare come la Carfagna che per dimostrare la propria competenza mortifica la sua femminilità”. Roba da medioevo. Il peggiore di tutti è stato un certo Michele Testoni che ha innescato il dibattito».

Chi è Michele Testoni?

«Su Facebok dice di essere un insegnante e vice presidente del Comitato a Madrid del Pd e del Psoe. Ha scritto: “una deputata del mio partito dovrebbe evitare questo reiterato tipo di fotografie, decisamente inappropriate”. E lui non sa nemmeno che non sono più deputata. Il fuoco amico non lo immaginavo. A destra sono più avanti di noi, ci danno lezioni».

Dice?

«Basta guardare la premier Meloni. Non rinuncia alla sua femminilità e nessuno le dice niente. Tra l’altro adesso la trovo più carina di alcuni anni fa. È aumentata la consapevolezza che ha di se, evidentemente».

Vuole dire qualcosa ai maschi del suo partito?

«Di essere meno bacchettoni, di rispettare il ruolo delle donne che possono essere orgogliosamente femminili senza per questo essere etichettate. Per fortuna c’è stato anche qualche maschio del Pd che mi ha detto: fregatene. E un altro che rispondendo a Testoni ha scritto: “Se vuole le donne coperte deve andare in Iran”».

Di che partito era ?

«Non lo so».

(ANSA il 3 marzo 2023) - Il senatore del Pd Bruno Astorre è morto mentre si trovava in uno degli uffici del Senato a palazzo Cenci. Il portone dell'immobile è adesso chiuso. Sono appena entrati il segretario generale di Palazzo Madama accompagnato dal dirigente dell'ispettorato della Polizia di Stato presso il senato. Punto davanti al Palazzo si trova un’autopompa dei Vigili del fuoco.

 Bruno Astorre - nato a Roma l'11 marzo 1963 - avrebbe tra poco compiuto 60 anni. Senatore dal 2013 era segretario regionale del Pd nel Lazio dal dicembre del 2018. Era sposato con Francesca Sbardella, sindaca eletta con il Pd di Frascati.

Da ilcorrieredellacitta.com il 3 marzo 2023.

Si è suicidato lanciandosi dalla finestra. Una tragedia inattesa, che ha sconvolto i suoi colleghi e tutti coloro che oggi si trovavano nel palazzo del Senato di Piazza Sant’Eustachio. Vittima del disperato gesto Bruno Astorre. La tragedia è avvenuta nella tarda mattinata di oggi, venerdì 3 marzo, a Roma, a Palazzo Cenci-Maccarani, nei pressi del Pantheon.

 Sul posto sono immediatamente intervenuti i sanitari del 118 con un’ambulanza e un’auto medica, oltre ai carabinieri di via In Selci. Bruno Astorre, chi era Bruno Astorre, Senatore PD, avrebbe compiuto 60 anni tra pochi giorni, l’11 marzo. Già qualche giorno fa, secondo alcune indiscrezioni, avrebbe tentato il suicidio, senza però riuscirci. Astorre era stato ricoverato presso l’ospedale S. Andrea ed era stato da poco dimesso a causa di alcuni problemi di salute.

(ANSA il 3 marzo 2023) La Procura di Roma ha avviato, come atto dovuto, un fascicolo di indagine in relazione alla morte del senatore Bruno Astorre avvenuta oggi negli uffici del Senato a Palazzo Cenci. Il procedimento, come avviene in questi casi, è rubricato come istigazione al suicidio.

 È previsto un sopralluogo a Palazzo Cenci da parte del pm di turno. Secondo quanto si apprende dopo il sopralluogo la Procura, esaminate le risultanze dell'atto istruttorio, valuterà se disporre l'autopsia. L'esame autoptico viene comunque preceduto da una prima verifica sul posto del medico legale.

Morto Bruno Astorre, l'ipotesi è di suicidio. Politica sotto choc. Il Tempo il 03 marzo 2023. Il mondo della politica è sconvolto dalla notizia della morte del senatore del Partito democratico Bruno Astorre, segretario regionale del partito nel Lazio, avvenuta questa mattina mentre si trovava negli uffici di palazzo Cenci, sede distaccata del Senato accanto a palazzo Madama. L'ipotesi che si sia tolto la vita sembra confermata dalla procura di Roma, che apre un fascicolo di indagine a carico di ignoti con il reato ipotizzato di istigazione al suicidio. Un atto dovuto che consente di dare subito il via agli accertamenti su quanto accaduto quando erano da poco passate le 13,30. Il portone dell'edificio viene infatti immediatamente chiuso e sul posto giungono carabinieri, vigili del fuoco e la polizia scientifica per i rilievi del caso.

Astorre avrebbe compiuto 60 anni tra una settimana, l'11 marzo. Eletto nel 2018 segretario regionale del Pd Lazio, alle elezioni politiche anticipate dello scorso 25 settembre era stato confermato al Senato, per la terza legislatura consecutiva. La sua carriera politica inizia nella Democrazia Cristiana, poi il passaggio nella Margherita e infine nel Pd, del quale diventa anche dirigente nazionale. Consigliere provinciale di Roma, poi consigliere nel Lazio, Astorre ricopre anche l'incarico di assessore regionale ai Lavori Pubblici nella giunta guidata da Piero Marrazzo e di presidente del Consiglio regionale. Entra per la prima volta in Senato nel 2013 e poi viene confermato nelle due legislature successive. Nel frattempo, nel 2018, diventa segretario regionale del Pd Lazio. Nato a Roma, da sempre viveva ai Castelli romani e nel 2021 aveva sposato Francesca Sbardella, sua compagna di partito e sindaca di Frascati.

Quest'ultima arriva a palazzo Cenci nel pomeriggio. Entrano per salutarla tanti compagni di partito accorsi all'esterno dell'edificio quando si era appena diffusa la notizia: tra questi l'ex segretario del Pd ed ex governatore del Lazio Nicola Zingaretti, i parlamentari Beatrice Lorenzin, Andrea Casu, Cecilia D'Elia, Michela Di Biase, la capogruppo al Senato Simona Malpezzi. Sono tanti gli abbracci e gli occhi lucidi. "Siamo sconvolti e profondamente addolorati", dichiara la segretaria dem Elly Schlein, assicurando che "tutta la comunità democratica si stringe attorno alla moglie e alla sua famiglia, agli amici e a tutti i suoi colleghi". Rimane "attonito alla tragica notizia" l'ex leader del partito Enrico Letta, "non riesco a trovare parole di fronte ad un simile dramma". "Sconvolto" si dice anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, che parla di "una persona intelligente e generosa che ha dato moltissimo al nostro territorio".

Ma è tutto il mondo della politica che resta "sgomento". Usa questa parola il presidente del Senato Ignazio La Russa per commentare "la terribile notizia", che lo raggiunge non appena atterrato in Israele, dove si trova per una visita ufficiale. La seconda carica dello Stato sente subito i magistrati titolari dell'indagine offrendo la massima disponibilità di Palazzo Madama allo svolgimento dei dovuti accertamenti, poi telefona alla capogruppo dem Malpezzi per esprimerle le condoglianze. Infine dispone che tutte le bandiere sui palazzi del Senato vengano disposte a mezz'asta. "Sono profondamente turbata dalla notizia della scomparsa di Bruno Astorre", commenta la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, "un avversario appassionato e leale, una persona perbene".

Cordoglio unanime arriva anche da tutti gli altri leader. L'ex segretario del Pd e leader di Italia Viva, saluta Astorre come "un signor professionista della politica, fiero di esserlo", un "uomo vero, anche nei confronti più accesi. Mi spiace di non aver capito niente prima della tragedia". Il presidente del M5S Giuseppe Conte definisce il senatore dem "un uomo la cui storia politica rappresenta quell'inscindibile e importante legame tra istituzioni e territorio. Una perdita dolorosa".

Il segretario del terzo polo Carlo Calenda parla di "un dolore che lascia senza parole. Nel nostro rapporto non sono mancati scontri, anche duri, legati alla politica, ma non è mai venuta meno una simpatia reciproca". Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini esprime "le più sentite condoglianze alla sua famiglia e alla sua comunità politica".

Un lungo ricordo di Astorre viene dedicato ad Astorre dallo storico esponente del Pd Goffredo Bettini, che esprime il "rimpianto di non aver saputo aiutare non solo un collega di partito ma un amico, un compagno di lotta, una persona perbene sempre pronta ad aiutarmi e a sostenermi". Il suo corpo lascia palazzo Cenci poco dopo le 17, a bordo di un mezzo della polizia mortuaria.

Il senatore Bruno Astorre (Pd)si è tolto la vita al Senato. I colleghi sconvolti. Bandiere a mezz’asta. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2023

La procura di Roma ha aperto un fascicolo per gli accertamenti necessari, come atto dovuto come avviene in questi casi, con l'ipotesi di reato di istigazione al suicidio. La polizia scientifica ha effettuato tutti i rilievi del caso all'interno del palazzo

Il senatore del Pd Bruno Astorre  è morto togliendosi la vita mentre si trovava Palazzo Cenci in uno dei palazzi uffici del Senato, avrebbe compiuto 60 anni tra pochi giorni. La sua morte ha lasciato attoniti i colleghi del senatore e gli staff del gruppo del Pd. Il segretario generale di Palazzo Madama è entrato nello stabile accompagnato dal dirigente dell’ispettorato della Polizia di Stato presso il Senato.  Il presidente del Senato, Ignazio La Russa che si trovava in viaggio fuori Roma, ha espresso “grande sgomento” e ha disposto che le bandiere del Senato siano esposte a mezz’asta.

Sposato dal 2021 con la dem Francesca Sbardella sindaca di Frascati, aveva appena finito di festeggiare la vittoria della neo segretaria Elly Schlein che Astorre esponente di primo piano di Area Dem, ha sostenuto: “Congratulazioni e buon lavoro a Elly Schlein, prima donna alla guida del Pd. Ora tutti a lavoro, insieme, per costruire una solida alternativa a questa destra di Governo“, aveva scritto su Twitter il 27 febbraio. Sullo stesso social aveva scelto come immagine di copertina una frase di Winston Churchill: “Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale. Ciò che conta è il coraggio di andare avanti“.

La procura di Roma ha aperto un fascicolo per gli accertamenti necessari, come atto dovuto come avviene in questi casi, con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. La polizia scientifica ha effettuato tutti i rilievi del caso all’interno del palazzo. Il portone di Palazzo Cenci è stato chiuso, e l’ingresso presidiato da due carabinieri.

Il deputato Nicola Zingaretti è stato tra i primi ad arrivare davanti a palazzo Cenci, limitandosi a dire “Ci sono brutte notizie“. L’ ex Governatore della Regione Lazio, aveva a lungo potuto contato sul sostegno politico di Bruno Astorre, senatore e guida del Pd del Lazio, ed adesso piange la sua scomparsa.

La notizia della morte di Astorre ha fatto in fretta il giro delle istituzioni, arrivando anche in Campidoglio: “Sono sconvolto dalla notizia della scomparsa del senatore Bruno Astorre – dice il sindaco Roberto Gualtieri – una persona intelligente e generosa che ha dato moltissimo al nostro territorio. Mi stringo al dolore dei suoi cari e di tutta la comunità democratica che gli voleva bene“.

A seguire, il cordoglio dei colleghi di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, del Movimento 5 Stelle, del Terzo Polo e della Sinistra. Non mancano nemmeno i ricordi dei sindacalisti e di tutti i politici locali che Roberto Astorre aveva cresciuto nel Lazio nel corso della sua vita ed impegno politico.

Poche ore e i commenti sui social si susseguono.  “Ciao Bruno. Sei stato un signor professionista della politica, fiero di esserlo. Nei rapporti umani ‘sorridevi e sapevi sorridere’. Sei stato un uomo vero, anche nei confronti più accesi. Mi spiace di non aver capito niente prima della tragedia. Una preghiera per i tuoi. Riposa in pace, amico di mille battaglie, riposa in pace” scrive su Twitter il leader di IV Matteo Renzi.

Se ne è andato nel modo più triste, solitario, doloroso e sconcertante. Bruno Astorre è stato fino all’ultimo un dirigente importante del partito di Roma e del Lazio. Direi persino, per molti aspetti, decisivo” dice in un lungo post su Facebook Goffredo Bettini del Pd. “Senatore, segretario regionale, personalità radicata e influente – aggiunge – saldissimo punto di riferimento soprattutto nella provincia di Roma e per tanti amministratori e sindaci”. “Aveva un sentimento di inadeguatezza – continua -. Avvertiva una forma di depressione nascosta. Superò quella fase. Ma so per esperienza personale che le faglie dell’anima si possono riassestare, ma mai rimarginare completamente. Sono ferite che continuano a vivere, a produrre, a tormentare. Non si cicatrizzano come la pelle del corpo. Non si acquietano“.

Piango con sincera e profonda commozione la drammatica scomparsa dell’amico e senatore Bruno Astorre, politico di grande impegno che, nei molti e prestigiosi ruoli istituzionali ricoperti, ha saputo sempre essere attento interprete delle istanze del territorio” così il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.

La notizia della morte di Bruno Astorre è un dolore che lascia senza parole. Nel nostro rapporto non sono mancati scontri, anche duri, legati alla politica, ma non è mai venuta meno una simpatia reciproca. Il mio pensiero e le mie condoglianze vanno alla famiglia e a tutto il Pd” scrive su Twitter il leader di Azione, Carlo Calenda.

Ciao Bruno, amico di una vita. Ci hai insegnato cosa vuol dire amare la politica, amare la propria terra, voler bene alle persone. Ogni giorno ci hai salutato con la gioia negli occhi ridenti e noi ti ricorderemo per sempre cosi”, così Dario Franceschini su Twitter.

Profondo dolore ed enorme tristezza per la scomparsa del senatore Bruno Astorre. Un amico e un avversario politico leale, che ha interpretato in questi anni le istanze più profonde del territorio del Lazio”, ha dichiarato il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida. Redazione CdG 1947

Morto Bruno Astorre, senatore del Pd: l'ipotesi è di suicidio, si trovava a palazzo Cenci negli uffici del Senato. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

L'ipotesi è quella del suicidio. Sul posto il segretario generale di Palazzo Madama accompagnato dal dirigente dell'ispettorato della Polizia presso il Senato

Tragedia negli uffici del Senato a Palazzo Cenci, nel centro di Roma: venerdì mattina, alle 12.50, il senatore del Pd Bruno Astorre è morto secondo le prime informazioni dopo essere caduto da una finestra al quarto piano dell'edificio. Inutili purtroppo i soccorsi del personale medico di un'ambulanza dell'Ares 118 fatta intervenire sul posto dagli addetti alla sede distaccata di Palazzo Madama. Fra le ipotesi al momento al vaglio della polizia c'è quella di un gesto volontario. Il portone dello storico stabile a due passi dal ministero della Giustizia è stato subito chiuso. I vigili del fuoco sono stati chiamati insieme con la Scientifica che sta eseguendo un sopralluogo, al quale partecipa anche il pm di turno: la Procura ha aperto, come atto dovuto, un fascicolo per istigazione al suicidio.

Davanti a Palazzo Cenci sono giunti il segretario generale di Palazzo Madama accompagnato dal dirigente dell'ispettorato della polizia di Stato presso il Senato. Fra i primi ad accorrere, insieme con molti parlamentari, l'ex segretario del Pd, Nicola Zingaretti e la senatrice dem Cecilia D'Elia. La moglie di Astorre, Francesca Sbardella, sindaca di Frascati, è stata accompagnata nell'edificio dall'ex vice presidente della Regione Lazio Daniele Leodori (Pd). La segretaria del Pd, Elly Schlein, a nome del partito: «Siamo sconvolti e profondamente addolorati dalla tragica notizia della morte del Senatore Bruno Astorre. Tutta la comunità democratica si stringe attorno alla moglie e alla sua famiglia, agli amici e a tutti i suoi colleghi». E la premier Giorgia Meloni si è detta «profondamente turbata dalla notizia della scomparsa di Bruno Astorre»: «Un avversario appassionato e leale, una persona perbene. A nome mio e del Governo, mi stringo al dolore della moglie, della famiglia e della sua comunità politica». Il presidente del Senato, Ignazio La Russa ha espresso «grande sgomento, è una notizia terribile» e ha chiesto che le bandiere del Senato siano esposte a mezz'asta.

Cordoglio anche dal ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi: «Piango con sincera e profonda commozione la drammatica scomparsa dell’amico e senatore Bruno Astorre - ha detto Piantedosi - Un saldo punto di riferimento per la comunità del Lazio, un Uomo delle Istituzioni del quale, durante il mio incarico da Prefetto di Roma, ho avuto modo di apprezzare, in occasioni di numerose proficue collaborazioni, le grandi qualità umane, i valori, la competenza e la sensibilità. Giunga il mio cordoglio alla moglie Francesca e a tutta la sua famiglia».

Pd, morto il senatore Bruno Astorre in uffici Palazzo Cenci. Morto Bruno Astorre, il senatore Pd si è tolto la vita a Palazzo Cenci. I colleghi: "Sconvolti e profondamente addolorati". Lorenzo D'Albergo su La Repubblica il 3 Marzo 2023.

Bandiere a mezz'asta a Palazzo Madama. Avrebbe compiuto 60 anni l'11 marzo. Schlein: "Sconvolti e profondamente addolorati". La Russa dispone bandiere a mezz'asta

Il senatore del Pd Bruno Astorre è morto: si è tolto la vita mentre si trovava in uno degli uffici del Senato. Nato l'11 marzo del 1963 avrebbe compiuto 60 anni tra pochi giorni. Il decesso è avvenuto mentre l'esponente dem si trovava a Palazzo Cenci. Attoniti i colleghi del senatore e gli staff del gruppo al Pd.

La procura di Roma ha aperto un fascicolo come atto dovuto per gli accertamenti necessari, come avviene in questi casi, con l'ipotesi di reato di istigazione al suicidio. La scientifica sta effettuando i rilievi all'interno del palazzo. Il portone di Palazzo Cenci resta chiuso, davanti ci sono due carabinieri.

Il presidente del Senato, Ignazio La Russa ha espresso "grande sgomento" e ha chiesto che le bandiere del Senato siano esposte a mezz'asta.

Tra i primi ad arrivare davanti a palazzo Cenci, il deputato Nicola Zingaretti. "Ci sono brutte notizie", si limita a dire l'onorevole. Governatore uscente del Lazio, l'ex segretario dem in Regione aveva a lungo contato sul supporto di Bruno Astorre, senatore e guida del Pd del Lazio, e ora ne piange la scomparsa.

La notizia ha fatto in fretta il giro delle istituzioni, arrivando anche in Campidoglio: "Sono sconvolto dalla notizia della scomparsa del senatore Bruno Astorre - dice il sindaco Roberto Gualtieri - una persona intelligente e generosa che ha dato moltissimo al nostro territorio. Mi stringo al dolore dei suoi cari e di tutta la comunità democratica che gli voleva bene".

Il segretario generale di Palazzo Madama è entrato accompagnato dal dirigente dell'ispettorato della Polizia di Stato presso il Senato. 

"Siamo sconvolti e profondamente addolorati dalla tragica notizia. Tutta la comunità democratica si stringe attorno alla moglie e alla sua famiglia, agli amici e a tutti i suoi colleghi", dichiara la segretaria del Pd, Elly Schlein.

A seguire, il cordoglio dei colleghi di Fratelli d'Italia, Lega e Forza Italia, del Movimento 5 Stelle, del Terzo Polo e della Sinistra. Ma non mancano nemmeno i ricordi dei sindacalisti e di tutti i politici locali che Astorre aveva cresciuto nel Lazio.

Così, tornando al Pd, l'ex senatrice Monica Cirinnà: "Resto senza parole di fronte alla scomparsa di Bruno Astorre, collega senatore, uomo appassionato, innamorato della politica e del nostro Lazio. Nonostante avessimo ogni tanto posizioni diverse è stato sempre sincero e leale. Il mio abbraccio a sua moglie e alla sua famiglia".

"Rimango attonito alla tragica notizia della morte di Bruno Astorre. Non riesco a trovare parole di fronte ad un simile dramma. C'è il silenzio. C'è la preghiera. L'abbraccio ai suoi cari", scrive Enrico Letta sui social network.

Poche ore e i commenti sui social si susseguono.  "Ciao Bruno. Sei stato un signor professionista della politica, fiero di esserlo. Nei rapporti umani 'sorridevi e sapevi sorridere'. Sei stato un uomo vero, anche nei confronti più accesi. Mi spiace di non aver capito niente prima della tragedia. Una preghiera per i tuoi. Riposa in pace, amico di mille battaglie, riposa in pace" scrive su Twitter il leader di IV Matteo Renzi.

"Se ne è andato nel modo più triste, solitario, doloroso e sconcertante. Bruno Astorre è stato fino all'ultimo un dirigente importante del partito di Roma e del Lazio. Direi persino, per molti aspetti, decisivo" dice in un lungo post su Facebook Goffredo Bettini del Pd. "Senatore, segretario regionale, personalità radicata e influente - aggiunge - saldissimo punto di riferimento soprattutto nella provincia di Roma e per tanti amministratori e sindaci". "Aveva un sentimento di inadeguatezza - continua -. Avvertiva una forma di depressione nascosta. Superò quella fase. Ma so per esperienza personale che le faglie dell'anima si possono riassestare, ma mai rimarginare completamente. Sono ferite che continuano a vivere, a produrre, a tormentare. Non si cicatrizzano come la pelle del corpo. Non si acquietano".

"Piango con sincera e profonda commozione la drammatica scomparsa dell'amico e senatore Bruno Astorre, politico di grande impegno che, nei molti e prestigiosi ruoli istituzionali ricoperti, ha saputo sempre essere attento interprete delle istanze del territorio" così il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi.

"La notizia della morte di Bruno Astorre è un dolore che lascia senza parole. Nel nostro rapporto non sono mancati scontri, anche duri, legati alla politica, ma non è mai venuta meno una simpatia reciproca. Il mio pensiero e le mie condoglianze vanno alla famiglia e a tutto il Pd" scrive su Twitter il leader di Azione, Carlo Calenda.

"Sono sconvolto. Mi aveva chiamato telefonicamente pochissimo tempo fa e niente lasciava presagire questo epilogo. Una domanda mi attanaglia la mente: potevamo fare qualcosa per aiutarlo? Che la terra ti sia lieve Bruno" scrive su Twitter Alessio D'Amato.

"Profondo dolore ed enorme tristezza per la scomparsa del senatore Bruno Astorre. Un amico e un avversario politico leale, che ha interpretato in questi anni le istanze più profonde del territorio del Lazio", dichiara il ministro dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida.

"Ci lascia una persona appassionata. A nome del gruppo della Camera del Movimento 5 Stelle esprimo profonde condoglianze e vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari", afferma Francesco Silvestri, capogruppo alla Camera M5S.

"Ciao Bruno, amico di una vita. Ci hai insegnato cosa vuol dire amare la politica, amare la propria terra, voler bene alle persone. Ogni giorno ci hai salutato con la gioia negli occhi ridenti e noi ti ricorderemo per sempre cosi", così Dario Franceschini su Twitter.

Chi era Bruno Astorre, senatore e infaticabile segretario del Pd del Lazio. Marina de Ghantuz Cubbe su La Repubblica il 3 Marzo 2023.

Sessant'anni il prossimo 11 marzo, era sposato con la sindaca di Frascati Francesca Sbardella. Gli inizi nella Dc, poi Margherita, Ulivo, l'incarico di assessore ai Lavori pubblici

La politica piange la morte del senatore Bruno Astorre. Instancabile segretario del Pd Lazio sin dal 2018, dopo l'esperienza in Regione è approdato al Senato nel 2013 per poi essere rieletto anche all'ultima tornata elettorale lo scorso settembre.

L'ultimo tweet di Astorre sulla vittoria di Elly Schlein

Sposato dal 2021 con la sindaca di Frascati, la dem Francesca Sbardella, aveva appena finito di festeggiare la vittoria della neo segretaria Elly Schlein che Astorre, esponente di primo piano di Area Dem, ha sostenuto: "Congratulazioni e buon lavoro a Elly Schlein, prima donna alla guida del Pd.

Addio a Bruno Astorre, il Pd attonito per la scomparsa improvvisa. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 03 marzo 2023

È stato ritrovato in tarda mattinata nel suo studio al Senato, segretario del Pd regionale, politico di razza, profondo conoscitore della sua terra. Il suo partito è sotto shock, la solidarietà è bipartisan. Giorgia Meloni: «Un avversario appassionato e leale, una persona perbene». Il dolore di Dario Franceschini: «Ci hai insegnato cosa vuol dire amare la politica. Con la gioia negli occhi»

«Attonito». È l’ex segretario Enrico Letta a esprimere per primo lo sgomento che ieri ha paralizzato il Pd e tutta la politica. Se ne va Bruno Astorre, segretario del partito romano, senatore da dieci anni, politico di grande esperienza. 

È proprio in senato, a palazzo Palazzo Cenci-Maccarani, a piazza Sant’Eustachio dove aveva il suo studio, che Astorre viene ritrovato nella tarda mattinata. Da subito i siti in rete parlano di suicidio, la magistratura ha aperto un fascicolo, ma si tratta di un atto dovuto.

Avrebbe compiuto 60 anni fra pochi giorni. Da tutti viene ricordato come un politico appassionato e tenace. Era stato un giovane Dc della nidiata di Severino Lavagnini e aveva avuto un cursus honorum da tutto politico: consigliere comunale, poi regionale della Margherita e di nuovo dell’Ulivo, assessore e poi senatore dal 2013.

Il più alto in grado della corrente Areadem nel Lazio, era stato fra gli ultimi a rassegnarsi alla fine dell’alleanza con i Cinque stelle che prefigurava la sconfitta nel Lazio, governata da dieci anni. Ma Daniele Leodori, suo amico fraterno, già vice di Zingaretti e da ultimo reggente della regione, era poi risultato di gran lunga il più votato del Pd.

Anche nell’ultima battaglia politica, quella delle primarie, ha seguito Dario Franceschini nel sostegno a Elly Schlein. Altra affermazione smagliante. Uno degli ultimi tweet, il 27 febbraio, era dedicato a lei: «Congratulazioni e buon lavoro a Elly Schlein, prima donna alla guida del Pd. Ora tutti a lavoro, insieme, per costruire una solida alternativa a questa destra di governo». 

Ha lavorato fino all’ultimo, e nella sua agenda c’erano appuntamenti per la prossima settimana. «Siamo sconvolti e profondamente addolorati», è il messaggio della segretaria nome del partito. Per tutto il pomeriggio sono arrivati messaggi di cordoglio bipartisan.

Affettuosi anche quelli che provengono da destra, da Francesco Storace a Ignazio Larussa, il suo presidente di Palazzo Madama. E Giorgia Meloni che ne parla come di «un avversario appassionato e leale, una persona perbene». E se ne capisce il motivo: Astorre era un uomo combattivo ma stimatissimo, un maestro, un profondo conoscitore della regione; rude a volte nei modi, ma di una scuola politica di altri tempi.

Lascia la moglie, Francesca Sbardella, sindaca di Frascati, compagna di vita e di impegno. «Ciao Bruno, amico di una vita», lo ricorda Franceschini, «Ci hai insegnato cosa vuol dire amare la politica, amare la propria terra, voler bene alle persone. Ogni giorno ci hai salutato con la gioia negli occhi ridenti e noi ti ricorderemo per sempre così».

Anche i cronisti dovranno imparare a fare a meno di un politico ruvido ma raffinato e sorridente, capace di diffidenze ma anche di una cordialità contagiosa, uno capace di smentire le notizie che riteneva sbagliate con una gran risata. 

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Morte al Senato: suicida il pd Astorre. Aperta un'inchiesta Il dolore bipartisan dei politici sotto choc. Il senatore, 59 anni, s'è lanciato dalla finestra del suo ufficio a palazzo Cenci. Qualche ora prima l'ultima intervista: "Sereno come sempre". C'è chi giura: "Tempo fa ci aveva già provato". Il messaggio della Meloni: "Turbata, era leale". Michel Dessì il 3 marzo 2023 su Il Giornale.

Roma. È l'ora di pranzo, i cellulari dei senatori sembrano impazziti. Il messaggio che arriva è spiazzante: «Si è suicidato Bruno Astorre!». Una notizia di quelle che scuote i palazzi della politica. Vuoti come ogni venerdì a quell'ora, intorno alle 13. Ed è proprio dentro uno di quei palazzi che il senatore del Partito democratico si sarebbe tolto la vita lanciandosi dalla finestra del suo ufficio in Senato, a Palazzo Cenci. La sua seconda casa. La procura di Roma ha aperto un fascicolo, si indaga per istigazione al suicidio ma tra i commessi del Palazzo c'è chi giura che poco tempo fa ci aveva già provato. Aveva tentato di farla finita. Invano. Fino a ieri.

Silenzio, dolore. Commozione, come quella sul volto di Nicola Zingaretti, uno dei primi ad arrivare sul posto insieme ad altri colleghi del Pd. È lì che i dem hanno gli uffici parlamentari. È lì che Bruno Astorre dal 2013 trascorrere gran parte del suo tempo, delle sue giornate. Come ieri, l'ultima. Prima di passare dall'ufficio un'intervista in diretta a Officina Stampa Bar, una rubrica curata dalla giornalista Chiara Rai, che lo intervista per più di 20 minuti. Lui risponde, sorride, parla dei temi caldi del giorno senza sottrarsi. Dalle primarie del Pd, all'inchiesta sul Covid. «Sono incredula, non me ne capacito. Poche ore prima eravamo insieme, seduti uno accanto all'altro - ci dice Chiara Rai con la voce rotta dal dispiacere -. Era sereno come sempre, lo conosco da anni. Nessun cenno di debolezza, anzi. Era solo un po' giù per l'influenza, tutto qui. Finita l'intervista mi ha detto vado al lavoro e mi ha salutata».

Camicia azzurra, giacca blu, al cameriere che lo serve durante la diretta chiede un tè semplice. Sono queste le ultime ore di vita di Bruno Astorre. Una vita per la politica. La stessa che si stringe attorno alla sua famiglia per il dolore. Dagli Emirati Arabi il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni non fa mancare la sua vicinanza e si dice «profondamente turbata dalla notizia» definendolo «un avversario appassionato e leale». E a nome del governo si stringe al dolore «della moglie e della sua comunità politica». Le note di cordoglio sono tante. Da destra a sinistra. Matteo Salvini si dice «senza parole». Matteo Renzi lo ricorda con un lungo messaggio: «Nei rapporti umani sorridevi e sapevi sorridere. Mi spiace di non aver capito niente prima della tragedia». Rimpianto per non averlo potuto aiutare, lo stesso provato dal dem Goffredo Bettini che sottolinea come se ne sia andato «nel modo più triste, solitario, doloroso e sconcertante». Giuseppe Conte parla di «un uomo la cui storia politica rappresenta quell'inscindibile e importante legame tra istituzioni e territorio». Forza Italia si affida al suo capogruppo al Senato, Licia Ronzulli, che lo ricorda come «un politico appassionato, con un alto senso delle istituzioni, che ha sempre lottato per le sue idee e la sua gente». Carlo Calenda lo conosceva bene e ammette: «nel nostro rapporto non sono mancati scontri, ma non è mai venuta meno una simpatia reciproca». Sconvolta la segretaria del Pd Elly Schlein «tutta la comunità democratica si stringe attorno alla moglie e ai suoi colleghi».

Ma non solo note, anche a Palazzo Cenci per tutto il pomeriggio è un viavai. In Piazza Sant'Eustachio il silenzio è assordante. Surreale. Gli occhi dei presenti sono lucidi quando il furgone della polizia mortuaria porta via il corpo senza vita del senatore. In piazza la moglie Francesca Sbardella e gli amici, i compagni di una vita. Ora resta solo il dolore. E le bandiere a mezz'asta del Senato mosse dal vento. Gelido.

Uomo di partito. Quel calvario di otto anni da innocente. Dc, poi Margherita e dem. Carriera in Regione, Astorre fu coinvolto nell'inchiesta "spese pazze": assolto. Francesco Boezi il 4 marzo 2023 su Il Giornale.

Il senatore Bruno Astorre era un politico vero, uno di quelli che hanno assecondato una vocazione naturale e non un interesse. Tanti giornalisti, in questi anni, si sono sentiti rispondere dai dirigenti del Pd «chiedete a Bruno». Perché le decisioni finali nel Lazio - come tutto il sottobosco dem riconosceva senza tentennamenti - spettavano sempre a lui. Nato a Roma nel 1963 ma residente a Frascati, Astorre era un simbolo del centrismo-democratico. Cresciuto democristiano e popolare, Astorre ha gestito da protagonista tutto il percorso della Margherita ed è poi confluito nel Pd. La Pisana, la sede del Consiglio regionale del Lazio, è stato il suo palcoscenico principale. Autentico nativo delle istituzioni, Astorre è stato anche, se non soprattutto, uomo di partito. Fine conoscitore di ogni meccanismo, peso e contrappeso interno, era diventato segretario regionale dei dem nel 2013. Le istituzioni, dicevamo. Dopo una lunga serie di mandati nel Lazio, con un'esperienza da presidente del Consiglio e una da assessore ai Lavori pubblici, il dem, nel 2013, era stato eletto in Senato per la prima volta. E Palazzo Madama era il luogo che aveva scelto pure per questa legislatura. Un salto rispetto alle pure logiche territoriali, certo, e una decisione complessa, se non altro per via dell'esteso radicamento consensuale da tutelare.

Una vicenda ha forse segnato la vita di «Bruno» più di altre: il fatto di essere stato indagato per l'inchiesta denominata «spese pazze», per cui era stato accusato di truffa. Otto anni e più: tanto è durato il calvario, prima di una sentenza di assoluzione scolpita su pietra. Quella che risale al febbraio del 2021 e per cui «il fatto non sussiste». Egli stesso aveva spiegato la natura dell'inchiesta: «Mi contestano alcune assunzioni al consiglio regionale -aveva raccontato in un'intervista al Corriere della Sera - ma è la legge a prevedere che si scelgano i propri collaboratori su base esclusivamente fiduciaria. Rifarei daccapo quelle assunzioni». Magari proprio una di quelle «ferite dell'anima» che non erano ancora «rimarginate» citate da Goffredo Bettini nel suo lungo post di commiato. Il 3 febbraio del 2021, verso le 11 del mattino, l'esponente dem gridava via social la sua innocenza: «Assolto perché il fatto non sussiste». «Una sentenza - continuava - che arriva dopo quasi otto anni tra indagini e processo, e che dimostra pienamente la correttezza del mio operato come vice presidente del Consiglio Regionale del Lazio, tra il 2010 e il 2013». E ancora: «Un ringraziamento va all'avvocato Alicia Mejía Fritsch per le sue ponderate scelte processuali, nonché a tutte quelle persone che in questi anni non mi hanno mai fatto mancare il loro pieno sostegno».

L'ultima battaglia era stata quella per il nuovo corso della segreteria, dopo la batosta delle elezioni politiche. Lui, post-democristiano, ha sostenuto con convinzione (come del resto il suo riferimento Dario Franceschini) Elly Schlein. «Congratulazioni e buon lavoro a Elly Schlein, prima donna alla guida del Pd. Ora tutti a lavoro, insieme, per costruire una solida alternativa a questa destra di governo», aveva cinguettato via Twitter, una volta appreso il risultato, che era stato favorevole alla sua corrente (Area dem) ma soprattutto alla sua strategia.

Bruno Astorre si era sposato poco tempo fa con Francesca Sbardella, primo cittadino di Frascati. Lascia anche un figlio piccolo.

L'altra faccia dei "super privilegiati". Ma va'? Anche i senatori si suicidano? Paolo Guzzanti il 4 marzo 2023 su Il Giornale.

Ma va'? Anche i senatori si suicidano? Loro che nel famoso immaginario collettivo hanno tutto: quindicimila euro al mese per puro sbafo, i massaggi, le geishe, treni gratis per se stessi e famiglia, senza mai fare un cavolo, senza mai andare in aula, con noi che siamo il loro datore di lavoro, ed ecco che uno di loro si butta dalla finestra, povero cristo, per angosce sue. Ma che angosce dovrebbe avere un «senatore da abolire» per buttarsi dalla finestra? Sorpresa: un angoscioso suicidio rivelerebbe che un membro del Senato era un essere umano, piegato dal tormento di non avere altra via di salvezza che la finestra di un palazzo romano. Io stesso lo sono stato per sette anni e ricordo bene che cosa significasse il killeraggio contro le istituzioni repubblicane: oggi negli Stati Uniti stanno ancora dando la caccia a tutti coloro che il 6 gennaio del 2021 invasero il Parlamento di Washington a Capitol Hill con l'idea di mettere a soqquadro le istituzioni. Da noi invece da anni era partita la caccia al parlamentare che veniva servito al pubblico, cioè agli elettori, come un indubbio mascalzone, non importa di che partito fosse, un infedele impiegato che dovrebbe timbrare il cartellino ed eseguire gli ordini dei suoi capibastone. Ci avevano lavorato tutti anche perché l'Italia doveva dimostrare al mondo di essere tornata al fango dei Paesi civili dando persino, pensate, per la prima volta il voto alle donne. Quindi quella democrazia delle istituzioni che era nata con un primo presidente monarchico come Enrico De Nicola, fu considerata per decenni un tempio sacro, anche se non mancavano scandali e scandaletti come in tutte le democrazie, ma quando nessuno osava ancora attaccare con disprezzo l'istituzione. Nemmeno i neofascisti del Msi che si conformarono alle regole pur essendo tenuti alla larga, e nessun altro dei partiti grandi e piccoli. O meglio: qualcuno ci provò: fu il fondatore dell'Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini, che poi si fece anche partito che aveva come simbolo un cittadino inerme schiacciato sotto la pressa dello Stato. Poi arrivò l'operazione giudiziaria Clean Hands, ovvero Mani Pulite con cui fu simulata una rivoluzione: tutti i partiti sotto inchiesta con molti suicidi di innocenti seguita da una sollevazione di magistrati che a telecamere accese dichiararono di voler riempire il vuoto della politica. L'entrata in scena di Berlusconi con un colpo di genio ed uno di prestigio che rovesciò le previsioni che dovevano sostituire con la classe dirigente comunista quella dei vecchi partiti, scatenò la seconda guerra fredda italiana mai chiusa. Tant'è vero che la morte di un pover'uomo che non ce l'ha fatta e benché senatore si è dato la morte, è una notizia, perché mai? Perché fa notizia? Soltanto perché essendo un senatore non è considerato più un cittadino di pieno, ma un übermensch, un sotto uomo infetto. Noi chiniamo con pena la testa davanti alla tragedia di quest'uomo che si è tolto la vita ma al tempo stesso ci sentiamo costretti per rispetto dei lettori - a spiegare che un tale dramma può accadere persino a un Senatore.

Bruno Astorre, è suicidio? "Aspettami fuori", retroscena choc. Libero Quotidiano il 03 marzo 2023

Avrebbe detto all'assistente di attenderlo fuori. Poi Bruno Astorre, il senatore del Pd e segretario nel Lazio, intorno alle 12.30 di questa mattina è salito al quarto piano di Palazzo Cenci, a due passi da Palazzo Madama, dove ci sono gli studi di alcuni senatori, servizi e uffici dell'amministrazione. E dalle finestre che danno sul cortile interno si sarebbe lasciato cadere. Una tragedia, su cui è al lavoro la magistratura, che ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di reato di istigazione al suicidio, come previsto in casi come questi, che ha lasciato senza parole.

Qualcuno parla di un malessere che "non siamo riusciti a capire", come l'ex premier Matteo Renzi. Goffredo Bettini ammette il "rimpianto di non aver saputo aiutare non solo un collega di partito ma un amico". Tra i primi ad arrivare gli uomini della scientifica, che fanno i loro rilievi. Il rammarico tra i colleghi, tra i dipendenti del Senato, è palpabile, anche la notizia di un precedente tentativo di un gesto disperato da parte del senatore morto oggi, circola in piazza. Quel senatore gentile e affabile, "che ultimamente sembrava un po' turbato", forse aveva - racconta qualcuno - già tentato nei giorni scorsi di togliersi la vita, proprio avvicinandosi alla stessa finestra del suo studio. 

Dopo che la notizia del decesso viene resa nota, tantissimi parlamentari sono in piazza. Nel palazzo entra la moglie, Francesca Sbardella, anche lei in politica con il Pd e sindaca di Frascati. Tra i primi ad arrivare l'ex presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, poi Cecilia Guerra, i dirigenti romani del Pd, come Andrea Casu, e altri senatori: l'ex ministro della Salute Beatrice Lorenzin, Walter Verini. Tra i deputati Michela Di Biase e Marco Furfaro. Ma non solo dem: il cordoglio è di tutte le forze, tutti sono sbigottiti, come il coordinatore regionale di Fratelli d'Italia, Paolo Trancassini, che è subito accorso. Molti non riescono neanche a parlare e si abbracciano singhiozzando. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, apprende la notizia appena arrivato in Israele. Trapela lo "sgomento" della seconda carica dello Stato, mentre le bandiere nei palazzi del Senato vengono poste a mezz'asta. La Russa fa sapere agli inquirenti che il Senato "è a disposizione per tutte le necessità del caso", pronto a garantire "la massima collaborazione". Da Milano arriva intorno alle 17, pochi minuti prima che il corpo di Astorre sia portato via anche la capogruppo del Senato, Simona Malpezzi, che non nasconde grande commozione, e in Transatlantico, mentre lo percorre esprime a chi la incrocia il proprio dolore: "Non ci sono parole...". 

Bruno Astorre, "suicidio". Lo psichiatra: cosa c'è dietro la morte del senatore Pd. Libero Quotidiano il 03 marzo 2023

"Tutto lascia pensare alla depressione". A provare a decifrare il dramma della morte di Bruno Astorre, senatore del Pd trovato senza vita questa mattina nel suo ufficio di Palazzo Cenci, a Roma, è Enrico Zanalda, psichiatra e presidente della Società italiana di psichiatria forense (Sipf). Sul profilo Twitter di Astorre campeggiava una citazione di Winston Churchill: "Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale. Ciò che conta è il coraggio di andare avanti". Avrebbe compiuto 60 anni tra pochi giorni, si era sposato neanche 2 anni fa con Francesca Sbardella, sindaca di Frascati. Nulla faceva presagire una fine così tragica, visto che l'ipotesi è che il senatore si sia tolto la vita lanciandosi da una finestra.

La Procura di Roma, come da prassi per svolgere indagini, ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. Un gesto, quello del suicidio, che proprio in questo periodo dell'anno, tra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera, vede un aumento di casi. "Quando questi gesti vengono compiuti da persone nel pieno della carriera, in un momento della vita segnato dal successo, che magari hanno iniziato da poco un nuovo progetto di vita sembrerebbero inspiegabili e dunque quello a cui si pensa è che possano essere legati a una situazione patologica come quella della depressione", spiega Zanalda.

"Questo periodo dell'anno è il momento in cui le persone con depressione maggiore stanno peggio ed è più facile che non resistano più all'impulso suicida. La scelta del suicidio è una possibilità che tutti noi abbiamo in qualunque momento della vita e quando lo facciamo si vanno a ricercare le cause studiando soprattutto l'ultimo periodo della vita di una persona". Anche le modalità con cui si compie il gesto sono indicative: "Ad esempio gettarsi dalla finestra - sottolinea lo psichiatra - fa pensare a un impulso patologico legato a un quadro di depressione, è un gesto che sembra senza premeditazione, messo in atto in un momento di disperazione". "A volte il suicidio viene compiuto sul luogo di lavoro o fuori, all'aperto, per evitare di farlo in casa - continua Zanalda - per un certo pudore nei confronti della propria famiglia, per evitare di coinvolgerla. O anche per 'l'opportunità' del momento, ossia perché ci si trova nella possibilità di isolarsi, di stare lontano dall'attenzione dei propri familiari. Un notevole fattore di rischio nelle persone depresse è poi l'aver già messo in atto un tentativo di suicidio andato a male - conclude lo psichiatra - tutte le persone che soffrono di depressione hanno un aumentato rischio di suicidio rispetto alle altre. In chi ci ha già provato poi il rischio aumenta ancora di più".

Bruno Astorre morto, Bettini: "Le sue ferite non rimarginate". Libero Quotidiano il 03 marzo 2023

La morte del senatore Bruno Astorre, trovato senza vita in mattinata a Roma a Palazzo Cenci, ha sconvolto il suo partito, il Pd, e tutto il mondo della politica italiana. A confermare la più triste delle ipotesi, quella del suicidio, non c'è solo l'inchiesta della Procura che ha aperto un fascicolo d'indagine, come atto dovuto, per "istigazione al suicidio" (l'onorevole, quasi 60 anni e colonna del Pd laziale, si sarebbe gettato dalla finestra del suo ufficio), ma anche le parole durissime di Goffredo Bettini. 

"Se ne è andato nel modo più triste, solitario, doloroso e sconcertante. Bruno Astorre è stato fino all’ultimo un dirigente importante del partito di Roma e del Lazio. Direi persino, per molti aspetti, decisivo. Senatore, segretario regionale, personalità radicata e influente, saldissimo punto di riferimento soprattutto nella provincia di Roma e per tanti amministratori e sindaci". Bettini, eminenza grigia del Pd, ha scritto un lungo post su Facebook per l'amico e compagno di partito: "Lui veniva dalla Democrazia cristiana e io dal Partito comunista, due tradizioni così diverse. Eppure proprio quelle tradizioni riuscivano, nella loro parte migliore, a farci intendere in modo diretto e immediato". "Bruno - aggiunge Bettini - appariva forte, persino ruvido. Con un sorriso aperto e una viva empatia, ti metteva a tuo agio. In superficie sembrava inossidabile. Eppure avevo ben intuito che dietro quella maschera si nascondeva una fragilità. Appena eletto alla Regione e poi nominato assessore ai lavori pubblici, ci intrattenemmo a parlare sulla sua nuova esperienza. Non era affatto contento. Soffriva la responsabilità. Aveva un sentimento di inadeguatezza. Avvertiva una forma di depressione nascosta. Superò quella fase. Ma so per esperienza personale che le faglie dell’anima si possono riassestare, ma mai rimarginare completamente". 

Ora, conclude Bettini, "non mi resta che abbracciare con tutto l’affetto possibile la sua cara moglie (la sindaca di Frascati Francesca Sbardella, ndr) e tutta la sua famiglia. Dopo lo sforzo di questi mesi, in condizioni fisiche assai precarie, dopo le regionali e l’esito del congresso, sono partito. Non sarà possibile per me accompagnare Bruno al suo funerale. Ma non è la mancata presenza fisica che può anche minimamente scalfire la mia partecipazione a un dolore immenso e al rimpianto di non aver saputo aiutare non solo un collega di partito ma un amico, un compagno di lotta, una persona perbene sempre pronta ad aiutarmi e a sostenermi". 

Morto il senatore Pd Bruno Astorre. L’ipotesi di suicidio sconvolge la politica. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato negli uffici del Senato di Palazzo Cenci. Il senatore dem avrebbe compiuto a breve 60 anni. Il Dubbio il 3 marzo 2023

È caduto da una finestra di Palazzo Cenci, sede degli uffici del Senato. È morto così, alle 12.50 di questa mattina, Bruno Astorre, senatore dem e segretario del Pd Lazio. La Procura ha aperto come atto dovuto un fascicolo e indaga, come avviene in questi casi, per istigazione al suicidio. E mentre su Palazzo Cenci, Palazzo Giustiniani e Palazzo Madama le bandiere vengono calate a mezz’asta, la politica italiana viene colta da incredulità e sgomento.

Avrebbe compiuto 60 anni il prossimo 11 marzo, Astorre, che lascia la moglie Francesca Sbardella, anche lei nome importante della politica laziale dem, sindaca di Frascati. E a Roma e nel Lazio si è concentrata anche tutta la carriera politica del senatore, cominciata con la Democrazia Cristiana, nel consiglio comunale di un comune dei Castelli Romani, Colonna, e proseguita con il partito Popolare, la Margherita e L’Ulivo e, infine, con il Pd. Sempre eletto nei collegi di Roma e del Lazio, dove in Regione è stato consigliere, assessore realla Casa e presidente del Consiglio. Una perdita che scuote il partito e l’intero Parlamento.

Tra i primi a commentare la notizia c’è Dario Franceschini, amico di lungo corso di Astorre: «Ciao Bruno, amico di una vita. Ci hai insegnato cosa vuol dire amare la politica, amare la propria terra, voler bene alle persone. Ogni giorno ci hai salutato con la gioia negli occhi ridenti e noi ti ricorderemo per sempre cosi», dice l’ex ministro dei Beni culturali. Eppure, chi gli è stato vicino, racconta di un disagio, un dolore oscuro che lo attanagliava da tempo. Da qui il rammarico del senatore Matteo Renzi: «Mi spiace di non aver capito niente prima della tragedia. Una preghiera per i tuoi. Riposa in pace, amico di mille battaglie, riposa in pace». L’ex segertario del Pd, Enrico Letta, si dice invece «attonito alla tragica notizia della morte di Bruno Astorre. Non riesco a trovare parole di fronte ad un simile dramma. C’è il silenzio. C’è la preghiera. L’abbraccio ai suoi cari». La neo segretaria Elly Schlein parla di un partito sconvolto e addolorato per la morte del senatore, «tutta la comunità democratica si stringe attorno alla moglie e alla sua famiglia, agli amici e a tutti i suoi colleghi».

Ma a rimanere impietriti davanti alla scomparsa improvvisa di Astorre non sono solo i compagni di partito. Tantissimi i messaggi di cordoglio provenienti da tutti gli schieramenti. A partire dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni che twitta: «Sono profondamente turbata dalla notizia della scomparsa di Bruno Astorre. Un avversario appassionato e leale, una persona perbene. A nome mio e del governo, mi stringo al dolore della moglie, della famiglia e della sua comunità politica». E l’ex presidente della Regione Lazio Francesco Storace dice: «Ci hai lasciato increduli. Siamo stati amici anche se da sponde opposte, ma ad uno come te non si poteva non volere bene. Addio “compagno”, nel mio cuore resterà uno spazio per te». Di una «notizia terribile» parla invece il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha sentito il magistrato responsabile dell’indagine sulla morte del senatore Pd e ha messo Palazzo Madama a disposizione per tutte le necessità del caso per garantire «la massima collaborazione»

Il presidente del M5s, Giuseppe Conte, rimarca il legame inscindibile con il territorio che ha visto crescere politicamente Astorre: «Un uomo la cui storia politica rappresenta quell’inscindibile e importante legame tra istituzioni e territorio. Una perdita dolorosa, per cui tutta la comunità del M5s si stringe vicino alla sua famiglia e ai suoi cari». Le condoglianze arrivano anche da Matteo Salvini e dalla Lega, e sinceramente commosso appare anche il forzista Maurizio Gasparri che parla di«un avversario tenace, difficile da battere, sempre pronto a cercare nei vari comuni le soluzioni più ostiche per noi.

È stato uno di quelli che non ha fatto la politica dei social, del protagonismo fine a sè stesso, ma della presenza quotidiana in ogni contesto», dice Gasparri. Che poi conclude: «La politica ha bisogno di persone come Bruno Astorre, capaci dell’ascolto, fieramente impegnati nella propria parte politica, ma rispettosi dei valori altrui. Non sappiamo mai cosa c’è nel fondo dell’animo e le circostanze di questa tragica scomparsa ci fanno ancora di più riflettere sulla politica, su chi la fa con dedizione, sulle nostre vite, spesso giudicate male, ma vissute con passione e fatica».

Chi era il senatore del Partito Democratico Bruno Astorre? Il politico è stato trovato morto a Palazzo Cenci, a Roma. Ilaria Minucci su Notizie.it il 4 Marzo 2023.

È stato trovato morto a Palazzo Cenci, a Roma, il senatore del Partito Democratico Bruno Astorre. Chi era il politico dem che ha dedicato tutta la sua vita al Lazio e alla politica?

Bruno Astorre, chi era il senatore del Pd che ha dedicato la vita al Lazio e alla politica

Il Partito Democratico e il mondo della politica italiana sono in lutto per la prematura e improvvisa scomparsa del senatore Bruno Astorre, segretario del Pd Lazio. Il corpo del senatore è stato rinvenuto senza vita a Palazzo Cenci, a Roma, dove si trovava la sede del suo ufficio.

Nato a Roma l’11 marzo 1963, Astorre ha cominciato a muovere i suoi primi passi in politica militando tra le file della Democrazia Cristiana. Nel 1985, poi, è stato eletto consigliere comunale a Colonna, a pochi chilometri dalla capitale, con il Partito Popolare Italiano. Tre anni dopo, nel 1998, è entrato a far parte del consiglio comunale, primo degli eletti per preferenze.

Nel 2003, con La Margherita, entra per la prima volta nel consiglio della Regione Lazio dove venne rieletto nelle liste de L’Ulivo nel 2005, che sostenevano il candidato presidente Pietro Marrazzo, vincitore delle elezioni. Divenne, quindi, assessore ai Lavori Pubblici e alla Casa nella giunta Marrazzo, mantenendo l’incarico fino al 16 settembre 2009, quando assunse il ruolo di Presidente del Consiglio regionale del Lazio, subentrando a Guido Milana, eletto al Parlamento europeo.

Nel 2010, Astorre si è ricandidato alle regionali per la terza volta con il Pd, nella coalizione che sosteneva la radicale Emma Bonino. Anche in questo caso, venne eletto al consiglio regionale del Lazio come primo degli eletti con i dem. Il 12 maggio 2010, poi, fu scelto come vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, in quota della minoranza. La presidente della Regione, infatti, era Renata Polverini, della coalizione di centrodestra.

L’elezione in Senato

Per tutta la sua carriera politica, il senatore si è distinto per l’indissolubile legame che aveva con il territorio nel quale era nato e cresciuto ossia Roma e il Lazio. Territorio che ha consentito ad Astorre di scalare gradualmente le istituzioni fino ad approdare in Parlamento.

Dopo gli incarichi in consiglio regionale e la disfatta della giunta Polverini, infatti, il politico dem si candidò per la prima volta alle parlamentarie del 2012 del Pd per le elezioni politiche del 2013. Ottenendo il terzo posto con circa 7.200 preferenze, si accaparrò un posto nella lista regionale per il Senato della Repubblica, nella circoscrizione Lazio. È stato, dunque, eletto senatore per la prima volta per la XVII Legislatura.

A scrutinio segreto, il 4 dicembre 2013 Astorre è stato eletto membro della commissione vigilanza della Cassa depositi e prestiti e, dopo essere stato eletto all’Assemblea nazionale del Pd nelle primarie del partito tenute l’8 dicembre 2013, è stato nominato membro della Direzione nazionale del Partito Democratico.

Il 4 marzo 2018, è stato ricandidato nella stessa circoscrizione per la coalizione di centrosinistra in quota dem alle politiche, venendo rieletto a Palazzo Madama. Dopo le elezioni, è diventato membro della VIII Commissione Lavori Pubblici, di cui fu anche segretario. Sempre nel 2018, il 1° dicembre, fu eletto segretario regionale del Pd per il Lazio.

Infine, il 25 settembre 2022 è stato nuovamente candidato alle politiche anticipate per il Senato come capolista nel collegio plurinominale Lazio 02 ottenendo ancora una volta la rielezione.

Lutto in Senato, si toglie la vita il Dem Bruno Astorre: la rassegna stampa in video prima della tragedia. Aldo Torchiaro su L’Inchiesta il 4 Marzo 2023

Il salto nel vuoto, quando dal Gianicolo il cannone spara il colpo a salve delle dodici. Bruno Astorre, segretario del Pd del Lazio e per tre volte parlamentare, precipita a terra da venti metri d’altezza – nel cortile del senatoriale Palazzo Cenci, accanto a Palazzo Madama – saltando giù dalla finestra del suo studio. “Un uomo colto, capace, impegnato. Pochi politici hanno lavorato come lui per il proprio territorio”: le parole del commissario europeo Paolo Gentiloni chiudono una giornata di lutto, per la politica.

Un gesto deliberato, viene detto. Forse non insospettabile, a sentire chi gli era più vicino. Astorre sarebbe stato in cura per una depressione: venerdì scorso era stato dimesso dal policlinico di Roma Tor Vergata; giusto in tempo per votare alle primarie – dove ha sostenuto Elly Schlein – e rimettersi al lavoro in Senato. Ieri mattina, poco prima di compiere il gesto estremo aveva preso parte a una rassegna stampa in diretta video. Lucido, sorridente. È imponderabile, quello scherzo della mente che manda la vita in game over. Sulla dinamica degli ultimi giorni e di queste ultime ore punterà adesso la ricostruzione della Procura della Repubblica di Roma, che ha aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio.

Il magistrato si è fatto largo tra un centinaio di persone in presidio silenzioso davanti al portone di Palazzo Cenci sorvegliato dai Carabinieri. Ha supervisionato i rilievi della scientifica, la perizia balistica, le tracce biologiche nello studio del senatore. E soprattutto, ha chiesto ai Carabinieri di tenere a freno i tanti amici e colleghi di Astorre arrivati sul posto. Mentre le bandiere tricolori vengono listate a lutto, il corpo di Astorre viene portato via, in ambulanza. Nato a Roma, Astorre viveva a Frascati, dove la moglie Francesca Sbardella è attualmente sindaca. Laureato in economia, aveva vinto un concorso per il centro studi di Capitalia prima di innamorarsi della politica. Consigliere regionale del Lazio con La Margherita già nel 2003, rieletto nel 2005 nelle liste de l’Ulivo, fu assessore ai lavori pubblici nella giunta Marrazzo.

Eletto poi Senatore, dal 2018 era diventato segretario regionale del Pd per il Lazio. Vicino all’ex vicepresidente della Regione, Daniele Leodori, si era impegnato nella campagna per Alessio D’Amato. Dopo la sconfitta, aveva preparato le sue dimissioni. “La lettera doveva essere consegnata in giornata”, ci ha detto ieri Riccardo Tomei, assessore Pd del Comune di Frascati. È anche lui, gli occhi segnati dal pianto, sul selciato davanti al Senato. Il segretario del Pd di Roma, Andrea Casu, l’ex presidente della Regione, Nicola Zingaretti, la deputata Michela Di Biase e Emanuela Droghei sono sotto shock.

Il marciapiede intorno a Palazzo Cenci diventa la fotografia drammatica di una comunità che per un giorno dimentica divisioni e correnti e si ritrova unita nel dolore nella stessa grande famiglia. Con le mani nei capelli il capo della comunicazione Pd del Senato, Stefano Sedazzari, prova a gestire una piazza vibrante dove si muovono decine di giornalisti e di telecamere. Arriva il coordinatore della segreteria del Pd, Marco Furfaro: Elly Schlein non verrà, è a Bologna. Ma ha twittato: “Siamo sconvolti”. Arriva anche il post di Matteo Renzi, che era cresciuto con Astorre sin dalla Margherita. “Mi dispiace, non ho capito niente prima della tragedia”. Non aveva capito niente nessuno.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Estratto dell’articolo da open.online il 7 marzo 2023.

Disposta l’autopsia, atto dovuto della Procura di Roma che ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio, ma nessun’altra novità sulle ragioni che hanno portato Bruno Astorre a gettarsi, venerdì 3 marzo, da una finestra di Palazzo Cenci.

 Al momento, per il pm «non sussistono motivi per ulteriori approfondimenti», fa sapere una fonte del Senato. Nessun bigliettino trovato nel suo ufficio, né messaggi o lettere che possano fornire una spiegazione per il gesto del senatore. Da quel che emerge ora nelle ricostruzioni delle ultime settimane di Astorre, proprio in Senato a febbraio era stato sventato per miracolo un suo primo tentativo di suicidio, afferrandolo sul cornicione poco prima che si lanciasse nel vuoto.

In seguito a quel gesto, è stato ricoverato al Policlinico di Tor Vergata, da cui era uscito tranquillizzando medici e famigliari il venerdì precedente alla sua scomparsa.

 Astorre aveva ripreso a occuparsi di politica. La mattina del decesso, oltre alla rassegna stampa in streaming, il senatore aveva chiamato almeno tre amici e colleghi di partito. Una telefonata con Svetlana Celli, presidente dell’assembla capitolina, in cui Astorre aveva incoraggiato l’esponente Dem per le attività in Campidoglio.

Poi, a circa un’ora dal suicidio, verso le 11.15, la chiamata con Massimiliano Baldini. Il senatore si voleva congratulare con il dirigente del Pd capitolino per il lavoro in una partecipata del Comune, Risorse per Roma. [...] E ancora, la conversazione avuta con il consigliere regionale e amico di lunga data Daniele Leodori. […]

 A Leodori, Astorre avrebbe dato appuntamento per pranzo. […]. Arrivato di fronte agli uffici di Palazzo Cenci, il senatore avrebbe consigliato all’autista di aspettare in doppia fila se non avesse trovato parcheggio. «Mezz’ora al massimo e ripartiamo».

Una frase che, forse, sarebbe servita a tranquillizzare l’autista, il quale avrebbe avuto disposizioni di non perdere d’occhio Astorre dopo il tentativo di suicidio.

Renzusconi. Edoardo Sirignano su L’Identità il 14 Aprile 2023

Forza Matteo! Così si chiamerà il nuovo soggetto liberal-democratico pensato da Renzi. Non basta neanche una telefonata di Macron a salvare il Terzo Polo. Le uscite di Carlo Calenda sono insopportabili per il giglio, che non vuole più stare ai diktat del romano. Salta, quindi, l’ennesimo confronto richiesto dal capogruppo alla Camera Richetti. Il superamento della Leopolda è solo la goccia che fa traboccare il vaso. La verità è piuttosto quella rivelata dall’ormai ex alleato: “Non faremo il partito unico perché Matteo non lo vuole”. L’ex presidente del Consiglio, uno dei pochi in Italia che di politica ne capisce, intravede uno spazio politico, che non può essere lasciato vuoto. Stiamo parlando del campo occupato da Berlusconi. Il Cav continuerà a dare consigli, a lottare contro ogni malattia, a dettare la strategia dietro le quinte, ma certamente non può permettersi più il lusso di guidare uno schieramento. Per quello non basta una comparsata in una manifestazione, come dice qualche colonnello azzurro. Considerando i tempi attuali della politica, dei social, occorre dedicarsi ventiquattro ore su ventiquattro. Il numero uno di Italia Viva lo sa bene. Ecco perché vuole, per l’ennesima volta, anticipare la mossa e mettersi a capo di un mondo, che non avrebbe alcuna difficoltà a ritrovarsi intorno a un moderato, a un indiscusso comunicatore, a un profilo riconosciuto nel mondo, proprio come il leader di Arcore.

Il piano di Matteo

Basta, d’altronde, analizzare le ultime mosse del giglio per capire la strategia. La nomina di Andrea Ruggieri, fedelissimo del leader di Arcore, a direttore responsabile del Riformista, vale più di mille parole. Si vuole dare un’impronta chiara nella comunicazione. Stesso discorso vale per le interlocuzioni tra Italia Viva e alcuni big azzurri. Secondo voci di palazzo, ci sarebbe stata più di una telefonata tra Renzi, Ronzulli, Cattaneo e Mulé. Questi ultimi nel caso in cui dovessero essere scaricati dal ministro Tajani, candidatosi a diventare “corrente” del partito della Meloni, avrebbero già un nuovo padre pronti ad accoglierli. Il tutto ovviamente sarà concordato con Berlusconi. Matteo non ha mai dimenticato il Patto del Nazareno, né ha alcuna intenzione di rompere con l’amico Silvio. Il divorzio con Calenda, non a caso, avviene proprio quando il politico romano, nel momento più difficile per il Cav, parla di “fine della seconda repubblica”. Una cosa è certa, le similitudini sono tante tra Italia Viva e Forza Italia. Un esempio è la battaglia garantista, su cui i due leader si sono sempre ritrovati. Sul punto, Renzi avrebbe trovato un accordo sia con +Europa che con quel che resta del mondo liberale. Queste forze avrebbero scelto da tempo con chi collocarsi e non certamente con “Carletto de Roma”. L’ultimo cinguettio di Emma Bonino, che dice di non essere sorpresa dalle scelte di Calenda, vale più di mille parole. Qualche malpensante sostiene che siano gli stati gli stessi radicali a dire agli amici della Leopolda di rompere con Azione. La strategia è unire le forze, dagli scontenti del Pd ai berluscones, per tornare a essere centrali in Europa. Per riuscire nella sfida non basta certamente il partititino che alle ultime regionali ha preso il 2 per cento in Friuli. Quel progetto, purtroppo, è fallito. A dirlo i numeri e non gli slogan.

 La fase transitoria

L’operazione moderata, immaginata da Renzi, però, richiede tempo. Serve gestire al meglio la fase di transizione. Non dovrebbero esserci particolari problemi per Italia Viva, ma non sono permessi errori. A Bruxelles i due europarlamentari di Renew sono fedelissimi del giglio. “Un percorso importante, come quello che abbiamo avviato in Europa – dichiara il vicepresidente del gruppo Nicola Danti – non può essere fermato per i personalismi di qualcuno”. Stesso discorso vale per Montecitorio, dove Matteo ha i numeri per mantenere il simbolo. Più difficile il quadro a Palazzo Madama, dove Iv ha 5 senatori contro i 6 necessari per il gruppo. Recuperare un parlamentare, però, non è certamente un’impresa impossibile per chi è in grado di convincere chiunque.

La solitudine di Carletto

Più difficile il futuro, invece, per Carlo Calenda. Se Renzi sa dove vuole andare, il romano dovrà inventarsi qualcosa. Il campo della sinistra è ormai occupato da Elly Schlein, mentre i ribelli centristi non possono far altro che tornare da chi li ha creati.

Nel Pd, Calenda non è simpatico a nessuno, neanche a Ernico Letta. L’ex segretario del Pd è tra i primi a mettere il like al tanto discusso tweet della Bonino. I 5 Stelle, poi, certamente non possono caricarsi sulle spalle chi li ha sempre criticati. Un’intesa con Giorgia Meloni è fantapolitica. L’isolamento, pertanto, è la vera ragione dell’ira di Carletto. Renzi, a suo discapito, non “parla solo con Obama e Clinton”.

Gli unici ad aver aderito alla causa di Azione, allo stato, sono le sole Carfagna e Gelmini. Queste ultime non possono essere riaccolte da chi fino a ieri le ha definite “traditrici”. Il Cav non perdona. Ne sanno qualcosa i vari Fini e Alfano. Il Terzo Polo di Calenda, quindi, rischia di trovare un percorso in salita dai blocchi di partenza. Le sigle centriste in Italia abbondano e l’egocentrismo del re dei Parioli non rende attrattivo un progetto, che non è più una novità.

Sangue, merda e Terzo Polo. Il racconto grottesco e impolitico di un fallimento tragicamente politico. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 15 Aprile 2023

Quasi tutti i giornali hanno raccontato lo scontro tra Renzi e Calenda come una sorta di rissa di strada. E invece è stato molto di più: un clamoroso tentativo fallito di superare il micro-leaderismo personalistico nell’area liberaldemocratica

Chissà se è nato prima l’uovo o la gallina, prima il malvezzo dei giornalisti di rappresentare la politica come una commedia dell’arte o un’opera dei pupi o prima l’assuefazione dei politici a farsi rappresentare – e ad autorappresentarsi – come tanti Zanni e altrettanti Orlando, un’immensa compagnia di giro di maschere e marionette, impegnata a improvvisare frizzi e lazzi su esili canovacci o a incrociare le lame di latta in infiniti duelli di amore e di virtù.

Azzarderei che sia l’egemonia dell’infotainment e non il narcisismo dei potenti o aspiranti tali a condannarli a rispondere (sventurati) all’«Americà, facce Tarzan», che è il modo più comodo e redditizio con cui l’informazione dalla schiena dritta adempie quotidianamente alla propria imprescindibile funzione democratica contro gli arcana imperii. Ma è un discorso che porterebbe lontano e, probabilmente, in zone infrequentabili per chi voglia sottrarsi all’accusa di attentare alla libertà dell’informazione, che è un feticcio pure più intangibile della rinomatissima autonomia della magistratura.

In ogni caso, per fermarsi più modestamente alle conseguenze, senza risalire alle origini di un meccanismo che sta conformando il funzionamento della democrazia italiana a quello dello showbiz mediatico-politico (showbiz peraltro povero e sfigato), in questi giorni abbiamo avuto una dimostrazione spettacolare di questo fenomeno nella rappresentazione (e autorappresentazione) dell’esplosione del Terzo Polo e della rottura tra Renzi e Calenda.

Si possono avere le più varie opinioni – e mi pare che Linkiesta ne stia raccogliendo di molto diverse e plurali sulle ragioni e sui torti di ciascuna delle parti e sul contributo che protagonisti e comprimari hanno offerto al proprio sputtanamento. Si può avere un’opinione buona o cattiva della moralità e della coerenza di Renzi e di Calenda, della furbizia dell’uno e dell’intemperanza dell’altro o della capacità di entrambi di corrispondere responsabilmente agli impegni che si erano presi con due milioni e mezzo di elettori.

Quello che però onestamente non si può fare è raccontare questo scontro come una sorta di rissa di strada, senza altro contenuto che quello di volere essere il capo del rione. Per tutti i giornali italiani – per la precisione per quasi tutti – si è semplicemente giunti al redde rationem tra i due galli del pollaio centrista. Eppure era chiaro da mesi che il problema – ripeto: qualunque cosa si pensi circa la soluzione – era gigantesco e oggettivo e riguardava il punto su cui sono falliti in questi ultimi trent’anni tutti, dicasi tutti i tentativi compiuti nel mondo liberaldemocratico per fare un vero e autonomo partito di un’area di opinione diffusa ed esigente, storicamente refrattaria all’impegno pubblico e piuttosto incline al mugugno privato, ripetutamente scomposta e ricomposta in formule elettorali rovinose o fortunate (le principali: Lista Bonino 1999, Scelta Civica 2013, Azione-Italia Viva 2022), tutte dissoltesi nello spazio di un’elezione, a prescindere dal risultato conseguito.

I liberaldemocratici italiani, uti singuli, nel frattempo hanno dato buone lezioni di pedagogia civile ed economica e hanno tentato di spiegare agli altri come si sta al mondo, ma non hanno mai accettato di capire come si sta in politica con un’ambizione diversa da quella della neutralità tecnocratica o della rendita parassitaria, sempre con un piede dentro e un piede fuori i confini dei partiti altrui e con una vocazione al marginalismo retribuito con seggi o incarichi ad honorem, che ne ha fatto i cespugli perfetti a destra come a sinistra, i pennacchi da esibire da una parte o dall’altra come prova di serietà, di pluralismo o di attenzione ai contenuti.

Le poche prove di autonomia liberaldemocratica sopravvissute alla prova delle urne non sono sopravvissute alla prova del partito, perché nessuno si era mai spinto finora oltre le colonne d’Ercole del micro-leaderismo personalistico, del situazionismo politico-elettorale e dell’anche oggi decidiamo domani. Il divorzio tra Azione e Italia Viva è un tentativo fallito (nuovamente: non mi importa, qui, discutere ragioni e torti), ma è stato questo tentativo ed è fallito su questo.

Cavillare sulla incomprensibilità di uno scontro tra due leader che sembrano d’accordo su tutto, pure ammettendo e non concedendo che questo sia vero, è poi politicamente una prova di malafede giornalistica e di ruffianeria politica da Guinness dei primati: se il progetto non era quello di presentare emendamenti comuni al decreto milleproroghe o alla legge di bilancio, ma di costruire un partito con ambizioni elettorali a doppia cifra per le prossime europee e una trincea di resistenza al bipopulismo perfetto per l’intera legislatura, come si fa onestamente a considerare irrilevante, dal punto di vista politico, la disponibilità di bruciarsi o meno i ponti alle spalle o l’esigenza di conservare o meno vie di fuga?

Insistere poi sulla diversità e sullo scontro dei caratteri di Renzi e di Calenda, riportando a un dato soggettivo, psicologico e perfino fisiognomico una diversità del tutto oggettiva di idee, convinzioni e ambizioni sarebbe come minimo – direbbero quelli che parlano bene – un cattivo servizio reso alla comprensione del pubblico degli affezionati lettori e telespettatori del circo politico-mediatico. È invece – dicono quelli che parlano male, come me – un modo disonesto per rimuovere il sangue della politica e per rivenderne solo la merda.

Almeno non ci ruberemo i Rolex. La rottura tra Azione e Italia Viva, raccontata da Calenda. su L’Inkiesta il 15 Aprile 2023

Intervistato da Repubblica, il leader dell’ormai fallito Terzo Polo è deluso più che furioso: «Credevo davvero che si potesse fare il partito unico e che Renzi volesse fare un passo di lato, dato che guadagna due milioni di euro in giro per il mondo»

Il Terzo Polo è morto. Eppure in qualche modo continuerà a esistere nella politica italiana, nel lavoro dei gruppi parlamentari, nell’impegno all’opposizione, nel percorso che porterà alle europee. È una consapevolezza che hanno tutti, sia in Azione sia in Italia Viva. Ne ha parlato anche Carlo Calenda in un’intervista a Repubblica, fatta da Lorenzo De Cicco: il leader di Azione dice di sperare che i gruppi parlamentari continuino ad esistere, anche perché altrimenti perderebbero i fondi parlamentari, e aggiunge che nella trattativa aveva fissato regole chiare: sciogliere i partiti e condividere i soldi.

Nella sua conversazione con Repubblica, Calenda sembra deluso più furioso, dispiaciuto per un progetto politico che stava prendendo forma e che invece si è fermato prima di iniziare a vedere risultati concreti. Non si è risparmiato battute – «Almeno non ci siamo fregati i Rolex», inizia così l’intervista a Repubblica, con un non troppo velato riferimento al divorzio dell’anno, quello tra Francesco Totti e Ilary Blasi – e frasi di circostanza per cercare di raffreddare i toni della conversazione: «Siamo seduti molto distanti. Abbiamo scherzato su un errore di Lotito», ha detto Calenda quando De Cicco gli ha chiesto «Ieri in Senato che vi siete detti?».

Il piatto forte, ovviamente, restano i commenti affilati nei confronti di Matteo Renzi: «C’è grande delusione, credevo davvero che si potesse fare il partito unico e che Renzi volesse fare un passo di lato, dato che guadagna due milioni di euro in giro per il mondo». Poi ovviamente rincara la dose quando parla dell’incarico di Renzi come direttore del Riformista. Calenda dice che sarà divertente: «Penso a quei politici che faranno confidenze a Renzi e poi si ritroveranno i virgolettati sui giornali». E ancora, sul personale: «Può essere che io abbia un caratteraccio. Ma mi sento un tipo retto».

L’unico momento in cui nelle parole di Calenda si può percepire la rabbia per quanto accaduto è proprio quando si entra nel merito delle questioni relative all’amministrazione due partiti: «Qualcuno me l’aveva detto che dovevo stare attento. Renzi è uno pirotecnico, che una ne fa e cento ne pensa come è successo con Il Riformista. Se non stai attento è uno che “te se magna”. Ma io sono un boccone indigesto».

Nell’accordo tra Azione e Italia Viva, tra l’altro, c’era anche una clausola anti-lobby. Che non sarebbe valsa solo per Renzi ma per tutti. «Non ci siamo sentiti per due settimane», racconta Calenda. «Intanto i suoi mi attaccavano a mezzo stampa e l’esercito di troll che ha su Twitter me ne diceva di ogni. Ma ho capito il trappolone e non mi sono fatto fregare».

In ultimo, Calenda non esclude di riproporre alleanze a Più Europa. Ma anche al Partito Democratico di Elly Schlein: «Mai dire mai. Ma se fanno asse con i Cinquestelle li vedo lontani da noi. E su troppi nodi come il termovalorizzatore non prendono posizione».

Estratto da repubblica.it il 15 aprile 2023

[…]  Calenda, su Twitter, […] senza mai citare Bonifazi o Renzi, scrive: "Nella vita professionale non ho mai ricevuto avvisi di garanzia/rinvii a giudizio/condanne pur avendo ruoli di responsabilità. Non ho accettato soldi a titolo personale da nessuno, tanto meno da dittatori e autocrati stranieri".

 "Non ho preso finanziamenti per il partito da speculatori stranieri e intrallazzatori. Non ho mai incontrato un magistrato se non per ragioni di servizio. Mai sono entrato nelle lottizzazioni del CSM", aggiunge Calenda. Poi il passaggio più duro: "Non ero a Miami con il genero di Trump o in Arabia a prendere soldi dall'assassino di Khashoggi". "Ho rotto con il PD quando ha tradito la parola alleandosi con Renzi e i 5S. Ho rotto con Letta quando ha trasformato l'agenda Draghi in quella Bonelli/Fratoianni/Di Maio. Non sono caduto nella fregatura di Renzi e Boschi sul finto partito unico", conclude.

Dopo qualche ora arriva una enews di Matteo Renzi per "chiedere scusa a tutti gli amici che credono nel riformismo e nel Terzo Polo per l'indecoroso spettacolo di questa settimana. Ho fatto di tutto per evitare di giungere a questo epilogo. Ci ho creduto ma non ci sono riuscito. Penso che chi ha avuto responsabilità in questo fallimento debba chiedere scusa. E io lo faccio - per la mia quota parte - con la consapevolezza che ho fatto di tutto fino all'ultimo per evitare il patatrac".

 "Nei prossimi giorni partirà il congresso democratico, dal basso, di Italia Viva. - continua Renzi - Quello che volevamo fare insieme ad Azione, in modo civile e libero, lo faremo con chi ci sta. Prima i comuni, poi le province, poi le regioni. Non ci saranno paracadutati o imposti dall'alto.

 Sceglieranno gli iscritti, non Renzi. Faremo la Leopolda l'8-9-10 marzo 2024 cercando di portare tante belle esperienze a discutere, a condividere i sogni, a ragionare di politica. Pensare di vietare la Leopolda è incredibile: significa non aver capito quanto entusiasmo e quanta bellezza ci sia in un popolo che rifiuta il populismo".

Estratto dell’articolo di Thomas Mackinson per ilfattoquotidiano.it il 15 aprile 2023

 “Renzi non ha mai voluto fare un partito. Messo alle strette ha provato a rifilarci una ‘solà e non gli è riuscito. Allora ha fatto saltare tutto. Ora ignoriamo gli insulti, la cagnara dei finti profili di IV etc. e andiamo avanti a fare politica come l’abbiamo sempre fatta: in modo onesto, trasparente e sui contenuti”.

Con un tweet Carlo Calenda tenta di sedare così la montagna di polemiche, insulti e dileggi che accompagnano il naufragio del Terzo Polo, ormai diviso da tutto e unito dall’unico collante della “roba”, cioè i soldi: 14 milioni di spese dei gruppi in 5 anni, 4 milioni già raccolti da finanziatori privati, 1,6 milioni (800mila euro a partito circa) raccolti col 2xmille.

 […] Perché tenere insieme due forze politiche mentre il progetto comune naufraga in una marea di insulti l’abbiamo scritto ieri: per i 14 milioni di euro di fondi che i due partiti perderebbero in cinque anni se si dividessero, perché a quel punto nessuno dei due avrebbe il numero minimo di eletti per formarne uno proprio (20 alla Camera, 6 al Senato) e perderebbe tutti quei soldi. Per dare la misura, sono circa 10mila euro al mese ciascuno tra auto, sondaggi, multe, collaboratori, materiale di comunicazione etc. Anche da qui si capisce l’urgenza della convenienza senza esser convolati a nozze. Scelta imposta anche da un altro problema che già si profila: ma chi li finanzierà più?

Quando Renzi e Calenda si unirono attorno al progetto di un Terzo Polo riformista il ghota dell’imprenditoria e della finanza […] si spellò mani e portafogli per quell’impresa che alle politiche aveva raccolto l’8%. Tanto da versare nelle loro casse 4 milioni di euro a titolo di “erogazione liberale”. […]

 Nell’elenco dei finanziatori spicca il patron Prada Maurizio Bertelli che negli due anni ha versato ad Azione 100mila euro. Sempre nella moda la famiglia Zegna, che al Terzo Polo ne ha donati 60mila, quindi Loro Piana che ne ha versati 130mila, l’ultima tranche a fine marzo. Nel settore sanitario c’è il patron di Technit e Humanitas Gianfelice Rocca che ha versato 100mila euro.

Confindustria aveva scommesso tanto nella convinzione che il progetto di Renzi e Calenda avrebbe fatto molta strada: Alberto Bombassei cala una fishes da 100mila euro sul tavolo dei terzopolisti, insieme all’ex presidente Antonio D’Amato, Ad Alessandro Banzato (già Federacciai) e Giovanni Arvedi, alla guida del colosso dell’imprenditoria siderurgica. Scendono in campo anche i signori del cemento come Pietro Salini (Webuild) che punta al Ponte di Messina. E vede crollare quello tra i due beneficiati.

Terzo polo, sipario con stracci. Renzi: "Carfagna sia la leader". Antonio Fraschilla su La Repubblica il 16 Aprile 2023

L'ultimo affondo di Calenda: "Io mai in Arabia a prendere soldi dall'assassino di Khashoggi". L'ex premier chiede scusa per lo "spettacolo indecoroso". E lancia la nuova provocazione

"Quando Carlo Calenda aveva bisogno, gli andava bene tutto. Oggi insulta per paura di perdere il congresso. Tutto è saltato quando Luigi Marattin ha annunciato che si sarebbe candidato al congresso contro di lui. Ma il progetto Terzo polo va avanti: è maturo il tempo di una leadership femminile, dopo Meloni e Schlein. Dobbiamo fare un passo indietro entrambi, io e Calenda, e lasciare spazio a una candidatura femminile". Matteo Renzi parla con i suoi al telefono e annuncia la sua nuova strategia dopo che con il leader di Azione ormai volano gli stracci: puntare su una donna per mettere Calenda del tutto fuori dai giochi. E in Italia viva si fa il nome di Mara Carfagna come possibile colpo di teatro per tenere in vita il progetto terzopolista e smontare il giocattolo di Azione.

Una strategia, quella di Renzi, illustrata ai suoi alla fine di una giornata di insulti con l'ex ministro.

Calenda ieri mattina ha prima invitato i componenti del suo partito al silenzio stampa per abbassare la tensione, poi proprio il leader di Azione ha colpito Renzi nel suo punto più debole: i rapporti da conferenziere ben retribuito a Riad con Mohammad bin Salman, accusato di essere il mandante dell'omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi. "Mi si accusa di assenze in Senato, ma quando non c'ero facevo iniziative per Azione e Italia viva, non ero a Miami con il genero di Donald Trump o in Arabia a prendere soldi dall'assassino di Kashoggi", scrive Calenda in un tweet per rispondere al tesoriere di Iv Francesco Bonifazi.

Il segno è stato superato e la frattura tra i due leader nel campo del Terzo polo è ormai insanabile. Calenda ha deciso di "mettere in chiaro le responsabilità del fallimento del partito unico, dopo essermi impegnato sette giorni su sette per creare il vero Terzo polo", dicono da Azione.

Da qui una serie di tweet al veleno contro l'ex alleato: "Nella vita professionale non ho mai ricevuto avvisi di garanzia, rinvii a giudizio e condanne pur avendo ruoli di responsabilità - scrive - non ho accettato soldi a titolo personale da nessuno, tanto meno da dittatori e autocrati stranieri. Non ho preso finanziamenti per il partito da speculatori stranieri e intrallazzatori. Non ho mai incontrato un magistrato se non per ragioni di servizio. Mai sono entrato nelle lottizzazioni del Consiglio superiore della magistratura. Ho rotto con il Partito democratico quando ha tradito la parola alleandosi con Conte e il Movimento 5 stelle. Ho rotto con Enrico Letta quando ha trasformato l'agenda Draghi in quella Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni e Luigi Di Maio. Non sono caduto nella fregatura di Renzi e Boschi sul finto partito unico".

Renzi legge incredulo questi attacchi a mezzo social e ribatte a modo suo: "In queste ore Carlo Calenda sta continuando ad attaccarmi sul piano personale. Sono post e tweet tipici dei grillini, non dei liberal democratici. Tuttavia io non replico. Se sono un mostro oggi, lo ero anche sei mesi fa quando c'era bisogno del simbolo di Italia viva per presentare le liste. Se sono un mostro oggi, lo ero anche quando ho sostenuto Calenda come leader del Terzo Polo, come sindaco di Roma, come membro del Parlamento europeo. O addirittura quando l'ho nominato viceministro, ambasciatore, ministro".

A questo punto il senatore rilancia il congresso di Italia viva nel marzo del 2024 e chiude quindi a qualsiasi possibile intesa con Azione. Ma con la mossa di lanciare Mara Carfagna come possibile leader del Terzo polo prova a piazzare una mina dentro il partito di Calenda. L'ex ministra potrebbe diventare il volto di un partito moderato che guarderebbe verso il centrodestra: prendendosi anche le spoglie di Forza Italia.

Carlo Calenda: «Contro di me i troll di Renzi sui social». Ma i due non si possono separare. Continuano i botta e risposta sui social e sui media. Ma i gruppi parlamentari di Azione e Italia Viva restano uniti, anzi più che saldi: il rischio è quello di perdere un milione e mezzo di finanziamenti l’anno. Simone Alliva su L’Espresso il 14 Aprile 2023

«Se ci siamo sentiti? Ma Renzi parla solo con Obama e Clinton. Intanto i suoi mi attaccavano a mezzo stampa e l'esercito di troll che ha su Twitter mi diceva che ero un assassino o cose del genere. Ma la tecnica è chiara». Parla di tecnica Carlo Calenda intervistato da Repubblica che da giorni vede i suoi social ricoperti di insulti, minacce e frasi che purtroppo non si possono riportare, il garbo non lo consente.

Anche lo "squadrismo social” è un metodo dentro questa storia politica finita malissimo. E non è una novità ma la sua evoluzione. Il passato è dietro di noi, basta voltarsi per guardarlo. Se andiamo molto indietro ricordiamo il “metodo Boffo” ideato da Vittorio Feltri ed entrato nei manuali di storia del giornalismo: l’allora direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di aver scritto alcuni editoriali contro Silvio Berlusconi, fu messo alla gogna da Il Giornale, fino al suo licenziamento. Poi è stato il momento del "Giornalista del giorno", rubrica grillina molto in voga fino a qualche anno fa nella quale foto-segnalare un giornalista e riportare un brano critico nei confronti del Movimento 5 stelle.

Restano alle cronache le gaffe di Alessio De Giorgi, responsabile della comunicazione digitale di Renzi, balzato fuori dall’anonimato per aver negato di essere l’amministratore della pagina “Matteo Renzi news” (pagina che elargisce attacchi e propaganda sotto forma di card), con un post scritto proprio mentre utilizzava inavvertitamente l’account da amministratore di “Matteo Renzi news”. Il 5 dicembre 2016 De Giorgi, scottato dalla sconfitta del referendum, scrisse – riferendosi a Pierluigi Bersani – «che ne dite di dire a sto signore che si permette di pontificare, cosa ne pensiamo di lui? Fai un salto sul suo post e via con la tastiera … Dai, che col pop corn siamo solo all’inizio».

Ecco. La tecnica. Il metodo usato da Matteo Renzi non dissimile da quello usato da un altro Matteo e la sua bestia. E questa volta non ha risparmiato neanche il quasi-alleato. Dispetti a mezzo tweet, vendette, scaramucce, succede in politica, caratteri inconciliabili dicono alcuni analisti, soprattutto su Calenda che con i precedenti divorzi dei mesi scorsi con Letta e Bonino, confessa: «Può essere che abbia un caratteraccio, ma mi sento un tipo retto». E però magari fosse solo una questione di caratteri. Magari questa storia dell’ex premier e dell'ex manager si potesse raccontare come quella di una strana coppia di conviventi forzati, così diversi da essere attratti ciascuno da quello che all'altro manca (il potere, la cultura. L’esperienza manageriale, l'esperienza politica), costretti ai sorrisi in pubblico e al braccio di ferro in privato. Magari, invece è una storia di soldi e poltrone. Tragicomica, che al momento costringe i due a una separazione in casa. Di mezzo ci sono circa un milione e mezzo di motivi, o meglio di finanziamento, l’anno. I due sono entrati insieme in Parlamento come ha ricordato sibillino giorni fa Luciano Nobili al capogruppo di Azione/Iv al Senato («Matteo Richetti, ad esempio, senza di noi non sarebbe mai entrato in Parlamento»). Se i due si separano sui social, in Parlamento rischiano grosso, quindi, forse, meglio evitare. Ai gruppi alla Camera, occorrono 15 parlamentari per costruire un gruppo, su 21 deputati i renziani sono nove.

Bisognerebbe chiedere al Presidente di Montecitorio Lorenzo Fontana una deroga, il precedente c’è: Sinistra Italiana e Noi Moderati. Ma al Senato tutto è più fragile: i renziani sono cinque e basterebbe solo un altro senatore per costituire un gruppo, ma il simbolo Azione/Italia Viva è in comune e il regolamento di Palazzo Madama prevede che i gruppi debbano fare riferimento alle liste elettorali.

E allora che si fa? Meglio continuare a fingere. Un democristiano tirare a campare che almeno su questo mette d’accordo i due: «Nei gruppi parlamentari noi siamo per andare avanti insieme, nelle azioni politiche e in Parlamento. Cerchiamo di fare tutto tranne i falli di reazione», suggerisce il leader di Iv, Matteo Renzi, a Radio Leopolda. «Noi terremo i gruppi parlamentari insieme perché sul piano del merito i contenuti li condividiamo», sembra fare eco Carlo Calenda, L'amore se ne è andato da un pezzo, la passione da prima. La stima e il rispetto invece da un po' meno. Separati in casa, senza il coraggio di ammetterlo.

Adesso Calenda fa il giustizialista. Renzi: "Toni grillini. Ma quando serviva il logo per le liste..." Attacco sugli avvisi di garanzia e sui soldi presi dalle lobby e Bin Salman. Laura Cesaretti il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Stavolta i primi a restare basiti per il nuovo round anti-Renzi di Carlo Calenda sono stati proprio i dirigenti ed eletti di Azione.

«Prima ci manda via chat l'ordine di assoluto silenzio stampa. Poi sferra un attacco a Renzi con toni che neanche il Fatto Quotidiano», geme, dietro assoluta garanzia di restare anonimo, uno di loro. «Basta: non dobbiamo partecipare oltre a questo spettacolo indecoroso», è l'invito perentorio del leader di Azione, alle nove del mattino. Un ora dopo, però, è lui stesso a intervenire con una serie di tweet che tirano in ballo contro l'odiato Renzi inchieste, pm, soldi e addirittura assassinii di giornalisti: «Nella mia vita professionale - tuona Calenda - non ho mai ricevuto avvisi di garanzia, rinvii a giudizio o condanne». E ancora: «Non ho accettato soldi a titolo personale da nessuno, tanto meno da dittatori e autocrati stranieri. Non ho preso finanziamenti per il partito da speculatori stranieri e intrallazzatori. Non ho mai incontrato un magistrato se non per ragioni di servizio. E non ero in Arabia a prendere soldi dall'assassino di Khashoggi». Tutto ciò per rivendicare la scelta di rompere con cotanto malfattore: «Non sono caduto nella fregatura di Renzi sul finto partito unico».

La risposta di Matteo Renzi è gelidamente sarcastica: «Se sono un mostro oggi, lo ero anche sei mesi fa quando serviva il simbolo di Iv per presentare le liste», ricorda al leader di Azione. «Se sono un mostro oggi, lo ero anche quando ho sostenuto Calenda come leader del Terzo Polo, come sindaco di Roma, come membro del Parlamento europeo. O addirittura quando l'ho nominato viceministro, ambasciatore, ministro». Renzi spiega: «Non replico a argomentazioni giustizialiste e grilline. Sul garantismo di chi paragona un avviso di garanzia a una condanna non ho nulla da aggiungere. Sull'arte politica di chi distrugge un progetto comune per la propria ira non ho nulla da aggiungere».

A replicare sono ovviamente i dirigenti di Italia viva: «Ormai Calenda sembra Travaglio, se non addirittura Dibba», dice Francesco Bonifazi. Roberto Giachetti parla di «un problema di incontinenza, ma anche di credibilità». Teresa Bellanova denuncia: «Sembra che qualche grillino abbia hackerato l'account di Calenda».

Ma se le reazioni dei renziani sono scontate, dentro Azione si registra smarrimento: «C'è incredulità e sconcerto - confidano dai ranghi calendiani - sapevamo che la strategia di Carlo era di arrivare alla rottura, ma evidentemente gli è sfuggita di mano. Così ci facciamo male tutti, ma Renzi ne esce meglio di noi». Il problema, spiegano, è che «non discute le sue scelte con nessuno, l'unico con cui si consulta è Andrea Mazziotti (ex Scelta Civica, ora vicesegretario di Azione, ndr) che è un brillantissimo avvocato d'affari, ma non sa nulla di politica». Niccolò Carretta, ex responsabile di Azione in Lombardia, da poco dimessosi, è durissimo con il leader: «Chi gli vuol bene lo fermi, e lo convinca a dedicarsi ad altro». Per tutto il giorno nessuno fiata, dal fronte calendiano. A sera, su richiesta del leader, parlano la presidente di Azione Mara Carfagna («Basta offese contro Calenda») e la portavoce Mariastella Gelmini. Che però smorza le polemiche e chiede un disarmo bilaterale: «Le cose rotte, quando hanno valore, si prova ad aggiustarle, non si buttano», dice, invitando a «non disperdere» il sogno di un Terzo polo. E dunque a ricucire, «tanto nè noi nè Iv - ragiona un calendiano - possiamo permetterci di andar soli alle Europee: la speranza è l'ultima a morire».

Il pallone di Calenda. Nel divorzio tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, ricco di colpi di scena come una serie tv, la grande assente è la politica. Augusto Minzolini il 14 Aprile 2023 su Il Giornale

Nel divorzio tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, ricco di colpi di scena come una serie tv, la grande assente è la politica. Ad analizzare i motivi della rottura, infatti, si trova di tutto: regole congressuali, finanziamenti, ragioni editoriali, profili caratteriali, addirittura ossessioni psichiatriche. Tutti argomenti che farebbero felice qualsiasi sceneggiatore, ma latita in maniera desolante la politica. A sei mesi dalle elezioni non si capisce ancora perché Azione e Italia Viva si siano presentate insieme, quale sia la loro linea politica per l'oggi e per il futuro, il profilo programmatico del partito unico che era nei loro progetti e le possibili alleanze. Nulla di tutto ciò ha caratterizzato il dibattito di questi mesi, al punto che la rottura è avvenuta su altro.

Ora, un partito, o meglio due, può anche avere un'anima dadaista, ma la sua ragion d'essere non può che essere politica. Che, invece, è difficile da ritrovare in quella fiera dell'ego, in quella tensione narcisista che ha accompagnato il tragitto verso il matrimonio di Azione e Italia Viva. Specie l'atteggiamento di Calenda risponde più a categorie psicologiche che non politiche. Il leader di Azione si è sempre presentato come l'uomo del destino, al punto che ha subordinato la nascita della formazione centrista alla sua leadership: o era lui il capo, o non se ne faceva niente. Non per nulla ha preteso che il suo nome fosse scritto nel simbolo del partito. Lo stesso spirito di chi gioca una partita in parrocchia e se non vince si porta via il pallone.

In fondo è quello che ha fatto. Appena è stata ventilata l'ipotesi di una candidatura alternativa, magari al femminile, si è adombrato fino a mandare tutto all'aria. Insomma, più che un congresso vero, sognava un congresso truccato. Il motivo è semplice: una leadership nasce su una politica, giusta o sbagliata che sia. Quella di Calenda è rimasta un rebus. Almeno Renzi, con il suo stile manovriero, qualche segnale sul versante del centrodestra lo ha inviato. Calenda, invece, a sinistra è rimasto del tutto spiazzato dall'avvento della Schlein. Non ha approfittato della svolta radicale del Pd, magari per trasformare il suo porto in un possibile approdo per gli esuli riformisti di quel partito in cerca di una nuova patria. È rimasto afono.

Per cui l'occasione si è trasformata in handicap: il nuovo soggetto stenta ad essere una possibile opzione per gli scontenti del Pd, ma nel contempo verifica giorno dopo giorno come un'alleanza con il partito della Schlein, che compete con il grillismo sul terreno del populismo di sinistra, rischia di essere contro-natura per chi coltiva un'anima riformista o liberaldemocratica. Non avendo una ricetta politica convincente, ha tentato di darsi un'identità nello scontro con Renzi. Un meccanismo perverso in cui la politica, appunto, lascia il campo alla psicologia. Così la kermesse della Leopolda è diventata un problema, la direzione del Riformista di Renzi pure, come se di politici direttori di giornali non fosse piena la storia. Fino al divorzio di ieri e magari alla rappacificazione di dopodomani: in politica contano i numeri e da soli i due duellanti non contano un tubo entrambi. A meno che tutti e due non diventino a loro volta degli esuli alla ricerca di un porto sicuro.

Voti e soldi persi. Il crac Terzo polo è anche finanziario. E dopo il divorzio riparte la diaspora. Addio sogni di gloria se si sfaldano i gruppi parlamentari unitari. Pasquale Napolitano il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Carlo Calenda si rifugia nella città della pace in cerca di meditazione. Lo stato maggiore di Azione si raduna ad Assisi per una due giorni di incontri e riflessioni organizzata da Harambee, l'associazione culturale fondata da Matteo Richetti ai tempi del Pd. La terra di San Francesco è il luogo ideale per ricompattarsi dopo il fallimento del progetto di partito unico con Italia Viva. Calenda impone il silenzio stampa ai suoi, ma non rinuncia a un nuovo affondo contro gli ex compagni di viaggio: «Ho rotto con il Pd quando ha tradito la parola alleandosi con Renzi e i 5S. Ho rotto con Letta quando ha trasformato l'agenda Draghi in quella Bonelli/Fratoianni/Di Maio. Non sono caduto nella fregatura di Renzi e Boschi sul finto partito unico».

Il leader di Iv ribatte: «In queste ore Carlo Calenda sta continuando ad attaccarmi sul piano personale, con le stesse critiche che da mesi usano i giustizialisti». «Se sono un mostro oggi, lo ero anche sei mesi fa quando c'era bisogno del simbolo di Italia Viva per presentare le liste», replica insomma Matteo Renzi.

Al netto del botta e risposta, la certezza è la morte del progetto del partito unico. Nonostante in queste ore siano al lavoro i pontieri. Due su tutti: Ettore Rosato e Enrico Costa. Mara Carfagna infrange il silenzio stampa per lanciare accuse contro Renzi: «La trattativa sul partito unico è stata interrotta perché non portava da nessuna parte, e Italia Viva lo sa bene. È inspiegabile l'acrimonia con cui, a tre giorni di distanza, Italia Viva continua a sparare su Carlo Calenda. Non tutte le trattative vanno a buon fine e il diritto a difendere la propria visione esiste per tutti, per loro come per noi. Ne prendano atto, voltino pagina».

Da Forza Italia Maurizio Gasparri infila il dito nella piaga contro gli ex colleghi Fi: «A quanti hanno fatto scelte diverse dalle nostre, illudendosi di vivere nuove stagioni di gloria al seguito di Calenda e nel connubio con Renzi, alla luce dei gravi insulti che si stanno scambiando i due, con accuse da codice penale, viene spontaneo chiedere: ne valeva la pena? Lo dico senza polemica. E penso a persone come Gelmini o Moratti. Non faccio inviti al ritorno, inopportuni e per i quali non dovrei titolo, ma dico, alla Marzullo, fatevi una domanda e datevi una riposta». Dal fronte Pd, Elly Schlein resta defilata. Ora la prima questione da affrontare riguarda i gruppi in Parlamento. Se si sciolgono si perdono milioni di euro. La seconda questione aperta è il futuro dei due partiti. Azione avvierebbe nelle prossime settimane un percorso costituente che porterebbe alla nascita di un nuovo soggetto politico. Del quale Calenda sarà leader. Dovrebbe essere confermata la road map del Terzo Polo: tempi strettissimi, tra giugno e ottobre. Discorso diverso per Italia Viva: da subito scattano i congressi comunali, provinciali e regionali. Per arrivare poi al congresso nazionale, che cadrà però dopo le Europee, per la scelta del leader che avverrà con le primarie. Luigi Marattin ha una visione leggermente diversa sul futuro di Iv: «L'idea di un partito nuovo dei riformisti è intatta. Se gli attuali protagonisti hanno fatto queste scelte, ne troveremo altri». La Leopolda, pomo della discordia tra Renzi e Calenda, si terrà dall'8 al 10 marzo del 2024. Alla vigilia delle Europee.

«Renzi e Calenda? Due egocentrici e nessun leader Ovvio finisse così». Il filosofo Massimo Cacciari

Il filosofo al Dubbio: «Sia che prima o poi finiscano insieme sia che si compirà il divorzio definitivo, ormai è evidente che l'operazione di un "nuovo centro" è del tutto tramontata». Giacomo Puletti Il Dubbio il 14 aprile 2023

Il filosofo Massimo Cacciari, già sindaco di Venezia, analizza il divorzio tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, spiega che «non c’è alcun senso nel tentare disperatamente di formare un centro davvero rappresentativo in questo paese», definisce i due leader come «personaggi animati da un egocentrismo scatenato» e giudica «ridicolo pensare che oggi in Italia ci sia un problema di moderazione o di centro».

Cacciari, il progetto del partito unico del terzo polo è definitivamente morto, a detta di Calenda, ma Renzi risponde che è «un autogol clamoroso». Che ne pensa?

Penso che tutto questo sia di scarsissimo interesse. Sia che prima o poi finiscano insieme sia che si compirà il divorzio definitivo, ormai è evidente che l’operazione di un “nuovo centro” è del tutto tramontata. Ma d’altronde si sapeva anche prima che cominciasse. Non c’è alcun senso nel tentare disperatamente di formare un centro davvero rappresentativo in questo paese.

Eppure entrambi, sia Renzi che Calenda, si oppongono a quello che chiamano il bipopulismo di destra e sinistra: non stanno così le cose?

Direi di no e direi anche che la situazione è chiara: da una parte c’è una coalizione di destra, dall’altra devono cercare di fare una coalizione che possa svolgere un’opposizione a chi governa attualmente il paese. Poi che questa coalizione sia di un tipo o di un altro, cioè più spostata verso il centro o verso sinistra, è secondario. Ma certo non si può costruire con personaggi animati da un egocentrismo scatenato come sono Renzi e Calenda.

Crede che in mezzo alle coalizioni che ha appena descritto non ci sia dunque spazio per i cosiddetti “moderati”, magari provenienti anche da Forza Italia e da una parte del Pd?

Se vogliamo parlare di contenuti, parliamone. È ridicolo, e sottolineo ridicolo, pensare che oggi in Italia ci sia un problema di moderazione o di centro. Occorre avviare un percorso di riforme radicali, altro che moderazione. Riconosco che alcune di queste riforme, come quella della Costituzione, provò a farle Renzi negli anni del suo governo, ma bisogna fare quella del mercato del lavoro, quella del fisco, tutte con scelte che devono essere radicali e guardare al futuro, per non aumentare il debito.

Cosa ha portato secondo lei alla rottura tra Renzi e Calenda?

Stiamo parlando di personaggi egocentrici, che hanno una mania di protagonismo e che non sono in grado di fare i capi di partiti o di guidare movimenti. Hanno la loro immagine allo specchio dalla mattina alla sera. Sono la negazione del leader politico, che dovrebbe accentrare e aggregare e non dividere, come invece fanno entrambi.

Ha parlato di una coalizione che unisca le opposizioni al centrodestra, ma come possono andare d’accordo Renzi, Calenda, Conte e Schlein?

Non lo so, ma quel che è certo è che il centrodestra una coalizione ha saputo farla, gli altri no. E così la destra vince e la sinistra perde. È matematica.

Messa così sembrerebbe che Meloni possa governare all’infinito…

Beh ma non ci sono mica soltanto le faccenduole italiane. Ci sono questioni internazionali da affrontare, ci sono le guerre, se dipendesse solo dalle beghe interne Meloni governerebbe 500 anni ma i governi cadono e le coalizioni si disfano per tanti motivi.

Finirà che i voti moderati se li prenderà Schlein?

Si può benissimo formare un partito riformista senza Calenda e Renzi, ma bisogna vedere cosa ha in testa la Schlein. Per il momento rappresenta un’immagine, cioè quella di una donna giovane che ha provocato un rimbalzo nelle intenzioni di voto al Pd rispetto alla debacle dem. Ma bisognerà vedere come funzionerà il gruppo dirigente intorno a lei e quali opposizione si determinano nel Pd rispetto alla segreteria.

Uno dei motivi della rottura tra Renzi e Calenda è la direzione del Riformista assunta dal primo: che effetto le ha fatto?

Un fatto molto strano ma anche divertente. Il mio amico Emanuele Macaluso si rivolterà nella tomba. Ma è anche il segno che evidentemente il rapporto con Calenda non funzionava, ora vediamo se Renzi sarà bravo come giornalista.

Addio partito unico "è un errore di Calenda, un autogol, ma è una scelta unilaterale". Renzi, la rottura con Calenda e le 10 fake news: “Voleva il Riformista giornale del Terzo Polo con abbonamento ai tesserati”. Redazione su il Riformista il 14 Aprile 2023

Il Riformista è “una voce libera” ed è chiaro “che non è il giornale del Terzo Polo come mi aveva detto di fare Calenda“. Queste le parole di Matteo Renzi, leader di Italia Viva e dal prossimo 3 maggio direttore editoriale del Riformista. A radio Leopolda, l’ex premier spiega la rottura con Azione e l’addio al partito unico del Terzo Polo. “L’amarezza dei militanti è anche la mia perché non c’è niente di politico nella divisione che è maturata” sottolinea Renzi. “Io però non intendo alimentare la polemica, ho fatto solo un tweet ieri facendo un appello a non rompere, ad andare avanti tutti insieme, ho dimostrato credo in questi mesi di dare la massima disponibilità e di più non potevo fare. Non c’è una motivazione politica per questa rottura” aggiunge.

Renzi poi va nel dettaglio della rottura, etichettata come una scelta unilaterale di Calenda: “Carlo ha deciso nella sua libertà e autonomia di convocare una riunione, sfissarla, farci sapere via stampa che il partito unico era morto. Direi che è inutile adesso rinfacciarsi le responsabilità o rimpallarsi la colpa, parliamo di futuro”, prima di ribadire che è sfumata “una grande occasione, non ci sarà il partito unico, Calenda ha scelto di non farlo, è un errore, un autogol, ma è una scelta unilaterale”.

Tornando al Riformista, Renzi assicura che “ci divertiremo un sacco”, sottolineando che “chi ha paura delle idee non sono quelli che amano la politica, sono solo populisti e sovranisti. Chi ha voglia di approfondire, dialogare, anche discutere non può aver paura del Riformista o della Leopolda”. Il suo Riformista uscirà “dal 3 maggio e vi posso garantire che sarà una voce libera in più”. Ribadisce che non sarà il giornale del Terzo Polo “come mi aveva detto di fare Calenda. Io gli ho risposto di no perché questa era un’idea di Carlo, che voleva dare a tutti i tesserati l’abbonamento del Riformista. No, il Riformista è uno spazio di libertà”.

E’ un problema che un parlamentare fa il direttore? È sempre stato così – ricorda l’ex premier – lo ha fatto Sergio Mattarella ben più autorevolmente di me con il Popolo, lo ha fatto Massimo D’Alema e qui il ben più autorevolmente non ce lo metto, lo ha fatto Walter Veltroni, lo ha fatto Bettino Craxi. È una tradizione italiana quella di avere leader politici che alimentano il dibattito su un giornale, fin dai tempi di Ricasoli. Anche Spadolini è stato direttore di un giornale”.

Sul governo Meloni rivendica: “Come è possibile che nessuno faccia notare alla Meloni che quando deve fare le nomine mette tutti quelli che avevamo scelto noi, dopo che per anni ci ha accusato di essere schiavi delle lobby? Se oggi noi fossimo in una situazione serena dovremmo dire che il tempo è galantuomo, all’Eni, alle Poste, persino a Leonardo dove è stato chiamato quel Cingolani che aveva fatto il progetto del post Expo quando eravamo al governo. Alla fine noi alla Meloni non chiediamo i diritti d’autore, però il tempo restituisce con gli interessi tutto quello che nel breve periodo sembra che possiamo perdere”.

 LE 10 FAKE NEWS SULLA ROTTURA DEL TERZO POLO – “Non c’è una sola scelta politica che abbia diviso il Terzo polo, ma solo una scelta personale di Carlo Calenda”. È quanto si legge in un documento di Italia Viva – Renew Europe. Tra le altre ‘fake news’ a cui il documento risponde, quella sui ‘problemi personali’ di Renzi con Calenda. Nessun problema personale, assicurano da Italia Viva, sottolineando che “Renzi ha permesso a Calenda di diventare ministro, ambasciatore, leader del terzo polo e lo ha sostenuto sia alle Europee che al Comune di Roma, contribuendo a finanziarne le campagne elettorali. È evidente che Renzi non ha nessun problema personale o caratteriale con Calenda”.

Nel testo si sottolinea che non è stata la Leopolda il pomo della discordia perché “Renzi l’ha sempre organizzata, quando era sindaco, quando era premier, quando era nel Pd, quando era in Iv, perché la Leopolda è uno spazio di libertà” che anche per Calenda era “straordinariamente bella”. Si rimarca che era già stata fissata la data del 29 ottobre per lo scioglimento di Iv, che Italia Viva avrebbe contribuito al 50% di tutte le spese (quindi nessun problema sui soldi), e che il problema non era neanche la direzione del Riformista: “Calenda era entusiasta della scelta di Renzi”, e lo ha manifestato “sia su Twitter che nelle trasmissioni televisive”.

Sono fake news che Renzi “non voleva la norma sul conflitto di interessi”, è “falso” che Renzi “ha votato per La Russa in cambio di una vicepresidenza e della vigilanza”, che non fa il “lobbista” e che la “rottura si è consumata per ragioni politiche”.

Ecco le 10 fake news di Calenda sulla rottura. Il leader di Azione: "Renzi? Sembra quello che ti vende la fontana di Trevi...". Italia Viva risponde svelando le sue dieci fake news sulla rottura. Annarita Digiorgio il 14 aprile 2023 su Il Giornale.

Dopo la rottura tra Matteo Renzi e Carlo Calenda sulla costruzione del partito unico, non si placano le polemiche e le accuse tra i due Azione e Italia Viva.

Se Calenda continua a rilasciare interviste in cui accusa Renzi di averlo voluto "fregare" dall’inizio, e allo stesso tempo di conflitto d’interessi sia per la direzione del Riformista che per le conferenze all’estero, Italia Viva risponde ora con dieci slide modello “governo Renzi” con le fake news sulla rottura del terzo polo. Che però, ricordiamo, resta come gruppo parlamentare per non rinunciare ai privilegi di Camera e Senato.

È vero che Renzi non voleva sciogliere Italia Viva? Falso: si sarebbe sciolta il 29 ottobre 2023, con l’elezione democratica del segretario del partito unico.

È vero che Renzi non voleva Sciogliere Italia Viva? Falso: Italia Viva avrebbe pagato il 50% di tutte le spese (come fatto finora compro le pubblicità personali di Calenda.

È vero che Renzi non voleva la norma sul conflitto d'interesse? Falso: addirittura nel documento proposto da Renzi la norma si applicava non solo ai dirigenti nazionali ma anche a quelli locali.

È vero che il problema è stato la scelta di Renzi di dirigere il Riformista? Falso: Calenda era entusiasta della scelta di Renzi. E qui nelle slide si allega un tweet di Calenda: "Complimenti a Matteo Renzi per il nuovo prestigioso incarico. Il Riformista con Matteo avrà una voce ancora più forte".

È vero che Renzi ha votato per la russa in cambio di una Vicepresidenza o della Vigilanza Rai? Falso: lo dice la matematica e per quello che vale lo dice anche Calenda. E infatti vicepresidenze e vigilanza sono andate a Partito democratico e Cinque Stelle. L’unica presidenza di commissione del Terzo Polo è andata a Enrico Costa (Azione), alla Camera.

È vero che Renzi fa il lobbista? Falso: Renzi siede in diversi consigli d’amministrazione come permesso dalla legge italiana, ma non svolge alcuna attività di Lobbying.

È vero che la rottura si è consumata per ragioni politiche? Falso: non c’è una sola scelta politica che abbia diviso il Terzo Polo ma solo una scelta personale di Calenda.

È vero che Renzi ha problemi personali con Calenda? Falso: Renzi ha permesso a Calenda di diventare ministro, ambasciatore, leader del Terzo Polo e lo ha sostenuto sia alle Europee che al comune di Roma, contribuendo a finanziarne le campagne elettorali. È evidente che Renzi non ha nessun problema caratteriale o personale con Calenda.

È vero che la Leopolda ha causato la rottura? Falso: Renzi ha sempre organizzato la Leopolda, quando era sindaco, quando era premier, quando era nel Partito Democratico, quando era in IV perché la Leopolda è uno spazio di libertà. Calenda stesso intervenendo alla Leopolda diceva che la Leopolda è straordinariamente bella.

È vero che Renzi voleva candidarsi al congresso? Falso: Renzi ha insistito per un congresso democratico, dal basso. Alcuni dirigenti di Italia Viva avevano già annunciato il sostegno a Calenda, altri volevano candidarsi in prima persona. Ma Renzi ha sempre detto che avrebbe dato una mano senza candidarsi in prima persona.

Dostoevskij descrive Carlo Calenda. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il riformista il 17 Aprile 2023 

Da osservatore delle cose politiche italiane, non ho mai giudicato in questi anni in modo positivo Carlo Calenda. In diversi articoli l’ho definito come “un impolitico puro“ o “il Marchese del Grillo“, così come ce l’aveva reso il maestoso Alberto Sordi nell’omonima pellicola.

Chi è un impolitico puro? Uno incapace di portare a casa un compromesso buono e utile alle parti, che in politica e in democrazia è il pane quotidiano. L’incapacità di portare a casa un compromesso può derivare da diversi fattori e alcuni di questi sono dei comuni deficit personali. Quelli che ritengo riguardare Calenda è l’unione di tre sentimenti: il credersi in modo protervo l’unico competente, che in romano è detta “la sindrome der mejo figo der bigoncio“, l’accentrare di conseguenza tutto sulla propria figura, e il disprezzare il punto di vista altrui quando non collima col proprio.

Né possiamo dire che nel campo del business, da dove Calenda pure proviene, non esista il concetto di negoziato fra due parti contrapposte. Come ricorda un altro ex manager di successo prestato alla politica, Ivan Scalfarotto: “[nel business] la responsabilità di portare a casa un progetto sta in primo luogo sul capo: se un team fallisce a un passo dalla chiusura, il fallimento è in primo luogo del capo. Un dirigente di vertice chiude il deal, non fa saltare il tavolo.” Le rotture, in politica come nella vita o nel business, però non sono una cosa anormale. Possono capitare. Il punto è il come capitano. Se non si trova la quadra e si lascia il tavolo, ci si può sempre stringere la mano e dirsi in faccia che l’accordo non c’è, ma la stima perdura. Anche nell’auspicio di un futuro, migliore accordo.

Carlo Calenda, invece, si è specializzato in rotture che lasciano macerie radioattive e fumanti. Rotture in cui lui, Calenda, azzanna l’ex partner nel modo più distruttivo e feroce possibile, salvo poi dichiarare che lui non insulta nessuno. Su questo comportamento lascio a chi è più esperto di me trovare il movente psicologico. Le rotture di Calenda diventano dirupi personali e profondissimi. Calenda ha rotto in questo modo con Enrico Letta del PD, con Emma Bonino di +Europa, con Federico Pizzarotti della Lista Civica Nazionale, poi confluita in +Europa, e, da due giorni a questa parte, con Matteo Renzi di Italia Viva. Ossia, il politico di Roma Nord ha litigato personalmente con tutti i leader del centrosinistra italiano del 2022/23.

Un comportamento così distruttivo e autodistruttivo è prodromico, a mio avviso, di un’uscita di scena dalla politica nazionale per Carlo Calenda. Che si ritiri lui, o che venga disarcionato da leader di Azione da una corrente contraria, lo vedremo. Ma è chiaro che ora il problema è lui, e se Azione vorrà allearsi con altre forze alle prossime elezioni, dovrà per lo meno ridimensionare se non proprio cacciare il proprio attuale leader. Da ieri sappiamo però una cosa in più di Calenda. Grazie alla mania compulsiva con cui il leader di Azione usa i suoi social, è venuta fuori la verità di ciò che questo senatore ha sempre pensato dell’ex alleato Matteo Renzi. Calenda ha usato argomenti e toni travaglieschi, populisti e giustizialisti quando ha infatti scritto: 

Calenda ha così rivelato ciò che davvero pensa di Matteo Renzi, e che ha in ogni evidenza sempre pensato, non solo da ieri, trattandosi di fatti arcinoti a tutti e alla luce del sole da anni. Quindi abbiamo capito che tutte le difese di Renzi e i complimenti che Calenda gli ha fatto in pubblico, su ogni media, dal 6 agosto 2022 a due giorni fa erano semplici e laide balle. Esprimevano la totale presa in giro degli iscritti di Azione e di Italia Viva e degli italiani, nel momento in cui Calenda chiedeva al popolo di sostenere il suo progetto di fare nientemeno un “partito unico” [sic! si dice “unitario”] con il “mostro” Renzi.

Lo stesso Renzi ha avuto gioco facile nel rispondere senza abbassarsi al livello dell’ex alleato, ricordandogli che se lui è un mostro lo è stato anche quando nominava Calenda sottosegretario o ministro o gli consentiva di presentare Azione alle ultime politiche. Emerge dunque dallo statista di Prati la sua strumentale doppiezza. Una doppiezza non certo togliattiana, ché almeno quella aveva un suo discutibile ma machiavellico fine. La falsità di questo uomo (im)politico è assai meglio descritta da Dostoevskij nel capolavoro I fratelli Karamazov, quando lo starec Zosima – il saggio anziano del monastero che funge da mentore e maestro di Alëša prima della sua morte nel Libro VI – dice a Fëdor Pavloviè – il ricco patriarca della dinastia Karamazov, padre di Alëša, Dmitri e Ivan e quasi certamente padre di Smerdyakov – le seguenti immarcescibili parole, che paiono scritte apposta dal grande maestro russo per lo statista di Prati:

“La cosa più importante è che non mentiate a voi stesso. Colui che mente a se stesso e dà ascolto alla propria menzogna arriva al punto di non saper distinguere la verità né dentro se stesso, né intorno a sé e, quindi, perde il rispetto per se stesso e per gli altri. Costui, non avendo rispetto per nessuno, cessa di amare e, incapace di amare, per distrarsi e divertirsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari e nei suoi vizi tocca il fondo della bestialità, e tutto questo a causa dell’incessante menzogna nei confronti degli altri e di se stesso. Colui che mente a se stesso è più suscettibile degli altri all’offesa. Offendersi a volte è molto piacevole, non è vero? Eppure egli sa che nessuno gli ha arrecato offesa, ma che egli stesso si è inventato l’offesa e ha mentito per mettersi in mostra, ha esagerato egli stesso per creare un quadretto pittoresco, ha tratto spunto da una parola e ha fatto di un sassolino una montagna: egli sa benissimo tutto questo, tuttavia è il primo a offendersi, a offendersi per provare piacere, per assaporare una grande soddisfazione, e così finisce per nutrire autentico rancore…”

(Dostoevskij, I fratelli Karamazov, 2: 2)

Estratto dell’articolo di Alessio Mannino per mowmag.com il 17 aprile 2023.

Se volessimo schizzare in quattro e quattr’otto un ritratto di Matteo Renzi, inizieremmo con una definizione ispirata alle parole di Carlo Calenda, l’attuale socio con il quale è in rotta di collisione: è l’uomo del quarto d’ora prima. 

Secondo il leader di Azione, infatti, il suo omologo e, se continua così, non più alleato di Italia Viva, è quello che confida al proprio sodale di Terzo Polo di aver assunto la direzione editoriale del quotidiano Il Riformista quindici minuti prima di darne notizia urbi et orbi in conferenza stampa. 

Siccome una persona si rivela nei dettagli (che poi, dettagli non sono, rappresentano molto di più), se a questo particolare aggiungiamo la jattanza con cui la settimana scorsa ha condito l’annuncio del suo nuovo ruolo, sottolineando tronfio che la prima a cui l’aveva detto era stata Giorgia Meloni, come se le iniziative fossero di priorità nazionale, in due pennellate avremmo reso, a nostro avviso, il Matteo Renzi uomo e politico.

Due facce che si compenetrano, fondendosi in una sola figura: quella, molto in voga presso la gente che piace, dell’imprenditore di sé stesso, il businessman rampante che usa anche la politica per restare nel giro che conta. Un Berlusconi senza Mediaset e olgettine. Ma che supera il maestro in disinvoltura. 

Mettiamola così: tutto l’immaginario che per quarant’anni, dagli anni ’80 in poi, ha corrisposto a una certa way of life incarnata al più alto grado da Silvio Berlusconi che la ammanniva agli italiani con le sue tv, per cui una vita degna d’esser vissuta equivale a capitalizzare e investire il massimo, surfando da un affare all’altro e ricercando il proprio esclusivo successo calcolato in denaro e potere, insomma vivere incorporando e applicando una mentalità da venture capitalist, un po’ alla JR di Dallas e un po’ alla Briatore, cioè con molta furbizia e pochi scrupoli, questa visione e questo stile di vita ha dimostrato di metterli in pratica, e alla grande, Matteo Renzi.  

[…] Si deve più modestamente tracciare l’istantanea attuale di un capo di partito, per l’esattezza di un piccolo partito che si muove a zig zag in quel luogo di narrativa fantasy che è il famigerato “centro”, che briga, traffica, fa e disfa tenendo come unica bussola sé stesso, per l’appunto. 

L’ego come baricentro, l’auto-affermazione come scopo assoluto, Renzi Matteo oggi snobba con non chalance il co-inquilino d’alleanza Calenda Carlo come si usa fare tra detentori di quote di una società temporanea in cui, a un certo punto, uno tratta l’altro come un estraneo, perché ha in mente altri progetti e altro business (e quindi non vuole cedere uno scellino né vincolarsi). Tutto qua. La politica, per il Nostro, è solo una continuazione della propria economia con altri mezzi. 

Economia nella quale trovano posto, in primissimo piano, un’azienda di consulenze trasformata in una vera holding, proiettata quindi a gestire partecipazioni, che di nome fa Ma.Re Srl (di cui è amministratore e socio unico), e il ruolo ormai ben piantato di conferenziere-intervistatore (“membro orgoglioso”, dice lui) per la Future Investment Initiative Institute, organizzazione senza scopo di lucro del Public Investment Fund, il principale fondo sovrano dell’Arabia Saudita del monarca Mohammad bin Salman (considerato da un rapporto Onu il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Kashoggi).  […]

Il povero Calenda, con quella faccia sconsolata da chi se la prende sempre in saccoccia, viene messo puntualmente di fronte al fatto compiuto. Perché, diversamente dal raider di Rignano, alle idee che professa lui pare crederci davvero.

[…] Ma occhio: non alla maniera di Renzi o di Berlusconi, ovvero usando le formule e formulette come scudo e paravento dei propri affari personali. Carlo l’incompreso ha il candore della sincerità. Lo si vede ad esempio le volte in cui si parodizza da solo, come quando, nel 2019, ammise di aver ripetuto “per 30 anni le banalità del liberismo” e finalmente aveva capito che “sono solo cazzate”.

Il problema è che le ridice pure adesso, più o meno. E che casca dal pero ogni volta che il compare Renzi lo prende per il naso. Forse una vena masochista, in Calenda, c’è. E inserire nello statuto dell’improbabile, a questo punto, partito unico del Terzo Polo l’incompatibilità con chi viene pagato da altri Stati, è una mossa un tantinello tardiva, o no? 

Ma tornando all’inafferrabile Matteo, messo nel conto tutto quanto, alla fine il cittadino contribuente potrebbe anche chiedersi: ma se questo si fa li affari sua, perché dovremmo ancora stipendiarlo in qualità di senatore della Repubblica?

È stato eletto, certo. Ma a parte il fatto che abbiamo una legge elettorale con le liste bloccate, e più che eletti, i parlamentari sono unti dal signore delle tessere di turno, se vogliamo farci del male in fondo e andare a spulciare l’attività del capo di Italia Viva a Palazzo Madama, scopriremmo che nella passata legislatura, 2018-2022, è stato presente (e cioè anche votante) nel 35,4% delle sedute, e secondo Openpolis, nella votazioni “chiave”, solo nel 45 per cento dei casi.

Va bene, ci sono le “missioni” esterne e tutte quelle incombenze maggiorate per i leader di partito (la stessa Meloni non ha fatto di meglio, e l’ex segretario del Pd Enrico Letta anche peggio, come Matteo Salvini del resto). Però, siccome anche qua il sempre umile Renzi faceva lo sborone (“Ho oltre il cinquanta per cento di presenza in aula durante i voti. Quando conta ci sono sempre”, 29 novembre 2029), allora un po’ di prurito, all’elettore pagante, viene. Prurito alle mani, per la precisione.

Cristina Comencini: «Papà Luigi con le attrici? Amava troppo mamma. Mio figlio Carlo Calenda da piccolo non stava mai fermo». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

La regista: «Ero in Lotta continua, tenevo i bimbi alle compagne e mio figlio Carlo Calenda giocava con loro». «Mamma morì prima di compiere novant’anni: non volle festeggiare, “lasciatemi andare da papà”. Al funerale tagliammo la torta»

Cristina Comencini, qual è il suo primo ricordo?

«Il lettino di mia sorella, nata dopo di me, accanto al lettone dei miei genitori. Eleonora dormiva con loro».

E lei era gelosa?

«Questo non lo so. Però un pomeriggio mi svegliai urlando: non volevo più la tata, solo la mamma».

E il primo ricordo pubblico?

«L’invasione della Baia dei Porci, la crisi di Cuba. Papà cominciò ad accumulare latte condensato, pasta, viveri. Pensai che fosse impazzito. Ma lui, come quelli della sua generazione, aveva sempre la guerra in testa. Noi mai. Noi la guerra non sappiamo cosa sia. Loro lo sapevano».

Com’è stata la sua infanzia?

«Stupenda e selvaggia. Abitavamo alla Camilluccia e avevamo un grande cortile, dove passavo le giornate. Uscivo in bicicletta, giocavo a cavalcare il cane lupo di papà, Dago. La sera mi chiamavano perché tornassi a casa. Non giocavo con le bambole, non studiavo mai, a scuola andavo male. Non riuscivo a stare ferma».

Com’era suo padre, Luigi Comencini?

«Era nato a Salò, figlio di un ingegnere bresciano e di una svizzera di religione valdese. Papà era moralista, severo, taciturno, ma dolce con i bambini».

E sua madre?

«Era figlia di una principessa napoletana. Aristocrazia decaduta: “Non potremmo venderci un po’ di titoli?” chiedeva sorridendo suo fratello. Papà la incontrò a teatro, a una commedia di Eduardo. Fu attratto dalla sua risata. Si rividero a pranzo alla fiaschetteria Beltramme, che era il ritrovo della gente del cinema, da Lattuada a Carlo Ponti. Fu l’inizio di una grande storia d’amore, durata tutta la vita. Mio padre era un po’ anomalo…».

Cioè?

«Al tempo era considerato normale che il regista andasse a letto con l’attrice, come il pittore con la modella. Ma papà era troppo innamorato di mamma. Credo che trovasse meravigliosa Claudia Cardinale; ma lui non era quel tipo d’uomo. Anche se mi accorsi che sul set si trasformava».

In che modo?

«Era rispettosissimo dei tecnici, degli elettricisti. Ma con gli attori manteneva un certo distacco, una sua durezza. Aveva un rapporto speciale solo con i piccoli. Era convinto che l’infanzia fosse l’unico momento della vita davvero libero».

In effetti Comencini ha portato in tv i due grandi libri di formazione degli italiani, Pinocchio e Cuore.

«Sempre e solo maschietti. Un giorno gli chiesi: papà, e le femminucce? Mi rispose: le bambine sono già donne».

E lei?

«Dissi: “Ma come papà, nemmeno la libertà dell’infanzia ci volete lasciare?”. La sorte volle dargli solo figlie femmine: oltre a Eleonora e me, Paola, la più grande, e Francesca, la più piccola. Non voleva che facessimo il suo mestiere; invece tutte e quattro abbiamo lavorato nel cinema. Comunque, Pinocchio resta un capolavoro».

Franco e Ciccio erano il gatto e la volpe.

«Come fata turchina fu scelta, o forse imposta, la Lollobrigida, con cui mio padre non andava d’accordo. Così la trasformò in una streghina. Nel libro di Collodi, Pinocchio diventa un bambino soltanto alla fine; ma un film non può reggersi su un burattino. Così mio padre e Suso Cecchi D’Amico ebbero un’idea geniale: Pinocchio è un bambino che la fata turchina trasforma in burattino quando si comporta male».

Com’era Suso Cecchi D’Amico?

«Ho imparato molto da lei. Insieme abbiamo sceneggiato “Cuore”. Non era una che si metteva a insegnare, ma mi dava fiducia: “Tu cosa faresti?”. L’altra mia grande maestra è stata Natalia Ginzburg».

Perché?

«Le mandai un racconto lungo firmato con il mio nome, e me lo rimandò indietro. Tempo dopo, le feci avere un romanzo, “Le pagine strappate”, firmato con il cognome del mio secondo marito, Tozzi. Mi chiamò dopo 48 ore: aveva deciso di pubblicarlo. Un’emozione grandissima, rimasi muta al telefono».

Per suo padre lei è stata anche attrice, in «Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano».

«Ovviamente avevo una parte molto castigata: la conversa, abbottonata sino al collo, che si innamora del giovane Casanova, in un primo tempo ricambiata. Ma quando lei gli dice “vivremo poveri ma avremo tanti bambini”, lui impallidisce e si rifugia tra le braccia di due cugine allegre».

Lei ha avuto davvero un bambino giovanissima.

«Avevo fatto la scuola francese, che dura un anno di meno. Nell’estate della maturità partii con il mio fidanzato, Fabio Calenda, e ritornai incinta. Ne parlai a mia madre. In bagno, il luogo delle confidenze».

Cosa le disse?

«L’anno prima aveva perso un bambino: il maschio sempre atteso e mai arrivato. Mi disse: tienilo, il tuo, ma non sentirti obbligata a sposarti. Dette da mamma, che era molto cattolica, quelle parole furono importanti».

Com’era Carlo da piccolo?

«Come me: non voleva mai stare fermo. Vivacissimo. Neanche lui amava la scuola, anche se non fu mai bocciato: faceva il suo, poi usciva a giocare. Aveva molti amichetti, che un po’ dirigeva. Prima ancora lo ricordo in piedi nel box, mentre con due compagni di università ripetevo le lezioni d’economia…».

Il suo maestro era Federico Caffè. Che idea si è fatto sulla sua scomparsa?

«Caffè era un monaco dell’insegnamento. Misogino, dall’identità sessuale irrisolta. Forse non si è suicidato, si è rinchiuso da qualche parte. Di certo si è tolto dal mondo. Come Maiorana. E un po’ come Ettore Scola: che non scomparve, si ritirò».

Come mai sceglieste Carlo per il ruolo di Enrico, il protagonista di Cuore?

«Era lì… e con il nonno aveva un rapporto speciale».

Anche Carlo diventò padre molto presto.

«E io diventai nonna a 35 anni».

Cosa gli disse?

«Gli consigliai di fare il papà senza rinunciare a nulla. Così prese la licenza liceale, poi la laurea. In famiglia siamo sempre stati così: quando arrivava un bambino, era una cosa bella, non un problema; e se ci sono problemi, si risolvono. Subito dopo nacque Luigi, il figlio che ho avuto da Riccardo Tozzi, il produttore».

Come mai finì tra lei e Fabio Calenda?

«Per giovinezza. Avemmo anche una figlia, Giulia. Ma eravamo troppo piccoli, con tutto ancora da fare. Le strade si separarono».

È vero che lei era in Lotta continua?

«Sì. Al seguito di Fabio. Non ero una vera militante; anche perché avevo orrore degli scontri di piazza, come di qualsiasi forma di violenza. Il mio compito era prendermi cura dei figli delle compagne. Che quindi giocavano con Carlo».

Il suo ultimo libro, Flashback, è la storia di quattro donne in epoche diverse. Ma tutto comincia con un’amnesia. Proprio come in un altro suo libro, «La bestia nel cuore», da cui trasse il film che rappresentò l’Italia all’Oscar.

«“La bestia nel cuore” prende spunto da un fatto di cronaca: un fratello e una sorella, figli di un professore del liceo Tasso, abusati dal padre, senza che la madre, pur sapendolo, intervenisse. La realtà, rimossa, prima o poi ritorna, anche dopo decenni».

Lei ha mai subito molestie nel suo lavoro?

«Sul lavoro, no. Come quasi tutte le giovani donne ho avuto l’esperienza degli esibizionisti per strada, di quelli che ti mettono le mani addosso sugli autobus. Ma so che molte attrici hanno dovuto sottostare a molestie e ricatti».

Del MeToo si discute molto. È giusto denunciare anni o appunto decenni dopo?

«Certo che è giusto! A volte occorre molto tempo per elaborare quel che è accaduto, per trovare il coraggio di raccontarlo. Spesso la donna è vittima due volte: dell’uomo e del senso di vergogna che prova, come se fosse lei la colpevole».

Lei ha diretto Asia Argento.

«Quando aveva tredici anni. Una ragazza sensibilissima e bellissima, molto bisognosa di affetto. Ci eravamo perse di vista, ci siamo riviste da poco».

E cosa le ha detto?

«L’ho abbracciata».

Quindi ha fatto bene a denunciare Weinstein?

«Ha fatto benissimo».

Altre sue attrici sono Giovanna Mezzogiorno…

«Istintiva, generosa, viscerale: degna di suo padre».

E Margherita Buy, di cui si dice che reciti sempre un po’ se stessa: la donna di sinistra, all’apparenza insicura, nevrotica…

«Non sono d’accordo. Certo, i registi tendono a collocarti sempre nella stessa parte. Ma Margherita è una grande attrice. E nella parte entra sino in fondo. Quando giravamo “Il più bel giorno della mia vita” sentivamo un suono che il fonico non riusciva a togliere. Non capivamo cosa fosse. Era il battito del suo cuore».

E Virna Lisi?

«Mi ricordava mia madre: brusca, sprucida; una signora borghese che si trasformava in una grande attrice. Quando fui candidata all’Oscar mi regalò un grosso corno, contro le invidie».

Quanto c’è di autobiografico nel suo ultimo libro?

«In Flashback non c’è nulla che non sia vero. Ricostruisco cose che sarebbero svanite, o chiuse in una scatola che nessuno apre».

Una delle quattro protagoniste vive al tempo della Rivoluzione bolscevica. Un periodo cui lei ha dedicato un altro libro che ha fatto discutere, «L’illusione del bene».

«Il comunismo è stato una tragedia. Rimossa. La sinistra italiana ha evitato di fare i conti sino in fondo con il passato. Le difficoltà del Partito democratico si spiegano anche così. Per quel romanzo fui attaccata dall’Unità. Mi confortò una lettera di Ezio Mauro, che mi scrisse: finalmente qualcuno ha scritto il libro che mancava sul comunismo italiano».

Poi, al tempo di «Se non ora quando», lei scese in campo contro Berlusconi.

«Che non fu mai nominato. Ci schierammo per la dignità delle donne: un milione di persone in tutta Italia, attrici e suore, scrittrici e operaie. Forse la più grande manifestazione nella storia del nostro Paese».

Le donne italiane hanno fatto passi avanti enormi.

«Certo. Ma ci vuole molto tempo per superare millenni di sottomissione. Ricordo una conferenza a Salina, in cui dissi che la rivoluzione delle donne era riuscita, senza spargimento di sangue. Intervenne Vittorio Taviani, il regista: “Un po’ di sangue sarà sparso”. Aveva ragione: guardi il martirio delle iraniane».

Cosa pensa di Giorgia Meloni?

«Una donna che ha fatto un enorme lavoro, in un mondo del tutto maschile. Ha avuto carattere, fortuna, capacità. Ma se ci è riuscita, è anche grazie al movimento delle donne; pure se lei non lo rivendica».

Cos’ha votato alle ultime elezioni?

«Ovviamente per Azione».

È stato un errore non fare l’accordo con il Pd?

«Ma Carlo l’aveva fatto, e ne era felice. Poi si è visto smontare l’accordo firmato. L’hanno boicottato in ogni modo. Resto convinta che attorno ad Azione possa nascere il partito riformista che manca all’Italia».

Perché è finita anche con il suo secondo marito?

«Perché dopo quarant’anni le cose cambiano. Non pensi mai di essere capace di separarti; eppure accade. È un grande dolore; ma ci vogliamo sempre molto bene. Ora ho un compagno francese, François Caillat, autore di documentari. Viviamo tra Roma e Parigi».

Crede in Dio?

«Non lo so. Ci penso. Con la mia nonna svizzera ho frequentato la chiesa valdese di piazza Cavour: la pastora Maria Bonafede era una figura straordinaria».

Ha paura della morte?

«Per ora no. Troppe cose da fare».

Come pensa l’Aldilà?

«Qualcosa di noi resta, anche se non la coscienza individuale. Siamo tante piccole onde nel mare, che si infrangono e si ricompongono».

Come fu la morte dei suoi genitori?

«Mio padre se ne andò dopo una lunga malattia. Il Parkinson lo spense poco a poco; alla fine non era più lui, ma fu comunque una lacerazione. Mia madre morì prima di compiere novant’anni: non volle festeggiare, “lasciatemi andare da papà”. Al funerale tagliammo la torta che le avevamo preparato per il compleanno».

"Una vicenda sempre più incredibile…" Inchiesta Open, gup dichiara nulli sequestri chat e mail. Renzi: “Ennesima sconfitta dei pm di Firenze”. Redazione su Il Riformista il 10 Novembre 2023

Dichiarati nulli i sequestri di chat e di email relativi all‘inchiesta della procura di Firenze sulla Fondazione Open e inviata nuova richiesta a Camera e Senato per l’autorizzazione a procedere al sequestro probatorio di email, cosa non fatta all’epoca. E’ quanto stabilito dalla giudice dell’udienza preliminare di Firenze Sara Farini nel corso dell’udienza di venerdì 7 novembre.

“Oggi ennesima puntata dell’udienza preliminare Open. La gup ha detto che i sequestri di corrispondenza fatti dal pm Turco erano illegittimi. Tanto per cambiare. Quindi ennesima vittoria nostra, ennesima sconfitta dei pm di Firenze. Una vicenda sempre più incredibile…”. E’ quanto scrive su twitter il leader di Iv Matteo Renzi, nonché direttore editoriale del Riformista.

Chat e email in questione avevano come interlocutori Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Francesco Bonifazi (non imputato) nel periodo in cui erano parlamentari. Il giudice, inoltre accogliendo l’istanza della procura di Firenze, ha chiesto a Camera e Senato l’autorizzazione a procedere al sequestro probatorio di email. La prossima udienza è fissata per il 4 aprile del 2024.

Il gup ha dunque dichiarato “illegittimi” tutti i sequestri operati dalla Procura di Firenze nei confronti dei parlamentari indagati nell’inchiesta sulla Fondazione Open. Pertanto dovranno essere il Senato e la Camera dei deputati a valutare gli atti di sequestro compiuti dai magistrati fiorentini, il procuratore aggiunto Luca Turco e il sostituto procuratore Antonino Nastasi, nei confronti dei parlamentari ed ex parlamentari coinvolti nell’inchiesta.

Con un’ordinanza depositata oggi, il Gup ha accolto la richiesta della Procura, a cui si erano uniti nel corso delle udienze i difensori degli imputati, di inoltrare la richiesta ai rispettivi rami del Parlamento per poter utilizzare il materiale già sequestrato. Adesso spetterà allo stesso Gup inoltrare entro dieci giorni la richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera e al Senato per l’utilizzabilità della corrispondenza telematica sequestrata ai parlamentari e depositata agli atti del processo. Nei mesi scorsi la Corte costituzionale aveva dichiarato che il sequestro del materiale era avvenuto in modo illegittimo da parte della Procura poiché non era stata richiesta la preventiva autorizzazione alle Camere.

Sempre più debole la ricostruzione dei Pm Turco e Nastasi secondo cui la Fondazione Open, che animò e finanziò la scalata politica dell’ex sindaco di Firenze alla guida del Pd e le sue kermesse politiche come la Leopolda, sarebbe stata un’articolazione di partito e perciò Renzi, Boschi e Lotti sono stati indagati in concorso per finanziamento illecito ai partiti. I magistrati hanno chiesto il rinvio a giudizio per l’ex presidente del Consiglio e altri protagonisti del ‘giglio magico’ come Boschi, Lotti, l’avvocato Alberto Bianchi, che è stato presidente della Fondazione Opne, e l’imprenditore Marco Carrai. Il procedimento davanti al giudice per l’udienza preliminare per esaminare la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura per 12 indagati è in corso dall’aprile 2022.

Renzi e l’ultima battaglia (vinta) sulla mala giustizia: il caso allucinante del cognato. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2023

I fatti contestati dalla Procura erano del 2011, l’indagine è iniziata nel 2016. Luca Turco , quello di Open e dell’arresto dei genitori di Renzi, ha detto durante la sua requisitoria, che dopo sette anni e mezzo di indagine e un processo infinito anche lui si è convinto che il fatto non sussiste

Una polemica interminabile quella tra politica e magistratura, che continua da trent’anni. Una vicenda che ha lasciato aperta una profonda ferita. Una vicenda familiare, sfociata in una dinamica pubblica. Matteo Renzi, torna ad attaccare sulla sua Enews, il potere giudiziario. “Chi mi segue da tempo sa che nel pieno della campagna referendaria del 2016 tra le tante fake news che mi hanno mostrificato l’immagine c’era quella di mio cognato Andrea, il marito di mia sorella Matilde, che avrebbe aiutato a sottrarre dei fondi dell’Unicef”.

La Procura di Firenze ha chiesto l’assoluzione del cognato di Matteo Renzi, Andrea Conticini, e dei suoi fratelli Alessandro e Luca, imputati per una presunta sottrazione di 6,6 milioni di dollari destinati all’assistenza all’infanzia in Africa. I reati contestati erano l’appropriazione indebita e l’autoriciclaggio per Alessandro e Luca Conticini, il riciclaggio per Andrea.

Al centro del processo donazioni provenienti da Fondazione Pulitzer tramite Operation Usa, Unicef e altri enti umanitari internazionali. In relazione al denaro erogato da Unicef l’accusa, rappresentata dall’aggiunto Luca Turco, ha chiesto il non doversi procedere per Alessandro Conticini per intervenuta prescrizione del reato. Riguardo alle altre contestazioni, invece, è stata chiesta l’assoluzione per tutti e tre i fratelli. “perchè il fatto non sussiste”

“La famiglia Renzi ruba i soldi destinati ai bambini africani’” questo il liet-motiv insopportabile che alcuni organi di stampa e diversi parlamentari populisti cavalcarono a quel tempo. I fatti contestati dalla Procura erano del 2011, l’indagine è iniziata nel 2016. Luca Turco (quello di Open e dell’arresto dei miei genitori), durante la requisitoria, ha detto che dopo sette anni e mezzo di indagine e un processo infinito anche lui si è convinto che il fatto non sussiste. E ha chiesto l’assoluzione. Il Fatto Quotidiano ci ha montato sopra una polemica incredibile con tanto di titoli show contro legge ad cognatum, ma il fatto penale non sussiste”. 

Il leader di Italia Viva si sofferma sulla sofferenza del suo congiunto. “Vorrei che per un attimo pensaste ad Andrea, un bravo ragazzo, gran lavoratore, scout bolognese, educatore, laureato in teologia, padre affettuoso di quattro bambine. Ha sposato mia sorella, ok, ma quello non è un reato; non ancora almeno. Gli hanno tolto l’accesso ai conti correnti in banca, gli hanno tolto tanti lavori, gli hanno negato un visto negli Stati Uniti dove doveva accompagnare la sua bambina speciale, la meravigliosa Maria che ha un cromosoma, e una marcia, in più degli altri. Gli hanno tolto il sonno, soprattutto. Ha vissuto sette anni e mezzo con il marchio di infamia più grande: aver aiutato a sottrarre i soldi dei bambini africani. Prima o poi qualcuno si renderà conto di come abbiamo vissuto. Prima o poi qualcuno si scuserà per l’odio che ci hanno buttato addosso. Anche quei partiti politici che oggi fanno le vittime ma che nei miei anni bui organizzavano manifestazioni contro di me e contro i miei. Nel frattempo posso solo augurare ad Andrea di tornare a vivere. Nessuno gli restituirà questi anni, è vero, ma nessuno potrà mai più strappargli il sorriso”. Redazione CdG 1947

Chiesta l’assoluzione per i fratelli Conticini, Renzi: “Montata una polemica incredibile. Prima o poi qualcuno si scuserà”. Redazione su Il Riformista il 26 Ottobre 2023

“Chi mi segue da tempo sa che nel pieno della campagna referendaria del 2016 tra le tante fake news che mi hanno mostrificato l’immagine c’era quella di mio cognato Andrea, il marito di mia sorella Matilde, che avrebbe aiutato a sottrarre dei fondi dell’Unicef”. Con queste parole Matteo Renzi inizia a riepilogare la vicenda processuale che ha toccato la sua famiglia e che visto ieri, con la richiesta del procuratore aggiunto Luca Turco di assoluzione per i fratelli Conticini un importante punto di svolta.

 “La famiglia Renzi ruba i soldi destinati ai bambini africani”, questo il ritornello insopportabile che alcuni organi di stampa e diversi parlamentari populisti allora rilanciarono. È una storia che chi ha letto Il Mostro conosce bene (qui per i pochi che tra voi non hanno letto il libro: rileggerlo adesso dopo le assoluzioni dei miei e di Andrea fa ancora più effetto). I fatti contestati erano del 2011, l’indagine è iniziata nel 2016, ieri il PM, Luca Turco (quello di Open e dell’arresto dei miei genitori) ha tenuto la requisitoria. E cosa ha detto persino Turco, uno che notoriamente non mi ama?

Ha detto che dopo sette anni e mezzo di indagine e un processo infinito anche lui si è convinto che “Il fatto non sussiste”. E ha chiesto l’assoluzione. Il fatto non sussiste, capite? Il Fatto Quotidiano ci ha montato sopra una polemica incredibile con tanto di titoli show contro “legge ad cognatum”, ma il fatto penale non sussiste! Ora io non entro nella vicenda processuale, troppo complessa per essere riassunta in poche righe.

Vorrei che per un attimo pensaste a mio cognato. Bravo ragazzo, gran lavoratore, scout bolognese, educatore, laureato in teologia, padre affettuoso di quattro bambine. Ha sposato mia sorella, ok, ma quello non è un reato; non ancora almeno.

Pensate per un attimo ad Andrea, solo a lui.

Gli hanno tolto l’accesso ai conti correnti in banca, gli hanno tolto tanti lavori, gli hanno negato un visto negli Stati Uniti dove doveva accompagnare la sua bambina speciale, la meravigliosa Maria che ha un cromosoma – e una marcia – in più degli altri.Gli hanno tolto il sonno, soprattutto. Ha vissuto sette anni e mezzo con il marchio di infamia più grande: aver aiutato a sottrarre i soldi dei bambini africani. Provate voi ad affacciarvi su Facebook quando alcuni media ti dicono che sei un ladro e per di più ladro che ruba ai più poveri. Provate voi ad andare a lavorare, a giocare a Risiko, a tornare dai parenti dei genitori che se ne sono andati troppo presto per provare questo dolore: ovunque vai, in questi casi, ti guardano storto.

Ieri, dopo sette anni e mezzo di gogna mediatica, persino il PM chiede l’assoluzione.  Il fatto non sussiste. Prima o poi qualcuno capirà che cosa è successo alla mia famiglia in questi anni. Prima o poi qualcuno si renderà conto di come abbiamo vissuto. Prima o poi qualcuno si scuserà per l’odio che ci hanno buttato addosso. Anche quei partiti politici che oggi fanno le vittime ma che nei miei anni bui organizzavano manifestazioni contro di me e contro i miei. Nel frattempo posso solo augurare ad Andrea di tornare a vivere. Nessuno gli restituirà questi anni, è vero, ma nessuno potrà mai più strappargli il sorriso. Il mio sorriso oggi vale doppio”, conclude il leader di Italia Viva.

Assoluzione per i fratelli Conticini, quando Meloni e Donzelli attaccavano Renzi per l’inchiesta sul cognato. Gli esponenti di FdI dall’opposizione negli scorsi anni non hanno lesinato attacchi all’attuale leader di Italia Viva, solo perché uno degli accusati era il cognato. Redazione su Il Riformista il 26 Ottobre 2023

I fratelli Conticini assolti. È la richiesta del procuratore aggiunto Luca Turco nel processo sulla presunta sottrazione di fondi destinati a progetti per bambini africani con l’accusa di appropriazione indebita (per 6.6 milioni di dollari) riciclaggio e autoriciclaggio per Alessandro, 45 anni, e i gemelli Luca e Andrea (cognato di Matteo Renzi) 40 anni nei confronti dei quali “i fatti non sussistono”.

Ma solo pochi anni fa, la vicenda era stata usata per attaccare strumentalmente proprio Renzi, solo perché parente di uno degli imputati. E le figure protagoniste di questi attacchi sono oggi molto in vista.

Gli attacchi più duri, infatti, erano arrivati proprio da esponenti di Fratelli d’Italia, in primis dall’attuale premier e leader di FdI Giorgia Meloni e da Giovanni Donzelli, oggi figura apicale del partito. I due avevano pubblicato e diffuso alcuni video tramite i canali social, indignandosi e scagliandosi contro l’allora governo di Paolo Gentiloni, definito “amico di Renzi”.

Questo il commento di Renzi dopo l’archiviazione: “Chi mi segue da tempo sa che nel pieno della campagna referendaria del 2016 tra le tante fake news che mi hanno mostrificato l’immagine c’era quella di mio cognato Andrea, il marito di mia sorella Matilde, che avrebbe aiutato a sottrarre dei fondi dell’Unice. La famiglia Renzi ruba i soldi destinati ai bambini africani”, questo il ritornello insopportabile che alcuni organi di stampa e diversi parlamentari populisti allora rilanciarono. È una storia che chi ha letto Il Mostro conosce bene (qui per i pochi che tra voi non hanno letto il libro: rileggerlo adesso dopo le assoluzioni dei miei e di Andrea fa ancora più effetto). I fatti contestati erano del 2011, l’indagine è iniziata nel 2016, ieri il PM, Luca Turco (quello di Open e dell’arresto dei miei genitori) ha tenuto la requisitoria. E cosa ha detto persino Turco, uno che notoriamente non mi ama?

Ha detto che dopo sette anni e mezzo di indagine e un processo infinito anche lui si è convinto che “Il fatto non sussiste”. E ha chiesto l’assoluzione. Il fatto non sussiste, capite? Il Fatto Quotidiano ci ha montato sopra una polemica incredibile con tanto di titoli show contro “legge ad cognatum”, ma il fatto penale non sussiste! Ora io non entro nella vicenda processuale, troppo complessa per essere riassunta in poche righe.

Vorrei che per un attimo pensaste a mio cognato. Bravo ragazzo, gran lavoratore, scout bolognese, educatore, laureato in teologia, padre affettuoso di quattro bambine. Ha sposato mia sorella, ok, ma quello non è un reato; non ancora almeno.

Pensate per un attimo ad Andrea, solo a lui. Gli hanno tolto l’accesso ai conti correnti in banca, gli hanno tolto tanti lavori, gli hanno negato un visto negli Stati Uniti dove doveva accompagnare la sua bambina speciale, la meravigliosa Maria che ha un cromosoma – e una marcia – in più degli altri. Gli hanno tolto il sonno, soprattutto. Ha vissuto sette anni e mezzo con il marchio di infamia più grande: aver aiutato a sottrarre i soldi dei bambini africani. Provate voi ad affacciarvi su Facebook quando alcuni media ti dicono che sei un ladro e per di più ladro che ruba ai più poveri. Provate voi ad andare a lavorare, a giocare a Risiko, a tornare dai parenti dei genitori che se ne sono andati troppo presto per provare questo dolore: ovunque vai, in questi casi, ti guardano storto.

Ieri, dopo sette anni e mezzo di gogna mediatica, persino il PM chiede l’assoluzione. Il fatto non sussiste. Prima o poi qualcuno capirà che cosa è successo alla mia famiglia in questi anni. Prima o poi qualcuno si renderà conto di come abbiamo vissuto. Prima o poi qualcuno si scuserà per l’odio che ci hanno buttato addosso. Anche quei partiti politici che oggi fanno le vittime ma che nei miei anni bui organizzavano manifestazioni contro di me e contro i miei. Nel frattempo posso solo augurare ad Andrea di tornare a vivere. Nessuno gli restituirà questi anni, è vero, ma nessuno potrà mai più strappargli il sorriso. Il mio sorriso oggi vale doppio”

Continuo a combattere per la giustizia e la legalità. “Renzi ubriaco e bastonatore”, le Toghe Rosse mi attaccano perché ho preso carta e penna, ho fatto ricorso e ho vinto. Matteo Renzi su Il Riformista il 3 Ottobre 2023 

Nell’editoriale di prima pagina, Claudio Velardi pone una questione dopo aver assistito all’atto di omaggio deferente (leggasi: inchino) di Giuseppe Conte e Elly Schlein verso il congresso di Palermo della corrente della magistratura Area: come può la sinistra di questo Paese – facendo finta di credere che davvero Conte rappresenti la sinistra e Elly Schlein davvero rappresenti questo Paese – diventare così esplicitamente cinghia di trasmissione di Area, Md e di tutte le toghe rosse?

E in altra pagina Aldo Torchiaro scrive delle varie cinghie di trasmissione che legano il nuovo PD alle toghe rosse, alla CGIL, agli imbrattatori travestiti da ambientalisti eccetera.

Dunque: se cercate raffinate analisi politiche non leggete questo mio pezzo. Saltate la pagina, a più pari. Avete altri articoli più interessanti da consultare.

Qui infatti vorrei solo mettere in fila e raccontarvi qualche sensazione personale dopo aver visto il congresso di una delle più importanti correnti di magistrati attaccarmi in modo furioso, ad personam. Fa sempre un certo effetto quando una corrente di magistrati fa politica. Fa ancora più effetto quando quella corrente ti prende come bersaglio.

Io ormai ci ho fatto l’abitudine. Ma per le Istituzioni è un pessimo segnale.

Cosa avrei fatto di tanto strano? Sono stato accusato di reati inesistenti e anziché gridare al complotto, come va di moda, ho osato fare ricorsi sugli atti – illegittimi – dei miei accusatori.

E questi ricorsi sono stati accolti in Corte Costituzionale, Corte di Cassazione, tribunali vari. Intendiamoci: quelli di Area non hanno l’esclusiva sugli attacchi al mio modo di difendermi dai PM fiorentini.

Giornali come Il Fatto Quotidiano su carta e parlamentari come Carlo Calenda sui social hanno scritto che io uso Il Riformista “per bastonare i magistrati”: sarebbe intrigante soffermarci sulla curiosa identità di linguaggio tra il direttore de Il Fatto e il segretario di Azione. Ma qui non abbiamo tempo per occuparci di loro: de minimis non curat praetor.

Torniamo al punto: perché la corrente di Area mi attacca nel suo congresso?

Intanto partiamo dal linguaggio.

In una intervista a La Stampa il leader delle toghe rosse, Eugenio Albamonte, dice che “Renzi è ubriaco di maggioritarismo”. Ubriaco? Ubriaco. Ubriaco di che? Di maggioritarismo. Che poi era meglio ubriacarsi di Solaia o Masseto, nel dubbio.

Sinceramente non so se sia normale che un magistrato possa rivolgersi a un parlamentare dandogli dell’ubriaco.

Se un politico dicesse di un magistrato che è ubriaco, a qualunque ubriachezza si riferisse, sarebbe immediatamente posto sotto processo. Pensate che i PM di Potenza vogliono processarmi per diffamazione per aver detto che l’indagine su Tempa Rossa è stata uno “scandalo” e un “buco nell’acqua”. Siamo in un Paese in cui le opinioni dei parlamentari sono protette dall’articolo 68 della Costituzione ma ci sono alcuni magistrati – chissà se iscritti a qualche corrente – che decidono di processare un parlamentare “colpevole” di aver detto che l’inchiesta su Tempa Rossa che ha portato a interrogare quattro membri del Governo e a dimettersi un Ministro della Repubblica senza che vi fosse alcun reato da loro compiuto è stata “uno scandalo”.

Nel dubbio lo ripeto: il modo con il quale la procura di Potenza ha coinvolto nel 2016 il Governo della Repubblica nella vicenda Tempa Rossa è stato uno scandalo. E il fatto che la procura di Potenza provi a processare un parlamentare per averlo detto non è solo uno scandalo: è un atto eversivo e anticostituzionale. Ma di questo parleremo nei prossimi mesi, perché intendo investire il Senato del problema. Torniamo a noi. Anzi, agli ubriachi.

Renzi ubriaco di maggioritarismo. Può esprimersi così un magistrato, leader di una corrente? A quanto pare sì.

E io non ho niente contro chi si ubriaca. Grazie a Salvini ubriacarsi ha i suoi vantaggi: pare che sia l’unico modo per trovare un taxi in questo Paese, a giudicare dall’ennesimo annuncio del Ministro dei Trasporti. E per chi pensa meno a Salvini e più alla poesia – come me, del resto, inguaribile romantico – non possono che tornare in mente le celebri parole di Baudelaire: “Bisogna essere sempre ubriachi. Ecco tutto: questo è l’unico problema. Per non sentire l’orribile peso del Tempo che vi rompe le spalle e vi piega a terra, dovete ubriacarvi senza posa. Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi”.

Dunque, caro Eugenio Albamonte, non mi offendo se lei mi considera ubriaco, ubriaco di maggioritarismo.

Mi domando di cosa sia ubriaco lei, cara la mia Toga Rossa, per dire le cose che dice.

Ad esempio quando afferma che io attacco i PM di Firenze colpevoli soltanto di fare il proprio lavoro.

Allora, andiamo con ordine.

Sono indagato da anni in un procedimento assurdo per finanziamento illecito ai partiti. Ancora non si è capito quale sarebbe il finanziamento illecito e soprattutto quale sarebbe il partito visto che i soldi sono andati a una fondazione. Fondazione della quale non facevo parte. E vabbè. Ho promesso ai lettori del Riformista che non avrei mai parlato dei contenuti clamorosi della barzelletta “indagine Open”. Rimango fedele all’impegno. Rimango sul generale.

Il PM che mi ha indagato è lo stesso che ha arrestato mio padre e mia madre: l’arresto è stato annullato dal Tribunale della Libertà, essendo un provvedimento del tutto spropositato. Ma nel frattempo ai miei genitori è stata rovinata la vita.

Il PM che mi ha indagato è lo stesso che ha indagato mia sorella e mio cognato. La nonna ancora resiste, a 103 anni senza avviso di garanzia. Al momento, almeno.

Il PM che mi ha indagato ha violato la Costituzione all’articolo 68 come statuito dalla sentenza 170/2023 della Corte Costituzionale.

Il PM che mi ha indagato ha sequestrato il telefonino ai miei amici più cari e ai finanziatori delle mie iniziative politiche: il provvedimento di sequestro è stato giudicato illegittimo dalla Corte di Cassazione ma intanto i magistrati e in molti casi i giornalisti hanno avuto accesso a tutte le informazioni private di decine di persone che si sentono giustamente violate nella loro intimità.

Il PM che mi ha indagato ha archiviato la mia denuncia contro per diffamazione contro un vicino di casa che ha detto il falso su di me e sui miei figli.

Il PM che mi ha indagato ha archiviato tutte le denunce contro le fughe di notizie sui documenti privati di casa mia che niente hanno a che vedere con le indagini penali che mi hanno riguardato.

Il PM che mi ha indagato mi ha definito “imputato principale” in Aula nonostante vi siano oltre venti imputati alcuni dei quali con accuse più gravi di quelle rivolte a me: davanti alla legge non siamo tutti uguali? Perché uno è imputato principale e gli altri imputati secondari?

Il PM che mi ha indagato ha mandato le carte che dovevano essere distrutte sulla base di una sentenza della Cassazione al Copasir mettendole a disposizione in modo illegittimo di un organismo parlamentare che non avrebbe dovuto vedere le stesse carte.

Il PM che mi ha indagato è lo stesso che dirigeva la procura quando quell’ufficio rifiutava di sgomberare un immobile occupato da una banda di criminali, immobile nel quale si sono consumati numerosi reati e dal quale è scomparsa una bambina di cinque anni.

Potrei continuare. Davanti a questa incredibile sequela di vergogna non ho “bastonato” nessuno.

Ma ho preso carta e penna e ho fatto ricorso. E ho vinto. E questa cosa manda fuori di testa i miei accusatori. Perché io non ho urlato e sbraitato: ho utilizzato la giustizia e difeso la legalità.

Quel PM è stato sconfitto in sede di Corte Costituzionale e in sede di Corte di Cassazione. Adesso dovrà affrontare un procedimento disciplinare e se c’è un giudice a Genova dovrà affrontare anche un procedimento penale nel capoluogo ligure.

Quando chiedo giustizia non sono ubriaco. Sono sobrio. E difendo la legalità. E difendo i giudici seri, a cominciare da quelli della Cassazione e della Corte Costituzionale. E in un Paese civile una corrente di magistrati non attacca un cittadino perché sta semplicemente difendendosi usando gli strumenti della giustizia. I magistrati dovrebbero garantire il diritto di quel cittadino perché questo prevede la giustizia. Quando l’attacco non è al singolo cittadino, ma al cittadino parlamentare allora siamo davanti all’ennesima aggressione politica, l’ennesima invasione di campo.

A Palermo le toghe rosse mi hanno attaccato. E non perché mi hanno detto che sono ubriaco, questa è stata la cosa più gentile. Mi hanno attaccato perché sto dimostrando di credere nella giustizia almeno quanto loro credono all’ideologia.

E ho dimostrato che potranno mostrificarmi quanto vogliono: non smetterò mai di combattere per una giustizia giusta.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore

Estratto dell’articolo di Andrea Cottone per il “Fatto quotidiano” domenica 13 agosto 2023.

 “Attenzione, pericolo, non toccare”. Avanti così e la dicitura da applicare su certi faldoni, diciamo quelli che riguardano Matteo Renzi e i suoi, potrebbe magicamente comparire da sé, soprattutto se al ministero della Giustizia c’è un Guardasigilli non indifferente alle istanze del senatore di Rignano, che lo aveva sollecitato con un question time lo scorso dicembre. 

Il ministro allora aveva assicurato un “immediato e rigoroso e sottolineo rigoroso accertamento” […] Nell’occhio del ciclone, ancora una volta, la procura di Firenze ma non solo. Spostandosi più a Nord, a Torino, un pm e una gup sono finiti anch’essi sulla graticola. E questa volta per via di uno dei fedelissimi di Renzi, l’ex senatore Stefano Esposito. Per tutti la contestazione mossa a livello disciplinare è “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”.

Firenze. Nordio ha avviato una ispezione mirata da parte di via Arenula. L’obiettivo sono il procuratore aggiunto Luca Turco e il sostituto Antonino Nastasi che conducono le indagini sulla fondazione Open. Già denunciati alla procura di Genova da parte di Renzi per abuso d’ufficio, sono stati archiviati, mentre un secondo esposto, questa volta dell’amico Marco Carrai, per falso ideologico, ha visto respinta la richiesta di archiviazione e disposto un supplemento di indagini di 4 mesi.

Nel mentre l’ispettorato di via Arenula ha fatto il suo lavoro e chiuso la relazione, finita sulla scrivania del Guardasigilli che non ha avuto dubbi trasmettendo gli atti alla Procura generale in Cassazione. Ai pm fiorentini il ministro Nordio contesta di aver ignorato la sentenza del “Palazzaccio” del febbraio 2022 che disponeva il dissequestro del computer di Marco Carrai, facendone invece copia, poi inviata al Copasir e i cui contenuti sono poi finiti sulla stampa.

Nella relazione dell’ispettorato anche il fascicolo che sarebbe stato aperto “ad hoc” per riversare le informative della guardia di finanza sui contenuti rinvenuti nel pc di Carrai. Ora la procura generale della Cassazione dovrà fare le sue indagini e inoltrare le proprie conclusioni al Csm dove potrebbe verificarsi un clamoroso cortocircuito. A guidare la sezione disciplinare, infatti, è il laico Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, ma in passato avvocato di Alberto Bianchi, già presidente della fondazione Open, oltre ad aver rappresentato il Senato nel conflitto di attribuzione sollevato di fronte alla Consulta sull’utilizzo di mail e chat del senatore di Rignano. […] 

Torino. Qui a essere sotto accusa sono il pm Gianfranco Colace e la gup Lucia Minutella.

L'inchiesta è quella ribattezzata “Bigliettopoli” e vede al centro Giulio Muttoni, ex patron della Set Up Live, società in primissimo piano nell'organizzazione di spettacoli musicali a Torino. Gli inquirenti, indagando, hanno finito per intercettare Stefano Esposito che – siamo negli anni 2015-2018 – era senatore turbo renziano e ultras pro-Tav. L’ex parlamentare è stato ascoltato per i suoi frequenti contatti proprio con Muttoni e 132 delle oltre 500 conversazioni intercettate sono finite agli atti dell'indagine e sono valse il rinvio a giudizio per corruzione, turbativa d'asta e traffico di influenze per Esposito: secondo le indagini, si sarebbe adoperato per la revoca di un'interdittiva antimafia che aveva colpito Muttoni in cambio di prestiti in denaro e di un tapis roulant.

Ma, sin dall’udienza preliminare, Esposito ha sollevato il caso, rivolgendosi anche al Csm e al Senato della Repubblica. La segnalazione è arrivata alla procura generale in Cassazione, mentre da Palazzo Madama è stato sollevato un altro conflitto d'attribuzione alla Corte costituzionale: l’utilizzo di quelle intercettazioni doveva essere autorizzato dal Parlamento. 

I giudici disciplinari contestano ai loro colleghi, da una parte, di non aver interrotto gli ascolti quando è emersa l'identità del senatore, dall’altra di non aver preso in considerazione l’inutilizzabilità delle stesse avanzata dalla difesa di Esposito. I due magistrati saranno ascoltati […] per poi finire, eventualmente, anche loro di fronte alla sezione disciplinare del Csm. […]

(ANSA domenica 13 agosto 2023) Matteo Renzi attacca su Twitter il Fatto Quotidiano per la prima pagina di oggi dedicata agli ispettori inviati dal ministero della Giustizia alla procura di Firenze per verificare l'operato dei pm dell'inchiesta Open: 'Chi tocca Renzi muore', il titolo di apertura. 'Questa è la prima pagina del Fatto Quotidiano di oggi, l'ennesima contro di me, il trionfo del giustizialismo e dell'aggressione ad personam - scrive Renzi - Perché?

Chi ha letto Il Mostro conosce la storia. Io sono stato oggetto di numerose indagini che si sono rivelate un flop ma anziché urlare o gridare al complotto mi sono difeso seguendo la Costituzione e le leggi. Dopo avermi 'mostrificato' agli occhi dell'opinione pubblica in tanti volevano farmi fuori politicamente usando indagini farlocche'. 'Il Fatto Quotidiano - aggiunge il fondatore di Italia Viva - è da anni in prima linea su questa posizione. Io non ho reagito strepitando ma ho fatto tutto quello che la legge permette di fare: appelli, ricorsi, difese processuali.

La conclusione la conoscete: la Corte di Cassazione ha dato ragione a noi, la Corte Costituzionale ha dato ragione a noi e adesso i pm che hanno provato a distruggermi la vita dovranno rispondere di eventuali loro illeciti davanti al Csm'. 'Il Fatto allora - sottolinea il senatore di IV - la butta in caciara: 'Chi tocca Renzi muore'. Non è che chi tocca Renzi muore; chi tocca Renzi, come qualsiasi altro cittadino italiano, deve rispettare la Costituzione e le leggi. 

Noi non abbiamo violato nessuna legge, spero che i PM di Firenze possano dire lo stesso. Quanto a Il Fatto - conclude con tanto di emoticon che sorride - possono continuare ad attaccarmi quanto vogliono. Quello che non riescono a mandar giù è che dopo anni di attacchi mediatici, di sequestri illegittimi, di violazioni costituzionali, di aggressioni personali io sono ancora qui. E rispondo utilizzando il diritto e non il giustizialismo. Volevano togliermi l'agibilità politica, non mi hanno tolto nemmeno il sorriso'.

"Campagna diffamatoria sistematica". Travaglio condannato, dovrà risarcire Renzi. Lorenzo Grossi il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il direttore del Fatto Quotidiano dovrà versare 80mila euro al leader di Italia Viva per una serie di articoli diffamatori pubblicati sul suo giornale. Il leader di Italia Viva: "La condanna di oggi non azzera le sofferenze per il passato"

Matteo Renzi vince una causa giudiziaria contro Marco Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano sarà costretto a versare 80mila euro di risarcimento a causa di ben 51 articoli diffamanti e lesivi della reputazione del leader di Italia Viva pubblicati sul giornale, come si legge nella sentenza del Tribunale di Firenze. L'ex presidente del Consiglio aveva sporto querela nei confronti del Fatto per una serie di contenuti pubblicati tra il luglio 2018 e il giugno 2020 quasi tutti a firma di Travaglio, eccetto due rispettivamente di Carlo Tecce e Wanda Marra. La sentenza parla chiarissimo.

Le motivazioni contro Travaglio

Alla luce delle modalità stesse dell'illecito, il giudice ha ravvisato "in capo al direttore responsabile Marco Travaglio la sussistenza dell'elemento dolo, che sotto il profilo soggettivo va a connotare l'offesa all'onore ed all’identità personale di Matteo Renzi". E ancora: "Può ritenersi provata la perpetrazione di una campagna diffamatoria contro Matteo Renzi da parte de Il Fatto Quotidiano". Nel dispositivo si parla espressamente di un "ricorso costante ad epiteti ed appellativi offensivi riferiti all'attore, quali 'Bullo', 'Ducetto', 'Cazzaro', 'Mollusco', 'Disperato', 'Caso umano', 'Mitomane', 'Stalker', 'Cozza', 'Criminale'". Sarà poi il primo termine a essere considerato un "nomignolo dispregiativo sovrapposto all'immagine ed all'identità di Matteo Renzi", in quanto "veicola nella pubblica opinione le connotazioni negative dell’arroganza, della prepotenza e della spavalderia".

"La differenza tra noi è che...". Così Renzi annienta Travaglio

Per quanto riguarda la campagna di stampa nel corso degli anni, il Tribunale di Firenze la ritiene "diffamatoria", poiché "la grande mole di articoli e prime pagine in cui il suo nome viene accostato ad indagini, inchieste e a fatti illeciti relativi alle cinque vicende giudiziarie [...], considerati complessivamente, esprimono una preordinazione complessiva a denigrare la persona di Matteo Renzi e non già a criticare la sua attività di politico". Tutto questo perché "attraverso le titolazioni, gli accostamenti ambigui e le immagini si induce il lettore a ritenere che vi sia comunque un coinvolgimento" di Matteo Renzi.

La reiterazione degli illeciti nell'ambito di una campagna denigratoria espressiva di un dolo di preordinazione finalizzato all'attacco alla persona, il ruolo istituzionale ricoperto dal diffamato e la risonanza mediatica delle pubblicazioni del Fatto Quotidiano hanno fatto sì che venisse reputato equo e congruo una liquidazione complessiva di 80mila euro da parte di Marco Travaglio e della Società editoriale il Fatto S.p.A. in solido tra loro. La pubblicazione del dispositivo della sentenza dovrà avvenire "per una sola volta, su Il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa, a caratteri doppi rispetto a quelli normali, e, per una sola volta ma per almeno tre giorni, sul periodico cartaceo Il Fatto Quotidiano e sul periodico digitale Il Fatto Quotidiano.it, entro il termine di 60 giorni".

Il commento di Renzi

Il senatore di Italia Viva ha commentato la notizia sul proprio profilo Facebook: "Per anni ho subito in silenzio, sbagliando. La condanna di oggi non azzera le sofferenze per il passato - sottolinea - ma pone una domanda agli addetti ai lavori della comunicazione: come può un diffamatore seriale che ha una collezione record di condanne continuare a fare la morale agli altri tutti i giorni in tv? Mistero. Intanto un pensiero alla mia famiglia che ha dovuto subire il peso di tutte le infamie e a tutti gli amici che non ci hanno mai abbandonato".

La sentenza di Firenze. Perché Travaglio è stato condannato a risarcire Renzi: 80mila euro per la sua “campagna diffamatoria”. Redazione su L'Unità il 6 Ottobre 2023

Dal tribunale di Firenze arriva una brutta notizia per Marco Travaglio. Il direttore de Il Fatto Quotidiano è stato infatti condannato assieme al suo giornale al pagamento di 80mila euro di risarcimento, più spese legali e interessi, per aver ripetutamente diffamato Matteo Renzi.

A comunicarlo è stato lo stesso ex presidente del Consiglio e leader di Italia Viva . “Per anni ho subito in silenzio, sbagliando. La condanna di oggi non azzera le sofferenze per il passato ma pone una domanda agli addetti ai lavori della comunicazione: come può un diffamatore seriale che ha una collezione record di condanne continuare a fare la morale agli altri tutti i giorni in TV? Mistero. Intanto un pensiero alla mia famiglia che ha dovuto subire il peso di tutte le infamie e a tutti gli amici che non ci hanno mai abbandonato”, le parole di Renzi per commentare la vicenda processuale.

Travaglio paga in sostanza 51 articoli diffamanti e lesivi della reputazione del leader di Italia Viva, in gran parte a firma dello stesso direttore del ‘Fatto’. Nella sentenza, di cui dà conto Il Riformista, quotidiano di cui Renzi è direttore editoriale, si legge che “alla luce delle modalità stesse dell’illecito (ripetizione delle condotte ed univocità delle stesse), possa ravvisarsi in capo al direttore responsabile Marco Travaglio la sussistenza dell’elemento dolo, che sotto il profilo soggettivo va a connotare l’offesa all’onore ed all’identità personale di Matteo Renzi”.

Nelle disposizioni del giudice della seconda sezione civile del tribunale di Firenze Donnarumma si legge che ancora che “può ritenersi provata la perpetrazione di una campagna diffamatoria contro Matteo Renzi da parte de Il Fatto Quotidiano, poiché la grande mole di articoli e prime pagine in cui il suo nome viene accostato ad indagini, inchieste e a fatti illeciti relativi alle cinque vicende giudiziarie sopra menzionate, considerati complessivamente, esprimono una preordinazione complessiva a denigrare la persona di Matteo Renzi e non già a criticare la sua attività di politico”.

Da qui dunque la decisione di accogliere la domanda risarcitoria presenta da Renzi, condannando al pagamento di 80mila euro “in solido tra loro” Marco Travaglio e la Società editoriale il Fatto S.p.A. L’ex presidente del Consiglio aveva chiesto un risarcimento pari a 2 milioni di euro.

Dispositivo della sentenza che dovrà essere pubblicato per una sola volta sul Corriere della Sera, Repubblica e La Stampa, “a caratteri doppi rispetto a quelli normali”, e per una sola volta ma per almeno tre giorni sul cartaceo de Il Fatto Quotidiano e sul sito dello stesso giornale entro il termine di 60 giorni dalla pubblicazione della sentenza. Redazione - 6 Ottobre 2023

Pubblicata la sentenza del Tribunale di Firenze. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano condannati per diffamazione, risarcimento di 80.000 euro a Matteo Renzi. Redazione su Il Riformista il 6 Ottobre 2023 

La notizia è di poco fa e farà scalpore. A darla lo stesso Matteo Renzi, che aveva fatto querela nei confronti di Marco Travaglio, con un post Facebook: “Stamani Marco Travaglio e Il Fatto Quotidiano sono stati condannati a risarcirmi ottantamila euro più le spese e gli interessi per avermi ripetutamente diffamato. Per anni ho subito in silenzio, sbagliando. La condanna di oggi non azzera le sofferenze per il passato ma pone una domanda agli addetti ai lavori della comunicazione: come può un diffamatore seriale che ha una collezione record di condanne continuare a fare la morale agli altri tutti i giorni in TV? Mistero. Intanto un pensiero alla mia famiglia che ha dovuto subire il peso di tutte le infamie e a tutti gli amici che non ci hanno mai abbandonato.”

Ben 51 articoli diffamanti e lesivi della reputazione del leader di Italia Viva a firma quasi esclusivamente di Marco Travaglio, si legge nella sentenza che “alla luce delle modalità stesse dell’illecito (ripetizione delle condotte ed univocità delle stesse), possa ravvisarsi in capo al direttore responsabile Marco Travaglio la sussistenza dell’elemento dolo, che sotto il profilo soggettivo va a connotare l’offesa all’onore ed all’identità personale di Matteo Renzi.”

E ancora “può ritenersi provata la perpetrazione di una campagna diffamatoria contro Matteo Renzi da parte de Il Fatto Quotidiano, poiché la grande mole di articoli e prime pagine in cui il suo nome viene accostato ad indagini, inchieste e a fatti illeciti relativi alle cinque vicende giudiziarie sopra menzionate, considerati complessivamente, esprimono una preordinazione complessiva a denigrare la persona di Matteo Renzi e non già a criticare la sua attività di politico.”

Pertanto alla luce di queste considerazioni si legge nelle disposizioni del giudice Donnarumma del tribunale di Firenze l’accoglimento della “domanda risarcitoria e, per l’effetto, condanna i convenuti Marco Travaglio e la Società editoriale il Fatto S.p.A. in solido tra loro, al pagamento in favore dell’attore della complessiva somma di 80.000,00″ e accoglie la domanda di pubblicazione della sentenza e per l’effetto “condanna i convenuti Marco Travaglio e la Società editoriale il Fatto S.p.A, in solido ed a loro cura e spese, alla pubblicazione del dispositivo della presente sentenza, per una sola volta, su “Il Corriere della Sera”, “La Repubblica” e “La Stampa”, a caratteri doppi rispetto a quelli normali, e, per una sola volta ma per almeno tre giorni, sul periodico cartaceo “Il Fatto Quotidiano” e sul periodico digitale “Il Fatto Quotidiano.it”, entro il termine di 60 giorni dalla pubblicazione della presente sentenza”.

Ma continua a fare la morale in tv. Travaglio il diffamatore, il disegno ‘criminale’ contro Renzi: tutte le condanne del direttore del Fatto. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 7 Ottobre 2023 

Marco Travaglio pianificò e realizzò una campagna diffamatoria contro Matteo Renzi. Lo ha stabilito il tribunale di Firenze che ieri lo ha condannato ad 80mila euro di risarcimento, oltre al pagamento delle spese processuali e alla pubblicazione della sentenza su tre quotidiani nazionali. Il direttore del Fatto Quotidiano, scrive il giudice Massimo Donnarumma, iniziò il suo “progetto denigratorio” nel 2015, pubblicando una “grande mole di articoli e prime pagine” in cui il nome di Renzi veniva puntualmente accostato ad “indagini, inchieste e a fatti illeciti”.

La campagna denigratoria nei confronti di Renzi durò cinque anni, con la pubblicazione di più di cinquanta articoli che avevano un solo scopo: insinuare nel lettore, tramite titolazioni, accostamenti ambigui ed immagini, il sospetto di un coinvolgimento di Renzi nelle vicende giudiziarie riguardanti suoi parenti o amici. Un disegno ‘criminale’, pianificato a tavolino, che Travaglio ha portato avanti con un linguaggio volgare e scurrile. Fra gli appellativi utilizzati: “Cazzaro”, “Ducetto”, “l’Innominabile”, “Mollusco”, “Disperato”, “Caso umano”, “Mitomane”, “Stalker”, “Cozza”, “Criminale”. Non contento, Travaglio aveva poi iniziato a chiamare Renzi “Bullo”, anche a prescindere dal fatto narrato, superando tutti i limiti esterni del diritto, sia di critica che di satira politica. Il numero delle volte in cui Renzi è stato identificato con tale appellativo, ricorda il giudice, “è così imponente ed attraversa un arco di tempo così vasto (dal 2014 al 2020) che si può ritenere che Il Fatto Quotidiano, nell’ambito della sua strategia comunicativa, abbia deliberatamente attribuito a Renzi il soprannome o nomignolo di “Bullo””. Una condotta che ha leso specificamente i diritti all’onore ed all’identità personale di Renzi, protetti, quali diritti in violabili della personalità, dall’articolo 2 della Costituzione. Improbabile la difesa di Travaglio che ha tentato di convincere il tribunale della bontà del suo operando, affermando che fino al 2014 il Fatto Quotidiano aveva difeso e condiviso la linea politica di Renzi. Il cambio di passo, squisitamente politi- co ed attinente al “merito delle sue scelte”, sarebbe iniziato a seguito della presentazione dei progetti di riforma della Costituzione e della legge elettorale.

Fra i provvedimenti del tutto contrari alla linea editoriale del Fatto, “il Jobs Act, l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, la Buona Scuola, l’innalzamento delle soglie di non punibilità per molti reati di evasione e di frode fiscale, l’innalzamento della so glia minima, consentita per i pagamenti in contanti”. “Scelte che si sarebbero rivelate sbagliate, come la personalizzazione del referendum costituzionale, fino all’impegno solenne (poi tradito) di abbandonare la vita politica, in caso di sconfitta, evidenziandosi le contraddizioni rispetto ai programmi annunciati e alle promesse fatte”, aveva scritto Travaglio nella memoria difensiva. Nell’ambito della campagna denigratoria, il giudice cita un articolo in particolare: “Vacanze ad Hammamet” del 2019. Un articolo pieno di falsità dove Travaglio attribuiva a Renzi gravi fatti di rilievo penale. Più nel dettaglio, si ipotizzava che vari imprenditori e la madre di uno di essi avessero effettuato versamenti in denaro alla Fondazione Open, diretta da Renzi, nonché direttamente allo stesso, ricevendone in cambio favori.

Si trattava di “insinuazioni pesanti che vanno al di là dell’esercizio del diritto di cronaca giornalistica”. Travaglio, infatti, non si era limitato ad esporre il contenuto degli atti di indagine della Procura fiorentina, ma “ha indossato i panni del Pm”, elaborando una propria ricostruzione dei fatti in un momento in cui Renzi non risultava nemmeno indagato. C’è da chiedersi come il Direttore del Fatto Quotidiano possa andare ancora in tv a fare la morale agli altri. Paolo Pandolfini

La prima pagina "trionfo del giustizialismo". “Chi tocca Renzi muore”, la propaganda di Travaglio: “Mostrificato per anni dal Fatto, rispondo col diritto e sono ancora qui”. Redazione su Il Riformista il 13 Agosto 2023 

“Chi tocca Renzi muore“. E’ la prima pagina-propaganda de “Il Fatto Quotidiano” diretto da Marco Travaglio che commenta così l’avvio di un procedimento disciplinare del ministro della Giustizia, guidato da Carlo Nordio, nei confronti dei pm fiorentini Luca Turco e Andrea Nastasi che hanno condotto l’inchiesta Open utilizzando materiali dichiarati illegittimi dalla Cassazione. 

Una prima pagina che viene commentata dal diretto interessato. “L’ennesima contro di me, il trionfo del giustizialismo e dell’aggressione ad personam. Perché?” commenta Matteo Renzi, leader di Italia Viva e direttore editoriale del Riformista.

“Chi ha letto Il Mostro conosce la storia. Io sono stato oggetto di numerose indagini che si sono rivelate un flop – osserva l’ex premier – ma anziché urlare o gridare al complotto mi sono difeso seguendo la Costituzione e le leggi. Dopo avermi “mostrificato” agli occhi dell’opinione pubblica in tanti volevano farmi fuori politicamente usando indagini farlocche” sottolinea.

La propaganda di Travaglio va oltre le sentenze della Cassazione: “Il Fatto Quotidiano è da anni in prima linea su questa posizione. Io – spiega Renzi – non ho reagito strepitando ma ho fatto tutto quello che la legge permette di fare: appelli, ricorsi, difese processuali. La conclusione la conoscete: la Corte di Cassazione ha dato ragione a noi, la Corte Costituzionale ha dato ragione a noi e adesso i PM che hanno provato a distruggermi la vita dovranno rispondere di eventuali loro illeciti davanti al CSM”.

Ma “il Fatto allora la butta in caciara: chi tocca Renzi muore. Non è che chi tocca Renzi muore; chi tocca Renzi, come qualsiasi altro cittadino italiano, deve rispettare la Costituzione e le leggi”.

“Noi non abbiamo violato nessuna legge, spero che i PM di Firenze possano dire lo stesso. Quanto al Fatto: possono continuare ad attaccarmi quanto vogliono. Quello che non riescono a mandar giù – rimarca il senatore di Italia Viva – è che dopo anni di attacchi mediatici, di sequestri illegittimi, di violazioni costituzionali, di aggressioni personali io sono ancora qui. E rispondo utilizzando il diritto e non il giustizialismo. Volevano togliermi l’agibilità politica, non mi hanno tolto nemmeno il sorriso”.

Carlo Nordio, via all'inchiesta sul pm anti-Renzi. Elisa Calessi su Libero Quotidiano il 12 agosto 2023

Il ministero della Giustizia avvierà un procedimento disciplinare nei confronti dei pm Luca Turco e Antonino Nastasi, in quanto si sarebbero «resi responsabili» di una serie di «illeciti disciplinari». Non solo avrebbero sequestrato materiale che non potevano sequestrare, ma – una volta che la Cassazione aveva ordinato loro di distruggerlo – ne avrebbero tenuto copia e lo avrebbero inviato al Copasir. L’iniziativa riguarda i titolari dell’inchiesta Open, indagine che ha coinvolto Marco Carrai e Matteo Renzi cominciata con un’accusa di finanziamento illecito e proseguita con un lungo braccio di ferro tra magistrati e indagati per una serie di comportamenti dei primi, disputa arrivata fino in Cassazione e nell’Aula del Senato.

Oggi un capitolo si chiude. E a scriverlo, dando ragione a Renzi e a Carrai, sono gli ispettori dcl ministero della Giustizia, dopo una indagine durata quasi un anno. In sintesi: i pm, secondo gli ispettori di via Arenula, avrebbero tenuto copia di materiale contenente dati sensibili e che una sentenza della Cassazione aveva ordinato loro di cancellare. Nel dettaglio, sono tre gli illeciti disciplinari a carico dei due pm, contestati dall’indagine del ministero: tre riguardano Turco, procuratore aggiunto a Firenze, uno Nastasi, sostituto procuratore presso la stessa procura. La chiusura dell’indagine risale a poche settimane fa. La lettera, infatti, con cui il Guardasigilli informa il procuratore generale della Corte di Cassazione è datata 23 luglio 2023.

CENTOMILA PAGINE - L’oggetto dell’indagine riguardava il materiale depositato dai pm alla chiusura dell’indagine su Open: quasi centomila pagine tra cui anche una informativa della Guardia di Finanza che conteneva l’estratto conto di Renzi. Dopo un ricorso di Carrai, la Cassazione aveva ordinato alla procura di restituire il materiale e di non tenerne copia. Nello stesso pe riodo, il materiale era arrivato al Copasir. Una delle principali domande a cui gli ispettori dovevano rispondere era se al Copasir fosse avvenuto prima o dopo la sentenza della Cassazione. La risposta è netta: è avvenuto dopo.

Nella missiva firmata da Nordio e indirizzata al procuratore della Cassazione, si legge che Turco e Nastasi si sarebbero resi protagonisti di una «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile».

In particolare, si spiega, quando, il 18 febbraio 2022, è stata loro recapitata la «formale comunicazione» della sentenza della Cassazione (esito di un ricorso di Carrai), in cui si “annullava senza rinvio il decreto di perquisizione e sequestro” e si ordinava “la restituzione” di quanto sequestrato (messaggi e mail trovate sul cellulare sul pc) “senza trattenimento di copia dei dati”, i due pm – secondo gli ispettori del ministero – avrebbero violato la disposizione. È vero che il 23 febbraio nominarono un consulente incaricato di cancellare il materiale, ma “trattenevano più copie” dei dati in oggetto. Una copia, poi, l'avrebbero trasmessa al Copasir l'8 marzo e una il 4 aprile 2022 l’avrebbero depositata davanti al Gup. E sempre questi dati, che sarebbero dovuti essere cancellati, sarebbero finiti in un nuovo procedimento avviato il 7 marzo 2022. 

RICHIESTA AL COPASIR - Il secondo illecito contestato riguarda solo il pm Turco. Anche qui si parla di «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile». Si fa riferimento sempre alla richiesta del Copasir del novembre 2021 per avere documentazione che riguardasse la “sicurezza nazionale”: in pratica i membri del Copasir volevano sapere se, dai dati in mano ai magistrati di Firenze che stavano indagando su Open (la fondazione creata da Renzi), potesse emergere che le conferenze dell'ex premier in Arabia Saudita fossero un tentativo di quel Paese di influire sul nostro. Si osserva, nella lettera di Nordio, che per un anno il pm non aveva risposto. L'8 marzo 2022 decide di rispondere e di inviare “l'esito dei reperti informatici sequestrati a Carrai unitamente alla copia forense” (dove c'era l'estratto conto di Renzi).

Materiale che la Cassazione il 18 febbraio 2022, cioè venti giorni prima, aveva disposto di cancellare senza tenerne copia. Quindi, il 4 aprile, l'informativa della Finanza veniva depositata davanti al Gup. Nel terzo illecito si accusa Turco di aver tenuto un «comportamento gravemente scorretto» nei confronti di Carrai «divulgando dati e notizie sensibili e riservati» che provenivano da “supporti informatici” sequestrati «illegittimamente». In conclusione, si osserva che tutte queste “violazioni” sono «da ritenersi gravi» perché «elusive della pronuncia della Corte di Cassazione». Per questo si avvia un procedimento contro entrambi. 

In fondo cosa vuoi che sia la Cassazione per i magistrati...Inchiesta Open, per i pm di Firenze la Cassazione non esiste: vedremo se il procedimento finirà a tarallucci e vino oppure no. Redazione su Il Riformista il 12 Agosto 2023 

Sequestri di materiale illegittimo dalla Cassazione ma ugualmente conservato e di cui copia sarebbe stata inviata addirittura al Copasir. Altre gravi violazioni di leggi oltre ai comportamenti scorretti nei confronti degli indagati e dei loro difensori. C’è di tutto nella lettera indirizzata dal ministero della Giustizia al procuratore della Cassazione e che enumera le risultanze di una inchiesta ministeriale disposta dal Guardasigilli Nordio che chiede un procedimento disciplinare contro due pm di Firenze: tre contestazioni contro Luca Turco, una contro Andrea Nastasi, rispettivamente procuratore aggiunto e suo sostituto che seguono la vicenda Open a carico di Matteo Renzi.

Sono gli stessi a cui in difesa solo qualche mese fa si è era strappata i capelli l’Anm secondo cui “i pm avrebbero solo lavorato nel silenzioso adempimento dei loro doveri d’ufficio”. Peccato che gli ispettori inviati da Nordio avevano vagliato tutto il materiale dagli stessi depositato, con dentro persino una informativa della guardia di finanza contenente copia dell’estratto conto di Renzi. Per la serie, evviva la privacy italiana. Ispettori che hanno capito che i pm se ne sono abbastanza fregati della Cassazione che diceva di non utilizzarle quel materiale.

Tanto è vero che l’hanno inviato prima al Copasir e poi al giudice per le indagini preliminari dopo e contro la sentenza della Cassazione stessa che glieli bocciava. In fondo cosa vuoi che sia la Cassazione per i magistrati… Per questo il ministro della Giustizia contesta ai due pm in questione una “grave violazione di legge da negligenza inescusabile”. Per i pm di Firenze la Cassazione non esiste, fanno come gli pare. Ora vedremo se il procedimento finirà a tarallucci e vino oppure no.

"Grave violazione di legge da negligenza inescusabile". Inchiesta Open, Nordio avvia procedimento disciplinare contro i pm di Firenze che hanno indagato Renzi: “Sequestro di materiale illegittimo”. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 12 Agosto 2023 

Sequestri di materiale dichiarati illegittimi dalla Cassazione, ma ugualmente conservati e di cui copia sarebbe invece stata addirittura inviata al Copasir, e altre gravi violazioni di legge, oltre che comportamenti scorretti tenuti nei confronti degli indagati e dei loro difensori. Sarebbe questa la portata dell’illecito disciplinare che il Ministero della Giustizia chiede sia contestato ai due pm di Firenze, Luca Turco e Antonino Nastasi, rispettivamente procuratore aggiunto e suo sostituto, e soggetti a una ispezione ministeriale disposta dal Guardasigilli Carlo Nordio, presso la procura del capoluogo toscano. Sono i due pubblici ministeri che seguono la vicenda Open a carico di Matteo Renzi. Gli stessi a cui difesa, solo qualche mese fa, si era strappata i capelli l’Anm che, saputo dell’ispezione ministeriale disposta da Nordio, aveva gridato all’appiattimento del ministro sulle richieste di Renzi, quando i pm avrebbero solo “lavorato nel silenzioso adempimento dei loro doveri d’ufficio”.

Un’inchiesta, quella su Open, fondazione cui i pm volevano a ogni costo attribuire caratura di articolazione di partito, nella quale la condotta processuale dei magistrati ha incassato diversi stop dalla Cassazione ed è stata oggetto di disputa nelle aule del Senato e oltre. Il ministero di Carlo Nordio contesta tre illeciti a Turco e uno a Nastasi (entrambi protagonisti non richiesti, come spesso capita a qualche pm un pò troppo protagonista, di una tenzone giudiziario-politica con Matteo Renzi e Marco Carrai, indagato con l’ex premier e autore dei ricorsi in Cassazione che hanno bocciato le iniziative dei pm fiorentini), e lo fa dopo aver vagliato il materiale dagli stessi depositato a supporto della chiusura indagini su Open.

Parliamo di quasi 100mila pagine. Dentro, persino un’informativa della Guardia di Finanza contenente copia dell’estratto conto di Matteo Renzi (evviva la privacy italiana) che secondo la Cassazione (che il 18 febbraio 2022 aveva comunicato ai pm l’annullamento senza rinvio del sequestro) andava distrutto, e invece sarebbe stato inviato al Copasir dopo, e contro, la decisione della Cassazione (l’8 marzo). Corollario logico obbligatorio: i pm se ne sono fregati di quanto indicatogli dalla Cassazione. Non il massimo, per chi dovrebbe seguire a menadito il principio di legalità. Una affermazione, questa, che in altri termini, più formali (viene definita “grave violazione di legge figlia di inescusabile negligenza”), è messa nero su bianco nella lettera che dal Ministero di via Arenula viaggia verso la Cassazione, destinazione Procuratore. Ma non basta. Scrive Nordio nella sua missiva diretta alla Cassazione, che il pm Turco avrebbe fatto spallucce per un intero anno dopo che il Copasir gli aveva sostanzialmente chiesto di fargli sapere se le conferenze tenute da Renzi in Arabia potessero, secondo il materiale d’inchiesta raccolto dalla Procura di Firenze, costituire tentativo della nazione araba di influenzare la politica italiana.

Nessuna risposta, per un anno. Finché a marzo 2022, (20 giorni dopo che la Cassazione aveva di fatto detto loro di buttare il materiale sequestrato), lo stesso pm non si sveglia, e invia al Copasir copia forense di atti che riguardano Renzi e evidenze informatiche che riguardano Carrai. Il che costituisce, secondo il Ministero stesso, un’altra “grave violazione di legge da negligenza inescusabile” perché la provenienza è stata dichiarata illegittima dalla Cassazione. Non contenti, i pm depositano lo stesso materiale, ad aprile, quindi un mese e mezzo dopo la pronuncia in questione, al Giudice dell’Udienza Preliminare. L’abc del frutto dell’albero avvelenato, insomma, ai pm di Firenze interessa meno di zero. Ora vedremo che ne sarà del loro procedimento disciplinare. Andrea Ruggieri

Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara per “La Verità” domenica 6 agosto 2023.

I giudici della Corte di Cassazione hanno riaperto il processo di Luigi Dagostino, imprenditore degli outlet del lusso e amico di babbo Tiziano Renzi e di mamma Laura Bovoli, annullando la sentenza della Corte d’appello di Firenze e rimandando il fascicolo a un’altra sezione per una nuova deliberazione. 

Ma nel farlo hanno anche sancito in modo definitivo che le fatture emesse dai genitori del senatore semplice Matteo Renzi erano false, anche se non sono servite per far evadere le tasse alla società che un tempo era di Dagostino. 

I giudici d’appello avevano modificato la sentenza di primo grado, assolvendo i genitori di Renzi (che erano stati condannati a 1 anno e 9 mesi), valutando già che il fatto non costituiva reato e avevano ridotto la pena per Dagostino da 2 anni a 9 mesi per truffa. Il processo ruotava intorno a due fatture da 160.000 euro più Iva emesse da due aziende dei Renzi, la Party Srl e la Eventi 6 Srl. La prima era l’unica rilasciata nel 2015 dalla Party, la seconda era stata pagata per progetti di fattibilità su aree ricreative e per la ristorazione dell’outlet del lusso The Mall di Reggello.

La truffa, accertò il processo, era stata commessa da Dagostino ai danni della Tramor Srl di cui era amministratore, nel momento in cui ha fatto pagare servizi mai realizzati dai coniugi di Rignano. 

E i Renzi non avevano emesso quelle fatture per consentire alla Tramor di evadere le imposte, condizione necessaria per contestare il reato. Matteo, all’indomani della sentenza d’appello, se ne era uscito baldanzoso con un Tweet: «Dopo anni di lotta e dolore i miei genitori sono stati assolti. Il fatto non costituisce reato. Sono felice per loro e per tutti noi. Non auguro a nessuno di vivere ciò che hanno dovuto vivere i miei, non si meritavano tanto odio. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo».

Il giorno della decisione in Cassazione, invece, sempre su Twitter, ha aggiunto: «Con la decisione della Corte di Cassazione di oggi si chiude un processo, quello contro i miei genitori, che non avrebbe mai dovuto essere aperto. Solo l’ostinazione pervicace e ideologica della Procura di Firenze ha costretto lo Stato italiano a spendere centinaia di migliaia di euro del contribuente per una vicenda giuridicamente inesistente». 

Ma bastava leggere le motivazioni dei giudici della Cassazione (presidente Gastone Andreazza ed estensore Luca Semeraro) per evitare l’ennesima gaffe. Le toghe della Suprema corte, infatti, riprendendo un passaggio della sentenza d’appello hanno spiegato che durante il processo non sono emersi «elementi fattuali dimostrativi» che i Renzi abbiano «volontariamente preordinato l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti (anche) per consentire a terzi l’evasione delle imposte». 

È risultato, invece, «il pagamento integrale delle fatture senza alcuna prova della retrocessione, parziale o totale, del prezzo». I soldi insomma sono rimasti ai Renzi. E l’emissione delle fatture non è servita alla Tramor per evadere le tasse.

In parole povere, i giudici della Corte d’appello di Firenze, assolvendo babbo e mamma del fu Rottamatore, non hanno stabilito che i pm abbiano preso un abbaglio ma che, quando Dagostino ha deciso di pagare quasi 200.000 euro per uno studio di cinque paginette ai genitori dell’allora premier, lo avrebbe fatto non per far evadere le tasse alla sua vecchia società ma, forse, solo per un’irrefrenabile, incontinente prodigalità.  [….]

La Corte Costituzionale censura i pm per l’uso delle chat e gli sms di Renzi: “Andava richiesta l’autorizzazione alle Camere”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Luglio 2023

La Corte Costituzionale così scrive: «Gli organi investigativi sono abilitati a disporre il sequestro ma quando riscontrino la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, debbono sospendere l'estrazione di tali messaggi e chiedere l'autorizzazione della Camera». ALL'INTERNO LA SENTENZA DELLA CONSULTA

La Corte Costituzionale ha dato ragione al senatore Matteo Renzi che si doleva per l’uso processuale delle sue chat da parte della procura di Firenze; i pubblici ministeri hanno torto ad insistere sulla loro tesi che un messaggio o una mail, se lo si preleva dal computer di chi riceve e non s’intercetta al momento della trasmissione, non sarebbero da considerare corrispondenza, ma un mero documento. E perciò il senatore esulta: “Oggi è solo il giorno del trionfo del diritto”.

Scrive la Corte: “Tali messaggi sono stati ritenuti riconducibili alla nozione di «corrispondenza», costituzionalmente rilevante e la cui tutela non si esaurisce, come invece sostenuto dalla Procura, con la ricezione del messaggio da parte del destinatario, ma perdura fin tanto che esso conservi carattere di attualità e interesse per gli interlocutori”.

la Corte Costituzionale 

E’una notevole vittoria del senatore, e dell’ aula di Palazzo Madama che lo aveva appoggiato in questa battaglia tanto da sollevare un “conflitto di attribuzione” contro la procura di Firenze innanzi alla Corte costituzionale.

La Corte Costituzionale ha precisato che “Gli organi investigativi sono abilitati a disporre il sequestro di “contenitori” di dati informatici appartenenti a terzi, quali smartphone, computer o tablet: ma quando riscontrino la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, debbono sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza per poterli coinvolgere nel sequestro. Ciò a prescindere da ogni valutazione circa il carattere “occasionale” o “mirato” dell’acquisizione dei messaggi stessi“.

La sentenza al di là del valore per il singolo caso, che pure rappresenta un momento di svolta nel braccio di ferro che Matteo Renzi ha ingaggiato contro la procura di Firenze, segna un punto fermo che da ora in poi diventa cruciale per ogni inchiesta in Italia: i magistrati sappiano che non basta sequestrare un computer o uno smartphone per poi prelevare al suo interno ogni tipo di comunicazione archiviata, che siano mail o messaggistica di vario tipo. Mail e messaggi infatti vanno equiparati a “corrispondenza” e come tali sono protetti dalla costituzione e vanno maneggiati secondo la specifica normativa. Come recita l’articolo 15, “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. 

Esulta via social lo stesso leader di Italia viva, spiegando: “Io sostenevo che il comportamento dei pm di Firenze violasse la Legge (e la Cassazione ci ha dato ragione 5 volte) e che violasse anche la nostra Costituzione. Oggi è solo il giorno del trionfo del diritto“. L’ex premier ha poi proseguito parlando di “indagine assurda” e ringraziato i “senatori che hanno votato in Aula per sollevare il conflitto sfidando l’opinione pubblica in nome del diritto”.

La Consulta invece ha dato torto a Renzi, sulla sua documentazione bancaria. La procura di Firenze ha quindi potuto legittimamente acquisire i suoi estratti conto nell’ambito della inchiesta Open, e senza chiederne l’autorizzazione alla Camera di appartenenza, ma soltanto perché erano allegati a una segnalazione partita dalla Banca d’Italia. Se fossero stati inviati dalla banca al diretto interessato, questi, in quanto senatore, sarebbe stato protetto dalle prerogative parlamentari. Redazione CdG 1947

La Repubblica non ha trovato neppure un piccolo spazio per riportare la notizia. Le amnesie di Repubblica sul caso Open. La sentenza della Corte costituzionale sul caso Renzi non è certo una notizia di poco conto, ma il quotidiano di Largo Fochetti è stato l’unico a “bucarla”. Valeria Cereleoni su Il Riformista il 29 Luglio 2023 

Per anni Il Fatto Quotidiano, anche dalle pagine di questo giornale, è stato preso di mira perché intriso di giustizialismo e giornalismo parziale. Ieri però Repubblica è riuscita a fare molto di peggio.

La sentenza della Corte costituzionale sul caso Renzi non è certo una notizia di poco conto, non tanto perché riguarda Matteo Renzi ma perché ha sancito un principio che suona più o meno così: i pm non possono trattare la Costituzione come carta straccia e se vogliono avere accesso alla corrispondenza di un parlamentare, devono chiedere l’autorizzazione alla Camera di appartenenza.

Eppure Repubblica non ha trovato neppure un piccolo spazio per riportare la notizia, unico quotidiano a “bucarla”. Eppure Liana Milella aveva firmato più articoli sulla vicenda, orientati e orientativi, si potrebbe dire. E ancora, il quotidiano ha dato ampio spazio alla teoria fantasy della Procura di Firenze che vorrebbe incolpare Berlusconi per le stragi di Mafia.

Ha dato spazio negli anni a intercettazioni, veline che dalle procure miracolosamente finivano nelle scrivanie dei giornalisti, ma guarda un po’, si è scordata di riportare la notizia dello schiaffone che la Consulta ha assestato a Turco e Nastasi.

In effetti, nessuna sorpresa: dalle pagine di Repubblica sono partite campagne giustizialiste ben peggiori di quelle orchestrate da Travaglio. Peggiori perché quando leggi Il Fatto Quotidiano, sai che hai davanti un foglio fortemente parziale, house organ dei grillini.

Al contrario, Repubblica è il grande giornale che ha la fama, pur se con una linea editoriale ben marcata, di produrre informazione autorevole. Evidentemente, una fama non meritata se oramai non sembra distinguersi da Questione Giustizia, la rivista di Magistratura Democratica. Valeria Cereleoni

La Corte Costituzionale ha deciso sul conflitto di attribuzione tra Senato e Procura di Firenze. Open, oggi è solo il giorno del trionfo del diritto. Matteo Renzi su Il Riformista il 28 Luglio 2023

La Corte Costituzionale ha deciso sul conflitto di attribuzione tra Senato e Procura di Firenze sulla vicenda OPEN. Ricordate? Avevo fortemente voluto che la vicenda finisse in Corte, non per il processo ma per un punto di principio e di diritto.

Io sostenevo che il comportamento dei PM di Firenze violasse la Legge (e la Cassazione ci ha dato ragione 5 volte) e che violasse anche la nostra Costituzione. La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso, dandoci ragione ed ha annullato alcuni provvedimenti dei PM di Firenze.

Verrà il giorno in cui la classe dirigente del Paese rifletterà serenamente su questa indagine assurda, nata contro di me, contro le persone che mi stanno vicine e soprattutto contro i fatti. Verrà quel giorno ma non è questo. Oggi è solo il giorno del trionfo del diritto. Le indagini dei PM Turco e Nastasi sono state bocciate per cinque volte dalla Corte di Cassazione e adesso anche dalla Corte Costituzionale. Dalla parte della legalità ci stiamo noi, non questi due PM. Grazie ai senatori che hanno votato in Aula per sollevare il conflitto sfidando l’opinione pubblica in nome del diritto. E un abbraccio sincero a chi in questi anni mi ha dimostrato il suo affetto e la sua vicinanza: vi voglio bene. Matteo Renzi

Caso Open, perché la Corte Costituzionale ha smontato le tesi del Pm. La Corte costituzionale ha accolto il conflitto di attribuzione sollevato da Palazzo Madama nei confronti della procura di Firenze sul “caso Renzi”. Salvatore Curreri su L'Unità il 28 Luglio 2023

Con sentenza n. 170 depositata ieri – ma decisa il 22 giugno – la Corte costituzionale ha accolto il conflitto di attribuzioni sollevato dal Senato contro la Procura della Repubblica di Firenze per aver acquisito la corrispondenza tramite mail e whatsApp tra il sen. Renzi e un terzo indagato (Carrai), estratti dal cellulare di quest’ultimo senza chiedere la preventiva autorizzazione alla camera di appartenenza prescritta dall’art. 68.3 Cost. quando si vuole intercettare un parlamentare.

Secondo i pubblici ministeri fiorentini – e il sen. Grasso che i loro argomenti ha ripreso in Aula – la prerogativa parlamentare dell’autorizzazione non era applicabile al caso in quanto: 1) il sequestro non riguardava un parlamentare ma un soggetto terzo con cui egli aveva messaggiato; 2) i messaggi, una volta ricevuti dal destinatario, si trasformano da corrispondenza a meri documenti, acquisibili pertanto senza autorizzazione; 3) diversamente, il pubblico ministero che volesse sequestrare un dispositivo elettronico ad un soggetto terzo, nel timore di trovarvi comunicazioni con un parlamentare, dovrebbe chiedere una sorta di autorizzazione preventiva “alla cieca”; 4) l’eventuale negata autorizzazione comporterebbe la loro inutilizzabilità processuale anche nei confronti del terzo indagato, il quale si gioverebbe indirettamente di tale “scudo”, con ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri “comuni” cittadini.

Tutti argomenti che – come ampiamente prevedibile e previsto (v. il mio La libertà di comunicazione del parlamentare. Riflessioni sul “caso Renzi”, in lacostituzione.info, 4 marzo 2022) – sono stati puntualmente confutati dalla Corte. La nostra Costituzione tutela la libertà e la segretezza di qualsiasi forma di comunicazione (art. 15), specie quella dei parlamentari (art. 68) per consentire loro il pieno esercizio della loro funzioni (art. 67). A tal fine comunicazione non è solo quanto viaggia dal mittente al destinatario ma anche ciò che, dopo la ricezione e conoscenza del destinatario, entrambi considerano attuale, impegnandosi reciprocamente a tenere riservato.

In un’epoca come l’attuale dove non ci si spediscono più lettere o cartoline ma messaggi istantanei, ritenere che la tutela costituzionale riguardi solo la (vecchia) corrispondenza cartacea e non quella (nuova) digitale, degradandola a mero documento quando non più “in fieri” ma (immediatamente) ricevuta dal destinatario, significa di fatto oggi azzerarla quasi del tutto. Tesi, peraltro, che rinnega quella felicissima apertura al futuro prevista dall’art. 15 Cost. laddove estende la tutela costituzionale ad “ogni altra forma di comunicazione” rispetto a quelle conosciute all’atto della sua redazione e che trova conferma nell’art. 68 Cost. laddove, come detto, protegge il parlamentare da “qualsiasi forma” di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Per questo, secondo la Corte, nella nozione di corrispondenza vanno oggi ricondotti anche gli odierni messaggi elettronici ed informatici che, ancorché subito ricevuti dal destinatario, conservano i caratteri di attualità ed interesse per gli interlocutori.

Tali considerazioni acquistano un significato particolare nel caso specifico oggetto del conflitto di attribuzioni. Qui si trattava della corrispondenza intrattenuta da e con un parlamentare, per il cui sequestro, come detto, l’articolo 68, comma 3, Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Contro l’ondata populista, fortunatamente in fase di risacca, secondo cui i parlamentari devono essere in tutto e per tutto eguali ai comuni cittadini, va ribadito con la forza che viene dalla lungimiranza dei nostri costituenti che non siamo di fronte all’ennesimo intollerabile privilegio personale ma ad una prerogativa “strumentale (…) alla salvaguardia delle funzioni parlamentari” di modo che intercettazioni o sequestri di corrispondenza non siano “indebitamente finalizzat[i] ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività” (Corte cost. 390/2007). Se questa è la ratio di tale prerogativa, limitarla alle comunicazioni solo in corso di svolgimento e non già concluse – come pretendeva la Procura di Firenze – significava darne una interpretazione così restrittiva da azzerarla di fatto (4.4 cons. dir.).

Se la Corte costituzionale avesse deciso diversamente, infatti, d’ora in poi i pubblici ministeri avrebbero potuto facilmente eludere l’obbligo costituzionale di autorizzazione preventiva per acquisire agli atti la corrispondenza del parlamentare: anziché intercettarne le comunicazioni del parlamentare nel momento in cui si svolgono, sarebbe bastato loro attenderne la conclusione e poi sequestrare il device in cui vi era traccia del loro contenuto. Invece, nella corrispondenza del parlamentare rientrano financo i “documenti a carattere comunicativo”, sia quelli che riportano i dati esteriori della comunicazione, come i tabulati telefonici (C. cost. 38/2019), sia a maggior ragione i messaggi elettronici, che ne riportano anche il contenuto.

Del resto è lo stesso principio che, mutatis mutandis, ha portato la Corte costituzionale ad accogliere il conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente Napolitano contro la Procura di Palermo che ne aveva casualmente ascoltato le comunicazioni intercettando l’ex sen. Mancino. In quel caso, infatti, il giudizio non dipese dall’attualità o dal tipo della comunicazione, cioè dall’intercettazione della comunicazione presidenziale mentre si stava svolgendo, ma dalla necessità di tutelare, indipendentemente dal mezzo impiegato, l’interesse costituzionalmente protetto di consentire “l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano” (Corte cost. 1/2013). Di fronte ad argomenti così chiari e di tale peso costituzionale, si può ritenere che la Corte costituzionale avrebbe preso una decisione diversa se Mancino, anziché telefonare al presidente Napolitano, gli avesse mandato un sms o una mail, sposando la tesi della procura di Firenze secondo cui in quel caso si era in presenza di documenti e non di forme di comunicazione degne di eguale tutela costituzionale? Suvvia…

Anche le altre argomentazioni della Procura di Firenze sono state agevolmente confutate dalla Corte. L’obbligo di autorizzazione della camera di appartenenza non implica infatti alcuna capacità divinatoria del pubblico ministero, né alcuna impunità del terzo che abbia comunicato con un parlamentare. Molto semplicemente: se il pubblico ministero riscontra nel device sequestrato ad un terzo messaggi con un parlamentare, egli dovrà sospendere la loro estrazione e chiedere immediatamente per il loro uso l’autorizzazione alla camera di appartenenza, indipendentemente dalla natura occasionale o mirata dell’intercettazione del parlamentare. Se invece vorrà utilizzare tali intercettazioni contro il terzo, non vi sarà nessuno scudo: come chiarito dalla Corte costituzionale già nella sentenza n. 390/2007, tale materiale probatorio è sempre e comunque utilizzabile, indipendentemente dall’esito della richiesta di autorizzazione; altrimenti si avrebbe una “irragionevole disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i loro «interlocutori occasionali» vi sia stato o meno un membro del Parlamento”.

Pertanto anche nel caso in cui gli organi inquirenti prevedano che nel device del terzo indagato siano memorizzati messaggi di un parlamentare, essi possono comunque apprendere il dispositivo e sequestrare tutti gli altri dati informatici che vi sono contenuti “che nulla hanno a che vedere con la corrispondenza del parlamentare” (5.1 c.d.). Anche se come detto prevedibilmente risolto a favore del Senato, il conflitto di attribuzioni sollevato lascia comunque l’amaro retrogusto che deriva da una vicenda processuale che non si sarebbe dovuto nemmeno porre.

L’averla sollevata, al di là di ogni considerazione sul c.d. fumus persecutionis, denota quanta fatica faccia una certa magistratura ad inquadrare determinati problemi in una prospettiva costituzionale ispirata all’esigenza primaria di tutelare il libero svolgimento del mandato parlamentare, anche attraverso quella sua dimensione ormai essenziale che è la comunicazione in via non più cartacea ma digitale.

Salvatore Curreri 28 Luglio 2023

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” sabato 15 luglio 2023.

Matteo Renzi oggi fa il giornalista nel tempo che gli lasciano gli altri suoi mestieri: senatore, lobbista, conferenziere e advisor del principe saudita Mohamed bin Salman. Ma prima di sedersi sulla poltrona di direttore editoriale del Riformista ha chiesto di processare La Verità per centinaia di articoli, una lite considerata dal difensore del nostro giornale, Claudio Mangiafico, ai limiti della temerarietà. 

Il giudice civile di Firenze Susanna Zanda ha dato ragione al nostro difensore, ha definito la domanda del fu Rottamatore «infondata» e ha condannato Renzi a pagare 38.000 euro di spese di lite. In passato il fu Rottamatore aveva mandato avanti i familiari nelle cause contro di noi, ma nel 2020 si era messo in proprio e aveva deciso di farcele pagare tutte insieme, accusandoci di aver orchestrato una campagna mediatica diffamatoria lunga quattro anni.

Per esempio, con notevole sforzo di ricerca […], è riuscito a contare 583 articoli e 134 prime pagine in cui era definito «Bullo». Ma si era lamentato anche di essere stato chiamato «Gran Cazzaro», «Premier Cazzaro», «Ducetto», «Ducetto fiorentino», «Ducetto di Rignano» e «Premier Cazzone». 

Il giudice, nella sentenza di 36 pagine, sciorina un’ampia giurisprudenza, che va dai provvedimenti nazionali a quelli sovranazionali, compresi quelli della Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu), a cui spesso tocca comporre il conflitto tra libertà di stampa e reputazione. 

Per esempio la Zanda cita una sentenza contro la Turchia da cui si ricava […] che «nei confronti dell’homo publicus la Cedu ammette una particolare virulenza e anche una dose di esagerazione e di provocazione» e che «nella sua giurisprudenza non vi è traccia di un dovere di moderazione del linguaggio».

Il giudice ricorda, inoltre, che l’articolo 10 della Convenzione per i diritti dell’uomo «viene interpretata in senso di massima espansione della libertà di espressione in caso di critica politica o di satira politica, senza quasi alcun limite […]» e che una sentenza del tribunale di Roma, sfavorevole alle doglianze di Silvio Berlusconi, sosteneva che l’articolo 21 della Costituzione è teso «a proteggere la liberta proprio di quelle opinioni che urtano, scuotono o inquietano». 

Per la Zanda, dunque, «si può concludere che l’attributo “bullo” quand’anche ripetuto e diffusamente impiegato verso uno stesso uomo politico non possa essere considerato diffamatorio».

Renzi ci ha anche portati in aula per diversi articoli che contenevano un accostamento della sua persona con i guai giudiziari che riguardavano i suoi familiari o i suoi collaboratori. 

Nel lungo elenco rientravano le inchieste sulla presunta truffa ai danni dell’Unicef che coinvolge il cognato, sulle bancarotte delle cooperative riconducibili ai genitori, sui maneggi intorno agli appalti Consip, sui finanziamenti alla fondazione Open, sull’acquisto della villa fiorentina dell’ex segretario Pd effettuato grazie ai generosi bonifici di alcuni amici, ma anche un articolo su un 25 aprile trascorso da Renzi in Arabia Saudita. 

Riguardo a tutti questi casi il giudice si limita a osservare che «non risulta che sia stato scritto il falso ossia che l’attore (Renzi, ndr) fosse iscritto nel registro degli indagati», ma che era solo «stato rappresentato un oggettivo e soggettivo collegamento di quei fatti e delle persone coinvolte» al leader di Italia viva, «in quanto oggettivamente parenti o affini». 

Per la Zanda, «d’altra parte, è di interesse pubblico sapere che per esempio i genitori o i fratelli del cognato di un uomo che abbia la gestione della Cosa pubblica siano indagati per reati come quelli descritti negli articoli di cui si duole» l’ex sindaco di Firenze.

Il quale, a parere del giudice, «dunque fondamentalmente vorrebbe impedire al libero giornalismo di informare la popolazione di questi fatti, solamente perché egli non era iscritto nel registro degli indagati». Una sottolineatura che non è esattamente una medaglia per chi oggi si misura con il mestiere del giornalista. 

La conclusione del giudice è coerente con quanto sopra esposto e non lascia spazio alle lagnanze del «Bullo»: «Per tutti questi motivi la domanda e destituita di fondamento in quanto tutte le condotte descritte in citazione sono espressive della libertà di espressione», scrive la toga, «e non possono essere censurate con una condanna di risarcimento dei danni».

La Zanda bacchetta Renzi anche per la somma, definita «eccessiva», che aveva richiesto (2 milioni di euro), «ossia quasi sette volte il pretium doloris della perdita di un figlio, secondo le tabelle milanesi per il danno parentale». Il giudice ricorda anche che «il massimo che ordinariamente si potrebbe richiedere per diffamazione e la somma di 50.000 euro». 

[…] Ma proprio per questa ingordigia, anche le spese legali che dovrà rifondere sono sostanziose, essendo «calibrate sull’importo della domanda rigettata». Il giudice che ha rispedito al mittente le richieste del leader milionario è lo stesso che ha accusato l’ex capo del governo, in una causa contro Marco Travaglio, di «usare il tribunale civile come una sorta di bancomat dal quale attingere somme per il proprio sostentamento, anche quando lo si coinvolge senza alcun fondamento» e che lo ha condannato a pagare 42.000 euro per «abuso dello strumento processuale», oltre ad altri 30.000 euro di spese legali.

Adesso la Zanda, già presa di mira dal Riformista di Renzi, rischia di subire il trattamento già riservato ai pm che hanno osato processare i genitori del fu Rottamatore, il quale nei giorni scorsi […] aveva […] mischiato le carte e scritto sui social: «La decisione della Corte di cassazione chiude un processo, quello contro i miei genitori, che non avrebbe mai dovuto essere aperto. Solo l’ostinazione pervicace e ideologica della Procura di Firenze ha costretto lo Stato italiano a spendere centinaia di migliaia di euro del contribuente per una vicenda giuridicamente inesistente». 

In realtà, secondo i giudici di Appello, che avevano già assolto Tiziano e Laura, «inesistente» e «insussistente» era il «progettino» che aveva consentito alla coppia di fatturare circa 200.000 euro. 

Ma per le toghe babbo e mamma non avevano emesso le fatture farlocche per consentire a terzi l’evasione fiscale, ovvero non avevano commesso il reato che i pm gli avevano contestato. Chi, invece, nello stesso processo, è stato accusato di truffa per quei pagamenti, è stato condannato in via definitiva. In un altro […] tweet Renzi ha sparato sull’intera Procura di Firenze che lo ha indagato per finanziamento illecito, definita «delegittimata e squalificata». Ma nonostante qualche giornale amico ancora gli vada dietro, sembra che almeno i giudici abbiano capito perché al suo paese Matteo fosse soprannominato «il Bomba».

Tutte le posizioni di Susanna Zanda: se questo è un giudice terzo e imparziale. Complottismo, idee antiscientifiche e fantasmi: delle sentenze della dottoressa Zanda potrebbe essere realizzato un vero e proprio bestiario. Un libro nero che dimostra come in magistratura tutto è permesso. Anche trasformare le idee più bislacche in dispositivi, nei limiti della sua posizione. Un po’ come dimostra il suo ultimo caso. Valeria Cereleoni su Il Riformista il 15 Luglio 2023 

Anni di malagiustizia ci hanno abituati a giudici che esprimevano le loro opinioni politiche non solo a suon di interviste e conferenze stampa, bensì anche con frasi più o meno sibilline nelle loro stesse sentenze. Lo facevano con un minimo di pudore e timore. Si può senz’altro affermare che al contrario il giudice del Tribunale di Firenze Susanna Zanda non ha avuto alcun timore ad esternare le sue posizioni mettendole nero su bianco sulle sue decisioni. Complottismo, idee antiscientifiche e fantasmi: delle sentenze della dottoressa Zanda potrebbe essere realizzato un vero e proprio bestiario. Un libro nero che dimostra come in magistratura tutto è permesso. Anche trasformare le idee più bislacche in sentenze.

Il caso Wi-Fi

In principio fu lo Wi-Fi. Una tecnologia consolidata, utilizzata in tutto il mondo nella quotidianità. Eppure, per il giudice fiorentino, nient’affatto innocuo.

Ed è così che, su ricorso dei genitori di un alunno dell’Istituto Comprensivo Botticelli di Firenze Zanda emette la sua decisione: “Si dispone inaudita altera parte che l’Istituto Comprensivo Botticelli rimuova immediatamente gli impianti WiFi presenti nell’istituto”.

Inaudita altera parte, vale a dire senza contraddittorio. Le motivazioni? “La comprovata sensibilità di soggetti epilettici ai campi elettromagnetici prodotti da impianti senza fili”. I terrapiattisti e Il Fatto Quotidiano applaudono. Alunni e professori, un po’ meno. Per fortuna un anno dopo una sentenza ribalta la decisione: nessuna prova scientifica che lo Wi-Fi incida sulla salute delle persone. Ma Zanda non si ferma certo qui.

Il complotto No-vax

E a fornirle ampio materiale è la pandemia da Covid-19. Poteva ella non aderire convintamente alle teorie del complotto no-vax? Certo che no. E così, Zanda balza nuovamente all’onore delle cronache per aver sospeso con decreto il provvedimento dell’ordine degli psicologi di Firenze che vietava a un suo iscritto non vaccinato di esercitare la professione.

In tale decreto, la dottoressa Zanda affermava che lo psicologo non può essere costretto a sottoporsi a vaccini “sperimentali talmente invasivi da insinuarsi nel Dna, alterandolo in modo che potrebbe risultare irreversibile con effetti ad oggi non prevedibili per la vita e la salute”.

Non poteva mancare poi il paragone con il nazismo, caro ai no-vax: “l’art. 32 cost. all’interno della carta costituzionale “personocentrica” dopo l’esperienza del nazi-fascismo non consente di sacrificare il singolo individuo per un interesse collettivo vero o supposto e tantomeno consente di sottoporlo a sperimentazioni mediche invasive della persona, senza il suo consenso libero e informato”.

La definizione di vaccino come “siero”: “un consenso informato non è ipotizzabile allorquando i componenti dei sieri e il meccanismo del loro funzionamento è, come in questo caso, coperto non solo da segreto industriale ma anche, incomprensibilmente, da segreto militare. E poi la mitica alterazione del DNA: “non possa essere costretta, per poter sostentare se stessa e la sua famiglia, a sottoporsi a questi trattamenti iniettivi sperimentali talmente invasivi da insinuarsi nel suo DNA alterandolo in un modo che potrebbe risultare irreversibile, con effetti ad oggi non prevedibili per la sua vita e salute”. 

La ribellione 

Ma Zanda, secondo quanto riportato da Il Foglio, in un articolo a firma di Ermes Antonucci, non si limita a questo. No. Prende carta e penna e scrive lettere su lettere ai suoi superiori in cui si ribella al vaccino, al Green pass e anche al tampone.

Scrive al Csm per avere delucidazioni sull’uso del Green pass: essendo ella ultracinquantenne, era sottoposta infatti all’obbligo vaccinale, che però voleva eludere e pertanto, cerca di sapere dal Consiglio Superiore se incorrerà o meno in sanzioni. “Il super Green pass tende ad indurre gli over 50 all’inoculo di un trattamento genico sperimentale che si era già acclarato avere un’efficacia immunizzante negativa”, scrive. Poi, definisce i tamponi come una “tortura”. E ancora, di nuovo, i vaccini come “sieri sperimentali”.

Mail con contenuti simili le invia anche al Presidente del Tribunale di Firenze, con in copia il Presidente della Corte di Appello e il Procuratore Generale di Firenze, come riporta Open. Il sito diretto da Franco Bechis racconta anche come la giudice avrebbe denunciato progetti compiuti in nome di «transumanesimo anticristico» attraverso «organizzazioni planetarie» legate a «pratiche esoteriche e sataniche».

Gli alleati

La Procura Generale della Corte di cassazione ha esercitato nei suoi confronti un’azione disciplinare. Nel frattempo però, la dottoressa Zanda si è guadagnata dei fan accaniti. Il Fatto quotidiano, come già detto, ma anche e soprattutto La Verità. Il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ha avviato infatti una vera e propria campagna di santificazione della giudice no-vax. In prima linea nella sua difesa e celebrazione, Silvana De Mari, medico radiato dall’ordine per le sue teorie antiscientifiche. Ma in sua difesa si scomoda perfino il vicedirettore Francesco Borgonovo.

Un giudice terzo?

Il caso ha voluto che poi, in seguito all’azione civile per diffamazione esercitata da Matteo Renzi nei confronti del quotidiano La Verità, il comportamento del direttore di quello stesso quotidiano e dei suoi giornalisti sia stato sottoposto al giudizio della dottoressa Susanna Zanda.

È lecito domandarsi se tutto ciò sia opportuno: con quale spirito terzo infatti, ella poteva giudicare una causa in cui una delle due parti aveva preso strenuamente le sue difese? Ricordiamo infatti, che il giudice non deve solo essere, ma anche apparire terzo.

Può apparire terzo il giudice Zanda in questa situazione? O il dubbio che non appaia tale è più che ragionevole? Non sta a noi dirlo. Ma domandarcelo sì.

E naturalmente Zanda ha condannato ieri Renzi a pagare le spese per quasi quarantamila euro e assolto Maurizio Belpietro nonostante una sentenza dello stesso tribunale di Firenze su un caso simile (Dagospia) avesse visto un pronunciamento opposto. Così come nel condannarlo in altra causa ha definito le azioni civili da lui legittimamente esercitate come “iniziative volte ad usare il tribunale civile come una sorta di bancomat dal quale attingere somme per il proprio sostentamento”, come riporta l’agenzia di stampa Ansa.

Questione di responsabilità

In attesa dell’appello, una domanda: può un cittadino di fronte a tali esternazioni sentirsi tutelato?

Come del resto è lecito domandarsi cosa sarebbe successo se a rifiutare il vaccino fosse stato un qualsiasi dipendente pubblico e non un magistrato. Se un impiegato ministeriale avesse preso carta e penna ed espresso tali assurde opinioni.

Può un cittadino, di fronte a tali esternazioni così fantasiose, sentirsi adeguatamente tutelato dalla giustizia italiana, consapevole che in magistratura, chi sbaglia difficilmente paga? Riteniamo che la vecchia proposta di Silvio Berlusconi, di sottoporre a test psicoattitudinale i giudici, sia in tal caso più che condivisibile. Accade per moltissime professioni, perché non per i magistrati?

Hanno in mano la vita delle persone: la loro libertà, il loro patrimonio. Accertarsi che lo facciano con un equilibrio mentale stabile, dovrebbe essere il minimo in una democrazia. Valeria Cereleoni

"È successa una cosa strana". La verità dell'ex spia sull'incontro con Renzi. L'ex 007 Marco Mancini, ormai in pensione, parla a Quarta Repubblica di quell'incontro in autogrill con Renzi. Giuseppe De Lorenzo il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

È la versione dell’ex 007, Marco Mancini. L'uomo che ha passato 30 anni al controspionaggio, altri sette come funzionario del Dis a coordinare le attività dei servizi segreti, per poi essere “spintaneamente” costretto alla pensione a causa di una foto. Quella che lo ritraeva insieme a Matteo Renzi, ad un autogrill, nel pieno della crisi del governo Conte II.

Altri tempi, altre storie. In quelle immagini, scattate - pare - da una ignara insegnante, Mancini e l’ex premier indossano ancora la mascherina protettiva anti-Covid. Sono i giorni di Natale del 2020. Nell’area di sosta di Fiano Romano si vedono il dirigente del Dis e il leader di Italia Viva: il primo in lizza per una nomina di peso nell’intelligence, il secondo al centro delle manovre politiche per portare Mario Draghi a Palazzo Chigi.

La donna che ha registrato le immagini sostiene di averlo fatto perché incuriosita dalla presenza di un uomo scortato che incontra un senatore in “un luogo così anomalo”. Avrebbe sentito Mancini dire soltanto “sono a disposizione. Sai dove trovarmi” per poi veder ripartire i due in direzioni opposte. Il video finisce dapprima sulla scrivania del Fatto Quotidiano, che non risponde. Poi nell’aprile del 2021 su quelle di Report. Ed è allora, a diversi mesi di distanza dall'incontro, che scoppia il bubbone: il giorno dopo la puntata, il capo del Dis Vecchione finisce in audizione segreta al Copasir, Draghi gli dà il benservito, nomina Elisabetta Belloni e pure Mancini viene costretto alla pensione.

Di domande su quell’incontro ne sono state fatte tante. E tante sono rimaste inevase. Chi ha realizzato quel video aveva un qualche legame con i servizi? E cosa si sono detti Mancini e Renzi? Intervistato a Quarta Repubblica, l'ex agente ha fornito alcuni elementi.

Prima risposta: in quell’incontro 007-senatore non vi era nulla di strano o segreto. “Avevamo un appuntamento al Senato. Non posso andare a trovare un parlamentare?”. La proposta di vedersi in Autogrill, assicura Mancini, sarebbe arrivata dallo stesso ex premier.

Seconda risposta: “Quel giorno è successa una cosa strana: la scorta non ha visto nessuna persona che potesse attentare alla sicurezza mia e di Renzi”. Cioè l’autore del video. Come è possibile?

Terzo punto: le indagini hanno escluso il legame della insegnante con i servizi, ma per Mancini occorrerebbe fare un controllo anche sul compagno di lei. “Ho la certezza - spiega l’ex spia - che questo accertamento non è stato fatto”. Mancini, tramite il legale, avrebbe invitato le autorità a chiedere a tutti gli appartenenti ai servizi se conoscono o meno il nome della signora o quello del compagno. Una procedura standard, assicura, che “è sempre stata fatta” tranne in questo caso. “La prova sono io, perché a me nessuno me l'ha chiesto”, ma “per arrivare alla verità bisogna fare quell'accertamento. Vedere se il compagno e lei erano conosciuti dai servizi segreti”.

Infine, occorrerebbe chiarire anche un altro aspetto. Mancini oggi è un uomo facilmente riconoscibile, ma ai tempi dello scandalo no, come ovvio che sia per un appartenente all'intelligence. Ad indicarlo a Report fu un uomo coperto da anonimato, ex dirigente di polizia ed anche lui membro dei servizi. Cosa c’è di male? “Ha declinato le mie generalità - lamenta Mancini - benché fossi in servizio e sotto scorta”. Non si fa, è il ragionamento. “Se io e lei domani mattina andiamo di fronte alla sede dell'Aise, dell'Aisi e del Dis, e lei mi chiede chi è questo o quell'agente, secondo lei le dico chi è e che compito ha? Ma stiamo impazzendo?”. Non solo. “Risulta che questa persona abbia telefonato ai giornalisti di Report una settimana prima che andasse in onda la trasmissione”.

Misteri, insomma. Tanti dettagli ancora da chiarire. Ma la domanda che tutti si fanno è una sola: c’è stato un complotto per escluderlo dalla corsa ai vertici del Dis? Mancini non si sbilancia: “Io penso che se si fa questo accertamento (sul compagno della donna, ndr), verrà fuori la verità”.

Le telefonate dei servizi al conduttore di "Report". Il caso di Renzi spiato all'autogrill nell'incontro con lo 007 Mancini. E spuntano sospetti sul coniuge della testimone. Luca Fazzo il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.

Sono stati gli uomini dei servizi segreti a cercare «Report», e non viceversa. Sul giallo dell'autogrill di Fiano Romano, l'incontro tra Matteo Renzi e l'allora dirigente del Dis Marco Mancini (nel tondo) nel dicembre 2020, si apre una nuova finestra, che costringe a porsi nuovi interrogativi. Perché se a portare Sigfrido Ranucci sulle tracce dell'ex premier e dello 007 non è stata la prof di Viterbo che per caso (secondo la sua versione) ha immortalato lo strano incontro all'autogrill ma una gola profonda vicina agli apparati di intelligence la storia cambia assai: sia che il bersaglio fosse Mancini, sia che fosse Renzi. E forse si comincia a capire come mai, interrogata in Questura a Roma il 2 maggio 2022, il capo del Dis Elisabetta Belloni abbia coperto la vicenda dell'autogrill col segreto di Stato, confermato - tranne che su dettagli irrilevanti - dal governo Draghi.

A lanciare il tema dei contatti tra «servizi» e Report è Marco Mancini, che lunedì scorso, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, afferma testualmente che la prima chiamata non è partita da «Report». Gli accertamenti della Digos di Roma sembrano confermare la tesi. È il 27 aprile 2021, sull'utenza intestata alla Rai e in uso al direttore di «Report» Sigfrido Ranucci alle 11,28 arriva una telefonata. L'utenza è intestata a Carlo Parolisi, ex agente dei servizi segreti. È il primo contatto tra i due. Stando agli accertamenti della Digos di Roma, fino a quel momento Parolisi e Ranucci non si sono mai sentiti.

Chi è Parolisi? É la fonte che «Report» utilizzerà poi, con volto e voce cammuffati, per riconoscere Mancini nell'uomo che conversa con Renzi nell'area di servizio. Di certo, Parolisi conosce bene Mancini, avendo lavorato per lui al Sismi. Le loro strade si sono incrociate su una vicenda drammatica, il rapimento in Iraq della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena nel 2005: è Parolisi a pagare in Kuwait il riscatto per la giornalista, è Mancini a riportarla in Italia dopo che Nicola Calipari, capodivisione del Sismi, è stato ucciso dagli americani sulla strada per l'aeroporto di Baghdad. Parolisi oggi è ufficialmente in pensione. Il 27 aprile chiama Ranucci, mezz'ora dopo viene richiamato da un inviato di Report. Da quel momento i contatti tra l'inviato e l'ex 007 si fanno intensi: sedici telefonate in tre giorni, a volte a chiamare è Parolisi, a volte è il giornalista. Ma a prendere l'iniziativa per primo, dicono i tabulati, è lo 007. Da quel momento, quelli di «Report» fanno solo il loro lavoro di giornalisti. Le vere domande sono: perché Parolisi chiama la redazione? Perché, se il suo ruolo è solo riconoscere Mancini nel filmato dell'autogrill, sono necessarie sedici chiamate, che proseguono anche dopo la messa in onda del filmato, avvenuta il 3 maggio 2021?

Tra le sedici chiamate ce n'è una particolarmente significativa. L'inviato di «Report» aggancia la cella telefonica di Viterbo, dove si è fiondato da Roma. Viterbo è importante, perché lì abita, col suo compagno, Valentina Cuozzo, la professoressa che ha realizzato foto e video. Che bisogno ha il giornalista, mentre si trova nei pressi della docente, di chiamare nuovamente Parolisi?

Per fugare i dubbi su possibili mandanti dell'«Operazione Autogrill» dentro i «servizi» basterebbe verificare se il nome della donna sia presente negli archivi del Dis, o di Aisi e Aise. Questa verifica non è stata fatta, dice Mancini: né per lei, né per il compagno. L'uomo, secondo i tabulati, si chiama Mariano Vincenzi: il 23 dicembre 2020 parla a lungo con la Cuozzo, due minuti prima che la donna - passando per caso all'autogrill? - decida di fotografare di nascosto l'incontro tra Renzi e lo «sconosciuto elegante». Ovvero Marco Mancini.

Estratto dell’articolo di Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 7 giugno 2023. 

La telenovela “Matteo, la prof., la Procura e l’autogrill” continua. […] Dopo aver chiesto di indagare sulla professoressa (che lo aveva ripreso nella piazzola dell’Autogrill e aveva girato poi il video a Report, che individuò l’interlocutore: lo 007 Marco Mancini) ipotizzando fosse complice di un’operazione di spionaggio clandestino; dopo aver ottenuto dai pm di Roma di farla indagare non per quello ma per un altro reato che neanche lui aveva ipotizzato, la diffusione di riprese fraudolente; dopo aver ottenuto dalla Procura di accedere ai messaggi del telefonino della prof. nei quali si citavano le parole chiave (Renzi, Mancini, Fiano, Settebagni e Autogrill), Renzi ha proseguito l’escalation.

E i pm ci hanno messo del loro acquisendo già all’inizio dell’indagine i tabulati dei giornalisti di Report a caccia delle loro fonti. Esposto dopo esposto, richiesta dopo richiesta, Renzi […] ha aumentato la sua sete di dati. E, poiché ogni volta nelle prove raccolte dai pm c’erano smentite alle sue idee complottiste, (è stato accertato che la prof non ha nulla ha a che fare con gli 007) rialzava la posta spalleggiato dai media amici.

Ora l’ultimo atto vede come protagonista il suo consulente Alessio De Giorgi, già noto come capo della comunicazione di Renzi (che alcuni definivano la “Bestia renziana”) e ora direttore del sito de Il Riformista. Il 5 giugno, durante l’esame del telefonino della prof., alla presenza di De Giorgi come consulente di Renzi, è stato chiesto alla polizia di estrarre e copiare le chat integrali della prof. nelle quali incautamente fossero nominati Renzi, Mancini, Fiano, Autogrill o Settebagni. […] tutte le chat con uno solo dei termini suddetti per Renzi andrebbero copiate. Anche se contenessero centinaia di messaggi di anni addietro, magari con una persona cara, magari su cose intime. Senza sconti.

Tutte le chat “contaminate” andrebbero consegnate a Renzi.

Il difensore della professoressa si è opposto […] La professoressa ha sempre fornito il più ampio supporto alle indagini. L’avvocato Vasaturo quindi chiede al pm Luigi Fede e all’aggiunto Michele Prestipino di porre un freno a Renzi per una questione di principio, per tutelare i giornalisti che teoricamente hanno interloquito con una fonte, oltre che per salvaguardare come cittadina, la professoressa da un’indebita invasione della sfera privata. 

Vasaturo tra l’altro non arriva ad evocare un possibile uso dei dati a fini giornalistici ma ricorda il ruolo di Renzi e di uno dei consulenti, Alessio De Giorgi, come già detto direttore del sito del quotidiano Il Riformista. […] Vasaturo sottolinea che la Cassazione riserva “massima garanzia al segreto sui contenuti delle interlocuzioni dei giornalisti” e rammenta “il rispetto del criterio di proporzionalità”.

Alla fine la polizia ha rimesso la palla ai pm che decideranno sulla richiesta dei legali di Renzi […] La Procura di Roma si è già mostrata molto sensibile alle istanze dell’ex premier indagando la professoressa e sottoponendo lei e i giornalisti a un’invasione della sfera privata pesante. Da tempo avrebbe potuto chiudere questa telenovela con una richiesta di archiviazione. Ora vediamo cosa farà sulle chat.

Ci permettiamo di ricordare un precedente. Nel caso Consip, quando era indagato con Carlo Russo per traffico di influenze il padre di Matteo Renzi, i carabinieri e i pm acquisivano con grande parsimonia le chat trovate nel cellulare di Russo. Nelle loro informative “stitiche” i carabinieri non riportavano l’intera chat tra Tiziano e Russo ma solo i singoli messaggi in cui c’era una parola chiave tipo “Marroni” (Ad allora di Consip). Se la stessa Procura consegnasse ora alla difesa di Matteo Renzi le intere conversazioni della prof. perché lo cita in un solo messaggio di una lunga chat, si potrebbe pensare che la privacy della signora vale meno perché ha osato non solo riprendere, ma persino citare in un messaggio Matteo Renzi. […]

Il caso Open. “La Corte darà ragione a Renzi”, il ‘corvo’ fa infuriare il senatore di Iv. Ieri su Repubblica le indiscrezioni sulla decisione sul conflitto di attribuzione tra Senato e procura di Firenze. Angela Stella su L'Unità il 7 Giugno 2023 

Chi è il corvo che ha spifferato a Repubblica la probabile decisione in merito al “conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, per avere quest’ultima acquisito agli atti di un procedimento penale, pendente nei confronti di un senatore e di altri soggetti, corrispondenza scritta riguardante il medesimo parlamentare senza preventiva autorizzazione del Senato” su cui la Corte Costituzionale è chiamata a decidere oggi dopo una udienza pubblica (relatore Modugno)?

La risposta non l’avremo mai, ma intanto il pezzo firmato da Liana Milella ieri, che anticipava indiscrezioni sulla decisione Consulta pronta a dar ragione a Matteo Renzi, ha creato parecchio frastuono, dentro e fuori la Corte. Sintetizziamo la questione: il 22 febbraio 2022 l’Aula di palazzo Madama approvava, con 167 voti favorevoli, 76 contrari e nessun astenuto la relazione della Giunta delle immunità sul caso Open che vede coinvolto il leader di Italia Viva Matteo Renzi, indagato per finanziamento illecito. In sostanza veniva sollevato un conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze che avrebbe inserito nel fascicolo dell’inchiesta chat e mail di quando Renzi era già senatore.

Infatti secondo l’articolo 68 della Costituzione è richiesta una autorizzazione per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza. Nel caso di Renzi sono state inserite agli atti conversazioni via email e whatsapp avute con gli imprenditori Marco Carrai e Vincenzo Manes, nonché un estratto del conto corrente bancario personale dello stesso leader di Italia Viva, senza chiedere alcun permesso.

L’articolo parla anche del caso di Cosimo Maria Ferri: la “Camera, sempre l’anno scorso, aveva negato al Csm l’utilizzo delle intercettazioni tra l’ex pm Luca Palamara e il deputato di Iv Ferri, sotto inchiesta disciplinare proprio per via di quelle conversazioni del 2019 sulle trattative per chi dovesse diventare procuratore di Roma. E palazzo dei Marescialli aveva sollevato a sua volta un altro conflitto di attribuzione”, ricorda la Milella.

Ma questa questione non è prevista nel calendario dei lavori di oggi. Sta di fatto che l’articolo ha spinto la Corte a inviare una nota alla stampa: “In relazione ad alcune illazioni apparse oggi (ieri, ndr) su organi di stampa, l’Ufficio Comunicazione della Corte costituzionale precisa che esse sono totalmente destituite di fondamento. La Corte darà comunicazione delle proprie decisioni, rispettivamente sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura e sul conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato promosso dal Senato della Repubblica, non appena esse saranno state assunte. Si precisa inoltre che il secondo conflitto non è stato nemmeno discusso in pubblica udienza, che è fissata solo per domani (oggi, ndr)”.

Non ci si aspettavano parole diverse. Ma sta di fatto che qualche uccellino ha cantato. In passato è avvenuto che qualche giudice, qualche assistente, o qualcun altro alla Consulta passasse indiscrezioni ai cronisti. Il fatto è che non si arriva vergini in una Camera di Consiglio: se ne discute prima e pertanto qualcuno poteva e ha potuto far trapelare un possibile orientamento. Siamo sempre nel campo delle ipotesi ovviamente. E non è detto che quanto avvenuto in passato si sia ripetuto, a maggior ragione che domani si terrà una udienza pubblica.

Alla fine lo sa solo Liana Milella, il cui articolo ha suscitato anche la forte reazione di Renzi che ha scritto in una nota: “L’articolo di Repubblica di questa mattina (ieri, ndr) a proposito del conflitto di attribuzione fra il Senato e la Procura di Firenze è un maldestro tentativo di condizionare il dibattito della Corte Costituzionale. Esprimo sconcerto per questo stile che non condivido e auguro un buon lavoro ai giudici della Consulta, la cui decisione è destinata a regolare i rapporti tra il Senato e l’Autorità giudiziaria per i prossimi anni”. Persone che conoscono bene i meccanismi della Corte ci dicono che i giudici non si lasceranno influenzare da quanto accaduto, del tipo “diamo torto a Renzi per smentire la talpa”.

DI Angela Stella 7 Giugno 2023

Altro che festa della Repubblica: Renzi d’Arabia alle nozze dell’emiro. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 3 Giugno 2023

È stata una foto pubblicata sui social a rivelarci la presenza di Matteo Renzi al royal wedding di Giordania. Una classica foto ricordo da turisti tra le rovine della città di Petra con la didascalia che non lascia dubbio sulla motivazione del viaggio. “In Giordania per il #RoyalWedding. Fuga di qualche ora con Agnese immersi nella bellezza di Petra”.

E così, il leader di Italia Viva e consorte hanno partecipato al matrimonio reale che si è tenuto giovedì primo giugno ad Amman, tra l’erede al trono di Giordania, il principe Hussein bin Abdullah II (28 anni) e dell’architetta saudita Rajwa Alseif (29 anni) rampolla di un’importante famiglia. Un invito, per l’ex presidente del Consiglio, dovuto al rapporto che lo stesso aveva stretto con il re Abdullah, conosciuto proprio quando sedeva a Palazzo Chigi. Rapporti che, evidentemente, si sono prolungati nel tempo e sono andati oltre le cariche politiche, visto che Matteo Renzi e la moglie Agnese Landini, sono stati gli unici italiani invitati. Un matrimonio celebrato, come di consueto, in grande.

Erano difatti oltre duemila gli invitati: tra gli ospiti di spicco, nonché rappresentanti di vari Paesi, la First Lady statunitense Jill Biden, il Sultano del Brunei Haji Hassanal Bolkiah e il presidente dell’Iraq Abdul Latif Rashid e ancora, Ivanka Trump ed il marito Jared Kushner, John Kerry e Nancy Pelosi, l’ex premier inglese David Cameron e la moglie. Ma anche i reali provenienti da Europa e Orientr: i reali d’Olanda, Willem-Alexander e Maxima, le principesse Hisakoa e Tsuguko del Giappone, la regina del Bhutan Jetsun e la principessa Eeuphelma, il principe Sebastien di Lussemburgo, il principe e la principessa ereditari di Danimarca Frederik e Mary, l’erede al trono svedese Victoria e il principe Daniel e il principe ereditario Haakon di Norvegia, il re Filippo di Belgio. In grande spolvero e non troppo lontano dai coniugi Renzi, il principe William e la moglie Kate, come ambasciatori del nuovo sovrano Carlo III.

Le nozze del 28enne erede al trono sono state celebrate con un rito nel palazzo Zahran costruito nel 1957 per la regina Zein Al Sharaf, madre del nonno dello sposo, dove esattamente trent’anni fa – il 10 giugno del 1993 – si è unita in matrimonio l’attuale coppia reale, re Hussein e la regina Rania. Renzi e moglie hanno portato con loro al matrimonio anche un po’ di Italia: difatti, per la coppia per l’occasione, ha scelto abiti rigorosamente italiani, e più precisamente, “Made in Florence”: Renzi ha sfoggiato un completo white tie di Stefano Ricci, la moglie un abito rosa molto elegante firmato Ermanno Scervino.

Fine di un incubo. Conferma assoluzione genitori Renzi, le reazioni politiche: “La verità più forte di ogni sciacallaggio”. Redazione su Il Riformista il 7 Luglio 2023

“Sono stati anni di dolore e ingiustizia. Oggi finalmente si chiude questa pagina che non avrebbe mai dovuto aprirsi. Resta l’amarezza per anni terribili. Resta la verità che è più forte di ogni sciacallaggio. Un abbraccio a tutta la famiglia Renzi e uno fortissimo a Matteo”. Commenta così  via Twitter la coordinatrice nazionale di Italia Viva, e capogruppo al Senato di Azione-Italia Viva, Raffaella Paita la conferma dell’assoluzione, da parte della Cassazione, dei genitori dell’ex premier Matteo Renzi, Laura Bovoli e Tiziano Renzi nel processo per false fatture.

“Inammissibile” il ricorso del procuratore generale di Firenze contro il proscioglimento dei due coniugi emesso dalla Corte di Appello di Firenze il 18 ottobre 2022: questa la decisione degli ermellini.

Eloquente anche il cinguettio di Luciano Nobili, consigliere regionale di Italia Viva: “L’assoluzione definitiva e completa di Laura Bovoli e Tiziano Renzi è una bellissima notizia per la loro famiglia, per chi gli vuole bene e gli è rimasto accanto in questi anni difficili, dove hanno dovuto subire ogni tipo di ingiuria. Posso solo immaginare il dolore causato da accuse infamanti, dalla violenza negli affetti, dalla gogna mediatica senza aver alcun ruolo pubblico, dalla diffusione persino di lettere privatissime tra padre e figlio”.

“Meritano il nostro abbraccio più forte in questo giorno di liberazione. Ma – prosegue – non possiamo non domandarci chi restituirà mai loro tutto quello che gli è stato tolto? Chi li risarcirà per questo ingiusto calvario? Chi chiederà scusa per una infame campagna di diffamazione e demonizzazione durata anni? Chi pagherà per tutto questo?”. “E non possiamo smettere di impegnarci nella battaglia garantista per una giustizia giusta perché è una priorità assoluta per chi vuole un Paese più civile. Un Paese in cui nessuno usi più le aule di tribunale per distruggere gli avversari, in cui chiunque sia innocente fino al terzo grado di giudizio, a prescindere dal cognome che porta”, conclude Nobili.

"Si chiude vicenda giuridicamente inesistente". False fatture, Cassazione conferma assoluzione per genitori di Renzi: “Non esiste risarcimento per la sofferenza dei miei familiari”. Redazione su Il Riformista il 7 Luglio 2023 

Cala il sipario con buona pace dei pm fiorentini. La terza sezione panale della Cassazione ha confermato l’assoluzione dei genitori dell’ex premier Matteo Renzi, Laura Bovoli e Tiziano Renzi nel processo per false fatture. “Inammissibile” il ricorso del procuratore generale di Firenze contro il proscioglimento dei due coniugi emesso dalla Corte di Appello di Firenze il 18 ottobre 2022: questa la decisione degli ermellini.

Appello bis, invece, per l’imprenditore Luigi Dagostino, condannato a nove mesi per truffa aggravata. I supremi giudici hanno dichiarato “inammissibile” il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze proposto avverso la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di appello di Firenze il 18 ottobre 2022 nei confronti di Laura Bovoli e Tiziano Renzi dai reati ex art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 loro ascritti ai capi 1 e 2. La Cassazione ha poi rigettato il ricorso proposto da Luigi Dagostino avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte di appello di Firenze il 18 ottobre 2022 per il reato di cui al capo 4, ex art. 640, 61, n.7 e 11, cod. pen. e lo ha condannato al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Tramor s.r.l. liquidate in complessivi euro 3.300, oltre accessori di legge.

Il commento di Renzi: “Non esiste risarcimento per la sofferenza dei miei familiari”

“Con la decisione della Corte di Cassazione di oggi si chiude un processo, quello contro i miei genitori, che non avrebbe mai dovuto essere aperto” commenta il leader di Italia Viva Matteo Renzi. “Solo l’ostinazione pervicace e ideologica della procura di Firenze ha costretto lo Stato italiano a spendere centinaia di migliaia di euro del contribuente per una vicenda giuridicamente inesistente” aggiunge.

“Non esiste risarcimento per la sofferenza di tutta la famiglia in questi anni. Ma la definitiva assoluzione dimostra – una volta di più – che fare le battaglie in tribunale e affermare la verità è il modo più serio di rispettare le Istituzioni contro chi usa alcune procure come arma politica nei confronti degli avversari” conclude.

Il processo

Il processo era relativo a due e fatture risalenti al 2015, una per un importo di 20mila euro e l’altra di 140mila euro, relative a studi di fattibilità che Tramor – società di gestione dell’outlet The Mall di Reggello (Firenze) di cui all’epoca era amministratore delegato Luigi Dagostino – aveva incaricato le società Party ed Eventi 6, facenti capo ai genitori dell’ex segretario del Pd.

La Cassazione conferma assoluzione dei genitori di Renzi, . L’ex premier: “Procura di Firenze ideologica”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Luglio 2023

In primo grado erano stati condannati il 7 ottobre 2019 a un anno e nove mesi di reclusione ciascuno, ed assolti in secondo grado dalla corte di Appello di Firenze

Èstata confermata dalla Suprema Corte di Cassazione l’assoluzione dei genitori dell’ex premier Matteo Renzi nel processo per delle presunte false fatturazioni delle loro società. Si è così definitivamente concluso il processo a carico dei genitori dell’ex presidente del consiglio. il processo appena arrivato al termine dinanzi alla Suprema Corte, riguarda il pagamento di fatture emesse da società dei Renzi nel 2015 – una da 20.000 euro dalla società Party, un’altra da 140.000 euro più Iva dalla Eventi 6 – per delle consulenze ad aziende riferibili a D’Agostino. Le consulenze riguardavano uno studio di fattibilità per un’ attività di ristorazione e per potenziare il flusso di turisti, in particolare orientali, verso l’outlet The Mall nel Valdarno.

Secondo il teorema accusatorio della Procura di Firenze, si sarebbe consumato un reato tipico di impresa, con l‘emissione di fatture false per giustificare il passaggio di denaro per prestazioni mai svolte, e la Guardia di Finanza durante le perquisizioni non avrebbe trovato né lettere di incarico né elaborati. “Anche se risulta dimostrato che le fatture emesse dalla Party ed Eventi6 non corrispondono a prestazioni commerciali realmente effettuate“, il fatto non costituisce reato e i genitori dell’ex premier non hanno agito per evadere le imposte, avevano scritto i giudici d’appello nella sentenza di proscioglimento. “La finalità perseguita – aggiungeva inoltre il verdetto – era esclusivamente per motivi extrafiscali, attinente a versamenti che l’imprenditore Luigi D’ Agostino ha ritenuto di fare per ragioni che il processo non ha chiarito“. Tra circa un mese si conosceranno le motivazioni della decisione della Corte di Cassazione. 

Gli “ermellini” hanno infatti confermato il proscioglimento di Tiziano Renzi e di sua moglie Laura Bovoli dall’accusa di aver emesso due fatture per prestazioni inesistenti. Il verdetto della Suprema Corte ha confermato la decisione dello scorso 18 ottobre 2022, con la quale la Corte di Appello di Firenze, aveva stabilito che i due coniugi andavano assolti con la motivazione “perchè il fatto non costituisce reato” .

In primo grado i genitori dell’ex premier e attuale leader di Italia Viva erano stati condannati il 7 ottobre 2019 a un anno e nove mesi di reclusione ciascuno per emissione di fatture false, con sospensione condizionale della pena. Contro il proscioglimento pronunciato dai giudici della corte di Appello di Firenze, il Pg fiorentino ha fatto ricorso in Cassazione che, velocemente, – a fronte delle motivazioni depositate solo lo scorso marzo dalla Corte di appello – ha fissato l’udienza svoltasi oggi, dato che c’era il rischio prescrizione per uno dei reati contestati all’imprenditore pugliese Luigi D’Agostino, attivo nel settore degli outlet.

Anche D’Agostino, dopo la condanna a due anni di reclusione in primo grado, era stato assolto in appello per le false fatture e condannato a nove mesi di reclusione per il solo reato di “truffa aggravata“. Gli era stato contestato di aver sollecitato alla nuova dirigenza della Tramor, la società da lui amministrata prima del passaggio nella holding del lusso Kering, il pagamento della fattura da 140mila euro. Per quanto riguarda la posizione processuale dell’imprenditore pugliese, ci sarà un un nuovo processo in corte di appello bis quanto gli ‘ermellinì della Suprema Corte hanno accolto il ricorso del Pg in relazione a un capo d’accusa dal quale era stato prosciolto.

Con la decisione della Corte di Cassazione di oggi si chiude un processo, quello contro i miei genitori, che non avrebbe mai dovuto essere aperto. Solo l’ostinazione pervicace e ideologica della procura di Firenze ha costretto lo Stato italiano a spendere centinaia di migliaia di…

Il commento dell’ex premier Renzi: “Procura di Firenze ideologica”

“Con la decisione della Corte di Cassazione di oggi si chiude un processo, quello contro i miei genitori, che non avrebbe mai dovuto essere aperto. Solo l’ostinazione pervicace e ideologica della procura di Firenze ha costretto lo Stato italiano a spendere centinaia di migliaia di euro del contribuente per una vicenda giuridicamente inesistente. Non esiste risarcimento per la sofferenza di tutta la famiglia in questi anni. Ma la definitiva assoluzione dimostra – una volta di più – che fare le battaglie in tribunale e affermare la verità è il modo più serio di rispettare le Istituzioni contro chi usa alcune procure come arma politica nei confronti degli avversari». Questo è il commento di Matteo Renzi pubblicato sulle sue pagine social. Redazione CdG 1947

Bene Il Giornale e Tg5, Repubblica invece "buca" completamente la notizia. Per i genitori di Renzi assolti non più le prime pagine ma solo trafiletti (e più spesso neppure quelli). Redazione su Il Riformista l'8 Luglio 2023 

La prima agenzia viene battuta alle 20.40  dall’ANSA, contrassegnata dai “+” che servono ai giornalisti che le leggono per riconoscere le cosiddette breaking news, le ultime notizie: “++ La Cassazione conferma l’assoluzione dei genitori di Renzi ++“. Arriva inaspettata. Tre minuti dopo, alle 20.43, è lo stesso ex premier, direttore de Il Riformista, a commentarla su Twitter.

Alle 20.40 le redazioni, specie dei giornali principali, che stampano più edizioni nella notte e comunque chiudono la prima dopo qualche ora, sono tutte in tempo ancora per inserirla nei quotidiani che stanno per andare alle rotative.

Ma a fronte delle paginate e paginate spese per parlare del processo che vedeva imputati per false fatturazioni i genitori di Matteo Renzi, il papà Tiziano e la mamma Laura Bovoli, si faceva molta fatica nella mattinata di sabato a trovare la notizia della loro assoluzione definitiva in Cassazione sui quotidiani freschi di stampa. Ed il nulla cosmico  sui quotidiani della domenica.

Figurarsi delle prime pagine: l’unico quotidiano che riesce a trovare spazio in prima pagina è il Giornale che dedica all’assoluzione un riquadro in taglio alto. Ma anche nelle pagine interne si fa fatica: ci sono un bell’articolo di Laura Cesaretti sul Giornale, un trafiletto sul Messaggero a pagina 5, un altro colonnino su Avvenire a pagina 6. Il “mitico” Fatto Quotidiano, che alla vicenda processuale aveva dedicato diversi richiami in prima pagina e molti lunghi articoli ovviamente tutti all’insegna del peggior giustizialismo, ha un breve colonnino a pagina 12. La Verità, che pure a questa vicenda aveva dedicato moltissimo inchiostro, nulla: neppure un trafiletto e poco ha senso dire che La Verità va in stampa molto preso, come fa del resto anche lo stesso Riformista, se poi sull’online neppure un articolo riporta l’assoluzione. Nulla dal Corriere della Sera: il quale Corriere però riesce a fare un lungo pezzo sull’edizione fiorentina online, a firma Valentina Marotta, richiamato anche in homepage online nazionale, che va in stampa solo sull’edizione toscana. Tra i giornali toscani La Nazione, Il Tirreno e per l’appunto il Corriere Fiorentino (edizione toscana di quello nazionale) dedicano spazio alla notizia: tutti tranne Repubblica, di cui né l’edizione locale né tanto meno quella nazionale dedica un solo trafiletto all’assoluzione. E pensare che Repubblica, con La Verità ed il Fatto Quotidiano, era stato il quotidiano che più aveva dato spazio a tutta la vicenda processuale, ad iniziare dal primo avviso di garanzia. Gli altri quotidiani nazionali? La Stampa, Il Sole 24 Ore, Libero? Non pervenuti. Eppure riescono a trovare spazio per le dimissioni del premier olandese Mark Rutte, la cui notizia viene battuta dalle agenzie alle 20.18, quindi soli 12 minuti prima di quella dell’assoluzione dei genitori di Matteo Renzi.

Ma passiamo ai tg e prendiamo in considerazione ovviamente le due edizioni di sabato, giacché alle 20 di venerdì ormai erano già tutti andati in onda. Il Tg1 delle 13.30 di sabato dedica alla vicenda un breve richiamo nel sommario iniziale ed è la stessa giornalista intorno al decimo minuto a dare la notizia in modo abbastanza approfondito, facendo vedere anche il tweet del direttore de Il Riformista. Non pervenuto invece il Tg2 diretto da Antonio Preziosi nel sommario iniziale dell’edizione delle 13 di sabato, ma è nuovamente la conduttrice a dare la notizia. Anche il Tg3 non dà spazio all’assoluzione nel sommario iniziale, mentre è di nuovo la stessa conduttrice a parlarne brevemente. Il Tg5 e tutti gli altri tg Mediaset dedicano spazio all’assoluzione sia nel sommario che nel telegiornale con un servizio dedicato solo alla vicenda: è la stessa conduttrice del Tg5 a ricordare che l’assoluzione arriva “dopo anni di udienze e inchiostro sulle pagine dei giornali”. Nulla invece ci risulta abbia detto il Tg di La7 diretto dal sempre attento Enrico Mentana, né quello delle 13.30 né quello delle 20.30, né nei sommari iniziali né tanto meno nei servizi. A quanto ci risulta, lo stesso Enrico Mentana, il “campione delle maratone” che dirigeva in prima persona il Tg di venerdì sera, è riuscito a dare in diretta la notizia delle dimissioni di Mark Rutte ma non quella dell’assoluzione dei genitori di Renzi.

E’ così difficile comprendere che il livello di civiltà di un Paese si misura – tra i tanti fattori – anche dalla capacità di offrire una informazione equilibrata, che dia agli esiti processuali di vicende giudiziarie lo stesso risalto che viene dato alle incriminazioni? Evidentemente, per ora sì.

Altro che presunzione d'innocenza. Renzi risponde a Travaglio: “Io imputato, lui pregiudicato: lo disistimo non per questo, ma per l’odio…” Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2023 

“Il Riformista ha un direttore imputato, il Fatto Quotidiano ha un direttore condannato: orgogliosi di essere diversi, anche in questo”. Matteo Renzi risponde così a Marco Travaglio che “oggi scrive un editoriale per dire che il direttore del Riformista, cioè il sottoscritto, è imputato. Vero: come noto sono davanti al giudice dell’udienza preliminare per Open. Il Fatto Quotidiano invece è guidato da un direttore pregiudicato che si chiama Marco Travaglio” sottolinea l’ex premier.

“In altre parole lui è stato condannato penalmente in via definitiva, cosa che io non sarò mai. Ma non è per questo che lo disistimo” spiega Renzi che chiarisce: “Lo disistimo per il suo carico di odio che tutte le sere esprime in TV contro chi non la pensa come lui”.

Altro che presunzione d’innocenza, Travaglio nel suo editoriale si è scagliato, per l’ennesima volta, sia contro l’editore del Riformista, l’avvocato e imprenditore Alfredo Romeo, che contro l’attuale direttore editoriale Matteo Renzi. La loro colpa? Essere imputati (e non condannati, attenzione).

Nel mirino del pregiudicato Travaglio l’editoriale di Renzi sul processo Open. Editoriale dove spiegava ai lettori che “anche oggi mi presenterò in Tribunale, a Firenze, nell’ambito del “processo Open” per poi aggiungere che “debbo ai lettori una spiegazione sul perché Il Riformista non seguirà questa udienza preliminare, né questo processo”.

“Questo giornale non è il luogo della mia difesa. Mi difendo da solo” ha aggiunto Renzi. Parole che hanno fatto scattare l’ennesima caccia alle streghe di Travaglio.

Il garantismo ad personam. Inchieste sulla famiglia Meloni: quando su Renzi Fratelli d’Italia era tutto fuorché garantista. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 14 Maggio 2023

Il garantismo non è ad personam. O si è coerenti sempre e, quindi, si è garantisti con tutti (dal politico al disgraziato di turno) oppure, sbagliando, s’invoca il garantismo a convenienza, quando inchieste dei media e operazioni di polizia giudiziaria coinvolgono il tuo partito o la tua sfera privata, salvo poi mantenere quotidianamente uno spirito giustizialista su tutte le altre vicende.

Ne sanno qualcosa Giorgia Meloni e gli esponenti di Fratelli d’Italia. Nelle scorse ore, infatti, Il Domani e Repubblica hanno pubblicato due inchieste sulle società e sugli affari della madre e dell’entourage vicino alla premier. Un lavoro che prova a smontare la narrazione meloniana dell’underdog, ovvero della sfavorita che, nonostante le difficoltà, ce la fa e riesce ad emergere, analizzando le attività economiche dei familiari della Premier e i presunti affari (e plusvalenze) della madre tra una casa acquistata nonostante un reddito basso e un bar rilevato e rivenduto a prezzi più alti.

Una inchiesta che riguarda gli affetti di Meloni e chiama in causa ancora una volta una vicenda dolorosa per la premier, ovvero quella relativa al rapporto con il padre (Francesco Meloni, deceduto da tempo), scappato via in Spagna e protagonista di vicende giudiziarie che vedono la Premier del tutto estranea.  Meloni, infatti, ha più volte raccontato il doloroso rapporto con suo padre, che la abbandonò quando lei aveva poco più di un anno e con il quale dall’età di 11 anni non ha più avuto rapporti. “Quale è l’obiettivo di questo presunto scoop? Ve lo dico io. Mettere un po’ di fango nel ventilatore e accenderlo” ha replicato Meloni a Domani, aggiungendo che il loro obiettivo è “colpire tutte le persone che mi sono vicine, che mi vogliono bene, a una a una, giorno dopo giorno”. Per poi concludere: “Fatevene una ragione, mi vedrete camminare sempre a testa alta”.

Meloni nel mirino: le inchieste sulla sua famiglia di Domani e di Repubblica

E’ doveroso però ricordare come gli stessi esponenti di Fratelli d’Italia, premier in testa, in passato tutto questo garantismo non lo invocavano. Anzi. La stessa Meloni in Parlamento e l’allora consigliere regionale toscano Giovanni Donzelli, presentarono addirittura due interrogazioni per provare a far luce sugli ‘affari’ dell’azienda di Tiziano Renzi, padre di Matteo, e sull’inchiesta Consip.

Una inchiesta che vide addirittura Donzelli definirsi non felice “ma arrabbiato” per l’arresto del padre di Renzi (finì per un breve periodo ai domiciliari) perché “sono anni che alcuni fatti sono arcinoti, alcuni li abbiamo denunciati in maniera incontrovertibile: mi sorprendo che siano emersi solo adesso”. Peccato per Donzelli che dopo un lungo calvario giudiziario i genitori di Renzi sono stati assolti dal processo sulle false fatture perché “il fatto non costituisce reato”.

La stessa Meloni, all’epoca, sfoggiò la solita retorica giustizialista e populista sulla società del padre di Renzi: “E’ normale che in un’Italia in cui gli imprenditori non riescono ad accedere al credito e si suicidano oltre 200mila euro di debiti della famiglia Renzi vengano pagati da fondi pubblici?”. Ma il tempo è galantuomo, è Meloni a distanza di anni avrà, si spera, sicuramente cambiato approccio su inchieste mediatiche e giudiziarie. La presunzione d’innocenza vale per tutti e per averne certezza basta chiederne conferma al ministro della Giustizia (voluto proprio dalla premier) Carlo Nordio, garantista DOCG.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 17 maggio 2023.

Adesso è chiaro a che cosa serva a Matteo Renzi il Riformista: a spacciare fake news pro domo sua. Lunedì sul quotidiano nella versione online (gestita dall’ex spin doctor della Bestia renziana Alessio De Giorgi), è stato pubblicato un articoletto da cui si intuiva come l’ex premier e i suoi fedelissimi stessero godendo per le altrui inchieste giornalistiche sulla mamma di Giorgia Meloni, Anna Paratore. 

Ma, secondo i renziani, i vertici di Fratelli d’Italia non sarebbero autorizzati a invocare il garantismo perché uno dei loro leader, Giovanni Donzelli […] osò dichiarare: «Sono anni che alcuni fatti sono arcinoti, alcuni li abbiamo denunciati in maniera incontrovertibile: mi sorprendo siano emersi solo adesso».

A distanza di anni il Riformista lo fulmina: «Peccato per Donzelli che dopo un lungo calvario giudiziario i genitori sono stati assolti dal processo sulle false fatture». Spiace contraddire i renziani, ma trattasi di fake news: in realtà i genitori sono finiti ai domiciliari per una triplice bancarotta e per questa imputazione sono ancora sotto processo. 

Quanto alle false fatture, quelle sono state considerate dai giudici gonfiate e truffaldine, ma non finalizzate ad evadere le tasse, da qui l’assoluzione. Va aggiunto che gli affari della Paratore non hanno mai visto la figlia Giorgia implicata direttamente, mentre Matteo nella ditta dei genitori è stato dirigente sino al 2014 quando, scoperto dai giornalisti, ha dovuto dimettersi: i parenti lo avevano promosso da co.co.co a dirigente poco prima che diventasse presidente della Provincia così da garantirgli la possibilità di mettere da parte ricche marchette pensionistiche.

Ma torniamo al processo per bancarotta contro i genitori. Dovrebbe concludersi entro fine anno e ad aprile la pubblica accusa ha incassato un importante quanto inaspettato punto a favore. Si tratta della relazione tecnica firmata dal commercialista bresciano Antonio Faglia, consulente dell’imputato Pasqualino Furii, alla sbarra per aver accettato di ricoprire l’incarico di presidente in una cooperativa poi fallita, la Delivery service Italia, dal 2010 al 2013. 

Il documento contiene nuove, pesanti accuse e scarica le responsabilità dei magheggi contabili sui genitori e sulla coppia che li ha sostituti alla guida di diverse società in crisi, ossia Mariano Massone e Giovanna Gambino. Un sistema svelato in anteprima nel 2016 dal libro I segreti di Renzi del direttore Maurizio Belpietro. Il consulente definisce Furii una «controfigura» che andava mantenuta «intenzionalmente avulsa rispetto alle vicende societarie; priva di qualsiasi partecipazione ai disegni gestionali dei dominus della situazione».

Un semplice «uomo di fatica» che portava al macero i volantini e che venne inserito nel cda della Dsi quando questa era già «decotta». Il professionista cita mail e dichiarazioni testimoniali per dimostrare il «disegno complessivo» alla base della costituzione e successivo prosciugamento delle cooperative (in realtà «imprese commerciali»), Dsi, Europe service e Marmodiv, a cui veniva subappaltato il lavoro di distribuzione dei volantini, core business dei Renzi.

Un disegno «atto ad avvantaggiare esclusivamente» le «società loro sovraordinate». Infatti gli «oneri previdenziali ed erariali» gravavano sulle finte coop che avevano un tempo di vita «estremamente breve», come dimostra la storia della Dsi di cui sarebbe stato «artefatto» persino il primo bilancio: un deficit di 55.000 euro sarebbe stato trasformato in un attivo di 5.000.

Le tre ditte fallite dovevano conservare lo «status di “società sana”» giusto per il tempo «necessario ad assumere dipendenti e ottenere finanziamenti dalle banche». «Poi, una volta prosciugate e condotte a una irreparabile situazione di difficoltà economica, venivano abbandonate e sostituite da una nuova coop già previamente (e a bella posta) costituita e destinata alla medesima fine». 

E chi c’era dietro a tutto questo? Il consulente dell’ex «presidente» della Dsi non usa giri di parole: «A tenere le redini di un siffatto disegno erano i coniugi Tiziano Renzi e Laura Bovoli, cui sono sempre state riconducibili le società di cui al piano gerarchico superiore». 

In un altro passaggio l’uomo fa riferimento a un piano che «faceva evidentemente capo ai coniugi Renzi e, in particolare, alla signora Laura Bovoli». Il consulente […] parla di «spregiudicati progetti» e sottolinea che tutte le operazioni sarebbero avvenute sotto la loro «attenta e persistente supervisione».

Faglia sostiene che rami di azienda, commesse e dipendenti passavano da una coop all’altra sotto la regia di Rignano sull’Arno. Al piano inferiore c’erano i «loro sodali» che venivano «riutilizzati» come amministratori nelle nuove società, mentre in quelle in crisi subentravano prestanome e persone «inermi e ingenue», «inidonee a valutare con cognizione di causa le conseguenze dei ruoli assegnati», «meri esecutori di volontà altrui».

Addirittura sarebbero stati ingaggiati degli studenti, che da scuola venivano spediti dal notaio direttamente da babbo Renzi. «I veri e unici obiettivi degli “organizzatori” erano: da un lato, avviare una nuova cooperativa, dall’altro “spremere” sino all’ultimo Dsi». «Il loro interesse precipuo» era che coop fossero costituite e gestite «senza troppi problemi», tanto che «molti dei soci fondatori non ricevettero più alcuna notizia di Dsi». 

In una mail Giovanna Gambino chiede alla Bovoli: «Sostituiamo tutti e tre (i componenti del cda, ndr.) o solo il presidente?». Come se i membri dei consigli fossero delle figurine. 

[…] Mamma Laura nelle mail evidenziate parla di prosciugamento dei conti e di «massimo spremibile» dalla Dsi. Alla Gambino chiede fatture «per abbattere l’Iva» che non riesce a pagare «non avendo più nulla». In un ultimo messaggio attacca il marito che gli aveva promesso di lasciare sempre un «tesoretto x coprire almeno 3/4 rate» di mutuo e al cui posto la donna ha trovato, però, «una mega voragine»: «Mi viene voglia di strozzare qualcuno» conclude con durezza e sincerità.

Contenti loro, contenti tutti. Marco Lillo e i trenta denari, il caso Consip e le fake news: Tiziano Renzi i soldi li ha presi da… lui. Valeria Cereleoni su Il Riformista il 17 Maggio 2023 

Marco Lillo torna a parlare di Consip, Romeo, Renzi. Lo fa sul Fatto Quotidiano, ovviamente. Lo fa proponendo la solita narrazione giustizialista, smentita dalla realtà. E lo fa coerentemente con la linea editoriale del suo giornale per il quale l’editore de Il Riformista, l’avvocato Alfredo Romeo, ha già denunciato anche in sede penale il direttore Travaglio.

Il Fatto sostiene che ci sia stato un pagamento di trentamila euro effettuato da Romeo. Siamo finalmente in grado di svelare la verità. Il pagamento di trentamila euro effettivamente c’è stato. E i soldi li ha presi davvero Tiziano Renzi. Solo che a pagare è stato… Marco Lillo. Già perché il Tribunale di Firenze ha condannato Lillo per diffamazione.

E il giornalista de Il Fatto ha già rimborsato il padre dell’ex premier. Una notizia, questa, che non troverete sul Fatto Quotidiano. Che continua a rimestare fake news sulla vicenda Consip. E che lo fa con grande sprezzo del pericolo.

Pur di veicolare fake news i colleghi de “Il Fatto” hanno accettato di perdere copie. Adesso ci rendiamo conto che perdono pure soldi. Contenti loro, contenti tutti. Valeria Cereleoni

Estratto dell’articolo da open.online il 17 aprile 2023.

Gianpaolo Scafarto è il carabiniere che indagò su Matteo Renzi, il padre Tiziano e il caso Consip. Oggi è nella lista Liberaldemocratici, che a Scafati appoggia il candidato sindaco Corrado Scarlato insieme a quella di Italia Viva (che si chiama Scafati viva). 

Il Mattino ricorda che Scafarto è stato accusato di aver rivelato ai giornalisti il contenuto delle dichiarazioni di Luigi Marroni, ex ad di Consip. E di aver falsificato un’informativa attribuendo la frase «Renzi, l’ultima volta che l’ho incontrato…» ad Alfredo Romeo invece che a Italo Bocchino. Nell’ottobre 2019 è stato prosciolto dal Gip.. […] 

La stoccata: «Io non ho mai avuto pregiudizi politici, questa candidatura dimostra la mia terzietà in quell’inchiesta che seguivo e per la quale sono finito a processo». […]

Estratto dell’articolo di Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” dell’8 giugno 2017 

Le indagini condotte dal Noe dei Carabinieri su un capitolo almeno del caso Consip, su quello che ne era diventato il cuore perché merce ad alto rendimento politico — il padre del Presidente del Consiglio Tiziano Renzi — si rivelano un verminaio di infedeltà e manipolazioni. 

In cui sprofondano definitivamente il capitano Gianpaolo Scafarto e il colonnello Alessandro Sessa, vicecomandante del reparto ora indagato per depistaggio. E che promette di inghiottire altri protagonisti di questa vicenda. 

 Non fosse altro perché apre uno squarcio sinistro su quanto accaduto tra l’estate 2016 e il gennaio 2017 al Comando Generale dove, chi manipolava l’inchiesta (Scafarto e Sessa) sapendo di farlo, giustificava le proprie mosse storte con l’urgenza di «arrestare Tiziano Renzi». […] 

Di più: concionava sulla necessità di intercettare — non è dato sapere in forza di quale autorità — il Comandante generale Tullio Del Sette e il Capo di Stato Maggiore Gaetano Maruccia, sospettati di essere le talpe che avrebbero dovuto far deragliare l’indagine della Procura di Napoli a vantaggio del Presidente del Consiglio. Nel dettaglio.

A Scafarto, i pm mostrano i messaggi scambiati in quella chat tra lui e suoi uomini tra il 2 e il 3 gennaio di quest’anno. I giorni immediatamente precedenti la consegna della memoria ai pm. Si legge il 2 gennaio:

Scafarto: «Per favore, qualcuno si ricorda se Romeo ha mai detto a qualcuno di aver visto, anche una mezza volta, Tiziano (Renzi ndr.)?»

La richiesta diventa frenetica il giorno successivo, il 3.

Scafarto: «Buongiorno a tutti… Forse abbiamo il riscontro di un incontro tra Romeo e Tiziano Renzi. Ieri ho sentito a verbale Mazzei, il quale ha riferito che il Romeo gli ha raccontato di aver cenato o pranzato (non ricordava) con Tiziano e Carlo Russo».

È una circostanza per la quale va trovato un riscontro. Che Scafarto individua in una conversazione ambientale di cui dà gli estremi ai suoi uomini.

Scafarto: «Remo, per favore, riascoltala subito. Questo passaggio è vitale per arrestare Tiziano (Renzi ndr.). Grazie. Attendo trascrizione». […] 

Da Huffington Post il 26 gennaio 2018

Il gip di Roma ha emesso una nuova ordinanza di misura interdittiva, con sospensione dal servizio per un anno, nei confronti dell'ex maggiore Noe Gianpaolo Scafarto, indagato tra l'altro per depistaggio nell'inchiesta su Consip. Scafarto era stato raggiunto a dicembre da una prima interdittiva poi annullata per un vizio formale. In quel caso il provvedimento riguardava anche il colonnello ex Noe, Alessandro Sessa che però si è autosospeso dal servizio e quindi nei sui confronti non è stata emessa nuova ordinanza. 

Scafarto, insieme al colonnello Alessandro Sessa, suo superiore e già vicecomandante del Noe, è da tempo indagato nell'ambito dell'inchiesta Consip, alla quale hanno lavorato nel periodo in cui erano in servizio presso il Nucleo Operativo ecologico. La procura di Roma, a inizio dicembre, aveva contestato loro l'ipotesi di accusa, il depistaggio, che, unita alle precedenti già configurate dagli inquirenti, aveva portato all'emissione di un'ordinanza che sospendeva entrambi dal lavoro per un anno.

L'iniziativa - che risale a prima di Natale - aveva determinato la presa di posizione del leader del Pd, Matteo Renzi, il cui padre, nella stessa inchiesta, è indagato per traffico di influenze. "Se qualcuno ha tradito il giuramento allo Stato è giusto che paghi - aveva dichiarato l'ex premier - ma ci sono i magistrati per verificarlo. Leggo quello che accade, è evidente che questa storia non finisce qui e io la seguo con l'atteggiamento neutrale e serio di chi dice: andate avanti e vediamo chi ha ragione o torto".

DAGOREPORT il 5 aprile 2023.

Uscito malconcio dalla partita sulle nomine Rai, dove la sua pupilla, Maria Elena Boschi si è dovuta accontentare della vicepresidenza della Commissione di Vigilanza, Matteo Renzi ha già il radar puntato verso le sue prossime mosse, obiettivo europee 2024.

 Sia Azione, del suo “partner in crime” Carlo Calenda, sia ''Arabia Viva'', infatti, pretendevano la guida della Vigilanza, sostenendo di non aver ricevuto adeguata rappresentanza nelle commissioni parlamentari.

La mancata nomina di MEB, se da un lato ha fatto masticare amaro Matteonzo d’Arabia, dall’altro non è dispiaciuta troppo a Don Ciccio Calenda, che vive con silenziosa goduria tutto ciò che porta al ridimensionamento della truppa di Italia Viva.

 D’altronde, tra i due ego-leader del Terzo Polo, ormai è in corso una guerra fredda: Renzi e Calenda non si sono mai amati, caratterialmente “non si prendono”, e il progetto politico della fusione tra i loro due partiti appartiene al cestino dei ricordi, al punto che alle regionali in Friuli Venezia Giulia sono stati superati anche dalla lista dei No-Vax.

Quel che resta di Forza Italia dialoga ormai solo con Calenda, avendo ormai compreso che Renzi è la parte meno affidabile (e perdente) del tandem. Anche perché le grandi strategie di Matteonzo sono andate a farsi benedire: sperava, con il voto determinante per l’elezione di Ignazio La Russa a Presidente del Senato, che il suo partito potesse diventare una stampella del governo Meloni.

 Ma dopo il siluramento di Licia Ronzulli e la svolta governista-tajanea degli azzurri, l’operazione è miseramente fallita, rendendo inutili i voti di cui dispone in Senato. Non serve un pallottoliere per capire che le truppe renziane sono ridotte a quattri amici al bar: intorno a Matteo ormai sono rimasti pochi fedelissimi, tra cui Bonifazi, Marattin e Boschi. Gli stessi “italiaviveur” Bonetti e Rosato vanno a corrente alternata, praticando dei distinguo rispetto alla linea del loro leader.

Capita l’antifona, e subodorando aria da fine cuccagna, anziché perdere per KO, Renzi ha preferito perdere ai punti, facendo un’inversione a U rispetto al progetto di grande stratega d’Aula.

 È in questo contesto che, una settimana fa, è arrivata la proposta di diventare direttore del “Riformista” da parte di Alfredo Romeo, già coinvolto nell’inchiesta Consip con suo padre, Tiziano, e con la dentiera avvelenata verso i magistrati.

 Da una parte. Dall'altra Matteonzo, rimasto invischiato nell'inchiesta della Fondazione Open, ha ingaggiato una violenta battaglia contro Travaglio e Ranucci e i giudici di Firenze, Turco e Nastasi, accusandoli di abuso di ufficio; una battaglia dalla quale è uscito con le ossa rotte.

L’elegante imprenditore napoletano, che negli ultimi tempi ha rotto misteriosamente i rapporti con il suo consigliori Italo Bocchino (anche lui venne indagato per il caso Consip), dopo aver acquisito l'Unità, dove ha piazzato il sodale Sandonetti, aveva offerto la direzione del quotidiano a due esponenti di Forza Italia, ricevendo un “no, grazie”. Alla ricerca di un profilo tra l'iper-garantista e l’anti-giustizialista, Romeo ha pensato a Renzi, che negli ultimi mesi si è costruito un perfetto identikit da randellatore di magistrati, con le sue invettive contro la Procura di Firenze.

 Ricevuta la proposta, Renzi ha cominciato a far circolare voci sul suo bisogno di fare un “passo di lato”, di prendersi una pausa, di voler dedicare più tempo “per studiare, per leggere, per perdere quei dieci chili che ho preso”. Insomma, ha fatto scrivere al “Corriere della Sera” di avere necessità di un “pit-stop”, mai così provvidenziale.

Ps. Gli “addetti ai livori” hanno notato che Renzi è diventato direttore editoriale del quotidiano che per mesi ha sponsorizzato e difeso l’ex 007 Marco Mancini, attaccando i suoi principali nemici: Elisabetta Belloni e Franco Gabrielli, cioè coloro che l’hanno silurato dall’intelligence.

Dagospia. Dal profilo Facebook di Vincenzo Iurillo. Roma, 5 apr. (LaPresse il 5 aprile 2023) - "No, non ritiro le querele" ai giornalisti e "ora anzi le rischio". Così Matteo Renzi, nella sede della associazione della stampa estera, durante la sua presentazione come nuovo direttore del Riformista. gir/fed

Matteo Renzi non è iscritto all'Ordine dei Giornalisti (è riscontrabile da fonti aperte, l'albo è consultabile on line sul sito Odg) e di conseguenza non può assumere la direzione di un giornale. Dunque, non saranno attirate sulla sua figura le querele di cui il direttore responsabile risponde per omesso controllo su ciò che va in pagina. Renzi va ad assumere il ruolo di direttore editoriale. Che è un'altra cosa.

Ma anche se fosse stato iscritto all'ordine dei giornalisti, in qualità di parlamentare, Renzi non poteva comunque assumere il ruolo di direttore responsabile.

Il mandato di parlamentare comporta forti garanzie e protezioni giuridiche: un deputato o un senatore non sono perseguibili per l'espressione delle proprie opinioni (immunità parlamentare).

Come ci ricordano fonti aperte, la prima legge repubblicana sulla stampa (l. 8 febbraio 1948) stabilisce che, nel caso in cui un parlamentare sia posto alla direzione di un giornale, debba essere contestualmente nominato un Responsabile (art. 3), che risponda per tutti gli obblighi di legge. In questi casi il giornale ha un “direttore” e un “responsabile”. Le querele le rischia solo quest'ultimo. Quindi Renzi come sempre è un cazzaro.”

Estratto dell’articolo di Vincenzo Iurillo per “il Fatto Quotidiano” il 7 aprile 2023.

La notizia è appena di due giorni fa: Matteo Renzi direttore editoriale del Riformista. Il proprietario del quotidiano è Alfredo Romeo, un uomo dal lungo curriculum professionale e anche giudiziario. Che cominciò molti anni addietro nella prima Tangentopoli degli anni 90, quando Romeo a Napoli fu condannato per mazzette miliardarie al deputato Dc Vito e altri, intorno alla gestione del patrimonio pubblico comunale.

 Condanna a 2 anni e 6 mesi annullata nel 2000 dalla Cassazione per prescrizione, dopo la riqualificazione del reato da corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio a corruzione per atto d’ufficio.

Nel 2008 poi l’imprenditore è stato arrestato e rinviato a giudizio per gli appalti del cosiddetto ‘sistema Romeo’ con l’accusa di aver messo a libro paga mezza politica napoletana per farsi cucire addosso le delibere Global service. Ne esce con l’assoluzione totale.

 Nel marzo 2017 poi Romeo è stato assolto in un processo che lo accusava di abusi edilizi sulla costruzione di due piani di un lussuoso albergo su via Marina. Un’altra indagine per peculato intorno alla gestione del patrimonio immobiliare comunale viene chiusa invece nel 2019 con l’archiviazione.

[…]  oggi ha anche diversi processi in corso. Nel 2017, infatti, Romeo è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta romana e condannato in primo grado nel 2022 a due anni e mezzo per la corruzione di un funzionario Consip che ha patteggiato.

 In un altro processo, nato dalla medesima indagine, è ancora imputato per traffico di influenze illecite sulla gara Consip FM4 con il padre del suo neo-direttore, Tiziano Renzi (per il quale la procura in un primo momento aveva chiesto l’archiviazione).

 […]

Processi in corso per l’imprenditore anche a Napoli, dove Romeo è alla sbarra in due processi nati da indagini sulle commesse dell’ospedale Cardarelli: uno per corruzione insieme a un suo stretto collaboratore, Ivan Russo; e un altro per associazione a delinquere finalizzata a reati di Pubblica amministrazione, con alcuni tra i suoi più stretti collaboratori, tra cui l’ex parlamentare Italo Bocchino e alcuni dirigenti della Romeo Gestioni Spa. A Napoli, Romeo poi è stato prosciolto da due ipotesi di evasione fiscale e da una ipotesi di corruzione per lavori di riqualificazione urbana nelle aree prossime al suo hotel.

Le polemiche sulla nuova direzione del giornale. Travaglio e giornaloni contro Riformista e Unità: Renzi e Romeo allarmano l’establishment. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 aprile 2023

La notizia che Matteo Renzi assumerà la direzione del Riformista dal primo maggio ha scombussolato l’establishment. Sia nel campo della politica sia – soprattutto – nel campo dell’editoria e del giornalismo. La ragione della sorpresa e dell’irritazione non sta solo nella mossa improvvisa dell’ex presidente del Consiglio, che – attraverso la direzione di un giornale – riapre la sua battaglia politica e di idee (Si racconta che quando a Riccardo Lombardi fu proposta da Nenni la vicesegreteria del partito, egli rispose con sdegno: “Non so che farmene, voglio la direzione dell’ Avanti! perché io voglio fare politica, non il burocrate…”).

La seconda fortissima ragione dello stupore e della rabbia va cercata nel nome dell’editore. Il fatto che Alfredo Romeo raddoppi la sua forza editoriale, affiancando al vecchio e rilanciato Riformista la testata prestigiosissima dell’Unità, e che diventi il più importante editore della sinistra (dai tempi del vecchio Terenzi) non è stata accolta affatto bene. Nel mondo dell’editoria gli editori liberi non sono mai piaciuti. Anzi, sono temutissimi. Se un imprenditore mette la sua forza economica al servizio dell’informazione e di alcune idee – e non per corrompere l’editoria e le idee – la cosa preoccupa molto. Oggi la debolezza, in Italia, della stampa e del sistema di informazione è evidentissima. Non a caso l’Italia nella classifica dei paesi con l’informazione libera è più giù del settantesimo posto. Maglia nera. L’informazione in Italia è totalmente dominata da due colossi: il potere economico e le Procure. Che talvolta si affiancano, raramente si contrappongono, spesso si spalleggiano. Gli attori principali di questo poderoso schieramento sono Il Fatto, giornale delle Procure, e quelli che Travaglio chiama “i giornaloni”. Sono entità simili e complementari.

Né le Procure né il potere economico hanno visto di buon occhio il rilancio editoriale di Romeo. Hanno l’impressione che sia sceso in campo un corpo estraneo che non può essere controllato. E perciò è pericoloso: è corsaro, è indipendente, non risponde alla tirata di briglia, non si fa imbeccare. Va combattuto con cannoni ad alzo zero. La storia anche di imprenditore di Alfredo Romeo è sempre segnata dalla sua indipendenza, che non è mai piaciuta in giro. Romeo ha sempre lavorato in solitudine, non è mai entrato nelle cordate, non ha mai diviso il pane coi suoi concorrenti, non ha mai cercato né accettato accordi o compromessi. Romeo ha sempre avuto questa idea – giusta o sbagliata, non saprei – che un imprenditore deve lavorare da solo, rischiare da solo, guadagnare da solo, investire da solo. A me – che da qualche anno sono suo amico – me l’ha spiegata tante volte questa sua filosofia, e mi ha anche detto che è una filosofia che gli ha reso molto nella vita ma gli ha imposto anche prezzi altissimi. Tra gli altri quello di avere trascorso in prigione circa un anno, e aver subito ingiurie, assalti, insolenze, diffamazioni, per poi essere del tutto assolto.

Ve l’ho detto che è amico mio, oltre ad essere mio editore, ma non è per questo che dico che Romeo è un perseguitato, nel senso letterale della parola. È un perseguitato perché così dicono i fatti: è stato messo due volte in prigione, è stato intercettato per circa 12 anni, giorno e notte – in casa in ufficio, in auto, al ristorante, persino in arereo, dove, a parte lui, non hanno mai intercettato nessuno- è stato inquisito 16 volte, è incensurato, ha già ottenuto una decina di assoluzioni. Le intercettazioni non hanno portato a nessun risultato: solo spese per lo Stato. Ora, diciamoci la verità: quanti di noi, se intercettati per 12 anni consecutivi, ne uscirebbero idenni? La sostanza della vicenda giudiziaria di Romeo è questa. È uno degli esempi più lampanti di malagiustizia e di collusione tra potere economico e magistratura, e di uso di pezzi della magistratura per alterare le leggi della libera concorrenza e per danneggiare l’economia sana a vantaggio dell’economia “protetta”.

Gran parte della stampa, dicevamo, è rimasta sorpresa e si è infuriata per questa invasione di campo di Romeo. L’idea dei gruppi dirigenti della stampa è evidente ed è sempre stata quella: “l’informazione è cosa nostra. Nessuno è ammesso al nostro tavolo se non si sottomette”. Romeo, invece, senza chiedere il permesso, ha dato una gran manata sul tavolo e ha deciso di irrompere nell’arena con dei giornali indipendenti in un paese che non conosce indipendenza della stampa. Prima ha guidato per tre anni l’esperienza – che io credo sia stata molto importante – del Riformista, unico giornale totalmente garantista, poi ha raddoppiato acquistando l’Unità. Il più furioso di tutti, naturalmente è Il Fatto. Che è andato un po’ fuori di testa. Travaglio ha scatenato le sue pagine contro Romeo, e anche contro Renzi. Con articoli in gran parte comici. A partire dal suo, che riesce a parlare di tutte le ipotetiche malefatte di Romeo senza mai dire che l’accusa che gli è stata fatta, e cioè di avere turbato le aste di Consip, si è conclusa con un’assoluzione piena che chiude definitivamente tutta la vicenda, e cioè anni e anni di campagna di stampa diffamatoria e di calunnie. Il tribunale ha detto: no, Romeo non ha turbato un fico secco.

Anni – dicevamo – di campagna di diffamazione, che hanno portato danni umani, fisici e anche economici – grandissimi – a Romeo. Per i quali, credo, nessuno lo risarcirà. Ma il punto sommo della comicità, da parte del Fatto Quotidiano, è raggiunto da un articolo pubblicato in pagina interna, nel quale si citano con sdegno anti-Romeo tutte le sue vicende processuali. E poi, ogni capitoletto, ciascuno dedicato all’indignazione per gli orrori combinati da Romeo secondo i Pm, si conclude con una riga che sembra uno scherzo, sempre uguale: “Però è stato assolto…”. Alto giornalismo, diciamo la verità, non so se ormai è il tipo di giornalismo che si insegna nelle scuole di giornalismo. Certo, se dico che è robaccia lo faccio solo perché sono un tipo che usa le parole con sobrietà.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Renzi: “Così sarà il mio Riformista”, le polemiche di Fontana che dimentica i direttori-onorevoli avuti in passato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 aprile 2023

Matteo Renzi spariglia. Non lascia, «raddoppia», dice. E alla politica affianca una sfida giornalistica che ci riguarda direttamente. Sarà il senatore che ha inventato la Leopolda, guidato il Pd, conquistato Palazzo Chigi e fondato Italia Viva a dirigere Il Riformista a partire da maggio, mentre Piero Sansonetti dirigerà l’Unità: i due quotidiani del Gruppo Romeo saranno parallelamente in pista.

Due voci diverse, libere e indipendenti del centrosinistra e del mondo liblab, unite dalla sensibilità garantista e dall’attenzione al mondo dei diritti. Alfredo Romeo finalizza una operazione destinata a essere ricordata: «Oggi più che mai editoria e informazione sono capisaldi delle libertà e della democrazia. Nel panorama della stampa italiana ci sono ampi spazi da riempire, così, ho deciso di investire per aiutare a colmarli», dichiara. E precisa: «L’editoria difficilmente è un affare vantaggioso, ma non penso che il profitto possa essere l’unico scopo e l’unico interesse di un imprenditore». Certo, quella di avere un Renzi alla guida di una testata non è una notizia come un’altra e le reazioni, dagli auguri della premier Giorgia Meloni a quelli di Carlo Calenda, hanno coinvolto in primis la politica. Il quotidiano arancione festeggia il suo quarto anno di crescita mettendo alla guida della testata un Renzi deciso a dare il suo contributo a quella fabbrica delle idee riformiste da rilanciare. Classe 1975 e da sempre appassionato di informazione e nuovi media (ha scritto un libro su Google e uno su Twitter), Renzi ha dato vita lo scorso anno a Radio Leopolda, in breve arrivata a diventare l’emittente di riferimento di una vasta area politico-culturale.

La presentazione delle due novità, nuova Unità e nuovo Riformista all’Associazione Stampa Estera davanti a un centinaio di giornalisti e operatori dell’informazione. Sansonetti può dirsi soddisfatto, nel passargli il testimone: Il Riformista rinato con lui nel 2019 è entrato nelle classifiche dei 50 media più letti e influenti, e tra i parlamentari è al quarto posto come testata. Senza mai piegare la testa o mangiarsi una notizia, ha pubblicato inchieste e interviste che oltre ai lettori hanno portato a decine di querele. “Tutte di magistrati”, commenta con un filo di ironia Sansonetti: “Tra loro è difficile che si archivino”. Renzi chiarisce da subito che il garantismo rimane pietra angolare della testata. Il senatore prosegue: «Ho una passione vera con tutto ciò che ha a vedere con verità e viralità. Dopo la sconfitta referendaria l’unica cosa che dissi è che ‘stiamo entrando nell’era della post verità». E poi: «La verità del Riformista sta nel non essere col sovranismo di Giorgia Meloni né con la linea del Pd di Elly Schlein e del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte».

Matteo Renzi continua: «Non lascio ma raddoppio. Continuerò a fare il parlamentare, continuerò a fare opposizione e inizierò a fare questa operazione di verità con il Riformista. Non ci sarà posizione politica legata a vicende del Terzo Polo». «Ci saranno posizioni diverse rispetto a prima – continua Renzi – a partire dalla guerra in Ucraina. Il trait d’union con l’Unità è quello del garantismo radicale“. E poi indica i temi forti, le priorità: l’innovazione, le riforme, il nucleare. Con l’ambizione di “proporre un’agenda diversa” rispetto a quella dell’attuale dibattito e parlare «ai moderati del centrodestra e alle aree del Pd che non si riconoscono in Schlein». Matteo Renzi descrive così l’indirizzo che vorrà dare a Il Riformista, in una doppia veste di parlamentare e direttore che a chi storce la bocca, ricorda fu già di “Veltroni a L’Unità e di Sergio Mattarella al glorioso Il Popolo”.

La notizia arriva in mattinata, la annuncia un tweet del quotidiano, rilanciato poi da Renzi: «Siamo stati bravissimi a tenere il segreto», si diverte l’ex premier, rivelando che Giorgia Meloni «è stata la prima a saperlo: resto un suo fiero avversario, ma l’ho chiamata stamattina per dirglielo». Dunque prima anche di Carlo Calenda, che però «mi sembra entusiasta, ha già ritwittato… «Se rilancia un giornale sono contento – commenta il leader di Azione – Dopodichè non è il giornale del Terzo Polo e non rappresenterà la linea del Terzo Polo». L’idea di dirigere il giornale, scherza ancora Renzi, arriva da un insospettabile: «Non dirò mai il nome dell’autorevole parlamentare del Pd che ha suggerito a Sansonetti il mio nome per la direzione del Riformista, gli rovinerei la carriera politica… e non voglio rovinare la carriera di Gianni Cuperlo». L’obiettivo dunque è quello di parlare a quell’area che va «dai moderati ai liberali che non si riconoscono certo nella “sinistra radicale” di Elly Schlein. Lo spazio politico per il Terzo polo sono convinto che ci sia e sia ampio, penso che lo spazio del Riformista debba andare oltre il Terzo polo», chiosa Renzi.

Un obiettivo «in linea con la mia esperienza politica: non lascio ma raddoppio. Continuerò a fare il parlamentare dell’opposizione, continuerò a intervenire in Aula, continuerò a fare quello che facevo prima. Ma ci metto anche un’operazione che per me serve al Paese». In un ruolo singolare, considerando il rapporto con i giornalisti, segnato da numerose querele: “Non le ritiro”, afferma Renzi, “e ora semmai rischio di riceverle…”. E arriva anche una domanda sui rapporti con l’Arabia Saudita, patria del giornalista Kashoggi fatto barbaramente uccidere: «Il mio giudizio sul futuro dell’Arabia Saudita fu molto criticato, parlai di nuovo Rinascimento, se parliamo di geopolitica non ho alcun motivo per cambiare idea», rivendica Renzi. «Poi come in tanti altri Paesi non c’è un regime di libertà di informazione, come anche in alcuni Paesi d’Europa e io su questo ho sempre parlato nelle sedi opportune».

Non sono mancate le voci polemiche. Il M5S sentenzia prima ancora di poter valutare il lavoro del futuro direttore: «Renzi oggi ci fa sapere che assume la direzione del Riformista ma che non ha alcuna intenzione di lasciare il suo ruolo da parlamentare». Lavorare, e molto, sembra essere un argomento che preoccupa parecchio, da quelle parti. «È francamente preoccupante che un parlamentare in piena attività diriga contemporaneamente un quotidiano. Renzi non vede o fa finta di non vedere che ci sono ragioni di opportunità evidenti nell’assumere questo doppio incarico: la legge non lo vieta, ma che credibilità può avere un giornale diretto da un leader di partito? Qualsiasi parvenza di imparzialità della testata è totalmente compromessa, ma evidentemente per Renzi – abituato ai doppi incarichi fuori dal Parlamento – questo non è un problema», fanno sapere i capogruppo M5S in commissione Cultura alla Camera e al Senato, Anna Laura Orrico e Luca Pirondini. Esorbitante l’intemerata del direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana.

«Mi stupisce che Renzi voglia fare tremila mestieri e non l’unico per cui è stato eletto dal popolo italiano, che è quello di fare il senatore della Repubblica», dice lo stesso Fontana che ha lavorato all’Unità diretta dall’onorevole Macaluso, a quella diretta dall’onorevole Chiaromonte, a quella diretta dall’onorevole D’Alema e anche a quella diretta dall’onorevole Veltroni, adombrando che vi sia una qualche incompatibilità tra fare il senatore e dirigere un giornale. Gli risponde Vittorio Feltri: «Nessun conflitto di interessi, non esiste incompatibilità. Renzi sarà capace di farlo bene. Renzi è tutt’altro che stupido, a me piace molto. Certo, di puttanate nella vita ne ha fatte tante, specialmente in politica e, secondo me anche immeritatamente, è stato messo in un cantuccio. Ma io credo che saprà fare bene, almeno me lo auguro».

Diversa l’analisi di Vittorio Sgarbi, che vede nella direzione affidata a Renzi il progetto di una cucitura tra elettori (e lettori) liberali e riformisti: «Il Pd non smotta verso di lui, la Schlein è formidabile e chi è già dentro resta lì. Lui che pensava di recuperare i moderati non avrà altro che andare verso destra. Un tema che lui ha ereditato da Berlusconi è quello della giustizia. Il Riformista è un classico giornale che fa queste battaglie. Il suo problema è che non piace al popolo, che non vuole essere preso per il c..o. Per cui è bravissimo, ma gli è andata male per cui fare il direttore di un giornale può essere molto efficace per esprimere delle posizioni».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Estratto dell'articolo di Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 6 aprile 2023.

Chiederà un’intervista a Giorgia Meloni. E ad Elly Schlein. Chi? Matteo Renzi. Neo-direttore del Riformista. “Perché no? – risponde a Repubblica l’ex rottamatore, nel giorno dell’investitura – Con Meloni verrebbe bene. Una chiacchierata tra un ex premier e una premier in carica. Potremmo parlare di come ti cambia la vita a Palazzo Chigi”.

 […] E Schlein? “Come Meloni, non sarà il target, diciamo così, del giornale che ho in mente. Ma la intervisterei”. Sempre che la nuova inquilina del Nazareno accetti. Ai nuovi quasi-colleghi della carta stampata Renzi però non farà sconti. Anzi. "Non ritirerò le querele - annuncia - semmai ora ne rischierò qualcuna". Senza grandi angosce, in realtà: le querele arriveranno al direttore responsabile, che non sarà lui, dato che farà il direttore editoriale.

Questione di incompatibilità: Renzi non è iscritto all'albo dei giornalisti e, soprattutto, è parlamentare, dunque non può avere la responsabilità di un giornale, per legge. E sempre perché conserverà lo scranno in Senato, anche le querele contro gli articoli che firmerà in prima persona saranno scudate dall'immunità parlamentare: le indagini dovranno essere vagliate dalla giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama.

 Renzi direttore, dunque, ma senza il fardello degli strascichi legali. […] dirigerà il giornale ex Angelucci ora di proprietà di Alfredo Romeo (che è stato imputato con Renzi padre nel caso Consip, “tutte invenzioni”, dice il senatore), lo stesso imprenditore che ora vorrebbe rilanciare il giornale fondato da Gramsci.

[…] Per Renzi sarà un regno, editorialmente parlando, piccolino: le copie del Riformista non sono censite; si sa invece che ha 5 redattori, ma quasi tutti trasmigreranno con Sansonetti a l’Unità, che ne avrà 7 e infatti il vecchio comitato di redazione già protesta.

 Dunque Renzi potrà assumerne 4-5, di giornalisti, tra cui il direttore responsabile, da spedire in tv, e un caporedattore-macchina. La nuova avventura cartacea comunque lo stimola. “Anche Mattarella è stato direttore del Popolo”, ricorda. E anche Veltroni e D’Alema, proprio con l’Unità.  “Sono felice, è una fase in cui c’è un disperato bisogno di verità e di libertà”. E a proposito di libertà d’informazione, gli chiedono in conferenza stampa, ne parlerà anche in Arabia Saudita? “Sul tema – replica lui - ho sempre fatto sentire la mia voce come membro del governo e del parlamento. Il caso Kashoggi? L’ho condannato”.

[…] Calenda per ora è il più entusiasta, forse perché spera di avere finalmente campo libero nel gestire il partito: “Complimenti per il prestigioso incarico”, gli ha twittato ieri. Ma appunto, Renzi in realtà non lascia. Nel cartello centrista-macroniano continua a credere, assicura, nonostante il risultato striminzito alle regionali friulane.

[…] Recluterà collaboratori anche fra gli eletti dem, che un po’ si offrono, come ieri in Senato faceva, scherzando, la ministra Daniela Santanché: "Fammi scrivere di turismo". Risposta: “Ma no, semmai Briatore, che vi ha criticato”. “Figurarsi, non gli ho parlato per due giorni”.

La svolta editorial. Renzi direttore del Riformista: no, non mi piace. Matteo Renzi è diventato il nuovo direttore de Il Riformista. Quindi ora fa il senatore o il giornalista? Nicola Porro il 6 Aprile 2023,

Non posso non affrontare la questione che riguarda il nuovo direttore del Riformista, Matteo Renzi. Stamani, Roncone, sul Corriere della Sera, lo sfotte dicendo che Renzi fa qualsiasi lavoro tranne fare il senatore nonostante sia pagato dai contribuenti. Poi il Domani lo definisce il “direttore irresponsabile“. Il perché sia irresponsabile ce lo spiega Travaglio in questa specie di burocratismo assurdo. Renzi, infatti, non è iscritto all’ordine giornalisti e quindi non può essere direttore responsabile. Di fatto, non deve rispondere legalmente delle cazzate che verranno scritte sul Riformista.

Io ad esempio sono direttore responsabile di questo sito quindi, ad ogni cazzata che scrivono i miei giornalisti, ne pago le conseguenze sia penalmente che civilmente. Renzi non solo gode dell’immunità parlamentare, ma ci avrà una testa di paglia (oppure un suo amichetto) che sarà responsabile di quello che verrà scritto sul giornale di cui lui è direttore editoriale.

La cosa divertente, come dice Travaglio, è che Renzi, rimasto senza elettori, ora va alla ricerca di lettori. Io credo che nella vita uno debba decidere che cosa fare e cosa no. Un senatore non può pensare di fare il giornalista: non è libero di dire certe cose perché è di parte. Anche io sono di parte, ma gli unici a cui devo rendere conto siete voi commensali. Non devo cercare voti al Senato né tantomeno mi candido a governare il Paese.

Francamente non so se sarà un ottimo giornalista o meno, so solo che, in un paese normale, le carriere da politico e da giornalista non dovrebbero mescolarsi come invece è successo nei casi di Polito, Gruber, Santoro e tanti altri che oggi si dichiarano giornalisti e, in quanto tali, pretendono di non essere considerati di parte.

Nicola Porro, 6 aprile 2023

Renzi nuovo direttore del “Riformista”: giornale di proprietà del coimputato del padre. Stefano Baudino su L'Indipendente il 5 Aprile 2023

«Capisco che a qualcuno faccia un po’ sorridere o preoccupare, ma io ho una passione vera per il rapporto tra verità e viralità». Matteo Renzi ha aperto con queste parole la conferenza stampa con cui oggi ha annunciato di essere stato nominato nuovo direttore del quotidiano Il Riformista. Al suo fianco, un soddisfatto Piero Sansonetti, che gli cede il posto per andare a dirigere L’Unità, storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci, riaperto dopo anni di crisi. Entrambi agiranno sotto l’egida dell’editore Alfredo Romeo, il quale è peraltro coimputato con Tiziano Renzi – padre dell’ex premier – per traffico di influenze illecite nell’ambito dell’inchiesta Consip. In questi anni, ovviamente, i due sono stati strenuamente difesi da Sansonetti, in nome della linea garantista che rappresenta il marchio di fabbrica del quotidiano.

«Io penso che la forza di un giornale libero, che oggi si deve giudicare non più dalle copie vendute ma dalla credibilità e autorevolezza della narrazione che propone, sia proprio quella di riuscire a fornire un racconto, una verità, che nel caso del Riformista sta nel proprio nome», ha dichiarato Renzi. Un’identità che, secondo il senatore del Terzo Polo, si troverà fisiologicamente a contrapporsi a quella del «sovranismo» della maggioranza di destra e a quella della «sinistra radicale che ha vinto il congresso del Pd con Elly Schlein».

La scelta di accettare la nomina è considerata da Renzi «molto in linea» con la sua esperienza politica. Una strada che, peraltro, l’ex premier non ha nessuna intenzione di mollare: «Non lascio ma raddoppio, continuerò a fare il mio lavoro da parlamentare e intervenire in aula», ha chiarito. Ancora una volta, insomma, un importante esponente del mondo politico italiano si trova a entrare in tackle scivolato nel mondo dell’informazione, in barba ai più basici meccanismi sottesi alla separazione tra potere politico e mediatico.

Nessun altro parlamentare, oggi, detiene la direzione di una testata giornalistica. Renzi si difende dalle accuse di conflitto di interessi citando, in particolare, due casi: «Tanti parlamentari hanno fatto i direttori: Veltroni era vice direttore dell’Unità, Mattarella direttore del Popolo». Peccato che, quando Veltroni lo dirigeva, L’Unità fosse l’organo ufficiale del Partito Democratico della Sinistra; lo stesso discorso vale per Il Popolo, testata ufficiale del Partito Popolare Italiano negli anni della direzione di Mattarella. Una sottile differenza che Renzi si è ben guardato dal sottolineare.

L’operazione ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio assist fornito alla sua forza politica di appartenenza. Renzi lo dice senza mezzi termini: «Nel mio piccolo darò una mano anche da direttore del Riformista al progetto del Terzo Polo», di cui si ritiene «un leale collaboratore». Ma il senatore punta ancora più in alto: «Il Riformista ambisce ad essere letto come primo giornale da un pezzo di mondo dell’attuale maggioranza, penso al mondo dei moderati di Forza Italia, dell’Udc e di un centro-destra riformista che c’è e fa fatica a imporsi, e che parla a un mondo dell’area del Pd che non si riconosce appieno nelle posizioni della Schlein».

Rispetto al rapporto con L’Unità, al netto della diversità di vedute sulla guerra in Ucraina – Renzi, a differenza di Sansonetti, è estremamente favorevole all’invio delle armi a Kiev – il politico delinea un «fil-rouge»: ovviamente, quello del «garantismo». A questo proposito, Renzi cita la situazione dell’ex vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili, coinvolta nell’inchiesta “Qatargate” e sottoposta a carcerazione preventiva da 5 mesi «perché confessi». Nonostante abbia ammesso che vi sia un problema di «libertà di informazione» in Arabia Saudita, dove è arrivato a guadagnare oltre un milione di euro per “prestazioni fornite in qualità di consulente“, rispondendo alla domanda di un giornalista il neo direttore del Riformista ha comunque voluto difendere il regime di Riad, che a suo dire avrebbe assunto «una leadership in un percorso di innovazione».

Non possedendo Renzi il patentino da giornalista professionista, potrà ricoprire la carica di direttore editoriale ma non quella di direttore responsabile (per il quale si attende la nomina nei prossimi giorni). La nuova avventura del politico, di cui ancora non si conoscono i dettagli contrattuali, partirà ufficialmente il 3 maggio. [di Stefano Baudino]

Matteo Renzi è il nuovo direttore del quotidiano “il Riformista”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Aprile 2023

L'ex presidente del Consiglio ricoprirà l'insolita veste di direttore di una testata giornalistica per un anno. L'attuale direttore, Piero Sansonetti, va a dirigere L'Unità. Entrambi i giornali hanno come editore, l'avvocato ed imprenditore napoletano Alfredo Romeo

Adarne notizia è non solo l’ormai ex direttore Piero Sansonetti, “Matteo Renzi è il nuovo direttore del Riformista” e lo stesso leader di Italia Viva ha confermato la notizia. “Ho accettato una sfida affascinante: per un anno sarò il direttore de ‘Il Riformista’”, ha twittato Renzi, dando appuntato a una diretta su Facebook “per – scrive l’ex premier – raccontarvi questo progetto”.

Renzi: “Non lascio l’impegno in politica ma raddoppio”

 “Non lascio ma raddoppio, continuerò a fare il parlamentare di opposizione, a intervenire in Aula, a fare esattamente quello che stavo facendo, ma ci metto sopra un carico da novanta, tentando di fare un’operazione che serve al Paese. Sarò direttore per un anno, poi vedremo cosa fare da grandi”, ha detto Renzi, nella conferenza stampa in cui ha reso noto il suo nuovo incarico.

Meloni prima a sapere che dirigerò il Riformista”

 “Stamani ho chiamato la presidente del consiglio, di cui sono un fiero oppositore e a cui non lasceremo passare mezza virgola, per informarla. È stata la prima a sapere questa notizia”, ha rivelato l’ex premier. “Ringrazio Sansonetti per il lavoro di questi anni” al Riformista, ora che dirige l’Unità “sarà affascinante capire su quali temi l’Unità si caratterizzerà, sarà bello dialogare e discutere a distanza. Credo che la vera notizia sia il ritorno dell’Unità in edicola. Una grande scommessa”, ha aggiunto il leader di Italia Viva.

Ho accettato una sfida affascinante: per un anno sarò il direttore de @ilriformista. Ci vediamo in diretta su Facebook alle 12 per raccontarvi questo progetto.

Subito dopo Carlo Calenda, leader di Azione, si è complimentato con Renzi per “il nuovo prestigioso incarico“. Ed ha aggiunto: “Il Riformista è un giornale che ha fatto tante battaglie di civiltà, con Matteo avrà una voce ancora più forte”, conclude Calenda. Solo poche ore prima il leader del Terzo Polo, su Tgcom24, aveva detto: “Renzi già da tempo non è negli organismi direttivi del Terzo polo, ha fatto un passo indietro. L’aveva promesso e l’ha fatto, fine. È nei fatti, ha rispettato una promessa fatta agli italiani”.

L’avvocato Alfredo Romeo editore de il Riformista e de l’Unità ha pubblicato una sua nota sul sito del quotidiano affidato a Matteo Renzi: “Sono entrato nell’editoria per una ragione semplice: oggi più che mai editoria e informazione sono capisaldi delle libertà e della democrazia. Nel panorama della stampa italiana ci sono spazi molto ampi da riempire. Ho deciso di investire risorse per aiutare a colmare questi spazi. L’editoria difficilmente è un affare vantaggioso, ma non penso che il profitto possa essere l’unico scopo e l’unico interesse di un imprenditore. Sono un imprenditore meridionale, che ha lavorato molto nella sua vita e che da sempre è legato, sia affettivamente sia intellettualmente alle idee di libertà e di giustizia sociale. Perciò mi sono lanciato in questa sfida“.

Il Riformista nato per raccordare la sinistra al centro

 “Questa è la ragione per la quale, quattro anni fa, ho acquistato la testata Il Riformista. Che è nato come quotidiano di raccordo tra le posizioni della sinistra e quelle del centro. In una cornice radicale, liberale e garantista. Poi si è attestato su posizioni più nettamente di sinistra, ma ha sempre mantenuto alta la bandiera del garantismo. Quando lanciai il Riformista dissi: ‘Sarà il giornale dei rom e dei re. I rom e i re sono uguali’ – continua Romeo -. In questo spirito ho deciso di allargare il nostro intervento. Investendo nuove risorse. Voglio dare a tutte le correnti ideali della sinistra e del centrosinistra la possibilità di esprimersi. Perciò ho rilevato la testata dell’Unità, giornale storico, fondato da un gigante politico come Antonio Gramsci. Nelle prossime settimane l’attuale direttore del Riformista Piero Sansonetti assumerà la direzione de l’Unità, della quale è stato giornalista e condirettore per diversi decenni, e finalmente la sinistra storica e tradizionale tornerà ad avere un suo giornale. Spero sia un contributo perché la sinistra torni a pensare e a correre. Il Riformista invece tornerà alla sua vocazione originale liberal-democratica, garantista e pluralista, rappresentando tutte le idee costruttive che vanno dalla sinistra più moderata di aspirazione socialista e democratica, alle tradizioni popolari e quelle liberali, con uno sguardo fortemente rivolto al futuro del mondo“.

Per questo ho chiesto a una personalità italiana di grande spessore, come Matteo Renzi, di assumerne la direzione. E lui, generosamente, ha accettato”, prosegue l’editore, concludendo: “L’Unità e il Riformista saranno giornali diversi, in alcune cose anche contrapposti. Dialogheranno e combatteranno, per il pluralismo e per la crescita del paese. Penso che dal mese di maggio, quando tutti e due i giornali andranno a regime, la sinistra italiana potrà avere nuovo ossigeno, nuovo cuore, nuova anima. Lo stesso mi auguro per tutte le forze riformiste del paese ovunque collocate. Io sosterrò questo sforzo naturalmente nel pieno e assoluto rispetto dell’ indipendenza di due direzioni così autorevoli“.

Nel corso della conferenza stampa di presentazione svoltasi presso la sala della stampa estera a Roma è stato anche confermato che Piero Sansonetti sarà il nuovo direttore de L’Unità. “Mi ha fatto fuori…”, ha ironizzato l’ormai ex direttore del Riformista, ed il suo successore, Matteo Renzi, seduto accanto a lui, ha risposto con una sua abituale battuta ormai arcinota nell’ambiente politico, un vero e proprio evergreen: “Stai sereno…”. Redazione CdG 1947

Matteo Renzi, la «bulimia» dell’ex premier tra politica, affari e conferenze. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023

Le assenze al Senato per i viaggi all’estero (e le cause nei tribunali), aspettando di esaudire il sogno di allenare la Fiorentina 

In attesa di diventare allenatore della Fiorentina (è il suo sogno: e, prima o poi, riuscirà a realizzarlo), Matteo Renzi si è lasciato (o fatto?) nominare direttore de Il Riformista, un quotidiano che Piero Sansonetti — passato per lo stesso editore a dirigere l’Unità — ha finora tenuto su posizione garantiste, nemico dichiarato di ogni populismo (che poi nessuno sa mai bene dove cominci e dove finisca, questo cosiddetto populismo).

Comunque: facendo sfoggio della consueta sicurezza, che i suoi nemici definiscono battente protervia (gentaglia invidiosa, sia chiaro), Renzi spiega che non lascia la politica, raddoppia. In realtà, questa è una piccola, deliziosa bugia: perché, come vedremo tra qualche capoverso, Renzi non solo raddoppia, ma — ormai da qualche tempo, più o meno da quando fu costretto a lasciare Palazzo Chigi — triplica, quadruplica, quintuplica mosso da botte di una bulimia che tiene dentro politica e passioni, affari e debolezze.

La buona notizia, intanto, è che sembra rendersi conto di essere un senatore della Repubblica ancora in carica, eletto da migliaia di persone che hanno creduto in lui e nel partito che ha fondato, Italia viva (e anche in Carlo Calenda, con cui si è fidanzato politicamente). Certo: nessun italiano, appena informato su come vanno le cose di questo Paese, vota il suo candidato illudendosi di vederlo in Parlamento dalla mattina alla sera. Tutti sappiamo che deputati e senatori arrivano il martedì pomeriggio e, bene che vada, se magari c’è qualche votazione importante, ripartono e spariscono il giovedì, dopo l’ammazzacaffè di pranzo. 

Il fatto è che Renzi, al Senato, lo vedevamo già molto meno degli altri anche prima dell’annuncio di questa avventura editoriale. Tipo che chiedi ai suoi: dov’è? E quelli ti rispondono, tra il rassegnato e il mortificato: «Matteo è all’estero». Conferenze, simposi, seminari. Ogni tanto lo segnalano in Arabia, gira voce sia molto amico di Bin Salman (è sempre complicato capire le amicizie degli altri). Di sicuro, una volta s’arrischiò a dire che da quelle parti c’è «un nuovo Rinascimento». Che poi Renzi dovrebbe pure intendersene. Per Lucio Presta — che lo strapagò, sembra — ha infatti ideato e condotto un documentario su Firenze (visto, in verità, solo dalla moglie Agnese e pochi intimi). Poi, per non farsi mancare niente, c’è l’attività letteraria. Ultimo libro pubblicato: «Il mostro. Inchieste scandali e dossier. Come provano a distruggerti l’immagine». Cioè, la sua. Perché, ecco: ci sarebbe pure l’impegnativa attività nelle aule di giustizia. Dove viene chiamato. E chiama. Detto che, ogni tanto, qualche causa per diffamazione la perde malamente, adesso alle querele dovrà stare attento lui (occhio, senatore: certe volte, come lei sa bene, basta uno stupido aggettivo).

In ogni modo: lui è in gran forma (aveva detto di volersi prendere un periodo di riflessione: e certo, come no?). In conferenza stampa, accanto al suo editore, Alfredo Romeo, e a Sansonetti, sfoggiava un bel doppiopetto blu che, finalmente, si chiude senza che i bottoni stiano per schizzarti addosso. Merito della corsa: domenica, alla Maratona di Milano, ha persino abbassato di 12 secondi il suo record personale. Attualmente stiamo però tutti cronometrando la durata della convivenza con Calenda. La tremenda batosta alle regionali induce al pessimismo. Anche perché la coppia, a parte certe differenze al girovita (Calenda, piano piano, sta diventando una drop 2), ha tratti caratteriali profondamente simili (bum bum!). La politica c’entra e non c’entra. Del resto, come insegna Renzi, non si vive solo di quella.

L'annuncio dell'editore Alfredo Romeo. Matteo Renzi è il nuovo direttore del Riformista, la presentazione

Redazione su Il Riformista il 5 Aprile 2023

Piero Sansonetti: “Sono stato fatto fuori, l’altro giorno l’ho incontrato ha detto ‘stai sereno’ ed ecco qui Renzi direttore. Romeo ha deciso di diventare l’editore dei giornali di sinistra e del centrosinistra con L’Unità e Il Riformista. L’idea di Renzi è stata geniale”. Le parole di Matteo Renzi da nuovo direttore del Riformista: “Grazie a Piero Sansonetti per il lavoro di questi anni, chiunque di noi è curioso di rivedere in edicola L’Unità, questa è la vera notizia. Sarà bello dialogare a distanza”. Il senatore prosegue: “Ho una passione vera con tutto ciò che ha a che vedere con verità e viralità. Dopo la sconfitta referendaria l’unica cosa che dissi è che ‘stiamo entrando nell’era della post verità'”. “La verità del Riformista sta nel non essere nel sovranismo di Giorgia Meloni né con la linea del Pd di Elly Schlein e del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte“.

Matteo Renzi continua: “Non lascio ma raddoppio. Continuerò a fare il parlamentare, continuerò a fare opposizione e inizierò a fare questa operazione di verità con il Riformista. Non ci sarà posizione politica legata a vicende Terzo Polo”. E sulle posizioni politiche specifica: “Non ci sarà posizione politica legata a Terzo Polo. Ci saranno posizioni diverse rispetto a quella avuta da Sansonetti. A partire dalla guerra in Ucraina. Il trait d’union con l’Unità è quello del garantismo radicale“.

Il Riformista a guida Renzi uscirà “il 3 maggio. Ci sarà un direttore responsabile perché non sono giornalista. Sarò direttore per un anno, fino al 30 aprile 2024″. E sul nuovo percorso con l’editore: “Sono orgoglioso di lavorare con Romeo, a maggior ragione dopo quello che gli ho visto subire in questi anni con l’inchiesta Consip“. Poi scioglie ogni dubbio: “Un parlamentare può fare il direttore di giornale? Ce ne sono stati tantissimi nella storia di questo Paese. Mi piace ricordare Sergio Mattarella direttore del Popolo”. Il nome del nuovo direttore: “Siamo stati bravi a mantenere il segreto fino ad oggi su di me successore di Sansonetti. Ho informato Giorgia Meloni, è stata la prima a sapere questa notizia e a cui continuerò a fare in modo fiera opposizione”. Con il governo “non faremo discussioni da ultrà come con i rave, i cinghiali, la carne sintetica. Vogliamo parlare di cose concrete. Sogno un luogo, una palestra, nella quale ciascuno possa sentirsi a casa nella sua libertà”.

Alle domande Renzi risponde: “Ritirerò le querele ai giornalisti adesso? No, le rischio le querele adesso passando dall’altra parte del tavolo”. Gli emonumenti, fa sapere il senatore saranno pubblici a fine anno: “Quanto guadagno al Riformista? Al momento non ho ancora firmato un contratto“. Che giornale sarà? “Proveremo a innovare nella continuità. Non lascio il Terzo Polo ma, voglio essere molto chiaro, raddoppio. Ho avvisato Calenda e mi è parso entusiasta”. Come tratteremo vicende magistratura? “Saremo più moderati, non faremo ‘titoli sobri’ come Sansonetti… L’attenzione che il Riformista darà al mio processo, Open, sarà molto scarsa. Non so se saremo all’altezza del Riformista di Sansonetti nell’affermazione della cultura garantista”.

Le domande dei giornalisti in sala vertono sul suo futuro politico: “Che ruolo avrò nel Terzo Polo? Sarò iscritto perché ci credo, al momento di candidati vedo solo Calenda poi quando arriverà la candidata alternativa lo comunicheranno i diretti interessati. Io non sono della partita”. Lo stipendio raddoppia? “Non ho alcun problema a rendere pubblici i dati a fine anno. Non guadagno solo facendo il parlamentare ma anche con altro. Anche i giornalisti dovrebbero comunicare quanto guadagnano…”. La politica estera: “Come è noto ho espresso giudizio sul futuro dell’Arabia Saudita 3 anni fa che fu molto criticato. Spiegai che si stava costruendo stagione di nuovo rinascimento. Faccio una scommessa: da qui al 2030 ci sarà un cambiamento radicale”. Retroscena sul passo indietro? “Da un paio di mesi non vado più in televisione dopo una trasmissione su Rete4 dove sono stato 52min a parlare di Pos su roba che non esisteva perché non c’era un atto del governo”.

Riprende la parola Piero Sansonetti: “Ringrazio Renzi per aver accettato questa sfida. Ringrazio Alfredo Romeo per L’Unità, diventa editore della sinistra, una persona che per 16 volte colpito dalla magistratura, intercettato per 12 anni”.

Matteo Renzi è il nuovo direttore de Il Riformista. In diretta presso la sala conferenze dell’Associazione della Stampa Estera in Italia in Via dell’Umiltà 83 a Roma la presentazione. Dopo oltre tre anni il direttore Piero Sansonetti lascia la direzione de Il Riformista per passare a quella de l’Unità, testata storica salvata da Romeo Editore che verrà rilanciata dopo gli anni bui che l’hanno portata al fallimento.

L’avvocato Alfredo Romeo editore de il Riformista e de l’Unità ha dichiarato: “Sono entrato nell’editoria per una ragione semplice: oggi più che mai editoria e informazione sono capisaldi delle libertà e della democrazia”.

Nel panorama della stampa italiana ci sono spazi molto ampi da riempire. Ho deciso di investire risorse per aiutare a colmare questi spazi. L’editoria difficilmente è un affare vantaggioso, ma non penso che il profitto possa essere l’unico scopo e l’unico interesse di un imprenditore. Sono un imprenditore meridionale, che ha lavorato molto nella sua vita e che da sempre è legato, sia affettivamente sia intellettualmente alle idee di libertà e di giustizia sociale. Perciò mi sono lanciato in questa sfida.

Questa è la ragione per la quale, quattro anni fa, ho acquistato la testata “Il Riformista”. Che è nato come quotidiano di raccordo tra le posizioni della sinistra e quelle del centro. In una cornice radicale, liberale e garantista. Poi si è attestato su posizioni più nettamente di sinistra, ma ha sempre mantenuto alta la bandiera del garantismo.

Quando lanciai il Riformista dissi: “Sarà il giornale dei rom e dei re. I rom e i re sono uguali”.

In questo spirito ho deciso di allargare il nostro intervento. Investendo nuove risorse. Voglio dare a tutte le correnti ideali della sinistra e del centrosinistra la possibilità di esprimersi.

Perciò ho rilevato la testata dell’Unità, giornale storico, fondato da un gigante politico come Antonio Gramsci. Nelle prossime settimane l’attuale direttore del Riformista Piero Sansonetti assumerà la direzione de l’Unità, della quale è stato giornalista e condirettore per diversi decenni, e finalmente la sinistra storica e tradizionale tornerà ad avere un suo giornale. Spero sia un contributo perché la sinistra torni a pensare e a correre.

Il Riformista invece tornerà alla sua vocazione originale liberal-democratica, garantista e pluralista, rappresentando tutte le idee costruttive che vanno dalla sinistra più moderata di ispirazione socialista e democratica, alle tradizioni popolari e quelle liberali, con uno sguardo fortemente rivolto al futuro del mondo .

Per questo ho chiesto a una personalità italiana di grande spessore, come Matteo Renzi, di assumerne la direzione. E lui, generosamente, ha accettato.

L’Unità ed il Riformista saranno giornali diversi, in alcune cose anche contrapposti. Dialogheranno e combatteranno, per il pluralismo e per la crescita del paese .

Penso che dal mese di maggio, quando tutti e due i giornali andranno a regime, la sinistra italiana potrà avere nuovo ossigeno, nuovo cuore, nuova anima. Lo stesso mi auguro per tutte le forze riformiste del paese ovunque collocate.

Io sosterrò questo sforzo naturalmente nel pieno ed assoluto rispetto dell’ indipendenza di due direzioni così autorevoli.

Su Twitter il leader di Italia Viva, Matteo Renzi: “Ho accettato una sfida affascinante: per un anno sarò il direttore del Riformista. Ci vediamo in diretta su Facebook alle 12 per raccontarvi questo progetto”. Arrivano le congratulazioni anche di Carlo Calenda che su Twitter scrive: “Complimenti a Matteo Renzi per il nuovo prestigioso incarico. Il Riformista è un giornale che ha fatto tante battaglie di civiltà, con Matteo avrà una voce ancora più forte”.

Claudio Velardi: “Geniale l’idea di fare Matteo Renzi direttore de Il Riformista, quotidiano che fondai nel 2002. Il politico più intelligente e dinamico d’Italia, al momento senza un ruolo, avrà una tribuna quotidiana per dire la sua e incidere nel dibattito pubblico. Ci sarà da divertirsi!”

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 4 aprile 2023.

Il giudice per le indagini preliminari di Genova ha archiviato l’accusa di abuso d’ufficio per i magistrati di Firenze, l’aggiunto Luca Turco e il sostituto Antonino Nastasi, denunciati dal senatore Matteo Renzi e da Marco Carrai, ex membro del cda della fondazione Open.

 I due avevano lamentato che la procura toscana aveva trasmesso al Copasir atti dell’indagine che la Cassazione aveva definito “non trattenibili”. Era stato il Copasir a chiedere ai pm toscani di avere gli atti per “esigenze di sicurezza nazionale”.

Per il presidente dell’ufficio gip di Genova Nicoletta Guerrero, gli “elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a ritenere che in un eventuale giudizio si potrebbe giungere, con alta probabilità, a una condanna […] ”. Per il pm Nastasi, non si pone “questione alcuna non avendo costui sottoscritto atti nella presente vicenda”.

 Se da un lato, scrive il giudice, “appare certamente legittima la lamentela del dott. Carrai alla diffusione di materiale […], dall’altro non v’è prova che detta diffusione possa essere attribuita con certezza ad una condotta dolosa del pm Turco che effettuò la trasmissione al Copasir, organo per sua natura tento alla assoluta segretezza”.

Il giudice rileva poi che nel corso della discussione sia il difensore di Carrai che il pm hanno formulato ipotesi dolose: “Il primo per ritenerne la alta probabilità, il secondo per escluderla.

 L’avvocato Dinoia ha ritenuto che il dottor Turco scientemente e quindi con dolo, avrebbe avuto la intenzione di colpire il senatore Renzi attraverso la documentazione sequestrata al Carrai, dando direttive alla Guardia di finanza di confezionare la annotazione del 17 febbraio 2022 da ricevere prima della decisione della Cassazione e poter inviare al comitato parlamentare per la sicurezza nazionale”.

E sottolinea: “Non esiste in atti prova di un ‘piano diabolico’ e conseguentemente, in ottemperanza al dettato della riforma Cartabia, non può oggi essere formulata prognosi concreta che in un eventuale giudizio si possa giungere alla condanna dell’indagato”. […]

Estratto dell’articolo di Marco Grasso per “il Fatto quotidiano” il 4 aprile 2023.

I pm di Firenze non hanno commesso alcuna violazione nel trasmettere al Copasir gli atti sequestrati a Marco Carrai, mail e chat, tra le quali anche conversazioni con Matteo Renzi: “Il diritto alla riservatezza – conclude il Tribunale di Genova, che ieri ha definitivamente archiviato un’altra querela presentata dal leader di Italia Viva nei confronti dei suoi accusatori – deve sicuramente soccombere di fronte a quello della sicurezza nazionale”.

 La denuncia del senatore ipotizzava per quella trasmissione il reato di abuso d’ufficio nei confronti dei pm fiorentini Luca Turco e Antonino Nastasi. Del loro operato veniva contestato soprattutto il fatto di aver risposto alla richiesta del Copasir (datata novembre 2021) solo l’8 marzo del 2022. E cioè molti mesi dopo, successivamente alla decisione della Cassazione che il 18 febbraio del 2022 aveva disposto la restituzione e la distruzione del materiale sequestrato a Carrai che, invece, è finito tra gli atti trasmessi al Copasir.

Quel ritardo […] può essere tutt’al più valutato sotto un profilo “disciplinare”, ma non ha rilevanza penale: “È legittima – riconosce il Tribunale di Genova – la lamentela di Carrai rispetto alla diffusione di quel materiale, di cui la Cassazione aveva disposto la distruzione”, ma “non c’è nessuna prova che detta diffusione possa essere attribuita con certezza a una condotta dolosa al dottor Luca Turco”, che peraltro lo inviò a un organo “per sua natura tenuto alla assoluta segretezza”.

 In altre parole, non esiste prova di quello che la difesa di Carrai ha definito un “piano diabolico”, attribuito ai pubblici ministeri toscani.

È con queste motivazioni che il giudice di Genova, Nicoletta Guerrero, ieri ha definitivamente chiuso il caso e respinto così l’istanza di Matteo Renzi, che si era opposto alla richiesta di archiviazione del procuratore aggiunto di Genova Francesco Pinto. Per configurare un abuso d’ufficio, argomenta il magistrato, non solo manca la prova del dolo, ma anche la violazione in sé: il reato di abuso d’ufficio prevede infatti un comportamento del pubblico ufficiale che vada espressamente contro quanto previsto da una legge, e una sentenza della Cassazione “non ha valore di legge”.

 Per tutte queste ragioni, conclude il giudice, in base a “quanto previsto dalla riforma Cartabia”, “non può oggi essere formulata prognosi concreta che in un eventuale giudizio si possa giungere alla condanna dell’indagato”. […]

Giacomo Amadori per “la Verità” il 21 marzo 2023.

I genitori di Matteo Renzi, Tiziano e Laura, nel 2015 hanno incassato 160.000 euro per prestazioni inesistenti. Lo ha confermato la Corte d’Appello di Firenze, sebbene abbia assolto la coppia dall’accusa di reati fiscali, contestata dalla Procura. Il 18 ottobre 2022, giorno dell’assoluzione, l’avvocato di Tiziano e Laura, Lorenzo Pellegrini, aveva chiosato così la decisione: «La prestazione è stata svolta, non è stata una prestazione inesistente. Potremmo discutere di congruità o non congruità, ma questo non è un tema che attiene alla falsità».

Il riferimento era alle due fatture da 195.200 complessivi, Iva compresa, saldate dalla società Tramor a due ditte dei Renzi, la Party e la Eventi 6 per un «progettino» di due pagine e mezza pensato per lo sviluppo di un centro commerciale a due passi da Rignano sull’Arno di proprietà del gruppo francese Kering. Per i giudici, che hanno confermato la condanna per truffa aggravata di Luigi Dagostino, ex amministratore della Tramor e sodale dei genitori, questi ultimi non avevano la volontà di consentire a terzi l’evasione, ipotesi per la quale erano stati rinviati a giudizio e condannati in primo grado.

 Nelle 36 pagine di motivazioni, depositate il 16 marzo scorso, si parla di una «pluralità di elementi che dimostrano pienamente l’inesistenza oggettiva di tali prestazioni», della «dimostrazione, oltre ogni ragionevole dubbio, dell’insussistenza delle prestazioni fatturate» ed è anche puntualizzato che «l’esecuzione effettiva della prestazione indicata nella fattura deve essere totalmente esclusa».

Le toghe ricordano che pure il coimputato Dagostino «era rimasto sorpreso per gli elevati importi indicati nelle fatture, pur non ritenendo opportuno sollevare obiezioni perché si sentiva, nei confronti dei coniugi Renzi, in una situazione di “sudditanza psicologica”». E così quando Tiziano chiedeva di lavorare («Mi rompeva i coglioni il padre di Renzi» aveva detto al telefono l’imprenditore), non sapeva dire di no e «per questo motivo aveva chiesto a Kering di saldare le fatture».

Eppure anche Dagostino, in aula, aveva tentato di sostenere che qualcosa i genitori avessero fatto. Ma adesso i giudici d’appello spazzano via questa eventualità. La questione si incentra sul «progettino» firmato dai Renzi e intitolato «Taste Mall».

Per i magistrati si tratta solo di «una breve relazione (di poco più di due pagine) che riporta una serie di considerazioni a carattere generale e di principio, in assenza di soluzioni attuative specifiche e particolareggiate».

 Non certo un’opera dell’ingegno del valore di 160.000 euro. Anche perché, come già stabilito in primo grado, ad essa erano allegate delle planimetrie che altro non erano che «una semplice rielaborazione (mediante la colorazione di alcune parti) dei progetti architettonici a suo tempo predisposti dallo studio Previdi di Milano».

 Inoltre durante il processo non è stata prodotta dagli imputati e dalle loro difese «qualunque documentazione relativa sia al conferimento dell’incarico di consulenza […] sia alla sua esecuzione». Per questo, secondo le toghe, «è pacifico» che non esista «alcun contratto in forma scritta».

Per la Corte «l’impossibilità di qualificare il documento come una consulenza dotata di effettivo valore è dimostrata dal fatto stesso che la relazione risulta trasmessa soltanto al Dagostino in allegato alla fattura». L’invio è avvenuto il 30 giugno 2015, «nonostante che a quella data la cessione della Tramor al gruppo Kering fosse già stata conclusa e Dagostino già sostituito da un diverso amministratore».

 Ma, secondo i giudici, se quel documento avesse avuto una reale «rilevanza […] avrebbe dovuto essere consegnato alla società che lo aveva commissionato, ancor prima di inviare la fattura, e non trasmesso soltanto all’ex amministratore».

Nella fattura da 140.000 euro si fa riferimento a un incarico per uno «studio di fattibilità» e a una successiva consegna alla Tramor, che, però, non sarebbe mai avvenuta. Per tale motivo i magistrati parlano di «macroscopiche incongruenze». Per loro il Taste mall «altro non è che il frettoloso tentativo di accludere tardivamente qualcosa che doveva andare a “nascondere” la mancata consegna della “documentazione” indicata nella fattura».

 C’è poi «la circostanza che il prezzo della prestazione sia stato quantificato in modo difforme nelle diverse versioni della fattura numero 202, essendo prima fissato in 100.000 euro piu Iva e poi (soltanto nella terza e ultima versione) aumentato a 140.000 euro piu Iva». I Renzi e i suoi difensori hanno semplicemente parlato di «errore materiale».

 Ma nelle motivazioni si ricorda come quelle fatture siano passate sotto più occhi prima di essere inviate. E quando l’importo è stato cambiato non è stato inviato nessun messaggio di spiegazione. Il che presupporrebbe che Dagostino fosse stato al corrente dell’aumento, ma lo stesso «ha sempre escluso che vi fosse un accordo su un importo di quella consistenza».

Per questo, concludono i giudici, «l’unica conclusione logicamente ammissibile, imposta dalle prove acquisite, è che l’importo della fattura, non corrispondente ad alcuna prestazione effettiva, sia stato deciso in modo arbitrario dai due imputati emittenti».

 C’è un altro tasto dolente: la prima fattura, quella da 20.000 euro, è stata emessa dalla Party Srl, ovvero da una società costituita sei mesi prima e che «risultava non operativa, tanto che la fattura era la prima dell’anno e sarebbe stata l’ultima». Inoltre la Party «è stata poi messa in liquidazione».

In questo caso, la causale era «studio di fattibilità commerciale», uno studio che, però, risultava «del tutto sfornito di supporto materiale», neanche le due paginette di cui sopra.

I magistrati rimarcano anche «l’assoluta genericità delle dichiarazioni della Bovoli, che ha fatto soltanto un sommario riferimento a un “inizio di lavoro” che si sarebbe dovuto concretizzare nei mesi successivi».

Ma per le toghe «il fatto non costituisce reato» perché manca il «dolo intenzionale», la consapevolezza di consentire alla Tramor di evadere parte delle tasse su quei 195.000 euro. E, come detto la truffa o l’appropriazione indebita non erano, invece, contestate ai coniugi: «Anche se risulta dimostrato che le fatture emesse dalla Party e dalla Eventi6 non corrispondono a prestazioni commerciali realmente effettuate, la finalità perseguita era, ad avviso della Corte, esclusivamente di tipo extrafiscale». Ma il processo non ha chiarito le ragioni dietro a quei versamenti.

 In realtà la Procura di Firenze aveva provato a contestare il traffico illecito di influenze, avendo individuato una sorta di do ut des legato ad alcuni incontri avuti da Dagostino e da alcuni suoi conoscenti (compreso un magistrato che indagava sul suo conto) a Palazzo Chigi. Ma l’illegalità di quelle visite non è stata provata e di conseguenza anche l’accusa lobbismo illegale è caduta. Resta il fatto che Renzi senior sia stato portato in giro da Dagostino come una sorta di Madonna pellegrina durante i suoi colloqui di affari.

 Ma alla fine dei conti i Renzi non avrebbero commesso il reato contestato dalla Procura, l’unico per il quale potevano essere perseguiti. Così i giudici di Appello li hanno assolti senza specificare il motivo per cui ritengano che i genitori non fossero coscienti di favorire la Tramor con quelle fatture per operazioni inesistenti. Per la pm Christine von Borries, invece, i due anziani avevano «piena consapevolezza» del fatto che la Tramor avrebbe inserito le due fatture false «nella dichiarazione dei redditi con conseguente evasione delle imposte». E, al contrario della Corte d’appello aveva citato ampia giurisprudenza. Adesso, se la Procura generale deciderà di fare ricorso, sarà la Cassazione a dover pronunciare la parola definitiva.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 22 marzo 2023.

Chi trova i Renzi perde un tesoro. È questa la morale che si può trarre da due vicende giudiziarie finite bene per la famiglia di Rignano sull’Arno: il processo per false fatture nei confronti dei genitori del fu Rottamatore, terminato con un’assoluzione in Appello e il procedimento per finanziamento illecito contro il senatore chiuso con un’archiviazione. In entrambi i casi abbiamo due facoltosi signori, l’imprenditore Luigi Dagostino e l’impresario tv Lucio Presta, che hanno puntato centinaia di migliaia di euro su Matteo, il suo babbo e la sua mamma e in cambio si sono ritrovati con un pugno di mosche.

Presta ha addirittura tentato, buttando a mare quasi due milioni di euro, di sfruttare il volto e le idee di Renzi per guadagnare con il piccolo schermo. E per lui e la sua casa di produzione, la Arcobaleno tre, è stato un bagno di sangue, finanziariamente parlando. Ma, per sua fortuna, con successi come Sanremo ha ampiamente ripianato il flop. Lui e Renzi erano accusati di emissione e utilizzo di fatture per prestazioni inesistenti e di finanziamento illecito.

 Il 13 marzo la gip Simona Calegari ha firmato il decreto di archiviazione per entrambi, oltre che per il figlio di Presta, Nicolò. Una decisione che è la conseguenza legittima della riforma Cartabia. Il giudice infatti, rileva come, «alla luce della nuova formulazione dell’articolo 425 del codice di procedura penale che ha introdotto il parametro della “ragionevole previsione di condanna”», la documentazione raccolta dagli investigatori non consenta una tale «prognosi» di successo in dibattimento.

 Per la toga «non si può escludere che Presta abbia ritenuto ex ante conveniente l’investimento, né si può escludere (se non per un’intuizione irrilevante ai fini della prova) che le sinossi proposte da Matteo Renzi possano un domani essere meglio sfruttate». Il gip ammette anche che l’ipotesi accusatoria si basava su «indizi inequivocabilmente sussistenti», ma aggiunge che purtroppo «non è stato acquisito alcun decisivo elemento idoneo a sostenere che le operazioni commerciali poste in essere siano non genuine e non solo, invece, imprudenti e/o maldestre».

I pm romani Alessandro Di Taranto e Gennaro Varone nelle 20 pagine di richiesta di archiviazione, firmata il 15 febbraio (un’istanza accolta dal gip quasi a tempo di record, in appena 26 giorni), ricostruiscono la sfortunata scommessa tentata dal duo Presta-Renzi per occupare i network televisivi. Il documentario Firenze secondo me, a giudizio della coppia, avrebbe dovuto scatenare un’asta per accaparrarsi i racconti del senatore sulla sua città natale.

 E così, tra il 31 luglio e il 24 settembre 2018, il leader di Italia viva ha presentato otto fatture legate a quattro diversi contratti che gli hanno permesso di incassare un totale di 400.000 euro per otto puntate: 25.000 euro l’una come autore e 25.000 come conduttore.

A questi denari bisogna aggiungere altri emolumenti per progetti, come vedremo, mai realizzati. Attività per cui Renzi avrebbe dovuto portare a casa 1 milione di euro in tutto, poi ridotti a 800.000.

 Di fronte a questa lauta prospettiva il politico toscano, il 27 luglio 2018, ha aperto partita Iva. Da parte sua la Arcobaleno tre ha registrato solo perdite: il documentario, oltre all’onorario di Renzi, ha bruciato altri 920.00 euro per le spese di produzione. La società ha iscritto a bilancio la produzione alla voce costo di esercizio e non a quella del patrimonio, «come se si fosse trattato di un secco elemento negativo e non di un investimento». Il che ha fatto sospettare agli investigatori che i contratti dissimulassero «una donazione», «uno spot di propaganda nell’esclusivo interesse del predetto parlamentare».

Un sospetto rafforzato dal fatto che gli emolumenti ricevuti nel 2018, 480.000 euro, sono stati utilizzati da Renzi per restituire un prestito ricevuto il 16 giugno dello stesso anno per l’acquisto di una villa. Due vicende che gli inquirenti legano strettamente tra loro. Per esempio evidenziano come, appena due giorni dopo l’arrivo del bonifico per la casa, in un contratto rinvenuto in bozza e datato 18 giugno 2018, Renzi si impegnasse a prestare la propria attività per la Arcobaleno tre. In più dalle carte sequestrate risulta che gli «accordi tra Lucio Presta e Matteo Renzi furono assunti a partire dal maggio 2018» e ciò farebbe supporre che «sin dalla data del prestito, l’onorevole Renzi sapesse di poter contare su un introito di importo corrispondente».

Non basta: per i pm la disamina dei documenti sequestrati «rivela progressivi aggiustamenti, retrodatazioni […] errori di trascrizione degli importi sui contratti (in un caso nello stesso giorno si è passati da 500.000 euro a 200.000, ndr)» e «tutto ciò sembrava indicare che i vari contratti stipulati avessero inseguito la necessità di corrispondere compensi sino ad un certo importo». In questo caso quello del prestito. Ma la «natura simulata/fittizia» degli accordi non è stata dimostrata con certezza.

 Con un successivo contratto da 100.000 euro Renzi dava mandato esclusivo alla Arcobaleno tre per rappresentarlo a livello mondiale e per promuovere la sua attività professionale, ma solo «nell’ambito del settore dello spettacolo».

Anche qui gli inquirenti annotano alcune anomalie. Nell’accordo con l’Arcobaleno tre risulta essere quest’ultima a retribuire il rappresentato, contrariamente alla prassi, come se l’impiegato pagasse il datore di lavoro. E qui gli investigatori citano i casi di Amadeus, Antonella Clerici e Marco Liorni dove gli artisti riconoscono il 12 per cento del cachet all’agente in caso di ingaggio e non il contrario. Inoltre non risulta alcuna liberatoria concessa dalla Arcobaleno tre per la partecipazione di Renzi a trasmissioni televisive, a parte la presenza al Maurizio Costanzo show del 5 novembre 2019.

 C’è infine un ultimo contratto che riguarda la cessione dei diritti per «eventuali opere future dell’ingegno» del senatore, per cui quest’ultimo, presentando ulteriori otto fatture, avrebbe incassato altri 300.000 euro. Duecentomila euro sarebbero stati pagati per il progetto di due format televisivi, mai realizzati, 5 minuti (una specie di Accadde oggi) e le interviste che Renzi avrebbe dovuto realizzare e per cui era stato bloccato un teatro.

Durante le indagini gli investigatori hanno trovato i messaggi di posta elettronica scambiati da Presta con i dirigenti di Mediaset, Amazon prime e Netflix per la vendita del documentario. Nella richiesta di archiviazione si legge: «È stata acquisita una e-mail datata 10 ottobre 2018, nella quale Lucio Presta lamenta ad Alessandro Salem, direttore generale dei contenuti per Rti, il venir meno dell’impegno, dal Salem dichiaratamente assunto nel mese di luglio, per l’acquisto della produzione Firenze secondo me».

Nella missiva «sarebbe stato richiesto un aumento di 300.000 euro, dell’importo, inizialmente, dichiaratamente concordato in un milione di euro, affinché Presta non risentisse di “una perdita secca”».

L’agente, davanti agli inquirenti, ha giurato di non avere perso «neppure un euro dalla produzione di Firenze secondo me» e di avere raggiunto un accordo con Salem e altri due funzionari di Rti per l’acquisto del documentario, «accordo sugellato da una “stretta di mano”, come sarebbe d’uso nel suo settore di attivitò». Curioso il motivo addotto dall’imprenditore calabrese per la mancata messa in onda: «Salem avrebbe voluto trasmettere la produzione in prima serata, mentre Presta insisteva per la seconda» e per questo «il documentario non sarebbe stato mandato in onda».

 Ma Firenze secondo me sarebbe stato, comunque, «pagato, cosi come da accordi». Per dimostrare la veridicità di quanto affermato Presta ha depositato una mail di Andrea Giudici, vicedirettore Risorse artistiche del gruppo Mediaset, in cui si fa «riferimento all’acquisto del “documentario realizzato con il contributo del senatore Matteo Renzi”, per l’importo di euro 300.000». I pm puntualizzano che non risulta che il Mediaset «abbia, effettivamente, erogato un milione di euro per quella produzione». Anzi per gli inquirenti «il documento esibito da Presta dà atto, piuttosto, di una promessa di acquisto per 300.000 euro, poi non portata a termine», come confermato da Giudici, «per quanto a sua conoscenza».

Nella sua richiesta la Procura sottolinea che la Arcobaleno tre aveva già previsto un investimento milionario a giugno, mentre la trattativa con Mediaset è partita solo a luglio.

Laura Carafoli, senior vice presidente di Discovery ha, invece, spiegato di «avere offerto per la trasmissione televisiva dei quattro episodi, il compenso di 1.000 euro, mai pagati, per non avere la Arcobaleno tre neppure emesso la relativa fattura».

 Ma c’è chi qualche soldo lo ha versato ed è la Mondadori, sempre di proprietà della famiglia Berlusconi. Secondo Presta «l’esclusiva dell’opera (Firenze secondo me, ndr) gli avrebbe procurato un contratto con Piemme Mondadori per la pubblicazione» di un omonimo tomo, in uscita nel 2024.

Ma, se i magistrati hanno riscontrato che un anticipo è stato pagato a Renzi (25.000 euro), la Arcobaleno tre non avrebbe avuto un ruolo in questo primo accordo.

Nell’ottobre 2021, quando le indagini in corso erano già note, la Mondadori ha siglato un ulteriore contratto con Renzi e uno con la Arcobaleno tre, detentrice dei diritti sul format televisivo, da 16.625 euro.

 In più la Mondadori avrebbe pagato un acconto da 40.000 euro (ma Presta sostiene di avere ricevuto solo 10.000 euro) anche per un libro intitolato «Almanacco» che dovrebbe riprendere il format 5 minuti e la cui pubblicazione sarebbe prevista per il 2023. Su tali progetti editoriali i magistrati scrivono: «Se essi siano, o meno, fumo negli occhi non puo dirsi, se non sulla base di mero sospetto».

A sua difesa Presta ha esibito i contratti per la partecipazione gratuita di Renzi a due programmi prodotti dalla Arcobaleno tre: Rivelo e Incontri al tramonto. Di fronte a questo quadro i magistrati sostengono che non ci sia prova di una tentata sovrafatturazione (necessaria per contestare i reati fiscali), né la «suggestione» delle erogazioni liberali può essere considerata «un fatto accertato» visto che la produzione Firenze secondo me ha «un substrato reale». Per le toghe non si può neppure escludere che le idee proposte da Matteo Renzi «possano, un domani, essere meglio sfruttate». E dunque, per l’accusa, «l’argomento difensivo di una previsione imprenditoriale infelice […] non appare superabile». Da qui l’archiviazione.

Il gip del Tribunale di Roma archivia l’indagine su Matteo Renzi e Lucio Presta, per finanziamento illecito. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Marzo 2023.

La vicenda era legata ai bonifici fatti dal manager tv per il documentario 'Firenze secondo me', dove il leader di Italia Viva guidava gli spettatori alla scoperta della città

Archiviazione per Matteo Renzi e Lucio Presta. Il gip di Roma ha archiviato l’inchiesta che vedeva indagati l’ex premier e oggi leader di Italia Viva Matteo Renzi, il noto manager televisivo Lucio Presta e suo figlio Niccolò Presta. L’accusa nei confronti dei tre era quella di “finanziamento illecito“. A chiedere l’archiviazione i procuratori aggiunti Paolo Ielo e Stefano Pesci della procura di Roma.

Il procedimento verteva sui rapporti economici tra Renzi e l’agente televisivo e, in particolare, i bonifici del documentario “Firenze secondo me”, che nel 2019 finirono in una relazione dell’antiriciclaggio della UIF, l ‘ Unità investigativa finanziaria della Banca d’Italia. Il documentario venne realizzato da Renzi con la casa di produzione Arcobaleno ed è andato in onda su Nove, canale del gruppo Discovery Italia, a cavallo tra il 2018 e il 2019. Un flop, con ascolti al 2%, ma evidentemente Discovery non nutriva grosse aspettative visto che pagò appena 20mila euro. L’ex segretario del Pd ottenne invece un cachet di 454 mila euro.

Non so in cosa possa sostanziarsi questo avviso di garanzia: tutte le nostre attività solo legali, lecite, legittime” – aveva dichiarato Matteo Renzi due anni fa quando venne alla luce il procedimento penale nei suoi confronti – “Si parla di una mia attività professionale che sarebbe finanziamento illecito alla politica, cosa che non sta né in cielo né in terra. Quando arriveranno gli atti potremo discutere e confrontarci“. aggiungendo in una videodiretta su Facebook, commentando l’indagine che lo coinvolgerebbe. “Io non ho paura, sono andato contro tutti e contro tutto per fare un nuovo governo. Pensate se possono farmi paura con qualche velato avvertimento e con qualche avviso di garanzia comunicato via stampa in un determinato giorno“.

Parte di quel denaro, secondo la ricostruzione fatta dagli investigatori, sarebbe servito a Renzi per ripagare il prestito di 700mila euro che aveva ricevuto dalla signora Anna Picchioni, vedova dell’imprenditore Egiziano Maestrelli, per comprare la villa di Firenze, costata un milione e 350mila euro (per 285 metri quadrati). Renzi affermò che il prestito era stato ripagato con i suoi guadagni ottenuti come conferenziere e, appunto, grazie alla realizzazione del documentario.

Ad annunciare l’archiviazione è lo stesso Lucio Presta su Twitter. “Desidero ringraziare la procura di Roma che ha svolto le indagini che mi vedevano indagato con il senatore Matteo Renzi, conclusesi con l’archiviazione – scrive Presta – Li ringrazio per aver avuto la professionalità e l’equilibrio che hanno garantito di salvaguardare la mia rispettabilità, la mia professionalità, la vita mia e quella di mio figlio Niccolò. Ringrazio i legali (Cersosimo-Lucarelli) per il grande lavoro svolto“. Redazione CdG 1947

Giovanni Tizian e Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 22 marzo 2023.

La vena del politico è sfociata – come è noto - in alcuni format tv da lui inventati, pagati cari e amari da Presta ma mai realizzati; e in un mandato di rappresentanza a Presta «per promuovere nel mondo la mia attività professionale esclusivamente nell’ambito dello spettacolo», costati all’agente ben 300mila euro. A cui vanno aggiunti altri 400 mila euro per l’ideazione e la conduzione del documentario “Firenze secondo me”, mossa economicamente disastrosa per la società Arcobaleno Tre controllata da Presta: costata in tutto quasi un milione, l’opera è stata venduta a Discovery Channel per appena mille euro, ad oggi nemmeno incassati.

La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione degli indagati perché, pur evidenziando come l’investimento fatto da Presta appare «estraneo» a una logica commerciale sensata, secondo la nuova legge Cartabia per chiedere il rinvio a giudizio degli indagati è necessario che esista una «ragionevole previsione di condanna». Tradotto, senza prove solide che garantiscano una buona probabilità di vittoria il magistrato deve archiviare prima ancora di andare in udienza preliminare.

In questo caso, nonostante Presta abbia finora girato a Renzi 700 mila euro attraverso un’operazione che appare come «un mero costo», secondo i pm e il gip che ha accolto la richiesta di archiviazione non ci sono evidenze schiaccianti contro l’agente e Renzi: il documentario è stato effettivamente girato ed è opera «reale» forse vendibile ai posteri, mentre il contratto di esclusiva potrebbe – non è cosa da escludere a priori – portare futuri guadagni alla Arcobaleno Tre.

 Detto questo, le 20 pagine della richiesta di archiviazione descrivono la storia di un’operazione bizzarra tra l’allora segretario del Pd e un potente agente che lavora anche con la tv di Stato, con scritture private abortite, retrodatazioni, curiose trattative con le società del capo di Forza Italia Silvio Berlusconi (Mediaset e la casa editrice Mondadori) in merito all’acquisto dei diritti di “Firenze secondo me”. Con il corollario che alcune giustificazioni di Presta messe a verbale spesso vengono smentite dai fatti e da successive testimonianze di test chiave.

Soprattutto, il dispositivo di archiviazione evidenzia come l’impresa culturale Renzi-Presta sia collegata, temporalmente ed economicamente, all’acquisto di Renzi della casa di Firenze. Come già raccontato da chi scrive sull’Espresso e su Domani, la villa fu infatti acquistata grazie a un prestito (da 700 mila euro) ottenuto dall’anziana madre di alcuni imprenditori toscani amici del senatore, i Maestrelli. Soldi restituiti dal leader del Terzo Polo proprio grazie a parte della provvista ottenuta dall’Arcobaleno Tre, che in tutto ha girato a Renzi esattamente 700mila euro.

Partiamo dall’inizio della vicenda. E dal documentario “Firenze secondo me”. È il 16 giugno 2018, e i coniugi Renzi ottengono da Anna Picchioni (madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli che nel 2015, durante il governo Renzi, era stato nominato nel cda di CpdImmobiliare) il prestito con cui possono comprare la casa dei loro sogni.

Due giorni dopo, il 18 giugno, Renzi si impegna a girare alcune scene dell’opera con specifico riferimento al “Calcio fiorentino”: lo segnala un contratto «non sottoscritto» trovato dagli investigatori della Guardia di Finanza negli uffici dell’Arcobaleno Tre. Passa un mese, e il 27 luglio Renzi apre una partita iva. Gli servirà per firmare il 31 luglio il contratto da conduttore e autore del documentario, per un totale di 400mila euro. Per il film la società di Presta tra troupe e location spenderà altro mezzo milione, con un investimento totale di 920 mila euro.

 Se per gli investigatori il politico ottiene di fatto da Presta «700 mila euro e la produzione di un lungometraggio idoneo a promuovere la propria immagine pubblica», la società dell’agente «è apparsa avere riportato un mero costo».

La richiesta di archiviazione evidenzia poi che le prime trattative per piazzare il documentario in tv iniziano a luglio 2018 con Mediaset, dunque solo dopo che Renzi e Presta hanno già preso i primi accordi per girarlo. Nell’interrogatorio ai pm l’agente di Amadeus segnala come avrebbe raggiunto un accordo con gli alti dirigenti del Biscione Alessandro Salem (da lustri braccio destro di Piersilvio Berlusconi), Giorgio Restelli e Massimo Porta.

 Un patto da un milione di euro non scritto, ma «suggellato da una stretta di mano», ha detto Presta a verbale. «In seguito» scrivono ancora i pm «per via di una asserita divergenza con Salem che avrebbe voluto trasmettere la produzione in prima serata, mentre Presta insisteva per la seconda, il documentario non sarebbe stato mandato in onda. Sarebbe stato comunque pagato, così come da accordi intervenuti». Presta, in effetti, dichiara di non «avere perso nemmeno un euro dalla produzione di Firenze secondo me».

Se in una mail agli atti del 10 ottobre sembra raccontare che è Presta a lamentarsi con Salem per «il venir meno dell’impegno assunto per l’acquisto del documentario», non è chiaro come mai l’agente litighi con i dirigenti di Berlusconi che volevano dare la massima visibilità all’opera.

 La procura di Roma ha poi trovato traccia di un’altra lettera tra Mediaset e Arcobaleno Tre, che fa in effetti riferimento all’acquisto del documentario per soli 300 mila euro, ma che resterà comunque una promessa «non portata a termine». Anche un manager di RTI sentito in procura, Andrea Giudici, ha escluso che Mediaset abbia mai, per quanto a sua conoscenza, «proceduto all’acquisto».

Dunque, Presta non ha incassato un euro da nessun network tv. Da altre aziende dell’universo berlusconiano, invece, qualche denaro è arrivato. L’agente ha detto che l’esclusiva di “Firenze secondo me” «gli avrebbe procurato un contratto con Piemme», editore controllata dalla Mondadori, per pubblicare un libro dal titolo omonimo.

 Mentre i magistrati di Piazzale Clodio hanno scoperto che un contratto tra Renzi e Mondadori originato dal documentario esiste davvero. Ma pure che alla fine i 50 mila euro pattuiti sono stati poi riversati su un altro libro di Renzi, “Controcorrente”.

 Un saggio su Firenze del politico però potrebbe finalmente uscire nel 2024. La Mondadori ha firmato un contratto con Renzi e Presta, che potrebbe recuperare finalmente qualche spiccio: 16.625 euro è la somma corrisposta sul contratto firmato ad ottobre 2021. Quest’anno, invece, la casa editrice di Berlusconi forse darà alle stampe “Almanacco”, sempre a firma Renzi, volume che dovrebbe richiamare un format televisivo “5 minuti”, già venduto nel 2018 dal politico a Presta. «In forza di tale contratto alla Arcobaleno è stata corrisposta, difformemente da quanto dichiarato da Presta nell’interrogatorio, la somma di 10 mila euro, e non 40 mila».

Torniamo al torrido luglio 2018. Il giorno prima di firmare il contratto per il documentario, Renzi sigla con Presta anche una scrittura privata da 200 mila euro, con cui trasferisce al sodale i diritti di due format tv da lui ideati: il già citato “5 minuti” e “Mr Interviste”, entrambi mai realizzati. Non si sa come mai Presta e Renzi decidano improvvisamente nello stesso giorno di firmare contratti su tanti lavori d’ingegno così diversi che sommati insieme arrivano proprio ai 700 mila euro del prestito ottenuto dall’allora segretario del Pd.

Ma durante le perquisizioni gli investigatori trovano «un contratto avente pari data, medesimo oggetto, ma diverso importo di euro 500mila». Si tratta di una scrittura privata che secondo la commercialista di Presta sentita in procura sarà «poi superata», e tagliato ai 200mila euro suddetti.

 La circostanza ha fatto ipotizzare a Piazzale Clodio che il compenso che Presta voleva investire su Renzi non fosse «parametrato al valore della prestazione artistica, bensì a un risultato economico complessivo che si voleva raggiungere; ottenuto il quale (attraverso altri contratti, ndr) si è optato per un compenso inferiore a quello preventivato».

Anche il contratto da 100 mila euro con cui l’ex premier cede a Presta «i diritti di sfruttamento economico di eventuali opere future d’ingegno del senatore» è del 30 luglio 2018. Come gli altri, presenta peculiarità non banali: se «per prassi» è l’artista che paga il suo agente, «nel contratto stipulato da Renzi con l’Arcobaleno Tre invece è quest’ultima che retribuisce il rappresentato».

 Alla fine della fiera, i pm dicono che «dubbi» possono essere sollevati, che alcune affermazioni di Presta (come quelle sui soldi avuti da Mediaset) non sono state «confermate dalle indagini a riscontro», e che non si può dire con certezza se i progetti editoriali con Mondadori «siano o meno fumo negli occhi». Il «mero sospetto» è però irrilevante: piaccia o non piaccia, non essendoci prove decisive per sostenere a processo bisogna archiviare. Cartabia docet, e Renzi e Presta possono festeggiare.

Libri, doc e i misteri Mediaset. Tutti gli affari di Renzi e Presta. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 22 marzo 2023

Il senatore e il suo agente sono stati archiviati dalla procura di Roma per il reato di finanziamento illecito. Ma per i pm Presta di fatto ha perso (ad ora) 700mila euro. Usati da Renzi per restituire il prestito per la casa

Matteo Renzi e Lucio Presta sono stati archiviati dalle accuse di finanziamento illecito e sovrafatturazione, in merito ai denari (in tutto 700mila euro) che l’agente delle star ha girato cinque anni fa all’ex premier come compenso per «l’attività artistica del senatore».

La vena del politico è sfociata – come è noto - in alcuni format tv da lui inventati, pagati cari e amari da Presta ma mai realizzati; e in un mandato di rappresentanza a Presta «per promuovere nel mondo la mia attività professionale esclusivamente nell’ambito dello spettacolo», costati all’agente ben 300mila euro. A cui vanno aggiunti altri 400 mila euro per l’ideazione e la conduzione del documentario “Firenze secondo me”, mossa economicamente disastrosa per la società Arcobaleno Tre controllata da Presta: costata in tutto quasi un milione, l’opera è stata venduta a Discovery Channel per appena mille euro, ad oggi nemmeno incassati.

EFFETTO CARTABIA

La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione degli indagati perché, pur evidenziando come l’investimento fatto da Presta appare «estraneo» a una logica commerciale sensata, secondo la nuova legge Cartabia per chiedere il rinvio a giudizio degli indagati è necessario che esista una «ragionevole previsione di condanna». Tradotto, senza prove solide che garantiscano una buona probabilità di vittoria il magistrato deve archiviare prima ancora di andare in udienza preliminare.

In questo caso, nonostante Presta abbia finora girato a Renzi 700 mila euro attraverso un’operazione che appare come «un mero costo», secondo i pm e il gip che ha accolto la richiesta di archiviazione non ci sono evidenze schiaccianti contro l’agente e Renzi: il documentario è stato effettivamente girato ed è opera «reale» forse vendibile ai posteri, mentre il contratto di esclusiva potrebbe – non è cosa da escludere a priori – portare futuri guadagni alla Arcobaleno Tre.

Detto questo, le 20 pagine della richiesta di archiviazione descrivono la storia di un’operazione bizzarra tra l’allora segretario del Pd e un potente agente che lavora anche con la tv di Stato, con scritture private abortite, retrodatazioni, curiose trattative con le società del capo di Forza Italia Silvio Berlusconi (Mediaset e la casa editrice Mondadori) in merito all’acquisto dei diritti di “Firenze secondo me”. Con il corollario che alcune giustificazioni di Presta messe a verbale spesso vengono smentite dai fatti e da successive testimonianze di test chiave.

Soprattutto, il dispositivo di archiviazione evidenzia come l’impresa culturale Renzi-Presta sia collegata, temporalmente ed economicamente, all’acquisto di Renzi della casa di Firenze. Come già raccontato da chi scrive sull’Espresso e su Domani, la villa fu infatti acquistata grazie a un prestito (da 700 mila euro) ottenuto dall’anziana madre di alcuni imprenditori toscani amici del senatore, i Maestrelli. Soldi restituiti dal leader del Terzo Polo proprio grazie a parte della provvista ottenuta dall’Arcobaleno Tre, che in tutto ha girato a Renzi esattamente 700mila euro.

LA TRATTATIVA CON MEDIASET

Partiamo dall’inizio della vicenda. E dal documentario “Firenze secondo me”. È il 16 giugno 2018, e i coniugi Renzi ottengono da Anna Picchioni (madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli che nel 2015, durante il governo Renzi, era stato nominato nel cda di CpdImmobiliare) il prestito con cui possono comprare la casa dei loro sogni.

Due giorni dopo, il 18 giugno, Renzi si impegna a girare alcune scene dell’opera con specifico riferimento al “Calcio fiorentino”: lo segnala un contratto «non sottoscritto» trovato dagli investigatori della Guardia di Finanza negli uffici dell’Arcobaleno Tre. Passa un mese, e il 27 luglio Renzi apre una partita iva. Gli servirà per firmare il 31 luglio il contratto da conduttore e autore del documentario, per un totale di 400mila euro. Per il film la società di Presta tra troupe e location spenderà altro mezzo milione, con un investimento totale di 920 mila euro.

Se per gli investigatori il politico ottiene di fatto da Presta «700 mila euro e la produzione di un lungometraggio idoneo a promuovere la propria immagine pubblica», la società dell’agente «è apparsa avere riportato un mero costo».

La richiesta di archiviazione evidenzia poi che le prime trattative per piazzare il documentario in tv iniziano a luglio 2018 con Mediaset, dunque solo dopo che Renzi e Presta hanno già preso i primi accordi per girarlo. Nell’interrogatorio ai pm l’agente di Amadeus segnala come avrebbe raggiunto un accordo con gli alti dirigenti del Biscione Alessandro Salem (da lustri braccio destro di Piersilvio Berlusconi), Giorgio Restelli e Massimo Porta.

Un patto da un milione di euro non scritto, ma «suggellato da una stretta di mano», ha detto Presta a verbale. «In seguito» scrivono ancora i pm «per via di una asserita divergenza con Salem che avrebbe voluto trasmettere la produzione in prima serata, mentre Presta insisteva per la seconda, il documentario non sarebbe stato mandato in onda. Sarebbe stato comunque pagato, così come da accordi intervenuti». Presta, in effetti, dichiara di non «avere perso nemmeno un euro dalla produzione di Firenze secondo me».

Se in una mail agli atti del 10 ottobre sembra raccontare che è Presta a lamentarsi con Salem per «il venir meno dell’impegno assunto per l’acquisto del documentario», non è chiaro come mai l’agente litighi con i dirigenti di Berlusconi che volevano dare la massima visibilità all’opera.

La procura di Roma ha poi trovato traccia di un’altra lettera tra Mediaset e Arcobaleno Tre, che fa in effetti riferimento all’acquisto del documentario per soli 300 mila euro, ma che resterà comunque una promessa «non portata a termine». Anche un manager di RTI sentito in procura, Andrea Giudici, ha escluso che Mediaset abbia mai, per quanto a sua conoscenza, «proceduto all’acquisto».

Dunque, Presta non ha incassato un euro da nessun network tv. Da altre aziende dell’universo berlusconiano, invece, qualche denaro è arrivato. L’agente ha detto che l’esclusiva di “Firenze secondo me” «gli avrebbe procurato un contratto con Piemme», editore controllata dalla Mondadori, per pubblicare un libro dal titolo omonimo. Mentre i magistrati di Piazzale Clodio hanno scoperto che un contratto tra Renzi e Mondadori originato dal documentario esiste davvero. Ma pure che alla fine i 50 mila euro pattuiti sono stati poi riversati su un altro libro di Renzi, “Controcorrente”.

Un saggio su Firenze del politico però potrebbe finalmente uscire nel 2024. La Mondadori ha firmato un contratto con Renzi e Presta, che potrebbe recuperare finalmente qualche spiccio: 16.625 euro è la somma corrisposta sul contratto firmato ad ottobre 2021. Quest’anno, invece, la casa editrice di Berlusconi forse darà alle stampe “Almanacco”, sempre a firma Renzi, volume che dovrebbe richiamare un format televisivo “5 minuti”, già venduto nel 2018 dal politico a Presta. «In forza di tale contratto alla Arcobaleno è stata corrisposta, difformemente da quanto dichiarato da Presta nell’interrogatorio, la somma di 10 mila euro, e non 40 mila».

SCRITTURE PRIVATE

Torniamo al torrido luglio 2018. Il giorno prima di firmare il contratto per il documentario, Renzi sigla con Presta anche una scrittura privata da 200 mila euro, con cui trasferisce al sodale i diritti di due format tv da lui ideati: il già citato “5 minuti” e “Mr Interviste”, entrambi mai realizzati. Non si sa come mai Presta e Renzi decidano improvvisamente nello stesso giorno di firmare contratti su tanti lavori d’ingegno così diversi che sommati insieme arrivano proprio ai 700 mila euro del prestito ottenuto dall’allora segretario del Pd. Ma durante le perquisizioni gli investigatori trovano «un contratto avente pari data, medesimo oggetto, ma diverso importo di euro 500mila». Si tratta di una scrittura privata che secondo la commercialista di Presta sentita in procura sarà «poi superata», e tagliato ai 200mila euro suddetti.

La circostanza ha fatto ipotizzare a Piazzale Clodio che il compenso che Presta voleva investire su Renzi non fosse «parametrato al valore della prestazione artistica, bensì a un risultato economico complessivo che si voleva raggiungere; ottenuto il quale (attraverso altri contratti, ndr) si è optato per un compenso inferiore a quello preventivato».

Anche il contratto da 100 mila euro con cui l’ex premier cede a Presta «i diritti di sfruttamento economico di eventuali opere future d’ingegno del senatore» è del 30 luglio 2018. Come gli altri, presenta peculiarità non banali: se «per prassi» è l’artista che paga il suo agente, «nel contratto stipulato da Renzi con l’Arcobaleno Tre invece è quest’ultima che retribuisce il rappresentato».

Alla fine della fiera, i pm dicono che «dubbi» possono essere sollevati, che alcune affermazioni di Presta (come quelle sui soldi avuti da Mediaset) non sono state «confermate dalle indagini a riscontro», e che non si può dire con certezza se i progetti editoriali con Mondadori «siano o meno fumo negli occhi». Il «mero sospetto» è però irrilevante: piaccia o non piaccia, non essendoci prove decisive per sostenere a processo bisogna archiviare. Cartabia docet, e Renzi e Presta possono festeggiare.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI

Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Il "codice di Firenze". Così le toghe rosse riscrivono la giustizia. Un tribunale d'assalto tra sentenze creative e solite accuse a Renzi e Berlusconi. Luca Fazzo il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.

«Ha già sofferto abbastanza. Non processiamolo». E chi ha deciso se e quanto l'imputato ha sofferto, chi può calibrare l'incontro tra pietà umana e certezza del diritto? In quel tempio della giustizia creativa che è diventato da qualche tempo il palazzo di Giustizia di Firenze, succede anche questo. Che un giudice chiamato a processare un imprenditore per omicidio colposo, dopo che un manovale era precipitato dal tetto di un cantiere, decide di non condannarlo, di fermare il processo e di mandare gli atti alla Corte Costituzionale. Motivo: il morto era il nipote dell'imputato, e il dolore che lo zio si porta appresso è una pena naturalis che rende superflua la condanna. Piccolo dettaglio: nel frattempo il padrone dello stabile, non essendo parente del morto, è già stato condannato.

Sarà ora la Consulta a decidere se, come sostiene il giudice fiorentino, dichiarare colpevole l'imprenditore-zio sarebbe una «pena inumana», contraria pertanto alla Costituzione. Nell'attesa c'è da notare che il giudice che ha sollevato la questione, Franco Attinà, iscritto a Magistratura democratica, è un habituè dei ricorsi alla Consulta, che finora gli sono spesso andati male (l'ultima volta la Corte lo accusò di volersi sostituire al Parlamento, «ingerendosi nella valutazione operata dal legislatore»). E va anche notato che questo approccio creativo al diritto a Firenze non è praticato solo dal giudice in questione. Come se un refolo di genialità spirasse dall'Arno fin sul mastodontico palazzo di viale Guidoni.

A non accontentarsi di quel che dice la legge, sostiene per esempio da tempo Matteo Renzi, è la Procura fiorentina, guidata da Luca Turco anche lui per anni in Md - dopo che il vecchio capo Giuseppe Creazzo se n'era andato, portandosi dietro un procedimento disciplinare per molestie sessuali. Secondo l'ex presidente del Consiglio, Turco e i suoi pm hanno interpretato a loro modo (nel senso che se ne sarebbero più o meno infischiati) la sentenza della Cassazione che li obbligava a restituire a un imputato del caso Open il contenuto del suo telefono e del suo computer: però prima ne fecero la copia e la mandarono al Parlamento.

Altro più recente esempio di giustizia disinteressata alle banali regole formali è quanto avviene ieri, con la diffusione da parte dei pm fiorentini o dei loro consulenti o dei loro investigatori (altri non risulta che avessero in mano il documento) di una nuova perizia depositata nell'interminabile inchiesta contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri nientemeno che come mandanti delle stragi di mafia. Una perizia che scava su movimenti societari vecchi di quarant'anni, alla caccia di capitali mafiosi (di cui alla fine non trova traccia). La relazione dei pm finisce sui giornali, la Procura dovrebbe in teoria aprire una inchiesta su chi abbia fatto girare la carta, invece tutto tace. Sarà il codice penale del Granducato di Toscana.

A una sua orgogliosa autonomia dal resto del mondo la giustizia fiorentina è avvezza da sempre, basta ricordare che la Procura del campanil di Giotto fu l'unica a scontrarsi con quella milanese ai tempi di Mani Pulite. Così ora si presenta come l'ultimo ridotto della resistenza in toga, la trincea degli irriducibili, mentre nel resto d'Italia, pm e giudici ci rassegnano ad aspettare il 27 del mese.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” il 12 marzo 2023.

Ma che cosa sta succedendo a Matteo Renzi? Tra il 2014 e il 2016 si atteggiava a leader di caratura internazionale, cercava di spiccare a ogni consesso, con la camicia bianca in stile Barack Obama (o Pedro Sanchez, se preferite) e si mescolava alla folla, rivendicando con orgoglio: «La gente è la mia scorta». Nel 2018 si era persino vantato di avere solo 15.000 euro sul conto corrente nonostante l’esperienza da premier. […]

Poi nella sua testa (e in quella degli elettori) deve essere scattato qualcosa. Una volta caduto in disgrazia (politica), ha deciso di non nascondere più la sua vera natura, quella del presidente della Provincia non ancora trentenne che però all’Interrail e agli ostelli preferiva business class e alberghi a 5 stelle. Ha comprato una villa a Firenze, ha iniziato a fare vacanze di lusso, a esibire con orgoglio il denaro che guadagna a palate. […]

 E anche l’atteggiamento nei confronti della magistratura è cambiato. Il nostro arrivò a proporre come ministro della Giustizia quello che viene considerato, a torto o a ragione, uno dei pm più manettari d’Italia, il calabrese Nicola Gratteri. Adesso sta provando a mettersi alla guida di tutti gli orfani di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi nelle battaglie garantiste di chi ha qualche processo pendente. […]

[…] si è trasformato in un Pierino un po’ permaloso […] E intanto la magistratura, di cui aveva provato a scegliere i vertici, tagliando di cinque anni l’età pensionabile (ma lui nega fosse quello l’obiettivo della riforma), ha iniziato a spedire al mittente alcune delle decine di cause che presenta a ritmo incessante contro tutto e tutti, contro chi non gli riserva le tanto amate interviste senza domande, appannaggio delle solite due firme di un noto quotidiano milanese, gli ultimi giapponesi del Renzismo.

 Il giudice Susanna Zanda, recentemente, lo ha accusato di «usare il tribunale civile come una sorta di bancomat dal quale attingere somme per il proprio sostentamento, anche quando lo si coinvolge senza alcun fondamento». La stessa Zanda lo ha addirittura condannato a pagare 42.000 euro per «abuso dello strumento processuale», oltre ad altri 30.000 di spese legali.

Matteo prova a far valere le sue ragioni a suon di mosse del cavallo, flirtando con il Guardasigilli Carlo Nordio o piazzando qualche suo fedelissimo sugli scranni del Csm. Sotto le ruote del nuovo Renzi schiacciasassi ha avuto la sventura di finire pure un’innocua professoressa di Viterbo che il 23 dicembre 2020 lo aveva fotografato in un autogrill mentre parlottava con un importante 007, Marco Mancini, in un luogo certamente poco istituzionale.

 […] Se Renzi è diventato un querelante «professionista», anche i suoi genitori, visto che la mela non cade mai troppo lontano dall’albero, sono diventati frequentatori di tribunale, e non solo come imputati. Tanto da mettere nel mirino persino l’avvocato Guido Ferradini, uno dei primi petali del Giglio magico, che si definisce ancora «protorenziano» o «renziano prima di Renzi». Dopo che aveva lasciato la compagnia, i genitori del fu Rottamatore, nel 2018, lo hanno denunciato per un commento sulle vicende giudiziarie che li riguardavano e che il legale aveva condiviso privatamente sulla chat di Facebook con una collega penalista.

Poi quel messaggio era stato inoltrato, senza autorizzazione, dall’interlocutrice ai genitori, consentendogli di sporgere querela. Nel dicembre del 2019 è arrivata la richiesta di archiviazione, poi accolta dal Gip, da parte della pm Ester Nocera con queste motivazioni: «Gli elementi appaiono inidonei a sostenere l’accusa in giudizio […] laddove il messaggio è stato inizialmente indirizzato con chat privata e pubblicato senza il consenso dello scrivente (da parte di utente ignoto)». […]

Ferradini, perfetto anglofono, ama ricordare di quella volta che, in veste di interprete, volò con Renzi in America. Un racconto che ci restituisce un Matteo inedito, ma molto concreto. Le gesta dell’allora sindaco ci riportano alla mente, per le innate capacità di fundraiser, il senatore semplice che oggi dichiara 2,6 milioni di euro di redditi grazie a conferenze e consulenze (introiti messi a rischio dal disegno di legge sul divieto per i parlamentari di percepire emolumenti da Stati esteri presentato dal leader dei 5 stelle Giuseppe Conte).

[…] «Nel 2010 mi portò con sé (a spese mie) nel mitico viaggio negli Usa dove incontrò Obama per la seconda volta alla Conferenza dei sindaci statunitensi di Washington» rammenta Ferradini. […] «Alla riunione Matteo doveva fare un discorso che avevamo preparato insieme con Giuliano da Empoli. Montato sul palco, Matteo, però, andò a braccio ed ebbe un successo clamoroso perché… invitò tutti a Firenze. Facemmo visita anche ai senatori italo-americani, alla Fondazione Soros e a quella Marshall e ci recammo a battere cassa persino dal rabbino di New York.

Alla società National geographic Renzi si fece dare i soldi per fare le ricerche sull’affresco di Leonardo che, secondo alcuni, era occultato da un dipinto di Giorgio Vasari esposto a Palazzo vecchio. In queste cose era fenomenale. Ricordo l’entusiasmo di Matteo», conclude Ferradini, «che si fece largo tra centinaia di sindaci e schivò Joe Biden (allora vice) per parlare con il presidente. Al quale donò la spilletta di Firenze. Poi ci raccontò di avergli detto: “Hello mister Obama, I am the major of Florence”. E Obama sembra che rispose: “Florence, best restaurants in the world”». In seguito i due hanno avuto modo di conoscersi meglio e di approfondire insieme la passione per la cucina. Non sappiamo se anche quella per le querele.

Scontro in aula tra il senatore Renzi e il magistrato Turco. Il Dubbio il 10 marzo 2023

«Ma perché lei ha tutti questi quaderni? Lei non può portarli qui» avrebbe detto il pm della procura di Firenze. E Renzi ha risposto: «Ma come si permette? Lei non ha alcun titolo per dirmi che cosa portare e cosa no»

Nuovo scontro in aula tra Matteo Renzi e il sostituto procuratore Luca Turco durante l'udienza, questa mattina, al tribunale di Firenze per la richiesta di rinvio a giudizio, davanti al gup Sara Farini, per l'inchiesta sulla Fondazione Open in cui il senatore di Italia Viva è indagato, insieme ad altri, per finanziamento illecito ai partiti.

Quando il pm Turco è arrivato, apprende l'Adnkronos, Renzi era già in aula e gli si è rivolto dicendo: «Ma perché lei ha tutti questi quaderni? Lei non può portarli qui». E Renzi ha risposto: «Ma come si permette? Lei non ha alcun titolo per dirmi che cosa portare e cosa no. Decide il giudice, non lei. Faccia il suo e non si permetta».

Matteo Renzi è arrivato, alle ore 10.30, al palazzo di giustizia portando con sé alcuni libri. «E' il quaderno rosso per la toga rossa», aveva risposto Renzi ai cronisti che gli domandavano cosa fossero i volumi.

Estratto dell’articolo di Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 10 marzo 2023.

 Matteo Renzi ha presentato qualche settimana fa un esposto contro il procuratore aggiunto Luca Turco, che ha chiesto il rinvio a giudizio per lui a Firenze per finanziamento illecito nell’inchiesta Open, sollecitando a suo carico un’azione disciplinare. L’esposto del senatore è articolato in 20 ‘capi di accusa’ ed è stato inviato al procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, al ministro della Giustizia Carlo Nordio (competenti sull’azione disciplinare) ma anche al vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, potenziale giudice.

Il vicepresidente del Csm infatti è di diritto il presidente della sezione disciplinare del Csm che si occupa dei presunti misfatti disciplinari di pm e giudici. La questione posta da Renzi è talmente delicata da pretendere un giudice terzo. I pm hanno violato la legge o i doveri professionali nel procedimento Open colpendo ingiustamente il leader Italia Viva ed ex premier? O si tratta delle pretese di un politico che non si rassegna a fare l’imputato come i cittadini comuni?

Se il ministro Nordio o il procuratore Salvato decidessero di dare seguito alle accuse pirotecniche di Renzi, a sciogliere questo dilemma di enorme portata politica potrebbe essere l’avvocato (ora cancellato dall’albo per la sua nuova avventura al Csm) Pinelli. Il vicepresidente del Csm però potrebbe anche astenersi. Pinelli è stato uno degli avvocati difensori di Alberto Bianchi (già presidente della Fondazione Open nonché amico e coimputato di Renzi) proprio nel procedimento Open.

Lo stesso Renzi non ha fatto nulla per nascondere il passato ruolo di Pinelli di avvocato del coimputato Bianchi. Nella sua denuncia contro il pm al punto 7 Renzi scrive: “Il procuratore Turco ha volutamente ritardato l’iscrizione nel registro degli indagati nel procedimento Open di diversi attuali imputati tra cui il sottoscritto. Valga per tutti, per chiarezza della ricostruzione, la vicenda dell’imputato Alberto Bianchi, come perfettamente illustrato dall’avvocato Berardi nella seduta dell’udienza preliminare del procedimento Open del 27 gennaio 2023.

Nelle stesse condizioni dell’avvocato Bianchi si trovano il sottoscritto e altri imputati. Ma la memoria dell’avvocato Berardi – al vaglio adesso del Gup per i profili processuali – è straordinariamente chiara nell’evidenziare le responsabilità anche disciplinari del dottor Turco”. Il punto è che il professor Antonio Berardi è membro dello studio Pinelli fondato dal vicepresidente del Csm.

Berardi ha preso da poco tempo il posto dell’ex collega di studio Pinelli accanto all’avvocato Antonio D’Avirro ma ha già presentato corpose memorie difensive per Bianchi. Secondo La Stampa, l’avvocato Berardi avrebbe sostenuto in aula la tesi della “tardiva iscrizione nel registro degli indagati di Alberto Bianchi, presidente della fondazione Open” ma, come scrive Giuseppe Salvaggiulo il 29 gennaio, subito ripreso dal sito Dagospia e mai smentito da Pinelli, “quest’ultima eccezione era stata preparata dal suo difensore, Fabio Pinelli, nel frattempo eletto vicepresidente del Csm e quindi incompatibile con la professione.

La questione è stata illustrata dal suo socio di studio, Alberto Berardi, che lo sostituisce. Ed è uno dei temi su cui Renzi, dopo essersi congratulato col ‘bravissimo’ Pinelli a capo di un Csm ‘autorevole a differenza di quello precedente, che era imbarazzante’, ha annunciato nuove denunce contro il procuratore di Firenze, Luca Turco, tacciato di ‘malafede’”.

 La sensazione è che Renzi quasi auspichi che emerga pubblicamente il doppio ruolo di Pinelli, prima controparte del pm Turco e ora possibile giudice disciplinare del pm. […] Pinelli deve essere davvero bravo […] Ha rivestito anche un terzo ruolo: è l’avvocato che ha difeso il Senato davanti alla Corte Costituzionale per la questione del conflitto di attribuzione sollevata contro i soliti pm di Firenze dal solito senatore Renzi, per la solita inchiesta Open. […] La sensazione è che a Renzi comunque un’astensione del vicepresidente potrebbe non dispiacere.

Chi subentrerebbe a Pinelli come membro semplice della sezione disciplinare? Il Csm ha eletto come membro laico supplente Ernesto Carbone. Proprio lui. L’ex deputato renziano […] Nominato al Csm come laico ora potrebbe ritrovarsi a fare il giudice disciplinare del pm inviso al suo ex leader di partito. Insomma, se Pinelli si trova in una situazione che potrebbe consigliargli l’astensione, anche Carbone potrebbe essere in serio imbarazzo. […]  Carbone è stato membro del consiglio direttivo della Fondazione Big Bang, che poi lascia il posto a Open, dal 17 settembre 2012 all’11 novembre 2013.

 […] Insomma anche Carbone potrebbe essere indotto ad astenersi lasciando spazio a un supplente del supplente. Si tratta solo di ipotesi teoriche ovviamente. Nessuno sa se Nordio o Salvato eserciteranno l’azione contro Turco. Di certo i membri laici scelti dal Parlamento e poi dal Csm come giudici non sembrano ‘i più terzi’ in circolazione.

Estratto dell’articolo di Gustavo Bialetti per “La Verità” il 7 marzo 2023.

C’è modo e modo di perdere una causa. Di sicuro, Matteo Renzi si dimostra un fuoriclasse anche in questo campo. Ieri è riuscito a perderne una contro il Corriere della Sera beccandosi anche una bella ramanzina del giudice che nella sentenza ha scritto: «Il tribunale civile non è una sorta di bancomat». E lo ha condannato al pagamento delle spese processuali, ovvero 16.000 euro a favore del gruppo Rcs. Il senatore fiorentino aveva chiesto un risarcimento di 200.000 euro per un articolo del 4 dicembre 2019 dedicato all’inchiesta sulla fondazione Open, cassaforte e braccio operativo (oggi chiusa) della sua ascesa politica.

[…] il giudice, Susanna Zanda […]: «Al di là della infondatezza della domanda, ha una palese e ingiustificata carica deterrente, specie ove collocata nell’alveo di iniziative volte ad usare il tribunale civile come una sorta di bancomat dal quale attingere somme per il proprio sostentamento, anche quando lo si coinvolge senza alcun fondamento». Insomma, il fondatore di Italia viva farebbe causa ai giornali sia come «deterrente», sia per intascarsi qualche gruzzoletto. Eppure Renzi non è un indigente: ha un reddito dichiarato nel 2022 di 2 milioni e 584.000 euro, in gran parte grazie ai contratti di consulenza con l’Arabia Saudita. Al bancomat-giustizia però non sa resistere.

Renzi denuncia il pm Turco: «Una precisa strategia di delegittimazione». Il dossier contro il magistrato di Firenze è stato inviato anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al presidente del Senato Ignazio La Russa. Giacomo Puletti su il Dubbio il 22 febbraio 2023

Venticinquemila battute e un elenco di venti contestazioni minuziosamente descritte. È il contenuto dell’esposto che Matteo Renzi ha presentato alla procura di Genova, competente sui magistrati fiorentini, per denunciare «alle autorità destinatarie» il procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, mettendo nero su bianco quella che definisce «una precisa strategia di delegittimazione, se non di aggressione, di un dirigente politico, che presenta caratteristiche inedite nella storia repubblicana». E che riguarda in primis il processo Open, ancora in fase di udienza preliminare, e tutta una serie di indagini contro l’ex presidente del Consiglio.

Le «autorità destinatarie» sono il ministro della Giustizia Nordio, il vicepresidente del Csm Pinelli, il pg di Cassazione Salvato, la pg della Corte d’Appello di Firenze Piras, il procuratore capo di Genova Piacente e il comandante generale della Guardia di Finanza Zafarana. Ma Renzi si rivolge anche al presidente della Repubblica Mattarella, al presidente del Senato La Russa, al ministro dell’Economia Giorgetti, al sottosegretario con delega alla Sicurezza Mantovano e al presidente del Copasir Guerini. Insomma tutti, secondo Renzi, devono sapere «ciò che il dottor Luca Turco ha fatto negli ultimi mesi» a lui, alla sua famiglia e ai suoi amici.

«Giudichino le autorità competenti - scrive l’ex presidente del Consiglio nella denuncia - se questo modus agendi è conforme alle procedure e al buon senso o richieda un intervento quantomeno di tipo disciplinare». Ma qual è questo modus agendi che il leader di Italia viva contesta? Andiamo con ordine, seguendo il testo dell’esposto.

«Il Procuratore Turco ha inviato al Copasir nel marzo 2021 materiale sequestrato a Marco Carrai nell’ambito dell’indagine Open, che la Corte di Cassazione aveva ordinato di "non trattenere" nel febbraio 2021 - scrive l’ex presidente del Consiglio - Il materiale illegittimamente sequestrato conteneva numerosi dati personali sul sottoscritto e tale invio al Copasir, nei giorni successivi alla sentenza della Corte di Cassazione, appare come il tentativo di veicolare in sede istituzionale e politica materiale che non avrebbe dovuto nemmeno essere sequestrato, men che meno trattenuto».

Renzi parla poi del sequestro di corrispondenza nei suoi confronti «nonostante l’esplicita diffida inviatagli il 24 novembre 2020 alla quale egli non ha ritenuto di dovere neanche una risposta». I fatti citati giacciono in Corte costituzionale, visto che, come ricorda Renzi, il Senato sollevò sul punto un conflitto di attribuzione davanti alla Consulta, che l’ha giudicato ammissibile. «Indipendentemente dall’esito del giudizio - continua il leader di Iv - il dottor Turco ha deliberatamente ignorato una esplicita diffida proveniente da un senatore scegliendo altrettanto deliberatamente di non procedere alla richiesta delle autorizzazioni ex articolo 68 e non fornendo una risposta al sottoscritto che in spirito di collaborazione istituzionale aveva posto un problema puntuale».

Poi si arriva al punto in cui il senatore di Rignano sull’Arno denuncia il fatto che Turco «ha volutamente ritardato l’iscrizione nel registro degli indagati nel procedimento Open di diversi attuali imputati», tra cui lo stesso Renzi, e «ha volutamente evitato l’interrogatorio del sottoscritto in sede di chiusura delle indagini». Fino all’ormai celebre rissa verbale tra i due nel corso dell’udienza del 25 novembre scorso, quella in cui Turco ha definito Renzi «imputato principale» perché quello «con più visibilità mediatica» e nella quale, al termine della stessa, Turco ha chiesto conto a Renzi di un’intervista su La Stampa.

«Al termine del duro colloquio il pm esclamava: "Vada a denunciarci che gli uffici giudiziari di Genova chiudono presto" - scrive Renzi - e quando – a domanda esplicita – io rispondevo dicendo ad alta voce di non fidarmi dei magistrati dell’accusa, egli rispondeva accalorato "Fa bene a non fidarsi di me"».

Ma l’ex presidente del Consiglio denuncia inoltre sia l’uso su larga scala di finanzieri per sequestri che la Cassazione ha giudicato «viziati», sia quello che definisce «un evidente regime di humus persecutionis» nei confronti non solo suoi ma anche dei suoi parenti, a partire dai suoi genitori, Tiziano Renzi e Laura Bovoli.

Altro punto dirimente dell’esposto è la denuncia, da parte di Renzi, del fatto che Turco ha inserito il suo nome come chiave di ricerca nell’ambito di un sequestro del telefonino all’interno del procedimento nei confronti di Marco Carrai e sua moglie per un periodo in cui Renzi era già parlamentare. «Utilizzando il mio nome nel motore di ricerca - insiste Renzi - il procuratore Turco ha messo agli atti conversazioni del sottoscritto nel periodo in cui ero già senatore e conversazioni del tutto prive di rilievo penale con mia moglie, arrivando così a coinvolgere anche questa sfera dei miei affetti: il tutto senza preventiva autorizzazione parlamentare».

Insomma un’accusa punto per punto alla quale Renzi aggiunge anche le «contraddizioni» in cui sono più volte caduti sia il procuratore Nastasi sia il procuratore capo Creazzo (sanzionato disciplinarmente per molestia sessuale) sul caso David Rossi.

Ora la palla passa a Nordio, che ha già annunciato l’invio di ispettori a Firenze, e alla Procura generale della Cassazione, che possono decidere di promuovere l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati fiorentini.

Renzi denuncia il suo pm: "Atti illeciti contro di me". L’ex premier chiede a Nordio l’intervento del Csm «Nell’indagine Open violati i diritti della difesa». Luca Fazzo il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Si chiama Matteo Renzi la nuova grana che si ritrova sul tavolo il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Da ieri sera, quando nei suoi uffici di via Arenula è arrivata una lettera su carta intestata del Senato firmata dall’ex capo del governo, Nordio è investito ufficialmente dello scontro frontale che oppone Renzi ai vertici della Procura di Firenze: in particolare a Luca Turco, procuratore aggiunto della Repubblica, titolare dell’inchiesta «Open». Renzi, che di quell’indagine è il principale indagato, chiede a Nordio - che in quanto ministro è titolare dell’azione disciplinare a carico dei magistrati - di portare Turco sotto accusa davanti al Csm per una lunga serie di comportamenti che la lettera di ieri sera indica nel dettaglio. Venti episodi, tutti relativi all’inchiesta «Open».

Nordio si trova davanti a un’alternativa secca: fare partire l’impeachment di Turco, venendo incontro alle richieste di Renzi, ma aggiungendo un altro sassolino nei propri rapporti non facili con le correnti organizzate delle toghe; o lasciare cadere la richiesta, smentendo i propositi di rinnovamento che hanno accompagnato la sua candidatura e la sua nomina. Scelta difficile, come si vede.

Tra gli illeciti disciplinari che Turco secondo Renzi avrebbe commesso c’è di tutto. Si va dalla trasmissione al Copasir, cioè al Parlamento, di «numerosi dati personali del sottoscritto» che la Cassazione aveva ordinato di restituire senza fare copia, all’acquisizione senza autorizzazione del Senato del conto corrente bancario, che «ha poi consentito ai media di accedere all’intero estratto conto e pubblicare in modo dettagliato e puntuale movimenti privi di rilievo penale ma finalizzati a creare un clima di clamore mediatico intorno alla mia figura». Secondo l’esposto, Turco inoltre «ha volutamente ritardato l’iscrizione nel registro degli indagati nel procedimento Open di diversi attuali imputati tra cui il sottoscritto», violando i diritti della difesa.

La tesi di fondo di Renzi è che Turco ce l’ha su con lui, che non è sereno, che vuole affossarlo, e che per raggiungere l’obiettivo ha forzato regole in quantità. La dimostrazione più eclatante, secondo l’esposto, l’ha data lo stesso Turco nel corso dell’udienza del 25 novembre scorso quando «alzando il tono della voce, visibilmente irato, davanti agli avvocati presenti come testimoni e mostrando il proprio iPad con la edizione del quotidiano La Stampa» rimproverò Renzi per una intervista; e quando Renzi gli rispose «di voi non mi fido» Turco rispose «fa bene a non fidarsi di me». É lo stesso procuratore, sostiene ancora l’esposto, che utilizzò il nome «Renzi» come parola chiave per frugare nel telefono di Marco Carrai in un fascicolo poi archiviato e poi «ha messo agli atti conversazioni del sottoscritto nel periodo in cui ero già senatore e conversazioni del tutto prive di rilievo penale con mia moglie, arrivando così a coinvolgere anche questa sfera dei miei affetti».

Dice l’ex premier: «il Procuratore Turco ha operato in evidente regime di fumus persecutionis nei confronti miei e dei miei parenti, avendo egli dedicato gli ultimi sette anni della sua carriera a uno spropositato numero di procedimenti nei confronti di persone della mia famiglia». Turco, ricorda l’esposto, chiese e ottenne la cattura del padre e della madre di Renzi, «settantenni incensurati», subito liberati dal tribunale del Riesame.

E adesso cosa farà Nordio?

(Adnkronos il 10 febbraio 2023) - Gianfranco Vissani non ha diffamato Matteo Renzi, accostandolo a Adolf Hitler e criticandolo come "distruttore del Pd", e perciò non è tenuto al risarcimento dei danni a favore del senatore e leader di Italia Viva. Lo ha stabilito il giudice del Tribunale civile di Firenze, Susanna Zanda, con sentenza emessa ieri, giovedì 9 febbraio, alla presenza dello stesso Renzi.

 L'ex segretario del Pd, assistito dagli avvocati Lorenzo Pellegrini, Massimo Cesaroni e Niccolò Seghi, è intervenuto personalmente durante l'udienza per difendere le sue ragioni, mentre era assente Vissani. Renzi aveva un risarcimento di 435.000 euro.

 Lo chef era difeso dalle avvocate Cinzia Ammirati e Roberta Arditi. I fatti risalgono al 29 marzo 2018 quando lo chef intervenendo nella trasmissione televisiva "Quinta Colonna" su Rete 4, condotta dal giornalista Paolo Del Debbio, si espresse sui risultati delle elezioni politiche del 4 marzo precedente, che avevano registrato un vistoso calo dei consensi del Pd, di cui Renzi era segretario, passando dal 40% circa delle elezioni europee al 19% circa dei consensi. Alla domanda "Perchè, secondo lei, Renzi è finito?", la risposta di Vissani fu: "Non è che è finito… solamente ha fatto peggio di Hitler. Peggio di Hitler non l'ha fatto nessuno, lui l'ha fatto!". Subito dopo i commenti dello studio sull'accostamento con Hitler, lo chef aggiunse: "Come no? Ha distrutto un partito, l'ha portato a meno del 19%".

Per il giudice Zanda non c'è stata diffamazione, come reclamava Renzi, perchè si è trattato di una critica politica espressa da Gianfranco Vissani "con toni forti e pungenti". "L'accostamento della distruzione del partito democratico che dal 40% passa a meno del 19% alla figura di Hitler, a sua volta distruttore di un popolo di sei milioni di ebrei, per quanto forte e trasmodante - scrive il giudice nella sentenza - appare comunque agganciata a quel determinato fatto storico eccezionale delle elezioni 2018, che esprime un'emorragia di consenso come non si era visto da molti anni;

 l'opinione dello chef/opinionista, chiamato spesso nei salotti televisivi, che aveva richiamato il massimo distruttore ossia Hitler, non era idonea per il suo intero contenuto, a danneggiare la reputazione di Renzi, perché era stato spiegato contestualmente dal Vissani il senso dell'accostamento ad Hitler in termini di eclatante strage di voti e non di esseri umani".

Nella sentenza il giudice Zanda scrive anche: "l'accostamento ad Hitler era chiaramente riferito alla grave perdita dei consensi del partito democratico guidato da Renzi e dunque ad un suo ritenuto ruolo di 'distruttore' latamente inteso e accostato alla figura di Hitler. Siamo quindi in presenza di una critica politica, espressa con toni forti e pungenti, e certamente alla luce delle complete dichiarazioni del Vissani in quel contesto, nessun ascoltatore di media diligenza sarebbe stato indotto a cogliere in quell'accostamento la parificazione di Matteo Renzi all'Hitler sterminatore del popolo ebreo;

la forma espressiva è stata esagerata e sarebbe anche incontinente se si fosse limitata ad essere una mera critica politica; il fatto è però che non era una mera critica politica perché il Vissani non era né un avversario politico di Renzi, tenuto alla continenza espressiva, né un cittadino qualunque. Il Vissani era stato intervistato come 'opinionista' e dove dunque viene in gioco l'interesse pubblico a sentire anche la specifica opinione dell'intervistato nella sua interpretazione di quel fatto, riguardante il partito diretto da Matteo Renzi".

È stata la giudice del "vaccino disumano" a condannare Renzi per la carta igienica. Per la toga No vax Zanda il siero anti Covid è "sperimentale e pericoloso". Annarita Digiorgio il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.

C'è un giudice che durante la pandemia è diventata leader dei no vax, per aver emesso una ordinanza prima, e una sentenza poi, che reintegrava una psicologa non vaccinata che, secondo la legge, era stata sospesa dall'ordine.

Si chiama Susanna Zanda, magistrato al tribunale di Firenze. Oggi quella stessa giudice ha condannato Renzi a pagare le spese a Marco Travaglio, che l'ex premier aveva citato per danni morali. Nelle due ordinanze no vax il giudice Zanda ha scritto parole intrise di ideologia e pregiudizio, tipiche del movimento no vax: «Dopo l'esperienza del nazi-fascismo non consente di sacrificare il singolo individuo per un interesse collettivo vero o supposto e tantomeno consente di sottoporlo a sperimentazioni mediche invasive della persona, senza il suo consenso libero e informato». Per il giudice di Firenze la vaccinazione quindi è una sperimentazione: «Neanche un solo cittadino europeo può essere, quindi, sacrificato per una sperimentazione medica, o per altri motivi, perché la dignità umana è inviolabile e perché LA LEGGE NON PUÒ IN NESSUN CASO VIOLARE I LIMITI IMPOSTI DAL RISPETTO DELLA PERSONA UMANA» (lo ha scritto maiuscolo nella sentenza).

Susanna Zanda cita «il pericolo segnalato da ricercatori universitari indipendenti di vari stati di un'alterazione dei codici della vita, vietata dalle norma internazionali e che potrebbe esporre stabilmente il vaccinato all'incapacità di dare una risposta immunitaria adattativa efficace non solo per il covid 19 e per la stessa formazione fisiologica di cellule tumorali».

Nella sentenza scrive parole fortemente criticate dalla comunità scientifica: «si è provocato un fenomeno opposto a quello che si voleva raggiungere, ovvero un dilagare del contagio con la formazione di molteplici varianti virali e il prevalere numerico delle infezioni e decessi proprio tra i soggetti vaccinati con tre dosi». Per la giudice: «epidemie anche più gravi con tasso di letalità anche 10 volte maggiore del Sars Cov 2 sono sempre state gestite da 40 anni a questa parte con il potere di ordinanza senza creare allarme sociale e segregare le persone al domicilio per un tempo significativo privandole di tutte le libertà».

Per quelle parole in tutti i siti no vax d'Italia è diventata «la giudice del popolo», la paladina delle libertà, con appelli in suo sostegno. La Zanda era già rimbalzata alle cronache per una sentenza molto contestata (ma già applaudita sulle pagine del Fatto Quotidiano) con cui aveva ordinato la rimozione di un impianto WiFi da una scuola perché ritenuto pericoloso per la salute, sentenza poi ribaltata in quanto fondata su teorie prive di evidenze scientifiche. Oggi viene lodata da Travaglio per aver emesso una sentenza «che è una lezione su satira e potere».

Renzi aveva querelato Travaglio per aver esposto in una intervista tv un rotolo di carta igienica con la faccia dell'ex premier. Zanda assolve Travaglio perché «un personaggio politico in uno Stato democratico deve tollerare immagini satiriche della sua persona e del suo volto, anche impresse su gadget come quello di causa, perché solamente in un regime totalitario è vietato criticare o ridicolizzare un personaggio politico». La sentenza sul reintegro della psicologa no vax venne condannata dall'allora ministro Speranza: «Per cultura politica rispetto sempre il lavoro dei magistrati, ma questa sentenza è assolutamente irricevibile e priva di ogni evidenza scientifica. È una sentenza di cui ci dobbiamo vergognare». Oggi che viene condannato l'avversario politico, Speranza non si vergogna. Ma la penna che ha emesso quella sentenza è sempre la stessa. E forse, a proposito di psicologi, non sarebbe male rispolverare la proposta dei test psicologici per l'ingresso in magistratura. In attesa del Csm.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 3 Febbraio 2023.

[…] Renzi, approfittando del casino generale, se la prende non con Cospito, non col Pd, non col governo, ma con Scarpinato, che ha il doppio torto di essere un ex magistrato antimafia e un senatore 5Stelle. Due i capi d’accusa.

 1) “Ha costruito una carriera in magistratura e in politica in nome di una fantomatica trattativa Stato-mafia, smentita dalla Cassazione”. Purtroppo Scarpinato non ha mai seguito né l’inchiesta né il processo Trattativa (era pg di Caltanissetta e poi di Palermo); e il processo non è ancora giunto alla Cassazione, che dunque non può avere smentito nulla. Ma, se anche in futuro confermasse la sentenza d’appello, confermerebbe la Trattativa, che anche i giudici di secondo grado hanno accertato, pur assolvendo politici e Ros perché trattarono coi boss per il nostro bene.

2) “Scarpinato dovrebbe spiegare le sue strane frequentazioni con Palamara e il suo atteggiamento folle nei confronti delle Istituzioni, come sa bene Napolitano. Scarpinato si deve vergognare”. Nelle migliaia di chat fra Palamara e centinaia di magistrati, non ne risulta neppure una con Scarpinato, di cui Palamara (con altri) parlava malissimo. Napolitano sa bene che a intercettare doverosamente Mancino, allora indagato per falsa testimonianza, anche quando parlava con lui e col suo consigliere D’Ambrosio, fu la Procura di Palermo mentre Scarpinato era a Caltanissetta. Quindi è Renzi che si dovrebbe vergognare, se sapesse cos’è la vergogna.

Estratto dell’articolo di Luigi Franco per ilfattoquotidiano.it il 4 Febbraio 2023

Costerà cara a Matteo Renzi la causa promossa contro Marco Travaglio per il celebre rotolo di carta igienica con sopra la sua faccia comparso in diretta tv alle spalle del direttore del Fatto Quotidiano. L’ex premier aveva chiesto ben 500mila euro per i danni “morali, esistenziali, patrimoniali e non patrimoniali” causati da quel gadget da scaffale e da una cartolina in cui il volto dell’ex premier era accompagnato da un segnale di pericolo e da feci.

 “Feci umane fumanti”, le aveva definite l’ex premier nell’atto di citazione. Ma ora a pagare sarà lui, perché il tribunale di Firenze ha stabilito che l’episodio non comportò alcuna diffamazione e che anzi Renzi, per aver abusato dello strumento processuale, dovrà risarcire Travaglio con 42mila euro, oltre ad altri 30.641 tra spese legali, oneri accessori e Iva.

 La sentenza della giudice Susanna Zanda ricostruisce la vicenda dando atto del fatto che rotolo di carta igienica e cartolina non erano quasi nemmeno visibili durante il collegamento di Travaglio a Tagadà su La 7. Tant’è vero che nelle ore subito dopo la trasmissione nessuno aveva parlato in Rete o sui social di quel rotolo di carta igienica.

Solo il giorno successivo erano iniziati a circolare, rilanciati dal quotidiano online Open, alcuni fotogrammi ingranditi in cui si riconosceva il volto di Renzi. E nemmeno si poteva incolpare Travaglio, che durante il collegamento non aveva detto nulla di diffamatorio, di aver posizionato quegli oggetti apposta dietro di sé per realizzare “una tecnica comunicativa ad hoc, finalizzata ad inviare messaggi mediatici particolari”, come avevano sostenuto i legali di Renzi.

Quei gadget sono venduti su Ebay e Amazon anche con i volti di altri politici, ritratti “scherzosamente”. Oggetti non accostabili al concetto di diffamazione quanto piuttosto a quello di satira. “Le vendite di questi prodotti sono lecite – scrive la giudice – per cui è verosimile che trattasi di regalo o gadget recapitato a Travaglio e da lui riposto tra i vari regali nella sua libreria della stanza personale”.

E qui arriva la lezione di democrazia che la giudice dà all’ex presidente del consiglio: come ribadisce la Corte di giustizia europea, “la satira è espressione di libertà democratica e un uomo politico deve sempre tollerarla indipendentemente dal contesto di critica politica, mettendo in conto di essere sottoposto a caricature, accostamenti ridicolizzanti anche privi di significati politici ben precisi. La satira ai politici è l’anima della democrazia perché solo nei regimi totalitari la satira è vietata e gli uomini politici non possono essere rappresentati in forma satirica caricaturale e ridicolizzante”.

 Dunque, sottolinea la sentenza, “se anche si volesse intendere che in un’intervista televisiva si possa prescindere dalle parole dell’intervistato per dare valore, invece, agli oggetti posti in secondo piano e alla loro valenza comunicativa (…), resta comunque il fatto che un personaggio politico in uno stato democratico deve tollerare immagini satiriche della sua persona e del suo volto, anche impresse su gadget come quello di causa, perché solamente in un regime totalitario è vietato criticare o ridicolizzare un personaggio politico”.

(...)

G. Sal per La Stampa il 29 gennaio 2023.

Nuova udienza del processo per corruzione e finanziamento illecito legati alla fondazione Open. Per quattro ore gli avvocati degli imputati hanno presentato 14 eccezioni preliminari, tra cui richiesta di trasferimento di pezzi del processo a Roma e al tribunale dei ministri; incostituzionalità dei sequestri delle mail; violazione dell'immunità parlamentare sule chat di Renzi e Lotti; illegittimo rinnovo della richiesta di sequestro del computer di Carrai, già bocciata dalla Cassazione; tardiva iscrizione nel registro degli indagati di Alberto Bianchi, presidente della fondazione Open.

Quest'ultima eccezione era stata preparata dal suo difensore, Fabio Pinelli, nel frattempo eletto vicepresidente del Csm e quindi incompatibile con la professione. La questione è stata illustrata dal suo socio di studio, Alberto Berardi, che lo sostituisce. Ed è uno dei temi su cui Renzi, dopo essersi congratulato col «bravissimo» Pinelli a capo di un Csm «autorevole a differenza di quello precedente, che era imbarazzante», ha annunciato nuove denunce contro il procuratore di Firenze, Luca Turco, tacciato di «malafede». Denunce disciplinari di cui, eventualmente, si dovrà occupare lo stesso Csm.

Marco Grasso per “Il Fatto Quotidiano” – ESTRATTO il 29 gennaio 2023.

Sfotte i magistrati che lo accusano: “Gli avvocati oggi hanno dato loro una straordinaria lezione di diritto”. Evoca nuovi esposti: “I pm hanno commesso gravi violazioni disciplinari, li denuncerò di nuovo prima del 10 marzo”. Si complimenta per l’elezione del nuovo Csm e lancia un messaggio che suona come un avvertimento: “Ci vuole un organo di autogoverno dove se un magistrato sbaglia, paga”.

La denuncia, annunciata nei confronti del procuratore aggiunto Luca Turco e del sostituto Antonino Nastasi, riguarderebbe presunte violazioni disciplinari: “Si tratta di questioni tecniche legate alla mancata tempestività dell’iscrizione sul registro degli indagati e il materiale inviato al Copasir. Alla fine in questa vicenda ho l’impressione che la legge l’abbiano violata gli altri”, ha spiegato Renzi.

 “Spero che il pubblico ministero – riferendosi a Turco – abbia ripreso un po’ di serenità. L’ultima volta aveva perso le staffe”.

Un primo esposto contro i magistrati fiorentini è già stato archiviato dal Tribunale di Genova, competente a giudicare eventuali reati commessi da colleghi toscani, un altro paio sono ancora pendenti.

Davanti ai giornalisti, Matteo Renzi ha commentato anche l’elezione del nuovo Csm, augurandosi che “faccia meglio dell’ultimo”, a suo dire “indegno”: “Un augurio di buon lavoro al vicepresidente Fabio Pinelli, era qua nell’ultima udienza nel collegio difensivo di Alberto Bianchi. È un bravissimo avvocato. Adesso è vicepresidente del Csm, una delle più alte cariche dello Stato e noi gli facciamo tanti auguri”.

La prossima udienza è stata fissata il 10 marzo. Renzi è accusato di finanziamento illecito ai partiti. L’ipotesi della Procura di Firenze è che la sua Fondazione Open, che organizzava la kermesse della Leopolda facendo il pieno di finanziamenti privati, fosse in realtà un’articolazione di partito, e in particolare della corrente renziana del Pd, e pertanto dovesse sottostare alla normativa sul finanziamento alla politica. Con lui sono indagati l’ex tesoriere di Open Alberto Bianchi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti e l’imprenditore Marco Carrai.

Sui conti di Open, secondo le accuse, sarebbero transitati fondi per 3,5 milioni in modo illegittimo. Lotti è indagato anche per corruzione per gli emendamenti che avrebbero favorito due finanziatori, la British American Tobacco e il gruppo autostradale Toto.

Claudio Bozza per corriere.it il 19 gennaio 2023.

 Nel 2021 Matteo Renzi ha guadagnato 2,6 milioni. È questo l’ammontare dell’ultima denuncia dei redditi che tutti i parlamentari, secondo quanto previsto dalla legge, devono depositare presso Camera o Senato. Per l’ex premier, ora leader di Italia viva, è un boom dopo la forte battuta d’arresto causata dal Covid.

Nel corso della pandemia, infatti, l’attività di conferenziere di Renzi era drasticamente rallentata: per quanto riguarda le attività del 2020, il 730 di Renzi ammontava a 488 mila euro (nel 2019 era sopra il milione).

 Ora i viaggi in giro per il mondo, dalle Bahamas agli Emirati arabi passato per le capitali europee, sono ripartiti, assieme agli affari privati del senatore di Firenze.

 Nel 2022, dato ancora non pubblicato perché rientrerà nella prossima denuncia dei redditi, l’ex premier si è dimesso dal board di Delimobil, colosso russo del car sharing, il cui accordo prevedeva un milione di stipendio. Nel giorno dell’invasione dell’Ucraina Renzi si è però dimesso, rinunciando a quasi tutti gli emolumenti ancora non percepiti: 880 mila euro.

Solo nelle ultime settimane (come aveva raccontato il Corriere), il personalissimo tour d’affari dell’ex presidente del Consiglio ha toccato — e non per forza in quest’ordine — Tokyo, Atene, Miami, Riad, le Bahamas, Zurigo, Londra, Bangkok, Cipro. Tre continenti su cinque, con viaggi e fatture che nell’ultimo mese e mezzo hanno fatto decollare il fatturato di Renzi, che tra l’indennità da senatore e la sua attività privata è appunto arrivato a 2,6 milioni annui.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 20 Gennaio 2023.

L’uomo più ricco dell’opposizione (si fa per dire) in Parlamento è Matteo Renzi.

Nel 2021 avrebbe guadagnato nientepopodimeno che 2,6 milioni di euro. Ieri sul sito del Corriere della Sera si leggeva che l’ex premier avrebbe «fatto il pieno grazie alle conferenze in giro per il mondo, dopo il blocco per la pandemia» che aveva fatto crollare la dichiarazione dei redditi per il 2020 a 488.000 euro.

Quello del 2021 è un vero exploit se si considera che per il 2018 il senatore di Italia viva aveva denunciato un imponibile di circa 800.000 euro e per il 2019 di poco superiore al milione. Sono ormai lontani i tempi degli stipendi risicati, dei mutui pagati a fatica e delle polemiche per l’acquisto di una villa da 1,3 milioni di euro, comprata utilizzando un prestito di 700.000 euro, un «buffo» rapidamente ripianato grazie a un contratto di pari valore con la Arcobaleno 3 di Lucio Presta per presunte prestazioni televisive che gli sono valse un’accusa di finanziamento illecito.

Noi per primi avevamo iniziato a scavare nell’attività di conferenziere dell’ex sindaco di Firenze, a partire dall’ottobre del 2018, quando intervistammo la donna che lo aveva lanciato nel mondo degli oratori a gettone sul sito Celebrityspeakers.it. La napoletana Marina Leo ci aveva spiegato che in quel momento ingaggiarlo costava 20.000 euro. E all’epoca Renzi era primo ministro uscente e segretario del Pd.

Con quel tipo di tariffa per incassare 2,6 milioni di introiti, considerando anche lo stipendio da senatore, il nostro avrebbe dovuto fare il relatore in almeno 120 convegni ogni anno. Considerando un giorno per il viaggio di andata, uno per l’intervento e uno per il ritorno, ecco che Renzi avrebbe dovuto impegnare tutto il calendario annuale, domeniche e feste comandate comprese.

 Sul suo profilo Linkedin erano indicati 25 eventi tra il maggio 2018 e il novembre 2019 (data dell’ultimo aggiornamento presente sulla pagina), insomma un numero del tutto insufficiente a incamerare somme come quelle dichiarate unicamente con le conferenze. Evidentemente Matteo non fa solo l’oratore e questo ci era già abbastanza chiaro.

In effetti nemmeno il suo biografo autorizzato sul Corriere della Sera ha scritto nel pezzo che gli emolumenti arriverebbero solo dagli speech.

 È stato più sfumato: «Ora i viaggi in giro per il mondo, dalle Bahamas agli Emirati arabi passando per le capitali europee, sono ripartiti, assieme agli affari privati del senatore di Firenze […]. Solo nelle ultime settimane, il personalissimo tour d’affari dell’ex presidente del Consiglio ha toccato - e non per forza in quest’ordine - Tokyo, Atene, Miami, Riad, le Bahamas, Zurigo, Londra, Bangkok, Cipro. Tre continenti su cinque, con viaggi e fatture che nell’ultimo mese e mezzo hanno fatto decollare il fatturato di Renzi».

Che evidentemente punta a sfondare il muro dei tre milioni. Ma il già citato biografo ci fa pure sapere che il fu Rottamatore, bontà sua, ha rinunciato, per dare «un segnale», ai rubli della discussa Delimobil, società di car sharing russa dal cui board il giorno dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina. «L’accordo prevedeva un milione di stipendio» e Matteo «si è, però, dimesso, rinunciando a quasi tutti gli emolumenti ancora non percepiti: 880 mila euro» si legge nell’articoletto. Quindi almeno 120.000 euro provenienti da Mosca dovrebbe averli incassati.

 La Delimobil, con sede nella capitale russa, nell’autunno del 2021 era in procinto di sbarcare a Wall Street e proprio dai documenti della quotazione era riportato il compenso complessivo per i consiglieri: 83 milioni di rubli, circa un milione di euro, da dividere in nove. Adesso sappiamo che quei soldi erano praticamente tutti per Renzi.

 Prima della rottura da Italia viva avevano fatto sapere che il loro caro leader era «molto felice di collaborare all’attività della società Delimobil» e che stimava il socio di riferimento, il quarantasettenne napoletano Vincenzo Trani. Dunque Renzi non fa solo il conferenziere. A settembre il quotidiano Il Domani aveva rivelato che l’estate scorsa l’ex primo ministro aveva partecipato ad Atene a un incontro riservato organizzato dal suo amico il principe saudita Mohamed bin Salman.

Tra i presenti anche Eva Kaili, l’allora vicepresidente dell’Europarlamento successivamente arrestata nel cosiddetto Qatargate. Il primo ministro albanese Edi Rama, presente al summit, spiegò: «Sono andato ad Atene perché Mbs è un amico, e perché ha la grande ambizione di portare energia elettrica prodotta con pannelli fotovoltaici in Arabia Saudita verso la Grecia, verso i Balcani, e poi l’Europa: sarebbe una risorsa eccezionale per sostituire il gas russo, e più in generale gli idrocarburi. Perché Renzi era lì? Mi è parso molto dentro al progetto di Bin Salman di esportare verso l’occidente dell’energia solare saudita».

Una segnalazione di operazione sospetta del dicembre 2021 e pubblicata da alcuni quotidiani a febbraio aveva evidenziato una serie di bonifici da 8.333 euro inviati all’ex premier dalla ditta cinese «Matteo relazioni pubbliche internazionali limited», controllata da un’altra società cinese, la Ciao international public relations Beijing Co., Ltd che controlla un think tank nel Paese del Dragone e che sarebbe entrata in contatto con Renzi per il tramite della Leo, presentata nel 2019 dai media cinesi come «assistente» dell’ex premier.

 Ma quei pagamenti mensili non sarebbero per le conferenze, bensì per una non meglio specificata consulenza, come ci ha confidato l’anno scorso la Leo. Che aggiunse: «Non posso andare oltre. Faccia lei le sue verifiche».

Sicuramente Renzi in Cina ha partecipato a eventi organizzati dal governo come l'International leaders summit di Pechino e si è fatto promotore di partnership in questo e quel settore. Nella segnalazione era anche quantificato per la prima volta il peso economico dei rapporti con bin Salman. In quella Sos erano elencati un bonifico da 570.000 euro della Royal commission for Alula e un altro da 66.000, equivalente al gettone per un posto da consigliere nel board della fondazione Future investiment initiative.

 Nell’aprile del 2021 l’ex capo del governo aveva confermato di aver firmato un intervento «per promuovere gli interventi di rilancio dell’antica città araba di Alula, patrimonio Unesco» e di essere entrato «nel board della Commissione reale per Alula, presieduta direttamente dal principe Bin Salman».

Nella dichiarazione sulla sua situazione patrimoniale depositata in Parlamento Renzi ha indicato come beni immobili a lui intestati metà della villa di Firenze, un quarto della nuda proprietà della casa e dei terreni dei genitori a Rignano sull’Arno, due auto del 2018 (una Land Rover RR Sport e una Mini Cooper Sd Sport) e le quote della sua società, fondata nel 2021, la Ma.re. consulting, di cui è socio unico ed amministratore. La ditta, però, non è ancora decollata.

 Il bilancio del 2021 è stato chiuso con un desolante fatturato di 0 euro e una perdita di esercizio di 1.145 euro. L’assemblea per approvarlo si è svolta nella casa-ufficio di Renzi vicino a piazza di Spagna ed è intervenuto come segretario l’amico avvocato Francesco Bonifazi. Nel verbale si legge: «L’assemblea dei soci all’unanimità delibera di approvare il bilancio […] e di portare a nuovo la perdita dell’esercizio […] la quale risulta essere inferiore a un terzo del capitale sociale». Per fortuna di Renzi, all’estero, gli affari procedono decisamente meglio.

Dagospia il 19 gennaio 2023. «"Tu m'hai rotto i c****oni! La devi smettere, tu e il tuo giornale del ca**o, le tue str****e!". Io vengo sotto casa tua e ti spacco le gambe": questo mi disse al telefono l'allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi il 23 dicembre del 2013 o 2014».

 Altra puntata di "A casa Sallusti", il format che trovate su https://www.liberoquotidiano.it/piulibero/ in cui il notissimo direttore di Libero, intervistato da Klaus Davi, racconta in esclusiva aspetti privati della propria vita. Stavolta il Direttore ci parla del suo rapporto con Matteo Renzi: «Io penso ancora che fare politica sia una cosa nobile e come tutte le cose nobili andrebbe rispettata. Quindi io sono sempre stato portato a rispettare i leader politici, anche quelli opposti a me. Con Renzi avevo un ottimo rapporto, l'ho sostenuto.

L'ho sostenuto perché lui voleva rottamare la parte sinistra del PD, cioè i comunisti. Io per 2 volte su Il giornale avevo fatto il titolo "Forza Renzi", uno che vuole rottamare i comunisti. C'è un aneddoto: Montanelli teneva sulla sua scrivania un busto di Stalin e un giorno venne a trovarlo al Giornale Nilde Iotti che si stupì di trovare questo busto di Stalin e gli disse "Ma proprio lei tiene il busto di Stalin?", "Ma certo Presidente Iotti, ha fatto fuori più comunisti lui di tutti gli altri...", rispose Montanelli.

In effetti Renzi voleva far fuori i comunisti della sinistra Italiana, ben venga, "Forza Renzi", e nacque un bellissimo rapporto tra di noi. Tant'è vero che quando lui diventò Primo Ministro, siccome quando andava in televisione voleva sempre una specie di controparte, almeno qualche giornalista che non fosse dichiaratamente del PD, della sua banda, chiedeva sempre "Mi chiamate Sallusti?", perché lui si fidava.

Una vigilia di Natale, non mi ricordo di che anno ma lui era Premier quindi era il 2013/2014, mi suona il telefonino, era il 23 dicembre, era Palazzo Chigi che mi passava il Presidente del Consiglio: io lo saluto e lui mi disse "Come stai un c***o! Tu m'hai rotto i c****oni!", al che io gli ho chiesto se eravamo su "Scherzi a parte" ma lui "Ma quale Scherzi a parte, tu la devi smettere, tu e il tuo giornale del ca**o"; poi gli chiesi cosa fosse successo ma lui "Leggilo il tuo giornale del ca**o, le tue str*****e!". Io non riuscivo neanche a capire bene, a un certo punto mi dice "Perché io vengo sotto casa tua e ti spacco le gambe", il Presidente del Consiglio a un direttore di un giornale.

Allora passo a dargli del lei: "Scusi Presidente, io vengo da Como e ho un rispetto sacrale del Presidente del Consiglio, chiunque esso sia, però se lei la mette su questo piano io voglio dire al Presidente del Consiglio italiano, spero che sia la prima e ultima volta, vada a fare in c**o", e gli appendo il telefono. Non ci siamo parlati per due anni. Poi ho capito cosa contestava: c'era un articolo che non gli era piaciuto su Elena Boschi, perché poi sempre lì si andava a parare.

Per un articolo che non gli piaceva su Elena Boschi mi ha detto "vengo sotto casa tua e ti spacco le gambe"... Abbiamo fatto pace nel 2017, nei giardini del Quirinale alla festa del 2 giugno: c'era un ricevimento al Quirinale con tutti i direttori dei giornali, politici, insomma c'era il mondo, e la mia compagna (che non voglio indagare perché conosceva Renzi o avesse avuto a che fare con lui...) mi disse di smetterla e di andare da lui, insomma ci ha fatto far pace. Abbiamo quindi fatto pace ed è rinato un rapporto, non più fluido come prima, ma un bel rapporto».

L'ex ministra si racconta. Maria Elena Boschi: “Mi manca il potere, Meloni è caparbia, sola e aggressiva”. Vito Califano su Il Riformista il 3 Marzo 2023

Maria Elena Boschi pensa che se è stata la destra portare per la prima volta nella storia della Repubblica una donna a Palazzo Chigi è perché “Meloni è stata più brava. Le va riconosciuto: si è conquistata tutto da sola. È stata coraggiosa e ha avuto anche fortuna”. L’ha definita in tre aggettivi: caparbia, sola, aggressiva. “A lei e a Fratelli d’Italia, in particolare a Donzelli, addebito il fatto di aver picchiato duro sulla vicenda di mio padre, su Banca Etruria. Con insinuazioni e strumentalizzando una vicenda giudiziaria in maniera squallida, cosa che io non ho mai fatto quando è stato arrestato per bancarotta il fratello di Donzelli o altri di loro sono finiti indagati. Ma soprattutto: nessuno di loro ha chiesto scusa a mio padre”.

La deputata ed ex ministra ai Rapporti con il Parlamento si è raccontata in una lunga intervista a Sette, il settimanale de Il Corriere della Sera. Pierluigi Boschi, il padre, già vicepresidente di Banca Etruria è stato assolto completamente dal processo durato sette anni. “Abbiamo pianto. È stato un senso di liberazione e giustizia. Qui non c’è stata malagiustizia. Ma ingiustizia profonda per come è stato trattato mio padre dall’opinione pubblica, dai media e soprattutto dagli avversari politici. Abbiamo subito umiliazioni”. Lei stessa si è sentita in colpa per come il padre è stato trattato. “Se lui non fosse stato mio padre e io non fossi stata al governo … Lui sarebbe stato al pari di molti altri sconosciuti. A casa, a Laterina, abbiamo dovuto costruire un cancello e una recinzione. Avevamo le televisioni fisse fuori da casa. Per anni abbiamo avuto carabinieri e polizia fissi davanti a casa”.

Il collega che Boschi stima di più è Matteo Renzi, “altrimenti non avrei continuato a seguire in modo così convinto questo progetto sempre, inclusi i momenti più duri”, ma ha grande considerazione anche di Guido Crosetto e Carlo Nordio. L’obiettivo del Terzo Polo sono le elezioni del 2024. “Non ci votano però solo i ceti più agiati, ma anche tanti giovani e questo ci dà speranza. Noi vogliamo parlare alla classe media, ma non è che non consideriamo chi è in difficoltà economica”.

Se per potere s’intende quello di far accadere le cose, sì, mi manca (la politica, ndr). Ero un po’ la ‘donna macchina’: mi occupavo dei dossier e seguivo soprattutto la parte parlamentare. Se invece ripenso all’idea di stare da sola sabato e domenica a Palazzo Chigi, sepolta dalle carte da firmare, direi proprio di no”. Boschi oggi è fidanzata con Giulio Berruti. Convivono. A lei piacerebbe sposarsi. Lui ora sta girando una serie con la sorella di Elon Musk negli Stati Uniti, ad Atlanta. Stanno insieme da quasi tre anni. Si sono incontrati quasi per caso una decina di anni fa, all’Auditorium di Roma. Lei era circondata dalla sicurezza.

Ecco perché la politica le è costata “molto in termini di vita privata. Specie durante il governo, per quasi 5 anni, ho vissuto sempre sotto i riflettori. Riuscivo solo, ogni tanto, a tornare a casa dalla mia famiglia e dai miei amici. Non mi bastavano mai le giornate. Era una roba di adrenalina, impossibile staccarsi dal telefono, perché c’era sempre un’urgenza. E so cosa significa passare dai complimenti — con tutti che ti cercano — alle contestazioni in piazza per il referendum. Poi siamo arrivati quasi alla morbosità: non avevo una sfera privata. A 32 anni ero protetta da un livello di sicurezza molto alto, era anche impossibile per un mio coetaneo avvicinarmi, figuriamoci corteggiarmi. Anche in ascensore, non ero mai sola”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il ricordo dell'ex parlamentare Prc. Chi era Elettra Deiana: femminista, marxista e disobbediente. Linda Santilli su Il Riformista il 10 Febbraio 2023

Elettra Deiana è stata una donna poliedrica e per questo è difficile ricordarla in poche righe. Ancora più difficile è farlo con lo sgomento nel cuore, che non si alleggerisce pur sapendo che la sua dipartita da questo mondo per lei è stata una liberazione. Parlarne al passato è ancora quasi impossibile. Il vuoto incombe insieme alla paura di non saper proseguire, in questo mondo alla deriva di senso, senza le sue analisi acute.

Senza poter attingere a quella sua straordinaria attitudine al pensiero obliquo piuttosto che lineare, allo “scarto” dello sguardo sul mondo – come amava definirlo – che così tanto ci ha aiutato in questi anni a vedere quello che “da fuori” non si vede e a illuminare gli angoli nascosti e imprevisti degli accadimenti per poterli leggere. Rigorosa eppure una nomade del pensiero come poche. Intellettuale marxista raffinata, teorica e militante femminista combattiva, dirigente comunista libertaria e anti-dogmatica. Ha portato il suo essere pacifista nelle aule parlamentari, eletta con il Prc. Nei suoi due mandati in commissione difesa, quando interveniva in Aula sui temi della pace attaccando le nuove dottrine militari relative alla guerra globale e preventiva, si faceva silenzio. Era autorevole.

Elettra è stata tante cose. Ma soprattutto è stata una donna libera. Andava fiera delle sue origini sarde. Le donne di quella terra – diceva – sono forti, sanno essere silenti ma anche diventare impetuose e farsi spazio nel mondo. E a lei questo impeto di sicuro non è mancato. La sua vita l’ha costruita ad aprire varchi alla libertà per sé e per chi con lei ha condiviso l’avventura politica di cambiare il mondo. Un’avventura lunghissima la sua, che prende il via con i movimenti del ’68, tra Roma e Milano, insieme al suo compagno di vita, Edgardo Pellegrini, nei gruppi della nuova sinistra, il trotskismo, l’impegno nei Comitati Unitari di base con gli operai delle grandi fabbriche del nord, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista, poi Sel e Sinistra Italiana. Un percorso dentro i luoghi della politica maschile, che ha attraversato sempre da femminista, accompagnato dall’impegno nel movimento delle donne, suo spazio quasi naturale e costante nel tempo.

Le donne sono state il centro della sua passione politica, punto di partenza e approdo. Si è spesa senza sosta a costruire reti, circuiti virtuosi di relazioni tra donne, perché era sulla relazione tra donne “come legittimazione e forza dello stare al mondo”, come “l’impensato della cultura umana”, che poggiava la sua pratica politica. È stato, il suo, un lavoro meticoloso di cura, di cui resteranno le tracce. In tante abbiamo vissuto con Elettra una stagione di indimenticabile intensità. Per molte decisiva sul piano della formazione. Ricordo gli anni dell’impegno in Rifondazione Comunista: condividemmo l’esperienza del Forum delle donne, di cui Elettra è stato il fulcro. Fu una scuola di politica permanente straordinaria, di studio e di pratica di disobbedienza, dentro quel partito fortemente segnato dai limiti di una concezione patriarcale, di divisione sessista dei ruoli, che relegava la parte femminile ai margini. Lei per prima volle, agli albori della nascita di Rifondazione, costruire uno spazio di libertà femminile, rifiutando la tradizionale commissione che si occupa di donne come appendice della grande politica, e che fosse uno luogo di frontiera, attraversato dai movimenti, dalle femministe non iscritte.

Era convinta che solo l’intreccio tra analisi di genere ed analisi di classe potesse svelare le contraddizioni capitalistiche. Fu una conquista enorme quella, anche sul piano simbolico, che costò fatica, perché non era facile, come continua a non esserlo oggi, far capire l’importanza del contributo analitico del femminismo per leggere la contemporaneità. Lo ha sempre pensato e questa sfida non l’ha mai abbandonata, convinta che alla base della crisi profonda della sinistra – ancora appannaggio di gruppi prevalentemente maschili nei ruoli decisionali – ci fosse la preclusione imperdonabile al confronto con tutto quello che le donne hanno elaborato su questioni di prima grandezza: il potere, la democrazia, la guerra, l’ambiente, il lavoro, la crisi della politica e della rappresentanza.

Non solo Rifondazione, ma tutti i luoghi che ha attraversato li ha attraversati con una grande potenza eretica, dissacrante verso ogni forma di autorità precostituita, gerarchia, ritualità liturgica, demagogia. Dare le parole alle cose per risignificare il mondo con le metamorfosi avvenute, era il suo assillo, e protestava quando vedeva che le parole venivano usate in modo retorico per camuffare piuttosto che svelare la realtà. Nell’esercizio rigoroso della critica non ha risparmiato nessuno, né i dirigenti del suo partito, a cui ha dato filo da torcere, né le donne che sceglievano di mettersi al seguito dei compagni maschi, ostili alla politica del riconoscersi tra donne, ma non ha risparmiato nemmeno quel femminismo moralista che pretende di imporre la sua idea di libertà alle altre, ancorato al chiodo fisso delle identità. Anche in quel mondo lei ha scelto da che parte stare, in coerenza con la sua idea di libertà femminile che nasce dall’assunto che ciascuna fa del proprio corpo-mente di donna ciò che desidera.

L’autodeterminazione come pratica costante di assunzione di responsabilità ne è il fondamento. E non c’era mediazione possibile su questo: la prima parola e l’ultima spetta alla donna e a lei soltanto, perché è lei proprietaria del suo corpo. Come era insofferente “all’ordine del discorso” imposto dal patriarcato per normare il corpo femminile e la sua potenza riproduttiva, lo era ancora di più quando quella stessa pretesa normativa arrivava dalle donne. E quindi, anche in quel caso, bisognava fare dis-ordine. Ed Elettra con le donne ne ha fatto tanto. Con le donne di tutte le generazioni. Poliedrica appunto: pensiero e azione, riflessione e presenza in piazza. Era sempre sulla barricata, come a Genova nel 2001, come ovunque bisognasse portare un grido di libertà.

Per le giovani aveva una attenzione all’ascolto particolare. Ne era attratta irresistibilmente, come se avesse bisogno di acqua di sorgente per dissetare la sua curiosità di comprendere il mondo, sapendo che i linguaggi e le categorie su cui aveva potuto contare nel passato, non erano più efficaci se volevi stare nelle cose del presente. Sosteneva i giovani e le giovani quasi “a prescindere”, camminando al loro fianco per fargli largo, mai d’avanti, e senza mai porsi come madre, custode di verità. Mai. E quindi era bellissimo costruire insieme, in un rapporto inevitabilmente impari sul piano del sapere e della esperienza, ma pari sul piano della relazione.

E così lei ci ha aperto mondi: Carla Lonzi, Rosi Braidotti, Luisa Boccia, Alessandra Bocchetti, Lea Melandri e poi il cyberfemminismo, Audre Lorde, Adrienne Rich, Angela Davis. Ne eravamo affascinate, e contagiate da quell’istinto alla ribellione all’esistente che le era connaturato e che la rendeva giovane nella testa, come è stata fino all’ultimo. La Pandemia l’ha annichilita, rubandogli la parola che per lei era stato tutto. Ma prima di lasciarci ci ha regalato Il tempo del secolo. Trame di una militanza femminista, il suo memoir, che raccoglie tracce delle sue riflessioni più profonde. Una eredità preziosa per il femminismo e per la sinistra, di cui oggi abbiamo assoluto bisogno e che dobbiamo valorizzare. Non smetteremo mai di ringraziarla abbastanza. Linda Santilli

Un anno fa moriva David Sassoli: il ricordo della città di Matera. A un anno dalla scomparsa risuona ancora il suo discorso europeista. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Gennaio 2023.

David Sassoli «ha stabilito un legame particolare e profondo con l’intera Basilicata: è stato lui a chiudere a Matera, il 20 dicembre 2019, l’anno della Capitale europea della Cultura, con un discorso di grande respiro europeista». Lo ha sottolineato, in una nota, il direttore della Fondazione Matera Basilicata 2019, Giovanni Padula. «Oggi, ancora di più - ha ricordato - le sue parole di quella importante giornata risuonano chiare: 'Non ci vuole coraggio ad alzare i muri, ci vuole coraggio a scavalcarlì».

A Sassoli il Comune di Matera ha intitolato la Cava del Sole, proprio dove tenne il discorso nella chiusura dell’anno da Capitale europea della Cultura. «La cultura - ha aggiunto Padula - aiuta a superare i muri e le divisioni. Aiuta a modificare i comportamenti, a diffondere i principi e i valori democratici, a portare a galla le urgenze: dal clima, alle disuguaglianze. Sassoli è stato sempre lucido nel trovare i legami tra le sfide che abbiamo davanti: richiamandosi alle idee del professor Giorgio La Pira e dello storico Fernand Braudel ha parlato del nostro continente come di un 'pluriverso di popolì. Ci ha costantemente ricordato che non riusciremo a salvare la Terra se allo stesso tempo non risolviamo i conflitti e le ingiustizie».

Il direttore della Fondazione Matera 2019 ha inoltre annunciato che «nei prossimi mesi continueremo a mettere al centro della nostra attività l’accesso universale alla cultura e la sensibilizzazione verso il tema del cambiamento climatico che non può prescindere dal tema delle acute disuguaglianze. Lo faremo partendo dalla nostra regione e dallo spazio privilegiato del Mediterraneo come luogo di incontro di culture che crea dialogo e opportunità. Se l’Europa è assente in questo spazio grande spazio culturale aumentano i conflitti, ha ammonito Sassoli. Seguendo il suo esempio - ha concluso Padula - in questo grande spazio in cui lui ha vissuto con saggezza e con audacia, noi ci saremo».

 La saggezza e l’audacia. Per il cardinale Matteo Zuppi la visione europea di Sassoli ha ancora molto da dire. Francesco Lepore su L’Inkiesta l’11 Gennaio 2023

Il presidente della Conferenza episcopale italiana è stato compagno di liceo dell’ex presidente del Parlamento europeo deceduto un anno fa: «Nel suo agire politico riteneva prioritario porsi dialogicamente in ascolto e abbattere i muri dell’odio attraverso l’unità, il dialogo, il diritto»

Ogniqualvolta una personalità muore o la si commemora in significative date anniversarie, sembra d’assistere al solito copione. È infatti tutta una gara di elogi e ricordi a tal punto di maniera da suscitare più d’un interrogativo sulla loro veridicità. Poi ci son però di quelle eccezioni, di fronte alle quali ci si sente tutti partecipi d’un comune cordoglio e ci si ferma a riflettere. È quanto si prova a un anno esatto dalla scomparsa di David Maria Sassoli, deceduto a 65 anni per complicazioni da mieloma di cui soffriva da tempo.

L’altrieri lo si è pubblicamente ricordato nella capitale presso il Teatro Quirino, dove alla presentazione de La saggezza e l’audacia, la raccolta dei migliori discorsi, che del  presidente del Parlamento europeo ha curato Claudio Sardo con la prefazione del presidente Mattarella, sono intervenuti la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, il segretario del Partito democratico Enrico Letta. Lo si ricorderà stasera sempre a Roma, dove il cardinale Matteo Maria Zuppi, che gli fu compagno di liceo presso il Virgilio in via Giulia, presiederà, alle 18:00, una messa di suffragio nella chiesa del Gesù.

A meno di due ore dalla celebrazione il presidente della Conferenza episcopale italiana ha sottolineato a Linkiesta come «la più importante eredità di David Maria» consista non solo in un esempio di dirittura morale, «che l’avrebbe portato a reagire con fermezza a ogni minima forma di corruzione all’interno del Parlamento europeo». Ma anche, e soprattutto, «nella sua grande visione d’Europa. Uno degli ultimi significativi discorsi di David Maria è stato quello tenuto, qualche mese prima della morte, nell’ex campo di concentramento di Fossoli: fu lì che, partendo dal tema della guerra e della perdurante drammatica attualità di essa, rilanciò una visione dell’Europa, basata sulla difesa dei diritti e sulla centralità tanto della democrazia quanto della persona».

Il porporato ha quindi aggiunto: «Credo che la passione politica di David Maria, che è europea, e la sua visione d’Europa, che nasce dal cristianesimo, abbiano ancora da dire. Credo che lui abbia ancora molto da dire a tutti». 

Parole, che si riallacciano a quelle che lo stesso cardinale Zuppi pronunciò il 26 novembre scorso al quarto Festival de Linkiesta: «Sassoli è un uomo che ha incarnato l’amore politico, ossia rivolto alla comunità civile e a ogni singola persona che la compone. Tant’è vero che è stato molto amato. Devo dire che, nel giorno della sua morte e in quelli successivi fino al funerale, sono rimasto molto colpito da quanto fosse stato trasversale l’attestato di affetto e riconoscimento verso di lui. Per un uomo, cioè, che ha vissuto e si è speso per gli ideali europei, per gli ideali che sono a fondamento dell’Unione. Ciò fa capire che c’è tanto bisogno di persone rispettose, attente, chiare com’era David. Non è che lui fosse un tipo che confondesse i piani, anzi era uno per certi versi di parte. Ma nel suo agire politico riteneva prioritario porsi dialogicamente in ascolto e abbattere i muri dell’odio attraverso l’unità, il dialogo, il diritto». Per poi concludere: «Mi auguro, inoltre,  che quella simpatia e quell’affetto, che continuano a essere manifestati verso di lui, si possano tradurre in itinerari e capacità per costruire, non distruggere, per unire, non per dividere, per andare avanti, non già indietro».

Un anno fa la morte dell'ex presidente del Parlamento europeo. Il mondo della politica italiana e internazionale lo ricorda sui social, commemorazione al Nazareno. La Repubblica l’11 Gennaio 2023.

"È passato un anno da quando ci ha lasciato David Sassoli. Da quando abbiamo perso uno di noi: un leader, un amico, un combattente per la giustizia sociale". È il ricordo commosso lasciato su Twitter dalla presidente del Parlamento europeo Roberta Mestola aggiungendo che "i suoi valori di democrazia, la sua fede in un mondo giusto, la sua determinazione a proteggere i più vulnerabili, risuonano ancora oggi con noi. Grazie Davide". Nella sede del Pe si è svolta una cerimonia di commemorazione, folta la presenza degli eurodeputati e di tutte le delegazione italiani, dal Pd al M5S, da FI a FdI. Al discorso di Metsola hanno fatto seguito un intervento del capodelegazione dei dem, Brando Benifei e una clip che ha riassunto alcuni dei momenti della presidenza dell'Eurocamera di Sassoli. L'inno alla Gioia ha chiuso la cerimonia che, questa sera, vede una sua appendice nella messa commemorativa che si tiene presso la chiesa di Notre Dame de Sablon.

"'Perché i regimi autoritari hanno tanta paura dell'Europa? Non facciamo la guerra, non imponiamo il nostro modello. Allora perché? I nostri valori li spaventano'. La domanda di David Sassoli ora suona come una profezia. A un anno dalla sua scomparsa, il ricordo di David ci scalda ancora il cuore e ci indica la strada", ha scritto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, su Twitter. David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, è morto l'11 gennaio 2022 a 65 anni. A un anno esatto dalla scomparsa, il mondo della politica italiana e internazionale lo ha ricordato con messaggi lasciati sui social. A partire da Giorgia Meloni: "David Sassoli era una persona perbene, franca e corretta. Un uomo delle Istituzioni che amava profondamente il suo lavoro. A un anno dalla scomparsa ne ricordiamo la tenacia, la passione e il forte senso del dovere". Il tweet della premier è stato rilanciato dall'account Pd.

E proprio i dem oggi nella sede del Nazareno lo hanno ricordato con una commemorazione a cui si è collegata da remoto anche Metsola. "Io ho fortemente voluto che questa giornata e questo momento non si limitasse soltanto a questo, ma che fosse qualcosa di più, perché per noi David è molto di più che soltanto un ricordo. L'abbiamo misurato in questo anno in cui ci è tanto mancato quanto il suo pensiero, il suo comportamento, le sue idee siano diventate per noi delle vere e proprie lezioni di vita e di politica - ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta, al Nazareno - Questo momento ci tocca tutti moltissimo. Oggi è una giornata particolare nella quale contemporaneamente, mentre siamo qui, il Parlamento europeo sta ricordando il suo Presidente per sempre. Alle 18 alla Chiesa del Gesù qui a Roma è previsto un momento importante con una celebrazione eucaristica alla quale tanti di noi partecipano. In questa giornata ci sono eventi un po' in tutta Italia in memoria di David".

"Ci manca Sassoli. Un grande esempio di buona politica", ha scritto su Twitter il commissario Ue Paolo Gentiloni. L'eurodeputata del Pd e vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, ha parlato di "visione, senso delle istituzioni e coraggio. Tutto quello che David Sassoli ci ha insegnato, solo un frammento di tutto quello che ci manca di lui". Anche il candidato alla segreteria del Pd Stefano Bonaccini, ha lasciato il suo ricordo: "Un anno fa oggi se ne andava Sassoli. Lo voglio ricordare con le parole pronunciate dai figli al suo funerale: 'Sono tre le parole che in questi giorni frenetici e di confusione ci girano nella testa. Dignità, di chi non ha mai fatto pesare la malattia a nessuno, né ora né dieci anni fa. 'Sì, ma io c'ho da fa", continuavi a ripetere a tutti in ospedale. Passione, per il lavoro, per le tue sfide. Ci hai insegnato che la popolarità ha senso solo se si riescono a fare cose utili. Amore, forse è la più banale, ma è la parola che nelle tue ultime ore hai ripetuto più spesso, con le tue ultime forze e i tuoi ultimi sospiri. Ci ha colpito perché fino alla fine non sei stato in grado di cedere allo sconforto, e fino alla fine ci hai parlato di speranza. Buona strada papà. E, mi raccomando: giudizio. Ci manchi David, un abbraccio dovunque tu sia".

 Sassoli, il ricordo a un anno dalla morte: «Io, David e il lockdown. Casa sua un ufficio bis, e quelle pause in cucina». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera l’11 Gennaio 2023.

Mannelli fu il capo gabinetto di Sassoli: «Ho lavorato con lui al telefono fino al 9 gennaio, parlammo della riunione del 17 gennaio che avrebbe eletto il suo successore. Ma due giorni dopo ci lasciò»

Lorenzo Mannelli lei a Bruxelles è stato il capo di gabinetto di David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, scomparso un anno fa...

«Ho avuto la fortuna di essergli anche amico».

Cosa ricorda di più di lui?

«Il sorriso. Poi era il mio assillo per il rispetto degli orari. Dal suo ufficio di presidenza alla sala delle riunioni ci volevano cinque minuti scarsi. Lui ci metteva sempre almeno il triplo del tempo».

Perché?

«Si fermava nei corridoi a salutare tutti. Ma proprio tutti. Uscieri e persone delle pulizie non credo avessero mai parlato prima con un presidente. Lui invitava tutti a prendere un caffè».

Qualche ricordo nel suo ruolo istituzionale?

«Era preciso e preparatissimo. Controllava ogni dettaglio, non lasciava nulla al caso. Poi la sua empatia gli era particolarmente utile anche nei colloqui di lavoro».

In che modo?

«Beh, per esempio in un bilaterale è riuscito a far sciogliere anche Angela Merkel».

Avete lavorato insieme due anni e mezzo, giusto?

«Sì. Lui è stato eletto il 3 luglio del 2019, se ne è andato l'11 gennaio 2022. Ma ha lavorato fino all'ultimo. Fino all'ultimo minuto è stato presidente al cento per cento».

Fino a quando ha lavorato?

«Io l'ultima volta che l'ho sentito al telefono è stato il 9 gennaio. Si parlava ancora di lavoro. Un paio di settimane prima gli avevo prospettato di delegare le sue funzioni. Non ha voluto».

Quando si era ammalato?

«La prima volta il 13 settembre 2021, a Strasburgo ha avuto una polmonite. È stato ricoverato. Poi è tornato i primi di dicembre. Difficile dimenticare l'esperienza che ho avuto con lui: indimenticabile. Anche perché abbiamo vissuto insieme il lockdown».

Come è andata?

«David ha voluto trasformare la sua casa nell'ufficio che aveva al Parlamento».

E cosa aveva fatto?

«Nel salotto era stato montato praticamente un set televisivo, con le luci permanenti. Pochissime telecamere erano autorizzate a venire per girare i filmati ufficiali. Poi..».

Poi?

«Visto che eravamo sempre insieme in casa mangiavamo anche insieme. Cucinava lui, gli piaceva».

Cosa cucinava?

«Un po' di tutto. Ma la sua specialità era il coniglio all'ischitana. Era speciale e speciale quel tempo che abbiamo passato insieme».

Cosa ricorda dei suoi ultimi giorni?

«L'ultima volta che l'ho visto di persona è stato il 30 dicembre. Lui in ospedale era circondato dalla sua famiglia, i suoi amici. Un afflato sulla sua vita. Non l'ho mai sentito lamentarsi. Anche se sapevo che soffriva di dolori atroci. Aveva crisi ogni giorno. Se li faceva passare poi riprendeva».

Lavorava dall'ospedale?

«Sì. Organizzava tutto per telefono. Abbiamo parlato con meticolosità della riunione che ci sarebbe stata il 17 gennaio, quella che avrebbe dovuto eleggere il suo successore. Era molto lucido, dava indicazioni precise. Fino a qualche giorno prima aveva sperato di poterci partecipare».

Di cos'altro avete parlato?

«Lui si informava e si preoccupava per tutti quelli del suo staff».

Fino al 9 gennaio...

«Sì. David era lucido. Mi ha detto: "Sai? Non ho paura. Ho fiducia in Dio e nella scienza"».

David Sassoli e la «sua» Unione Europea: «Concreta e visionaria». Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

A un anno dalla scomparsa un libro raccoglie i discorsi del presidente dell’Europarlamento

«David Sassoli ci manca», scrive Sergio Mattarella nella prefazione a «La saggezza e l’audacia», raccolta dei discorsi da presidente del Parlamento europeo, curata da Claudio Sardo e pubblicata da Feltrinelli. Ci mancano la forte carica etica che ne sosteneva l’impegno politico, la solidità delle sue convinzioni radicate nella fede e forgiate nelle battaglie della vita. E ci mancano il tratto gentile, la capacità di ascoltare e dialogare, quel sorriso buono che lo rendeva inconfondibile nella schiera degli uomini politici italiani.

Sassoli ci ha lasciati troppo presto un anno fa, suscitando in Italia e in Europa un’ondata di commozione quasi sorprendente. «Nel nostro Paese — scrive Sardo nella sua introduzione — tanti si sono accorti allora di avere avuto nella classe dirigente una personalità di grande prestigio, stimata all’estero, capace di incidere nelle scelte che contano, e al tempo stesso empatica, ben voluta dai cittadini». Nei due anni e mezzo in cui aveva guidato l’Assemblea di Strasburgo, Sassoli era in effetti diventato un leader internazionale, interlocutore autorevole di Angela Merkel e Emmanuel Macron, capace di negoziare con fermezza e a volte con durezza in nome di una chiara idea dell’Unione: «Un’Europa che innova, che protegge, che sia faro», disse ai capi di Stato e di governo aprendo il Consiglio europeo del 16 dicembre 2020, il suo ultimo.

Tanto più opportuna è quindi la pubblicazione di cinquantasei discorsi e interventi, fatti nel breve tratto di tempo in cui Sassoli guidò l’Europarlamento attraverso la crisi più drammatica vissuta dall’Europa dalla fine della Guerra, quando la pandemia mise in ginocchio l’economia mondiale, facendosi minaccia esistenziale. Letteralmente inventandosi un nuovo modello di lavoro a distanza per gli oltre 700 deputati da 27 Paesi, Sassoli riuscì a fare dell’Assemblea l’interlocutore imprescindibile delle altre istituzioni, pungolo continuo verso una maggiore integrazione, una più forte solidarietà e politiche sociali più avanzate. Come ha più volte sostenuto, se il Parlamento europeo non avesse continuato a funzionare, il Green Deal e il Next Generation Eu sarebbero stati diversi e più poveri, nelle dimensioni e nei contenuti.

Il libro, i cui proventi andranno al Centro di riferimento oncologico di Aviano, è diviso in tre parti, precedute dal discorso d’investitura del 3 luglio 2019, quando venne eletto alla presidenza da quella «maggioranza Ursula», eterogenea e per nulla scontata, che sarebbe diventata laboratorio politico per l’Italia e Sassoli trasformò in punto di forza: «L’Europa non è un incidente della Storia», disse quel giorno, invitando i governi e mettere nuovamente «cuore e ambizione» nell’impresa europea, come avevano fatto i fondatori.

La prima parte raccoglie interventi svolti in Italia, dominati dai temi della pace, dell’ecologia integrale in grado di conciliare tutela dell’ambiente e giustizia sociale, della libertà e della democrazia come conquiste da difendere ogni giorno. Emergono le radici cattolico-democratiche e i riferimenti intellettuali di Sassoli, a cominciare da Giorgio La Pira, del quale sottolinea la modernità in una seduta straordinaria del Consiglio comunale di Firenze: «Senza lo spazio europeo torneremmo sudditi e nessuno sarebbe in grado di affrontare i propri problemi, di risolvere nessuna priorità. Sfida ambientale, sicurezza, questioni finanziarie, investimenti, lotta alla povertà, immigrazione, commercio internazionale, politica agricola, sfida tecnologica. Quali di queste grandi questioni possono essere affrontate dai nostri Paesi da soli? Nessuna. E per molte sfide lo spazio europeo è già troppo piccolo. Se dovessimo tornare indietro, come molti vorrebbero, non avremmo possibilità di superare tante difficoltà, ma metteremmo in gioco il bene più prezioso a cui proprio La Pira teneva di più: la pace fra i popoli europei».

La seconda e la terza parte comprendono discorsi pronunciati nelle istituzioni europee e i diciotto interventi tenuti in apertura dei Consigli europei, come vuole la regola. Nelle sue parole, rivivono i momenti fatali che hanno cambiato il paradigma europeo, portando all’emissione di debito comune, al Green Deal, all’acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce. Nell’estenuante braccio di ferro sul bilancio pluriennale, sul quale Sassoli non smise mai di mettere i governi di fronte alle loro responsabilità, il Parlamento non ottenne tutto quanto aveva chiesto. Ma per la prima volta, impose il legame tra finanziamenti europei e rispetto dello Stato di diritto, tra solidarietà e qualità della democrazia. Come disse Sassoli: «Abbiamo fatto un passo storico in avanti per il rispetto dei valori che definiscono la nostra identità».

L'intervista a Giovanni Pellegrino, 10 anni da esule a sinistra. Oggi la presentazione del libro dell’ex parlamentare. Da Presidente della Commissione stragi ha indagato sui principali misteri d’Italia. Mimmo Mazza su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Febbraio 2023

Il caso Moro, l’affare Mitrokhin (ovvero il dossier riguardante le attività illegali dei servizi segreti sovietici nel nostro Paese grazie ad alcuni italiani «infedeli») ma anche le questioni politiche tutte salentine vengono narrate da Giovanni Pellegrino, avvocato di fama, poi apprezzato e competente senatore e infine presidente della Provincia di Lecce, nel libro dal titolo Dieci anni di solitudine. Memorie di un eretico di sinistra, edito da Rubbettino con prefazione di Mario Caligiuri che oggi alle ore 18 sarà presentato nel teatro Paisiello di Lecce. Il testo riassume l’esperienza politica di Pellegrino negli anni passati in Senato (dal 1987 al 2001 prima per il Pci e poi per il Pds) e nei cinque anni da presidente della Provincia di Lecce (dal 2004 al 2009, subito dopo i due mandati di Lorenzo Ria).

Da parlamentare, Pellegrino ha anche ricoperto gli importanti ruoli di presidente della Giunta per le immunità del Senato (occupandosi della vicenda Andreotti, sotto inchiesta per legami con la Mafia) e della Commissione bicamerale di inchiesta sul terrorismo e le stragi. Proprio in tali ruoli Pellegrino ha maturato pensieri autonomi sulla rivoluzione giudiziaria italiana (di cui ha individuato meriti ed eccessi, prendendo la giusta distanza da garantismo e giustizialismo) e sugli «anni di piombo», assumendo posizioni non coincidenti con quelle del suo partito di riferimento. Ha vissuto quindi una difficile situazione di solitudine in un altalenante rapporto con Massimo D’Alema, suo leader di riferimento e ai tempi «deputato di Gallipoli». Alla presentazione al Paisiello interverranno il sindaco di Lecce Carlo Salvemini, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Alfredo Mantovano, il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, il direttore generale Treccani e già ministro della Cultura Massimo Bray e il presidente della Società italiana di Intelligence e professore ordinario presso l’Università della Calabria Mario Caligiuri. Modererà l’evento Giovanni Fasanella, giornalista e saggista.

Senatore Pellegrino, perché ha sentito il bisogno di raccontare al grande pubblico i suoi 10 anni, definiti di solitudine, in Senato alla guida di due importanti Commissioni?

Non vi è dubbio che in Senato ho vissuto la esperienza più interessante di una vita ormai lunga. Con il passare degli anni il suo ricordo era divenuto però disordinato, riemergendo per immagini staccate, cui faticavo a dare un ordine cronologico. Così, anche per attenuare le noie della senilità, ho pensato di scriverne. È una fatica che è durata quasi due anni e del cui esito sono abbastanza soddisfatto...

Estratto dell'articolo di Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2023.

Fausto Bertinotti, nato a Milano nel 1940, quartiere Precotto. Padre Enrico, macchinista ferroviere, socialista di cultura anarchica, anticlericale. Madre Rosa, casalinga, cattolica. Un fratello, Ferruccio, anche lui ferroviere. La moglie Gabriella, Lella, sposata quando lei aveva diciotto anni. Un figlio, Duccio, in onore di Galimberti, assassinato dai fascisti nel ‘44. 

[…] Più che quella di presidente ama la definizione di segretario, figlia degli anni alla guida della Cgil del Piemonte, perché dà più il segno del collettivo. 

Segretario, che ricordi ha della sua infanzia?

«Tanti e potenti. La guerra, le sirene, i bombardamenti. Mio padre che ci porta al riparo giocando e cercando di farmi ridere. Mia madre garanzia della nostra sicurezza» 

Un diploma da perito elettronico, preso in ritardo.

«Scuole a Milano e Novara. Studi tecnici, per poter lavorare presto. Non li amavo, non ero adatto. Tanto tempo in biblioteca e poco in classe». 

Poi l’amore con Gabriella, compagna di una vita.

«Fu subito Lella, per supplire alla mia erre blesa, poi Lella per tutti. Ci unì la politica, la musica impegnata, la rivista Cinema nuovo di Guido Aristarco. Bergman, Eisenstein, sì il regista della corazzata Potëmkin, Lang, il neorealismo».

Il matrimonio. In chiesa, per volere della madre di lei.

«Era minorenne, serviva il sì dei genitori. Celebrò il mio insegnante di religione. Colto, raffinatissimo, con lui discussioni infinite. Un sacerdote molto importante nella mia formazione». 

[…] 

Un figlio di nome Duccio, come Galimberti. Che padre è stato?

«Quel nome, un piccolo gesto per “riparare al torto”, come recita la canzone. Non sono stato un padre assente, semmai, e magari è un difetto, più un amico o un fratello maggiore. Trovo difficile esercitare l’autorità, di questo sono colpevole».

Anche suo fratello Ferruccio ferroviere, per lei invece la politica. Come mai?

«La politica la respiravo in casa, una famiglia di intellettuali di strada. Mio padre lo vedo chino ascoltare Radio Londra, ospitare di nascosto un partigiano, sono sulle sue spalle ad ascoltare Pietro Nenni, con il suo basco, in una piazza del Duomo gremita, alla vigilia della sconfitta del Fronte popolare, nel ‘48». 

[…] 

No a Dini, la rottura con Prodi, no a D’Alema.

«Quella con Prodi fu una rottura drammatica. Fu in quegli anni che si decise la rotta dell’Europa. C’era da scegliere tra Maastricht e una svolta sociale e solidale. Vinse la globalizzazione, sulle ali di un centrosinistra che governava gran parte del continente. La sinistra diventò liberale e non più socialista. Fu il segno di una conversione, di una mutazione genetica».

Lombardi e Ingrao nella sua formazione, Kissinger e Agnelli in quella di Mario D’Urso. Come nacque la vostra amicizia?

«Una contagiosa simpatia personale, e poi la desistenza. L’Ulivo ci sosteneva in alcuni collegi, noi non ci presentavamo in altri. Ma su Mario D’Urso candidato ci fu la ribellione dei compagni campani. Mario mi chiamò: che succede? Noi rispettiamo i patti, dissi. Fu eletto, vincemmo le elezioni. La vicenda dell’eredità che mi ha lasciato? Non me ne occupo, c’è il tribunale, mi atterrò a quello che decide».

Un giudizio su Meloni.

«L’ho definita afascista. Il suo è il primo governo di destra della Repubblica, in altri casi era subalterna. Si propone un’operazione ideologica ambiziosa: cambiare la cultura, abbattere l’antifascismo come religione civile del Paese. Una grande offensiva ideologica e regressiva a cui si aggiungono uno schema liberale e scelte di governo corporative». 

E la sinistra? E il Pd di Elly Schlein?

«La sinistra non c’è più. È scomparsa, senza anima e senza corpo. O meglio, esiste una sinistra sociale diffusa, priva di rappresentanza istituzionale e politica. […] Anche Schlein è espressione di quella cultura che in America si rispecchia nei liberal. Non esce dal recinto. C’è la guerra, il dramma delle disuguaglianze, l’emergenza ecologica. Ripeto: ci sono liberal e riformisti, la sinistra non c’è. Serve un nuovo anticapitalismo, ce n’è di più nella Laudato si’ che in quel che resta della sinistra». 

Abolire la proprietà privata è ancora un obiettivo?

«È un bisogno dell’umanità, un destino dell’uomo, come la pace». 

Berlusconi. Con lui ha condiviso solo il Milan.

«Ho scelto il silenzio alla sua morte. Un imprenditore che ha sostituito la politica. Protagonista di una grande operazione di controriforma. Una volta gli dissi che se avesse fatto solo il presidente del Milan sarebbe stato perfetto». 

Si litiga sulla riforma della giustizia.

«Sono un garantista. Penso con Foucault che una società che pensi solo a sorvegliare e a punire sia orribile. Sono contro le intercettazioni usate per demonizzare. Giusto abolire l’abuso d’ufficio».

E l’Ucraina? Con Biden o con Putin?

«Non scelgo l’albero a cui impiccarmi. Putin ha scatenato la guerra, Biden gli ha tenuto bordone. La guerra non andava fatta e ora va fermata, l’unico modo è la trattativa. E l’Europa sta tradendo la sua vocazione pacifista».

Estratto dell’articolo di Lorenzo Giarelli per il “Fatto quotidiano” il 25 febbraio 2023.

Farò quello che mi dicono di fare, ma si figuri che uno dei quadri l’ho ricevuto di persona, mi sembrerebbe strano restituirlo”. […] Il SubComandante Fausto – nomignolo con cui Gianpaolo Pansa eternò Bertinotti – è alle prese con un guaio niente male: la signora Nikki Kay Carlson è riuscita a dimostrare in tribunale di essere la figlia biologica di Mario D’Urso, avvocato, viveur, senatore, banchiere, dirigente d’azienda e molto altro.

 Soprattutto amico di Bertinotti, al punto che nel 2015, anno della sua morte, si scoprì che D’Urso aveva destinato all’ex leader della sinistra una succosa parte della propria eredità – stimata in 24 milioni di euro – ovvero circa 500 mila euro e un paio di quadri originali di Andy Warhol che raffigurano Mao Tsé-Tung (un altro, dice Fausto, glielo donò in vita).

Problema: otto anni fa la signora Carlson, americana, non era ancora riconosciuta come la figlia del defunto, a cui lei si avvicinò soltanto negli ultimi mesi della sua vita.

 Due prove del Dna hanno però nel frattempo confermato quel che si sospettava, e cioè che D’Urso aveva avuto una figlia negli Stati Uniti, la bambina era cresciuta in orfanotrofio ed era stata poi affidata a una famiglia adottiva. Ma adesso quella donna ha diritto a tutta l’eredità del padre, con tanti saluti al testamento firmato dall’avvocato prima di morire.

Difesa da Bianca Maria Terracciano, Carlson è determinata a portar via soldi e beni a chi ne ha goduto in questi anni, tutti amici dei salotti buoni di D’Urso tra cui Bertinotti e signora. […] Un pasticciaccio per Bertinotti, che intanto aveva ricevuto la propria fetta di eredità. “Farò quello che mi dicono di fare – taglia corto lui quando lo raggiungiamo al telefono – Ma uno dei quadri di Warhol mi fu regalato da D’Urso di persona e mi sembra complicato considerarlo da restituire”.

Ma ha idea di quanto possano valere quei quadri? “Non li ho mai fatti valutare, ma lo si può facilmente scoprire”. E allora scopriamolo: sei anni fa, una serigrafia di Warhol sempre raffigurante Mao fu battuta all’asta per 12 milioni. Tanto per avere idea dell’ordine di grandezza. […]

Estratto dell’articolo di Federico Novella per “La Verità” il 13 febbraio 2023.

Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera e già segretario di Rifondazione Comunista: che impressione le ha fatto la standing ovation tributata a Zelensky dal Parlamento europeo?

«È stato uno spettacolo un po’ deprimente. L’Europa ha smarrito il senso di sé. Di fronte alla globalizzazione capitalistica, ha perduto quella tensione avuta nel dopoguerra tra l’appartenenza all’Alleanza atlantica e una certa vocazione all’autonomia. Dopo la colpevole invasione russa dell’Ucraina, quest’Europa ha creduto che Mosca fosse isolata, e che il mondo si identificasse nella risposta militare. Ma non è così: tanta parte del mondo la pensa diversamente, e ogni mese si aggiunge un tassello nuovo, nell’area asiatica e in quella africana».

Dunque l’Europa non è autonoma?

«È succube della Nato e della guida americana. Anche questa enfatizzazione di Zelensky la trovo contraddittoria, rispetto a un’istanza di trattativa per la pace che dovrebbe essere il motore dell’iniziativa europea. Insomma, io capisco il tributo di solidarietà a Zelensky: ma questa solidarietà non può trasformarsi in miopia politica. Cioè nell’incapacità di capire che l’unica soluzione possibile in questa contesa è la pace […]».

Però ammetterà che siamo in guerra perché c’è un colpevole: Vladimir Putin.

«[…] Dopo la guerra fredda doveva venir meno la ragion d’essere della Nato. […] è un fatto che la Nato abbia manifestato una tendenza a espandersi fino ai confini della Russia.

Covava nell’impero di Putin un’antica istanza permanente: quella della “grande Russia”, che si esprimeva con la richiesta legittima di essere riconosciuta come una potenza mondiale e non regionale. La strategia del contenimento dettata dall’Alleanza atlantica, invece, generò delle frizioni. Fino alla scelta, sciagurata, di Putin».

[…] Tornando all’oggi: considera il leader ucraino un prodotto mediatico?

«Sì, come tutto, del resto. Zelensky non è l’eccezione, è la regola. Guy Debord parlò tanti anni fa della “società dello spettacolo”. Oggi vi siamo immersi. Persino la tragedia della guerra è raccontata con il linguaggio dello spettacolo».

Lo spettacolo regna, al punto che la politica per una settimana non ha fatto che parlare di Sanremo. Con il presidente della Repubblica per la prima volta in platea. È rimasto perplesso?

«Che Mattarella vada a Sanremo mi pare ragionevole. Se si va alla Scala riconoscendo la cultura alta, si può anche andare a Sanremo riconoscendo la cultura bassa. Se milioni di italiani si sintonizzano sul festival, ne fanno un elemento che entra nella storia del paese. La mia parte politica ha faticato a impararlo, perché eravamo intrisi di cultura aristocratica: ci piacevano le canzoni d’autore, non quelle popolari. Ma attenzione: Sanremo è importante sul piano storico-culturale. Ma non può essere un’arena politica». […] «[…] Il politico deve resistere alla subalternità della politica nei confronti dello spettacolo, altrimenti diventa servile. […]».

Anche cantanti e rapper dovrebbero fare semplicemente il proprio mestiere?

«No, tra cantanti e politici, sono i secondi a essere colpevoli. La politica è colpevole di essere scomparsa: per forza il suo terreno viene occupato da altri».

 Il ritornello sui diritti civili lanciato a più riprese dal palco di Sanremo è un messaggio rivoluzionario?

«No, rivoluzionario no. […] è un segno dei tempi. Caduta […] l’ipotesi rivoluzionaria, si è affermata come supplenza la tensione per i diritti civili. Parlerei di una teologia dei diritti civili, affiancata dall’altra teologia dominante, quella capitalistica […]».

La sinistra italiana in realtà sarebbe in cerca di un nuovo segretario…

«Il Pd è un corpo privo di vita […] è stata attribuita a quel partito l’eredità di una grande storia, mentre al contrario […] ha consumato una rottura con le battaglie operaie […]».

 In realtà, si dichiarano in prima fila sulle lotte per i diritti civili e ambientali.

«Ma dove? Mi faccia l’esempio di una lotta condotta in Italia dalle forze del centrosinistra in favore di un diritto della persona: non hanno portato a casa nulla. Perché sono timidi, incerti, non sono mica Pannella. La massima secondo cui, abbandonata la lotta di classe, i comunisti sarebbero diventati un “partito radicale di massa” è fallita. Oggi il centrosinistra non è radicale: e men che meno di massa, visto che corrono il rischio di sparire».

 Restano solo le rivalità personali?

«Sì, resta la contesa per il potere. Questa è la vera prigione in cui si è rinchiuso il Pd: la prigione del governo. Sono propensi a sostituire qualunque idea, pur di fare ingresso al governo. E non a caso negli ultimi anni sono entrati in qualsiasi governo. […]».

Dunque il Pd è avviato alla scissione?

«[…] per fare una scissione serve una ragione forte. Ma oggi come si fa a scindere una cosa che non esiste?». […] «[…] il Pd rischia un lungo declino fino all’irrilevanza totale. Invece sarebbe stata un’operazione coraggiosissima quella dell’autoscioglimento. […]».

 «Rifondazione» del Pd? Una parola che, detta da lei, suona come un revival.

«La rifondazione è una necessità, visto che la sinistra è uscita sconfitta dal Novecento. Io la vedo come una rinascita. Per rinascere, però, devi prima renderti conto che sei morto».

 Oggi al suo posto, a sinistra, troviamo Elly Schlein, Giuseppe Conte e Massimo D’Alema. Che effetto le fa?

«Ho un’antica propensione a evitare le valutazioni sui nomi. Questi però mi dicono pochissimo. Per giunta sono in continuità con il passato. […] La lezione europea è questa: la nuova sinistra non può nascere in continuità con la vecchia».

 Dunque qual è il suo consiglio alla dirigenza della sinistra italiana?

«Cosa dovremmo fare? Un atto di passaggio di consegne. La passione politica vale per la vita, il mestiere no. Il mestiere a un certo punto deve finire: o quando hai una certa età, o quando hai perso». […]

Chi è Cuperlo, l’ex leader dei giovani comunisti, vicino a D’Alema, contro Renzi. Storia di Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 24 dicembre 2022.

Giovanni Cuperlo, detto Gianni, triestino, 61 anni, laureato al Dams di Bologna, arriva dalla vecchia guardia del Pci e soprattutto dalle ormai lontane esperienze nella Fgci (Federazione giovanile comunista) e nella Sinistra giovanile di cui è stato segretario negli anni Ottanta e Novanta. Deputato per quattro legislature, Cuperlo ha curato lo scioglimento della stessa Fgci e la nascita della Sinistra giovanile durante la fase di passaggio dal Pci al Pds, di cui sarà membro della direzione, mantenuta con la trasformazione del Pds nei Ds. Nel 1989 Cuperlo ha la stanza da segretario dei comunisti junior al primo piano della sede storica del Pci in via delle Botteghe Oscure. Sul muro la foto di Enrico Berlinguer che l’Unità aveva pubblicato il giorno dopo la sua morte. La caduta del Muro di Berlino è rievocato da Cuperlo come spartiacque della sua azione politica. Diventerà responsabile della comunicazione dei ds fassiniani, poi collaboratore di Massimo D’Alema.

«Dignità e fede laica nelle persone»

Con D’Alema il rapporto di fiducia e intesa è stretto, in particolare quando, a metà anni Novanta, quest’ultimo presiede la Commissione bicamerale per le riforme della seconda parte della Costituzione. Nel 2006, con l’Ulivo, e nel 2007 con l’avvio del Pd di cui è tra i fondatori, con D’Alema Cuperlo rafforza ulteriormente i rapporti, facendo parte della sua corrente interna al partito. La sua posizione politica rimane collocata alla sinistra dei dem. Nel tempo, l’ex leader della Fgci sottolinea l’importanza di «uguaglianza, dignità e fede laica nelle persone», e dell’obiettivo di confluire in un Partito europeo dei democratici e socialisti. Dal punto di vista della politica sociale, Cuperlo è fedele all’idea della necessità di «ridistribuire potere e diritti alle classi sociali più sfavorite», contrastando la «predominanza della cultura liberista».

L’opposizione a Renzi

È del 2013 la candidatura a segretario del Pd, carica poi ottenuta invece alle primarie da Matteo Renzi. Successivamente accetta la proposta del segretario per la presidenza dei dem, salvo poi dimettersi nel 2014 per divergenze con Renzi stesso sulla bozza della legge elettorale. A questo punto Cuperlo va a guidare SinistraDem, corrente di minoranza e opposizione rispetto alla maggioranza renziana, con battaglie contro jobs act, Buona scuola e riforma costituzionale. L’appello di Cuperlo inizialmente è quella di votare no al referendum (no che poi in effetti prevarrà tra i cittadini) anche se all’ultimo svolterà per il sì convinto proprio da Renzi sulla promessa di cambiare la legge elettorale. La spaccatura nel Pd conseguente al fallito esito del referendum costituzionale , che porterà alla scissione e alla formazione di Articolo Uno, tuttavia non lo coinvolgerà. Cuperlo rimane infatti con i dem, rinunciando però a candidarsi alle Politiche del marzo 2018. Alla Camera, con il Pd, vi rientrerà con le elezioni del 25 settembre 2022. Ora la candidatura alla segreteria.

Gianni Cuperlo: «Dietro Bonaccini e Schlein i soliti nomi. La prima volta che ho visto D’Alema mi chiese quanti libri leggessi». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 5 Febbraio 2023.

 Primarie del Pd, il deputato in corsa per la segretaria: «Sono un idealista, forse ingenuo. Mi sono candidato perché la nostra casa brucia. Conte? Vuole distruggerci»

Cuperlo, lei è votato alla sconfitta.

«No, ma questa volta la casa brucia, e ci sono battaglie che vale la pena combattere».

L’ultimo romantico.

«Diciamo idealista. Ingenuo, forse».

Cuperlo che nome è?

«Forse ungherese: si scriverebbe con la K. Ma non ho un folto albero genealogico. I miei avi sono tutti triestini, tranne un nonno romagnolo».

Cosa facevano i suoi genitori?

«Mio padre impiegato in una ditta di import-export, mia madre casalinga. Eppure riuscivano a portare me e mio fratello a mangiare il pesce a Muggia una volta al mese, e ad agosto a passeggiare dieci giorni sulle Dolomiti. Oggi una famiglia come la mia di allora non potrebbe permetterselo».

Era l’Italia del miracolo economico.

«Che alle spalle aveva il lavoro duro, talvolta la fame. Nonno Vittorio Cuperlo era tipografo, lo ricordo con le dita sporche di inchiostro, ormai non veniva più via. L’altro nonno, Enea, morì giovane. Sua figlia Adriana, la sorella di mia madre, dovette emigrare: la rotta per le Americhe era chiusa; così nel 1957, appena sposata, partì in piroscafo per l’Australia. Melbourne».

Ha mai incontrato zia Adriana?

«Una volta sola, quando tornò in visita a Trieste. Accompagnai suo marito, zio Mario, in giro per la città, e vissi l’euforia e lo strazio dell’immigrato, che fatica a riconoscere la sua città così cambiata, e nello stesso tempo se l’è portata dietro. In Australia i triestini si trovavano tra loro, parlavano dialetto, cucinavano i loro cibi, ascoltavano le loro canzoni... Ancora adesso, ogni volta che viene a Trieste mia figlia Sara si sorprende: anche i farmacisti le parlano in dialetto».

Città letteraria, da Joyce a Magris.

«È dall’adolescenza che mi prefiggo di leggere l’Ulisse; non sono mai andato oltre pagina 80. Mi ha sempre affascinato l’amicizia tra Joyce e Svevo. Sa come si conobbero?».

No.

«Joyce andò nella villa di Svevo, anzi della moglie, a dargli lezioni di inglese. Lui gli fece leggere i suoi primi romanzi, Una vita e Senilità, stroncati dai critici. Joyce tornò dopo una settimana e gli disse, ovviamente in dialetto triestino: “I critici non capiscono nulla, lei è un grande scrittore”. Così Svevo ci regalò La coscienza di Zeno».

Quando vide D’Alema per la prima volta?

«Nel suo ufficio al secondo piano di Botteghe Oscure: lui capo della segreteria di Occhetto, io della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Alzò lo sguardo e mi chiese, secco: tu quanti libri leggi al mese?».

E lei?

«È la classica domanda che ti mette in difficoltà. Infatti non risposi».

Lei Cuperlo quanti libri legge al mese?

«Cinque o sei. Quasi solo saggistica».

Romanzi no?

«Meno. Ma ho passato il lockdown a rileggere I fratelli Karamazov e a guardare lo sceneggiato Rai. Corrado Pani, che da bambino avevo visto al Rossetti di Trieste, è un Dmitrij straordinario».

Perché scelse D’Alema e non Veltroni?

«Ho sempre apprezzato il modo in cui Veltroni modernizzò la nostra comunicazione, e i vari modi in cui ora continua a fare politica. Ma mi pareva che attorno a D’Alema potesse nascere un partito più solido».

Qualcuno ha accostato la parabola di D’Alema a quella di Rimbaud nella canzone di Vecchioni: «E volersi fare male al punto di finire lui mercante d’armi...».

«Si fermi che ci querela».

Scherzi a parte: a Palazzo Chigi lei era uno dei Lothar, come li definì Maria Laura Rodotà. L’unico con i capelli. Gli altri erano Minniti, Velardi, Rondolino, La Torre.

«Non ero un Lothar e non solo per i capelli; tanto che all’inizio del governo D’Alema rimasi al partito, lavorai a Chigi solo gli ultimi sei mesi. L’errore loro fu di sostituire il partito con il leader carismatico; non a caso tutti i miei amici che lei ha citato sono rimasti affascinati da Renzi. Finì male allora, con l’11-4 alle Regionali del 2000; ed è finito male pure Renzi».

Con Renzi lei fu presidente del Pd.

«Per 32 giorni. Presi la parola in direzione per contestare l’accordo con Berlusconi sulla legge elettorale, il famigerato Italicum. Renzi mi liquidò in modo sprezzante: parla questo che in Parlamento è stato nominato. Mi dimisi. Mia figlia mi mandò un WhatsApp: “In 32 giorni nessuno avrebbe potuto fare meglio”. Aveva ragione lei a prendermi in giro, e torto io».

Perché?

«Non bisogna essere permalosi, tanto più che ho continuato la battaglia da dentro il gruppo dirigente. Comunque dal partito non me ne sono mai andato».

D’Alema, Bersani, Speranza sì.

«E ora rientrano. Ero convinto che stessero sbagliando. Pensavano che il Pd con Renzi avesse perso l’anima in modo irreversibile. Non era vero».

Ora lei in Parlamento c’è tornato.

«Dopo quattro anni di cassa integrazione, all’inizio a zero ore».

Com’è andata?

«Scaduto nel 2018 il mandato, il tesoriere...».

Bonifazi.

«Il tesoriere mi disse, senza malizia, che per il mio bene non avrei percepito lo stipendio da funzionario del partito, pur continuando a lavorare. Cosa che ho fatto volentieri, consapevole che c’erano tanti cassintegrati messi peggio di me».

Cosa pensa della Meloni?

«Una leader più attrezzata di Salvini. Ma la sua non è la destra delle liberalizzazioni, o quella berlusconiana del conflitto di interesse, o quella leghista delle felpe. È una destra dura, strutturata. Non è folklore; è un impianto, un’ideologia. Per batterla culturalmente dovremo mobilitare tutte le nostre risorse e farlo nella società».

Sul serio crede a un rischio autoritario?

«Credo al rischio indicato da Dossetti: ogni governo autoritario comincia con un’iniezione di paura a cui si offre un antidoto, ma in cambio di una quota di libertà».

Ad esempio?

«Ad esempio questo governo tratta la povertà come una colpa da espiare, come ai tempi di Dickens, quando i poveri per legge dovevano accettare un lavoro a qualsiasi salario, pena finire reclusi in ospizio».

Conte è più attrezzato di voi a fare opposizione?

«Più che la Meloni, Conte sembra voler distruggere il Pd. Proprio come Renzi. Sono in questo congresso anche per aiutare a impedirlo».

E Calenda?

«Mi è simpatico. Ma nel Cuore girato da suo nonno, più della parte di Enrico Bottini, gli sarebbe piaciuta quella di Franti».

Perché ora lei si candida a leader? Non è che l’idealista Cuperlo in fondo è un ambizioso?

«Se lo fossi, avrei accettato il posto da ministro che mi è stato offerto, e per due volte».

In quali governi?

«La prima volta nel governo Gentiloni; ma avevo votato sì al referendum, e non volevo essere accusato di alto tradimento. La seconda nel Conte bis; ma non mi convinceva l’operazione, fatta senza neppure consultare i nostri iscritti».

Perché ora la sua corsa impossibile alla segreteria del Pd?

«Umberto Saba scrisse una lettera a Scipio Slataper per chiedergli cosa restava da fare ai poeti; la sua risposta fu: una poesia onesta. Vale lo stesso per noi. Ci resta da fare una politica onesta. Che non significa solo non rubare, ma mostrare che si è disposti a rischiare».

Perché non va bene Bonaccini?

«È un amico e lo stimo, ma dietro a lui come dietro a Elly vedo ripararsi tutto il solito e inamovibile establishment, quello che ha passato ogni temporale senza mai bagnarsi. E poi non credo al partito dei soli amministratori. Il doppio incarico, come ha dimostrato il caso Zingaretti, non funziona. Dobbiamo coinvolgere soprattutto gli amministrati. Il Pd va rifondato e aperto ai movimenti, alla società».

E l’altro?

«Quelli convinti che solo la partecipazione popolare possa cambiarci. È il filone in cui mi riconosco. Quello di Gobetti, Gramsci, Sturzo».

Berlinguer l’ha mai conosciuto?

«L’ho visto quando venne a Trieste, per i funerali di Vittorio Vidali, il comandante Carlos. Lo ricordo al bar della federazione prendere un caffè con Rafael Alberti, il poeta, che aveva conosciuto Vidali nella guerra di Spagna».

A Trieste lei torna ogni tanto?

«A trovare mia madre. Dopo la morte di mio padre volle andare a vivere in una Rsa, nel 2019. Il Covid fu un’esperienza terribile. A lungo non ho potuto vederla. Poi mi bardavano come un palombaro, me la trovavo davanti sulla sedia a rotelle, dietro un divisorio di plastica, su cui mettevamo il palmo della mano per salutarci, come i carcerati... Tutto il sistema delle Rsa andrebbe ripensato. Tutta la sanità pubblica è da salvare. Non le pare un’altra buona ragione per candidarsi?».

Ancora sciagure per il Pd: la Boldrini. Che dalle parti del Partito Democratico non se la passino particolarmente bene è cosa risaputa. Adesso arriva la certificazione, la bollinatura ufficiale. Francesco Maria Del Vigo il 24 gennaio 2023 su Il Giornale.

Che dalle parti del Partito Democratico non se la passino particolarmente bene è cosa risaputa. Adesso arriva la certificazione, la bollinatura ufficiale: Laura Boldrini ha deciso, per la prima volta, di iscriversi ufficialmente ai dem. La titolare di una delle più disastrose e faziose presidenze della Camera della storia repubblicana, la paladina delle «risorse» alle quali spalancare porte e porti del Paese, l'alfiera (il sostantivo probabilmente non esiste, è solo maschile, ma in ossequio alle sue ossessioni lo abbiamo coniato) del femminismo più estremo che vede ovunque machismo e patriarcato, la denunciatrice indefessa di fascismi inesistenti, ebbene proprio lei, ha deciso di dare il suo contributo al partito di Largo del Nazareno, per rinnovarlo. Ovviamente, manco a dirlo, in quota Elly Schlein.

«Non sono mai stata iscritta, ho deciso in questa occasione di iscrivermi al Pd proprio perché bisogna rinnovarlo e rafforzare l'unico argine che esiste alla destra più destra di sempre», ha spiegato con toni da pasionaria ai microfoni della web radio dei democratici. Un'adesione più per risentimento, che per sentimento, dunque. Sempre la solita storia del proprio scranno come l'ultimo bastione contro l'avanzata di qualche fantomatico nemico della democrazia. Che poi, in questo caso, sarebbe il partito che ha raccolto più consensi alle ultime elezioni che, incidentalmente, sono la massima espressione della democrazia stessa. Ma il problema, per l'ex numero uno di Montecitorio, è la «destra più destra di sempre» (qualunque cosa significhi) contro la quale immaginiamo voglia schierare la sinistra più sinistra di sempre. Praticamente comunista. D'altronde con un candidato alla segreteria come Stefano Bonaccini, che si vanta con orgoglio del suo passato tra falci e martelli e la sua concorrente - la sopraccitata Schlein -, che incarna le anime più estreme dell'ecologismo, dell'immigrazionismo e dell'anti liberismo, la deriva rossa è assicurata. Ci mancava solo la Boldrini che, oggettivamente, ora ha buoni motivi per sentirsi a casa propria.

Se si guardassero allo specchio griderebbero da soli all'allarme per la tenuta democratica del Paese. Che in verità, almeno da questo punto di vista, gode di buona salute.

Boldrini, la nuova “Che” del Pd. Meloni? Non è democratica. "Voglio un partito femminista". Michel Dessì il 27 gennaio 2023 su Il Giornale.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

PADEL? PDL? LA COSA? Il Partito Democratico è in cerca di identità. Tranquilli, ci pensa Laura Boldrini a dargliela. L’identità, si intende. L’ex presidente(ssa) della Camera dei Deputati è convinta: “il Pd deve cambiare nome, anima”. Ma basterà a risollevarlo? Difficile dirlo, ma lei ci prova. La intercettiamo fuori dalla Camera in un desolante lunedì romano.

E via con l’elenco dei desiderata. “Vorrei un partito femminista, pacifista, europeista, ambientalista…” insomma una cosa nuova. Poi l’attacco ai giornalisti rei di “ridacchiare” alle spalle del Partito Democratico “irrispettosamente” dice. Laura Boldrini è un fiume in piena, ne ha anche per Giorgia Meloni, poco democratica a suo dire. Il riferimento è al partito della Premier, Fratelli d’Italia, guidato da una donna. Sola “al comando”. Sarà per questo che il Pd è ormai agonizzante se non già morto? Troppe correnti, troppe idee diverse. “È il bello della democrazia” dicono loro. Dice lei.

Ovvio, ma un partito non può certamente essere diviso all’interno sui grandi temi. Le idee, i principi, le finalità devono essere condivisi da tutti. È il minimo, altrimenti che senso ha chiamarsi comunità, partito?! Eppure, in casa Dem non è affatto così. C’è chi dice “no all’invio di armi all’Ucraina” e chi, invece, crede siano “necessarie” per poter vincere contro la Russia. Chi preferisce le centrali nucleari ai pannelli solari; chi vuole il Jobs act e chi il reddito di cittadinanza e così via… E pensare che ogni giorno da via del Nazareno partono offese contro il centrodestra per le divisioni interne nella maggioranza. Certo, ci vuole coraggio. Anche perché a destra (sono tre partiti diversi) “le diversità di vedute sono un valore aggiunto” per usare le parole di Silvio Berlusconi.

Ma cosa tiene insieme i Dem? L’amore per la Patria (ops, l’Italia) o il potere? Beh, delle due forse la seconda. A volte bisognerebbe avere il coraggio di strappare, di fare altro. Di lottare per le proprie idee. Ma in certi ambienti, si sa, il coraggio manca. Per fortuna c’è la Boldrini, la nuova “Che” - Guevara del Pd.

Luciana Castellina: «Vedevo Mussolini a casa sua, ero amica della figlia. Ad Atene rubai un Taxi». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2023.

«Villa Torlonia era orrenda. I miei figli da giovani erano comunisti, l’America me li ha rovinati»

Qua è il 1940 ed è compagna di scuola di Anna Maria Mussolini: «Andavo a giocare a Villa Torlonia. La cosa più sorprendente era l’interno della villa: disordinata, sembrava un magazzino». Qua è il 25 luglio 1943, il giorno dell’arresto di Mussolini: «In vacanza per la prima volta a Riccione, stavo giocando a tennis con Anna Maria. Interruppero la partita all’improvviso, la portarono via». Qua invece è il 1967 e si trova ad Atene dopo il golpe dei colonnelli: «Avevano arrestato duemila persone ma nessuno sapeva dove fossero. Venni a sapere che li avevano portati allo Stadio del Phalerion. Con Furio Colombo salimmo su un taxi ma il tassista si rifiutò di spingersi fin lì. Con la scusa di un caffè, lo lasciammo in un bar e prendemmo la macchina. Il giorno dopo mi arrestarono».

Se Luciana Castellina dimostra tanti in meno dei suoi quasi 94 anni, molto si deve alla scelta di avere la Storia come compagna di allenamento. Con il Novecento ha corso, combattuto, giocato a tennis.

Sua mamma era per metà ebrea. Che cosa ricorda delle leggi razziali?

«Avevo zie e cugini che si nascondevano dentro casa, ai Parioli. Ma non sapevo del rastrellamento del Ghetto, di San Lorenzo bombardata. Anzi, non sapevo neanche che esistessero le borgate, la Roma oltre quella che frequentavo. Non sapevo neanche che ci fosse stata la Resistenza, a Roma».

Compagna di scuola di Anna Maria Mussolini, frequentava Villa Torlonia.

«Anna Maria aveva avuto la paralisi infantile ed era molto protetta. Chiedeva qualsiasi cosa e la otteneva. A casa sua c’era una casa sull’albero e poi il cinema, vedevamo i film dell’Istituto Luce».

Vedeva Mussolini?

«Donna Rachele più spesso ma anche lui, qualche volta. Girava per questa villa che dentro era bruttissima, sembrava un magazzino».

Che cosa ricorda del 25 luglio 1943?

«Le guardie del corpo che interrompono all’improvviso la partita di tennis tra me e Anna Maria, a Riccione. “Anna Maria deve venire via subito”, e la portarono via».

Come divenne comunista?

«Nove giorni dopo la Liberazione partecipai con i compagni di scuola a una manifestazione per Trieste italiana. Quelli del Pci ci picchiarono di santa ragione e non capivo il perché. Scoprii solo dopo che era una manifestazione organizzata da un gruppetto di neofascisti, che poi diedero l’assalto alla sede del Pci. Respinto l’assalto, dalla direzione del Pci venne fuori un certo Jacchia, che fece un comizio sulla pulizia etnica nei confronti degli sloveni. Il giorno dopo andai a scuola e cercai questi comunisti».

Chi trovò?

«Citto Maselli. Guidava il circolo culturale del Tasso. Seppe della mia ambizione a diventare pittore (non usa il femminile, ndr) e mi invitò a tenere una conferenza sul cubismo. Avevo quindici anni e quella fu la prima cosa che feci per i comunisti. Mi iscrissi al Fronte della gioventù (l’embrione della Federazione giovanile comunista, ndr) e nel 1947 partecipai a uno scambio di studenti Roma-Parigi; conobbi Sartre e Simone de Beauvoir, vidi la prima esibizione di Juliette Gréco. Qualche mese dopo ero a Praga al Festival della Gioventù, poi in Jugoslavia mi unii ai ragazzi che lavoravano alla ricostruzione della ferrovia Samak-Sarajevo. Tornai a Roma col diploma di “stakanovista”».

L’università?

«Ricordo Marco Pannella. Lui dirigeva i goliardi, io guidavo la lista di comunisti e socialisti. Entrambi candidati alle elezioni universitarie, entrambi eletti. L’esperienza più bella fatta in quegli anni è stata a Primavalle, nelle borgate. Le prostitute, soprattutto: avevano figlie che non facevano mai uscire per paura di consegnarle a un futuro da prostitute a loro volta. Noi dovevamo salvare quelle bambine, le portavamo a giocare a pallavolo».

Il rapporto con gli intellettuali del Pci?

«Per anni non li ho incontrati. Diffidenza reciproca».

Poi ne avrebbe sposato uno, Alfredo Reichlin, nel 1953.

«Quando successe avevo già capito come averci a che fare, con gli intellettuali».

Quante volte l’hanno arrestata?

«Cinque. La prima il giorno dell’attentato a Togliatti, 14 luglio 1948. L’ultima in Grecia dopo il golpe dei colonnelli, nel 1967. Paese Sera mi chiese di andare perché conoscevo Atene. Venni a sapere che le famiglie dei duemila arrestati chiusi allo stadio del Phalerion erano state autorizzate a portare dei pacchi a un commissariato. Mi spinsi fin lì con Furio Colombo e un cameraman Rai, dopo aver preso con l’inganno la macchina a un tassista. Il giorno dopo in hotel trovo una chiamata di Pino Rauti, che all’epoca lavorava al Tempo, ma non lo richiamo. Ancora qualche ora e, uscita dalla doccia, trovo la stanza piena di polizia. Ho giusto il tempo, prima dell’arresto, di inghiottire i foglietti di carta con gli indirizzi dei compagni ricercati. I giornalisti internazionali fecero un appello per la mia liberazione, in cima le firme del New York Times. Poi venni espulsa. Anni dopo, Rauti mi disse che voleva avvertirmi dell’arresto “ma lei non mi ha richiamato...”».

Le carceri italiane?

«Nel ’63 mi arrestarono durante una manifestazione degli edili. La Celere a cavallo aveva assaltato la folla di manifestanti, che cercavano di scappare. La polizia controllava chi avesse le mani segnate dalla calce: chi le aveva era un edile e quindi veniva arrestato. A un poliziotto che stava fermando uno di loro dissi “ma lo lasci andare!”. Portarono via anche me, accusata di resistenza aggravata. Alla maestra che chiese a mia figlia che cosa avesse fatto la mamma, Lucrezia raccontò, in una lettera inviatami a Rebibbia, di aver risposto così: “Non è vero che la mamma ha preso a ombrellate un poliziotto perché non ha l’ombrello, e poi è disombrellata di natura”».

I suoi figli, Lucrezia e Pietro, sono diventati economisti di fama internazionale, lontani dal marxismo-leninismo.

«Erano entrambi giovani comunisti molto impegnati. Poi l’America (sorride, ndr) me li ha rovinati».

Lei è stata protagonista di molte scissioni della sinistra: il Manifesto-Pdup, poi di nuovo nel Pci. Come fu rientrare, nel 1984?

«Berlinguer, ormai in minoranza nel Pci, aveva marcato la distanza dall’Unione Sovietica e rotto il compromesso storico. Le ragioni dello stare separati erano svanite. Anni dopo, quando Occhetto propose lo scioglimento, insieme a Ingrao, Natta e Magri firmai la mozione numero 2, che si opponeva alla fine del Pci».

Ancora scissioni.

«Paolo Flores d’Arcais propose di scrivere una lettera di incitamento ai ragazzi italiani che stavano al fronte in Iraq, dov’era scoppiata la guerra degli Usa contro Saddam. A me disgustava la sola idea che si potesse proporre una cosa del genere. Io e Lucio Magri andammo via mentre i più giovani aderirono a Rifondazione comunista, dove però gli rendevano la vita impossibile. Decidemmo a quel punto di entrare anche noi, io feci il direttore di Liberazione e iniziarono a rendere la vita amara anche a me».

Con Rossana Rossanda siete tornate a scrivere sul manifesto, dopo la rottura che intervenne nell’ultimo periodo?

«Prima in un supplemento interno, “Sbilanciamoci”, poi sul giornale vero e proprio. Ma, a novant’anni compiuti, Rossana voleva convincermi a farne uno tutto nostro».

E lei che cosa rispose?

«Che non avevamo più l’età»

De Magistris condannato in appello: ecco perché. "Esternazioni gratuite", il parere dei giudici. L'ex sindaco di Napoli dovrà risarcire Salvatore Murone e pagare 1.000 euro di multa. Massimo Balsamo il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Sconfitta in tribunale per Luigi de Magistris. L'ex sindaco di Napoli è stato condannato dalla Corte di appello di Catanzaro per aver diffamato il magistrato Salvatore Murone. I tre giudici - Fabrizio Cosentino, Carlo Fontanazza e Paolo Ciriaco - hanno riconosciuto la responsabilità penale dell'imputato: oltre al risarcimento danni, il volto di Unione Popolare è stato sanzionato con una pena pecuniaria da 1.000 euro.

De Magistris condannato per diffamazione aggravata

De Magistris è stato condannato dalla Corte di appello per diffamazione aggravata a causa di alcune dichiarazioni risalenti al 9 marzo 2017. Ospite del talk politico "Piazzapulita" di Corrado Formigli, in onda su La7, l'ex primo cittadino partenopeo affermò che l'inchiesta Why Not "non fu portata a termine proprio perché fummo fermati da un sistema criminale fatto di pezzi di politica, pezzi di magistratura e pezzi di istituzioni, a danno dei presunti innocenti, perché se tu fermi un'indagine… e venuto fuori chiaramente che mi sono state scippate inchieste e che le inchieste non dovevano essere scippate".

Difeso dal professor Mario Murone e parte civile nel procedimento, Murone all'epoca dei fatti a cui si riferiva de Magistris, era procuratore aggiunto a Catanzaro, coordinatore del settore reati contro la Pubblica amministrazione, autore della relazione - datata 19 ottobre 2007 - trasmessa con nota riservata alla Procura generale di Catanzaro in risposta alla richiesta di informazioni sul procedimento Why Not. Successivamente, l'avvocatura generale dispose l'avocazione dell'inchiesta a de Magistris.

"Indagine scippate" e "sistema criminale fatto di pezzi di magistratura" i passaggi finiti sotto la lente di ingrandimento della Corte d'appello. Affermazioni "rese assolutamente fuori contesto", il parere dei giudici: "Le esternazioni di cui sopra si sono quindi rivelate assolutamente gratuite e non supportate da alcuna specificazione tale che potesse rendere maggiormente fruibile l'argomento alla gran parte degli utenti televisivi". Le condotte in questione, hanno aggiunto, appaiono "espressione di un dolo molto intenso" anche sotto il progetto soggettivo, "proprio perché commesse con modalità palesemente sfrontate, mediante l’accurata, intenzionale ricerca nella esposizione dei fatti , di frasi ed espressioni ad effetto, volutamente offensive, dei tutto sganciate dall’esigenza di narrazione obbiettiva dei fatti e, quindi, palesemente tese a riversare sui magistrati coinvolti, e quindi anche sull’odierna parte civile, un unanime giudizio di riprovazione e severa condanna".

Gli Affari.

Inchiesta Arcobaleno.

Inchiesta Leonardo.

Gli Affari.

Massimo D'Alema, brutta fine: segnalato dalla Digos e schedato in Questura. Libero Quotidiano il 20 agosto 2023

Da ex presidente del Consiglio a potenziale “mascalzone” schedato dalla Digos. È la triste parabola di Massimo D’Alema, che è il “protagonista” di una relazione approfondita dell’ufficio politico della Questura di Napoli. Il dossier contiene tutti i dettagli raccolti sulle attività palesi e occulte dell’ex premier, che i pubblici ministeri accusano di essere al centro di un cartello criminale specializzato nel traffico di armi. 

D’Alema è infatti indagato a Napoli per corruzione in merito alla vicenda della vendita di armi per 4 miliardi di dollari alla Colombia. Oltre all’ex leader della sinistra figurano nel registro degli indagati Alessandro Profumo (amministratore delegato di Leonardo), Giuseppe Giorno (ex manager di Fincantieri) e altre cinque persone. In particolare D’Alema viene accusato di aver svolto il ruolo di mediatore informale con i vertici delle società sugli accordi per le forniture. Stando a quanto portato alla luce dal Fatto Quotidiano, a novembre 2022 la Digos descriveva come “propulsivo” il ruolo dell’ex premier. 

D’Alema avrebbe infatti sfruttato una rete politico-istituzionale per il proprio tornaconto personale. Secondo la Digos ci sono “elementi convincenti e probanti da poter fondare ipotesi indiziarie sul conto dei soggetti investigati in quanto gli accadimenti narrati, pur meritori sotto l’aspetto delle articolate e opache dinamiche, si inquadrano nell’ambito di regolari scambi commerciali”.

Estratto da “Libero quotidiano” il 24 luglio 2023.

Da Botteghe Oscure agli affari immobiliari, dalla vigna alla consulenza di alto bordo. L’ultimo cambio di rotta di Massimo D’Alema - ex segretario del Pds con un passato come presidente del Consiglio dei ministri - è ora di veleggiare nel mare magno degli affari immobiliari. 

L’ex esponente della sinistra italiana- ha scoperto il quotidiano on line Open - ha infatti trasformato la sua società di consulenza, la DL&M advisor. Società che aveva aperto dopo avere lasciato la vita politica attiva. 

D’Alema avrebbe ancora qualche «problema giudiziario», ricorda il quotidiano fondato da Enrico Mentana, problemi saltati fuori per aver intermediato «una vendita di Fincantieri e Leonardo al governo della Colombia». Sta di fatto che la società d’affari di Massimo “Spezzaferro” continua a prestare consulenze, ma l’articolo 3 dello statuto è stato modificato per consentire anche l’acquisizione di partecipazioni e l’ingresso nel business immobiliare.

Il bilancio 2022 della DL&M advisor di D’Alema si è chiuso con un utile di 393.807, inferiore ai 581.697 euro dell’anno precedente. 

Anche il fatturato è sceso da poco più di un milione a 820.881 euro, di cui 24 euro realizzati in Svizzera. L’attività immobiliare non è ancora iniziata, mentre c’è stata la prima acquisizione con la nuova missione da holding di partecipazioni. Tutto però si è svolto in casa. 

La DL&M advisor infatti è diventata azionista di minoranza della società agricola La Madeleine s.s., che produce i vini di D’Alema. Per 740 mila euro è stato infatti rilevato il 30% del capitale dal fondo di investimento Amana Investment Glass Fund SCSp che era entrato in fase di lancio dell’azienda agricola. Ora tutto il capitale è in famiglia, visto che gli altri azionisti sono la moglie Linda Giuva e i figli Giulia e Francesco D’Alema. Alla guida dei vini non c’è più però la signora Linda, che si è dimessa, affidando la carica di socio amministratore alla figlia Giulia, classe 1986

(...)

Capitani nostalgici. Il D’Alema di ieri, quello di oggi e il fallimento profetico della scalata a Telecom. Mario Lavia su L'Inkiesta il 21 Agosto 2023.

Ventiquattro anni fa l'ex presidente del Consiglio era visto come un leader forte e ambizioso, con il potenziale per costruire un'immagine di un premier comunista in stile blairiano. Poi molte cose sono cambiate e ora si parla più delle sue indagini che dei suoi trascorsi politici

Massimo D’Alema, parlando con Fabio Martini della Stampa, ha rievocato con poche parole, e sempre col tono del «quando c’ero io, caro lei…», la vicenda dell’ottobre 1999 – era presidente del Consiglio dopo la manovra bertinottiana, e non solo, ai danni del governo di Romano Prodi – dell’operazione tentata da Roberto Colaninno, scomparso venerdì scorso. 

L’imprenditore mantovano, come si ricorderà, voleva scalare Telecom, un affare da centoventimila miliardi di lire, l’emblema, per D’Alema, di un nuovo capitalismo moderno che voleva prendere il posto di quello dei salotti e delle vecchie famiglie. Era il D’Alema di ieri così sideralmente lontano dal D’Alema di oggi, di cui si parla esclusivamente per le vicende giudiziarie legate alle mediazioni per la vendita di armi e quant’altro. Chi scrive era presente, come cronista intrufolato, a una riunione a porte chiuse a palazzo San Macuto dove era presente il gotha del governo e della sinistra quando l’allora presidente del Consiglio decantò le lodi dei «capitani coraggiosi», ponendo il mercato al centro di tutto, e non nascose che forse i “capitani” avevano fatto «un passo più lungo della gamba». 

Era il D’Alema che aveva, o sembrava avere, il Paese in mano e con un grande futuro davanti a sé. Molti nemici, anche interni, lo consideravano in combutta con Colaninno per mettere alla testa dell’economia italiana una nuova generazione di imprenditori anche per suoi obiettivi personali: un disegno molto ambizioso, pezzo fondamentale per costruire l’immagine del premier comunista ormai blairiano. Che fallì, come poi fallì il suo governo. Però comunque si valuti quel passaggio era una cosa enorme, e che fosse il leader della sinistra a governarlo era davvero un fatto rilevantissimo, degno di uno statista, così si pensava allora del D’Alema di ieri. 

Da quel fallimento sono passati ventiquattro anni, lo stesso lasso di tempo che separa la fine di Benito Mussolini dal primo passo di Neil Armstrong sulla Luna. E dopo tutte le peripezie e il suo discutibile girovagare politico tanto lustri dopo si arriva al D’Alema di oggi del quale scrivono soprattutto i giornali di destra. 

Ora, poche  cose sono noiose come le ricostruzioni degli affari di Massimo D’Alema. Aspettiamo la chiusura delle indagini, annunciata ieri per «dopo le ferie» da Luca Fazzo del Giornale da anni in ottimi rapporti con le Procure di mezza Italia, ma a quanti risulta non sembrano emergere prove di corruzione tali da autorizzare il rinvio a giudizio dell’ex presidente del Consiglio. Sono fatti suoi. 

Si può giudicare sconcertante – per molti lo è – il fatto che un leader della sinistra di quel peso abbia lasciato la politica per dedicarsi a commerci di varia natura, anche con gente non esattamente amica e che nulla ha a che fare con la storia del movimento operaio mondiale di cui egli si considera parte non irrilevante ma, ripetiamo, sono fatti suoi, del D’Alema di oggi. 

Fazzo ha ripreso la notizia data il giorno prima dal Fatto Quotidiano circa la schedatura dell’ex presidente del Consiglio «come un Leoncavallino», scrive Fazzo sorvolando che quelli sono di Milano da parte dell’Ufficio politico della Questura di Napoli che in una sua terza relazione suggerisce ai pm napoletani che D’Alema sarebbe a capo di una “cricca” – qui Fazzo rispolvera un aggettivo dei tempi di Stalin – cioè un gruppo di gente che agiva in un «contesto simbiotico di un reciproco tornaconto personale» nella quale il D’Alema di ieri emerge con il suo peso «sintomatico del ruolo propulsivo e decisionale discendente dalla caratura e storica militanza negli apparati del potere». 

Un momento: ma come parlano questi? «Ruolo propulsivo», sembra Enrico Berlinguer, «storica militanza negli apparati di potere», ma che cosa si milita negli apparati? Da dove salta fuori questo linguaggio da ciclostilato da anni Settanta? Forse alla Digos di Napoli sono tutti sociologi laureati a Trento?  Vedremo se i pubblici ministeri resteranno affascinati da questa koinè ideologica, certo l’impressione è che gli spifferi della politica siano penetrati nelle stanze della giustizia. Oppure invece se il tutto si risolverà in una bolla di sapone. Un po’ come quella di Telecom sponsorizzata dal D’Alema di ieri.

Estratto dell’articolo di Nicola Borzi per “il Fatto quotidiano” domenica 20 agosto 2023.

Morto ieri a 80 anni, Roberto Colaninno da tempo era lontano dai riflettori della finanza. Ma da metà anni 90 per un quindicennio il manager e imprenditore di Mantova aveva tenuto banco nelle cronache per le sue numerose scorribande, spesso benedette dalla politica nazionale ma non sempre dal successo. 

De mortuis nisi bonum è il mantra di questo Paese: dunque giù lodi per un capitano d’azienda che ha fatto parlare molto di sé, ma le due cui due maggiori avventure, Telecom e Alitalia, non sono tra le case history da insegnare nelle business school.

[…]  Da Mantova “l’ingegnere” lo porta a Ivrea, dove nel 1995 prende le redini della Olivetti in crisi nera. Colaninno cede l’informatica e trasforma l’azienda in holding di telecomunicazioni. Nel 1998 vende per oltre 7 miliardi Omnitel, all’epoca secondo gestore nazionale dei cellulari. 

[…]  L’apice lo tocca a inizio 1999 quando, con la benedizione di Palazzo Chigi dove all’epoca siede Massimo D’Alema (“l’unica merchant bank dove non si parla inglese”), Olivetti crea una cordata di imprenditori del Nord tra i quali il bresciano Emilio Gnutti […] e con un sistema di scatole cinesi societarie porta al successo un’offerta pubblica di acquisto totalitaria su Telecom Italia, privatizzata da poco e gestita da un “nocciolino duro” di azioni, pagando la cifra monstre di 117 mila miliardi di lire, suppergiù 59 miliardi di euro.

Poi riversa i debiti per “la madre di tutte le Opa” sul gigante delle Tlc europee, che nonostante due decenni di tagli e cessioni da quel salasso non si è più ripreso e ormai è un attore di secondo piano nel settore. 

Lui ne esce nel 2001, cedendo a Trochetti Provera in cambio di un gruzzolo adeguato e della Immsi. […] a dicembre 2008 nuova avventura: il governo Berlusconi benedice i “capitani coraggiosi” guidati da Colaninno che comprano il 75% di Alitalia-Cai. A ottobre 2013 Cai arriva al capolinea dopo aver perso un miliardo e 252 milioni in 4 anni e 7 mesi.  A confronto, i 5 miliardi di perdite in 20 anni dell’Alitalia pubblica erano quasi meglio. […]

Estratto dell’articolo di Fabio Martini per “La Stampa” domenica 20 agosto 2023. 

[…] D'Alema ha un ricordo forte: «Devo dire la verità: credo che sia una perdita significativa per l'economia italiana: oramai non abbiamo più, tra i grandi, molti imprenditori-produttori, che cioè abbiamo un interesse preminente per la produzione di beni. In occasione dell'Opa su Telecom, Colaninno fu protagonista di un'operazione senza precedenti: in Italia mai una grande impresa era passata di mano sul mercato, ma sempre attraverso i salotti».

Sono passati 24 anni dalla celebre Opa Telecom ad opera dei "capitani coraggiosi", da allora se ne è molto discettato e tra i principali protagonisti ci fu una strana coppia: il primo presidente comunista della storia d'Italia e quel figlio di un sottufficiale dell'esercito e di una sarta, che aveva studiato ragioneria e aveva dovuto smettere l'Università a Parma per iniziare a lavorare.

Roberto Colaninno aveva mostrato subito di saperci fare alla guida di piccole e grandi imprese, fino a quando alla fine degli anni Novanta, consigliato da banchieri d'affari interessati a guadagnare commissioni miliardarie, si era deciso al grande passo: tentare la conquista di Telecom.

A Palazzo Chigi piaceva l'idea di campioni nazionali capaci di conquistarsi un posto al sole e questa simpatia ha incoraggiato dietrologie di ogni tipo sul rapporto personale tra Colaninno e D'Alema. 

L'ex presidente del Consiglio affronta l'argomento con un sorriso divertito, privo del proverbiale sarcasmo: «Quando lui fece la famosa Opa, io non lo conoscevo personalmente, cosa alla quale non credeva nessuno e tutti si facevano matte risate, ma in realtà diversi anni dopo Colaninno mi disse: "Caro D'Alema hanno messo in giro la voce che avrei pagato tangenti per Telecom e noi sappiamo come stanno le cose e perciò ti chiedo: ti posso offrire una cena?". Un aneddoto che D'Alema corona così: «Ricordo che andammo a cena con le nostre famiglie».

[…] Massimo D'Alema chiosa così: «Parliamoci chiaro: in Italia mai una grande impresa era stata acquisita sul mercato, ma sempre attraverso i salotti. Era un'operazione di mercato in un contesto di capitalismo asfittico e controllato da pochi. Ricordo che dissi ad Umberto Agnelli: il governo non c'entra e se lo ritenete possibile, perché non fate una controfferta?». 

Operazione con forti margini di rischio, legata ad una scommessa: colmare il forte debito del passato con gli utili del futuro. E infatti non mancarono le riserve, a cominciare da quella di Draghi, allora direttore generale del Tesoro. Ricorda D'Alema: «La linea del governo ovviamente la decidemmo assieme. Avevo come ministro dell'Economia Carlo Azeglio Ciampi, che non era precisamente uno che facesse quel che dicevo io. Con lui discutevamo con grande rispetto reciproco.

L'idea in definitiva era questa: se davanti ad un'operazione di mercato, il governo fosse intervenuto per impedirla, sarebbe stato un messaggio molto antipatico, che avrebbe potuto allontanare investitori stranieri». 

Lo Stato avrebbe potuto far valere i propri "diritti" su una azienda strategica come Telecom? D'Alema obietta: «Avremmo potuto far leva su una piccola quota pubblica, ma come avremmo potuto opporre un interesse strategico del Paese, quando un gruppo di italiani voleva comparsi un'azienda italiana? Capisco, se fossero stati ostrogoti…». 

[…] Per D'Alema, «Colaninno avrebbe dato un'impronta diversa alla storia delle tlc nel nostro Paese». E dunque quale è stata la sua cifra imprenditoriale ed umana? «Anche alla Piaggio ha dimostrato di essere un industriale e di non essere uno speculatore. Era un uomo estremamente perbene».

Inchiesta Arcobaleno.

L'inchiesta, avviata da Emiliano, aveva toccato D'Alema. ITALIAOGGI - NUMERO 121   PAG. 13 DEL 22/05/2012

L'inchiesta sulla missione Arcobaleno aperta dall'allora pm Michele Emiliano e che costituisce un'ombra per l'immagine di Massimo D'Alema va in prescrizione. E torna il sereno tra il sindaco di Bari e il presidente del Copasir che ne benedice la successione a Nichi Vendola come governatore. Dopo 12 anni dall'avvio dell'inchiesta sulla missione Arcobaleno, l'operazione di aiuti umanitari per i kossovari in fuga dalla guerra dei Balcani, la settimana scorsa i giudici di Bari hanno dichiarato il non luogo a procedere per tutti gli imputati a causa dell'intervenuta prescrizione. Tutto nacque dalla denuncia del settimanale Panorama sui container carichi di aiuti che rimanevano fermi nel porto di Bari anziché partire per l'Albania e alcuni filmati sui furti di derrate nel campo albanese. L'allora rampante pm Emiliano avviò l'indagine che arrivò ai piani alti di Palazzo Chigi abitato proprio da D'Alema. Vennero indagati molti nomi noti vicini all'allora premier e alla conclusione delle indagini, vennero rinviate a giudizio 17 persone tra le quali l'ex sottosegretario alla protezione civile di quel governo Franco Barbieri. D'Alema non fu mai toccato dall'inchiesta ma da buona parte del centrodestra continua a seminare sospetti sulla vicinanza dei suoi uomini e dubbi sullo stop di Emiliano. Un anno, Giancarlo Perna del Giornale ricordava a D'Alema quando «eri a Palazzo Chigi e dichiarasti guerra alla Serbia, la sola alla quale l'Italia abbia partecipato dopo il 1945: anche questo hai sulla coscienza. I bombardamenti in Kosovo, provocarono un mare di profughi. Poi, da tipico coccodrillo, hai cercato di risarcirli con un caravanserraglio di aiuti - l'operazione Arcobaleno, appunto - che in breve si rivelò una fonte di ruberie, stando almeno al pm barese, Michele Emiliano. Ti indignasti da par tuo: «Scandalo inventato. Manovre da bassa cucina». Ma il pm arrestava a frotte i tuoi amici e sodali, i compagni della Cgil, ecc. Poi, di colpo, Emiliano lasciò l'inchiesta per candidarsi sindaco di Bari. Nel 2004, fu eletto alla testa di una coalizione di sinistra che faceva capo a te. Devi davvero avere un grande appeal sui magistrati, Max caro. E non solo sui due pm citati. Infatti, sono trascorsi 12 anni e non c'è stata una sola udienza del processo. Ancora uno sforzetto e si prescriverà». Il rapporto tra Emiliano e D'Alema in questi anni ha avuto alti e bassi e spesso ad entrambi è stata ricordata quella missione che li ha fatti conoscere. Veleni o no, adesso quell'inchiesta è definitivamente finita e D'Alema potrà finalmente tirare un sospiro di sollievo perché nessuna altra strumentalizzazione potrà esserci ancora contro di lui. E probabilmente questo gli fa vedere Emiliano sotto una luce diversa.

Missione Arcobaleno, lo scandalo va in soffitta. Stefano Filippi il 6 Aprile 2006 su Il Giornale. Tra il 2001 e il 2002 vennero interrogati sulla vicenda Rutelli, Veltroni, Bianco Folena e Cofferati. Poi la Quercia decise di far eleggere sindaco il procuratore... 

Lo scandalo che fece tremare Massimo D'Alema e il suo governo scoppiò nell'estate 1999, quando Panorama scoperchiò il grande intrigo della Protezione civile. Sul molo Mezzaluna del porto di Bari marcivano 679 container pieni di aiuti donati dagli italiani al popolo kosovaro martoriato dalla guerra balcanica. Ancora Panorama fece circolare un video con il saccheggio del campo di Valona. Scattarono le inchieste, lunghe, difficili e molto delicate. Ma la più importante, quella condotta dal pm barese Michele Emiliano, sta facendo la stessa fine delle tonnellate di cibo, medicinali, coperte, vestiti mai giunti ai destinatari. Abbandonata. E con il concretissimo rischio di cadere in prescrizione.

Il premier ds aveva voluto quell'intervento umanitario battezzandolo Missione Arcobaleno, l'aveva magnificato come «il fiore all'occhiello dell'Italia» e posto sotto la tutela di Eugenio Scalfari, Norberto Bobbio e Indro Montanelli. La gara di solidarietà si era però trasformata in un'orgia di sprechi e ruberie, mentre D'Alema insisteva a parlare di «scandalo inventato» e di campagna denigratoria. Furono 15 le inchieste aperte dalla giustizia penale, civile, contabile e militare. Emiliano condusse investigazioni coraggiose. Indagò il capo della Protezione civile Franco Barberi con altre 25 persone, arrestò il capo della missione e i responsabili dei campi profughi; scoprì contraffazioni dei registri, irregolarità nella gestione dei soldi donati dagli italiani, connivenze con la malavita albanese. Ma il pm andò ancora più lontano. Ricostruì giri di tangenti nelle forniture del vestiario per i pompieri e ipotizzò un presunto finanziamento ai partiti, in particolare i Ds, che coinvolgeva anche uomini della Cgil. Al centro ci sarebbe stato il Cesar (Centro studi aeronautici e ambientali), organismo considerato vicino al Botteghino e consulente della Protezione civile, che avrebbe «consigliato» di impiegare servizi e materiali offerti da alcune aziende affiliate.

Due parlamentari ds, Giovanni Lolli e Quarto Trabacchini (quest'ultimo tra i fondatori della Cesar) sono indagati per favoreggiamento per avere avvertito altri indagati che i loro telefoni erano intercettati dalla Digos. La fuga di notizie irritò moltissimo il pm: uno degli avvisati da Trabacchini e Lolli era infatti Fabrizio Cola, coordinatore nazionale della Cgil-funzione pubblica dei vigili del fuoco che Barberi voleva piazzare nel direttivo dell'Agenzia della protezione civile. Emergeva che la Protezione civile coordinata da Barberi, vulcanologo amico di D'Alema, stava diventando un gigantesco comitato d'affari che sfiorava i vertici del centrosinistra. Fra l'aprile 2001 e il marzo 2002, furono interrogati in gran segreto tra gli altri Francesco Rutelli, Enzo Bianco, Franco Bassanini e la moglie Linda Lanzillotta, Walter Veltroni, Enrico Micheli, Pietro Folena, Sergio Cofferati. I vertici dei Ds, della Margherita, della Cgil, ministri. Persone informate dei fatti, sia chiaro, non indagati. Ma è chiaro dove puntava la procura. Nel feudo dalemiano della Puglia, il fascicolo diventava troppo fastidioso.

Emiliano e l'allora procuratore capo Riccardo Dibitonto erano ossi duri. Nel centrosinistra si affacciò l'idea di candidare il magistrato a sindaco. D'Alema e i Ds si opposero, regalare Bari al giudice che li stava massacrando era davvero troppo, poi però si convinsero. Il 29 settembre il pm depositò in procura l'avviso di conclusione delle indagini preliminari (i reati ipotizzati vanno dall'associazione per delinquere all'abuso in atti d'ufficio, peculato, truffa, falso, attentato contro organi costituzionali, concussione e corruzione), poi chiese l'aspettativa per darsi alla politica. Fu eletto sindaco nel giugno 2004 e l'altro giorno ha avuto il suo momento di gloria con l'abbattimento dell'ecomostro di Punta Perotti. Un altro magistrato, il procuratore aggiunto Marco Dinapoli, ereditò il procedimento. Un giudice scrupoloso che ha letto tutti gli atti dell'inchiesta, «dalla prima all'ultima riga»: quasi 150 faldoni larghi una spanna custoditi in una stanzetta al quarto piano del palazzo di giustizia barese, uno sgabuzzino riservato al «P.P. 5796/99 rgpm», come è scritto su un foglio appiccicato alla porta sopra il disegno di un arcobaleno. Lettura lunga. E dopo la conclusione delle indagini preliminari bisogna sentire gli indagati che lo chiedono, svolgere supplementi di indagine, concedere alle difese di mettere a punto le strategie. Così, quasi sette anni dopo lo scoppio dello scandalo, la procura di Bari non ha ancora deciso nulla.

Inchiesta Leonardo.

Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo per “il Foglio” martedì 28 novembre 2023.

I respiratori […] fatti acquistare per circa 3 milioni di euro alla protezione civile dai cinesi durante la pandemia, poi l’indagine per corruzione sul traffico d’armi con la Colombia […]. Ecco. Ora Massimo D’Alema fa anche il lobbista per una compagnia aerea in cambio, a quanto pare, di 2.500 euro netti al mese. Che sono all’incirca lo stipendio di un impiegato di banca. 

[…] Se […] scriviamo oggi questo articolo è soltanto per notare con rammarico che D’Alema ha inspiegabilmente fatto di se stesso un personaggio cui sono vietati i pregi della non più giovane età. Ovvero quelli morali: la ponderazione, la scelta, la misura, il limite. Ma anche quelli fisici: il riposo, la calma, la cautela... il ballo del liscio.

Bill Clinton si è ritirato conservando il suo buon nome, Gerhard Schröder lo ha sporcato facendo il lobbista […] senza ritegno […], mentre D’Alema che ai tempi di Clinton e Schröder fu presidente del Consiglio, ministro degli esteri e leader della sinistra riformista italiana tenta di vendere aerei da guerra (ma finisce indagato), spaccia respiratori guasti (che vengono respinti) e si occupa di chissà quali altre patacche per 2.500 euro al mese. 

Questo ci fa riflettere. La sua fama di grandezza fino a oggi è stata soprattutto affidata a una circostanza tenuta in gran conto nei circoli della sinistra, dove, se domandate perché egli è universalmente rinomato, vi sentite sussurrare all’orecchio: “Ha fregato Prodi e Veltroni”, come se vi avvertissero con discrezione: “E’ Einstein”. Proprio sicuri che lo sia?

Il secondo decreto introduce una stretta ai magistrati fuori ruolo: il collocamento potrà scattare solo dopo 10 anni, per massimo 180 toghe ordinarie anziché 200 come oggi. Saranno necessari 3 anni di esercizio prima di un nuovo mandato fuori ruolo se il primo incarico è durato oltre 5 anni. Ma c’è una deroga per i ministeriali. 

Il clima resta arroventato. Crosetto dovrebbe riferire in Parlamento, sulle sue insinuazioni. Ma dove? […] I deputati dell’opposizione chiedono che l’informativa avvenga in Aula. La destra spera che le comunicazioni siano confinate al Copasir o in Commissione Antimafia, come lo stesso colonnello di FdI si è augurato. Il motivo è chiaro: in questo secondo caso, la seduta sarebbe secretata. […]

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 27 Novembre 2023

Ormai lo possiamo ribattezzare «il politico con le ali». Massimo D’Alema, nella sua nuova vita di consulente, sembra avere la passione smodata per i campi d’aviazione. Tanto da essere tornato in pista con la nuova compagnia Aeroitalia con la missione di aprire nuovi mercati all’estero. 

Ma fa specie che l’azienda, di proprietà al 100% del presidente francese Marc Bourgade, abbia scelto per questo lavoro da lobbista un personaggio sospettato di corruzione internazionale per il ruolo di intermediario svolto nella celebre trattativa con il governo colombiano per la vendita di una trentina di aerei da caccia, sommergibili e corvette, prodotti da Fincantieri e Leonardo […].

In un audio svelato dalla Verità l’ex primo ministro auspicava di portare a casa 80 milioni di euro di commissioni e, invece, si è trovato sotto inchiesta e senza neanche la consolazione di un bell’assegno. A causa di quello scandalo, D’Alema è rimasto in panchina per un po’, ma adesso sembra essere tornato a giocare con gli aeroplanini, come consulente della compagnia Aeroitalia per aprire mercati stranieri. 

[…] D’Alema, a quanto risulta alla Verità, ha firmato un contratto che prevede un fisso mensile di 5.000 euro e delle success fee che saranno quantificate se la compagnia aprirà nuove rotte all’estero anche grazie al suo lavoro.

I contenuti dell’accordo ci sono stati confermati dall’ad Gaetano Intrieri, il quale ci ha spiegato come sia arrivato a D’Alema: «Ce lo ha presentato una società di intermediazione finanziaria, la Euroansa, a cui ci eravamo rivolti per trovare degli advisor. L’ex premier lavora con noi da circa un mese». 

Il manager ci descrive la natura dell’incarico: «È uno dei consulenti che abbiamo per andare sui mercati stranieri. Deve darci una mano nelle relazioni diplomatiche. Noi stiamo volando essenzialmente in Italia e per questo cercavamo un advisor per la parte estera... lui ha una società di consulenza».

La DL & M advisor di D’Alema nel 2020 ha fatturato 426.000 euro con 202.000 di utili, l’anno dopo gli affari sono decollati (1 milione di fatturato e 581.000 euro di guadagno), mentre, con l’esplosione del Colombiagate, le entrate sono un po’ calate, come i profitti (rispettivamente 815.000 e 393.000 euro). 

Inizialmente Intrieri glissa sui problemi giudiziari di D’Alema e lo facciamo anche noi. Prevediamo che Aeroitalia potrà volare in Paesi come Colombia, in Albania, in Cina, in Libano, tutti Stati in cui l’ex premier ha rapporti consolidati, e l’ad ammette: «Mi ha detto che è forte in Cina, ma purtroppo noi non abbiamo gli aerei per arrivare fin là e neanche in Colombia. Mi ha anche riferito che si reca spesso a Tirana. Comunque non siamo interessati a queste rotte e siamo noi che gli diciamo dove vogliamo andare.

Stiamo cercando di indirizzarci verso la Spagna, il Medio Oriente, ma soprattutto ci interessa la Francia, dove le garantisco che l’ex premier è forte. Un altro obiettivo era Israele, ma adesso, ovviamente, ci siamo un po’ fermati». 

In quale altro Paese pensate vi possa aiutare D’Alema? «Adesso che siamo stati designati sul Cairo dall’Enac (ente nazionale per l’aviazione civile), questa è un’altra destinazione a cui siamo molto interessati, e quando vai in quei posti cerchi di stabilire contatti con le autorità locali... altrimenti non fai business. D’Alema ormai fa questo, è un costruttore di relazioni internazionali». 

Chiediamo se con la decisione di ingaggiare l’ex premier, non abbiano paura di essere etichettati politicamente e il manager ci risponde: «Per carità. Noi siamo super partes. Abbiamo anche Renato Schifani». Ma lui è un governatore... «Sì, però ci aiuta molto, siamo molto legati a lui... c’è un rapporto molto forte perché lui ci ha scelto per risolvere il problema del caro voli e questo ha creato una forte cooperazione tra noi e la Regione siciliana».

Quindi non c’è un rapporto economico con lui? «Assolutamente no, Schifani non è un advisor, ma è un governatore con cui collaboriamo moltissimo e che per noi sta lavorando molto bene». 

A questo punto decidiamo di giocare a carte scoperte e facciamo notare a Intrieri che come consulente hanno messo sotto contratto un personaggio accusato di corruzione internazionale […].

[…] Intrieri cade dalle nuvole (se fa finta, lo fa molto bene): «Mi coglie di sorpresa. Non ho mai sentito parlare di questa storia della Colombia. Ma quando è successo?». Spieghiamo che, a causa di questa vicenda giudiziaria, il reclutamento di D’Alema come advisor per l’estero ci sembra azzardata e Intrieri prova a smarcarsi: «La scelta, più che il sottoscritto, l’ha fatta il nostro presidente che gestisce gli advisor. Questo, però, sposta di poco la questione. E, in ogni caso, qui non c’è nessuno da corrompere. D’Alema non è stato chiamato per quello, ma perché è stato capo del governo».

Gli suggeriamo di approfondire l’argomento su Internet. Dopo pochi minuti Intrieri ci ricontatta e confessa: «Non nascondo di essere molto meravigliato. Io adesso ne devo parlare con il presidente e con l’advisory board, che sono sicuro fossero all’oscuro di questa cosa. D’Alema è venuto con noi in Sardegna e nessuno ha detto mezza parola. Sono sconcertato. Tra l’altro mi sembra una cosa anche abbastanza seria».

Poi ha un sussulto di garantismo: «Certo uno è innocente sino al terzo grado di giudizio, ma mi sembra un bel casino». Intrieri ci tiene a precisare che rispetto all’affare colombiano qui girino ben altre cifre: «Con noi 80 milioni, D’Alema non li prenderebbe neanche se lavorasse per i prossimi 50 anni. Qui le success fee non sono state nemmeno concordate, è ancora troppo presto. 

Il suo è un normale lavoro di lobbying e ogni commissione, a risultato ottenuto, può valere al massimo 20-30 mila euro. Noi non possiamo pagare i consulenti 1 milione. Io che sono l’ad percepisco uno stipendio di 7.500 euro netti e i 5.000 di D’Alema sono lordi».

Prenderete provvedimenti? «Penso che domani dovremo convocare un cda per valutare. Dovremo parlare anche con lui, che certamente non dirà di essere colpevole». […] 

Passano alcuni minuti e Intrieri ci richiama. La linea pare cambiata: «Ho parlato con il presidente e abbiamo concordato che prima di prendere qualsiasi decisione dovremo confrontarci con D’Alema. Le confermo, però, che né io né Bourgade fossimo a conoscenza di questa vicenda». 

Una retromarcia suggerita forse dall’allocuzione evangelica su chi abbia il diritto di scagliare la prima pietra. Infatti l’ad di Aeroitalia non ha fedina penale, né indole da lanciatore. Personaggio simpatico e ruspante ha fatto da consulente per la Procura di Civitavecchia nel procedimento sulla malagestione di Alitalia, ma, nel 2018, ha anche dovuto lasciare la squadra di esperti dell’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli per un problema giudiziario.

Infatti nel 2017 ha subito una condanna definitiva per bancarotta fraudolenta patrimoniale, di cui aveva dato notizia in anteprima questo giornale. Da amministratore delegato di un’altra compagnia aerea, la Gandalf Spa, fallita nel 2004, aveva sottratto 479.000 euro dai conti della società per appianare debiti personali e per questo è stato condannato a 2 anni e 6 mesi (grazie al riconoscimento delle attenuanti generiche). 

La sentenza biasimava la «condotta processuale» dell’imputato (con le sue dichiarazioni avrebbe «clamorosamente preso in giro il Gip» e avrebbe confessato solo dopo essere stato messo alle strette) e rimarcava la «non incensuratezza». Con noi Intrieri mostrò tutta la sua sportività: «Io quella condanna ce l’ho. Me la tengo, soffro e sto zitto».  […]

 Il Colombiagate resta alla Procura di Napoli. Ombre sull'ex mediatore di D'Alema. Condannato il cognato di Bonavita, referente dello studio cui si appoggiava Baffino. Lodovica Bulian il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

Resta sotto il faro della Procura di Napoli l’intricato caso del Colombiagate, l’inchiesta per corruzione internazionale aggravata che vede indagato, con altre sette persone, l’ex premier Massimo D’Alema.

Che avrebbe tentato di mediare la vendita di navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo al Paese sudamericano. La procura generale ha stabilito, contrariamente a quanto chiesto dagli avvocati di alcuni degli indagati - tra cui l’ex ad di Leonardo Alessandro Profumo e l’ex direttore della divisione navi militari di Fincantieri, Giuseppe Giordo - che la competenza territoriale è dei magistrati partenopei, a cui era arrivato il primo esposto sul caso, e non di quelli romani. L’inchiesta è in corso, resa più complessa dalla transnazionalità delle indagini sull’affare, mai andato in porto, che si è sviluppato nel 2021 tra Roma, Bogotà e Miami.

Fuori dall’indagine però emergono dettagli sul «team» di mediatori che avrebbe affiancato D’Alema nell’operazione che avrebbe dovuto fruttare 80 milioni, il 2% di un business da 4 miliardi. Secondo i pm, la metà del premio sarebbe stata «offerta o promessa a funzionari pubblici colombiani per la buona riuscita dell’affare». Andato in fumo perché Leonardo e Fincantieri non hanno più firmato il contratto con lo studio legale che su indicazione di D’Alema avrebbe dovuto gestire la mediazione, il Robert Allen Law di Miami. Il referente dello studio che affiancava l’ex premier è Umberto Bonavita, anche lui indagato. Curioso il contesto familiare di Bonavita a Miami. Come già raccontato da questo Giornale, il suocero dell’avvocato italiano è un ex agente, ora in pensione, della Dea, l’agenzia antidroga americana, John Costanzo. Lo è anche il figlio, John Costanzo jr. Che dieci giorni fa, come rivela l’Associated Press, è stato condannato, con un altro ex collega, in un processo per corruzione nato da un’indagine interna della Dea sulla presunta divulgazione di informazioni sensibili ad avvocati di sospettati di narcotraffico. Secondo l’inchiesta, Costanzo jr e il suo ex collega, Manny Recio che si dicono estranei alle accuse avrebbero messo in pericolo indagini e informatori. Tutto inizia quando Recio si ritira dall’agenzia per fare l’investigatore privato per alcuni avvocati di uomini dei cartelli della droga. Così avrebbe chiesto a Costanzo jr di entrare nel database della Dea per avere informazioni in cambio di denaro e utilità. Per gli inquirenti lo schema si sarebbe avvalso anche dell’intermediazione di Costanzo senior, «che avrebbe mentito all’Fbi», spiega Ap. Il padre su Linkedin si dichiara vice presidente dell’italiana Austech srl, con sede a Roma e «rappresentanza a Miami, che fornisce soluzioni di sicurezza a enti pubblici e privati, tra cui i servizi di intelligence in Italia».

Anticipazione da “Striscia la Notizia” mercoledì 25 ottobre 2023.

Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) torna l’inchiesta di Pinuccio, che da tempo si occupa del caso della vendita di armi alla Colombia con Massimo D’Alema come presunto intermediario, un affare da 4 miliardi per Leonardo e Fincantieri, con 80 milioni di euro di possibili provvigioni. 

Il Colombia-gate ha avuto a giugno una svolta giudiziaria in Italia: la Procura di Napoli ha contestato a D’Alema, Alessandro Profumo (ex ad Leonardo), Giuseppe Giordo (ex dg Fincantieri) e ad altri cinque indagati vicini all’ex premier il reato di corruzione internazionale aggravata. 

Ma rimane il mistero del ruolo dello studio legale Robert Allen Law di Miami (specializzato nel brokeraggio di imbarcazioni di lusso, che secondo alcune fonti sarebbe un tramite per questo affare di D’Alema) che spunta anche nelle carte dell’indagine della Procura. Tra gli indagati, in relazione con questa società americana, ci sono anche Umberto Bonavita e Gherardo Gardo.

L’inviato del tg satirico nel servizio in onda stasera intervista il giornalista americano Gerardo Reyes Copello, direttore dell’unità investigativa di Univision Network, che dichiara: «Bonavita è socio del signor Gardo che, a quanto ho capito, è un contabile di D’Alema. Esiste un altro contatto italiano in questo studio legale: la moglie di Bonavita, ovvero la figlia di un ex agente dell’antidroga DEA (Drug Enforcement Administration), John Costanzo, che prima era referente DEA all’ambasciata americana di Roma».

Pinuccio fa notare che è strano che nell’affaire in Colombia sia coinvolto proprio chi si occupava di narcotraffico. «Hai centrato il punto», commenta il giornalista americano. «Questo ex agente DEA era parte di un’organizzazione che riceveva denaro dai trafficanti di droga. Il signor Costanzo ha anche un figlio, a sua volta agente DEA, ora nei guai perché accusato di ricevere denaro dai trafficanti di droga in cambio di informazioni. E suo padre, John Costanzo, in qualche modo legato a questo studio legale, è stato segnalato perché uno dei suoi conti è stato utilizzato per ricevere le tangenti dai trafficanti di droga». Ed è impossibile che i servizi segreti non sapessero.

Estratto dell’articolo di liberoquotidiano.it sabato 7 ottobre 2023.

Un'altra bomba di Striscia la Notizia su Massimo D'Alema. Il tutto nella puntata di venerdì 6 ottobre, di cui la redazione del tg satirico di Canale 5 diffonde succose anticipazioni. Si parla dell'inchiesta di Pinuccio, l'inviato che dal marzo 2022 si occupa del caso della vendita di armi alla Colombia con presunto intermediario Massimo D’Alema: un affare da 4 miliardi. 

La vicenda a giugno ha avuto una svolta giudiziaria: la Procura di Napoli ha contestato a D’Alema, Alessandro Profumo (ex ad Leonardo), Giuseppe Giordo (ex dg Fincantieri) e altri cinque indagati vicini all’ex premier il reato di corruzione internazionale aggravata per una presunta intermediazione nella vendita al governo colombiano di forniture militari, fanno presente dalla redazione di Striscia. 

[…]

E ora Pinuccio mostra le carte delle indagini da cui emerge che D’Alema è stato definito dagli inquirenti “il garante e il dominus dell’intera operazione commerciale”. Ma non è tutto, poiché “le indagini hanno certificato, altresì, il modus agendi e la rete relazionale di cui si avvantaggia Massimo D’Alema, composta prevalentemente da un nucleo di persone stabilmente inserite nella vita pubblica e privata con legami radicati nel mondo politico-istituzionale che operano nel contesto simbiotico di un reciproco tornaconto personale".

La vera bomba, però, è un’altra. Sempre l'inviato Pinuccio mostra anche una inedita conversazione in cui Massimo D'Alema suggerisce a uno degli interlocutori coinvolti nel Colombia-gate di usare la piattaforma di messaggistica Signal al posto di Whatsapp, perché "più sicura". "Probabilmente per evitare eventuali intercettazioni", concludono da Striscia la Notizia.  

Colombiagate, Cirillo (Dc): “Come mai non esce il verbale dell’audit interno a Leonardo”. Redazione su L'Identità il 23 Agosto 2023 

di ANTONIO CIRILLO (segretario della Democrazia Cristiana)

“L’Italia è davvero il paese dei paradossi! Siamo riusciti a leggere sui giornali le intercettazioni (segrete? Legali? Illegali?) di D’Alema mentre parla della vicenda delle armi alla Colombia. Abbiamo avuto modo di leggere ieri e oggi materiali provenienti dalla Digos. Eppure ancora non siamo riusciti a leggere il verbale dell’audit interno di Leonardo su questa spiacevole e imbarazzante vicenda.

Come mai ? Dobbiamo forse supporre che questo derivi dal fatto che in Italia la sinistra ha, sia in magistratura che fuori da essa, un suo autonomo e inespugnabile sistema di potere talmente forte che quando ascolta i nemici politici spiattella informazioni sui giornali mentre quando ascolta gli amici (o si ascolta da sè) le cose non escono ? Può essere che il generale Luciano Carta sia espressione di una area vicina al Pd e che tale Di Capua (capo funzione audit di Leonardo e fratello di un importantissimo ex dirigente dei servizi segreti) faccia parte di quell’area e che Profumo sia tanto vicino a Massimo D’Alema ? Che sia questo il motivo per cui dopo un anno ancora non riusciamo a leggere quei verbali ?”

D’Alema: «Berlusconi sui magistrati ha avuto qualche ragione: era un combattente». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2023 

L’ex premier: sulla giustizia sollevava un problema reale, declinandolo però nel modo sbagliato. La sua morte? «Ho provato dispiacere, sapeva suscitare simpatia. Il suo segreto era una miscela di tradizione e innovazione» 

Presidente D’Alema, che cosa ha provato quando ha saputo della morte di Berlusconi?

«Ho provato dispiacere. Berlusconi era un combattente. Un avversario, certo, ma un uomo capace anche di suscitare ammirazione e persino simpatia dal punto di vista umano». 

È d’accordo con il lutto nazionale?

«È una decisione che corrisponde a un sentimento non di tutti, certo, ma di una parte importante degli italiani. Non credo che debba essere materia di polemiche». 

La prima volta che ha incontrato Berlusconi?

«Era il 1992, ero capogruppo alla Camera del Pds e a Montecitorio si discuteva un provvedimento che gli stava molto a cuore. Gianni Letta mi disse che Berlusconi avrebbe voluto incontrarmi. Ci vediamo in un ufficio di Fininvest a Roma, c’era anche Confalonieri. E Berlusconi fu bravissimo: per tutta la durata dell’incontro non fece mai riferimento alla legge che gli interessava». 

E di che cosa parlaste?

«Disse che era molto contento di conoscermi, che era colpito dalla “rara capacità” che avevo di spiegare la politica mentre i politici normalmente parlavano in modo “aggrovigliato”, che si vedeva che avevo fatto il giornalista. E poi mi chiese: “Perché lei non fa qualcosa con noi?”». 

In televisione?

«Sì. Gli dissi che non era possibile, visto che ero deputato della Repubblica. Lui rispose che secondo lui non era un problema tanto più che già Giuliano Ferrara, all’epoca parlamentare europeo del Psi, conduceva Radio Londra su Italia 1. Fu molto carino e mi regalò anche un libro: Il principe di Machiavelli, edito da lui e con una sua prefazione. Ci salutammo con cortesia. Quanto a quel provvedimento, noi continuammo a opporci e alla fine non passò». 

Quando capì che Berlusconi vi avrebbe sconfitti alle elezioni del ’94?

«Abbastanza presto. Anche perché vidi che buona parte dell’elettorato salentino del mio collegio di Gallipoli, tradizionalmente democristiano, stava slittando verso “il candidato di Berlusconi”, un esponente del Movimento sociale che in condizioni normali avrebbe preso il 5%. Mi resi conto che lui era riuscito a mobilitare il corpo profondo del moderatismo italiano contro “il pericolo comunista”». 

Quale fu il segreto del successo di Berlusconi?

«Era riuscito a catalizzare il voto conservatore e a riempire il vuoto lasciato dalla caduta del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani, ndr). Nel nome dell’anticomunismo ma anche presentandosi come “il nuovo” contro la vecchia politica dei partiti. Una miscela geniale di tradizione e innovazione». 

D’Alema, per il popolo berlusconiano lei era il nemico numero uno, per un pezzo dell’intellighenzia progressista l’uomo dell’inciucio con Berlusconi. Come lo spiega?

«I primi avevano sostanzialmente ragione. I secondi mancavano di qualche lettura di Gramsci sull’importanza del compromesso in politica». 

Pensa alla Bicamerale?

«La Bicamerale era nelle tesi dell’Ulivo, non nelle volontà di D’Alema. La commissione si concluse con un larghissimo voto favorevole e l’approvazione di una riforma costituzionale di quella ampiezza avrebbe evitato la demonizzazione reciproca di cui ha sofferto la nostra democrazia. Di questo si sono occupati in pochi; gli altri erano concentrati sulle dietrologie, sulle crostate e sugli inciuci. Io credo che la decisione di Berlusconi di rinnegare il voto favorevole e di schierarsi contro in Aula fu un grandissimo errore». 

Pentito di essere andato in visita a Mediaset e averla definita «patrimonio del Paese»?

«Tutt’altro. Era un segnale agli imprenditori, non solo a Mediaset, mentre Berlusconi ci dipingeva come comunisti nemici della libera impresa». 

Nel 2006 Berlusconi le avrebbe sbarrato la strada per il Quirinale. Ancora arrabbiato?

«Dopo la vittoria elettorale del 2006 il mio nome circolò come possibile candidato del centrosinistra e sembrava che Berlusconi non fosse contrario. Poi, forse dopo aver sentito i suoi, mi telefonò con grande cortesia per dirmi che rappresentavo troppo “una parte”. Sa che cosa gli risposi? Che aveva ragione. Mi consultai con Fassino e chiamammo Napolitano. Che poi, ovviamente, Berlusconi non votò». 

L’ultima volta che lo ha visto dal vivo?

«Nel 2015, mi dicono che sta a casa di amici comuni e passo. C’erano le elezioni del presidente della Repubblica. Gli dissi che per noi della minoranza del Pd andavano bene Mattarella e Amato. “Massimo, guardi, io preferisco Amato”, mi rispose. Poi andò da Renzi a dire che Amato andava bene anche a me e fu la fine di quella candidatura». 

Secondo lei, Berlusconi ha avuto qualche ragione nel ritenersi perseguitato da alcuni giudici?

«Probabilmente sì. Ma credo che Berlusconi abbia sollevato un problema reale declinandolo nel modo sbagliato. E cioè interpretandolo come se ci fosse il complotto dei magistrati di sinistra contro di lui. In realtà quello che si era determinato nel nostro Paese era stato uno squilibrio nei rapporti tra poteri dello Stato, questa è la verità. L’indebolimento del sistema dei partiti ha lasciato campo a una crescita del potere “politico” della magistratura, che si è arrogata il compito di fare qualcosa di più che perseguire i reati, come per esempio vigilare sull’etica pubblica e promuovere il ricambio della classe dirigente. Il tema era il riequilibrio, non il complotto contro Berlusconi. E alla fine quel suo scontro con i giudici ha creato un clima nel quale non è stato possibile fare nessuna riforma».

Toh, D’Alema riabilita il Cav ma dimentica i silenzi del Pds. Le amnesie dell’ex presidente del Consiglio dopo la morte del Cavaliere. Davide Vari su Il Dubbio il 14 giugno 2023

In fondo che volete che siano 30 anni? E’ un batter d’ali se consideriamo che Santa Romana Chiesa ha atteso 4 secoli e mezzo prima di riabilitare (ma solo in parte) il povero Giordano Bruno. Trent’anni, dicevamo, il tempo (quasi) esatto per ammettere che sì: forse i giudici hanno un tantino esagerato con Silvio; forse hanno calcato la mano. Lo ha detto a mezza bocca Massimo D’Alema e lo ha fatto dopo 30 anni di “attenzioni” giudiziarie: “L’indebolimento del sistema dei partiti - ha spiegato ieri al Corsera - ha lasciato campo a una crescita del potere politico della magistratura che si è arrogata il compito di fare qualcosa di più che perseguire i reati, come per esempio vigilare sull’etica pubblica e promuovere il ricambio della classe dirigente”.

Certo, qualche maligno ora dirà che la riabilitazione del Cav da parte di D'alema arriva solo post mortem e, soprattutto, dopo l’indagine sul presunto “traffico” d’armi con la Colombia che lo coinvolgerebbe. Ma sono solo malignità. Di più: tentativi di buttarla in caciara. Perché il punto da contestare a D'Alema non è certo un’indagine che, almeno per chi scrive, finirà in un nulla di fatto. La cosa che proprio non torna è un'altra: è la rara abilità con la quale D’Alema schiva la responsabilità, sua e del Pds, sulla sbandata politica di alcune procure che ha determinato la desertificazione di un intero sistema partitico. D’Alema non può certo pensare di cavarsela buttando la croce addosso alle toghe.

D’Alema deve dirci dov’era il suo Pds quando quella mattanza politica si consumava. E la risposta è fin troppo facile: era al fianco di quei magistrati. La mutazione antropologica della sinistra è avvenuta proprio in quei mesi, in quelle settimane, in quei giorni. E ripercorrere quella storia non serve solo a riabilitare il Cavaliere, serve soprattutto a capire cosa è rimasto della sinistra.

Estratto dell’articolo di Valeria Pacelli e Vincenzo Bisbiglia per “il Fatto quotidiano” sabato 19 agosto 2023.

Massimo D’Alema ha un “modus agendi” che si avvantaggia di una “rete relazionale” “composta prevalentemente da un nucleo di persone stabilmente inserite nella vita pubblica e privata con legami radicati nel mondo politico-istituzionale che operano nel contesto simbiotico di un reciproco tornaconto personale”. 

Così gli uomini della Digos di Napoli in un’informativa del 28 novembre 2022 definiscono l’azione dell’ex premier ed ex ministro degli Esteri nel corso delle trattative per le forniture militari di Leonardo e Fincantieri in Colombia. Affari mai conclusi ma che sono costati a D’Alema e ad altre sette persone un’accusa di corruzione da parte dei magistrati di Napoli. 

Tra gli iscritti oltre il lìder Maximo c’è anche l’ex amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo, e Giuseppe Giordo, ex manager di Fincantieri. Secondo le accuse dei pm, […] D’Alema si sarebbe posto come “mediatore informale” nei rapporti con i vertici di Leonardo e Fincantieri per gli accordi con le autorità colombiane per le forniture.

Indagati anche due consulenti del Ministero degli Esteri della Colombia, Emanuele Caruso e Francesco Amato, i quali […] si sarebbero resi disponibili a promettere e offrire a pubblici ufficiali colombiani circa 40 milioni di euro, la metà della provvigione (da 80 milioni), pari al 2 per cento delle due commesse da 4 miliardi di euro. Gli 80 milioni dunque per i pm erano da “ripartirsi tra la parte colombiana e la parte italiana attraverso il ricorso allo studio legale associato americano Robert Allen Law” che alla fine non avviene.

[…] L’informativa della Digos […] riproduce la scansione temporale delle trattative e riporta chat tra i protagonisti di questa vicenda finora inediti. Come le conversazioni tra D’Alema e Paride Mazzotta, consigliere regionale di Forza Italia in Puglia e non indagato. È il 17 novembre 2021 quando l’ex premier sembra impaziente: “Ciao. Siamo pronti. Inviamo tutta la documentazione. La mail partirà da Miami. È assolutamente essenziale che l’attesa manifestazione di interesse sia inviata a R. Allen Law. Saranno poi loro a contattare le società per organizzare una missione. Deve risultare evidente in ogni passaggio il ruolo dei promotori commerciali...”. 

Qualcosa però deve essere andato storto, perché due giorni dopo ritorna a scrivere: “... Il materiale è stato inviato. Pare ci siano problemi di ricezione. Bisogna che si diano da fare. È, per molte ragioni, urgente che gli avvocati ricevano una manifestazione di interesse...”.

Il 23 novembre 2021 D’Alema scrive ancora a Paride Mazzotta: “Come va? Alcuni dei nostri interlocutori cominciano a chiedere se abbiamo scherzato o no. Avendo scomodato il top delle società qualcuno (cioè io) rischia di fare una brutta figura...”. 

Segue un audio di Mazzotta del 26 novembre 2021 così trascritto: “(...) Ho appena parlato con il corrispondente il quale mi dice che la Robert Allen ha risposto a lui e non invece direttamente alla mail del Paese, quindi se riusciamo entro oggi a mandare una mail per avvisare il Paese lunedì ci fissano un appuntamento”.

Il 29 novembre D’Alema invia un nuova sollecitazione: “Ho ricevuto messaggi che annunciano manifestazioni di interesse da parte di altri 2 stati. Molti annunci promettenti. Ma allo stato non vi è stato alcun riscontro. […] Cominciamo ad essere preoccupati...” 

Dopo molte conversazioni e alcuni incontri si arriva alla nota conference call dell’8 febbraio 2022, quella resa pubblica da La Verità che l’1 marzo del 2022 ha pubblicato l’audio. C’erano D’Alema, Fierro Flores quale emissario del governo colombiano e un’altra persona: “Siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro”, è una delle frasi dell’ex premier.

Che poi in un’intervista ha spiegato: “Ho parlato degli 80 milioni... per spiegare ai colombiani che l’unico modo per avere denaro era chiudere l’affare”. D’Alema ha più volte detto di non aver incassato un euro e di non aver avuto rapporti di lavoro con Fincantieri o Leonardo. Il suo, ha spiegato al Corriere, è un lavoro di “consulenza e assistenza a imprese italiane per investimenti all’estero”.

[…] tutto si muove in quel mondo delle lobby, e almeno così la pensano gli investigatori della Digos secondo i quali non ci sono “elementi convincenti e probanti da poter fondare ipotesi indiziarie […]”.

Anche per D’Alema, secondo la Digos, non si ravvisano reati ma “appare pienamente conclamata la sua capacità comunicativa nel negoziato (...), sintomatico del ruolo propulsivo e decisorio discendente dalla caratura e storica militanza negli apparati di potere”. 

Le indagini […] hanno “certificato, altresì, il modus agendi e la rete relazionale di cui si avvantaggia..., composta prevalentemente da un nucleo di persone stabilmente inseriti nella vita pubblica e privata con legami radicati nel mondo politico-istituzionale che operano nel contesto simbiotico di un reciproco tornaconto personale”.

Le conclusioni della Digos di novembre 2022 non devono aver convinto i pm che a marzo 2023 hanno indagato D’Alema e altri, retrodatando l’iscrizione al 30 settembre 2022. A giugno 2023 poi sono scattate le perquisizioni. Contattato ieri dal Fatto, il legale di D’Alema, […] ha solo ribadito che da subito l’ex premier ha chiesto di essere interrogato, ma finora non è stato convocato.

«L’affare delle armi in Colombia è un gigantesco danno per lo Stato e per gli italiani». Simone Siliani, direttore della Fondazione Finanza Etica, azionista critico di Leonardo Spa ora vuole vederci chiaro e capire perché lo scorso anno l’azienda avesse negato coinvolgimenti nell’inchiesta che vede indagati Massimo D’Alema e Alessandro Profumo per corruzione internazionale. Gloria Riva su L'Espresso il 12 Giugno 2023 

La questione di fondo è capire se le aziende pubbliche di Stato, quando trattano all'estero, utilizzano abitualmente il metodo delle tangenti per vendere i propri prodotti - armamenti, imbarcazioni, tecnologia, oil&gas e via dicendo – ad altri stati o se si tratti solo di un grande abbaglio. E almeno su Leonardo Spa, fra le maggiori società di Stato specializzata fra le altre cose nella produzione di velivoli per la difesa, l'azionariato critico, ora, vuole vederci chiaro.

La settimana scorsa il Corriere della Sera ha scritto che la Procura di Napoli ha iscritto nel registro degli indagati per corruzione internazionale aggravata due nomi di spicco, l'ex presidente del Consiglio, Massimo D'Alema, e l'ex amministratore delegato, Alessandro Profumo. Insieme a loro anche l'ex direttore generale di Fincantieri, Giuseppe Giordo e alcuni presunti mediatori dell'operazione di vendita di sommergibili, navi e aerei prodotti dalle italiane Leonardo e Fincantieri alla Colombia: Gherardo Guardo, Umberto Claudio Bonavita, Francesco Amato, Emanuele Caruso e Giancarlo Mazzotta. Nel decreto di perquisizione dei Pm di Napoli l'ipotesi che gli indagati abbiano avviato la trattativa con il governo colombiano «per ottenere da parte delle autorità colombiane la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le descritte forniture ed il cui complessivo valore economico ammontava a oltre 4 miliardi di euro». Il tutto realizzato «con l'ausilio di un gruppo criminale organizzato attivo in diversi stati, tra cui Italia, Usa, Colombia».

La vicenda giudiziaria farà il suo corso e la Magistratura di dirà se c'è stata o meno corruzione, ma il punto che interessa agli azionisti – perché ricordiamo che Leonardo è una società pubblica, ma è anche quotata in Borsa – è capire quanto sia complice la società in questa vicenda, perché «l'affare delle armi in Colombia è un danno per lo Stato Italiano», dice a L'Espresso Simone Siliani, direttore della Fondazione Finanza Etica a cui fa capo l'attività di azionariato critico di Banca Etica nei consigli di amministrazioni delle maggiori imprese italiane, fra cui per l'appunto Leonardo Spa. 

Al di là dell'iscrizione nel registro degli indagati dell'ex premier Massimo D'Alema e di Alessandro Profumo, gli azionisti critici «vogliono sapere se Leonardo SpA ha mentito in assemblea lo scorso maggio 2022». Perché il fatto che fosse in corso un'inchiesta era noto dal maggio 2022, ovvero da quando Emanuele Caruso, che operava come consulente per la cooperazione internazionale del ministero degli Esteri della Colombia, era stato perquisito lo scorso anno dopo un esposto presentato dall'Assemblea parlamentare del Mediterraneo.

«Gli azionisti critici di Fondazione Finanza Etica vorrebbero finalmente le risposte giuste alle domande poste già nel maggio 2022, durante l’assemblea dei soci di Leonardo SpA, quando amministratore delegato era Alessandro Profumo (da maggio 2023 sostituito da Roberto Cingolani). E le vorrebbero tanto più oggi! Dopo che è uscita la notizia che la sezione reati economici della Procura di Napoli ha messo sotto inchiesta – con altri 6 indagati – sia l’ex primo ministro italiano, Massimo D’Alema, che lo stesso Profumo, entrambi per il presunto operato svolto nell’ambito di una vendita – non andata a buon fine – di navi e aerei militari di produzione italiana (Leonardo, appunto, e Fincantieri) alla Colombia».

Questo perché, su tale quadro a tinte fosche, e ben prima dell’attuale svolta nelle indagini, il 9 maggio 2022, Fondazione Finanza Etica, in qualità di azionista critico, aveva chiesto chiarezza durante l’assemblea annuale degli azionisti, ponendo a Leonardo SpA una semplice domanda, «che oggi pare quanto mai pertinente, quasi preveggente, purtroppo», dice Simone Siliani, che un anno fa aveva chiesto in sede di Consiglio d'Amministrazione di Leonardo: «In relazione a recenti notizie di stampa che riportavano di presunte attività di intermediazione svolte dall’ex Presidente del Consiglio Massimo D’Alema relativamente a possibili vendite di sistemi d’arma prodotti da Leonardo SpA alla Colombia - e considerando la smentita dell’ad Alessandro Profumo a riguardo di mandati di intermediazione conferiti all’onorevole D’Alema -, si chiede di conoscere l’attuale situazione della questione, soprattutto in relazione a possibili coinvolgimenti di natura legale e penale e all’impatto eventualmente avuto sulle prospettive di esportazione verso la Colombia».

E cosa aveva risposto Leonardo spa lo scorso anno? Al di là di alcuni dettagli tecnici riguardo i sistemi d’arma coinvolti, e di una risposta in generale vaga ed evasiva, la compagnia – partecipata al 30,2% dal ministero dell’Economia e delle finanze – era stata categorica su un punto, scrivendo che «Leonardo non ha instaurato rapporti negoziali, economici e finanziari con soggetti terzi (fisici e o giuridici) coinvolti nella vicenda o anche solo citati negli articoli di stampa, rispetto ai quali, pertanto, la società non ha assunto alcun impegno o disposto o eseguito alcun pagamento. La società ha agito nel pieno rispetto della disciplina applicabile e delle procedure interne». Risposta che, alla luce delle perquisizioni e dell'iscrizione nel registro degli indagati di Profumo e D'Alema e di quanto appreso in merito all'inchiesta, può essere interpretata come una bugia o come una totale incapacità degli organi di vigilanza aziendali di sapere cosa succede al proprio interno.

Quindi Fondazione Banca Etica torna alla carica: «E così, col senno di ora, e premesse la presunzione d’innocenza per gli indagati e l’incertezza sulle risultanze finali dell’inchiesta napoletana, Fondazione Finanza Etica vuole richiamare alla memoria quel passaggio formale registrato nella sede dell’assemblea annuale per avanzare nuove e ancor più circostanziate riflessioni e interrogazioni, da sottoporre in primis agli indagati eccellenti e, necessariamente, all’attuale dirigenza di Leonardo SpA», dice Simone Siliani.

Se infatti fosse dimostrato il reato ascritto a Massimo D’Alema e Alessandro Profumo, oggi semplicemente inquisiti, al di là dell’eventuale responsabilità penale personale, «ci chiediamo se all’ex ad Alessandro Profumo si potrebbe attribuire anche la responsabilità di aver agito in modo scorretto verso l’azienda, eventualmente in relazione all’elusione di procedure, controlli e presidi organizzativi interni alla società, quotata in Borsa (lo ricordiamo), da cui deriverebbe un potenziale danno reputazionale ed economico. In tal caso, ci chiediamo pure se Leonardo SpA non dovrebbe valutare di costituirsi come parte lesa nell’eventuale processo a carico di Alessandro Profumo, un domani. Se, diversamente, si dimostrasse che D’Alema avesse ricevuto un incarico - ufficiale o informale - di consulente (non necessariamente di intermediazione), come commentano oggi alcuni editorialisti garantisti, e ciò non costituisse reato, allora potrebbe essersi verificata una condotta gravemente lesiva della trasparenza societaria e degli obblighi informativi nei confronti

degli azionisti. Critici e non. Come responsabile della risposta data alla nostra domanda, l’allora CdA di Leonardo SpA in carica, per ragioni da appurare, avrebbe infatti dichiarato qualcosa che non corrisponde alla realtà dei fatti. In tal caso, come azionisti, potremmo adire, quanto meno, al collegio sindacale della società ai sensi dell’articolo 2408 del Codice Civile, secondo il quale “Ogni socio può denunziare i fatti che ritiene censurabili al collegio sindacale, il quale deve tener conto della denunzia nella relazione all'assemblea”», commenta Siliani. Le società quotate, e in particolare quelle a partecipazione pubblica rilevante come Leonardo, hanno un dovere di trasparenza verso gli azionisti, oltre che di adesione incondizionata alle leggi dello Stato: «Il timore – ahinoi! corroborato in prima battuta dall’indagine in corso – è perciò che la compagnia stia correndo un rischio reputazionale serio, e che ciò possa tradursi in un danno economico per gli azionisti, a cominciare da quello di riferimento, cioè lo Stato, e quindi a danno di ogni cittadino. Non solo. Fondazione Finanza Etica è convinta che questi rischi possano essere ricondotti a un’opacità collegata sempre più strutturalmente ai prodotti su cui Leonardo SpA fonda il proprio bilancio economico, ovvero i sistemi d’arma. Ma il caso specifico ci consente anche di sottolineare qual è l’importanza del lavoro dell’azionariato critico di Fondazione Finanza Etica, e quale sia il valore della trasparenza verso gli azionisti per tutelare il patrimonio dell’azienda stessa e dei contribuenti. Pena perdere i soldi pubblici dei cittadini e la credibilità delle istituzioni», conclude il direttore di Fondazione Banca Etica.

(ANSA il 6 giugno 2023) - La sezione reati economici della Procura di Napoli - che oggi ha delegato alla Digos di Napoli, una serie di perquisizioni - contesta ad otto indagati (Alessandro Profumo, Massimo D'Alema, Giuseppe Giordo, Gherardo Guardo, Umberto Claudio Bonavita, Francesco Amato, Emanuele Caruso e Giancarlo Mazzotta), il reato di corruzione internazionale aggravata. La forma aggravata viene contestata gli indagati in quanto il reato sarebbe stato commesso con l'ausilio di un gruppo criminale organizzato attivo in diversi Stati, tra cui Italia, Usa, Colombia e anche in altri. I fatti contestati risalgono a una data prossima al 27 gennaio 2022.

(Adnkronos il 6 giugno 2023) - Un decreto di perquisizione è stato eseguito dalla Digos di Napoli nelle abitazioni e negli uffici dell'ex presidente del Consiglio Massimo D'ALEMA e dell'ex amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo. 

L'atto è stato eseguito nell'ambito delle indagini coordinate dalla Procura di Napoli sulla vicenda della presunta intermediazione per la vendita alla Colombia di navi, sommergibili e aerei militari prodotti da Fincantieri e da Leonardo. 

Perquisizioni sono state eseguite anche nei confronti di Gianluca Giordo, già responsabile della Divisione Navi militari di Fincantieri. Secondo l'ipotesi della Procura partenopea, l'ex premier si sarebbe adoperato per mettere in contatto due broker pugliesi, il 44enne Emanuele Caruso e il 39enne Francesco Amato (già precedentemente iscritti nel registro degli indagati) con Leonardo e Fincantieri.

Estratto dell'articolo di Dario del Porto e Conchita Sannino per repubblica.it il 6 giugno 2023. 

"Compravendita di armi dalla Colombia, la Procura di Napoli dispone le perquisizioni nei confronti di Massimo D'Alema e Alessandro Profumo. È la svolta nelle indagini che vanno avanti da mesi. Indagato anche l'ex direttore generale di Fincantieri Giuseppe Giordo.

I magistrati ipotizzano che gli indagati si siano "a vario titolo adoperati quali promotori dell'iniziativa economica commerciale di vendita al governo della Colombia di prodotti di aziende italiane a partecipazione pubblica -  Leonardo, in particolare, aerei M 346 e Fincantieri per Corvette piccoli sommergibili e allestimento cantieri navali - al fine di ottenere da parte delle autorità colombiane la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le descritte forniture ed il cui complessivo valore economico ammontava a oltre 4 miliardi di euro". 

[...] "Tutte fandonie", aveva risposto D'Alema  in un'intervista a Repubblica il 3 marzo 2022. A coinvolgerlo, era anche una telefonata registrata illegalmente durante una conversazione tra l'ex premier e Edgardo Fierro Flores, paramilitare colombiano. 

"Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro - diceva D'Alema  -  Quindi si può fare un investimento, però non appena noi avremo questi contratti divideremo tutto, sarà diviso tutto. Questo non è un problema". Aveva aggiunto l'ex leader della sinistra italiana: la conversazione "è stata registrata in maniera illegittima. E per danneggiare le società italiane: non a caso in Colombia sono usciti articoli sulla possibilità di acquistare le navi e gli aerei dalle imprese di altri paesi, in particolare statunitensi".

[...] L'inchiesta è stata aperta 15 mesi fa dalla Procura del Centro direzionale: quando i pm partenopei, nel marzo 2022, iscrissero nel registro degli indagati Francesco Amato ed Emanuele Caruso, oggi 39 e 44 anni, due broker pugliesi accusati di sostituzione di persona e truffa. Ad aprire anche giudiziariamente quel caso politico era stata infatti la denuncia dell'allora deputato di Italia Viva, Gennaro Migliore,  e dell'ambasciatore Sergio Piazzi, rispettivamente presidente e segretario generale dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo: assemblea dalla quale gli indagati Caruso e Amato sostenevano di essere in qualche modo patrocinati nelle loro attività.  

Tutto falso. Specie nel caso della mediazione per la vendita delle armi, avevano scritto in un verbale Migliore e Piazzi. In quella vicenda comparivano infatti loghi e documenti che rimandavano a quell'organizzazione internazionale - con sede a Napoli - che riunisce delegati di 30 Paesi delle due sponde del Mediterraneo. Credenziali contraffatte. 

 Ecco perché Migliore, che della Apm è stato il presidente fino a  poco tempo fa, insieme con l'allora  segretario generale Piazzi, avevano denunciato tutto in un esposto contro anonimi.

Estratto dell’articolo di Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 6 giugno 2023.

Massimo D’Alema e Alessandro Profumo sono indagati dalla procura di Napoli per la vendita di navi e aerei militari alla Colombia. Con loro anche Giuseppe Giordo, ex direttore generale di  Fincantieri e alcuni mediatori dell’operazione commerciale.  Questa mattina sono scattate le perquisizioni della Digos per tutti gli indagati. 

Secondo l’accusa «i soggetti indagati si sono a vario titolo adoperati quali promotori dell’iniziativa economica commerciale di vendita al governo della Colombia di prodotti di aziende italiane a partecipazione pubblica Leonardo in particolare aerei emme 346 e Fincantieri in particolare Corvette piccoli sommergibili e allestimento cantieri navali al fine di favorire ottenere da parte delle autorità colombiane la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le descritte forniture ed il cui complessivo valore economico ammontava oltre 4 miliardi di euro».

Nel decreto di perquisizione è specificato che «Francesco Amato ed Emanuele Caruso operavano quali consulenti per la cooperazione internazionale del ministero degli esteri della Colombia tramite Mazzotta Giancarlo riuscivano ad avere contatti con Massimo D’Alema il quale per il curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giorgio quale direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri.

Tale operazione era volta a favorire e ottenere da parte delle autorità colombiane la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le descritte forniture e il cui complessivo valore economico ammontava oltre 4 miliardi di euro.  Per ottenere ciò offrivano e promettevano ad altre persone il corrispettivo illecito della somma di 40 milioni di euro corrispondenti al 50% della complessiva provvigione di 80 milioni di euro».

Nell’indagine sono coinvolti anche «Edgardo Fierro Flores capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia, Marta Lucia Ramirez ministro degli Esteri e vice presidente della Colombia, German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto delegati della commissione del Senato colombiano». 

La somma complessiva di 80 milioni di euro era in concreto da ripartirsi tra virgolette la parte colombiana“ e la “parte italiana“ attraverso il ricorso allo studio legale associato americano Robert allen law  - segnalato e introdotto da D’Alema [...] 

D’Alema e Profumo indagati: il video con l’ex premier e gli 80 milioni da dividere tra Roma e Bogotà. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 07 giugno 2023 

Digos a caccia di prove in pc, telefoni e documenti. Si indaga anche sul ruolo dei consulenti italiani e dello studio legale di Miami 

Sono entrati all’alba nelle case e negli uffici di manager e politici indagati e hanno portato via documenti, telefonini, computer alla ricerca di prove su quella «mediazione» che poteva portare alla «parte italiana» una provvigione da quaranta milioni di euro.

 È questa — dicono i pubblici ministeri napoletani — la ricompensa che sarebbe toccata a Massimo D’Alema e agli altri intermediari se il governo colombiano avesse acquistato le navi, gli aerei e gli elicotteri proposti da Leonardo e Fincantieri. Un affare da quattro miliardi di euro che però, questo sostiene l’accusa, sarebbe saltato «per l’interruzione della trattativa a causa della mancata intesa sulla ulteriore distribuzione della somma tra le singole persone fisiche della “parte italiana” e di quella “colombiana”».

I sommergibili

Sono gli atti processuali dell’inchiesta per corruzione internazionale contro lo stesso D’Alema, l’ex amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo, l’ex direttore generale di Fincantieri Giuseppe Giordo, a ricostruire le tappe della trattativa per la vendita di «aerei M346 della azienda a partecipazione pubblica Leonardo e di corvette, piccoli sommergibili, oltre all’allestimento di cantieri navali di Fincantieri» avvenuta nel 2021. Un’operazione che mirava ad ottenere «da parte delle autorità colombiane la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le descritte forniture ed il cui complessivo valore economico ammontava a oltre 4 miliardi di euro». 

Il video della riunione

L’indagine fu avviata quando si scoprì che esisteva la registrazione di una riunione nella quale proprio D’Alema parlava della compravendita e affermava: «La parte italiana è quasi pronta, abbiamo preparato le offerte e abbiamo ottenuto la copertura assicurativa per il piano finanziario». Quella registrazione — effettuata da uno dei partecipanti senza informare gli altri — mandò su tutte le furie D’Alema, che ne chiese il sequestro al Garante della privacy dopo la pubblicazione sul quotidiano La Verità, senza però riuscire ad ottenerlo. 

I consulenti

I due personaggi intorno ai quali ruotano le prime verifiche sono Francesco Amato ed Emanuele Caruso che «operavano quali consulenti per la cooperazione internazionale del ministero degli Esteri della Colombia». E proprio loro «tramite Giancarlo Mazzotta riuscivano ad avere contatti con Massimo D’Alema, il quale per il curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane, ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo quale direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri». Per questa operazione erano già state stabilite le percentuali di provvigione che sarebbero state promesse a chi poteva agevolare l’affare. I magistrati parlano di «corrispettivo illecito di 40 milioni di euro corrispondenti al 50% della complessiva provvigione di 80 milioni di euro». 

L’avvocato americano

Sarebbe stato proprio D’Alema ad individuare lo studio legale americano che doveva occuparsi di curare ogni dettaglio dell’operazione. Così — nel decreto di perquisizione eseguito ieri dai poliziotti della Digos — i pubblici ministeri ricostruiscono quello che sarebbe accaduto: «La somma complessiva di 80 milioni di euro era in concreto da ripartirsi tra “la parte colombiana” e la “parte italiana” attraverso il ricorso allo studio legale associato americano Robert Allen Law con sede a Miami (segnalato e introdotto da D’Alema quale agent e formale intermediario commerciale presso Fincantieri e Leonardo), rappresentato in Italia e per la specifica trattativa da Umberto Bonavita e Gherardo Gardo». Dovevano essere proprio loro ad occuparsi «della predisposizione e la sottoscrizione della contrattualistica simulatoria e formalmente giustificativa della transizione finanziaria e dei veicoli societari bancari e finanziari in concreto predisposti per il transito, la ripartizione e la finale distribuzione della somma». 

Ministri e senatori

I magistrati partenopei ritengono che i soldi delle tangenti «stabilite come success fee pari al 2% del valore complessivo delle due commesse in gioco e da corrispondersi in modo occulto», fossero destinati a «pubblici ufficiali che svolgevano l’attività presso le autorità politiche e amministrative tra i quali sono stati finora individuati Edgardo Fierro Flores capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia; Marta Lucia Ramirez ministro degli Esteri e vice presidente della Colombia; German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto delegati della commissione del Senato colombiano».

D’Alema e Profumo indagati per le navi e aerei alla Colombia: eseguite perquisizioni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 06 giugno 2023 

Secondo l'ipotesi della Procura di Napoli, l'ex premier si sarebbe adoperato per mettere in contatto due broker pugliesi con Leonardo e Fincantieri. Otto in tutto gli indagati

Massimo D’Alema e Alessandro Profumo compaiono tra le 8 persone indagate dalla Procura di Napoli per la presunta intermediazione per la vendita al governo della Colombia di navi, sommergibili e aerei militari prodotti da Fincantieri e Leonardo. Oltre all’ex presidente del Consiglio e all’ex ad di Leonardo, sono indagati i due broker pugliesi Francesco Amato, 39 anni di San Cesario (Lecce), ed Emanuele Caruso, 44 anni di Copertino (Lecce), l’ex responsabile della Divisione Navi militari di Fincantieri Giuseppe Giordo, 58 anni, il commercialista Gherardo Gardo, 52 anni, Giancarlo Mazzotta, 53 anni di Carmiano (Lecce), e Umberto Claudio Bonavita, 50 anni.

D’Alema si è mostrato meravigliato quando, intorno alle 9 di questa mattina , gli agenti della Digos di Napoli accompagnati da un funzionario di Polizia hanno bussato alla porta della Fondazione “Italianieuropei” in piazza Farnese a Roma, nel cuore della capitale. Nello stesso momento altri agenti eseguivano nel centro di Milano le perquisizioni in casa di Alessandro Profumo, in casa del commercialista Gherardo Gardo, nel Bolognese, e nell’appartamento di Gianluca Giordo, a Milano. Sotto la lente degli investigatori, sia i computer che gli smartphone per effettuare le perquisizioni informatiche disposte dai pubblici ministeri napoletani.

L’indagine radicata in procura a Napoli

L’inchiesta è stata avviata dalla Procura 15 mesi fa allorquando i pm napoletani, nel marzo 2022, iscrissero nel registro degli indagati Francesco Amato ed Emanuele Caruso, oggi 39 e 44 anni, due broker pugliesi accusati di sostituzione di persona e truffa. Ad aprire le indagini era stata infatti la denuncia di Gennaro Migliore all’epoca deputato di Italia Viva,   e dell’ambasciatore Sergio Piazzi, rispettivamente presidente e segretario generale dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo: assemblea dalla quale gli indagati Caruso e Amato sostenevano di essere in qualche modo “patrocinati” nelle loro attività. Tutto falso ! Sopratutto nel caso della mediazione per la vendita delle armi, avevano messo a verbale Migliore e Piazzi. In quella indagine comparivano infatti loghi e documenti che rimandavano a quell’organizzazione internazionale – con sede a Napoli – che riunisce delegati di 30 Paesi delle due sponde del Mediterraneo. Credenziali in realtà “taroccate”, cioè falsificate..

 Questo il motivo per il quale Migliore, che è stato il presidente della Apm fino a  poco tempo fa, insieme con l’allora  segretario generale Piazzi, avevano denunciato tutto in un esposto contro anonimi.  

Secondo l’ipotesi della Procura napoletana, l’ex premier si sarebbe adoperato per mettere in contatto due broker pugliesi (già precedentemente iscritti nel registro degli indagati) con Leonardo e Fincantieri. Nell’indagine della Procura di Napoli nell’ambito di una compravendita di aerei e navi alla Colombia, Sono coinvolti, secondo quanto si legge nel decreto di perquisizione, anche “Edgardo Fierro Flores capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia, Marta Lucia Ramirez ministro degli Esteri e vice presidente della Colombia, German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto delegati della commissione del Senato colombiano”. 

Nell’ambito delle indagini è stato eseguito dalla Digos di Napoli un decreto di perquisizione nelle abitazioni e negli uffici di Massimo D’Alema e di Profumo. Perquisizioni sono state eseguite anche nei confronti di Gianluca Giordo. Nel decreto di perquisizione si legge che Francesco Amato ed Emanuele Caruso “operavano quali consulenti per la cooperazione internazionale del Ministero degli Esteri della Colombia” e, “tramite Giancarlo Mazzotta, riuscivano ad avere contatti con Massimo D’Alema, il quale per il curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo (ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri), si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane, ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo quale direttore generale della Divisione Navi Militari di Fincantieri“.

Forniture per oltre 4 miliardi di euro

Ammonta a oltre 4 miliardi di euro il valore economico delle forniture sulle quali si sono concentrate le indagini della Procura di Napoli. Gli indagati, si legge nel decreto, si sarebbero “a vario titolo adoperati quali promotori dell’iniziativa economica commerciale di vendita al Governo della Colombia di prodotti delle aziende italiane a partecipazione pubblica Leonardo (in particolare aerei M 346) e Fincantieri (in particolare corvette, piccoli sommergibili e allestimento cantieri navali), al fine di favorire ed ottenere da parte delle Autorità colombiane, la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le descritte forniture ed il cui complessivo valore economico ammontava a oltre quattro miliardi di euro“.

Per ottenere ciò, secondo i pm napoletani, Amato e Caruso “offrivano e comunque promettevano ad altre persone, che svolgevano funzioni e attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio presso le autorità politiche, amministrative e militari della Colombia, il corrispettivo illecito della somma di 40 milioni di euro, corrispondenti al 50% della complessiva provvigione di 80 milioni di euro prevista quale ‘success fee’, determinata nella misura del 2% del complessivo valore di 4 miliardi di euro delle due commesse in gioco e da corrispondersi in modo occulto“. Avrebbero pertanto violato l’articolo 322 bis del codice penale, che punisce “peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione, abuso d’ufficio di membri delle Corti internazionali o degli organi delle Comunità europee o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri”.

La somma complessiva di 80 milioni di euro “era in concreto da ripartirsi tra la ‘parte colombiana’ e la ‘parte italiana’ attraverso il ricorso allo studio legale associato americano Robert Allen Law, con sede in Miami (segnalato ed introdotto dal D’Alema quale agent e formale intermediario commerciale presso Fincantieri e Leonardo) rappresentato in Italia e per la specifica trattativa da Umberto Bonavita e Gherardo Gardo“.

Lo studio legale si sarebbe adoperato “per la predisposizione e la sottoscrizione della contrattualistica simulatoria e formalmente giustificativa della transazione finanziaria e dei veicoli societari, bancari e finanziari in concreto predisposti per il transito, la ripartizione e la finale distribuzione della somma, a cui non faceva infine seguito la formalizzazione dei contratti per l’intervenuta interruzione delle trattative a causa della mancata intesa sulla ulteriore distribuzione della predetta somma tra le singole persone fisiche costituenti la ‘parte italiana‘ e la ‘parte colombiana‘“ Redazione CdG 1947

Navi e aerei militari venduti alla Colombia, le tracce nei file e il ruolo del video di D’Alema. Storia di Fulvio Bufi Corriere della Sera il 7 giugno 2023.

È nelle tracce informatiche acquisite durante le perquisizioni di martedì che gli inquirenti napoletani cercano nuovi elementi per l’ indagine sulla presunta tangente da 40 milioni di euro che sarebbe stata promessa a esponenti istituzionali colombiani per facilitare la vendita di aerei e navi militari da parte della holding di Stato italiana Leonardo e di Fincantieri.

L’inchiesta vede tra gli indagati l’ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema, che secondo l’ipotesi dell’accusa avrebbe svolto un ruolo di mediazione nella trattativa commerciale, l’ex amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo e l’ex direttore generale della Divisione navi militari di Fincantieri, Giuseppe Giordo. Tutti sono stati perquisiti due giorni fa dalla Digos, che ha raccolto soprattutto materiale informatico. Ieri la polizia ha acquisito, nella sede del quotidiano , anche i video, pubblicati circa un anno fa dal sito del quotidiano e relativi alla registrazione di una riunione in cui si sente esclusivamente D’Alema parlare di alcuni dettagli dell’operazione con la Colombia e fare riferimento esplicito agli 80 milioni di euro che avrebbero dovuto rappresentare la provvigione per chi si era occupato della mediazione. Secondo la Procura di Napoli da quella somma di denaro, calcolata sul 2 per cento dei circa quattro miliardi di euro che rappresentavano il valore dell’intera operazione commerciale, sarebbero poi stati staccati, se la vendita fosse andata a buon fine, i 40 milioni da far rientrare in Colombia.

Quella registrazione è considerata dagli inquirenti un elemento molto importante per le indagini. C’è da stabilire chi l’ha fatta e per quale motivo, e da capire se sui file di cui entrò in possesso La Verità erano stati fatti precedentemente tagli o manipolazioni, come, tra l’altro, D’Alema stesso ha sempre sostenuto.

Seppure giunta a un momento decisamente cruciale, l’indagine che la Procura di Napoli ha affidato alla Digos, guidata dal dirigente Antonio Bocelli, appare dunque ancora tutt’altro che vicina alla conclusione. E del resto il 27 marzo scorso, a tre giorni dalla scadenza dei termini, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e il sostituto Silvio Pavia hanno firmato — e poi ottenuto dal Tribunale — una richiesta di proroga delle indagini per altri sei mesi, sottolineandone «la oggettiva complessità, trattandosi di fatti commessi al di fuori del territorio italiano».

Gli investigatori ritengono di avere individuato anche gli interlocutori colombiani di Leonardo e Fincantieri e dei loro mediatori. Ci sono autorità politiche come l’ex vicepresidente e ministro degli Esteri Marta Lucia Ramirez, e i delegati del Senato German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto, e c’è Edgardo Fierro Flores, un ex comandante delle forze paramilitari divenuto poi capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia, e in questa veste primo interlocutore degli italiani coinvolti nell’operazione proposta da Leonardo e Fincantieri.

Nessun colombiano è però stato iscritto nel registro degli indagati della Procura napoletana. L’inchiesta è orientata a fare luce sul ruolo dei presunti corruttori, quindi tutti italiani. Agli atti dell’inchiesta è stato acquisito un audit interno disposto da Leonardo che è stato secretato. Nulla è mai emerso ufficialmente circa gli esiti, ma secondo le indiscrezioni furono rilevate una serie di criticità legate alla policy aziendale, soprattutto riguardo alla scelta di Profumo di partecipare alla riunione anche se lui precisò che era stato solo un saluto.

Diversa la situazione in Fincantieri, dove Giordo è stato prima sospeso, e poi, il 30 giugno del 2022 l’azienda ne ha comunicato la cessazione del rapporto retrodatandola al 6 maggio.

Armi Colombia, Velardi: “Strapotere dei giudici fa più rumore quando colpisce sinistra”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 6 Giugno 2023 

“La verità è che lo strapotere dei giudici in Italia incide su tutti. Quando colpisce esponenti della sinistra fa più rumore, dato che questa parte politica ha difeso i magistrati strombettando. Detto ciò, non si sa ancora niente sulla faccenda”. Così Claudio Velardi, ex capo dello staff di Massimo D’Alema, sulla vicenda che vede coinvolto l’ex presidente del Consiglio insieme a Profumo, indagati e perquisiti dalla Digos per la vendita di navi e aerei militari alla Colombia.

C’è ancora spazio per una sinistra?

Bisogna innanzitutto capire cosa vogliamo dire con questa parola. Che cos’è la sinistra? Questo è il vero tema. Se è quella che si è determinata negli ultimi due secoli, che ha realizzato grandi conquiste per i cittadini, per la classe operaia più disagiata, possiamo dire che ha vinto. Se, invece, ci riferiamo alla forza di cambiamento, posso tranquillamente dire che non esiste più. Si tratta, infatti, di un qualcosa che tende a conservare determinati equilibri nella società.

Anche Elly può essere inclusa in questo ragionamento?

Per motivi generazionali e culturali, Schlein è estranea alla sinistra storicamente data. Appartiene a un altro modo di vedere le cose, vagamente anticapitalistico ed ecologista. L’identità di Elly, comunque, resta un mistero. Almeno io non riesco a coglierla.

D’Alema e Profumo indagati e perquisiti dalla Digos per la vendita di navi e aerei militari alla Colombia. La stessa sinistra, quindi, finisce per essere vittima di quel giustizialismo, che per anni ha difeso…

La verità è che lo strapotere dei giudici in Italia incide su tutti. Quando colpisce esponenti della sinistra fa più rumore, dato che questa parte politica ha difeso i magistrati strombettando. Detto ciò, non si sa ancora niente sulla faccenda.

C’è quindi, una parte che è più vittima dell’altra?

Ognuno è garantista per sé e giustizialista per gli altri. Non c’è differenza tra colori e schieramenti.

L’ultima sconfitta alle amministrative, l’ennesimo scandalo giudiziario potrebbe avere un significato più profondo, ovvero che siamo all’anno zero. È d’accordo?

Non siamo all’anno zero. La storia di D’Alema e Profumo non c’entra nulla con la sinistra. Quello sulle amministrative, invece, è un risultato minore. Non incide sul giudizio sulla Schlein o sul Pd. Magari il problema fosse aver perso Ancona. I dem hanno una segretaria alla ricerca di un’identità.

Basta tagliare la testa al serpente?

Assolutamente no! Se si toglie la Schlein, ci sarà un’altra o un altro. Le difficoltà, intanto, restano.

C’è spazio, invece, per una forza antisistema, come probabilmente un tempo era il suo Pci?

Stiamo parlando di quaranta anni fa. I fascisti, i borboni sono ormai passato. Il partito comunista, comunque, non era antisistema. Era, piuttosto, un soggetto che rappresentava un altro mondo, un altro sistema, ovvero quello in vigore nei Paesi dell’Est Europa. I veri antisistema, oggi, sono i populisti, da Salvini, passando per i 5 Stelle fino alla Meloni. Stiamo parlando di un elettorato fluttuante che cambia idea. Ecco perché simpatizzo per quelli che sono con il sistema.

Dall’altra parte, però, c’è un astensionismo che cresce a dismisura. Come recuperarlo?

Perché bisogna recuperarlo? L’astensionismo c’è perché la società non dipende più dalla politica. Non è più totalizzante come una volta. Siamo molto più liberi, autonomi. Possiamo tranquillamente non badare a cosa dicono i partiti. Quando ci sono, poi, delle occasioni in cui la gente vuole farsi sentire, va a votare. Non è vero che non si reca mai alle urne. Negli appuntamenti cruciali il popolo c’è. C’è distanza, ad esempio, tra il voto politico e quello amministrativo, tra quello del primo e del secondo turno. Ci sono tante differenze.

Può esistere il campo largo?

Renzi non c’entra nulla col Pd e i 5 Stelle. Né questi ultimi possono essere alleati tra lori. Combattono sullo stesso terreno, cercano di prendere pezzi del medesimo elettorato.

Come vede Matteo direttore del suo Riformista?

Sa il fatto suo e combatte, avendo un tasso di intelligenza maggiore degli altri. Tutto qua. Il giornale, piano piano, sta crescendo. Un quotidiano ha bisogno di tempo per insediarsi, strutturarsi bene.

L’ex premier Massimo D’Alema indagato per la vendita di armi alla Colombia. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 7 Giugno 2023

Corruzione internazionale aggravata: questa l’ipotesi di reato che grava sull’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema, oltre che sull’ex amministratore delegato di Leonardo Andrea Profumo e sull’ex direttore generale di Fincantieri Giuseppe Giordo. I fatti risalgono al 2021, quando D’Alema avrebbe guidato la trattativa con il governo colombiano per la vendita di mezzi militari prodotti da Leonardo, società con partecipazione pubblica (non rispettando, quindi, una prerogativa statale). Se si aggiungono i mediatori dell’operazione commerciale, arrivano a otto le persone indagate dalla procura di Napoli. La Digos ne ha perquisito gli appartamenti all’alba di martedì 6 giugno. Il valore complessivo dell’operazione ammonta a 4 miliardi di euro, dei quali 40 milioni sarebbero stati destinati a “ripagare la mediazione italiana”. La trattativa, tuttavia, non sarebbe andata a buon fine per via della “mancata intesa sulla ulteriore distribuzione della somma tra le singole persone fisiche della ‘parte italiana’ e di quella ‘colombiana’”.

Massimo D’Alema risulta figura centrale di tutta l’operazione, in quanto per il suo “curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane, ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo quale direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri”, scrivono i pm. Le indagini hanno avuto inizio con alcune verifiche su Francesco Amato ed Emanuele Caruso, consulenti per la cooperazione internazionale del ministro degli Esteri in Colombia, i quali sarebbero entrati in contatto con D’Alema tramite la figura dell’imprenditore Giancarlo Mazzotta. La trattativa avrebbe dovuto comprendere la vendita di “aerei M346 della azienda a partecipazione pubblica Leonardo e di corvette, piccoli sommergibili, oltre all’allestimento di cantieri navali di Fincantieri”. Le indagini sono state avviate dopo che è stata scoperta l’esistenza di una registrazione di una riunione nel corso della quale l’ex presidente del Consiglio accennava alla compravendita, affermando che  «La parte italiana è quasi pronta, abbiamo preparato le offerte e abbiamo ottenuto la copertura assicurativa per il piano finanziario». Lo stesso D’Alema si sarebbe occupato anche di dettagli quali individuare lo studio legale americano che avrebbe curato l’operazione (lo studio Robert Allen Law, agent e formale intermediario commerciale presso Fincantieri e Leonardo).

Come specificato in un precedente articolo de L’Indipendente, dove abbiamo ripercorso l’intera vicenda, la trattativa sarebbe stata avviata già nel 2018 dalle istituzioni italiane, motivo per il quale la posizione di D’Alema nella negoziazione era apparsa sin da principio non chiara, soprattutto visto l’ammontare multimilionario del suo compenso finale. La presenza di mediatori nella compravendita di armi, inoltre, è illegale per la legislazione italiana, come specificato nella legge n. 185 del 9 luglio 1990. [di Valeria Casolaro]

 INDAGA LA PROCURA DI NAPOLI. Vendita di armi alla Colombia, indagati D’Alema e Profumo. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 06 giugno 2023

Gli uffici e le abitazioni di Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio, e Alessandro Profumo, ex manager di Leonardo, sono state perquisite dai poliziotti della Digos su ordine della procura di Napoli.

I due nomi eccellenti sono indagati, insieme ad altre sei persone, in merito all’affare da 4 miliardi di euro che ruotava attorno alla vendita di armi e aerei da guerra alla Colombia.

D’Alema avrebbe svolto un ruolo di mediazione tra i sudamericani, sono indagati anche diversi esponenti governativi colombiani, e due colossi del settore del nostro paese, Leonardo e Fincantieri. 

Gli uffici e le abitazioni di Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio, e di Alessandro Profumo, ex amministratore delegato di Leonardo, sono stati perquisiti dai poliziotti della Digos su ordine della procura di Napoli. I due sono indagati, insieme ad altre sei persone, per un affare da 4 miliardi di euro, poi tramontato, legato alla vendita di armi e aerei da guerra alla Colombia.

D’Alema avrebbe svolto un ruolo di mediazione informale nei rapporti con i vertici di Leonardo e Fincantieri, entrambi partecipati dal ministero dell’Economia, per la cessione delle forniture militari. Gli indagati si sarebbero adoperati per vendere al governo della Colombia aerei M346, prodotti da Leonardo, e piccoli sommergibili, corvette realizzati da Fincantieri.

Sono tutti indagati con «l’aggravante di aver commesso il reato attraverso il contributo di un gruppo criminale organizzato operante in più di uno stato quali Italia, Usa, Colombia ed altri stati in via di accertamento», si legge nel decreto di perquisizione.

L’affare, poi tramontato, avrebbe consentito ai mediatori di incassare una commissione pari al 2 per cento, circa 80 milioni di euro. Lo stesso D’Alema ne aveva parlato in una telefonata con Edgar Fierro, paramilitare sudamericano già condannato a decine di anni di carcere per diversi omicidi, poi graziato e oggi libero di fare affari. Persino di contrattare la vendita di armi e strumenti bellici.

IL RUOLO DEGLI INDAGATI

Secondo la procura partenopea l’ex primo ministro si sarebbe adoperato per mettere in contatto due broker pugliesi, Emanuele Caruso e Francesco Amato, entrambi indagati, con le società italiane che avrebbero dovuto vendere le forniture. Sarebbe stato uno studio americano – lo studio Robert Allen law, con sede in Florida – a ricevere i compensi per poi girarli alle parti, quella italiana e quella sudamericana, protagoniste della trattativa.

Nell’indagine, oltre a Profumo, D’Alema e ai due broker, sono indagati anche Umberto Bonavita e Gherardo Gardo – che avrebbero rappresentato in Italia lo studio legale Allen Law indicato da D’Alema per finalizzare gli accordi – e Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di Carmiano per Forza Italia, uomo ritenuto vicino all’ex premier che avrebbe preso parte alla trattativa.

I contratti non sono mai andati in porto e l’affare miliardario è saltato così come gli 80 milioni di euro previsti che, secondo gli inquirenti, sarebbero stati la provvista illecita.

Secondo la procura di Napoli, che procede per corruzione internazionale, gli indagati italiani avrebbero trattato con funzionari politici e militari del governo di Bogotà fra i quali sono stati individuati: Edgar Fierro Flores, capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia; Marta Lucia Ramirez, ministra degli Esteri e vicepresidente della Colombia; German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto, delegati della commissione del Senato della Colombia e altri funzionari sudamericani che devono essere identificati.

A loro promettevano «il corrispettivo illecito della somma di 40 milioni di euro, il 50 per cento della complessiva provvigione di 80 milioni di euro, (...) da corrispondersi in modo occulto», si legge nel decreto di perquisizione.

Francesco Amato ed Emanuele Caruso operavano quali consulenti per la cooperazione internazionale del ministero degli Esteri della Colombia tramite Giancarlo Mazzotta e riuscivano ad avere contatti con «Massimo D’Alema il quale per il curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo (anche quest’ultimo indagato, ndr) quale direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri».

Sul suo ruolo di mediatore per la vendita dei prodotti bellici e sul possibile guadagno milionario per affari con Fincantieri e Leonardo, D’Alema aveva parlato, nel marzo 2022, di «fandonie». La vicenda aveva portato Fincantieri, anche a seguito dell’audit interno, a sollevare dall’incarico Giordo. A distanza di oltre un anno ora arrivano le perquisizioni con gli investigatori che vogliono trovare eventuali riscontri dalla consultazione di atti e materiali sequestrati.

«Il presidente D’Alema ha fornito la massima collaborazione all’autorità giudiziaria e sarà dimostrata la sua estraneità alle contestazioni», ha detto l’avvocato Gianluca Luongo, legale dell’ex primo ministro. «Il mio assistito Giuseppe Giordo è assolutamente tranquillo, siamo in presenza di una costruzione giuridica assolutamente ardita», dice Cesare Placanica, avvocato dell’ex direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri.

La procura di Napoli, lo scorso marzo, ha chiesto altri sei mesi di proroga per l’indagine vista la complessità delle verifiche in corso per fatti commessi al di fuori del territorio nazionale sulla rotta Italia-Colombia. 

NELLO TROCCHIA

È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per “Il Foglio” il 7 giugno 2023.

Ma non è che pensavamo fosse Machiavelli e invece era Totò, anzi, no: Decio Cavallo, il mister cui il principe De Curtis vende la Fontana di Trevi? E’ notizia di ieri che Massimo D’Alema, in questa sua seconda vita da centralinista telefonico (nel senso che mette in contatto la gente), è indagato a Napoli, assieme all’ex amministratore di Leonardo, Alessandro Profumo. 

Una storia che sembra uscita, appunto, dal celebre film di Totò. Anche se, per la verità, ancora non è ben chiaro se D’Alema sia in effetti quello che la Fontana di Trevi la vende, o quello che invece al contrario se la compra. 

Bisogna infatti proprio immaginarsi questo ex presidente del Consiglio che a marzo del 2022 viene avvicinato da due tizi pugliesi che si spacciano per “broker” e gli dicono che vogliono acquistare aerei militari e sommergibili da vendere al governo (di estrema destra) colombiano. 

[…] 

Succede che l’intelligentissimo e diabolico, la faina della politica italiana, mette subito in contatto questi due tizi con Leonardo, la nostra maggiore industria bellica. Senza battere ciglio. Solo che, trattandosi a quanto pare di due truffatori, la cosa viene scoperta e presto  bloccata. L’affare va a monte 

[…]

E alla fine interviene pure la magistratura, che adesso ha messo sotto indagine anche D’Alema. Cose che capitano a tutti, direte voi. Solo che a D’Alema capitano un po’ più spesso. A marzo del 2021, in piena pandemia, per dire, aveva messo in contatto – di nuovo – un’azienda cinese con la Protezione civile italiana. Aveva fatto acquistare al governo un centinaio di ventilatori ospedalieri. Quasi tre milioni di euro. 

Ma ecco che ad aprile, secondo la Verità, quei ventilatori vengono ritirati dalla regione Lazio perché privi del marchio Ce. Non erano a norma.  E forse nemmeno funzionavano.

Il punto è che quest’uomo circolare, il cui motto è “dalle Alpi alla Grande Muraglia”, è diventato uno sfianca telefoni intercontinentale. E se un tempo aveva una camminata saltellante, dovuta alla sua fissa preoccupazione di evitare i trabocchetti che preparava per gli altri, adesso precipita lui in tutte le buche. In pratica la fregatura è il suo gorgonzola: egli ne sente l’odore da lontano, prima di ogni altro, e vi si avvia ogni volta con sicuro istinto. 

Per fortuna ci risulta che Wanna Marchi non abbia il numero di D’Alema, e questo ci rassicura. Almeno siamo sicuri che non comprerà i numeri del lotto né lo sciogli pancia. Può darsi sia sfortuna, chissà. Pochi mesi fa, proprio quando il Nostro stava per far vendere la raffineria di Priolo a una non meglio precisata entità del Qatar, sapete che è successo? E’ scoppiato il Qatar gate al Parlamento europeo. Il tempismo è tutto.

"Divideremo tutto". Messaggi e audio dell'ex leader Pds per conquistare la maxi-commessa. "Divideremo tutto", diceva Massimo D'Alema nell'audio rubato da una call con gli altri mediatori italiani e colombiani dell'affaire Bogotà, mai andato in porto. Lodovica Bulian il 7 Giugno 2023 su Il Giornale.

«Divideremo tutto», diceva Massimo D'Alema nell'audio rubato da una call con gli altri mediatori italiani e colombiani dell'affaire Bogotà, mai andato in porto. Quel «tutto» sarebbero stati 80 milioni, il 2 per cento di una maxi commessa da 4 miliardi di euro per la vendita di aerei e navi militari di Leonardo e Fincantieri alla Colombia. Percentuale che lo stesso D'Alema nella conversazione definiva frutto di «condizioni straordinarie» perché «normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, in questo caso no». Del resto proprio per la sua potenziale influenza e per il peso «politico» delle sue relazioni nelle aziende italiane a partecipazione pubblica era stato coinvolto dai due pugliesi Emanuele Caruso e Francesco Amato, per il tramite di Giancarlo Mazzotta. Per la sua conoscenza diretta e per i suoi rapporti di lunga data col presidente di Leonardo Alessandro Profumo e per il canale con l'allora direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri, Giuseppe Giordo, poi sospeso dalle deleghe. Il quale interloquiva direttamente con l'ex premier. Tutti coinvolti nell'inchiesta della Procura di Napoli. Insieme con gli uomini del «team» di D'Alema che lo affiancavano nell'affare, figure di fiducia che seguivano in prima persona i vari passaggi della trattativa arrivata a un soffio dal concludersi. Soggetti chiave, perché D'Alema non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare per conto delle aziende di Stato, sottoposte a rigide norme interne sugli intermediari. Infatti, formalmente, il tramite tra le aziende italiane e la Colombia avrebbe dovuto essere - come spiega lo stesso D'Alema negli audio rubati - lo studio legale di Miami «Robert Allen Law», specializzato nella compravendita di yacht di lusso. Non esattamente il profilo di un intermediario di partecipate pubbliche che vendono tecnologia militare. D'Alema inizialmente aveva negato, in un'intervista che poi ha lui stesso smentito in un'altra successiva, che lo studio fosse stato proposto da lui. Invece per conto dello studio c'erano l'avvocato Umberto Bonavita e Gherardo Gardo, commercialista bolognese e uomo vicinissimo a D'Alema.

Sia Fincantieri che Leonardo avevano da subito smentito di aver affidato qualsivoglia incarico a D'Alema. Non c'era infatti nulla di formalizzato. Eppure le cose si erano spinte molto avanti. Fincantieri aveva firmato una dichiarazione di intenti preliminare con la Colombia, supervisionata da Bonavita. Leonardo aveva addirittura scritto una bozza di contratto per lo studio Allen, mai perfezionato. E sono diversi i messaggi in cui l'ex premier tira in ballo l'ad Alessandro Profumo. Per esempio nelle call che si stavano organizzando con i rappresentanti dello Stato colombiano. D'Alema si raccomandava così in chat: «Naturalmente il diritto a parlare è limitato a me, Profumo e Giordo. Gli altri ascoltano». Profumo si era assolto in Commissione Difesa spiegando che «D'Alema non aveva alcun mandato, formale o informale, a trattare la vendita di armi alla Colombia per conto di Leonardo. Avevamo già avviato la procedure nel 2019, prima di queste vicende. D'Alema ha prospettato a Leonardo che queste opportunità potessero essere maggiormente concrete ma fin da subito ha chiarito che sarebbe rimasto del tutto estraneo alle future attività di intermediazione nei nostri confronti».

La «storia istituzionale» di D'Alema e la possibilità di sfruttarla per ottenere commesse aveva fatto già gola ad altri soggetti, che avevano tentato di usare le relazioni dell'ex premier per aprirsi dei canali commerciali con lo Stato durante l'emergenza Covid. Il nome di D'Alema, in questo caso totalmente estraneo alle indagini, compare anche in un'inchiesta della Procura di Roma su una truffa nella fornitura di mascherine alla Protezione civile del Lazio. I pm ipotizzano il traffico di influenze per due imprenditori di cui uno notoriamente amico dell'ex premier e leader Pds. 

D'Alema e Profumo indagati a Napoli per corruzione internazionale. Rischiano 10 anni. Corruzione internazionale, reato punito con pene da sei a dieci anni di carcere. È questo lo spettro che incombe su Massimo D'Alema e Alessandro Profumo da ieri mattina. Luca Fazzo il 7 Giugno 2023 su Il Giornale.

Corruzione internazionale, reato punito con pene da sei a dieci anni di carcere. È questo lo spettro che incombe su Massimo D'Alema e Alessandro Profumo da ieri mattina, quando una lunga sequenza di bugie dette nei mesi scorsi va a schiantarsi contro l'avviso di garanzia che viene notificato all'ex presidente del Consiglio e all'ex amministratore delegato di Leonardo dalla procura di Napoli. I computer di entrambi vengono perquisiti alla ricerca di nuovi elementi sull'affare su cui da oltre un anno scavavano gli inquirenti: la trattativa con la Colombia per la fornitura di aerei e navi militari per cinque miliardi di euro. Un affare colossale su cui l'ex leader dei Ds e il suo entourage, secondo le intercettazioni dello stesso D'Alema, puntavano a incassare una provvigione da ottanta milioni di euro.

Ora si scopre che la metà della cifra era destinata a tornare in Colombia, nelle mani dell'ex ministro degli esteri Marta Ramirez. È questo il tassello decisivo, acquisito dagli inquirenti napoletani durante quattordici mesi di lavoro sottotraccia. Perché quando nel marzo 2022 la strana - e quasi incredibile - storia dei traffici di D'Alema e Profumo era venuta alla luce, la puzza di bruciato era tanta, e tanti erano i dettagli inspiegabili: il più ingombrante di tutti, il motivo per cui Leonardo aveva deciso di chiedere l'aiuto di «Baffino» per piazzare i suoi prodotti nonostante una trattativa ufficiale fosse già aperta tra i due Stati, seguita in prima persona dall'allora viceministro Giorgio Mulè.

Leonardo, contro ogni evidenza, aveva negato di avere ingaggiato come intermediario D'Alema. L'odore di bruciato aumentava. Ma non era chiaro se fossero stati commessi dei reati. Tanto che l'unica Procura a muoversi era stata quella di Napoli sulla base dell'esposto dell'Associazione parlamentare per il Mediterraneo, presieduta da Gennaro Migliore, la cui sigla era stata scippata da uno dei collaboratori di D'Alema e usata come schermo per le trattative. Quell'indagine, all'apparenza marginale e piuttosto innocua, è diventata il grimaldello per andare a scavare in profondità nella vicenda. Fino a individuare qual era il valore aggiunto della «cordata» di D'Alema, il canale non ufficiale utilizzato per oliare gli affari di Leonardo: ed ecco il nome, un nome eccellente. Perché Marta Ramirez, del partito conservatore, è stata ministro anche della Difesa e del Commercio estero del governo di Bogotà, e fino all'anno scorso vicepresidente della Repubblica. È a lei, dice l'avviso di garanzia notificato ieri a D'Alema e Profumo, che dovevano andare quaranta milioni di euro se l'affare fosse andato in porto.

Insieme a D'Alema, a Profumo e alla Ramirez finiscono nel registro degli indagati altri cinque interpreti del pasticcio. Tra questi Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di un paese pugliese sciolto per mafia, a sua volta indagato per diversi reati, che tra il gennaio e il febbraio del 2022 - i mesi caldi della trattativa - si muove come una sorta di plenipotenziario della cordata. A fare compagnia a Profumo nell'elenco degli indagati c'è un altro nome importante dell'industria di Stato, Giuseppe Giordo, direttore della divisione Navi militari di Fincantieri: che sembrava inizialmente defilata rispetto al nocciolo dell'inchiesta, e invece si ritrova anch'essa sotto tiro.

Massimo D'Alema reagisce all'avviso di garanzia ostentando sicurezza, il suo legale dice che l'ex premier «ha fornito la massima collaborazione all'autorità giudiziaria, siamo certi che sarà dimostrata la più assoluta infondatezza dell'ipotesi di reato a suo carico». Ma è sotto gli occhi di tutti che l'offensiva della procura di Napoli trasforma in caso giudiziario un problema finora solo politico e istituzionale: il ruolo di Leonardo, quello che all'esplosione dello scandalo portò il senatore Maurizio Gasparri a chiedersi «se siamo davanti ad una azienda strategica di Stato o a una sezione staccata del Pds o, come si chiama adesso, del Pd».

I sacerdoti della tripla morale. Nessuno vuole mettere una croce sulle spalle di Massimo D'Alema per le indagini che lo coinvolgono sull'"affaire" della vendita di armi alla Colombia in cui si configurerebbe il reato di corruzione internazionale. Augusto Minzolini il 7 Giugno 2023 su Il Giornale.

Nessuno vuole mettere una croce sulle spalle di Massimo D'Alema per le indagini che lo coinvolgono sull'«affaire» della vendita di armi alla Colombia in cui si configurerebbe il reato di corruzione internazionale. Vedremo gli sviluppi giudiziari del caso. Su un dato, invece, vale la pena riflettere fin d'ora: la «questione morale» che ormai periodicamente investe la sinistra in tutte le sottospecie che oggi la rappresentano. Comprese quelle più radicali.

È un fenomeno che colpisce l'immaginario di un Paese che ha visto i post-comunisti arrivare al potere proprio sull'onda degli scandali di Tangentopoli che spazzarono via i partiti di governo di allora, dalla Dc al Psi. Furono risparmiati per grazia ricevuta da un pezzo di magistratura a loro collaterale (le cosidette toghe rosse): nel 1989 beneficiarono di un'amnistia che mise una pietra tombale sui finanziamenti che il Pci aveva ricevuto da Mosca; poi furono lambiti da diverse inchieste ma sempre tenuti al riparo dalla magistratura amica: Bettino Craxi moriva in esilio ad Hammamet mentre loro facevano la morale a Roma. Nei trent'anni successivi sono stati tirati in ballo in innumerevoli scandali (da Telekom Serbia alle vicende che hanno portato quasi al fallimento della più antica banca d'Italia, Mps) ma ne sono sempre usciti seppure con qualche graffio. E imperterriti hanno continuato ad agitare la «questione morale» come un'arma contro gli avversari anche di fronte al moltiplicarsi delle indagini che li tiravano in ballo, visto che la loro capacità di condizionare procure e tribunali si stava via via riducendo.

Insomma, hanno continuato ad esercitare una sorta di «doppia morale»: predicare bene e razzolare male. In un meccanismo perverso che ha visto tramontare l'ideologia, diminuire la politica e aumentare la propensione per gli affari. Anzi, molti dirigenti sono diventati anelli di congiunzione tra «il mondo degli affari» e «il mondo della politica» grazie alle relazioni che avevano costruito nelle istituzioni. La politica che si trasforma in sinonimo di lobbismo. Il che non è di per sè un reato (se si rispettano le regole) ma sicuramente è una metamorfosi che stride se chi ne è protagonista ha crocifisso per decenni gli avversari sulla «questione morale». Specie se gli affari avvengono in settori che cozzano con i totem ideologici della sinistra: così si passa dalla «doppia morale» alla «tripla».

Essere accusati, ad esempio, di svolgere un'azione di lobbismo in favore del Qatar che deve coprire i morti sul lavoro nei lavori di realizzazione degli impianti per i mondiali di calcio, non è certo un'attività proba per chi è cresciuto nel mondo del sindacato come l'ex-parlamentare del Pd, Antonio Panzeri. Come pure se hai sfilato per decenni dietro le bandiere arcobaleno, parlo di D'Alema, non è certo consono reinventarsi mercante d'armi. Come minimo pecchi d'incoerenza. Come massimo dimostri di non aver mai prestato fede al credo che hai professato. È l'atroce dubbio dei tanti elettori che ormai issano a mezz'asta, in segno di lutto, i vessilli della sinistra.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” l'8 giugno 2023.

Per mesi abbiamo cercato di intervistare Francesco Amato, uno dei personaggi chiave del cosiddetto Colombia-gate. E lui si era sempre negato. Ieri, però, il trentanovenne leccese sembrava di buon umore: «Che succede in Italia? Si fa un poco di giustizia alla fine? Se hanno iscritto sul registro degli indagati l’ex primo ministro significa che qualcosa finalmente si sta muovendo», ha affermato. 

Il riferimento era a Massimo D’Alema, accusato con lui e con altre quattro persone di corruzione internazionale. Nel decreto di perquisizione […] si legge che i soggetti sotto inchiesta «offrivano e comunque promettevano ad altre persone che svolgevano funzioni e attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio presso le autorità politiche, amministrative e militari della Colombia […] il corrispettivo illecito di 40 milioni di euro».

E i presunti «corrompendi» finora individuati dagli inquirenti sarebbero l’ex paramilitare Edgardo Ignacio Fierro Florez, «nella sua qualità di capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia», Marta Lucia Ramirez, ex ministro degli Esteri e vicepresidente della Colombia, i capitani di fregata German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto, «quali delegati della seconda commissione del Senato della Colombia», che si occupa di questioni legate alle forze armate. 

[…]  Il profilo Amato è il personaggio da cui parte l’indagine. Trapiantato da anni in Spagna dove fa l’imprenditore, nel 2022 prende le distanze dalla banda con cui si era accompagnato e consegna alla Verità il celebre audio in cui D’Alema prova a raddrizzare la barca con Fierro dopo un litigio con lo stesso Amato. Il giovane e l’ex premier avevano discusso per le ingenti spese di viaggio sostenute da Amato e mai rimborsate dai D’Alema boys.

Una discussione che aveva portato l’ex ministro degli Esteri a pronunciare questa frase: «L’obiettivo non è quello di avere 10.000 euro per pagare un viaggio adesso, ma è, alla fine, avere un premio di 80 milioni di euro. Questa è la posta in gioco. E allora, creare delle difficoltà, rispetto all’obiettivo, perché uno non ha avuto 10.000 euro mi sembra stupido, semplicemente stupido». Poi aveva soggiunto: «Se io ho problemi con Francesco Amato? Innanzitutto ho pensato che era utile che ci parlassimo noi due. Direttamente. Francesco Amato è un simpatico giovane, a volte fa un po’ di confusione, come succede alle persone più giovani. Quindi, qualche volta può essere utile parlarsi direttamente».

Adesso quel «simpatico giovane» potrebbe essere diventato il Mario Chiesa di D’Alema.

Già l’8 febbraio 2022 aveva messo in guardia l’ex premier sul fatto che l’avvocato americano Umberto Bonavita, ora indagato a Napoli, stesse lavorando per Fincantieri e Leonardo senza un formale incarico: «Presidente vorrei sapere se abbiamo sistemato la posizione di Umberto perché se no potremmo avere problemi seri perché è tutto istituzionale e le cose le chiederanno». 

[…] Nel messaggio Amato sottolineava come le due partecipate avessero avuto incontri con i dirigenti dell’azienda navale Cotecmar e al ministero della Difesa senza pagare il governo solo per presentare l’offerta.

«Mi sembra che non c’è bisogno di dimostrare credibilità perché loro si sono seduti in istituzioni pubbliche senza passare per nessuna gara o tender dove si paga solo per partecipare». 

Amato, erede di una solida famiglia di panificatori della provincia di Lecce, dopo essersi trasferito all’estero, sarebbe entrato in contatto con potenti famiglie colombiane di latifondisti in veste di responsabile per l’acquisto di frutta esotica (avocados in particolare) di un importante marchio della grande distribuzione. Nei mesi scorsi ha ammesso di essere stato lui a coinvolgere nell’affare, grazie ai suoi ganci d’Oltreoceano, Fierro e Pacheco. 

Gli chiediamo se abbia mai sentito parlare del coinvolgimento della vicepresidente Ramirez e la risposta è negativa: «No. La signora è evidentemente un contatto di D’Alema. La Ramirez con me e le persone di mia conoscenza non ha nessuna relazione. Io non ho mai avuto collegamenti con questa signora».

Addirittura pensa che sia vicepresidente dell’attuale governo di sinistra di Gustavo Petro, «amico di D’Alema». Poi aggiunge: «“Nei mesi scorsi qualcuno mi disse guarda che la Ramirez ha aperto una fondazione”, io ho risposto che non mi interessava. Anche perché avevate già fatto scoppiare il caso mediatico». Ha i messaggi sulla Ramirez? «No, me ne parlarono a voce». 

[…]  Amato è pronto a far dichiarazioni all’autorità giudiziaria? «Non ho problemi.

Se mi convocano dirò che ho fatto solo un lavoro di segreteria e, infatti, lei ha visto i messaggi e tutto… io con le partecipate non ho mai parlato e come lo dico a lei, posso dirlo al pubblico ministero.

Nella messaggistica si vede chiaramente che io chiedo le cose a D’Alema e al suo amico Giancarlo Mazzotta. Io non parlavo con Alessandro Profumo, con Giuseppe Giordo (ex alti dirigenti delle partecipate oggi indagati, ndr), io parlavo con D’Alema che faceva tutto. Se mi accusano di corruzione chiederò perché, non avendo fatto altro che mettere due persone in contatto tra di loro. Se questo è un reato…». 

Fierro nell’audio con D’Alema si è lasciato andare a delle affermazioni che sono il cuore dell’inchiesta. L’ex premier era preoccupato per le imminenti elezioni legislative e Fierro lo aveva rassicurato: «Come ho già detto, le persone che abbiamo nel nostro team rimangono nelle posizioni importanti che possono aiutare a decidere se assumere, acquistare.

Sono loro che decidono, prima o dopo le elezioni. Il ministro della Difesa se ne andrà tra due o tre mesi, ma ci sono ancora due funzionari che fanno parte della nostra squadra, che possono gestire tutto ciò di cui abbiamo bisogno e tutto ciò per cui ci siamo impegnati con Leonardo». 

Fierro aveva anche rimarcato i rapporti privilegiati con un alto ufficiale dell’Aeronautica: «Penso che in tutti i Paesi ci siano diverse metodologie di trattativa. È vero che qui in Colombia ci stiamo gestendo con un generale della Repubblica che ha il potere di decidere cosa è necessario per l’Aeronautica militare colombiana e può farlo direttamente senza il consenso o senza che succedano alcune cose da parte del Senato. Sì, il generale è dentro la nostra squadra. In modo che possa velocizzarci, può aiutarci ad accelerare il processo di acquisto dei prodotti offerti da Leonardo».

Il generale Amato ritiene che il graduato possa essere il comandante della Fuerza aerea colombiana: «La Fac non cambia in base ai governi, quelli sono ufficiali militari, questo significa che se si parlava con la persona giusta ti poteva dare il beneplacito». Ci sono state spintarelle? 

«Quando io stavo in mezzo non siamo arrivati a quel punto perché era il passo che veniva dopo» risponde Amato. Ha sentito o capito se i D’Alema boys fossero pronti a pagare tangenti a qualcuno? «Se ci fosse stato bisogno suppongo di sì. C’erano tutti i presupposti per portare avanti l’affare». Insistiamo: gli italiani sapevano che c’era bisogno di oliare qualcuno? «Questo posso dire di sì». E lo ripeterà anche ai magistrati? «Senza problemi». 

Poi ritorna sul suo ruolo: «Io ho messo in contatto le persone, ma non avendo rapporti diretti con le partecipate, potevo solo sedermi e stare zitto come fanno i piccoli con i grandi. Io non sapevo come fossero abituati questi delle partecipate… “io ti do questo”, “ti do quello”. 

Io sentivo che parlavano dell’Indonesia, dell’affare Fincantieri, che conoscevano già il modus operandi, come funziona». Il riferimento sarebbe stato a una commessa di navi piazzate nel Sud est asiatico dall’azienda triestina. 

«L’acquisto di armi si fa con gare pubbliche se qualcuno ti fa vendere senza significa che già si sa che devi oliare e per capire questo non bisogna essere degli scienziati. Io al magistrato se mi chiama gli dico: questa è logica matematica basica, uno più uno due» è il ragionamento dell’indagato. Quindi aveva il sentore che sarebbero state pagate delle mazzette? «Era scontato che si dovessero pagare tangenti, ma ci sono tutti i messaggi da cui si vede che non ero io quello che si occupava di queste cose».

Estratto dell’articolo di Lodovica Bulian per “il Giornale” l'8 giugno 2023.

A quasi un anno da quando è emerso l'affare colombiano, poi non andato in porto, e dai fatti oggi contestati, su delega della Procura di Napoli sono stati sequestrati pc e telefoni all'ex premier Massimo D'Alema, al suo uomo di fiducia, il commercialista Gherardo Gardo, oltre che all'ex ad di Leonardo Alessandro Profumo e all'ex direttore della sezione Navi militari di Fincantieri, Giuseppe Giordo. 

Sarà ora l'analisi dei dispositivi a fornire eventuali elementi a supporto dell'accusa di corruzione internazionale nei confronti di otto indagati. Si cercano indizi e dettagli sulla percentuale da 80 milioni di euro che secondo i pm si sarebbero dovuti dividere, se la commessa da 4 miliardi di aerei e navi militari delle partecipate di Stato fosse andata in porto, il gruppo dei mediatori italiani e quello dei colombiani 

(...)

Ci sarebbero altri funzionari di Bogotà in corso di identificazione. Il nodo della presunta corruzione internazionale contestata a D'Alema e agli altri sta nella promessa, secondo i magistrati, della metà degli 80 milioni, cioè 40 milioni, ai colombiani per portare a termine la maxi commessa. 

Questo perché, secondo l'accusa, dall'altra parte del «tavolo» ci sarebbero stati pubblici ufficiali, funzionari dello Stato. La vice presidente Marta Lucia Ramirez nega di aver mai conosciuto D'Alema, e precisa di «non aver avuto alcun rapporto con l'acquisto di materiale militare da nessun Paese. Tutto ciò che riguarda il ministero della Difesa e gli acquisti di tale entità devono essere spiegati da coloro che facevano parte di quel dicastero». Negli audio rubati della call, si sente D'Alema assicurare al suo interlocutore, Edgardo Fierro: «Divideremo tutto». 

I contratti con le aziende italiane nei piani del gruppo sarebbero passati dallo studio legale di Miami Robert Allen Law, individuato da D'Alema. «Tutti i compensi che Allen riceverà da Fincantieri e Leonardo saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana», spiegava l'ex premier nella riunione. Ma nei dispositivi che erano già stati sequestrati ai due pugliesi Emanuele Caruso e Francesco Amato, e forse in quello dello stesso D'Alema, potrebbero esserci ancora tracce di messaggi come questi, di cui il Giornale è in grado di dare conto.

In una chat aperta tra l'ex premier e i due pugliesi che con lui stavano lavorando all'affare, D'Alema sembrerebbe richiamare il team all'ordine dopo momenti di tensione: «Vorrei che si smettesse di fare litigi inutili e si lavorasse tutti insieme per l'obiettivo. Ci possono essere risultati molto importanti». D'Alema, secondo gli inquirenti impegnato in una «mediazione informale», nella stessa chat si preoccupa in prima persona che venga organizzata una call tra i vertici delle partecipate e il ministro della Difesa colombiano: «Leonardo e Fincantieri chiedono una call con il ministro della difesa per avere conferma degli incontri a livello tecnico. Altrimenti non credo che firmino i contratti», scrive. E in previsione di questa call programmata con il mini.

Estratto dell’articolo di Manuela Galletta per lastampa.it l'8 giugno 2023.  

Da caso politico a caso giudiziario. La storia degli aerei militari e delle navi che dovevano essere venduti dai colossi Leonardo e Fincantieri al Governo colombiano sfocia in un’inchiesta destinata a fare rumore.

La procura di Napoli, […] ha acceso i riflettori su una compravendita, poi saltata, che ha visto impegnato in prima persona Massimo D’Alema. […] che figura tra gli indagati eccellenti di questa indagine avviata un anno fa […] Lo scenario accusatorio […] è chiaro: Leonardo e Financatieri avrebbero dovuto fornire alla Colombia aerei M 346, e corvette, piccoli sommergibili e allestimento cantieri navali, incassando per l’operazione 4 miliardi di euro; per ottenere la commessa c’è chi sarebbe stato disposto a pagare laute mazzette, sia sul versante dei mediatori italiani che sul versante dei mediatori colombiani.

Di qui l’accusa di corruzione internazionale aggravata dal fatto che il reato sarebbe stato commesso con l'ausilio di un gruppo criminale organizzato attivo in diversi Stati, tra cui Italia, Usa, Colombia e anche in altri. Il condizionale è, tuttavia d’obbligo, perché la compravendita non si concluse. 

A D’Alema si contesta l’essere stato «mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane», ossia Alessandro Profumo in qualità di amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo quale Direttore generale della Divisione Navi Militari di Finacatieri, pure loro indagati.

A tenere i contatti coi colombiani sarebbe stato l’ex sindaco di Carmiano Giancarlo Mazzotta, mentre per la Colombia i referenti all’interlocuzione erano Francesco Amato ed Emanuele Caruso, due broker pugliesi […] Proprio tramite Mazzotta, Amato e Caruso - broker pugliesi e primi indagati dai pm di Napoli nella primavera dello scorso anno - riuscirono a ottenere contatti con D’Alema. 

Vi è di più: per giungere ad accordi con le autorità colombiane, alcuni degli indagati si sarebbero resi disponibili a promettere e offrire a pubblici ufficiali colombiani (autorità politiche, amministrative e militari) un somma importante, circa 40 milioni di euro. Nello specifico la procura individua come destinatari della promessa di ‘mazzette’ Edgardo Fierro Flores (capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia), Marta Lucia Ramirez (ministro degli esteri e vicepresidente della Colombia), German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto (entrambi delegati della seconda commissione del Senato della Colombia) e anche altri in corso di identificazione.

La promessa sarebbe stata fatta da Amato e Caruso e i 40 milioni di euro rappresenterebbero la metà della provvigione (da 80 milioni) che costituisce il 2 per cento delle commesse da 4 miliardi di euro. […] Ad occuparsi della divisione sarebbe dovuto essere uno studio legale statunitense, il "Robert Allen Law" di Miami, in Florida, «introdotto da D’Alema - incalzano gli inquirenti - quale agent e formale intermediario commerciale presso Fincantieri e Leonardo[…] ». A sua volta lo studio statunitense sarebbe stato rappresentato in Italia, per la specifica trattativa, da Umberto Bonavita e Gherardo Gardo. […]

Vittorio Feltri su Massimo D'Alema: "Ecco perché è indagato". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 09 giugno 2023

La notizia più stupefacente di ieri riguarda Massimo D’Alema, già presidente del Consiglio e leader della sinistra, quando questa era una cosa seria, benché a me non piacesse come non mi garba quella attuale. Questo uomo è finito nell’occhio del ciclone in quanto accusato di aver mercanteggiato con la Colombia una fornitura di aerei da guerra. Si dà però il caso che Baffino non sia un mercante di armi e quindi si sia limitato a svolgere il ruolo di consulente, che non è certo un reato ma è semplicemente un lavoro, una attività lecita. Non si capisce perché egli, pur essendosi mosso nell’ambito della legalità, debba essere accusato di aver commesso un illecito. Conosco personalmente D’Alema e anche se non condivido una virgola del suo patrimonio ideologico, nutro per lui una certa stima e il fatto che sia stato coinvolto come probabile colpevole in una vicenda illecita mi infastidisce.

Una grana, quella che lo colpisce, che se non avesse un risvolto giudiziario mi farebbe ridere. La sua storia assomiglia a quella abbastanza recente che ha turbato la vita di Matteo Renzi, altro progressista le cui posizioni politiche non mi entusiasmano, il quale è stato pubblicamente redarguito perché spesso ospite di Paesi arabi in veste di conferenziere, come se parlare in pubblico in uno Stato straniero, in cambio di un lauto compenso, costituisse reato. In sostanza il mio sospetto è che chi non sia in linea con l’attuale Pd, meriti di essere messo alla Berlina. Una follia che grida vendetta.

Si dà il caso, tornando a D’Alema, che l’Italia sia il sesto produttore mondiale di armi. Le quali è ovvio che siano vendute al miglior acquirente. Attenzione questo commercio non è avvenuto perché il vecchio dirigente rosso abbia svolto il ruolo di mediatore, ma semplicemente quello di consulente, ciò che non è contro la nostra legge. Niente di sporco. Una semplice prestazione professionale. È quindi assurdo che venga accusato di aver sgarrato. Nel mio piccolo lo difenderò benché sia un ex comunista, così come ho difeso Renzi conferenziere.

Rilevo che quando un signore ex protagonista della politica esce dal cono di luce inevitabilmente finisca vittima della giustizia e debba subire pure lo sputtanamento pubblico. Da notare che da oltre un anno il nostro Paese fornisce armi (gratis) all’Ucraina anche se non vincerà mai la guerra con la Russia per evidente inferiorità bellica. Se proprio odiamo i cannoni e le mitragliatrici e generi affini smettiamo di produrre simile merce. Ma non credo che le nostre industrie specializzate siano d’accordo con questa soluzione. Per concludere lasciate che D’Alema faccia il consulente della Colombia, a noi non ce ne frega niente.

GLI SCOOP ESCLUSIVI DI STRISCIA LA NOTIZIA FINO A OGGI IGNORATI DALLA STAMPA NAZIONALE.

Dagospia il 6 giugno 2023. COMUNICATO STAMPA

Oggi la notizia dell’ex premier Massimo D’Alema indagato per corruzione internazionale aggravata per una presunta intermediazione nella vendita al governo colombiano di forniture militari è su tutti i giornali. Ma mesi fa nessuno o quasi se ne è voluto occupare, tranne Striscia la notizia e il quotidiano La Verità. Il tg satirico di Antonio Ricci ha dedicato al caso 28 servizi, in onda dal 3 marzo al 15 dicembre 2022. 

Ecco alcuni scoop di Striscia  sulla vendita di armi alla Colombia da parte di Leonardo e Fincantieri con presunto intermediario Massimo D’Alema: un affare da 4 miliardi con una commissione di 80 milioni di euro per i mediatori. 

1.        LA RIUNIONE DI BOGOTÀ: il 23 marzo 2022 Striscia mostrò in esclusiva la foto divenuta poi celebre della riunione di Bogotà, a cui parteciparono i broker Emanuele Caruso e Francesco Amato, l’ex sindaco di Carmiano ed ex collaboratore di Massimo D’Alema Giancarlo Mazzotta e i colombiani. 

Tra loro, alcuni membri del ministero della Difesa ed Edgar Ignacio Fierro Florez – nome di battaglia “Don Antonio” –, un ex comandante di un gruppo paramilitare di estrema destra coinvolto anche nel narcotraffico, già condannato a 40 anni di carcere per vari reati, compresi alcuni omicidi. L’incontro fu segreto ma non segretissimo, visto che finì nelle storie Instagram di Paride Mazzotta, figlio di Giancarlo e consigliere regionale pugliese di Forza Italia

2.        L’INTERVISTA A EMANUELE CARUSO: il 21 marzo 2022 Pinuccio riuscì a intervistare in esclusiva il broker Emanuele Caruso, che avrebbe operato «come consulente per la cooperazione internazionale del ministero degli Esteri della Colombia» ed è accusato di sostituzione di persona e truffa. Caruso ricostruisce dettagliatamente con l’inviato di Striscia le fasi del tentativo di vendita di armi alla Colombia e all’inviato rivela che l’intermediazione di Massimo D’Alema non sarebbe stata «Beneficienza, ma una vera a propria consulenza professionale»

3.        I DOCUMENTI INEDITI SULL’ACCORDO PRELIMINARE: il 10 marzo 2022 il tg satirico svelò alcuni documenti inediti. La prova di una videocall a cui avrebbero dovuto partecipare Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo, Giuseppe Giordo, il direttore generale di Fincantieri, Umberto Bonavita per lo studio americano Robert Allen Law, Diego Andrés Molano Aponte, ministro della Difesa colombiano, e l’ex premier italiano Massimo D’Alema. E un preliminare tra Fincantieri e membri del ministero della Difesa colombiano, con tanto di firme in calce, e la società Robert Allen come garante

ARMI IN COLOMBIA, L’INTERVISTA INTEGRALE A CARUSO

Da striscialanotizia.mediaset.it - 22 marzo 2022

L'intervista integrale di Pinuccio a Emanuele Caruso, uno dei protagonisti del tentativo di"vendita armi alla Colombia con presunto intermediario Massimo D'Alema: un affare da 4"miliardi con una commissione"di 80"milioni di euro"per i mediatori

Da striscialanotizia.mediaset.it - 23 marzo 2022

Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20:35) nuove rivelazioni sul tentativo di vendita armi alla Colombia con presunto intermediario Massimo D’Alema: un affare da 4 miliardi con una commissione di 80 milioni di euro per i mediatori.

Pinuccio continua la sua inchiesta a colpi di messaggi inediti e foto esclusive. L’inviato ha contattato Fincantieri (come già aveva fatto con Leonardo, ma senza ottenere riscontri), per avere la loro versione della storia. Fincantieri, società a partecipazione statale che produce armamenti, risponde invece che «nelle trattative commerciali internazionali ha sempre avuto interlocuzioni esclusivamente con le istituzioni preposte, sia italiane che estere». 

Eppure, era Massimo D’Alema – si continua a non capire a che titolo – che parlava con i referenti colombiani per conto loro e di Leonardo.

«Fincantieri non è nel gruppo Leonardo, ma non è un problema. Loro risponderanno che sono pronti a venire il 7 o l’8», scriveva l’ex premier in un sms in vista di un incontro che si è tenuto a fine gennaio a Bogotá. E aggiungeva: «Vengono tutti. Per Fincantieri lo sapete già perché ve lo hanno comunicato nei giorni scorsi. Per Leonardo lo saprete presto». 

E di quel famoso incontro a Bogotá Pinuccio ha pure una foto con la “comitiva” pugliese di D’Alema (Giancarlo Mazzotta, Emanuele Caruso e Francesco Amato) al completo che festeggia con i colombiani coinvolti nella trattativa: i pregiudicati Don Antonio e Oscar Pachedo, il politico Jaime Arturo Fonseca Trivino con la sua segretaria e tre delegati del governo, German Monroy Ramirez, Eder Perneth e Francisco Joya Prieto, i cui nomi compaiono nel preliminare firmato con Fincantieri.

Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia.

Questo giornale non parteciperà al suo linciaggio. Massimo D’Alema è innocente, noi garantisti con colui che disse “Renzi cadrà per via giudiziaria”. Matteo Renzi su Il Riformista il 7 Giugno 2023

Non troverete in queste pagine nessun articolo riguardante l’avviso di garanzia a Massimo D’Alema. Non vogliamo leggere le sue intercettazioni sui giornali, non vogliamo vedere pubblicati i suoi estratti conto, non vogliamo conoscere i messaggi che si è scambiato con i suoi finanziatori cui speriamo non abbiamo perquisito le case, non vogliamo sapere quanto e come ha pagato la barca o la tenuta in cui produce il suo vino.

Per noi Massimo D’Alema è un cittadino innocente: per noi e soprattutto per la Costituzione italiana. A differenza di quello che ha fatto D’Alema in molti passaggi della sua carriera politica non useremo la clava delle inchieste per regolare i conti con un avversario politico. Noi siamo garantisti davvero.

E questo giornale non ospiterà nessun gioco di sponda tra uffici giudiziari e redazioni che in passato sono stati strumentalmente utilizzati anche dalla parte politica guidata dall’allora onorevole Massimo D’Alema.

Colui che disse: “Renzi cadrà per via giudiziaria e i problemi arriveranno da Napoli” sappia che questo giornale non parteciperà al suo linciaggio. Perché noi amiamo la politica e siamo garantisti, non scegliamo le scorciatoie tipiche del giustizialismo.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista

Estratto dell’articolo di Luca Fazzo per “il Giornale” il 9 giugno 2023.

Il partito degli affari e gli affari di partito […] Così per capire il senso di quanto sta emergendo sul patto […] tra l’ex comunista Massimo D’Alema e l’ex banchiere Alessandro Profumo […] sulla vendita di armi di Stato alla Colombia bisogna tornare indietro al 1999, quando D’Alema - primo uomo di Botteghe Oscure approdato ai vertici delle istituzioni stava a Palazzo Chigi. 

Permanenza breve, un anno e mezzo, ma sufficiente a lanciare la più disastrosa delle privatizzazioni italiane, la cessione di Telecom ai «capitani coraggiosi» guidati da Roberto Colaninno. Di quell’affare D’Alema fu l’artefice, con modalità tali da indurre uno che la sapeva lunga come Guido Rossi a un giudizio fulminante: «Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla inglese».

Da allora è stato un continuo […] arrembaggio […] della finanza privata e soprattutto pubblica. […] adesso a finire nei pasticci insieme a D’Alema […] è uno degli uomini che più hanno incarnato la nuova alleanza tra capitalismo (il solito capitalismo italiano, familistico e pasticcione) e post-comunisti: ovvero Alessandro Profumo, quattro quarti di know bocconiano e tessera del Pd in tasca. 

Che Profumo fosse uno dei «loro», D’Alema e compagni lo avevano intuito già ai tempi in cui il manager stava alla testa del Credito Italiano e poi di Unicredit. Il primo outing ufficiale lo fece per interposta moglie, presentandosi nel 2007 a votare alle primarie del Pd in compagnia della moglie Sabina Ratti, che era candidata nella lista «Noi con Rosy Bindi».Le aspirazioni della Bindi vengono travolte dalla vittoria di Walter Veltroni; Profumo si ricolloca in fretta, diventando l’interlocutore privilegiato della segreteria Pd nel mondo della finanza. È in quegli anni che si cementa un rapporto che permette a Profumo di sopravvivere professionalmente anche dopo la cacciata da Unicredit, dove gli azionisti chiedono la sua testa e lui accetta di dimettersi con una buonuscita da quaranta milioni di euro. Due milioni, annuncia lady Profumo in sella alla sua Ducati rossa, andranno alla Caritas.

[…] Il suo legame col Pd è così forte che nel 2011 circola il suo nome per la segreteria del partito, lui declina […] A marzo entra nel board di Srebank, banca di Stato russa, ma incombe la svolta vera: c’è da salvare la più antica banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, portata sull’orlo del fallimento dalla gestione del piddino Giuseppe Mussari. Per cambiare rotta il governo a guida Pd manda un altro del Pd: Alessandro Profumo. […] anche Profumo, dopo Mussari, si ritrova rinviato a giudizio per falso in bilancio.

Resta lì quattro anni, poi a salvarlo dalla pensione interviene un altro governo a guida Pd, che nel 2017 lo manda a amministrare Finmeccanica […] che […] cambia nome e diventa Leonardo. E lì, tornano utili i rapporti col vecchio compagno di partito Massimo D’Alema: con l’incarico «informale» di mediare l’appalto […] col governo colombiano. […]

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 9 giugno 2023.

Quando La Verità pubblicò l’audio in cui l’ex premier Massimo D’Alema trattava armi con un ex paramilitare colombiano l’allora presidente di Leonardo Luciano Carta dispose un audit poi consegnato al ministero dell’Economia e, più recentemente, alla Procura di Napoli, l’ufficio giudiziario che […] contesta a otto indagati, tra cui l’ex ministro degli esteri, la corruzione internazionale […]. 

Le conclusioni dell’audit sono contenute in un documento classificato e a diffusione limitata, che, però, adesso è stato acquisito nell’inchiesta penale. Qualcuno ha scritto che quel rapporto assolveva Baffino e di fatto chiudeva le indagini interne a tarallucci e vino. Ma non è così. Va specificato che chi svolge l’audit non ha poteri di polizia giudiziaria e non deve perseguire i reati, ma deve verificare se siano state rispettate le procedure interne. Nel nostro caso la relazione conteneva una lunga serie di rilievi sul mancato rispetto delle stesse.

Dalla ricostruzione emerge come D’Alema avesse contattato direttamente l’allora amministratore delegato Alessandro Profumo e lo avesse informato di avere un canale interessante per la vendita di armamenti in Colombia. A questo punto l’ad avrebbe ordinato all’allora direttore generale Lucio Valerio Cioffi di trasmettere a D’Alema documenti che riguardavano questa commessa. 

Un passaggio che sarebbe avvenuto senza le dovute cautele. Infatti si trattava di documenti classificati per cui non sarebbe stato firmato alcun «non disclosure agreement» (Nda) da parte dei destinatari delle carte che riguardavano caccia militari e sistemi radar.

[…] Sarebbe stato indispensabile impegnare gli aspiranti acquirenti e i loro intermediari a non diffondere informazioni sensibili su questioni di cui erano venuti a conoscenza per motivi commerciali, elementi che avevano una certa riservatezza e che erano, come detto, rigorosamente classificati in ambito aziendale. Ma tutto ciò non è stato fatto e le precauzioni non scattarono a causa del rapporto personale tra Profumo e D’Alema. 

Senza andare troppo per il sottile, il 15 dicembre 2021 Dario M., della divisione aerei di Leonardo vicepresidente senior dei servizi commerciali & clienti aveva scritto all’ex premier: «Buonasera Presidente, scusandomi per il ritardo, Le invio in allegato alcune brochure che descrivono le soluzioni offerte da Leonardo divisione elettronica per radar aeroportuali e centri air traffic control».

Alla presunta cricca giunse anche un dettagliato listino prezzi per 24 caccia. L’affare degli M-346 proposti da Leonardo alle autorità colombiane era una sorta di global service. Il pacchetto messo nero su bianco nel documento di 15 pagine prevedeva infatti una flotta di 24 M-346 Fighter attack, supporto logistico integrato associato e sistema di addestramento a terra, la fornitura di infrastrutture per i centri di formazione e manutenzione.

Inoltre Leonardo proponeva un servizio di «Turn key support» della durata di 10 anni svolto presso la base aerea del cliente in Colombia. Con tanto di simulatore di volo e aule multimediali. Costo totale: 2,132 miliardi di euro. A margine dell’offerta dei caccia, ai colombiani erano state spedite le brochure di quattro altri prodotti. La prima riguardava le apparecchiature per una torre di controllo. 

[…] C’era poi un secondo file che illustrava le caratteristiche di un sistema di controllo del traffico aereo in volo. A fianco delle apparecchiature per la torre di controllo non potevano mancare i radar. Quelli proposti erano di due diversi modelli, con diverse funzioni.

[…] Insomma, a fianco dei caccia veniva quasi proposto un aeroporto «chiavi in mano». Il segreto aziendale è legato a questioni commerciali, ma richiede la tutela di determinate notizie perché se queste fuoriescono dai corretti canali possono creare un danno alla società. Ecco perché sarebbe stato necessario far firmare un Nda. Cosa che non è accaduta.

Ma nell’audit era anche evidenziata un’altra dolentissima nota. […] È stata contestata la mancata condivisione con le strutture competenti delle informazioni che avevano i vertici e che avrebbero garantito una maggiore «compliance» e sicurezza. Infatti gli intermediari dell’operazione avevano caratteristiche che per policy aziendale li rendevano incompatibili con Leonardo. 

Per esempio Giancarlo Mazzotta era coinvolto in diverse inchieste giudiziarie e il Comune, Carmiano, di cui è stato sindaco è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Ma anche gli altri due indagati, Emanuele Caruso e Francesco Amato,  […] non avevano curriculum consoni al ruolo. Per non parlare degli ex paramilitari coinvolti nell’affare a Bogotà e in contatto con i D’Alema boys: Edgardo Ignacio Fierro Florez e Oscar José Ospino Pacheco entrambi condannati per omicidio a pene pesantissime.  Tutti controlli che non sono stati resi possibili dalla mancata comunicazione da parte di Profumo di queste informazioni alla struttura di sicurezza incaricata di questo tipo di attività

Gli addetti di Leonardo avrebbero potuto fare prevenzione, anche perché il capo della sicurezza dipende dal presidente e non dall’ad. Invece l’azienda si limitò a proporre un preaccordo capestro con un altro degli indagati, l’avvocato Umberto Bonavita, dove era previsto che il «promotore» venisse pagato anche in caso di insuccesso dell’operazione. 

Leonardo avrebbe dovuto erogare un importo per compensare la Robert Allen Law di Miami, di cui faceva parte Bonavita, per un ipotetico report di marketing e per le spese sostenute per altre attività. Ai sensi del contratto la Robert Allen aveva comunque diritto al pagamento anche in caso di rescissione dell’accordo da parte di Leonardo. Una formula che sarebbe interessante sapere se sia stata utilizzata dalla società di piazza Montegrappa anche in casi in cui non compariva come sponsor D’Alema.

Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 25 maggio 2023.

[…] Il Garante per la protezione dei dati personali ha bocciato il reclamo presentato da Massimo D’Alema contro La Verità. L’ex premier ci accusava di aver violato la sua privacy pubblicando sul sito del giornale l’audio della trattativa portata avanti dallo stesso Baffino per la vendita di armi (caccia, corvette e sommergibili) al governo colombiano da parte di due società partecipate, Fincantieri e Leonardo.

In più puntate avevamo messo online i passaggi più significativi della conversazione tra uno dei campioni della sinistra italiana ed Edgar Ignacio Fierro, un ex comandante dei gruppi paramilitari di estrema destra del Paese sudamericano, già condannato a 40 anni di carcere. In un colloquio del febbraio 2022 D’Alema prospettava per i suoi soci d’affari 80 milioni di euro di commissioni. Le sue parole erano inequivocabili, tanto da apparire un fake dell’intelligenza artificiale: «Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro […] un premio di 80 milioni di euro, questa è la posta in gioco».

Un discorso che continuava così: «Non appena noi avremo questi contratti, noi divideremo tutto, sarà diviso tutto». A questo punto D’Alema andava in pressing: «Oltretutto tra alcuni mesi ci sarà la nomina degli amministratori italiani che potrebbero cambiare io spero di no, ma potrebbero cambiare. Questo potrebbe cambiare le cose. Dobbiamo concentrare lo sforzo per concludere questo accordo entro un paio di mesi». 

[…]

L’ex ministro degli Esteri ha lamentato che La Verità avrebbe messo online un audio captato a sua insaputa e senza il suo consenso. Ha addirittura insinuato che avessimo «manipolato» il file. Il Garante ha obiettato che «la raccolta dei dati contenuti nelle registrazioni audio non risulta essere stata effettuata» dalla Verità, «circostanza su cui pare concordare lo stesso reclamante escludendosi con ciò l’utilizzo di artifici e/o raggiri da parte del giornalista che ne ha avuto notizia da una fonte confidenziale». 

Ha anche evidenziato che l’uso delle registrazioni «appare effettuato nel rispetto del principio di essenzialità dell’informazione». Infatti il Garante riconosce che abbiamo «pubblicato alcuni dei passaggi ritenuti rilevanti», e non l’intero audio, e che, in questa vicenda, occorre tenere conto «del ruolo pubblico dell’interessato la cui notorietà è indubbia, benché non operi più in ambito politico» e «dell’oggetto della conversazione, la quale non riguardava fatti personali del medesimo, ma vicende che coinvolgevano società a partecipazione pubblica, circostanza confermata anche dall’esame dell’audio integrale depositato» dalla Verità. 

Inoltre, sottolinea il Garante, «tali circostanze hanno costituito oggetto di numerosi articoli e servizi giornalistici di approfondimento […], nonché di interrogazioni parlamentari promosse da vari esponenti politici con lo scopo di fare chiarezza sui ruoli ricoperti dalle persone coinvolte, evidenziando così un interesse generale a chiarire lo svolgimento dei fatti». 

D’Alema ha ribattuto che da quattro anni non fa più politica, ma ha una società di consulenza che presta servizi nel settore energetico, ambientale e infrastrutturale, ad aziende private, dal cui novero sono escluse, «per policy interna», le partecipate, e ha provato a sostenere che la conversazione registrata «non ha avuto mai ad oggetto alcuna mediazione per la vendita di armamenti dalle società Leonardo S.p.A. e Fincantieri S.p.A. al governo colombiano, in quanto si tratta di attività vietata dalla legge», ma era «finalizzata a promuovere gli interessi» di alcuni suoi clienti che puntavano a «un contratto di concessione per lo sviluppo di un sistema portuale e per la realizzazione di opere in relazione ad un campo di energia elettrica in Colombia».

Dunque gli 80 milioni sarebbero stati collegati a opere civili, anche se «queste ultime operazioni» erano subordinate al fatto che «il contratto di compravendita di navi tra Leonardo e Fincantieri ed il governo colombiano fosse andato a buon fine». A portare avanti l’affare sarebbe stato «un noto imprenditore italiano» (il più volte imputato Giancarlo Mazzotta) a cui l’ex segretario Pds sarebbe «legato da un rapporto di lunga amicizia». 

D’Alema, inoltre, non sarebbe «mai stato coinvolto nell’attività del citato imprenditore», ma si sarebbe «limitato a esaudire una richiesta del medesimo di essere messo in contatto con i referenti di Leonardo e di Fincantieri, al fine di presentare loro la proposta di vendere navi al governo colombiano». E quindi se si è seduto davanti al pc per parlare con Fierro, l’ex premier lo avrebbe fatto solo per rispondere «ai quesiti dell’interlocutore colombiano riguardo all’attività di lobbyng svolta» da Mazzotta «per conto di Leonardo e/o Fincantieri».

Ma la nostra difesa, rappresentata dall’avvocato milanese Claudio Mangiafico, ha rimarcato i punti deboli del reclamo e come la ricostruzione di D’Alema «non corrispondesse al contenuto effettivo della conversazione», confermando l’assenza di «manipolazione o alterazione» da parte del nostro giornale.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Francois de Tonquédec per “La Verità” lunedì 21 agosto 2023.

La Polizia ha ricostruito in un’informativa del 29 settembre 2022, per la prima volta in un atto giudiziario, il ruolo di Massimo D’Alema nella trattativa per l’acquisto di armi da parte del governo colombiano. 

In particolare nel documento è riportato il riassunto degli audit interni sulla vicenda realizzati (e segretati) da due aziende strategiche come Leonardo e Fincantieri. Nelle 13 pagine risulta chiaro lo stretto collegamento tra l’ex premier e lo studio legale di Miami Robert Allen law che avrebbe dovuto fare da promoter per le due società italiane in Colombia in particolare attraverso il commercialista di fiducia di Baffino, Gherardo Gardo.

Partiamo dalla versione di Fincantieri: «La società ha avviato nell’estate del 2021 una trattativa con la Marina militare colombiana per la fornitura di fregate e sommergibili. L’operazione si è interrotta a causa della mancanza di fondi da parte del contraente.

Solo alla fine dell’anno 2021, il dialogo è ripreso con l’interessamento di D’Alema che ha informato Fincantieri, e precisamente il direttore generale della direzione commerciale Giuseppe Giordo, sui nuovi finanziamenti stanziati dal governo». 

A questo punto, […] sembra che a comandare in Fincantieri fosse proprio l’ex premier: «In quella circostanza, D’Alema invita Giordo a condividere con i dirigenti della divisione commerciale, Achille Fulfaro e Stelio Vaccarezza, ogni informazione utile con lo studio Robert Allen law di Miami per il tramite di Gardo e l’avvocato Umberto Claudio Bonavita che funge da supervisor nella trattativa».

La Polizia spiega che, secondo l’audit, l’operazione non si sarebbe conclusa «a causa del mancato perfezionamento delle procedure di compliance (conformità, ndr) richieste allo studio legale». 

Nell’audit si parla anche dell’incontro avvenuto il 14 dicembre 2021 a Cartagena de Indias presso la sede dei cantieri Cotecmar a cui prese parte Vaccarezza. Secondo il report stilato da Fincantieri, «la presenza dei due mediatori (Bonavita e Gardo) costituisce un’anomalia procedurale in quanto all’epoca dei fatti non era ancora iniziato il processo di due diligence […] ».

Grazie al riassunto delle indagini interne svolte da Leonardo apprendiamo un altro tassello della storia, forse ancora più interessante. Anche la società di piazza Monte Grappa aveva già avviato delle trattative nel 2021 che si sarebbero arenate a causa della «pandemia e del clima politico determinatosi in prossimità delle elezioni per la nomina del nuovo presidente della Repubblica colombiana». 

Ed ecco che anche qui entra in gioco l’ex ministro degli Esteri. Leggiamo: «Questo stallo ha permesso a Leonardo di cogliere al volo la proposta prospettata da Emanuele Caruso e Francesco Amato (i broker pugliesi oggi indagati per corruzione internazionale aggravata insieme con Max e altri cinque soggetti - tra cui i già citati Giordo, Gardo e Bonavita- ndr) che viene segnalata da D’Alema all’amministratore Alessandro Profumo (sotto inchiesta pure lui, ndr) in occasione di un incontro tenutosi il 10 settembre 2021 in cui vengono illustrati i termini commerciali».

A questo punto Profumo «informa il direttore generale, Lucio Valerio Cioffi, ed il responsabile dell’Unità operativa divisone velivoli, Dario Marfè». Quest’ultimo viene contattato da D’Alema e i due fissano un incontro a Roma per l’1 ottobre «a seguito del quale si manifesta la volontà dell’autorità colombiana di acquistare i velivoli italiani per l’adeguamento della flotta militare». 

Il dirigente informa D’Alema che «l’interesse era ben noto a Leonardo per la richiesta di offerta pervenuta tra il 2020 e inizio 2021 e per il quale era stato già contrattualizzato nell’aprile 2021 il promotore Aviatek. Sempre in quella circostanza, D’Alema ribadisce che la sua funzione è confinata al ruolo di negoziatore per conto di uno studio legale, del quale non fornisce il nome, scelto dal governo colombiano come referente legale sulla base delle comprovate esperienze acquisite in operazioni commerciali di identica natura». In realtà da Bogotà non risulta sia stato conferito alcun incarico ai professionisti di Miami.

Caruso […] ha detto agli investigatori: «Il presidente D’Alema ci suggerisce di rivolgerci a nome suo, in buona sostanza, allo studio Robert Allen che avrebbe avuto le credenziali tali da superare la compliance, altrimenti sarebbe stato impensabile […]. Sarebbe stato lo stesso studio l’interfaccia con le società a partecipazione pubblica, avrebbe dovuto ricevere un mandato da parte delle società di entrambe». 

Gli inquirenti, dopo aver sequestrato a giugno anche gli apparati elettronici di D’Alema, staranno certamente approfondendo la vera natura dei rapporti tra il politico e lo studio legale americano. L’ex primo ministro, come precisano gli investigatori, nell’autunno del 2021, va a caccia di materiale sensibile per portare avanti a sua attività di intermediario d’affari.

Infatti D’Alema avrebbe richiesto a Marfè «un prospetto sulle caratteristiche tecniche, sulle quotazioni dei prodotti e servizi erogati dalla divisione velivoli in modo da fornire al promoter (lo studio legale) informazioni dettagliate». Ma la ricerca di dossier non è terminata: «Nel corso di successivi incontri avvenuti tra Marfè e D’Alema, tenutisi nei mesi di ottobre e novembre 2021, si condividono una serie di documenti classificati consistenti in una tabella di sintesi per la vendita di 24 velivoli con soluzioni di prezzo in funzione del prodotto, servizi, componentistica accessoria ed un price catalogue. 

Il materiale viene consegnato alla segreteria dell’esponente politico in una chiavetta Usb».

Una pendrive che poteva consentire ai colombiani di visionare in modo informale la mercanzia, ma pure di tarare richieste ed eventuali esigenze su armamenti con le stesse caratteristiche di quelli prodotti dalle aziende italiane.

In quelle settimane l’ex segretario del Pds è molto indaffarato e il 10 dicembre comunica a Marfè il nominativo di Gherardo Gardo, «dello studio Robert Allen law», persona con cui «relazionarsi per concordare i dettagli dell’operazione in vista dell’incontro previsto a Milano il 3 gennaio 2022».

La Digos della Questura sottolinea l’importanza del commercialista a cui questo giornale aveva dedicato una approfondita inchiesta: «In questa fase è rilevante l’apporto determinante di Gardo che si attiva, per conto di D’Alema, al fine di interagire con i dirigenti societari e lo studio Robert Allen law, occupandosi di smussare i formalismi tecnici ed economici sino a conseguire, con l’intervento di D’Alema, un sostanziale accordo sul compenso da attribuire ai mediatori pari al 2% della commessa» da 4 miliardi di euro. Stiamo parlando dei famosi 80 milioni di commissioni di cui il lìder Maximo parla nell’audio pubblicato in esclusiva dalla Verità l’1 marzo 2022.

Nell’informativa gli investigatori approfondiscono anche gli incontri che si sono svolti a Bogotà dal 25 al 27 gennaio 2022 tra i dirigenti di Fincantieri e i componenti di una commissione parlamentare colombiana incaricata degli acquisti di armamenti. 

In vista di queste riunioni, D’Alema «comunica a Caruso i nominativi della delegazione di Fincantieri», in tutto quattro manager, che avrebbe presenziato ai lavori, «guidata da Giordo». La Polizia sottolinea come «questa circostanza oltre a essere confermata da Caruso venga avvalorata anche dalla ricostruzione fatta da Fincantieri».

Nel pomeriggio del 27 gennaio Vaccarezza riceve da Gardo (via Whatsapp) una prima bozza di documento di accordo, denominato Memorandum of understanding (Mou) che viene condivisa immediatamente. Gli investigatori notano come già in quel momento fosse possibile sentire puzza di bruciato, dal momento che dal testo «non emergeva alcun coinvolgimento/patrocinio del ministro della Difesa mentre venivano indicati come interlocutori due ex ufficiali della Marina militare colombiana».

Erano citati come partecipanti alla riunione Amato, Caruso ed Edgar lgnacio Fierro, ex sanguinario paramilitare colombiano, in veste di «capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia». L’avvocato Bonavita «appariva firmatario del documento assieme al management di Fincantieri in qualità di “Garante del Memorandum'”». 

[…] L’informativa prosegue: «I giudizi raccolti da una parte della delegazione Fincantieri sono unanimi nel definire l’incontro meno produttivo del previsto e nel commentare […] l’inadeguatezza, se non proprio l’incompetenza, di certe persone presenti, con particolare riguardo ad Amato e a Caruso». L’ingegnere Fulfaro avrebbe riferito che «non era chiaro quale fosse il loro ruolo anche se sembrava plausibile un loro coinvolgimento nell’organizzazione degli incontri a supporto dello studio Robert Al len law». 

Ma allora perché non era stato mandato a monte tutto? Ecco la risposta: «Nonostante i dubbi, l’ingegnere Fulfaro ripeteva che comunque dietro a tutto questo c’era stata l’intercessione di un personaggio come Massimo D’Alema e che pertanto la vicenda una qualche prospettiva doveva pure averla».

In Colombia viene programmato un meeting, sebbene meno importante, pure con una sparuta delegazione di Leonardo, che inizialmente avrebbe dovuto essere composta dal responsabile marketing per l’America Latina, Carlo Bassani, e da Marfè, che, però, contrariamente a quanto preannunciato non prende parte alla trasferta per motivi di salute. 

La convocazione dei dirigenti avviene con un invito formale trasmesso via email il 20 gennaio 2022 da Caruso e Amato, qualificatisi come «consiglieri del ministerio de Relaciones». Nell’atto si fa riferimento «agli impegni istituzionali organizzati con il gruppo promotore presieduto dal senatore Fierro e con il ministro della Difesa».

Il 26 gennaio a Bassani viene richiesto telefonicamente da Gardo di «presenziare a un’inattesa riunione in videoconferenza tra Marfè, l’ex presidente D’Alema, il senatore Fierro, Amato, Caruso e Giancarlo Mazzotta (l’ultimo degli indagati, ndr)» e «in quella circostanza, Marfè si scusa con gli interlocutori dell’assenza ribadendo l’interesse di Leonardo per la chiusura del contratto». Nell’annotazione viene citata anche la conference call dell’8 febbraio, quella in cui D’Alema prova a scaricare Amato parlando direttamente con Fierro. Passano pochi giorni e la notizia finisce sulla Verità. L’affare salta definitivamente.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” sabato 2 settembre 2023.

Quando si tratta di affari Massimo D’Alema non è un tipo schizzinoso. Lo dimostrano le frequentazioni borderline del Colombia-gate, che gli hanno fatto guadagnare una perquisizione e un’iscrizione sul registro degli indagati della Procura di Napoli con l’accusa di corruzione internazionale aggravata. Ma anche di fronte all’evidenza, con alcuni giornali amici, l’ex premier aveva provato a smentire un suo coinvolgimento prezzolato nell’affare delle armi. 

Quasi contemporaneamente Baffino ha anche tentato di negare i rapporti con gli avvocati-faccendieri Piero Amara e Giuseppe Calafiore, quelli che avrebbero inventato di sana pianta l’esistenza della fantomatica loggia Ungheria, di cui la Procura di Perugia, dopo lunghe indagini, non ha trovato traccia. 

Relazioni pericolose anche queste rivelate dalla Verità. Ma pure in tal caso l’ex ministro degli Esteri viene smentito clamorosamente: dal verbale segretato di un suo presunto sodale, il cui contenuto il nostro giornale è in grado di svelare. Ma partiamo dall’inizio.

 Nel settembre del 2021 avevamo pubblicato ampi stralci della trascrizione di un colloquio tra Calafiore e il lobbista esperto di pubbliche relazioni Alessandro Casali, una registrazione effettuata dal primo all’insaputa del secondo. E il colloquio con Casali è ricco di suggestioni, essendo il cinquantasettenne spoletino un grande anfitrione di cene e convegni e frequentatore di politici, professionisti e magistrati (come Luca Palamara e Giuseppe Pignatone).

Nell’audio, risalente al 2020, Calafiore prova a convincere il pierre a riprendere le fila di un ipotetico affare di cui avrebbero iniziato a discutere nel 2017 proprio con D’Alema presso gli uffici della fondazione Italianieuropei. Ma nel 2018, dopo l’arresto dei due faccendieri, la trattativa si sarebbe interrotta. Nel 2020 i legali siciliani tornano alla carica e cercano di riaprire il canale con il politico […]. 

Casali immagina le possibili obiezioni. Ma è convinto che non saranno insormontabili: «La domanda è: lui mi dirà “sì, ma visto quello che è successo”, perché lui ovviamente è uomo attento (sopra a «lui» si legge «D’Alema», ndr). Tu pensa non mi ha detto “A”, ha detto “mi spiace per quegli amici”; “sì purtroppo non è neanche tutto quello che si dice”, gli faccio io. E lui mi dice “spesso è così”. Sono le uniche parole e frasi che sono state dette sulla vicenda. No per dirti lui com’è, perché mi poteva dire “Oh!”, no? “Tu devi stare attento a chi ti porti”, lo poteva dire benissimo, non me l’ha detto. Mi ha detto “Ale...”».

Calafiore ribatte: «Vabbé, ma non è che lui quando parlava con noi non sapeva con chi parlava». Casali è d’accordo: «No, certo. No, no, all’inizio no, eh, poi si è informato». Calafiore ricostruisce: «Mi ricordo che tu mi dicesti: “Beppe si è informato coi suoi amici dei servizi” (D’Alema è stato al vertice del Copasir, ndr)». Poi azzarda: «Gli avranno detto “ci puoi parlare sono gente seria”». Quindi chiede: «[…] Come vuoi che ci muoviamo?

Ti informi?». Casali: «Subito, io lo vedo tutte le settimane». 

Calafiore: «E mi dici…». Casali: «Perché siete ritornati in auge…». 

L’argomento intorno a cui ruota tutto è un contenzioso milionario tra l’Eni e una piccola società impegnata nel settore dell’energia, la Blue power di Francesco Nettis, ex socio di Baffino (ma Max ha provato a negare anche questo sodalizio). Un accordo, sostengono i due interlocutori, da 120-130 milioni, di cui il 10 per cento doveva essere spartito tra D’Alema e il Gatto e la Volpe siculi. 

Alcuni mesi dopo il nostro articolo, nel maggio del 2022, D’Alema viene sollecitato dal quotidiano Domani sui presunti incontri con Amara e Calafiore, che tanto assomigliano ai broker e ai paramilitari della trattativa per le armi da vendere all’esercito di Bogotà: «Conosco Casali, ma con Nettis non c’entra nulla» assicura Max. «Amara poi presso la fondazione non ha mai messo piede. Non ho mai avuto incontri con lui, mai discusso di questa questione, sarebbe stata la persona meno indicata per fare una cosa così». L’ex ministro degli Esteri nega anche ogni frequentazione con Calafiore: «No, non lo conosco assolutamente, mai andato a pranzo o a cena, che mi ricordi. Non ho alcun rapporto particolare».

E sul legame con Casali, definito a un certo punto persino «un cazzaro» e «un millantatore», ammette: «Qualche volta mi invita a cena, parliamo di due o tre volte l’anno […] ho molti dubbi che possa aver detto quello che lei mi dice. Forse al bar, ma non a lei o a un magistrato». 

In realtà Casali lo ha smentito proprio davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone, il quale per mesi ha investigato sulla possibile esistenza di Ungheria. E dopo aver iscritto sul registro degli indagati per la violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete Casali e Amara (e altri sette soggetti) e averli interrogati, deve essersi convinto che la vicenda […] meritasse un approfondimento. 

E per questo ha trasmesso le carte nel capoluogo lombardo, mentre nella richiesta di archiviazione per Ungheria ha appuntato: «Le registrazioni (con Casali, ndr) contengono riferimenti ad altre vicende (quella in particolare su Blue power) ed altri soggetti (i rapporti che vi sarebbero stati fra Casali, Amara, Calafiore e l’onorevole D’Alema) certamente di interesse investigativo e che saranno oggetto di approfondimento sia pure non da questo ufficio». 

[…] All’interno del fascicolo c’è anche il verbale dell’interrogatorio reso (e segretato) il 22 novembre 2021 da Casali a Perugia. Dove l’indagato ha confermato ai magistrati i suoi rapporti con D’Alema e come questi, prima di appassionarsi agli armamenti, si fosse già seduto al tavolo (anche a cena) con faccendieri del livello di Amara e Calafiore. 

All’epoca i due non erano ancora stati arrestati (la cosa sarebbe accaduta da lì a qualche giorno) e frequentavano due personaggi collegati al mondo dalemiano e alla fondazione Italianieuropei, come Paolo Quinto e Andrea Peruzy (i quali hanno partecipato anche a una riunione videoregistrata con Amara acquisita dai pm).

Pochi giorni prima che venisse ascoltato Casali, il 3 novembre 2021, anche Amara era stato chiamato a riproporre il suo show, durante il quale aveva ripetuto quanto già raccontato in altri lidi. Nell’occasione il faccendiere fa mettere a verbale, a proposito dei colloqui con Casali, quanto segue: «Nel corso della conversazione intercorsa con me e in quelle con Calafiore, si fa riferimento a una specifica vicenda. Vi è una società di nome Blu power gestita da un certo Nettis, imprenditore vicino a D’Alema e Roberto De Santis. La società disponeva apparentemente di un brevetto per il trasporto del Gpl. Vi era stato un arbitrato tra tale società e l’Eni. Si trattava di una finta controversia che serviva a fare uscire del denaro senza alcuna giustificazione. 

Casali, ad un certo punto, mi chiese di incontrare D’Alema alla Fondazione Italianieuropei. Sino a quel momento io di Blu power non sapevo nulla. L’incontro avvenne due settimane prima del mio arresto. D’Alema mi disse che non sapeva se dovesse o meno avere un incontro con me. Mi disse “ho accettato di incontrarla”, come se fossi stato io a chiedere l’incontro. Affermò che era stato chiamato da vertici dell’Eni e che, nel loro interesse, aveva convinto Nettis ad accettare un accordo di circa 70 milioni di euro (nell’audio, però, lui e Calafiore fanno riferimento a una cifra più alta, ndr).

Aggiunse che tutti erano d’accordo, salvo Vella (Salvatore, ex dirigente del Cane a sei zampe, ndr). Mi chiese, pertanto, di intervenire su di lui. In quell’occasione si creò un bel rapporto con D’Alema, tanto che andammo a mangiare tutti insieme in un ristorante giapponese di Roma. […] Secondo tale accordo il presidente D’Alema avrebbe ricevuto il 40%, io e Calafiore il 30%, Casali il restante 30%. A differenza delle altre vicende, in questo caso io avrei guadagnato parecchi soldi in poco tempo. La somma destinata a D’Alema sarebbe stata in parte (3 milioni, ndr) destinata alla nuova forza politica Leu (Liberi e uguali) che era in corso di costituzione».

Amara ha raccontato ai magistrati un aneddoto sul suo primo appuntamento con D’Alema, il quale gli avrebbe detto: «Io prima di incontrarla mi sono informato su di lei, c’è chi dice bene, c’è chi dice male...». E a proposito della serata con l’ex segretario del Pds al ristorante Zuma ha soggiunto: «D’Alema pigliava (in giro, ndr) Renzi e il modo in cui lo prendeva per il culo era veramente stupendo. Per quello per noi era un mito in quel momento». Il procuratore chiede se ci siano foto di quella serata e la risposta di Amara è affermativa: «Lui, Peppe, per degli amici, per far vedere che stavamo a cena con D’Alema […] Peppe gli ha fatto la foto. Ma D’Alema non penso che negherà perché poi lui c’è stato anche a casa».

Nella versione che Amara e Calafiore hanno rammentato a Casali nel 2020, registrando di nascosto, la cifra per chiudere l’accordo, come detto, avrebbe dovuto essere di 120-130 milioni. Ma i due non sapevano che nel 2019 la trattativa si è chiusa con un pagamento di 35 milioni […] 

[..]  Nel suo verbale, Casali, che nel frattempo ha visto fallire una delle sue creature, la Meet comunicazione, spiega di aver conosciuto Amara a una cena e che gli era stato presentato dall’imprenditore turbo-renziano Andrea Bacci, per un periodo socio dell’avvocato di Siracusa. 

Quindi rivendica la sua onorabilità e l’amicizia con Baffino: «Contesto la definizione data della mia persona da parte di Amara di “faccendiere.” Io sono una persona seria […]. Ciò posto, conosco molto bene il presidente D’Alema, lo stimo e spero vivamente che possa ancora avere degli incarichi istituzionali di rilievo al di là del mio orientamento politico». 

E in una delle registrazioni offre alcuni dati sensibili dell’amico: «Sai che adesso lui fa l’advisor di Ernest&Young? È un grande». In un altro passaggio riflette soddisfatto: «Quindi qualsiasi cosa passa su Ernst». Poi aggiunge: «L’Ernst&Young gli dà 200.000 euro l’anno, che non è poco. Ha detto che gli ha portato più business lui in tre mesi che gli altri in cinque anni. Ha detto: “Ale, mi sono guadagnato lo stipendio dei prossimi cinque anni”».

Casali trilla pure: «Stiamo lavorando insieme con il presidente che è più potente che mai». E quando Calafiore gli ricorda la transazione tra Eni e Blue power, che in verità è già conclusa, ma lui non lo sa, il pierre cerca rassicurazioni, perché anche se «è Massimo che comanda», bisogna mettere alcuni paletti e informare Nettis che deve «firmare un contratto con una società di advisor seria», la loro. 

In Procura Casali ha, ovviamente, affrontato la questione: «Ho incontrato Giuseppe Calafiore alcune volte e ricordo che era molto incalzante, mi faceva molte domande, come se volesse farmi parlare a tutti i costi di un contenzioso per il quale avrebbe dovuto darci “una mano" il presidente D’Alema. Lui voleva infatti che il presidente D’Alema intervenisse in un contenzioso. Ho avuto l’impressione che volesse incastrarmi facendomi dire delle cose che poi ho ritrovato su un articolo di giornale.

Quindi, solo in quel momento ho compreso che mi aveva effettivamente registrato. Le cose che ho detto in occasione di quel colloquio, ad un certo punto. le ho esternate quasi per voler chiudere il discorso, come “boutade”. Tanto che non si è concluso nulla dell’affare che era stato ipotizzato. almeno per quanto a mia conoscenza». 

Sin qui sembra che Casali parli di una storia del tutto inventata, ma a questo punto il verbale prende un’altra piega: «Si trattava di un contenzioso effettivo e Calafiore mi chiedeva se il presidente D’Alema fosse in grado di darci una mano. Si trattava di una società di nome Blue power di cui mi aveva parlato tempo prima anche Piero Amara, dicendomi che se ne era occupato anche Roberto De Santis. Io ne parlai con il presidente D’Alema che non accettò alcun coinvolgimento».

[…] In realtà, come detto, qualche abboccamento ci fu. Casali dà questa versione: «Organizzai la presentazione di Amara al presidente D’Alema unitamente alle nostre mogli e a Calafiore e la sua compagna. Tuttavia, Amara non venne in quella occasione. Ciò avvenne certamente prima del loro arresto e la cena fu al ristorante Zuma. Quindi portai in seguito Amara alla fondazione per presentargli il presidente. Che, infine, non venne coinvolto in nulla. […] Il mio compito era garantire l’intervento del presidente D’Alema che non andò in porto. Dopo tanto tempo, Calafiore mi invitò ad una colazione in un bar e mi parlò nuovamente della vicenda. Non ricordo il nome del bar dove mi incontrai con Calafiore». 

I magistrati chiedono se si trattasse del bar Rosati e a Casali sembra tornare un po’ di memoria: «No. Al bar Rosati incontrai qualche volta Amara e non posso escludere che parlai anche con lui di questa vicenda. […] venni coinvolto nei termini sopra riferiti da Amara e Calafiore, sapendo i miei rapporti con il presidente D’Alema, il quale, ritengo, avrebbe dovuto parlare con i vertici Eni. Io parlai con il presidente D’Alema, che mi disse che non se ne sarebbe fatto nulla. Non ho mai trattato con la proprietà di Blue power, che io non conosco in alcun modo. È stato un discorso del tutto informale. che non è stato formalizzato in alcun modo tra me, Amara e Calafiore».

Casali con i magistrati ammette di aver ricevuto da Amara due pagamenti da 5.000 euro l’uno con fattura intestata alla sua società Meet: «La mia attività è stata solo quella di andare in giro e “sponsorizzare" lo studio Amara».

I magistrati, con in mano la trascrizione della conversazione con Calafiore, provano a insistere: «Ricorda come era l’accordo in merito alla spartizione del profitto laddove l’affare Blue power fosse andato in porto?». Casali, che nella registrazione pareva stare al gioco, prende totalmente le distanze anche da se stesso: «Si è trattata di una sorta di “farneticazione”. Discutemmo di percentuali in modo assolutamente vago, del tipo del 30%, 30% e 40% ciascuno. 

Ma ribadisco che il discorso rimase assolutamente sul vago perché la vicenda non si concretizzo in alcun modo. E che io non conosco la proprietà della Blue power. Speravo in buona fede che il contenzioso si potesse risolvere e che ognuno potesse trarne degli utili, ma sempre nell’ambito della legalità. Ricordo di aver ad un certo punto fatto riferimento ad una donazione a Leu laddove l’affare fosse andato in porto».

I pm insistono: «Lei non si rese conto della anomalia dei colloqui con Giuseppe Calafiore?». Casali accetta di fare la figura del fesso: «Non mi resi conto perché ero assolutamente in buona fede. Riconosco oggi di aver sbagliato e di essere stato superficiale, ma tale comportamento è stato dettato dalla esigenza di non mandare a gambe all’aria la mia società. Voglio precisare che ero disperato e avevo l’esigenza di salvare la mia azienda. Io sono stato tratto in inganno e sono caduto nel tranello, che è stato ordito da Amara e Calafiore.

E ciò riprova il fatto che sono una persona per bene. Escludo categoricamente di essermi accordato con loro, nel senso di aver accettato di essere registrato per far emergere determinate circostanze». 

[…] i pm di Perugia si sono convinti che anche se Casali & C. non appartengono alla massoneria deviata della fantomatica Ungheria, forse nelle loro chiacchierate, in cui viene abbondantemente citato D’Alema, potrebbe esserci qualcosa in più di una semplice «boutade».

Nuove intercettazioni inguaiano Massimo D’Alema per la vendita di armi in Colombia. Stefano Baudino su L'Indipendente domenica 27 agosto 2023.

Secondo un’informativa della Digos di Napoli, datata 28 novembre 2022 ma divulgata nei giorni scorsi, nell’ambito delle trattative per le forniture militari di Leonardo e Fincantieri in Colombia, Massimo D’Alema ha dimostrato di avere un “modus agendi” che si è “avvantaggiato di una rete relazionale” formata “prevalentemente da un nucleo di persone stabilmente inserite nella vita pubblica e privata con legami radicati nel mondo politico-istituzionale che operano nel contesto simbiotico di un reciproco tornaconto personale”. Tradotto dal linguaggio giuridico, facendo da tramite in un affare miliardario di vendite militari dalle aziende nazionali Leonardo e Fincantieri alla Colombia: l’ex presidente del Consiglio italiano non avrebbe agito per «aiutare delle imprese italiane» come da lui affermato, ma per ottenere un tornaconto personale. Una vicenda ancora piena di ombre, quella del cosiddetto “Colombiagate”, in cui Massimo D’Alema risulta indagato per corruzione internazionale. Sotto inchiesta ci sono anche l’amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo, l’ex dirigente di Fincantieri Giuseppe Giordo e altre 5 persone.

La vicenda riguarda la vendita di aerei militari e navi da guerra da parte di Leonardo e Fincantieri alla Colombia. Un affare da 4 miliardi di euro che, secondo l’accusa, non sarebbe infine andato in porto “per l’interruzione della trattativa a causa della mancata intesa sulla ulteriore distribuzione della somma tra le singole persone fisiche della ‘parte italiana e di quella ‘colombiana’”. Secondo i patti iniziali, il premio riconosciuto ai diversi consulenti – italiani e colombiani – coinvolti nell’operazione sarebbe consistito in una commissione pari a 80 milioni di euro. Secondo i magistrati di Napoli, D’Alema avrebbe svolto informalmente il ruolo di mediatore con i vertici delle società sugli accordi per le forniture di armi: attività illegale, per la legislazione italiana. Le indagini hanno preso avvio con alcune verifiche su Francesco Amato ed Emanuele Caruso, consulenti per la cooperazione internazionale del ministro degli Esteri in Colombia, che sarebbero entrati in contatto con D’Alema tramite la figura dell’imprenditore Giancarlo Mazzotta. Lo stesso D’Alema si sarebbe occupato anche di dettagli quali individuare lo studio legale americano che avrebbe curato l’operazione (lo studio Robert Allen Law, agent e formale intermediario commerciale presso Fincantieri e Leonardo).

Seppure appaia “pienamente conclamata la sua capacità comunicativa nel negoziato (…), sintomatico del ruolo propulsivo e decisorio discendente dalla caratura e storica militanza negli apparati di potere”, per D’Alema, secondo la Digos, non si ravvisano reati. Tali conclusioni, però, non hanno convinto la Procura, che lo scorso marzo ha indagato D’Alema e gli altri personaggi implicati nella vicenda, per poi fare scattare una serie di perquisizioni.

L’informativa della Digos contiene numerose chat tra i protagonisti dell’affare. “Ciao. Siamo pronti. Inviamo tutta la documentazione. La mail partirà da Miami. È assolutamente essenziale che l’attesa manifestazione di interesse sia inviata a R. Allen Law. Saranno poi loro a contattare le società per organizzare una missione. Deve risultare evidente in ogni passaggio il ruolo dei promotori commerciali…”, scriveva il 17 novembre 2021 D’Alema a Paride Mazzotta, figlio di Giancarlo, consigliere regionale di Forza Italia in Puglia e non indagato. “Il materiale è stato inviato. Pare ci siano problemi di ricezione. Bisogna che si diano da fare. È, per molte ragioni, urgente che gli avvocati ricevano una manifestazione di interesse” è il contenuto di un messaggio inviato dall’ex premier allo stesso destinatario due giorni dopo. Poi, il 23 novembre, D’Alema scrive ancora a Mazzotta: “Come va? Alcuni dei nostri interlocutori cominciano a chiedere se abbiamo scherzato o no. Avendo scomodato il top delle società qualcuno (cioè io) rischia di fare una brutta figura“. Mazzotta lo rassicura. Sei giorni dopo, un altro messaggio di D’Alema: “Ho ricevuto messaggi che annunciano manifestazioni di interesse da parte di altri 2 stati. Molti promettenti. Ma allo stato non vi è stato alcun riscontro. Di nulla. Cominciamo ad essere preoccupati”.

Si arriva poi al fatidico 10 febbraio 2022, quando D’Alema effettua una chiamata con Edgard Ignacio Fierro, ex guerrigliero delle truppe paramilitari AUC – condannato in passato a 40 anni di galera e poi graziato, passato a dedicarsi ad attività sociali di collaborazione col governo Colombiano – per discutere dell’affare. “Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro – dice D’Alema nel corso della conversazione, la cui registrazione è stata pubblicata dal giornale La Verità – Quindi si può fare un investimento, però non appena noi avremo questi contratti divideremo tutto, sarà diviso tutto. Questo non è un problema”. “Abbiamo tutte le condizioni per garantire che Fincantieri e Leonardo abbiano la possibilità di vendere i prodotti offerti. Stiamo praticamente lavorando come agenti di Leonardo e Fincantieri”, lo rassicura Fierro, sostenendo che anche in caso di elezioni in Colombia «le persone che abbiamo nel nostro team rimarranno in posizioni chiave”.

«Alla base di tutto questo affare c’è un’intercettazione illegale di una conversazione privata, in più è stata tagliata e ricucita, quindi è un’informazione a mio giudizio falsa», aveva dichiarato D’Alema a Le Iene dopo lo scoppio dello scandalo. In merito alla figura di Ignacio Fierro, D’Alema ha sostenuto gli fosse stato «presentato come un senatore che voleva sostenere le cose», nell’ambito di «un’attiva di promozione» che «non era una trattativa». Francesco Amato, colui che, dopo esserne entrato in possesso, avrebbe inviato al quotidiano La Verità registrazione della telefonata tra D’Alema e Fierro, sostiene che l’ex premier conoscesse molto bene il passato dell’ex paramilitare.

I magistrati di Napoli ritengono che i soldi delle tangenti “stabilite come success fee pari al 2% del valore complessivo delle due commesse in gioco e da corrispondersi in modo occulto”, fossero destinati a “pubblici ufficiali che svolgevano l’attività presso le autorità politiche e amministrative tra i quali sono stati finora individuati Edgardo Fierro Flores capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia; Marta Lucia Ramirez ministro degli Esteri e vice presidente della Colombia; German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto delegati della commissione del Senato colombiano”. «Io – si è difeso D’Alema in un’intervista a Repubblica – ho cercato di dare una mano a imprese italiane per prendere una commessa importante. Ero stato contattato da personalità colombiane che si erano dette disposte a sostenere questa ipotesi. Evidentemente a qualcuno dava fastidio ed è intervenuto per impedirlo». Nei prossimi mesi scopriremo se sarà un processo ad accertare i contenuti di questo caso, sempre più opaco. [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 27 Novembre 2023

«Lo confesso: sento forte il richiamo della foresta». Riecco Nichi Vendola. Presidente di Sinistra italiana, eletto ieri per acclamazione. «Torno alla politica attiva». Ma no, non si candiderà alle Europee. Prima aspetta – o almeno spera - che l’appello ribalti la condanna in primo grado per l’ex Ilva. […] 

Perché torna in politica proprio ora, dopo 8 anni?

«Non sono mai fuggito. […] si può fare politica anche lontani dai radar dei media…».

E in questo tempo che ha fatto?

«Innanzitutto ho cercato di essere un buon genitore per il mio bambino […] Poi ho scritto due libri, ho portato in scena in giro per l’Italia “Quanto resta della notte”, un rosario di monologhi sulla disumanità. Posso continuare…». 

Come sta la sinistra in Italia?

«Se l’estrema destra abita a Palazzo Chigi vuol dire che la sinistra è messa male, se metà degli elettori non vota vuol dire che anche la democrazia non sta tanto bene. […] la “connessione sentimentale” col popolo che è stata logorata da lunghi anni di governismo e moderatismo».

Conte è di sinistra?

«Lo definirei un progressista moderato. Oppure un populista di centro. Che certo fa bene a rivendicare la bandiera, quella sì di sinistra, del reddito di cittadinanza». 

C’è chi dice che il Pd di Schlein somigli a una “grande Sel”…

«Una sciocchezza. Sel provò a stringere col Pd un rapporto fondato sulla rottura con le politiche liberiste, ma quel Pd si portava addosso le controriforme del mercato del lavoro e si caricò sulle spalle il mito degli ottimati della tecnocrazia. […] il linguaggio di Elly è distante anni luce dal politicismo asfissiante e dal riformismo senz’anima che ha portato il Pd a perdersi e a perdere. Ma […] la sua e la nostra strada è tutta in salita».

Il campo largo esisterà mai?

[…] «[…] Con un cartello elettorale sulla paura del fascismo non si fa molta strada. Il punto è rimettere al centro la questione sociale e connetterla con i diritti. […]». […] Meloni […] la smetta di farsi chiamare “il” presidente. Si rende ridicola».

Nichi Vendola, ci mancava il ritorno del cattocomunista in politica. Annarita Digiorgio su Libero Quotidiano il 28 novembre 2023

Nichi Vendola torna in politica. Dal Canada, dove vive da quando ha comprato un bambino con il suo compagno. Che la maternità surrogata l’ha ottenuta con un contratto l’ha detto lui stesso, senza riuscire a quantificare l’importo: «Il ristoro di un anno di lavoro mancato per Sharline (la mamma rinunciataria, ndr), poi molto, in Usa, pesano le spese sanitarie e la clinica. Abbiamo pagato molte cose, mai fatto un conto definitivo». Ora rientra in Italia per fare il presidente di Sinistra Italiana. Ruolo che gli ha offertoil segretario Nicola Fratoianni, legato all’ex presidente dai tempi di Rifondazione Comunista, quando il pisano fu mandato a Bari come segretario regionale, e da lì lanciò la candidatura di Vendola per la regione. Era il 2005. Nichi, diminutivo da Nicola che gli venne dato dai genitori in omaggio all'ex presidente dell'Unione Sovietica Nikita Krusciov, era gia parlamentare di Rifondazione dal 1992.

Per diventare governatore dovette battere alle primarie il candidato di D’Alema, Francesco Boccia. Era una sfida a sinistra tra “la ditta” che aveva in Puglia il suo quartier generale, costruito su un connubio tra politica e imprenditori specializzati in sanità ed edilizia, e la sinistra arcobaleno, pacifista, rivoluzionaria, idealista, ambientalista e giovanilista che da allora prese il nome di “vendolismo”. Ma Nichi si dichiarava un cattocomunista, cresciuto tra Pier Paolo Pasolini e don Tonino Bello. Vinse di un soffio le primarie, e poi sconfisse Raffaele Fitto. Il pisano Fratoianni divenne assessore regionale in Puglia. Dopo cinque anni di mandato D’Alema, che nel frattempo strinse il patto dei gamberoni con Buttiglione, gli chiese di non ricandidarsi per non rompere l’alleanza con l’Udc. 

Francesco Boccia gli si candidò un’altra volta contro alle primarie, perdendo. Vendola si riconfermò presidente contro il candidato fittiano Rocco Palese, attuale assessore alla sanità di Michele Emiliano. Quei due mandati segnarono per la Puglia una ventata di giovanilismo, ma il vero core business del vendolismo di potere era la sanità. E infatti diversi tra i suoi assessori finirono indagati, con Vendola che ogni volta pretese dimissioni immediate. Non si dimise però quando l’avviso di garanzia arrivò a lui, per il famoso processo Ilva. Nel quale nel 2021 è stato condannato in primo grado per concussione.

Vendola prenderà malissimo la condanna: «Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità, la condanna è una mostruosità giuridica, l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata». Eppure fino ad allora Vendola non si era mai distinto per garantismo, appartenendo al filone dell’antimafia di sinistra segnatamente giustizialista. La risposta più piccata gliela diede Bonelli : «Sentire che l’ex presidente della regione Puglia definisce la giustizia “malata” e che accusa i giudici di aver commesso un delitto è un grave atto di delegittimazione della magistratura al pari di quello che fa la destra quando va sotto processo come accaduto con Salvini». Il leader dei Verdi infatti è stato tra i principali accusatori di Vendola nel processo, tant’è che ai tempi della foto di Vasto, Nichi chiese di escluderlo dalle liste: «Ho già posto il problema a Bersani. Qualunque partito del centrosinistra può testimoniare l’animosità, la violenza e la volgarità di Bonelli, che semina odio e menzogne. Vuole portare Taranto sull’orlo della guerra civile».

A riportare Bonelli in parlamento dieci anni dopo ci ha pensato Fratoianni, con l’alleanza “cocomero” tra Verdi e Sinistra Italiana, di cui da oggi Vendola è presidente. Del resto la doppiezza morale è stata da sempre il carattere distintivo del cattocomunista Nichi. Per avere un bambino è andato in Canada (potendoselo permettere), ma non ha mai voluto farne esempio di battaglia in Italia; accusa i giudici, ma solo per difendere se stesso, mai una parola di solidarietà ai Riva condannati nello stesso processo; oggi a Bari è schierato a sostengo del candidato alla gauche Michele Laforgia che non vuole le primarie perchè «sono condizionate dalla criminalità». È scolpita sulla scogliera di Bari la frase di Vendola quando si candidò contro Bersani e Renzi: «Le primarie sono come il gesto del bambino che ascolta la conchiglia e sente il rumore del mare: è il rumore della vita». 

Estratto dell’articolo di Cristina Belvedere per lanazione.it il 20 Gennaio 2023.

Possibili anomalie nei tesseramenti 2022 di Sinistra Italiana in provincia di Siena: scatta l’esposto del segretario locale. […] E’ lo stesso Canzano a spiegare come sono andate le cose: "[…] Il 12 dicembre era l’ultimo giorno disponibile per fare il tesseramento 2022 e ho notato dieci nomi, tutti di cittadini di nazionalità albanese, tutti con una mail che conteneva un ’22x’ alla fine del nome e tutti inseriti nell’arco di mezz’ora. […]".

 Insospettito dalla singolarità della situazione, Canzano ha provato a telefonare […] “ma il numero era staccato. Ho quindi proceduto a verificare gli indirizzi di residenza e ho scoperto che ci vivevano altre persone".

Immediatamente il segretario provinciale contatta la Direzione nazionale di Sinistra Italiana: «Ho segnalato queste anomalie, ma loro mi hanno rassicurato. Dopo qualche giorno mi hanno fornito numeri di cellulare diversi, tutti con lo 0035, prefisso dell’Albania".

 Canzano non demorde e chiama questi numeri: "[…] ma mi hanno risposto solo in due casi: uno era un uomo, residente a Tirana, che parlava poco la nostra lingua ma mi ha garantito di non essersi iscritto a nessun partito in Italia; l’altra era invece una donna, che ha ammesso di aver ’prestato’ i suoi dati a un amico per fargli un favore". Di qui l’esposto: "Ho informato della cosa il commissario Giovanni Paglia, lui ne ha preso atto".

Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 16 dicembre 2022.

Barbuto, l'aria stropicciata, i jeans sbrindellati, inseguito dagli agenti in tenuta antisommossa e adorato da giovani compagne felici di avere un leaderino rosso così, nel febbraio del 2003 Nicola Fratoianni - tutto istinto alla lotta e alla ribellione, comunismo battente delle vene - correva sui binari della stazione ferroviaria di Pisa per andare a bloccare i convogli di armamenti americani diretti nel Golfo. 

Quasi vent'anni dopo, ormai dritto sulla boa dei 50, eccolo attraversare il Transatlantico di Montecitorio con un alone scuro addosso: un po' l'abito da onorevole gruppettaro, un po' certe occhiate forastiche, perché la storiaccia di Aboubakar Soumahoro - il sindacalista nero candidato in un miscuglio di superficialità e retorica pelosa, cooperative vere o presunte, la suocera che per difendersi da ignobili accuse sceglie l'avvocato già difensore anche di Priebke - è stato il suo primo grande inciampo politico (del secondo, forse più grave, ma meno mediatico, saprete tra qualche riga).

Curriculum da ex rivoluzionario: che inizia con l'esperienza dentro Rifondazione comunista impastata con quella no global, stagione memorabile, per poi arrivare in Puglia a bordo di una scassata Volvo station-wagon, dove Fausto Bertinotti lo spedisce con i gradi di segretario regionale per aiutare Nichi Vendola a diventare governatore. I due tentano persino una legittima scalata al partito, la perdono, Fratoianni resta disoccupato per qualche tempo, finché Nichi non lo nomina assessore alle Politiche giovanili. La svolta.

Fratoianni capisce che la politica può essere un vero mestiere: si compra finalmente una giacca, e si toglie lo sfizio di una Triumph Bonneville fiammante. Nel 2013 diventa deputato, anche se nessuno ricorda più con quale partito, per- ché nel frattempo a sinistra si sono divisi e, atomo dopo atomo, alla fine più che un cronista servirebbe un fisico quantistico, ma bravo. 

Le nuvole, ad agosto. Fratoianni - in tandem con il verde Angelo Bonelli - prima candida Soumahoro (velo pietoso); poi anche Elisabetta Piccolotti. Sua moglie. Sposata a Foligno, dove vivono con Adriano, il figlio di 9 anni. I giornali se ne occupano distrattamente. E invece, compagni, la domanda è: può un capo di partito far eleggere la consorte? Certo che può. Domanda successiva: è opportuno?

Fratoianni fa eleggere la moglie, chi lo bombarda: “Morale?” Libero Quotidiano il 17 dicembre 2022

È un Fabrizio Roncone senza freni quello che commenta la trasformazione di Nicola Fratoianni. "Barbuto, l'aria stropicciata, i jeans sbrindellati", si presentava così il leader di Sinistra italiana nel 2003. Sì, anni fa, perché ad oggi  "quasi vent'anni dopo, ormai dritto sulla boa dei 50, eccolo attraversare il Transatlantico di Montecitorio con un alone scuro addosso: un po' l'abito da onorevole gruppettaro, un po' certe occhiate forastiche, perché la storiaccia di Aboubakar Soumahoro - il sindacalista nero candidato in un miscuglio di superficialità e retorica pelosa, cooperative vere o presunte, la suocera che per difendersi da ignobili accuse sceglie l'avvocato già difensore anche di Priebke - è stato il suo primo grande inciampo politico (del secondo, forse più grave, ma meno mediatico". 

 Il peggiore? Candidare la moglie. "Fratoianni - prosegue la firma del Corriere della Sera - capisce che la politica può essere un vero mestiere: si compra finalmente una giacca, e si toglie lo sfizio di una Triumph Bonneville fiammante". Nel 2013 infatti il compagno diventa deputato, "anche se nessuno - tuona - ricorda più con quale partito, per- ché nel frattempo a sinistra si sono divisi e, atomo dopo atomo, alla fine più che un cronista servirebbe un fisico quantistico, ma bravo".

Le critiche di Roncone però non finiscono qui. "Fratoianni - in tandem con il verde Angelo Bonelli - prima candida Soumahoro (velo pietoso); poi anche Elisabetta Piccolotti. Sua moglie. Sposata a Foligno, dove vivono con Adriano, il figlio di 9 anni". Una notizia passata sottotraccia o quasi. "I giornali se ne occupano distrattamente. E invece, compagni, la domanda è: può un capo di partito far eleggere la consorte? Certo che può. Domanda successiva: è opportuno?". E la risposta sembra scontata. 

Nichi Vendola, ci mancava il ritorno del cattocomunista in politica. Annarita Digiorgio su Libero Quotidiano il 28 novembre 2023

Nichi Vendola torna in politica. Dal Canada, dove vive da quando ha comprato un bambino con il suo compagno. Che la maternità surrogata l’ha ottenuta con un contratto l’ha detto lui stesso, senza riuscire a quantificare l’importo: «Il ristoro di un anno di lavoro mancato per Sharline (la mamma rinunciataria, ndr), poi molto, in Usa, pesano le spese sanitarie e la clinica. Abbiamo pagato molte cose, mai fatto un conto definitivo». Ora rientra in Italia per fare il presidente di Sinistra Italiana. Ruolo che gli ha offertoil segretario Nicola Fratoianni, legato all’ex presidente dai tempi di Rifondazione Comunista, quando il pisano fu mandato a Bari come segretario regionale, e da lì lanciò la candidatura di Vendola per la regione. Era il 2005. Nichi, diminutivo da Nicola che gli venne dato dai genitori in omaggio all'ex presidente dell'Unione Sovietica Nikita Krusciov, era gia parlamentare di Rifondazione dal 1992.

Per diventare governatore dovette battere alle primarie il candidato di D’Alema, Francesco Boccia. Era una sfida a sinistra tra “la ditta” che aveva in Puglia il suo quartier generale, costruito su un connubio tra politica e imprenditori specializzati in sanità ed edilizia, e la sinistra arcobaleno, pacifista, rivoluzionaria, idealista, ambientalista e giovanilista che da allora prese il nome di “vendolismo”. Ma Nichi si dichiarava un cattocomunista, cresciuto tra Pier Paolo Pasolini e don Tonino Bello. Vinse di un soffio le primarie, e poi sconfisse Raffaele Fitto. Il pisano Fratoianni divenne assessore regionale in Puglia. Dopo cinque anni di mandato D’Alema, che nel frattempo strinse il patto dei gamberoni con Buttiglione, gli chiese di non ricandidarsi per non rompere l’alleanza con l’Udc. 

Francesco Boccia gli si candidò un’altra volta contro alle primarie, perdendo. Vendola si riconfermò presidente contro il candidato fittiano Rocco Palese, attuale assessore alla sanità di Michele Emiliano. Quei due mandati segnarono per la Puglia una ventata di giovanilismo, ma il vero core business del vendolismo di potere era la sanità. E infatti diversi tra i suoi assessori finirono indagati, con Vendola che ogni volta pretese dimissioni immediate. Non si dimise però quando l’avviso di garanzia arrivò a lui, per il famoso processo Ilva. Nel quale nel 2021 è stato condannato in primo grado per concussione.

Vendola prenderà malissimo la condanna: «Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità, la condanna è una mostruosità giuridica, l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata». Eppure fino ad allora Vendola non si era mai distinto per garantismo, appartenendo al filone dell’antimafia di sinistra segnatamente giustizialista. La risposta più piccata gliela diede Bonelli : «Sentire che l’ex presidente della regione Puglia definisce la giustizia “malata” e che accusa i giudici di aver commesso un delitto è un grave atto di delegittimazione della magistratura al pari di quello che fa la destra quando va sotto processo come accaduto con Salvini». Il leader dei Verdi infatti è stato tra i principali accusatori di Vendola nel processo, tant’è che ai tempi della foto di Vasto, Nichi chiese di escluderlo dalle liste: «Ho già posto il problema a Bersani. Qualunque partito del centrosinistra può testimoniare l’animosità, la violenza e la volgarità di Bonelli, che semina odio e menzogne. Vuole portare Taranto sull’orlo della guerra civile».

A riportare Bonelli in parlamento dieci anni dopo ci ha pensato Fratoianni, con l’alleanza “cocomero” tra Verdi e Sinistra Italiana, di cui da oggi Vendola è presidente. Del resto la doppiezza morale è stata da sempre il carattere distintivo del cattocomunista Nichi. Per avere un bambino è andato in Canada (potendoselo permettere), ma non ha mai voluto farne esempio di battaglia in Italia; accusa i giudici, ma solo per difendere se stesso, mai una parola di solidarietà ai Riva condannati nello stesso processo; oggi a Bari è schierato a sostengo del candidato alla gauche Michele Laforgia che non vuole le primarie perchè «sono condizionate dalla criminalità». È scolpita sulla scogliera di Bari la frase di Vendola quando si candidò contro Bersani e Renzi: «Le primarie sono come il gesto del bambino che ascolta la conchiglia e sente il rumore del mare: è il rumore della vita». 

Delmastro, il sospetto di Chirico: "Strano doppio standard. Per anni...". Il Tempo il 29 novembre 2023

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove è stato rinviato a giudizio dal Gup di Roma Maddalena Cipriani. Delmastro dovrà rispondere davanti al giudice monocratico del tribunale penale di piazzale Clodio, di rivelazione di segreto d’ufficio per la vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41 bis che per mesi protestò con lo sciopero della fame. Questo è stato il tema che ha acceso il dibattito a Stasera Italia, il programma di cultura e di attualità di Rete 4. Ospite in studio, Annalisa Chirico è intervenuta nel salotto di Nicola Porro e ha avanzato i suoi dubbi sul caso. 

"Noi abbiamo visto per anni stralci di atti, quelli sì, secretati, delle procure, che finivano sui quotidiani italiani. Io mi ricordo che la condanna avvenne per la famosa intercettazione e per anni non abbiamo mai visto una tale sensibilità", ha detto Annalisa Chirico, dopo aver preso la parola. "Che cosa mi vuoi dire?", l'ha incalzata il conduttore del programma. "Questa polemica su Delmastro, Donzelli...mi sembra di non vivere nel Paese in cui ho vissuto negli ultimi quarant'anni, è uno strano doppio standard", ha risposto. "Così come è censurabile il magistrato che dà il colpetto al politico, è censurabile anche il comportamento del politico (inteso come Angelo Bonelli esposto contro Demastro, Salvini, ecc.. n.d.a) che vive d'inchiesta per colpire l'opposizione. Non è normale che un parlamentare viva in Procura, è un malcostume", ha concluso la giornalista. 

STASERA ITALIA, DELMASTRO CHIAMA IN CAUSA BONELLI SUL CASO COSPITO E IL DEPUTATO SI COLLEGA TELEFONICAMENTE CON LO STUDIO. Articolo a cura di Armando Spigno su tuttonotizie.eu giovedì 30 novembre 2023.

Andrea Delmastro, ospite a Stasera Italia, si è difesa dalle accuse di aver divulgato documenti segreti sul caso Cospito e ha chiamato in causa Angelo Bonelli.

Ieri è stata divulgata la notizia del rinvio a giudizio per Andrea Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia del Governo Meloni accusato di aver divulgato documenti coperti da segreti d'ufficio relativamente al caso Cospito, l'anarchico condannato al 41bis. Il rinvio a giudizio è stato un fulmine a ciel sereno del tutto inaspettato per Andrea Delmastro. "Non mi aspettavo il rinvio a giudizio, sono pronto a dimostrare la mia innocenza di fronte al giudice nel merito", ha affermato il sottosegretario ospite di Nicola Porro a Stasera Italia.

Il politico di Fratelli d'Italia, inoltre, ha annunciato che il rinvio a giudizio non se l'aspettavano neanche i pubblici ministeri "che hanno chiesto prima l'archiviazione e, poi, per ben due volte il proscioglimento". Durante la puntata del programma di approfondimento di Rete4, poi, Andrea Delmastro ha chiamato in causa anche il collega di Alleanza Verdi Sinistra Angelo Bonelli. Infatti, secondo Delmastro, anche Bonelli ha ricevuto gli stessi documenti richiesti da lui stesso in riferimento al caso Cospito. "Bonelli ha le medesime carte", ha affermato Andrea Delmastro.

La risposta di Angelo Bonelli alle accuse di Andrea Delmastro sul caso Cospito

In seguito alle affermazioni di Andrea Delmastro, Nicola Porro ha invocato la necessità di far intervenire il deputato di Alleanza Verdi Sinistra Angelo Bonelli per sentire la sua versione dei fatti. Quindi, Bonelli si è collegato telefonicamente con lo studio di Stasera Italia e ha espresso la sua opinione. "Ma ce le ha quelle cose o no?", gli chiede a un certo punto Andrea Delmastro. "Non giri la frittata, il ministro non mi ha dato i verbali, non ne ho possesso, se lei sostiene che io sono in possesso dei verbali, sta dicendo una bugia", ha risposto Angelo Bonelli.

I toni tra i due sono stati particolarmente accesi e Andrea Delmastro ha provato più volte a incalzare Angelo Bonelli per fargli vuotare il sacco. In ogni caso, Angelo Bonelli continua a sostenere la sua linea, ovvero di non essere in possesso dei verbali. Il deputato afferma di possedere solo "le 5-6 pagine" in cui il Ministero ha espresso il rifiuto al rilascio dei verbali "perché classificati in base al regolamento del DAP come segreto". Insomma, al di là delle polemiche e del botta e risposta tra i due politici, ora la giustizia farà il suo corso e stabilirà cosa effettivamente sia successo e chi ha torto e ragione. La prima udienza del processo è fissata al prossimo 12 marzo.

Delmastro-Bonelli, scontro a Stasera Italia: "Ha quelle carte sì o no?". Libero Quotidiano il 30 novembre 2023

Nel giorno del rinvio a giudizio di Andrea Delmastro, va in scena il duello con il suo primo accusatore, Angelo Bonelli dei Verdi. Ma procediamo con ordine. Il sottosegretario alla Giustizia di FdI, come detto, va alla sbarra per rivelazione di segreto d'ufficio nell'ambito del caso-Alfredo Cospito. Una decisione peculiare, poiché anche l'accusa aveva chiesto il proscioglimento. Ma tant'è. La vicenda, come accennato, nasce da una denuncia proprio di Bonelli.

Ed ecco che a Stasera Italia, il programma condotto da Nicola Porro su Rete 4, nella serata di mercoledì 29 novembre va in onda proprio il duello tra Delmastro e Bonelli: il primo ospite in studio, il secondo in collegamento telefonico, dove legge parte degli atti che ha in mano. "Nella parte successiva il ministro riporta espressamente...": Bonelli ad un certo punto interrompe la lettura e ricostruisce il tutto con sue parole. Ecco che dunque interviene Gianluigi Paragone, altrettanto ospite in studio: "Vada nella lettura, fino ad ora ha letto".

Quindi si inserisce Delmastro: "Ma ha quelle cose o no? Quelle che avrei dato a Donzelli?" (la rivelazione del segreto d'ufficio di Delmastro infatti si sarebbe concretizzata con un passaggio di documenti a Donzelli). E Bonelli: "Non giri la frittata: il ministro non mi ha dato i verbali, non ne ho possesso. Se lei sostiene che sono in possesso dei verbali dice una bugia". "Lei le ha quelle cose o no?", alza i toni Delmastro. E Bonelli capitola: "No, non li ho i verbali". "Benissimo, non sarà un problema. Domani porterò tutta l'interrogazione", aggiunge il sottosegretario.

A quel punto Paragone rincara: "Non ho capito perché prima ha letto e poi è andato in interpretazione libera". "Posso leggere quelle cinque-sei pagine...", replica il Verde. Delmastro a cannone: "E cosa c'è? Cosa c'è in quelle cinque-sei pagine?". "O mi fa parlare, o lasciamo perdere. Ho il documento qua davanti: il ministero non mi dà i verbali perché classificati", conclude Bonelli, con Delmastro che si porta le mani sul volto. Già, mister Verdi, lo scopritore di Soumahoro, ha rimediato una solenne figuraccia.

DEL MASTRO-BONELLI, SCONTRO SUGLI ATTI.  9Colonne giovedì 30 novembre 2023.

Il sottosegretario Andrea Delmastro “dice il falso, il ministero della Giustizia non mi ha mai consegnato i verbali del caso Cospito: lo dimostra questo documento del ministero della Giustizia che mi è stato consegnato su mia richiesta, nel quale mi si dice che quei verbali non mi potevano essere dati perché coperti dal segreto. Invito il Sottosegretario ad avere un alto senso dello Stato”. Il portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli, in conferenza stampa alla Camera, mostra insieme a Riccardo Magi di Europa Verde il documento ricevuto dal ministero in risposta alla sua richiesto di accesso agli atti sul caso Cospito, creatosi quando il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, in un’interrogazione parlamentare, aveva citato una relazione della Polizia penitenziaria, che gli era stata fornita da Delmastro, il quale l’aveva letta in un documento finito sul tavolo del Ministero della Giustizia. Ieri sera Delmastro, ospite del programma Stasera Italia, aveva affermato invece che Bonelli era poi entrato in possesso del documento in questione, che gli era stato infine fornito in quanto deputato.  

A confermare la versione di Bonelli anche Riccardo Magi, che all’epoca aveva fatto la stessa richiesta di accesso agli atti, ricevendo la stessa risposta di Bonelli: “Questo è un motivo in più perché Delmastro si debba dimettere – spiega il segretario di PiùEuropa- : ha mentito dicendo che le informazioni in suo possesso, poi passate a Donzelli, erano accessibili per tutti quanti i deputati. E’ falso. Noi le abbiamo chieste e non ce le hanno date, e sono state invece utilizzate dalla destra, politicamente, con le opposizioni”. Bonelli e Magi hanno spiegato che nel documento fornito loro dal ministero, in cui si nega gli accessi agli atti, sono presenti esclusivamente “gli stessi stralci che erano stati utilizzati da Donzelli: una sorta di equilibrismo per non consegnarci il documento ma allo stesso tempo dar ragione all’esecutivo”. Per la vicenda Cospito, Delmastro è stato rinviato a giudizio con l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio: a rivolgersi alla giustizia era stato, con un esposto in Procura, proprio Bonelli.  (Sis)  (© 9Colonne - citare la fonte)

Delmastro: «Non lascerò il mio posto e resto orgoglioso di quanto ho fatto. I pm dalla mia parte». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera giovedì 30 novembre 2023.

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove: «Io non ho passato alcuna carta». E aggiunge: «Non mi dimetto»

E adesso, sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che fa? Si dimette?

«Assolutamente no».

Perché? Non è stato rinviato a giudizio per quelle relazioni del Gom sui colloqui anti 41 bis dell’anarchico Alfredo Cospito con i boss, nei giorni dello sciopero e della visita della delegazione dem, usate in aula dal suo collega e coinquilino Donzelli?

«Sì. Ma intendo continuare ad esercitare il mio ruolo, al meglio, all’interno del ministero della Giustizia. Così come mi è stato chiesto dai tanti che in questo momento mi stanno testimoniando solidarietà per questo inconsueto rinvio a giudizio».

Inconsueto perché?

«Anche questa seconda volta il pubblico ministero Paolo Ielo e altri tre pm hanno ribadito la richiesta di archiviazione della procura nei miei confronti».

E quindi?

« Quindi sarò uno dei pochi sotto il profilo giuridico che in dibattimento sarà dalla stessa parte della barricata del pm. Ai posteri l’ardua sentenza...».

Però la giudice delle indagini preliminari Emanuela Attura ha ritenuto il contrario e formulato un’imputazione coatta. E la gip Maddalena Cipriani, ha concordato sul segreto, visto che l’ha rinviata a giudizio.

«Da cattolico non dispero mai. Ci sarà prima o poi un giudice a Berlino che riconoscerà che non c’è segreto e quindi non c’è reato».

Per la giudice la dicitura a «limitata divulgazione» rendeva coperti dal segreto quei verbali usati da Donzelli per difendere il 41 bis e attaccare la sinistra («Siete con noi o con i terroristi e i mafiosi?)».

«La limitata divulgazione nulla c’entra col segreto di Stato. I segreti li decide la legge. Sono tassativi e tipizzati per questo».

Il verde Angelo Bonelli, che l’ha denunciata, sostiene che gli hanno negato quegli atti. Lei, da Nicola Porro a Stasera Italia, ha detto che non è vero. Chi mente?

«Bonelli ha sbagliato. Ha fatto un accesso generalizzato agli atti. Gli è stata riqualificata la richiesta come sindacato ispettivo. E ha avuto quello che chiedeva perché sono atti ostensibili».

Il ministro Carlo Nordio l’ha difesa in Parlamento. E ora, per questo, viene attaccato dalle opposizioni.

«Il ministro avrà diritto ad esporre le sue ragioni e la sua lettura dei fatti e del diritto? O adesso c’è anche il reato di pensiero e il reato di argomentazione giuridica? Attendo risposte dai preclari giuristi di sinistra».

Dica la verità, si aspettava questo rinvio a giudizio?

«No. Ma resto orgoglioso di quello che ho fatto».

Cosa? Aver passato quelle carte?

«Non ho passato alcuna carta. Ho risposto alla domanda di Donzelli cosa che è mio dovere fare e faccio con qualsiasi parlamentare. Sono orgoglioso di aver fronteggiato l’attacco frontale al 41bis di terroristi e anarchici in combutta con la criminalità organizzata e della mafia».

Il suo rinvio a giudizio arriva dopo giornate in cui si è riacceso lo scontro politica-magistratura. Pensa che questo clima abbia influito?

«Credo e mi auguro di no. Il mio alto senso di giustizia mi fa pensare che un giudice non percepisca il clima e valuti solo gli atti giudiziari».

Il suo alto senso di giustizia non pone ostacoli al suo rimanere a ricoprire lo stesso incarico di sottosegretario con delega alle carceri ?

«Al contrario. Aspetto con serenità il dibattimento che inizia il 12 marzo per poter dimostrare che non ho compiuto alcun reato. E terminerò il mio mandato svolgendo al meglio il mio compito, rimanendo orgoglioso del mio lavoro e fedele alla lezione di centro destra».

Cosa intende?

«Intendo continuare a garantire strumenti di indagine efficaci ai magistrati per accertare i reati più odiosi, ma a confermare e addirittura aumentare le garanzie per i cittadini».

 Estratto dell’articolo di Cesare Zapperi per corriere.it giovedì 30 novembre 2023.

“Non intendo continuare a ricoprire il ruolo di Co-portavoce femminile che, nei fatti, è ridotto a mera carica di facciata. Mi dimetto. Non sarò la marionetta del #pinkwashing”. Cioè non farò la foglia di fico rosa di fronte a scelte non condivise. Parole dure e senza appello, quelle di Eleonora Evi, co-portavoce nazionale di Europa Verde, affidate ai social per annunciare che lascia l’incarico assunto nell’estate del 2021 […] 

“A sorpresa, dopo le politiche 2022 qualcosa ha scatenato un corto circuito quasi indecifrabile. I Verdi dopo una lunga assenza, tornano in Parlamento con una senatrice e sei tra deputate e deputati. Tra questi ultimi anche la sottoscritta. Improvvisamente i vecchi dirigenti hanno iniziato a fare muro contro di me, e questo perché avevo idee diverse e pretendevo, da Co-portavoce nazionale, di essere a conoscenza, ad esempio, delle decisioni politiche sulle liste, sulle alleanze e sulle strategie della campagna elettorale”.

Arriva all’AdnKronos la replica del co-portavoce Angelo Bonelli: «Avere divergenze politiche ci sta, è pacifico, avviene in tutti i partiti. Per esempio, noi abbiamo votato per l’alleanza europea che riconferma Avs, lei no, ma questo è un partito con parità di genere e che ha al suo interno delle donne eccezionali, come Luana Zanella, solo per citarne una». L’ex co-portavoce vi accusa di essere un partito patriarcale? «E’ un’accusa molto pesante e assolutamente falsa, siamo l’unico partito con una parità di genere». 

Evi racconta la sua amara esperienza a Roma. “Quando ho espresso posizioni o visioni non allineate a quelle della dirigenza durante le riunioni della Direzione Nazionale e pubblicamente, sono stata accusata di ingratitudine nei confronti della “famiglia verde” che mi aveva accolta e offerto uno scranno in Parlamento”.

Il rapporto ai vertici del movimento, e in particolare con l’altro portavoce Bonelli, è andato via via logorandosi. “Idee, proposte o visioni alternative – quando non complementari! – a quelle dell’establishment del partito, infatti, generano nei suoi esponenti reazioni impreviste: ora chiusura, ora diffidenza o sospetto. Talvolta paternalistica e vuota condiscendenza. Non di rado livore, rivendicazione”. 

La portavoce dimissionaria affonda i colpi: “Poco importerebbe lo scavalcamento sistematico della mia figura se questo non fosse il segno e solo uno tra le numerose espressioni sintomatiche della deriva autoritaria e autarchica del partito, come accaduto quando il Consiglio Federale Nazionale, organo per Statuto dotato di poteri di indirizzo politico, è stato chiamato di fatto a ratificare scelte già prese in altre sedi e annunciate a mezzo stampa”. […] 

Evi e quel Vaffa al suo partito Verde: “Sono patriarcali”. Domenico Pecile su L'Identità l'1 Dicembre 2023

Dice: “Nel partito una deriva autoritaria e autarchica”, poi aggiunge: “Contro di me eretto un muro” e ancora: “Dentro il partito paternalismo e livore”: un j’accuse lungo, articolato, a tratti livoroso quello che ha suggerito a Eleonora Evi di abbandonare la guida dei Verdi. Non vuole, ha anche aggiunto, “essere la marionetta del pinkwashing”. Già, un duro colpo per un partito che della lotta al patriarcato e al maschilismo in nome della parità di genere ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. Già, un paradosso proprio in questi giorni in cui il termine patriarcato è stato usato e abusato. Già, una tegola che arriva come un micidiale boomerang dentro un partito che da ieri si vedrà costretto, ahilui, ad andare in analisi per analizzare ed eventualmente sradicare sacche di patriarcato che pensava retaggio della conservazione, del sovranismo e di tutte le destre. Insomma, la comunicazione di Evi (“Inaspettata”, è stato il commento dei vertici verdi) piomba come un fulmine a ciel sereno e rischia davvero di spiazzare la nomenklatura verde che riteneva che certe dispute non le appartenessero.

Dunque, per Evi la misura è colma. E non se la sente più “di portare avanti l’incarico” di co-portavoce nazionale di Europa Verde, eletta nel 2021 “Ero piena di entusiasmo e sinceramente convinta che avrei avuto la possibilità – motiva – di collaborare concretamente a fondare un innovativo progetto ecologista”. “Penso di avere dimostrato un grande impegno – aggiunge – ed un entusiasmo fin da subito, girando in lungo e in largo l’Italia”. Dice di essersi “resa disponibile da europarlamentare”. Aggiunge di avere dato “energie e risorse a un partito che sembrava dimenticato”. E denuncia l’ex co-portavoce: “A sorpresa dopo le elezioni politiche dello scorso anno qualcosa ha scatenato un corto circuito quasi indecifrabile” talché “improvvisamente i vecchi dirigenti hanno iniziato a fare muro contro di me perché avevo idee diverse e pretendevo di essere a conoscenza delle decisioni politiche su liste, alleanze e strategie della campagna elettorale”. Insomma un delitto di lesa maestà, fa capire Evi. Anche perché, aggiunge impietosa, rivela di essere vittima di una sorta di ricatto morale visto che è stata “accusata di ingratitudine nei confronti della famiglia verde che mi aveva accolta e offerto uno scranno in Parlamento”. E qui arriva l’impietoso affondo che ha mandato letteralmente in tilt il partito. Evi spiega che “idee, proposte o visioni alternative – quando non complementari! – a quelle dell’establishment del partito, infatti, generano nei suoi esponenti reazioni impreviste: ora chiusura, ora diffidenza e sospetto. Talvolta paternalistica e vuota condiscendenza. Non di rado livore, rivendicazione”. La denuncia riguarda anche la sua richiesta “più volte reiterata di avere informazioni sullo stato di salute del partito (tesseramenti, federazioni attive, commissariamenti ecc) ottenendo risposte parziali o addirittura nulle”. E come ha reagito il partito a questo suo ripetuto e manifestato malessere? Evi sostiene che soprattutto in questo ultimo anno la sua figura è stata sistematicamente oscurata. Eccolo, precisa meglio, il segno evidente della deriva autoritaria ma anche autarchica del partito. Insomma, il suo ruolo – chiosa – era stato ridimensionato e ridotto così a una presenza soltanto di facciata. Della serie: non puoi parlare perché sei l’ultima arrivata e forse anche perché, è il suo sospetto, sei donna.

La prima replica – volutamente soft e senza toni acrimoniosi – arriva direttamente da Angelo Bonelli co-portavoce di Europa verde e deputato. Che tenta di smorzare le durissime parole di Evi e ricondurre il tutto a una delle più classiche discussioni all’insegna della franchezza e della dialettica interna. “Avere divergenze politiche ci sta, è pacifico, avviene in tutti i partiti. Per esempio – spiega – noi abbiamo votato per l’alleanza europea che riconferma Avs, lei no, ma questo è un partito con parità di genere e che ha al suo interno delle donne, come Luana Zanella, solo per citarne una”. Come dire che il femminismo di mera facciata denunciato dalla Evi è tutta una supposizione della stessa. Una difesa quella di Bonelli che per Evi non ha toccato uno dei temi principali come quello che lei stessa ha definito un “corto circuito quasi indecifrabile che ha colpito il partito soprattutto a partire dalle elezioni del 2022”.

La Signora in Verde. Tommaso Cerno su L'Identità l'1 Dicembre 2023

Non serve Jessica Fletcher, la mitica Signora in Giallo, per capire perché la Signora in Verde, Eleonora Evi, co-portavoce dei Verdi di Bonelli (quelli che assieme a Fratoianni ci hanno propinato Soumahoro in Parlamento) ha sbattuto la porta e attaccato il suo partito definendolo patriarcale. Già, proprio quelli della parità e del politically correct.

Sembra una nemesi che proprio il partito che ha più di tutti professato l’uguaglianza, il superamento del gap maschi-femmine, le quote rosa, si ritrovi con Eleonora Evi che sbatte la porta e accusa i vertici del suo partito di quel patriarcato che per la sinistra dei talk show è il vero mandante perfino dell’omicidio di Giulia Cechettin. Una sensazione che, a tutti gli effetti, era nell’aria. Io stesso qualche ora fa avevo commentato la doppia nomina dei maschietti in questione, Fratoianni e Vendola, al vertice di Sinistra italiana l’alleata dei Verdi. Una nomina giunta per acclamazione che mi dava l’impressione del perpetuarsi della stessa classe dirigente, quella che ha fatto le liste fra mogli e mariti più o meno consapevoli, quella che ha messo in parlamento come simbolo della lotta in favore gli ultimi tal Aboubakar Soumahoro finito nel tritacarne di una indagine sulle coop gestite dalla di lui moglie e di lui suocera che stanno ancora agli arresti domiciliari. Insomma un bell’ambientino.

Ma, come capita ormai sempre, non appena aveva suggerito una riflessione in merito sono piovuti sui social i soliti insulti patriarcali da maschio alfa che arrivano quando ti permetti di ledere alla maestà della sinistra senza macchie e senza colpe che alberga a sbafo in questo Paese da molti anni. Nella trafila di scemenze che si erano riversate contro di me l’accusa di essere uno dei mandanti dell’omicidio Cechettin, per questa mia storica voglia di maschilismo che connota tutta la mia biografia di omosessuale da sempre schierato per la libertà di opinione e di espressione. E devo dire che i toni usati da me, “più che patriarcato padronato”, sono all’acqua di rose rispetto agli insulti che tali signori mi hanno riversato addosso. L’avevo preso per una rosicata, prima di leggere le accuse che Eleonora Evi, la cooportavoce dei Verdi di Angelo Bonelli, alleato storico del duo Fratoianni-Vendola. Dice Evi che il suo partito, quello che ci propina la parità e che accusa di fascismo la Meloni, di qualunquismo chiunque ponga un dubbio su Soumahoro e la loro gestione dei migranti e via discorrendo, è un ennesimo partito patriarcale e personale.

Una specie di versione green di Re Sole e della sua corte, insomma, fatta apposta per sedersi al caldo in Parlamento se possibile con mogli al seguito. Ed eccoci qui, a vedere l’Italia reale. Quella cioè dove tanto tiri la corda che sono i tuoi sodali i primi a sbottare e a dirci, come il bimbo del re nudo, la verità che la dialettica politica vietata nel Paese come fu vietato uscire di casa senza green pass, ciò che tutti vedono. Perché la signora in questione tocca il punto: finché si tratta di dare incarichi inutili, sottopancia per la tv, cadreghe ai convegni tutti sono aperti al partito del futuro. Poi arriva la politica, quella maschile, fatta di poltrone, stipendi e posti in lista. E puff, come per magia, la verde resta al verde. E adesso le resta da dirci che il maschilismo sta tutto a destra, perché Giorgia Meloni, leader del suo partito e capo del governo, si fa chiamare presidente e non presidentessa. Pur sempre del Consiglio dei ministri.

Il patriarca verde. Il maschilismo di Bonelli, incontrastato leader dell’ambientalismo gruppettaro. Carmelo Palma su L'Inkiesta l'1 Dicembre 2023

Con le dimissioni della co-portavoce Eleonora Evi, il capo dei Verdi conferma di essere la bestia nera delle sue concorrenti di sesso femminile. Conferma anche che il suo partito è destinato all’irrilevanza

Angelo Bonelli è dal 2009 il capo (con diverse denominazioni: presidente, portavoce, coordinatore) del partito dei Verdi che, anch’esso con diverse denominazioni (prima Federazione dei Verdi, poi Europa Verde), ha attraversato la storia della Seconda Repubblica abbandonando le ambizioni riformiste della stagione rutelliana – in cui i Verdi italiani erano sostanzialmente uno spin-off radicale – e diventando un lugubre laboratorio di ignoranza apocalittica e di superstizione anti-scientifica.

Se il suo predecessore Alfonso Pecoraro Scanio era un piacione simpatico e gaglioffo, che dava l’aria di non prendersi troppo sul serio nelle obbligate prosopopee millenaristiche e nelle nostalgie della via Gluck a cui lo costringeva il ruolo di bellu guaglione ambientalista, Bonelli dà un tocco di autentico e di sinistro all’ecologismo reazionario, con la sua faccia triste e severa da travet del fanatismo e da Torquemada della contro-rivoluzione industriale.

Dietro questa apparente autenticità deve però celarsi un mestiere consumato da politico di relazione e da navigatore del network del potere (con rispetto parlando) progressista, se l’anzianità di servizio alla testa delle invero sparute armate del suo partito personale ne fanno il decano dei (sempre con rispetto parlando) leader della politica italiana, dopo la morte del Cavaliere e il pensionamento del Senatur.

Se però Bonelli non ha mostrato grande talento nell’intercettare l’onda lunga dei Fridays for Future e ha condannato i Verdi italiani a rimanere i parenti poveri e sfigati dell’European Green Party, ben maggiore destrezza ha rivelato nella resilienza da maggiorente di quella partitocrazia micro-gruppettara e nominalmente antagonistica, capace di trasformare l’estremismo in una rendita e il minoritarismo in un affare, in una candidatura o in un seggio concesso dalla sempre meno grande e sempre più disprezzata sinistra mainstream (leggasi: Partito democratico).

Le dimissioni della co-portavoce di Europa Verde Eleonora Evi, che ieri ha sbattuto la porta accusando Bonelli di averla relegata a un ruolo di «marionetta del pinkwashing», sono interessanti per molteplici ragioni.

La prima è che Bonelli si conferma come la bestia nera delle sue concorrenti interne di sesso femminile. Aveva iniziato nel 2009 con Loredana de Petris, a cui strappò in un congresso all’ultimo voto (e all’ultima tessera) la presidenza dei Verdi su una piattaforma autonomistica, contraria alla confluenza in Sinistra Ecologia e Libertà. Ha finito (temporaneamente) liquidando con una democristianissima strategia di isolamento interno Eleonora Evi, accusata, a parti invertite, di volere tenere i Verdi in una posizione elettoralmente autonoma contro la volontà del “patriarca”, favorevole alla prosecuzione del legame con Sinistra italiana.

In mezzo all’una e all’altra non si contano le dirigenti trattate alla stregua di meteorine e reclutate e poi risputate nel dimenticatoio, da ultima la di lui più titolata Rossella Muroni (già presidente Nazionale di Legambiente), licenziata alla fine della scorsa legislatura per avere sostenuto in Parlamento il governo Draghi e l’aiuto militare all’Ucraina.

La seconda ragione per cui questo scontro che non ci lascia alcuna suspence sull’esito – vincerà come sempre Bonelli – ha un non secondario interesse cultural-politico è che si tratta di un perfetto spaccato della eterogenesi dei fini della patriarcatodemia, dilagante nel senso comune della sinistra – e massimamente di quella antagonista –, e destinata inevitabilmente a rivolgersi contro nemici interni, dopo avere fallito miseramente il bersaglio contro i nemici esterni.

Continuerà a non fare un baffo al partito di Meloni che, pure se si fa chiamare presidente al maschile, è inequivocabilmente di sesso femminile, ma farà disastri nei regolamenti di conti a sinistra tra compagne e compagni, tutti equivocamente e indifferentemente accusabili come minimo di mansplaining, quando non di peggio.

Così alla fine il bonellismo, oltre a qualificarsi meritatamente come malattia senile dell’estremismo e come riuscito esperimento di mastellismo o tabaccismo green, potrebbe pure diventare – forse meno meritatamente – sinonimo di esecrabile maschilismo.

Quando la sinistra annunciava (in lacrime) il “seggio sicuro” per Soumahoro. Michel Dessì il 10 Novembre 2023 su Il Giornale.

Torniamo ad occuparci del caso Soumahoro: in particolare ci soffermiamo sulle vecchie dichiarazioni di Angelo Bonelli (in lacrime) e Nicola Fratoianni quando annunciavano per Soumahoro il seggio blindato e che oggi invece lo rinnegano

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Rieccoci qui. Costretti, ancora una volta, a parlare di Aboubakar Soumahoro, il parlamentare con gli stivali. Ormai lo conoscete tutti, l’ex paladino della sinistra è finito nei guai. Questa volta, però, non per colpa della moglie o della suocera (accusate dalla procura di Latina per la cattiva gestione dei fondi destinati ai migranti usati per spese pazze) ma per delle sue gravi inadempienze. Stiamo parlando della cattiva gestione dei fondi usati dal parlamentare per la propria campagna elettorale. A dirlo non siamo noi, ma la Corte d’Appello di Bologna che ha aperto un’istruttoria. Molte cose non tornano, soprattutto i conti e ora è in ballo la sua permanenza in Parlamento. Già, perché Soumahoro potrebbe decadere.

E i suoi sponsor, che fine hanno fatto? Fabio Fazio, Roberto Saviano, Marco Da Milano sono spariti. Tutti si vergognano di averlo “lanciato” verso il successo, verso le luci della ribalta. Anche i suoi “compagni” di partito lo hanno scaricato come Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni.

Solo per voi assidui ascoltatori de “La Buvette” siamo andati a ripescare delle vecchie (ma non troppo) dichiarazioni dei due deputati di Verdi e Sinistra Italiana che hanno voluto fortemente Aboubakar Soumahoro in Parlamento assegnandogli addirittura un seggio blindato. Eccole…

Le lacrime di gioia di Bonelli nell’annunciare il seggio blindato hanno lasciato spazio al silenzio. L’orgoglio di Fratoianni ha lasciato spazio alla sfiducia. Non poteva essere altrimenti, a sinistra non ne azzeccano mai una. Ma come avrebbero potuto sapere che il paladino dell’accoglienza dei “fratelli” migranti fosse così “distratto”? Beh, magari prima di portarlo (con tutti gli stivali) in Parlamento e farlo sedere su quelle comode poltrone con un assegno da oltre 10mila euro al mese avrebbero potuto fare qualche verifica in più.

Ma così non è stato e ora bisogna fare i conti con la realtà. La dura realtà. Ai nostri microfoni Angelo Bonelli parlava così: “La solidarietà si dà quando si conoscono le cose, bisogna essere chiari e Aboubakar non lo è stato. Se vuoi la solidarietà sii chiaro con le persone che ti stanno vicine”. Così va in frantumi l’ennesima bandiera inutile della sinistra. Per fortuna se ne sono resi conto anche loro.

Bonelli piangeva per Soumahoro? Ecco come lo scarica: cos'è la sinistra. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 9 novembre 2023

Da una lacrima sul viso/Ho capito molte cose/Dopo tanti e tanti mesi ora so/Cosa sono per te... Angelo Bonelli, per Aboubakar Soumahoro, era più che un leader politico. Era un padre putativo. Lo era anche Nicola Fratoianni.

Soumahoro, per Bonelli e Fratoianni, era il paladino degli ultimi, un eroe senza macchia. E prima delle lacrime di Soumahoro, versate nel mitologico video di un anno fa in cui il deputato giurava di non sapere niente dei guai delle cooperative “di famiglia”, c’erano state le lacrime di Bonelli - lacrime sul viso - e in pochi le ricordano. Rimediamo. Dieci settembre 2022, mancano due settimane al voto. Alla Camera conferenza stampa congiunta del “Verde” Angelo Bonelli e del rosso Nicola Fratoianni, a capo di Sinistra Italiana. Prende la parola Bonelli: «Ebbene, ho il piacere di annunciarvi che ha accettato di candidarsi con l’Alleanza Verdi -Sinistra Aboubakar Soumahoro». Addirittura!

SENZA FIATO

Bonelli si commuove. Poi riparte: «Aboubakar Soumahoro è laureato in sociologia. Sono anche emozionato, devo dirvi...perché... sono molto emozionato». Bonelli singhiozza. «Perché Soumahoro è una figura...», Bonelli avanza a scatti. «È una figura importante, un attivista sociale e sindacale che da vent’anni difende le persone invisibili». Bonelli supera l’impasse. Vai Bonelli, vai: «Difende i senza voce e le lavoratrici e i lavoratori della filiera agroalimentare e tanti altri dell’era dell’economia digitale. Oltre alle sue lotte sul campo, Aboubakar Soumahoro», attenzione, «è scrittore che cerca di concettualizzare le sue lotte per coniugare azione e pensiero in un’ottica della giustizia sociale e ambientale. In Italia, in Europa e a livello globale». Supercazzola quasi degna del Conte Mascetti di Amici Miei: «Mi scusi dei tre telefoni qual è come se fosse tarapia tapioco che avverto la supercazzola?».

Le lacrime di Soumahoro, più finte di una profezia del mago Mario Pacheco do Nascimento ex spalla sinistra di Wanna Marchi, avevano immediatamente spopolato sul web, tanto che le “lacrime di Soumahoro eau de toilette” - sbertucciamento via social- sono andate a ruba. Quelle di Bonelli invece non se l’era filate nessuno, che ingiustizia. Ma è come quei film che per fare breccia impiegano un po’, nel frattempo succede qualcosa e la pellicola di colpo fa il botto. E nel frattempo è successo che moglie e suocera di Soumahoro sono finite agli arresti domiciliari con l’accusa, questa la sintesi, di aver usato per se i soldi pubblici destinati all’accoglienza dei migranti tramite la coop Karibu e il Consorzio Aid.

Nel mentre Soumahoro ha reclamato il diritto all’eleganza per la consorte Liliane, accusato di razzismo chiunque riportasse le vicende giudiziarie dei familiari, ha detto che chi lo attaccava e tutt’ora gli chiede conto di tutta questa vicenda - ribadiamo, non è indagato - lo faceva e continua a farlo perché aveva e ha paura delle sue battaglie in difesa dei migranti. In quel video Soumahoro diceva che chi scriveva di lui lo voleva morto. E però capiamo anche lo sconforto di Soumahoro, idolatrato da Bonelli e poi scaricato in un amen, appena scoppiato il caos delle cooperative. Bonelli e Fratoianni quasi fingono di non averlo mai conosciuto questo Soumahoro. Giurano che non erano al corrente di nulla: Soumahoro chi? «Mi sento ferito», diceva Bonelli, «non posso credere che la moglie non parli col marito di queste cose».

CHE DELUSIONE

Soumahoro ci era rimasto malissimo perché Bonelli e Fratoianni non l’avevano difeso, e così si è autosospeso dal gruppo parlamentare Verdi-Sinistra, che non vuol dire niente ai fini dello scranno: è semplicemente passato al Gruppo misto. «Sono stupito per l’assenza di solidarietà», si era sfogato il deputato ripudiato. A Soumahoro pensa solo la moglie di Fratoianni, la deputata di Sinistra Italiana Elisabetta Piccolotti, la quale di recente su La7 ha provato a fare scudo ad Aboubakar. Ma che tempi, che nostalgia, che commozione di Bonelli per il pupillo Soumahoro, «lo scrittore che cerca di concettualizzare le sue lotte per coniugare azione e pensiero in un’ottica della giustizia sociale e ambientale». Non ho mai capito/Non sapevo che/Che tu, che tu/Tu mi amavi, ma come me/Non trovavi mai/Il coraggio di dirlo, ma poi... Quella lacrima sul viso...  

Piero Fassino e i suoi francobolli: «Con loro da bambino giravo il mondo. Una passione trasmessa da papà». Antonella Frontani su Il Corriere della Sera martedì 28 novembre 2023.

Fassino svela la grande passione per la filatelia: «Ti permette di entrare in ogni singolo Paese. I francobolli raccontano la storia. Dittature e democrazie, regni e repubbliche, imperi e colonie»

È stato uno dei dirigenti del Pci che condivise e gestì la svolta di Achille Occhetto. Poi, deputato, ministro, segretario dei Ds, fondatore del Pd, inviato europeo, presidente della Commissione Esteri della Camera dei deputati. Attualmente è Vicepresidente della Commissione Difesa. A Torino è stato sindaco, ma Piero Fassino è anche un appassionato collezionista. Arriva puntale, come sempre, nonostante l’agenda tempestata di appuntamenti. Di fronte alla sua collezione di francobolli l’aplomb del politico lascia il posto all’entusiasmo del collezionista.

Quando nasce questa collezione?

«Fin da bambino mio padre mi appassionò alla filatelia e ogni settimana mi portava serie di francobolli, acquistate nel negozio filatelico di Bolaffi, con cui aveva un’amicizia nata nel comune impegno nella Resistenza. E così anno dopo anno ho raccolto una collezione molto ampia di francobolli di ogni Paese e di ogni continente. Bolaffi pubblicava ogni anno il catalogo internazionale, così, andavo a cercare i francobolli che non avevo».

Cosa rappresentavano per un bambino i francobolli? 

«Uno splendido strumento di conoscenza! Ogni francobollo ti fa entrare in un Paese: la sua storia, le sue personalità, i suoi monumenti, le sue epopee, la sua religione».

Vorrei il ricordo di un’emozione suscitata da un francobollo.

«Ricordo i francobolli del Laos con elefanti e animali esotici molto affascinanti per un bambino. E ogni volta mi precipitavo a rintracciare sul mappamondo il paese che il francobollo mi suggeriva. Lì iniziai a coltivare la passione per la storia».

In che senso?

«I francobolli raccontano la storia. Dittature e democrazie, regni e repubbliche, imperi e colonie, tirannie e annessioni, guerre e paci. E le personalità che hanno segnato la vita delle nazioni: imperatori, re, presidenti, eroi, santi, artisti, scienziati. E poi i costumi, la fauna, la flora, i monumenti».

Facciamo un esempio.

«Ecco, questo francobollo rappresenta l’Ifni, provincia spagnola sulla costa occidentale dell’odierno Marocco — che oggi è la terra contesa del Sahrawi — che fu, per un certo periodo, posta sotto amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite. I suoi francobolli raffiguravano cammelli, dromedari, antilopi, serpenti. Ognuna di queste immagini accendeva in me la curiosità di scoprire mondi sconosciuti».

Alcuni di questi francobolli sono antichi.

«Sì, risalgono all’Ottocento, vengono dalla collezione del nonno proseguita da mio padre e poi da me, in un affresco straordinario del ‘900».

La sua attività politica l’ha portata a girare nei due terzi del mondo. Ha mai legato un luogo al ricordo di un francobollo?

«Sempre. Ogni volta che ho visitato un Paese nella mia memoria si affacciava un francobollo».

Altri ricordi?

«Allora non esistevano i social né la posta elettronica. Raccoglievo tutte le buste della amplissima corrispondenza della azienda di papà, che mi insegnò il modo di staccare i francobolli senza danneggiarli, delicata operazione a cui contribuiva anche la mamma».

Il racconto è appassionato. Lo sguardo è luminoso. È nota la passione per la politica a cui ha dedicato la sua vita. Ora capisco che affonda in una passione più remota: quella per la conoscenza. 

Scripta manent. L'analisi grafologica di Piero Fassino: "Un 'tipo nervoso', come diceva Ippocrate". Persona di un'intelligenza notevole, a volte però ostacola se stesso per via delle sue insicurezze. Evi Crotti il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.

Scrittura e firma esprimono coincidenza tra l'Io individuale e l'Io sociale rinfrancati da una solidarietà di pensiero e azione. Il temperamento, di tipo “nervoso” secondo Ippocrate, mette in luce caratteristiche intellettive non comuni. Piero Fassino appare munito di capacità di verifica, approfondimento e vigilanza per cui può utilizzare tali doti nella sua attività politica. 

L’ex presidente del PD utilizza, a compensazione dei sentimenti di inadeguatezza e di timidezza che hanno segnato la sua giovinezza e che sembrano ancora irrisolti, mezzi autoprotettivi che adopera nei momenti in cui dovesse sentirsi minacciato. Egli allora potrebbe incaponirsi per difendere i propri punti di vista, diventando ipercritico e non permettendo all’interlocutore di intervenire e controbattere (scrittura piccola, molto spazio tra una parola e l’altra, accuratezza grafica). La difesa però viene assunta da Fassino non con acredine, ma come protezione di una timidezza che può ledere l’obiettività, penalizzando i rapporti anche all’interno del proprio gruppo politico.

L’ipercritica, la verifica e l’approfondimento sono elementi che mettono in luce un’intelligenza notevole, ma vanificata dal timore di essere posposto. 

È persona che potrebbe dare e ottenere di più se non mettesse in discussione, a volte anche in modo reattivo e selettivo, il prossimo, ma soprattutto schiavizzando sé stesso e le proprie effettive potenzialità. Tali sentimenti di insicurezza emotiva gli fanno assumere, anche se in mondo inconscio o come difesa, atteggiamenti ostentati che finiscono per penalizzare anche le più importanti e illuminate intenzioni. La cocciutaggine viene utilizzata a volte con punte di ansia anticipatoria rendendo dogmatico il proprio credo.

Persona con doti di intellettive notevoli, tuttavia, a volte diventa pretenzioso, lasciandosi prendere da momenti di emotività dovuti al timore di venir meno agli occhi degli altri (vedi riccio a fine parola, interrigo largo e lettere iniziali della firma grandi).

Estratto dell’articolo di Pino Corrias per “il Fatto quotidiano” lunedì 7 agosto 2023.

Ma come li scelgono, come li selezionano per allestire il disastro? Primeggia per efficacia e per età Piero Fassino, l’eterno incursore che con parole e gesti al plastico, di tanto in tanto, squarcia la chiglia del partito e poi si accomoda sulla prua per vedere il panico e anche la sfiga che è stato capace di generare tra le schiume della cronaca e della politica. Che il pubblico iracondo trasforma in satira, rancori persistenti. E immediati voti a destra.

“Noi parlamentari – ha detto l’altro giorno issandosi sui velluti della Camera dei deputati – guadagniamo solo 4.718 euro al mese”, altro che stipendi d’oro. Lo ha detto sventolando il cedolino come fosse il suo personale certificato di buona condotta. 

Per poi godersi (con tutti i 13mila euro mensili in tasca) la pioggia di uova, arance, pomodori e altre sottigliezze contabili che gli sono piovute sul suo fresco di lana stazzonato che indossa – secondo la storica testimonianza della signora Elsa, la sua tata di infanzia torinese – da tre quarti di secolo, cravatta compresa.

[…] La super balla dei parlamentari indigenti, Piero Fassino se l’è giocata al momento giusto, mentre tutti gli equipaggi democratici remavano a favore del salario minimo […]. 

[…] In 60 anni di carriera, sui 74 anagrafici, Piero Fassino è stato e ha detto quasi tutto: viva e abbasso l’Unione Sovietica, viva e abbasso la Cina, abbasso e viva l’America. È stato militante comunista e post comunista, dirigente, sette volte deputato, segretario del partito, sindaco, due volte ministro, una volta sottosegretario. Ha irriso Grillo: “Vuol fare politica? Fondi un partito e vediamo quanti voti prende”. Ha sfidato Chiara Appendino e ha perso la poltrona di primo cittadino a Torino.

La passione politica viene dal padre che fu comandante partigiano, compagno d’armi di Enrico Mattei che nel Dopoguerra lo nominò concessionario Agipgas per il Piemonte. Per questo Piero nasce benestante ad Avigliana, anno 1949. 

Cresce circondato dal grigio della città fabbrica e dalla immobilità del partito che assorbe […] l’invasione dell’Ungheria, anno 1956, e poi della Cecoslovacchia: i carri armati mandati da Mosca a spazzare via da Praga la Primavera, anno 1968. Quella volta Piero annota: “Capii che la libertà viene prima di ogni altra cosa”. 

Ma siccome è appena uscito dal liceo dei gesuiti, fa il contrario, iscrivendosi al partito, dove si trova subito benissimo: segretario della federazione giovanile provinciale, tanti saluti alle ceneri di Jan Palach.

Apostolo della disciplina di partito e dell’etica del lavoro, veste in giacca e cravatta, combatte ogni deriva movimentista, detesta i No-Tav. Ammira (invece) tutti quelli che galleggiano a destra, “dall’amico Giuliano Ferrara”, al “leale” Mastella. Sarà il primo a riabilitare Bettino Craxi, “una figura da inserire nel Pantheon del Partito democratico”. Al quale annette volentieri anche le banche e i banchieri. Resta celebre il suo “Abbiamo una banca!”, nella telefonata registrata con Giovanni Consorte, il capo di Unipol, impegnato nella scalata alla Bnl, anno 2005.

Un po’ meno note sono le sue estati a bordo dello yacht Electa, 40 metri con bandiera del Principato di Monaco, in compagnia dell’emerito di Banca Intesa, Giovanni Bazoli. […] a casa gli piace rigovernare i piatti dopo le cene, […] nel partito riordina le sedie dopo le riunioni e persino le correnti dopo le scissioni.

Specie in quei sette anni da segretario del partito, 2001-2007, che allora si chiamava Ds, Democratici di sinistra, ma anche Democratici sinistrati, visto lo strapotere di Berlusconi che si era preso il governo e tenuto le tv, grazie alla permanente guerra fratricida dei progressisti, cominciata con l’isolamento di Occhetto, con le mine antiuomo disseminate per divertimento da Bertinotti, con l’insonne congiura di D’Alema contro Prodi e contro se stesso, con la deriva prima kennediana e poi artistica di Veltroni.

Fino al segreto accordo con l’ammirato nemico, rivelato alla Camera da Luciano Violante: “Lei sa benissimo, onorevole Berlusconi, che le avevamo dato piena garanzia – non da adesso, ma dal 1994 – che non sarebbero state toccate le sue televisioni”. A ogni bivio della Storia, lui si mantiene in scia. 

Ieri l’altro stava con Stefano Bonaccini, […] Oggi sta con Elly Schlein […]. A parte il masochismo, Piero ha poche passioni: la Juve, il jazz, le melanzane alla parmigiana. Naturalmente le donne con le quali, D’Alema dixit, “si trova come un cavatappi in un’enoteca”. Esuberanza che da qualche tempo perfeziona aggiungendo preziose rassegne dei propri selfie che spedisce in omaggio alle sue presunte ammiratrici. Chiede attenzioni, direbbe lo psichiatra. Ma come con il magro cedolino, incassa risate.

Fassino, dalle profezie alla De Filippi Piero «cicogna» che ama ballare. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera venerdì 4 agosto 2023.

«Fassino chieda il reddito di cittadinanza...», sarcastica la scrittrice Carmen Llera Moravia, che in questi giorni si trova in Israele. E già, perfino i suoi amici più cari hanno un po’ titubato, davanti all'immagine di lui alla Camera mercoledì scorso mentre sventola il cedolino da 4.718 euro netti mensili e dice pure «non è uno stipendio d’oro», dimenticandosi però di tutto il resto, benefit, diaria e rimborsi vari che spettano a ogni parlamentare. Figuratevi poi cos’è successo sui social: tra i tanti meme diventati virali, spicca la foto del deputato dem ritagliata e incollata sul Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, il celebre quadro di fine Ottocento che ritrae una folla di uomini e donne in marcia per i propri diritti. In mezzo a loro, nel meme, Fassino con in mano la busta paga. E c’è chi ha pure lanciato l’idea di un crowdfunding per aiutarlo.

Altro che scivolata, la segretaria del suo partito Elly Schlein si è subito dissociata, «sono stato un ingenuo — si è difeso lui il giorno dopo — ma ho ricevuto anche molti consensi...». Sarà. Di certo, in tempi di barricate per il reddito di cittadinanza e di scontro politico sul salario minimo, che il Pd vorrebbe riconosciuto a 9 euro l’ora, Piero Fassino, 73 anni, in Parlamento dal ’94, sette legislature più la parentesi di sindaco di Torino dal 2011 al 2016, oggi si ritrova al culmine dell’impopolarità.

Si direbbe non abbia mai imparato la prudenza. Resta celebre il suo «Abbiamo una banca!» nella telefonata registrata con Giovanni Consorte, il capo di Unipol, impegnato nella scalata alla Bnl, anno 2005. All’epoca Fassino era il segretario dei Ds, guidava l’opposizione al governo Berlusconi e da frenetico piemontese che non sta fermo un minuto, con mille passioni — la Juve, la politica estera, il jazz e le melanzane alla parmigiana — quell’anno accettò pure l’ospitata da Maria De Filippi a C’è posta per te su Canale 5, dove gli fecero incontrare a sorpresa la vecchia tata di corso Mediterraneo. La signora Elsa, che lo chiamava «il bel Pierino», raccontò che lui vestiva in giacca e cravatta già a 14 anni. Poi di soprannomi se ne sono aggiunti altri, legati sempre all’aspetto fisico, 65 kg per quasi due metri di altezza: «grissino di ferro» oppure «cicogna».

Certo, di errori di valutazione in carriera ne ha fatti tanti. Come nel 2007: «L’Ulivo darà una mano a Ségolène Royal», annuncia dopo il primo turno delle presidenziali in Francia. Ma la candidata del partito socialista, due settimane dopo, perde sonoramente contro Nicolas Sarkozy. Poco lungimirante, come minimo: «Se Grillo vuol far politica, fondi un partito e vediamo quanti voti prende», attacca Fassino nel 2009. E il 4 ottobre, Grillo fonda i 5 Stelle e alla prima occasione, le Politiche del 2013, prende milioni di voti. Poi, nel 2016, dopo il primo mandato, il «grissino di ferro» si ricandida a sindaco di Torino, la città dove da diciottenne attivista della Fgci andava a volantinare fuori dai cancelli della Fiat. 

Ma lancia improvvidamente la sfida: «Se Chiara Appendino vuol fare il sindaco, si candidi e vediamo chi la vota»: la candidata M5S verrà eletta al suo posto. Una vita in politica e un vitalizio mica da ridere, quando un giorno mai lascerà il Parlamento. Di sicuro, lui non ha voglia di smettere.

Alle ultime Politiche, l’anno scorso, dopo molte resistenze a livello locale ha ottenuto dal partito di essere paracadutato in Veneto, candidato nel collegio plurinominale e in seconda posizione nella lista. Eletto. Sempre in ballo, Fassino. In fondo, è un’altra delle sue passioni. Una volta lo disse anche alla radio: «Mi piacerebbe ballare un tango con la Carfagna, una polka con la Gelmini e un rock and roll con la Meloni». Chissà che un giorno di questi la premier non l’accontenti.

I parlamentari non hanno stipendi d’oro. Diaria forfettaria e Fondo per l’attività di mandato vengono interamente spesi. Basta con il populismo e la demagogia. Piero Fassino (Deputato Pd) su Il Riformista il 4 Agosto 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sui compensi dei parlamentari: giusto dire che non hanno uno stipendio d’oro?  Favorevole il deputato del PD PieroFassino, che partendo dal suo discorso alla Camera, riflette su un generalizzato umore antipolitico. Contrario l’ex Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi il quale si chiede che senso abbia sventolare il cedolino della paga dei deputati di 4718 euro proprio mentre il paese si infiamma per la perdita di un reddito di cittadinanza.

Qui il commento di Piero Fassino:

Le polemiche suscitate da un mio intervento in sede di discussione del bilancio della Camera sono prive di un serio fondamento. Come quasi sempre accade in Italia la possibilità di ragionare è soffocata dalla demagogia. E il mio intervento è stato sollecitato dalla presentazione di tre ordini del giorno – due di 5Stelle e uno di FdI – che richiedevano ulteriori riduzioni ai vitalizi, che peraltro già sono stati ridotti applicando il metodo retributivo. E allora partiamo da cosa ho detto. Ho ricordato ai colleghi che l’indennità lorda di 10.435 euro erogata a ogni parlamentare, ridotta giustamente dell’Irpef, delle addizionali regionali e provinciali, dei contributi previdenziali scende a 4.718 euro netti per 12 mensilità. È una dimensione congrua, tant’è che intervenendo non ne ho chiesto alcuna modifica, né me ne sono lamentato. Quel che però ho richiamato è la differenza tra quell’indennità e quel che viene reiteratamente raccontato secondo cui i deputati hanno indennità d’oro di 10.000 euro e più al mese. E per questo mi sono rivolto ai colleghi parlamentari invitandoli a non cavalcare demagogicamente voci prive di fondamento. Insomma: ho fatto un discorso di verità che avrebbe dovuto essere accolto favorevolmente. E molti in privato mi hanno espresso consenso.

E invece si è scatenata una canea guidata dai social mettendo in campo il solito linciaggio mediatico quando non si vuol accettare la verità. Naturalmente subito c’è stato chi ha voluto ricordare che i deputati non ricevono solo un’indennità, ma anche una diaria forfettaria e un fondo per l’attività di mandato.

Verissimo e non ho avuto difficoltà a rendere conto dettagliatamente di come io utilizzo quei fondi: 3.670 euro sono totalmente assorbiti dai compensi ai miei due collaboratori parlamentari e della diaria 2.500 euro sono devoluti al PD nazionale e al PD Veneto – dove sono stato eletto – e la rimanenza di 1.000 copre le spese mensili per abbonamenti giornali, trasferte e iniziative politiche. In altri termini tutto ciò che ricevo per l’attività parlamentare è spesa per quella finalità. Non c’è dunque nessuna forma di arricchimento indebito e il netto di cui dispongo sono i 4.718 euro dell’indennità.

Questi i fatti, che richiedono anche qualche riflessione politica.

Mi si è obiettato che è stato inopportuno evocare il tema, mentre è il governo elimina il reddito di cittadinanza e si oppone al salario minimo. Obiezione che non mi appare plausibile perché sono battaglie in cui mi riconosco e con tutti i parlamentari del PD sono impegnato da settimane nell’opporci alla brutale eliminazione del reddito di cittadinanza e nel chiedere che si discuta della nostra proposta di salario minimo legale.

Ma più al fondo anche questa vicenda rende evidente quanto l’antipolitica abbia messo radici profonde in convinzioni errate: che i politici non abbiano competenze e che ricoprano quell’incarico senza merito; che i partiti siano inutili e il loro finanziamento uno spreco; che la politica non debba costare, quando qualsiasi attività umana ha dei costi (se affitti un teatro il proprietario vuole essere pagato e così un tipografo se stampi dei manifesti). E la logica dell’ “uno vale uno” che già molti danni ha prodotto in questi anni.

Un umore antipolitico cresciuto anche certo per responsabilità della politica. Non mi sfuggono certo gli impatti devastanti di Tangentopoli o delle troppo manifestazioni di occupazione del potere da parte della politica. E di fronte a quei fatti troppo spesso la politica si è piegata a soluzioni di destrutturazione. Si è eliminato il finanziamento pubblico dei partiti, si è ridotto il numero dei parlamentari, si è adottata una legge elettorale che non consente ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti, si sono tagliate indennità e vitalizi (perfino con incidenza retroattiva). Ebbene, non solo in quel modo non si rinnovata la politica, ma la si è’ snervata rendendola fragile. E quanto più la politica è debole, tanto più i problemi incancreniscono.

Credo che sia tempo di spezzare la spirale di populismo e demagogia che soffoca sempre di più la democrazia e il Paese. Se il mio agire di questi giorni, forse un po’ ingenuo, può concorrere a intraprendere una diversa strada, non sarà stato inutile per affermare le ragioni della buona politica contro la cattiva politica.

Piero Fassino (Deputato Pd)

Estratto dell'articolo di Cesare Zapperi per corriere.it mercoledì 2 agosto 2023.

«L’indennità che ciascun deputato percepisce ogni mese dalla Camera è di 4.718 euro al mese. Si tratta certamente di una buona indennità, ma non è certamente uno stipendio d’oro». Dichiarazione che ha subito scatenato polemiche, soprattutto in giorni in cui al centro dell’attenzione degli italiani c’è il tema del reddito di cittadinanza per migliaia di persone. 

Piero Fassino si è presentato in Aula sventolando il “cedolino” dello stipendio da parlamentare poco prima di votare il Bilancio interno della Camera. Il deputato del Pd, ex segretario dei Ds e con una lunga carriera nel Pci, nel corso del dibattito aveva anche dichiarato il suo no all’odg di Fratelli d’Italia e del M5s sullo stop ai vitalizi parlando di «demagogia e populismo».

[…] «Un luogo comune è che i parlamentari godano di stipendi d’oro, qui ho il cedolino di luglio 2023, è uguale per tutti - ha spiegato Fassino-. Risulta che l’indennità lorda è di 10.435 euro, da cui giustamente vengono defalcati l’Irpef, l’assistenza sanitaria, la previdenza dei deputati che è di 1000 euro, le addizionali regionali e comunali». 

Fassino ha aggiunto: «Fatti questi giusti prelievi, l’indennità netta dei deputati è di 4718 euro al mese. Va bene? Sì. L’unica cosa che chiedo è che quando sento dire che i deputati godono di stipendi doro dico non è vero, perché 4718 euro al mese sono una buona indennità ma non sono uno stipendio d’oro». 

[…]

Fassino ha parlato dell’indennità, ma i parlamentari ricevono anche altre somme a vario titolo che li aiutano a rendere più agevole il loro impegno istituzionale. A loro viene infatti riconosciuta una diaria a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma. L’importo della diaria è attualmente pari a 3.503,11 euro mensili. 

A tale importo sono applicate ritenute in caso di assenza dai lavori parlamentari. A ciascun deputato, inoltre, è riconosciuto il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato. Tale rimborso ammonta a 3.690 euro mensili ed è corrisposto per metà in via forfetaria e per la restante parte a fronte di specifiche categorie di spese che devono essere attestate con dichiarazione quadrimestrale. E poi ci sono agevolazioni per i trasporti […] e per le bollette telefoniche.

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it giovedì 3 agosto 2023.

Lui, Fassino, continua a insistere: lo stipendio dei parlamentari non è poi così alto […]. E più insiste[…] più i social si scatenano e i meme […] si moltiplicano […]. Uno più esilarante dell’altro. […] come il signore che ha sistemato un affaticato Fassino alla guida del «Quarto Stato» di Pelizza da Volpedo intento a sventolare il «magro» cedolino. Nuovo titolo dell’opera: «Parlamentari di tutto il mondo unitevi». 

[…]  l’hashtag #Fassino è primo su Twitter con 16.700 lanci. In mezzo a questa giungla di commenti un 90 per cento di comicità e un residuo 10 di «incazzatura» scritta proprio così, magari da chi 1000 euro al mese li vede con il binocolo.

A esercitare una mai così facile ironia sul senatore pennarelli illustri come Makkox, Osho e Natangelo. Ma anche i fotomontaggi artigianali come quello di Andrea C. che mostra un emaciato primo piano di Fassino che in un’anonima gelateria di Milano chiede: «In che senso la panna si paga?». 

Fra le immagini più ritwittate […] quella appunto firmata Osho dove c’è Fassino che stringe la mano di un’anziana al mercato che, visibilmente commossa gli dice: «Sor Fassì, nun faccia compimenti, se prenda sti 10 euro». E lui, con un malinconco sorriso: «Nun se preoccupi signò in qualche modo m’arangio».

Estratto dell'articolo Ser. Rif. per “la Stampa” giovedì 3 agosto 2023.

«È un luogo comune che i deputati godano di stipendi d'oro». Piero Fassino, ex segretario dei Ds e deputato Pd, si alza in piedi, annuncia che voterà contro un ordine del giorno che conferma il taglio dei vitalizi e – senza temere l'impopolarità – sventola la sua ultima busta paga: «Ho qui con me il cedolino di luglio – dice – e fatti i giusti prelievi, l'indennità netta è di 4718 euro al mese». 

Pausa scenica: «Va bene così. È una buona indennità, ma non diciamo che i deputati godono di stipendi d'oro», conclude il parlamentare di lunga data. Colleghi e responsabili della comunicazione Pd si mettono le mani nei capelli davanti a una dichiarazione che nessun eletto avrebbe avuto il coraggio di pronunciare in aula sedici anni dopo la pubblicazione de "La Casta" e dopo due legislature segnate dalla più feroce anti-politica.

[…] la frase del parlamentare, già su un terreno scivoloso, contiene un significativa omissione. Ai 5mila euro netti di indennità, vanno aggiunte diverse voci. Fa il calcolo l'ex deputata M5s Roberta Lombardi: «Aggiungiamoci anche i 3.500 euro di diaria mensile, i 3.700 euro mensili di spese esercizio mandato, i 3. 500 euro trimestrali delle spese accessorie di viaggio, i 1. 200 euro di spese telefoniche forfettarie annue, la dotazione per le spese informatiche di inizio legislatura pari a 5.500 euro». 

L'ex segretario dei Ds non indietreggia di un passo, anzi risponde cifra per cifra: «Ad ogni deputato – scrive qualche ora dopo Fassino – è corrisposto un Fondo per l'attività parlamentare di 3.610 euro che, per quel che mi riguarda, utilizzo interamente per i compensi ai miei due collaboratori parlamentari», specifica.

E poi ancora: «Ogni deputato riceve una diaria mensile di 3.500 euro che, per quel che mi riguarda, devolvo al Pd nazionale e veneto in misura di 2.500 euro per il sostegno alle attività politiche, utilizzando i restanti 1.000 euro a copertura delle spese per l'attività parlamentare». 

[…] 

Nella stessa seduta, mentre viene approvato e pubblicizzato un ordine del giorno per non ripristinare i vitalizi ai deputati che abbiano svolto il mandato prima del 2012, passa più inosservato un altro testo, primo firmatario il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi. La proposta: equiparare e indennità dei deputati (circa 5mila euro) a quelle dei senatori (circa 5300). Insomma, un aumento. 

Alla fine approvato in forma più tenue come un invito al collegio dei questori ad «adottare le dovute modifiche al regolamento e al bilancio della Camera al fine di tendere verso l'equiparazione del trattamento dei deputati e dei loro collaboratori a quello previsto dal Senato». «Tendere», almeno per cominciare.

Estratto dell’articolo di Niccolò Carratelli per “la Stampa” giovedì 3 agosto 2023.

Elly Schlein viene inseguita dal fantasma di Piero Fassino mentre cammina tra gli alberi di Bosco Albergati. I giornalisti che la accompagnano tra gli stand della festa dell'Unità di Castelfranco Emilia, mentre visita le cucine e si fa le foto con i volontari, chiedono alla segretaria del Pd cosa pensi del siparietto andato in scena nell'aula di Montecitorio: l'ex segretario di Ds che sventola il proprio cedolino dell'indennità da parlamentare e dice che il suo stipendio da quasi 5mila euro «non è d'oro». 

[…] però, i giornalisti tornano alla carica con la domanda su Fassino e allora Schlein si apparta al telefono con il suo portavoce, rimasto a Roma. Concordano poche righe per prendere le distanze, recapitate in tempo reale ai cronisti via WhatsApp: «Fassino ha parlato a titolo personale, in dissenso rispetto al voto del Pd. Noi continuiamo a batterci per il salario minimo».

Prima di partire verso Reggio Emilia, per partecipare a Villalunga a un'altra festa dell'Unità, si ferma a mangiare un paio di tigelle al bar della "Combriccola". […]  «Mi sembra evidente che la politica debba riallinearsi ai bisogni dei cittadini – spiega a La Stampa la segretaria – dovremmo discutere subito di salario minimo, non di indennità e vitalizi. Dobbiamo pensare a chi non arriva a fine mese, categoria a cui certo non apparteniamo noi parlamentari». 

[…]

L'imbarazzo al Nazareno è palese, ma si prova a restare concentrati sulla battaglia. Questa mattina Schlein sarà di nuovo in Aula a Montecitorio per intervenire nel dibattito che precederà il rinvio sul salario minimo: «Credo che interverremo tutti, non faremo passare facilmente questa mossa della maggioranza – assicura – un altro schiaffo a chi non ce la fa». […]

Fassino e lo stipendio: «La diaria di 3.500 euro? Va via per il Pd, gli hotel e le trasferte. La politica non è a costo zero». Gabriele Guccione su Il Corriere della Sera giovedì 3 agosto 2023.

Il deputato torinese: «Non ho detto che sia poco, non mi sono lamentato. La democrazia ha un costo, non sopporto l'antipolitica» 

Piero Fassino, 74 anni, deputato del Pd, lei ha sventolato in aula, alla Camera, la sua busta paga: non vorrà mica far intendere che un parlamentare guadagna poco?

«Basta leggere lo stenografico del mio intervento. Non ho detto che sia poco, non mi sono lamentato e ho detto che per me va bene così. Vorrei che però fosse chiaro che l’indennità che percepisce un parlamentare è meno di quello che prende un medio dirigente di azienda. Per non parlare dei magistrati o di altre alte cariche dello Stato».

Di che cifre si tratta?

«L’indennità lorda di 10.435 euro è un conto, ma da quella cifra vengono giustamente detratte l’Irpef, le addizionali regionali e locali e i contributi previdenziali. Il risultato è che l'indennità netta mensile che ogni deputato percepisce è di 4.718 euro».

Molti italiani ci metterebbero la firma…

«È una buona indennità, ma molto lontana dalle cifre astronomiche di cui spesso si parla. Il mio voto è stato un atto contro la demagogia di chi cavalca l’antipolitica per screditare il Parlamento e delegittimare la politica».

Suoi colleghi politici…

«Mi sono astenuto nel voto sul bilancio della Camera dei deputati perché, pur apprezzando il lavoro fatto dai questori, sono stati approvati tre ordini del giorno del Movimento 5 Stelle e di Fratelli d’Italia che contribuiscono a una campagna di delegittimazione del Parlamento».

Dai 5 Stelle forse ce lo si aspetterebbe, ma da FdI…?

«È facile fare demagogia, ma non è mai una buona scelta. Occorre essere seri e intellettualmente onesti e non alimentare campagne populiste. Non sopporto chi pensa che l’antipolitica sia la soluzione, tanto più quando cavalcata da chi, una volta al governo, ha moltiplicato incarichi. Come qualsiasi attività anche il funzionamento delle istituzioni democratiche ha un costo. Affittare un teatro per una manifestazione ha un costo, far stampare dei volantini ha un costo… Non si può pensare che la politica sia una attività a costo zero. Il problema è che sia pagata in modo trasparente e proporzionata alle responsabilità. E mi lasci dire che l’indennità percepita dai sindaci è assolutamente sottodimensionata rispetto alle loro responsabilità».

I parlamentari però non contano soltanto sull’indennità…

«Ad ogni deputato è corrisposto un fondo per l'attività parlamentare di 3.610 euro che, per quel che mi riguarda, è interamente assorbito dai compensi dei miei due collaboratori».

E poi c’è la diaria…

«Sono 3.500 euro al mese».

E lei come li spende?

«Li devolvo al Pd nazionale e veneto nella misura di 2.500 euro. Mi restano 1.000 euro con cui pagare le trasferte, gli abbonamenti ai giornali, le iniziative politiche. Domani sarò nel mio collegio, a Venezia, e non è che l’albergo è gratis…».

Non tutti sono così ligi come lei, molti suoi colleghi non si fanno neanche vedere nei loro collegi…

«Io parlo per me, e posso assicurare che le risorse che ricevo non rappresentano una indebita forma di arricchimento, ma le utilizzo tutte per l’attività politica e parlamentare. E sono in grado di rendicontare ogni spesa».

E chi ne approfitta?

«Ne risponderà lui, singolarmente. E in ogni caso si colpisca chi eventualmente ne approfitta, non chiunque ha responsabilità politiche».

Estratto dell’articolo di Serena Riformato per “la Stampa” venerdì 4 agosto 2023.

Piero Fassino, ex segretario dei Ds, oggi deputato Pd non ritratta. In aula alla Camera, mercoledì, ha sventolato la propria busta paga e sfidato l'impopolarità con la frase: «4718 non è uno stipendio d'oro». In barba alle polemiche (e alla nota con cui la segretaria del Pd Elly Schlein si è dissociata dalle sue parole), l'ex ministro rivendica: «Ho posto temi su cui credo sia utile che tutti riflettano». 

Si è pentito?

«No, ho fatto un discorso di verità, non ho detto nulla di eretico. Ho solo ricordato che l'indennità che percepisce un deputato è di 4.700 euro, e non è di 10mila o 12mila come spesso si favoleggia».

Quindi oggi rifarebbe lo stesso discorso?

«Non sono abituato a recriminazioni. Forse c'è stata in me l'ingenuità di credere che si potesse ragionare di questi temi in modo razionale e pacato e invece, come si è visto, non è possibile». 

Non suona male quell'uscita, mentre il Pd porta avanti la battaglia un salario minimo di 9 euro all'ora?

«Io non ho mica detto che quella indennità debba essere cambiata o aumentata. La ritengo adeguata, non mi sono lamentato. Ho ricordato che quello stipendio ha un valore e non un altro» […]

Ma non ha pensato al danno di immagine per il partito?

«Ma perché dovrebbe essere un danno di immagine dire la verità? Ho spiegato che i parlamentari non percepiscono 10mila euro ma molto di meno». 

Però dire che 4.718 euro non sia uno stipendio d'oro di certo a chi ne prende 1000-1500 può suonare male.

«Ma sono i 10mila euro che vengono definiti "stipendi d'oro"». 

Il M5s la accusa di aver taciuto altri emolumenti.

«Non è vero. Le risorse che la Camera mi eroga sono utilizzate esclusivamente per l'attività politica e parlamentare». 

La segretaria Schlein ha preso le distanze. Vi siete chiariti?

«Non ce n'era bisogno, non ne abbiamo parlato. Io ho detto fin da subito che avrei parlato a titolo personale e non a nome del gruppo».

[…] 

Qualche collega le ha detto che sarebbe stato meglio evitare l'intervento?

«Ho ricevuto anche molti consensi». 

Certo si viene da una stagione segnata dall'antipolitica.

«È ora di dire che l'antipolitica non fa bene al Paese. Abbiamo ridotto il numero dei parlamentari, adottato una legge che non consente ai cittadini di scegliersi i propri rappresentanti, eliminato il finanziamento pubblico ai partiti, tagliato i vitalizi, anche con effetto retroattivo. Tutto questo non ci ha consegnato una politica più forte». 

Perché ha votato anche contro gli ordini del giorno che chiedevano di non ripristinare i vitalizi?

«Mi sembravano ispirati da una logica demagogica. Ed è la ragione per cui sono intervenuto». […]

Altroché 4.718 euro: ecco quanto guadagna veramente un Parlamentare. Salvatore Toscano - L’Indipendente - giovedì 3 agosto 2023.

È diventato virale il video del deputato Piero Fassino (Partito democratico) intento a sventolare a Montecitorio la busta paga di luglio, pari a «10.435 euro lordi e 4.718 euro netti». «Una buona indennità ma sicuramente non uno stipendio d’oro», ha commentato l’ex sindaco di Torino, omettendo però diverse voci che fanno lievitare il trattamento economico netto di un parlamentare a quasi il triplo di quanto dichiarato in Aula. Se all’indennità (l’equivalente dello stipendio per un lavoratore) percepita da un parlamentare si aggiungono infatti la diaria, ovvero il rimborso spese per il soggiorno a Roma, le spese di trasporto e quelle per “l’esercizio del mandato” si arriva per i senatori a un trattamento economico netto di 12.540 euro, circa mille euro in più rispetto ai colleghi deputati, che possono arrivare a guadagnare mensilmente 11.700 euro netti. Il tutto non considerando sconti ed esenzioni che non figurano nei cedolini ma di certo aiutano i parlamentari ad arrivare a fine mese.

Mentre milioni di famiglie si trovano a fare i conti con il caro vita e la perdita del potere d’acquisto, alla Camera si è discusso sugli stipendi dei deputati, con questi ultimi che hanno chiesto un adeguamento salariale rispetto ai colleghi senatori. Istanza formalizzata dall’adozione di un ordine del giorno di Maurizio Lupi (Noi moderati) che impegna l’Ufficio di presidenza a incrementare lo stipendio dei deputati di circa mille euro per allinearlo a quello dei senatori. Così facendo tutti i parlamentari arriveranno a percepire quasi 13 mila euro netti al mese, non considerando sconti, esenzioni e benefici vari che impattano positivamente sulle tasche di deputati e senatori. Come si legge sul sito della Camera, “l’importo netto mensile dell’indennità parlamentare risulta pari a circa 5.000 euro. Per i deputati che svolgono un’altra attività lavorativa, l’importo netto dell’indennità ammonta a circa 4.750 euro”. Cifre pressoché identiche al Senato, dove l’indennità mensile risulta pari ad 5.304 euro (5.122 per coloro che svolgono attività lavorative).

A questa “voce base” va poi aggiunta la diaria. Per il rimborso delle spese di soggiorno a Roma i deputati e i senatori guadagnano mensilmente 3.500 euro netti e non tassati. “Tale somma viene decurtata di 206,58 euro per ogni giorno di assenza del deputato dalle sedute dell’Assemblea in cui si svolgono votazioni con il procedimento elettronico”, tuttavia “se un deputato partecipa ad almeno il 30 per cento delle votazioni previste in un giorno, è considerato presente e quindi non subisce una decurtazione della diaria”, si legge sul sito della Camera. Discorso analogo per gli inquilini di Palazzo Madama. Sia ai deputati sia ai senatori è poi riconosciuto un rimborso spese per l’esercizio del mandato: nel primo caso si tratta di una cifra pari a 3.690 euro mensili, metà dei quali servono a coprire i costi per i collaboratori, le consulenze, la gestione dell’ufficio e il sostegno delle attività politiche. L’altra metà viene invece erogata forfetariamente al deputato, senza dunque vincoli di rendicontazione. Per i senatori il rimborso segue lo stesso principio, con l’unica eccezione rappresentata dalla cifra in ballo: 4.180 euro totali e non 3.690. Considerando indennità, diaria e rimborso spese per l’esercizio del mandato i deputati guadagnano 10.345 euro netti al mese, circa 500 euro in meno rispetto ai senatori.

Non è finita qui: “per i trasferimenti dal luogo di residenza all’aeroporto più vicino e tra l’aeroporto di Roma-Fiumicino e Montecitorio è previsto un rimborso spese trimestrale pari a 3.323,70 euro per il deputato che deve percorrere fino a 100 km per raggiungere l’aeroporto più vicino al luogo di residenza e a 3.995,10 euro se la distanza da percorrere è superiore a 100 km”. Si parla dunque di altri 1100-1300 euro netti che entrano mensilmente nelle tasche dei deputati. Per i colleghi senatori, invece, la cifra è fissa ed è pari 1.650 euro. Qui vengono incluse anche le spese telefoniche, una voce che per i deputati si traduce in un rimborso annuale da 1.200 euro. Ciò vuol dire che gli inquilini di Montecitorio possono arrivare a guadagnare mensilmente 11.745 euro netti, mentre i rappresentanti del popolo a Palazzo Madama 12.540 euro. Queste le cifre che compongono il guadagno mensile di un parlamentare, lontane dalla sola indennità sbandierata da Fassino in Aula.

A tutto ciò si aggiungono poi benefici ed esenzioni varie, come le “tessere per la libera circolazione autostradale, ferroviaria, marittima ed aerea per i trasferimenti sul territorio nazionale”. Viaggi che non vengono finanziati dunque con il proprio guadagno mensile ma con ulteriori soldi dei contribuenti. Lo scorso Natale i deputati hanno ricevuto in dono il raddoppio del bonus per comprare tablet, smartphone, schermi a 34 pollici, auricolari e pc, passato da 2.200 euro a 5.500. Adesso hanno chiesto, e ottenuto, un “adeguamento salariale” rispetto ai colleghi senatori. Una richiesta decisamente fuori luogo, considerato l’attuale periodo storico, dove milioni di famiglie hanno visto bruciare i propri risparmi a causa di inflazione, caro vita e aumento del costo del denaro (attraverso i continui rialzi del tasso di interesse da parte della BCE) e ora si trovano a fare i conti con salari erosi dalla perdita di potere d’acquisto. Soltanto a fine luglio, 160 mila famiglie hanno ricevuto tramite SMS la notifica della cessione del reddito di cittadinanza, la cui abolizione è stata fortemente voluta dal governo Meloni per strizzare l’occhio alla classe imprenditoriale elettrice, che ha più volte denunciato di non trovare forza-lavoro a causa del reddito di cittadinanza, non considerando evidentemente le condizioni lavorative offerte, rasentanti spesso lo sfruttamento, soprattutto nel caso degli stagionali.

Considerando lo stipendio dato da indennità, diaria e rimborsi vari, i parlamentari italiani arrivano a percepire il miglior trattamento economico netto in Europa. A dispetto della retorica dei diretti interessati, che evitano di concentrare l’attenzione su rimborsi e benefici,  i guadagni di senatori e deputati li collocano nell’élite italiana dei contribuenti con redditi superiori ai 100 mila euro. Un’élite composta nel 2022 da 576 mila persone, pari all’1,4% dei contribuenti totali. [di Salvatore Toscano]

Il caso. Quanto guadagna un parlamentare tra indennità, diaria e rimborsi: la cifra di Fassino è quasi triplicata. Qual è lo stipendio di un parlamentare ma calcolando tutte le entrate possibili. La vicenda è esplosa dopo che il deputato del Partito Democratico ha mostrato in Aula il suo cedolino. Redazione Web su L'Unità il 3 Agosto 2023

Nei giorni in cui si parla di salario minimo e reddito di cittadinanza, Piero Fassino ha scatenato il putiferio. Il deputato del Partito Democratico, in occasione del voto per il bilancio della Camera, ha mostrato il suo cedolino ed ha affermato: “L’indennità che ciascun deputato percepisce ogni mese dalla Camera è di 4.718 euro al mese. Si tratta certamente di una buona indennità, ma non è certamente uno stipendio d’oro. Un luogo comune è che i parlamentari godano di stipendi d’oro, qui ho il cedolino di luglio 2023, è uguale per tutti. Risulta che l’indennità lorda è di 10.435 euro, da cui giustamente vengono defalcati l’Irpef, l’assistenza sanitaria, la previdenza dei deputati che è di 1000 euro, le addizionali regionali e comunali. Fatti questi giusti prelievi, l’indenità netta dei deputati è di 4718 euro al mese. Va bene? Sì. L’unica cosa che chiedo è che quando sento dire che i deputati godono di stipendi doro dico non è vero, perché 4718 euro al mese sono una buona indennità ma non sono uno stipendio d’oro“.

Quanto guadagna un parlamentare

Fassino ha anche votato ‘No’ a un ordine del giorno posto da Fratelli d’Italia per tagliare i vitalizi ai parlamentari. L’esponente Dem ha motivato la sua decisione dichiarando che si è trattata di un’argomentazione demagogica e populista. Ma quanto guadagna un parlamentare? Oltre l’indennità ai parlamentari è riconosciuta una diaria, ovvero un rimborso a loro destinato per vivere a Roma. L’importo è pari a 3.503,11 euro al mese. La diaria è tagliata di 206,58 euro per ogni giorno di assenza del deputato dalle sedute previste in Aula e per le quali si vota con procedimento elettronico. È considerato presente il deputato che partecipa almeno al 30% delle votazioni nell’arco della giornata. È stata disposta una ulteriore decurtazione di 500 euro al mese in base alla percentuale di assenze dalle sedute delle Giunte, delle Commissioni permanenti e speciali, del Comitato per la legislazione, delle Commissioni bicamerali e d’inchiesta, delle delegazioni parlamentari presso le Assemblee internazionali.

Diaria, rimborsi e trasporti

Poi vi è un ulteriore rimborso per le spese legate all’esercizio del mandato. Quest’ultimo ammonta a 3.690 euro mensili. Tale importo è erogato per metà in via forfetaria e per la restante parte rispetto a specifiche spese che devono essere attestate con dichiarazione quadrimestrale. Rientrano nella categoria i costi previsti per collaboratori; consulenze, ricerche; gestione dell’ufficio; utilizzo di reti pubbliche di consultazione di dati; convegni e sostegno delle attività politiche.

Inoltre, ai parlamentari è garantito sul territorio nazionale il trasporto autostradale, ferroviario, marittimo e aereo gratuito. In merito ai trasferimenti per e da l’aeroporto di Fiumicino, c’è un rimborso spese trimestrale in due fasce: di 3.323,70 euro, per il deputato che deve percorrere fino a 100 chilometri per raggiungere l’aeroporto più vicino al luogo di residenza; di 3.995,10 euro se la distanza da percorrere è oltre i 100 chilometri.

Spese telefoniche, assistenza sanitaria e fine mandato

Questo rimborso è stato tagliato ed oggi vale 1.200 euro all’anno, a fronte dei 3.098,74 euro precedenti. In merito alle spese sanitarie, il parlamentare versa ogni mese, in un fondo ad hoc, un importo pari a 526,66 euro. Esiste un altro fondo per il fine mandato. In questo caso il parlamentare versa ogni mese 784,14 euro e a fine mandato riceve un assegno che comprende l’80% di ciò che ha versato negli anni. A questo, è doveroso rendere noti altri due aspetti: che i costi per fare politica sono tanti e che il guadagno lordo medio e annuo degli italiani è pari a .28.781 euro. Redazione Web 3 Agosto 2023

Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” l’8 aprile 2023.

La loro storia d'amore ha avuto il palcoscenico del Grande Fratello per poi diventare un gossip virale, una palestra per gli haters, per chi vede il mondo in bianco e nero. E in quella relazione tra una senatrice (del pd) e un ex spogliarellista c'era molto colore. Ieri l'addio, dopo 9 anni, annunciato sui social, condiviso in un post dai toni civili dove si mescolano dolore, affetto reciproco, e anche un po' di rabbia per quelle intrusioni continue nella loro storia con commenti offensivi e prese in giro, anche su quei 23 anni di differenza.

Stefania Pezzopane prima che l'amore finisse, lei e Simone siete stati "aggrediti" da molti con cattiveria. Quanto ha influito questa ingerenza esterna sul vostro addio?

«La nostra storia è nata 9 anni fa e immediatamente ha scatenato un interesse morboso. L'esposizione mediatica è stata un'esigenza per difendermi e difenderci. Subito e l'aggressione è stata feroce verso la mia figura politica e verso Simone, che per tutti questi anni era ancora tacciato per il toy boy. Entrambi già sposati e divorziati, entrambi con figli, ci siamo trovati per curiosità ed amore. Ci siamo amati tantissimo ed abbiamo combattuto in maniera sovrumana per essere liberi di amarci».

Ma alla fine questa sembra un po' come una resa. O no?

«[…] La scelta di chiudere è stata una conseguenza di tante cose. Siamo stati scrutati per 9 anni, con quella ipocrisia giudicante dei falsi moralisti, abbiamo subito attacchi personali che poi diventavano politici. […] Ero candidata sindaca a L'Aquila […] e Qualcuno nel Pd locale contrastava la mia corsa e mi invitò a lasciare Simone per finta, giusto il tempo della campagna elettorale […] Abbiamo avuto anche degli stalker e da uno di questi sono stata minacciata di morte. Poi la pandemia ha cambiato i nostri equilibri, i nostri interessi, le esigenze dei nostri figli. Non siamo più una coppia, ma tra noi c'è un grande affetto […]».

[…] Su Instagram ha una foto di Meloni. Che rapporto avete?

«In Parlamento l'ho vista raramente. Ma ha saputo portare il suo partito dal 4% al quasi 30%, va riconosciuto che è stata astuta e tenace. Quando è stata eletta le ho fatto gli auguri, lo smacco è stato terribile per noi donne della sinistra, femministe che non siamo mai riuscite ad avere né una premier né una Presidente della Repubblica. Forse è lo specchio della crisi della sinistra».

 Anche la Giorgia Meloni e Elly Schlein, come lei, sono state colpite per l'aspetto fisico.

«Non è solo maleducazione. Bisogna ribellarsi, in qualche caso ho denunciato. È un modo feroce per delegittimarci, per umiliarci, toglierci la dignità. Mi scrivono sui social "nana, fai schifo, brutta,vacca". Il repertorio è vario. Non basta la solidarietà, bisogna non ridurre a satira queste cose». […]

Simone Coccia Colaiuta, l’ex di Pezzopane: «Tutti a dire “povera Stefania”, ma soffro anche io. Forse torno agli spogliarelli». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2023

La storia finita dopo 9 anni: «Noi vittime di pregiudizi, ma io non mi sono mai sentito inadeguato». Lo sfogo: «Nessuno si preoccupa di come sto io, che pure soffro» 

Stefania Pezzopane, 63 anni, e Simone Coccia Colaiuta, 39

Stefania Pezzopane, già deputata e senatrice del Pd e presidente della Provincia dell’Aquila negli anni drammatici del terremoto del 2009, ha raccontato commossa a Domenica in la fine della «storia eccezionalmente bella» con Simone Coccia Colaiuta. Ma non ha nascosto che i loro nove anni insieme sono stati accompagnati dallo «sguardo torbido» di chi non ha mai smesso di giudicarli, anzitutto per la differenza di età (lui ha 23 anni meno di lei). Da casa all’Aquila, Simone la stava guardando e si è «emozionato». Tuttavia, in un post su Facebook, il giorno dopo si è sfogato: «Tutti che si preoccupano della sofferenza e della dolcezza di Stefania, come se io avessi un cuore di pietra e i sentimenti congelati. Ma nessuno si è preoccupato di come sta Simone, per molti questo è irrilevante». Eccoci, dunque.

Simone, come sta?

«Di salute sto bene, ma sono anche dispiaciuto. Sono stati 9 anni bellissimi di fidanzamento, molto importanti per entrambi. Non potevamo chiudere andando ognuno per la propria strada, infatti continuiamo a sentirci tutti i giorni».

Chi ha deciso la rottura?

«Da persone adulte e intelligenti, ci siamo seduti e abbiamo preso la decisione. Ma il tema l’ho posto io, facendole notare che il nostro rapporto era completamente cambiato: Stefania, le ho detto, ma ti piacerebbe stare con un fidanzato che non vedi mai? Gli impegni di lavoro hanno tolto troppo tempo alla relazione».

Quelli di Stefania o i suoi?

«Entrambi eravamo occupati: io ero impegnato, lei super impegnata. Ma mentre io esco alle 8 e torno la sera alle 18, lei esce alle 7 e rientra anche a mezzanotte. Lo capisco, eh. Ma nel tempo la relazione si indebolisce. Erano settimane che ci si vedeva una volta, forse due, la sera per mezz’ora: non era sufficiente per tenere in vita un rapporto di coppia».

Pezzopane non era più libera, fuori dal Parlamento?

«Gli impegni per lei sono sempre gli stessi, perché comunque lavora come consigliere comunale all’Aquila, spesso va a Roma in quanto fa parte del direttivo nazionale del Pd, in più partecipa a tutti gli eventi di carattere politico e sociale».

Perché non vi siete mai sposati? Lo avevate annunciato.

«Perché poi abbiamo trovato una certa stabilità, in fondo facevamo una vita da sposati e il matrimonio non era altro che un legame scritto».

Si è mai sentito inadeguato, vicino a lei?

«Anche no, io mi sono sentito certo all’altezza. Sa come si dice? Dietro un grande uomo c’è una grande donna. Vale anche al contrario. Semmai mi ha fatto sentire inadeguato una certa mentalità retrograda. Ma sono felice di essere stato con Stefania un punto di riferimento per tutte le coppie che vogliono vivere come preferiscono, il che vale soprattutto per una donna, perché viene continuamente giudicata».

La differenza di età è mai stata un problema?

«Per me mai. Per fortuna abbiamo entrambi caratteri forti e siamo andati avanti contro tutto e tutti vincendo battaglie in Tribunale, minacce, diffamazioni, ingiurie e una tentata estorsione».

Lei ha un figlio, Loris, e Pezzopane una figlia, Caterina. Come l’hanno presa?

«Male, sono dispiaciuti. Loris sta per compiere 18 anni, Caterina ne ha 24. La cosa positiva è che questa storia si è chiusa con amore, senza colpa, senza rancori». 

Perché ha scritto su Facebook che nessuno si preoccupa del suo dolore?

«Perché tutti a dire povera Stefania, come se avesse subito un’ingiustizia o fosse stata fidanzata solo lei. Se dalla signora Venier ha mostrato lacrime di dolore vuol dire che qualcosa di buono l’ho fatta. Nessuno pensa che anche un uomo soffra. Altro che povera Stefania: è stata fortunata!».

Anche lei è stato fortunato.

«Certo, perché Stefania è una donna completa, intelligente, sincera, umile, generosa. Oggettivamente è una donna che mi piace. Sono stato geloso di lei, come lei di me, senza mai essere morbosi».

Adesso che è libero ricomincerà a fare lo spogliarellista?

«Siccome il fisico me lo permette, probabilmente sì, tornerò a fare lo spogliarellista. Lo avevo fatto all’inizio della nostra relazione, ma anche prima della pandemia avevo ripreso, però con il Covid è andato tutto in fumo».

Che lavoro fa, adesso?

«Lavoro sempre nel mondo dello spettacolo, faccio serate che sono molto redditizie, lavoro per le aziende. E nel tempo libero gestisco il museo “La casa del soldato”, di mia proprietà, sulla Grande Guerra: sono ricercatore autodidatta da oltre 20 anni e divulgatore delle imprese di Gabriele D’Annunzio. Ho anche il patentino che mi consente la ricerca di cimeli nella Regione Veneto».

C’è speranza che voi due ritorniate insieme?

«Adesso non saprei rispondere, ci siamo lasciati da poco. Può accadere che lei incontri un altro uomo o io un’altra donna o che torniamo insieme».

Scelga un momento di questi nove anni.

«Quando è entrata alla casa del Grande Fratello e l’ho presa in braccio. E poi tanti momenti privati, come una passeggiata: perché non è il contesto a rendere bello un momento, ma la persona con cui lo condividi».

Marco Rizzo e la nuova vita rossobruna: dai pugni chiusi ad Alemanno. Tommaso Labate su Il Correre della Sera mercoledì 15 novembre 2023.

L’ex deputato comunista: chi stava con me oggi è dalla parte dei banchieri

La testa rasata che come lui stesso ammette «fa un po’ fascista», sperimentata in un campeggio estivo nel lontano 1982 e mai più abbandonata, diventa elemento di discettazione politica quarant’anni dopo, adesso che con alcuni che «fanno un po’ fascista» Marco Rizzo potrebbe costruire nientemeno che una lista comune alle Europee. Lui, che da anni si muove come una sorta di custode ultimo dell’ortodossia comunista, non si sottrae al parallelo politico-tricologico, anzi lo rilancia. «Se non mi fossi rasato a zero a quest’ora sarei come Bersani, con ciuffetti di capelli giusto sulle tempie e sulla nuca. E io non voglio essere come Bersani, né dal punto di vista politico né da quello estetico».

All’appuntamento con l’adunata rossobruna di domenica 26 novembre, che vede la sua Democrazia sovrana e popolare («mia e di Francesco Toscano, lo scriva») nello stesso cantiere di ex missini doc come Gianni Alemanno e Fabio Granata, Rizzo ci arriva con la forza di quell’autocertificata coerenza di fondo che nell’ultimo mezzo secolo l’ha posizionato, a detta sua, sempre dalla parte della sinistra più radicale. Gli dicono e gli diranno che ora sta coi fascisti? Lui risponde coi ricordi della Torino di piombo in cui è cresciuto: «I fascisti mi hanno aspettato tre volte sotto casa. In due di queste sono scappati loro, in una io. Potevo essere morto, eh?».

Torinese, classe ’59, più volte parlamentare, leader della Rifondazione comunista che all’esordio sabaudo superò anche il Pds, Rizzo è talmente fedele al teorema del «nessun nemico a sinistra» da averlo tatuato addosso. Tolti Stalin e forse Pol Pot, forse gli unici marxisti-leninisti a cui riconosce un tasso di radicalità maggiore o comunque uguale al suo, ha descritto come più moderato chiunque, ma proprio chiunque, da Che Guevara a Massimo D’Alema, dal Subcomandante Marcos a Fausto Bertinotti, da Mao-Tse Tung ad Armando Cossutta. «Molti di quelli che facevano il pugno chiuso assieme a me sono finiti coi banchieri, con le multinazionali, con la Nato», scandisce. E quando gli si chiede se un banchiere o la Nato siano peggio di un fascista, lui, che si dice cultore dell’antifascismo militante e coriaceo, dice di «no, peggio la Nato di un fascista perché la Nato è il nuovo fascismo. Io sto dove sono sempre stato, sono gli altri ad aver cambiato idea…».

Certo, quando fa così un pochino sembra il protagonista della vecchia barzelletta sul tipo contromano in autostrada, che sentendo la notizia alla radio bofonchia tra sé e sé «altro che un pazzo contromano, ne ho visti almeno venti». Però l’uomo è così, in fondo è rimasto il pugile dilettante che menava le mani alle manifestazioni del movimento studentesco nella Torino che fu e lanciava i cori contro Piero Fassino che stava in prima fila (lui urlava «Fassinooooo!» e i suoi, a mo’ di cantilena, «lungo e cretino!»). Non è che non gli piacciano semplicemente — in ordine sparso — l’America, l’Europa, l’Australia, l’Ucraina di Zelensky, Israele, la Nato, il Pd, la sinistra italiana, il socialismo europeo, il Pse. È tutto questo, certo, ma molto di più. «Una cosa riconosco alla Schlein. Ho capito che mia moglie fa l’armocromista. È lei che mi dice sempre che abbino male i colori e come sistemarli… Ma vogliamo parlare del sindacato di Landini? La Flm (Federazione lavoratori metaleccanici, ndr) in Fiat scioperava di mercoledì perché in mezzo alla settimana fermava il ciclo di produzione e arrecava il maggior danno al padrone. Questi è vero che scioperano sempre il venerdì perché così, grazie al fine settimana, aderiscono quelli che altrimenti non avrebbero aderito…». Dà ragione a Salvini? «Salvini e Landini, Schlein e Meloni, tutte facce della stessa medaglia».

Quando gli si fa notare che potrebbero dire lo stesso dei rossi e dei bruni, di lui e di Alemanno, non fa una piega. Anzi, l’attenzione per l’adunata del 26 e tutto il dibattito sulla possibile lista comune alle Europee lo elettrizzano. «Sono passato dall’underground al mainstream. Però bello, eh?».

Marco Rizzo non è più segretario del Pc, la rivoluzione dei compagni: «Io epurato? Macché». La parabola: da Fidel ai complottisti. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 23 gennaio 2023.

Il «comitato centrale» del Partito comunista vara la svolta. Il leader uscente, la linea del «no» a tutto e le alleanze atipiche da desta a sinistra: «Dopo 13 anni era ora di cambiare»

Dopo aver detto «no» a tutto, alla fine il suo partito ha detto «no» a lui. Che, però, non condivide tale lettura. Il «compagno» Marco Rizzo, per anni segretario del Pc — uno dei due partiti comunisti esistenti in Italia (l’altro è il Pci guidato da Mauro Alboresi e guai a confonderli) — è stato sostituito da Alberto Lombardo, docente all’Università di Palermo.

Rizzo — una storica missione a Cuba al cospetto di Fidel Castro, deputato per tre legislature dal 1994 al 2004, europarlamentare dal 2004 al 2009 — aveva rifondato il Pc nel 2009 e da allora ne era stato leader. Alle ultime elezioni, dopo una campagna elettorale antisistema (No Draghi, No Tav, No vaccini, No Nato, No Ue, No sanzioni alla Russia), la coalizione capitanata da Rizzo (Italia sovrana e popolare) aveva conquistato 348.074 voti (1,24%).

La notizia della svolta alla guida del Pc è stata resa nota da uno stringato comunicato in cui si annuncia la decisione avallata «a grandissima maggioranza dal Comitato Centrale» del partito. Nella lettera inviata dal nuovo segretario Lombardo a tutti gli iscritti e militanti si comunica anche che il «compagno» Rizzo ricoprirà la carica di presidente onorario.

«Io epurato dai compagni? Macché, non scherziamo, questa svolta l’ho voluta io — spiega Marco Rizzo al Corriere —. Sono stato segretario per 13 anni, sennò poi diventa il “partito di Rizzo”. C’era quindi bisogno di energie fresche. Noi siamo impegnati su due fronti: quello della formazione e dell’ideologia e quello della concretezza e dell’azione unitaria».

Cacciato o invitato all’uscita? Di certo le tensioni, all’interno di uno dei due partiti comunisti, erano da tempo esasperate. Tanto è vero che nel luglio scorso, in piena campagna elettorale, Rizzo fu «espulso» simbolicamente dal partito con un’uscita della Federazione di Milano, che accusava il leader di aver preso decisioni non autorizzate dal «Comitato centrale», da sempre organo supremo dei comunisti. Il leader si era prima schierato contro green pass e obbligatorietà dei vaccini: «Il ministro Speranza ha fatto un esperimento di controllo sociale con i vaccini, e contro il Covid ha diminuito i medici», disse in una delle tante uscite in tv. Ma come non citare il suo commento per la morte di Gorbaciov: «Era dal 1991 che aspettavo di brindare».

Poi Rizzo aveva siglato accordi politici alquanto atipici, abbracciando sia la destra complottista di esponenti come l’ex eurodeputata leghista Francesca Donato, sia la sinistra radicale di Azione civile di Ingroia. Per non parlare poi di un accordo, in Sardegna, siglato addirittura con Il popolo della famiglia di Mario Adinolfi. Un potpourri politico che alla fine ha fatto saltare il banco.

E adesso? Il segretario uscente si vede come padre nobile di «Democrazia sovrana e popolare, coalizione che parte dell’esperienza del 25 settembre». E poi ribadisce: «C’è un tema di ricambio della classe dirigente, ora spazio ai giovani. La cosa migliore l’ha detto un nostro iscritto: Rizzo non va in pensione!”. La nostra è una direzione collettiva, prepariamo le cose assieme». C’è però il tempo di registrare un ultimo scivolone: «In Slovenia la benzina verde costa 1,242. L’Unione Europea per l’Italia è solo matrigna», ha scritto Rizzo sui social postando appunto la foto di un benzinaio in Slovenia. Che, però, fa parte della Ue dal 2004.

Che fatica il Veltroni regista. Adolfo Spezzaferro su L’Identità il 4 Aprile 2023

Quando di Walter Veltroni non c’entra niente con Good Bye Lenin!, per fortuna o purtroppo. Per fortuna, perché ha in comune con il capolavoro tedesco soltanto il salto temporale subito dal protagonista. Purtroppo, perché quello di Wolfgang Becker è un film indimenticabile, pieno di brio, di idee, di poesia in salsa Ddr, mentre questa seconda fatica cinematografica veltroniana è faticosa per gli spettatori, che rischiano di piombare nel coma da cui esce a inizio film (cantando L’Internazionale) il protagonista. Come è noto, il film narra le vicende di Giovanni, che si risveglia dopo 31 anni e si ritrova in un mondo profondamente cambiato, dove il suo amato Pci non c’è più, così come l’Urss e il Muro di Berlino. Detto questo, ossia chiarito perché è sbagliato paragonare le due pellicole, mettiamo da parte pure le critiche più politiche che cinematografiche. Perché è pur sempre un film (tratto dall’omonimo romanzo di Veltroni). Non un trattato socio-politico o un saggio sulla trasformazione culturale del nostro Paese. E’ ovvio che ci sia l’impronta dell’ex sindaco di Roma, dell’ex ministro, dell’ex segretario del Pd. Così come ci sia l’impronta dell’ex direttore dell’Unità e del critico cinematografico del Venerdì di Repubblica. Non dimentichiamoci che Veltroni ha fatto la Rossellini, L’Istituto Cine-Tv. Era scritto che avrebbe scritto di cinema e fatto cinema, potendo farlo (è Veltroni!).

Ma da qui a farlo bene, ce ne passa. Veniamo a Quando – è un film non riuscito, in sostanza per due ragioni: i dialoghi spesso appesantiscono l’andamento, di per sé troppo lento di suo, e sono dei quadretti appesi rispetto allo svolgimento della trama; uno dei due personaggi principali non è credibile. E si sa – se in un’opera di fantasia viene meno la sospensione dell’incredulità poi il gioco non funziona. Un po’ come nel caso del cameo del Mago Forest, che sbaglia le magie sul palco della Festa dell’Unità (ma il piccolo protagonista, già iper buonista, non svela il trucco non riuscito).

Questa la trama. Giugno 1984, Giovanni (Neri Marcorè) è in piazza San Giovanni a Roma per i funerali di Enrico Berlinguer, quando l’asta di una bandiera (sezione di Livorno, città fatale per il socialismo italiano) gli cade tragicamente in testa. Dopo 31 anni si risveglia dal coma, in un ospedale cattolico, accudito da suor Giulia (Valeria Solarino) ed è come una nuova rinascita, da adulto. Tutto è cambiato, il mondo che aveva lasciato non c’è più: la sua famiglia, la fidanzata, il partito tanto amato, i cantautori del cuore. Giovanni è come un liceale di 49 anni, che peraltro non ha fatto neanche la maturità, che deve imparare a muoversi nella sua nuova realtà. Ad aiutarlo, oltre a suor Giulia, che si è presa (fin troppo) cura di lui negli ultimi anni della sua degenza, c’è Leo, un ragazzo problematico affetto da mutismo selettivo (il bravissimo Fabrizio Ciavoni).

Grazie a queste due figure chiave – la suora che lo ama segretamente e il nerd disincantato dell’era dei social – il protagonista farà i conti con il passato rimasto congelato a quando aveva 18 anni. Passato che ha le sembianze di Francesca (Dharma Mangia Woods, di super tendenza), sua figlia, cresciuta dalla sua ex fidanzata insieme al suo ex migliore amico (Gianmarco Tognazzi).

Per Giovanni scoprire che la donna della sua (breve) vita si è rifatta una vita con l’amico del cuore è peggio che scoprire che dove sorgeva la libreria Rinascita, accanto alla sede ormai chiusa del Pci, c’è un supermercato. Alla fine il piccolo mondo del protagonista, fatto di cose da 18enne, di una via buonista al comunismo – 100% veltroniana – sottolineata in modo didascalico dalla battuta del film “Era sbagliata l’ideologia ma non gli ideali” – si diluisce, svanisce in un mondo di adulti, dove tutto è cambiato. Perché è andato avanti. Non in meglio né in peggio – chi è lui per giudicare – ma avanti. Il giudizio di Veltroni arriva alla fine, nel pistolotto del maturando con 31 anni di ritardo, un tripudio di buoni sentimenti applicati alla politica. Da vero, grande sognatore quale è. Che sta ancora sognando di fare cinema, ma nel frattempo lo sta facendo sul serio.

Ecco, il personaggio della suora, che fa jogging conciata da Jodie Foster ne Il silenzio degli innocenti, che pure se è bella cerca di apparire asessuata (ma poi trasalisce se Giovanni la sfiora) è tutto sbagliato. Divertente invece il cameo del “veltroniano” Stefano Fresi, cameriere con dottorato in Filologia romanza. Ma la fotografia è tutta sbagliata, “sparatissima” negli esterni, e la regia inesistente nei dialoghi è soporifera. Ci viene da aggiungere un punto interrogativo: Quando (imparerà a fare film Veltroni)?

I Radicali.

Ilaria Sacchettoni per corriere.it/sette/ - Estratti lunedì 23 ottobre 2023.

L’inconfondibile capigliatura bianca incurvata verso un sorridente Luca Coscioni. Un unico scatto ritrae due simboli di una politica cucita su diritti ineluttabili eppure dibattuti. Una sola postura intellettiva, quella di Marco Pannella e del suo compagno di partito che, a dispetto della sclerosi laterale amiotrofica, marciò spedito verso solidarietà e affermazione di sé. 

La foto (gigante) dei due marca il territorio al civico 64 di via di San Basilio a Roma sede dell’«Associazione Luca Coscioni» dove Mirella Parachini, nata in Belgio nel 1954, ginecologa, compagna storica del leader radicale, si affaccia spesso. Sandali basici e pratico taglio di capelli, Parachini è disponibile a flemmatiche rivelazioni e commenti appuntiti. 

Quarantadue anni assieme a «Marco», l’uomo dalle cinquanta Gauloise al giorno, speaker torrenziale e non violento inesauribile, il cui profilo aquilino spicca nella sala universitaria del penitenziario di Rebibbia, difficile da rimpiazzare in epoche attraversate da populismo giudiziario.  

(...) «Marco era la mia famiglia, il grande ombrello di protezione sotto il quale mi sono rifugiata per anni» spiegherà lei, con lessico intimo, nel corso della conversazione. C’è tuttavia un prologo dal quale Pannella è assente ed è l’età della formazione di Parachini, della lenta assimilazione dei grandi temi delle

campagne civili non necessariamente radicali ma globali diremmo oggi. 

La formazione

Il medico esperto nella faticosa applicazione della legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza fu, inizialmente, una furibonda sostenitrice dell’obiezione di coscienza antimilitarista. «Appena sbarcata al Partito radicale non sapevo cosa volesse dire la parola aborto» confida. «Non era una cosa di cui si parlasse (la legge è del 1978 ed è uno spartiacque, ndr )». 

Al contrario da adolescente curiosa presidiava, assieme al fratello Rolando manifestazioni e iniziative dei radicali contro la guerra.  

(...)

E il 5 marzo 1974 anche lei, come Cicciomessere, Adele Faccio, Emma Bonino e altri ancora varcò la porta di casa Pannella, un appartamento in via della Panetteria, dietro Fontana di Trevi. Lei aveva diciannove anni. Lui quarantaquattro. Venticinque anni di differenza che hanno pesato solo una volta e all’incontrario confida Parachini: «Nel ‘96 venni via dalla casa di via della Panetteria. Ero esausta. I ritmi di Marco mi avevano messo alla prova. Rientravo dall’ospedale dove lavoravo e lo trovavo con altri compagni in pieno fermento creativo tra comunicati da diffondere e fax da inviare. E il mio bisogno di riposare? Presi una casa in via Giulia: la prima notte lui venne a dormire da me. L’ho detto: era la mia famiglia». 

Il ‘74 dunque. Pannella, già giornalista a Parigi, era rientrato a Roma per dedicarsi alla militanza: «Quando lo conobbi mi si aprì il mondo. Come quando fui incaricata di chiedere a Jean-Paul Sartre un contributo e a Simone De Beauvoir un articolo da pubblicare per il numero zero del nuovo quotidiano radicale Liberazione . Allo stesso modo potevo trovarmi a cenare con Sciascia. Restavo rigorosamente in silenzio ma ascoltavo e ascoltavo. Nel ‘79 Marco gli propose una candidatura, lui chiese: “Quanto tempo ho per riflettere ? E dopo aver fumato una sigaretta rispose: “Sei venuto perché sapevi che la porta era aperta».

Parachini, intanto, faceva le sue scelte. Assistette quasi per caso al suo primo parto con epidurale («Una esperienza bellissima») e ne uscì con convinzioni granitiche: «Mi dissi: è quello che voglio fare». Poi, la vita è piena di compromessi e a Parachini toccherà occuparsi essenzialmente dell’applicazione della legge sulla interruzione volontaria di gravidanza presso uno degli avamposti di maggiore efficienza a Roma, il San Filippo Neri, lasciato qualche anno fa con la pensione. «Prima però vi furono gli anni della pratica all’ospedale di Terracina. Inizialmente, in realtà, ero al consultorio. Poi entrai. Voglio solo dire che quando si sono voluti implementare i servizi a favore della donna è stato. Mi pesa il piagnisteo di molte colleghe sulla mancata applicazione di questa legge così importante. C’è quasi un pregiudizio al contrario. Ricordo un’intervista per una televisione straniera nella quale fui censurata per non aver descritto un’Italia simile alla Polonia...».

Oggi l’associazione Coscioni prosegue la battaglia a sostegno di donne che hanno avuto una diagnosi prenatale infelice e che dunque vorrebbero abortire oltre i termini previsti dalla legge (tra le altre cose hanno lanciato la piattaforma Freedom leaks attraverso la quale è possibile segnalare in forma anonima la propria esperienza) in caso di malformazioni fetali. 

Il corpo del leader

Parachini è quella che si definirebbe con termine generico una donna «impegnata», in grado di comprendere una totalizzante dedizione agli ideali. Eppure la fisicità, quasi corporeità della militanza politica di Marco Pannella è stata, a suo dire, compagnia intollerabile. Ci sono modi differenti di utilizzare il proprio corpo in politica. Pannella fu leader generoso nella affermazione dei principi della non violenza e attorno a sé organizzò metodi di lotta estremi e rivoluzionari. Parachini soffriva molto di tutto ciò: «Non avevo margine di trattativa» dice. «Lui era pienamente consapevole di mettere a rischio la propria vita. Io comprendevo però non mi abituavo.  

Ricordo lo sciopero della fame per aumentare le risorse da destinare ai Paesi dell’Africa piegati dalla fame. Una battaglia che, lentamente, lo avvicinò a Papa Woityla. Per quanto mi riguarda era uno choc. Ricordo che tutto si fermava all’improvviso. Avevo i miei impegni ma smettevo di fare quelle piccole cose che, per quanto ininfluenti, mi parevano inappropriate. Perfino andare in palestra sembrava inopportuno». Nel 1985 il mondo tacque per assistere al Live Aid di Usa for Africa la più grande raccolta di fondi a memoria di fans. Due palchi, uno statunitense e l’altro europeo (il celebre Wembley stadium di Londra) proiettarono immagini di Bod Dylan come di Freddie Mercury, di Michael Jackson, Ray Charles, Paul Mc Cartney, Stevie Wonder, Andy Bono più altre star universali. La solidarietà era rock. Pannella anticipò prima e cavalcò poi questa onda di partecipazione. Nessuno, neppure i suoi medici erano in grado di prevedere quanto avrebbe potuto resistere.

In particolare lo sciopero della sete faceva balenare lo spettro di severe complicazioni renali. Parachini sopportava faticosamente: «Quegli scioperi mi hanno toccata anche dal punto di vista medico, assistevo come altri, alcuni dei quali luminari come Alessandro Beretta Anguissola o come Claudio Santini, a quella iniziativa estrema. Venne il momento, negli ultimi anni, in cui Marco evitò di dirmelo. Scioperava e non lo sapevo». 

Una relazione resistente e delicata assieme quella tra Marco e Mirella: «Non c’è mai stato un patto matrimoniale preliminare» svela «non eravamo una coppia tipica. Marco ripeteva che il matrimonio fra due persone sarebbe dovuto avvenire alla fine di un percorso assieme anziché all’inizio. Credo avesse ragione». 

Oggi lei, che da dieci anni ha un altro compagno, ricorda il suo congedo dall’uomo che rappresentava la sua famiglia appunto: «Ero in ospedale quando Marco morì. Aveva un tumore diffuso. “Ho due tumori” ripeteva lui gradasso» sorride. «Mi telefonarono per dirmelo e io in un momento consolatorio ricordo un abbraccio con la anestesista che era lì. Gli ultimi giorni furono scanditi dal viavai in via della Panetteria. Ricordo Clemente Mimun che ci portava la spesa, le mozzarelle... C’erano incontri. Laura Hart e Matteo Angioli lo accudivano. Venne Vasco Rossi».

Lui e Vasco

Il «Blasco» raccontò poi al Corriere la sua fratellanza con Pannella. «Vuol sempre candidarmi» rivelò «ma io so fare solo il mio di lavoro». Mai entrato nell’elenco dei candidati celebri (Cicciolina, Toni Negri, Leonardo Sciascia) del leader radicale, l’autore di Vita spericolata ha più volte testimoniato il suo affetto nei confronti di Pannella. 

Rammarichi? Malinconie? «Mi dispiace per quello che con un eufemismo definirei scarso interesse del nostro tempo ed esecutivo nei confronti delle carceri. E’ difficile pensare che Marco rimarrebbe in silenzio nei confronti di questo ordinario massacro di legalità operato da chi, di fronte ai detenuti, suggerisce di “buttare via la chiave”...».

Quali sono le differenze tra comunisti e radicali: il filo rosso tra Berlinguer e Pannella per ricucire il presente. Danilo Di Matteo su L'Unità l'1 Giugno 2023

Caro direttore, ho letto l’articolo del mio amico Savino Pezzotta e ritengo sia utile una risposta alle sue riflessioni. Pezzotta invita gli “amici di area cattolica democratica a non abbandonare il Pd perché per affrontare i problemi del nostro tempo serve un partito fatto di idee di programmi, di una classe dirigente e di numeri”.

Osservo subito che il Pd non rispondeva e non risponde a nessuno dei requisiti indicati e mi meraviglia che Pezzotta e tanti altri, che sono stati gli ispiratori della nascita di quel partito, non prendano atto di quanto è avvenuto dagli anni 2000 in poi e non fanno un esame autocritico per valutare oggi a distanza di tanti anni l’errore compiuto.

Pezzotta dice che faceva parte della “sinistra cristiana” (confesso per mia deficienza, che non so bene cosa significhi!) la quale nella consapevolezza che non era utile un partito di cattolici ma dei cattolici hanno dato vita alla Margherita e quindi all’accordo con i post comunisti per la formazione del Pds. Quel partito in quegli anni perdette subito i suoi valori di riferimento e quindi perdette la sua identità. In questa sede sorvolo sulle ragioni dell’accordo per il quale la Dc, o nella versione di Martinazzoli il Ppi, si consegnò ai post comunisti che per ottenere quello che per lungo tempo non erano riusciti ad avere sul piano elettorale avevano fiancheggiato e ispirato (!) le indagini di Tangentopoli che hanno portato alla distruzione dei partiti.

Rifletto su questo, come sai, dagli anni 90, ma qui mi preme prendere spunto dal pregevole scritto di un grande attore del nostro paese come Savino Pezzotta per mettere in evidenza l’errore storico dei “cristiani” e dei cattolici compiuto alla fine del secolo scorso. Il Pds è nato-morto da una fusione a freddo della Margherita post Dc con i post comunisti, e non avendo valori condivisi, il partito si è chiamato genericamente “democratico” eliminando più tardi anche la parola “sinistra” “perché troppo qualificante”; e “democratico“ di per sé non è un’identità perché dovrebbe essere una qualifica comune a tutti i partiti.

Quel partito non aveva le caratteristiche di “centro” né quelle di sinistra per cui oggi dopo le elezioni del settembre scorso scopre di essere di sinistra e quindi di rinunziare a quella “fusione” tra culture diverse. Dobbiamo riconoscere che nel Pd vi sono state e vi sono due sostanziali e profonde distinzioni che corrispondono a due visioni diverse ereditate dal Pci: la tendenza estremista e per usare un termine storico, anticapitalista, caratterizzata fortemente a sinistra, e una riformista.

Queste due culture convivevano nel Pci, nel partito di forte opposizione e di contestazione dei governi considerati “borghesi”, ma non potevano caratterizzare unitariamente un partito che comprendeva anche i “popolari” i quali hanno assistito inermi e hanno goduto del potere conquistato a basso prezzo! Oggi al di là del recente risultato elettorale, il Pd è al dunque: o sì divide ulteriormente e i riformisti e i popolari ritornano al “centro” con riferimento alla cultura popolare, o tutti insieme decidono che sono socialisti-socialdemocratici e il partito acquista la sua identità finalmente di sinistra.

A me pare che le ultime “primarie” (contrabbandate come congresso!) hanno posto fine all’equivoco che dura dalla fine del secolo scorso, quando la fusione tra gli ex Dc e i post comunisti aveva determinato un indistinto senza identità che, ripeto, ha nociuto al paese. Siccome finisce l’equivoco del Pds e del Pd, il nuovo partito può acquistare i valori e i contenuti di una sinistra che ritiene che i diritti civili siano quelli che sono considerati di sinistra come il superamento di genere, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la fecondazione assistita, e altro ancora, perché sono problemi capaci di caratterizzare un partito.

Questa mutazione non può consentire ai popolari, ai cattolici, ai centristi, si chiamino come si vuole, di restare in questo nuovo Pd profondamente diverso. Che cosa deve capitare per far capire loro che il Pd è stato un errore, una cosa negativa per il paese, un grande equivoco, che oggi si risolve con un partito del tutto diverso di sinistra. La valutazione che è opportuno dare ora al risultato delle elezioni politiche del settembre scorso è che l’elettore ha reagito premiando “una identità”, la destra di Meloni, l’unica che si è presentata alle elezioni con una precisa caratteristica e con coerenza. La vittoria di quel partito, ancorché con forti caratteristiche personali, dimostra che il paese ha bisogno di ritornare ai partiti, all’identità; è stanco di questo pressappochismo e di un personalismo esasperato insopportabile, e questo credo sia un fatto positivo.

Dunque se si è formata una destra e se c’è una nascente sinistra ci sarà bisogno di un’area centrale, soprattutto di una “politica di centro” che operi con una cultura sturziana per il governo e per le autonomie locali, per proteggere i diritti civili, i diritti della persona, della famiglia secondo la dottrina della Chiesa, ma anche secondo i codici della natura e della vita. Un centro dunque piccolo o grande proprio “in una situazione di grande trasformazione” deve far prevalere la sua forza politica e immedesimarsi in una forma di partito di cui si sente tanto bisogno.

Se la destra ha assunto una sua fisionomia, e si intravede una sinistra democratica socialista con riferimenti europei un centro deve pur formarsi non nostalgico né superato dai tempi, ma dinamico, come lo definiva Aldo Moro già nel 1944, o un “centro vitale” come lo definiva Arthur Schlesinger per distinguerlo dalla sinistra, con cultura di governo. Dopo un lunghissimo periodo di crisi dei partiti e delle loro identità è necessario ricostruire un “centro”, in alternativa alla sinistra e alla destra.

Un centro che si qualifica con riferimenti storici e culturali nella tradizione popolare liberale e riformista, acquista una identità che è richiesta da tanti elettori, per cui è necessario che il suo riferimento culturale il popolarismo determini “il protagonismo della persona nella solidarietà sociale” aggiornata alle nuove libertà e alle nuove complesse esigenze della società. In conclusione la vittoria della destra costringe tutti a fare i conti con la propria realtà, e a darsi un’identità in modo che gli elettori possano avere un incentivo vigoroso per andare a votare e partecipare alla vita istituzionale del nostro paese.

Pezzotta sembra molto perplesso su queste scelte che ritengo inevitabili e di grande perspicacia politica. Egli ricorda le vecchie inquietudini conseguenti alla crisi dei partiti tradizionali: quelle inquietudini sono state di tutti noi e dimostrano appunto come ognuno andasse a tentoni alla ricerca di una scelta politica convincente. Avremmo dovuto restare uniti, non ricercare alleanze tutte spurie e inadeguate perché l’idea propria del popolarismo sturziano di “una di persona che determina relazioni solidali” non era compatibile con l’indistinto del post-comunismo.

Se la buona politica deve presupporre una condivisione di valori, è arrivato il momento di aggregare quelli che hanno comuni sensibilità e comuni strategie. Tutti i valori che sono propri di Pezzotta e dei cattolici democratici sono stati traditi in questi lunghi anni dal Pd. L’elenco sarebbe lunghissimo ma certamente i valori della Costituzione, dal garantismo, al rispetto delle autonomie locali e delle Regioni, alle scelte economiche che hanno appunto aggravato la differenza tra le classi sociali assumendo “il massimo profitto economico” e hanno messo in forse la pace sociale, alla subordinazione, al movimento antisistema dei Cinque stelle per incriminare fortemente l’ordinamento giudiziario con leggi panpenaliste e punitive non coerenti con uno stato di diritto, al taglio dei parlamentari, in questi lunghi anni sono stati traditi. Come ho detto l’elenco è molto lungo e il “popolarismo” proprio non ha niente a che fare con queste sciagurate scelte.

In conclusione non basta stabilire un programma che è sempre funzionale alle grandi scelte e alle strategie, ma c’è bisogno di una ideologia, di una idea di società e di Stato. È per questa carenza che i partiti oggi esistenti non avendo una idea dello Stato della società da costruire si esercitano su un presidenzialismo di maniera e sull’ autonomia differenziata che sono contro lo spirito e la forma della democrazia parlamentare. Deve prevalere la “mediazione politica”, invocata da Pezzotta, dei partiti di centro capaci di superare ogni posizione estremista per raggiungere il bene comune. I cattolici per queste ragioni debbono abbandonare e prontamente il Pd.

Danilo Di Matteo 1 Giugno 2023

Addio a Roberto Cicciomessere, Bonino: “È stato il mio primo grande amore”. L’ex parlamentare Radicale è morto questa mattina a 77 anni. Grazie a lui, nel 1972, l’Italia ha riconosciuto il diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare. Il Dubbio il 26 maggio 2023

“Roberto Cicciomessere è venuto a mancare, ci lascia in eredità inestimabili semi di libertà. Ma anche di metodo e prassi. Intelligenza ai limiti del genio”. Così Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni, segretario, tesoriera e presidente di Radicali Italiani annunciano la scomparsa del radicale storico, morto questa mattina a Roma.

Cicciomessere è stato due volte segretario del Partito Radicale, deputato alla Camera ed europarlamentare. Grazie alle sue iniziative nonviolente, in particolare al suo arresto, nel 1972 l'Italia ha riconosciuto il diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare. Determinante nella nascita di Radio Radicale, è stato poi il precursore dell'utilizzo della telematica applicata alla politica, con la creazione di Agorà Telematica, uno dei primi Internet service provider in Italia. Successivamente è stato consulente per le politiche del lavoro, e l'estensore di importanti proposte di legge sul tema che Radicali Italiani continua a portare avanti. “Lo piangiamo con vivo affetto, ricordando i tratti di strada che ha percorso con noi sempre incarnando il cuore della prassi radicale. Il nostro impegno è sempre stato e ancora sarà di far germogliare quei semi di libertà che ha voluto condividere con noi”, concludono i tre dirigenti radicali. 

“Roberto Cicciomessere è stato il mio primo grande amore. Un carattere forte, a volte spigoloso e difficile, ma spesso si faceva perdonare. Insieme a Marco Pannella e Gianfranco Spadaccia mi ha insegnato la politica. O, meglio, mi ha insegnato a fare politica. E non una politica qualsiasi. La politica radicale. La sua intelligenza intransigente e il suo rigore intellettuale sono stati da esempio e di ispirazione per me e per generazioni di radicali. Senza le sue battaglie, a partire da quella contro la leva obbligatoria e per l’obiezione di coscienza, oggi l’Italia sarebbe un Paese meno libero”, scrive su Twitter Emma Bonino. “Grazie al suo impegno, studio e capacità di analisi – aggiunge – abbiamo avuto, tra le centinaia di altri contributi, il primo pamphlet, ‘Tutto quello che sai sugli immigrati è falso’, che smontava ogni bugia sui flussi migratori in Italia. Roberto è stata la dimostrazione che solo con i dati e l'approfondimento si può fare buona politica. Ciao Roberto, che la terra ti sia lieve”.

“Salutare Roberto Cicciomessere è una delle cose più difficili da fare. Per l'affetto e la gratitudine che provo per lui e le sue battaglie e perché so che avrebbe detestato la retorica di giorni come questo. Disobbediente, nonviolento, ispirazione continua per i compagni radicali e non solo. E anche per me stimolo costante a essere rigoroso, intransigente, coraggioso e dissacrante. Oggi l'Italia perde un pezzo della sua storia migliore, quella che ha lottato e vinto per renderci più liberi e il nostro un Paese migliore”, è l’addio su Twitter di Riccardo Magi, deputato e segretario di +Europa.

Addio Cicciomessere, il primo obiettore: Alla divisa preferì il carcere. Francesco Rutelli su L'Unità il 27 Maggio 2023

Impossibile ricordare Roberto Cicciomessere con qualunque espressione retorica. La sua asciuttezza, l’ironia tagliente meritano un rispetto accresciuto perché, si, Cicciomessere è stato veramente un protagonista degli anni cruciali del Partito Radicale.

La chiave d’ingresso: la battaglia per l’obiezione di coscienza. Dopo i primissimi rivoluzionari nonviolenti, come fu Pietro Pinna, e la testimonianza religioso-politico-umana di Don Milani (il centenario della cui nascita cade proprio in queste ore) è stato lui a rendere interamente politica quella battaglia. Attraverso la scelta coraggiosa del carcere e con la sanzione del diritto a svolgere un servizio civile alternativo (seppure di durata praticamente doppia) rispetto a quello militare. Non dimentico, personalmente, che questo mi consenti’ di presentare la mia domanda a metà anni ‘70 – e, dopo due anni di boicottaggio, a comunicare (con Angelo Tempestini e Enzo Zeno Zencovich) una forma di disobbedienza civile che avrebbe dovuto portarci in un carcere militare, e servì invece finalmente a dare tempi certi alla pratica dell’obiezione e allo svolgimento del Servizio Civile.

Non dimentico il titolo che Roberto volle dare al rapporto IRDISP (1983) sulle basi militari e gli armamenti presenti in Italia: “Quello che i russi già sanno e gli italiani non devono sapere”. Di qualche attualità, 40 anni dopo. Nell’introduzione alla seconda edizione Cicciomessere scrive: “È nostra speranza che con questa opera di divulgazione di elementi di conoscenza non coperti da segreto, ma che ci si ostina a negare all’opinione pubblica, possa mutare finalmente quella pretesa ingiustificata delle gerarchie militari e del Governo di gestire in via esclusiva la politica difensiva del nostro paese impedendo ai cittadini, e perfino al Parlamento, di esercitare la loro piena sovranità. Solo un’opinione pubblica informata, capace di sfuggire alle semplificazioni demagogiche che vengono sia dai “militaristi” che, purtroppo, da alcuni cosiddetti “pacifisti”, potrà efficacemente contribuire alla rimozione dell’assioma, finora purtroppo confermato dalla storia, della ineluttabilità della guerra che insidia l’intelligenza e la capacità creativa dell’uomo e la sua stessa possibilità d’insediamenti civili sulla terra”.

Il fermo-immagine non si addice a Cicciomessere. Si ricorda di lui il lancio del fascicolo del Regolamento di Montecitorio per protesta contro la Presidente Iotti; io ricordo l’ironia contro un deputato DC che, costretto ad utilizzare quelle pagine (che, fino all’arrivo dei radicali in Parlamento, erano sconosciute a tutti) confondeva con gran retorica un solenne articolo del Regolamento con la pagina stampata dalla tipografia. Era critico (anche con me, se troppo ‘diplomatico’), e autocritico. Fantastico, con in mano una copia del “Pensiero e Azione” di Giuseppe Mazzini: “Beh, noi abbiamo fondato ‘Azione e Pensiero’. Prima si agisce, e poi ci pensiamo”.

La portata innovativa del suo lavoro politico si legge nell’invenzione di Agorà telematica. Altro che una start-up: un cambio di paradigma tecnologico; e democratico, proprio nel rapporto tra cittadini, informazione, istituzioni. È impressionante la lista delle sue pubblicazioni scientifiche – me l’ha girata Silvja Manzi – nell’arco di molti anni in materia di lavoro e welfare: la sua ultima vita. Contributi non rumorosi, argomentati; un esempio concreto, duraturo, dialettico di riformismo. L’ultima volta che l’ho incontrato, gli ho chiesto “Come stai?”. Risposta: “Ho tre tumori”. Non se n’è mai lamentato, e anche per questo merita il rispetto dei suoi avversari. Assieme al ricordo operoso dei tanti che hanno fatto pezzi di strada comuni, e dei tantissimi che hanno beneficiato delle grandi battaglie di Marco Pannella e del Partito Radicale. Francesco Rutelli - 27 Maggio 2023

Le tre vite di Roberto. È morto Cicciomessere, il radicale più bravo, più buono e più stronzo. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 26 Maggio 2023

È stato uno dei più rigorosi e generosi intellettuali pannelliani, con uno stile che bordeggiava l’eresia e l’insolenza. È stato sia il padre della legge sull’obiezione di coscienza e della politica antimilitarista sia uno dei più precoci e risoluti contro l’inganno pacifista

Per quelli che non lo hanno conosciuto personalmente, Roberto Cicciomessere, dirigente e parlamentare radicale di lungo corso, è per lo più passato alla storia soprattutto per le sue geniali e furiose impuntature e per un carattere tanto programmaticamente intollerabile, quanto aperto alle esigenze della fantasia e dell’invenzione.

Invece è stato, al di là delle apparenze, uno dei più rigorosi e generosi intellettuali pannelliani, ma con uno stile personale che bordeggiava l’eresia e l’insolenza. Non solo all’esterno, in partibus infidelium. Ma anche all’interno di quella variegata galassia radicale, di cui Pannella provava e non sempre riusciva a orientare e controllare gli equilibri e che spesso trovava in Ciccio, come tutti l’hanno sempre chiamato tra i radicali, un Franti provocatorio e beffardo.

Aveva escogitato da deputato un ostruzionismo parlamentare agonistico, che gli costò una storica espulsione per avere contestato l’uso partitocratico del Regolamento di Montecitorio da parte della presidente Nilde Iotti del PCI, di cui ai tempi i radicali rappresentavano un’alternativa massimamente detestabile, imputando ai comunisti di essere una parte del Regime: cosa che in radicalese ha significato e significa qualcosa di molto più problematico e grave di “parte del sistema politico” e che i comunisti pativano come un intollerabile affronto.

Negli anni precedenti e in quelli successivi – in un Parlamento consociativo in cui la pattuglia radicale era costretta a usare il Regolamento come uno strumento di guerriglia e di dialogo – Cicciomessere si distinse come (diremmo oggi) un nerd insopportabile e insormontabile, uno che si poteva reprimere, ma non contraddire, che poteva essere obliterato, ma non colto in fallo, per una frequentazione con i testi, con le norme, con i precedenti che pochissimi nel Parlamento italiano maneggiavano con la stessa cura e competenza. Fino al 1992, anno in cui lasciò Montecitorio, presidenti, dirigenti e funzionari della Camera dovettero misurarsi con questo imbattibile guastatore, che senza avere mai messo una cravatta insegnava loro il lessico e la sintassi delle istituzioni parlamentari.

Anche all’interno del partito Ciccio era quello che studiava e spiegava le cose e irrideva il facilismo militante dei radical-entusiasti e, spesso, dello stesso Pannella. Era privo, cosa rara in politica, di qualunque senso di superiorità e di inferiorità. Passava ore a spiegare questioni complicatissime anche all’ultimo svogliato attivista, che quelle cose, peraltro, neppure avrebbe voluto capirle e si sarebbe comodamente limitato a sostenerle per amore di partito o di fazione. Nello stesso tempo, quando vedeva colmare un deficit di intelligenza politica con un sovrappiù di enfasi retorica, si divertiva a sfottere con un abrasivo sarcasmo lo stesso Pannella, che da questi scontri usciva spesso inferocito e sfiancato, con uno dei suo famosissimi refrain: «Ciccio sa tutto, ma non capisce un cazzo».

Nella sua multiforme avventura politica, Cicciomessere è riuscito a essere il padre della legge sull’obiezione di coscienza e della politica antimilitarista e insieme uno dei radicali più precoci e risoluti contro l’inganno pacifista. Quando nel capodanno del 1992, nelle trincee di Osijek, Pannella scelse di vestire disarmato le divise croate di fronte ai bombardamenti serbi, con lui c’erano non a caso Cicciomessere e Olivier Dupuis, che pochi anni prima si era fatto arrestare in Belgio, rifiutando il servizio militare e civile nazionale, per denunciare la drammatica esigenza di una politica di difesa europea.

Se uno si chiede perché nel sostegno alla causa e resistenza ucraina il segno nonviolento radicale oggi sia così univoco e incondizionato, la risposta rimanda culturalmente a Pannella, ma anche a Cicciomessere, che negli ultimi mesi della sua vita si doleva di come i nonviolenti non andassero a manifestare a Mosca, secondo la logica politica gandhiana e la loro posizione fosse usurpata dai pacifisti, sempre pronti a biascicare i paternostri contro l’invadenza della Nato.

Quando meno che cinquantenne uscì dalla Camera, si inventò prima una seconda vita, poi una terza, sempre seguendo il filo delle intuizioni e contro-intuizioni radicali. Nella seconda, fondò Agorà Telematica, una delle prime bbs italiane, che partì alla fine degli anni ’80 nei locali nel tesseramento del Partito Radicale al secondo piano di via di Torre Argentina e che funzionava come un sistema di democrazia elettronica, con aree di discussione multidisciplinari. Il contrario di Rousseau: non un formicaio politico intitolato a una improbabile volontà generale e manovrato da un invisibile puparo, ma una vera agorà democratica aperta e transpartitica.

Questo giocattolo di cui Pannella menava grande vanto e che Cicciomessere gli fabbricò in casa, divenne col tempo una impresa importante. Nel 1993 fu il primo Internet provider italiano e divenne una protagonista del mercato digitale e quando alla fine degli anni ‘90 fu venduta per dieci miliardi di lire, interamente destinati al finanziamento della politica radicale, come Cicciomessere ricordava non senza civetteria, questo ex parlamentare ed ex imprenditore aprì la terza pagina della sua carriera di geniale autodidatta, quella dello studioso delle politiche del lavoro e del welfare. Nell’ultimo ventennio dedicò a questo la gran parte delle sue attenzioni, lavorando per istituzioni pubbliche e private, e anticipando molte delle analisi, solo tardivamente accettate, sulla crisi irreversibile dello stato sociale all’italiana.

Sempre interessato a tutto, era disinteressato di sé, come dimostrò sempre nell’uso del denaro, che letteralmente regalava, in primo luogo, ma non solo, ai radicali. Malgrado si impegnasse, sempre con ottimi risultati, per sembrare uno stronzo, non era solo il radicale più bravo, ma anche il più buono di tutti.