Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

GLI STATISTI

QUINTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE
 


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 


 

GLI STATISTI

INDICE PRIMA PARTE


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le carte segrete del Caso Moro.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ricordando il Divo.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Secessionisti.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.

Ricordando Craxi.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Italiano per Antonomasia.

La Biografia.

Berlusconi e la Morte.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Berlusconi e la Salute.

Berlusconi e gli Affari.

Berlusconi e la Politica.

Berlusconi e lo Sport.

Berlusconi ed i Media.

Berlusconi e la Chiesa.

Berlusconi e la Cultura.

Berlusconi e la Gastronomia.

Berlusconi e gli Animali.

Berlusconi e la Famiglia.

Berlusconi e le donne.

Berlusconi e la Giustizia.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Al tempo del Nazismo.

Al tempo del Fascismo.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli eredi del Duce.


 

GLI STATISTI

QUINTA PARTE


 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I fanatici.

Il MSI.

La Moralità.

Giorgia Meloni.

Alfredo Mantovano.

Marco Tarchi.

Claudio Anastasio.

Patrizia Scurti.

Augusta Montaruli.

Gianfranco Fini.

Ignazio La Russa.

Guido Crosetto.

Francesco Lollobrigida.

Giovan Battista Fazzolari.

Francesco Rocca.

Fabio Rampelli.

Italo Bocchino.

Daniela Santanchè.

Andrea Delmastro Delle Vedove.

Giovanni Donzelli. 

I fanatici.

Il consigliere dell'Ordine degli avvocati di Torino Mussano con Edda Negri Mussolini: è polemica. Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

La presentazione del libro della nipote del duce venerdì 5 maggio al circolo Asso di Bastoni, storico luogo di ritrovo degli attivisti subalpini di Casa Pound. La sua replica: «Chi mi critica conosce l'articolo 21 della Costituzione?»

È polemica negli ambienti giudiziari torinesi in merito alla presenza di un componente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Torino, Giampaolo Mussano, 64 anni, alla presentazione del libro I Mussolini dopo Mussolini di Edda Negri Mussolini, nipote del duce. L'evento si è svolto venerdì 5 maggio al circolo Asso di Bastoni, storico luogo di ritrovo degli attivisti subalpini di Casa Pound. 

Mussano non ha partecipato come consigliere, ma all'organo di rappresentanza dell'avvocatura sono state inoltrate delle segnalazioni di carattere informale. «Una serata da non dimenticare», il commento di Mussano su Facebook a una foto che lo ritraeva insieme alla nipote del duce.

Alle elezioni del 2023 per il consiglio dell'ordine Mussano ha raccolto 681 preferenze risultando quinto fra i candidati più votati. Il 13 marzo si è proposto come presidente ricevendo nove voti a fronte dei quindici andati a Simona Grabbi.

La replica di Mussano

Non tarda ad arrivare la replica dell'avvocato. «La circostanza che susciti stupore frammisto a sdegnata riprovazione, da parte di taluni, il fatto che un consigliere dell'Ordine degli avvocati di Torino assista alla presentazione di un libro in un circolo culturale privato, e poi reputi di diffondere su un social network la fotografia che lo ritrae con l'autrice dell'opera, pone seri interrogativi sulla conoscenza, da parte dei detrattori, dei principi fondamentali della nostra carta Costituzionale», le parole di Mussano. 

«Vi è infatti da stupirsi che il contenuto dell'art.21, consacrante il principio della libertà della manifestazione del proprio pensiero, con la parola, lo scritto od ogni altro mezzo di diffusione, noto anche all'uomo della strada - continua - possa essere sconosciuto a chi dovrebbe invece possedere una formazione giuridica. Spiace dover constatare come talune sterili polemiche siano destinate a coprire di ridicolo chi se ne rende autore».

"Un tir nero con il profilo del Duce". Scoppia la polemica a Venezia. Bufera per il mezzo pesante avvistato in Canal Grande. Immediata la reazione di chi lo ha visto. Sul posto si è addirittura precipitata la polizia ma, una volta sopraggiunta, il tir era già andato via. Federico Garau il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.

A Venezia compare un autoarticolato con rappresentato su un fianco il profilo di Benito Mussolini e si scatena il putiferio. Il mezzo pesante ha fatto la sua comparsa martedì mattina, in Canal Grande. Appoggiato su una chiatta, il camion era di colore nero e avava stampato in bianco il volto del Duce. Un'immagine inequivocabile perché molto caratteristica e in formato gigante.

Il tir "scandalo"

Secondo quanto riferito dai quotidiani locali, si tratta di un mezzo al servizio dell'hotel Bauer che ha recentemente cominciato i lavori di ristrutturazione che andranno avanti almeno fino al 2025.

Immediata la reazione di chi lo ha visto. Sul posto si è addirittura precipitata la polizia ma, una volta sopraggiunta, il tir era già andato via. Stando alle ultime informazioni a riguardo, sul caso si starebbero facendo accertamenti per verificare se vi è reato di apologia di fascismo.

Il consigliere comunale Marco Gasparinetti (Terra&Acqua) ha provveduto a immortalare il camion e a postare le immagini sulla pagina Facebook del Gruppo25Aprile. "De gustibus non disputandum, ma qui siamo oltre, e lo diremmo anche se al posto di Benito Mussolini 'il Duce' ci fossero i baffoni di Stalin. Il prestigioso committente (hotel 5 stelle) non ha nulla da dire?", ha scritto.

In realtà l'hotel Bauer non solo non ha riconosciuto il mezzo come suo, ma ha addirittura provveduto a farlo spostare. Stando a Repubblica, l'autoarticolato sarebbe stato chiamato da Artcurrial, una società francese. Il mezzo serviva a portare via alcuni mobili e interni dell'albergo. Artcurrial avrebbe convocato la ditta Obiettivo per far svolgere il lavoro, e Obiettivo avrebbe assegnato l'incarico alla società Arterìa.

La bugia integrale del fascismo. La biblioteca della destra, autori e testi tra storia vissuta e costruzione del mito. Filippo La Porta su Il Riformista il 14 Dicembre 2022

Ho già accennato alla difficoltà di immaginare una biblioteca dietro i nostri partiti. Proviamo a chiederci quale potrebbe essere quella di Fratelli d’Italia. Ora, è singolare come siano degli autori di sinistra a ricostruire – con lodevole puntiglio e intelligenza ermeneutica – le narrazioni di destra nel dopoguerra: Non di sola destra (Rubbettino, Zonafranca), di Alex Bardascino e Luciano Curreri (autori di saggi separati), che hanno preso in esame sei di queste narrazioni dal 1953 al 1986.

Si tratta di opere molto diverse tra loro, che testimoniano una adesione al fascismo (in qualche caso ritrattata), e al tempo stesso invocano una qualche comprensione da parte dei lettori. Bardascino e Curreri aggiungono che si tratta di narrazioni “non di sola destra”, poiché contengono una ricchezza di elementi che sfugge alla ideologia dei loro autori. Proviamo a ripassarle velocemente. Giosè Rimanelli nel Tiro al piccione (1953) racconta il suo arruolamento nella neonata Repubblica di Salò, provenendo da un paesino del Molise, ad appena 18 anni. Per un attimo lo trattiene la “carne di Giulia” nel sole di settembre, ma “sulla strada ripresero a rotolare i camion” verso il Nord. Molti di questi volontari, anche Carlo Mazzantini in A cercar la bella morte (1986), Giuseppe Berto in Guerra in camicia nera (1955), o Roberto Vivarelli (giovanissimo repubblichino e poi autorevole storico del fascismo), “rotolano” via nel buio sui camion, che diventano una specie di grande gavetta, che porta la zuppa alle tante piccole gavette dei militi.

Il libro di Berto, accanto a Tempo di uccidere di Flaiano, è uno dei rari romanzi italiani sull’occupazione coloniale (qui in Libia), dove l’autore – pur insofferente verso la retorica ufficiale – intende onorare coloro “che servirono il fascismo con la convinzione di servire l’Italia”, chiedendo il riconoscimento della loro “sostanza umana comune a tutti i soldati e a tutti gli eserciti”. Poi Berto sarà quello che nel Male oscuro (1964) denuncerà la “mafia” degli ambienti intellettuali antifascisti. Vero. Ma quando la destra prende il potere nelle cose della cultura, come avviene adesso, non è specularmente identica? Un caso a parte sarà il romanzo “nazista” apocalittico La distruzione, del misterioso Dante Virgili ( già interprete delle SS a Salò) pubblicato nel 1970, capace di prevedere stragi e complotti, avvolto da fantasie nichilistico-paranoiche e deliri di onnipotenza. Un documento raggelante, ai limiti della psicopatologia, non solo sul sadomasochismo dell’autore ma su umori e filoni della sottocultura nazi, da un romanticismo degradato alla lettura ridicolmente strumentale di Nietzsche e Spengler. L’io narrante “spera per davvero nell’estinzione definitiva, odia profondamente il genere umano e la vita”.

Il testo più interessante è certamente Il viaggio attraverso il fascismo (1962) di Ruggero Zangrandi che dopo un primo fervore fascista ne prende le distanze, e dal regime verrà arrestato nel 1942, deportato in Germania, avvicinandosi infine all’azionismo. La percezione che il giovane Zangrandi aveva del fascismo e della sua “rivoluzione” è sorprendente: l’anticapitalismo del cosiddetto programma di San Sepolcro (tassazione della ricchezza privata – se ne ricordino Fratelli d’Italia! -, soppressione di ogni speculazione finanziaria, suffragio universale, terra ai contadini, perfino l’internazionalismo). Nei Littoriali della Cultura e dell’Arte di Palermo, nel 1938, questa universalità del fascismo si dichiara incompatibile con concezioni imperialiste e razziste. Forse così il fascismo somiglia a un informe melting pot dove troviamo tutto e il contrario di tutto, ma certo questo spiega la adesione ai Littoriali di scrittori e intellettuali illustri, da Meneghello a Pratolini, da Guttuso a Comencini, da Ingrao ad Aldo Moro.

Un altro libro della rassegna che si smarca dall’iniziale adesione al fascismo è Autobiografia di un picchiatore fascista (1976) di Giulio Salierno. Quella di Salierno in carcere (recluso dal 1953 al 1968 per omicidio) sarà una vera e propria conversione culturale, finendo in una adesione al “movimento rivoluzionario operaio” e nella solidarietà con i compagni carcerati, tutti sottoproletari. Punto di partenza di Salierno, che all’inizio degli anni ’50 militava nella famigerata sezione di Colle Oppio del Msi – almeno allora non proprio un circolo di virtuosi boyscout come tende ad accreditare Giorgia Meloni nella sua autobiografia (riferendosi ovviamente a un periodo successivo) – è il recupero degli avversari politici come “obiettivo naturale della lotta per la democrazia”. Di qui un rifiuto radicale della violenza, la quale, come invece fomentava Julius Evola, il Tolkien degli squadristi, capace di vedere nei testi sapienziali indiani il Terzo Reich, “è l’unica soluzione possibile e ragionevole”.

Commendevole è la intenzione “inclusiva” dell’agile libretto (non censurare punti di vista e linguaggi altri), certamente utile per un capitolo della storia delle idee nel passato recente. Ma tento di fare un paio di considerazioni in margine. D’accordo, le scelte di un ventenne in una situazione storicamente confusa vanno contestualizzate. Né possiamo dubitare della buona fede di tanti volontari della Rsi. Però è possibile che nel 1943 non ci si rendesse minimamente conto della natura di stato-fantoccio di quella repubblica, un governo illegittimo al servizio diretto dello straniero invasore (altro che orgoglio patriottico, piuttosto tradimento della patria!). Una volta Mazzantini volle onestamente ammettere che “se avesse vinto la parte in cui militammo non avrebbero vinto le vaghe idealità di onore, di dignità, di eroismo, che ci muovevano, ma avrebbe vinto una orrenda ideologia, un sistema di odio razziale, di intolleranza, di barbarie”. E veniamo al punto decisivo.

Le narrazioni filofasciste rievocate hanno indubbi motivi di interesse. Però messe accanto alle opere di Fenoglio, Primo Levi, Bassani – su quegli stessi anni ed eventi – mostrano l’abisso che separa le due narrazioni (qui mi riferisco solo alle opere di narrativa, escludendo Zangrandi e Salierno): sul piano anzitutto stilistico, e poi di qualità intellettuale, di sensibilità e immaginazione morale. Da che dipende? Il punto è che gli scrittori che si muovono nell’area antifascista hanno un maggior rapporto con la realtà, mentre i “solisti” di queste pagine tendono a muoversi, almeno finché restano fascisti, in una dimensione perlopiù irreale. Se la democrazia è una mezza bugia (fondata sulla finzione che ognuno sappia giudicare del proprio interesse) il fascismo è una bugia integrale sulla condizione umana perché pretende di rimuoverne la originaria infermità. Rivolgiamoci a un classico: in una lettera Manzoni dichiara la scelta di “star basso”, che significa entrare in contatto con la propria debolezza – che poi appartiene a tutti – con la propria ontologica fragilità. Ecco, il fascismo – di destra e di “sinistra”, in doppio petto ed estremista, esplicito e dissimulato – nega questa fragilità, e perciò rischia sempre di sprofondare nell’irrealtà. Filippo La Porta

Il MSI.

Fratelli d’Almirante. Il percorso carsico che ha portato la fiamma al potere, con l’armamentario missino. Piero Ignazi su L'Inkiesta il 23 Giugno 2023

Il partito di Meloni alterna ancora gli accenti tribunizi al bon ton istituzionale, ma per un vero cambio di pelle serve la revisione delle sue convinzioni. Una nuova edizione del saggio di Ignazi analizza i trent’anni in cui la destra neofascista è passata dall’irrilevanza al potere, a colpi di svolte ideologiche 

Con l’ingresso di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi dopo le elezioni del 25 settembre 2022 la fiamma, recuperata da un cenacolo di reduci nell’immediato dopoguerra, entra trionfalmente nelle stanze del potere politico. Il percorso ha avuto un andamento sussultorio e carsico.

Poco dopo la sua nascita semiclandestina, il MSI diviene il referente non solo dei reduci ex-fascisti ma anche di quell’area grigia di italiani che avevano convissuto con il fascismo pur senza esserne particolarmente attratti. Negli anni cinquanta, insieme ai monarchici e a spezzoni di notabilato meridionale moderato, il MSI ottiene risultati elettorali a due cifre in molte città del sud accedendo anche al governo di alcuni centri importanti.

Il successo è tale da prefigurare, con la cosiddetta «operazione Sturzo», la partecipazione a una lista comune con la DC per le comunali di Roma del 1952. In questo decennio il partito si offre alla Democrazia Cristiana come un rinforzo anti-comunista, per frenare ogni deriva a sinistra. La «strategia dell’inserimento nel sistema» prosegue tranquilla verso quello che appare il suo compimento: il sostegno decisivo e indispensabile alla nascita di un governo monocolore democristiano, che alla fine si realizza nell’estate del 1960, con l’esecutivo Tambroni.

La reazione all’interno della DC, i passi falsi del partito e la mobilitazione della sinistra convergono per far fallire rovinosamente l’operazione e cacciano il MSI nel ghetto dell’opposizione anti-sistema. Senza più sponde, sospinto in angolo, il partito ristagna e declina. […]

L’effervescenza sociale e la mobilitazione politica del Sessantotto, e il ricambio nella leadership con il ritorno alla guida del più battagliero Giorgio Almirante nel 1969, offrono una chance di ripresa al partito. Che infatti si concretizza nell’«onda nera» delle amministrative parziali del 1971, dove il MSI rinverdisce i fasti di vent’anni prima nel Mezzogiorno, e nel voto al nuovo presidente della Repubblica Giovanni Leone nel dicembre di quell’anno.

Il nuovo vestito adottato dal partito con la trasformazione in Destra Nazionale contribuisce a fornirgli un’immagine meno cupa e reducistica, funzionale all’acquisizione di nuove constituencies elettorali che infatti lo portano, nel 1972, al tetto dei suoi consensi, 8,7%. Ma anche questa fiammata si esaurisce presto tra connivenze, volute e subite, con servizi segreti, gruppi eversivi e terroristi, e pulsioni golpiste. […] Di nuovo si stringe intorno al MSI un cordone sanitario inscalfibile.

Il rientro del giovane Fini, già approdato alla segreteria come delfino di Almirante nel 1987, riporta il partito sui suoi binari tradizionali consentendogli una navigazione tranquilla ma senza la prospettiva di un futuro radioso. Anzi. Solo lo sconvolgimento del sistema partitico prodotto da Tangentopoli lo strappa dall’isolamento e da un inevitabile declino.

Grazie alla mano tesa del nuovo protagonista della politica italiana post-1994, Silvio Berlusconi, si aprono praterie inimmaginabili. La rapida mutazione in Alleanza Nazionale del 1995, con qualche frettolosa abiura del passato nel Congresso di fondazione di Fiuggi, consente al partito di giocare un ruolo primario nella politica italiana, ed entrare ripetutamente al governo.

Dopo aver accarezzato più volte il sogno di conquistare la leadership del centro-destra, la vicenda di AN si chiude in due tempi. Prima con il suo scioglimento quando, nel 2009, confluisce insieme a Forza Italia nel contenitore comune del PDL; e poi con la fragorosa uscita di Gianfranco Fini, insieme a un manipolo di fedelissimi, appena un anno più tardi, nel 2010, dopo aver perso la sfida lanciata alla leadership berlusconiana.

Questo epilogo è conseguente a un distacco ideale e personale tra il leader e gran parte del partito. Mentre Fini proseguiva nel tentativo di trasformare AN in un partito conservatore di stampo europeo, la sua classe dirigente rimaneva sedotta e avvinta dal populismo perbenista e qualunquista di Berlusconi, tanto da obbligarlo alla confluenza nel PDL e da lasciarlo praticamente solo al momento dello scontro finale con il Cavaliere.

La fine catastrofica del gruppo finiano di Futuro e Libertà, sepolto sotto un ignominioso 0,5% alle elezioni del 2013, e il 2,0% raccolto dal trio Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, Guido Crosetto, usciti a fine 2012 dal PDL per fondare una costola di destra, Fratelli d’Italia, sembrano seppellire definitivamente la vicenda del post-fascismo.

Invece, nell’arco di un decennio, con velocità progressivamente accelerata, tutto cambia. FDI viene trascinato dalla sua leader lungo una lenta rincorsa che prende slancio solo nel 2018, dopo l’ingresso del partito in Parlamento, e si trasforma poi in un’impetuosa cavalcata dopo la fuoriuscita della Lega dal governo giallo-verde nell’estate 2019.

Da quel momento Meloni esce dall’ombra massiccia del Salvini trionfante e, smarcandosi anche dal paternalismo berlusconiano, riesce a intercettare gli scontenti di centro-destra. FDI diventa l’interlocutore privilegiato di questa area enfatizzando le caratteristiche distintive della leadership, in particolare il côté giovane donna, sorridente quanto decisa.

I toni più estremi e radicali delle Tesi di Trieste, il corposo documento teorico elaborato nel Congresso del 2017, vengono larvatamente edulcorati, ma quando la polemica si accende viene messo in campo tutto l’armamentario sovranista-nazionalista, autoritario e securitario.

Pur senza rinnegare nulla dell’esperienza neofascista e velando appena con qualche limitata critica il regime mussoliniano, il sapiente alternarsi di accenti tribunizi e di bon ton istituzionale negli ultimi mesi del governo Draghi fornisce a Meloni il viatico per offrirsi all’opinione pubblica quale credibile alternativa e, allo stesso tempo, solerte esecutrice dell’agenda economica e internazionale del passato governo.

Ma quanto vi sia di strumentale e di congiunturale in questa linea accomodante di FDI e della sua leader lo attesterà il tempo. Certamente, un autentico cambiamento non può che comportare una revisione profonda, e inevitabilmente dolorosa, delle perduranti convinzioni del partito sulla validità della destra neofascista e dei suoi valori.

Da “Il polo escluso. La fiamma che non si spegne: da Almirante a Meloni” di Piero Ignazi, Il Mulino, 456 pagine, 19 euro.

Qualche dato oggettivo sulla storia del Msi. Risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2022.

 Caro Aldo, fa una certa impressione leggere le parole della seconda carica dello Stato che celebrano l’anniversario della nascita del Msi. Sostenere che quel partito e i suoi aderenti abbiano avuto «idee rispettose della Costituzione italiana» è un’affermazione antistorica e nessuna rievocazione può cancellare fatti ed eventi che collocano il Msi nel solco della tradizione fascista. Sarebbe opportuno ricordarlo e tenerlo sempre a mente. Giorgio Siranti

Caro Giorgio, Ognuno ha la propria storia e la propria memoria, e non la può cambiare. Non si vede perché gli ex missini dovrebbero farlo proprio ora che hanno stravinto, senza neppure dover cambiare simbolo. Forse lei sottovaluta quel che è accaduto il 25 settembre scorso. Il partito della fiamma tricolore (che non è un simbolo fascista, ma è lo storico simbolo del postfascismo italiano) ha preso oltre un quarto dei voti, staccando nettamente il secondo partito, il Pd, superato persino nell’ex rossa Toscana; e a differenza del Pd è riuscito ad aggregare alleati, ottenendo una vittoria politica ancora più netta di quella numerica. Tutto questo conferma che la maggioranza degli italiani non ha un giudizio storico negativo del fascismo, oppure non si pone il problema. E l’antifascismo sta loro antipatico, perché lo considerano — a torto — una «cosa di sinistra». Mi limito ad aggiungere alla discussione qualche dato oggettivo. Il Msi non nasce dal fascismo «istituzionale», quello dei Patti lateranensi e di Dio patria famiglia (slogan non tecnicamente fascista). Nasce dal fascismo di Salò, alleato con i nazisti. Fin dall’acronimo: Rsi sta per Repubblica sociale italiana; Msi per Movimento sociale italiano. Il partito aveva due anime. Una, ispirata da Arturo Michelini, borghese, atlantista, filoamericana, filoisraeliana. L’altra, ispirata da Pino Rauti, antiborghese, antiatlantica, filoaraba (filoarabo era anche Pino Romualdi, uno che si proclamava figlio naturale del Duce). Prevalse la prima anima, anche grazie alla scelta di Giorgio Almirante che, dopo essersi scontrato con Michelini al congresso del 1963, strinse con lui un accordo, rompendo con Romualdi (il destino li riunì: Romualdi e Almirante sarebbero morti a un giorno di distanza, il 21 e il 22 maggio 1988). Dopo Almirante divenne segretario il giovane Gianfranco Fini. Ma Rauti lo scalzò, sia pure per un breve periodo. Riconquistata la segreteria e vinte con Berlusconi le elezioni del 1994, Fini avviò una revisione storica, con un’aperta abiura del fascismo, che avrebbe dovuto condurlo a Palazzo Chigi; terminò la sua parabola conquistando lo 0,4%, con un partitino alleato di Monti. Per non sostenere il governo Monti, Giorgia Meloni e i suoi fondarono Fratelli d’Italia. Le leggi razziali sono del 1938. La Rsi rappresenta uno stadio successivo della tragedia, quando gli ebrei italiani venivano mandati ad Auschwitz, compresi i bambini veneziani di tre e quattro anni (la razzia del ghetto di Venezia non è un crimine tedesco, è opera di italiani). Inoltre, le leggi razziali e la guerra non sono un impazzimento di Mussolini, non sono l’inspiegabile devianza di un regime fin lì buono e lungimirante; sono l’esito naturale del fascismo, in cui è insita l’idea di una razza che si impone su un’altra, di una nazione che si impone su un’altra.

Il “caso” La Russa e il Msi, perché i dem vanno a caccia di fantasmi? Come con il Cav demonizzano l’avversario. Ma non sul piano della battaglia politica. Paolo Delgado su Il Dubbio il 28 dicembre 2022

Alla fine dell'inverno 1975 la sinistra extraparlamentare italiana lanciò una grande campagna per mettere fuorilegge il Msi.

Nessun partito si lasciò tentare, tanto meno il Pci. Di lì a poco sarebbero state sciolti gruppi neofascisti radicali, prima Ordine Nuovo nel 1976, poi Avanguardia Nazionale. Nessuno si sognò mai però di procedere allo stesso modo contro il Msi. Sarebbe stato probabilmente impossibile costituzionalmente e di certo politicamente sconsigliabile: forse la seconda considerazione valse ancora più della prima.

Il Msi, soprattutto nella prima fase della sua lunga esistenza, si rifaceva al fascismo e fascisti erano stati ed erano tutti i suoi dirigenti. Ma non a questo si riferisce la Costituzione quando vieta la ricostituzione del Pnf.

Il Msi, nostalgie e coreografie a parte, non si presentava come partito fascista ma tutt'al più come partito che al fascismo guardava come a un'esperienza essenzialmente positiva. Discutibile e forse anche qualcosa di più ma egualmente cosa diversa da un tentativo di ricostruire il partito di Benito Mussolini. Politicamente, la Repubblica e lo stesso Pci aveva capito sin dal dopo guerra che a quella parte minoritaria ma non inconsistente di elettorato di estrema destra bisognava offrire uno sbocco istituzionale perché questo avrebbe garantito la sicurezza della democrazia più di qualsiasi messa al bando autoritaria.

Il Msi rappresentò quello sbocco istituzionale e democratico e lo fece sempre anche negli anni della guerriglia di strada, dei pestaggi e della violenza esercitata e subìta. A differenza dei movimenti apertamente neofascisti, sul Msi non ci sono mai stati sospetti di stragismo, anche se il confine nella galassia di estrema destra era effettivamente labile, soprattutto al livello della base militante, e il ruolo di Pino Rauti è certamente più ambiguo di quello di Giorgio Almirante.

Si tratta comunque di una storia non di ieri ma dell'altro ieri. L'ultimo segretario del Msi è poi stato ministro, vicepremier e presidente della Camera. Se nel 1994, quasi trent'anni fa, era ancora comprensibile porre problemi sulla nomina a ministri degli ex missini, tanto che nel primo governo Berlusconi entrò solo Mirko Tremaglia proprio per evitare lo scandalo, di certo le cose non sono più così nel 2022, anno di grazia nel quale la leader di un partito nato come una sorta di Rifondazione missina è capo del governo grazie al voto degli elettori e non pare sospetta di tendenze assolutiste o antidemocratiche.

La campagna contro La Russa per i suoi elogi del vecchio Msi, in questa situazione, non appare solo poco fondata ma anche frutto di una disperazione culturale prima ancora che politica. E' come se la sinistra e in particolare il Pd o almeno un'area culturale al Pd molto vicina fosse incapace di combattere i rivali politici per quello che sono oggi ma solo avanzando sospetti e denunciando ombre nel pedigree, nella genealogia oppure in aree distanti da quelle dell'impegno politico.

Da questo punto di vista la levata di scudi contro la candidata 5S nel Lazio Daniela Bianchi, perché conduttrice di un programma in tv, non sono molto diverse dalla richiesta di dimissioni dalla presidenza del Senato di Ignazio La Russa.

Si tratta di un'eredità della quale il sistema politico italiano dovrebbe sbarazzarsi una volta per tutte: quella dell'antiberlusconismo, cioè di una battaglia politica combattuta per vent'anni almeno in nome del conflitto di interessi o delle malefatte, vere o presunte, del capo della destra.

Per quanto sbagliata ed esiziale per la cultura politica del Paese intero, quel modo di intendere la lotta politica era però parzialmente spiegata, se non giustificata, dalla natura stessa del berlusconismo, che rendeva quasi impossibile separare la fazione politica dalla personalità e della biografia del suo leader e fondatore. Oggi non vale più neppure quella parziale spiegazione. In termini di efficacia, oltretutto, si trattava di una strategia comunicativa perdente già allora. Oggi lo è ancora di più.

Rauti l’impresentabile, chi è l’anima eversiva del neofascismo italiano. Simonetta Fiori su La Repubblica il 28 dicembre 2022

Dalla Repubblica di Salò all'accusa di complicità nelle stragi fasciste. Oggi il "Gramsci nero" è tra le stelle polari di Giorgia Meloni 

Lo chiamavano il "Gramsci nero". Ma Pino Rauti non è stato solo un intellettuale, ma un uomo d'azione che ha incarnato in modo paradigmatico l'anima più eversiva del neofascismo italiano. Da vecchio gli piaceva dire che il fascismo non era più ripetibile "ma un giacimento di memoria a cui si poteva ancora attingere". Tutta la sua vita è stata nel segno d'una religione fascista irriducibile, pericolosamente ai bordi delle istituzioni democratiche, talvolta invischiata nelle più nefaste trame stragiste della storia repubblicana, dalle quali fu assolto in sede penale ma non sul piano morale, come disse il pubblico ministero nel processo per l'attentato di Piazza della Loggia ("La sua posizione è quella del predicatore di...

Articolo di Angela Giuffrida per “The Guardian”, pubblicato da lastampa.it il 29 Dicembre 2022.

La senatrice Liliana Segre, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz, si è trovata a vedere un governo di estrema destra prendere nuovamente il potere a Roma, e ha detto che il suo «incubo personale» è che l’Olocausto scompaia dai libri di Storia. 

Liliana Segre, 92 anni, è stata l’unica dei suoi familiari a sopravvivere all’Olocausto in cui furono uccisi sei milioni di ebrei nell’ambito della campagna bellica della Seconda guerra mondiale della Germania nazista per sterminare la popolazione ebraica in Europa.

«Che l’Olocausto possa ridursi ad appena un rigo nei libri di storia: questo è il mio incubo personale», dice Segre in un’intervista al Guardian. «Non si tratta di pessimismo, ma del frutto dell’osservazione. Osservo alcuni eventi con lo spirito di una scienziata: l’esperimento è tatuato sulla mia pelle. Qualcosa andò storto, e resta molto da fare». 

Nata a Milano, Segre fu espulsa da scuola nel 1938, dopo che Benito Mussolini, il dittatore fascista nonché alleato di Adolf Hitler, promulgò le leggi razziali. Aveva 13 anni il 30 gennaio 1944, quando fu arrestata dalla polizia fascista di Mussolini e deportata ad Auschwitz insieme a molti altri suoi familiari dalla stazione ferroviaria centrale di Milano. Fu separata dal padre, che venne ucciso il giorno seguente. La madre era morta quando lei era ancora piccola. Tornarono soltanto 25 dei 776 bambini italiani deportati in quel campo di concentramento. 

Dopo il suo rientro in Italia, Segre ha vissuto con i nonni materni nelle Marche. Soltanto negli anni ’90 ha parlato apertamente della sua esperienza ad Auschwitz e da allora ha dedicato gran parte del suo tempo a far visita a scuole e università per raccontare l’Olocausto agli studenti. 

«Noi sopravvissuti abbiamo il dovere della testimonianza», spiega. «Storia e memoria vanno di pari passo e sono il patrimonio comune del genere umano. Se la memoria svanisce come la nebbia, il mondo sarà condannato, come nel girone dantesco dell’Inferno, a perpetuare quelle atrocità».

Segre è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Mattarella il 18 gennaio 2018 – in occasione dell’80° anniversario della promulgazione delle leggi razziali di Mussolini. Messa sotto i riflettori, è diventata bersaglio di minacce di morte e dal 2019 è costretta a vivere sotto scorta. In uno degli incidenti nei quali è stata coinvolta, un insegnante veneto ha scritto su Facebook che Segre «starebbe bene in un piccolo forno». 

Le minacce contro di lei sono aumentate in modo esponenziale dopo la sua nomina a presidente di una commissione parlamentare, costituita alla fine del 2019, per contrastare razzismo, antisemitismo e incitamento all’odio. Di recente ha ricevuto minacce di morte dai No vax per il suo sostegno alla campagna vaccinale. È la persona più anziana in Europa ad avere la scorta.

«Vivere con la scorta a 92 anni è assurdo», commenta. «Ho subito attacchi razzisti, cose inverosimili. Non si tratta mai di uno scontro faccia a faccia: si consuma tutto online e viene amplificato dal web, un luogo chiuso nel quale gli hater alla tastiera scatenano i peggiori istinti con autentica ferocia, nascondendo il viso e camuffando l’identità dietro nomignoli di animali. Temo che non esistano cure efficaci per il razzismo e l’intolleranza. Bisogna combatterli entrambi. Si tratta di una guerra, come ha sempre detto Primo Levi». Lo scrittore torinese è stato uno dei pochi italiani ebrei sopravvissuti ad Auschwitz e il suo libro Se questo è un uomo è uno dei più apprezzati resoconti di prima mano dell’Olocausto.

Da senatrice a vita, Segre ha presieduto alla riapertura del Parlamento lo scorso ottobre, dopo che le elezioni di fine settembre hanno visto Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia – partito di radici neofasciste – conquistare il potere in coalizione con la Lega di estrema destra di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi. 

Durante la campagna elettorale, Segre aveva sollecitato Giorgia Meloni a rimuovere la fiamma tricolore fascista dal logo ufficiale del suo partito, ma il suo invito è stato ignorato. 

All’inaugurazione del Senato, Segre ha tenuto un discorso molto forte ricordando le conseguenze del fascismo sulla sua gioventù e facendo notare che il nuovo governo si stava insediando nel mese del centenario della Marcia su Roma di Mussolini, l’evento che diede il via ufficiale all’epoca fascista.In seguito, la senatrice a vita ha stretto la mano e ricevuto fiori da Ignazio Benito Maria La Russa, neoeletto presidente del Senato, che colleziona cimeli fascisti. Lunedì scorso La Russa è stato criticato per aver celebrato il 76° anniversario della creazione del defunto Movimento Sociale Italiano, partito neofascista cofondato da suo padre.

 «Il mio discorso era scritto con il cuore, sapendo che la nuova maggioranza parlamentare si ispira agli ideali della destra con qualche tendenza nostalgica», dice Liliana Segre.

La Costituzione italiana vieta il fascismo e la rifondazione dei partiti fascisti. «La nostra Costituzione è antifascista, una sorta di scudo stellare. Rispettare ciò e applicarlo è nostro dovere, l’elisir di una vita democratica», conclude Segre che poi aggiunge di essere «orgogliosa» del suo ruolo di senatrice a vita. «Io, sopravvissuta ai campi di sterminio, in questa fase della mia vita inaspettatamente sono diventata parlamentare. Il mio auspicio per il futuro è che la memoria trionfi sempre». (Traduzione di Anna Bissanti)

Pino Rauti responsabile del terrorismo nero? Quindi accolliamo a Berlinguer i delitti delle Br…Federico Gennaccari su Il Secolo D’Italia il 28 dicembre 2022.

Prima la Fiamma, ora la nascita del Msi e la figura di Pino Rauti. Ancora una volta politici, giornalisti e intellettuali di sinistra si scagliano contro la storia della Destra dimostrando di non conoscerla affatto (come peraltro non conoscono neppure la storia del Pci) per cui sembrano fare la gara a chi la spara più grossa. Rauti in prima pagina su “Repubblica” come fondatore del Centro Studi Ordine Nuovo viene accusato di portare «la responsabilità politica di tutti gli atti del gruppo” compresi quelli compiuti dal Movimento Politico Ordine Nuovo negli Anni Settanta. Un clamoroso falso.

Cosa c’entra Concutelli con Pino Rauti?

Usando la stessa logica applicata a Rauti da Eugenio Occorsio (figlio di Vittorio, il magistrato ucciso da Pierluigi Concutelli, “capo militare” del MpOn il 10 luglio 1976), si dovrebbe affermare che Enrico Berlinguer era responsabile politico degli atti compiuti da Alberto Franceschini e gli altri comunisti reggiani quando poi sono entrati a far parte delle Brigate Rosse. Chiaramente non si può affermare ciò di Berlinguer, esattamente come non si può addossare a Rauti le responsabilità per quanto compiuto da coloro che nel 1969 non vollero rientrare nel Msi e fondarono, proprio in contrapposizione con Rauti, il Movimento Politico Ordine Nuovo. E poi Evola “ideologo del fascismo e del nazionalsocialismo”.

Ferrara ricorda il milazzismo e i voti missini per Segni e Leone

Abbiamo voluto fare questo esempio per far capire la pretestuosità degli argomenti usati da “Repubblica”,  da politici del Pd e di Azione contro le dichiarazioni di Isabella Rauti e Ignazio La Russa che hanno ricordato l’anniversario del Msi, fondato il 26 dicembre 1946. Vogliono criticare il Msi lo facessero, ma studiassero, leggessero, si documentassero. Non a caso nei giudizi sul Msi si distingue uno come Giuliano Ferrara che da militante e dirigente del Pci è stato un avversario politico, ma non è uno sprovveduto e quindi su “Il Foglio” afferma «che è legittimo, che non crea imbarazzo alcuno, ricordare il Msi» (poi naturalmente da ex comunista ne dice peste e corna). Ferrara, ad esempio, ricorda talune vicende storiche come il governo Milazzo in Sicilia che alla fine degli anni Cinquanta era appoggiato assieme dal Pci di Togliatti e dal Msi di Michelini, nonché il voto missino determinante per l’elezione di Segni e di Leone alla presidenza della Repubblica nel 1962 e nel 1971.

La storia della destra va studiata e conosciuta

Eh sì perché la storia della Destra e del Msi è poco conosciuta ma I libri sulla storia della Destra ci sono, bisogna leggerli. Ne ricordiamo due di Adalberto Baldoni “La Destra in Italia 1945-1969” dove approfondisce e ricostruisce le vicende della fondazione del Movimento Sociale Italiano fino alla morte del segretario Arturo Michelini, e “Destra senza veli 1946-2018. Storia e retroscena dalla nascita del Msi a Fratelli d’Italia”. Leggendoli si potrebbero fare scoperte interessanti da trasformare in quiz. Pino Rauti “il più impresentabile, tra gli impresentabili” e “anima eversiva del neofascismo italiano” come lo definisce Simonetta Fiori su “Repubblica” è stato invitato al congresso di fondazione dei Democratici di Sinistra nel 1997? La risposta è sì, D’Alema volle invitare anche lui, allora segretario del Movimento Sociale Fiamma Tricolore.

I contatti tra Rauti e i giovani del Pci

Rauti e i giovani missini sono stati mai corteggiati dai giovani del Pci guidati da Enrico Berlinguer? Anche qui la risposta è sì. Rauti scrisse anche un articolo per il giornale comunista “Pattuglia” e ci furono incontri e scambi politici nel nome dell’antiamericanismo dovuto precisamente all’opposizione al Patto Atlantico.

Già nel 1952 erano missini i sindaci di Benevento e Foggia

Altre scoperte che si possono fare riguardano la storia del Msi. Quando sono stati eletti i primi sindaci missini di capoluoghi di provincia e i primi assessori? Nel 1993? No sbagliato, quasi quarant’anni prima, nel lontano 1952 erano missini i sindaci a Benevento e a Foggia, mentre assessori vennero nominato anche a Napoli con la prima Giunta Lauro e in altre città dove la coalizione fra missini e monarchici vinse le elezioni.

Potrebbero scoprire che il Msi non è nato come partito neofascista, ma voluto da Romualdi come partito postfascista, e poi è sempre stato più un partito conservatore che altro sin dal 1950 quando i moderati assunsero la guida del partito con Augusto De Marsanich e poi con Arturo Michelini che per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta perseguì la politica dell’inserimento, eleggendo Gronchi alla presidenza della Repubblica nel 1955 e astenendosi su qualche governo fino a sfruttare la possibilità del governo Tambroni (retto alla Camera dal voto determinante missino) nel 1960 ma sbagliando clamorosamente con la scelta di tenere il congresso del Msi a Genova.

Si scatenò la reazione della piazza social-comunista e il Msi dovette rinunciare al congresso e poi al governo per entrare nell’isolamento da cui uscirà più di trent’anni dopo, nel 1993-1994. Un Msi conservatore che infatti è sempre stato contestato da quanti si collocavano nell’estrema destra (e dalla minoranza interna) o si definivano “fascisti” o “neofascisti” e non è mai stato sciolto per ricostituzione del partito fascista, accusa mossa da più procure ma sempre respinta.

Borghi (Pd): il Msi era votato da milioni di persone

Un partito che in quarantasette anni di storia ha tenuto 17 congressi (alcuni dei quali molto animati, forse anche troppo) partecipando alla vita politica italiana, anche se chi ea di destra veniva ritenuto un “cittadino di serie B”. Del resto c’è un esponente del Pd, il senatore Enrico Borghi che pur criticando il Msi riconosce che «sia detto per sgombrare il campo da infantili letture, era certamente legittimato in un sistema democratico ad esistere. Il Msi è stato un partito votato da milioni di italiani, è entrato in Parlamento, e mai nessuno si è sognato (tantomeno Togliatti!) di metterlo fuori legge».

La svolta di Fiuggi non è incompatibile con il Msi

Ricordare il Msi e quel cammino iniziato il 26 dicembre 1946 non vuol dire rinnegare la svolta di Fiuggi, perché la traversata della Destra è cominciata quel giorno con Romualdi, Almirante, De Marsanich e Michelini, poi si è evoluta in Alleanza Nazionale per finire poi con Fratelli d’Italia che ha raccolto il testimone della Destra italiana fino ad arrivare al governo Meloni.

E’ questo che dà fastidio per cui, comprendiamo i tentativi di “Repubblica” e dei vari esponenti del Pd di voler accreditare una Destra “neofascista” e “nostalgica” per mettere in difficoltà la Meloni, ma si rassegnino e soprattutto studino la storia dei partiti, non solo del Msi ma anche del Pci.

Francesco Borgonovo per “La Verità” il 29 Dicembre 2022.

Sarà pure stantio e nauseante, ma va riconosciuto che l'allarme fascismo funziona sempre. Sono bastati un paio di tweet di Ignazio La Russa e di Isabella Rauti sul Msi per far ripartire il circo sulla «minaccia nera», e i media progressisti hanno potuto tirare un sospiro di sollievo: ora possono finalmente levare dalle prime pagine il caso Soumahoro e le porcherie del Qatargate, e possono tornare a infierire come ai bei tempi sui rappresentanti del Male assoluto. 

In fondo, la cagnara sulla memoria del Movimento sociale serve soltanto a questo: a consentire alla sinistra di ribadire (prima di tutto a sé stessa) la propria superiorità morale. Come a dire: noi saremo pure corrotti, ma quelli restano fascisti, ergo siamo sempre i migliori.

Tutto prosegue secondo copione: i parlamentari del Pd che si indignano e pretendono addirittura le dimissioni del presidente del Senato; i maniaci di Twitter che si consumano i polpastrelli a colpi di indignazione; i presunti intellettuali che si mobilitano, ripongono per un istante la fetta di pandoro e si mettono a sbraitare «vergogna!». 

Nel bel mezzo del putiferio, almeno per qualche ora i sacchetti pieni di contanti passano in secondo piano assieme ai favori concessi agli emiri. Chiaro, serve una bella faccia tosta per mettersi a cianciare di pericoli per la democrazia dopo l'euroscandalo, ma sappiamo bene che tra i progressisti il bronzo abbonda, e sembra pure impossibile da scalfire. A dimostrarlo basta un piccolo ma non insignificante particolare.

Fra qualche giorno - per la precisione il 13 gennaio - in prima serata su Rai 3 andrà in onda un documentario intitolato Lotta continua a dedicato al noto movimento comunista. Su queste pagine ne abbiamo già dato conto: ispirato al libro I ragazzi che volevano fare la rivoluzione di Aldo Cazzullo, il docufilm è stato prodotto da Verdiana Bixio per Publispei con Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Documentari e Rai Play.

Insomma, si tratta di un bell'investimento pubblico che verrà adeguatamente esibito sulle emittenti pubbliche. Si tratta, giusto riconoscerlo, di un'opera tecnicamente ben fatta e molto suggestiva, ma che suscita qualche perplessità sul piano politico. 

Il documentario fa udire giusto un paio di voci critiche, tra cui spicca quella di Giampiero Mughini, ma per il resto assomiglia a una celebrazione di Lotta continua, e offre ampio spazio agli ex militanti oggi famosi per rivendicare la bontà del proprio impegno negli anni di piombo. In particolare, colpisce l'atteggiamento dello scrittore Erri De Luca: non solo non rinnega nulla, ma appare anche piuttosto tollerante (per usare un eufemismo) riguardo all'utilizzo politico della violenza.

Quale sia l'impostazione del film lo si evince con chiarezza dal comunicato ufficiale rintracciabile sul sito della Rai. «Sul finire degli anni Sessanta, mentre la rivoluzione anti sistema accomuna i giovani di tutto il mondo», si legge nel testo, «in Italia nasce un gruppo rivoluzionario particolarmente interessante per capacità di aggregazione, aggressività politica e personalità dei dirigenti».

Già: l'aggettivo più indicato per descrivere Lotta continua è proprio «interessante». Sempre dal comunicato ufficiale apprendiamo anche che «la serie racconta le storie, i valori, i sentimenti e i ricordi di alcuni di quei ragazzi. Dopo lo scioglimento del movimento, alcuni di loro sono diventati politici, giornalisti, manager. 

Sono quelli di cui conosciamo i visi e riconosciamo la voce. Altri hanno preferito continuare la lotta attraverso forme più violente e drammatiche, ma la maggior parte ha semplicemente abbandonato l'attività politica. Il capo di tutti, l'uomo che fondò e sciolse Lotta Continua, il ragazzo che conquistò gli intellettuali e sedusse una generazione, Adriano Sofri, ha scontato 15 anni di carcere per un omicidio per il quale si è sempre dichiarato innocente».

Capito? Fu tutto molto affascinante, molto seducente. E pazienza se così, en passant, ci scappò qualche morto. E rieccoci al punto. Il Movimento sociale italiano si è regolarmente presentato alle elezioni per decenni, non è mai stato eversivo (come qualcuno ha provato a insinuare ieri), ha sempre rispettato la prassi democratica. Eppure da sinistra considerano «vergognoso» che qualcuno lo ricordi. In compenso, sulla tv di Stato può andare in onda una serie in cui si racconta che una certa simpatia un movimento extraparlamentare destinato a rimanere nella Storia per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Il nodo è sempre lo stesso: la superiorità morale. A sinistra si ritengono migliori anche e soprattutto quando sbagliano. E pervertono la Storia al punto da trasformare in oro persino i loro anni di piombo.

Post di Mentana asfalta la sinistra: «È vecchia: sul Msi dice lo stesse cose di 30 anni fa». Michele Pezza su Il Secolo d’Italia il 29 Dicembre 2022.

C’è solo il vuoto di idee, di tesi e di programmi dietro l’aggressione a chi, come Ignazio La Russa e Isabella Rauti, ha osato ricordare l’anniversario della fondazione del Msi. A sostenerlo è non è un nostalgico della Fiamma tricolore ma un giornalista distinto e distante dalla destra come Enrico Mentana. È suo il lungo post in cui il direttore di Tg La7 esorta gli ayatollah della sinistra nostrana ad aggiornare il logoro armamentario politico di cui dispongono. «Il Msi – vi si legge – è stato in parlamento dalla nascita fino al passaggio a Alleanza Nazionale. Trentotto anni. E non solo da “emarginato“: nel suo ultimo anno di vita prese il 31% alle elezioni comunali di Roma e, subito dopo, alleato con la neonata Forza Italia e in parallelo con la Lega, vinse le politiche. Molti articoli di oggi sono praticamente uguali a quelli di allora».

Così Mentana su Fb

Acqua gelata per menti intorpidite. Tanto più che il ricordo della nascita del Msi viene puntualmente celebrato. Se quest’anno ha suscitato polemiche è perché a riproporlo, tra gli altri, sono stati il presidente del Senato e una sottosegretaria. A dimostrazione che a dare fastidio non è tanto la commemorazione del Msi quanto il fatto che i suoi eredi siano al governo. Ma torniamo a Mentana. «La novità del 1994 – scrive ancora – fu la fine dell’arco costituzionale, e cioè l’ammissione della destra nel gioco politico grazie al bipolarismo. La novità del 2022 è che quella destra ha vinto le elezioni». Altra acqua gelata. Seguita da altro choc a carico della sinistra.

Chi ha consentito tutto questo, avverte ancora Mentana, non è né La Russa né la Rauti né Giorgia Meloni «ma gli elettori che li hanno votati». Della serie: la verità spesso fa male. «Dar dei fascisti a questi milioni di elettori – infierisce il giornalista – è un po’ più difficile. E sarebbe ora di cominciare ad analizzare più seriamente ed approfonditamente alcuni fatti scomodi ma evidenti». Quali? «Che la destra piace più del centrodestra, e che la sinistra piace sempre meno». Morale: «Coloro che non vogliono questa destra hanno un solo modo per batterla, e non è l’anatema (…), ma un’offerta politica migliore sulla scia di una diversa idea di futuro». Mentana conclude così: «Servono idee più che persone, analisi autocritiche più che invettive, futuro più che nostalgia, politica più che corretta amministrazione». Parole sante.

Anatemi sul Msi e soldi pubblici per il Pci. Francesco Giubilei il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Gli attacchi da parte di numerosi esponenti della sinistra italiana nei confronti di Ignazio La Russa e di Isabella Rauti, colpevoli di aver ricordato la nascita del Movimento Sociale Italiano, si scontrano con una grande ipocrisia di fondo

Gli attacchi da parte di numerosi esponenti della sinistra italiana nei confronti del presidente del Senato Ignazio La Russa e del Sottosegretario Isabella Rauti, colpevoli di aver ricordato il 26 dicembre la nascita del Movimento Sociale Italiano, si scontrano con una grande ipocrisia di fondo. Molte delle persone che oggi puntano il dito contro La Russa e la Rauti, a inizio 2021 celebravano i cent'anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano. Si tratta in larga parte di politici e personalità che non hanno mai condannato i crimini del comunismo e che pretendono di dare patenti di democrazia alla destra. Ora il nuovo bersaglio diventa il Msi arrivando addirittura a chiedere le dimissioni di chi ha ricordato un partito che per quasi 50 anni è stato in parlamento.

Ci sono varie differenze tra la storia del Msi e quella del Pci ma ce n'è una che oggi riguarda i contribuenti. Come si evince dal sito della presidenza del Consiglio, con la legge del 27 dicembre 2019, n. 160, è stato previsto, in occasione del centenario della fondazione del Pci, l'assegnazione di «risorse finalizzate alla promozione delle relative iniziative culturali e celebrative».

Tali risorse servivano per iniziative culturali rivolte «alla promozione e divulgazione, a livello nazionale e/o internazionale con particolare riguardo verso le giovani generazioni degli eventi, delle personalità e delle motivazioni storico, sociali e culturali, che portarono alla fondazione» del Pci. L'ammontare delle somme disponibili ammontava per l'anno 2021 a 800mila euro. Soldi pubblici per celebrare la nascita del Pci di cui «50% da destinare a istituzioni ed enti pubblici e al 50% da destinare ad enti privati senza fini di lucro (per un totale di euro 400.000)». Se i soggetti pubblici ammessi al contributo sono principalmente università, i dati interessanti emergono dai soggetti privati che hanno ricevuto le erogazioni. Tra questi c'è la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna con 31.150 euro, l'Istituto storico della resistenza e della società contemporanea nella provincia di Livorno per 32.620 euro, la Fondazione Gramsci onlus con sede a Roma che ha ricevuto 50.000 euro, così come l'Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. 48.000 euro i fondi erogati alla Fondazione Gramsci di Puglia, 29.000 dall'Associazione Studentesca Universitaria Unica Radio. Quando si fa notare l'incoerenza di accusare chi ricorda il Msi e poi celebrare il Pci, la risposta più frequente è che in Italia abbiamo avuto il fascismo e non un regime comunista. L'obiezione è molto semplice: perché dobbiamo utilizzare quasi un milione di euro pubblici per celebrare un partito che si rifà a un'ideologia che ha fatto milioni di morti come il comunismo? Se gli ex militanti del Pci vogliono ricordare il loro partito sono liberi di farlo, così come gli ex missini perché la storia non si cancella, non chiedeteci però di dover anche utilizzare i soldi dei contribuenti per celebrare il comunismo.

Vietato celebrare la nascita del Msi. La sinistra scatena l’Inquisizione contro Isabella Rauti. Stefania Campitelli su Il Secolo D’Italia il 27 dicembre 2022.

Vietato celebrare l’anniversario della fondazione del Msi, il partito fondato da Giorgio Almirante, Rauti e Michelini che ha segnato quasi 50 anni di storia di vita italiana. “Oggi voglio ricordare il 26 dicembre di 76 anni fa, quando, a Roma, nasceva il Movimento sociale italiano. Onore ai fondatori e ai militanti missini”. Un innocuo post scatena l’inferno delle opposizioni, che si stracciano le vesti e urlano all’attentato costituzionale. Specie se a firmarlo è Isabella Rauti. Doppiamente colpevole, chissà perché.

Il post di Isabella Rauti sul Msi

Anzi loro (Pd e Terzo Polo) provano a spiegarlo. La Rauti è sottosegretaria alla Difesa del governo di Giorgia Meloni, quindi dovrebbe tacere. A rompere il ghiaccio è Federico Fornaro, dell’ufficio di presidenza del gruppo Pd-Italia democratica e progressista, secondo il quale la senatrice di Fratelli d’Italia (che alle elezioni ha battuto nel collegio Emanuele Fiano) avrebbe “tolto anche l’ultimo velo di ipocrisia”. Perché ha reso onore ai fondatori di un partito nato “su iniziativa di esponenti del vecchio regime e della Repubblica Sociale Italiana”. E giù teoremi grondanti antifascismo militante e ignoranza storica. Rauti ha da poco giurato «sulla Costituzione italiana, vera grande eredità della Resistenza antifascista”. A questo punto – è lo sport preferito – l’opposizione chiede alla premier “parole chiare” sul presunto incidente.

La sinistra corre a processare la senatrice di FdI

Ma non basta. Qualcuno storce il naso perfino davanti alla conclusione del post. “Le radici profonde non gelano”, parole prese in prestito dal Signore degli Anelli (non dal Mein Kampf), molto amate dalle giovani generazioni di destra per rivendicare la fedeltà alle fonti ideali e culturali di riferimento. Tutto qui.  Ma per il ‘calendiano’  Osvaldo Napoli quelle remote radici “sono un problema per la destra”. Perché  il Msi “aveva un orizzonte di valori e di ideali che erano e sono una minaccia per la democrazia liberale finita soffocata nei vent’ anni di regime fascista”.

Meloni: andiamo fieri della fiamma nel nostro simbolo

Nel post della senatrice di FdI compaiono alcune vecchie foto con il simbolo della fiamma tricolore e la scritta “Viva il Msi”. Nulla di grave, direte. Ma per la sinistra è troppo. E torna a scagliarsi contro il simbolo del Msi che in campagna elettorale è stato l’oggetto privilegiato del centrosinistra a corto di argomenti contro il partito del premier. Liliana Segre è arrivata a chiedere a Giorgia Meloni di togliere quel simbolo dal logo di FdI. Ma quella fiamma – la sinistra non lo sa o finge di non saperlo – non ha nulla a che fare con il fascismo. “È il riconoscimento del percorso fatto da una destra democratica nella nostra storia repubblicana, ne andiamo fieri”, ha chiarito la Meloni mettendo tutti a tacere.

Il Msi è parte della storia d’Italia. Onorarne i fondatori è un atto dovuto, altro che scandalo. Mario Landolfi su Il Secolo D’Italia il 28 dicembre 2022. 

No, il Msi non fu un «partito orrendo» (copyright Giuliano Ferrara). Fu, semmai, una riserva di persone per bene accomunate dalla condizione di esuli in patria. A tanto li condannava la scelta di militare in un movimento, i cui fondatori avevano accettato il verdetto della storia ma non i giudizi liquidatori sul regime mussoliniano. E neppure il ribaltone venticinqueluglista che nello spazio di un annuncio radio aveva trasformato gli italiani da tutti fascisti in tutti antifascisti. E questo spiega perché a unire i missini non era tanto un programma elettorale quanto uno stato d’animo, ben condensato nella formula «non rinnegare, non restaurare».

L’accanita discriminazione contro il Msi

È qui, infatti, in questo primato della psicologia sulla politica che s’innerva la storia – tormentata ed esaltante – del Msi, partito sopravvissuto con successo alla più accanita discriminazione mai sperimentata nella storia di una democrazia occidentale. Ma nello stesso tempo partito che frequentava il Parlamento, praticava la democrazia, celebrava congressi, alternava leadership, partoriva correnti, subiva scissioni, sosteneva governi e inquilini del Quirinale. Partito vivo e reattivo, che le ha prese e le ha date in nome di un anticomunismo senza compromessi in anni in cui – per dirla con parole altrui – lo spaccio della bestia trionfante aveva i portoni spalancati e un commercio avviatissimo.

I voti in frigorifero

Certo, il Msi si beava del proprio isolamento e custodiva gelosamente in frigorifero i propri voti. Ma all’occorrenza sapeva scongelarli. Predicò e praticò, infatti, opposizione dura, ma corteggiò Malagodi, si unì ai monarchici, inglobò reperti di antiquariato democristiano e pezzi di società civile (tra cui il marito della senatrice Liliana Segre) ai tempi della costituente di destra. L’obiettivo, manco a dirlo, era uscire dal ghetto e farli contare quei tre milioni di voti che andavano e venivano a seconda dell’intensità dell’anticomunismo della Dc, di cui si sentiva spina nel fianco. Insomma, piaccia o meno, a modo suo il Msi è stato tra i protagonisti della Prima repubblica nata dalla Resistenza. Rendere perciò onore a chi l’ha fondato è un atto dovuto, altro che scandalo.

Sansonetti e Ferrara difendono il Msi: fu un partito che diede ricchezza alla democrazia. Vittoria Belmonte su Il Secolo D’Italia il 28 dicembre 2022. 

Ricordare la fondazione del Msi è legittimo, nessuno scandalo. Gli indignati a comando dovrebbero solo tacere anziché correre a twittare le loro ridicole condanne. Lo sostiene Piero Sansonetti oggi sul Riformista e gli fa Eco, sul Foglio, Giuliano Ferrara. Non a caso si tratta di due giornalisti di lungo corso, colti, conoscitori della storia politica italiana e non improvvisati esperti che sfornano un inutile libro all’anno e ripetono in modo pappagallesco i luoghi comuni che trovano su wikipedia.

Sansonetti: il Msi fu un partito democratico di massa

Detto ciò, vediamo cosa hanno scritto i due. Sansonetti sul Riformista annota: “Il senatore La Russa ha celebrato con un tweet l’anniversario della fondazione dell’Msi. Il senatore La Russa è il presidente di una delle due Camere del Parlamento. Il Pd ha chiesto le dimissioni del senatore La Russa. Perché? Perché non rappresenta tutto il Paese. Vero: non lo rappresenta”.

Secondo voi – continua Sansonetti – Ingrao rappresentava tutto il paese? O la deputata Nancy Pelosi rappresenta l’America? La fondazione del Msi, nel 1946, che raccolse molti vecchi militanti fascisti, per il Pd fu una ferita alla democrazia. Io non credo che sia così. Il Msi fu un partito vero, di massa, democratico, che diede rappresentanza all’estrema destra e al popolo nostalgico del fascismo. Diede ricchezza alla democrazia. La rese più piena”.

Ferrara: il Msi non fu un movimentaccio populista

Più duro Giuliano Ferrara, che giudica il Msi un “partito orrendo” ma spiega che è legittimo ricordarlo: “Una visione non moralistica e non retorica delle cose deve riconoscere che è legittimo, che non crea imbarazzo alcuno, ricordare il Msi, un partito forse orrendo ma non un movimentaccio populista; un partito perfino, come si dice, inquietante in molte fasi della sua storia lunga e non sempre eroica, tutt’altro, ma un partito che era nato dai morti, dell’una e dell’altra parte, ma non era nato morto“.

Il Msi contribuì ad eleggere i presidenti Segni e Leone

Ferrara ricorda inoltre l’esprimento del governo Milazzo in Sicilia, che riuniva insieme Msi e Pci: “Con il governo Milazzo in Sicilia, anni Cinquanta, i comunisti, per fottere i democristiani sorretti dai poteri collusi e mostrare tutto il loro machiavellismo, con l’assenso di Togliatti e sotto la guida di Macaluso e Bufalini, entrarono in un governo regionale assieme ai missini ancora molto lontani dallo sdoganamento”. E sottolinea che i voti missini servirono per eleggere due presidenti della Repubblica. “Segni Sr. fu eletto anche con i loro voti. Leone fu eletto capo dello stato con i loro voti determinanti. Tra botte, drammi, tragedie, farse e ruffianerie incrociate il Movimento sociale fu un organismo vivo” contro il quale non sono lecite operazioni da “cancel culture“.

Il Pd si scaglia contro La Russa, ma l’antifascismo è libertà. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Dicembre 2022.

Il senatore La Russa ha celebrato con un tweet l’anniversario della fondazione dell’Msi. Il senatore La Russa è il presidente di una delle due Camere del Parlamento. Il Pd ha chiesto le dimissioni del senatore La Russa. Perché? Perché non rappresenta tutto il Paese. Vero: non lo rappresenta.

Secondo voi Ingrao rappresentava tutto il paese? O la deputata Nancy Pelosi rappresenta l’America? La fondazione del Msi, nel 1946, che raccolse molti vecchi militanti fascisti, per il Pd fu una ferita alla democrazia. Io non credo che sia così. Il Msi fu un partito vero, di massa, democratico, che diede rappresentanza all’estrema destra e al popolo nostalgico del fascismo. Diede ricchezza alla democrazia. La rese più piena. Fece grandi battaglie. Alcune, credo, giuste. Molte sbagliate e reazionarie. Le perse tutte. Non è un demerito. La Russa è fascista? Forse sì. Ha una storia ricca e robusta. Di combattente politico. Non nasce da una colata d’acqua fresca. Come molti leader politici di oggi. È una colpa? No, è un merito. L’antifascismo, se esiste, è solo questo: culto della libertà e della tolleranza. Verso tutti.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 28 dicembre 2022.

Isabella Rauti ha sostato un momento in ricordo del Movimento sociale italiano, ed è stato subito un mezzo scandalo. Farlocco. Abortito. Abbiamo una presidente del Consiglio del 1977, che ha fatto a tempo a contaminarsi per via del Fronte della Gioventù, insomma, proviene da quelle file. Ha poi spezzato la continuità e riformulato (quasi) tutto. 

E ha conquistato un forte consenso con una ideologia di destra, passatista perché conservatrice, e legittimamente conservatrice, combinata alla tigna dell’opposizione e a una politica via via più istituzionale, normalizzata rispetto alla memoria divisa che le stava attaccata alla schiena, a lei e alla sua creatura e a parte notevole del personale politico che l’accompagnava. Ora è tutta una gara a dimenticare, in nome della memoria condivisa, ma personalmente ho sempre trovato più interessante la memoria divisa. 

[…] Con il governo Milazzo in Sicilia, anni Cinquanta, i comunisti, per fottere i democristiani sorretti dai poteri collusi e mostrare tutto il loro machiavellismo, con l’assenso di Togliatti e sotto la guida di Macaluso e Bufalini, entrarono in un governo regionale assieme ai missini ancora molto lontani dallo sdoganamento. 

Segni Sr. fu eletto anche con i loro voti. Leone fu eletto capo dello stato con i loro voti determinanti. Tra botte, drammi, tragedie, farse e ruffianerie incrociate il Movimento sociale, alterne vicende elettorali, […] tentativo di preservare una cultura di destra non troppo polverosa, e chi più ne ha più ne metta, fu un organismo vivo, isolato, passabilmente corrotto come tutti i partiti italiani, e fu un organismo tenuto insieme dalla discriminazione antifascista che stette a fondamento dell’arco costituzionale, base della democrazia consociativa, che ha reso l’Italia un paese progredito e opulento ma lo stava alla fine paralizzando nella gnagnera, contro la quale si batterono Pannella e Craxi. 

Una visione non moralistica e non retorica delle cose deve riconoscere che è legittimo, che non crea imbarazzo alcuno, ricordare il Msi, un partito forse orrendo ma non un movimentaccio populista; un partito perfino, come si dice, inquietante in molte fasi della sua storia lunga e non sempre eroica, tutt’altro, ma un partito che era nato dai morti, dell’una e dell’altra parte, ma non era nato morto.

Aveva ragione Pannella. La polemica contro La Russa e Rauti è il trionfo dell’antifascismo farisaico. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 29 Dicembre 2022.

Dare di fascista agli oppositori è un tic politico identitario e così ora, oltre ai fascisti, abbiamo anche il problema di chi ne applica inconsapevolmente i metodi ideologici

Da molti punti di vista, l’antifascismo della sinistra è come la cosiddetta cultura cristiana della destra: un semaforo rosso trasformato in totem; un bigino di citazioni e sentimenti d’ordinanza; un patrimonio di istanze più interdittive che identitarie e più poliziesche che profetiche; un inesauribile deposito di divise e di indignazioni prêt-à-porter per tutti i sabati antifascisti che Dio manda in terra. C’è – diciamolo – tanto antifascismo nelle richieste di dimissioni di Ignazio La Russa e di Isabella Rauti per il culto della memoria missina, quanto cristianesimo nel rosario di Matteo Salvini agitato come un amuleto tribale o nel Soy cristiana urlato da Giorgia Meloni e divenuto formula magica dei Vaffa-Day sovranisti. In pratica, cioè, non ce n’è nulla, neppure la sembianza esteriore.

La storia politica missina è stata anche una storia di ombre e di fantasmi, di tentazioni e di doppiezze, cui l’afflato nostalgico di camerati e post-camerati offriva perfino una misura di umanità, se non di rispettabilità, a fronte di un profilo pubblico – di picchiatori e generali, intrallazzoni e palazzinari, agenti segreti e filosofi nazisteggianti – che sembrava costruito su misura per suffragare il pregiudizio dei nemici e dare loro ragione. Non è stato solo questo, il Movimento sociale italiano (MSI). Ma per l’essenziale, fino all’inizio della Seconda Repubblica, è stato questo. Questo contava e pesava, all’esterno e ancora di più all’interno, non quelle componenti, pure presenti e diffuse, sensibili a una cultura politica e a una cultura tout court un po’ antagonistica e un po’ libertaria, ma comunque distante anni luce dal reducismo mussoliniano e dal tradizionalismo clerico-fascista.

In ogni caso non è la complessità della storia missina a rendere banali e riduzionistici i tentativi di liquidarla come un romanzo criminale. Il problema è proprio il proposito dei liquidatori, che rimanda a esperienze e abitudini vecchie quante il post-fascismo.

Il fatto è, cioè, che gli antifascisti “certificati”, dal 1945 a oggi, hanno per lo più (anche loro!), combattuto il post-fascismo per non fare i conti col fascismo, e hanno cantato la svolta e l’alba della Resistenza per esorcizzare o dissimulare la continuità di quella notte della libertà e del diritto e di quel fascismo eterno e cangiante – sul piano della cultura e delle leggi, dell’organizzazione della vita sociale e del ruolo dello Stato – che ha continuato a essere l’autobiografia della nazione anche dopo la fine del regime mussoliniano.

A dire queste cose, ormai quarant’anni fa, c’era Marco Pannella, che andava ai congressi del MSI per denunciare che il vero fascismo ormai era fuori di lì, mentre Almirante si agitava, non capiva e protestava: «No, il fascismo è qui». Pannella faceva campagne e referendum per attaccare il fascismo vivente nel codice e nella legislazione penale, nell’organizzazione corporativa dell’economia e della società, nella cultura dell’emergenza permanente e nel culto della ragion di Stato e quindi dell’arbitrio e del potere assoluto.

Per questa ragione Pannella sfuggiva alla retorica post-resistenziale e alle celebrazioni necrofile di piazzale Loreto e denunciava la trasmutazione della tragedia fascista nella commedia antifascista e la «litania della gente-bene della nostra politica» sul fascismo fuori legge, lungo la linea che dall’intransigentismo del Partito d’Azione aveva portato a quello, diciamo così, ben più disinibito di Lotta Continua.

Soprattutto Pannella si opponeva a quel razzismo antropologico che voleva i fascisti tutti umanamente a immagine e somiglianza dell’orrore del fascismo, mentre riconosceva ai comunisti – e solo a essi – la differenza di una moralità tradita dalle carambole della storia, di una dirittura contraddetta dalle storture del comunismo realizzato e non solo immaginato. Questo razzismo, per Pannella, poggiava sull’equivoco di vedere nel fascismo la radice del male, e non una delle sue manifestazioni e dei possibili rigogli della malapianta totalitaria, dell’illusione della violenza rivoluzionaria e della menzogna del potere salvifico.

Una delle conseguenze di questo continuo gioco di specchi dell’antifascismo farisaico è di illudere tutti, compresi gli illusionisti, che l’ortopedia retorica e l’ortopratica ideologica bastino a raddrizzare il corso della storia. Che basti mettere il fascismo fuori legge per metterlo fuori gioco. Che basti lanciare un anatema per suscitare la religiosa devozione del popolo. I fatti – compresi quelli di Fratelli d’Italia e della lunga contro-Fiuggi sovranista inaugurata da Giorgia Meloni dieci anni fa, riaccendendo appunto la fiamma del MSI – dimostrano che purtroppo o per fortuna la storia politica è una cosa molto più complicata.

Nostalgia canaglia. La Russa difende le sue celebrazioni del Msi, Sgarbi chiede a Meloni una nuova Fiuggi. L’Inkiesta il 29 Dicembre 2022.

«Me ne frego della liturgia! La verità è che, quando esprimo le mie idee, rosicano. Se avessero voluto uno solo per dirigere il traffico dell’aula di Palazzo Madama, avrebbero potuto eleggere un semaforo. Io non rinuncio, e non rinuncerò mai, al mio pensiero», risponde il presidente del Senato

«Me ne frego della liturgia! La verità è che, quando esprimo le mie idee, rosicano. Se avessero voluto uno solo per dirigere il traffico dell’aula di Palazzo Madama, avrebbero potuto eleggere un semaforo. Io non rinuncio, e non rinuncerò mai, al mio pensiero». Sono le parole al Corriere di Ignazio La Russa, presidente del Senato e seconda carica dello Stato, in risposta alle critiche che gli sono piovute addosso dopo il post che celebrava su Instagram il Movimento sociale italiano.

Dopo il post commemorativo di Isabella Rauti, sottosegretaria alla Difesa, «ho deciso di intervenire anche io», dice La Russa. Con un post che raffigura un vecchio manifesto missino e un ricordo del padre Antonino — già segretario politico del partito nazionale fascista a Paternò (Catania) — «che fu tra i fondatori del Msi in Sicilia e che scelse, per tutta la vita, la via della partecipazione democratica…».

Durissima la reazione di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, e di Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica romana: «Quando si ricoprono ruoli istituzionali il nostalgismo assume, contemporaneamente, contorni gravi e ridicoli». Appena nove giorni prima, al museo ebraico, Meloni si era commossa durante la cerimonia dell’accensione delle luci dell’Hanukkah, parlando dell’«ignominia delle leggi razziali» e abbracciando proprio Ruth Dureghello.

«Rispetto le sensibilità della comunità ebraica, ma li invito a documentarsi bene. Anche perché il Msi è sempre stato schierato a favore di Israele, mentre pezzi di sinistra, spesso, tifavano per i palestinesi», dice La Russa. «Io rispetto le leggi, i valori costituzionali, in aula sono imparziale e super partes…». Certo, «ho le mie idee. Non le rinnego. E ho il diritto di celebrare la figura di mio padre, con orgoglio e senso di appartenenza a un partito dove, a lungo, ho militato anche io. Dov’è il problema?». E sul 25 aprile «non devo rassicurare nessuno. Certo non andrò a infilarmi in qualche corteo per beccarmi fischi e uova marce. Le ricordo però che, da ministro della Difesa, come suggeriva Luciano Violante, ho già omaggiato i partigiani morti e i morti che, credendo in un’altra ideologia, stavano dall’altra parte».

Ma nel dibattito interviene il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, che in un’intervista a Repubblica definisce la celebrazione del Movimento sociale Iialiano da parte di La Russa non illegittima ma inopportuna. Sostenendo che Giorgia Meloni dovrebbe fare una Fiuggi bis per rivendicare la sua diversità. Sgarbi parla della destra «nostalgica» già stigmatizzata da Liliana Segre. «Il ricordo del Msi del mio amico La Russa, che si arrabbierà, è stato non illegittimo ma quantomeno inopportuno. Soprattutto politicamente. Perché finisce per richiamarsi al passato e non al futuro, come invece fa Giorgia Meloni. Tra i due, ci scommetto, probabilmente ci sarà qualche discussione», dice Sgarbi.

Sgarbi sostiene che Almirante fosse un post-fascista: «La Costituzione non avrebbe potuto prevederlo. Sono nostalgici di un mondo battuto dalla storia. La loro cultura non può prescindere dal fascismo, che però è finito nel 1944. La Russa non ha elogiato Bottai o Arnaldo Mussolini, ma un partito che era dentro il Parlamento. Per quanto anche a me allora sembrava incredibile che ci fosse».

Ma «Fratelli d’Italia è un mondo che ormai è più ampio, pur avendo delle radici ben definite nella destra», dice Sgarbi. «Poi c’è chi è erede diretto del Msi e chi, come la giovane Meloni, viene da Fiuggi, figlia della svolta di Fini che si era già spinto oltre le colonne d’Ercole e aveva portato Alleanza nazionale al 15 per cento. Oggi Meloni ha raddoppiato il consenso e se tocchi il 30 per cento avrai a che fare un po’ con tutti. La Russa è l’ultimo emblema di quel mondo lì, che esiste ancora nella loro area di riferimento. Non puoi certo uccidere chi proviene dal Msi».

Proprio per questo Meloni dovrebbe fare una nuova Fiuggi, secondo Sgarbi: «Gliel’avevo proposto quando era al 4 per cento in una colazione a cui l’avevo invitata. “Cambia il nome di FdI, trasformalo in Rinascimento”, le dissi. E ancora: “Taglia completamente la fiamma, la memoria del Msi. Vai oltre». Ma non gli ha dato retta: «Disse che doveva confrontarsi con gli organi di partito». E alle porte del 2023, riecco il dibattito sui nostalgici del Msi.

Jena per la Stampa il 28 dicembre 2022.

Ma se La Russa è fascista mica è colpa sua. 

Estratto dell’articolo di Emanuele Lauria per la Repubblica

Solo otto giorni fa Giorgia Meloni era scoppiata in lacrime al museo ebraico, durante la cerimonia dell'accensione delle luci dell'Hanukkah. Aveva parlato dell'«ignominia delle leggi razziali » e aveva abbracciato la presidente della Comunità, Ruth Dureghello, che a sua volta aveva riconosciuto come le parole della premier «contribuiscano a contrastare definitivamente le ambiguità che in una parte del Paese sono ancora presenti sul fascismo».

Un percorso di riconciliazione storica che ieri, con l'uscita del presidente del Senato Ignazio La Russa per celebrare la nascita dell'Msi, ha subito uno stop. Basti leggere le dichiarazioni di condanna che la stessa Dureghello, e Noemi Di Segni, hanno pronunciato. Ed è questo aspetto, più che il contenuto in sé del ricordo di La Russa, dedicato al padre, ad avere indispettito l'inquilina di Palazzo Chigi. È l'idea di un passo indietro, in un lungo processo di affrancamento dalle polemiche sulle "radici" dell'attuale destra istituzionale, a irritare Meloni (…)

Da open.online il 28 dicembre 2022.

Edith Bruck, testimone della Shoah ungherese e tra le prime a chiedere a Giorgia Meloni di togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia, vuole le dimissioni di Ignazio La Russa da presidente del Senato. Dopo l’invocazione di Isabella Rauti sull’«onore ai fondatori e ai militanti missini», la seconda carica dello Stato su Instagram ha parlato del padre, che «fu tra i fondatori del Msi in Sicilia e che scelse con il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana». 

Bruck risponde a tutto ciò con una citazione dal Signore degli Anelli: «Le radici profonde non gelano». E spiega: «È pensabile che si possa ancora celebrare la fiamma e quello che rappresenta? Liliana Segre e io stessa le abbiamo chiesto tante volte di toglierla dal simbolo di Fratelli d’Italia. Non l’ha tolta. Ha paura di perdere il suo elettorato tradizionale anche se oggi quel tipo di elettore pare le sia nemico».

Per Bruck oggi «La Russa non dovrebbe neanche essere dov’è. Ma è colpa nostra, di coloro che votano senza pensare, si accodano, applaudono chi urla di più. La colpa è nostra e anche dell’opposizione che con un signore come Enrico Letta non è riuscita a farsi ascoltare. Sono molto preoccupata per questo paese». 

Sulla commozione di Meloni nel giorno della cerimonia dell’Hannukkah Bruck è scettica: «Ho visto, mi è sembrata falsa, una cosa squallida. Come si può cambiare da un momento all’altro in questa maniera? È come dopo la guerra: prima erano tutti fascisti poi tutti democratici. Non esiste un cambiamento così repentino». Mentre il presunto abbandono del fascismo da parte della premier è «un’operazione di immagine fatta per l’ambizione di arrampicarsi in qualche maniera. Non credo Meloni sia cambiata e in generale sono in ansia per l’Italia, per l’Ucraina, per quanto accade nel mondo, perché tutto ciò che è connesso ci riguarda. Per non parlare dell’Europa».

Da lastampa.it il 28 dicembre 2022.

(...) La presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello sul caso La Russa: "Quando si ricoprono ruoli istituzionali il nostalgismo assume contorni gravi e ridicoli. Non sono accettabili passi indietro, soprattutto dalla seconda carica dello Stato"

La Russa e Rauti ricordano il Msi, Boldrini guida il coro Pd: "Dimissioni". Il Tempo il 27 dicembre 2022

Ipost per ricordare la fondazione del Movimento sociale italiano, costituito il 26 dicembre del 1946, ricompattano la sinistra che non manca occasione per chiedere le dimissioni del presidente del Senato e della sottosegretaria alla Difesa Isabella Rauti. I primi mugugni sono spuntati dopo che Rauti aveva omaggiato il padre Pino che del Msi fu segretario:"Radici profonde che non gelano mai", aveva scritto. La Russa ha poi ricordato Rauti "che fu fra i fondatori del Movimento sociale italiano in Sicilia e che scelse il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana", postando un'immagine d'epoca. 

Dal Pd chiedono le dimissioni il deputato Stefano Vaccari e l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini: "Zero senso delle istituzioni. Svilita la seconda carica dello Stato". Parla di uscite nostalgiche Simona Malpezzi: "Con tutto l'umano rispetto per i padri di Isabella Rauti e Ignazio La Russa le loro uscite nostalgiche verso il Msi sono gravi. Chi rappresenta le Istituzioni non può non ricordare che le radici democratiche del Paese e la nostra Costituzione sono antifasciste". All'attacco anche il senatore Walter Verini: "Celebrare fascismo e fascisti, come fanno La Russa, Rauti, è offensivo per l'Italia democratica". Sull'onda anche Emanuele Fiano: "In questi giorni l'esaltazione dell'Msi, partito fondato dai fascisti reduci di Salò, come Almirante e Romualdi, è ormai ai massimi livelli, qui la seconda carica dello Stato. E voi? Ex colleghi in Parlamento? Tutti zitti?".

"Mi domando se chi strumentalmente sta polemizzando contro il Presidente del Senato abbia veramente letto il suo post nel quale ricorda il padre che - testuale - 'scelse con il MSI per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana'. La piena adesione del MSI alla democrazia e al Parlamento è storia e nessuno può negarla", ha dichiarato Emiliano Arrigo, portavoce del presidente del Senato.

La Russa celebra la nascita del Movimento sociale italiano. Reazioni durissime. Storia di Angelo Picariello su Avvenire il 28 dicembre 2022.

La ricorrenza del 76esimo anniversario della fondazione de Movimento sociale italiano, ricordato sui social prima da Isabella Rauti e poi da Ignazio La Russa, diventa un caso politico. «Onore ai fondatori ed ai militanti missini», afferma su Twitter la sottosegretaria alla Difesa, che pubblica anche alcune vecchie fotografie sia della Fiamma Tricolore, simbolo del partito, sia di suo padre Pino Rauti. Il presidente del Senato interviene invece Instagram per ricordare suo padre, «fra i fondatori del Movimento Sociale Italiano in Sicilia e che scelse il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana», rimarca.

Il Pd parte all’attacco. Alessio D’Amato, candidato alla presidenza della Regione Lazio arriva a chiedere le dimissioni di La Russa. «Un fatto gravissimo, che viola il giuramento sulla Costituzione antifascista». Per l’assessore alla Sanità della Giunta Zingaretti «La Russa è incompatibile con la carica di Presidente del Senato e auspico che anche gli altri candidati alla Presidenza della Regione Lazio prendano le distanze». Anche per Simona Malpezzi, presidente dei senatori dem, queste «uscite nostalgiche verso il Msi sono gravi».

«Zero senso delle istituzioni. Il Presidente del Senato della Repubblica nata dalla Resistenza non può mortificare la Costituzione antifascista. Svilita la seconda carica dello Stato. Si dimetta» scrive su Twitter Laura Boldrini, da ex vicepresidente della Camera. Walter Verini, senatore del Pd, alza il tiro sulla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Ipocrita piangere per le leggi razziali e avallare questo schifo».

In difesa di Rauti e La Russa si schiera invece Alberto Balboni, di Fdi, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato: «Qualche nostalgico della guerra civile nega ad Isabella Rauti, Ignazio La Russa e con loro ad una intera comunità politica, il diritto di ricordare la fondazione del Msi e l’importanza che essa ebbe per la democrazia italiana. Come riconoscono gli storici più indipendenti - sostiene il senatore di FdI - il Msi consentì a tanti italiani di partecipare alla vita politica del dopoguerra accettando i valori costituzionali e la democrazia» sottolinea.

Concetto ripreso dal portavoce di La Russa, Emiliano Arrigo: «Mi domando se chi strumentalmente sta polemizzando contro il Presidente del Senato abbia veramente letto il suo post nel quale ricorda il padre che “scelse con il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana“», cita testualmente.

Ma per il Pd queste argomentazioni non reggono. Parla di «esaltazione dell’Msi, partito fondato dai fascisti reduci di Salò, come Almirante e Romualdi», Emanuele Fiano. Se la prende con la seconda carica dello Stato, «del quale - afferma - ovviamente rispetto il ricordo del padre, ma non l’esaltazione dell’Msi. Un partito che sotto la guida di De Marsanich negli anni Cinquanta sosteneva che rispetto al fascismo bisognava “Non rinnegare, non restaurare”. Hai capito? - incalza Fiano -. E voi? Ex colleghi in Parlamento? Tutti zitti?», scrive su Facebook l’esponente dem.

Polemiche «pretestuose e ingenerose», per il vice capogruppo di Fdi alla Camera, Alfredo Antoniozzi. Quello di La Russa, è «semplicemente il ricordo di un figlio verso il proprio padre e verso un partito che era inserito nelle regole costituzionali».

Ma per il presidente dell'Anpi Gianfranco Pagliarulo il post del presidente del Senato, «è uno sfregio alle istituzioni democratiche». La Russa ricorda anche i 75 anni dalla promulgazione della Costituzione repubblicana: «Giornata di grande significato di libertà e democrazia per tutti noi», afferma la seconda carica dello Stato.

«Eppure, alla vigilia di una giornata così importante per l'Italia - rimarca la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni - c'è chi ritiene di esaltare un altro anniversario - quello della fondazione del Msi - partito che, dopo la caduta del regime fascista da poco sconfitto, si è posto in continuità ideologica e politica con la Rsi».

Stefano Baldolini per repubblica.it il 27 dicembre 2022.

Un omaggio destinato a far discutere. Una foto di un vecchio poster con la fiamma tricolore, un'altra con la scritta 'Viva il Msi", altre due foto del padre e fondatore del Movimento Pino Rauti. Così la sottosegretaria alla Difesa Isabella Rauti ha voluto celebrare su Twitter il 76esimo anniversario della nascita del Movimento sociale Italiano, fondato il 26 dicembre del 1946. "Oggi voglio ricordare il 26 dicembre di 76 anni quando, a Roma, nasceva il Movimento Sociale Italiano - scrive il sottosegretario - Onore ai fondatori ed ai militanti missini".

"Le radici profonde non gelano", conclude Isabella Rauti, che cita una delle frasi iconiche della destra italiana, tratte da Il Signore degli Anelli di Tolkien. La frase è stata anche il titolo di un convegno in memoria di Pino Rauti a un anno dalla morte, il 3 novembre 2013. "Il tema più profondo che è il filo rosso di tanti ricordi è quello delle radici, - rievocò allora la figlia alla fondazione Nuova Italia - quello dell'identità, dell'appartenenza, del radicamento". "Tra radici e nostalgismo" è anche il titolo di un articolo del fondatore di Msi.

Nato in provincia di Catanzaro il 19 novembre 1926, Giuseppe Umberto Rauti a 16 anni si arruolò volontario nella Repubblica sociale italiana e nel 1946 partecipò appunto alla fondazione del Movimento Sociale. Ne fu segretario dal 1990 al 1991. Dopo il congresso di Fiuggi del 1995 che criticò con vigore e che trasformò, sotto la guida di Gianfranco Fini, il Movimento Sociale in Alleanza Nazionale, Rauti fondò il Movimento Sociale Fiamma Tricolore. 

Le parole di Isabella Rauti, membro del governo di Giorgia Meloni, non sono passate inosservate dall'opposizione che attacca.

"Comprendo l'orgoglio e gli affetti famigliari che legano l'onorevole Isabella Rauti alla storia del Msi. Comprendo, ma non posso giustificarlo, come italiano e come democratico. Quelle remote radici sono un problema per la destra, perché il partito nato 76 anni fa aveva un orizzonte di valori e di ideali che erano, e sono, una minaccia per la democrazia liberale finita soffocata nei vent'anni di regime fascista". Lo dichiara Osvaldo Napoli, della segreteria nazionale di Azione. 

"La sottosegretaria alla difesa Isabella Rauti ha tolto anche l'ultimo velo di ipocrisia e nel giorno dell'anniversario della fondazione del movimento sociale italiano, su iniziativa di esponenti del vecchio regime e della Repubblica sociale italiana nel 1946, ha scritto che le radici profonde non gelano e che occorre rendere onore ai fondatori di quel partito".

Lo scrive in una nota Federico Fornaro, dell'ufficio di presidenza alla Camera del gruppo Pd Italia Democratica e Progressista. "Isabella Rauti si è già dimenticato di aver giurato qualche settimana fa sulla costituzione italiana vera grande eredità della resistenza antifascista. Quelle sono le radici di cui essere orgogliosi e da ricordare come democratici e come italiani. Sulla vicenda ci attendiamo parole chiare della presidente Meloni". 

La questione delle origini di Fratelli d'Italia, partito della premier, torna ciclicamente alla ribalta. Nei giorni precedenti alle elezioni del 25 settembre, la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz, e il Pd, chiesero a Giorgia Meloni di togliere la fiamma dal simbolo. "Non ha a che fare con il fascismo - fu la risposta di Meloni - ma è il riconoscimento del percorso fatto da una destra democratica nella nostra storia repubblicana. Ne andiamo fieri".

Stefano Baldolini per repubblica.it il 27 dicembre 2022.

Dopo Isabella Rauti, anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, celebra la fondazione del Movimento sociale italiano, costituito il 26 dicembre del 1946. Il Pd chiede le dimissioni di entrambi. 

Come la sottosegretaria alla Difesa, che ha omaggiato Pino Rauti che del Msi fu segretario, parlando di "radici profonde che non gelano mai", anche La Russa lo ha fatto ricordando il padre, "che fu fra i fondatori del Movimento sociale italiano in Sicilia e che scelse il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana". A corredo una immagine d'antan con simbolo e fiamma tricolore. 

Fioccano le polemiche per le origini, oggi rivendicate, della formazione della premier Giorgia Meloni. Questione sollevata a suo tempo anche dalla senatrice a vita Liliana Segre.

"Solo qualche giorno fa hanno giurato sulla Costituzione antifascista ed ora esaltano fondatori, nascita e storia del Msi. Isabella Rauti e Ignazio La Russa sono incompatibili con i loro ruoli di governo e istituzionali. Una deriva culturale inqualificabile. Dimissioni!", tuona su Twitter il deputato del Pd Stefano Vaccari. 

Chiede il passo indietro anche l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini: "Zero senso delle istituzioni. Svilita la seconda carica dello Stato". Più morbida la posizione della presidente dei senatori dem Simona Malpezzi: "Con tutto l'umano rispetto - scrive - per i padri di Isabella Rauti e Ignazio La Russa le loro uscite nostalgiche verso il Msi sono gravi. Chi rappresenta le Istituzioni non può non ricordare che le radici democratiche del Paese e la nostra Costituzione sono antifasciste".

Netto il senatore Walter Verini: "Celebrare fascismo e fascisti, come fanno La Russa, Rauti, è offensivo per l'Italia democratica". "Signori, - fa notare l'esponente dem Emanuele Fiano - in questi giorni l'esaltazione dell'Msi, partito fondato dai fascisti reduci di Salò, come Almirante e Romualdi, è ormai ai massimi livelli, qui la seconda carica dello Stato. E voi? Ex colleghi in Parlamento? Tutti zitti?". 

Chi parla è il senatore FdI Alberto Balboni, presidente della commissione Affari costituzionali che difende i suoi: "Qualche nostalgico della guerra civile nega ad Isabella Rauti, Ignazio La Russa e con loro ad una intera comunità politica, il diritto di ricordare la fondazione del Msi e l'importanza che essa ebbe per la democrazia italiana". 

La replica di La Russa arriva attraverso il suo portavoce: "Mi domando se chi strumentalmente sta polemizzando contro il Presidente del Senato abbia veramente letto il suo post", scrive in una nota Emiliano Arrigo. "La piena adesione del Msi alla democrazia e al  Parlamento è storia e nessuno può negarla" 

Al coro di voci che chiedono le dimissioni si aggiunge anche il co-portavoce dei Verdi, Angelo Bonelli. Mentre Osvaldo Napoli (Azione) si chiede se La Russa e Balboni abbiano intenzione di sconfessare la svolta di Fiuggi del 1995 di Gianfranco Fini, da cui nacque Alleanza Nazionale proprio "per condannare il fascismo e, con esso, qualsiasi richiamo esplicito o velato come poteva essere il Msi". 

A celebrare il compleanno del Msi sui social è anche il senatore ligure di FdI ed ex assessore della giunta Toti, Gianni Berrino. Un post su facebook con la fiamma tricolore e la scritta "buon compleanno Msi". Nei commenti tante bandierine tricolori e qualche emoticon di mano tesa a ricordare il saluto romano.

(ANSA il 27 dicembre 2022) - "Mi domando se chi strumentalmente sta polemizzando contro il Presidente del Senato abbia veramente letto il suo post nel quale ricorda il padre che - testuale - 'scelse con il MSI per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana'. La piena adesione del MSI alla democrazia e al Parlamento è storia e nessuno può negarla". Lo afferma Emiliano Arrigo, portavoce del presidente del Senato.

Da repubblica.it il 27 dicembre 2022.

La replica di La Russa arriva attraverso il suo portavoce: "Mi domando se chi strumentalmente sta polemizzando contro il Presidente del Senato abbia veramente letto il suo post", scrive in una nota Emiliano Arrigo. "La piena adesione del Msi alla democrazia e al  Parlamento è storia e nessuno può negarla". 

Non la pensa così Noemi Di Segni, la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: "Si celebrano oggi i 75 anni dalla promulgazione della Costituzione repubblicana, l'affermazione della nostra democrazia antifascista. Eppure c'è chi ritiene di esaltare un altro anniversario - quello della fondazione del Msi - partito che, dopo la caduta del regime fascista, si è posto in continuità ideologica e politica con la Rsi, governo dei fascisti irriducibili che ha attivamente collaborato per la deportazione degli ebrei italiani. 

Grave che siano i portatori di alte cariche istituzionali a ribadirlo, legittimando quei sentimenti nostalgici". "Le leggi razziali furono un abominio", le parole di qualche giorno fa della premier Giorgia Meloni, che si è commossa alla sinagoga di Roma, in occasione dell'Hannukkah, ricordando la deportazione degli ebrei. 

Anche l'Anpi condanna. "Con tutto il rispetto per i suoi affetti familiari, l'Onorevole La Russa non ha ancora capito che è il Presidente del Senato della Repubblica antifascista e non il responsabile dell'organizzazione giovanile del Msi. Il suo post è uno sfregio alle istituzioni democratiche", fa sapere il presidente dell'associazione nazionale partigiani, Gianfranco Pagliarulo.

Estratto dell’articolo di Emanuele Lauria per la Repubblica il 27 dicembre 2022.

Solo otto giorni fa Giorgia Meloni era scoppiata in lacrime al museo ebraico, durante la cerimonia dell'accensione delle luci dell'Hanukkah. Aveva parlato dell'«ignominia delle leggi razziali » e aveva abbracciato la presidente della Comunità, Ruth Dureghello, che a sua volta aveva riconosciuto come le parole della premier «contribuiscano a contrastare definitivamente le ambiguità che in una parte del Paese sono ancora presenti sul fascismo».

Un percorso di riconciliazione storica che ieri, con l'uscita del presidente del Senato Ignazio La Russa per celebrare la nascita dell'Msi, ha subito uno stop. Basti leggere le dichiarazioni di condanna che la stessa Dureghello, e Noemi Di Segni, hanno pronunciato. Ed è questo aspetto, più che il contenuto in sé del ricordo di La Russa, dedicato al padre, ad avere indispettito l'inquilina di Palazzo Chigi. È l'idea di un passo indietro, in un lungo processo di affrancamento dalle polemiche sulle "radici" dell'attuale destra istituzionale, a irritare Meloni (…)

La Russa: «Polemiche? Rispetto le leggi. Ho le mie idee, non le rinnego e nel Msi ho militato a lungo». Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2022.

Il presidente del Senato: il mio ex partito sosteneva Israele, altri i palestinesi. E poi: «Sul razzismo Almirante riconobbe l’errore. E fondò un partito che ha difeso la democrazia e la Costituzione»

Palazzo Chigi, ufficio staff della premier, martedì sera.

«Avverti subito Giorgia».

«Che succede?».

«La Russa».

«Che ha fatto, stavolta?».

«Ha pubblicato un post su Instagram. Leggi».

«Santo Cielo… ok, chiamo Giorgia».

La liturgia istituzionale prevede, per il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, un riserbo, un distacco dalle beghe della vita politica quotidiana, e da certi spinosi anniversari.

«Me ne frego della liturgia! La verità è che, quando esprimo le mie idee, rosicano — dice adesso più sarcastico che preoccupato, Ignazio La Russa, la caratteristica voce ruvida, un aperitivo prima di andare a pranzo —. Ripeto: se avessero voluto uno solo per dirigere il traffico dell’aula di Palazzo Madama, avrebbero potuto eleggere un semaforo. Io non rinuncio, e non rinuncerò mai, al mio pensiero».

(Flash-back: via della Scrofa, sede di Fratelli d’Italia, il partito che aveva appena stravinto le elezioni. Per la prima volta, una donna — Giorgia Meloni — stava per diventare premier; e non solo: una donna di destra. Ore confuse, nervose, di dubbi e anche allegria, con un diffuso senso di rivalsa, con scosse di battente eccitazione, l’odore denso del potere impregnava le trattative in corso per stabilire l’elenco dei nuovi ministri. Poi però dal portone usciva lui, La Russa, già eletto presidente del Senato. E rassicurava, blandiva mettendoci tutto il suo strepitoso mestiere, parlando da fondatore del partito, da dirigente ancora in carica, e allora giù chiacchiere spicciole davanti ai microfoni, e spiegando intrighi, spicchi di retroscena, graffiando con le sue battute saliva poi sull’auto blu e i cronisti, basiti, restavano lì, sul marciapiede, a interrogarsi: ma ha capito che, dopo Mattarella, c’è lui?).

Ora però torniamo al compleanno del Msi: 26 dicembre 1946. Ridotte post-fasciste in festa. La prima ad uscire sui social è Isabella Rauti, sottosegretaria alla Difesa: didascalia («Onore ai fondatori e ai militanti missini») a corredo dell’album di famiglia, foto con la fiamma, comizi con il padre Pino — gran capo di Ordine nuovo, movimento extraparlamentare di estrema destra, una tragica scia nera negli anni Settanta.

Lampi di critiche, stupore che diventa indignazione (si compattano persino le opposizioni, di solito rarefatte: Pd, 5 Stelle e Terzo polo).

«A quel punto, ho deciso di intervenire anche io» (non so se avete capito: ma La Russa mantiene il punto e, perciò, tra un po’ ci parleremo meglio). Ecco allora il suo post: un vecchio manifesto missino e un ricordo del padre Antonino — già segretario politico del partito nazionale fascista a Paternò (Catania) — «che fu tra i fondatori del Msi in Sicilia e che scelse, per tutta la vita, la via della partecipazione democratica…».

Durissima la reazione di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, e di Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica romana: «Quando si ricoprono ruoli istituzionali il nostalgismo assume, contemporaneamente, contorni gravi e ridicoli».

Dettaglio (gigantesco): appena nove giorni fa, al museo ebraico, Meloni si era commossa durante la cerimonia dell’accensione delle luci dell’Hanukkah; le sue lacrime, parlando dell’«ignominia delle leggi razziali» e abbracciando proprio Ruth Dureghello.

Presidente La Russa, ha sentito la premier?

«No. E, comunque, non mi è giunta alcuna sua critica».

Non teme, con quel suo post, di aver minato un percorso di riconciliazione storica?

«Rispetto le sensibilità della comunità ebraica, ma li invito a documentarsi bene. Anche perché il Msi è sempre stato schierato a favore di Israele, mentre pezzi di sinistra, spesso, tifavano per i palestinesi».

Le ricordo che Giorgio Almirante, il 5 maggio del 1942, sulla rivista «La difesa della razza», scrisse: «Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti».

«Però poi Almirante riconobbe l’errore. E fondò un partito che ha eletto capi di Stato, sostenuto la democrazia…».

Lei, di quel post, non è pentito.

«Io rispetto le leggi, i valori costituzionali, in aula sono imparziale e super partes…».

Con il rispetto che si deve alla sua carica, presidente, tanto al di sopra delle parti, ecco, non sembra.

«Ho le mie idee. Non le rinnego. E ho il diritto di celebrare la figura di mio padre, con orgoglio e senso di appartenenza ad un partito dove, a lungo, ho militato anche io. Dov’è il problema?».

Celebrerà la festa della Liberazione, il 25 aprile?

«Me lo chieda il 23 aprile. Non devo rassicurare nessuno. Certo non andrò a infilarmi in qualche corteo per beccarmi fischi e uova marce. Le ricordo però che, da ministro della Difesa, come suggeriva Luciano Violante, ho già omaggiato i partigiani morti e i morti che, credendo in un’altra ideologia, stavano dall’altra parte».

Sul web, in queste ore, ha ripreso a girare un video del 2018 in cui La Russa mostra il suo appartamento: con busti di Mussolini, immagini di gerarchi, e poi la sua foto, in bianco e nero, giovane, barbuto, di quando teneva comizi a Milano (il regista Marco Bellocchio ne scelse uno e, nel 1972, ci confezionò la scena iniziale del suo celebre film: «Sbatti il mostro in prima pagina»).

Da open.online il 27 dicembre 2022.

Edith Bruck, testimone della Shoah ungherese e tra le prime a chiedere a Giorgia Meloni di togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia, vuole le dimissioni di Ignazio La Russa da presidente del Senato. Dopo l’invocazione di Isabella Rauti sull’«onore ai fondatori e ai militanti missini», la seconda carica dello Stato su Instagram ha parlato del padre, che «fu tra i fondatori del Msi in Sicilia e che scelse con il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana». 

Bruck risponde a tutto ciò con una citazione dal Signore degli Anelli: «Le radici profonde non gelano». E spiega: «È pensabile che si possa ancora celebrare la fiamma e quello che rappresenta? Liliana Segre e io stessa le abbiamo chiesto tante volte di toglierla dal simbolo di Fratelli d’Italia. Non l’ha tolta. Ha paura di perdere il suo elettorato tradizionale anche se oggi quel tipo di elettore pare le sia nemico».

Per Bruck oggi «La Russa non dovrebbe neanche essere dov’è. Ma è colpa nostra, di coloro che votano senza pensare, si accodano, applaudono chi urla di più. La colpa è nostra e anche dell’opposizione che con un signore come Enrico Letta non è riuscita a farsi ascoltare. Sono molto preoccupata per questo paese». 

Sulla commozione di Meloni nel giorno della cerimonia dell’Hannukkah Bruck è scettica: «Ho visto, mi è sembrata falsa, una cosa squallida. Come si può cambiare da un momento all’altro in questa maniera? È come dopo la guerra: prima erano tutti fascisti poi tutti democratici. Non esiste un cambiamento così repentino». Mentre il presunto abbandono del fascismo da parte della premier è «un’operazione di immagine fatta per l’ambizione di arrampicarsi in qualche maniera. Non credo Meloni sia cambiata e in generale sono in ansia per l’Italia, per l’Ucraina, per quanto accade nel mondo, perché tutto ciò che è connesso ci riguarda. Per non parlare dell’Europa».

Da lastampa.it il 27 dicembre 2022. 

(...) La presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello sul caso La Russa: "Quando si ricoprono ruoli istituzionali il nostalgismo assume contorni gravi e ridicoli. Non sono accettabili passi indietro, soprattutto dalla seconda carica dello Stato"

Msi, assurda polemica contro La Russa: la sinistra si schianta ancora. Andrea Indini su Il Giornale il 28 Dicembre 2022.

I post per l'anniversario del partito diventano un caso. I dem chiedono le dimissioni

Dopo la fallimentare campagna elettorale agostana, tutta allarmismi e crisi scomposte per l'avvento delle destre e la restaurazione del fascismo, il Pd si aggrappa ancora ai presunti strascichi di Ventennio per fare la guerra al governo. Il pretesto? Un paio di post eccellenti in ricordo del fu Msi.

A scriverli sono stati Isabella Rauti (oggi sottosegretario alla Difesa) e il presidente del Senato Ignazio La Russa. Apriti cielo. «Fu un partito neofascista», ha sbraitato la Boldrini correndo, insieme ad altri compagni di partito, a invocare le dimissioni di entrambi. «È una deriva culturale inqualificabile - hanno urlato dal quartier generale dem - quei due sono incompatibili con i loro ruoli di governo e istituzionali». E dire che il Msi fu un partito democraticamente rappresentato in Parlamento, da deputati e senatori regolarmente scelti nelle urne. Mai si pose fuori dall'alveo costituzionale e da quella Carta che oggi gente come la senatrice piddina Simona Malpezzi usa per inforcare la bandiera dell'antifascismo.

Oggi lo sappiamo. Lo starnazzare estivo sulla restaurazione del regime fascista in caso di vittoria del centrodestra non ha portato bene ad Enrico Letta. Gli è costato una sonora batosta alle elezioni, il posto da segretario e una figuraccia colossale. Infatti, non solo con la Meloni a Palazzo Chigi il Paese non è tornato indietro di cent'anni, ma non è nemmeno scivolato in una «democratura» come aveva paventato Roberto Saviano. Sui social i vaneggiamenti di artisti radical chic, che avevano preconizzato liste di proscrizione, soppressione delle libertà e azzeramento dei diritti umani, sono oggi post invecchiati male.

Anche i dem stanno pagando a caro prezzo questa linea partigiana. Il tracollo continua anche dopo le elezioni. Eppure non sembrano imparare la lezione. Lo dimostra il clamore per i post sul Msi. Uno di questi, tra l'altro, in ricordo del padre di La Russa che, come ha scritto il presidente del Senato, scelse con il Msi «la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana».

Su questa ennesima, futile polemica il Pd è destinato a prendersi un'altra musata contro il muro. È, infatti, sbagliato ridurre, come fa Emanuele Fiano, il Msi a «partito fondato dai fascisti reduci di Salò» che mai hanno voluto rinnegare «il fascismo dell'omicidio Matteotti, delle leggi razziali, dell'alleanza coi criminali nazisti». La storia della Repubblica è lì a spiegargli che ha torto. Nei suoi 76 anni di cammino il Msi ha sempre rispettato la Costituzione. E negli anni più bui, quelli in cui si sparava per strada e si spaccavano le teste ai ragazzi con le chiavi inglesi, non ha mai supportato le frange più estreme dell'eversione nera.

Nessuno si aspetta che, a distanza di tanti anni, la sinistra pretenda dai suoi un'abiura del comunismo e dai crimini che gli sono indissolubilmente legati. Ma, perlomeno, che non punti il dito contro chi ricorda un partito che ha contribuito, democraticamente, alla maturazione della destra di oggi.

Tutte le balle della sinistra sull’Msi. I dem si infuriano per i post di Rauti e La Russa. Ma dimenticano che l'Msi abbandonò il fascismo e fu sempre un partito democratico. Matteo Carnieletto su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

È bastato un post sui social di Isabella Rauti per far impazzire la sinistra: “Oggi voglio ricordare il 26 dicembre di 76 anni fa quando, a Roma, nasceva il Movimento Sociale Italiano (M.S.I.). Onore ai fondatori ed ai militanti missini”. Subito è arrivata la replica di Federico Fornaro, dall’ufficio di presidenza alla Camera del Pd: “Si è già dimenticata di aver giurato qualche settimana fa sulla Costituzione”. Poi è arrivata la volta di Filippo Sensi, sempre dei dem: “Mi fa vergogna come italiano una esponente del governo che rivendica le radici del Msi. Mi fa sanguinare pensare che sia in Parlamento al posto di Lele Fiano. Mi fa stare sveglio la notte che sia questa la classe dirigente di questo Paese". Finita qui? Non proprio. Qualche ora dopo, anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha fatto un post per ricordare sia il padre sia la nascita del partito di destra: "Fu fra i fondatori del Movimento sociale italiano in Sicilia e scelse il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana”. Apriti cielo. Emanuele Fiano è corso subito a scrivere sui social: “Signori, in questi giorni l'esaltazione dell'Msi, partito fondato dai fascisti reduci di Salò, come Almirante e Romualdi, è ormai ai massimi livelli, qui la seconda carica dello Stato. Del quale ovviamente rispetto il ricordo del padre, ma non l'esaltazione dell'Msi. Un partito che sotto la guida di De Marsanich negli anni 50' sosteneva che rispetto al fascismo bisognava 'Non rinnegare, non restaurare”. E ancora: “Hai capito? Per l’Msi il fascismo, quello dell’omicidio Matteotti, del Tribunate Speciale, della chiusura dei partiti, dei sindacati, dell’annullamento del Parlamento, dell’istituzione della censura, delle torture, delle violenze, delle leggi razziali, della servile alleanza con bastardi criminali nazisti semplicemente non andava rinnegato. Poi per cara grazia non andava restaurato. E oggi viene esaltato da esponenti del governo e dalla seconda carica dello Stato. Che si prende la rivincita di una vita”. Immancabile, Laura Boldrini che ha chiesto le dimissioni di La Russa in quanto avrebbe mortificato la Costituzione antifascista.

Ora è storia il fatto che l’Msi venne fondato da alcuni reduci della Repubblica sociale italiana (anche se poi al suo interno confluirono pure membri della Costituente). Ma è altrettanto vero che le differenze tra il partito fondato il 26 dicembre del 1946 e quello ideato da Benito Mussolini sono molte e non di poco conto.

Il fascismo è sempre stato anti americano, mentre l’Msi, pur avendo al suo interno frange molto diverse e alcune di sinistra (quella che faceva capo a Rauti, per esempio) è sempre stato filo Nato. Tanto che nel 1970 Giorgio Almirante poteva liberamente affermare che il partito era filo occidentale e che qualsiasi altra posizione, anche di terza via tra Stati Uniti e Unione sovietica, non era né concepibile né praticabile all’interno dell'Msi. Non solo: il fascismo promulgò le leggi razziali contro gli ebrei e più volte sostenne il mondo arabo (vedi la celebre immagine che ritrae Mussolini mentre impugna la spada dell’islam e l’idea del Duce, rispedita al mittente dal Vaticano, di far costruire una moschea a Roma). L’Msi invece, a livello istituzionale, guardava con simpatia a Gerusalemme: “Israele si espande perché è la Storia dell'Uomo che lo chiama a compiere quell'opera di civiltà e di guerra che altri popoli, altre nazioni (…) rifiutano di compiere. Israele è anche il nostro futuro”, si legge sulle riviste giovanili del partito.

E ancora: il fascismo non accettò mai le regole democratiche. Prima si impose con la Marcia su Roma e poi, dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti, con la dittatura. L’Msi, invece, seppe sedere sugli scranni del Parlamento per decenni passando ogni volta democraticamente dal voto.

Nel corso del tempo, inoltre, l’Msi si allontanò, sia per motivi anagrafici dei dirigenti sia per convinzioni ideologiche, dal fascismo. Nel 1987, un anno prima della morte, Giovanni Minoli intervistò Almirante, chiedendogli conto del rapporto col Ventennio. Il segretario dell’Msi rispose: “La mia formula è non rinnegare, non restaurare. Quindi io non rinnego nulla del mio passato, il che non vuol dire che io ripeterei il mio passato in tutto e per tutto. Non rifarei quello che potevo fare in regime fascista: obbligare gli altri a indossare una certa divisa e negare la possibilità di critica”.

Certamente all’interno dell’Msi ci furono frange violente. Frange che però non possono essere paragonate a quelle che agirono sotto il fascismo. E non bisogna nemmeno dimenticare che fu Almirante, durante gli Anni di piombo, a chiedere addirittura la pena capitale per i terroristi, di qualsiasi credo politico, che in quei giorni commettevano gli attentati nel nostro Paese.

La svolta di Fiuggi di Gianfranco Fini - appoggiata sia da La Russa sia da una giovanissima Giorgia Meloni, oggi presidente del Consiglio e leader di Fratelli d’Italia - rappresentò un passaggio di maturità del fu Msi. Un passaggio che, però, si inseriva nel credo politico di Almirante (“noi siamo centro-destra”) e che portò in Italia, e pure in Europa, una destra moderna, che non aveva più nulla a che fare con un partito, quello fascista, che era ormai stato definitivamente abbandonato alla Storia.

L’ombra nera. I meloniani sono pericolosi perché inadeguati, non perché eredi del Msi. Mario Lavia su L’Inkiesta il 28 Dicembre 2022

Il partito antenato di Fratelli d’Italia, piaccia o no, era legittimato a stare in Parlamento. È ipocrita criticare adesso chi si richiama a quella orribile tradizione, senza aver cercato di renderla illegale allora

Con l’ascesa al potere di Giorgia Meloni si pone in modo nuovo il problema storico-politico del Movimento sociale italiano, il “nonno” di Fratelli d’Italia. Il legame ideal-affettivo ostentato da Isabella Rauti, figlia di Pino Rauti, che fu tra i fondatori del Msi, poi segretario nonché figura molto discussa per i suoi rapporti con la destra eversiva, ci poteva essere tranquillamente risparmiato, peraltro in coerenza con il distacco, sino all’oblio, esibito da Meloni che evidentemente non ha alcun interesse ad accostare il suo nome agli eredi diretti del fascismo storico. 

L’uscita di Isabella Rauti, accompagnata da quella più soft – un omaggio al padre missino – ma anche più significativo del presidente del Senato Ignazio La Russa, riapre così il problema del rapporto tra FdI e il Msi (saltando a piè pari l’esperienza di Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini) evidenziando ciò che è incontrovertibile e suggellato dalla fiamma che tuttora è nel simbolo del partito di Meloni, cioè un rapporto di continuità e non di rottura tra le due storie. Ma la vicenda politicamente s’ingarbuglia un poco se teniamo presente, come sempre ripetono i meloniani, che il Movimento sociale fu un partito rappresentato in Parlamento e ampiamente legittimato dalla legge e dal piccolo ma significativo consenso elettorale. E allora dov’è la polemica? 

La questione sta nel non risolto rapporto non con quella storia ma con le sue ombre, pesanti ombre: come se il superamento storico del partito di Giorgio Almirante e Pino Romualdi (ma anche appunto di Pino Rauti e di personaggi loschi da Vito Miceli a Sandro Saccucci a Massimo Abbatangelo) fosse stato sufficiente a fare i conti con una lunga stagione fatta sì di Parlamento ma anche di compromissioni con l’estremismo nero, finanche eversivo, e con le trame oscure ordite a quei tempi contro la democrazia italiana. 

Meloni insomma, meno di Fini, non ha risciacquato i panni nelle acque del revisionismo storico e dell’abiura politica, cavandosela per così dire con la ripulsa delle leggi razziali ma senza affrontare il cuore nero degli anni Settanta e Ottanta, il che suona come una nota stonata, un che di imbarazzante, un’incompiuta sul terreno politico e anche morale. 

Ed è in questa zona grigia che Isabella Rauti può bellamente inneggiare al partito di Almirante suscitando reazioni giustamente critiche o allarmate da parte degli antifascisti, fino però alla riproposizione della medesima contraddizione che vale per FdI, cioè questa: gli esponenti del Partito democratico scoprono adesso che Rauti o La Russa sono legati idealmente, sentimentalmente e politicamente (in quanto non ne rinnegano la storia) al Movimento sociale italiano? 

Si comprende la reazione indignata di Emanuele Fiano, che alle ultime elezioni ha duellato con Isabella Rauti in un collegio milanese a lui sfavorevole e membro autorevole della comunità ebraica; meno senso ha la richiesta di dimissioni di La Russa di formulata da Stefano Vaccari, della segreteria del Pd, come se si pretendesse di annullare quel voto del Senato di poche settimane fa che ha portato il cofondatore di Fratelli d’Italia alla seconda carica dello Stato, e come se non si sapesse chi è e da dove viene, Ignazio La Russa. 

Anche qui, gli eredi della storia comunista dovrebbero chiudere razionalmente un discorso storico-politico e scegliere: o il Msi è stato un partito legittimato a stare in Parlamento, e allora non ha senso chiedere le dimissioni di un esponente che a quella vicenda si ricollega; oppure fu un partito semi-eversivo e allora non si capisce perché la sinistra non ne chiese all’epoca la messa fuori legge o non ponga oggi la questione della illegalità dei suoi eredi morali e politici. 

Detto questo, c’è però una questione che potenzialmente potrebbe diventare un problema da porre all’attenzione del Presidente della Repubblica che è quella di un presidente del Senato che continuamente esterna posizioni politiche di parte, al di là del ricordo dell’Msi, cosa che semplicemente non può fare in coerenza con il suo ruolo di seconda carica e potenziale supplente del Capo dello Stato. È questa di La Russa la prima, vera stortura istituzionale dell’era Meloni, ed è su questo, caso mai, che le opposizioni dovranno alzare la voce: non per gli omaggi al padre missino ma per gli sfregi all’imparzialità che la sua carica comporta.

La Moralità.

Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “Il Foglio” martedì 14 novembre 2023.

La vera riforma di Meloni è il “dirigenziato”. Non ha bisogno di referendum: la premier l’ha già approvata. A ogni Cdm, nei comunicati, c’è una voce che passa inosservata. E’ la voce “riorganizzazione dei ministeri”. In silenzio, si sta rivedendo, e moltiplicando, la pianta organica di governo. Si procede alla progressiva eliminazione della figura del segretario generale, si scorporano dipartimenti. 

Al ministero del Turismo l’organico delle aree passa da 159 a 294. I dirigenti da 21 a 30. A cosa serve? Serve a stipendiare, a fidelizzare funzionari in ministeri dove manca perfino il wi-fi. […]

Cos’è il “dirigenziato”? E’ il premierato del funzionario che grazie al governo Meloni viene promosso, incoronato. Quando la premier ha formato il governo, in molti hanno sorriso di fronte allo sfrenato desiderio di rinominare ministeri. Si credeva fosse dadaismo. Al posto dell’Agricoltura, la sovranità alimentare, il vecchio Sviluppo economico è diventato Made in Italy. Le competenze venivano passate da un ministero a un altro. Ebbene, è servito più di un anno per prendere le misure e per varare queste “riorganizzazioni”. 

Vengono impilate a ogni Cdm tra una nomina e un’altra. Le ultime riguardano il Turismo, la Salute, l’Ambiente, e il ministero delle Infrastrutture. Sono documenti interni. Il 30 ottobre 2023, la ministra Santanché ha definito la riorganizzazione “un atto necessario dal punto di vista tecnico”. Vediamola. I dirigenti di prima fascia nel precedente regolamento erano 4 e ora diventano 7. I dirigenti di seconda da 17 passano a 23. Nel nuovo regolamento si prevede anche la nomina di un vicecapo segreteria del ministro. 

[…]

Il ministero del Turismo fino a pochi anni fa neppure esisteva. Faceva parte del ministero della Cultura. Adesso ha il suo portavoce, capo ufficio stampa, consigliere diplomatico (ci si augura che verifichi le telefonate). E’ curioso. In molti di questi regolamenti c’è di solito una frase che recita senza “ulteriore aggravio”. 

Chiediamo a un ex ministro, uno di tre governi passati, come sia possibile avere più dirigenti e spendere sempre la stessa cifra. Risponde: “E’ una presa in giro. E’ chiaro che i ministeri diventano stipendifici. Naturalmente è denaro che poi viene a mancare per le politiche del ministero”. Andiamo alla Salute. Qui viene superata la carica di segretario generale. Stessa cosa avviene al Mimit.

Il segretario generale di Urso è un dirigente che abbiamo imparato a conoscere. E’ “Mister Prezzi”, Benedetto Mineo. Non deve stare molto simpatico al ministro. Il primo gennaio, secondo questa riorganizzazione che entrerà a regime, Mineo farà altro. Per la destra, la figura del segretario generale dei ministeri è una specie di vampiro. 

Il più famoso è stato, per anni, con governi di destra e sinistra, Salvo Nastasi. Reggeva il ministero della Cultura, altro ministero dove, per volere di Sangiuliano, tutta la vecchia pianta è saltata. La destra ha sempre definito i segretari generali, dei vari ministeri, “i veri ministri”. 

Con le nuove riorganizzazioni “scalano” i capi di gabinetto. E poi ci sono i “galloni”. Qui la destra fa la sinistra. E’ socialista. Allarga. Dicevamo della sanità. Da 1.699 funzionari si passa a 2.332. Nell’area “tre” del ministero si registra il grande balzo in avanti. Fino a meno di un anno fa era governato da un segretario generale e 12 direzioni generali. Adesso si avranno quattro dipartimenti 12 direzioni generali. I dirigenti di prima fascia da 13 salgono a 16. I dirigenti di seconda fascia da 111 a 134.

Spostiamoci al Mase, dal gozzaniano ministro Pichetto Fratin.

Gli uffici sono in via Cristoforo Colombo. Era l’ex ministero di Cingolani. Il sito web era finito sotto attacco hacker. Si è lavorato per mettere in sicurezza i sistemi. Ma, e lo dicono i dipendenti, non funziona la connessione wi-fi. 

Anche qui si riorganizza. Da dieci direzioni si passa a 12. Per i dipartimenti Amministrazione generale, pianificazione e patrimonio natura, Sviluppo sostenibile, viene istituita una segreteria tecnica che sarà, a sua volta, coordinata da un capo segreteria. Il personale degli uffici di diretta collaborazione si allarga: da 110 unità a 140. Aumenta pure il numero dei consiglieri giuridici, economici, scientifici. Da 26 a 31

 […]

Negli appunti di Giorgia, il rito della premier, del dirigenziato non se ne parla. Come si concilia la necessità di risparmiare con questa “piantagione” di dirigenti che cresce? E se proprio si vuole essere buoni: serviva più di un anno per varare la “necessaria riorganizzazione”? L’anno passato era dunque una esercitazione di guida? La speranza è che almeno per il Mase venga assunta una squadra di tecnici informatici.

Fratelli di soldi, L’Espresso in edicola. Chi c’è dietro il patrimonio di FdI. Forza Italia come l’arca di Noè. Le scelte di Netanyahu che hanno bruciato al-Fatah. Tutti in piazza contro la manovra sterile. L’ora del romanzo globale. E come sempre molto altro. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 10 Novembre 2023

Fondi privati e aziende, l’obolo degli eletti, merchandising e immobili. Con il tesoro di Fdl, seguendo il filo che lega i reduci missini alla creatura di Giorgia Meloni, comincia la nostra inchiesta sui patrimoni delle forze politiche. 

«Come si reggerebbe oggi anche la politica, ormai disintossicata dai rimborsi elettorali, senza che gli amici offrissero continue prove di generosità? », il talento dei Fratelli per i soldi lo spiega Sergio Rizzo nell’inchiesta di copertina. 

«Fratelli d’Italia ha chiesto ai suoi parlamentari e dirigenti di partito una cifra decisamente fuori dal comune: 50 mila euro a testa una tantum per finanziale la campagna», aggiunge Simone Alliva. Mentre il direttore Alessandro Mauro Rossi, nell’editoriale, fa i conti dei danni del cambiamento climatico: colpa del clima ma anche della politica.

Chi finanzia Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni. I benefattori, le aziende, gli immobili della Fondazione An, il merchandising dell’ex forzanovista e poi il 2 per mille e l’obolo dei parlamentari. Così FdI fa utili e tiene in banca 3 milioni su 8,7 di entrate. La prima puntata della nostra inchiesta sui conti dei partiti. Sergio Rizzo su L'Espresso il 16 novembre 2023

Gli amici si vedono nel momento del bisogno. E quali momenti più bisognosi esistono in politica, se non quelli delle campagne elettorali? Ecco allora che Paola Francesca Ferrari, conduttrice in Rai di 90° minuto, dà 40 mila euro ai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Si potrebbe sospettare che la giornalista, volto storico di Rai sport, abbia riguadagnato piena visibilità nella tivù di Stato, dopo la cocente epurazione dalle trasmissioni dei Mondiali di calcio in Qatar, grazie alla vittoria della destra. Cui anche lei avrebbe dato un piccolo contributo.

Ma per Paola Ferrari, nuora dell’ex editore del gruppo Repubblica-L’Espresso Carlo De Benedetti, è invece solo una questione di fede. E di amicizia. Nel 2008 tenta la via del Parlamento con la sua amica Daniela Garnero Santanchè, candidata premier della Destra di Francesco Storace. Senza fortuna. Il loro sodalizio tuttavia continua, sia pure in altalena, e oltre i confini della politica. 

Nel 2014 la giornalista Rai entra in società con Santanchè in Visibilia editore. Un annetto e volano gli stracci. Paola Ferrari si dimette dalla presidenza di Visibilia e presenta una denuncia per infedeltà patrimoniale in relazione alle acquisizioni dei periodici Novella 2000 e Visto. Che però finisce archiviata. E se l’amicizia sembrava irrimediabilmente in crisi, ora è acqua passata. Neppure quattro mesi fa, il 17 luglio 2023, mentre infuria la bufera sulla ministra del Turismo scatenata da un’inchiesta di Report, Paola Ferrari compra per 200 mila euro il 25 per cento di Visibilia concessionaria. Perché gli amici si vedono nel momento del bisogno. 

E come si reggerebbe oggi anche la politica, ormai disintossicata dai rimborsi elettorali, senza che gli amici offrissero continue prove di generosità? Anche se «offrire» in molti casi, è una parola grossa. Più che una scelta libera, infatti, è una scelta obbligata. La fonte principale di finanziamento dei partiti oggi sono i contributi dei loro parlamentari. Lo faceva un tempo solo il Partito Comunista. Da quando è finita la pacchia dei rimborsi lo fanno tutti. Nel 2022 più del 40 per cento delle entrate di Fratelli d’Italia, pari a 8,7 milioni e praticamente raddoppiate rispetto al 2021, sono state garantite da questa voce. Un salasso che non ha risparmiato nessun onorevole della fiamma. I versamenti più cospicui, quelli di Giulia Cosenza: 51 mila euro. Ed è ancora niente, se è vero che per la campagna delle elezioni europee il partito ha chiesto ai suoi eletti uno sforzo ancora più straordinario (richiesta che non tutti, a quanto pare, hanno accolto con giubilo). 

Certo, le tasche da cui attingere sono molto più numerose di quando l’avventura di Giorgia Meloni è iniziata. Nel 2013 Fratelli d’Italia aveva 13 deputati e senatori. Nel 2018 erano già 61. Adesso sono addirittura il triplo: 181. Un sacco di tasche e un sacco di soldi. In ogni caso il partito incassa più da loro che dai contribuenti che destinano al partito il 2 per mille delle tasse: circa 3,5 milioni contro 3,1. 

E dire che pure il gettito del 2 per mille è aumentato vertiginosamente. Nel 2015, primo anno di applicazione del nuovo sistema di finanziamento dei partiti, a Fratelli d’Italia erano stati destinati poco più di 135 mila euro da 56.362 contribuenti, con una media pro capite di 2 euro e 40 centesimi. Nel 2022 sono arrivati invece oltre 3,1 milioni da 233.874 contribuenti. In media, 13 euro e 39 centesimi. 

Mentre i contributi delle imprese languono: 510 mila euro. Che per il partito di Giorgia Meloni sono comunque un record assoluto. Nella lista ci sono i 40 mila euro della Confagricoltura di Massimiliano Giansanti, che non fa mai mancare il sostegno al partito. Anche se il partito sembra avere maggiore feeling con la Coldiretti di Ettore Prandini. E poi i 50 mila della I.V.P.C. di Oreste Vigorito, patron del Benevento calcio e amico di Clemente Mastella, nonché ritenuto il papà dell’energia eolica italiana. E i 30 mila del gruppo Cremonini. E i 26 mila del Twiga di Flavio Briatoree Daniela Garnero Santanchè (prima della sua nomina a ministra del Turismo). Più altre frattaglie, tipo i 5 mila euro di “Verde è popolare”, associazione ambientalista dell’ex democristiano Gianfranco Rotondi, eletto con FdI. 

Denari comunque decisivi per far tornare i conti. Il bilancio 2022 è finito in archivio con un utile di mezzo milione e quasi tre milioni di soldi liquidi in banca. Mica male, per un ex partitino che aveva debuttato nove anni prima con poche persone, scarse risorse e un bilancio in perdita per 158 mila euro. Agli albori, poi, non si vendevano neppure i gadget. Magliette, portachiavi, tazze, cappelli e accendini con gli slogan del tempo che fu, dal «Memento audere semper» di Gabriele D’Annunzio a «Le radici profonde non gelano» del Signore degli anelli di John Ronald Tolkien. Cose che adesso, a giudicare dal giro d’affari della società che li ha gestiti fino alla fine del 2021, vanno letteralmente a ruba. In tre anni la People service, questa la sigla, ha fatturato qualcosa come un milione e mezzo. Ora la società responsabile dell’oggettistica di Fratelli d’Italia si chiama in un altro modo: Italica solution. Ma il titolare è sempre il medesimo. Il suo nome, Martin Avaro. È l’ex capo di Forza Nuova del quartiere Salario, a Roma. Per la serie, appunto, che «Le radici profonde non gelano». Frase comparsa qualche anno fa in un manifesto per il tesseramento di Forza Nuova sotto una fotografia di Benito Mussolini.

Perduti i rimborsi elettorali, i partiti si sono dovuti organizzare. C’è chi ha sofferto, come Forza Italia, Lega e Pd. E chi invece non altrettanto. Fratelli d’Italia è nato quando il giro di vite era già in atto, ma senza il costoso apparato che avevano altri sul groppone. Poi ci sono sempre i contributi pubblici, mai cancellati del tutto. I rimborsi elettorali sono stati sostituiti dal 2 per mille, che però garantisce oggi ai partiti sì e no un decimo di quelle somme. Per non parlare dello sgravio fiscale del 26 per cento: significa che chi versa 10 mila euro a un partito in realtà ne spende 7.400, perché i rimanenti 2.600 ce li mettono i contribuenti. Uno sconto fiscale maggiore perfino di quello riconosciuto a chi finanzia opere benefiche. 

Né bisogna trascurare i contributi alla stampa di partito, ancora esistenti. In vent’anni il Secolo d’Italia, adesso esclusivamente online, ha incassato dallo Stato la bellezza di 34,1 milioni. Il presidente della società editrice è Filippo Milone, una delle figure chiave dell’apparato economico che regge il partito, sotto il segno di Ignazio La Russa. Per descrivere il tenore e la qualità dei loro rapporti, quando con il governo di Mario Monti l’attuale presidente del Senato deve lasciare la Difesa, il suo consulente e braccio destro Milone resta a presidiare il ministero con la carica di sottosegretario. Fattore comune fra i due è Salvatore Ligresti da Paternò. Di Ligresti La Russa da Paternò è qualcosa più che un amico: come fossero di famiglia. Suo figlio Antonino Geronimo è stato consigliere della holding Premafin. E anche Milone frequenta le società di Ligresti. Da un sacco di tempo. È lui, nel tramonto della prima Repubblica, che gestisce la Grassetto. L’impresa di costruzioni di Ligresti finisce come tante nel tritacarne di Tangentopoli e Milone ne fa le spese, sperimentando tutte le varianti dall’assoluzione in appello alla prescrizione. Prima che il suo nome spuntasse, un bel giorno, nelle intercettazioni dell’inchiesta sulla Finmeccanica, l’industria militare pubblica. 

Adesso, a 71 anni, è consacrato alla politica. Il capo del Secolo d’Italia è anche consigliere di Italimmobili, la holding in cui sono state concentrate nel 2020 tutte le proprietà del fu Movimento sociale italiano, presieduta da Roberto Petri. Un altro fedelissimo di La Russa, responsabile della sua segreteria alla Difesa. Primo dei non eletti aennini nelle liste del Pdl nel 2008, è subito risarcito con uno strapuntino (guarda caso) nel cda della Finmeccanica. E tre anni dopo con un’altra poltrona nel cda dell’Eni, nientemeno. Completa il consiglio di Italimmobili l’ex consigliere regionale della Basilicata Antonio Tisci. E tutti e tre hanno anche un posto nel consiglio della Fondazione Alleanza nazionale. 

Costituita nel 2011 dopo la diaspora di Futuro e libertà per l’Italia di Gianfranco Fini, la Fondazione An riunisce in qualche modo tutti gli eredi della galassia missina. C’è Gianni Alemanno, che ha fondato un nuovo partito a destra di Fli. C’è Maurizio Gasparri, ora in Forza Italia. E c’è Italo Bocchino, che aveva seguito Fini. Alemanno e Gasparri sono anche fra i sei membri del comitato esecutivo presieduto da Giuseppe Valentino nel quale figura anche La Russa. 

Ma nonostante ciò la Fondazione altro non è che il forziere di Fratelli d’Italia. Dentro c’è una settantina di immobili. Il valore dei suoli asset è decisamente ragguardevole, ben oltre il patrimonio netto di 55 milioni che denuncia il bilancio 2022. Che qui i soldi non facciano difetto, del resto, lo dicono con chiarezza i quasi 30 milioni di depositi e titoli custoditi in banca, da Unicredit a Intesa, da Bpm a Deutsche bank a Banca Generali. All’atto della fusione con Forza Italia, nel 2009, si parlava di una cifra non lontana dai 350 milioni. Un’esagerazione? Chissà. Certo era prima della battaglia legale innescata dai fedeli di Fini, chiusa dai commissari liquidatori nominati una decina d’anni fa dal tribunale. Da allora la Fondazione si identifica nei fatti con il partito di Giorgia Meloni, che contribuisce a finanziare (40 mila euro lo scorso anno). Proprietaria delle federazioni, affitta i locali al partito che paga regolarmente le pigioni. Ma i soldi restano tutti in casa. Ovviamente. 

Non senza qualche incidente di percorso. Per esempio l’eredità della contessa Anna Maria Colleoni, pro-pro-pronipote del capitano di ventura Bartolomeo Colleoni. Così fascista che al confronto Assunta Almirante sembrava di sinistra, la nobildonna un giorno dice a Fini: «A Gianfra’, se te comporti bene quando me moro te lascio tutto», racconta nel 2010 sul Giornale l’attuale direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci. E fa proprio così. Totale dell’eredità, 4,3 milioni di euro secondo l’Agenzia delle Entrate. Ci sono terreni edificabili, titoli e immobili. C’è anche un appartamento a Monte Carlo, che Fini cede per 300 mila euro a una società dietro cui, pare a sua insaputa, c’è Giancarlo Tulliani. Cioè il fratello della sua compagna. Il terremoto che investe l’ex leader di An pone fine alla sua carriera politica. Nel 2015, mentre le cause giudiziarie sono ancora in corso, il settimanale Oggi rivela che l’appartamento è in vendita per 1,6 milioni. 

Ma nel legato Colleoni di appartamenti romani ce ne sono pure altri. Il più prestigioso è in via Paisiello al civico 40. Nel 2012 viene occupato da un manipolo capitanato da Giuliano Castellino, lo stesso che guiderà nel 2021 l’assalto alla Cgil di Corso d’Italia. «Per assegnarlo alla Destra» di Francesco Storace, dichiara. E Storace ringrazia. Quindi diventa sede del Giornale d’Italia. Ben presto però rioccupato, stavolta da Roberto Fiore. Resistono fino all’inevitabile sfratto sollecitato al tribunale dalla Fondazione. Prova provata che la «contiguità» fra Forza Nuova e FdI, di cui si continuerebbe «a favoleggiare», non esiste. Pensieri e parole del Secolo d’Italia. 

Arianna Meloni chiede 50mila euro agli eletti di Fratelli d'Italia per le Europee. E nel partito crescono i malumori. La sorella di Giorgia Meloni, responsabile del tesseramento, sta lavorando alla prossima tornata elettorale. Da qui la richiesta del super-obolo: «Su questa campagna ci giochiamo tutto». E spuntano le prime critiche: «Questa è una roba da matti. Hanno perso ogni misura». Simone Alliva su L'Espresso il 10 novembre 2023

Da via della Scrofa i malumori salgono sonori e si sentono forse per la prima volta. Questo modello del partito familista reso ancora più evidente con l’ascesa di Arianna Meloni, sorella maggiore di Giorgia Meloni e moglie del ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare, Francesco Lollobrigida, «disturba».  

Romana, classe 1975 (due anni in più della presidente del Consiglio), Arianna Meloni la politica – aveva raccontato in una lunga intervista rilasciata a Il Foglio durante l’estate 2022 – la fa fin da quando era giovane. Ma mai in prima persona. «Io sono un’ansiosa: non mi piace apparire. Ecco perché non mi sono mai candidata, nonostante faccia politica da quando sono ragazza». Dal 2000 lavora per la Regione Lazio come precaria («Sempre lo stesso genere di contratto, senza evoluzione di carriera, stesso stipendio»). 

«La ribelle della famiglia», da capa del tesseramento di Fratelli d’Italia, il mese scorso ha imposto ai dirigenti di tesserare più persone possibile entro il 16 ottobre. Ordine eseguito. In tutta Italia si è visto un incremento di circa il 40%. «Quanto ce costa, però», racconta un dirigente che chiede l’anonimato, non essendo autorizzato a parlare della questione figuriamoci di quello che non va nel partito. Già, perché la sorella d’Italia avrebbe chiesto anche una quota specifica a seconda del peso politico. A chi è ai vertici fino mille-duemila, ai novizi 300. «Chiedere, pretendere, alzare la voce», è questo il metodo con cui la responsabile del dipartimento adesioni della segreteria politica difende l’impero meloniano. 

Di recente è stata nominata anche nel Consiglio di amministrazione della Fondazione Alleanza nazionale. Poltrona di peso: la Fondazione possiede tra liquidità e patrimonio immobiliare quasi 230 milioni di euro e finanzia iniziative di propaganda e comunicazione. Il suo ruolo nel partito è stato fino a oggi quello della consigliera personale della presidente del Consiglio, coordinatrice delle decisioni che contano. Senza farsi troppo vedere, quasi nell’ombra, del resto: «Il potere – come spiegava una volta Francesco Cossiga – ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regola la sintonia della radio. Chi parla è un burattino, chi manovra è il burattinaio». Giorgia Meloni di nessuno si fida più che di sua sorella («Siamo simbiotiche»). 

E adesso Arianna Meloni tiene in ordine le file del partito ma anche i conti. Si è parlato e scritto molto della sua possibile candidatura alle Europee. Alla domanda su una sua disponibilità a mettersi in gioco, ha risposto al Corriere della Sera: «Preferirei di no. Ma sono un soldato». Intanto al «soldato» è stato affidato il compito di preparare il terreno in vista delle Europee, ovvero «la sfida più importante per il partito al governo in questo momento storico. Tutte le nostre figure politiche più esperte credo che debbano necessariamente mettersi a regime, ponendo al primo posto la necessità di lavorare per un bene maggiore sacrificando se occorre un bene minore». Sacrificio è la parola chiave. In vista delle elezioni europee, Fratelli d'Italia ha chiesto ai suoi parlamentari e dirigenti di partito una cifra decisamente fuori dal comune: 50 mila euro a testa una tantum per finanziare la campagna. «Certo, ci giochiamo tutto», spiegano i meloniani. Eppure i parlamentari versano ogni mese la propria quota al partito, pari a mille euro ciascuno. E non sono neanche pochi: 118 deputati, 63 senatori. 

«Ma questa sarà una campagna in grande. Anche Salvini ha chiesto ai suoi 30 mila euro. Non bisogna stupirsi. E finora l’invito è rivolto soprattutto ai parlamentari più facoltosi e a nomi di peso», specificano da Fratelli d’Italia. Perché la campagna elettorale costa, lo sappiamo, costa moltissima fatica e moltissimi soldi. Ma il punto di rottura psicologico si sente già sotto traccia: intemperanze, nervosismo. «Ma questa è una roba da matti. Hanno perso ogni misura. Su questo sta giocando sul fuoco». Del resto anche i dirigenti di Fratelli d’Italia, non solo le sorelle Meloni, tengono famiglia.

La Destra ha una poltrona per tutti: la carica di amici e trombati continua. Enti pubblici, società partecipate, commissariati di governo. Una carica ai posti senza precedenti. E Fratelli d’Italia fa la parte del leone.i Sergio Rizzo su L'Espresso il 5 Settembre 2023 

Per dire quanto la nomina risulti indigesta, è andata di traverso anche a Renato Schifani. Che pure è siciliano come Fabio Fatuzzo e condivide con il suo partito, cioè Fratelli d’Italia, la giunta della Regione siciliana. Ma si è detto comunque sbalordito per il fatto di passare per quell’incarico da una figura «di altissima competenza a un ex parlamentare senza alcuna preparazione specifica». Folgorante la sintesi del giornale online Fanpage.it, che ha titolato: “Il governo si prende anche le fogne”. Perché è andata proprio così. Hanno fatto perfino sloggiare il commissario governativo per gli interventi di depurazione delle acque reflue, il professore di costruzioni idrauliche ingegner Maurizio Giugni nominato a maggio del 2020, per consegnare il suo posto all’ex deputato di An, già finiano prontamente ripassato alla destra con l’attuale ministro Adolfo Urso, e ora meloniano a trazione integrale, Fatuzzo. Per l’anagrafe, anni 72 suonati. Non bastasse, gli hanno pure affiancato due vice, nelle persone dell’ex assessore della precedente giunta siciliana del Fratello d’Italia Nello Musumeci, Salvatore Cordaro (avvocato), e del dirigente calabrese di Forza Italia Antonino Daffinà (commercialista), trombato fra il 2018 e il 2020 alle elezioni politiche e regionali. 

Per completezza d’informazione Fanpage.it ricorda che fra i due predecessori dei vice c’era anche un ex onorevole del Pd, Stefano Vaccari. Così fan tutti. Ma stavolta la sensazione è che si stia passando ogni limite. 

L’invasione non risparmia nulla. Enti pubblici, società partecipate, commissariati di governo. Ogni buco è buono per sistemare trombati, amici, anche parenti. Come forse mai accaduto prima. Siamo tornati agli anni ruggenti, senza nemmeno più il rispetto della forma, se non di un barlume di competenza. 

Le avvisaglie, va detto, c’erano già state con la prima ondata di nomine nelle grandi aziende di Stato. Ma ora l’occupazione delle poltrone pubbliche procede inarrestabile, come un fiume carsico. Qualche volta non orchestrata solo dai partiti, ma sempre ben oltre i confini dell’opportunità istituzionale. 

Se con un governo simile era forse logico attendersi la sostituzione del commissario alla ricostruzione Giovanni Legnini, ex onorevole del Pd, con il senatore meloniano Guido Castelli, e la nomina a commissario di governo per la Fiera del libro di Francoforte dell’ex direttore del Tg2 fedele alla destra Mauro Mazza, la sorpresa è la commissaria dell’Inps Micaela Gelera. Una sorpresa, ovviamente, per chi non sa che è stata per anni consulente della Enpacl, la Cassa di Previdenza dei Consulenti del Lavoro. E che la ministra che l’ha nominata è stata a sua volta per 17 anni, fino a quando ha assunto l’incarico di governo, presidente e suprema guida dei Consulenti del Lavoro: ora rilevata ai vertici della potente lobby dal suo marito e socio, già consigliere dell’Inps. 

Così anche la nomina di Marco Mezzaroma alla presidenza di Sport e Salute, voluta dal ministro dello Sport Andrea Abodi già presidente della Lega calcistica di serie B e componente della Federcalcio, non può essere ridotta a una banale questione politica. Anche se il prescelto è cognato di un pezzo da novanta di palazzo Madama qual è il senatore di Forza Italia Claudio Lotito. Il cui peso politico però non è minimamente paragonabile a quello che il presidente della Lazio ha sul mondo dello sport. 

Ma di posti di sottogoverno ce ne sono così tanti, e disseminati ovunque, che si possono apprezzare anche curiose ricomparse. Tipo quella di Ferruccio Ferranti, che negli anni berlusconiani ruggenti la destra del centrodestra piazzava ovunque, dal Poligrafico dello Stato a Sviluppo Italia, alla Consip. Ex socio in affari dell’ex ministro di An Andrea Ronchi, riappare adesso alla presidenza del Mediocredito Centrale, banca del gruppo ex Sviluppo Italia di cui Ferranti era stato amministratore delegato durante una breve e non indimenticabile stagione. Ma a volte, com’è noto, ritornano. Per ragioni imperscrutabili, come quella che ha condotto insieme a Ferranti, nel cda del Mediocredito, l’ex sindaco di Anzio Stefano Bertollini, in passato consulente di Urso. 

Decisamente imperscrutabile è anche il motivo che ha portato nel consiglio di amministrazione di Cinecittà spa, ad occupare l’unico posto disponibile, l’ex deputato Udc Giuseppe De Mita: il nipote dell’ex segretario Dc e sindaco di Nusco fino alla morte, Ciriaco De Mita. 

Invece una ragione per la svolta di Sestino Giacomoni c’è eccome. A lungo ombra di Silvio Berlusconi, non ha superato l’ennesimo esame delle urne. Né poteva bastargli, evidentemente, la consulenza alla Farnesina di Antonio Tajani. Eccolo allora, a fine giugno, presidente della Consap. Un dignitoso parcheggio, prima occupato dall’ex direttore generale della Rai berlusconiana, Mauro Masi. Comodamente parcheggiati con Giacomoni nel cda della società assicurativa pubblica che indennizza le vittime di incidenti non coperti da polizze anche l’ex deputato abruzzese della Lega Antonio Zennaro e l’ex consigliera regionale leghista della Lombardia Francesca Ceruti. 

Per restare nel popoloso campo dei salviniani, ecco l’ex vicepresidente del consiglio regionale lombardo Francesca Attilia Brianza alla presidenza di Equitalia giustizia. Ed ecco Jacopo Vignati, ex segretario del partito di Matteo Salvini a Pavia, nel consiglio di amministrazione della Sogin. In compagnia, nella società che da anni generosamente foraggiata con le bollette elettriche non riesce a smaltire come si deve le scorie nucleari, dell’avvocata Fiammetta Modena: senatrice di Forza Italia bocciata alle ultime politiche. 

Ma le società pubbliche spesso funzionano anche da paracadute per chi dovrà liberare una poltrona delicata. Per esempio quella di vicedirettore dei servizi segreti per l’estero (Aise) incarico affidato dal secondo governo Conte all’ammiraglio Carlo Massagli. Ora nominato presidente della Sogin. L’altro vicedirettore, Luigi Della Volpe, generale della Finanza, ha avuto invece a giugno un posticino da consigliere di amministrazione dell’Acquirente Unico, la società pubblica per il mercato tutelato dell’energia. Di cui è stato nominato nella stessa tornata amministratore delegato Giuseppe Moles, già senatore di Forza Italia, ex assistente di Antonio Martino e nel governo di Mario Draghi sottosegretario per l’editoria. Non ricandidato alle elezioni del 2022. E per la serie che la seggiola non si nega a nessuno, ne spetta una nel cda dell’Acquirente Unico anche a Noi moderati, il partitino governativo di Maurizio Lupi. Ma non per un onorevole trombato, bensì per una funzionaria del gruppo parlamentare. Si chiama Maria Chiara Fazio, ed è nientemeno che la figlia dell’ex cattolicissimo governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Esperta in diritto tributario. 

I vertici di una società energetica pubblica te li aspetteresti esperti di energia. Così come i consiglieri di una società ambientale pubblica dovrebbero capire qualcosa di ambiente. Ma tant’è. La società in questione si chiama Sogesid e dipende, appunto, dal ministero dell’Ambiente, ed è stata rinnovata qualche settimana fa. Con l’innesto nel cda di un ingegnere esperto di trasporti del Comune di Roma, Errico Stravato, considerato vicino a Fratelli d’Italia e al suo capogruppo alla Camera Tommaso Foti. Dell’avvocata Ernestina Sicilia, dirigente brindisina di Forza Italia. E del giornalista Massimiliano Panero, duramente attaccato dal Pd per la sua presunta vicinanza a Casapound. Mancava solo questo. Il seguito, temiamo, alla prossima puntata.

Da nicolaporro.it il 9  Luglio 2023

Siamo quasi al traguardo di un anno di governo Meloni. Ed è tempo dei primi bilanci. Alessandro Sallusti, che sta scrivendo un libro con il premier prossimo alle stampe, ha avuto accesso a Palazzi Chigi più di tanti altri giornalisti. E ha potuto analizzare da vicino aspettative e strategia del leader di Fratelli d’Italia. 

Qualcosa il direttore si è lasciato sfuggire. Soprattutto per quanto riguarda la classe dirigente del partito di cui è a capo. L’accusa è la seguente: il premier si è fatto da solo, ha conquistato l’Italia, è stata molto brava. Ma si circonda di persone non al suo livello. “La Meloni è conscia di questo – dice Sallusti – Non crede che tutti quelli che sono siano degli scappati di casa, ma sa che ci sono. Un giorno ero con lei e Meloni si distrae con il cellulare. Le ho detto: ‘Cosa succede presidente?’. E lei mi fa vedere la dichiarazione di un ministro importante. Dichiarazioni che hanno fatto un casino. E io gli dico: ‘Vabbè, c’è sempre più realista del Re’. E lei: ‘No, Alessandro: c’è sempre qualcuno più coglione del Re'”.

Meloni amari, i cinque fantasmi di Giorgia che vede una strategia contro. Alessio De Giorgi su Il Riformista l'8 Luglio 2023 

A metterli in fila fanno impressione: sono i guai di Giorgia, per qualcuno i suoi fantasmi inesistenti, problemi di cui dovrebbe sapersi liberare, per altri macigni insormontabili, che dovrebbero indurla a scelte draconiane. Giorgia e i suoi fantasmi. Non che Palazzo Chigi non sia abituato ad ospitare fantasmi, visto che tutti i suoi inquilini ne hanno visti eccome in quei corridoi lunghi e regolari, in quelle stanze damascate. Ma sicuramente quelli che inseguono Giorgia sono molti e lei non ha ancora imparato a gestirli: qualche fallo di reazione di troppo, che abbiamo registrato nei giorni scorsi, ci dimostra che la difficoltà è crescente. Proviamo a metterli in fila uno dopo l’altro, per vedere se e quanto questi fantasmi siano reali – perché a volte eccome se lo sono stati in passato – o siano totalmente immaginari.

La vicenda del coinquilino Delmastro.

Che i due coinquilini Delmastro e Donzelli abbiano fatto qualcosa di grave divulgando, in quella maledetta seduta della Camera di gennaio, il contenuto di una relazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria contenente conversazioni in carcere dell’anarchico Alfredo Cospito è evidente a tutti, anche a Giorgia. Forse non c’è una dicitura “Segreto” su quei fogli, ma a tutti è chiaro che la condizione di detenuto, anche per reati gravissimi, non rende le sue intercettazioni pubbliche e pubblicabili. Che poi Delmastro, sottosegretario del Ministero da cui dipende il Dap, lo abbia fatto per motivi di polemica politica è semmai un’aggravante. Al Gip di Roma che giovedì ha deciso l’imputazione coatta del Sottosegretario, contro quindi il parere del Pubblico Ministero – come dovrebbe accadere più spesso in una giustizia ideale, in cui le funzioni delle due carriere si esercitano anche in modo non armonico -, Chigi ha pensato di rispondere con una inusitata rabbiosità, del tutto fuori stile per la comunicazione ufficiale del Governo. Facendo riferimento anche all’altra vicenda che sta interessando il governo, quello della Ministra Santanché, la nota firmata “fonti di Chigi” si domanda “se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. Fantasmi, appunto. Perché se nel caso della Ministra è evidente che ci sia stata l’ennesima e inopportuna fuga di notizie sulla sua iscrizione nel registro degli indagati, la decisione del Gip su Delmastro era scontato che venisse resa pubblica: lo è nel momento in cui viene emessa la decisione, che questa ci piaccia o no.

La Rimborsopoli.

Augusta Montaruli, deputata, fedelissima di Giorgia, si è dimessa a febbraio da sottosegretaria all’Istruzione dopo la condanna della Cassazione a un anno e 6 mesi nel processo sulla rimborsopoli piemontese, una vicenda che investì la legislatura regionale 2010-2014. “Ho deciso di dimettermi dall’incarico di Governo per difendere le istituzioni certa della mia innocenza”, ha dichiarato annunciando le sue dimissioni arrivate dopo le richieste pressanti da parte delle opposizioni, quando ancora la scia delle polemiche sui due coinquilini non si erano sopite. Anche qui Giorgia si è sentita sotto assedio, ma non ha potuto far nulla a fronte di una sentenza di condanna definitiva, tanto più che aveva tenuto la barra ferma (fin troppo, anche per alcuni colleghi di maggioranza) su Delmastro e Donzelli.

Tengo famiglia.

A seguire, l’assedio al fortino nel quale Giorgia si è asserragliata è proseguito con l’inchiesta sulla famiglia della Premier e sulla veridicità delle sue dichiarazioni nel libro autobiografico da lei pubblicato. Nulla di illecito, nulla di penalmente rilevante, nulla di così enormemente grave peraltro. Ma l’assedio è durato più giorni ed ha occupato le prime pagine di molti giornali, specie di quelli che non eccellono per garantismo. Si è scavato nella sua vita, nelle sue memorie, nel travagliato rapporto col padre. Un po’ troppo? Quasi sicuramente sì, nonostante parliamo di uno dei principali attori della scena politica italiana. Tutto questo ha pesato molto sulla tranquillità di Giorgia, facendo crescere la percezione di un vero e proprio assedio al suo fortino.

Santanché o Santadeché?

Che la Ministra sia indagata da mesi pare ormai una certezza. Che lei non abbia ricevuto alcuna comunicazione al riguardo è altrettanto certo. Che sia l’ennesima vicenda italica in cui un esponente politico riceve dalla stampa la comunicazione di un avviso di garanzia è agli atti. Che l’indagine sia per falso in bilancio e che quindi poco abbia a che fare con il suo ruolo da Ministra della Repubblica, questo è un altro dato di fatto. Che ci siano stati comportamenti inopportuni con l’etica politica, è possibile, per tanti sarà pure probabile, ma è materia di contesa politica e oggetto di valutazione da parte della Ministra stessa e della Presidente del Consiglio, giacché la Costituzione repubblicana non è giacobina e i costituenti non hanno previsto un Tribunale della Verità. E’ infine indubbio che, qualora si desse per assodato che le dimissioni devono necessariamente seguire l’avviso di garanzia, si darebbe nelle mani del magistrato che fa filtrare la notizia e del giornalista che la pubblica una sorta di potere di veto su qualunque politico. Ed è proprio su questo punto che Giorgia ha visto l’ennesimo fantasma – che forse così fantasma non è, visto che in casi come questi la forma diventa sostanza – ed ha reagito con quel comunicato di Palazzo Chigi decisamente fuori dagli schemi.

Last but not least.

In ultimo, questa brutta, delicatissima vicenda di presunta violenza sessuale che riguarda il figlio di Ignazio, uno dei principali sparring partner della Premier, attuale Presidente del Senato. Una vicenda sulla quale, per le modalità con cui si è svolta e per la sensibilità delle parti coinvolte, in un paese civile il silenzio sarebbe d’obbligo, almeno fino al primo provvedimento del giudice, se non alla sentenza. Di tutti, nessuno escluso. Lo stesso silenzio che peraltro ci fu per la vicenda per certi versi simile che coinvolse il figlio del guru del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo il cui processo va avanti con mille ostacoli e mille ritardi. Anche in questo caso siamo sicuri che il senso di assedio di Giorgia sarà alle stelle.

Giorgia e i fantasmi che la inseguono su e giù per le scale di Chigi.

Una cosa è certa: quando ha varcato il portone di Palazzo Chigi per la prima volta sapeva che da quel momento in poi la sua vita sarebbe cambiata, e non necessariamente in meglio. Un’altra cosa però è altrettanto certa, sicuramente a noi, non sappiamo se pure a lei: Giorgia ed i suoi sodali, sempre pronti quando erano opposizione a chiedere le dimissioni anche solo per un battito di ciglia di un giudice, oggi si sono trasformati in straordinari garantisti. Il che di per sé sarebbe un bene: ma a noi piacerebbe vederli sì garantisti, non a targhe alterne.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

Tutte le inchieste della magistratura attorno al Governo Meloni. Giovanni Capuano su Panorama il 07 Luglio 2023

Non solo Santanché e Delmastro. I fascicoli più o meno aperti sono diversi. E spesso finiscono con un nulla di fatto

Fascicoli di indagine aperti nelle procure, inchieste giornalistiche, accuse e smentite, ricostruzioni storiche. Da quando Giorgia Meloni è entrata a Palazzo Chigi i fari si sono accesi su lei e sul suo Governo in un crescendo che ha rimesso la questione giudiziaria al centro della politica italiana come già ai tempi di Silvio Berlusconi. La nota con cui fonti vicino a Palazzo Chigi si chiedevano se non sia “lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione e abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee” , ha solo messo nero su bianco un sentimento condiviso seguendo il filo di quanto accaduto in questi mesi. Vale la pena mettere insieme tutti i tasselli del puzzle. - Partiamo dal ministro Santanché la cui iscrizione nel registro degli indagati per bancarotta dallo scorso mese di ottobre, circostanza di cui Santanché non è ancora a conoscenza secondo quanto da lei dichiarato in Parlamento, è stata annunciata dai giornali. La vicenda è quella di Visibilia, il gruppo editoriale da lei fondato e delle sue partecipazioni in altre società. - C’è poi l’imputazione coatta chiesta dal gip di Roma per Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al caso Cospito. La Procura di Roma aveva chiesto l’archiviazione della posizione di Dalmastro, il gip si è opposto imponendo l’apertura del processo. - Da Milano ecco anche la denuncia per violenza sessuale contro Leonardo Apache La Russa, uno dei figli del presidente del Senato. Vicenda emersa a oltre un mese dall’episodio e della quale si sta occupando la Procura di Milano. Il legale della famiglia La Russa parla di rapporto consenziente, ma La Russa padre e famiglia sono sulle prime pagine di tutti i quotidiani per una storia che verrà chiarita nei prossimi mesi. - La salita di Giorgia Meloni a Palazzi Chigi era stata, invece, accompagnata dalle voci sui rapporti pericolosi dei suoi genitori. La madre Anna Paratore accusata di essere stata una disinvolta imprenditrice immobiliare e il padre, Francesco Meloni (peraltro senza legami da anni con la figlia avendo abbandonato la famiglia quando la futura premier era appena nata), con lo scheletro nell’armadio di una condanna per narcotraffico nel lontano 1995. In Spagna. Non è una novità. - La nomina di Guido Crosetto a ministro della Difesa aveva scatenato inchieste giornalistiche e polemiche per la sua presenza in aziende del settore. “Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo – aveva precisato Crosetto -. Mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo. Liquiderò ogni mia società, rinuncio al 90% del mio attuale reddito”. - Nello Musumeci, ministro per la Protezione Civile, è finito invece nel tritacarne nel maggio scorso, a margine dell’inchiesta siciliana su favori e corruzione nella sanità isolana. La ragione? Il coinvolgimento di Ruggero di Razza, da sempre braccio destro di Musumeci e presente anche nel suo staff ministeriale dopo essere stato assessore alla Salute quando l’attuale ministro era presidente della Regione Sicilia. - Il nome di Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, è comparso nelle carte che hanno messo nei guai l’ex direttore generale dell’Agenzia delle dogane Marcello Minenna e l’ex parlamentare leghista Gianluca Pini, un tempo vicino a Giorgetti. La colpa di Giorgetti, secondo le ricostruzioni, essere citato come uno degli interlocutori cui Pini era in grado di arrivare nel corso della sua attività politica. Nessuna accusa, nessun coinvolgimento. Il Mef ha precisato che i rapporti tra i due erano interrotti ormai da tempo. - Su Marina Calderone, ministro del Lavoro, e sul marito Rosario De Luca indaga la Guardia di Finanza per una storia riguardante presunti abusi della gestione del personale dell’Ordine dei Consulenti di cui è stata presidente per 18 anni prima che le subentrasse il consorte. “Illazioni generiche” la difesa, gli accertamenti chiariranno il quadro. - Adolfo Urso, ministro per le Imprese e il Made in Italy, ha querelato invece Report per una puntata nel maggio scorso nel corso della quale il programma di inchiesta della Rai aveva sollevato il problema dell’esistenza di “facilitatori” a pagamento dai quali si doveva passare per arrivare al ministro. “Palesi falsità” la reazione di Urso che ha dato mandato ai suoi legali di querelare.

Meloni: “Un certo potere costituito vuole farci cadere. Non ci fermeremo”. Redazione su L'Identità l'8 Luglio 2023 

Prima Santanchè, poi Delmastro, fino a La Russa. Il governo Meloni sembra essere sotto assedio, ma la premier aveva messo in conto che durante il suo operato “un certo potere costituito” si sarebbe dato da fare “per fermare le riforme che abbiamo messo in cantiere”. Adesso, riporta il Corriere della Sera, “l’attacco è arrivato” ma non intende fare passi indietro. “Continuerò il mio lavoro con serenità, sono soddisfatta degli ottimi risultati sul piano interno e in politica estera e resto concentrata sul lavoro quotidiano e sul consenso degli italiani”, avverte la leader.

Le indagini sulla ministra Santanchè, l’imputazione coatta per il segretario Delmastro fino alla denuncia nei confronti del terzogenito del presidente del Senato, hanno convinto la premier a dichiarare “guerra” alla Magistratura. “Ho preso atto che si vuole alzare lo scontro, ma non sono io che ho aperto le ostilità e continuerò a non rispondere alle provocazioni”. Un’accusa alla Magistratura che, dice, ha iniziato “anzitempo” la campagna elettorale per le Europee.

La tesi di Palazzo Chigi, riporta il Corriere è che “un certo potere costituito” vada contro l’esecutivo. “Chi spera di poter mettere in discussione il governo sarà deluso. Io non posso impedire che cerchino di farci cadere, ma il tentativo non arriverà in porto. Andremo avanti con le riforme perché le ritengo necessarie per il bene del Paese, a cominciare da quella della giustizia”.

Estratto da mowmag.com sabato 8 luglio 2023.

Nel giro di poche ore il governo è finito sotto il fuoco della magistratura. Le toghe si danno un gran da fare per mettere nel mirino l'esecutivo di centrodestra, che nonostante tutto cresce nei sondaggi. Tre casi in poche ore: Santanché, Delmastro e il figlio di Ignazio La Russa. Saranno soltanto coincidenze? Ci crede poco Vittorio Feltri, giornalista di lungo corso e direttore da sempre garantista, che ci ha raccontato come mai questo “tempismo” lo insospettisce 

(...) Altra partita quella di La Russa, visto che il presidente del Senato non è coinvolto direttamente, ma certamente le accuse verso il figlio (indagato per violenza sessuale) mettono in imbarazzo. Intanto Vittorio Feltri ci ha spiegato perché ha dei dubbi su tutti e tre i casi: “Io di puttanate fatte dalla magistratura ho il taccuino pieno...”.

La Russa, Delmastro, Santanchè, tutti casi così delicati in poche ore. Le sollevano qualche dubbio?

Mi sembra ovvio che ce l'abbiano con la destra, in quanto al comando. E siccome non riescono a fare un'opposizione accettabile, utilizzano gli amici della magistratura per andare in cu*o al governo. Nella giustizia è sempre stato pieno di anomalie, partendo dal caso di Enzo Tortora che ho seguito io quarant'anni fa fino ad ora, per cui non mi stupisco più di niente. 

È normale che un ministro venga a sapere da un giornale che è sotto inchiesta?

Ma è ovvio, è tutto distorto, però non è una novità, non lo scopriamo mica oggi che la giustizia fa cagare. Poi che i giornali facciano il loro lavoro e riescano ad avere notizie, anche riservate, non è mica la prima volta.

Quindi il quotidiano Domani ha fatto soltanto il suo lavoro?

È stata una forzatura, ma se è sicuro di quello che ha scritto è perché qualche magistrato gliel'ha detto, non scherziamo. Per cui il problema è la giustizia, non il giornale. Io sono amico della Santanchè e so anche che è una persona perbene, però è normale che un giornale che riesce ad avere una notizia riservata, di cui peraltro ha la certezza, la scriva e questo succede da sempre. Ma se vogliamo che non succeda più, è il caso di fare una legge per cui i giornali non possono pubblicare certi atti giudiziari finché non sono giunti al diretto interessato. Io di puttanate fatte dalla magistratura ne ho un taccuino pieno. 

Quali sono gli errori giudiziari più clamorosi che le vengono in mente?

Il più clamoroso è quello che ho scoperto io, il caso Tortora. Poi ce ne sono tanti altri che mi lasciano dubbioso, di cui però non ho le prove. Posso discuterne sul giornale e nessuno me lo può vietare, sono infatti convinto che Bossetti sia innocente, che la condanna che hanno inflitto al ragazzo che dicono abbia ammazzato la fidanzata (Stasi) non sia plausibile, perché è stato assolto in primo grado, poi in secondo grado e poi la Cassazione lo condanna a 16 anni, ma siamo impazziti? Allora i magistrati precedenti erano deficienti? 

Cosa cambierebbe nella giustizia italiana?

Secondo me i gradi di giudizio dovrebbero essere applicabili solo in un caso, ovvero nel momento in cui l'imputato, condannato in primo grado, richieda di accedere a un secondo grado di giudizio, ma nel momento in cui si è assolti da un primo magistrato non vedo perché ce ne debba essere un altro che contraddice il primo. Direi che una aggiustatina alla magistratura bisogna dargliela.

La premier crede al complotto? Meloni amari, i cinque fantasmi di Giorgia che vede una strategia contro. Alessio De Giorgi su Il Riformista l'8 Luglio 2023 

A metterli in fila fanno impressione: sono i guai di Giorgia, per qualcuno i suoi fantasmi inesistenti, problemi di cui dovrebbe sapersi liberare, per altri macigni insormontabili, che dovrebbero indurla a scelte draconiane. Giorgia e i suoi fantasmi. Non che Palazzo Chigi non sia abituato ad ospitare fantasmi, visto che tutti i suoi inquilini ne hanno visti eccome in quei corridoi lunghi e regolari, in quelle stanze damascate. Ma sicuramente quelli che inseguono Giorgia sono molti e lei non ha ancora imparato a gestirli: qualche fallo di reazione di troppo, che abbiamo registrato nei giorni scorsi, ci dimostra che la difficoltà è crescente. Proviamo a metterli in fila uno dopo l’altro, per vedere se e quanto questi fantasmi siano reali – perché a volte eccome se lo sono stati in passato – o siano totalmente immaginari.

La vicenda del coinquilino Delmastro.

Che i due coinquilini Delmastro e Donzelli abbiano fatto qualcosa di grave divulgando, in quella maledetta seduta della Camera di gennaio, il contenuto di una relazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria contenente conversazioni in carcere dell’anarchico Alfredo Cospito è evidente a tutti, anche a Giorgia. Forse non c’è una dicitura “Segreto” su quei fogli, ma a tutti è chiaro che la condizione di detenuto, anche per reati gravissimi, non rende le sue intercettazioni pubbliche e pubblicabili. Che poi Delmastro, sottosegretario del Ministero da cui dipende il Dap, lo abbia fatto per motivi di polemica politica è semmai un’aggravante. Al Gip di Roma che giovedì ha deciso l’imputazione coatta del Sottosegretario, contro quindi il parere del Pubblico Ministero – come dovrebbe accadere più spesso in una giustizia ideale, in cui le funzioni delle due carriere si esercitano anche in modo non armonico -, Chigi ha pensato di rispondere con una inusitata rabbiosità, del tutto fuori stile per la comunicazione ufficiale del Governo. Facendo riferimento anche all’altra vicenda che sta interessando il governo, quello della Ministra Santanché, la nota firmata “fonti di Chigi” si domanda “se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”. Fantasmi, appunto. Perché se nel caso della Ministra è evidente che ci sia stata l’ennesima e inopportuna fuga di notizie sulla sua iscrizione nel registro degli indagati, la decisione del Gip su Delmastro era scontato che venisse resa pubblica: lo è nel momento in cui viene emessa la decisione, che questa ci piaccia o no.

La Rimborsopoli.

Augusta Montaruli, deputata, fedelissima di Giorgia, si è dimessa a febbraio da sottosegretaria all’Istruzione dopo la condanna della Cassazione a un anno e 6 mesi nel processo sulla rimborsopoli piemontese, una vicenda che investì la legislatura regionale 2010-2014. “Ho deciso di dimettermi dall’incarico di Governo per difendere le istituzioni certa della mia innocenza”, ha dichiarato annunciando le sue dimissioni arrivate dopo le richieste pressanti da parte delle opposizioni, quando ancora la scia delle polemiche sui due coinquilini non si erano sopite. Anche qui Giorgia si è sentita sotto assedio, ma non ha potuto far nulla a fronte di una sentenza di condanna definitiva, tanto più che aveva tenuto la barra ferma (fin troppo, anche per alcuni colleghi di maggioranza) su Delmastro e Donzelli.

Tengo famiglia.

A seguire, l’assedio al fortino nel quale Giorgia si è asserragliata è proseguito con l’inchiesta sulla famiglia della Premier e sulla veridicità delle sue dichiarazioni nel libro autobiografico da lei pubblicato. Nulla di illecito, nulla di penalmente rilevante, nulla di così enormemente grave peraltro. Ma l’assedio è durato più giorni ed ha occupato le prime pagine di molti giornali, specie di quelli che non eccellono per garantismo. Si è scavato nella sua vita, nelle sue memorie, nel travagliato rapporto col padre. Un po’ troppo? Quasi sicuramente sì, nonostante parliamo di uno dei principali attori della scena politica italiana. Tutto questo ha pesato molto sulla tranquillità di Giorgia, facendo crescere la percezione di un vero e proprio assedio al suo fortino.

Santanché o Santadeché?

Che la Ministra sia indagata da mesi pare ormai una certezza. Che lei non abbia ricevuto alcuna comunicazione al riguardo è altrettanto certo. Che sia l’ennesima vicenda italica in cui un esponente politico riceve dalla stampa la comunicazione di un avviso di garanzia è agli atti. Che l’indagine sia per falso in bilancio e che quindi poco abbia a che fare con il suo ruolo da Ministra della Repubblica, questo è un altro dato di fatto. Che ci siano stati comportamenti inopportuni con l’etica politica, è possibile, per tanti sarà pure probabile, ma è materia di contesa politica e oggetto di valutazione da parte della Ministra stessa e della Presidente del Consiglio, giacché la Costituzione repubblicana non è giacobina e i costituenti non hanno previsto un Tribunale della Verità. E’ infine indubbio che, qualora si desse per assodato che le dimissioni devono necessariamente seguire l’avviso di garanzia, si darebbe nelle mani del magistrato che fa filtrare la notizia e del giornalista che la pubblica una sorta di potere di veto su qualunque politico. Ed è proprio su questo punto che Giorgia ha visto l’ennesimo fantasma – che forse così fantasma non è, visto che in casi come questi la forma diventa sostanza – ed ha reagito con quel comunicato di Palazzo Chigi decisamente fuori dagli schemi.

Last but not least.

In ultimo, questa brutta, delicatissima vicenda di presunta violenza sessuale che riguarda il figlio di Ignazio, uno dei principali sparring partner della Premier, attuale Presidente del Senato. Una vicenda sulla quale, per le modalità con cui si è svolta e per la sensibilità delle parti coinvolte, in un paese civile il silenzio sarebbe d’obbligo, almeno fino al primo provvedimento del giudice, se non alla sentenza. Di tutti, nessuno escluso. Lo stesso silenzio che peraltro ci fu per la vicenda per certi versi simile che coinvolse il figlio del guru del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo il cui processo va avanti con mille ostacoli e mille ritardi. Anche in questo caso siamo sicuri che il senso di assedio di Giorgia sarà alle stelle.

Giorgia e i fantasmi che la inseguono su e giù per le scale di Chigi.

Una cosa è certa: quando ha varcato il portone di Palazzo Chigi per la prima volta sapeva che da quel momento in poi la sua vita sarebbe cambiata, e non necessariamente in meglio. Un’altra cosa però è altrettanto certa, sicuramente a noi, non sappiamo se pure a lei: Giorgia ed i suoi sodali, sempre pronti quando erano opposizione a chiedere le dimissioni anche solo per un battito di ciglia di un giudice, oggi si sono trasformati in straordinari garantisti. Il che di per sé sarebbe un bene: ma a noi piacerebbe vederli sì garantisti, non a targhe alterne.

Alessio De Giorgi. Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva

Nessun complotto, solo mediocrità. Santanchè, Delmastro, Davigo e il segreto d’ufficio in un tinello marron. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta l'8 Luglio 2023

Mai come nelle vicende di questi giorni, la magistratura si è mostrata così prudente, quasi timorosa, verso il potere politico

Come prevedibile, le vicende di Daniela Santanchè e Andrea Delmastro hanno risvegliato gli animal spirits dei complotti giudiziari in un governo dalla modesta cultura giuridico-istituzionale. Assistiamo dunque a un festival di strampalate teorie giuridiche da parte di cronisti e politici accomunati dalla totale ignoranza dei fondamenti del diritto, senza la pena non di consultare un codice, ma almeno un figlio laureando, un parente o un amico avvocato.

Uno dei più autorevoli commentatori politici a piena pagina proclamava ieri addirittura la riapertura ufficiale della nuova stagione di caccia grossa delle toghe alla politica. Assunto che, allo stato degli atti, per usare un adeguato linguaggio giuridico non è sorretto da sufficienti elementi di prova.

Sul caso Santanchè questo giornale ha avuto modo di dire come sia difficilmente e tecnicamente poco credibile che il ministro non avesse avuto informazione della sua condizione giudiziaria perché, decorsi i primi sei mesi di indagini dopo l’iscrizione nel registro degli indagati – avvenuta a ottobre nel caso della parlamentare piemontese – va notificata a lei la richiesta di ulteriore proroga del termine per svolgere gli accertamenti che la procura ritenga necessari.

Al contrario delle molte castronerie sostenute sul punto, l’avviso in questione va recapitato all’indagato e non solo al suo difensore (ci è toccato sentire anche questo) nominato o meno.

Delle due l’una: o la procura ha gravemente trascurato un preciso adempimento – compromettendo irrimediabilmente la validità delle indagini in corso – o il ministro ha omesso al Parlamento una circostanza rilevante per accreditare senza fondamento la tesi di un possibile reato di violazione del segreto commesso dagli uffici giudiziari di Milano e subito rilanciato da interessati corifei.

La realtà è tutt’altra: mai, come nelle vicende in questione, la magistratura si è mostrata più prudente e quasi timorosa nei confronti del potere politico.

Personalmente, in mezzo secolo di professione, non ho mai visto “secretare” un’indagine per una banale bancarotta come è stato fatto per le società del ministro Santanchè. Il termine per il vincolo del segreto può essere apposto solo per tre mesi, prorogabile solo per reati assai più gravi, dopo di che l’esistenza dell’indagine è conoscibile dall’interessato e dai suoi difensori a loro richiesta e quindi nessuna violazione di segreto può essere invocata.

Il caso Delmastro presenta invece interessanti particolarità che lambiscono temi importanti quale quello (spiegato su questo giornale) del conflitto di interessi di un governo che vede uno dei suoi membri processato dall’amministrazione giudiziaria di cui lo stesso si occupa istituzionalmente nel suo dicastero.

Con la solita tempestività, invece di doverosamente tacere, è intervenuto il ministro Carlo Nordio, che ha criticato il provvedimento di rigetto dell’archiviazione del suo sottosegretario e minacciato (vista la qualità delle precedenti il termine è appropriato) ulteriori riforme. Paradossalmente l’ex procuratore veneziano lamenta ciò che molti garantisti come lui propugnano: il controllo del giudice sul doveroso esercizio dell’azione penale, obbligatoria nel nostro sistema, un principio appena appena costituzionale che, certo, ne converrà il ministro, non si può solo utilizzare quando tutela le ragioni dell’indagato, specie se della propria parrocchia politica.

Ma la vicenda del sottosegretario veneto, che Linkiesta ha potuto approfondire con la conoscenza dei particolari, presenta precise peculiarità che vanno approfondite ben oltre la gazzarra politica.

Il punto cruciale non è la natura (segreto o no) del rapporto che la polizia penitenziaria ha inoltrato al Dap (Direzione dell’amministrazione penitenziaria) alcuni mesi fa durante la protesta dell’anarchico Alfredo Cospito contro il 41 bis –nel quale si segnalava il contenuto di un colloquio intercorso tra lui e alcuni detenuti per mafia –, ma se la condotta di Delmastro rientrasse nelle sue facoltà istituzionali di parlamentare o abbia commesso reato trasmettendolo al suo collega, amico e coaffittuario Giovanni Donzelli nel corso di un colloquio privato che peraltro i due ammettono. Sul punto, Donzelli dichiara di aver inoltrato una formale richiesta di accesso, evidentemente “mirata”, ma la procura sottolinea che essa è impropria e irrituale in quanto andava indirizzata al ministro e non al sottosegretario.

Sulla natura dell’atto, la difesa di Delmastro ha sollecitato un parere del Dap, che ha qualificato l’atto come riservato e a “limitata divulgazione” entro l’ambito del ministero, ma non etichettabile come segreto, su questo ha poi richiesto l’archiviazione dell’indagine. In pratica, a dimostrare l’enormità del conflitto di interessi in atto, il sottosegretario ha certificato la propria innocenza tramite un attestato rilasciato dal “suo” ministero.

La vicenda ricorda da vicino un’altra – non meno clamorosa – svoltasi sempre all’ombra di un tinello, simbolo classico della medietà italiana: quella di Piercamillo Davigo, cui il collega Paolo Storari consegnò nel salotto di casa i verbali dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria, e che l’ex pm poi diffuse presso alcuni colleghi del Csm e alte cariche istituzionali, ricavandone un’incriminazione e la condanna in primo grado per lo stesso reato contestato al parlamentare di Fratelli d’Italia.

Storari è stato assolto, mentre è stato condannato Davigo dal Tribunale di Brescia, che ha ritenuto la sua colpevolezza sulla base del potenziale pericolo che la divulgazione dei verbali della Loggia Ungheria poteva arrecare all’indagine in atto a Milano. In particolare si è censurata la gestione privatistica di atti coperti dal segreto nel soggiorno di casa Davigo e poi diffusi al di fuori dell’ordinario circuito istituzionale tramite colloqui privati.

Di tale precedente non ha tenuto conto la procura di Roma, che ha richiesto l’archiviazione per Delmastro, sostenendo – con una qualche contraddizione, ma con lodevole scrupolo garantista – che l’atto fosse sì riservato, e dunque non divulgabile, in quanto riportava colloqui di detenuti in regime di massima sicurezza ma che il sottosegretario, ancorché valente giurista e avvocato penalista, non lo avesse percepito come tale, pur contenendo la relazione di servizio notizie suscettibili di costituire uno spunto di indagine.

Il gip non ha condiviso l’afflato difensivo dei pm, ha ritenuto in astratto configurabile il reato e sostenibile l’accusa nel processo in quanto come sostenuto anche dalla procura i colloqui tra detenuti al 41 bis sono coperti da segreto salvo costituiscano prova in un processo penale pubblico. Ed esercitando il legittimo controllo sul corretto esercizio dell’azione penale ha ordinato al pm di avviarla, chiedendo il rinvio a giudizio dell’illustre imputato, con la conseguente apertura di un palese conflitto di interessi e a rischio di scontro istituzionale tra un membro dell’organo di governo titolare del potere disciplinare sulle toghe e la magistratura.

C’è una cosa che accomuna i due casi: la disinvolta utilizzazione di atti pubblici e di estrema delicatezza come se fossero gossip, non nell’ambito dei circuiti istituzionali ma nella penombra metaforica e reale di un qualche “tinello marron” come quelli cantati da Paolo Conte per i suoi malinconici amori clandestini, tra un letto sfatto, le briciole in cucina, la tv aperta su qualche reality, lo sfondo più adatto per ospitare e cogliere la mediocrità triste e piccina di una classe dirigente.

Delmastro e Santanchè, il ministero della Giustizia bacchetta i magistrati. Dario Martini Il Tempo l'08 luglio 2023

Caso Delmastro e caso Santanchè. Il ministero della Giustizia entra a gamba tesa nella polemica, con la contrapposizione tra toghe e politica che raggiunge livelli che non si vedevano da tempo. Partiamo dalla vicenda che riguarda il sottosegretario alla Giustizia per il caso Cospito. È dell’altro ieri la notizia dell’imputazione coatta di Andrea Delmastro (FdI) disposta dal gip Emanuela Attura, dopo che i pm romani avevano chiesto l’archiviazione in seguito all’esposto del deputato di Verdi e Sinistra Angelo Bonelli. A Delmastro viene contestato di aver rivelato al coinquilino e compagno di partito Giovanni Donzelli il contenuto delle intercettazioni ambientali in carcere tra l’anarchico Cospito e alcuni boss mafiosi al 41 bis. Donzelli, poi, ha rivelato tutto in Aula alla Camera il 31 gennaio scorso.

Per la Procura, che ricordiamo aveva proposto l’archiviazione, Delmastro non era consapevole della segretezza di quelle informazioni. Tesi che il gip ha ritenuto non fondata. Adesso, ad intervenire nel merito sono fonti del ministero della Giustizia, secondo cui l’imputazione coatta disposta dal gip del tribunale di Roma nei confronti di Delmastro per il caso Cospito «dimostra, come nei confronti di qualsiasi altro indagato, l’irrazionalità del nostro sistema». Le stesse fonti di via Arenula aggiungono: «Nel processo che ne segue l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna non farà altro che contraddire se stessa. Nel processo accusatorio il pubblico ministero, che nonè né deve essere soggetto al potere esecutivo ed è assolutamente indipendente, è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede». E ancora: «La grandissima parte delle imputazioni coatte si conclude con assoluzioni dopo processi lunghi e dolorosi quanto inutili, con grande spreco di risorse umane ed economiche anche per le necessarie attività difensive. Per questo è necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio». Quest’ultimo punto, ovvero la riforma su cui sta lavorando il Guardasigilli Carlo Nordio è il punto saliente della questione. Il governo, in pratica, fa sapere che quanto sta accadendo non si ripeterà più proprio per le nuove norme su cui si sta lavorando. Anche lo stesso Delmastro, con un tweet che riprende le parole di Nicola Porro, scrive: «Imputazione coatta? Quella cosa che avviene una volta ogni milione di capelli nella testa pelata di Kojak».

Battute a parte, il ministero della Giustizia interviene anche sul caso Santanchè, soprattutto sul fatto che la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati da parte della Procura di Milano è arrivata proprio nel giorno in cui la ministra del Turismo riferiva in Aula sulle presunte irregolarità nella gestione delle sue aziende. Tra l’altro l’esponente di governo non ha mai ricevuto alcuni avviso di garanzia nonostante sia indagata dal 5 ottobre scorso e la sua posizione sia stata desecretata tre mesi dopo. Il motivo? Imprecisate questioni burocratiche. Le fonti di via Arenula sottolineano quindi quanto sia «urgente» la riforma dell’iscrizione del registro degli indagati e dell’informazione di garanzia. Le stesse fonti «manifestano, ancora una volta, lo sconcerto e il disagio per l’ennesima comunicazione a mezzo stampa di un atto che dovrebbe rimanere riservato.

La riforma proposta mira ad eliminare questa anomalia tutelando l’onore di ogni cittadino presunto innocente sino a condanna definitiva». Nordio lo ripete da mesi: tutto ciò deve finire. Ese il M5S annuncia battaglia in parlamento contro un «attacco vergognoso alla magistratura» e il Pd, con la segretaria Elly Schlein, ritiene che il governo stia passando il segno, Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali, sposa la linea del governo: «L’imputazione coatta disposta dal gip contro la volontà del pm è da sempre una delle norme più irrazionali e insensate del nostro codice di procedura penale per ragioni che sono state ben espresse dal Ministero. Ma è una norma che esiste dalla fine degli anni Ottanta. Ce ne accorgiamo solo ora? Meglio tardi che mai». 

Indagini, giustizia ed informazione, un sistema che sta andando in tilt. Egidio Lorito su Panorama il 07 Luglio 2023

Il caso-Santanchè ha fatto riemergere le storiche problematiche che incidono sul delicato rapporto tra indagini preliminari e potere dei media. L'opinione del Prof Dinacci

Il ciclone mediatico-giudiziario che si è abbattuto sul ministro del turismo Daniela Santanchè era balzato alle cronache già lo scorso novembre, quando era stata divulgata la notizia di indagini a suo carico per falso in bilancio nelle comunicazioni 2016-2020 di Visibilia Editore spa. Era emersa un’annotazione del settembre precedente secondo cui il Gruppo Tutela Mercati della Guardia di Finanza di Milano esplicitava “la sussistenza del reato di false comunicazioni sociali”. Il ministro, per difendersi, aveva provato a smentire la notizia ricorrendo all’art. 335 del Codice di procedura penale (registro delle notizie di reato), ovvero alla c.d. certificazione della Procura rilasciata su istanza dell’interessato attestante l’iscrizione, a proprio carico, di procedimenti penali in corso: e in quel caso la certificazione richiesta aveva dato esito negativo. Ma come era stato possibile? Tecnicamente è possibile che la stessa Procura avesse fatto ricorso al c. 3 bis della norma citata, che afferma che “(…) Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero, nel decidere sulla richiesta, può disporre, con decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore a tre mesi e non rinnovabile (…)”. In pratica la Procura di Milano, trovandosi innanzi a indagini complesse, potrebbe aver ritardato, per un massimo di 3 mesi, la comunicazione agli avvocati della Santanchè dell’iscrizione del procedimento penale. Il ministro, insomma, era formalmente indagato ma non lo sapeva ne avrebbe potuto (e dovuto…) saperlo. Intanto i suoi legali avevano, in quei mesi, interloquito con la Procura, intuendo, informalmente, che la propria assistita fosse effettivamente indagata per falso in bilancio e concorso in bancarotta: in più non avevano più richiesto il rilascio della certificazione ex art. 335 c.p.p. e così avevano potuto continuare ad affermare che la propria assistita non avesse avuto comunicazione formale di un’indagine a proprio carico. Forse sarà andata così, ma il resto lo hanno compiuto i media in questi ultimi giorni, come sempre… Panorama.it ha rivolto alcune domande al professore Filippo Dinacci, ordinario di diritto processuale penale nell’Università Luiss di Roma, sul delicato e complesso meccanismo esistente in materia di indagini preliminari e conoscenza da parte dell’indagato. Professore, innanzitutto facciamo chiarezza. Può una persona essere indagata senza sapere di esserlo? «Certamente si ed è questa una forte criticità dell’impianto codicistico che non risulta allineato agli obblighi costituzionali e convenzionali laddove impongono che l’accusato debba, nel più breve tempo possibile, essere informato riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa». Se non erriamo le indagini preliminari si caratterizzano per l’assoluta segretezza... «Sul punto le scelte legislative sono chiare: la segretezza vige fino alla chiusura delle indagini ovvero, pur nel corso delle stesse, fino a quando l’indagato possa legittimamente venire a conoscenza di singoli atti di indagine. Al di fuori di tali ipotesi, queste ultime sono tutelate dal segreto che è posto a presidio dell’efficienza delle stesse. Non a caso si è previsto un potere del pubblico ministero di secretare atti di indagini che non potrebbero più essere tutelati dal segreto e, d’altro canto, consentire la pubblicazione di atti non pubblicabili ovvero vietare la pubblicazione di atti che sarebbero pubblicabili». Le variabili delle esigenze investigative, in ogni caso, prevalgono… «Non è irrilevante la circostanza che tali variabili possono essere realizzate solo attraverso l’adozione di un decreto motivato il quale, pur nel silenzio codicistico, è da ritenere debba fondarsi su esigenze di indagini».

In ogni caso le indagini hanno una durata e, quindi, una data di chiusura: cosa succede a quel punto? «Le indagini non possono essere illimitate nel tempo per il semplice fatto che un cittadino non può divenire un “eterno indagabile”. Se l’accusa, entro il termine fissato dalla legge, non raccoglie elementi sufficienti per esercitare l’azione penale, deve formulare richiesta di archiviazione; in caso contrario, come detto, dovrà esercitare l’azione penale ma prima deve, a pena di nullità, instaurare un contraddittorio cartolare con l’indagato preceduto dal deposito di tutti gli atti di indagine». Solo a questo punto l’indagato potrà iniziare a difendersi. «E’ su questi atti depositati che il sottoposto ad indagine potrà esercitare il suo diritto di difesa con le iniziative che riterrà opportune. Si tratta del primo momento in cui la difesa viene a conoscenza di tutto il materiale investigativo raccolto». Quindi sarà il magistrato del pubblico ministero, dominus delle indagini preliminari, ad “avvisare” l’indagato del suo status. «Potrebbe accadere che l’indagato scopra di essere tale al momento della chiusura delle indagini. E ciò, in particolare, si verifica se il pubblico ministero in quelle specifiche indagini non richiede proroghe delle medesime. In tali evenienze l’indagato, infatti, ha diritto ad un avviso, purché non si proceda per reati cc.dd. di criminalità organizzata ovvero di particolare allarme sociale, predefiniti normativamente, in relazione ai quali anche questa garanzia viene meno». Il tema è da sempre centrale: non è inusuale che l'indagato venga a conoscenza delle indagini direttamente dai mezzi di informazione... «Quando ciò accade mi pare ovvio che qualcosa non abbia funzionato». A proposito: già durante gli anni di Tangentopoli la c.d. “informazione di garanzia” prevista dal codice di rito, si era praticamente trasformata in “garanzia di informazione”"...

«Quella dell’informazione di garanzia è una lunga storia. Non c’è dubbio che un istituto diretto a garantire i diritti dell’indagato si sia nel tempo decisamente trasformato. Basti pensare che l’attuale codice, proprio per evitare forme di indebito utilizzo dell’informazione in discorso, ne ha previsto la notifica solo nell’ipotesi in cui si debba compiere un atto di indagine al quale il difensore ha diritto di assistere. Opzione legislativa ambigua, orientata a limitare notifiche di informazioni di garanzia al solo fine di prevenire divulgazioni di stampa». Ma l’informazione di garanzia non viene sempre notificata! «Perché si sposta in avanti il momento dell’eventuale notifica, tant’è che nella maggioranza dei casi le indagini si concludono senza che venga notificata l’informazione di garanzia stessa. Così, però, di fatto si è arretrata la garanzia alla conoscenza del procedimento e sul punto occorre rimarcare come la conoscenza in discorso sia il presupposto per un effettivo diritto di difesa». A proposito… «Non si può infatti esercitare tale diritto fondamentale se non si è a conoscenza di essere sottoposto a procedimento penale. In sostanza per combattere un indebito uso dell’informazione di garanzia si sono sottratti diritti difensivi». Si continua ad assistere a comunicazioni a mezzo stampa di atti procedimentali a soggetti che nemmeno sapevano di essere indagati. Tale modus comportandi anche nel passato ha prodotto effetti deflagranti sul piano della politica e dell’economia. Quali sono i rischi di tali comportamenti? «I rischi sono molteplici: in una democrazia evoluta il comando giuridico espresso dalla norma deve essere osservato e se ciò non accade deve essere sanzionato. Purtroppo ciò difficilmente avviene e tale circostanza determina inevitabilmente l’aumentare dei casi». Sul punto occorre essere chiari… «Nell’ordinamento non esistono diritti assoluti che secondo una felice espressione della Corte costituzionale diverrebbero “tiranni”: la libertà di stampa deve essere garantita e tutelata ma non quando vìola i precetti normativi, in quanto questi costituiscono il fondamento di quel “contratto sociale” stipulato tra cittadino e Stato. Pertanto il diritto all’informazione deve trovare dei limiti da individuarsi nella legittimità della notizia assunta e pubblicata». Il problema non è costituito solo dalla notizia indebitamente pubblicata, ma anche da quella illegittimamente fornita. «E qui, come accennato, necessiterebbe una maggiore attenzione alla repressione di condotte che assumono una valenza penalistica. Non si dimentichi che, anche nella nostra storia repubblicana l’indebita fuoriuscita di notizie ha comportato conseguenze politiche rilevantissime e destabilizzanti e ciò anche in quei casi in cui, anni dopo, i soggetti incriminati sono stati assolti con formula piena». Da giurista non le sembra che il sistema sia da tempo cortocircuitato, proprio sul punto? «Ritengo di sì, ma noto anche che il legislatore non ha il coraggio di varare riforme più decise. Ad oggi l’indebita pubblicazione di una notizia è punita con un reato oblabile, gli accertamenti sulla violazione di segreti quasi sempre non approdano a nulla, e tutto ciò crea un margine di impunità che induce ad una proliferazione dei casi». E assoggettare a forme di responsabilità dell’editore le evenienze di indebita pubblicazione di notizie? «In tale evenienza vi sarebbe certamente più attenzione proprio da parte dell’editore. Né si dica che la proposta ha un sapore liberticida per il semplice motivo che non può invocarsi un valore nobile come la libertà a scudo del mancato rispetto delle regole» Eppure le norme per il rispetto delle persone sottoposte alle indagini esistono.. Cosa non funziona? «Semplice, non funziona il rispetto delle regole e sul punto mi piace ricordare quel che all’indomani dell’entrata in vigore del codice Vassalli mi disse, nel mentre si discuteva di alcuni aspetti della riforma, Giovanni Conso: “questo è un codice la cui riuscita dipende dalla regolarità dei comportamenti delle parti”». Procure colabrodo o giornalisti deontologicamente scorretti? «Giudizi di genere è sempre difficile esprimerli, e quel che mi si chiede è un vero e proprio uovo di Colombo. Una cosa è certa: se i giornalisti non hanno la notizia non possono pubblicarla». Filippo Dinacci, classe 1961, è Ordinario di Diritto Processuale Penale nell’Università LUISS Guido Carli di Roma, dopo aver insegnato sempre da ordinario nell’Università degli Studi di Bergamo. Avvocato cassazionista, nel 2006 era stato nominato componente della segreteria scientifica della Commissione di riforma del Codice di procedura penale, mentre dal 2007 al 2017 è stato titolare del corso “Diritto processuale penale interno e comparato” presso la Scuola Superiore di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. E’ nel board di prestigiose riviste di settore come “Le ragioni del garantismo” , “Archivio Penale” , “Questioni nuove di Procedura Penale” , “Anales de Derecho” dell’Università di Murcia “Cassazione penale”. Come avvocato ha assunto la difesa in delicati processi di grande rilevanza politica ed economica.

Giorgia Meloni.

La cugina di Gramsci. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2023.

Oltre a un cognato del calibro di Lollobrigida, Giorgia Meloni può vantare anche un cugino come Antonio Gramsci. Dobbiamo la sensazionale scoperta ad Alessio Vernetti, analista politico di Youtrend, che si è trasferito per un lungo picnic sotto gli alberi genealogici di Ghilarza, comune di quattromila anime in provincia di Oristano. E lì ha potuto appurare come la nonna del fondatore del partito comunista lasciato marcire in carcere da Mussolini avesse sposato in prime nozze il fratello della nonna della bisnonna dell’attuale premier di destra. Mi gira già troppo la testa per azzardare il grado preciso di parentela: me la caverò con «cugini alla lontana per via della bisarcavola», che in un Paese di familisti accaniti come il nostro è già un legame piuttosto stringente.

Dirà qualcuno: anche Berlinguer e Cossiga erano cugini. Vero, ma la distanza politica tra loro era poco più di un vicoletto, se paragonata al Gran Canyon che separa Gramsci e Meloni. I quali, giusto per completare l’arco costituzionale, risultano imparentati anche con entrambi i Letta: lo zio Gianni e il nipotino Enrico, Forza Italia e Pd. Altro che premierato forte, siamo alla maggioranza bulgara, anzi sarda. In attesa di capire chi esercita l’egemonia culturale sugli altri (ma un sospetto ce l’ho), tornano alla mente le parole definitive di Ennio Flaiano: «In Italia è impossibile fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti».

Giorgia Meloni "discende da Gramsci, come Letta". C'è l'albero genealogico. Il Tempo il 02 dicembre 2023

Legami di famiglia e alberi genealogici impensabili entrano nel dibattito politico, almeno come "curiosità". Giorgia Meloni in qualche modo discende da Antonio Gramsci, nume tutelare della sinistra, così come per un altro ramo della famiglia, Enrico Letta. A fare la curiosa scoperta è Alessio Vernetti, analista politico di YouTrend e appassionato di genealogia. "La nonna di Gramsci sposò in prime nozze il fratello di una 'bisarcavola' (il nonno di un bisnonno, ndr) di Giorgia Meloni. A Ghilarza (Oristano) gli avi di Giorgia Meloni si intrecciano con quelli di Antonio Gramsci e, tramite quest’ultimo, con Gianni ed Enrico Letta. Così ho scoperto il legame familiare tra tutti loro", spiega in una serie di tweet in cui mostra con grafici e collegamenti l'albero genealogico dello storico segretario del Partito comunista italiano.

I legami parentali di Letta con l'intellettuale erano noti, non quelli della premier. "Elsa Bazzoni, nonna materna di Letta, era infatti cognata di Franco Paulesu, che a sua volta aveva come zio Antonio Gramsci - spiega l'analista a Libero - il legame familiare tra Giorgia Meloni e Antonio Gramsci, invece, è più remoto, e per comprenderlo bisogna passare per il nonno paterno della premier, il regista Nino Meloni", nato nel 1899 a Ghilarza, lo stesso paesino dell’entroterra sardo da cui proveniva anche la madre di Gramsci. Tecnicamente, "sono legami non di sangue, ma 'acquisiti'", spiega Vernetti. Tra l'altro, nella tortuosa genealogia gramsciana, potrebbe spuntare un legame anche con Santi Licheri, il giudice scomparso noto ai più per Forum, il programma Mediaset... 

L’albero genealogico che lega Giorgia Meloni, Antonio Gramsci ed Enrico Letta. Il Posta l'1 dicembre 2023

Probabilmente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è imparentata molto alla lontana con il filosofo Antonio Gramsci, storico segretario generale del Partito Comunista d’Italia e fondatore dell’Unità. Lo sostiene l’analista politico di YouTrend Alessio Vernetti, che è anche un appassionato di genealogia e ha fatto una approfondita ricerca per dimostrarlo. In un thread su X (Twitter) Vernetti ha scritto che in base alle sue ricostruzioni la nonna di Gramsci sposò in prime nozze il fratello di una bisarcavola di Meloni, cioè la nonna di una sua bisnonna. Sia Gramsci sia Meloni, poi, sono imparentati alla lontana con l’ex segretario del Partito Democratico Enrico Letta: anche questo legame, di cui si era già parlato in passato, è stato ricostruito da Vernetti.

Vernetti racconta che la sua ricerca era partita con la scoperta che Nino Meloni, il nonno paterno della presidente del Consiglio, era nato a Ghilarza, lo stesso paese dell’entroterra sardo dove crebbe Gramsci. Così, consultando diverse fonti, tra cui l’Archivio di Stato di Oristano, è arrivato a ricostruire l’albero genealogico delle famiglie, che sembra dimostrare il legame. Lo stesso Vernetti sottolinea che comunque la parentela tra Meloni e Gramsci è acquisita, e non deriva da un legame di sangue. 

Vernetti ha ricordato che anche l’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del PD Enrico Letta era imparentato con Gramsci, come aveva detto lo stesso Letta nel 2021.

( Alessio Vernetti)

DAGOREPORT mercoledì 29 novembre 2023.

A Palazzo Chigi stamani c’era un clima di euforia. Non appena i balilla della Presidenza del Consiglio hanno letto che Giorgia Meloni era al primo posto nella classifica dell’influente edizione brussellese del sito Politico, nella sezione “Doers” (coloro che “fanno”, gli esecutori), lo staff della Ducetta ha gongolato, strepitando contro i “gufi” della sinistra che strepitano dell’irrilevanza dell’Italia. 

Poi, Meloni ha preso in mano l'articolo e ha avuto un travaso di bile: già dal titolo, il pezzo parlava della Ducetta come di “Camaleonte”. E la gioia della premier si è trasformata in incazzatura. 

La sintesi dell’articolo di Politico è che la Ducetta, rispetto ai governi malconci di Macron e Scholz, è sì “l’esecutrice” numero uno in Europa ma in virtù del fatto che fa esattamente il contrario di quanto ha promesso negli anni all’opposizione. 

“Sembra aver subito una trasformazione nell'ultimo anno di potere – si legge su Politico -. Mentre prima chiedeva che l'Italia abbandonasse l'euro e prendeva ripetutamente di mira ‘i burocrati di Bruxelles’, la Meloni di oggi sembra essere in buoni rapporti con la presidente della Commissione europea.

Si temeva che la Meloni avrebbe usato la sua premiership per indebolire l'accesso all'aborto. Ma […] non ha toccato la disposizione costituzionale che consente l'aborto entro 90 giorni a determinate condizioni”. In politica estera, “la Meloni, il camaleonte politico per eccellenza, si è reinventata come una dura sostenitrice della Russia”.

Insomma, è l’euro-imborghesimento, la mutazione da urlante a dialogante a farla apprezzare in Ue. Cioè esattamente quello che le rimprovera Matteo Salvini, impegnato nel tentativo di rubare voti a destra a Fratelli d’Italia. 

Il ministro delle Infrastrutture lavora ai fianchi della Ducetta: il 3 dicembre radunerà a Firenze tutta l’estrema destra europea, da Wilders a Le Pen, passando per i cripto-nazi tedeschi di Afd. Il senso del suo messaggio è: noi siamo fedeli alle promesse della campagna elettorale, non come Giorgia, che ha “tradito” per entrare nella stanza dei bottoni.

Traduzione da politico.eu mercoledì 29 novembre 2023.

L'ascesa di Giorgia Meloni alla premiership italiana lo scorso anno ha fatto correre un brivido lungo la schiena dei centristi di tutto il Continente e non solo. Bruxelles si è preparata a vedere un membro di un partito post-fascista sedersi (e votare) ai suoi tavoli più alti, rafforzando i ranghi dei bambini problematici dell'UE. 

Kiev si preparava a vedere l'Italia staccarsi dal gruppo e cercare di ammorbidire il sostegno all'Ucraina e di ridurre le sanzioni alla Russia. Ma un anno dopo essere diventata leader della terza economia dell'UE, la Meloni ha sfidato le aspettative e si è costruita un significativo (anche se cauto) fan club.

La Meloni si è mossa per attuare riforme costituzionali che rafforzerebbero in modo significativo i poteri del primo ministro. E continua a offrire molta carne rossa alla sua base di estrema destra: ha vietato i rave, ha inveito contro l'immigrazione, ha ordinato alle autorità locali di smettere di registrare le coppie omosessuali come genitori, ha criminalizzato la maternità surrogata e ha introdotto una serie di politiche che avrebbero dovuto migliorare la sorte delle donne a basso reddito (anche se ci sono dubbi sul fatto che si siano effettivamente ritorte contro). 

Ma la Meloni, una fan sfegatata del "Signore degli Anelli" che, secondo quanto riferito, si definiva la “Draghetta di Undernet" nelle chat online quando aveva vent'anni, sembra aver subito una trasformazione nell'ultimo anno di potere.

Mentre prima chiedeva che l'Italia abbandonasse l'euro e prendeva ripetutamente di mira "i burocrati di Bruxelles", la Meloni di oggi sembra essere in buoni rapporti con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, e ha persino lavorato a stretto contatto con lei e con il primo ministro olandese Mark Rutte per trovare un accordo sfortunato con la Tunisia per limitare le partenze dei migranti.

Si temeva che la Meloni avrebbe usato la sua premiership per indebolire l'accesso all'aborto. Ma mentre i membri della sua coalizione hanno redatto una legge che dà valore legale al feto fin dal concepimento (sollevando il timore che siano in arrivo ulteriori restrizioni), la Meloni non ha toccato la disposizione costituzionale che consente l'aborto entro 90 giorni a determinate condizioni.

Le sorprese più grandi sono arrivate in politica estera. Prima di diventare primo ministro, la Meloni sembrava essere un'altra delle compagne di estrema destra del presidente russo Vladimir Putin: si è opposta alle sanzioni contro Mosca dopo l'annessione illegale della Crimea nel 2014 e nel 2018 si è congratulata con Putin per la sua "rielezione", dicendo che rappresentava "l'inequivocabile volontà del popolo russo".

Nel 2022, poco prima che Putin lanciasse la sua invasione su larga scala dell'Ucraina, Meloni ha dichiarato in un'intervista che l'Italia ha bisogno di "una pace laica con la Russia" e ha accusato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, la cui amministrazione aveva lanciato avvertimenti urgenti sull'imminente offensiva, di "usare la politica estera per coprire i problemi che ha in casa". Non c'è da stupirsi che l'ascesa al potere della Meloni abbia preoccupato la Casa Bianca.

Eppure questi timori non si sono realizzati. La Meloni, il camaleonte politico per eccellenza, si è reinventata come una dura sostenitrice della Russia. Poco dopo l'invasione su larga scala, ha denunciato "l'inaccettabile atto di guerra su larga scala della Russia di Putin contro l'Ucraina", per poi recarsi a Kiev all'inizio di quest'anno in segno di solidarietà. A maggio, in occasione del vertice del G7 in Giappone, la Meloni ha piacevolmente sorpreso i funzionari statunitensi per il suo desiderio di costruire una forte relazione con Biden; due mesi dopo, ha visitato la Casa Bianca, dove ha ricevuto un trattamento VIP completo.

La trasformazione della Meloni in falco della sicurezza è stata completa quando ha deciso di ritirare l'Italia dalla Belt and Road Initiative cinese, dopo che il Paese era diventato l'unica nazione del G7 ad aderire al controverso programma nel 2019. Con l'Italia destinata ad assumere la presidenza del G7 a gennaio, l'inversione di rotta della Meloni ha suscitato sollievo da entrambe le sponde dell'Atlantico. 

Tuttavia, non è andato tutto liscio come l'olio: All'inizio dell'anno, la 46enne ha subito un notevole imbarazzo dopo essere stata registrata mentre diceva a due burloni russi che si fingevano funzionari dell'Unione Africana che i leader europei sono "stanchi" della guerra in Ucraina. Detto questo, la Meloni non è certo il primo politico di alto profilo ad essere caduto nel tranello: Anche l'ex cancelliere tedesco Angela Merkel e l'ex primo ministro britannico Boris Johnson sono stati ingannati.

Il prossimo anno elettorale sarà cruciale per Meloni, che è anche presidente dei Conservatori e Riformisti a livello europeo, una famiglia politica che comprende il partito nazionalista polacco Diritto e Giustizia e i Democratici di Svezia di estrema destra. Con gli elettori di tutta l'UE che si recheranno alle urne a giugno e con Fratelli d'Italia della Meloni che sembra più forte che mai, non è un segreto che il Partito Popolare Europeo di centro-destra abbia corteggiato il leader italiano, forse con l'obiettivo di un pareggio post-elettorale che potrebbe ridisegnare il panorama politico europeo.

Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 27 Novembre 2023 

L’unico successo della cultura di destra è il suono romanesco che il nuovo potere ha imposto al Paese, la parlata strascicata di Giorgia Meloni. A Chigi “l’italiano sfatto”, come diceva Moravia, è quello delle interiezioni, “daje” alla fine di ogni frase e “stacce”, “stai manzo”, “m’arimabarza”, “t’accolli”. Così lo staff, da Giovanna Ianniello a Patrizia Scurti, e uscieri e portaborse, il cognato Lollobrigida che pare Gnecco er Matriciano e ovviamente Arianna, moglie e sorella romanaccia.

[…] La destra occupa tutte le poltrone, perché “è lo spoils system, bellezza”, ma sinora sembra l’egemonia dei tontoloni. I mejo intellettuali di destra sono gli stessi da decenni, Guerri, Cardini, Veneziani, Tarchi… e finalmente con la Biennale vedremo all’opera Pietrangelo Buttafuoco. Non ci sono nuovi scrittori, registi, pittori, attori e professori.

È un flop Pino Insegno, ed è un mezzo flop il Comandante Favino. È naufragata in una buffa velleità, non di egemonia ma di mitomania culturale, la celebrazione del Signore degli anelli come mito fondativo della “Signora Giorgia degli anelli”. […] È segnata dal macchiettismo la crociata contro l’inglese di Rampelli. Sono penose le battaglie sul sovranismo alimentare. Non ci sono a destra storici dell’alimentazione made in Italy: i libri di riferimento sono ancora e sempre quelli di Elisabetta Moro e Marino Niola.

[…] Davanti a quest’intruglio, si capisce perché il più applaudito sia ancora Pingitore, quello del Bagaglino, chiuso nel 2011, dove pure Berlusconi si romanizzava tra Pippo Franco, Oreste Lionello e Pamela Prati nel ruolo della donna serpente. Quella sì che era egemonia culturale di destra, la trippa dell’umorismo italiano. A orchestrare l’intonazione […] c’è er fidato Fazzolari, che dirige anche il ciociaro Tajani e Rampelli, Abodi, Isabella Rauti e “anvedi “ Durigon… sino al Tg1 di Chiocci, più romano del Rugantino.

Dal “Corriere della Sera” mercoledì 8 novembre 2023. 

Esce oggi il libro di Bruno Vespa, «Il rancore e la speranza. Ritratto di una nazione dal dopoguerra a Giorgia Meloni, in un mondo macchiato di sangue», 21 euro, 364 pagine. Anticipiamo un brano dal capitolo XI «L’ambizione del primo governo di legislatura». 

Giorgia Meloni mi accoglie da sola nella sua stanza a Palazzo Chigi, che ha reso più semplice e luminosa. Colori chiari, niente damaschi. È appena passato il primo anno di governo, ma sembrano dieci, tante sono le cose accadute. (...) La traumatica rottura della relazione decennale con Andrea Giambruno, annunciata il 20 ottobre 2023, l’ha ferita profondamente, ma lei è una donna forte.

Eppure, in un anno a Palazzo Chigi, qualcosa è cambiato. La sua persona, per esempio. 

«Me la sono persa. A volte mi dicono “mi manchi”, e io rispondo “anch’io mi manco”. Questo è un ruolo che ti toglie tutto, e puoi farlo solo se ci credi veramente. 

Puoi farlo, certo, se sei molto vanitosa — e non è il mio caso — o se sei troppo responsabile. In questo caso non riesci a vedere i vantaggi personali di quello che fai. 

Io vedo sempre il bicchiere mezzo vuoto, ma è anche la mia forza riuscire a immaginare sempre lo scenario peggiore. Appena risolto un problema, vedo solo che ne ho altri cento davanti.

Assumendo questo incarico non avevo capito che avrei dovuto fare i conti con due problemi enormi. Il primo: qualunque imprevisto accada nel mondo, riguarda anche te. Il secondo: non esiste programmazione. L’emergenza è la tua unica certezza». 

Una tragedia, per una come lei, commento. «Infatti. Io sono del segno del Capricorno. Molto schematica. Per me, che devo sapere tutto prima di affrontare qualunque cosa, è un problema. Eppure mi sono sorpresa di me stessa. Un paradosso.

Di fronte all’emergenza sono serena, senza l’ansia di un tempo. Ha presente gli atleti quando si mettono ai blocchi? Il cervello li isola: pensano unicamente alla gara. 

Allo sparo, partono concentrati solo su quella. Margaret Thatcher si faceva portare soltanto i giornali che parlavano bene di lei. Io nemmeno quelli. Non leggo niente per non essere condizionata. 

Non ho padroni, non ho niente da restituire. Mi fido solo della mia coscienza e mi interessa solo il giudizio degli italiani».

Com’è cambiato in un anno il presidente del Consiglio?, le chiedo. «Anche qui sono la stessa persona, e la cosa che mi rende orgogliosa è di essermi mossa a livello internazionale esattamente come mi sono sempre mossa. 

Mai paludata per il ruolo. La franchezza di sempre. Sono schietta nel trasferire le mie convinzioni. Non abbasso la testa. Non ho complessi d’inferiorità. 

Quello che temevano fosse una debolezza per l’Italia è diventata una forza. In Italia è mancata troppo a lungo la politica, e l’impressione che ho è che in politica estera l’assenza della politica ci abbia portato a essere dei follower, cioè a inseguire gli altri per essere certi di non sbagliare. Io provo a fare dell’Italia una nazione leader, da inseguire. Prenda il vertice arabo del Cairo del 21 ottobre, un incontro cruciale con la crisi in Israele.

Ho spiazzato tutti e sono stata l’unico leader del G7 a essere presente. Qualcuno lo sconsigliava, visto che gli altri avevano preferito essere presenti con i loro ministri degli Esteri, ma i paesi arabi, a cominciare dal presidente egiziano al-Sisi, hanno apprezzato moltissimo questo coraggio». 

Si parla di un suo rapporto privilegiato con Biden. «Mi ci intendo bene. Quando non sono d’accordo, glielo dico, perché sei utile, e sei amico, se dici le cose come stanno.

Con Ursula von der Leyen lavoro bene, con il primo ministro britannico Sunak siamo diventati amici. Ma anche con molti leader mediorientali e con il primo ministro indiano Modi. 

In India è scoppiata la “Melodimania”, i social hanno rilanciato i miei incontri con Modi montando i nostri scambi con le musiche di Bollywood. Alla fine ho scoperto di avere follower anche tra gli indiani…» . 

(...) Il 30 ottobre è stato raggiunto anche l’accordo di maggioranza sulla riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del primo ministro. 

(...) Non è anomalo che un premier eletto non possa revocare un ministro che non funziona?, le chiedo. «Abbiamo voluto lasciare inalterati i poteri del presidente della Repubblica come elemento di garanzia assoluta.

Se oggi andassi da lui chiedendogli di revocare un ministro che dà problemi, credo che non incontrerei resistenze. A maggior ragione non le incontrerebbe un presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo. Se poi nella discussione parlamentare si vorranno introdurre dei correttivi, vedremo».

Estratto dell’articolo di Tommaso Ciriaco, Giuliano Foschini per “La Repubblica” giovedì 9 novembre 2023.

Il caso della telefonata fake in cui è inciampata Giorgia Meloni, e con lei la sicurezza nazionale, non è finito. Anzi, emergono nuove dirette responsabilità nella catena di comando diplomatica e politica. Non tutto si è chiuso infatti con le dimissioni di Francesco Talò, consigliere diplomatico della premier, che risulta in parte responsabile, in parte capro espiatorio di una sequenza di errori, sottovalutazioni e impreparazione che hanno portato i due comici russi Vovan e Lexus a beffare la presidente del Consiglio. Ieri il sottosegretario alla Presidenza e Autorità delegata, Alfredo Mantovano, è stato ascoltato al Copasir.

E dall’audizione sono emersi almeno tre elementi. Il primo: l’ambasciatore italiana presso l’Unione africana, Alberto Bertoni, era stato contattato per verificare la bontà della mail arrivata a Palazzo Chigi con la quale i russi - spacciatisi per Moussa Faki, presidente della commissione dell’Unione africana - chiedevano un contatto per rintracciare la premier. Apparentemente, si trattava di un indirizzo corretto, perché hackerato. Ma sarebbe bastato fare un controllo con il gabinetto di Moussa Faki per capire che si trattava di una trappola. 

Una verifica che non è stata fatta. E questo nonostante, si scopre ora, l’ufficio diplomatico di Palazzo Chigi avesse correttamente avviato l’istruttoria. «Non è chiaro se sia arrivato un via libera dalla nostra ambasciata o piuttosto, come sembra, un silenzio che è stato interpretato erroneamente come assenso», ragiona una fonte vicina al dossier. «Ma è stato commesso un imperdonabile errore, anzi due: da parte di chi non ha risposto. E da parte di chi quella risposta non l’ha sollecitata».

[…] La premier nella coda della telefonata avesse avuto qualche sospetto sulla “bontà” dell’interlocutore, a causa dell’insistenza dei quesiti centrati sulla crisi ucraina. La premier aveva poi affidato i suoi dubbi all’ufficio diplomatico, che l’aveva però tranquillizzata. «Per questo si è dimesso Talò». 

Nella discussione interna al Copasir, ma anche in quella in corso tra le forze parlamentari, è emerso anche - e veniamo al secondo punto - come la ricostruzione non possa fermarsi qui. L’obiettivo adesso è capire se davvero non sono stati compiuti ulteriori accertamenti. E, nel caso, il perché di questa scelta. E ancora, se c’è stata in quelle ore un’interlocuzione tra l’ufficio diplomatico, che fatto salvo Talò è rimasto attualmente nella composizione precedente all’incidente, e la premier.

O magari con la sua segreteria particolare che aveva gestito fino a quel momento il dossier. Un dubbio legittimo, visto che in queste ore è emerso un particolare in più. Con un comunicato stampa datato 12 ottobre l’Unione africana scriveva: “È giunto all’attenzione dell’Ufficio di presidenza che diverse capitali straniere sono state vittime di indirizzi e-mail falsi che pretendono di essere e-mail ufficiali del vice capo di stato maggiore per conto del presidente della Commissione dell’Unione Africana, chiedendo telefonate ai leader stranieri. 

L’Unione Africana desidera inoltre ricordare che tutte le richieste di impegno ad alto livello da parte del Presidente avvengono sistematicamente attraverso i normali canali diplomatici, tramite Nota Verbale indirizzata alle ambasciate accreditate interessate con sede ad Addis Abeba, all’attenzione dei paesi stranieri interessati”.

A chi si riferivano? Probabilmente alla leader estone, Kaja Kallas, che ha subito uno “scherzo” simile a quello di Meloni, accorgendosene e denunciandolo subito. Ma il punto è capire se parlassero anche dell’Italia, come il comunicato sembra fare: il problema è che, stando alla ricostruzione ufficiale fin qui fatta, il 12 ottobre non c’era alcuna certezza che la premier avesse parlato con i russi e non con Moussa Faki. Perché allora questo comunicato? Qualcuno sapeva? 

Infine, la “matrice”. Al Copasir, Mantovano ha spiegato come i nostri servizi non ritengano “uno scherzo” quello dei due comici russi. Piuttosto, un potenziale atto di guerra ibrida, vista anche la linea dell’Italia sul conflitto in Ucraina. […]

Tommaso Ciriaco per "La Repubblica" - Estratti venerdì 3 novembre 2023

Cade la prima testa. E che testa: Giorgia Meloni “licenzia” in conferenza stampa Francesco Maria Talò, al suo fianco come consigliere diplomatico fin dai tempi dell’insediamento. A lui – e al suo ufficio – attribuisce la colpa per la trappola telefonica subita dai due comici russi. È il bersaglio sacrificale di una disfatta collettiva di Palazzo Chigi. 

La formula scelta di fronte ai cronisti è: «Questa mattina l’ambasciatore ha rassegnato le sue dimissioni. C’è stato un inciampo. E il suo è stato un gesto di responsabilità». 

Ma è evidente che quello che la premier sostiene subito dopo suona come una totale sconfessione dell’operato dell’ex rappresentante italiano presso la Nato. «Verso la fine della telefonata ebbi un dubbio, soprattutto nella parte in cui sui parlava del nazionalismo ucraino, perché è un tema tipico della propaganda russa. L’ho segnalato al mio ufficio diplomatico. Credo ci sia stata una superficialità da parte loro».

Non ricostruisce l’intera catena di errori, che manca di dettagli fondamentali. Non entra nel merito dei tagli all’audio, che presuppongono l’esistenza di una versione originale in mano ai russi. Meloni si concentra su quello che considera l’anello debole che ha provocato il pasticcio internazionale: l’ufficio diplomatico di Palazzo Chigi, appunto. Una volta che la presidente del Consiglio solleva il dubbio, Talò e la sua squadra non compiono le opportune verifiche: «È una vicenda gestita con leggerezza che ha esposto la nazione ». Ma c’è di più: la premier sostiene di aver avvisato i diplomatici, ma di aver ricevuto rassicurazioni.

Per questo, giura, non sono stati allertati i Servizi, che pure avrebbe potuto interpellare personalmente o attraverso l’autorità delegata Alfredo Mantovano: «Credo che questo sia stato l’errore principale dell’ufficio diplomatico. Segnalai, ma loro non fecero verifiche fatte bene. 

A me non è tornato un alert che non mi ha consentito di muovermi» con l’intelligence. Peggio: «Ho dato per scontato che le cose fossero corrette. Se ricevo una telefonata dall’ufficio del consigliere diplomatico la devo dare per buona». Per questo salta Talò. Il nome più forte che circola per sostituirlo è quello di Luca Ferrari, attuale sherpa per l’Italia del G7 e G20. Altri profili che trapelano a sera sono quelli dell’ambasciatore in Etiopia, Agostino Palese, e in Albania, Fabrizio Bucci.

Va però sottolineato un altro elemento dirimente, in questa storia.

Per la prima volta, Meloni ammette che lo “scherzo” telefonico potrebbe in realtà rappresentare un atto di guerra ibrida portato avanti dal governo russo. Disiformazione, prova di forza per mostrare la vulnerabilità del Paese. Per di più, in una fase in cui la pressione di Mosca sulle democrazie occidentali sembra aumentare, cercando di sfruttare una «stanchezza» per la guerra in Ucraina che si fa strada nelle Cancellerie. 

Riccardo Barbin per policymakermag.it venerdì 3 novembre 2023 

Dopo l’infortunio diplomatico di cui è rimasta vittima la premier Giorgia Meloni, con lo scherzo dei due comici russi Vovan e Lexus, tutti gli occhi sono puntati sul consigliere diplomatico l’ambasciatore Francesco Maria Talò. Si dimette? Non si dimette? C’è in corso un’indagine interna agli uffici? Verranno presi provvedimenti disciplinari nei confronti di qualcuno?

Oggi sui giornali sono molteplici le ricostruzioni. Ma anche se volessimo addebitare a Talò tutte le responsabilità della gestione della telefonata fake con il finto presidente dell’Unione africana, chiaramente non ha potuto fare mai tutto da solo. 

Da quello che emerge c’è già una corsa al rimpallo di colpe tra i vari uffici, forse con il tentativo di distribuire le responsabilità e annacquare il caso. E così nel mirino sono finite la segreteria della premier, la segreteria dell’ufficio diplomatico fino a chi ha la competenza diplomatica sui dossier relativi all’Africa e in particolare ai Paesi in via di sviluppo.

Stiamo parlando di Lucia Pasqualini, consigliere d’Ambasciata a Palazzo Chigi dalla scorsa primavera. Prima di addentrarci sul suo profilo, vediamo i giornali come hanno raccontato la genesi del contatto con gli ‘impostori’ russi. 

Scrive Marco Galluzzo sul Corriere della Sera: “Chi si occupa di Africa nell’ufficio di Talò è la consigliera Lucia Pasqualini, ma con il comunicato è come se il capo dell’ufficio, l’ambasciatore Francesco Talò, si sia preso la responsabilità dell’accaduto. Anche se non ha gestito direttamente lui la vicenda”. Marco Iasevoli su Avvenire annota che “la referente per l’Africa è Lucia Pasqualini. Ma il tramite del ‘raggiro’ potrebbe anche essere negli ‘scalini’ inferiori”.

Tommaso Ciriaco scrive che il primo contatto fake è avvenuto tramite email “con un messaggio di posta elettronica inviato all’indirizzo dello staff presidenziale (…) Giunta la mail, si diceva, lo staff di Meloni avvisa l’ufficio del consigliere diplomatico”, di Francesco Talò. “Sotto di lui – continua Repubblica – c’è un ufficio con un vice e sei consiglieri. Ognuno ‘gestisce’ un continente. In questo caso viene attivata la consigliera Lucia Pasqualini. A sentire fonti diplomatiche di Roma, tutto viene fatto al meglio: verifica e controllo. abili i russi di certo Forse anche a sfruttare alcuni bag della procedura standard. Resta il fatto che, giunta la mail, il contatto fittizio non viene certificato nel modo più corretto”.

Questa invece la ricostruzione di Carmelo Caruso sul Foglio: la “telefonata arriva alla segreteria dell’ufficio diplomatico” che “viene smistata alla funzionaria delegata per l’Africa. Viene presa in carico la richiesta, si annota l’oggetto e si fissa un appuntamento. Da quel momento dovrebbe esserci uno scudo a protezione di Meloni. Si dovrebbero incrociare i numeri, i nomi, le cariche. Non accade. (..) Il delegato di Talò per l’Africa, sempre da quanto è possibile ricostruire, contatta le ambasciate interessate, si dice quella Eritrea, ma non i Servizi”.

Lucia Pasqualini è una new entry a Palazzo Chigi dove ha messo piede la scorsa primavera e data in ascesa tra i diplomatici. Ha trascorsi a New York e in Cina, esperienze durante le quali ha conosciuto i suoi due mentori che ha ritrovato proprio alla Presidenza del Consiglio, ovvero gli ambasciatori Francesco Talò e Luca Ferrari.

Al consolato di New York Pasqualini è arrivata nell’autunno del 2010, quando console generale era appunto Talò. In Cina invece è stata console generale a Canton, la terza città più grande della Repubblica cinese con 13 milioni di abitanti, nel periodo più acuto della pandemia. Periodo che è coinciso con la presenza alla guida dell’Ambasciata italiana a Pechino di Luca Ferrari, attuale rappresentante della premier Meloni per il G7 e il G20 e tra i papabili a diventare consigliere diplomatico quando l’ambasciatore Talò lascerà. Pasqualini, scrive Caruso sul Foglio, fa parte di “un gruppo di giovani ambasciatori su cui la destra sta scommettendo”.

Il marito di Pasqualini è Clemente Contestabile, consigliere diplomatico del ministro Sangiuliano, che ha seguito un iter geografico simile. Dal 2010 al 2014 a New York ha lavorato alla Rappresentanza Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite mentre dal 2018 è stato il Console Generale d’Italia a Hong Kong.

Appena pochi giorni fa su X Pasqualini ha postato una foto mentre stringe la mano al Primo Segretario di Gabinetto del Kenya, Musalia Mudavadi e a corredo il commento: “Costruire relazioni con l’Africa. Un incontro molto fruttuoso, per discutere di cooperazione bilaterale nel settore dello spazio aereo, lotta al terrorismo e cambiamento climatico”.

E il giorno prima aveva ripostato un tweet dell’ambasciatore Talò in occasione dell’apertura della Munich Security Conference a Nairobi: “L’Italia è impegnata ad ascoltare la voce dell’Africa per affermare principi condivisi per l’ordine globale. Abbiamo bisogno di una prospettiva africana!”

Estratto dell’articolo di Emiliano Fittipaldi per “Domani” venerdì 3 novembre 2023

La trappola russa nella quale è scivolata Giorgia Meloni con tutte e due le scarpe, al netto dei penosi tentativi degli yes men dai quali è circondata di alleviarne le responsabilità dirette (i sottosegretari Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano su tutti), esplicita in modo adamantino uno dei difetti principali della premier. Limite che, continuasse imperterrita nella reiterazione, la porterà ineluttabilmente a sbattere, come già avvenuto ad alcuni predecessori affetti dal medesimo tic. 

Meloni, è il postulato diffuso, è brava. Ma pagherebbe il fatto di non avere una classe dirigente adeguata alla causa. […] Il problema principale però sembra ormai un altro: Meloni stessa non sembra essere capace di individuare le competenze necessarie a costruire una squadra degna di guidare il paese.

L’inettitudine che traspare dalla vicenda dei comici di Putin, una gaffe planetaria che rischia di creare tensioni con la Francia e altri alleati, coinvolge infatti tutti gli uffici di Palazzo Chigi. 

Quello del povero consigliere diplomatico Francesco Talò, scelto direttamente dalla premier e consegnato […] al pubblico ludibrio come unico colpevole. Quello dell’amica e segretaria Patrizia Scurti, sorta di vice premier in pectore ben felice di lavorare spalla a spalla con suo marito (agente segreto in forza all’Aisi, è diventato autista personale di Meloni) ma incapace di fare filtro alla presidente del Consiglio.

Fino alle responsabilità di Fazzolari, che difende il capo ma ammette senza rendersene conto un possibile coinvolgimento dell’Fsb di Putin, e a quelle dello stesso Mantovano. Se fosse vero […] che la premier ha intuito subito la beffa, come mai in queste settimane il sottosegretario con delega ai Servizi segreti non ha ricostruito la catena delle responsabilità che hanno provocato il patatrac?

Mantovano […] non ha […]contattato né il ministero degli Esteri né l’intelligence per provare a individuare i bug del processo che ha portato il presidente del Consiglio a chiacchierare amabilmente per 15 minuti di politica estera con un impostore in odore di servizi russi. Dunque, delle due l’una: o è solo colpa di Talò, […] Oppure gli errori sono da suddividere con altri soggetti, che Palazzo Chigi preferisce coprire. 

Sia come sia, l’ombrello del consenso non può proteggere sine die la leader dal dilettantismo suo e del suo staff. Anche perché è a rischio non solo la sua immagine, ma quella dell’alta istituzione che rappresenta. In questi mesi già messa a dura prova dalle vicende balorde di Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro, di Daniela Santanchè, di Vittorio Sgarbi e del cognato Francesco Lollobrigida. Per tacere dell’affaire dell’ex compagno Andrea Giambruno.

[…] Ora, la speranza è che lo scherzo telefonico dei russi sia foriero di un cambio di passo. Meloni provi a cambiare registro nella cooptazione dei suoi collaboratori, e faccia entrare nella stanza dei bottoni gli encomiabili, e non solo gli ex camerati e i vecchi amici di Colle Oppio. Per il bene di tutti.

Francesco Talò a Mario Sechi: "Ecco perché mi dimetto". Libero Quotidiano il 03 novembre 2023

Francesco Talò, classe 1958, ambasciatore di lungo corso, è un uomo colto, sottile, con il guizzo dell’ironia. In un paese dove pochi trovano coraggio e il senso del dovere è una pagliuzza d’oro nel fiume, si è dimesso dall’incarico di responsabile dell’ufficio diplomatico di Palazzo Chigi. È la storia di una telefonata e di un intrigo internazionale. Ambasciatore Francesco 

Talò, cominciamo dal fatto, la telefonata, che cosa è successo?

«Prima di tutto il contesto: sappiamo la priorità attribuita all’Africa dal governo Meloni. È un impegno che si traduce in un enorme sforzo, portato avanti ovviamente soprattutto dall’Ufficio del Consigliere diplomatico, ci crediamo perché pensiamo che sia urgente affrontare insieme le tante sfide e le opportunità che vengono dall’Africa, l’immigrazione, l’energia, il cambiamento climatico, la sicurezza, l’instabilità. Sono tutti temi che s’intrecciano. E quindi a settembre eravamo impegnati a lavorare per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che è la grande occasione in cui si incontrano i leader di tutto il mondo e per noi era utile incontrare gli africani. Un impegno portato avanti con grande passione e competenza dalla collega responsabile per l’ONU e l’Africa. E infatti la partecipazione di Meloni il 19 e il 20 settembre è stata molto focalizzata sugli incontri con i leader africani e sul suo discorso all’assemblea generale. E quindi lì si inserisce una telefonata con un esponente significativo come il presidente della Commissione dell’Unione Africana».

Era una telefonata programmata?

«L’interlocutore era interessante. Abbiamo ricevuto una mail proveniente da un indirizzo plausibile e quindi si è svolta la telefonata con i suoi normali preparativi. Nella conversazione il presidente del Consiglio ha dimostrato una perfetta coerenza tra il suo pensiero ben conosciuto e le cose che ha detto. Questo è l’episodio, è adesso evidente che la gestione dell’episodio avrebbe potuto essere migliore, perché altrimenti non saremmo caduti nell’inganno. Un inganno che ci accomuna a tanti leader illustri, dotati di importanti apparati, strutture che li assistono, paesi che dedicano alla sicurezza una notevolissima attenzione. Non deve succedere, ma è successo. Per questo io ho ritenuto giusto assumermi la responsabilità per non aver effettuato quelle verifiche supplementari che sarebbero state opportune, sia pure in un contesto di grande impegno, di sovraccarico di lavoro del mio ufficio e di plausibilità del messaggio ricevuto. La vicenda ha suscitato uno scalpore che credo non si sia verificato in casi analoghi altrove e così ho ritenuto di dover rassegnare le mie dimissioni, anche perché spero che questo possa contribuire a continuare quel percorso avviato con il presidente del Consiglio che ha portato tanti importanti successi alla politica estera italiana in questo scorso anno, risultati che sono riconosciuti dall’opinione pubblica e soprattutto nel mondo. Meloni è diventata rapidamente una protagonista nella scena politica europea e internazionale, grazie alla sua competenza, capacità di interloquire con i leader mondiali, grazie all’impegno profuso insieme intorno a alcune linee di azione su tutti i principali temi dell’attualità internazionale, abbiamo avuto sfide senza precedenti che si sono cumulate l’una con l’altra, un intreccio davvero terribile, a partire dalla guerra in Ucraina e ora al conflitto in Medio Oriente».

Ambasciatore, lei ha quindi scelto le dimissioni per aiutare tutti a superare questa fase?

«È una questione di coerenza, è il mio modo di essere, io credo sempre opportuno assumersi le proprie responsabilità. Capisco che non sia molto comune, ma è un mio modo di essere. Penso di essere stato coerente, io prima di 40 annidi carriera diplomatica, sono stato ufficiale dei carabinieri, questa è un’esperienza che mi è rimasta per sempre, anche perché viene da una tradizione di famiglia. E questo senso del dovere, del sacrificio, del sentirsi sempre in obbligo nei confronti dello Stato, della nazione, fa parte della mia natura».

Si aspettava un’azione di disturbo del Cremlino?

«Sappiamo che c’è un’attenzione della Russia nei confronti dei paesi occidentali, soprattutto su una nazione come l’Italia che è impegnata con coerenza, con un ruolo importante, a fianco dell’Ucraina nella resistenza all’aggressione. È una cosa di cui non ci si può sorprendere, dobbiamo quindi continuare coerentemente con questo impegno. Corrisponde ai nostri valori e interessi, è la politica che abbiamo portato avanti, lo ha detto chiaramente Meloni in quella telefonata e corrisponde alle mie convinzioni profonde. Io ero ambasciatore alla Nato nei giorni dell’aggressione, nel febbraio del 2022, ho vissuto in diretta quelle giornate, non posso dimenticare quell’impegno corale dell’Alleanza nella quale l’Italia ha un ruolo fondamentale».

Siamo attrezzati per fronteggiare la guerra ibrida della Russia, la “disinformatia”, un classico del loro repertorio?

«È una sfida quotidiana, non si è mai attrezzati alla perfezione, la perfezione non esiste, questo ci deve indurre a sforzarci sempre di più. Siamo consapevoli, è un tema discusso ampiamente nella Nato, nell’Unione europea e in Italia, dobbiamo avere gli occhi aperti e convincerci delle nostre opinioni, per capire come possono essere a rischio di disinformazione e distorsione della verità. E non oso pensare a cosa potrebbe succedere un giorno con l’applicazione dell’intelligenza artificiale, che può portare al rischio supremo dell’ambiguità, la non distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso».

Cosa le ha detto Giorgia Meloni?

«Abbiamo ricordato il lavoro fatto nel corso di questo anno insieme, questo mi ha confortato. È consapevole del nostro impegno, il mio e dell’ufficio diplomatico, un impegno senza precedenti. Chi fa tanto una volta può sbagliare, non dovrebbe succedere, ma è successo».

Da quando è nella carriera diplomatica?

«L’anno prossimo sono 40 anni, andrò in pensione tra pochi mesi, sono diventato ambasciatore nel 2017. Ho iniziato il mio lavoro alla Farnesina nel 1984, in uno scenario completamente diverso, ero al servizio stampa, il ministro degli Esteri era Giulio Andreotti, c’era la Cortina di Ferro, c’era Leonid Breznev, non potevamo neanche lontanamente immaginare tutto quello che sarebbe successo: la caduta del muro, la fine dell’Unione Sovietica, la riunificazione della Germania, ho vissuto anni entusiasmanti».

Un ricordo della vita in una delle sue sedi estere?

«Dopo il servizio stampa alla Farnesina, sono andato in Giappone. E con mia moglie abbiamo iniziato una vita, quella di due giovani con una bambina che aveva tre settimane – la mia seconda figlia è nata a Tokyo – e quel paese allora era davvero lontano (non c’era neanche il volo diretto), un luogo affascinante, in pieno boom economico, abbiamo vissuto la morte del grande imperatore Hirohito, il Giappone aveva tutto il fascino dell’Oriente ma con una grande modernità occidentale e quella cortesia particolare».

Quanto le pesa questa vicenda in finale di carriera?

«Ho trascorso un anno importante, con tanti successi della politica estera italiana, è una enorme soddisfazione aver contributo con la mia squadra. E poi ci sarà un futuro».

Le mancheranno i colloqui con Jake Sullivan, di cui è diventato buon amico?

«Mi mancheranno quelli con tutti i colleghi, ho conosciuto persone straordinarie. Questo è uno dei privilegi del nostro lavoro, entrare a contatto con personalità uniche al mondo, in tanti settori. Penso alla giornata di ieri, alla conferenza dedicata all’intelligenza artificiale organizzata dal primo ministro britannico Rishi Sunak, a Bletchley Park, nel Regno Unito, un luogo dove durante la Seconda guerra mondiale Turing svelò i codici cifrati della Germania di Hitler. Ho ascoltato dei colloqui affascinanti tra alcuni leader, persone che stanno facendo una rivoluzione epocale». 

Torniamo alla Russia: quei due non erano dei comici ovviamente. 

«Erano... “dual use”, erano dei comici che fanno comodo a qualcuno». 

Fare quello che hanno fatto non è facile. 

«Per farlo tante volte a tanti interlocutori importanti ci vuole grande abilità e una buona organizzazione». 

E bisogna conoscere l’agenda.

«Bisogna capire le priorità degli altri. Per noi in quel momento era l’Africa. E hanno trovato l’esca buona». 

Cosa la preoccupa di più in questo scenario? 

«Il fatto che non si riesca a comprendere che c’è un interesse comune: l’interesse a una pace giusta, che deve rispettare il diritto internazionale e quindi la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina. È nell’interesse di tutti, anche del popolo russo, che sono sicuro vuole vivere in pace. Bisogna che questo succeda per l’Europa, per la sicurezza europea e per il mondo. Non dimentichiamo che tutti i teatri sono collegati. La nostra politica estera mette insieme i vari settori della scacchiera, la presidente Meloni è stata definita da una rivista americana “la regina degli scacchi”, perché ha la capacità di guardare l’insieme, tutti i teatri. È fondamentale come fa l’Italia impegnarsi nell’ambito euro-atlantico per l’Ucraina, ma bisogna tenere conto che l’esito della guerra avrà un impatto nell’Indo-Pacifico, dove siamo sempre più impegnati (ricordo tra l’altro le nostre due visite in India) e poi in Africa e nel Mediterraneo, e così si chiude il cerchio. L’Italia in questo scenario è un ponte tra l’Oriente, il Medio Oriente, il Mediterraneo e l’Africa». 

Che cosa si rimprovera? 

«Mi rimprovero di più le cose che non ho fatto. Nonostante si dica che io sono un iper-attivo, anche un po’ pedante. Penso che i peccati di omissione siano più gravi di quelli d’azione». 

Ha dei consigli per il suo successore? 

«Avrà la stessa guida che ho avuto io, dovrà continuare a correre su dei binari già tracciati, consiglio di continuare a farlo avendo visione, impegnandosi, essendo appassionato del suo lavoro, con interesse e curiosità. Troverà colleghi straordinari con i quali condividere le sue fatiche». 

E dovrà ricontrollare tutte le telefonate.

«Su quello sono tranquillo, farà altri errori, come tutti noi, ma quello no, non lo farà».

Si chiama Francesco Talò, classe 1958, ambasciatore di lungo corso, ieri mattina si è dimesso dall'incarico di responsabile dell'ufficio diplomatico di Palazzo Chigi. Un passo indietro dovuto alla telefonata delle iene russe, lo scherzo telefonico del finto leader africano a Giorgia Meloni. E Talò racconta le motivazione della sua scelta in un'intervista firmata da Mario Sechi, direttore di Libero. "Quella telefonata? Ho sbagliato. I comici bene organizzati fanno comodo a qualcuno. Mosca guarda a noi per la nostra coerenza su Kiev", spiega Talò. E ancora: "Mi dimetto perché non ho effettuato le verifiche necessarie".

Su Libero Quotidiano leggi l'intervista a Francesco Talò del direttore, Mario Sechi

(LaPresse su mercoledì 1 novembre 2023) - "Giorgia Meloni ci ha sorpreso. Perché nella maggior parte degli scherzi che abbiamo fatto a dei leader politici, loro ci hanno sempre risposto come se leggessero dei comunicati. 

Sembravano dei robot, o ChatGpt. Invece Meloni ci è sembrata avere le proprie idee. È vero, non si è accorta dello scherzo, ma ha parlato esprimendo dei concetti importanti, anche critici rispetto ad esempio ai partner dell'Ue". 

Lo hanno detto a LaPresse Vovan e Lexus, al secolo Vladimir Kuznetsov e Aleksej Stoljarov, il il duo russo specializzato in scherzi telefonici a personaggi famosi.

(LaPresse mercoledì 1 novembre 2023) - "Immaginiamo che ci siano state polemiche per il nostro scherzo. Ma ora Giorgia Meloni appartiene ad una lista di 'grandi' che sono stati presi in giro da noi".

Lo hanno detto a LaPresse Vovan e Lexus, al secolo Vladimir Kuznetsov e Aleksej Stoljarov, il duo russo specializzato in scherzi telefonici a personaggi famosi. I due, che si descrivono giornalisti-pranker (prank, scherzo o burla in inglese), hanno spiegato di aver scelto Meloni per il loro scherzo "intanto perché l'Italia è membro del G7" e poi perché "in Italia come leader importante c'è lei". 

"Conosciamo Salvini, e prima c'era Berlusconi. Ma per Meloni abbiamo ricevuto anche molte richieste dalle persone che ci seguono", hanno affermato Vovan e Lexus. I due hanno poi raccontato di avere una grossa passione per il personaggio di Fantozzi: "Amiamo i suoi film. Sarebbe stato bello poterci parlare...".

(LaPresse mercoledì 1 novembre 2023) - "È dal 2011, da quando abbiamo iniziato con i nostri scherzi, che dicono che siamo legati ai servizi segreti russi o al Cremlino. Ma è assolutamente falso. Queste sono teorie del complotto.

Che interesse potrebbero avere il Cremlino o il Kgb nel fare degli scherzi telefonici a star del cinema o a cantanti famosi? Pensare che ci sia qualcuno dietro di noi è semplicemente il modo più facile per pensare che siamo riusciti ad arrivare a prendere in giro dei personaggi famosi. Ma siamo solo due ragazzi che hanno trovato un sistema per arrivare a fare degli scherzi a queste persone importanti". 

Lo hanno detto a LaPresse Vovan e Lexus, al secolo Vladimir Kuznetsov e Aleksej Stoljarov, il duo russo specializzato in scherzi telefonici a personaggi famosi. "Come siamo arrivati a Meloni o altri personaggi? Abbiamo un nostro metodo, una procedura studiata e migliorata negli anni", hanno spiegato Vovan e Lexus che, "come i maghi", preferiscono non svelare il loro trucco. "Anche per non mettere in difficoltà le persone che ci aiutano in questi scherzi", hanno detto ancora i due.

Dagospia mercoledì 1 novembre 2023. Dal profilo Twitter di Dario D’Angelo

Giorgia Meloni è stata vittima lo scorso 18 settembre dello scherzo telefonico di un impostore spacciatosi per il presidente della Commissione dell’Unione Africana. A parlare era in realtà “Vovan & Lexus“, il duo comico ritenuto vicino ai servizi di intelligence russi, negli ultimi anni riuscito a beffare altri leader internazionali: da Boris Johnson a Pedro Sanchez, da Christine Lagarde a Recep Tayyip Erdogan, estorcendo in molti casi affermazioni favorevoli alla narrazione russa. 

Al di là dell’incidente – non è mai positivo che il “filtro” del presidente del Consiglio venga violato con questa facilità – la (buona) notizia mi sembra un’altra: Meloni ha ripetuto in privato ciò che per mesi ha raccontato pubblicamente in fatto di politica estera. In primo luogo sul sostegno all’Ucraina e sulla necessità di una soluzione che non distrugga il diritto internazionale. 

Conclusioni: dal mio punto di vista, il vero problema di questo governo si confermano la gestione degli affari interni, l’ordinaria amministrazione, le uscite spesso improvvide di alcuni ministri ed esponenti di partito. Dal punto di vista internazionale abbiamo visto molto – molto, fidatevi – di peggio. Ad oggi non mi lamenterei, anzi.

In ogni caso, ho pensato che fosse utile per chi non mastica perfettamente l’inglese proporre la traduzione integrale della conversazione telefonica. Mancano solo piccoli stralci in quanto non pienamente comprensibili. Buona lettura. 

Comico russo: “Che piacere sentirti, grazie per il tuo tempo”. 

Meloni: “Come stai?” 

Comico russo: “Sto bene, ho sentito notizie molto brutte”.

Meloni: “Sì, sì, la situazione è un po’ difficile, la situazione è molto difficile per noi da gestire. Dall’inizio dell’anno, dunque in pochi mesi, abbiamo avuto più di 120mila persone arrivate principalmente dalla Tunisia. Quindi la situazione è molto difficile da ogni punto di vista. Dal punto di vista umanitario, logistico, di sicurezza. Ciò che vedo è che questi flussi rischiano di aumentare per la situazione che c’è in Africa, soprattutto nel Sahel ma anche per il problema del grano, per tutti i problemi che tu conosci meglio di me. Stiamo lavorando anche nell’Unione Europea per un memorandum in Tunisia per aiutare, non solo per gestire la migrazione. La mia idea è sempre che si debbano fare molte altre cose”. 

Comico russo: “Sono d’accordo. Ho appena incontrato Charles Michel, abbiamo avuto una conversazione riguardo la situazione. Ha detto che il problema è che l’Italia non può fermarli. E pensa che il problema è un problema soprattutto per l’Italia”.

Meloni: “Sì, assolutamente. L’Europa per molto tempo ha pensato di poter risolvere il problema limitandolo all’Italia. Quello che non capiscono è che è impossibile. La portata di questo fenomeno colpisce, secondo me, non solo l’Unione Europea, ma anche le Nazioni Unite. Ma il problema è che agli altri non interessa. Non hanno risposto al telefono quando li ho chiamati. E sono tutti d’accordo sul fatto che l’Italia deve risolvere da sola questo problema. Penso che è una maniera molto stupida di pensare a queste cose”. 

Comico russo: “Ho provato a parlarne a Macron, ma anche lui rifiuta di comprendere la mia posizione…”. 

Meloni: “Posso chiederti qualcosa, fra me e te…? Tu pensi che ciò che sta accadendo, per esempio in Niger, sia qualcosa che va contro la Francia?”. 

Comico russo: “Dico di sì. Specialmente adesso…”.

Meloni: “Vedo che la Francia sta spingendo per una sorta di intervento ma io sto cercando di capire come possiamo sostenere uno sforzo diplomatico. Dobbiamo stare attenti”. 

Comico russo: “Perché i francesi non capiscono quelle che sarebbero le ulteriori conseguenze. Se ci fosse un’aggressione militare questo condurrebbe ad un’altra crisi migratoria”. 

Meloni: “Ma loro hanno altre priorità, che non sono l’immigrazione in nazioni come il Niger come sai. Il loro punto di vista non è necessariamente il mio. Loro hanno l’uranio, il franco africano…Loro hanno delle priorità che sono priorità nazionali. Noi stiamo provando a dire loro…non dobbiamo – come si dice – fare cose che ci creano più problemi di quanti già ne abbiamo”. 

Comico russo: “Ma un altro problema è come lavorare sulla nuova iniziativa del Mar Nero. Cosa ne pensi di sbloccare alcune banche russe?”. 

Meloni: “Penso che dobbiamo discuterne. Dobbiamo trovare una soluzione per una situazione che è impossibile da fronteggiare per noi. Ci deve essere una soluzione. Ne ho discusso anche al G20 nel meeting sull’Africa. Se noi permettiamo alla Russia di ricattarci potrebbe essere ancora peggio. Ma se non troviamo altre soluzioni diventa un problema impossibile. In qualche modo dobbiamo uscirne. La Polonia potrebbe essere la strada giusta ma stanno avendo problemi…”.

Comico russo: “Il problema è che ci aspettavamo che la guerra potesse finire grazie ad una buona controffensiva ucraina, ma ora vedo che non è così di successo come mi aspettavo. Quindi (…) molti nostri e miei amici nel continente stanno aspettando un qualsiasi negoziato affinché Ucraina e Russia fermino questo conflitto”. 

Meloni: “Lo capisco. E anche l’immigrazione e i problemi che abbiamo con l’inflazione, la crisi energetica, è difficile per tutti noi. (…) Uno dei miei piani strategici su cui sto tentando di discutere anche con gli altri Paesi europei è un piano di investimento per l’energia in Africa. Penso che potrebbe essere, assolutamente non immediato quando inizi a fare un investimento…Nei primi giorni di novembre presenteremo qui a Roma in una conferenza il nostro Piano Mattei, che consiste nell’investire soprattutto nell’energia per l’Africa, per produrla e per esportarla se riescono. Il prossimo anno avremo anche la presidenza del G7. E mi piacerebbe concentrare la nostra presidenza del G7 soprattutto sul tema dell’Africa. Andiamo verso un’epoca in cui (..) è già troppo tardi. Dobbiamo muoverci”.

Comico russo: “Posso chiederti cosa pensi dei piani di alcuni funzionari britannici di inviare alcuni migranti in Ruanda?”. 

Meloni: “Sì. Non ne ho discusso. Non so quali sono gli elementi di questo accordo. Il problema che abbiamo è anche che queste persone che arrivano illegalmente sono impossibili da integrare. Loro perdono molto tempo nell’intervallo che impieghiamo a processare le loro richieste, e poi perdiamo le tracce di molti di loro, alcuni finiscono tra le mani della criminalità organizzata, alcuni vanno in altri Paesi e tentano di rimandarli indietro…” 

Comico russo: “Ma pensi che la Commissione Europea lo capisca?”. 

Meloni: “Cosa?” 

Comico russo: “Pensi che la Commissione Europea comprenda questa…”.

Meloni: “La Commissione Europea DICE di capirlo (ride, ndB). Il problema è di quanto tempo ha bisogno per darci risposte concrete. In conclusione del Consiglio Europeo, nelle parole di Ursula von der Leyen, loro capiscono assolutamente ma quando chiedi di prendere i soldi e di investire per aiutarci, per discutere con questi Paesi, beh, lì diventa più difficile. Devo dire la verità. Questo riguarda anche la Tunisia. Ho organizzato questo memorandum tra Europa e Tunisia che il presidente Saied ha firmato con noi alla metà di luglio, ma lui non ha visto ancora un euro”. 

Comico russo: “Quanto pensi che durerà il conflitto tra Ucraina e Russia? Hai avuto conversazioni con il presidente Biden e altri?”. 

Meloni: “Vedo che c’è molta stanchezza, devo dire la verità. Da tutti i lati. Siamo vicini al momento in cui tutti capiranno che abbiamo bisogno di una via d’uscita. Il problema è trovarne una che possa essere accettabile per entrambi senza distruggere il diritto internazionale. Ho alcune idee su questo, su come gestire la situazione ma sto aspettando il momento giusto per mettere sul tavolo questo idee”. 

Comico russo: “L’Ucraina non sta avendo il successo che tutti ci aspettavamo…”. 

Meloni: “La controffensiva dell’Ucraina forse non sta funzionando come ci aspettavamo. Sta andando avanti ma non ha cambiato le sorti del conflitto. Dunque tutti capiamo che potrebbe durare molti anni se non proviamo a trovare qualche soluzione. Il problema è quale situazione è accettabile per entrambi senza aprire altri conflitti. (…) Tu sai cosa penso riguardo la Libia. Forse non lo sai (ride, ndB). Potremmo discuterne per ore, amico mio, su ciò che è accaduto in Libia! Forse oggi qualcuno capisce che la situazione del dopo non è stata così buona, non è stata migliore. (Incomprensibile) Dobbiamo fare funzionare il nostro cervello.

Comico russo: “Abbiamo bisogno di soldi ma non ne chiediamo ad altre istituzioni come la Commissione Europea. Vedo che tutti i soldi dell’UE stanno andando in Ucraina adesso”. 

Meloni: “Ciò su cui sto lavorando è farne arrivare anche in Africa. Questo è il mio primo impegno. Come saprai se segui un po’ ciò che dico a tutti, dagli americani alla NATO, dico ovunque che dobbiamo prenderci cura dell’Africa”.

Comico russo: “Inoltre non sono d’accordo con l’ideologia nazionale dell’Ucraina, intendo Bandera, ci sono nazionalisti in Ucraina, che è la cosa che la Russia odia maggiormente”. 

Meloni: “No, non sono d’accordo. Loro hanno il diritto di farlo. Io penso che il problema del nazionalismo è un problema che ha Putin”. 

Comico russo: “Sto parlando di Stepan Bandera, è una persona che la Russia presenta come Hitler”. 

Meloni: “Non lo so. Io penso che stanno facendo quello che devono e ciò che è loro diritto di fare. E noi stiamo cercando di aiutarli”. 

Comico russo: “Ad ogni modo, signora primo ministro, grazie per questa conversazione”. 

Meloni: “No grazie a te! Spero che possiamo avere altre occasioni. Grazie, grazie mille. Ciao”.

Estratto dell’articolo di Rosalba Castelletti per repubblica.it mercoledì 1 novembre 2023.

Sono i maestri dello scherzo telefonico. Hanno beffato leader e celebrità mondiali, da Boris Johnson a Recep Tayyip Erdogan passando per J.K.Rowling ed Elton John, riuscendo sempre a strappare loro affermazioni che facessero gioco alla narrazione russa. Per questo in molti sospettano che il duo “Lexus e Vovan”, al secolo Aleksej Stoljarov e Vladimir Kuznetsov, più che comici siano complici dei servizi di sicurezza russi. 

Vovàn alias Vladimir Kuznetsov, quasi 37 anni, si è laureato in Legge prima di studiare Giornalismo. Lexus, alias Aleksej Staljerov, un anno più giovane, ha un passato da giornalista nelle cronache di quotidiani. Il loro metodo è semplice: chiamano qualcuno al telefono fingendosi qualcun altro e lo mettono a suo agio finché non gli strappano una frase di troppo.

[…]  Meloni non è che l’ultima vittima del duo di presunti comici. Soltanto negli ultimi mesi hanno messo alla berlina l’ex segretario di Stato statunitense Kissinger e la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde spacciandosi in entrambi i casi per il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky. 

Ma in passato sono riusciti a beffare anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan o l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel. […] 

La facilità con cui i due riescono a entrare in contatto con i leader mondiali ha portato molti a sospettare che Vovan e Lexus debbano avere, quanto meno, un aiuto significativo da parte dei servizi di sicurezza russi.

All’ex corrispondente di Repubblica da Mosca Nicola Lombardozzi che, nel 2016, gliene chiedeva conto, rispondevano: “Che qualcuno ci aiuti a trovare i numeri è lecito. Ma siamo noi a scegliere. E poi che male c’è ad essere patriottici? Volete sapere se faremmo mai uno scherzo a Putin? La risposta è no. Al Patriarca, forse. Ma rispettando la legge”.

Giorgia tra palco e realtà. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2023.

Esaurito il sacrosanto quarto d’ora di presa in giro della Meloni — e del dilettante allo sbaraglio che le ha passato improvvidamente al telefono il duo comico russo spacciatosi per presidente dell’Unione Africana — bisognerà pur occuparsi della sostanza e riconoscere che lo scherzo, lungi dal rivelare chissà quali segreti inconfessabili, ci restituisce una versione della premier assai meno spavalda di quella del dibattito pubblico. Nessun proclama da consegnare alla storia di Facebook né slogan da trasformare in rap, ma una riflessione pragmatica sulla necessità di una via d’uscita dalla guerra in Ucraina. Che poi è quel che auspichiamo tutti, quando non ci mettiamo l’elmetto del polemista per sostenere la nostra parte in commedia nello sterminato talk-show che si consuma a ogni ora del giorno sui social.

Gli scherzi telefonici, come gli agguati in strada spacciati per interviste, nascono dalla convinzione che la verità dell’intervistato emerga solo quando lo si inganna o lo si prende alla sprovvista. Ma non è più così: ormai si è capito che le persone sono molto più finte ed estremiste quando recitano in pubblico che quando vengono prese, o sorprese, in privato. Per qualcuno sarà una cattiva notizia, e per certi versi lo è. Ma è anche una notizia rassicurante: dietro le quinte i politici e, ve l’assicuro, persino gli opinionisti sono più prudenti di quanto non sembrino sul palcoscenico, dove si agitano al puro scopo di compiacere la loro tribù.

Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. Chi non è ancora abbonato può trovare qui le modalità per farlo e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale.

Da Putin a Harry Potter: le trappole dei comici russi (e chi ci è cascato). Storia di Redazione Il Corriere della Sera il 2 novembre 2023.

Dall'ex cancelliera tedesca Angela Merkel, convinta di parlare con l'ex presidente ucraino Poroshenko, al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, da Elton John al premier spagnolo Pedro Sanchez: è lunga la lista delle vittime eccellenti dei fake telefonici del duo di comici russi Vovan e Lexus (Vladimir Krasnov e Alexei Stolyarov), che questa volta hanno preso di mira la premier Giorgia Meloni.

Vovan e Lexus utilizzano una tecnica ormai ben rodata. Adottando una finta identità, normalmente quella di un esponente di governo o di un politico, e citando informazioni di cui sono a conoscenza, colgono alla sprovvista il loro interlocutore e riescono a farlo parlare in modo confidenziale. Più che sull'imitazione delle voci puntano sull'effetto sorpresa. I due sono diventati famosi grazie al loro canale Youtube, che è stato messo al bando quest'anno.

Solo il mese scorso nella trappola era caduto Sanchez, convinto di parlare con il presidente di un Paese africano preoccupato per la sospensione dell'accordo per l'esportazione del grano ucraino dai porti sul Mar Nero. Il primo ministro spagnolo si era mostrato comunque fermo sulla sua posizione contraria a riammettere le banche russe nel sistema Swift e aveva mostrato interesse a «ristabilire l'ordine in Niger» giudicando «inaccettabile lasciare la Russia come primo attore nella regione» del Sahel. Nel mese di aprile i due erano riusciti a registrare una conversazione con il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, fingendosi nientemeno che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Nel novembre dello scorso anno erano arrivati al presidente polacco Andrzej Duda con uno dei due che si era spacciato per Emmanuel Macron.

In passato uno dei due comici aveva addirittura impersonato il presidente Vladimir Putin per parlare al telefono con Elton John. Era stato lo stesso musicista a rendere nota la presunta conversazione con il leader russo su Instagram, dicendosi pronto a incontrarlo per discutere della discriminazione dei gay in Russia. Spacciandosi ancora per Zelensky uno dei due aveva parlato lo scorso anno con la scrittrice britannica J K Rowling, proponendosi come attore in un eventuale nuovo film della saga di Harry Potter. Poi aveva criticato l'allora premier britannico Boris Johnson con un «preferisco Tony Blair».

Scherzo telefonico a Giorgia Meloni, Conte e Renzi: «Una figuraccia». Guerini (Copasir): «Evitare che riaccada». Storia di Redazione Politica su Il Corriere della Sera mercoledì 1 novembre 2023.

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stato la vittima dello scherzo telefonico dei comici russi Vovan & Lexus. I due si sono finti il presidente della Commissione dell'Unione Africana e hanno interrogato la premier sulle sue posizioni in fatto di politica estera, domande alle quali Meloni non si è trattenuta dal rispondere riferendo anche di una sua presunta «stanchezza» da entrambe le parti per la situazione in Ucraina.

Il raggiro di cui è stata vittima Meloni è presto diventato un caso per la politica italiana. E se i compagni di partito della premier fanno scudo, definendo lo scherzo «una trappola», come il sottosegretario di FdI all’Attuazione del programma, Giovanbattista Fazzolari («La propaganda russa è disperata per il catastrofico andamento della loro cosiddetta "operazione speciale", ma il presidente conferma la linea italiana di sostegno all Ucraina e di rispetto del diritto internazionale»), i leader di opposizione puntano il dito sul presidente del Consiglio.

Secondo Giuseppe Conte, capo del Movimento 5 Stella, dalla telefonata a Meloni «sono emersi fatti molto gravi». «Ha parlato della nostra politica estera e di altri dossier delicati per la nostra sicurezza e credibilità, dalla guerra ai migranti. Meloni ammette che non riesce più a intravedere una via d'uscita che non sia quella negoziale. Sconcertante come siano aggirabili i protocolli di sicurezza di Palazzo Chigi. Una figuraccia planetaria», giudica Conte.

È dello stesso avviso anche Matteo Renzi che affida a Facebook il suo pensiero sulla vicenda: «Avendo lavorato qualche anno a Chigi mi chiedo come sia possibile raggiungere un livello di superficialità così devastante che fa fare una figuraccia non solo alla Meloni ma alla Repubblica Italiana. Se questo è il livello della sua squadra proprio non ci siamo».

Il senatore del Partito Democratico, Antonio Misiani, definisce l'accaduto un «infortunio imbarazzante», commentando su Twitter che «a Palazzo Chigi ci sono troppi dilettanti allo sbaraglio» e Angelo Bonelli, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, accusa Meloni di essere stata «ingannata» come «fa lei con gli italiani, quanto accaduto è lo specchio di come sia gestita l'Italia».

Dello scherzo telefonico ha parlato anche Lorenzo Guerini, il presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), il quale ha sottolineato, dopo aver parlato con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Autorità delegata, Alfredo Mantovano («che mi ha utilmente e adeguatamente ragguagliato») che «al netto delle legittime considerazioni che ciascuno può formulare sull'episodio, è prioritario agire affinché simili circostanze non si ripetano in futuro, consapevoli che possono essere considerate, tra le diverse ipotesi, anche come attività con fini malevoli e che quindi necessitano della massima attenzione».

Il leader di Azione Carlo Calenda chiede di «non strumentalizzare la vicenda a fini politici»: «C'è stato indubbiamente un grave errore dell'ufficio del consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, che non ha fatto le opportune verifiche. Non ci pare tuttavia che tale errore si possa addebitare a Giorgia Meloni. Siamo convinti - prosegue Calenda - che la posizione del governo italiano sull'Ucraina rimarrà la stessa».

Il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, interviene a gamba tesa contro le contestazioni rivolte al presidente del Consiglio: « I veri comici sono quelli che stanno criticando Giorgia Meloni per le risposte in questa telefonata sulla politica estera. Le risposte sono precise e incontestabili. La verità è che le persone serie mantengono la stessa linea sia che parlino con interlocutori occasionali che con interlocutori di altro genere - sostiene l'ex ministro -. E invece quelli che non hanno niente da dire o che dicono fesserie non hanno bisogno di ricevere telefonate di qualsiasi tipo per rivelare la loro vera natura». Attacca l'opposizione anche l'europarlamentare Carlo Fidanza: «Conte che accusa Giorgia Meloni di incoerenza è più comico dei comici russi. Con buona pace dell'ex premier campione di trasformismo, l'attuale Presidente del Consiglio esprime le stesse posizioni in pubblico e in privato, senza doppiezze o infingimenti».

Chi sono Vovàn e Lexus, i due autori dello scherzo telefonico a Giorgia Meloni. Storia di Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera mercoledì 1 novembre 2023.

La premier Giorgia Meloni è soltanto l’ultima vittima di Vovàn e Lexus, la coppia di «comici» russi specializzati in scherzi telefonici. Nella loro trappola sono caduti personalità politiche come l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel, l’ex presidente francese François Hollande, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, Kamala Harris, il principe Harry. Il colpo che li ha fatti conoscere a livello internazionale è stato essere riusciti a far credere a Elton John, nel 2015, di parlare al telefono con Vladimir Putin. La prima e l’ultima volta che i due hanno osato impersonare il presidente russo, che peraltro hanno garantito è escluso dai loro target. Dall’inizio della guerra in Ucraina preferiscono spacciarsi per Volodymyr Zelensky o membri del governo ucraino ma con Meloni impegnata a ospitare a Roma i l 5-6 novembre il Vertice Italia-Africa, i due hanno evidentemente pensato che sarebbe stato più facile strappare alla premier una frase di troppo vestendo i panni di un alto funzionario dell’Unione Africana. Vengono definiti comici ma i due si sono formati fuori dal mondo dello spettacolo: Vovàn, al secolo Vladimir Kuznetsov, quasi 37enne, ha una laurea in legge e trascorsi da giornalista a Mosca mentre Lexus, ovvero Aleksej Staljerov, di un anno più giovane, è laureato in economia e «ha lavorato con contratti statali per organizzazioni commerciali» riferisce Meduza. Le loro burla sembrano fare il gioco della narrazione russa. Le loro «gag» vengono ampiamente trasmesse sui canali televisivi pubblici russi e circolano sui social in cirillico. Per diversi osservatori questo umorismo è al servizio di un progetto politico: molti sospettano che il duo sia una pedina dei servizi di sicurezza russi, accusa che Vovàn e Lexus hanno più volte respinto. Già nel 2021, la società di cybersicurezza americana Proofpoint ha assegnato ai due il nome in codice TA-499 , come se fossero due cyberspie. «Riescono a ottenere in modo rapido informazioni verificate», osserva Zydeca Cass, specialista in criminalità informatica dell’Europa orientale per Proofpoint. «Hanno iniziato negli anni 2010-2011 ingannando celebrità russe; poi a partire dal 2014 , con l’annessione della Crimea alla Russia, hanno cominciato a prendere di mira sempre più personalità internazionali», constata Stephen Hutchings, specialista in media russi all’Università di Birmingham. «Lo scopo di queste chiamate è chiaramente quello di far dire cose compromettenti o rivelare informazioni sensibili. Si tratta di una vera e propria battuta di pesca d’informazioni, che si è ulteriormente intensificata con l’aumento delle tensioni tra Mosca e Kiev e poi con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022», sottolinea Stephen Hall, specialista in politica russa all’Università britannica di Bath. Nel 2018, ad esempio, si sono spacciati per politici ucraini davanti al funzionario democratico americano Adam Schiff dicendo di avere foto compromettenti di Donald Trump in Russia. Probabilmente volevano sapere come avrebbero reagiosa avrebbero fatto i Democratici con questo tipo di informazioni. «Nelle settimane precedenti l’invasione, tra gennaio e febbraio 2022, abbiamo osservato TA-499 prendere di mira individui e organizzazioni legate all’autorizzazione delle spese per fornire armi all’Ucraina», afferma Alexis Dorais-Joncas, di Proofpoint. Il sospetto è che attraverso i loro scherzi telefonici il Cremlino stesse cercando di scoprire se Washington avrebbe sostenuto militarmente Kiev in caso di attacco. Per Vovan e Lexus questa è diventata una «attività a tempo pieno», assicura Dorais-Joncas. Per ogni target individuato dai due c’è un lavoro di scouting, di creazione di account di posta elettronica specifici con magari l’acquisto di dominii per rendere più credibile il furto d’identità. Per esempio avevano acquistato ambassy.usa@ukr.net. «Stanno creando un’infrastruttura digitale degna dei cyber player più tradizionali» valuta Dorais-Joncas. È impossibile dire se siano indipendenti o no, ma per Stephen Hall «deve necessariamente esserci un legame con qualcuno al Cremlino perché questi hanno comunque numeri di telefono o contatti a cui i comuni mortali non hanno accesso».

Estratto dell’articolo del “Corriere della Sera” giovedì 2 novembre 2023.

Otto diplomatici, undici persone di staff, due esperti. In tutto fa ventuno, escludendo l’ufficio che si occupa di G20 e di G7, dove lavorano altri diplomatici. Sono queste le persone che a Palazzo Chigi assistono la presidente del Consiglio nella sua politica estera. Assistere significa preparare i dossier, consigliarla, affiancarla in alcune telefonate, tenere i rapporti con gli staff di altri leader, partecipare ai più importanti incontri, in Italia e all’estero, che il capo del governo italiano svolge durante il suo mandato.

Il capo dell’ufficio, detto anche consigliere diplomatico, è oggi Francesco Talò, già ambasciatore italiano presso la Nato, un carattere mite e una consuetudine con i giornalisti che è stata troncata del tutto da quando ha assunto la guida dello staff delle feluche. Gli altri diplomatici che lavorano sotto la sua guida sono divisi per aree geografiche. Il suo vice è Alessandro Cattaneo, ministro plenipotenziario, già consigliere di ambasciata a Washington e poi alla Nato proprio insieme a Talò.

[…] è un ruolo apicale e molto delicato, basti pensare che oltre a prepararli partecipa a tutti i colloqui che hanno carattere internazionale del presidente del Consiglio. Ha accesso a tutta la documentazione dei principali dossier di politica estera. […]

 Estratto dell’articolo di M. Gal. per il “Corriere della Sera” giovedì 2 novembre 2023.

«C’è molta stanchezza da tutte le parti» sul conflitto in Ucraina e «si avvicina il momento in cui tutti capiranno che abbiamo bisogno di una via d’uscita». È quanto ha affermato Giorgia Meloni in una telefonata con due comici russi, Vovàn (Vladimir Kuznetsov) e Lexus (Alexey Stolyarov), uno dei quali si è spacciato per un politico africano.

La registrazione della conversazione, che risale al 18 settembre, è stata postata ieri mattina sulla piattaforma online canadese Rumble e ripresa dall’agenzia russa Ria Novosti. […]

Alcune ore dopo la diffusione dell’audio Palazzo Chigi ha diramato una nota in cui l’Ufficio diplomatico del governo «esprime il rammarico per essere stato tratto in inganno da un impostore», in sostanza assumendosi la responsabilità dell’accaduto. 

[…] Ai suoi collaboratori Meloni ha ricostruito così quanto accaduto: «Se l’ufficio diplomatico mi passa una telefonata attraverso il centralino di Chigi io devo darla per buona, anche se avevo detto che qualcosa non funzionava, perché i toni del mio interlocutore non erano consoni. Nel merito ho ribadito le posizioni che tutti conoscono, sul resto bisognerà andare a fondo su come sia potuto accadere, perché non deve accadere di nuovo». […]

 Estratto dell’articolo di Rosalba Castelletti per “la Repubblica” giovedì 2 novembre 2023.

«Avremmo voluto invitarla nel nostro ufficio presso l’ex Kgb, ma sa…».Da professionisti della burla telefonica, e non solo, “Vovan e Lexus”, al secolo Vladimir Kuznetsov e Aleksej Stoljarov, ci scherzano subito su. Prima di Giorgia Meloni, hanno beffato leader e celebrità mondiali, da Boris Johnson a PedroSanchez passando per J.K. Rowling ed Elton John, riuscendo sempre a strappare loro qualche dichiarazione che facesse gioco alla propaganda russa. 

Per questo in molti malignano che il duo di prank journalist , giornalisti specializzati nello scherzo, come si definiscono, nasconda un oscuro segreto: un legame con i servizi russi. Loro negano. «Escluso», dicono in coro “Vovan”,37 anni,e “Lexus”, un anno più giovane.

Come siete riusciti a raggiungere Giorgia Meloni al telefono?

Lexus: «Preferiamo non dirlo. Non vogliamo mettere nei guai le persone che sono state coinvolte. Palazzo Chigi sa com’è successo. O almeno spero. Se non lo sa, vuol dire che ha un problema di sicurezza». 

Vovan: «È stata lei a chiamarci all’orario concordato. Non è l’ufficio della premier ad avere colpe. “Grandi” colpe. Siamo noi che sappiamo fare il nostro lavoro». 

[…]  Ma ora in Italia si discute di protocolli di sicurezza…

Vovan: «Sappiamo come funzionano i protocolli, sappiamo come sfruttare i bachi nella sicurezza».

Lexus : «Non vuol dire che, nel caso italiano, il protocollo fosse sbagliato».

Vovan : «Non incolpateli!». 

Quindi c’è stato un intermediario seppur inconsapevole?

Lexus : «Preferiamo non dirlo». 

Quanto c’è voluto per arrivare a Meloni?

Vovan: «È sempre un processo lungo. Non abbiamo numeri privati».

Lexus : «Circa due giorni…». 

[…] La chiamata si è tenuta il 18 settembre. Perché avete aspettato a diffonderla?

Vovan : «Abbiamo tante telefonate nel cassetto che dobbiamo ancora mandare in onda nel nostro show». 

Perché proprio Meloni?

Lexus: «Ce lo hanno suggerito i nostri fan. E abbiamo pensato che fosse una buona idea. È interessante e molto espressiva. Non è un robot».

Vovan: «È una donna vivace. Avevamo visto le sue interviste e i suoi discorsi. Ed è una leader G7». 

Avete diffuso l’audio integrale?

Vovan: «Abbiamo tagliato giusto i noiosi convenevoli iniziali». 

Come avete scelto i temi?

Vovan: «Chiamavamo dall’Africa, no? Quindi l’immigrazione. E poi l’Ucraina perché è il tema di principale interesse qui in Russia».

Lexus : «Meloni aveva dichiarato di essere pronta a mandare ulteriori aiuti a Kiev. E aveva appena visitato Lampedusa con Von der Leyen». 

[…] Dall’audio sembra che sia stata Meloni a tirare in ballo la Francia…

Lexus: «Non eravamo pronti a parlarne. Ha preso lei il discorso. Da quel che abbiamo capito, è davvero stanca della Francia perché pensa che sia una parte in causa nei conflitti e nei golpe in Africa, mentre a soffrirne è l’Italia». 

[…] È vero che avete contatti con i servizi segreti?

Lexus: «Non siamo in contatto con i servizi né russi né stranieri. E men che meno, siamo agenti segreti».

Vovan : «Lo sentiamo dire da 10 anni oramai, ma quale sarebbe la prova?». 

Il sospetto nasce dalla facilità con cui riuscite a raggiungere i leader mondiali… Ci si chiede anche se abbiate un’agenda politica visto che i temi che toccate fanno spesso il gioco della propaganda russa.

Lexus: «La nostra è un’agenda giornalistica. Chiamando Meloni, non volevamo incidere sulla politica italiana. Stiamo solo cercando di capire che cosa pensino davvero i politici europei della crisi ucraina». 

Avete totale carta bianca? O dovete chiedere autorizzazioni?

Lexus: «Non concordiamo nulla . Capiamo da noi quali conseguenze potrebbe avere una telefonata. Non chiameremmo mai un leader arabo».

Vovan : «O Kim Jong-un. Molta gente è sparita in Corea del Nord. Non vorremmo mai essere responsabili della “scomparsa” di qualcuno». 

Non avete mai superato qualche linea rossa o ricevuto un richiamo?

Lexus: «[…] Le autorità non commentano quello che facciamo». 

Perché non le prendete mai di mira...

Vovan: «Abbiamo fatto scherzi telefonici a governatori regionali. Il problema è che molti politici li conosciamo di persona. Li incontriamo a eventi o talk show. Se fossimo stati amici di Meloni, non l’avremmo mai chiamata». 

Chiamerete mai Vladimir Putin?

Vovan: «Non siamo mai riusciti a raggiungere Joe Biden o Putin. Il loro livello di sicurezza è troppo alto».

Estratto dell’articolo di Jacopo Iacoboni per lastampa.it mercoledì 1 novembre 2023.

C’è già chi dice che, dopo l’imboscata dei “comici” russi a Giorgia Meloni, ci sarà una testa a cadere, quella del consigliere diplomatico di palazzo Chigi Francesco Talò. La realtà è che Talò è comunque vicino alla pensione, e si parla da tempo di un possibile avvicendamento con l’ambasciatore Luca Ferrari, che attualmente è a capo dell’Unità per il supporto alle attività dello Sherpa del G7/G20. 

Tra l’altro non è ancora nemmeno certo che abbia gestito materialmente lui la telefonata dei due russi, fatto sta che è lui il responsabile dell’ufficio, e in questi casi il responsabile è quello che potrebbe pagare. Anche se è possibile che Meloni attenda un po’, per non cedere alle richieste di dimissioni immediate che arrivano dall’opposizione. Il che delinea un paradosso: Talò è certamente uno dei tasselli più atlantisti della nostra diplomazia, che ha al suo interno, come noto, diverse differenti cordate, non tutte esattamente euro-atlantiste.

Gli altri componenti dell’ufficio che è stato gabbato dai russi – con il forte sospetto che dietro la mano dei comici ci sia una operazione di interferenza coordinata dai servizi esteri russi – sono il consigliere diplomatico aggiunto Alessandro Cattaneo, i consiglieri di ambasciata Luca Laudiero, Andrea Arnaldo, Lorenzo Ortona, Lucia Pasqualini, e i consiglieri di legazione Stefano La Tella e Raffaella Di Carlo. 

E non si può neanche dire che Talò fosse tecnicamente uno sprovveduto, con quarant’anni in diplomazia culminati con l’incarico di rappresentante permanente dell’Italia presso la Nato a Bruxelles dal 2019, e prima, Talò era stato il coordinatore per la sicurezza cibernetica alla Farnesina (2017-2019), una figura che dovrebbe occuparsi istituzionalmente proprio del coordinamento delle attività italiane contro le interferenze, la disinformation, le ingerenze estere (cibernetiche, ma poi non solo).

Talò aveva poi ricoperto incarichi come inviato speciale del ministro degli Esteri per l’Afghanistan e il Pakistan (2011-2012), e in precedenza era stato console generale a New York (dal 2007 al 2011), e capo missione a Tel Aviv, da cui si è portato dietro nella carriera un costante impegno contro la diffusione dell’antisemitismo in occidente. 

Insomma, sul caso sembra esserci poco da ridere. Il primissimo a dare la notizia dello «scherzo» a Meloni è stato, anche questo non sembra essere casuale, il propagandista di stato più amato da Vladimir Putin, Vladimir Solovyov, che è anche quello più introdotto nei servizi russi. 

Il fatto che proprio l’ufficio di Talò sia incappato in questa vicenda è una doppia soddisfazione per Mosca, perché Talò è considerato uno dei capofila del “partito atlantico” di Palazzo Chigi, è stato a New York, come si diceva, e prima era il vice di Gianni Castellaneta, e era a New York anche l’11 settembre 2001, un evento che ha contribuito a rafforzare il suo impegno atlantista.

A gennaio proprio Talò era stato a Washington a tenere colloqui al Dipartimento di Stato con la numero due della diplomazia statunitense Wendy Sherman, e a Washington aveva incontrato il Consigliere per la Sicurezza nazionale americano. Se Meloni ha assunto posizioni corrette e euro-atlantiche nel dossier ucraino-russo (posizioni che di fatto non smentisce neanche nella telefonata con i due russi), molto si deve anche al lavoro di Talò. Gioia al Cremlino per la beffa dei due comici che, guarda caso, scherzano su tutti i leader sgraditi al Cremlino (l’ultimo “scherzo” era stato fatto al ministro inglese Ben Wallace), ma sul Cremlino poi non scherzano mai.

Che la cosa puzzi di “operazione” lontano un miglio è confermato anche da date e orari. Il primo a rilanciare la telefonata dei due russi è stato, si diceva, il propagandista di stato Solovyov, alle 8.11 di stamattina su telegram. Tuttavia Palazzo Chigi informa che l’episodio è avvenuto «il giorno 18 settembre  […]». In Russia però hanno aspettato 45 giorni per diffondere questo audio: lo fanno esattamente nel momento in cui il Cremlino sta spargendo attraverso mille canali occidentali la narrazione più gradita, quella […] della stanchezza dell’Occidente per lo stallo della guerra in Ucraina. […] 

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it mercoledì 1 novembre 2023.

Se telefonando, se scherzando. Se non fosse una cosa seria - con l'ombra dei servizi russi e il tentativo di Mosca di fare propaganda sulla guerra in Ucraina - la terribile burla in cui sono incappati Giorgia Meloni e tutto l'apparato di Palazzo Chigi sarebbe la perfetta chiusura del cerchio. C'è molta Roma, c'è molto Meloni in tutto questo. Anche se a parti inverse. 

Lo scherzo telefonico è da sempre una maschera della commedia Capitale. Da Alberto Sordi […] a Carlo Verdone, che alla cornetta si è sempre esaltato (tra il socio Aci ed Enzo di un Sacco bello) passando per Gigi Proietti. Ne è stato un maestro Ugo Tognazzi, certo. Ma anche Teo Mammuccari, al punto di imbastirci un intero programma […].

Negli annali rimarrano anche le imitazioni del giornalista Paolo Guzzanti in versione Sandro Pertini a "Quelli della notte" di Renzo Arbore, ma anche all'ufficio centrale del giornale per cui lavorava.  

Pure la premier, romanissima, da sempre si diverte con la voce. Lo ha fatto, sette mesi fa, con l'amico Fiorello a VivaRai2 proponendo l'imitazione di se stessa e soprattutto lo faceva fino a non molto tempo fa con la sorella maggiore Arianna con la quale […]ha anche da sempre il medesimo timbro di voce. […]  “A volte chiamavo io  per lei - ha raccontato Arianna Meloni al Foglio -  a suo nome. Pronto, sono Giorgia Meloni, e tutti ci credevano".

Pronto, chi parla? Nella figuraccia telefonica di Meloni c’è tutto il dilettantismo del suo governo. Mario Lavia su L'Inkiesta il 2 Novembre 2023

La premier si è infuriata per essere stata ingannata da due comici russi, ma lei ha rivelato cose che forse nessun altro presidente del Consiglio avrebbe detto con la stessa leggerezza

Infuriata, ancora una volta. Infuriata come ormai le capita tutti i giorni, dal caso Giambruno ormai è una goccia che scava la pietra, altroché.

Stavolta sarebbe colpa del servizio diplomatico e del suo capo Francesco Talò che potrebbe avere ha le ore contate. Un capro espiatorio lo si trova sempre, Mediaset, un giornalista, un ambasciatore. Lei, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni detta l’Infuriata, si è cacciata in un guaio dai contorni tra il ridicolo e il penoso, e come al solito fa la vittima, ormai sta diventando una reazione prevedibile e stucchevole come le scuse di John Belushi.

Invece il problema è lei che stavolta si è un po’ allargata, come si dice a Roma. Ingannata da due comici russi (si chiamano Vovan e Lexus, pseudonimi di Vladimir Krasnov e Alexei Stolyarov), chissà in quali rapporti con il regime di Mosca – già autori di “scherzi” con politici importanti come Angela Merkel, Boris Johnson o Recep Tayyip Erdoğan ma anche star come Elton John – il 18 settembre, credendo di parlare con un importate politico dell’Unione Africana, la presidente del Consiglio italiana ne ha dette tante. Troppe. Perché di tutta questa storia da “Scherzi a parte” non va sottovalutato l’aspetto politico, cioè il contenuto delle parole pronunciate da lei in un inglese fluent soprattutto sull’Ucraina quando parla di una «stanchezza» e dice di avere la «sensazione di essere vicini al momento in cui tutti capiscono che c’è bisogno di una via d’uscita».

In che senso, stanchezza? Di chi? Di Volodymyr Zelensky? Della Nato? O dell’Italia? Non sembra la posizione né degli americani né tantomeno di Kyjiv. E il Parlamento italiano non si è mai riferito a una «via d’uscita».

Lecita è dunque la domanda che circola nell’opposizione: sta cambiando qualcosa nella linea italiana che pure Meloni ha confermato a proposito del sostegno all’Ucraina? Ecco un quesito che forse il Parlamento dovrebbe porre alla presidente del Consiglio. La quale, sempre parlando con i comici – alias politico dell’Unione africana – ha proseguito dandosi anche delle arie: «Il problema è trovare una soluzione che sia accettabile per entrambe le parti, senza violare il diritto internazionale. Ho alcune idee su come gestire questa situazione, ma sto aspettando il momento giusto per provare a presentare i miei pensieri. La controffensiva dell’Ucraina potrebbe non andare come previsto. Tutti capiscono che il conflitto potrebbe durare molti anni se non troviamo una soluzione. Il problema è trovare una soluzione accettabile per tutti senza aprire altri conflitti. Tu sai cosa penso della Libia? Potremmo parlarne per ore…».

Meloni dunque aspetta «il momento giusto» per indicare al mondo la famosa «via d’uscita». Questa “rivelazione” viene fatta a un interlocutore che non è esattamente un alleato strategico, non è Joe Biden né Olaf Scholz: sono cose da dirsi così, a un “esterno” alla Nato?

C’è da chiedersi se un altro presidente del Consiglio avrebbe avuto la stessa leggerezza, un Giulio Andreotti, un Bettino Craxi, un Romano Prodi, un Mario Draghi. E poi ovviamente c’è l’altro corno del problema, la figuraccia mondiale della quale non si sa nemmeno bene cosa dire tanto è enorme.

Si resta senza parole dinanzi al dilettantismo di chi dovrebbe “proteggere” il capo del governo, chiunque esso sia, da simili buffonesche incursioni che però costituiscono un problema serissimo addirittura per la sicurezza nazionale: e se avesse chiamato un terrorista? Le opposizioni chiedono conto di quanto è successo, con durezza Giuseppe Conte ma anche il Partito democratico, mentre Carlo Calenda accusa il servizio diplomatico osservando che «l’errore non si può addebitare a Giorgia Meloni». Mentre molto più severo è Matteo Renzi: «Giorgia Meloni dice che nessuno ascolta le sue proposte e che altri leader neanche le rispondono. Se è vero, è segno di debolezza. Se non è vero, peggio mi sento».

Intanto, tutti furibondi a Palazzo Chigi, l’Infuriata, il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari che ha impapocchiato una confusa difesa. Saltano gli ingranaggi nervosi a tutta la macchina di governo di questo Paese travestito per un giorno da Repubblica delle banane. E speriamo solo per un giorno, con dilettanti così.

La beffa dei comici russi, tutti gli errori di Meloni e del suo staff. GIULIA MERLO su Il Domani l'01 novembre 2023

La presidente parla di Ucraina, migranti e del rapporto difficile con la Francia. Intelligence e Farnesina preoccupati. Ma palazzo Chigi ha già un capro espiatorio

Sono state ore di imbarazzo e rabbia, quelle di ieri pomeriggio a palazzo Chigi dopo che è stato pubblicato l’audio di una telefonata datata 18 settembre in cui la premier Giorgia Meloni ha parlato a tutto campo di strategie internazionali con due comici russi, uno dei quali si era presentato come un diplomatico africano. 

In poche ore quello che doveva essere un tranquillo giorno festivo si è trasformato in enorme pasticcio internazionale e poi nella caccia al capro espiatorio nell’ufficio diplomatico di palazzo Chigi. 

La dinamica dei fatti ma soprattutto i concetti ascoltati dalla viva voce di Meloni segnano la più grossa debacle della premier da quando si è insediata al governo, proprio nel settore – la politica estera – a cui lei più tiene e che le stava riuscendo meglio. La responsabilità degli errori, per altro, non può che essere attribuita a falle di sistema nella macchina degli uffici di stretta fiducia di Meloni, che non potrà – come già successo in passato – addossare la colpa ad altri. Al «rammarico» per l’accaduto manifestato da palazzo Chigi in un imbarazzato comunicato stampa, infatti, fa eco lo «sconcerto» manifestato da una fonte della Farnesina sentita da Domani.

Nè il ministero degli Affari esteri nè i servizi di intelligence, infatti, erano stati informati della telefonata tra Meloni e il presunto diplomatico africano e dunque nessuna verifica preliminare sarebbe stata fatta, come invece prassi vorrebbe. Un errore macroscopico di cui qualcuno dovrà rispondere, che costringerà la diplomazia italiana a un surplus di lavoro per ricucire gli strappi. Oltre alla beffa, infatti, ci sono anche i danni da riparare: la notizia dell’audio è rimbalzata su tutti i siti stranieri e i suoi contenuti mettono in discussione lo standing italiano nei contesti internazionali ed europei.

GLI AUDIO

L’audio della telefonata, infatti, contiene una lunga conversazione in inglese tra Giorgia Meloni e una voce che si è spacciata per il presidente della Commissione dell’Unione Africana.

La conversazione prosegue a tutto campo: sull’Ucraina la premier ammette di vedere «molta stanchezza, devo dire la verità, da tutte le parti. Potremmo essere vicini al momento in cui tutti capiranno che abbiamo bisogno di una via d’uscita» e, all’obiezione sul fatto che i fondi Ue vengano drenati tutti verso l’Ucraina, risponde che «il problema è trovare una soluzione che sia accettabile per entrambe le parti, senza violare il diritto internazionale. Ho alcune idee su come gestire questa situazione, ma sto aspettando il momento giusto per provare a presentare queste idee».

Poi, per fortuna, non cade nel tranello della provocazione sul nazionalismo, dicendo che «È Putin ad avere un problema di nazionalismo». Considerazioni lecite sul fronte italiano e che rispecchiano l’attuale posizionamento della premier ma che irriteranno non poco Kiev.

Meloni entra poi anche nei dettagli del problema migratorio, dicendo che «la portata di questo fenomeno colpisce, secondo me, non solo l'Unione Europea, ma anche le Nazioni Unite. Ma il problema è che agli altri non interessa. Non hanno risposto al telefono quando li ho chiamati. E sono tutti d’accordo sul fatto che l’Italia deve risolvere da sola questo problema», inoltre «la Ue dice di capire. Ma quando chiedi loro di stanziare fondi, di aiutare, diventa più difficile».

Infine, Meloni riporta a galla l’ormai storica inconciliabilità con la Francia chiedendo in via confidenziale al finto diplomatico africano se, secondo lui, il golpe in Niger fosse una mossa contro la Francia e aggiungendo che «Il loro punto di vista è diverso dal mio. Per questo diciamo loro che dobbiamo evitare situazioni che potrebbero creare più problemi di quelli che già abbiamo».

LA CACCIA AL COLPEVOLE

Al netto delle dichiarazioni di sconcerto e rabbia delle opposizioni, i contenuti della telefonata difficilmente condizioneranno la politica interna: il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari – che ha gestito le strategie di FdI in politica estera – ha detto che «Meloni su Kiev non è caduta in trappola». La dinamica dei fatti, però, apre uno squarcio inquietante sui malfunzionamenti della macchina di palazzo Chigi. Di qui lo sconcerto, sia della Farnesina che dell’intelligence, davanti a una falla così macroscopica.

La caccia al colpevole ha già dato i suoi frutti, individuando il responsabile oggettivo del disastro nel consigliere diplomatico Francesco Maria Talò. Diplomatico con 38 anni di carriera alle spalle e a pochi mesi dalla pensione, durante il governo Draghi era stato il rappresentante dell’Italia presso la NATO. La sua testa sarebbe già pronta, anche se non è chiaro se sia stato personalmente lui a cadere nel tranello dei comici russi, considerati per altro vicini al Cremlino.

Fonti diplomatiche sottolineano come l’accento del presunto presidente africano abbia evidente inflessione russofona che non poteva essere scambiata per africana. Ancora più clamoroso, quindi, sarebbe se un dettaglio così macroscopico non fosse stato colto da chi, nello staff diplomatico di Meloni, dovrebbe (almeno secondo prassi) aver seguito in viva voce la telefonata. Per sostituire Talò sarebbero già pronti due nomi: l’ambasciatore in Albania Fabrizio Bucci, che in estate ha organizzato la vacanza di Meloni nella villa di Edi Rana, e quello in Etiopia Agostino Palese.

La vicenda, grave quanto surreale, evidenzia per l’ennesima volta l’incapacità del governo di circondarsi di personale all’altezza. Il fatto che palazzo Chigi sia potuto cadere in un tranello all’apparenza così grossolano, infatti, apre interrogativi sulla permeabilità e inadeguatezza della struttura, con riverberi anche di sicurezza nazionale.

Il presidente del Copasir, Lorenzo Guerini, ha infatti avuto un confronto con il sottosegretario Alfredo Mantovano: «É prioritario agire affinché simili circostanze non si ripetano in futuro, consapevoli che possono essere considerate, tra le diverse ipotesi, anche come attività con fini malevoli e che quindi necessitano della massima attenzione». Che la presidente del Consiglio di un paese del G7 abbia discusso di delicatissime vicende internazionali, ignara di parlare con due comici russi, è un errore tutto interno di cui il governo dovrà assumersi la responsabilità e anche prendere contromisure.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Lo scherzo telefonico. Chi sono Vovan & Lexus, i due comici russi che hanno ingannato Giorgia Meloni. Russi, trentasei e trentasette anni. In passato sono riusciti a farla franca anche con Pedro Sanchez, Henry Kissinger e Boris Johnson. Redazione su Il Riformista l'1 Novembre 2023

Per gli amici Vovan & Lexus. Ma occhi a come si presentano: che sia Vladimir Putin, Volodymyr Zelensky o – come nel caso di Giorgia Meloni – un importante leader africano. Lo scherzo telefonico in cui è cascata la Premier è stato architettato da due “comici” russi, considerati vicini ai servizi d’intelligence del Cremlino. Vladimir Kuznetsov e Aleksej Stolyarov il loro nome. Famosi già dal 2011, Il primo 37 anni è laureato in Giurisprudenza e ha studiato giornalismo, settore nel quale ha lavorato in passato anche il secondo, un anno più giovane. Insieme hanno trovato fama e fortuna, una telefonata dopo l’altra. Con qualche buona fonte riescono a reperire il contatto delle vittime: “Siamo noi a sceglierle – raccontavano ai microfoni di Nicola Lombardozzi, ex corrispondente di Repubblica -, e che qualcuno ci aiuti a trovare i numeri è lecito”.

Il gusto di simulare una conversazione formale, aspettando il racconto di un retroscena. Mettono a proprio agio l’interlocutore e tengono il punto con assoluta credibilità. Giorgia Meloni non è stata l’unica a cascarci: in passato i due hanno “colpito” anche leader internazionali come il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, l’ex segretario di Stato Usa, Henry Kissinger, il ministro degli Esteri danese, Lars Lokke Rasmussen, e la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde. Ma anche Boris Johnson,  J.K.Rowling ed Elton John. Il duo ha anche fatto uno scherzo alla cantante Billie Eilish e all’attore Joaquin Phoenix.

Lo sguardo al conflitto

Quasi sempre il loro obiettivo è di sentirsi raccontare qualche frase da contestualizzare nel conflitto tra Russia e Ucraina: per questo a molti è venuto il dubbio che i due potessero lavorare per i servizi d’intelligence del Cremlino. Sono definitivi “comici di Stato” e puntano chi mantiene una posiziona critica sull’operato di Mosca. Sul tema la Premier ha soltanto ammesso: “C’è molta stanchezza”. 

Critiche alla Francia per i migranti e per la situazione in Niger. Giorgia Meloni ammette: Gli altri leader mondiali neppure mi rispondono al telefono. E critica Macron sul Niger. Redazione su Il Riformista l'1 Novembre 2023

Una telefonata vera ma con il finto presidente dell’Unione Africana Azali Assoumani. E’ lo scherzo, fatto il 18 settembre scorso, dei comici russi Vladimir Kuznetsov e Aleksei Stoliarov, meglio conosciuti come Vovan e Lexus, alla presidente del Consiglio italiana. Nel corso della conversazione Meloni ha ammesso che alcuni leader europei, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron, non rispondono alle sue telefonate. Il duo ha spiegato che Meloni si è lamentata soprattutto dell’atteggiamento del presidente francese sull’emergenza migratoria, con migliaia di persone che arrivano illegalmente in Italia. Critiche a Macron anche per quanto accaduto in Niger, con il colpo di stato, appoggiato dalla Russia, che ha rovesciato il governo.

“La Commissione europea dice che capisce la questione, il problema è quanto tempo ci vuole per dare risposte concrete”, prosegue la premier nell’audio. Il presidente affronta poi alcuni contenuti presenti nel Piano Mattei per l’Africa. “Sto cercando di parlare con altri Paesi europei degli investimenti energetici in Africa. Nei primi giorni di novembre presenteremo qui a Roma in una conferenza il nostro Piano Mattei, che consiste nell’investire nell’energia per l’Africa”, spiega la premier in riferimento alla conferenza poi slittata in seguito agli attacchi di Hamas in Israele e alla successiva guerra in corso nella Striscia di Gaza. “Vorrei che la presidenza del G7 si concentrasse sull’Africa”, aggiunge Meloni, facendo riferimento anche alla Libia, un dossier molto importante per l’Italia, dicendo che si potrebbe “discutere per ore” di cosa è successo al Paese nordafricano e comprendere che “la situazione ora non è migliore” visto che c’è anche “una crisi energetica”.

Uno scherzo ammesso anche da Palazzo Chigi che “si rammarica per essere stato tratto in inganno da un impostore che si è spacciato per il presidente della Commissione dell’Unione Africana e che è stato messo in contatto telefonico con il presidente Meloni”. Una telefonata – precisano – avvenuta il 18 settembre scorso “nel contesto dell’intenso impegno sviluppato in quelle ore dal presidente Meloni per rafforzare i rapporti con i leader africani con i quali ha avuto importanti incontri a margine dell’Assemblea Generale dell’Onu tra il 19 e il 21 settembre”.

Fonti di palazzo Chigi spiegano poi che “nonostante il tentativo di farle dire frasi ‘scomode’ Meloni ha invece ribadito nella sostanza le posizioni assunte dal governo, pur nei toni consueti di estrema cortesia formale che si tengono in interlocuzioni con rappresentanti istituzionali stranieri”. “Il presidente del Consiglio, nonostante le provocazioni, ha confermato il pieno sostegno all’Ucraina e le politiche italiane di contrasto all’immigrazione illegale”, concludono le fonti.

Il duo Vovan e Lexus tra 007 e beffe ai vip. Storia di Domenico Di Sanzo su Il Giornale il 2 novembre 2023.

Premessa: loro negano di essere vicini ai servizi di sicurezza russi. Svolgimento: gli scherzi telefonici di Vovan e Lexus producono sempre dichiarazioni che fanno il gioco della propaganda della Russia. L'ultima beffa ha visto protagonista Giorgia Meloni, ma tra le vittime illustri delle burle di Vladimir Aleksandrovich Kuznetsov e Aleksei Vladimirovich Stolyarov ci sono Pedro Sanchez e Recep Tayyip Erdogan. Angela Merkel e Christine Lagarde. Ma anche Elton John e J.K. Rowling, la «madre» di Harry Potter. Un elenco lungo e prestigioso, composto prevalentemente da personaggi critici nei confronti della Russia e di Vladimir Putin. E questa è la seconda coincidenza. Da qui le voci sulla collaborazione di Vovan e Lexus con i servizi segreti di Mosca. Accusa formalizzata nel 2016 dall'avvocato Mark Feygin. Il legale difendeva la pilota ucraina Nadya Savchenko, contattata da un finto Petro Poroshenko, allora presidente filo-occidentale dell'Ucraina, che la esortava a sospendere lo sciopero della fame. I due, ad aprile scorso, si sono spacciati per l'attuale leader ucraino Volodymyr Zelensky e hanno parlato con il presidente della Federal Reserve Jerome Powell. Impersonando sempre Zelensky, la coppia l'anno scorso ha contattato la scrittrice britannica Rowling, spingendola a criticare l'allora premier Boris Johnson, tra i maggiori sostenitori dell'Ucraina nella guerra contro la Russia. L'ultimo big a finire in trappola, il mese scorso, è stato il premier spagnolo Sanchez. Come con Meloni, in quel caso i due comici si sono spacciati per un capo di Stato africano, preoccupato per lo stop all'accordo per l'esportazione del grano ucraino dai porti del Mar Nero. Sono finiti nella loro rete Greta Thunberg e il principe Harry. Donald Trump, Mikhail Gorbacev e forse ultimamente Henry Kissinger.

Resta il fatto che spesso gli scherzi di Vovan e Lexus sono funzionali alla strategia del Cremlino. «È assolutamente falso che siamo legati ai servizi segreti russi o al Cremlino. Queste sono teorie del complotto», smentiscono ancora i due autori delle burle telefoniche. Poi parlano di Meloni: «Ci ha sorpreso, è una tra i pochi leader che sembra avere proprie idee, ha parlato esprimendo dei concetti importanti, anche critici rispetto ad esempio ai partner dell'Ue». Vovan e Lexus si sono anche finti Putin in persona per chiamare il cantante Elton John e parlare della situazione dei diritti dei gay in Russia. Nel 2016 il giornale online indipendente russo Meduza adombrava dubbi sugli scherzi che, guarda caso, andavano sempre «a servire l'interesse delle autorità russe». Ma i due comici, ex giornalisti di 36 e 37 anni, continuano a negare e a ripetere che sono «solo due ragazzi che hanno trovato un sistema per arrivare a fare degli scherzi a queste persone importanti». Nonostante ciò, anche il governo britannico sostiene che siano coinvolti con il Cremlino. L'anno scorso è stato chiuso il loro seguitissimo canale You Tube. Decisione maturata dopo una finta telefonata in cui, fingendosi il primo ministro ucraino Denys Shmyal, Vovan e Lexus annunciavano all'allora ministro della Difesa britannico Ben Wallace fantomatici piani di Kiev sul nucleare nell'ambito della guerra con Mosca. Da quel momento sono passati alla piattaforma russa Ru Tube. Le voci sulla natura «politica» delle loro goliardate non si sono mai fermate.

Marco Zonetti per Dagospia martedì 26 settembre 2023.

Ieri sera, lunedì 25 settembre 2023, Marco Damilano nella sua trasmissione in onda in access prime time su Rai3, Il Cavallo e la Torre, ha tirato fuori dal cilindro del tempo una simpatica e suggestiva chicca.  

Analizzando il primo anno di Governo a trazione Fratelli d'Italia, Damilano ha stupito i telespettatori e il suo ospite Giovanni Orsina, storico e direttore della Luiss School of Government, annunciando "la prima volta in Tv di Meloni".

A quel punto è partito un filmato tratto dalla trasmissione Tempo Reale andata in onda nel lontano 12 gennaio 1995 su Rai3, con un giovanissimo Michele Santoro al timone. Santoro dava quindi parola a una diciannovenne attivista di Destra dell'epoca. Ma non Giorgia Meloni, bensì la sorella Arianna. 

Quest'ultima, incalzata da Santoro, si lanciava in diretta televisiva in una disamina politica sulla crisi del primo Governo di Silvio Berlusconi, il quale aveva rassegnato le dimissioni meno di un mese prima, il 22 dicembre 1994, dopo l'uscita di Umberto Bossi e della sua Lega Nord dalla maggioranza. La disquisizione della giovane Arianna polemizzava per l'appunto sulla decisione del "Senatur", che aveva "mandato a casa un governo votato dagli italiani il 27 e 28 marzo 1994" tornando quindi a una "situazione ambigua" tipica del passato. Ospiti di quella puntata di Tempo Reale, erano Fausto Bertinotti e Cesare Previti. 

Seguendo la trasmissione di Damilano di ieri, si scopriva quindi (o, meglio si aveva la conferma) che già 28 anni fa Arianna Meloni faceva politica attiva, veicolando in seguito il suo impegno nel partito della sorella. Fino a divenire - come ricordato dal quotidiano La Repubblica rilanciata da Dagospia - "già responsabile del tesseramento" oltre a sedere "anche nel board della Fondazione Alleanza Nazionale. Un ente, questo, che ha in pancia depositi bancari per una trentina di milioni e beni immobili che valgono sul mercato circa 200 milioni di euro". Per poi essere nominata, poco tempo fa, responsabile della segreteria politica di Fratelli d'Italia.

Non proprio, quindi, quella "privata cittadina senza incarichi pubblici" che aveva suscitato difese a spada tratta all'epoca della pubblicazione della famosa vignetta di Natangelo sul Fatto Quotidiano riguardante la sostituzione etnica a casa Meloni-Lollobrigida, finito poi querelato. 

Dalla rubrica delle lettera del “Venerdì – la Repubblica” sabato 18 novembre 2023. 

Gentilissima signora Aspesi, […] volevo riprendere per un attimo il caso Meloni. Solo per un attimo. Vado per punti.

A) Nel suo famoso comunicato il presidente dice che il rapporto con Giambruno era finito da tempo. Allora la masseria pugliese? La serata a teatro dove entrambi scherzano con il duo comico? Tutto teatro, appunto. E Dio, Patria e Famiglia? Sarà per un’altra volta. 

B) Sempre sul caso Giambruno, mi sembra che molti suoi colleghi non abbiano visto chi, in fondo, è stata la vera vittima: la giornalista che viveva la giornata lavorativa tra richieste di partecipazione a vari rapporti plurimi e visioni celestiali di tastate del pacco del fu compagno di tanto presidente. Di lei si è scritto poco e ancor meno ho visto solidarietà femminile. Come se il tutto fosse un fatto lecito o assolutamente normale.

Mi chiedo: e le consuete femministe in servizio permanente attivo? Silenzio. […] Dove sono finite quante inneggiarono al presidente del Consiglio donna? Mistero. […] Luigi Bicchi 

Risposta di Natalia Aspesi

Gentile signor Bicchi, lei ha scoperto una novità cui non avevo fatto caso: abbiamo tutti perso la memoria, e un fatto avvenuto pochi giorni fa con relativo scandalo, chi se lo ricorda più? Le notizie da noi durano poche ore, poi entrano nella confusione vacua con cui ci proteggiamo dal sapere troppe cose, soprattutto quasi sempre sbagliate. […]

non so dirle del suo punto A, perché non ho seguito le vacanze della signora Premier, quindi non so di chi sia esattamente il trullo che li ha ospitati con piccina e tutto. B, forse ormai la vera vittima non ci interessa più, e quindi la giornalista implicata nello sciocco divertimento del suo capo a Mediaset. 

Quindi ecco un’altra trasformazione: la vittima della “gran rottura” è rimasta quasi senza volto, come se la sua presenza fosse “lecita e normale”, diciamo “sopraffatta” dalla personalità del grazioso Giambruno, il quale è scomparso come se l’avessimo inventato, chissà che spavento ha preso per sparire di brutto.

Altra dimenticanza: me lo ricordo benissimo quanto si ribellarono le donne a cui volevano aumentare il costo dei pannolini, quasi una rivoluzione. E adesso, silenzio: i pannolini aumentano e la premier ne sta facendo di eccessive (però per essere sinceri, non è che tutti eravamo contenti di averla come premier, io per esempio proprio no) o come fosse un’‘’incantatrice” o il pifferaio magico, ci sta portando, nell’antro dove, mah…

Lettera a Natalia Aspesi – dalla Posta del "Venerdì di Repubblica" venerdì 10 novembre 2023.

Eppure Signora, lei col suo primo marito ferrarese alquanto sovrappeso e del quale avrebbe potuto essere madre, ci ha vissuto il tempo giusto perché la sua leggiadria potesse esprimersi adeguatamente anche nel talamo. Poi è passata ad altro per provare nuove emozioni e dall'85 alla sua morte nel 2012 ha avuto come compagno Antonio Sirtori. O sbaglio? 

Mi fa sorridere il suo perenne livore radicalchampagne che la porta a spiegare a tutti i "caproni" della parte politica che non le garba come "savoir se porter", con la ormai più che stantia spocchia che va di pari passo con la sua veneranda età. È ormai da un anno che si attacca a tutto il pochissimo che passa il convento. Il bischerotto dal ciuffo svolazzante Giambruno, se fosse stato compagno di qualche signora dem, sarebbe dipinto come uno spiritoso malandrino e una simpatica canaglia, magari concupito anche da lei nonostante la sua verde età.

Peccato che anche questa volta all'ex borgatara, alla quale non avete risparmiato nessun aggettivo, i suoi articoli e quelli dei compagni di redazione passino sopra la testa. Non gliene può fregar di meno dei vostri acidi e prevenuti pistolotti. Poco gentile signora, anche lei non ha capito una legge fondamentale della vita. E cioè che c'è un tempo per ogni cosa, oltre che per ognuno di noi. 

Lei li ha snobbati, rendendosi patetica nel ruminare fino allo sfinimento pezzulli di cui resta ogni volta solo un'infinitesimale stilla di veleno, che si perde senza nuocere, se non a lei che non ha avuto il buongusto di ritirarsi al momento giusto dal palcoscenico dell'avanspettacolo, nonostante il pomposo nome di Repubblica. Buon thè delle 17 chez Cova.

Massimo Scaglia 

Risposta di Natalia Aspesi:

Mi sono chiesta come mai coloro che non sanno scrivere una lettera senza livore, proprio quello che chissà perché lei imputa a me, siano sempre quelli che credono che nel disprezzo ci sia la loro forza che invece, indebolendoli, poi ne segna la sconfitta. Ma perché, per esempio, non sapete rispettare l'età, che vi suscita grandi risate di spregio, avendo voi, giovani vecchi, perduto il ricordo che noi vegliardi, almeno, l'abbecedario l'abbiamo studiato? 

E sappiamo che il famoso thè delle 17 non si fa più al Cova di Milano o altrove, anche se da anni il posto ha cambiato proprietario. Perché un'antica abitudine delle gentili signore di 50 anni fa (non si preoccupi, io c'ero abbondantemente) lei la usa come se esistessero ancora, ed erano quelle che per anni abbiamo combattuto e che adesso sono amministratori delegati o padrone di grandi marchi?

Comunque non capisco perché lei affidi alla sinistra quello che è sempre stato di destra, sino a quando le crudeli femministe hanno risvegliate le signore nullafacenti che adesso in parte vi comandano. Adesso il salario minimo, che mette quelli che lavorano nella parte miserabile del pianeta, l'hanno già cancellato con l'aiuto del frenetico e bizzarro uomo con la barba che solo chiamarlo Salvini viene paura.

Poi ci sono le stupidaggini sulle signore con compagno stupidello (ma anche qui, in che secolo si trova?) e poi giù, "verde età", "veneranda età", "il buon gusto di ritirarsi al momento giusto dal palcoscenico dell'avanspettacolo". Mamma mia, che spavento, non c'era qualcosa di più orribile della mia età di cui accusarmi? Sono andata sulla scena del delitto, a rivedere il mio pezzo di spocchia comunista o addirittura khmer, e, mi perdoni, l'ho trovato certo con l'antiquata voglia di far sorridere come si usava quando voi di cattivo umore non eravate nati. 

Sono quasi sicura che lei il mio pezzullo non l'ha letto perché mai scrissi un articolo così carino verso una donna che io, come lei sa, ammiro per la capacità di affrontare il momento più drammatico della nostra avventura. Mi dica una sola frase azzardata, a meno che lei sia di quelli che non ridono mai.

Forse le ha dato fastidio che abbia ricordato che lei con quel bel giovanotto, "un bischerotto dal ciuffo svolazzante", ci ha vissuto dieci anni; mai una toccata, mai qualche parolina, mai qualche parola un po' rustica? Un simpaticone da presentare a Buckingham Palace? E come faccio a presentare una "ex borgatara" alle signore che prendono il thè alle 17? O questa cosa, averci vissuto insieme, non si poteva dirlo? Perché? 

C'è una cosa in cui, eliminando tutta la sua antica paccottiglia, sono d'accordo con lei: e piango, per ora, al ritorno dei grandi ricchi e dei super poveri. La sinistra quella vera, quella grande, si è spenta, e gli ultimi rimasti stanno, compresa me, morendo. Dimenticavo: odio lo champagne e sono astemia.

Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” domenica 24 settembre 2023.  

Quando la famiglia Meloni decise che era ora che noi, gli italiani, venissimo un po’ puniti per i troppi peccati che non piacciono al generale Vannacci, da anni la loro Giorgia lavorava e lavorava decisa a passare dal tre per cento alla vittoria, sotterrando la sinistra.

Lei aveva già imparato l’inglese mentre i nostri ministri di solito balbettano […] Ne sapeva più del diavolo ma anche lei incontrando il cosiddetto amore, ne rimase fulminata tanto da fargli subito una figlia. Un uomo su cui, almeno a guardarlo, non c’è nulla da dire, tranne quando gli scappa qualcosa non proprio di sinistra. Intanto la famiglia Meloni a poco a poco si sistemava, la sorella Arianna nel di lei partito, il compagno Andrea a dire la sua, il cognato Lollobrigida ministro dell’Agricoltura dall’università privata Niccolò Cusano.

E intanto la sinistra […] lottava serena per ottenere più fluid e più una gran variabile di gender. La famiglia Meloni stava per agevolmente prendersi il governo cosa che fece un anno fa stupendosi lei stessa, mentre gli oppositori, […] litigavano sino all’ultimo dicendosene delle belle. […] 

[…] Bisogna dire che magari uno si chiede come faccia quella signora a girare come un fulmine il mondo, in qua e in là, coi bei capelli che basta un tocco perché vadano a posto, che arriva dove ci sono i microfoni e dice cose persino sensate, per lo meno per vecchi che l’hanno votata (poi ci sono anche “i Santanché”, quelli che hanno votato per farne di ogni colore).

Non si fosse portata una miriade di ignoti da compensare, quasi ci si poteva dimenticare che lei è la prima signora donna a essere premier, di destra ovvio, e chi l’avrebbe mai detto. E tutti a sperare che finalmente crolli e invece… Perché è carina, perché è influencer, perché nasconde i fianchi con una quantità di vestiti che cambia a migliaia a giorno. Insomma spiace dirlo, ma quella piccina che si muove tra Biden e chi sa chi, e sa rispondere, potrebbe anche far venire il nervoso, ma insomma… Poi ha anche una piccina e suo padre, quel bell’uomo, Giorgia non l’ha sposato. A parte Dio che lei nomina spesso, e a parte il chiedere anche a noi di farlo, c’è questo mistero: una graziosa signora che non si sposa, proprio per non rendere definitivo il matrimonio con un bel giovane di cui non si conosce bene il futuro. 

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Foglio” il 23 Settembre 2023

Roma. “Niente brindisi, concentrati”. All’alba del 23 settembre 2022 Giorgia Meloni, dopo un breve discorso, mette in riga tutti i colonnelli accorsi al Parco dei Principi, l’hotel dove Fratelli d’Italia è riunito per i risultati delle elezioni che lo lanceranno a Palazzo Chigi. E’ passato un anno, domani la premier riunirà tutti all’auditorium della Conciliazione, per tracciare un bilancio di questi dodici mesi. […] Al di là dei successi rivendicati, il governo Meloni non si è aperto a nuove energie e contributi eretici. Anzi, per paradosso, sembra essersi ristretto: sono sempre meno i decisori e i consiglieri, sono sempre di più i mondi che restano fuori dal piano nobile del palazzo del governo.

[…] tra i primi atti del nuovo esecutivo c’è lo spostamento del Pnrr: i fondi europei finiranno direttamente sotto l’egida di Palazzo Chigi, tolti dalla solida e ramificata struttura del dicastero di Via XX Settembre[…] Dopo un anno l’unico consigliere economico della premier è Renato Loiero, proveniente dalla direzione Servizio bilancio del Senato. Per il capo di gabinetto salterà l’ipotesi di Riccardo Pugnalin (manager Fininvest, Sky, Vodafone, transitato anche in America Tobacco) che andrà a ricoprire il ruolo di capo delle relazioni esterne di Autostrade.

La scelta cade su Gaetano Caputi, pescato dal ministero del Turismo. La Fiamma magica non si allarga nemmeno nell’ufficio stampa, anzi. Prova ne è l’esperienza di Mario Sechi, durato da febbraio a settembre: sette mesi. Veniva dalla direzione dell’agenzia Agi ora è sulla tolda di comando di Libero. Meloni lo ha sostituito formalmente con il caporedattore sempre dell’Agi Fabrizio Alfano, già portavoce di Gianfranco Fini […] E ora dopo un anno di assenza, con i corrispondenti disperati, pare essere stato individuato anche un responsabile dei rapporti con la stampa estera (si pensa a un diplomatico, ma non a un giornalista). 

Nel frattempo […] la comunicazione politica del governo e del partito […] è stata centralizzata nelle mani di Giovanbattista Fazzolari, pirotecnico sottosegretario alla presidenza del Consiglio nonché ideologo di Via della Scrofa. […] In tantissimi casi in questi dodici mesi – in una perenne sindrome di accerchiamento fatta di “ me posso fida’ ?” – si interviene a colpi di normale spoil system solo se c’è un uomo d’area di provata fiducia da inserire.

E’ il caso in Rai di Giampaolo Rossi, predestinato a Viale Mazzini, diventato dopo la pasticciata uscita di Carlo Fuortes direttore generale. Come viene da fuori anche il navigato Gian Marco Chiocci, direttore già del Tempo e dell’agenzia Adnkronos, nominato alla guida del Tg1 (una rivoluzione gradita dalla redazione, a quanto pare, visto che tutti commentano così: “E’ un giornalista e uomo squadra: nulla da eccepire”). Le logiche che hanno governato Fratelli d’Italia fino al boom sono state riprodotte a Palazzo Chigi in carta carbone. I pochi uomini e donne che ruotavano intorno al partito quando era al 4 per cento sono gli stessi che adesso danno le carte.

Non c’è dunque da stupirsi della promozione di Arianna Meloni, sorella maggiore della leader e compagna del ministro Francesco Lollobrigida, a responsabile della segreteria politica oltre che del tesseramento. L’unico innesto in questo grumo di potere porta ad Alfredo Mantovano, prezioso sottosegretario alla presidenza con delega al deep state . Tutti gli altri, come le stelle di Cronin, stanno a guardare.

L'anno nero della nazione. Il primo anno (indecente) da premier di Giorgia Meloni: tra sceneggiate, claque e smorfie.  Dall’Emilia a Caivano il copione è sempre lo stesso, indecente: a parte i selfie coi potenti non ha fatto nulla, se non alludere con metafore dal sapore bellico, alle maniere forti proprie di uno Stato di polizia che pulisce, elimina, reprime. Michele Prospero su L'Unità il 7 Settembre 2023

Non solo a Cernobbio monta il disincanto. Cala nei sondaggi la fiducia nel governo, dopo i quasi dodici mesi di attività, e Meloni perde ben tre punti percentuali nel gradimento. Non bastano le trasvolate in ogni parte del mondo a mostrare una “fuoriclasse”, secondo la definizione di Repubblica, alle prese con vestiti griffati, scarpe cangianti e capelli al vento. Anche nell’età in cui il reale pare dissolversi nell’ambiguità delle seriali post-verità e nelle incursioni degli influencer, non è scomparsa irreparabilmente la capacità degli elettori di percepire se le decisioni politiche siano efficaci o meno.

A Caivano il presidente Meloni ha sentenziato che lo Stato lì non esiste. Dinanzi al territorio napoletano sfregiato dal vuoto di potere, tocca a lei “metterci la faccia”. E per questo la patriota dona il suo viso alle telecamere, che la riprendono in ogni passerella che volentieri si concede nei luoghi del dolore. Molta rappresentazione e poca capacità di incidere sulle situazioni effettive di disagio si convertono però, alla fine, in un cortocircuito della comunicazione. Quelle doti da statista, che aveva certificato anche Panebianco (“una leader indubbiamente capace e carismatica”), non appaiono confermate dalla scialba prova di governo.

La crescita non c’è, l’economia ristagna e perciò la cronaca nera funge da occasione salvifica. Giorgia afferra una emergenza dopo l’altra e, attraverso le sue fugaci uscite, sparge proclami con inflessione romanesca rivolgendosi direttamente al pubblico, senza neppure il rumore di fondo delle domande dei cronisti. Dopo aver citato la stessa banale frase, attribuendola una volta ad Agostino d’Ippona e l’altra a Francesco d’Assisi, il volto del potere si dilegua e un’altra tappa lo attende nella continua fuga dal concreto. Questo Stato volatile, interessato solo alla collezione delle foto di rito con i grandi della Terra, riassume la sostanza dell’esperienza di un anno nero a Palazzo Chigi.

Che si tratti del limo di Forlì o del degrado urbano di Caivano, architettura e scenografia dell’evento non cambiano di una virgola. Il telefilm governativo prevede la comparsata di un automobilista con i social intasati dalle immagini di Mussolini – scherzo del destino! – che, rimasto impantanato tra le acque melmose, incontra Giorgia e la venera come la reincarnazione dello Stato. In Campania il copione contempla una folla di militanti di partito travestiti da “persone qualunque” che passeggiano accidentalmente sul posto. La gente, appena vede la donna forte che si materializza con lo scettro del comando, si scioglie in manifestazioni spontanee di giubilo.

La costruzione di uno spettacolo politico attorno alle gesta del capo, che si sposta ovunque tra i battimani della claque al seguito, non è certo una invenzione di Meloni. Anche Napoleone III, il piccolo commediante salito al potere benché privo di attitudini di governo, aveva colpito Marx per il fatto di aver innalzato il viaggio a fabbrica del consenso. In ogni città che visitava, il capetto avvertiva negli applausi scroscianti un tangibile sostegno popolare. Spiegava Marx che la “virtù magica del suo nome” non era sufficiente, cosicché il carisma aveva bisogno di arruolare nelle piazze taluni passanti i quali, “in qualità di claqueurs”, dovevano gridare evviva e “simulare l’entusiasmo”; e però, “nonostante tutte le manovre, questi viaggi erano molto lontani dall’essere marce trionfali”.

Lo stesso fiasco comunicativo accompagna le peregrinazioni di Meloni. Le disposizioni minuziose impartite per far sembrare senza trucchi le acclamazioni, che si levano ogni volta alla visione della donna della previdenza, si rivelano delle maldestre messinscene che smontano i piani della narrazione. A Caivano il presidente del Consiglio, oltre a recitare, ha pronunciato comunque una parola politicamente evocativa: “bonifica”. Altre volte aveva invocato i blocchi navali. Allude, con metafore dal sapore bellico, alle maniere forti proprie di uno Stato di polizia che pulisce, elimina, reprime.

Il malessere collettivo può però essere affrontato in due modalità. Lo ha chiarito Leopardi con un paragone illuminante tra Napoleone il grande (“il suo governo, contuttoché dispotico, perciò appunto conservava una vita interna, che non si trova mai ne’ governi dispotici, e non sempre nelle repubbliche”) e il Papa. In una pagina dello Zibaldone, egli precisa: “Bonaparte per isnidare i malandrini da una contrada di Parigi v’introdusse i giullari e i giocolieri per richiamarvi il popolo, e frequentarla. Il Papa alcuni mesi addietro per isnidare i malviventi da Sonnino, luogo di loro rifugio nei confini del suo stato verso Napoli, decretò la distruzione di quel paese” (Zib., 251).

Con il progetto “bonificatore” l’esecutivo sovranista si mette sulle orme del papa-re che ordinò l’abbattimento degli ambienti più malfamati, e sceglie la via della repressione lasciando del tutto irrisolte le cause sociali e culturali del crimine, del male di vivere. Eppure molto più istruttiva fu la creatività sperimentata dal governo civile di Napoleone I che, attraverso politiche dell’effimero proto-nicoliniane, varò soluzioni utili per restituire vitalità agli spazi dell’abbandono.

La realtà è troppo complessa per essere governata da un ceto politico reclutato tra i sodali tolkieniani di Colle Oppio allevati nel mito della bonifica (quella vera dell’Agro Pontino) e della battaglia del grano. Tra il cognato attore non protagonista, che ai fornelli fa lo spot pubblicitario per persuadere i consumatori a servire i granchi blu a tavola, e Giorgia, che da attrice principale (già consacrata, peraltro, nel video da Oscar girato in una pompa di benzina) registra lo sketch della donna di Stato con la campanella che lavora anche il primo maggio, allestisce la cornice della macchina nel fango dell’Emilia-Romagna, o ancora si finge genuinamente sorpresa dinanzi a gruppi organizzati di plaudenti, a Palazzo Chigi la politica tramonta e si susseguono le prove di un cine-panettone.

Giambruno e gli altri: la maledizione dei compagni imbarazzanti. Storia di Candida Morvillo su Il Corriere della Sera domenica 5 novembre 2023.

In principio, ci fu Margaret Thatcher, prima donna premier del Regno Unito, anno 1979. Stette undici anni a Downing Street e, se lei passò alla storia come la Lady di ferro, il marito, Sir Denis Thatcher, segnò uno standard arduo da eguagliare: quello del first gentleman che sta un passo indietro senza mai creare problemi. Come fu scritto sul Guardian alla sua morte, nel 2003, «fu un uomo d’affari che non prendeva la politica di Westminster abbastanza sul serio da mettere in imbarazzo sua moglie o da rivaleggiare con lei, che considerava speciale senza provare soggezione nei suoi confronti». Oggi, invece, in un’epoca in cui le presidenti del Consiglio donne sono ormai almeno una piccola pattuglia, i loro consorti non sempre sanno stare nel ruolo con standing da lord.

La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, con il marito Heiko von der Leyen: i suoi interessi nel biotech l’hanno messa in imbarazzo, ma lui si è subito tolto d’impaccio dimettendosi da direttore scientifico (foto Getty images)

Giorgia Meloni ha lasciato per direttissima il compagno Andrea Giambruno, ma persino la presidente della Commissione Europe Ursula von der Leyen è stata messa in imbarazzo dal marito (lei, però, per questioni di affari). E abbiamo appena visto l’ex premier norvegese Erna Soldberg presentarsi sull’orlo delle lacrime in conferenza stampa per denunciare di avere un crollo di fiducia nei confronti del consorte, pure lui coinvolto in business poco chiari. Il primo ministro estone Kaya Kallas ha rischiato di doversi dimettere per via del consorte implicato in un commercio con la Russia perlomeno inopportuno, considerata la fervente posizione pro Ucraina del Paese. Intanto, da un anno, i pettegolezzi su una presunta amante del suo Joachim Sauer stanno dando tormento ad Angela Merkel, la quale, pervicacemente, li ignora. Al pari di un temibile virus spuntato dai ghiacchiai sciolti, la maledizione dei mariti imbarazzanti è un virus emerso dal tetto di cristallo nel momento in cui le donne lo hanno rotto. In un’era in cui la parità di genere va soppiantando il patriarcato, i partner delle donne in vista sembrano l’anello debole della catena evolutiva: soffrono, non tengono il passo e, in definitiva, finiscono per fare sabotaggio di mogli e compagne.

Il 14 febbraio 2019 Giorgia Meloni pubblica su Instagram una foto con il compragno Andrea Giambruno che è un inno all’amore, scrive, «paziente, benevolo, che non invidia, che non si vanta...»

È come quando Fedez, a Sanremo, rubò la scena a Chiara Ferragni. Lei era coconduttrice e quello doveva essere «il suo festival», ma il rapper la oscurò prima con un freestyle che prendeva di mira politici, poi, baciando in diretta Rosa Chemical. Così, tocca a loro, alle donne, trovare la quadra per adattarsi al cambiamento e fare un salto evolutivo che vale per due. Andrea Giambruno è stato colto in un fuorionda del suo programma tv Diario del giorno mentre esagera con le parolacce, fa il piacione con una collega, le dice: «Sei una donna intelligentissima, ma perché non ti ho conosciuta prima?». Quindi, secondo fuorionda: a una collega non inquadrata, propone un threesome e anche un foursome. Una cosa a tre, o a quattro, che sulla stampa estera riecheggerà il successo, si fa per dire, del Bunga Bunga di berlusconiana memoria.

«Partner presentatore desideroso di sesso a tre e a quattro» titolerà El Mundo, quotidiano di quella Spagna, dove Giorgia Meloni aveva tuonato «Yo soy Giorgia, soy una mujera, soy una madre, soy cristiana», sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono una cristiana. Ma lei, che ha passato buona parte del primo anno di governo ad accreditarsi sulla scena internazionale, non ci sta a essere sbeffeggiata sulla stampa mondiale. Alle 8.30 del mattino successivo al secondo fuorionda, pubblica un post che dice «la mia relazione con Andrea Giambruno, durata quasi dieci anni, finisce qui» e in dieci righe stupisce per almeno tre motivi: la tempestività, il fatto che anteponga la ragione di Stato a quella del cuore; e perché, avversata dalle femministe in quanto donna ma non femminista, lascia il compagno per delle frase sessiste. Meloni che mette a tacere le istanze del cuore e fa prevalere quelle di capo di un partito e di guida del governo dà prova di un decisionismo che neanche Margaret Thatcher. «Gravitas» è la parola usata da Giuliano Ferrara sul Foglio per riassumere il modo con cui la premier affronta una crisi familiare esplosa invece a mo’ di macchietta.

LA CONSERVATRICE NORVEGESE SOLDBERG HA (QUASI) PIANTO IN PUBBLICO LA PREMIER ESTONE HA CONTESTATO LA PRETESA DELL’ELETTORATO DI RISPETTARE «VALORI MORALI ECCESSIVI»

Alla fine, Meloni è l’unica leader che ha il coraggio di sacrificare l’amore sul piatto della politica. La conservatrice norvegese Erna Soldberg se l’è cavata buttandola sul vittimismo. Stava per ricandidarsi alle elezioni del 2025 e si è saputo che, mentre era premier, il marito ha fatto investimenti e guadagni approfittando di informazioni riservate carpite in casa. Così, a metà settembre scorso, lei si è presentata in conferenza stampa e, quasi piangendo, ha parlato di «un crollo di fiducia» nella sua relazione. Ha giurato che il consorte le ha detto bugie e che potrebbe essersi reso colpevole di conflitto di interessi, però a sua insaputa. Non l’ha lasciato e non ha ritirato la candidatura. Ha solo promesso che, se diventasse di nuovo primo ministro, assumerà una sorta di «baby sitter» per supervisionare gli affari del consorte.

Nella vicenda che ha colpito casa von der Leyen, Ursula non si è dimessa ma si è dimesso il marito e lei se l’è cavata senza scucire una sola dichiarazione. Heiko von der Leyen si è trovato a essere medico e direttore scientifico della società biotech statunitense Orgenesis, destinataria di fondi del Pnnr stanziati dall’Europa. Non solo, era anche stato inserito dalla sua azienda nel consiglio di sorveglianza che pianifica la strategia di budget di quei fondi. In seguito a interrogazioni parlamentari e polemiche, il «first gentleman» si è dimesso dal comitato, ma non dall’azienda. Per Ursula, ha parlato un portavoce della Commissione Europea, limitandosi a dire che il marito di un alto Commissario che riceve finanziamenti Ue e nazionali «non incorre in conflitto di interessi».

Quanto alla premier estone Kaya Kallas, pur di non lasciare il marito e tenersi anche la poltrona, ha visto la sua popolarità scendere ai minimi. Si era scoperta che Stark Logistics - una società di trasporti di cui è azionista il marito Arvo Hallik - aveva continuato a fare profitti con la Russia nonostante la guerra. Profitti legali, salvo che Kallas, fervente anti putiniana, andava esortando gli imprenditori a «ritrovare la bussola morale» e a limitare i traffici con Mosca.

Inchiodata dalla stampa, si è aggrovigliata fra «a casa non parliamo di affari» e «non è vero niente, le accuse sono infondate». Poi, ha tacciato i giornalisti di «bullismo» ed è arrivata a dire che gli estoni esigono dai leader valori morali troppo elevati. A quel punto, il 70 per cento dell’opinione pubblica voleva le sue dimissioni. L’ha scampata perché l’opposizione non ha i numeri per far cadere il governo. Insomma, fino all’atto d’imperio di Meloni, questa sembrava una gara fra congiunti imbarazzanti, ma dopo è diventata anche una prova di leadership femminile.

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Foglio” il 5 dicembre 2023.

La sala regia è la sua isola d’Elba: un esilio (dallo schermo) destinato a terminare il prossimo settembre. Dopo dieci napoleonici mesi. Almeno così dice – sperando – ai pochissimi amici fidati Andrea Giambruno, il grande ex fatto persona. Già compagno di Giorgia Meloni, licenziato con un post sui social dalla premier; già conduttore del “Diario del giorno” su Rete 4; già ciuffo d’Italia (le parrucchiere di Cologno Monzese, che bene lo conoscono, sostengono che “con Giorgia non sia proprio finita”: chiacchiere di lacca?).

E’ il conte di Montecristo del Palatino. Sul colle di Mediaset, segregato in un ruolo che gli sta stretto, sogna il gran rientro. Magari in un tg, senza più dover improvvisare tra “lupi che prima o poi ti trovano” e con il rischio di fuorionda birichini (immortale quello sul “threesome” proposto con piacioneria, un po’ romanesca un po’ da maranza, a una collega). 

[…] Sa di essere stato tradito da colleghi che considerava amici, questo pensa. “Cammina radente al muro: buongiorno e buonasera, ha perso la consueta allegria guascona. Lo incontriamo al bar o in mensa: così riservato da non essere più lui”, raccontano i romani di Mediaset, comunque considerati periferia dell’impero berlusconiano.

Andrea? Un bravo ragazzo, aggiungono tutti. Giambruno si è sentito vittima di “una caccia all’uomo”. Pensa di aver pagato più del dovuto per il ruolo pubblico che ricopriva. In questi giorni c’è chi gli ha sentito fare ragionamenti del tipo: se avessi detto io le cose che ho ascoltato in certe trasmissioni di La7 mi avrebbero scorticato vivo. Pare si riferisse a Lilli Gruber e Corrado Formigli, chissà.

La sua nuova vita professionale inizia alle 10 e termina alle 18. Riunione del mattino con la redazione di “Diario del giorno”. Si parte: commento dei giornali, argomenti, scelta degli ospiti, scaletta, punto sui collegamenti. Poi mini riunione con chi ha preso il suo posto. A rotazione, i conduttori della trasmissione che ha lanciato e sotterrato l’ex compagno di Meloni sono: Luigi Galluzzo, Elena Tambini e Manuela Boselli. 

Ciò che fino a poco tempo fa era tutto un blu Estoril, adesso è diventato un nome giallo su uno sfondo grigio nei titoli di coda della trasmissione alla voce “coordinamento”. 

[…] Ma attenzione, eccolo in cuffia: “Manda la pubblicità!”. “Siamo lunghi”. Dopo la puntata […] nuova piccola riunione e appuntamento alla mattina seguente. E così è: dal lunedì al venerdì. E’ la vita quotidiana nelle segrete del Palatino.

[…] “Diario del giorno” non ha avuto contraccolpi da quando non c’è più il suo mattatore “Giambrunasca”, come lo chiama Antonio Ricci. Anzi. Dati alla mano dal 19 ottobre – quando è scomparso dagli schermi sotto i colpi di “Striscia la notizia” – al 1° dicembre ha registrato una media di 478 mila spettatori pari al 5,27 per cento di share. 

Quando iniziò la nuova stagione, con gentile concessione aziendale di produrlo a Roma e non più a Milano, “Diario del giorno” si era fermato a una media del 4,8 pari a 403 mila spettatori. In poche parole da quando non c’è più il “first husband” decaduto, il prodotto ha acquistato mezzo punto.

[…] Giambruno […] vuole essere dimenticato e giudicato solo per il suo lavoro: coordina e non straripa. Funziona. Di Mediaset non parla. Spera di ritornare alla conduzione, com’è normale che sia. Magari come mezzobusto. Non a gennaio, forse a settembre. […]Giovedì non andrà alla prima della Scala, come accadde nel 2022. Un destino che lo accomuna alla premier che rimarrà lontana dal debutto del Don Carlo. Troppi ricordi.

Ilario Lombardo per La Stampa - Estratti mercoledì 6 dicembre 2023.

Andrea Giambruno scherza con un gruppo di amici, a pranzo. Sono una decina di persone in tutto, seduti all’Osteria del Sostegno, un piccolo ristorante in centro, a due passi dal Pantheon e a due passi dal Palazzo dove ogni giorno si reca a lavorare la sua ex compagna, Giorgia Meloni.  

(...) 

Giambruno ha voglia di rivincita e in queste settimane ha studiato con il suo avvocato la migliore strategia, quella che gli darebbe più chance di rifarsi sull’azienda: «Faccio causa per violazione della privacy e diffamazione a mezzo stampa. L’avvocato mi ha detto che così vinciamo sicuro». Sono parole sue, riportate da testimoni diretti a cui ha raccontato cosa pensa di fare, e perché.

Ora bisognerà vedere se andrà fino in fondo, con l’obiettivo di ottenere un risarcimento. È consapevole di cosa lo aspetta, ma è determinato. Troppa la delusione, troppo grande la ferita. «Mi hanno fatto fare un figura di merda mondiale» si è sfogato. L’eco è stato effettivamente globale. Titoli di giornali internazionali dedicati al first gentleman, partner della prima presidente del Consiglio italiana donna che scherza con battute pesanti a sfondo sessuale con colleghe in studio, allude ironicamente a rapporti a tre e si tocca le parti intime. Il tutto trasmesso dalla stessa tv di cui lui è dipendente, e che appartiene alla famiglia di Silvio Berlusconi, padre-padrone del centrodestra per trent’anni.

C’è una sentenza della Corte di Cassazione, anno 2011, che è un precedente favorevole. È una delle armi che avrebbe in mano il suo avvocato, convinto che si tratti di colloqui privati, tra colleghi, intercettati sul luogo di lavoro, e che non potevano essere divulgati. I fatti sono noti: dopo mesi di inciampi in diretta, a metà ottobre Striscia la notizia crea una rubrica – Giambrunasca - dedicata al giornalista. Già la prima puntata è insostenibile. La seconda è fatale. Si profila uno stillicidio. Qualche giorno dopo Antonio Ricci, autore del programma, allude ad altri episodi. Ma Giorgia Meloni arriva prima e con una nota pubblicata al mattino sui social, all’indomani della seconda puntata, annuncia la separazione, chiudendo così il comunicato: «Tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua».

Non ha mai spiegato a chi si riferisse. Quel che è certo è che in quella famiglia-partito che è Fratelli d’Italia i sospetti che non si sia trattato di una scelta in solitaria di Ricci, e che i suoi editori, Marina e Pier Silvio Berlusconi, non ne fossero a conoscenza, sono tuttora forti. Meloni però non può più difenderlo. Né tentare di giustificarlo, come è stata costretta a fare, visibilmente seccata, quando in conferenza stampa, a settembre, le viene chiesto un parere su quella raccomandazione che il compagno aveva rivolto in diretta alle ragazze: di non uscire ubriache per non tentare «il lupo» sempre in agguato. 

Il 25 ottobre Mediaset e Giambruno si accordano. Il giornalista lascia la conduzione e torna dietro le quinte, come autore. È quello che ha fatto per anni, prima di avere un programma tutto suo, ottenuto in coincidenza con l’ascesa a Palazzo Chigi della sua compagna. In questa storia, sin dall’inizio, il privato e il pubblico si mescolano troppo facilmente e pericolosamente. Meloni ha una responsabilità di governo e c’è una figlia in comune, da proteggere.

Giambruno però non esce di scena né di lui si sono mai perse le tracce per davvero. I fotografi lo inseguono, il suo taglio di capelli fa più notizia dei bilaterali con i leader mondiali della sua ex. 

La presenza di Mister Meloni aleggia nei racconti di palazzo, nella maliziosità tutta romana, nelle leggende che in questa città ci impiegano poco a diventare mezze verità. La famiglia li protegge. Arianna, sorella di Giorgia, viceregina del partito, moglie del ministro Francesco Lollobrigida, accusa i giornali di fare gossip. Gli amici, però, non credono troppo alla separazione. Giambruno ha preso una casa vicino a Meloni per stare più tempo possibile con la figlia. Fidatevi, racconta chi li conosce e li ha frequentati per anni, non è finita come Totti e Ilary. Non tutti i finali infelici si assomigliano tra di loro.

Estratto dell’articolo di repubblica.it mercoledì 6 dicembre 2023.

“Non ho niente da dire, nulla da aggiungere”, taglia corto Andrea Giambruno interpellato da Repubblica in merito alla presunta causa che il conduttore sarebbe pronto a fare a Mediaset. “Faccio causa per violazione della privacy e diffamazione a mezzo stampa. L’avvocato mi ha detto che così vinciamo sicuro”, si legge su la Stampa. 

L’ex compagno della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, silurato dalla conduzione di Diario del giorno, in onda su Rete4, sarebbe andato dai legali dopo la serie di gaffe culminate negli imbarazzanti fuori onda pubblicati da Striscia la notizia, programma dello stesso network guidato da Pier Silvio Berlusconi. 

A dar manforte a Giambruno una sentenza della Corte di Cassazione del 2011, un precedente favorevole. “È una delle armi che avrebbe in mano il suo avvocato, convinto che si tratti di colloqui privati, tra colleghi, intercettati sul luogo di lavoro, e che non potevano essere divulgati”. 

I fuori onda di Striscia

Lo scorso 18 e 19 ottobre in due puntate consecutive, Striscia la notizia, il tg satirico di Mediaset, ha diffuso dei fuori onda di Giambruno, allora compagno della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Sono soprattutto quelli del 19 ottobre a far scattare l’allarme rosso a Palazzo Chigi e provocare la reazione durissima da parte dell’opposizione per le “allusioni sessuali incommentabili” a colleghe. 

Gli audio rubati hanno contenuti poco equivocabili. “Posso toccarmi il pacco mentre ti parlo?” chiede Giambruno probabilmente a una collega, che risponde: “Lo hai già fatto”. Poi le chiede ancora: “Tu sei fidanzata?”, e la risposta è la seguente: “Sì, te l’ho già detto stamattina, Andrea”. Il tono sembra scherzoso ma le uscite di Giambruno cominciano ad avere toni più insistenti.

Il giorno prima Striscia aveva mostrato un fuorionda video in cui Giambruno fa delle avance alla collega Viviana Guglielmi: “L'unico giudizio che conta per me è quello della Viviana, ma la bellezza di questo blu estoril, una donna acculturata come te dovrebbe saperlo, blu Cina no, non ti si addice, sei di un livello superiore, meglio oggi? Sei di buon umore? Mi è dispiaciuto ieri vederti un po'…Sembri una donna intelligentissima, ma perché non ti ho conosciuta prima”. 

Il benservito della premier e l’addio alla conduzione

All’indomani dei fuori onda, il 20 ottobre, Giorgia Meloni dà il benservito ad Andrea Giambruno via social. “La mia relazione con Andrea Giambruno, durata quasi dieci anni, finisce qui. – scrive la premier – Lo ringrazio per gli anni splendidi che abbiamo trascorso insieme, per le difficoltà che abbiamo attraversato, e per avermi regalato la cosa più importante della mia vita, che è nostra figlia Ginevra”. 

Quattro giorni dopo, il 24 ottobre, l’ex compagno della premier lascia la conduzione di Diario del giorno. “Dispiaciuto per l’imbarazzo e il disagio creato con il suo comportamento, concorda con l’azienda” l’addio al video. Secondo fonti di Cologno Monzese il giornalista 42enne manterrà il posto nel programma, però dietro le quinte. […]

Estratto dell’articolo di Luca Uccello per leggo.it giovedì 7 dicembre 2023.

Andrea Giambruno è pronto a raccontare la sua verità. Nessun docufilm alla Ilary Blasi. Ma bensì in un libro che il giornalista, ex compagno della premier Giorgia Meloni sarebbe pronto a scrivere. 

[...] quando l'ex volto di Rete 4 è stato "retrocesso" dietro le telecamere ha più tempo libero per sé, da dedicare a sua figlia Ginevra e pensare a nuovi progetti. E uno di questi sarebbe proprio quello di cimentarsi alla scrittura di un libro. 

Secondo il settimanale Oggi sarebbe stato avvicinato da tanti editori, di destra come di sinistra, per convincerlo a mettere nero su bianco la sua storia. [...]

Ma in tanti si chiedono se si tratterebbe solo di una provocazione o un modo per attirare nuovamente l'attenzione di Giorgia... Ma per l'ex della premier queste sarebbero settimane intense. Andrea Giambruno avrebbe in agenda tanti appuntamenti e incontri professionali. Ma è il libro a essere al centro dell'attenzione...

Estratto dell’articolo di Massimiliano Panarari per “La Stampa” giovedì 7 dicembre 2023.

Medium ancora "caldo" la radio, per dirla con Marshall McLuhan. Anche se non precisamente nel senso che intendeva il famoso teorico delle comunicazioni sociali, le onde radio di Rtl 102,5 sono state utilizzate da Giorgia Meloni per pronunciare una breve arringa difensiva intorno a un tema appunto hot e scottante come il naufragio "mediatico" della sua vita di coppia. Ha così dichiarato che «si è parlato delle volte senza pietà delle mie questioni personali. Ma... elmetto in testa e combattiamo!».

 Una glossa a metà tra l'underdog e la guerriera di una qualche popolazione fantastica del Signore degli anelli per citare un immaginario a lei consono, ma anche e soprattutto la proclamazione della resistenza al clima di assedio che la destra si rivela incline a "denunciare" pure quando si ritrova massicciamente all'interno della stanza dei bottoni e dispone di un vasto potere mediatico. […]

Nessuno, naturalmente, si permette di sindacare alcunché rispetto ai sentimenti e al dolore della persona Giorgia Meloni per la fine di una relazione. E ci mancherebbe altro. Ma, «sine ira et studio», vale la pena di ritornare sulla delicata questione proprio sulle tracce di quanto affermato dalla premier, che è una donna ferita da questi eventi, ma pure – e inequivocabilmente, come attesta il fatto che ne abbia riparlato su un network radiofonico nazionale – una donna pubblica e una figura apicale delle nostre istituzioni.

 […] In epoca postmoderna la sfera privata dei politici è stata largamente travasata dal backstage alla ribalta, e sono proprio loro – e, va detto, specialmente quelli di orientamento neopopulista – a ostentarla in chiave elettoralistica. 

Per quanto dolorosa sia stata la vicenda vissuta dalla premier, e per quanto possano essere state avvertite come sgradevoli certe "attenzioni", non si è qui in presenza di alcun trattamento ad personam. Anzi, l'elenco degli uomini politici le cui vite personali sono entrate nel circuito mediale – sbattute in prima pagine, rovistate come dei calzini, "gettate in pasto" ai lettori e ai telespettatori – è davvero assai nutrito.

Una situazione ancora più speciosa e inclemente si verifica nei confronti delle donne politiche, alle quali viene applicato, come noto, un atteggiamento particolarmente irriguardoso con riferimento all'aspetto fisico ed estetico. Spesso per ragioni di battaglia politica, talvolta per voyeurismo, talaltra come contrappasso di quella pipolizzazione a cui attingono a piene mani per dopare i loro consensi gli stessi politici. O ancora per gossip volto a incrementare contatti, audience o vendite dei media – e che, giustappunto, può diventare pure strumento di «gossipolitica». […]

Si pensi a quanto ogni anfratto, anche il più recondito, dell'esistenza di Silvio Berlusconi – alfa e omega della celebrity politics all'italiana – sia stato indagato e divulgato, dai matrimoni e le separazioni alle corsette con la bandana e i vertici delle aziende familiari nei parchi delle ville, sino al funesto epilogo "olgettino".

 

Ci si rinfreschi la memoria con le immagini di Walter Veltroni e di Piero Fassino in spiaggia, bersagliati per il colorito non precisamente abbronzato, e dileggiati perché non dotati delle tartarughe addominali a cui ci hanno abituato tronisti e affini. 

E si rammentino – a proposito, invece, di una deliberata distruzione della reputazione a scopo politico – le fotografie svilenti di Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini fatte circolare sui rotocalchi patinati mondadoriani all'indomani delle loro rotture con l'editore-presidente del Consiglio. Un fenomeno che non costituisce certamente una prerogativa nazionale; basti citare la dissezione per filo e per segno della lista di infedeltà coniugali (effettive o supposte) di Bill Clinton e gli appostamenti al seguito di François Hollande, che fuggiva nottetempo dall'Eliseo a bordo di uno scooter per recarsi dalla (presunta) amante Julie Gayet. […]

Da piacione a Casanova: L’intraducibile Giambruno. Redazione su L'Identità il 5 Novembre 2023

Da piacione a Casanova: L’intraducibile Giambruno – di FRANCESCA ALBERGOTTI

Esistono parole intraducibili. Talvolta sono molto belle, fino a diventare poetiche: ngangiwummir in lingua aborigena significa “dare voce alla primavera dentro di noi”, per i turchi gumusservi significa “riflesso della luna sull’acqua”, ya’aburnee è usata dagli arabi per esprimere la speranza che la persona che ami di più viva più a lungo di te. Ci sono anche parole che non solo non possono essere tradotte, ma delle quali ci domandiamo disorientati perché siano state inventate. Gli islandesi usano hoppipolla che vuol dire “saltare nelle pozzanghere” parola che noi non avremmo mai concepito in quanto quando piove stiamo ben attenti a non infilare il piede nella pozzanghera. Anche i tedeschi hanno sentito l’obbligo di inventare la parola waldeinsamkeit per raccontare la sensazione di essere “solo in mezzo agli alberi”.

In Finlandia per dar notizia che si sono ubriacati da soli in casa usano kalsarikannit, uno stile di vita che non ci rappresenta perché se ci ubriachiamo da soli ci dev’essere sotto qualcosa di davvero grave. Anche il nostro italiano ci regala termini incredibilmente originali, senza contare i vocaboli dialettali. Se passeggiata non è semplice walking né promenade, come spiegare a un non madre lingua l’intrinseco significato delle parole menefreghismo, qualunquismo, e ancora struggersi, meriggiare, gigione o provolone. Per spiegare le parole è necessario far conoscere singolarità e archetipi di un paese, entrare dentro la cultura e indagare sulle sfaccettate sfumature. Per questo non stupisce leggere sulla stampa straniera gli articoli relativi al comunicato della Meloni sulla fine della relazione con il compagno liquidati più o meno con il semplificativo “il premier italiano lascia il compagno per gravi comportamenti sessisti”. Stupisce invece che la stampa italiana si sia fatta trascinare senza criterio a usare più o meno le stesse parole, in un paese dove i “Giambruno” sono una categoria ben precisa e definibile.

Dunque, Giambruno è il primo uomo a essere diventato compagno del primo presidente del consiglio donna della repubblica. Nonostante la presidente si proclami affezionata a un’idea di famiglia tradizionale i due non si sono sposati e hanno avuto una figlia, con il risultato di dare un’aura di progressismo altrimenti a rischio di arretratezza culturale e insensibilità verso attuali modelli familiari. Anche che il Giambruno fosse fotografato mentre va a fare la spesa o a riprendere la bambina all’asilo mentre Giorgia sta volando verso la Tunisia ha contribuito a diffondere l’immagine dell’Italia come di un paese che sta al passo con altri europei ed extraeuropei verso un sano e giusto sviluppo sociale. A un certo punto al Giambruno il ruolo casalinga-madre perfetta gli dev’essere parso stretto, si sentiva soffocare, così è tornato a fare il suo lavoro, accettando una rischiosa conduzione. Rischiosa in quanto sono bastati due minuti per neutralizzare il complesso lavoro fatto fino a allora e demolire l’immagine di uomo emancipato e orgogliosamente libero, l’incarnazione del modello di quell’uomo tanto ricercato da ogni donna. Qui però, di fronte alle parole “violazione di codice etico professionale, stalking, sessismo violento, misoginia, cameratismo tossico” usate dalla stampa per descrivere il siparietto rubato, credo sia necessario tornare alla ricchezza interpretativa della nostra lingua, perché può essere rischioso abusare di certi termini.

È certo complicato spiegare a un non italiano che nella nostra cultura esistano vari termini per identificare una categoria di uomini che, spinti da un insaziabile desiderio di ammirazione e con ridotta empatia verso i sentimenti altrui, pretende di imporsi all’attenzione attraverso atteggiamenti smodati ed eccessivi. Il gigione o piacione o provolone non è da confondere con il raffinato dongiovanni o l’insidioso seduttore, tanto meno con il letale narcisistico predatore seriale. Il gigione è sopra le righe fino a diventar goffo, caricaturale e incapace che il più delle volte viene non considerato. Il piacione è volgare, innocuamente molesto, inopportuno, di rado furbo, non è spiritoso né divertente anche se crede di esserlo. È alla ricerca di attenzione, ha una fissazione per l’immagine che rimanda di sé agli altri e i “complimenti” che distribuisce sono più blandizie fuori luogo. Queste adulazioni tentano di nascondere la necessità di mantenere vivo il miraggio di un ruolo di superiorità, consapevole però di non poterlo raggiungere. A volte possono essere uomini brutti, perché l’aspirazione non è esser tentatori né ammaliatori, neppure seduttori. L’atteggiamento dominante-arrogante è più teatrale, è solo un pretesto per dare un’immagine di sé che non corrisponda a quella effettiva. Ogni donna ha avuto a che fare con un gigione e molte hanno fatto come la collega di Giambruno. Li abbiamo ignorati, abbiamo alzato gli occhi al cielo, li abbiamo tollerati, abbiamo pensato ”che coglione” ma difficilmente ne abbiamo avuto paura. Qualcuna di noi ne ha anche sposato uno, perché alla fine possono non esser peggio di tanti altri. Alcune se li tengono comunque stretti, altre se ne sono liberate e forse ora sono più felici.

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” mercoledì 1 novembre 2023.

La paura della presidente del Consiglio Giorgia Meloni è ancora quella di finire risucchiata nel gorgo Mediaset. Perché sa di non essere del tutto estranea all’andamento della carriera dell’ex compagno Andrea Giambruno, lunedì tornato al lavoro. E sa anche, nonostante sempre ieri Pier Silvio Berlusconi si sia detto «dispiaciuto» per i fuori onda che hanno inguaiato il padre di sua figlia, che se metti solo un dito dentro l’azienda della famiglia rischi poi che ti resti impigliato: «Non sono ricattabile», disse non a caso dopo gli sgarbi fatti al Cavaliere durante le trattative sul governo e la frase, sibillina, del fondatore di Fininvest che sussurrò: «Il suo compagno è un mio dipendente».

Ma da dove arriva il vero timore di Meloni di finire risucchiata in questo gorgo? Per rispondere a questa domanda bisogna fare qualche passo indietro. Giambruno è davvero un underdog: famiglia borghese, studi all’Università Sacro Cuore, dopo una breve esperienza in una televisione locale lombarda, Telenova, inizia a collaborare intorno al 2010 a Mattino Cinque allora diretto da Claudio Brachino. 

La segnalazione arriva da Lele Mora, che gestiva la sua agenzia di star e meno star che frequentavano l’abitazione di viale Monza. Ma Mora non ha mai spinto la carriera di Giambruno. E chi frequentava in quegli anni viale Monza assicura: «Giambruno non era uno che saliva al secondo piano dell’appartamento di Lele, dove c’erano molte donne e ragazzi belli».

[…] Non a caso fa molta gavetta a Mattino Cinque , con il compito di cercare gli ospiti. Poi lavora anche con il suo “mito” giornalistico Paolo Del Debbio a Quinta Colonna , e ritorna a Mattino Cinque dove cura la nota politica avendo come capo redattore Francesco Vecchi: ha conosciuto da poco, siamo nel 2013, Giorgia Meloni negli studi Mediaset ed è scoccata la scintilla. Da tutti è considerato un lavoratore: sa anche di essere piacente e fa il piacione, ma a Brachino o a Vecchi non arrivano segnalazioni di comportamenti scorretti. 

Poco dopo […] viene mandato a Roma negli studi del Palatino per lavorare a Matrix , allora condotto da Luca Telese. È ancora un semplice “collaboratore” con contratti a tempo. Ai dirigenti Mediaset arriva un giorno della fine del 2018 una telefonata da Fedele Confalonieri: «Assumetelo ». 

E negli studi televisivi si rincorre subito la voce che a perorare la causa sia stato un «autorevole esponente» lombardo di Fratelli d’Italia che conosce bene la linea alta di Mediaset composta dallo stesso Confalonieri, ma anche da Adriano Galliani e Mauro Crippa. Sono gli anni di FdI in ribasso.

Ma a Cologno registrano la richiesta. Andato nel frattempo via Brachino, Giambruno passa per un periodo a Tgcom24 e arriva a condurre qualche telegiornale: salvo poi essere rimesso in redazione pochi giorni dopo una intervista di Meloni che disse di «non dovere nulla a Berlusconi». 

Gli alti e i bassi in Mediaset legati alle vicende politiche della illustre compagna. E lui un po’ inizia a giocarci su con l’essere nelle reti berlusconiane fuori sistema: la barbetta (un particolare che Berlusconi detesta per i suoi dipendenti), il ciuffo, il guascone che vuole rimarcare il suo essere di provincia.

Si arriva ai giorni recenti: la nomina del governo Meloni, la promozione alla conduzione di Diario del giorno . Lui sembra subito voler dimostrare che dopo tanta gavetta la conduzione se l’è meritata, ma diventa anche più spavaldo […]. E saltano fuori quelle frasi con allusioni sessuali a colleghe e collaboratrici inaccettabili e inscusabili. 

Fuorionda […] registrati […] a luglio, vengono mandati in onda a ottobre. Nel frattempo alcune tensioni tra Meloni e i Berlusconi. Per Palazzo Chigi non si tratta di una coincidenza. Da dieci anni a questa parte c’è stato un filo che ha legato Meloni e Giambruno in Mediaset: «E quindi perché non dovrebbe essere così anche questa volta?», è il ragionamento nel cerchio magico meloniano.

Ieri Pier Silvio Berlusconi, in un’intervista a Bruno Vespa per il suo libro, è tornato a dirsi «dispiaciuto»: «Sono vicino a Giorgia, le dietrologie sono ridicole ». Ricci intervistato su Radio 1 ha detto sibillino: «Se Giambruno parla è un casino». Poi ha ribadito: «Nessuno sapeva di quegli audio». Ma in Mediaset sussurrano: come faceva la direzione generale, che tutto osserva, a non sapere di comportamenti inaccettabili? Nessuno ha riferito qualcosa alla direzione di Tgcom24? Intanto Giambruno […] è tornato a lavorare: giubbotto di pelle e capello corto con gel. Lo stile spavaldo non cambia, e non sembra volersi adeguare nemmeno ai canoni berlusconiani.

Dagospia mercoledì 1 novembre 2023. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”

Giambruno? “Lavorava con me, in redazione, quando io conducevo Matrix. Aveva già il ciuffo, girava con degli splendidi stivali Camperos ed era anche un elettore democratico, del Pd”.  Lo racconta a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1 il giornalista e conduttore Luca Telese, intervistato da Giorgio Lauro. 

Si è meravigliato dei suoi comportamenti nei fuori onda trasmessi da Striscia la Notizia? “No, sono una patacca secondo me, se fossimo ripresi h24 da una telecamera avremmo un momento in cui diciamo qualcosa che non dovremmo dire. Il pacco vero l’ha fatto Striscia”. Nel 2016 lei fu il primo ad intervistare, come compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno. “Si, lui era un libertario radicale - ha spiegato a Un  Giorno da Pecora - era antiproibizionista, cosa che sconvolse Fratelli d’Italia. Poi certo nel corso del tempo si possono cambiare le opinioni”.

Estratto da iltempo.it il 3 ottobre 2023.  

Selvaggia Lucarelli non molla la presa su Andrea Giambruno, giornalista Mediaset e come noto compagno della premier Giorgia Meloni. Durante Diario del giorno, lo spazio del Tg4 che conduce, aveva definito i flussi dei migranti una "transumanza", espressione seguita da numerose proteste, tanto rumorose quanto strumentali.  

(...) 

Parole e immagini passate ai raggi x da Lucarelli:  «Di questo video di “scuse” di Andrea Giambruno per aver definito le migrazioni “transumanze”, mi colpiscono alcune cose: la prima è l’utilizzo del plurale maiestatis in apertura (“ci prendiamo 30 secondi”), come a voler spartire le colpe con altri. La seconda è il modo in cui definisce i destinatari delle scuse, ovvero “il pubblico da casa”, “l’azienda che mi ospita” e poi quelli che sarebbero i VERI DESTINATARI delle scuse definiti con vaghezza “QUESTE PERSONE”. Ed è interessante perché passa dall’associarli agli animali a togliergli un’identità sociale, non sono neppure “migranti”, sono “queste persone”. Tipo “lui, coso”».

Poi c'è tutto l'aspetto non verbale della comunicazione: «La parlata robotica, con pause continue e innaturali, aggrava la sensazione di disumanità. Infine, la mia parte preferita, quella passivo-aggressiva finale, con i finti ringraziamenti ai giornalisti che l’hanno criticato e quel rancore malcelato che esplode nel volume di quel “MOLTO” pronunciato rompendo il muro del suono. 

Questo modo astioso di gestire le criticità, come se ci fosse sempre un torto subito anziché un errore commesso, come se sospeso nell’aria, nel mondo invisibile ma percepibile del non detto, ci fosse sempre un “ve la faró pagare” mi ricorda quello che adotta spesso qualcun altro: Giorgia Meloni». Insomma, Lucarelli nel video di poco più di un minuto - di scuse e di ammissione di un errore, tra l'altro... - vede "disumanità" e atteggiamento "passivo-aggressivo", e tira in ballo la compagna.

Michele Prospero 7 Settembre 2023

Da “Posta e risposta – la Repubblica” sabato 2 settembre 2023.

Caro Merlo, c’ero anch’io in piazza a Bologna quando, nel giugno scorso, lei e Filippo Ceccarelli ci avete raccontato le avventure di “casa Meloni”, prevedendo e persino anticipando l’escalation di trovate del fidanzato d’Italia Andrea Giambruno e del cognato d’Italia, Francesco Lollobrigida, i due maschi ad alto rischio del governo Meloni. 

Ma in fondo Giambruno può essere visto come una piccola vittoria del femminismo. Anche il familismo si è emancipato: non la moglie di Cesare combina guai, ma il marito di Cesare.

Lilly Rosano - Bologna 

Risposta di Francesco Merlo:

Solo a prima vista c’è un bel progresso del costume in questo malcostume che rovescia lo stereotipo: la moglie “ingravida” il marito, e il marito (o compagno), nella dimensione parassita del macho che traffica nel nome della moglie, ne mette a rischio la carriera. L’Italia che, come lei acutamente nota, è stato il Paese della moglie di Cesare, rischia di diventare il Paese del marito di Cesare. 

Tra le tanti mogli che inguaiarono Cesare ricordo, senza ordine, la moglie di Crispi, la prima moglie di Fanfani, la signora Leone, la signora Dini, la moglie dell’ex presidente della Banca d’Italia Fazio, e poi tutte le mogli e le compagne che i grandi scrittori italiani imposero come scrittrici. E ci sono ovviamente le Mulieres di Berlusconi. A guardar bene, però, con Giambruno e Lollo non siamo alla versione maschile della moglie di Cesare, ma allo svampitello che imbarazza la moglie e tuttavia la gratifica: è la debolezza che ne certifica la forza.

Nella famiglia politica più familistica che l’Italia abbia mai avuto al potere, comandano le due sorelle e gli ometti a rimorchio, con le loro poche e maschiette trovate, alla fine confermano e persino esaltano il potere della Padrina, della Godmather, come una volta accadeva, all’inverso, con “la bionda del capo”. 

La maggiorata svampita al maschile diventa il palestrato svampito. Non mi pare che il femminismo italiano, che si incantò davanti alla Meloni, meriti questo finale da commedia buffa. Quel genio misogino di Carmelo Bene, arrestato perché aveva picchiato la moglie, disse ai carabinieri: “Sono io la moglie di me stesso”.

Natalia Aspesi, editoriale choc contro Meloni: "Odia le donne e le sceglie brutte". Il Tempo il 08 agosto 2023

Giorgia Meloni è la protagonista dell'ultimo editoriale di Natalia Aspesi pubblicato sul quotidiano La Repubblica. Proprio in questo suo lungo intervento la giornalista, che ribadisce con costanza la necessità di battersi per i diritti e il rispetto delle donne, non si è lasciata sfuggire l'occasione di attaccare il presidente del Consiglio e l'universo femminile in toto. 

Giorgia Meloni, stando alle parole di Natalia Aspesi, sarebbe "furba come il demonio". Attacco, questo, che ha avuto poi un seguito. Nel mirino della scrittrice è finito il rapporto tra il premier e la tv "Si è capito benissimo dove vuole arrivare. Farli parlare, da Salvini a Schillaci, che quasi sempre non ne dicono una giusta, così l’informazione, contenta, si occupa esterrefatta solo di loro mentre lei fa altro". Poi Aspesi ha puntato il dito contro tutte le donne che circondano il presidente del Consiglio: "Si è circondata di poche donne in più bruttine (tranne la Bernini, bella ma molto alta). Di donne non ha mai parlato e se lo ha fatto è stato per caso. Ecco quindi una donna veramente donna e che come tale, odia o meglio non ama le donne, vuole che stiano al loro posto, secondarie", ha scritto. 

Quindi la giornalista ha continuato: "Fa parte di un partito che se è contento di una donna presidente, tutte le altre le vuole in casa a fare figli, impegnate a fabbricare bimbi come vorrebbe la tremendissima signora ministra Roccella che rimpiange la ghigliottina per colpire i colpevoli del suo famoso reato universale. Alla Meloni quel suo Fratelli (e non Sorelle) d’Italia tiene molto, ed è probabile che anche lei veda le donne come secondarie. Eppure sono proprio le donne, quelle di sinistra, a pensare che in fondo l’importante è che una sia già diventata primo ministro, poi ne arriveranno altre; e saranno certamente di sinistra".  

Natalia Aspesi ha lanciato addirittura un allarme: "Il partito di Meloni sale nei sondaggi", ha avvertito i suoi lettori. Poi ha aggiunto: "È giovane, mica come Biden che saltella in continuazione per via della schiena, portando con sé un misterioso carico di brutti vestiti. Bacia, sorride a Trudeau, bacia Macron, pare carina davvero, così piccina, gli racconta quel che loro vogliono, tanto non conta nulla, basta che resti atlantista". Alla fine dell'editoriale la scrittrice ha affidato l'ultimo appello alle donne: "Ma se a lei siamo antipatiche e pretendiamo il salario minimo, che tanto ce lo darebbero dei quasi ricchi, non potremmo cominciare a provare un minimo di fastidio per lei? Tanto a detestare le altre donne ci siamo abituate, proviamo anche con la premier Meloni", ha concluso.

Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” l'8 agosto 2023.

[…] il 25 settembre la svolta epocale! […] vince […] una ragazza piccolina, carina, con i capelli che un tempo erano bruni e adesso biondi […]: tutti noi non la calcolavamo, anche se, stupidi, aveva l’occhio di falco, era già presidente del partito dei conservatori e dei riformisti europei, vicepresidente della Camera dei Deputati e dal 2006 deputata a destra, anche nel Popolo della Libertà.

Era la Giorgia! Era la Meloni! […] Dopo lunghi momenti di sconcerto, di colpo il silenzio delle donne impegnate a cazzeggiare su lei, lui, *, e altro, era diventato subito obsoleto seppellendo in quel momento, almeno per ora, i transgender. Adesso è passato quasi un anno e tali sono i ministri che lei, furba come il demonio, si è portata dietro. E anche il bel giovane compagno con la testa scompigliata, e non vorremmo essere lui al rientro casa dopo la scemata — scenata? — al ministro degli Esteri tedesco. […]

Da subito, Meloni aveva detto di voler essere chiamata presidente del Consiglio e non altre amenità, si è circondata di poche donne in più bruttine (tranne la Bernini, bella ma molto alta). Di donne non ha mai parlato e se lo ha fatto è stato per caso. Ecco quindi una donna veramente donna e che come tale, odia o meglio non ama le donne, vuole che stiano al loro posto, secondarie. Le fa parte di un partito che se è contento di una donna presidente, tutte le altre le vuole in casa a fare figli, impegnate a fabbricare bimbi […]

Alla Meloni quel suo Fratelli (e non Sorelle) d’Italia tiene molto, ed è probabile che anche lei veda le donne come secondarie. Eppure sono proprio le donne, quelle di sinistra, a pensare che in fondo l’importante è che una sia già diventata primo ministro, poi ne arriveranno altre; e saranno certamente di sinistra. Errore! Intanto, più ne fa, più il partito di Meloni sale nei sondaggi. Noi tutti a ridere, ma l’hai sentita questa? O a lasciarci desolate, senza la voglia di reagire.

Lei intanto gira, un momento qua e un momento là, è giovane, mica come Biden […] Bacia, sorride a Trudeau, bacia Macron, pare carina davvero, così piccina, gli racconta quel che loro vogliono, tanto non conta nulla, basta che resti atlantista. Ma chi la vota? Saranno mica […] gli sciocchini che la votano perché usa il loro shampoo e hanno lo stesso influencer. È una maledizione? È un sortilegio? È il diluvio universale? […] Ma se a lei siamo antipatiche […] non potremmo cominciare a provare un minimo di fastidio per lei? Tanto a detestare le altre donne ci siamo abituate, proviamo anche con la premier Meloni.

Estratto dell’articolo di Ilario Lombardo per “La Stampa” il 10 luglio 2023.  

Fratelli d’Italia: mai nome fu più profetico. Anticipatore di una storia i cui protagonisti sono sorelle, cognati, figli, coinquilini, compagni, generi e amici di sangue. […] un cronista con lunghi anni di esperienza in un giornale di destra […]: «Il grande limite di Meloni è la logica del clan. Dovrà dimostrare di essere capace di governare non solo con i “famigli”, e uscire dalla mentalità da Scientology che la perseguita da sempre. Se non lo farà, avrà un sacco di problemi». […] La testuggine meloniana è scattata in difesa della famiglia allargata […]

C’è […] il clan Tolkien, una generazione cresciuta nei campi Hobbit del Fronte della Gioventù dove la militanza della destra missina e post-fascista si appropriò della carica mitopoietica del Signore degli Anelli. «Noi siamo nati lì» rivendicava la storica portavoce di Meloni, Giovanna Ianniello, oggi coordinatrice della comunicazione […] Sua sorella è moglie di Paolo Quadrozzi, devotissima ex firma della Voce del Patriota, anche lui assunto negli uffici di Palazzo Chigi, nella squadra del sottosegretario Alfredo Mantovano.

Nella catena familiare che blinda l’agenda e la logistica della leader, un’altra coppia ha un ruolo cruciale: la segretaria di sempre Patrizia Scurti, oggi capo della segreteria, e il marito chiamato come caposcorta della premier. Sempre tra le stanze della presidenza del Consiglio si muove la nipote di Scurti, Camilla Trombetti, oggi collaboratrice diretta del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. […] Di lui Meloni dice: «Qualunque cosa mi dica mi fido ciecamente». Nell’immaginario tolkeniano Fazzolari potrebbe essere Gandalf, […]

[…] Arianna è diventata la Signora delle Tessere di FdI. L’anello che porta al dito è quello che la lega al marito Francesco Lollobrigida, il ministro-cognato che Meloni ha voluto all’Agricoltura […] C’è da immaginarsi un vertice di governo o di partito, come un pranzo di Natale o una festa di compleanno. A tavola siede anche Andrea Giambruno, promosso alla conduzione di un programma Mediaset […] 

Tempo fa la premier ha usato i social per difendere la sorella da una vignetta del Fatto, in cui si ritraeva Arianna a letto con un migrante. L’episodio è rivelatore della mentalità di Meloni: […] Se toccate lei, toccate me. Un po’ come ha fatto Ignazio La Russa con il figlio Leonardo Apache. Il papà viene prima della carica di presidente del Senato […]

Così è. Meloni ha inasprito ancora di più la sua indole, ogni volta che ha sentito odore di assedio ai suoi uomini. Non semplici colleghi di partito, ma amici. Sta succedendo di nuovo con Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli. Il primo è sottosegretario alla Giustizia, il secondo coordinatore di FdI. I due a Roma sono coinquilini e una sera tra tante Delmastro […] rivela a Donzelli il contenuto di alcune intercettazioni dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis. Frasi che poi Donzelli userà in Parlamento contro il Pd.

Tre giorni fa il gip ha disposto l’imputazione coatta di Delmastro. […] Meloni […] deve ancora dare una risposta […] se l’annunciata stretta sulle intercettazioni e gli avvisi di garanzia sono un assaggio di nuove leggi ad familiam, sullo stile di Silvio Berlusconi, dopo i casi Delmastro e le inchieste sulla bancarotta per cui è indagata la ministra del Turismo Daniela Santanché, a sua volta amica e sodale di La Russa, co-fondatore di FdI e mentore di Meloni.

[…] Alessandro Giuli, giornalista e amico […] Meloni ha voluto a Rai 2, […] ha piazzato al Maxxi di Roma. La sorella, Antonella, è la portavoce di Lollobrigida. C’è il senso dell’esilio eterno, nel modo in cui la leader tiene compatta e difende la sua tribù. Il sapore di una battaglia che non finisce mai, neanche dopo la vittoria. Perché c’è da difendere una storia che si vive come una leggenda. Come insegna Aragorn, e cioè ancora una volta Tolkien, che nel film ha il volto di Viggo Mortensen e nella versione italiana la voce di Pino Insegno. […]

Il ritratto della premier. Chi è veramente Giorgia Meloni, la donna a una dimensione. A un vero leader non basta un solo linguaggio. Ne servono tanti. E non basta un solo modo di comunicare e di pensare e di agire. Ne servono tanti, diversi e complessi. Alla Meloni manca completamente la complessità. Maneggia solo il linguaggio del populismo. E cambia solo il vestito... di Michele Prospero su L'Unità il 9 Luglio 2023

Solo pochi mesi fa ne aveva decantato “grinta, carattere, tenacia, indipendenza di giudizio, ironia, naturale simpatia, temperamento e intuito”, ora invece sul “Corriere della sera” un amareggiato Galli della Loggia segnala che “questa voce capace di parlare alto e di guardare lontano ancora non si è udita”. Si riferisce, ovviamente, a Giorgia Meloni. E però, se esiste un solo segno tangibile dell’azione politica del presidente del Consiglio, questo è rappresentato proprio dal “timbro nuovo” dei suoi squillanti gorgheggi. Gramsci non aveva dubbi in proposito: “Ogni movimento politico crea un suo linguaggio, cioè partecipa allo sviluppo generale di una determinata lingua, introducendo termini nuovi”.

Certo, nella file di Fratelli d’Italia, alle prese con il pensatore sardo per edificare la nuova egemonia culturale, si sono fatti un po’ prendere la mano. E così, se anche il conduttore tv Giambruno si lanciava in diretta nel recupero involontario di un arcaismo – “sparimento” – che tanto sarà piaciuto al ministro Sangiuliano, la condottiera Giorgia non poteva certo rimanere inerte. Allora, per attingere l’autarchia linguistica, ha dato in pasto a Montecitorio un originale “li abbiamo abbraccettati tutti”, con l’obiettivo di irridere il Pd per le sue presunte contiguità con i caudillos sudamericani.

Ci sono molti politici, da Trump in giù, che fingono la parte dell’estraneo ai riti del Palazzo. Attraverso un linguaggio spesso maleducato, sfidano le élites ufficiali in nome della identificazione con i gusti della gente comune. I capi populisti si esprimono, secondo un calcolo e un artificio, però, nei sottocodici coloriti che gli esperti di comunicazione costruiscono per loro volendo riecheggiare ipotetici scambi da saloon o bettola. Costoro in fondo giocano, interpretano un ruolo nel teatro della politica, scelgono di parlare come il popolino, ma “non sono” la periferia, gli esclusi. Meloni, invece, con le sue metafore, nella ricorrente perdita del controllo accompagnata da svariate cadute di stile, non recita affatto, è “underdog” per davvero. Da capo del governo, esibisce una ambigua schiettezza che affonda diritta e senza infingimenti contro l’avversario. Su un palco catanese arringa come la prediletta “pesciarola” e stigmatizza la tassazione quale “pizzo di Stato”.

Che dia spettacolo in una piazza dell’Andalusia sotto i simboli di Vox o legga una dichiarazione in Parlamento, il registro di Giorgia rimane identico. Il suo problema non è certo quello di maneggiare il gergo del piccolo esercente di provincia o del borgataro di città, ma di possedere solo quel particolare codice simbolico e non saperne adottare altri più complessi. Anche quando sul Mes insegue quello che definisce “un approccio a pacchetto”, a trionfare è sempre la scorciatoia della semplificazione.

La viandante Giorgia, per mostrarsi degna di “rappresentare una Nazione”, sostituisce di continuo solo il vestiario. Dagli anfibi, sfoggiati davanti ai combattenti post-franchisti di Marbella, sa velocemente passare al più rassicurante tailleur griffato in occasione degli incontri ufficiali. Cambia l’abito, ma mai muta la “monaca” che, di bianco vestita, lancia persino una sfida cromatica al pontefice, a cui fa anche pat-pat sul braccio, oppure, sprofondando su un divanetto, cerca inutilmente di addomesticare i suoi sodali conservatori d’Ungheria e Polonia, i quali però, terminati i baciamani e i convenevoli, le rispondono picche.

Non tanto gli occhi dello spettatore, ma le orecchie, sono l’organo di senso che la comunicazione di Meloni sollecita di più. Come una Tony Dallara dell’oratoria politica, urla aumentando a dismisura le vibrazioni delle corde vocali. E questo suo non già sembrare o apparire una “sfavorita”, ma esserlo realmente, condanna la leader ad agire secondo un formato unico, privandola della capacità, essenziale per un capo, di ricorrere in pubblico alle più diverse maschere comunicative. Lo stesso piglio aggressivo svelato in un angolo sperduto della penisola contro dei giovani contestatori (“siete figli di papà, ad agosto stavate sulla barca di vostro padre e ora che è settembre siete tornati”) rimbomba ora nell’Aula che un tempo volevano sorda e grigia (“dire «vabbè, fumati una canna» non sarà mai la mia politica”).

Giorgia è una politica ad una sola dimensione, quella della comiziante. Che si scaldi in una conferenza stampa in Calabria dopo una strage di migranti (“se qualcuno dice che c’è stata la volontà delle istituzioni di girarsi dall’altra parte, questo è grave per la Nazione che rappresento”) o si inalberi in Parlamento contro chi espone un cartello di dissenso (“sì sì, grazie grazie, abbiamo visto i risultati del lavoro che avete fatto in questi anni”), il carattere della rappresentazione rimane sempre lo stesso. Cesare Pavese (Il mestiere di vivere, Einaudi, p. 334) spiegava che “un discorso di comizio ha la natura del rito religioso. Si ascolta per sentire ciò che già si pensava, per esaltarsi nella comune fede e confessione”. Più che una potenza persuasiva, il comizio sprigiona una forza confermativa e rafforzativa (di credenze già possedute). Per questo chi parla dal palco segue ripetitivamente formule, parole d’ordine, slogan. In piazza l’uditorio è composto da tanti Galeazzo (Bignami) con l’uniforme di partito, invece in Parlamento chi segue possiede di norma una levatura superiore, ma soprattutto è la solennità del contesto ad imporre argomentazioni più articolate.

La parola tormentone della Meloni è “Nazione”, che infilata in ogni passaggio. Il suo sogno è “una Nazione solida, credibile, affidabile, forte, non isolata”. In nome di essa, il capo del governo non si propone come un leader di parte, ma come il Tutto. Chi osa differenziarsi dal suo credo è un nemico dell’intero. L’opposizione è una malattia che non coglie come proprio grazie alla guida della fiamma tricolore aumenti ogni giorno “il peso della nostra Nazione”. Si tratta, per lo più, di irresponsabili che propugnano un disfattista “diritto inalienabile alla migrazione”, ignorando che “la difesa dei confini esterni è l’aspetto fondamentale”, oppure ammiccano al “rivale sistemico” cinese. Meloni non tollera alcuno spirito di dissenso, né la presenza di organismi tecnici come la Corte dei conti. Se la prende perciò anche con “la semplicistica ricetta della Bce”, ossia con “una cura più dannosa della malattia”. Chi è al potere rappresenta la totalità, e quindi si identifica con la Patria, qualcosa di cui “andare tutti fieri, non solo il Governo, ma l’intero parlamento e la Nazione”. È consequenziale, per chi interpreta in tal guisa la funzione di governo, usare l’aula parlamentare per fare solo comizi di propaganda.

Estranei le risultano i riti, le forme del potere. La raccomandazione di Aristotele di adattare la strategia retorica all’uditorio, al luogo e all’occasione, Meloni la lascia cadere del tutto inascoltata. Ovunque, quali che siano il destinatario e l’istituzione che la ospita, comunica con gli stessi artifici, per mezzo dei quali il pathos surriscaldato inghiotte ogni traccia di logos. Dove le parole di stizza non bastano, arrivano in soccorso gli occhi sgranati a puntellare l’aggressione verbale verso l’interlocutore, rappresentato caricaturalmente come un agente al servizio di oscure trame (Maduro, Soros o la grande finanza internazionale), oppure come un meschino calcolatore politico (“so cosa vuol dire stare al 3% e cercare visibilità”).

Ci sono discorsi politici che, una volta trascritti, resistono alla prova della lettura senza perdere di efficacia. Quelli di Meloni sono invece recitati con i decibel che salgono incontrollati e, nel succedersi caotico delle parole, respingono la verifica della trascrizione, oltre a mostrarsi privi di senso compiuto (“forse lei dovrebbe guardare a questi ragazzi che sono in questa sala e avere rispetto di quello che la vostra propaganda ha fatto sulla pelle di queste persone, di queste famiglie”). La voce che si diffonde è tutto, il pensiero quasi niente. Alla Camera le è capitato di perdere i foglietti svolazzanti dove erano appuntati dettagli tecnici ed economici – cioè materie che non possiede –, e tutt’a un tratto la premier è caduta in preda al panico. Questo smarrimento dinanzi all’imprevisto dipende da una carenza sui fondamenti, non solo da un mero deficit di tecnica retorica.

David Hume (La regola del gusto, Laterza, p. 121) ha insistito sul fatto che l’oratore preparato, se nel corso del dibattito “capita qualcosa di nuovo, deve rimediarvi con la sua capacità inventiva, e la differenza fra le sue composizioni elaborate e quelle estemporanee non deve apparire troppo”. Questa attitudine a creare una risposta con prontezza e a ribattere con sagacia non è molto sviluppata nella leader della destra. Qualsiasi interruzione diventa per lei un oltraggio (“lo stanno facendo apposta, mi sono stufata”). In piazza, ad ogni cenno di dissenso che si leva, Meloni denuncia una “grave e continua turbativa di manifestazioni”. In Parlamento, il suo disappunto verso una inattesa obiezione la spinge alla ricerca della semplificazione (“scusami, tutti ci sentiamo scolari della storia, sai”, afferma rivolgendosi con il “tu” ad un deputato dell’opposizione) o dell’invettiva che scalda un clima tendente al rissoso (“onorevole Boldrini, le lezioni da quelli che andavano a braccetto con tutte le dittature comuniste del mondo di oggi non le accetto”).

Le fa difetto quell’attitudine, preziosa in politica, di “sorprendere ingannando”, che per Aristotele è il contrassegno dell’ironia che spiazza l’interlocutore. Capace solo di toni strillati ed esasperati, denuncia le proposte altrui come un imbroglio (“dire che ci sono droghe che possono essere usate è un inganno”). Evita il confronto come la peste, e non raccoglie mai una provocazione con un pizzico di arguzia o una scelta lessicale sapida (“con buona pace dei gufi che preconizzavano catastrofi di ogni sorta”). Scongiurando ogni segno di leggerezza, sa solo rimbrottare, tuonando con il suo accento di chiara matrice romano-periferica: “dovete accettare che c’è un altro governo eletto dagli italiani”.

All’interno delle istituzioni parla nelle forme aggressive di una comunicazione urlata, con amplificazioni e sceneggiate sub specie theatri. Ogni gesto dell’opposizione nasconde a suo dire un delitto di lesa maestà: “lei, onorevole Magi, dovrebbe sapere che io non sono una persona che si fa intimidire”, scandisce con tono minaccioso. Nella sua inclinazione alla teatralizzazione, Meloni fa un ricorso eccessivo alla tecnica retorica dell’amplificatio, cosicché ogni sillaba che pronuncia suona come ultimativa (“è l’esegesi della vigliaccheria, dovete dirci se siete d’accordo”; “stanno cercando di rovinarci”). Talvolta lo scivolamento verso gli stilemi della farsa consente alla premier persino di cimentarsi nella imitazione, quando si diletta a fare il verso a chi muove delle critiche al governo (“l’Italia è isolata, ragazzi, l’Italia è isolatissima, è una tragedia”, dice scimmiottando un tipico tono di voce paternalistico).

Così facendo, però, sfida un fondamentale monito di Cicerone (De oratore, Milano, p. 477): “l’oratore deve evitare di abbassarsi al livello dei mimi e degli imitatori, deve scrupolosamente schivare la comicità grossolana”. Il limite di Meloni risiede proprio in una comunicazione monocorde che le impedisce di adattare il registro linguistico. Non è per calcolo che si getta in un crescendo vocale, con le palpebre spalancate e il collo rigonfio. Si esprime in tal modo, nelle aule del potere o in piazza non fa differenza, perché solo così è in grado di fare. Quando interviene in pubblico è incapace di sembrare altro da quello che in effetti è, e questa sua rigidità la condanna ad esercitarsi in un unico repertorio. Priva di fioretto, predilige il tono perentorio di chi si identifica come la donna della provvidenza: “sono fiera di essere arrivata alla guida di questa Nazione quando era lanciata a folle velocità verso la cancellazione dei confini nazionali”. Per una democrazia liberale, non è un bell’ascoltare.

Michele Prospero. 9 Luglio 2023

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano il 30 giugno 2023.

Giorgia Meloni è una romanaccia simpatica. Battuta pronta, risata contagiosa e un po’ di sana autoironia. Anche sulla statura non proprio slanciata, eterno cruccio dell’altro nano ancor più della calvizie (“Sono alto un metro e 71, cribbio!”). Ma, nelle ultime uscite pubbliche, di quella Giorgia non rimane neppure l’ombra. La sostituisce una donna truce, torva, astiosa, biliosa, minacciosa, in una permanente crisi di nervi. Non ride né sorride: ghigna e digrigna. Non parla: ruggisce. Non c’è più l’underdog che, dopo un’infanzia difficile e una carriera costruita con le sue mani, ce l’ha fatta. Ora c’è una capetta che fa la spavalda per nascondere l’insicurezza e attacca per difendersi da nemici immaginari. 

Come se fosse ancora lì col 4% a fare opposizione sola contro tutto e tutti. Invece è a Palazzo Chigi con un potere smisurato, il 99% dei media che canta le sue lodi e le opposizioni che balbettano (quando non la fiancheggiano). E il travestimento da San Sebastiano non suscita solidarietà, ma ilarità. Dalle praterie dell’opposizione solitaria alle strettoie del governo, dai voli della campagna elettorale all’atterraggio sulla realtà, c’è un bel salto.

Che però non basta a spiegare una metamorfosi che può costarle cara. Ci dev’essere dell’altro.

Forse si rende conto di quanto sia scadente il personale politico di cui si circonda (e giustamente diffida). Forse in cuor suo soffre a fare o a subire tutto ciò che rinfacciava agli “altri” (migranti, accise, austerità, condoni, politiche anti-sociali e anti-legalitarie, riverenze a Usa e Ue, Mes, draghismo, Figliuolo, Panetta, scandali di ministri gaffeur o impresentabili). La “pacchia” che doveva finire per l’Ue è finita per lei. E questo suo primo luglio al governo lo ricorderà e lo ricorderemo tutti.

(...)

Dio, patria (e famiglie), tutti gli omissis di Meloni. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani l'1 giugno 2023

Il mito dell’underdog, della donna senza possibilità in un mondo chiuso ed elitario, ha bisogno di un baratro narrativo. Così è d’obbligo tornare nella casa di infanzia, data alle fiamme per errore da Giorgia e Arianna mentre giocavano con una candela. Questa è solo una parte della storia della famiglia di Meloni, ricostruita nei dettagli da Domani

Nel motto dei nuovi patrioti al potere, Dio, patria e famiglia, quest’ultima è tradizionale per definizione. Eppure la genealogia di Giorgia Meloni è l’esempio più distante dal modello propagandato dalla destra al governo.

È una storia più simile alla trama di un film, magari La famiglia, capolavoro di Ettore Scola: con le sue sovrapposizioni, gli errori umani, le fragilità, in un’epoca, gli anni Ottanta, in cui l’Italia affrontava cambiamenti radicali. Del resto le origini paterne della premier affondano nel fantastico mondo del cinema d’autore, con lo sceneggiatore Agenore Incrocci, scrittore di copioni per lo stesso Scola e per Mario Monicelli, fratello di Zoe, ossia la mamma di Francesco Meloni, padre di Giorgia.

Il capitolo Incrocci, dunque, il primo e più affascinante del romanzo neorealista della vita della presidente del Consiglio, omesso del tutto dalla sua autobiografia di successo Io sono Giorgia. Perché Incrocci è il cognome che forse ha fatto soffrire di più la premier nella sua infanzia e adolescenza. Freudianamente andava rimosso.

Papà Franco

Agenore Incrocci era il fratello di Zoe. Attrice di successo, ha recitato con Scola e ha vinto un David di Donatello nel 1991 per l’interpretazione del film Verso sera di Francesca Archibugi. Zoe aveva sposato Nino Meloni, altro gigante del mondo dello spettacolo romano. Dall’amore tra i due è nato Francesco, “Franco”, il papà di Giorgia e Arianna, avute con Anna Paratore alla fine degli anni Settanta.

Ancora prima, Franco aveva messo al mondo Barbara e Simona con un’altra donna, Maria Grazia Marchello, perciò sorelle consanguinee di Giorgia e Arianna, o “sorellastre”, come la presidente ha scritto in una lettera di risposta a Domani, rivelatrice di molti aspetti intimi mai raccontati. Di questa famiglia allargata (ribadiamo: svelata dalla premier nella lettera) non c’è traccia nel libro elogiativo Io sono Giorgia, nella parte dedicata al trauma dell’abbandono del padre e alle difficoltà economiche della madre Anna, descritta come una forza della natura capace di crescere due figlie da sola, senza mezzi e con poche risorse economiche. 

La prima caduta da cui le figlie e la madre hanno tratto la forza per rialzarsi è quest’abbandono, sommato all’incendio che, secondo il racconto ufficiale della premier, avrebbe distrutto l’intera casa nell’elegante quartiere della Camilluccia a Roma. Il fuoco che divora ogni cosa, peluche e ricordi, la fuga verso un quartiere popolare e comunista (Garbatella), diventano metafora del successo futuro quando a 35 anni Meloni ha deciso di fondare una «nuova casa politica», Fratelli d’Italia. Peccato solo che in questa epica rinascita, in questo «costruir su macerie» (per dirla con i versi di Francesco Guccini), è assente una parte consistente della realtà. Per esempio la capacità di Paratore di gestire affari e operazioni immobiliari.

MAMMA ANNA

Partiamo dalla casa bruciata: venduta dopo la “distruzione” per quattro volte il valore di acquisto, così devastata non era, come hanno raccontato a Domani i nuovi proprietari che hanno versato nel 1983 a mamma Meloni la bellezza di 160 milioni di lire, nonostante un’ipoteca da 27 milioni estinta solo dopo il rogito. Poi ci sono gli intrecci azionari di Paratore, le aziende, i rapporti con gli immobiliaristi: non proprio faccende di chi è sul lastrico. Ma soprattutto sono i cocci sparsi di un romanzo familiare che messi in fila contraddicono la versione della premier e della madre sui rapporti con il padre “rinnegato”. Il frammento che più si nota: uno dei soci storici di Paratore si chiama Raffaele Matano, geometra attivo fin troppo nel settore immobiliare.

Negli stessi anni in cui condivideva con Paratore progetti societari, Matano deteneva a sua volta quote di un piccola impresa spagnola amministrata nel 2004 da Francesco Meloni, il papà Franco con il quale la figlia Giorgia ha sempre detto di aver tagliato ogni rapporto nel lontano 1988. Omettendo, anche in questo caso, un fatto: papà Franco era stato condannato nel 1996 per narcotraffico in Spagna. Scontata la pena, una seconda opportunità gli è stata offerta da Matano, che non era solo socio della mamma della premier, ma con lei aveva avuto una relazione sentimentale dopo la fine della storia con Franco.

“LA SORELLASTRA”

In questa filiera familiare va detto dell’ulteriore groviglio umano, sentimentale, politico, un vero colpo di scena: Matano a un certo punto della storia è diventato il compagno di Barbara Meloni. La figlia di Franco, dunque “sorellastra” della presidente del Consiglio. Sia Matano sia Barbara risultano tra i collaboratori dello studio dell’avvocato Romolo Reboa, candidato alle ultime regionali nella lista per Francesco Rocca presidente, eletto con Fratelli d’Italia presidente della regione Lazio. E ancora: il geometra Matano e Barbara li ritroviamo azionisti della società spagnola con il papà Meloni amministratore unico. Azionista in questa ditta di Madrid era pure Simona Meloni, l’altra sorellastra rimasta a vivere in Spagna.

Non è chiaro perché Giorgia abbia interrotto i rapporti con Barbare e Simona. Di certo ha continuato a frequentarle anche dopo la rottura con papà Franco. La presidente del Consiglio ha spiegato così a Domani la fine dei rapporti con le sorelle da parte di padre: «Quando la relazione di mia mamma con il sig. Matano era già terminata, i nostri rapporti con le nostre sorellastre si sono interrotti e non ho con loro alcun contatto da allora. Con loro ho sempre avuto pochissimi rapporti, con eccezione del periodo che vi ho indicato, e quei rapporti sono interrotti completamente da circa vent’anni, per ragioni personali che non ritengo di dover condividere».

Se alla prevedibile trama di Io sono Giorgia avesse aggiunto il capitolo sull’album completo di famiglia, certo poco tradizionale, avrebbe innalzato l’autobiografia a opera di realismo magico, dal sapore di Cent’anni di solitudine, il capolavoro del premio Nobel Gabriel García Márquez.

UN FILM

Il mito dell’underdog, della donna senza possibilità in un mondo chiuso ed elitario, ha bisogno di un baratro narrativo. Così è d’obbligo tornare nella casa di infanzia, data alle fiamme per errore da Giorgia e Arianna mentre giocavano con una candela. Questa è solo una parte della storia, ricostruita nei dettagli da Domani. L’abitazione ha subito pochi danni, hanno detto i testimoni contattati. La paura, questa sì, è stata tanta. Da adulti i ricordi dell’infanzia sono sfocati, a volte ingigantiti, è normalissimo, umano. I ricordi di quell’età (era il 1982, Giorgia aveva 5 anni, Arianna 7) si depositano nella memoria sulla base anche dei racconti dei genitori, in questo caso della madre Anna.

C’è però un aspetto che è utile raccontare e che ci riporta a quel mondo del cinema di successo cancellato senza possibilità di appello dall’autobiografia della premier. La casa nel 1983, poco dopo l’incendio, è stata venduta a Nadia Vitali, famosa costumista che aveva lavorato nell’ambiente degli Incrocci, in particolare con Agenore, zio del papà di Giorgia Meloni. Vitali è sposata con Pier Ludovico Pavoni, altro mostro sacro del settore, direttore della fotografia di successo. Loro comprano l’appartamento di 120 metri quadri a 160 milioni di lire. 

«Non era distrutto», hanno detto a Domani, «c’era una finestra rovinata, le fiamme erano circoscritte alla stanza». In più comprano con l’ipoteca che gravava su Paratore. Di certo si fidavano ciecamente, chi comprerebbe un immobile con una condizione così sfavorevole, seppure Paratore estinguerà quel debito dopo aver incassato il denaro della vendita. Né Vitali né Pavoni però ammettono di conoscere gli Incrocci. Almeno questo dicono al telefono mentre si stavano preparando per partire da Miami direzione Italia.

IL PORTIERE

Chi ricorda bene l’incendio è il portiere dello stabile. Fu lui a portare fuori da quelle mura le due piccole sorelle Meloni. C’era molto fumo, sostiene. Le ha salvate. Di una cosa è certo questo signore sull’ottantina: sebbene il fumo si fosse diffuso in tutta l’abitazione, le fiamme non avvolsero l’intero appartamento, si svilupparono solo nella stanza delle piccole Meloni. Una giornalista dell’epoca avrebbe voluto scrivere un articolo su di lui, «l’eroe della Camilluccia». L’uomo non acconsentì. Certo, confida oggi, si sarebbe aspettato maggiore riconoscenza per quel gesto. Dopo Paratore ha venduto e portato via le bimbe, nessuno di loro è più andato a trovarlo. Un altro personaggio da Cent’anni di solitudine cancellato dalla biografia di Io sono Giorgia.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani, ha realizzato lo scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere pubblicando i video e un libro sul Pestaggio di stato, Laterza editore. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

La vera storia dell’incendio di casa Meloni: i testimoni, le carte, il cinema. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani l'01 giugno 2023

«Le fiamme distrussero l’abitazione intera», scrive la premier nella sua autobiografia “Io sono Giorgia”. «No, i danni riguardavano una finestra», dice chi ha comprato l’immobile subito dopo. I ricordi del portinaio: quando arrivarono i vigili del fuoco lo trovarono con una pompa in mano mentre era intento a disperdere il fumo, le fiamme erano divampate solo nella cameretta e rovinato la finestra. Forse una porta.

La vicenda drammatica della distruzione della casa (provocata, pare, dalle piccole Meloni mentre giocavano con una candela) è stata ingigantita a dismisura? Di certo è stata funzionale alla costruzione del mito della “underdog”, che senza mezzi o favori è riuscita a scalare i vertici della politica italiana e delle istituzioni indossando infine l’abito di presidente del consiglio.

Abbiamo contattato la coppia telefonicamente, la casa è ancora di proprietà di Vitali, ma loro vivono da tempo negli Stati Uniti. «Sono andati via dopo l’incendio lasciando tutto aperto», aggiunge Vitali. Pavoni sostiene che la finestra bruciacchiata l’hanno sostituita loro quando sono entrati. Nell’atto di vendita Paratore-Vitali non c’è alcun cenno allo stato dei luoghi, non è chiaro dunque in che condizioni fosse l’immobile venduto a 160 milioni di lire, ben quattro volte di più a quanto Paratore lo aveva acquistato quattro anni prima. 

«In poco tempo l’incendio si è preso tutto l’appartamento e noi siamo scappate con una sola borsa in cui avevamo infilato un pigiama, due paia di pantaloni e una maglietta. Ci siamo ritrovate, di punto in bianco, per strada, sole, senza più un tetto. Mia madre ha dovuto ricominciare letteralmente da zero. Un’impresa pazzesca. Forse è per questo che ho trovato il coraggio, molti anni dopo, di rifondare una casa politica quando la nostra era andata in fumo. Venduto l’appartamento uscito malconcio dalle fiamme, mia madre ne ha comprato un altro a poca distanza dai miei nonni, alla Garbatella».

Eccolo il passaggio cruciale dell’autobiografia di Giorgia Meloni, consegnata alla storia e ai posteri con un libro dal titolo “Io sono Giorgia”. «Ma i danni riguardavano una finestra», è invece la nuova testimonianza rilasciata a Domani dalla coppia che ha acquistato subito dopo l’appartamento. Danni di piccola entità, solo un grande spavento, conferma il portiere dello stabile.

La presidente del consiglio è la sola artefice della divulgazione di aspetti intimi e privati della sua infanzia e adolescenza. Un racconto che il nostro giornale con diverse inchieste ha passato al setaccio, scoprendo diverse omissioni: su tutte il ruolo della madre, Anna Paratore, descritta nel libro come una donna senza più mezzi al limite della povertà, dopo il fuoco che aveva distrutto l’appartamento in cui erano nate Giorgia e Arianna; ma anche le contraddizioni sul rapporto con il padre Francesco Meloni, scomparso undici anni fa, nel 1996 condannato per narcotraffico in Spagna, notizia emersa a settembre 2022 in un articolo pubblicato da un giornale spagnolo e completamente omessa nell’autobiografia.

Domani ha documentato per esempio che Paratore era in affari con un socio di papà Meloni, Raffaele Matano, negli anni in cui secondo la versione della presidente nessuno della famiglia lo sentiva più da tempo. Gli intrecci individuati tra Italia e Spagna sono numerosi e mettono in dubbio la versione fornita nel libro prima e da Paratore dopo, che è sempre stata netta nel dire «con Francesco Meloni abbiamo tagliato ogni rapporto nel 1988». Sempre Paratore, insieme a una delle migliore amiche della premier, qualche anno fa è stata protagonista di una compravendita di un lounge bar a Roma, che ha portato le due donne a incassare una plusvalenza da 87mila euro.

L’INCENDIO

La vicenda drammatica della distruzione della casa (provocata, pare, dalle piccole Meloni mentre giocavano con una candela) è stata ingigantita a dismisura? Di certo è stata funzionale alla costruzione del mito della “underdog”, che senza mezzi o favori è riuscita a scalare i vertici della politica italiana e delle istituzioni indossando infine l’abito di presidente del consiglio. Un conto è la narrazione epica, però, altro paio di maniche è la realtà, che probabilmente Meloni non può ricordare per via dell’età (era il 1982) in cui è avvenuto l’ormai celebre incendio dell’appartamento nel cuore della Roma borghese, in via Cortina D’Ampezzo 237, quartiere la Camilluccia: «L’incendio ha riguardato un piccola parte dell’appartamento, c’era solo una finestra bruciata», dice infatti Pier Ludovico Pavoni, merito di Nadia Vitali, la costumista in pensione che il 13 gennaio 1983 ha acquistato la casa di via Cortina D’Ampezzo da Paratore.

Abbiamo contattato la coppia telefonicamente, la casa è ancora di proprietà di Vitali, ma loro vivono da tempo negli Stati Uniti, a Miami, Florida. Ci rispondono da lì. «Sono andati via dopo l’incendio lasciando tutto aperto», aggiunge Vitali. Pavoni sostiene che la finestra bruciacchiata l’hanno sostituita loro quando sono entrati. Nell’atto di vendita Paratore-Vitali non c’è alcun cenno allo stato dei luoghi, non è chiaro dunque in che condizioni fosse l’immobile venduto a 160 milioni di lire, ben quattro volte di più a quanto Paratore lo aveva acquistato quattro anni prima. «Noi abbiamo avuto pure uno sconto perché c’era la stanza bruciata e abbiamo rimesso a posto noi con i nostri soldi, in contanti».

PARLA IL PORTIERE

Che la casa non fosse stata distrutta totalmente lo conferma anche una persona che all’epoca aiutò la famiglia a mettersi in salvo con cui Domani ha potuto parlare. Il testimone oculare è il portiere dello stabile signorile. Non vuole che le sue parole vengano virgolettate, ma neanche che qualcuno neghi quello che lui dice di aver visto al tempo: il fumo, la fuga e la paura. Era mattina e il fumo cominciava a uscire dalla casa al pian terreno della signora Paratore, fu proprio lui a intervenire e a mettere in salvo le bambine portandole nella sua casa. Quando arrivarono i vigili del fuoco lo trovarono con una pompa in mano mentre era intento a disperdere il fumo, le fiamme erano divampate solo nella cameretta e rovinato la finestra. Forse una porta. Non vuole dire di più. Non ha simpatia né antipatia per il corso politico della presidente del Consiglio, ha cura solo che si dica la verità.

L’IPOTECA

C’è poi un altro giallo nella storia della casa di via Cortina D’Ampezzo. Si tratta di una documento del 1982 recuperato presso gli archivi catastali e citato anche nell’atto di vendita a Vitali. È un’ipoteca da 27 milioni di lire imputata a Paratore, per via di un debito con la società Fin.Com Spa. Il decreto di ingiunzione che aveva portato all’ipoteca è del tribunale civile di Roma ed è datato 1982. Il rappresentate legale dell’epoca della società non ricorda i dettagli della vicenda, «potrebbe essere stato un prestito non restituito da Paratore», dice. L’ambito in cui si muoveva Fin.Com erano i finanziamenti e la vendita di azioni.

L’ipoteca c’è ancora quando Paratore, dopo l’incendio, decide di vendere a Vitali a un prezzo molto più elevato di quanto l’aveva pagata. In pratica Vitali acquista una casa da ristrutturare e con un’ipoteca sul groppone, a un valore tre volte più alto di quanto speso dalla famiglia Meloni. L’operazione immobiliare potrebbe sembrare senza una logica economica, eppure Pavoni e Vitali sostengono di aver goduto addirittura di «uno sconto» e che il prezzo era ottimo per 120 metri quadrati, «non erano 70 come hanno scritto alcuni giornali». Contattata da Domani, Paratore (come Meloni) non ha risposto alle domande.

La casa è stata venduta il 13 gennaio 1983, Gioria e Arianna Meloni avevano già cambiato quartiere, nella più popolare Garbatella. «La Garbatella è il mio quartiere non solo perché lì sono cresciuta e ho vissuto per lunghi anni, ma perché abitare in un determinato luogo non ci è mai indifferente, imprime dentro di noi un certo modo di stare al mondo», ha scritto la premier nell’autobiografia. Lì dove a 15 anni ha bussato «al portone blindato della sezione del Fronte della Gioventù», la sua «seconda famiglia», l’inizio della salita che l’ha condotta da «underdog» fino a Palazzo Chigi.

CROCEVIA CINECITTÀ

Il cinema nei primi anni di vita di Meloni è spesso presente con personaggi che hanno segnato la storia dello spettacolo italiano, non solo della capitale. Protagonisti che ritornano anche nella vendita della casa di via Cortina d’Ampezzo. L’acquirente, Vitali, è del 1936. Il marito Pavoni è nato nel 1927. La loro carriera professionale si snoda tra set cinematografici, grandi registi, celebrità del cinema italiano. Lei famosa costumista, lui direttore della fotografia pluri-premiato. Lo stesso ambiente da cui proviene la famiglia di papà Meloni: la madre era Zoe Incrocci, attrice premiata con una David di Donatello come attrice non protagonista, per “Verso sera” di Francesca Archibugi; il padre era Angelo “Nino” Meloni, punto di riferimento del mondo dello spettacolo nella capitale; lo zio si chiamava Agenore Incrocci, autori di pellicole che hanno segnato la storia italiana come “I soliti ignoti” e naturalmente “Romanzo popolare” di Mario Monicelli. Un titolo degno di una seconda edizione di “Io sono Giorgia”.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani, ha realizzato lo scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere pubblicando i video e un libro sul Pestaggio di stato, Laterza editore. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Buoni padri, figli e famigli. Meloni, gli attacchi alla madre e la corsa al calcio del somaro: le risse tribali di media e politici. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 17 Maggio 2023

Alcuni quotidiani, da giorni, attaccano un po’ goffamente la famiglia di Giorgia Meloni. Questo, per attaccare la premier. Che altri difendono, giustamente. Premesso che io metterei la mano sul fuoco non solo sull’onestà della Meloni, ma anche della mamma, portatrice sana di una storia di difficoltà e coraggio che solo alcune donne sono capaci di interpretare (e che in una Nazione normale sarebbe storia da fiction, a proposito di grandezza delle donne da difendere e promuovere, anziché cianciare), a chi vi scrive capitò la ghiotta occasione qualche anno fa quando ero parlamentare di Forza Italia, di poter restituire pan per focaccia con gli interessi, a Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista quando uscì fuori, dopo che ci avevano dato ridicolmente dei ladri per anni, che ai loro padri erano contestati rispettivamente abusi edilizi e irregolarità fiscali.

Ebbene, pur essendo ai tempi assoluto avversario e censore di Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e di qualunque forma di vita a Cinque Stelle, io ritenni di difenderli da chi addebitava loro un “non potevano non sapere”, adombrando così che dunque eventualmente sarebbero stati anche loro colpevoli o inopportuni. Perché rinunciai a un calcio di rigore a porta vuota? Perché la competizione politica deve darsi il limite del rispetto personale e non sfociare in rissa tribale (come pure i Cinque Stelle avevano fatto fin dalla loro nascita fondata sul “Vaffanculo”), perché eventuali colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma soprattutto perché – come scrivevo ieri riguardo a Travaglio, che sbaglia a tentare di screditare Renzi dandogli dell’indagato, lui che peraltro è condannato – dei politici si devono poter criticare idee, progetti e loro relative realizzazioni o fallimenti.

Nient’altro: nemmeno i loro privati comportamenti, non dovendo essere i politici un modello per nessuno (figuriamoci le famiglie e le loro traversie). Giorgia Meloni ha dunque ragione a dolersi di certa stampa, ma – siccome ne conosco personalmente l’onestà intellettuale e so quanto sia persona sana e fiera – avrebbe anche lei dovuto aderire sin dall’inizio a questo protocollo di rispetto reciproco, che – lo so – costa. Perché in passato anche lei ha ceduto alla tentazione del calcio del somaro verso protagonisti e loro famiglie che, ingiustamente, erano state attinte dal sospetto ingenerato da inchieste poi svanite nel nulla o che tradivano evidente movente politico ostile, e aggredite dallo sputtanamento di un sistema mediatico che, anziché contribuire ad alzare l’asticella del dibattito, costringendo così la politica a dare il meglio di sé o a mostrare che non ne è capace, ha solo difeso il proprio ius sputtanandi, perché rilevante e condizionante, cioè strumento di potere. Andrea Ruggieri

Lettera di Anna Paratore a “Domani” il 19 maggio 2023. 

Con la diffusione di false informazioni e connesse ricostruzioni distorte afferenti la mia vita personale, avete profondamente ferito la mia persona e leso il mio diritto alla riservatezza. Ma ancor di più avete offeso la mia dignità e la mia onorabilità basandovi su menzogne volte strumentalmente a dare una narrazione falsata della mia storia e della mia identità.

Tra le molte falsità che avete diffuso sul mio conto, avete affermato un presunto collegamento in affari tra me e il sig. Francesco Meloni, padre delle mie figlie, in quanto sarei stata socia di società con il sig. Matano nello stesso periodo nel quale questi era socio in altre società con Francesco Meloni Invece, come facilmente verificabile, le mie minimali partecipazioni in società in cui sono stata coinvolta dal sig. Matano sono definitivamente cessate nel febbraio del 2002, e quindi anni prima della costituzione della società spagnola che vedrebbe coinvolti insieme il sig. Meloni e il sig. Matano, sorta solo nel 2004 quando era cessato ogni tipo di rapporto, anche personale, tra me e il sig. Matano.

È altrettanto falso che, dalla cessione delle quote di mia proprietà della Raffaello Eventi srl, io abbia avuto una considerevole plusvalenza. Dalla vendita della società in questione ho tratto meno di quanto versato alla società, così come documentato in atti ufficiali. 

Chiaramente diffamatoria è la narrazione che fate di me abile affarista immobiliare semplicemente per aver venduto la mia casa di proprietà a un importo maggiore di quello di acquisto, come accaduto a moltissime famiglie italiane nel corso degli anni.

Come volutamente diffamatori sono i sospetti che lanciate sulla veridicità dell'incendio che avviluppò più di quaranta anni fa la casa dove abitavo con le mie bambine, non foss'altro perché intervennero i vigili del fuoco a spegnere le fiamme. 

Per tutto quanto sopra vi diffido a procedere con questa campagna diffamatoria volta solo a denigrare la mia persona con il chiaro intento di gettare discredito su mia figlia Giorgia Meloni, attuale presidente del Consiglio Preciso sin d'ora di non avere nulla da aggiungere, di non voler essere da voi contattata e che mi riservo di far valere le mie ragioni in ogni e più opportuna sede, ivi compresa quella legale, con tutti i mezzi che la legge mi mette a disposizione.

Anna Paratore 

Lettera di Milka Di Nunzio a “Domani” il 19 maggio 2023.

Con la presente, vi diffido dal proseguire con la diffusione di informazioni false, faziose e fuorvianti relative alla mia persona e che hanno causato un grave danno alla mia immagine. 

In particolare, è del tutto falso che io abbia realizzato una straordinaria plusvalenza dalla vendita delle mie quote di partecipazione della società Raffaello Eventi, avendo ottenuto addirittura meno di quanto versato in questa società, come riscontrabile da atti ufficiali. Ritengo estremamente grave che, sulla base di notizie false e distorte, abbiate costruito una narrazione volta a denigrarmi e a ingenerare sospetti sulla mia vita e sulla mia persona. Preciso sin d'ora che mi riservo di far valere le mie ragioni in ogni e più opportuna sede con tutti i mezzi che la legge mi mette a disposizione.

Milka Di Nunzio

"Non sono un'abile affarista immobiliare". Anna Paratore, la madre di Meloni, si difende. "Con la vostra inchiesta avete offeso la mia onorabilità". La replica di Repubblica il 20 maggio 2023.

Con la diffusione di false informazioni e connesse ricostruzioni distorte afferenti la mia vita personale, avete profondamente ferito la mia persona e leso il mio diritto alla riservatezza. Ma ancor di più avete offeso la mia dignità e la mia onorabilità basandovi su menzogne volte strumentalmente a dare una narrazione falsata della mia storia e della mia identità.

Avete affermato un presunto collegamento in affari tra me e il Sig. Francesco Meloni, padre delle mie figlie, in quanto sarei stata socia di società con il Sig. Matano nello stesso periodo nel quale questi era socio in altre società con Francesco Meloni. Invece, come facilmente verificabile, le mie minimali partecipazioni in società in cui sono stata coinvolta dal Sig. Matano sono definitivamente cessate nel febbraio del 2002, e quindi anni prima della costituzione della società spagnola che vedrebbe coinvolti insieme il Sig. Meloni e il Sig. Matano, sorta solo nel 2004 quando era cessato ogni tipo di rapporto, anche personale, tra me e il Sig. Matano.

È altrettanto falso che, dalla cessione delle quote di mia proprietà della Raffaello Eventi srl, io abbia avuto una considerevole plusvalenza.

Chiaramente diffamatoria è la narrazione che fate di me di abile affarista immobiliare semplicemente per aver venduto la mia casa di proprietà a un importo maggiore di quello di acquisto, come accaduto a moltissime famiglie italiane nel corso degli anni. Come volutamente diffamatori sono i sospetti che lanciate sulla veridicità dell’incendio che avviluppò più di quaranta anni fa la casa dove abitavo con le mie bambine, non foss’altro perché intervennero i Vigili del Fuoco a spegnere le fiamme.

Anna Paratore

La replica di Repubblica

In merito a quanto rappresentato dalla signora Anna Paratore, si sottolinea che nella “certificación de hoja registral”, un atto ufficiale depositato presso la camera di commercio di Madrid con numero “tomo 16455, sec 8, libro 0, hoja M-279979”, viene reso noto che la Nofumomas SL è un’azienda spagnola costituita nel luglio 2001. È altresì scritto che l’1 marzo 2002 il consiglio di amministrazione è formato da: Simona Meloni (Presidente), Raffaele Matano (“Vocal”), Francesco Meloni Incroci (Segretario), Barbara Meloni (“Vocal”), Maria Grazia Marchello (“Vocal”). Fino a due settimane prima, Anna Paratore aveva quote in due aziende in cui era presente anche Raffaele Matano. Si fa riferimento alla Lazio Consulting srl, in cui Raffaele Matano era amministratore unico fino al 24 aprile del 2002, come desumibile dalla visura camerale, e al Gruppo Immobiliare Romano srl, in cui il signor Matano è stato amministratore unico dal 23 maggio 2001 fino al 29 ottobre 2004 (Visura camerale). Si tratta dell’azienda in cui la Paratore ha detenuto quote fino al 14 febbraio 2002 (Atti della camera di commercio datati 29–04-2002).

In merito alla doglianza relativa la plusvalenza realizzata con la cessione delle quote della Raffaello Eventi Srl, si fa presente che Repubblica non ha mai scritto di plusvalenze alla Raffaello Eventi. Si sottolinea comunque che la signora Paratore il 19 luglio 2012 ha acquistato complessivamente quote per 2.000 euro e le ha rivenduto le stesse quote a un prezzo di 48.000 euro. Circostanza questa non raccontata nell’inchiesta “La Sfavorita” ma verificabile dagli atti notarili in possesso del giornale.

In relazione alla vendita dell’appartamento “della Camilluccia” e all’incendio scoppiato al suo interno, Repubblica si è limitata a rilevare come le affermazioni contenute nell’autobiografia “Io sono Giorgia”, fossero prive di alcuni elementi capaci di dare un quadro più completo al lettore. Nel testo in questione è infatti citato il libro: “Ci siamo ritrovati, di punto in bianco, per strada, sole, senza più un tetto”. Attraverso l’esame dei documenti è stato possibile provare che l’appartamento è stato acquistato a 47 milioni e venduto a 160 milioni quasi quattro anni dopo. E che le testimonianze dell’epoca non ricordavano un incendio che “si è preso tutta la casa”.

Her.Ar. G.Fosch. A.Oss.

Giovanni Tizian e Nello Trocchia per “Domani” il 19 maggio 2023.

Anna Paratore e Milka Di Nunzio, madre e migliore amica della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, scrivono a Domani e contestano la nostra inchiesta. Iniziamo dalla missiva di Paratore. 

La signora parla genericamente di «false informazioni e connesse ricostruzioni distorte afferenti la mia vita personale», poi di «menzogne», di «narrazione falsata», ma non dettaglia mai a cosa si riferisce tranne per due episodi che ricostruisce in modo grossolano, come dimostrano i documenti ufficiali in nostro possesso. 

La società in Spagna

La prima contestazione riportata nella missiva riguarda l'uomo d'affari, il geometra Raffaele Matano, e le triangolazioni societarie che lo collegano a Francesco Meloni e all'ex moglie Paratore in anni diversi e successivi a quel 1988 nel quale si sarebbe consumato lo strappo della coppia Paratore-Meloni come più volte pubblicamente detto dalla madre e dalla stessa presidente del Consiglio.

Paratore dice di aver dismesso le quote nelle società italiane con il signor Matano nel 2002, due anni prima della costituzione della società spagnola «che vedrebbe coinvolti Meloni e Matano, sorta solo nel 2004», scrive. La madre della presidente del Consiglio accusa quindi Domani di aver scritto il falso.

Tuttavia è sufficiente leggere gli atti societari spagnoli consultati da Domani insieme al quotidiano Eldiario.es, per smentire la difesa di Paratore. La società Nofumomas è attiva a partire dal 2001, abbiamo documenti per sostenerlo, ci sono i bilanci a confermarlo. I soci sono sempre stati Matano, Barbara e Simona Meloni (figlie di Francesco e sorellastre di Giorgia) e Maria Grazia Marchello (madre di Barbara e Simona).

Nel 2004 diventa amministratore unico della società il padre della presidente del Consiglio. Dunque, la contestazione di Paratore all'inchiesta si fonda su un dato completamente sbagliato, la donna confonde gli anni di costituzione dell'azienda di Madrid, e non dice che al di là della presenza di Francesco, già prima, insieme a Matano, le azioniste erano le figlie del suo ex marito, padre della leader di Fdl. 

Perciò è certo che la società spagnola non è nata nel 2004, ma nel 2001, cinque anni dopo la condanna di Francesco Meloni per aver trasportato su una barca a vela grosse quantità di droga. Affari con Matano Paratore sostiene di essere uscita dalle società con Matano, con cui ha avuto una relazione sentimentale (lo ha rivelato la premier rispondendo alle nostre domande inviate per la prima puntata della nostra inchiesta), nel 2002.

Fatto ampiamente spiegato nell'articolo, in cui però aggiungevamo un'altra curiosa coincidenza: Paratore è rimasta dentro la Mr Partners, in passato amministrata anche da Matano, fino a pochi mesi fa. C'è scritto negli atti societari depositati presso la Camera di commercio: la srl è stata cancellata a dicembre 2022. due mesi dopo 'insediamento della figlia a palazzo Chigi. 

L'ultima amministratrice unica registrata era Maria Grazia Marchello, madre delle sorellastre di Meloni e tra le socie della Nofumomas insieme al padre della leader di Fdl. Casa e incendio Non abbiamo mai scritto né della vendita della casa né dell'incendio raccontato decine di volte dalla premier fin da quando era una giovane ministra della Gioventù nel governo Berlusconi.

La signora Paratore ci accusa di aver riportato la notizia della vendita della sua casa a un importo maggiore di quello di acquisto e di aver lanciato sospetti sull'incendio che ha interessato il suo appartamento nei primi anni Ottanta, dato narrato nel libro autobiografico scritto dalla figlia. Non abbiamo scritto né la prima notizia, né la seconda. È lecito avere un dubbio, quindi: Paratore ha letto i nostri articoli o ha elaborato queste accuse sulla base di cose che le sono state riferite? 

La plusvalenza

C'è infine la vicenda della vendita delle quote societarie nel 2016 grazia alla quale Paratore e Milka Di Nunzio (migliore amica di Meloni) hanno ottenuto un notevole guadagno. Entrambe contestano a Domani che non esiste alcuna plusvalenza e che sarebbe stato sufficiente leggere gli atti societari per non scrivere il falso.

Tuttavia non dicono quali siano questi atti. Per scrivere l'articolo abbiamo letto decine di documenti riguardanti lo scambio di quote della Raffaello Eventi srl, è difficile capire quali siano quelli manchi senza indicazioni precise. Nelle loro versioni, praticamente identiche su questo punto, Paratore e Di Nunzio parlano genericamente di «atti societari». 

Siamo in possesso di tutti i documenti notarili che attestano quanto scritto: il passaggio delle quote, acquistate nel 2012 a quattromila euro e rivendute agli stessi imprenditori a 90mila. Ma c'è una questione ancora più rilevante. Abbiamo chiamato due volte Di Nunzio e tre il socio, Lorenzo Renzi, perché ci spiegassero la plusvalenza. Entrambi hanno preferito non rispondere, Renzi ha più volte detto «non ricordo». Abbiamo dato a loro la possibilità di replicare punto su punto prima di scrivere l'articolo. Avremmo riportato integralmente le loro versioni. Ma tra dimenticanze e silenzi nessuno ha voluto entrare nel merito. 

Mai più

La madre della premier conclude la lettera chiedendo di non essere mai più contattata e accusa Domani di aver costruito l'indagine col solo fine di infangare il nome della figlia Giorgia. Volevamo assicurare a Paratore e a chi la pensa come lei che noi continueremo a fare il nostro dovere.

Pubblicare le notizie, come l'esistenza di una società spagnola con l'intreccio di relazioni che rappresenta, è un nostro dovere. Non farlo vorrebbe dire nascondere i fatti. Del resto invitiamo Meloni, Paratore e Di Nunzio, a riprendere nel nostro archivio online tutte le inchieste fatte in questi tre anni di vita del giornale: abbiamo firmato inchieste su Matteo Renzi e famiglia, sul deputato della sinistra Abubakar Soumahoro e moglie, su Giuseppe Conte e suocero, su Matteo Salvini, sul presidente della regione Campania Vincenzo De Luca e figli. Siamo convinti che sia compito dei giornalisti raccontare il potere e le sue contraddizioni, prescindendo dalla parte politica rappresentata. Lo dobbiamo ai nostri unici padroni: i lettori.

Estratto dell'articolo di Francesco Merlo per la Repubblica il 17 maggio 2023.

Quel che le dà spessore, Giorgia lo tiene segreto, come nei romanzi di Carolina Invernizio, come in Beautiful, come nelle telenovela sudamericane. E dunque, ricapitoliamo: ci sono le due sorelle che tutti conosciamo, Giorgia e Arianna, ma ci sono anche due altre Meloni, figlie dello stesso padre, le sorellastre Barbara e Simona. 

Giorgia le ha nascoste agli italiani che governa, anche se Barbara Meloni sembra, non solo nelle foto, la sua copia, il suo doppio sofferto. E forse le belle rughe di Barbara raccontano a Giorgia l'altra sé stessa che, come capitò a Borges, un giorno, anche Giorgia incontrerà su una panchina. 

Con Barbara e con la seconda sorellastra, Simona, i "rapporti si sono interrotti per ragioni personali che non ritengo di dover condividere" ha detto Giorgia al Domani. Mentre a Repubblica, Barbara, che è appunto la maggiore delle quattro, mormorando con amarezza "alle mie sorelle voglio un gran bene" ha raccontato un lessico familiare con il tocco della grazia: "tutti insieme, perché ad alcune cose mio padre ci teneva molto e non potevi mancare". 

Senz'altre spiegazioni, è lecito immaginare che all'origine del distacco di Giorgia ci sia il matrimonio della sorellastra Barbara con l'ex compagno della madre, il signor Raffaele Matano, che nelle foto sembra un energico mascellone delle serie latinoamericane di Netflix, occhiali scuri e basettoni: non certo il patrigno, ma una figura che, per qualche tempo, nei primi anni del 2000, in casa Meloni somigliava a un genitore. 

(…)

C'è, allora, un incanto nella nuova inchiesta sulla famiglia Meloni, sul pedigree di Giorgia direbbe Simenon, che è una reta fitta fitta di amore e odio, di affari e tradimenti, di politica e parenti. E finalmente si capisce quell'ostentazione del distacco dal padre, Francesco Meloni, che nella famosa autobiografia "Io sono Giorgia" è solo un groppo in gola, un nodo di stomaco di poche righe. Furono i giornali spagnoli a raccontarlo al timone della barca "cavallo pazzo" imbottita di hashish , e poi le Canarie come rifugio, i soldi facili, la condanna a nove anni e la violenza della malattia che in carcere l'ha ucciso. "La mia storia con il padre delle mie figlie non è materia pubblica" ha detto indignata la mamma di Giorgia, Anna Paratore. Giorgia lo aveva liquidato così: "Quando è morto, qualche anno fa, la cosa mi ha lasciato indifferente, lo scrivo con dolore".

Un inesauribile genio-imbroglione

Ma le sorellastre di Giorgia, Barbara e Simona, e la sorella di papà Meloni, Gemma Meloni, una signora piena di dignità e di prudenza, con Repubblica hanno rovesciato l'uomo rude in poeta romantico, e la barca a vela da nascondiglio della droga è diventata un pianeta solitario e veloce, un frammento di felicità staccato dalla terra. 

E le tante imprese, anche quelle con l'ex moglie e con quel suo nuovo compagno (ormai ex anche lui), Matano appunto, fanno di papà Meloni un inesauribile genio-imbroglione di quelli classici, affari e passioni, un piccolo Jean Paul Belmondo, la simpatica canaglia, donne, romanticismo e figli, anche due ragazzi acquisiti da una terza moglie, tutti coinvolti nelle sue avventure economiche: "mi disse che lavorava per mantenere tutte queste famiglie" ha confidato la sorella. Comprò belle case, aprì ristoranti e locali notturni, restaurò la storica villa che oggi ospita il Museo Archeologico a La Gomera.

Nelle inchieste giornalistiche come questa, si possono anche seguire i sentimenti invece di perdersi nei soldi, nelle società fittizie, nelle condanne per bancarotta, affari, fatture e intrallazzi che qui vanno da Ostia sino a Panama, da Roma alle Canarie, a Palma di Majorca, a tutti quei luoghi dell'imprenditoria sudata. E' l'Altrove che, riassunto nella parola "Sudamerica", Paolo Conte aveva segnalato come sottofondo dell'anima gaglioffa dell'italiano piccolo piccolo: "Il giorno tropicale era un sudario / davanti ai grattacieli era un sipario / campa decentemente e intanto spera / di essere prossimamente milionario". 

E si capisce che è accucciato lì il talento di Giorgia, in queste cronache dal disordine, nell'incanto dell'albero genealogico intrecciato, di una famiglia di famiglie, una famiglia plurima, radiale, che fuori dal nascondiglio potrebbe brillare di modernità. E' un bel pasticcio, insomma, di quelli che piacciono alla sinistra, con quei nonni paterni che sono pure artisti, ovviamente di sinistra: nonno Nino, l'antifascista, regista radiofonico di romanzi sceneggiati e nonna Zoe (Incrocci era il cognome), sorella maggiore di Age, lo sceneggiatore in coppia con Scarpelli, bravissima attrice caratterista e doppiatrice anche di Marilyn Monroe ("Eva contro Eva"). Nonna Zoe nel 1991 vinse il David di Donatello e pure il Nastro d'argento come migliore attrice non protagonista in Verso sera, il bel film di Francesca Archibugi. 

(...) 

E infatti Giorgia ha truccato la sua biografia con ragioni più intime, forti e drammatiche di Giuseppe Conte, che truccò il suo curriculum e gonfiò i suoi titoli. 

E come il padre spacciava hashish per liberarsi dai debiti, Giorgia ha spacciato candore per liberarsi di sé stessa: il candore come ideologia politica, la falsa aureola della destra - "mamma, cristiana, italiana" - che ne segnò il successo elettorale. Ma ora, grazie a questa inchiesta, che avanza su Repubblica, e che dall'autobiografia è partita e quel candore ha cercato di verificare, sappiamo che c'era, al contrario, da raccontare una grande storia di vite spericolate alla Vasco Rossi, che probabilmente alla fine daranno appunto spessore e senso a Giorgia Meloni. Senza nulla togliere alla sua innocenza, che rimarrà certamente intatta, prende infatti forma la forza di carattere e la sapienza di vita che stanno segnando una leadership inaspettata.

Io non vedo crimini finanziari e neppure grandi capitali, ma vedo la lotta testarda della piccola gente romana che teme la povertà e vive sempre al confine con l'umiliazione. C'è il grasso della vita e ci sono gli uomini malandrini del sottosuolo economico italiano e dei destini arruffati, tutti con il pensiero aristotelico: "Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu". Forza presidente Meloni, si liberi e ci liberi.

Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian per “Domani” il 17 maggio 2023.

I vaffa, le invocazioni a Dio per fulminare i rom, ma anche Mattarella traditore, gli insulti ai giornalisti e gli immancabili elogi all’unica leader possibile: «Io voto Giorgia perché è un’amica, perché è in gamba, perché è onesta e preparata». 

Parola di Lorenzo Renzi, imprenditore romano, protagonista della compravendita con plusvalenza in favore di Anna Paratore e Milka Di Nunzio, madre e amica di Giorgia Meloni, con Di Nunzio inoltre molto attiva nell’ambiente politico della premier a tal punto da ricoprire il ruolo di contabile delle spese e delle donazioni nella campagna elettorale del 2016 con Meloni candidata a sindaca di Roma. 

La vicenda […] ruota attorno al cosiddetto affare Raffaello, dal nome della società Raffaello Eventi srl che ha gestito, in passato, il B-Place, un bar in zona Eur. 

L’affare prima del voto

Nel 2012 Paratore e Di Nunzio hanno acquisito alcune quote della srl, e sono entrate così in società proprio con Lorenzo Renzi, David Solari e Daniele Quinzi (candidato di Fratelli d’Italia alle comunali del 2013). Il lounge bar B-Place è diventato meta della destra romana e anche dalla futura fondatrice e leader di Fratelli d’Italia. 

C’è una foto che immortalava, nel 2013, proprio Meloni in compagnia della sua amica del cuore, Di Nunzio quando quest’ultima con mamma Anna erano nella società che gestiva il locale.  Passano quattro anni, e mamma e amica di Meloni decidevano di uscire dall’avventura imprenditoriale liberandosi delle loro quote. A ricomprarle ci sono proprio Renzi e Solari che le acquistano a quasi 90mila euro, una cifra venti volte superiore a quella incassata nel 2012.

I due soci hanno firmato l’accordo per pagare a rate le somme stabilite fino al 2018 a partire dal febbraio 2016, un mese prima dell’annuncio ufficiale della discesa in campo di Meloni, come candidata sindaca di Roma del centrodestra. 

All’epoca Di Nunzio non era ancora stata assunta come coordinatrice nella Croce Rossa Italiana durante la presidenza di Rocca, […] Ma da lì a poco sarebbe stata ingaggiata dall’amica del cuore per svolgere il delicato ruolo di mandataria elettorale, [...] la figura che gestisce i conti, le spese e le entrate per la campagna per la campagna del voto 2016 con Meloni candidata a sindaca di Roma. 

[…] quella srl […] finisce nelle mani di due signori pachistani, introvabili, che avevano il domicilio presso la mensa dei poveri della comunità di Sant’Egidio.

Iftikhar Ahmad Gondal acquista con 10mila euro le quote, come abbia fatto a reperire le risorse finanziarie è uno dei tanti misteri di questa storia così come il ruolo di Muhammad Tahir, diventato amministratore della società dopo la cessione a Gondal. 

[…]  Nello scacchiere societario di Renzi-Solari (il terzo socio è Quinzi) spunta un’altra srl con la sede legale allo stesso indirizzo della Raffaello eventi, viale dell’Arte 20. Si tratta di Italia ristorazione con capitale sociale di dieci mila euro, attualmente inattiva e che vede, anche in questo caso come amministratore unico uno straniero, il cittadino pachistano, Abdul Rehman Mirza.

Il rappresentante dell’impresa ha come domicilio il lungomare Paolo Toscanelli, la sede di Ostia della comunità di Sant’Egidio. È il terzo pachistano, con medesimo indirizzo, che affiora nella galassia societaria della coppia Renzi-Solari. 

«Non ricordo, non voglio rispondere. Non c’è niente da spiegare, [...] anzi la sto salutando, se lei mi saluta chiudiamo perché io sono una persona cortese», è la risposta di Renzi contattato da Domani più volte. La cortesia dell’imprenditore stupisce, sui social è molto più duro. «Giuliana Sgrena è una donna di me r...», scriveva nel febbraio 2014, quando era in società con madre e figlia di Meloni. 

«Sinisa zingaro si può dire?!», «non so se ha più rotto le palle la corte costituzionale o Napolitano», «sono a dir poco turbato...questa non è democrazia...#mattarella #traditore del voglio degli italiani». Poi passava all’analisi dell’offerta informativa televisiva: «Neanche se mettiamo insieme vespa e la durso (scritti proprio così dall’autore ndr) esce una porcata triste con fanta attori come quella di serviziopubblico», «il giornalismo di piazzapulita è vergognoso....fateveschifo!», scriveva l’imprenditore nel 2015. 

La raffinata analisi non può mancare di affrontare il tema lavoro e immigrazione. «Reddito di cittadinanza, reddito di emergenza...unico modo per questi inetti di prendere voti», «che Dio ti fulmini» con foto di una cittadina rom che rovista nel cassonetto nel periodo di Ignazio Marino sindaco, «non si tratta di bambini di serie b...se non hai il permesso di soggiorno non ci puoi stare», uno dei sui post.

[…] Renzi e Solari sono registi di un’esperienza di ristorazione d’eccellenza. Il loro ristorante, il Marchese, è una delle mete preferite della Roma che conta, il sito Dagospia rilanciava un articolo di Leggo con questo incipit: «Il solito magna magna, il Marchese, in via di Ripetta, è il nuovo ritrovo della politica forchettona (....) appuntamento irrinunciabile anche per lady Biden e lady Macron che si sono date appuntamento per un tè al limone e zenzero, durante il G20 (il vertice dei grandi della terra, svoltosi a Roma nel 2021 ndr)».

Un’avventura imprenditoriale che ha avuto un enorme successo di pubblico e di critica e che è stata replicata anche a Milano, dove ha aperto un ristorante con lo stesso nome, tra i soci di Renzi e Solari troviamo anche attori di fama nazionale, come Edoardo Leo e Luca Argentero.

Sotto il “gossip” sulla madre di Meloni, il nulla. La premier Giorgia Meloni. Non è ben chiaro il reato contestato alla premier, e neanche il motivo di questa inchiesta lanciata dalla stampa. Se non trascinare la premier nel patano mediatico-giudiziario...Davide Varì su Il Dubbio il 16 maggio 2023

Scatole cinesi, paradisi fiscali, compravendita di immobili. E poi: Panama, Lussemburgo, Ostia (sic!). Non manca niente nell'inchiesta sulla madre della premier Giorgia Meloni che tre, dicasi tre, cronisti di Repubblica hanno mandato alle stampe in questi giorni. Non manca neanche il link, a dire la verità piuttosto fragile, coi famigerati Panama papers. Quella sì una vera inchiesta giornalistica sulla blacklist dei fondi offshore dei potenti d’Europa.

Insomma, non manca nulla nel lessico assai evocativo e noir di Repubblica, si diceva. Ovvero, a ben vedere un paio di cose nell’inchiesta del giornale della famiglia Agnelli non tornano. Tanto per cominciare non è ben chiaro il reato “contestato” e, soprattutto, il motivo di questa inchiesta urlata a nove colonne.

Ovvero, il motivo è chiarissimo: trascinare la premier nel patano mediatico-giudiziario, coinvolgerla per via parenterale in vicende assai fumose e voyeuristiche che nessuna procura della repubblica ha mai pensato di “approfondire”. Almeno fino ad ora. Perché nel frattempo Giorgia Meloni è diventata premier ed accanto a sé ha un ministro della giustizia che sta facendo molto arrabbiare le toghe. Ma queste sono di certo malignità…

Per quel che ci riguarda vigileremo. E di certo lo faremo in solitudine. Così come è accaduto col Qatargate, ricordate? Ma sì, l’inchiesta della procura di Bruxelles presentata come il nuovo Watergate che avrebbe dovuto spazzare via il Pd e smascherare i suoi affari con le dittature mediorientali, ma che poi è finita in un nulla di fatto. Certo, Eva Kaili si è fatta mesi e mesi di galera senza poter mai prendersi cura della figlia di pochi mesi. Ma che vogliamo farci: è la stampa, bellezza, che ha bisogno delle sue vittime sacrificali.

DAGOREPORT il 16 maggio 2023.

Anna Paratore, madre di Giorgia Meloni, con il nome de plume di Josie Bell o Amanda King ha scritto circa 200 libri. “Il mio stile”, ha detto commentando la sua produzione di narratrice, “era particolare. Era una sorta di rivisitazione di Romeo e Giulietta”. 

In uno dei risvolti di copertina la Paratore annuncia che Josie Bell è sceneggiatrice, vive a Los Angeles (e la Garbatella?) con il marito, due figlie (la Paratore ha due figlie, Giorgia e Arianna), un gatto persiano. In un altro risvolto di copertina si dice che Josie Bell vive a Malibù in una casa da cui si vede il mare (e la Garbatella?). Però in questo ultimo risvolto il felino e il marito non ci sono più. Ha divorziato?

In “Desiderio” la protagonista è una giornalista d’assalto, Janet, così descritta: “Quella ragazza... aveva una cascata di soffici capelli biondi  e grandi occhi nocciola ornati da folte ciglia. Il nasino leggermente all’in su ... le conferiva l’aria sbarazzina…. ma nasconde un animo da tigre del Bengala”. Infatti, Janet si concede una grandissima scopata in aereo (vedi a seguire).

JOSIE BELL – “DESIDERIO”, editore Le Onde - Estratto

Un marpione, ecco cos'era. Sì, ma da mangiarselo di baci. Janet continuò con la sua esplorazione e si fermò all'altezza della cintura di cuoio. Avrebbe voluto slacciargliela... Per fare cosa? Davvero doveva essersi bevuta il cervello... Clive se ne stava stravaccato al centro del sedile, le gambe leggermente divaricate. Respirava tranquillo. Janet gli sfiorò la coscia muscolosa che tendeva senza pietà la stoffa dei pantaloni, e dovette mordersi le labbra per non mugolare.

Clive si mosse appena, e lei sobbalzò. Ritrasse in fretta la mano e si rincantucciò nel suo angolo. Che figura avrebbe fatto se lui si fosse svegliato e accorto di tutto? Lo scrutò con attenzione, ma l'uomo dormiva ancora, forse più profondamente di prima. 

Falso allarme, poteva ricominciare tutto da capo. Un gioco assurdo e forse pericoloso, ma sempre più coinvolgente. Allungò di nuovo la mano... Un guizzo nel buio, e le ferree dita di Clive si strinsero attorno al suo polso. 

Nell'oscurità della carlinga, lottarono silenziosamente. Janet che cercava di ritrarre la mano, e l'uomo che non la lasciava andare. Ma lui era troppo forte, e lei non aveva una chance di sfuggirgli. Sempre, poi, che lo desiderasse davvero. Smise di opporsi. Clive la trascinò verso di sé. Si portò la sua mano sulle labbra e le lambì la palma con la punta della lingua...

E poi non era una carogna? Janet deglutì a vuoto e tentò di controllare i battiti furiosi del cuore. Clive sovrappose una mano a quella di lei, e la spinse a carezzarlo sul collo, sul torace, sullo stomaco, e più giù... 

«Oh...» Un gemito sfuggì dalle labbra di Janet senza che lei avesse voluto. Come si dice: la situazione le era proprio sfuggita di mano... E poi, quell'uomo! Era scandaloso. Come poteva essere tanto eccitato su un aereo di linea, con degli estranei che dormivano solo una fila dietro alla loro? Era proprio un animale!

Lui sollevò il bracciolo che divideva i loro due sedili, e stavolta l'abbracciò stretta. Ansimava appena quando le infilò le mani sotto la camicetta e risalì sulla sua pelle nuda. «Non hai messo il reggiseno», le sussurrò. «Bene...» 

Janet non sapeva se essere più terrorizzata o più eccitata per quello che stava accadendo. Era tutto così incredibile, da sembrare un sogno; surreale. Clive la baciò; un contatto languido, umido, con le sue labbra che si sovrapponevano a quelle di lei, e la lingua che la carezzava in lenti movimenti circolari.

 La sollevò di peso e se la sistemò a cavalcioni sulle gambe. Infilò le mani sotto la sua gonna e si avventò sulle mutandine. «Adoro le donne che usano il reggicalze», mormorò. «Con i collant è sempre tutto più difficile.»

Era fuori di testa? Non pensava mica che lei... Che loro... Oddio! Stava armeggiando con la cintura dei pantaloni, e con la lampo. Insinuava il viso nell'incavo tra il collo e la spalla di lei, e la baciava, la mordicchiava, la leccava...

Janet cercò di resistere. Davvero, ce la mise tutta. Lo spinse indietro con le palme delle mani. Ma era un po' come accanirsi contro un solido muro. Clive non si spostò di un millimetro. Adesso lei avvertiva il pene di lui strusciarsi contro le mutandine, premere contro di lei, e spingere... 

Come fece, Janet non avrebbe saputo dirlo, né in quel momento, né più tardi. Di colpo, la penetrò. Dentro di lei, grosso, duro, caldo... Mugolò, tentò l'ennesima, inutile ribellione e, alla fine, si lasciò andare.

Speriamo solo che i passeggeri del volo Pan American per Buenos Aires abbiano il sonno pesante, pensò un attimo prima di spingersi contro Clive, ormai ben decisa a non perdersi niente...

JOSIE BELL – ANGEL 1, HONG KONG ADDIO, editore Curcio - Estratto

Un gemito roco le sfuggì dalle labbra mentre Nicola l'afferrava con entrambe le mani sui glutei, spingendola forte a incontrare il suo incontenibile, turgido desiderio. Ancora Angel mugolò roca mentre i capezzoli induriti dal piacere strusciavano sul torace di Nicola e lei nascondeva il suo viso alla base del collo dell'uomo, accarezzandogli i tendini resi evidenti dalla tensione con le labbra umide e socchiuse.

Immediatamente, Nicola voltò la testa verso di lei a incontrare la sua bocca. Il bacio fu un contatto esplosivo, mentre la lingua dell'uomo si insinuava tra le sue labbra, in una lunga circolare esplorazione che diventava sempre più esigente. Poi, Nicola, continuando a tenerla sopra di sé, la sollevò costringendola ad aprirsi, per riportarla subito dopo contro di sé, penetrandola ed entrando così per sempre nella resistenza della custodita verginità.

Il grido di Angel per quella dolce profanazione, si smorzò negli ansiti del piacere che unirono i due amanti, mentre Nicola affondava in lei sempre di più, ormai completamente incurante di tutto quello che non fosse Angel, la meravigliosa Angel stretta tra le sue braccia, la stupefacente Angel che lui possedeva, profondamente affondato nel suo caldo ventre.

Estratto dell’articolo di Heriberto Araujo, Giuliano Foschini e Andrea Ossino per “la Repubblica” il 16 maggio 2023.

Anna Paratore, la mamma di Giorgia Meloni, non era soltanto la scrittrice di romanzi d'amore della Garbatella, […] era anche socia di diverse aziende le cui proprietà, nel corso degli anni, si sono via via perse in complicatissimi giochi di scatole cinesi: da Roma, all'Inghilterra passando per i paradisi fiscali di Panama e Lussemburgo. 

[…] tutto si muove tra il 1998 e il 2002 proprio quando iniziava la vera storia politica della presidente del Consiglio. Ma la data cruciale è il 14 febbraio del 2002, il giorno di San Valentino. 

In quella data, infatti, un amore si interrompe: è quello della mamma della futura premier con due delle società nelle quali aveva quote insieme con il suo ex compagno (recentemente condannato per bancarotta fraudolenta), Raffaele Matano.

Si tratta […] della Lazio Consulting e della Mr Partners. Non erano aziende qualsiasi: la Lazio Consulting - la cui proprietà era per il 90 per cento della Mr Partners e per il 10 della signora Paratore - aveva presentato sei delle 162 proposte di progetto per la trasformazione del litorale romano nell'ambito del Patto Territoriale Ostia-Fiumicino, per un valore di 90 milioni di euro circa. Un progetto che evidentemente faceva gola a molti. 

La D Construction Limited compra infatti per 51mila euro il 10 per cento della Paratore e qualche settimana dopo per 431.160 euro il 90 per cento della Mr Partners. Ma chi sono quelli della D Construction?   

Da Ostia a Panama

Per dare una risposta bisogna fare un salto indietro. Al 30 novembre del 2000. Quel giorno, nel cuore di Panama, al secondo piano del lussuoso palazzo vetrato Frontenac, entra un uomo. È un avvocato, si chiama Jaime Eduardo Alemán e […] bussa alla porta di un notaio. 

Si presenta "in qualità di socio dello studio legale Alemán, Cordero, Galindo & Lee" - uno studio che anni dopo apparirà nei Pandora Papers, l'inchiesta sui paradisi fiscali - e deposita l'atto di costituzione di una società, la Fayson Trading s.a. 

I due firmatari dello statuto sono Andrés Maximino Sánchez e John Benjamin Foster. E anche loro compariranno in una fuga di notizie sui Paesi a fiscalità ridotta. Gli amministratori dell'azienda sono tre persone che hanno la residenza legale anche in un altro paradiso fiscale (le Isole del Canale).

Uno di loro, John Trevor Greer Donnelly, compare nell'archivio dei Panama Papers, un'altra inchiesta sui paradisi fiscali. Creata l'azienda a Panama, la mossa successiva è vincolarla all'Europa, e così succede il 23 febbraio 2001, quando tale Edna Nino costituisce la D Construction Limited presso la Companies House del Regno Unito. 

La società dichiara di avere sede legale al numero 1 di Knightrider Court. In questo indirizzo c'è l'ufficio di una società di consulenza per cui lavora Edna Nino che apre, chiude e gestisce aziende per conto di terzi. Il capitale sociale è composto da 100 azioni, di cui solo una è di proprietà di un'azienda britannica, la Easycircuit Limited. Il restante 99% appartiene alla Fayson Trading: siamo a Londra, quindi, ma in realtà siamo a Panama.

E da Panama in Lussemburgo

Ma […] poi succede altro. Sempre nel 2002 viene creata a Roma la Lunghezza Immobiliare, una srl "unipersonale a responsabilità limitata" costituita da un'altra società, la Polired s.a., con sede in Lussemburgo e fondata appena una settimana prima, il 10 luglio, da due cittadini italiani che lavoravano nel Granducato per una società di consulenza internazionale. 

Il 29 luglio 2002, la Lazio Consulting, che era già stata venduta alla D Construction, realizza una strana operazione. "Trasferisce a Lunghezza Immobiliare srl, che .... acquisisce il ramo di attività avente per oggetto l'esecuzione di lavori di costruzione", rivela un atto notarile in cui si legge: "Si conviene che Lunghezza Immobiliare srl sostituisce Lazio Consulting srl nella partecipazione alle gare, anche se queste sono state sottoscritte con la presentazione di atti e/o documentazione". Il prezzo del trasferimento è di 10.000 euro.

[…] Repubblica ha cercato di chiarire chi fosse il beneficiario finale della rete di società che collega le romane Lazio Consulting e Mr Partners con l'inglese D Construction e, tramite questa, alla panamense Fayson Trading. Rintracciato, il commercialista romano Carlo Stella, che era il "legale rappresentante" della Mr Partners in quell'affare, secondo gli atti notarili, ha rifiutato di essere intervistato. 

Ha accettato l'avvocato Giovanni Petrillo, "procuratore speciale della società D Construction Limited". "Non ricordavo che fossi il procuratore della D Construction - dice Petrillo -. Non ricordo nemmeno chi me l'ha chiesto (di essere il procuratore, ndr)" continua. "In realtà, non credo che abbia nulla da nascondere... Sono passati 20 anni e se ho commesso qualcosa consapevolmente o meno, c'è la prescrizione", sottolinea […]. La Fayson Trading e la Polired, nel frattempo, sono state cancellate del registro d'imprese di Panama e del Lussemburgo, rispettivamente, per non presentare bilanci.

Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per “Domani” il 16 maggio 2023.

L’affare “Raffaello” è l’argomento di cui nessuno vuole parlare nell’entourage di Giorgia Meloni. Un certo nervosismo si percepisce anche nelle reazioni dei diretti interessati. L’operazione commerciale con al centro la madre di Meloni, Anna Paratore, e la migliore amica della presidente del consiglio, Milka Di Nunzio, riguarda una società chiamata Raffaello eventi Srl. 

Nel 2012 Paratore e Di Nunzio hanno acquistato alcune quote dell’azienda, e sono entrate così in società assieme a Lorenzo Renzi, David Solari e Daniele Quinzi (candidato di Fratelli d’Italia nel 2013) nella gestione del lounge bar B-Place nel quartiere Eur di Roma, locale che da lì in poi verrà frequentato anche dalla futura fondatrice e leader di Fratelli d’Italia.

Nel 2016 la mamma e l’amica del cuore della premier hanno dismesso le partecipazioni nella Raffaello Eventi, ottenendo dalla vendita una notevole plusvalenza: le stesse azioni pagate in tutto 4mila euro, nel 2016 sono state vendute dalle due donne a quasi 90mila euro agli stessi imprenditori (Renzi e Solari) da cui avevano comprato quattro anni prima. 

I due titolari hanno firmato l’accordo per pagare a rate le somme stabilite fino al 2018. La prima tranche era fissata per l’ultimo giorno di febbraio 2016, da mesi si rincorrevano le voci di una candidatura a sindaca di Meloni, ufficializzata solo il 13 marzo di quell’anno, qualche settimana dopo l’operazione “Raffaello”. 

Un colpo notevole per le due donne più importanti nella vita della premier. «Non voglio essere scortese, non voglio parlare di fatti che non vi riguardano, arrivederci e buongiorno!», è la risposta a Domani di Di Nunzio contattata nel suo ufficio della Croce Rossa, assunta come coordinatrice dell’unità che si occupa del volontariato e del servizio civile. Ingaggiata nel 2018, durante il regno in Croce Rossa di Francesco Rocca, a capo dell’organizzazione per dieci anni e ora presidente della regione Lazio con Fratelli d’Italia. 

Non è un mistero che Meloni sia stata il suo sponsor più importante per sbloccare la candidatura. «Francesco Rocca è una di quelle persone che sei fiera di poter chiamare amico! Personalmente non potevo sperare in un governatore migliore per la regione Lazio», così si congratulava con il suo ex capo la migliore amica della premier il 14 febbraio scorso.

A distanza di quattro mesi Renzi e Solari hanno chiuso bottega ma non la società, che hanno ceduto a Iftikhar Ahmad Gondal, cittadino pakistano, con un permesso di soggiorno in scadenza e domiciliato presso la mensa dei poveri della comunità di Sant’Egidio. Dove Gondal abbia trovato 10mila euro per saldare le quote di Solari e Renzi è l’ennesimo mistero di questa storia, così come il ruolo di Muhammad Tahir, diventato amministratore della società dopo la cessione a Gondal. Pure Tahir è domiciliato presso un indirizzo che corrisponde a un’altra sede della comunità di Sant’Egidio, questa volta a Ostia. 

I diretti interessati non hanno intenzione di chiarire: Renzi passa da un «non ricordo», a un tono molto seccato: «Non c’è niente da spiegare, non voglio parlare con voi […]». […]

«Queste cose», come le definisce Renzi, riguardano passaggi di denaro indirizzati a due donne legatissime all’attuale presidente del consiglio e allora in corsa per diventare sindaca della capitale. Due fattori che rendono la vicenda di interesse pubblico. Perché se è vero che al momento non c’è alcun illecito, resta l’obbligo della trasparenza per chi fa politica e chi è deputata a gestire la cassaforte di un candidato. 

[…] La faccenda è rilevante anche per un altro motivo: una delle protagoniste dell’operazione, insieme a Paratore, è Di Nunzio, che nell’anno in cui cede le quote è stata nominata mandataria elettorale di Meloni, nel 2016 candidata a sindaca di Roma. In pratica la migliore amica ha ricoperto l’incarico di guardiana delle spese e dei finanziamenti destinati alla campagna elettorale di Meloni.

Un ruolo delicato, confermato dai documenti, letti da Domani, relativi alle rendicontazioni dei candidati. La firma di Di Nunzio è in calce a certificare ogni entrata e uscita denunciata, proprio sotto quella dell’aspirante prima cittadina. 

«Non abbiamo gruppi di potere alle spalle, lobby che ci sostengono o banchieri amici che ci pagano la campagna elettorale. Preferiamo restare dalla parte degli italiani accettando solo piccole donazioni», diceva Meloni. Eppure qualche pezzo grosso l’ha sostenuta, quell’anno aveva raccolto 210mila euro grazie a decine di imprenditori della capitale: da Angiola Armellini, l’immobiliarista che ha avuto grossi problemi con il fisco, ai ras dei lidi di Ostia, i Balini, coinvolti in vicende giudiziarie varie. Contributi raccolti e rendicontati dall’amica promossa contabile, Di Nunzio.

La madre di Meloni ha navigato in diversi affari immobiliari fin dalla fine degli anni Novanta, come rivelato da Domani nella prima puntata dell’inchiesta sui rapporti tra lei, il geometra immobiliarista Raffaele Matano e il padre della premier con una condanna per narcotraffico nel 1996 e scomparso nel 2012. Di Nunzio, al contrario, ha costruito la sua carriera in organizzazioni attive nel sociale, sempre però con una passione per la politica, in particolare per la destra. 

Prima di entrare con Rocca nella Croce Rossa, nel 2008 ha seguito la sua amica Meloni al ministero della Gioventù, nel governo di Silvio Berlusconi: incaricata di coordinare i rapporti, progetti ed attività con associazioni giovanili di volontariato e terzo settore. Fino al 2021 è stata pure coordinatrice nell’organizzazione per l’educazione allo sport (Opes). 

[…] Con la premier ha un’amicizia lunga una vita, Di Nunzio rilancia ogni suo post, commento e intervento. Non si perde una festa di Atreju, la kermesse di Fratelli d’Italia, si fa fotografare con senatori e deputati del partito e con Arianna Meloni, sorella dell’attuale presidente del Consiglio. […]

Estratto dell’articolo di Conchita Sannino per “la Repubblica” venerdì 25 agosto 2023.  

Sorella d’Italia. La seconda, «timida e introversa» certo, ma non meno potente. Se la più giovane ha in mano “l’ottovolante” di Palazzo Chigi, lei nel backstage pesa. In Via della Scrofa, e non solo. Decide e conta. In senso letterale, anche: perché Arianna può andare avanti anche fino a dieci, pure a quindici, ironizzano i seniores del partito, prima di tagliare corto o esplodere, come tende a fare Giorgia. 

«Se solo sapessero», cominciava una lettera pubblica che Arianna aveva scritto alla neo premier, citando Tolkien. «Le angosce, i silenzi, le notti in bianco. Perché con me potevi mostrare il tuo lato vulnerabile».

[…] 48 anni, 18 mesi più della premier, da un ventennio legata al ministro Francesco Lollobrigida, oltre che madre delle loro due figlie. Super-esposta. Da ieri, di più. La “maggiore” è investita infatti, senza più dissimulazioni, o coordinamenti via telefono, del ruolo di responsabile della segreteria politica di FdI, con cruciale delega al tesseramento e all’organizzazione. Ennesimo incarico in famiglia. 

«Però siamo seri: lei ha cominciato a fare la militante nel 1992, tutto si può dire di Arianna tranne che sia stata una privilegiata. Mai un posto in prima fila, mai un collegio. E in Regione Lazio è sempre stata precaria, mai voluto un’assunzione per evitare polemiche, le veniva rinnovato il contratto come staff», spiegano a Repubblica fonti vicine alla signora Arianna.

[…] C’è chi, nel partito, addebita alla potente sorella il suggerimento che ha “riesumato” dal passato, al fianco del governatore del Lazio, un profilo come quello di Marcello De Angelis: autore del clamoroso affondo “revisionista” sulla strage di Bologna, per il quale il responsabile della comunicazione istituzionale del presidente Francesco Rocca è stato costretto poi a chiedere scusa, restando comunque al suo posto. 

[…] 

Alleate e complici. Maturate, in politica e nella vita. Fatale che per Giorgia, le idee di Arianna siano il primo riferimento. Oro colato. O quasi. Anche se poi si sbaglia. Come con Enrico Michetti. 

L’avvocato che correva come sindaco a Roma contro Gualtieri, al ballottaggio nell’ottobre 2021 rimase inchiodato al 39 per cento, nonostante Giorgia fosse scesa in campo per lui con ogni energia, a ritmi serrati, col cognato Lollobrigida, con l’allora fidatissimo Fabio Rampelli, e Arianna sempre a tenere le fila.

[…] 

Ma resistenza e multitasking hanno forgiato le due sorelle d’Italia. Arianna lo confessò poco meno di un anno fa. «A volte mi sento come nel mezzo del triangolo delle Bermuda. Passo dal croccantino del gatto alla Finanziaria, e ho anche due figlie adolescenti», disse a Chi. Poi la triangolazione s’è fatta tosta: più grande il potere, più forti i rischi. 

Una vita dietro le quinte, fino al gossip sul marito ministro, proprio mentre Lollobrigida cade su una citazione della “sostituzione etnica” : e Arianna, la discreta, ritratta a letto con un uomo straniero nella vignetta de Il Fatto quotidiano, querela il giornalista e disegnatore Natangelo. «Ferocia indegna», ira della premier, parola di sorella.

[…] Pazienza se può apparire una contraddizione che un partito così in ascesa, alla guida del Paese, sia arroccato nel tinello. «Io e te come Sam e Frodo», aveva scritto quella volta Arianna. E ieri, un caso: nel giorno in cui c’è il ministro Lollo al Meeting Cl, lui sfiora una delle sale dove si parla solo di lui, a 50 anni dalla morte: di Tolkien, “La missione di Frodo”. Passione di sorelle d’Italia.

Fratelli d’Italia è un affare di famiglia: Arianna Meloni nominata responsabile della segreteria. Il partito della premier si ristruttura e conferma la sua gestione familiare: ufficializzato il ruolo della sorella maggiore di Giorgia Meloni senior, sposata con il ministro Lollobrigida. Simone Alliva su L'espresso il 24 Agosto 2023 

Nella categoria, per Fratelli d’Italia politicamente rilevante, della “famiglia tradizionale” si certifica oggi l’ascesa di Arianna Meloni, sorella maggiore di Giorgia Meloni e moglie del ministro dell'Agricoltura e della Sovranità Alimentare, Francesco Lollobrigida. «Ricoprirà in Fratelli d'Italia lo stesso ruolo che in Alleanza Nazionale svolgeva Donato Lamorte per Gianfranco Fini», sintetizzano fonti di Via della Scrofa. 

La “sorella d’Italia” è infatti la nuova responsabile Adesioni e segreteria politica del partito leader della coalizione di maggioranza. Nella sezione dedicata ai 'Dipartimenti e laboratori tematici', lo si può leggere nero su bianco. In compagnia: il coordinatore Giovanni Donzelli e il neo responsabile della comunicazione Andrea Moi (che si è inventato il tour estivo nelle spiagge). Un matriarcato che si solidifica e così, oltre alla delega alle adesioni (il tesseramento), Arianna Meloni viene collocata al vertice della piramide di Via della Scrofa.

E non è l’unica novità: l’onere di tenere allineata e coordinata la comunicazione fra gli uffici della presidente del Consiglio, di Palazzo Chigi, del governo e del partito di Fratelli d'Italia è stata affidata nelle scorse settimane da Giorgia Meloni a Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario all'attuazione del programma. Una questione organizzativa interna la scelta della premier, raccontata in un articolo del Il Foglio. L'incarico diventerà operativo dal primo settembre. Di fronte alla necessità di adeguare la struttura di FdI a una realtà più articolata e complessa come quella affrontata ora dalla squadra di governo del primo partito di maggioranza, viene spiegato, Meloni ha deciso di puntare sul suo fidato braccio destro.

La scelta, si precisa, non è collegata al fatto che dal primo settembre Mario Sechi lascerà il ruolo di capo ufficio stampa di Palazzo Chigi. Fazzolari può vantare con Giorgia Meloni un’amicizia storica, considerato come un fratello, come raccontato già da L’Espresso è riuscito così a scavalcare anche la storica addetta stampa Giovanna Ianniello (che resta coordinatrice della comunicazione istituzionale). L’amicizia tra “il Fazzo” e Giorgia risale ai tempi dell’impegno universitario, quando lui – infanzia itinerante appresso al padre diplomatico, poi liceo francese a Roma allo Chateaubriand - era responsabile romano di Fare fronte-Azione universitaria, spola tra La Sapienza e la sezione di via Sommacampagna. Meloniano da sempre, sin dal congresso di Viterbo del 2004 in cui l’attuale Presidente del Consiglio con soli 16 voti di scarto su Carlo Fidanza fu eletta capo dei giovani di An.

Il Foglio ha riportato le parole usate dalla premier per formalizzare il nuovo ruolo del sottosegretario alla presidenza del Consiglio: "Da settembre il coordinamento della comunicazione è affidato a Giovambattista Fazzolari. A lui spetta riorganizzare la macchina per potenziarne il funzionamento e stabilire meglio i compiti di ciascuno, e dare quotidianamente le linee guida di comunicazione. Grazie a tutti".

Sul dare linee di comunicazione, tuttavia, qualcuno anche dentro FdI storce il naso, soprattutto per i suoi tweet, raccolti da L’Espresso e poi prontamente cancellati da Fazzolari stesso, in cui definiva pubblicamente Sergio Mattarella: «Un rottame» e «Aspirante demonio». Più di recente Fazzolari si è mostrato gran sostenitore del battaglione Azov. Fra le novità nella struttura di FdI, come si vede sul sito del partito, anche il dipartimento Immigrazione, la cui responsabile è Sara Kelany, deputata alla prima legislatura, figlia di padre egiziano e madre italiana.

Giorgia Meloni, una famiglia da film. Susanna Turco su L'Espresso il 15 Maggio 2023. 

Padri che scappano, madri che si fidanzano col socio in affari, case bruciate, panorami da furbetti del quartierino. Le vicende della famiglia d'origine della premier sembrano uscite dalla penna di Age (e Scarpelli), zio della leader di Fratelli d’Italia. Nulla di penalmente rilevante, ma forse s'è sbagliato a collocare l’autobiografia nella saggistica, quando era pura narrativa

Padri che scappano in Spagna, madri che si fidanzano col loro socio in affari, sorellastre che se lo sposano, plusvalenze, quote di società, notai, percentuali, case bruciate, condanne per droga e per bancarotta fraudolenta, ristoranti alle Canarie, compravendite di conventi di suore, nuovi ipermercati, ipotesi di imprese gelataie, panorami da furbetti del quartierino.

Visti gli avvenimenti intrecciati della sua (allargata) famiglia di provenienza, svelati nei giorni scorsi dalle inchieste di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, Andrea Ossino per “Repubblica” e Giovanni Tizian e Nello Trocchia per “Domani,” di certo in una cosa Giorgia Meloni è partita sfavorita: nella sua passione per la politica. Era l’unica ad averla, a quanto pare.

Mentre il suo romanzo familiare, per complessità e topoi, sarebbe degno della penna del fratello di sua nonna, Agenore Incrocci detto Age, il geniale sceneggiatore che inventò la commedia all’italiana insieme con Scarpelli.

Negli intrecci, che sembrano tratti da un film a scelta dei loro cento (da I soliti ignoti a In nome del popolo italiano, passando per C’eravamo tanto amati, I mostri, il bigamo e L’armata Brancaleone) non manca in effetti nulla, tranne una cosa: la politica. A nessuno dei familiari, mezzi familiari, socie e amici stretti è venuto in mente di muovere un passo nel mondo dei partiti. Ed è magari così che si spiega l’iniziale scintilla di Giorgia Meloni, la sua passione civile nei primi anni Novanta. Trovare una dimensione solo sua, lontano dal clan familiare in effetti piuttosto ingombrante. La compagnia dell’anello, invece della compagnia del gelato.

Eppure, anche se non ha frequentato lo zio sceneggiatore, e nemmeno a quanto pare sua nonna attrice, Giorgia Meloni ha dimostrato di avere – forse nel sangue - una grande abilità narrativa. Nulla di ciò che ha raccontato in questi anni, nelle interviste e soprattutto nella sua autobiografia, è platealmente falso. Ma più si va avanti più salta fuori quanto molto sia l’arbitrio, e moltissimo il non detto, in una ricostruzione nella quale la premier – come componendo un puzzle assai soggettivo – ha invece fornito la versione di sé più funzionale al personaggio che andava costruendo, per conquistare la politica italiana.

Una narrazione che ha funzionato: Giorgia Meloni, autoproclamatasi “svantaggiata”, è premier, guida un partito che nei sondaggi sfiora il 30 per cento, ed è essenzialmente questo il motivo che spinge a verificare la sua versione, l’interesse a raccontare cosa ci sia di vero in quel che ha detto e dice. In questo senso, la divaricazione cresce. Basta qualche piccolo esempio.

Nel suo racconto familiare Meloni mette moltissimo in luce la fuga del padre, e nello stesso tempo fa sparire non soltanto l’intera famiglia paterna – il nonno regista, la nonna attrice, zii e cugini cinematografari, tutti quanti nemmeno nominati -ma pure le altre due figlie di Franco Meloni: passavano le estati insieme da ragazzine ma non sono mai state citate, fino a due giorni fa era come non fossero mai esistite.

Altro esempio. Meloni allude moltissimo alle difficoltà della madre Anna Paratore di crescere due bambine da sole; ma fa sparire, per dire, la circostanza che l’appartamento a via della Camilluccia comprato dalla madre alla fine del 1979, quando Meloni aveva quasi tre anni – e forse finanziato dal padre, secondo una ricostruzione fornita da Repubblica che ha sentito fra l’altro la sorellastra Barbara – abbia dopo cinque anni quadruplicato il suo valore. Consentendo alla Paratore, sempre secondo la ricostruzione di Repubblica, di realizzare una plusvalenza di circa 100 milioni di lire (in un’epoca in cui lo stipendio di un insegnante si aggirava sulle 800 mila lire al mese, 11 milioni l’anno) e di poter comprare nel quartiere romano della Garbatella un altro appartamento di cinque vani, dove Giorgia è cresciuta ma che non ha descritto nella sua autobiografia. In “Io sono Giorgia”, infatti, compare la casa dei suoi nonni. Molto più cinematografica.

Una descrizione minuziosa, quella:

«I miei nonni abitavano in un palazzo in cui c’erano gli alloggi riservati ai dipendenti dei ministeri. Ricordo quanto mio nonno fosse fiero il giorno in cui terminò di pagare il mutuo, sentiva finalmente suo quel minuscolo appartamento. Un bilocale di quarantacinque metri quadri, lo stesso in cui era cresciuta mia madre. La cucina, che era anche la sala da pranzo, era il luogo in cui si volgeva tutta la vita domestica. Nessuno, in quelle quattro mura, ha mai visto un divano. C’era un tavolo: là si mangiava, si facevano i compiuti, si giocava, si guardava la tv. Mia madre ha sempre lavorato, quindi i pomeriggi dopo la scuola li passavamo in quel soggiorno polifunzionale. E poi c’era un corridoio piuttosto angusto, con un mobile-letto che aprivamo per dormire quando mia madre decideva di uscire la sera, per cercare di vivere un po’ la sua vita. Come diceva mia nonna, dormivamo «una da capo e una da piedi”. Da bambina, insomma, ho passato tanti notti in corridoio coi piedi di mia sorella spalmati sulla faccia. Quando poi siamo cresciute ho avuto in premio una brandina in cucina tutta per me. È stata una bella conquista».

Ecco Meloni racconta l’appartamento dei nonni, 45 metri quadri senza un divano, non quello più normale in cui l’ha fatta crescere sua madre, dove immaginiamo non dormisse coi piedi della sorella in faccia. Dice del resto «di soldi non ce ne erano mai abbastanza». Non dice che non c’erano: lo lascia solo intuire. Dando così forza al racconto della underdog che si è fatta da sola partendo da una posizione svantaggiata anche laddove questo svantaggio alla fine era per lo meno molto relativo.

Nulla di penalmente rilevante, notano adesso la premier e i giornali della destra: come se l’elemento giudiziario fosse il punto. E invece, fuori dai tribunali, il punto è cosa ci racconta tutta questa vicenda di una premier che ama moltissimo raccontarsi – è la leader che forse si è più auto raccontata della storia - e mettere in luce alcuni punti della sua biografia, ma che non ama ci si incuriosisca della sua storia, senza prenderla per oro colato.

Protesta Marco Gervasoni sul Giornale: «Meloni avrebbe omesso molti particolari nella sua autobiografia? Sai che illuminazione: da quando esiste, l’autobiografia è un racconto in cui l’autore seleziona e, in un certo senso, inventa la propria vita». Va a finire insomma che “Io sono Giorgia” forse è stato collocato erroneamente nella saggistica, quando era pura narrativa.

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 15 maggio 2023.

Underdog. Una parola che […] ha avuto una grande fiammata di popolarità dopo il discorso di insediamento di Giorgia Meloni, che l’ha usata per definire sé stessa e la sua scalata alla presidenza del Consiglio. Tecnicamente, era una forzatura. 

[…] Nella sua narrazione di sfavorita ha trovato un posto di rilievo anche la vicenda familiare, cui Meloni ha dedicato molte pagine nell’autobiografia di successo, Io sono Giorgia, tassello fondamentale nella costruzione del suo personaggio pubblico e della volata elettorale vincente.

Meloni ha raccontato le difficoltà di una famiglia monogenitoriale, con una mamma costretta a crescere due figlie in condizioni di precarietà economica a causa di un padre che ha abbandonato la famiglia e se ne è costruita un’altra fuori dall’Italia. Il racconto di questo svantaggio si è aggiunto all’evidenza di quello politico, un complesso di esclusione profondamente radicato già nella formazione culturale di Meloni, frutto dell’estraneità del Movimento sociale all’arco costituzionale. 

L’orgoglio di Meloni […] è sacrosanto come il diritto e dovere della stampa di verificarne i racconti. Ci sono confini privati che non è mai giusto oltrepassare, ma Meloni sa bene che il privato di una presidente del Consiglio non è paragonabile a quello di un cittadino qualunque.

Anche in assenza di rilievi penali o contestazioni giudiziarie, entrambi del tutto assenti nelle vicende che Repubblica ha ricostruito in questi giorni, è doveroso passare al vaglio ogni dichiarazione di un capo di governo ed è sano che l’opinione pubblica abbia tutti gli elementi per valutare la correttezza e la congruità delle ricostruzioni che riguardano anche le storie personali. 

Se emergono discrepanze o ambiguità, un leader ha il dovere di rispondere, senza che il porre domande passi per uno sconfinamento illecito o per un accanimento personale. Funziona così in tutto il mondo occidentale, lo stesso che Meloni difende con la scelta del sostegno all’Ucraina […]: la contendibilità del governo, la libertà dell’informazione, il dovere di rispondere di azioni e parole all’opinione pubblica.

[…] Viviamo da molti anni in un’era mediatica dove i politici, legittimamente, usano molto anche il privato per costruire consenso. Quello che non è dunque possibile è concepirlo come una porta a scorrimento, che si apre quando serve a raccogliere voti e si chiude appena si prova a entrare per verificare se tutto torna. Il dovere della trasparenza verso gli elettori è un pilastro della democrazia, la sua bellezza, la stessa che traspare nella storia di una ragazza di quindici anni che entra nella sezione semiperiferica di un partito per prenderne la tessera e diventa trent’anni dopo capo del governo di un Paese del G7.

Estratto dell’articolo di Heriberto Araujo, Giuliano Foschini e Andrea Ossino per “la Repubblica” il 15 maggio 2023.

Nella vita di Giorgia Meloni, nella storia personale e imprenditoriale di sua madre, Anna Paratore, c’è una persona assai importante che mai figura sia nell’autobiografia della premier “Io sono Giorgia” né mai viene citata nelle decine di interviste che la presidente del Consiglio ha rilasciato in questi anni. 

Si chiama Raffaele Matano, oggi ha 77 anni, ed è stato compagno di vita della Paratore quando Giorgia Meloni frequentava casa di sua madre. Della Paratore è stato per un periodo anche socio in tre aziende (Lazio Consulting srl, Mr Partners, Gruppo immobiliare Romano).

Ma non solo, il suo filo con la famiglia è doppio: era stato in alcune società spagnole anche con il padre di Giorgia, Francesco Meloni, e con la prima moglie dell’uomo, Maria Grazia Marchello. Di più: ha lavorato con le loro due figlie, Barbara e Simona, sorelle dell’attuale presidente del Consiglio. Con Barbara si è poi sposato e insieme, nei mesi scorsi, sono stati condannati in un processo per bancarotta. 

[…] Nel sito dello studio legale Reboa Law Firm, che ha i suoi uffici a Roma in via Flaminia, Matano e Barbara Meloni appaiono come membri of counsel . Nella biografia di entrambi si legge che “la specialità è la ricerca di siti commerciali da proporre ad aziende della grande distribuzione organizzata, i quali vengono successivamente consegnati con la formula ‘chiavi in mano’ all’azienda committente”.

Uno schema che assomiglia a quello che la Lazio Consulting, una delle società della Paratore e di Matano, dovevano realizzare nel 2002 all’Infernetto, a Roma. Un affare da 90 milioni cominciato e poi chissà come concluso visto che la società fu rilevata dalla britannica D Construction, controllata a sua volta da una società con sede a Panama. 

Per molto tempo il geometra ha avuto una decina di indirizzi in provincia di Roma, Viterbo e Latina. […] Ma ci sono due indirizzi importanti per capire meglio chi sia il geometra. Uno è via Barberini 11, nel cuore del centro storico di Roma. In un palazzo signorile la cui facciata ha come epigrafe il motto latino “MALO MORI QUAM FOEDARI” (preferisco la morte al disonore), Matano, Paratore e l’imprenditore casertano Giuseppe Statuto vi stabiliscono nel 1998 la sede legale iniziale della Compagnia del Gelato. A Repubblica , Paratore dichiara di «non sapere» chi è Statuto.

Secondo il primo amministratore della Compagnia del Gelato, Matano ha conosciuto il noto immobiliarista perché «in via Barberini aveva l’ufficio di fianco a quello di Statuto… erano vicini di porta» […]. […] 

[…] il secondo indirizzo cruciale nella sua storia è via Ennio Quirino Visconti, 12/14, nell’elegante quartiere romano di Prati. Quell’indirizzo è stato la sede legale di almeno cinque aziende partecipate da Matano o nelle quali lui ha avuto un ruolo di quotista o amministratore. Oggi c’è un franchising internazionale di servizi di posta dove viene offerta la domiciliazione per corrispondenza. Alcune cassette postali dorate e senza nomi garantiscono una totale privacy. Secondo il racconto di una dipendente a Repubblica , questo servizio esiste da 25 anni e ha sempre offerto le stesse prestazioni. Fino a poco tempo fa, secondo la donna, almeno una delle aziende della rete legata a Matano aveva ancora la domiciliazione postale proprio lì.

Il geometra romano è inoltre stato sospeso il 18 febbraio del 2008 dal Collegio dei Geometri di Viterbo per ragioni che Repubblica non è stata in grado di chiarire perché si sono rifiutati di rilasciare la documentazione. 

«Causerebbe pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali» dell’iscritto, hanno detto. Certo, quella dell’ordine dei geometri non è la sola disavventura vissuta da Matano. Il 23 maggio 2022 è stato infatti condannato dai giudici della sesta sezione penale del Tribunale di Roma a quattro anni e sei mesi per bancarotta fraudolenta.

Anche sua moglie, Barbara Meloni, è stata processata per gli stessi fatti e ha patteggiato. Secondo le accuse […] si avvantaggiavano della loro posizione di amministratori unici di varie società […] per dissiparne il patrimonio. Nella sentenza si legge: con spese “di natura personale poiché inerenti il noleggio e l’assicurazione di auto di lusso (Mercedes S500, BMW X5, BMW z4, Porsche), spese di trasferta e spese telefoniche”.

E ancora: “Distruggevano, falsificavano, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare per sé o altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, il libro e le scritture contabili o li tenevano in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio ed il movimento degli affari. Così cagionando il fallimento della società con le aggravanti di aver commesso più fatti di bancarotta e con l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità”. Non sappiamo, perché il rappresentante dello studio legale che difende entrambi ha preferito non rispondere alla domanda, se la sentenza sia stata o meno appellata.

Vittorio Feltri straccia Repubblica: "Contro Meloni toccato il fondo della decenza". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 15 maggio 2023

Con tutto il rispetto per il direttore di la Repubblica che fu mio stimato cronista all’Indipendente, occorre dire che ieri il quotidiano fondato da Scalfari ha toccato il fondo della decenza, pubblicando pagine e pagine per raccontare vita morte e miracoli della famiglia di Giorgia Meloni, della quale invero si sapeva poco mentre ora, grazie al foglio di Maurizio Molinari, sappiamo invece tutto. Peccato che non ce ne freghi un cavolo delle vicende personali e private dei genitori e dei parenti vari della presidente del Consiglio, visto che non siamo di fronte a una cosca mafiosa, ma a gente normale che ha cercato di vivere al meglio delle proprie possibilità.

Il titolo dell’articolo è già un programma: “La sfavorita”, che si legge come fosse sinonimo di sfigata. A parte che il testo è incasinato e quindi illeggibile senza uno sforzo sovrumano, bisogna aggiungere che non racconta nulla di sensazionale o di scandaloso. È la storia di un padre e una madre che hanno avuto delle figlie cresciute tra qualche difficoltà, esattamente come accadde nella mia casa di fanciullo, dove non tutto filava liscio come l’olio. Non mancano lunghi passaggi contorti da cui emerge soltanto l’ossessione degli autori (una specie di cooperativa) vogliosi di gettare ombre sui personaggi presidi mira. La cosa più ridicola che emerge dal fluviale racconto, lungo come dieci capitoli della Bibbia, è il fatto che Giorgia nella sua nota biografica avrebbe taciuto vari particolari giudicati piccanti dal gruppo degli autori. 

Omissioni che lasciano il tempo che trovano. Per rendere più frizzante la narrazione, sopra il titolo idiota che ho già riportato, è stato messo un occhiello esilarante. Questo: «Gli affari della madre, i legami con società offshore, la testimonianza delle sorelle nascoste». Poi vai a leggere il testo e scopri che è una pisciata infinita che svela particolari privi del benché minimo interesse. La Meloni ormai la conosciamo tutti e ammiriamo il modo in cui affronta i problemi nazionali. Gli elettori l’hanno premiata alle urne perché si fidano di lei, e non mi pare si siano pentiti di averla votata. Dei retroscena riguardanti la vita più o meno agra dei suoi parenti ci importa meno dell’attività notturna degli scarafaggi. 

Giorgia giustamente nel suo libro che ha avuto successo punta a descrivere se stessa per farsi conoscere al grande pubblico. Ha colto nel segno il suo obiettivo e non ha nulla da rimproverarsi. Mentre la Repubblica ha sprecato anche ieri molta carta per rimediare una brutta figura. Con quel che costa la materia prima dei giornali non ne valeva la pena. Comunque la foto della premier è molto bella anche se non compensa la volgarità di tutto il resto.

Estratto da corriere.it – articolo del 21 ottobre 2022

Un passato da scrittrice di romanzi rosa per sfamare le sue figlie. A raccontarlo in una lunga intervista a Dipiù è Anna Paratore, alisa Josie Bell. Paratore è la madre di Giorgia Meloni. «Josie Bell era un’attrice americana della fine degli anni Ottanta. 

Avrà fatto una manciata di film d’azione e, all’epoca, un responsabile della mia casa editrice, leggendo quel nome nei titoli di coda di un film, decise che suonava bene, era adatto a me e così nacque Josie Bell, la scrittrice di ben cento trentasette romanzi rosa.

Ma io ne ho scritti anche un’ottantina con lo pseudonimo di Amanda King. Sì, come dicono le mie figlie, se fossi vissuta in America sarei diventata famosissima come scrittrice. «Per bisogno. Ero sola, avevo due ragazzine da mandare a scuola e da crescere», racconta Paratore. 

[…]  Paratore […] aggiunge: «L’ispirazione e la motivazione le traevo dal bisogno. La fame aguzza la fantasia. Dovevo dare da mangiare alla mia famiglia, scrivere mi rendeva ed ero molto apprezzata perché il mio stile era particolare. 

Le spiego: il romanzo rosa per funzionare bene dev’essere una sorta di rivisitazione di Romeo e Giulietta: morte, amore, passione, separazione, ricongiungimento... In ogni romanzo di Josie Bell cercavo di metterci dentro anche un pizzico di giallo e, sì, c’era tantissimo anche della mia vita dentro quelle pagine. Nel primo romanzo un personaggio si chiamava Arianna e in un altro, ma non le dirò mai il titolo, c’è anche Giorgia».

La carriera da scrittrice finisce quando chiude la casa editrice. E ora? «Ormai faccio la nonna e vivo con Nando, il mio amato chihuahua, e Gigio, un altro cagnolino. Tifo per la Lazio e scrivo ancora, sa, ma di politica e di arte per un sito. Josie Bell è morta... Per il momento». […]

Estratto dell’articolo di Lorenzo Camerini per rivistastudio.com – articolo del 3 ottobre 2022 

[…] Anna Paratore […] ha pubblicato, a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta, più di un centinaio di romanzi rosa con lo pseudonimo Josie Bell. Non che ci sia qualcosa di male, anche Massimiliano Gioni ha iniziato la sua carriera traducendo Harmony. Tuttavia, mi pare che questa rivelazione sia passata eccessivamente sotto traccia. 

Stiamo pur sempre parlando della first mamma d’Italia. Giusto per curiosità, ho cercato Josie Bell su Internet. […] eccoli lì, riconoscibili dalle copertine kitchissime sui toni del rosa, opere di disegnatori iper-realisti, che ritraggono coppie bellissime mentre si guardano come si è soliti fare pochi istanti prima di un bacio passionale.

Trovati: sono loro, i libri della mamma di Giorgia Meloni. […] 

Dunque, come sono queste opere di Josie Bell? Va detto subito, a costo di sembrare uno snob della Ztl: hanno scarso valore letterario. Sono romanzetti di genere. La regola “show, don’t tell” viene immancabilmente disattesa. 

I cattivi annunciano sempre il proprio piano malefico ad alta voce, parlando fra loro, mentre i buoni ascoltano di nascosto. Le donne sono squattrinate e vergini, la montatura degli occhiali fuori moda e un taglio di capelli mortificante nascondono la loro vera bellezza «mozzafiato».

Gli uomini, impenitenti donnaioli, hanno ereditato una fortuna, vestono smoking su misura e portano Rolex in oro e acciaio. La scrittura avrebbe bisogno di un robusto lavoro di editing. 

Ci sono temi ricorrenti: la causa irredentista nord-irlandese (a sorpresa), le ventiquattr’ore in pelle di coccodrillo, la litoranea di Los Angeles, gli alcolici costosi, l’invito di uno dei due partner a guardarsi negli occhi durante il sesso e le sigarette subito dopo. Le opere di Josie Bell hanno sempre un titolo originale in inglese anche se tutti gli indizi, il più schiacciante l’assenza di un traduttore, fanno pensare che Paratore in realtà abbia composto i suoi libri in italiano, ai tempi in cui Giorgia Meloni era adolescente.

Su tutte le quarte di copertina c’è una breve biografia, sempre uguale: «Vive con le due figlie in una villetta sulla spiaggia di Malibu, da quando ha divorziato da suo marito. “Quando scrivo”, ci ha confidato, “mi piace guardare il mare. Trasforma i ricordi in storie da raccontare”». 

Ma tuffiamoci nella lettura, iniziando da Vergine amante (titolo originale: A charming Cinderella), uscito nel 1996 per la collana Blue Tango Desiderio, edizioni Le Onde (indirizzo Via Salaria 125, Roma). 

Un riassunto della trama, perdonerete gli spoiler: Michelle Smith è una timida e sprovveduta orfanella, capelli color rame con venature di biondo, ospite da quando ha memoria di un collegio di suore severissime a Philadelphia. 

Finito il corso di studi, una sorpresa: la sua retta è stata pagata da un misterioso magnate di Los Angeles, il ricchissimo signor Kingstone, che aveva deciso di finanziare l’educazione di un’orfana a caso, nel tentativo (riuscito) di darsi un tono da benefattore e finire sulla copertina del Time.

Oggi si chiamerebbe virtue signalling. Ma non finisce qua: nel testamento del cinico e spietato Kingstone, morto da tre anni ma intenzionato a guadagnarsi una seconda copertina (postuma) di Time, è garantito alla povera Michelle Smith un lavoro nell’azienda di famiglia. 

Perciò seguiamo la nostra eroina a Los Angeles, dove viene portata da una bionda e procace segretaria al cospetto di Rainer Kingstone, erede dell’azienda di famiglia, e del suo avvocato Robert Malloy. Elettori di Bush senior, forti bevitori di scotch alle nove del mattino, proprietari di Ferrari rosse, quei due uomini alpha stanno trattando un importantissimo affare con il governo americano, si parla di un miliardo e mezzo di dollari. 

C’è però un contrattempo: Rainer Kingstone è stato paparazzato sulla sua spiaggetta privata di Palm Beach – in atteggiamenti equivoci – in compagnia di Rita Bum Bum, «la spogliarellista più richiesta da tutti i night del paese». L’affare è a rischio: il loro aggancio con il governo, il generale Coltrane, è un puritano e non approva questo flirt.

Michelle Smith arriva nel momento giusto: l’avvocato Malloy suggerisce a Kingstone di sedurla, sposarla, ripulirsi l’immagine, ottenere l’approvazione di Coltrane e chiudere l’affare, per poi sbolognarla. Rainer Kingstone usa tutte le sue armi (ristoranti costosi, profumo muschiato al sandalo e pettorali scolpiti) per conquistarla. 

Lei ci casca, si sposano, lui a quel punto chiude l’affare e diventa scostante, lei origlia una conversazione e capisce di essere stata usata, quindi conosce una contessa russa – fuggita dalla rivoluzione bolscevica – che la rende bona con due settimane di shopping a Rodeo Drive, dopo le quali Kingstone capisce che la ama e non può fare a meno di lei. Come si è già intuito, c’è un happy ending telefonatissimo. 

Passiamo al secondo volume: Prigioniera di te (in inglese: Unforgettable man), pubblicato nel 1994, sempre per edizioni Le Onde ma nella collana Blue Tango Sensualità. È un romanzo più a luci rosse, e con tinte politiche. 

Stephanie Carter è una vergine inglese, rimasta orfana giovanissima, che vive a casa degli zii (fra caraffe di cristallo baccarat e caviale iraniano), dove viene trattata come una cameriera. Durante un cocktail party viene rapita da un gruppo di terroristi dell’Ira, e rimane qualche settimana da sola con il suo carceriere, Patrick Devlin, in una baracca nel bosco. Lui è burbero ma dolce, e ha «capelli neri come ebano, tirati indietro sulla fronte e lunghi sul collo forte.

Gli occhi erano blu; non azzurri, ma di quel blu carico e un po’ elettrico che sconfina nel viola». Ma anche «cosce muscolose, dure come acciaio», e inoltre «con il fisico che si ritrovava e il volto da divo, avrebbe potuto guadagnare denaro a palate nel mondo della moda o, magari, facendo del cinema». 

Durante la prigionia, Patrick la stupra un paio di volte (per citare Josie Bell «con una mano si insinuò verso la segreta intimità, carezzandola con maestria» mentre Stephanie «vide il pene pulsante ergersi sfrontato, quasi animato di vita propria, e seppe alla fine com’era un uomo»), e a lei non sembra dispiacere nemmeno troppo, tant’è che alla fine si innamorano. Dopo aver ottenuto un riscatto in denaro, Patrick la libera.

Si incontrano nuovamente qualche mese dopo, in un lussuoso salotto londinese, sorseggiando un tè. Patrick sta provando a sedurre la sorella di un agente dei servizi segreti inglesi, ma la passione per la sua ex prigioniera sessuale è travolgente: scopano con violenza di nascosto al piano di sopra e si giurano amore eterno. Stephanie fugge con lui, e insieme partono verso una vita clandestina da terroristi dell’Ira. 

Inizio a essere un po’ stanchino, ma l’attualità incalza, quindi affronto il terzo libro di Josie Bell in un solo weekend: è Frammenti di sogno (titolo originale: Love holiday), pubblicato nel 1995 nella solita collana Blue Tango Sensualità. Ritornano molti dei temi classici della Bell: la protagonista, Amber Klein, è un’orfanella vergine nordirlandese, adottata da zii senza cuore, che vince un viaggio premio di due settimane a Saint-Tropez. Amber si sta godendo l’alba sulla spiaggia quando dall’acqua esce lui, Leon, «bello, imponente come un dio della mitologia greca».

Chiacchierano un po’, si piacciono e trascorrono insieme qualche serata piacevole. Dopo tre giorni, lui la bacia in spiaggia di notte e le chiede di sposarlo. Lei accetta, trovano un prete e organizzano una cerimonia alla buona sulla Costa Azzurra, poi partono per Parigi. All’aeroporto c’è una sorpresa per Amber: li aspetta un maggiordomo, pronto a portarli nella tenuta di Leon a Reims, nella regione di Champagne. 

Ma le sorprese non sono finite qua: in realtà Leon è il ricchissimo conte De la Croix, erede di Luigi XIV, uno degli scapoli più ambiti di Francia. Nella tenuta di Reims vivono anche la matrigna e la cuginastra del conte De la Croix, e non sono particolarmente ben disposte nei confronti dell’ex orfanella irlandese diventata contessa in una notte a Saint-Tropez. 

Il conte passerà due terzi del libro a flirtare con la cuginastra e maneggiare posate d’argento davanti alla povera Amber, che solo ogni tanto, e sempre durante un bagno nella vasca idromassaggio, riceve attenzioni erotiche da suo marito («Quando mi prese lo fece guardandomi negli occhi. Le sue mani mi afferrarono i glutei e mi spinsero a incontrarlo. Io non avrei saputo resistergli nemmeno se avessi voluto. E non volevo…»). Solo alla fine scopriremo che flirtare con la cugina era in realtà tutta una strategia per far ingelosire la nostra protagonista, e vissero tutti per sempre felici e contenti nelle ville di famiglia.

Ci sarebbe anche il quarto romanzo della mia collezione, Parigi, una promessa, ma scopro presto che è il secondo capitolo di una collana dedicata a Angel, una ex prostituta di Hong Kong scappata in Europa e braccata da tutta una serie di corteggiatori nobili, contro il volere delle madri, che non vedono di buon occhio il matrimonio del loro rampollo con una «cinese». 

Non possiedo il primo volume della collana […] e ripongo il romanzo di Josie Bell nella sezione dedicata della mia libreria, in attesa che il suo valore di mercato aumenti mentre la figlia dell’autrice si ritaglia un posticino nella storia.

Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian, Nello Trocchia e Antonio M. Vélez per “Domani” il 13 Maggio 2023.

La versione ufficiale di Giorgia Meloni e della madre Anna Paratore ha rimosso dall’album di famiglia Francesco Meloni, padre dell’una e marito dell’altra: con lui hanno tagliato ogni rapporto dal 1988, hanno sempre sostenuto. Mai più incontrato da allora, otto anni prima che venisse condannato a nove anni per traffico di hashish da un tribunale spagnolo. Una vicenda dolorosa per la figlia a tal punto da rimuoverla dal racconto pubblico, con la quale, tuttavia, ha dovuto fare i conti dopo che un giornale delle Baleari ha pubblicato subito dopo la vittoria alle elezioni un articolo sulla condanna del padre ripreso dalle testate italiane.

Fino ad allora le notizie su Francesco riguardavano solo il rapporto conflittuale con la futura presidente. Tanto che nella sua autobiografia “Io sono Giorgia” la premier […] scrive parole durissime e amare nei suoi confronti: «Quando è morto, qualche anno fa, la cosa mi ha lasciato indifferente». 

C’è però una misteriosa società spagnola con sede a Madrid, che rischia di riscrivere almeno in parte la relazione tra il padre «commercialista di Roma nord (così definito nel libro di Meloni, ndr)» e la famiglia della presidente, in particolare il rapporto con la madre Anna.

Quest’ultima ha fatto affari per anni con Raffaele Matano, mentre lo stesso era contemporaneamente azionista dell’impresa amministrata dal padre della presidente. Per uno strano scherzo del destino il misterioso triangolo passa per la Spagna, paese a cui Giorgia Meloni è molto affezionata: indimenticabile quel «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana» urlato dal palco della manifestazione del partito Vox, l’estrema destra spagnola nostalgica del franchismo. 

L’azienda del padre […] potrebbe spostare molto avanti nel tempo il rapporto tra la famiglia Meloni e il padre “rinnegato” per avere abbandonato le figlie e la moglie. Almeno fino al 2004, l’anno in cui Giorgia Meloni conquistava la presidenza di Azione Giovani, la federazione giovanile di Alleanza Nazionale.

Ora Domani, in collaborazione con il quotidiano spagnolo Eldiario.es, ha esaminato nuovi documenti ed è in grado di rivelare nuovi elementi […]. I documenti societari svelano i nomi degli altri soci e i bilanci dell’azienda. Come Matano, condannato in Italia per bancarotta insieme alla sorellastra della premier Barbara Meloni, che appare in atti e visure che fotografano la rete d’affari della madre della leader della destra italiana.

La ditta spagnola era la NofumomasSL. L’attività principale è sintetizzata in un generico «altri servizi parasanitari». La società è allo stato inattiva, l’ultimo amministratore indicato è Francesco Meloni Incrocci, scomparso nel 2012. Si tratta appunto del padre di Giorgia, il secondo cognome è indicato come vuole la consuetudine in Spagna. La madre, come ricostruito da L’Espresso, si chiamava Zoe Incrocci, una delle più note attrici romane negli anni Cinquanta, vincitrice di un David di Donatello nel ‘91. 

Gli azionisti della Nofumomas erano cinque, tra cui Raffaele Matano (53, 3 per cento), Barbara Meloni (30,3 per cento), l’altra sorellastra Simona Meloni (1,5) e Maria Grazia Marchello (7,5).

Abbiamo chiesto alla premier se conosce Matano e le due Meloni. Ci ha spiegato che il geometra esperto di operazioni immobiliari non era solo socio di entrambi i genitori, ma «è stato per un periodo compagno di mia madre», mentre «Barbara e Simona sono mie sorellastre da parte di padre». Matano, Barbara Meloni e Marchello li ritroviamo tutti anche in società italiane spesso collegate tra loro. 

Soprattutto si scopre che Matano e Paratore hanno fatto affari insieme: nel 2000 soci nella Lazio Consulting Srl con sede a Roma, ancora prima nella Compagnia del Gelato e nella Mr Partners, con Paratore socia e Matano amministratore unico fino al 2001. Nella Compagnia del gelato troviamo anche l’immobiliarista Giuseppe Statuto, coinvolto nelle scalate a banche e giornali con la cordata passata alla storia giudiziaria dei “furbetti del quartierino” insieme a Stefano Ricucci e Danilo Coppola.

L’intreccio è complesso. Mr Partners era azionista di Lazio Consulting, che nel 2002 fu ceduta a una sconosciuta D Construction Ltd, sede a Londra, di cui non c’è più traccia nei registri delle imprese britanniche. Dagli atti catastali Lazio Consulting risultava all’epoca proprietaria di un piccolo tesoretto tra fabbricati e terreni, uno in zona Lunghezza di Roma di quasi 40mila metri quadrati. 

Paratore è rimasta dentro la Mr Partners fino a pochi mesi fa: la srl è stata cancellata a dicembre 2022, due mesi dopo l’insediamento della figlia a Palazzo Chigi. L’ultima amministratrice unica registrata negli atti societari è sempre Maria Grazia Marchello, la stessa che ritroviamo in Spagna nella Nofumomas insieme al padre della leader di Fratelli d’Italia.

Una doppia triangolazione curiosa, visto che sia Paratore sia la premier hanno costruito una narrazione pubblica in cui i rapporti con il narcotrafficante Francesco Meloni erano inesistenti da 35 anni. […] 

Possibile che Meloni e Paratore non abbiano mai ricevuto alcuna notizia dI Francesco nonostante la curiosa coincidenza? Può essere. […] Per la cronaca, Matano nel gennaio 2011 è stato prosciolto in un processo per appropriazione indebita e false comunicazioni sociali, ma solo perché intervenuta la prescrizione dei reati: secondo i giudici non c’è alcuna evidenza per ritenere il fatto insussistente. 

Tradotto: le anomalie contabili c’erano eccome. In questi atti giudiziari Barbara Meloni è indicata come compagna di Matano, molti anni dopo avere rotto la relazione sentimentale con la madre della presidente del consiglio. 

A maggio 2022 é stato invece condannato a 4 anni e sei mesi in primo grado dal tribunale di Roma per bancarotta fraudolenta (con interdizione dai pubblici uffici per cinque anni), «in concorso con Barbara Meloni». La sorellastra della premier ha però scelto il rito alternativo del patteggiamento. […]

Torniamo a Madrid. Negli ultimi bilanci, approvati nel giugno del 2004, presentati dalla società spagnola Nofumomas SL, risulta che l’amministratore unico era sempre Francesco Meloni. La società è stata fondata l’11 luglio 2001, cinque anni dopo la condanna per aver trasportato su una barca a vela grosse quantità di droga.

Matano risulta essere in quel momento il primo azionista con il 53,03 per cento del capitale. Lo stesso Matano è stato amministratore della stessa società tra il 2002 e il 2004, al suo posto è subentrato il padre della presidente del consiglio. 

Nofumomas SL nell'ultimo bilancio presentato, del 2003, ha dichiarato ricavi per 366.842 euro e una perdita di poco superiore a 75mila euro. Nello stesso anno […] i soci hanno versato ulteriori 65mila euro per compensare le perdite. Un’anomalia è che nei primi bilanci presentati del 2001 è stata indicata la stessa cifra di entrate e uscite: 48.434 euro. 

[…] Sullo sfondo di questo intreccio di società, condanne, soci e famigli resta ancora un ultimo personaggio chiave della storia. Matano e Barbara Meloni collaborano nello studio legale Reboa law firm dell’avvocato Rodolfo Reboa, storico militante della destra sociale romana, vicino ad alcuni dirigenti nazionali e locali di Fratelli d’Italia.

Un uomo orgoglioso del papà, camicia nera che ha marciato su Roma nel 1922 […] 

L’avvocato, oggi impegnato nella difesa delle vittime della tragedia di Rigopiano, ha sposato in pieno le politiche meloniane. Non solo era presente ai dieci anni della fondazione di Fratelli d’Italia: […] è stato candidato alle ultime regionali proprio a sostegno del fedelissimo di Meloni Francesco Rocca, eletto qualche mese fa presidente della Regione Lazio. 

«Sia Barbara sia Matano sono due consulenti del mio studio riguardo a questioni relative a investimenti sui centri commerciali», dice Reboa. Che è anche l’avvocato di Matano, e dunque risponde alle domande di Domani in sua vece: «Il progetto imprenditoriale in Spagna con il signor Francesco Meloni è durato un tempo molto limitato e non ha prodotto utili per Matano. Per quanto riguarda le micro partecipazioni dell’allora impiegata del suo gruppo, Anna Paratore, erano delle forme di incentivazione al dipendente e, come tali, sono state liquidate al momento della cessazione del rapporto di lavoro». 

«Mia mamma ha incontrato molte difficoltà nella vita, ha cresciuto due figlie da sola. A lei devo tutto. Il suo giudizio è uno dei pochi che temo di più», ha ripetuto spesso la presidente del Consiglio. Tra i molti ostacoli, tuttavia, Paratore ha avuto l’audacia di investire nel business immobiliare della capitale. Sempre grazie al geometra Matano, il socio in affari preferito dai genitori di Giorgia Meloni.

Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 13 Maggio 2023. 

Gentile Presidente Meloni, sapeva dell'esistenza a Madrid di una società in cui c'era suo padre Francesco Meloni insieme a Raffaele Matano come socio? Matano, in Italia, è stato socio in alcune aziende con Anna Paratore.

Non conosco le attività che svolgeva mio padre e non potrei conoscerle perché, come è noto, non avevo rapporti personali con lui. Il sig. Matano, circa vent’anni fa, è stato per un periodo compagno di mia madre, la quale aveva lavorato per lui per circa un paio di anni quale collaboratrice nel suo ufficio di Roma. 

Era a conoscenza delle società dove figurava come socia sua madre?

Non ne ero a conoscenza, e anche lei, a seguito di mia domanda da voi sollecitata, ne aveva un ricordo molto vago. A seguito di verifica abbiamo riscontrato che per brevi periodi ha posseduto quote decisamente minimali di società, in cui è stata inserita come socio di assoluta minoranza data la sua relazione con Matano e da cui è uscita dopo poco, alla fine della stessa.

Lei e sua madre avete sempre detto di non avere più rapporti con Francesco Meloni dal 1988. Come si spiega la società spagnola in cui nel 2004 troviamo Francesco Meloni e Raffaele Matano mentre quest’ultimo, in Italia, era socio di Anna Paratore? Sua madre le ha mai detto di questa società di Matano in Spagna con Francesco Meloni?

Non so nulla della società in Spagna e anche mia madre non ne rammenta nulla. E confermo di non aver avuto alcun rapporto con mio padre da quando ero ragazzina, né li ha più avuti mia madre. 

Quello che so è che nello stesso periodo nel quale mia madre frequentava il sig. Matano, c’è stato un tentativo di riavvicinamento tra me e mia sorella Arianna e una delle nostre due sorellastre da parte di padre, Barbara. Arianna ha presentato Barbara al sig. Matano, il quale la assunse nel suo ufficio.

Poiché le mie due sorellastre, a differenza nostra, hanno sempre mantenuto il rapporto con il padre, è plausibile che Barbara abbia creato il contatto tra il sig. Matano e mio padre. Quando la relazione di mia mamma con il sig. Matano era già terminata, i nostri rapporti con le nostre sorellastre si sono interrotti e non ho con loro alcun contatto da allora. 

La lega una parentela a Barbara Meloni e Simona Meloni? La prima residente a Roma, la seconda a Madrid. Entrambe azioniste nella società spagnola con Francesco Meloni e Matano?

Barbara e Simona Meloni sono, come ho scritto, mie sorellastre, da parte di padre. Con loro ho sempre avuto pochissimi rapporti, con eccezione del periodo che vi ho indicato, e quei rapporti sono interrotti completamente da circa vent’anni, per ragioni personali che non ritengo di dover condividere. Per questo ho sempre scelto di non farne menzione. Non considero giusto che persone che di fatto non fanno parte della mia vita e che non hanno ruoli pubblici vengano tirate in ballo e piazzate sui giornali con le loro vicende personali a causa mia, ovvero a causa del vostro spasmodico bisogno di attaccare me e gettare ombre su chiunque abbia, o abbia mai avuto a che fare con me.

Conosce l'avvocato Romolo Reboa, candidato alle ultime regionali in sostegno di Rocca presidente?

Lo conosco di vista, ma non ho mai avuto con lui rapporti degni di rilievo. 

Ora che ho risposto alle vostre domande, con la tranquillità di chi non ha nulla di cui vergognarsi, consentite a me di fare una domanda. In questa inchiesta – che immagino sia costata a voi e ad altri mesi di lavoro, impiego di risorse e personale – avete ravvisato degli illeciti, in questi fatti di vent’anni fa? Vi è una notizia da offrire ai lettori, qualcosa che il Presidente del Consiglio avrebbe fatto di illegale? Vi è qualcosa per cui valga la pena mettere la vita personale della mia mamma in piazza, riaprire vecchie ferite, gettare ombre su persone oneste che non sono personaggi pubblici e non vi hanno fatto nulla di male? Qualcosa di sbagliato, come, che so, chiedere prestiti per centinaia di milioni di euro che poi sono diventati incagli di una banca che lo Stato ha dovuto salvare con i soldi dei cittadini?

Perché se gli illeciti non ci fossero, come io sono certa che sia, allora quale è l'obiettivo di questo presunto scoop? Ve lo dico io. Mettere un po' di fango nel ventilatore e accenderlo. Sperando che, comunque vada, un po' di fango rimanga attaccato. Colpire tutte le persone che mi sono vicine, che mi vogliono bene, a una a una, giorno dopo giorno. E farmi perdere la calma, la lucidità, nella speranza che faccia qualche passo falso. 

Ma non accadrà, perché io so esattamente chi sono. Sono una persona onesta e libera, e mi sono convinta che sia proprio questo a farvi impazzire. Perché significa che nella vita si può fare qualcosa di grande senza doversi comportare in modo squallido o compiacere persone meschine. Qualcosa che altri, evidentemente, non possono rivendicare con la stessa forza. Fatevene una ragione, mi vedrete camminare sempre a testa alta.

Gli attacchi di Meloni e le risposte di Domani. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 13 maggio 2023

Qualche giorno fa abbiamo mandato una serie di domande alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. In merito all’inchiesta sugli affari incrociati della sua famiglia

La premier ha risposto senza smentire una riga di quanto abbiamo scritto, ma aggiungendo una lunga postilla in cui attacca duramente Domani e ponendoci a sua volta alcune domande capziose, a cui però rispondiamo volentieri

Chi rappresenta le istituzioni dovrebbe evitare il vittimismo e non lanciare insinuazioni volgari. Il nostro unico auspicio, da cittadini, è solo uno: che lei governi al meglio il paese

Come sanno i nostri lettori, qualche giorno fa abbiamo mandato una serie di domande alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. In merito all’inchiesta sugli affari incrociati della sua famiglia, un lavoro a cui per mesi hanno lavorato Giovanni Tizian e Nello Trocchia insieme ai colleghi della testata spagnola El Diario.

Un’investigazione che potrebbe riscrivere in parte la narrazione mediatica che la leader e sua madre Anna Paratore hanno costruito intorno alla figura del padre. Un narcotrafficante deceduto dieci anni fa, di cui le Meloni hanno chiarito non avere più rapporti dagli anni Ottanta. La leader ha risposto alle domande senza smentire una riga di quanto scritto. Aggiungendo però una lunga postilla in cui attacca duramente Domani. La premier ci ha posto a sua volta alcune domande capziose, a cui però rispondiamo volentieri. 

L’INTERESSE PUBBLICO

Il capo della destra ci chiede, in primis, se «in questa inchiesta avete ravvisato degli illeciti, qualcosa che il presidente del Consiglio avrebbe fatto di illegale». A parte le condanne ricevute dal padre, dall’ex socio della madre Raffaele Matano e dalla sorellastra, no. Ma il giornalismo d’inchiesta non si occupa di scovare reati, quello è lavoro dei giudici. La stampa – la premier è giornalista professionista e dovrebbe saperlo  – ha però tra i suoi compiti quello di fare le pulci ai potenti di turno, e raccontare fatti di interesse generale all’opinione pubblica. Svelare che il padre narcotrafficante e la madre della presidente del Consiglio, che ha sempre giurato di non avere notizie né rapporti con l’ex marito da 35 anni, avevano un socio d’affari comune quando Meloni faceva già politica, e che lo stesso Matano è stato compagno della madre, è secondo noi una notizia degna di essere pubblicata.

VERITÀ E PROPAGANDA

La premier si lamenta poi di come avremmo «messo in piazza la vita personale di mia mamma» e di aver «riaperto vecchie ferite». Ma è stata proprio lei a dirci della relazione di Paratore con il socio del padre, fatto di cui non eravamo a conoscenza. I dettagli sulla sua famiglia, inoltre, sono stati narrati per la prima volta dalla premier nella sua autobiografia, non da Domani. Che sta solo cercando di capire se la propaganda della leader sia del tutto genuina, oppure no. «Io sono una persona onesta, vi faccio impazzire. Il vostro obiettivo è farmi perdere la calma, nella speranza che faccia qualche passo falso», è la conclusione. Una chiusa non degna di chi siede a palazzo Chigi. Chi rappresenta le istituzioni dovrebbe evitare il vittimismo e non lanciare insinuazioni volgari. Il nostro unico auspicio, da cittadini, è solo uno: che lei governi al meglio il paese. Tra nostalgie fasciste, gestione inumana dei migranti, ritardi sul Pnrr e l’assalto alle poltrone di stato, sembra una speranza vana. 

EMILIANO FITTIPALDI

Nato nel 1974, è direttore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

In contemporanea i due quotidiani pubblicano inchieste sulla Presidente del Consiglio. Meloni nel mirino: le inchieste sulla sua famiglia di Domani e di Repubblica. Redazione su Il Riformista il 14 Maggio 2023

Il Domani e su Repubblica pubblicano due lunghe inchieste sulle società e sugli affari della madre e dell’entourage stretto della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

La storia era parzialmente nota ma si arricchisce di particolari significativi, tutti però che riguardano solo la cerchia stretta dell’attuale Presidente del Consiglio ed in particolare sua madre Anna Paratore e Milka Di Nunzio, una delle migliori amiche di Giorgia. A quanto si legge in particolare sul Domani, è il 2012 quando le due acquistano le quote di una società, la Raffaello Eventi srl, che per qualche anno ha gestito il B-Place, un locale alla moda a Roma, in zona Eur. Il costo di acquisto è decisamente modesto: 2000 euro ciascuna, per un totale quindi di 4000 euro.

Inchieste sulla famiglia Meloni: quando su Renzi Fratelli d’Italia era tutto fuorché garantista

Fin qui una storia già nota. La novità che in particolare il Domani svela è che quattro anni dopo, nel 2016, anno della candidatura di Giorgia a Sindaco di Roma, le quote vengono rivendute ad una cifra circa 20 volte superiore a quella dell’acquisto, e in particolare a 39 mila euro per Milka Di Nunzio e a 48 mila per la mamma di Giorgia, Anna Paratore. Il pagamento sarebbe stato assai dilazionato nel tempo: 30 rate mensili fino a luglio 2018. La plusvalenza, si legge sempre nell’articolo, sarebbe dovuta “alla rinuncia dei crediti”, a fronte del fatto – si fa notare – che i crediti esigibili sarebbero stati 103 mila euro. E queste cifre, nonostante ci fossero in effetti crediti da esigere, alla redazione del Domani fanno sorgere sospetti. La società, precisa sempre il Domani, sarebbe poi stata rivenduta nello stesso anno a un uomo originario del Pakistan, con permesso di soggiorno in scadenza e residenza presso la mensa degli indigenti della Comunità di Sant’Egidio: un commercialista da noi contattato ci conferma che operazioni di questo tipo, con vendite a nullatenenti, sono a volte messe in atto quando ci si vuole liberare di società “decotte”.

L’articolo invece su Repubblica questa mattina si propone l’obiettivo di smontare la principale narrazione meloniana, quella dell’”underdog”, della sfavorita che nonostante tutto e nonostante tutti, ce la fa e riesce ad emergere, immortalata nel buon successo editoriale a firma dell’attuale Premier, il libro “Io sono Giorgia”. Secondo Repubblica, questa narrazione sarebbe quanto meno poco realistica su molti punti. I dubbi che l’inchiesta di Repubblica pone riguardano innanzitutto l’appartamento alla Cammilluccia, zona residenziale decisamente costosa di Roma Nord, dove Giorgia e la sua famiglia nel 1979 si trasferiscono dalla Garbatella, dopo l’abbandono del padre trasferitosi improvvisamente in Spagna: acquistato per 47 milioni di lire dalla madre della Premier quando questa aveva 3 anni e quando, secondo ciò che risulta a Repubblica, la mamma di Giorgia al tempo aveva un reddito annuo di 6 milioni. L’inchiesta poi si occupa del padre che nel libro viene descritto con durezza, come un uomo egoista e distaccato. L’uomo si trasferisce in Spagna dove acquista proprietà di grande valore e che nel 1995 viene arrestato e condannato a 9 anni di carcere per traffico di stupefacenti dal Marocco: storia già nota, peraltro. Sempre Repubblica ricostruisce gli affari della mamma della Premier, prevalentemente nel settore immobiliare, con alcune operazioni imprenditoriali di successo, tutte a Roma e dintorni. Tutto fuorché “underdog”, quindi, secondo Repubblica: quella narrazione non reggerebbe affatto.

Giorgi Meloni ieri aveva risposto a Domani in maniera molto categorica: «Non so nulla della società in Spagna e anche mia madre non ne rammenta nulla. E confermo di non aver avuto alcun rapporto con mio padre da quando ero ragazzina, né li ha più avuti mia madre», ha dichiarato la Premier per poi incalzare: “Perché se gli illeciti non ci fossero, come io sono certa che sia, allora quale è l’obiettivo di questo presunto scoop? Ve lo dico io. Mettere un po’ di fango nel ventilatore e accenderlo. Sperando che, comunque vada, un po’ di fango rimanga attaccato. Colpire tutte le persone che mi sono vicine, che mi vogliono bene, a una a una, giorno dopo giorno. E farmi perdere la calma, la lucidità, nella speranza che faccia qualche passo falso. Ma non accadrà, perché io so esattamente chi sono. Sono una persona onesta e libera, e mi sono convinta che sia proprio questo a farvi impazzire. Perché significa che nella vita si può fare qualcosa di grande senza doversi comportare in modo squallido o compiacere persone meschine. Qualcosa che altri, evidentemente, non possono rivendicare con la stessa forza. Fatevene una ragione, mi vedrete camminare sempre a testa alta.”

Il garantismo ad personam. Inchieste sulla famiglia Meloni: quando su Renzi Fratelli d’Italia era tutto fuorché garantista. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 14 Maggio 2023

Il garantismo non è ad personam. O si è coerenti sempre e, quindi, si è garantisti con tutti (dal politico al disgraziato di turno) oppure, sbagliando, s’invoca il garantismo a convenienza, quando inchieste dei media e operazioni di polizia giudiziaria coinvolgono il tuo partito o la tua sfera privata, salvo poi mantenere quotidianamente uno spirito giustizialista su tutte le altre vicende.

Ne sanno qualcosa Giorgia Meloni e gli esponenti di Fratelli d’Italia. Nelle scorse ore, infatti, Il Domani e Repubblica hanno pubblicato due inchieste sulle società e sugli affari della madre e dell’entourage vicino alla premier. Un lavoro che prova a smontare la narrazione meloniana dell’underdog, ovvero della sfavorita che, nonostante le difficoltà, ce la fa e riesce ad emergere, analizzando le attività economiche dei familiari della Premier e i presunti affari (e plusvalenze) della madre tra una casa acquistata nonostante un reddito basso e un bar rilevato e rivenduto a prezzi più alti.

Una inchiesta che riguarda gli affetti di Meloni e chiama in causa ancora una volta una vicenda dolorosa per la premier, ovvero quella relativa al rapporto con il padre (Francesco Meloni, deceduto da tempo), scappato via in Spagna e protagonista di vicende giudiziarie che vedono la Premier del tutto estranea.  Meloni, infatti, ha più volte raccontato il doloroso rapporto con suo padre, che la abbandonò quando lei aveva poco più di un anno e con il quale dall’età di 11 anni non ha più avuto rapporti. “Quale è l’obiettivo di questo presunto scoop? Ve lo dico io. Mettere un po’ di fango nel ventilatore e accenderlo” ha replicato Meloni a Domani, aggiungendo che il loro obiettivo è “colpire tutte le persone che mi sono vicine, che mi vogliono bene, a una a una, giorno dopo giorno”. Per poi concludere: “Fatevene una ragione, mi vedrete camminare sempre a testa alta”.

Meloni nel mirino: le inchieste sulla sua famiglia di Domani e di Repubblica

E’ doveroso però ricordare come gli stessi esponenti di Fratelli d’Italia, premier in testa, in passato tutto questo garantismo non lo invocavano. Anzi. La stessa Meloni in Parlamento e l’allora consigliere regionale toscano Giovanni Donzelli, presentarono addirittura due interrogazioni per provare a far luce sugli ‘affari’ dell’azienda di Tiziano Renzi, padre di Matteo, e sull’inchiesta Consip.

Una inchiesta che vide addirittura Donzelli definirsi non felice “ma arrabbiato” per l’arresto del padre di Renzi (finì per un breve periodo ai domiciliari) perché “sono anni che alcuni fatti sono arcinoti, alcuni li abbiamo denunciati in maniera incontrovertibile: mi sorprendo che siano emersi solo adesso”. Peccato per Donzelli che dopo un lungo calvario giudiziario i genitori di Renzi sono stati assolti dal processo sulle false fatture perché “il fatto non costituisce reato”.

La stessa Meloni, all’epoca, sfoggiò la solita retorica giustizialista e populista sulla società del padre di Renzi: “E’ normale che in un’Italia in cui gli imprenditori non riescono ad accedere al credito e si suicidano oltre 200mila euro di debiti della famiglia Renzi vengano pagati da fondi pubblici?”. Ma il tempo è galantuomo, è Meloni a distanza di anni avrà, si spera, sicuramente cambiato approccio su inchieste mediatiche e giudiziarie. La presunzione d’innocenza vale per tutti e per averne certezza basta chiederne conferma al ministro della Giustizia (voluto proprio dalla premier) Carlo Nordio, garantista DOCG.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Arianna Meloni querela Natangelo per la vignetta, furia del "Fatto". Libero Quotidiano il 04 agosto 2023

La battaglia sulla "vignetta incriminata" non è finita: Arianna Meloni, sorella del premier Giorgia, infatti ha querelato Mario Natangelo, disegnatore del Fatto Quotidiano, per l'ormai celebre "interpretazione" sulla sostituzione etnica. Nella vignetta in questione si vedeva Arianna Meloni, moglie di Francesco Lollobrigida, a letto con un altro uomo di colore.

Per la vignetta, Natangelo è stato sottoposto a procedimento disciplinare dall'Ordine dei giornalisti, procedimento poi archiviato. Ora l'ultimo capitolo: la querela di Arianna Meloni, che non ci sta a veder usata la sua immagine in quel modo, anche in considerazione del fatto che, a differenza del presidente del Consiglio, non ha ruolo di rilievo pubblico. 

La notizia della querela è stata data dal Fatto Quotidiano nell'edizione di oggi, venerdì 4 agosto. A corredo, la dura replica del Cdr, che parla di "decisione grottesca e pericolosa". E ancora: "Siamo sicuri che la magistratura escluderà qualsiasi reato. A Natangelo va tutta la solidarietà dei colleghi del Fatto Quotidiano. Non ci faremo certo intimidire da questa incredibile iniziativa", concludono dalla redazione diretta da Marco Travaglio.

Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” venerdì 4 agosto 2023. 

Non so se Giorgia Meloni abbia mai sentito parlare di quel meccanismo psicologico denominato “proiezione”. […] quando Giorgia Meloni […] è intervenuta alla presentazione delle Olimpiadi e paralimpiadi invernali Milano-cortina 2026 e ha dichiarato: “Questa è una nazione in cui molti tendono a farsi sopraffare da una sorta di sindrome di Calimero”, parlava esattamente di se stessa.

Se c’è qualcuno programmato per interpretare il ruolo del pulcino nero vittima dell’universo che trama contro di lui è proprio Giorgia Meloni. 

Nella sua strenua difesa della famiglia tradizionale con la sua famiglia tradizionale in cui la mamma si fa chiamare “il presidente” e il papà ha il ciuffo di Farrah Fawcett, Giorgia Meloni ha sempre puntato a trasformare il suo nucleo familiare nel simbolo del fortino minacciato. 

Fateci caso, lei e i suoi parenti di sangue o acquisiti sono tutti vittime, ex vittime, potenziali vittime, vittime designate perfino disegnate, se pensiamo a Natangelo e alla criminosa vignetta su Arianna Meloni.

[…] Giorgia ricorda che non bisogna piangersi addosso, ma lei era obesa e bullizzata, povera, abbandonata dal padre, a momenti manco nata, se la madre non ci avesse ripensato sull’uscio di una clinica. 

[…] Lei fa così tanto per tenere lontana la sua famiglia dalla ribalta, per preservare la sua famiglia dalle attenzioni della stampa e della politica e noi ci andiamo a cercare i suoi parenti con la torcia dell’iphone. 

Famiglia che, ovviamente, è vittima a sua volta. Il pulcino-cognato Lollobrigida, per esempio, è vittima di pettegolezzi, oltre che di inique accuse su raccomandazioni per via della sua parentela. Va detto una volta per tutte e a chiare lettere che la sua prozia Gina Lollobrigida non ha mai spinto perché diventasse ministro.

ARIANNA, la sorella-pulcino, è ovviamente vittima di vignettisti sessisti e criminali. Andava risparmiata dalla satira perché lei, proprio, con la politica non c’entra niente. […] In effetti attualmente è solo dipendente del partito, moglie di un ministro, sorella della presidente e probabile candidata alle Europee. 

La madre Anna è stata perfino “vittima all’occorrenza” quando al pulcino Giorgia è servito schermarsi dalle critiche col vittimismo. Dopo infatti che il pulcino Giorgia scrisse l’infelice sulle droghe e l’obesità definite “devianze” si è subito precipitata a tirar fuori una bella foto della madre per sottolineare come anche lei, mamma chioccia, poverina, soffra di obesità. 

Insomma, se non può usare il suo vittimismo, se lo fa prestare dai parenti. E finalmente arriviamo alla figlia. Anche lei è molto preservata dalla curiosità e dalle attenzioni della stampa perché, come dicevamo, Giorgia Meloni proprio non vuole che qualcuno possa commentare, notare, criticare i parenti. È per questo che la porta con sé giusto a due festicciole all’oratorio: a Bali per il G20 e in America in occasione del suo incontro con Biden. 

Siccome […] la visibilità della figlia le dà proprio fastidio, posta sui social una foto con lei sull’aereo e, con l’enfasi del Calimero che deve combattere contro tutti, scrive: “Io e te, che affrontiamo il mondo mano nella mano”.

Ora, va bene il vittimismo, […] va bene pure che il pulcino Giorgia, con la Santanchè nel suo governo, pensi di avere più problemi della Nato, ma non si capisce cosa debba affrontare la figlia a parte le tabelline in seconda elementare. Qualcuno le spieghi che l’unico serio rischio che ha corso la bambina è quello che Biden […] le franasse addosso. 

Comunque, inutile dire che anche quella foto in aereo è diventata un’ottima occasione per alimentare la sindrome di Calimero. 

I giornali di destra si sono indignati perché il Fatto ha pubblicato un fotomontaggio con il volto della bambina in braccio alla madre sostituito con quello di Renzi. Sarebbe uno sfregio alla bambina. Alla Meloni. Alla sorella.

Al cognato. A Ciuffo Giambruno. Al partito. A tutti. Non si capisce perché, ma qualunque cosa è buona per sostenere che la presidente sia attaccata, vessata, dileggiata. Del resto lei è “Calimero, piccolo e nero”. E no, non sto dicendo che è bassa e fascista, prima che Giorgia&c. ci si buttino a pesce.

Il vignettista Natangelo querelato da Arianna Meloni per la volgare vignetta sulla sostituzione etnica. L’ Ordine dei Giornalisti invece archivia…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Agosto 2023

Una vignetta del disegnatore Mario Natangelo. che secondo noi di satirico non aveva proprio nulla, ma soltanto frutto di palese volgarità, come giustamente l'ha definita Carlo Bertoli presidente dell' Ordine dei Giornalisti "sessista e disgustosa".

La vicenda è conseguente alla vignetta pubblicata lo scorso aprile sulla pagine del Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio (che per Legge dovrebbe risponderne a suo volta per “omesso controllo”)  ritraente la sorella della premier e moglie del ministro Francesco Lollobrigida, disegnata a letto con un uomo straniero: “Tranquillo, sta tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica“, rispondeva la sorella di Meloni davanti alle preoccupazioni dell’uomo sul possibile ritorno del marito. Una vignetta del disegnatore Mario Natangelo. che secondo noi di satirico non aveva proprio nulla, ma soltanto frutto di palese volgarità, come giustamente l’ha definita Carlo Bertoli presidente dell’ Ordine dei Giornalisti “sessista e disgustosa”.

La questione finì anche nell’aula di Montecitorio. A intervenire fu Augusta Montaruli parlamentare di Fratelli d’Italia , denunciando il “fango che vuole gettare discreto sulla vita delle persone sono per un attacco politico”. Sulla vignetta l’Aula della Camera dei Deputati espresse un disgusto bipartisan : “Non condivido una parola di ciò che ha detto Lollobrigida ma questa vignetta del Fatto Quotidiano è disgustosa“, disse, tra gli altri, Maria Elena Boschi, seguita da Carlo Calenda. 

Oggi Notangelo sul suo profilo Instagram si lamenta scrivendo che “Mi è stato notificato che Arianna Meloni, sorella della premier nonché leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, ha deciso di querelarmi”. In realtà più che una decisione di querelare, si tratta di elezione di domicilio conseguente alla sua iscrizione nel registro degli indagati a seguito di una querela ricevuta. “Colpevole su tutto di essere mia sorella– intervenne allora il premier– . Sbattuta in prima pagina con allusioni indegne, in sprezzo di qualsiasi rispetto verso una donna, una madre, una persona: la cui vita viene usata e stracciata solo per attaccare un governo considerato nemico“.

“Per conto mio continuerò a non commentare la vicenda: preferisco che a parlare per me, e per gli altri cento da educare, siano solo i miei disegni. E i miei legali”, ha scritto Natangelo a corredo del suo post pubblicato sui social. Il quale può stare tranquillo, a giudicare saranno dei magistrati e non qualche giornalista “sindacalizzato” componente del Consiglio di Disciplina, e quindi sodale con le posizioni antigovernative del Fatto Quotidiano.

Nelle motivazioni del consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio riportate dal Corriere della Sera: “Il fatto era reale, la frase del ministro sulla natalità aveva suscitato interesse (…). I tratti e le parole usate non erano offensive né insultanti. (…). Natangelo, con la sua matita satirica, ha esercitato il proprio diritto di critica senza superare i limiti (…). Per questi motivi il collegio archivia l’esposto presentato con votazione all’unanimità”, ha scritto il consiglio di disciplina dell’OdG. Sarebbe interessante conoscere le competenze giuridiche dei componenti del consiglio. E come mai le decisioni non sono rese pubbliche da un bel pò di anni…. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Gad Lerner per “il Fatto quotidiano” domenica 6 agosto 2023. 

Quando, il 20 aprile scorso, Giorgia Meloni rilanciò furbescamente sui suoi social la vignetta di Natangelo, lo fece sfoderando un repertorio vittimistico imperniato su un concetto: Arianna era “una persona che non ricopre incarichi pubblici, colpevole su tutto di essere mia sorella... donna, madre la cui vita viene usata e stracciata”. 

[…] Pazienza se entrambe le sorelle Meloni avessero già rilasciato numerose interviste per far sapere che Arianna era da sempre la più stretta collaboratrice di Giorgia, quasi una alter ego della premier. 

Neanche tre mesi dopo[…], quella finzione si è autodissolta grazie ai poderosi scatti di carriera che hanno formalizzato la di lei collocazione ai vertici di Fratelli d’Italia. 

Il 2 luglio veniva nominata responsabile del tesseramento, chiamata cioè a decidere chi possa arruolarsi e chi no nel principale partito di governo. Il 1º agosto, poi, veniva cooptata nel Cda della Fondazione Alleanza Nazionale, lo scrigno della destra post-missina che detiene il simbolo della fiamma tricolore, la testata Il Secolo d’Italia, ma soprattutto un patrimonio di 57 milioni fra proprietà immobiliari, fondi di deposito e titoli di Stato.

Si è così formalizzato – checché ne dicano le sorelle Meloni – che FdI è un partito a conduzione familiare. Altro che povera casalinga vilipesa. Arianna lo era già quando si pretendeva esente da satira, ma ora possiamo scrivere senza tema che figura tra le donne più potenti d’Italia. È da questa postazione che si lancia all’attacco di Natangelo per mettere la museruola ai vignettisti. Bando ai piagnistei, sono sicuro che può permettersi di pagare l’avvocato.

Estratto dell'articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 2 Agosto 2023

«Diciamo che stiamo virando verso un partito di stampo monarchico», scherza un deputato di Fratelli d’Italia. Da un collega che siede all’Europarlamento a Bruxelles ha appena ricevuto una telefonata con l’indiscrezione, che gira ormai in casa FdI da giorni, che per le prossime elezioni Europee non solo potrebbe essere capolista al Nord e nelle Isole la stessa presidente del Consiglio per trainare la lista, ma che Giorgia Meloni stia pensando di candidare anche la sorella Arianna nella circoscrizione Centro Italia. 

A coronamento di un percorso di Arianna in grande ascesa nel partito, dopo essere stata nominata nell’arco di poche settimane prima responsabile del tesseramento e poi componente in quota FdI del consiglio di amministrazione della ricca Fondazione Alleanza nazionale: un ente che ha in pancia depositi bancari per una trentina di milioni e beni immobili che valgono sul mercato circa 200 milioni.

[…] 

Una al governo, l’altra alla guida del partito che veleggia sondaggi alla mano intorno al 30 per cento e dà la direzione di marcia alla maggioranza in Parlamento. Una sempre sotto i riflettori, ragazza leader di Azione giovani, giovanissima ministra del governo Berlusconi e fondatrice e guida di Fratelli d’Italia. L’altra, la sorella maggiore, sempre nelle retrovie a lavorare dietro le quinte, meno appariscente anche del marito, il cognato d’Italia e ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. 

Ma adesso qualcosa in casa Meloni sta cambiando e Giorgia vorrebbe dare un ruolo istituzionale e politico (e ben remunerato) anche alla sorella: magari, appunto, facendola eleggere all’Europarlamento e togliendole il velo di Cenerentola della famiglia, che ama ripetere sempre di «essere la precaria più longeva nei gruppi consiliari della Regione Lazio», per rimarcare il suo essere una che «non cerca raccomandazioni».

[…] Arianna adesso sta prendendosi già un pezzo di palcoscenico come vuole anche la sorella. Lo fa a prescindere dal marito-cognato Lollobrigida, pure lui possibile candidato alle Europee insieme a una piccola squadra di ministri FdI perché Meloni (Giorgia) vuole l’impegno massimo di tutti per fare il “botto” alle prossime elezioni Europee. 

Ma per Arianna il discorso è diverso: una sua candidatura sarebbe un premio e il rafforzamento anche di un messaggio già inviato a tutta Fratelli d’Italia su chi comanda davvero nel partito e controllerà da adesso in poi tutto, fino a ogni spiffero in arrivo dai territori, dove si cerca maggior radicamento.

La nomina di Arianna alla guida del tesseramento è stata letta da molti dentro FdI come un modo per controllare quello che accade anche nell’estrema periferia del partito: avere in mano le tessere significa sapere cosa s i muove nelle sezioni più lontane da Roma e verificare in diretta chi nei Comuni vuole fare strada e tentare magari dei blitz. 

Altri hanno visto in questa scelta anche una sorta di commissariamento di Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione del partito […] 

Meglio Arianna, quindi, nominata nei giorni scorsi anche nel consiglio di amministrazione della Fondazione Alleanza Nazionale. Una poltrona che conta, perché la Fondazione ha in pancia tra liquidità e patrimonio immobiliare quasi 230 milioni di euro e finanzia iniziative di propaganda e comunicazione a vantaggio della “destra” che non possono andare certo in conflitto oggi con le posizioni della presidente del Consiglio.

Un evento non del tutto impossibile, quest’ultimo, considerando che nel cda siedono anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, Italo Bocchino, Gianni Alemanno e Giuseppe Valentino. Giorgia Meloni vuole che sia la sorella a controllare quello che accade in questo istituto dorato con tante teste calde e poco governabili, diciamo. […]

Giorgia Meloni e la sorella Arianna, legatissime fin da piccole: «È la persona migliore che abbia conosciuto». Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2023

Le due sorelle Giorgia e Arianna Meloni sono andate avanti «senza aiuti, anzi con molti ostacoli» dopo l'abbandono del padre. Di lei la premier dice: «Fino alla nascita di mia figlia Ginevra è stata la persona più importante di tutta la mia vita» 

Legate a doppio filo (di Arianna). Simbiotiche, indissolubili. Le sorelle Meloni si raccontano come Frodo e Sam, lo hobbit protagonista del Signore degli Anelli e il suo devoto e leale compagno. Fino alla fine del romanzo epico di Tolkien, che la premier ama e compulsa da sempre per essere «una straordinaria metafora sull’uomo e sul mondo», Samvise detto Sam resta al fianco di Frodo Baggins, spalla, ombra, braccio destro e sinistro dell’amico, così come Arianna lo è della leader della destra. La sorella maggiore, classe 1975, è di due anni più grande e per capire la premier e le sue reazioni bisogna cominciare da lei, magari sfogliando il capitolo Piccole donne dell’autobiografia Io sono Giorgia. «Siamo sempre state dinamite, insieme. Lei, semplicemente, fino alla nascita di mia figlia Ginevra è stata la persona più importante di tutta la mia vita». 

Così scrive l’autrice e rivela che «non c’è segreto che non le confessi, consiglio che non le chieda» e se non ci parla al telefono almeno una volta al giorno sente che le «manca qualcosa». Quando il padre commercialista abbandonò la moglie Anna e la famiglia, Arianna e Giorgia erano ancora bambine. «Siamo arrivati dove siamo senza aiuti, anzi con molti ostacoli», ha ricordato la lunga traversata verso Palazzo Chigi la moglie del cognato-ministro Francesco Lollobrigida. Sorella, amica e consigliera, sul piano personale e su quello politico, Arianna c’è sempre ed era anche a Milano pochi giorni fa, durante la visita della presidente del Consiglio al Salone del Mobile. 

Quando erano bambine toccava alla più grande raccontare le favole alla piccola di casa per farla addormentare e la premier non dimentica: «Non le dirò mai grazie abbastanza per l’amore che mi ha regalato... Perché lei, Arianna, è la persona migliore che abbia conosciuto su questa terra». Anche con queste parole, stampate in tiratura record, si spiega la rabbia con cui la premier ha reagito per difendere la sorella dalle «allusioni indegne» della vignetta del Fatto quotidiano, che entra nella camera da letto di casa Meloni-Lollobrigida dopo le parole (improvvide) del responsabile dell’Agricoltura sul rischio di sostituzione etnica. «Se qualcuno pensa di fermarci così sbaglia di grosso», avverte la fondatrice di Fratelli d’Italia. Arianna potrebbe dirlo con le parole di Sam al padron Frodo: «Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno». 

 Estratto dal “Venerdì di Repubblica” il 13 aprile 2023.

Ricordi che dopo la nomina della Giorgia de' noantri alla illustre carica, poiché in fondo, ma proprio in fondo, credo di avere qualcosa di buono nell'animo, ti scrissi che la consideravo intelligente, con una certa preparazione, forte di carattere, che prima di crocifiggerla bisognava vederla agire?

 […]  La sua furbizia e la sua tracotanza fanno aggio anche sulle sue doti intellettive. Si esprime nei dibattiti solo con la "Rissa" senza rendersi conto dove siede e che ora è la Presidente di tutti gli Italiani, non è solo la Capo Ultras dei Laziali.

Lei che si è dilettata per tanti anni all'opposizione dovrebbe sapere che, quelli che fanno ora opposizione a lei, la tampinano e la tallonano ovunque. È la Politica bellezza! I fatti di Governo poi... Spottoni elettorali a valere quante saranno le loro fortune, come saranno conteggiate. […]

 La mia costernazione è stata esaltata dall'assoluta mancanza di opposizione all'inequivocabile misfatto. In quanto nell'esercizio di "Dagli al pensionato" si sono esercitate tutte le maggioranze di governo degli ultimi venti anni, con l'esagerazione del pessimo Renzi. Mal gliene incolse. Nessuno tiene in debito che i pensionati ammontano in questo Paese alla grandissima somma di 16 milioni. In termini di voto quasi una maggioranza assoluta. Inoltre, Meloni la deve smettere con il tormentone che chi si oppone a lei sia da considerare un traditore che attenta ai destini della Nazione. Tanto da veder di nuovo sui muri il triste e noto detto: Taci, il nemico ti ascolta. Lettera firmata

 Risposta di Natalia Aspesi:

Ebbene sì, con pochissima considerazione speravo anch'io che la signora, essendo la prima donna a Palazzo Chigi, avrebbe potuto fare gesti epocali, ridando finalmente un grande spazio alle donne, anche per segnare il suo fatale ingresso come premier nel nostro governo.

 Prima cosa, ha subito preteso di essere chiamata al maschile, e non ha voluto sentir parlare di donne che tra l'altro, in quanto tali, si sono subito ritirate e quelle che parlavano di Schwa sono state le prime. Poi ha continuato ad occuparsi da "uomo" di tutte le grandi questioni rivelando una sua grande capacità di apprendere, questo davvero, per lo meno le lingue.

Ciò che ha poi fatto è stato quello di eleggere suoi ministri persone troppo indietro per capire cosa stava succedendo. E questo sono sicura che lo ha fatto apposta, sapendo di poter fare poi quel che voleva. Diabolica signora. Rozza, certo, ma molto furba. Poi ci vengono in mente la rivolta immensa di Parigi che ha mandato in tilt la grande città. E i nostri, con la fantasmagorica diminuzione delle pensioni, un sospiro di rinuncia e nessuna rivoluzione.

Fiorello: «La Giorgia Meloni di questa mattina al telefono era lei». Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023.

Il retroscena svelato dallo showman durante la cerimonia del Premio giornalistico Mario Sarzanini 

«Sì, la Giorgia Meloni di questa mattina era lei». Così Fiorello ha confermato che era la presidente del Consiglio l'imitatrice che si è collegata con "Viva Rai 2!" L'occasione si è presentata alla cerimonia del premio giornalistico "Mario Sarzanini", dove Fiorello ha ottenuto il riconoscimento per il "giornalismo non convenzionale". Secca la risposta a chi gli chiedeva di svelare il mistero della telefonata di questa mattina, se fosse o no la vera Giorgia Meloni: «Sì, era lei».

Lo scherzo telefonico ha lasciato a lungo il pubblico nel dubbio. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023.

Telefonata di Fiorello a «Viva Rai 2!», lunedì 20 marzo, ad una (presunta) imitatrice della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, talmente brava da risultare poi essere proprio lei.

Dall’altra parte della cornetta una voce di donna di nome Giorgia, a cui Fiorello chiede di rifare la battuta su Chiara Ferragni fatta alla Cgil: l’imitazione è perfetta. Poi le chiede di pronunciare il famoso slogan «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana...»: anche questa imitazione è perfetta. Poi Fiorello chiede all’imitatrice per chi ha votato e lei risponde, ridendo, «a sinistra». E sulle primarie del Pd, Giorgia, dice di non aver votato. Alla domanda se sappia imitare la Schlein, Giorgia risponde di «saper imitare solo la Meloni».

In serata lo showman durante la cerimonia del Premio giornalistico Mario Sarzanini ha confermato: «Sì, la Giorgia Meloni di questa mattina era lei».

Estratto da open.online l’1 marzo 2023.

 «La rivendicazione del diritto unilaterale di proclamarsi donna oppure uomo al di là di qualsiasi percorso, chirurgico, farmacologico e anche amministrativo andrà a discapito delle donne». Sono le parole della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che in un’intervista con la direttrice di Grazia, Silvia Grilli – in edicola domani – affronta temi che vanno dall’identità di genere, all’aborto, fino alla maternità surrogata.

 Per la premier – secondo cui esiste un «dato incontrovertibile» e cioè che «maschile e femminile sono radicati nei corpi» – le donne sono le «prime vittime dell’ideologia gender: la pensano così anche molte femministe», dice. «Oggi, continua, per essere donna, si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l’essenza, la differenza».

 Durante l’intervista rilasciata in occasione della giornata internazionale della donna, la premier esprime la sua opinione sull’utero in affitto, definito dalla stessa «la schiavitù del terzo millennio». «È la legge italiana a dire che questa pratica non è lecita, non io», continua Meloni che aggiunge, inoltre, come «commercializzare il corpo femminile e trasformare la maternità in un business» non possano essere «considerate delle conquiste di civiltà».

(...)

L’ho capito pienamente quando lui è morto, e mi sono resa conto della profondità della sofferenza che il suo vuoto aveva creato in me», dice. E poi: «Non conosco nessuno che rinuncerebbe a uno dei propri genitori o che sceglierebbe di essere cresciuto solo dal padre o dalla madre. I bambini hanno il diritto di avere il massimo: una mamma e un papà», conclude la presidente del Consiglio.

 «A una donna che sta per abortire dico di darsi una possibilità: non è sola»

Nel corso della stessa intervista, Meloni parla anche di aborto: «A una donna che sta per abortire direi di provare a darsi una possibilità, che non è sola, che lo Stato le darà gli strumenti necessari per non negare a se stessa la gioia di crescere suo figlio, di metterlo al mondo nelle migliori condizioni possibili», afferma la premier, intervistata dalla direttrice del magazine.

Giorgia Meloni: «Donne vittime dell’ideologia gender». Protesta la comunità Lgbt: «Parole che rovinano la vita». La presidente del Consiglio in un’intervista attacca l’identità di genere e la comunità trans e le famiglie omogenitoriali. Si sollevano le più importanti sigle arcobaleno: «Non sa quello di cui parla. Dalla destra solo fake news». Simone Alliva su L’Espresso l’1 marzo 2023.

"Parole che rovinano la vita", così vengono accolte le dichiarazioni della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, pronunciate durante un'intervista al settimanale Grazia in occasione della Festa della donna colpiscono la comunità Lgbt che reagisce con sdegno.

La Presidente del Consiglio attacca in una sola intervista l'identità di genere (“ Le donne sono le prime vittime dell'ideologia gender. La pensano così anche molte femministe”) e la comunità trans ("No al diritto unilaterale di proclamarsi donna"), il diritto all'aborto ( "direi di darsi una possibilità di essere madre, lo Stato l'aiuterà") e la genitorialità ("I bambini hanno il diritto di avere il massimo: una mamma e un papà. L'utero in affitto è la schiavitù del terzo millennio").

A rispondere duramente a queste parole è Porpora Marcasciano attivista storica del Movimento Lgbt italiano e presidente onoraria del Mit – Movimento Identità Trans di Bologna di cui è stata fondatrice: «Le sue parole fanno capire che viaggia su un binario diverso da quelli che sono le posizioni scientifiche e soprattutto la realtà di milioni di persone nel mondo. In opposizione alla scienza e alla vita delle persone. Loro sono culturalmente e politicamente contrari a queste esperienze di vite significative e non ci sorprende». E sul concetto di ideologia gender Marcasciano spiega a L'Espresso: «Invito la Presidente a declinare genere in italiano, forse le farà meno paura. Usarlo in inglese è una furberia che richiama l'ignoto, regala quell'effetto messa in latino e spaventa. Si chiama identità di genere, è un concetto scientifico. Il “gender”, “ideologia gender” o “la teoria del genere” sono categorie polemiche create dal Vaticano, uno spauracchio che minacciava la famiglia. Sappiamo che loro, come tutti coloro che erano presenti al Congresso di Verona nel 2019 sono contrari a tutto questo e sappiamo che stanno lavorando sottotraccia. Ci aspettiamo delle sorprese non piacevoli sulla nostra pelle. Ma poiché siamo abituate a conquistarcele le cose, resisteremo e risponderemo colpo su colpo».

Sulla stessa linea la presidente nazionale dell'Arcigay Natascia Maesi: «Quella che Meloni definisce sommariamente "proclamazione” non è un atto arbitrario, un'alzata d'ingegno, un vezzo o un capriccio. È l'affermazione della propria identità di genere. L'identità di genere è la percezione stabile che ogni persona ha di sé. Tutte le persone hanno una identità di genere che è indipendente dal sesso che ci è stato assegnato alla nascita. Gli studi di genere - che non sono un'ideologia ma un ambito di studi che tiene assieme punti di vista anche dissimili - non negano i corpi in cui nasciamo, né la differenza tra essi, ma mettono in discussione i ruoli di genere costruiti socialmente in base a questa differenza e i rapporti di potere che ne derivano».

«Rivendichiamo - aggiunge - il diritto all'autodeterminazione di ogni persona, il riconoscimento di tutti i percorsi di affermazione di genere sia quelli che prevedono il ricorso a terapie ormonali ed interventi chirurgici, sia quelli non medicalizzati, perché chi ha una l'identità di genere non conforme alle aspettative sociali non ha una patologia da curare e non è una minaccia per la società, tanto meno per le donne, che sanno benissimo cosa vuol dire pagare il prezzo della propria differenza».

«Parole che rovinano la vita delle persone Lgbt». Non usa mezzi termini Mario Colamarino, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli. «Ancora una volta la Presidente Meloni parla senza sapere quello che dice. Già nel 2021 durante una conferenza stampa nella sede di Fratelli d’Italia, dichiarò di non aver mai capito bene cosa vuol dire il termine gender a cui lei stessa fa opposizione. Infatti è una grande fake news. Sulla pelle della comunità trans si continua a fare propaganda non curante degli effetti negativi di disumanizzazione e percezione. Grave che questa operazione di disinformazione venga dalla Presidente del Consiglio».

«Non capisco l’insistenza della Presidente Meloni nel paragonare le famiglie omogenitoriali alla sua condizione familiare. Suo padre l’ha abbandonata ed è una storia molto triste ma non è la nostra - commenta a L’Espresso Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno, l’associazione di genitori omosessuali - i nostri figli non sono abbandonati da nessuno. Parla di diritti dei minori eppure nega ai nostri figli i diritti di tutti gli altri bambini. I bambini hanno diritto al massimo, con noi hanno il massimo. Li abbiamo fortemente voluti, abbiamo girato il mondo per farli nascere, abbiamo lottato e continuiamo a lottare per farli riconoscere legalmente. Suo padre legalmente e biologicamente non l’ha tutelata e mi dispiace ma io tutelo mio figlio da quando è nato anche se lo Stato non mi ha riconosciuto come madre. Meloni dovrebbe adoperarsi per cancellare le discriminazioni dei cittadini, questo è il suo ruolo». Unica stecca nel coro Arcilesbica, associazione che negli ultimi anni si è sempre distinta per le sue posizioni trans-escludenti, che ha applaudito le parole di Meloni.

Meloni smonta l'ideologia gender: "Maschile e femminile radicati nei corpi, dato incontrovertibile". Il premier demolisce l'ideologia gender e avverte: "Andrà a discapito delle donne. Ne sono le prime vittime". Francesca Galici lì1 Marzo 2023 su Il Giornale.

Giorgia Meloni è tornata a esprimersi sull'ideologia gender tanto cara a una certa sinistra, sottolineando quali sono i rischi concreti di una pressione così forte in quella direzione in un'intervista rilasciata al settimanale Grazia, in edicola da domani. "Oggi si rivendica il diritto unilaterale di proclamarsi donna oppure uomo al di là di qualsiasi percorso, chirurgico, farmacologico e anche amministrativo. Maschile e femminile sono radicati nei corpi ed è un dato incontrovertibile", ha spiegato il presidente del Consiglio, che in queste ore è in viaggio per l'India.

L'ideologia gender, il disconoscimento dell'esistenza di due generi distinti, secondo Meloni, andrà a discapito delle donne. Ma non lo dice solo il premier perché, come riportano le cronache, ci sono numerosi gruppi femministi non idealizzati e politicizzati all'interno di una certa corrente, che sollevano i medesimi dubbi: "Oggi per essere donna, si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l'essenza, la differenza. Le donne sono le prime vittime dell'ideologia gender. La pensano così anche molte femministe". Le parole del presidente del Consiglio trovano conferme in numerosi casi che vengono riportati, fattispecie estreme che, però, delineano con chiarezza quale può essere la deriva di questa ideologia. Solo poche settimane fa, la Scozia che si fa portabandiera del sistema gender, è stata costretta a fare marcia indietro davanti al caso di un detenuto in carcere per stupro che, dopo essersi dichiarato transgender, è stato assegnato a una sezione femminile, prima di un repentino cambio di idea, visti i pericoli concreti.

Questo è solo uno degli esempi che possono essere portati per spiegare i rischi di un progetto portato avanti senza criterio, per pura ideologia, senza considerarne conseguenze sul mondo reale. Nella sua intervista, Giorgia Meloni si dimostra in tal senso più femminista di molte che sbandierano il woman-power senza concretezza: "Ritengo da sempre che le donne abbiano una grande forza autonoma che vada liberata dai mille ostacoli che la ingabbiano ma anche dai tabù di cui spesso le stesse donne rimangono vittime. Non credono di potercela fare a competere con gli uomini e finiscono per competere tra loro stesse, convinte che ci sia un livello più basso nel quale relegare le proprie competenze".

Da Arcilesbica è stato apprezzato l'intervento di Giorgia Meloni. La presidente Cristina Gramolini ha dichiarato: "Sono d'accordo con la Meloni sul fatto che dare la possibilità ad un uomo di dichiararsi donna, al di là di qualsiasi percorso chirurgico, farmacologico e amministrativo, danneggi le donne. Concordo con il fatto che non si può saltare il corpo sessuato, cioè non si è donna essendo di sesso maschile per la sola autodichiarazione, questo nuocerebbe alla realtà e alle donne , ad esempio negli sport femminili o nelle politiche di pari opportunità". Sull'ideologia gender, Gramolisi spiega di concordare ma nella misura in cui si "dice che si è uomini e donne nel tempo in modi diversi, che non è naturale la maschilità e la femminilità, mentre è naturale il corpo femminile e maschile. I ruoli sessuali sono storici, i corpi sono naturali".

La presidente di Arcilesbica sta con Meloni: “L'ideologia gender danneggerà le donne”. Il Tempo l’01 marzo 2023

Giorgia Meloni interviene a gamba tesa sulla discussione sull’ideologia gender. La presidente del Consiglio ha rilasciato un’intervista a Grazia nella quale commenta i possibili rischi di tale deriva: “Oggi si rivendica il diritto unilaterale di proclamarsi donna oppure uomo al di là di qualsiasi percorso, chirurgico, farmacologico e anche amministrativo. Maschile e femminile sono radicati nei corpi ed è un dato incontrovertibile. Tutto questo andrà a discapito delle donne? Credo proprio di sì - la certezza della leader di Fratelli d’Italia -. Oggi per essere donna, si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l'essenza, la differenza. Le donne sono le prime vittime dell'ideologia gender. La pensano così anche molte femministe”.

A concordare con Meloni c’è la presidente di Arcilesbica, Cristina Gramolini, intervistata dal sito dell’Ansa: “Sono d'accordo con Meloni sul fatto che dare la possibilità ad un uomo di dichiararsi donna, al di là di qualsiasi percorso chirurgico, farmacologico e amministrativo, danneggi le donne. Concordo con il fatto che non si può saltare il corpo sessuato, cioè non si è donna essendo di sesso maschile per la sola autodichiarazione, questo - l’avviso - nuocerebbe alla realtà e alle donne , ad esempio negli sport femminili o nelle politiche di pari opportunità”.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 30 gennaio 2023.

Adesso ogni sera nei tg compare lui: Tommaso Foti. Il volto bonario del melonismo. In genere ci dice che grazie alla nostra premier l'Italia è tornata a farsi rispettare nel mondo. […] Anche Giovanni Donzelli è diventato un volto familiare. Duella forsennatamente nei talk. Ma lui in tv ci andava già quindici anni fa […]

I veri potenti in famiglia

In questi primi cento giorni abbiamo imparato a conoscere le idee di Gennaro Sangiuliano […] La battaglia delle idee finora è stata affidata anche ad Eugenia Roccella […] I veri potenti però bisogna cercarli in famiglia. Come Francesco Lollobrigida, il cognato. "Lollo". […] parente fidato, vicepremier ombra. […] Sullo stesso gradino, ma invisibile, la sorella, Arianna Meloni, la moglie di Lollobrigida. […] È la coordinatrice delle decisioni che contano.

[…] L'altra eminenza grigia è Patrizia Scurti, la responsabile della segreteria, che indovina i pensieri della leader, al punto dal portarle un bicchiere d'acqua quando la voce di Giorgia s'inceppa in un comizio […] La più ambiziosa, dicono, è Chiara Colosimo, "la nuova Meloni". Viene dalla Garbatella, come la premier. Arianna Meloni è stata la sua capo segretaria. […]

[…] La sera, a casa, nel bilocale a Roma, Donzelli divide la cucina con Andrea Delmastro Delle Vedove, il sottosegretario alla Giustizia, che ha suggerito di punire i giornalisti per la pubblicazione delle intercettazioni. […] È una classe dirigente che sa di avere addosso gli occhi dell'Europa. Ogni tanto tuttavia qualcuno cede al richiamo della foresta. […] Il viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli […] ha proposto il carcere per i clienti delle prostitute se sorpresi svestiti in luogo pubblico […] Foti ha suggerito di uccidere i cinghiali che scorrazzano per Roma con carabine caricate col sonnifero. […] È questo il nuovo partito conservatore.

Estratto da professionereporter.it il 21 giugno 2023.

Archiviazione. Finisce così il caso Natangelo, la storia della vignetta su “casa Lollobrigida”, con una signora (evidentemente Arianna Meloni, la sorella della Presidente del Consiglio Giorgia, sposata con il ministro Francesco Lollobrigida) a letto con un uomo di colore. 

Pubblicata sul Fatto Quotidiano del 19 aprile. Titolo: “Obiettivo incentivare la natalità. Intanto in casa Lollobrigida…”. Lui: “E tuo marito?”. Lei: “Tranquillo, sta tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica”. 

Lollobrigida il giorno prima aveva detto al Congresso della Cisal: “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada”. 

Il Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, Guido D’Ubaldo, ha ritenuto opportuno sollecitare il Consiglio regionale di disciplina dell’Ordine, per verificare se c’erano, nella vignetta, violazioni del Testo unico dei doveri del giornalista. Suscitando molte polemiche, nel nome della libertà di satira.

Il Consiglio di disciplina -come dovuto- per due volte ha convocato Mario Natangelo, che per due volte non si è potuto presentare. Il suo avvocato, Cristina Malavenda, nota esperta di questioni editoriali, legale da anni anche del Corriere della Sera, ha mandato una memoria. Il 20 giugno il collegio designato dal Consiglio di disciplina ha deciso per l’archiviazione: nella sua vignetta, Natangelo non ha violato alcuna norma della deontologia professionale, ha stabilito. La decisione è stata comunicata all’interessato. […]

Il Fatto Quotidiano il 21 aprile aveva rilanciato, dedicando la sua prima pagina alla vicenda, con il titolo: “Il nuovo Minculpop ha il terrore delle vignette”. Il Minculpop era la sigla del Ministero della Cultura Popolare durante il fascismo. E aveva annunciato per il giorno dopo un inserto speciale: “Tutto Nat”. 

Al centro della prima pagina c’era, intanto, un’altra vignetta di Natangelo, “riparatoria”, secondo la didascalia. Di nuovo “casa Lollobrigida”, ma stavolta a letto c’è il ministro e non più l’uomo di colore. Lui: “Come dici cara?”. Lei: “Mah, preferivo la vignetta di prima… No, gnente, bonanotte, France'”. 

Natangelo è napoletano, ha 38 anni, collabora con il Fatto dalla fondazione (2009).

Estratto dell’articolo di Maria Elena Viola per “Donna moderna” il 27 gennaio 2023.

Giorgia Meloni […] Prima donna premier nella storia d'Italia e, in più, mamma di una bimba di 6 anni. Il bilancio "personale" di questi primi 100 giorni.

«La mia vita è diventata più frenetica, ma non meno entusiasmante. […] Certo, […] questo ha reso ancor più complicato riuscire a conciliare famiglia e lavoro, ma cerco di mettercela tutta per ritagliarmi più tempo possibile per stare con Ginevra. A volte riesco di più, altre meno, ma ho la fortuna, che tantissimi altri genitori in Italia non hanno, di poter contare su diverse persone che mi danno una mano. Andrea è un padre straordinario, estremamente presente e attento, e sa arrivare dove io non riesco. Poi ci sono mia sorella Arianna, i nonni di Ginevra, la mia assistente Patrizia che risolve mille problemi, la tata di Ginevra, Betty, che ormai è parte della famiglia: sono insostituibili, e insieme a me fanno i salti mortali per stare dietro a tutto».

 Ci racconti una sua giornata tipo.

«È un po' come essere dentro un grande frullatore. Palazzo Chigi è una macchina che lavora h24, 7 giorni su 7, 365 giorni all'anno. Non ci si ferma mai. […] Il rischio è quello di essere completamente assorbiti, essere risucchiati del tutto, senza lasciare spazio a se stessi e alla famiglia.

 Faccio il possibile per accompagnare mia figlia a scuola, quando riesco, e per tornare a casa alla sera per metterla a dormire, come ho cercato di fare sempre. Leggerle i libri, giocare e parlare prima che si addormenti è la nostra tradizione. Per questo cerco di limitare al massimo le notti fuori casa […]».

[…] Il suo compagno come ha vissuto il suo nuovo ruolo? Per gli uomini non sempre è facile accettare che la compagna abbia una posizione più importante...

«Direi che solo gli uomini poco sicuri di se stessi e che hanno una visione distorta della donna vivono con fastidio la possibilità di aver al loro fianco una moglie o una compagna con una posizione più importante. Andrea non rientra in questa categoria».

 Sono molti i pregiudizi verso di lei. In questi mesi hanno avuto da ridire su tutto, dal look alla figlia al G20. Chi l'attacca di più, gli uomini o le donne?

«[…] È una statistica che non ho mai fatto e che sinceramente non mi interessa fare. Diciamo che sono una che agli insulti e alle critiche, anche le più feroci e cattive, è abituata. Infatti rispondo solo di rado. Rispondo più volentieri alle critiche, soprattutto quelle surreali, come ho fatto quando si è aperto il dibattito perché avevo portato con me Ginevra al G20 di Bali. Non credo che gli opinionisti o altri politici debbano sindacare anche su come crescere mia figlia».

Lei è una "prima della classe". Come la gran parte delle donne, studia, non improvvisa. Prova mai la cosiddetta "sindrome dell'impostore", ovvero quella ingiustificata sensazione di non essere all'altezza? […]

«È una sensazione che conosco bene. Sono cresciuta con l'idea di non meritare nulla. Non mi sento mai pronta e ho sempre paura di non essere all'altezza. Ma credo che questa paura sia anche la mia forza. E quello che mi spinge a non smettere mai di studiare, a essere così pignola […]»

[…] Come ha vissuto la bambina questo suo incarico così importante?

«Quando abbiamo vinto le elezioni mi ha scritto un biglietto: ."Cara mammina, sono tanto felice che hai vinto. Ti amo tanto". È stato un colpo al cuore, mi ha emozionato tantissimo. Ginevra non ha compreso benissimo quello che è successo, ma ha capito che ora la mamma fa un lavoro molto importante, che è più impegnata di prima e che spesso non può essere con lei. Ma è una bambina molto paziente e sa che faccio tutto questo per lei.

Poi a volte mi rimprovera per le mie assenze, e il mio cuore diventa una nocciolina. In ogni caso, cerchiamo di farla crescere tranquilla, proteggendo la sua infanzia e la sua intimità, evitando di farle vivere situazioni non adatte a una bambina della sua età. Trasferirsi a vivere a Palazzo Chigi, per esempio, sarebbe stata una di queste. Voglio che Ginevra faccia una vita normalissima».

 […] Perché ha deciso di farsi chiamare Presidente al maschile? Potrebbe cambiare idea?

«Ma, guardi, questa vicenda è nata soprattutto da un disguido. Sicuramente io penso che la parità uomo-donna non si risolva dicendo insegnanta" o "capatrena". Ma, a parte questo, gli italiani possono chiamarmi come preferiscono. Anche Giorgia».

Meloni: «Temo sempre di non essere all’altezza, così studio. Il mio compagno? Nessun fastidio per il mio ruolo». Edoardo Lusena su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

La vita pubblica, quella privata e gli impegni istituzionali in un’intervista della presidente del Consiglio a «Donna Moderna». E sulla giornata tipo a Palazzo Chigi: «Come essere dentro un grande frullatore ma è un privilegio».

L’impegno istituzionale, la vita privata, i diritti. Giorgia Meloni si racconta al periodico «Donna Moderna» in una chiave più intima di quanto la presidente del Consiglio non sia solita mostrare.

«Chigi un frullatore, ma è un privilegio»

La vita quotidiana, intanto. «È diventata più frenetica, ma non meno entusiasmante. Servire la Nazione come presidente del Consiglio è un privilegio che va onorato ogni giorno con tanto lavoro, dedizione e senso di responsabilità» spiega la premier, che - sulla giornata tipo a palazzo Chigi - aggiunge: «È un po’ come essere dentro un grande frullatore. Palazzo Chigi è una macchina che lavora h24, 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno. Non ci si ferma mai. Enrico Mentana la definirebbe una `maratona´. È esattamente così: si è sempre in diretta, senza pause. Il rischio è quello di essere completamente assorbiti, essere risucchiati del tutto, senza lasciare spazio a se stessi e alla famiglia».

Le insicurezze come punto di forza

Le premier poi concede alla rivista una riflessione intima sulle proprie insicurezze: «Sono cresciuta con l’idea di non meritare nulla. Non mi sento mai pronta e ho sempre paura di non essere all’altezza. Ma credo che questa paura sia anche la mia forza. E quello che mi spinge a non smettere mai di studiare, a essere così pignola e a voler dimostrare anche più di quello che a volte sarebbe necessario». È la `Sindrome dell’impostore´? «Preferisco una parola straordinaria che usano i greci: meraki, fare qualcosa con tutto te stesso, con tutta la tua passione e con tutta la tua anima», risponde.

La famiglia come isola

Faccio il possibile per accompagnare mia figlia a scuola, quando riesco, e per tornare a casa alla sera per metterla a dormire, come ho cercato di fare sempre. Leggerle i libri, giocare e parlare prima che si addormenti è la nostra tradizione. Per questo cerco di limitare al massimo le notti fuori casa, facendo di tutto per tornare anche quando sono all’estero. Certo, a volte è impossibile, ma cerco di non perdere tempo, di comprimere al massimo l’agenda. Preferisco saltare il pranzo che tornare troppo tardi la sera. Non solo perché è importante per Ginevra, e per Andrea, ma perché lo è per me. Ci sono giornate che sembrano tragiche, poi torni a casa, stai un po’ con Andrea, con Ginevra e il suo entusiasmo, sai che stanno bene, e ti rendi conto che tutto il resto si supera».

Il compagno e il ruolo di Meloni

Quanto al compagno, il giornalista Mediaset Andrea Giambruno, Meloni non ha dubbi: «Solo gli uomini poco sicuri di se stessi e che hanno una visione distorta della donna vivono con fastidio la possibilità di aver al loro fianco una moglie o una compagna con una posizione più importante. Andrea non rientra in questa categoria». Poi Meloni parla della figlia Ginevra: Qual è l’insegnamento più grande che vorrei darle? «Che le scorciatoie nella vita non esistono. Devi prendere la strada lunga o rischi di arrivare alla meta senza avere il bagaglio adatto, e allora puoi farti male. E se credi in qualcosa, non devi mai avere paura di difenderlo. Anche se ne pagherai le conseguenze. La coscienza è l’unico giudice davvero disinteressato di cui disponi».

Se avrò dieci minuti di tempo sarà per le canzoni non per lui»

 Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Foglio” il 4 maggio 2023.

Sarà stato lui a consigliarle quel video. Sicuro. D’altronde lavora in televisione da 15 anni. Magari glielo avrà sussurrato sulle scale mobili del centro commerciale Laurentina (la loro Roma nord a Roma sud) o forse sotto al Big Ben a Londra, alla vigilia proprio del Primo maggio. 

“No, Giorgia ha una comunicazione che funziona molto bene e che si è inventata questa trovata che ha spaccato”, dice al Foglio Andrea Giambruno, compagno della premier, papà di Ginevra, conduttore di “Diario del giorno” su Rete 4. Facciamo finta di crederci. 

Il video della sua Giorgia è l’auto sublimazione del potere: gli stucchi, le volte affrescate, le pareti damascate. “Scusa, ma doveva farsi riprendere dentro a una salumeria? In mezzo ai prosciutti? E’ il presidente del Consiglio, basta con questo pauperismo”. Doveva farsi fare anche domande dai giornalisti, non credi? Da collega. “Questa è una loro scelta, immagino che non mancheranno le occasioni”.

Hai lanciato il video autoprodotto da Meloni, prima di tutti, con enfasi e fanfare. “Faccio questo nella vita, e non sono un robot. Non trovo giusto che altri colleghi si arroghino il diritto di spiegarmi come si conduce una trasmissione. Ora, capisco che sono il compagno di Giorgia, ma non era un video di mia nonna: era del premier. 

Do un giudizio tecnico, e non politico: è stata una bella mossa, ed è giusto che sia stato girato a Palazzo Chigi, che è la casa degli italiani. Insomma, erano altri che facevano finta di servire le pizze ai tavoli: Giorgia doveva rinchiudersi in cantina?”. Il problema, niente di nuovo, […] “Non faccio la vittima perché non rientra nel mio carattere: faccio il giornalista da 15 anni. E questa situazione per me ha anche dei vantaggi professionali”. Ti riferisci alla trasmissione che presto sarà prodotta da Mediaset a Roma su misura per te visto che ora lavori a Milano? “Di questa cosa non so niente”. E noi non ci crediamo. 

“E fate male. L’ho appreso dai giornali, e niente di più. Non ne so niente”. E quali sono questi vantaggi? “Magari il decreto Lavoro ho chi me lo spiega se poi ne devo parlare in tv”. Tu e Giorgia a cena che parlate dei voucher o del taglio del cuneo fiscale: che immagine. “Non fare lo spiritoso. Magari ho fonti tra i suoi collaboratori che a me, come immagino ad altri, possono dare delucidazioni o dritte”.

Da quando Meloni ha stretto un patto con la famiglia Berlusconi anche la tua vita in Mediaset è migliorata? Prima eri sottoposto agli umori di Licia Ronzulli? “Quante ricostruzioni! Io mi interfaccio da sempre con la mia direzione, come gli altri miei colleghi”. Il governo sta per cambiare i vertici Rai, la destra meloniana è pronta a entrare a Viale Mazzini: Giambruno sogna una trasmissione nella tv di stato. “Lavoro qui da 15 anni e mi trovo benissimo e ho un ottimo rapporto con tutti, a partire dai miei superiori”. 

A dire il vero, la storia ha avuto curve più tortuose. A ottobre, al momento della formazione del governo, quando per esempio il Cav. decise di non votare Ignazio La Russa presidente del Senato, quando Forza Italia era ostile, quando proprio Berlusconi ricordò al mondo che il compagno di Meloni era un suo dipendente, proprio in quei momenti Giambruno scomparì dalla conduzione dei tg. Messo a fare cucina redazionale. Puff.

Una strana coincidenza nella legittimità della scelta di un’azienda privata. Su questo punto il giornalista, che sa stare al mondo, non proferisce parola. “Sto benissimo nella mia azienda”. Allora tu sei un aziendalista e filogovernista per fatto privato: ti offendi? “No, sono un giornalista che si trova in questo momento in questa particolare situazione che è transitoria come tutto nella vita”.  […]

Andrea Giambruno, compagno di Meloni: «Io diviso tra Milano e Roma, ho da accudire mia figlia. Giorgia? È a casa alle 23». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

Il compagno della premier e il ritorno in tv: «Sacrifici, ma questo so fare: raccontare. La famiglia? Organizzarsi a questa nuova vita è stato un girone dantesco»

Andrea Giambruno con la premier Giorgia Meloni e la figlia Ginevra durante l’udienza privata da Papa Francesco, in Vaticano

Andrea Giambruno, in questi tre mesi con la sua compagna Giorgia Meloni a capo del governo, cosa è stato più difficile del previsto e cosa meno?

«Sapevo che avrebbe dovuto viaggiare tanto, ma non pensavo tutti i giorni. È stata in Albania, Spagna, Bruxelles, Egitto, Indonesia. Organizzarsi è stato un girone dantesco».

Al G20 di Bali ha portato vostra figlia Ginevra , raccogliendo critiche tali da dover rispondere «ritenete che come cresco mia figlia sia materia che vi riguardi?».

«Ha fatto bene. C’è stato pure chi ha detto che stavo a Bali a scrocco anch’io, ma ero a Milano a lavorare».

Per la mamma il tema è riuscire almeno a dormire a casa?

«Riuscirci è complicato. Non so davvero come faccia. Anche quando è a Roma, non arriva prima delle 23».

Che desiderio pensa che abbia espresso Giorgia, domenica, spegnendo le 46 candeline di compleanno?

«Credo quello di fare bene il suo lavoro riuscendo anche a far passare il messaggio di quanto resta leale ai suoi ideali e al Paese. Io so quanto ci si sta dedicando, ma in tre mesi nessuno ha la bacchetta magica e trovo certe strumentalizzazioni scorrette».

Mettiamola così: lei, da professionista dell’informazione e da compagno, quali critiche ha trovato ingiuste e quali giuste?

«Ho trovato strumentali quelle sul taglio delle accise. Anche mia figlia di sei anni capisce che c’è differenza fra parlare di accise nel 2019 e parlarne oggi, fra guerra, pandemia, crisi energetica».

Una critica giusta, invece?

«Forse, la decisione poteva essere comunicata in modo diverso. Ma, dopo, mi sembra che le ragioni siano state chiarite bene. E Giorgia qualcosina l’ha fatta: ha fatto la manovra in venti giorni, è andata in giro per il mondo e siamo tornati centrali nella geopolitica, abbiamo riportato a casa dall’Iran Alessia Piperno, arrestato Matteo Messina Denaro».

Voi due come e dove avete festeggiato il compleanno?

«In casa di amici, niente di trascendentale, con una cena come se ne fanno, anzi, se ne facevano tante».

Subito dopo, lei è partito per Milano: da lunedì, è tornato in video dopo un passo indietro da «First gentleman» e conduce il Diario del giorno del Tg4. Cosa è cambiato da allora?

«Che il governo ha preso l’abbrivio. Avevo lasciato la conduzione di Studio Aperto mentre il governo s’insediava e potevo essere passibile di critiche, ma sono un giornalista, questo so fare: raccontare. Prima o poi, dovevo tornare. Tanto, pure se aprissi un bar, direbbero che lo faccio perché compagno di Giorgia. Che devo fare? Stare a casa e chiedere il reddito di cittadinanza?».

Condurre, però, significa stare a Milano.

«Comporta qualche sacrificio familiare, ma era giusto dare un segnale di disponibilità all’azienda».

Dagospia sostiene che Mediaset, dopo averla retrocessa ad autore, ha risposto no alla sua richiesta di stare a Roma, vicino a sua figlia.

«In 15 anni di lavoro, in azienda, non ho mai avuto un problema con nessuno. Lascio parlare, criticare... Un quotidiano ha scritto che lunedì avevo ospite il sottosegretario Andrea Delmastro, come a dire perché è di Fratelli d’Italia, ma non ha scritto che c’era anche la capogruppo Pd al Senato, Simona Malpezzi. Tutti i conduttori hanno un’idea politica. Non è che se una domanda la pone Paolo Del Debbio va bene e se la pongo io è faziosa. E cito lui perché è la persona da cui ho imparato di più. Quanto a tenere la diretta a Milano, credo sia una normale scelta aziendale di natura economica».

Diario del giorno è condotto a rotazione. D’ora in poi, condurrà sempre lei?

«No, anche perché ho da accudire una bimba a Roma, appunto. Conduco se posso e, per il resto, curo il programma da Roma come ho fatto in questi mesi».

È stato un ritorno in video con l’arresto di Matteo Messina Denaro e la diretta eccezionalmente allungata di oltre un’ora. Che effetto le ha fatto aprire con le dichiarazioni di Giorgia Meloni?

«Ero contento per il Paese. Abbiamo rimesso in onda le dichiarazioni del presidente quando disse: affronteremo il cancro mafioso a testa alta».

Chiama la sua compagna «il presidente»?

«Se parlo con amici, è Giorgia. Se no, è il presidente».

Che cosa vi ha detto papa Francesco il 10 gennaio?

«C’eravamo anche io e Ginevra, ma era un incontro privato e non so cosa si sono detti, da soli Giorgia e il pontefice. So che, come famiglia, è stata una giornata emozionante. Il papa ha avuto un gesto dolce: ha regalato a Ginevra dei cioccolatini, che lei si è mangiata davanti a lui».

Voi davanti al papa un po’ fa pensare: sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana... Non sono sposata.

«Credo che accadano cose più interessanti nel mondo».

Da papà, come ha accompagnato Ginevra nello stravolgimento della routine?

«Inizia capire che la madre c’è meno. Ma i genitori sentono lo stato d’animo dei figli e io vedo che lei cresce serena, che non le manca nulla».

Ha già chiesto un’intervista tv al presidente Meloni?

«No, perché non sarei fra i primi a cui la rilascerebbe».

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per “La Repubblica” giovedì 31 agosto 2023.

E pensare che era anche partito volando basso: “Lei sta sulla scena, io dietro. Non amo i riflettori. Apparire non è il mio lavoro. Nel grande mondo della tv sto dietro le quinte, a immaginare cosa accade davanti”, diceva Andrea Giambruno nel 2016, intervistato da Luca Telese per la Verità. A furia di immaginare-cosa-accade-davanti, ora lì davanti c’è finito lui. 

Il compagno di Giorgia Meloni, conquistata la conduzione di una striscia pomeridiana su Rete 4 (“Diario del giorno”) poco dopo la di lei conquista della presidenza del Consiglio, non sembra avere alcuna voglia di limitarsi al cosiddetto modello anglosassone di giornalismo. E quindi fai una battuta in diretta oggi, un altro commento domani e riecco puntuale divampare la polemica, perché effettivamente la commistione c’è tutta e un semplice telespettatore può domandarsi: sta parlando il giornalista Giambruno oppure ho davanti una riproduzione delle chiacchiere al tinello di casa Giambruno-Meloni?

Il caldo asfissiante con temperature record: "Non è una notizia, a luglio ha sempre fatto caldo”, spiega Giambruno, e la considerazione sa di riproposizione del negazionismo anti-ambientalista molto in voga a destra. “Sono 20-30 anni che in qualche modo i tedeschi ci devono spiegare come campare. Se non ti sta bene stai a casa tua!”, il messaggio non proprio di pace ma parecchio nazionalista rivolto al ministro degli Esteri tedesco, il socialista Karl Lauterbach, preoccupato per il futuro del turismo italiano alle prese con i rovesciamenti climatici. Fino all’ultima lezione sugli stupri, forse la più imbarazzante tra le cadute di stile: “Se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi”. 

(...)

Altri tempi, ora a guidare il centrodestra e il governo c’è Meloni, i cui rapporti con Marina Berlusconi vengono descritti come mediamente buoni. Per “Andrea” e “Giorgia” il vento è più o meno in poppa e Giambruno rivendica il diritto di essere se stesso, come quando sette anni fa rivelò di aver sempre votato Pd, o di essere favorevole all’adozione di figli per le coppie omosessuali e alla legalizzazioni delle droghe, facendo venire un mezzo mancamento ai fedelissimi della compagna. Dopodiché tra i diritti inalienabili dell’uomo c’è anche eventualmente quello di spararla grossa, che del resto in famiglia non è un’attività ignota, e quindi la sostanza è che al conduttore nessuno può menarla più di tanto. Neanche “Giorgia”.

Dopo averci lavorato qualche anno fianco a fianco, Giambruno si è convinto di voler seguire il modello Paolo Del Debbio, teorico e interprete di un’informazione “populista”, che prende posizione, che si concede il gusto della provocazione contro il famigerato politicamente corretto. E visto il filone politico tutt’altro che di sinistra, si potrebbe ben dire che Meloni, dai e dai, ha fatto egemonia culturale anche dentro casa. Se ne potrà mai fare una colpa a Giambruno?

Chi è Andrea Giambruno, il giornalista compagno di Giorgia Meloni: le polemiche sul clima e la violenza sessuale. Redazione Web su L'Unità il 29 Agosto 2023

Ormai una rubrica, tipo: la sai l’ultima di Andrea Giambruno. Il compagno della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è lasciato andare a una nuova sparata che ha attirato l’attenzione di social e le polemiche delle opposizioni. Queste volte parlando dei casi di stupri di gruppo denunciati a Palermo e a Caivano. Su Rete4, alla trasmissione Diario del Giorno, il first gentleman ha commentato che se “eviti di ubriacarti e perdere i sensi, magari eviti di incorrere in determinate problematiche” perché “il lupo lo trovi”. Inevitabili le accuse di colpevolizzazione delle vittime, di vittimizzazione secondaria. D’altronde Giambruno si era già fatto notare quest’estate con alcuni commenti sul caldo torrido e su una visita del ministro della Salute tedesco in visita in Italia.

Il Corriere delle Sera ha scritto che Meloni e Giambruno si sono conosciuti dietro le quinte di una trasmissione di Paolo Del Debbio di cui il giornalista era tra gli autori e Meloni ospite. A raccontare il loro primo incontro è stato proprio il giornalista. La leader di FdI era arrivata di corsa in studio, senza aver mangiato. La sua assistente le aveva allungato una banana per tarpare i morsi della fame durante una pausa pubblicitaria. Una volta tornati in onda, la leader era ancora lì con il frutto in mano: “Io mi precipito e gliela strappo di mano anche con una certa foga, ci manca la Meloni in diretta con una banana … — ha raccontato Giambruno al Corriere dicendo che la leader lo scambiò per un assistente — . Non so dire, i nostri occhi si incrociano in modo strano, è stato un attimo”. Cominciò così il corteggiamento. La coppia il 16 settembre 2016 ha avuto una figlia, Ginevra, chiamata così per via di Lancillotto.

Giambruno ha 42 anni, è di Milano. È giornalista e autore televisivo per Mediaset dove lavora da circa quindici anni. È stato autore di Quinta Colonna, Matrix, Mattino 5 e Stasera Italia e nelle redazioni di Tgcom24 e Studio Aperto, per entrambi i telegiornali ha fatto da conduttore. Da alcuni mesi conduce stabilmente il talk show politico Diario del giorno che va in onda nei giorni feriali su Rete4 tra le 15:30 e le 16:40. Dopo l’insediamento del governo Meloni per un periodo aveva smesso di apparire in video. La relazione con Meloni è stata sempre tenuta molto al riparo dai media, almeno prima che la leader di Fratelli d’Italia diventasse la prima Presidente del Consiglio in Italia. Da quel momento il giornalista è apparso anche numerose volte in pubblico in occasioni ufficiali.

Era il febbraio 2021 quando Giambruno interveniva direttamente per difendere la moglie dagli insulti del professore Giovanni Gozzini. “Per coloro che non lo sapessero, sono il compagno di Giorgia Meloni, la madre di mia figlia. Sono molto fiero di quello che ha fatto nella sua vita. Non mi permetto di commentare le parole del professore perché ci sono altri luoghi dove verranno commentate e sentenziate in altri termini. Mi permetto solo di dire che ci sono dei minori che leggono certe schifezze. Io spiegherò a mia figlia quanto sua madre sia valorosa e meritevole di ciò che ha fatto nella sua vita. Mi auguro, professore, ammesso che lei abbia dei figli, che i suoi di figli possano dire altrettanto dei suoi commenti misogini, indegni e vergognosi”.

Al settimanale Sette Meloni aveva raccontato come il compagno fosse “un padre fantastico, presentissimo. Passa a Milano una settimana al mese, ma quando è qui lavora quasi sempre di sera e durante il giorno sta molto con Ginevra. Ci alterniamo, ci aiutiamo, ci completiamo”. Al suo compagno chiede consigli, pareri. “Lo coinvolgo, sì, ma non troppo. Quando siamo assieme cerco di lasciare fuori la politica, di staccare. Non è facile: lui segue tutti i talk, io passo davanti: ‘Ancora co’ la politica? Ti prego, cambia, non ne posso più!’”. Il compagno le aveva anche confessato di avere idee più di sinistra in passato.

Giambruno non è nuovo a uscite che negli ultimi tempi hanno sollevato polemiche e forse anche un po’ di imbarazzo alla premier Meloni. “La notizia, ammesso che tale sia, è che a luglio fa caldo e probabilmente a dicembre nevicherà”, aveva detto lo scorso luglio che però era stato dichiarato il mese più caldo registrato sulla Terra. “So’ vent’anni, trent’anni che in qualche modo i tedeschi ci devono spiega’ come dobbiamo campare noi, se non ti sta bene stai a casa tua”, aveva detto a proposito dei commenti del ministro della Salute tedesco in visita in Italia. Redazione Web 29 Agosto 2023

"Se non ti sta bene...": la lezione di Giambruno al ministro tedesco. E la sinistra impazzisce. Karl Lauterbach ha dichiarato che il turismo italiano non avrà futuro a causa del caldo. La replica del giornalista e marito della Meloni: "Stai nella Foresta Nera, stai bene, no?". Ma la sinistra lo usa per attaccare il premier. Francesca Galici il 27 Luglio 2023 su Il Giornale.

Nei giorni scorsi hanno fatto discutere le dichiarazioni del ministro della Sanità tedesco, Karl Lauterbach, che in queste settimane è in vacanza in Italia da dove si è lamentato dell'eccessivo caldo del nostro Paese, spiegando che "in Italia il turismo non ha futuro, fa troppo caldo. Usate le chiese come celle frigorifere". E visitando Bologna, città dalla storia e dall'arte senza paragoni nel mondo, il ministro ha detto: "L’ondata di caldo qui è spettacolare. Se le cose continuano così, queste destinazioni di vacanza non avranno futuro a lungo termine. Il cambiamento climatico sta distruggendo l’Europa meridionale. Un’era volge al termine". Alle parole di Lauterbach ha risposto Andrea Giambruno, giornalista Mediaset di lungo corso, nonché compagno di Giorgia Meloni.

Il ministro tedesco choc: "In Italia il turismo non ha futuro. Le chiese come celle frigorifere"

Karl Lauterbach sembra davvero convinto delle sue affermazioni e, come sempre accade nel nostro Paese non mancano i soliti che, invece di replicare al nostro chiedendogli se pensa che la Germania sia davvero migliore rispetto all'Italia, gli danno ragione. Il ministro del Turismo, Daniela Santanché ha replicato con garbo al collega del governo tedesco, sottolineando come moltissimi dei suoi connazionali scelgano da sempre il nostro Paese e che il cambiamento climatico non riguarda solo l'Europa meridionale ma l'intero Vecchio Continente.

Dal ministro tedesco è arrivato un attacco screditante all'Italia e per ragioni che non sono ancora ben chiare Lauterbach ha forse tentato di mettere in cattiva luce il nostro Paese per agevolare qualche altra destinazione turistica, magari in Germania. "Se non ti sta bene stai a casa tua. Stai nella Foresta Nera, stai bene, no?", ha detto Andrea Giambruno al ministro nel corso del programma su Rete Quattro Diario del giorno da lui condotto. Non sono mancate per questo critiche al giornalista da parte di diversi esponenti politici rossi e della stampa amica della sinistra, perché la posizione di Andrea Giambruno è comoda per lo schieramento di opposizione, che utilizza i legami personali del giornalista per attaccare Giorgia Meloni, sua compagna nonché madre di sua figlia. Ancora una volta, la sinistra del nostro Paese si dimostra priva di qual si voglia pudore e capacità politica, sfruttando la famiglia del premier per tentare di indebolirla politicamente.

Una bordata verso Lauterbach è arrivata anche da Matteo Renzi, che nella sua newsletter ha dichiarato: "Ha detto che in Italia il turismo è destinato a scomparire e che le chiese dovrebbero diventare dei luoghi di ristoro per chi ha caldo. Non so se il caldo farà male al turismo italiano, sono certo che il caldo abbia già fatto male al ministro tedesco". Non pago della stilettata, l'ex premier ha concluso: "Quando leggo certi commenti superficiali e finalizzati a fare notizia non mi preoccupo per la tenuta del nostro patrimonio culturale, ma per la qualità della loro sanità".

Estratto dell’articolo di Maurizio Crosetti per “la Repubblica” su Il Corriere della Sera venerdì 28 luglio 2023. 

[…] Andrea Giambruno, in arte Meloni. Il lui di lei di Giorgia. Il primo first gentleman della storia repubblicana rischia di diventare il personaggio dell’estate. Ha 41 anni, è milanese, fa il giornalista a Mediaset dove neppure Emilio Fede arrivò mai a tanto (con Silvio Berlusconi erano una coppia di fatto, ma non vivevano sotto lo stesso tetto). 

Invece il signor Meloni sta da sette anni con Giorgia, insieme hanno messo al mondo Ginevra che negli ultimi mesi è stata cresciuta da papà, immaginiamo divertendosi un mondo, visto che mamma torna tardi la sera. Per poter restare di più a casa, il principe Andrea è stato pure trasferito a Roma: Marina e Piersilvio sanno essere molto gentili quando occorre, e di questi tempi con Meloni è meglio esserlo.

La carriera del principe in monopattino, suo mezzo di locomozione preferito, ha vissuto una lunga stagione a Mediaset tra rassegne stampa e programmi di un certo livello, poi però sembrava sbriciolata dopo le elezioni stravinte da lei. 

Sparito dal video (passo indietro per evitare imbarazzi? pausa strategica?), Andrea Giambruno è tornato alla grande con il suo Diario del giorno , […]. E così, tra gaffe onomastiche e negazionismi meteo, sevizie al vocabolario e casi diplomatici, il nostro eroe si è preso quasi più titoli e link della compagna, non sappiamo se così contenta dell’ormai ingovernabile deriva familiare.

«Chi attacca me, mira a Giorgia » dice lui, onesto nell’ammettere che un cognome giusto resta pur sempre un grimaldello, se poi fai il giornalista non c’è porta che non si spalanchi. «Stare con lei? Ho qualche vantaggio. Magari il decreto Lavoro ho chi me lo spiega, se poi devo parlarne in tivù». 

Dunque si delineano meglio i ruoli di questa memorabile coppia: lei dà ripetizioni a lui nei corsi di recupero, è la sua insegnante di sostegno. Poi, siccome viviamo in mezzo a cattiverie e invidie, tutti lì a far notare altri dettagli di un personaggio che andrebbe valutato soltanto per quello che dice, e già ce ne sarebbe d’avanzo, non per le scarpe con le suole blu o per la pettinatura appena cambiata: siccome sui social lo prendevano assai in giro, postando meme di Olmo, il leggendario presentatore creato da Fabio De Luigi, con l’identica zazzera del principe Andrea, ecco che il first gentleman si è spalmato mezzo chilo di gelatina sulla capoccia: almeno nessuno potrà dire che non abbia una mente lucida.

[…]  Narra la leggenda che Andrea e Giorgia si conobbero negli studi televisivi di Quinta Colonna , dove lei mangiava una banana e lui si preoccupò subito di raccoglierle la buccia: poi si è scoperto che gli sarebbe servita per scivolarci sopra. 

Sempre la leggenda tramanda che fu Lele Mora a portare il principe a Cologno Monzese, ma qui le fonti divergono e non concordano. Passo dondolante un po’ western, capello bizzarro e barbetta giusta, Andrea Giambruno è un classico piacione, a occhio uno sciupafemmine, anche se alla fine gli è toccato un osso durissimo. 

Lui in tivù la chiama «il presidente del Consiglio», rigorosamente al maschile, del resto un bravo giornalista sa usare le parole. Quando Giambruno collaborava con Il Tempo , si firmava Arnaldo Magro e nella rubrica “Segretissimo”, nome un po’ da parrucchiere o da “Intimità della famiglia”, svelava i retroscena del mondo politico italiano. Nessuno mai è riuscito a scoprire quali fossero le sue fonti, né chi gli raccontasse cosa si muove dentro il Palazzo. Amici, dobbiamo proprio abituarci ad Andrea Giambruno («Non sono un raccomandato, io lavoro duro da vent’anni!») e al suo stile narrativo, perché ci accompagnerà a lungo: qui non c’è davvero rischio di “sparimento”. A meno che il presidente del Consiglio non riservi al suo principe il consiglio più importante: tacere. 

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera”  venerdì 28 luglio 2023. 

Lo dico sommessamente (il più meloniano degli avverbi), ma Andrea Giambruno non dovrebbe criticare in pubblico il ministro tedesco Lauterbach […]. Può criticare il tweet del ministro con i suoi amici, ma non in un programma televisivo, come ha fatto [l’altro]ieri: «Se non ti trovi bene da noi, stattene a casa tua nella Foresta Nera, no?». 

E non può farlo per la semplice ragione che lui è il compagno della presidente del Consiglio e ogni sua parola pronunciata in pubblico assume i contorni di un caso politico. […]

Sarà pure un pregiudizio, ma così va il mondo: quando e finché dividi la vita con una persona di potere, devi astenerti dall’esprimere opinioni attribuibili a lei. Per esempio, non puoi manifestare incredulità riguardo al cambiamento climatico, come ha fatto Giambruno nei giorni scorsi, perché tutti si sentiranno autorizzati a credere che quello sia anche il pensiero di Giorgia Meloni, cioè del governo. 

La condizione di non compagno della premier mi offre invece l’indubbio vantaggio di poter affermare, senza rischi di crisi diplomatiche, che sul tweet del ministro Lauterbach la penso sommessamente come Giambruno.

Vittorio Feltri dà del bischero a Gramellini: "Follia voler zittire il compagno di Giorgia". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 29 luglio 2023

Ieri Massimo Gramellini ha tirato le orecchie ad Andrea Giambruno, giornalista televisivo di Rete4, perché questi ha ridicolizzato un ministro tedesco che ha scritto un tweet alquanto sciocco. Questo: «In futuro, a causa del clima, sarà impossibile fare le vacanze in Italia». La risposta corretta del nostro collega è stata pronta: «Se non ti trovi bene da noi, stattene a casa tua, nella Foresta Nera». Infatti il politico crucco ha messo in ballo il surriscaldamento del pianeta, ripetendo le solite stucchevoli lagne che vanno di moda a riguardo delle temperature in crescita denunciate da alcuni scienziati e dagli immancabili verdi, teorie smentite da vari studiosi, i quali affermano che d’inverno fa freddo e d’estate si suda da sempre, come tutti noi ben sappiamo. 

Il corsivista del Corriere, pur confessando di essere d’accordo col collega del piccolo schermo, lo rimprovera di aver espresso il proprio inconfutabile pensiero pur essendo il compagno di Giorgia Meloni, il che alimenterebbe la sensazione che Giambruno parli in nome e per conto del presidente del Consiglio. Una accusa bizzarra visto che Andrea è pagato da Mediaset e non da Palazzo Chigi e, non essendo sotto tutela, è padrone di dichiarare quello che gli garba, esattamente come succede a Gramellini e anche a me, nonostante sia amico del capo del governo.

Secondo la firma del Corriere della Sera, invece, Andrea dovrebbe sigillare il becco e autocensurarsi altrimenti il popolo potrebbe credere che egli è il portavoce dell’esecutivo. Insomma, Giambruno dovrebbe fare il conduttore di un programma stando zitto edovrebbe vedersi limitata l’inviolabile libertà di parola in quanto “marito di”. Una bischerata così grossa non me l’aspettavo di certo da Massimo che è un professionista collaudato, al quale ricordo che i tedeschi ci redarguiscono da decenni con le loro critiche gratuite all’Italia, e basti menzionare la storica

prodezza di aver pubblicato sulla copertina di un settimanale teutonico un piatto di spaghetti conditi con due pistole,immagine riferita alle brigate rosse, come se il terrorismo fosse colpa dei cuochi. Nonostante ciò gli abitanti della Germania non hanno mai smesso di recarsi nel nostro Paese per trascorrere le vacanze, e continueranno a venirci a prescindere dai capricci del termometro, da sempre la colonnina dimercurio va su e giù e anche questa stagione estiva la nostra Romagna è piena di turisti provenienti dalla Germania.

Caro Gramellini, non è Giambruno a dovere tenere la bocca e il cervello inattivi. Forse tu hai bisogno di un riposino. Probabilmente è colpa del clima “estremo”, come amate definirlo in via Solferino.

Estratto dell’articolo di Assia Neumann Dayan per “La Stampa” venerdì 28 luglio 2023. 

Questa è la storia di un regalo. Non parliamo delle nuove puntate di "C'è posta per te" di Maria De Filippi, ma di Andrea Giambruno: giornalista, autore, conduttore di "Diario del giorno" – programma in onda su Retequattro– e incidentalmente compagno della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

Così come sono certa che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli, né quelle dei figli sui padri, sono altrettanto certa che le colpe dei mariti non debbano ricadere sulle mogli. 

[…] La parità è anche questo: ad esempio, nei giorni scorsi non si è fatto che parlare dei capelli di Giambruno, di che shampoo usasse o se avesse ecceduto con il balsamo. Questa è la storia di un regalo perché nel momento in cui Giambruno fa delle dichiarazioni di qualunque natura, siano esse che in fondo non fa poi così caldo o che si sta tanto bene nella Foresta Nera, tutti usano queste dichiarazioni per attaccare Giorgia Meloni. Onestamente, non rinuncerei mai al principio secondo cui il singolo si assume la responsabilità di quello che dice, e non i parenti.

Giambruno ieri durante la sua trasmissione stava parlando di "maltempo e incendi, è emergenza climatica?" come recita il sottopancia. […] A seguire un momento che sembra una scena tagliata da "Don't look up": «Il ministro tedesco viene in Italia e ci viene a spiegare che comunque venire in Italia a trascorrere le vacanze non s'ha da fare perché fa troppo caldo. Son venti-trent'anni che i tedeschi ci devono spiegare come dobbiamo campare noi, se non ti sta bene stai a casa tua, stai nella Foresta nera che stai bene, no?». 

La maggior parte di noi conosce la Foresta Nera per la celeberrima torta; quindi, immagino pure io che là si stia bene, speriamo solo che lì Retequattro non prenda. La tv è piena […] di certi programmi, di negazionisti, populisti, nostalgici di qualunque cosa […].

Questa volta ci stupiamo perché a fare demagogia climatica è il compagno della premier, e pensiamo che i testi glieli scriva lei. […] Non so se Giambruno sia un negazionista climatico, ma di sicuro i testi non glieli scrive il segretario generale dell'Onu Guterres che ieri ha dichiarato: «A meno di una mini-era glaciale luglio 2023 infrangerà i record. Il cambiamento climatico è qui. È terrificante. Ed è solo l'inizio». Non vorrei fare spoiler, ma mi ricordo che "Don't look up" non finiva bene, però possiamo sempre cambiare canale.

Estratto dell’articolo di Gennaro Marco Duello per fanpage.it venerdì 28 luglio 2023.

Il tweet del ministro tedesco Karl Lauterbach sul clima in Italia e la risposta muscolare di Andrea Giambruno su Rete 4, a Diario del giorno, fanno discutere Luca Telese e Marianna Aprile in diretta a "In onda" su La7. "Io e Marianna abbiamo opinioni molto diverse su questo punto", premette Luca Telese e Marianna Aprile: "Se la moglie di un presidente del consiglio avesse osato muovere una critica così accesa, cosa sarebbe successo?".  

[…] Antonio Padellaro del Fatto Quotidiano: "Diciamo che il ministro tedesco ha detto una fesseria, poi stiamo dicendo che Giambruno non deve fare più il giornalista?". Marianna Aprile risponde: "No, nessuno sta dicendo questo, però magari potrebbe mettersi in aspettativa". E Luca Telese: "Vogliamo mettergli un bavaglio?" e Padellaro: "Magari dirà una cosa giusta o sbagliata, ma facciamogliela dire". E ancora Luca Telese difende l'amico:

Io lo conosco da prima che diventasse il compagno della Meloni, è un giornalista e dice le sue opinioni, lo può fare e vivaddio che ha opinioni diverse dalle nostre. 

[…]  Anche Giuseppe Provenzano, responsabile Esteri, Europa, Cooperazione internazionale nella Segreteria Nazionale del Partito Democratico, ha fatto notare: "Le dichiarazioni del ministro tedesco non sono solo sgradevoli, ma sono molto sbagliate. È una mancanza di rispetto nei confronti di un Paese che è afflitto dalla crisi climatica. 

L'ho detto al ministro Musumeci in aula, che ha fatto una cosa importante, ha attaccato il negazionismo climatico. Ma questa cosa deve dirla ai suoi compagni di partito, come Pichetto Fratin che nega l'origine antropica dei cambiamenti climatici". E su Giambruno: "Anche se fosse stato il marito della Merkel a entrare nelle dinamiche tra due paesi sarebbe stato fatto notare. Quando si fa il presidente del consiglio ci possono essere relazioni molto dure, ma bisogna stare sul terreno della politica".  […]

Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” venerdì 28 luglio 2023.

“Chi mi attacca mira a Giorgia”, aveva dichiarato qualche tempo fa il compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno. Vorrei tranquillizzarlo: miriamo proprio a lui. Nessuna strumentalizzazione, l’oggetto del nostro dileggio è esattamente il first gentleman conduttore di Diario del giorno su Rete4. 

Che, se va avanti così, rischia seriamente di oscurare le performance comiche della compagna premier. Giorgia Meloni posseduta da Belzebù che sbraita “Io sono Giorgia” o che al vertice Nato dice “Mi fanno male i piedi” e manca poco che chieda le calze elastiche col borotalco come la Sora Lella è solo uno sbiadito ricordo. Ora c’è “Io sono Andrea”, il conduttore poser che si mette di tre quarti, poggia il gomito sulla scrivania e guarda in camera con l’aria da piacione consumato.

Roba che se rifanno un remake di Barbie, altro che Ryan Gosling, il vero Ken è lui. Non solo perché è il perfetto “fidanzato di” come Ken, non solo perché è di gomma, ma soprattutto perché la vaporosa capigliatura è chiaramente in acrilico e fibre di vetro, di quelle che se avvicini una fiamma prende fuoco come la torcia olimpica. 

La puntata del suo programma in cui si fa portavoce del negazionismo climatico è diventata anche quella in cui è stato eletto bandiera dei negazionisti tricologici, ovvero quella speciale corrente di complottisti convinti che i parrucchieri siano l’esercito segreto di Soros e che vadano evitati come il vaccino e il 5G. 

La pettinatura a “schiaffo di Anagni” e quel suo “appuuuuunto” che è già tormentone sono diventati argomenti di discussione più dei roghi, dei tifoni, della siccità, delle scie chimiche e degli aerei colpiti dalla grandine. Il momento televisivo in cui lui, in modalità Olmo (nel senso del personaggio di Fabio De Luigi), dice “Oggi è il grande giorno del caldo torrido e qualcuno si chiede se sia una novità che nel mese di luglio si raggiungano queste temperature, secondo noi non è una grande notizia” e ti aspetti che quindi passi la palla a un esperto meteorologo mentre la passa a Vittorio Feltri, è poesia pura.

Roba da spiegargli in diretta che, se lui non sente molto caldo, è perché il ciuffo gli fa ombra. […] il discorso si conclude con Giambruno che si volta di scatto, piccato, spostando il ciuffo di botto da un lato a un altro e provoca uno spostamento d’aria che per il noto “Butterfly effect” dà vita, pochi giorni dopo, al drammatico tifone su Milano. 

La verità è che il cambiamento climatico è colpa del ciuffo di Giambruno. Infatti, non appena compresi i rischi della sua arroganza tricologica, il First Gentleman ha poi cambiato acconciatura e si è presentato in tv pettinato col capello all’indietro effetto bagnato come Gigi Hadid. 

Ma il nostro Ken di Rete 4 è instancabile e poco dopo è ritornato sul tema: il ministro della Sanità tedesco Karl Lauterbach […] si era detto scettico sulla capacità dei Paesi del Sud Europa di poter ancora a lungo ospitare i troppi turisti con queste temperature roventi […]. 

Giambruno non gliele ha mandate a dire: “Sono venti, trent’anni anni che in qualche modo i tedeschi ci devono spiegare come dobbiamo vivere noi. E, se non ti sta bene, te ne stai a casa tua. Stai nella Foresta Nera, no?”. E intanto agitava nervoso la foresta nera che abita sulla sua testa. […] Mancava solo un bel “mangiatevi gli Spätzle a casa vostra”.

Insomma, io non so come si faccia a dire che Andrea Giambruno sia raccomandato. Che sia lì perché è il compagno di Giorgia Meloni. È evidente a tutti che quel posto sia suo di diritto e chi dice il contrario è un negazionista del merito altrui. Anzi, io penserei seriamente a portarlo in Rai e ad affidargli la versione sovranista dell’ex programma di Fabio Fazio: “Che tempo che fa”. Sottotitolo: “Qualunque sia, basta che non mi increspi i capelli”.

Dagospia sabato 29 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro direttore, ma il signor Meloni, al secolo signor Giambruno, non avrebbe dovuto mettersi in aspettativa dopo la nomina della consorte a premier? Barbara Palombelli ha lasciato i suoi incarichi presso “Repubblica” e il “Corriere della sera” quando suo marito Francesco Rutelli è diventato ministro dei beni culturali poi vicepresidente del consiglio, Lo stesso hanno fatto altre giornaliste come Gianna Fregonara moglie del premier Enrico Letta. Solo le donne lasciano? Il signor Giambruno dopo la nomina della consorte ha al contrario rafforzato le sue esternazioni in video e le spara grosse.

Cordiali saluti F. G

Andrea Giambruno, smontato il fango della sinistra: "Ci passo sopra una volta, poi basta". Libero Quotidiano il 29 luglio 2023

Adesso parala lui. Andrea Giambruno, giornalista di Rete 4 e compagno di Giorgia Meloni in un'intervista al Corriere rispedisce al mittente tutte le critiche ricevute in questi giorni da diversi colleghi vicini a posizioni progressiste e anche da alcuni esponenti della sinistra: "Non c’è stato nessun “Giambruno sconquassa i rapporti con l’Europa”. C’è chi ha scritto che la sua compagna dovrebbe darle una strigliata. Cosa direbbero a me, se andassi in tv a dire che cosa devono fare le mogli degli altri". Poi sulle parole del ministro tedesco, Karl Lauterbach, che ha profetizzato la fine del turismo in Italia per il grande caldo, Giambruno afferma: "Escludo che un ministro tedesco si possa risentire della battuta di un giornalista italiano".

E ancora: "Noto che, fra tante polemiche, nessuno ha potuto scrivere che la battuta non era condivisibile. Massimo Gramellini, che stimo, ha scritto sul Corriere che tutti la pensano come me". Poi torna sul ministro tedesco: "Il tedesco ha detto che il turismo in Italia è destinato a fallire per via del clima: una cosa neanche supportata dai dati. Mi sembra pure da menagramo". Poi avverte: "Non querelo nessuno, al momento, ma deve esserci un limite. Hanno scritto anche che sono uno sciupafemmine e un piacione. Ma ho una famiglia e su questo posso passarci sopra una volta, poi basta". Infine sulle accuse di "negazionismo sul clima" per aver mostrato i giornali degli anni Sessanta che parlavano di caldo anomalo, risponde così: "E quindi? Il 18 luglio, prima della grandine a Milano, avevo ospite Vittorio Feltri, tutti i programmi e i tg aprivano sul caldo. Sono 40 anni che, appena fa caldo, sento il servizio in cui dicono che bisognare bere tanta acqua o non uscire nelle ore più calde. Dico: Vittorio, fa caldo, che notizia è? Sarà una notizia anche che a Natale nevica? Poi, ci sono stati la grandine, il nubifragio e quella sì che era una notizia. Ma ora sembra che la mia frase sul caldo sia correlata alla grandine che poi si è abbattuta su Milano". 

Giambruno: «La Foresta nera? La mia era una battuta. Escludo che un ministro tedesco possa risentirsi». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera  il 29 luglio 2023

Il giornalista e compagno della premier torna sulla frase pronunciata in trasmissione e afferma: «Con Giorgia non ne ho parlato» 

Andrea Giambruno com’è stato svegliarsi leggendo titoli come «i colpi di sole del first gentleman», «il Ken di Giorgia Meloni», «il compagno che sbaglia», «Giambruno il tribuno»?

«È da stamattina che sorrido. Ho fatto una battuta sul ministro tedesco Karl Lauterbach, ma costruirci un “caso Giambruno” vuol dire proprio che non ci sono altri “casi” di cui scrivere».

Lauterbach si è lamentato del caldo in Italia e lei, conducendo «Diario del Giorno» su Rete4, gli ha risposto che può starsene a casa sua nella Foresta nera.

«Escludo che un ministro tedesco si possa risentire della battuta di un giornalista italiano».

Lei non è solo un giornalista, è il compagno della premier e il padre di sua figlia.

«L’articolo 21 della Costituzione ancora mi autorizza a fare una battuta, o dobbiamo cambiare la Costituzione apposta per me?».

Può confermare che, alle sue fonti a Palazzo Chigi, non risultano lamentele della diplomazia tedesca?

«Ma scherza? Non c’è stato nessun “Giambruno sconquassa i rapporti con l’Europa”».

C’è chi ha scritto che la sua compagna dovrebbe darle una strigliata.

«Immagini cosa direbbero a me, se andassi in tv a dire che cosa devono fare le mogli degli altri».

Insomma, non si è pentito.

«Noto che, fra tante polemiche, nessuno ha potuto scrivere che la battuta non era condivisibile. Massimo Gramellini, che stimo, ha scritto sul Corriere che tutti la pensano come me».

Però, ha anche scritto che lui può dirlo perché non ha parentele illustri, ma che lei dovrebbe astenersi.

«Quindi faremo l’albero genealogico a tutti i colleghi o solo a me? C’è persino chi ha scritto che le parole di Sergio Mattarella contro i negazionisti del clima si riferivano a me».

Ieri il direttore Alessandro Sallusti l’ha difesa, scrivendo di «linciaggio mediatico» e che «tra un italiano che difende l’Italia e un tedesco che ci denigra, la sinistra sceglie il tedesco».

«Il tedesco ha detto che il turismo in Italia è destinato a fallire per via del clima: una cosa neanche supportata dai dati. Mi sembra pure da menagramo».

Che intendeva dire dicendo «sono venti o trent’anni che i tedeschi cercano di spiegarci come vivere»?

«Mi riferivo alla caduta del governo Berlusconi, nel 2011».

Quindi alla teoria del complotto a trazione tedesca e non alla celebre foto della pistola sugli spaghetti?

«Tutti sappiamo come è andata: Silvio Berlusconi voleva fare debito per i cittadini, i nostri titoli di Stato furono venduti nella notte, lo spread salì in modo spropositato e il governo cadde. Questo perché Berlusconi non riteneva gli italiani secondi a nessuno e credo che questo dovrebbe essere l’atteggiamento di tutti i nostri governi».

Dopo la battuta a Lauterbach, lei è stato etichettato come negazionista del cambiamento climatico.

«Ho fatto decine di puntate sull’argomento e sui relativi fondi del Pnrr, invitando anche gli ambientalisti più esasperati… Nessuno può dire che ho negato il cambiamento climatico».

E che sia colpa dell’uomo?

«Non lo so: su questo la scienza è divisa e io ho invitato esperti che dicevano che è colpa nostra e altri che dicevano il contrario».

Negazionista, dicono, anche perché ha mostrato in onda i giornali degli anni ’60 che parlavano di caldo anomalo.

«E quindi? Il 18 luglio, prima della grandine a Milano, avevo ospite Vittorio Feltri, tutti i programmi e i tg aprivano sul caldo. Sono 40 anni che, appena fa caldo, sento il servizio in cui dicono che bisognare bere tanta acqua o non uscire nelle ore più calde. Dico: Vittorio, fa caldo, che notizia è? Sarà una notizia anche che a Natale nevica? Poi, ci sono stati la grandine, il nubifragio e quella sì che era una notizia. Ma ora sembra che la mia frase sul caldo sia correlata alla grandine che poi si è abbattuta su Milano».

Giorgia Meloni che le ha detto di queste polemiche?

«Non ne abbiamo parlato. Ma le pare normale che la sua visita alla Casa Bianca è un successo e che, accanto, sui quotidiani, si parli del “caso Giambruno”? Sviare l’attenzione su di me mi sembra un modo per non ammettere che questo governo le sta azzeccando tutte».

L’altro «caso» è che ci si è interrogati se il suo passaggio dal ciuffo vaporoso al ciuffo col gel non sia la nuova linea di una destra che vuole presentarsi più formale ed educata.

«Posso giurare che metto il gel sui capelli perché ho ascoltato un consiglio di mia madre e non di un giornalista di sinistra. Ma, se fossi una donna, sarebbe già partita una campagna contro il body shaming».

Querelerà qualcuno?

«Non querelo nessuno, al momento, ma deve esserci un limite. Hanno scritto anche che sono uno sciupafemmine e un piacione. Ma ho una famiglia e su questo posso passarci sopra una volta, poi basta».

Per concludere?

«Mi sembra che, in tutto ciò, oggi, a Milano, non faccia così caldo».

Estratto dell’articolo di Luca Telese per laverita.info - 21 settembre 2016 

Andrea, ti definiscono «Il signor Meloni?», ti spiace.

«Zero. Io sono Andrea Giambruno: ho una vita, una storia, un lavoro. Se mi associano a

Giorgia, come capita a milioni di donne in Italia con i loro mariti, sono contento». 

Fino a oggi non hai mai detto una sola parola.

«Lei sta sulla scena, io dietro. Non amo i riflettori. Apparire non è il mio lavoro. Nel grande

mondo della tv sto dietro le quinte, a immaginare cosa accade davanti». 

[...] «Mi piace mettermi in ultima fila, senza che lei mi veda, e sentire la cosa unica di quella sera. Ha una capacità di comunicazione rara». 

Non ti fai riconoscere?

«Se nessuno mi vede, meglio». [...] 

[...] Andrea Giambruno, 35 anni, l'unico marito dell'unica leader donna della politica italiana. Una bella rogna. Infanzia ribelle - quartiere popolare di Milano - laurea in filosofia, una lunga gavetta da autore tv. Conosce la Meloni a Quinta Colonna. Poi ha lavorato a Matrix: per questo l'ho «ricattato» per fargli rompere il silenzio. Ci sono stati mariti di ministri e mariti di presidenti della Camera, in questo paese, sempre vissuti come oggetti misteriosi, pittoreschi o ufo: i signori Finocchiaro, Kienge, Brambilla-Pivetti. 

Siete una coppia di fatto.

«Non c'è nulla di male. Tutti meritano gli stessi diritti». 

Ahia...

«Perché? Su alcuni punti con Giorgia discutiamo, litighiamo, riflettiamo…. È una ricchezza

della coppia». 

Esempio.

«Sono favorevole a liberalizzare le droghe. Anche pesanti». 

Non ci credo. E sei ancora vivo a casa Meloni? 

(Sorride). «Lo so, è il suo Dna. Ma il proibizionismo non produce risultati utili. È un fatto».

Fammi un esempio.

«Tuo figlio, in qualsiasi città può trovare droghe in dieci minuti. La cocaina in meno.

Bisogna distruggere questo congegno». 

[...] Perché non siete sposati?

«Non sono molto religioso. Per ora è così. Poi vedremo». 

In che senso?

(Sorriso). «Per farla felice sono pronto a tutto».

[...] Sei nato a Milano, nel 1981.

«Una famiglia molto modesta. Adolescenza a Baggio». 

Il ricordo che racconta una stagione».

«Una rissa in cui si affacciarono i coltelli. Tornammo a casa pesti Ma due lezioni in una notte». 

La prima?

«Le botte – se poi capisci - servono. La seconda è che se impari ad ascoltarti capisci prima». 

Cosa avevi capito?

 «A letto pensai: è la mia vita, ma quella sbagliata. Un bivio». 

E tu dove vai?

«Maturità scientifica, prendo atto dell'incompatibilità con la matematica: filosofia in Cattolica». 

Eri appassionato di politica. A destra?

«Il primo voto? Ulivo». 

Oddìo, chi lo dice ai Fratelli?

«Non scherzare… Ho sempre votato Pd». 

Che tipo eri fino ad allora?

(Risata). «Un palestrato: capelli lunghi fino alle spalle, anelli e bracciali, vivevo di Kick boxing». 

[...] Dall'università a Telenova.

«Mi trovo co-conduttore di Linea d'ombra, con Adriana Santacroce. Talk politico, bellissimo». 

Il test della luce rossa.

«Lo supero al contrario. Non ho mai preso la febbre da video». 

E poi? 

(Sospiro). «Autore, a Mtv. Lavoro a Trl Programma Itinerante: ogni settimana una regione diversa. 

Poi carta stampata.

«Per Signorini, a Sorrisi e Canzoni. Rapporto intensissimo. Ci confrontavano molto, anche

sulle storie private». 

Torni con lui in tv.

«Kalispera, a Mediaset. E lì rimango». 

L'esperienza più intensa?

«Intervista alla Nannini, neo mamma, in chiave alfabetica: alla P di Penelope - sua figlia - si commuove. Come la capisco ora». 

Poi Mattino 5?

«Colloquio con Fabio Del Corno: “Vedi il programma, vero?". E io: “Tutti i giorni". Era una

balla… Ma mi ha graziato».

Poi l'avventura con Del Debbio.

«Esigente, preciso. Scrivo 10 pagine di copione, inorridisce». 

E tu?

«Mi metto nei suoi panni: professore, ex assessore, istrione. Dopo due giorni, tre pagine». 

E lui?

«Sospira: “Oohhh". Soddisfatto. Un mese e fa: “Tenetemi Giambruno"». 

Nel magma di Quinta Colonna.

«Con Paolo il sodalizio diventa amicizia». 

[...] E qui incontri la Meloni?

«Tre anni fa. Casualmente». 

Che ti ricordi?

«Sala trucco. Non avevo confidenza. Discutiamo di fesserie. Poi mi fa ridere come un

matto…». 

Cioè?

«Dico: “C'è Gelli, deputato pd collegato. E lei: “Gelli? Nel Pd? Annamo bene!"». 

E poi?

«Ghiaccio rotto. Attrazione. Pensava fossi un assistente di studio. Il giorno dopo scrivo a

Giovanna, la sua portavoce…». 

Ti identifica.

«Giorgia le fa: “Dammi sto numero!". Non ci siamo più lasciati».

 Lavoravi da nove anni, ma diventi per tutti «il signor Meloni».

«Per me non è cambiato nulla. Cerco di far coesistere la mia anima di strada e quella

razionale. Lei mi capisce, ho imparato da lei». 

In che senso?

«Ha tutti contro? Se ne frega. Non gliene passano una». 

Secondo te perché?

«Una donna leader questo paese non se la immagina. Ha una umanità carismatica.

Ma…». 

Cosa?

«Studia come una matta se deve fare 25 minuti di tv». 

Dici che sono più severi con lei che con un uomo?

«Uhhh.. Essere donna la penalizzata. Ironie, battute stupide…».

[...] Dai il colpo di grazia a chi inizia a simpatizzare per te.

«Juve, nel midollo. Solo per Ginevra ho chiuso 18 anni di abbonamenti». 

Santa bimba! E poi Giorgia è giallorossa.

«Sì, felice se la Roma vince, in una famiglia lazialissima». 

[...] Differenze con Giorgia?

«Lei è maniaca dell'ordine».

Tutte le compagne, credo.

«Un giorno, ero a Milano, mi urla al telefono. Io non capivo. E lei: “Ma secondo te il dentifricio non va messo nel barattoloooo!?"». Non è cattiva: ci sono cose per me irrilevanti su cui lei soffre». 

Tipo?

«Entri a letto. Domanda: “Ma mica avrai lasciato la copertina sul divano?". Ah ah ah. Ma poi ci capiamo senza parole, è magia». 

Test fornelli?

«Torna tardi e preparo cena: sui primi sono forte». 

Cosa ascolti a parte i comizi di Giorgia?

«I Queen, i Guns N' Roses, Vasco. Lei Guccini e Gaber!». 

Daresti un figlio a una coppia gay?

«Ne ho discusso molto con Giorgia. Come lei sono contrario all'utero in affitto, non

accetto la mercificazione dei corpi. Invece…». 

Cosa?

«So che una coppia omosessuale può amare. Svuoterei gli orfanatrofi e darei tutti i bimbi alle famiglie arcobaleno». 

E chi ha paura dei «due papà»?

«So quanto si può soffrire senza. Se vogliono donare amore dateglieli di corsa».

[...]

Estratto dell’articolo di Renato Franco per il “Corriere della Sera” sabato 21 ottobre 2023.

Invidie e gelosie erano naturali nei confronti del «first gentleman» Andrea Giambruno, ma anche lui ci ha messo del suo per non farsi particolarmente amare all’interno della stessa Mediaset. Chi gli rimproverava l’atteggiamento da gagà e il ciuffo esibito; chi stigmatizzava l’aria da coatto del Nord e la parlata da milanese imbruttito; in tanti mal sopportavano quel fare sul confine tra lo sbruffone e l’arrogante, la sicumera di quello che te la spiega lui. E poi la gestualità impettita, l’irrefrenabile voglia di fare una battuta, «meglio» se a sfondo sessuale.

Un atteggiamento che facilmente suscita malumori, soprattutto se — volente o nolente — molti ti etichettano come il «compagno di». […] non erano pochi quelli che avevano letto la sua promozione non come una diretta conseguenza delle sue capacità, ma come un’attenzione verso la premier. Inevitabile che oggi molti a Cologno Monzese festeggino l’«hybris» punita, quella tracotanza immancabilmente seguita dalla vendetta divina. 

[…] Giambruno è stato a dir poco leggero, perché nel nuovo ruolo di fidanzato d’Italia doveva «volare basso», esporsi meno, anziché chiedere di più.

Dall’altra parte è facile immaginare l’umore di Antonio Ricci, il sorriso sornione, le mani ad accarezzare il pizzetto, ora che ha piazzato una doppietta che ha tenuto in scacco la politica italiana con il suo cascame di gossip. Del resto i fuorionda sono da sempre uno dei core business dell’inventore di Striscia : audio rubati, parole orecchiate di nascosto, confidenze rivelate a milioni di spettatori che diventano notizia. […]

Roma, 21 ottobre (LaPresse) - Una telefonata che viene definita "cordiale" e "di vicinanza" quella che - a quanto apprende LaPresse - ci sarebbe stata ieri tra l'amministratore delegato di Mediaset, Pier Silvio Berlusconi, e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dopo i fuori onda di 'Striscia la notizia' sul compagno della premier, Andrea Giambruno, e la decisione di Meloni di interrompere la loro relazione. "Non sapevo nulla di Striscia, altrimenti te l'avrei detto", avrebbe confermato Berlusconi alla premier, avvalorando così la ricostruzione secondo cui la trasmissione dei fuori onda su Giambruno sarebbe stata una scelta autonoma di Antonio Ricci e degli autori del programma.

Estratto dell’articolo di Ilario Lombardo per “la Stampa” sabato 21 ottobre 2023.

Quando Giorgia Meloni telefona ad Antonio Tajani, giovedì, Striscia la notizia ha pubblicato ancora solo il primo fuorionda del compagno Andrea Giambruno. La premier spera che il suo vice, capo di Forza Italia dopo la morte del fondatore Silvio Berlusconi, possa ancora fare qualcosa per fermare lo stillicidio. 

Al termine della telefonata Meloni comprende che le speranze sono nulle. Il servizio del tg satirico andrà in onda e all’ora di cena mostrerà il padre di sua figlia mentre molesta colleghe con battute a sfondo sessuale e si tocca le parti basse.

Cosa succede dopo lo sanno pochissime persone. […] Appena Meloni entra a Palazzo Chigi a Giambruno viene affidata una trasmissione di informazione quotidiana su Rete 4. Fino a quel momento è uno sconosciuto. Invece del classico passo indietro, il compagno entra in un fascio di luce abbagliante che lo espone anche alle gelosie dei colleghi. […]

[…] Giambruno si era fatto diversi nemici dentro l’azienda. Da mesi erano tornati a circolare gli articoli che scriveva su Il Tempo sotto lo pseudonimo Arnaldo Magro, in cui criticava Mediaset perché durante il governo Draghi le reti del Biscione non davano spazio «all’unica forza di opposizione», e cioè il partito della compagna. La promozione in odore di raccomandazione per privilegio coniugale ha fatto il resto. 

Giambruno avrebbe dovuto sapere cosa succede negli studi televisivi del Palatino, a Roma. I microfoni accesi e i fuorionda che vengono conservati e che hanno alimentato la leggenda del potere di “Striscia”. Giambruno sapeva da giorni degli audio che lo interessavano ed è difficile immaginare che non lo sapesse anche Meloni. Nel suo entourage più stretto smentiscono.

Mentre da Fi sostengono che sia stato Pier Silvio Berlusconi, ad di Mediaset, ad avvisarla durante un colloquio a settembre. La premier ha provato a neutralizzarli facendo leva sull’alleanza politica con Marina Berlusconi? O è vero che l’asse con la primogenita si è rotto dopo la forzatura sulla tassa – poi ritirata – sugli extraprofitti bancari? Di certo, ci sono due momenti che si richiamano tra loro in questa storia. Mentre forma il governo, un anno fa, Meloni manda un messaggio a Silvio Berlusconi, sostenendo di non essere ricattabile.

Ieri chiude il post avvertendo chi «spera di indebolirmi colpendomi in casa». Infine, ci sono due fatti che sono stati esaminati dai vertici di FdI. Il primo: a Meloni è stato risposto che Antonio Ricci, autore di “Striscia”, è una repubblica autonoma dentro Mediaset e fa quello che vuole. Il secondo: si parla di una riunione, di mercoledì, nello studio romano di Gianni Letta – pontiere tra gli affari della famiglia, il partito e il governo – dove era presente anche Tajani e in cui si sarebbe discusso di qualcosa di delicato, che avrebbe rimesso Mediaset al centro dell’attenzione politica.

Estratto dell’articolo di Francesco Moscatelli Monica Serra per “la Stampa” sabato 21 ottobre 2023. 

Da primo e in qualche modo moderno first gentleman italiano fotografato in smoking one step behind alla Prima della Scala a compagno sbattuto fuori casa via social. Da volto sempre più noto del piccolo schermo a giornalista sospeso che rischia addirittura il licenziamento. Una meteora. 

Gli unici a non essere rimasti sorpresi dalla repentina caduta dall'olimpo di Andrea Giambruno […] sono i colleghi di Mediaset […] «Lui è così. È sempre stato smargiasso, tamarro e pure un po' ingenuo – racconta uno di loro, rigorosamente in forma anonima -. Il vero errore è stato affidargli una conduzione in diretta. Quando l'abbiamo saputo in tanti abbiamo pensato: com'è possibile che una scaltra come Meloni, che sicuramente conosce bene anche il carattere del suo uomo, sia d'accordo con una scelta del genere?».

[…] Una collega, coinvolta nei fuorionda, consegna il suo telefono a un uomo a cui chiede di negare che quello sia il suo numero. Negli uffici di Mediaset circolano anche molte leggende su Giambruno. Per tanti, sarebbe stato Lele Mora a portarlo nella tv di Berlusconi. E, prima del salto di qualità sul piccolo schermo, per i maligni un giovanissimo Giambruno sarebbe stato addirittura tra i «driver» dell'agente televisivo notoriamente senza patente, poi caduto in disgrazia tra inchieste giudiziarie e condanne. Dicerie? Cattiverie? Possibile.

Quel che è certo, però, è che nelle vecchissime carte delle inchieste sul caso Ruby, il nome di Giambruno emerge dai «tabulati telefonici» raccolti all'epoca dalla polizia. Certo, tredici anni fa, Giambruno - mai indagato - era un signor nessuno e gli inquirenti non hanno avuto motivi di approfondire la sua posizione. Ma tra lui e Lele Mora compaiono una decina di contatti, sms anche ravvicinati, tutti nel luglio del 2010.

[…] Andrea Salvatore Giambruno, di cui ormai sono arcinoti tanto l'incontro con Giorgia Meloni in uno studio televisivo complice una buccia di banana quanto la lunga serie di scivoloni inanellata in diretta in pochi mesi (dalle frasi negazioniste sul «climate change» alla «transumanza» dei migranti, passando per i ministri tedeschi che farebbero meglio a «starsene nella foresta nera» alle riflessioni sulle ragazze che se «evitano di ubriacarsi e perdere i sensi» magari poi non trovano «il lupo»), è iscritto all'elenco dei giornalisti pubblicisti dal 12 giugno del 2014.

Nato a Milano, cresciuto fra l'hinterland e la provincia di Monza, dove si è diplomato allo scientifico Frisi per poi laurearsi in Filosofia alla Cattolica, ha sempre vissuto in quella zona grigia fra il desiderio di diventare qualcuno, televisivamente parlando, e l'anonimato. 

Primi passi a Telenova […] poi un'esperienza a Mtv e l'arrivo sotto il segno del Biscione nel 2009, quando di anni ne aveva 28: autore a Quinta Colonna, Matrix, Mattino Cinque e Stasera Italia, poi Studio Aperto e TgCom24. Chi non lo ama […] malignava sul suo passaggio dalla rassegna stampa notturna al titolo di conduttore. Altra storia è quella della collaborazione con il quotidiano Il Tempo. Come pseudonimo aveva scelto Arnaldo Magro.

La rubrica si chiamava «Segretissimo» e […] ha costretto il direttore Franco Bechis a pubbliche scuse perché una volta l'autore «ha sintetizzato in modo erroneo una frase pronunciata da Matteo Salvini». […]

Estratto dell’articolo di Gianluca Roselli per il “Fatto quotidiano” domenica 30 luglio 2023.

A Mediaset, di un programma in prima serata per Andrea Giambruno non parla più nessuno. Sparito dai radar. La promessa di un talk nel prime time di Rete 4 per il giornalista compagno di vita di Giorgia Meloni non trova conferme. E viene il sospetto che ai piani alti del Biscione, dopo gli ultimi incidenti di percorso dell’anchorman sul cambiamento climatico e sul ministro tedesco “nella Foresta Nera”, ci abbiano ripensato. 

Intendiamoci, di ufficiale non c’era nulla: alla presentazione dei palinsesti lo scorso 5 luglio a Cologno non s’era fatto cenno all’ipotesi. Il direttore dell’informazione, Mauro Crippa, si era limitato a sottolineare l’importanza di valorizzare un prodotto come Diario del giorno, il programma quotidiano che Giambruno conduce nel pomeriggio di Rete 4. E in quel “valorizzare” alcuni hanno inteso un cambio di orario, in una fascia con maggiore ascolto.

Ora però, se gli incidenti dovessero continuare, potrebbe essere a rischio anche Diario del giorno. “Se ne combina una ogni volta che va in onda, qualcuno dovrà porsi il problema”, è il ragionamento che si fa nelle redazioni tra Cologno e il Palatino a Roma. Ma che dentro Mediaset stia crescendo il malcontento verso colui che viene soprannominato “il Meloncino” lo si è visto anche sui social, dopo la polemica sul clima, quando il conduttore ha minimizzato sul caldo oltre i 40 gradi.

“È luglio, fa caldo, non mi sembra una gran notizia”, le parole di Giambruno, che poi con poca eleganza ha tolto la parola alla sua inviata che cercava di dimostrare il contrario. “No, ma tutto bene, a luglio il tempo è questo”, ha twittato Lella Confalonieri (vicedirettrice di Videonews e nipote di Fedele, presidente Mediaset: non proprio l’ultima arrivata), dopo il nubifragio che ha colpito Milano. Aggiungendo un sarcastico “lo dice anche il signor Meloni…”.

È intervenuta pure Laura Cannavò, giornalista politica del Tg5: “Eh sì, aspetta, chi l’aveva detto? L’ho sentito in quel programma di Rete 4. Diario del giorno?”. “La mia frase sul caldo non era correlata alla grandine che poi s’è abbattuta su Milano, quella sì che era una notizia”, ha spiegato Giambruno ieri al Corriere. Insomma, piccole-grandi perfidie tra colleghi, anche perché si sa, specie in tv, quando si assegna un programma a qualcuno, scattano invidie e gelosie. Ma comunque un segnale d’insofferenza dalla pancia di Mediaset verso Mr Meloni. Al momento, però, il giornalista gode ancora dei benefici del patto Marina-Giorgia, con la sponda di Pier Silvio, che ha fatto cessare il controcanto forzista dei primi mesi di governo. […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Costabile per fanpage.it giovedì 19 ottobre 2023
Nella puntata di mercoledì 18 ottobre di Striscia la Notizia si inaugura una nuova rubrica dedicata ad uno dei nomi che più hanno fatto discutere in questa stagione tv: Andrea Giambruno. Il giornalista, nonché conduttore televisivo e compagno di Giorgia Meloni, durante un fuori onda recuperato dal tg satirico di Canale 5, si lascia andare ad alcune considerazioni piuttosto colorite e, inoltre, si rivolge alla collega presente facendole battute allusive.

In prima battuta Giambruno si lamenta del fatto che i suoi capelli siano diventati oggetto di scherno e, infatti, tra una pausa dalla diretta e l'altra non esita a commentare: "Ma non mi rompessero il ca**o col ciuffo, ho 42 anni e ce li ho i capelli, qua dentro sono tutti pelati, ma non mi rompessero i cog***ni, qua c'è gente che bestemmia in onda, mi vanno a guardare i capelli". Il giornalista, poi, in un successivo momento di stop, si avvicina alla sua collega giornalista presente in studio dicendo:
L'unico giudizio che conta per me è quello della Viviana, ma la bellezza di questo blu estoril, una donna acculturata come te dovrebbe saperlo, blu Cina no, non ti si addice, sei di un livello superiore, meglio oggi? Sei di buon umore? Mi è dispiaciuto ieri vederti un po'…Sei una donna intelligentissima, ma perché non ti ho conosciuta prima. […]

(LaPresse giovedì 19 ottobre 2023) - Il fuorionda trasmesso da 'Striscia la notizia' in cui si sente il compagno della premier, il conduttore di Rete4, Andrea Giambruno, rivolgersi a una collega dicendole "ma perché non ti ho conosciuto prima, sei così acculturata, sei di livello superiore", si aggiunge alla lunga lista di altre 'conversazioni' registrate all'insaputa delle persone ignare dei microfoni accesi, che hanno visto coinvolti politici italiani di diverse fazioni e personaggi dello spettacolo. Ecco alcuni dei più celebri fuori onda 'pizzicati' dalla tv.

1994 - Ad uno speciale del Tg4, Rocco Buttiglione, allora segretario del Ppi, pensando di essere in pubblicità approcciò così Antonio Tajani, portavoce di Forza Italia. E nel commentare i risultati delle amministrative caldeggia la possibilità di un'alleanza Ppi-Fi alle politiche. "Voi dovere fare un'alleanza con noi, dobbiamo fare un partito assieme, dovete darmi atto che io ho sempre parlato bene di Forza Italia. 

Si possono fare alle regionali degli esperimenti, a voi converrebbe fare nord con noi, che vinciamo dappertutto, scaricare la lega, un sud centro fronte di liberazione regionale non egemonizzato da nessuno.... Dobbiamo fare maturare le condizioni perché in altre situazioni con il doppio turno va un bel blocco di centro e allora Fini per un verso si ridimensiona, per un altro fa la lettura che deve fare". 

2009 - L'allora presidente della Camera Gianfranco Fini si mette a chiacchierare con il procuratore Nicola Trifuoggi durante un convegno su Paolo Borsellino. Parte uno scambio di battute su Berlusconi. "No ma lui (Berlusconi, ndr), l'uomo confonde il consenso popolare che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunita' nei confronti di... qualsiasi altra autorita' di garanzia e di controllo... magistratura, Corte dei Conti, Cassazione, Capo dello Stato, Parlamento... siccome e' eletto dal popolo...", dice Fini.
E Trifuoggi risponde: "E' nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l'imperatore romano". E ancora Fini: "Ma io gliel'ho detto... confonde la leadership con la monarchia assoluta.... poi in privato gli ho detto…

ricordati che gli hanno tagliato la testa a... quindi statte quieto". 
2013 - Ospite di Barbara D'Urso, Silvio Berlusconi, mentre parte lo stacco pubblicitario, chiede alla conduttrice di fargli alcune precise domande. "E poi mi domandi...". 

2013 - Dialogo tra Grillo, Rocco Crimi e Roberta Lombardi appena usciti dal Quirinale dopo le consultazioni del presidente Giorgio Napolitano. "Napolitano è simpatico – dicono -, mi sembra un po' più sveglio ultimamente" e Grillo è d'accordo: "Sì sì, mi è piaciuto molto". "Dobbiamo trovare un altro nome, non chiamarlo più Morfeo". 

2013 - Renzi ripreso con uno smartphone mentre parla con alcuni militanti alla festa del Pd di Bologna, fa i complimenti allo sfidante: "Bersani - dice Renzi - durante le primarie è stato perfetto, mi ha fatto un c... così".

2014 - L’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio si è lasciato andare a un’esternazione non troppo diplomatica con Sergio Chiamparino: "Comincio io, poi continua tu: non me ne frega un c...". 

2016 - A 'Dalla vostra parte' Laura Ravetto, esponente di Forza Italia, si infervora con Paolo Del Debbio e la sua redazione per averle tolto la parola durante un collegamento. "Adesso mi ridanno la parola se non mi inc... Io devo poter replicare se no faccio un casino". 

2019 - Laura Ravetto si lascia andare con Nicola Fratoianni: "Quel figlio di pu***na di Macron".
2021 - L’eurodeputata De Martini e l’onorevole Scalfarotto discutono a proposito dei parlamentari europei: "L'Italia manda in Europa il peggio... hanno usato l'Europa come discarica... almeno che sappiano l'inglese".

Da today.it - Estratti giovedì 19 ottobre 2023

"Sei di buon umore? Mi è dispiaciuto ieri vederti un po'…Sei una donna intelligentissima, ma perché non ti ho conosciuta prima…?". Queste le parole dello 'scandalo' con cui Andrea Giambruno si è rivolto alla collega Viviana Guglielmi durante un fuori onda del programma "Diario del giorno". Ma chi è Viviana, giornalista al centro dei filmati che tanto stanno facendo discutere su Giambruno, compagno della premier Giorgia Meloni?  

Classe 1977, Viviana Guglielmi è una giornalista che oggi si occupa di attualità ma che ha iniziato trattando di sport e intrattenimento. La sua carriera è stata sempre in ascesa, tanto da riuscire ad aprirsi a poco a poco una strada nel giornalismo. Nata a Sanremo ma cresciuta nel bergamasco, Guglielmi ha una laurea in Scienze della Comunicazione ed è iscritta all’Albo dei giornalisti della Lombardia dal giugno 2009.

In passato ha lavorato le testate Il Giornale e Style, poi l'approdo televisivo alla Gazzetta TV e in seguito nella redazione di Tgcom24, quindi nelle reti Mediaset. "Sono appassionata di sport. 

(...)
Da fanpage.it - Estratti giovedì 19 ottobre 2023

Finisce nell’occhio del ciclone l’ennesimo scivolone televisivo di Andrea Giambruno , questa volta immortalato in un pessimo fuori onda del suo programma Diario del giorno su Rete 4. Dopo le esternazioni degli ultimi tempi, dal caso degli stupri di Palermo e dopo aver usato il termine “transumanza” per parlare di immigrazione, il giornalista Mediaset viene colto in fallo da Striscia La Notizia, mentre tenta un approccio non ricambiato con la collega e giornalista in studio Viviana Guglielmi che, imbarazzata, non lo degna nemmeno di uno sguardo.

Viviana Guglielmi è una giornalista delle reti Mediaset. Nata nel 1977 a Sanremo ma cresciuta nel bergamasco, ha una laurea in Scienze della Comunicazione ed è iscritta all’Albo dei giornalisti della Lombardia dal giugno 2009. Inizia la sua carriera nel giornalismo televisivo occupandosi di sport e di intrattenimento. Nel 2008 approda ad Antennatre con il programma Azzurro Italia e dal 2010 viene affidata alla conduzione di Happy Hour, in onda su Tele Lombardia. Ha collaborato anche per diverse testate, da Il Giornale alla rivista Style. È apparsa sugli schermi di Inter Channel, poi su Sistal Tv: Approda infine a Gazzetta TV e in seguito nella redazione di Tgcom24. “Sono appassionata di sport.
Da ragazzina facevo i campionati regionali di nuoto, stile libero. In tv non perdevo una puntata de La domenica sportiva. E mi dicevo: “Un giorno mi piacerebbe condurre un programma di calcio…”, ha raccontato in un’intervista al Corriere nel 2015 ai tempi di GazzettaTv. “Il mio modello? Candido Cannavò. Mi sono nutrita dei suoi editoriali, dei suoi libri. Lo vedevo in tv e dicevo: “Quello è lo stile giusto, compassato e profondo, mai sopra le righe, mai una parola fuori luogo”.
(…)

Da open.online giovedì 19 ottobre 2023

Il giorno dopo il fuori onda di Striscia la Notizia Andrea Giambruno non è andato in onda con il suo Diario del Giorno su Rete 4 per moderare un convegno sul turismo a Pavia. Ma anche lì gli è andata male e i microfoni che lui pensava spenti prima di iniziare hanno captato un altro audio “rubato”. Al suo fianco il compagno di Giorgia Meloni aveva l’assessora al Turismo della Regione Lombardia, Barbara Mazzali, già capogruppo di Fratelli di Italia in consiglio regionale. Giambruno con galanteria le offre un bicchiere d’acqua in attesa dell’inizio del convegno. E inizia a sfogarsi, con chiaro riferimento a quanto accaduto la sera prima: «Ormai sono terrorizzato da tutto. Appena dico qualunque cosa diventa oggetto di mistificazione…». 

L’assessora Mazzali ha provato a confortare Giambruno, facendogli qualche complimento: «magari da dentro no, ma per chi guarda dal di fuori anche tu hai una tua leadership». Giambruno sembra condividere: «Sì…», e lei prosegue: «quindi anche questo ci sta nel tuo personaggio…». Il conduttore di Mediaset incassa il complimento, ma prosegue a raccontare la sua pena: «Sì, ma la cosa che ti dà noia è che ti vogliano fare passare per…».

Ecco, qui la frase viene interrotta da un tecnico di sala che avvisa Giambruno e l’assessora che avevano i microfoni aperti, quindi intercettabili da altri. E li chiude. Non sapremo mai come sia proseguito lo sfogo di Giambruno, che pure è continuato per lunghi minuti fino a quando non è iniziato il convegno. E dopo due ore di tavola rotonda è ripreso fitto fitto- questa volta in piedi sorseggiando un calice di spumante- durante una pausa dei lavori in cui Giambruno ha confessato alla Mazzali tutte le sue pene del momento.

Estratto dell’articolo di Gaia Martino per fanpage.it giovedì 19 ottobre 2023
Andrea Giambruno è ancora protagonista di Striscia La Notizia. Dopo il filmato del fuorionda nel quale si lascia andare ad alcune considerazioni e si rivolge alla collega, Viviana Guglielmi, con battute allusive, nella puntata di […] giovedì 19 ottobre, il tg satirico ha trasmesso nuove dichiarazioni del giornalista e conduttore. 
[…] Gli audio trasmessi da Striscia La Notizia stasera fanno parte ancora di un fuorionda di Andrea Giambruno. Non è chiaro a chi si rivolga il conduttore e giornalista, ma le dichiarazioni sono ben comprensibili: "Posso toccarmi il pacco mentre vi parlo" dice, "L'hai già fatto" risponde una donna. 

Il conduttore continua: "Tu sei fidanzata?". "Si, te l'ho già detto stamattina, Andrea", la risposta. Poi ancora: "Sei aperturista? Come ti chiami? Ci siamo già conosciuti io e te?, dove ti ho già vista? Ero ubriaco? Lo sai che io e *****, abbiamo una tresca? Lo sa tutta Mediaset, ora lo sai anche tu. 

Stiamo cercando una terza partecipante, facciamo le threesome. Anche le foursome con **** . Però generalmente va a Madrid a ciu***e. Hai sco*ato? C'è fi*a? Sco**to? Entrerai a far parte del nostro gruppo di lavoro? Ti piacerebbe? Però devi darci qualcosa in cambio". 

E allora che la donna risponde: "La mia competenza". "Noi facciamo le foursome, si sco*a", continua Giambruno. Il conduttore si rivolge poi a qualcun altro raccontando il botta e risposta avuto con quella donna: "Le ho detto […] devi fare le foursome con noi. Tradotto: si sco*a". A quel punto interviene un uomo: "Se ti registra Striscia, poi vedi te..". E allora che Giambruno ironizza: "Ma che ho detto? Dai. Si ride, si scherza. Veniamo dalla pandemia. Manco stessimo parlando dell'Agenzia delle entrate".

Estratto dell’articolo di Ilaria Costabile per fanpage.it giovedì 19 ottobre 2023
Nella puntata di mercoledì 18 ottobre di Striscia la Notizia si inaugura una nuova rubrica dedicata ad uno dei nomi che più hanno fatto discutere in questa stagione tv: Andrea Giambruno. Il giornalista, nonché conduttore televisivo e compagno di Giorgia Meloni, durante un fuori onda recuperato dal tg satirico di Canale 5, si lascia andare ad alcune considerazioni piuttosto colorite e, inoltre, si rivolge alla collega presente facendole battute allusive.

In prima battuta Giambruno si lamenta del fatto che i suoi capelli siano diventati oggetto di scherno e, infatti, tra una pausa dalla diretta e l'altra non esita a commentare: "Ma non mi rompessero il ca**o col ciuffo, ho 42 anni e ce li ho i capelli, qua dentro sono tutti pelati, ma non mi rompessero i cog***ni, qua c'è gente che bestemmia in onda, mi vanno a guardare i capelli". Il giornalista, poi, in un successivo momento di stop, si avvicina alla sua collega giornalista presente in studio dicendo:
L'unico giudizio che conta per me è quello della Viviana, ma la bellezza di questo blu estoril, una donna acculturata come te dovrebbe saperlo, blu Cina no, non ti si addice, sei di un livello superiore, meglio oggi? Sei di buon umore? Mi è dispiaciuto ieri vederti un po'…Sei una donna intelligentissima, ma perché non ti ho conosciuta prima. […]

Giulio Bucchi per liberoquotidiano.it – articolo del 2 dicembre 2018 
"Gianfranco Fini cercava un pretesto per rompere con Silvio Berlusconi, che ovviamente non c'entrava nulla". Antonio Ricci, intervistato dal Corriere della Sera, rivela perché, grazie a Striscia la notizia, è nato il Pdl, l'ex partito unico del centrodestra italiano.

Il momento cruciale fu un servizio mandato in onda da Canale 5 su Elisabetta Tulliani, compagna dell'allora leader di Alleanza nazionale, e il suo ex Luciano Gaucci. Fini la prese malissimo. "Tutti, come da copione, presero le sue difese e attaccarono Berlusconi", ricorda Ricci. "Alla domenica, dopo 3 giorni di bastonate, lui salì sul predellino e lanciò il Pdl al quale poco dopo dovette aderire lo spiazzato Fini". E così, conclude Ricci con un pizzico di amarezza, lui da sempre schierato a sinistra, "alla fine il grande partito della destra italiana nacque anche per colpa nostra".

Novembre 2010: nel libro di Bruno Vespa, "Il Cuore e la Spada" (Mondadori) si parla delle fibrillazioni nella politica italiana nel 2007 e delle origini della crisi, poi scoppiata nel marzo 2010, tra Berlusconi e Fini. 
L'irritazione di Fini nei confronti di Berlusconi aveva motivazioni politiche, ma era acuita da un fatto strettamente personale: uno sgradevole servizio di «Striscia la notizia» sulla sua nuova compagna, Elisabetta Tulliani.
Il 2007 era stato un anno decisivo per la vita privata del leader di An. Come abbiamo visto, il 16 giugno un comunicato di poche righe - redatto dall'avvocato di entrambi, Giulia Bongiorno - aveva annunciato la separazione di Gianfranco dalla moglie Daniela: «Dopo tanti anni di matrimonio [diciannove], può accadere che certi sentimenti cambino: noi ce ne siamo resi conto con immenso dispiacere ma anche con lucidità e la decisione di separarci è stata presa di comune accordo». 

FULMINE A CIEL SERENO - Per l'opinione pubblica era stato un fulmine a ciel sereno, anche perché, soltanto tre mesi prima, Daniela sembrava ancora innamoratissima del marito. (Una separazione davvero blindata, la loro, se nemmeno tre anni dopo - quando tra l'estate e l'autunno del 2010 è esplosa la vicenda della casa di Montecarlo -nessun cronista è riuscito a estorcerle una sola sillaba. Fra l'altro, Daniela ha continuato a frequentare gli amici politici dell'ex marito anche dopo la scissione dal Popolo della Libertà).
Quando si seppe la notizia, Fini, cinquantacinque anni, era in attesa che la nuova compagna Elisabetta, trentacinque anni, gli desse Carolina (poi arriverà anche Martina). L'unione divenne quindi pubblica solo dopo la separazione di Gianfranco, ma i due si conoscevano già dal 2005. 

Era stato Luciano Gaucci a presentarli. Dapprima Ignazio La Russa fece fare a Elisabetta un po' di pratica politica, ma ben presto scoprì che lei aveva aspirazioni televisive: bella e intelligente, non le fu difficile partecipare ad alcuni programmi di successo. Elisabetta, però, era innamorata di Gianfranco, e lui si innamorò di lei. «Ora ho deciso di lasciare il mondo dello spettacolo, per amore di Gianfranco» disse a Giulia Cerasoli di «Chi» (21 novembre 2007).

«Di personaggi pubblici in famiglia ne basta uno. Tornerò al mio lavoro di avvocato, ma non adesso». (Il suo elegantissimo sito Internet reca la scritta «Coming soon», prossima apertura). Quando si mise con Fini, Elisabetta era reduce da un lungo legame con l'imprenditore Luciano Gaucci (settant'anni nel 2010). «Sarebbe sciocco fingere di non avere un passato» affermò sempre nella stessa intervista.
«Avevo ventotto anni, ero libera e lo era anche lui. Gaucci è un uomo molto intelligente che mi ha insegnato moltissimo». E sul suo rapporto con Fini aggiunse: «Piano piano ci siamo accorti che ci capivamo al volo. È un uomo estremamente affascinante, sicuro di sé, ma con una dolcezza incredibile». 
(Dopo l'arrivo della primogenita, a Laura Laurenzi della «Repubblica» descrisse il compagno come un uomo molto affettuoso: «Quando la bimba si sveglia, Gianfranco si alza con me, e sta con lei ogni momento che può. Le cambia anche i pannolini»). La prima uscita pubblica della Tulliani a fianco di Fini fu nel gennaio 2008 in occasione di una sfilata «ecologica » di Gattinoni.

PARTE IL TORMENTONE - Ma fin dall'autunno precedente, appena si era diffusa la notizia della loro relazione, «Striscia la notizia» aveva trasmesso con irritante sistematicità filmati dell'epoca del suo rapporto con Gaucci: uomo intelligente, come l'ha definito lei stessa, ma divenuto ormai oggettivamente ingombrante. Il leader di An attribuì a Berlusconi la responsabilità dello sgradevolissimo tormentone. Chi conosce Antonio Ricci, il padre di «Striscia la notizia», ricorda bene quante ne abbia combinate allo stesso Cavaliere...
E, d\'altra parte, chi conosce Berlusconi sa che di certo quella campagna, visto il momento, non doveva essergli dispiaciuta. Come gli articoli graffianti che uscirono nelle stesse settimane sul «Giornale» e su «Libero». Sul piano politico, Fini, imbufalito con il Cavaliere per il patrocinio che aveva dato alla scissione da An della corrente di Francesco Storace e Daniela Santanchè, fondatori della «Destra» (da cui poi la seconda si sarebbe dissociata, diventando sottosegretario del nuovo governo Berlusconi), aveva reagito con due colpi bassi.

Il primo, con l'annuncio fatto ai suoi che, da quel momento, si sarebbe occupato personalmente dei due temi più sensibili per il Cavaliere, la giustizia e le televisioni. Il secondo, con una formidabile contestazione a Fabrizio Cicchitto, vice coordinatore nazionale di Forza Italia, inondato di fischi al convegno di Assisi della corrente di La Russa e Gasparri, a cui aveva partecipato come ospite. Quest'ultimo episodio avvenne sabato 17 novembre e fu lo «sparo di Sarajevo» che, l'indomani, portò Berlusconi alla svolta di piazza San Babila a Milano.

(ANSA 21 novembre 2007)  Più che di complotto per Antonio Ricci ''si tratta di miracolo'': ''ho la gioia mediatica di essere indicato come quello che ha fatto separare Fini e Berlusconi. E sono pure fiero di aver ucciso il bipolarismo'', dice l'autore di Striscia la notizia in un'intervista al Corriere della Sera in cui racconta quello che e' successo dopo aver trasmesso il video ''che girava da giorni'' della vecchia storia tra l'ex presidente del Perugia Luciano Gaucci e l'allora fidanzata Elisabetta Tulliani, che aspetta un figlio da Gianfranco Fini.

Il video e' andato in onda a Striscia proprio il giorno della Finanziaria, a due giorni dallo scioglimento di Forza Italia ha fatto infuriare Fini. ''Striscia - ha ribadito Ricci nell'intervista - ha fatto solo il suo dovere di programma di satira''. 

Ma non c'e' nessun complotto: ''Berlusconi non controlla Striscia tanto e' vero che lunedi' abbiamo mostrato le false firme ai suoi gazebo. Invece mi ha telefonato Confalonieri subito dopo la messa in onda del video. Balbettava - ha rivelato Ricci - frasi tipo 'Gentiloni... Complotto... non so come uscirne, cosa fare''. E il giorno dopo Mediaset ha diramato il comunicato prendendo le distanze da Striscia.
(ANSA 16 novembre 2007) ''Abbiamo fatto satira''. Cosi' Antonio Ricci, papa' di 'Striscia la notizia', sulla vicenda della nuova compagna del leader An Gianfranco Fini, Elisabetta Tulliani, dopo l'intervento di oggi della presidenza di Mediaset. 

Satira ''come l'abbiamo fatta - ha aggiunto Ricci - su Silvio Berlusconi, Massimo D'Alema e Walter Veltroni. La satira per definizione e' satura''.

Marco Galluzzo per corriere.it del 31 gennaio 2007

Alle due di notte c'è spazio per un governo possibile con la Margherita e una proposta di matrimonio all'avvenente Mara Carfagna. Alle tre per una sbirciatina fugace all' abito succinto della velina, un paio di interviste e una battuta a Zucchero («devo sottoporti alcuni testi che ho scritto, prima però tagliati barba e capelli»). Alle quattro infine l'indicazione di Fini come possibile successore, una favola di Esopo per denunciare i limiti della sinistra e i saluti ad un'Aida Yespica che gli sorride e lo fa sorridere: «Con te andrei ovunque, anche in un' isola deserta...».

Alla serata dei Telegatti Berlusconi non manca mai. Due sere fa ha rispettato la regola: è arrivato quando gli ospiti erano già seduti, è andato via tre ore dopo, alle quattro del mattino, quando i camerieri avevano sparecchiato i tavoli. All'una ha detto che non era serata per discorsi politici, semmai per galanterie alle signore; alle quattro ha cambiato idea e tenuto un piccolo comizio sul liberalismo e sul futuro del Paese. 
Accanto a lui la velina di Striscia la notizia Melissa Satta, abito quasi inesistente sul retro e anche lei tanti sorrisi al Cavaliere: «Vedo che ha risparmiato sul sarto, signorina. Guardi che conosco suo padre, domani lo chiamo, è avvertita...».

Al complesso monumentale del Santo spirito, ex ospedale per poveri e infermi, volte affrescate nel ' 400, l' atmosfera è quella di una festa vip e popolare: c' è lo staff di Mediaset al completo, i volti dei reality di successo, conduttori, soubrette, attori televisivi. Pippo Baudo è poco distante da Valeria Marini. 

Rita Rusic saluta affettuosamente le sorelle Carlucci, sedute al tavolo del Cavaliere insieme a Claudio Bisio e Vanessa Incontrada, che hanno condotto la serata tv, e al condirettore di «Tv Sorrisi e canzoni», Rosanna Mani. Poco distanti Pamela Prati e la Yespica, ma anche l' ex sottosegretario diessino Vincenzo Vita e il presidente diellino della Provincia, Enrico Gasbarra.

A quest' ultimo l' ex premier sussurra a lungo all' orecchio. Anni fa lo ospitò ad Arcore, gli disse che aveva gusto ed estetica adatti a una metamorfosi, cercò senza successo di cooptarlo in Forza Italia: «E ci riprova sempre - racconta lo stesso Gasbarra - dice che prima o poi bisogna fare un governo insieme, con noi della Margherita. Gli ho detto che così mi spaventava il mio assessore, Vita, e allora lui ha insistito con mia moglie: "lo dica lei a suo marito, deve venire con noi, e poi i ds ormai sono liberalizzatori, possiamo imbarcare anche loro in un governo tecnico..."». 

Sorridono mentre raccontano, in sala si addenta il tortino di zucca, Berlusconi è già qualche metro più in là, si lamenta scherzando del convegno di Liberal sul «berlusconismo», ovvero su se stesso, ieri e oggi nella Capitale: «Mi stanno paragonando a Reagan e de Gaulle e non mi va proprio giù, almeno per ora, sono ancora vivo....».

Prosegue il giro di tavoli, viene presentato e presenta il leader di Forza Italia, nel secondo caso sono due deputate azzurre ad essere introdotte, la bionda Micaela Biancofiore, la mora Mara Carfagna: «Belle, brave, molto più di tanti deputati». Ma per la seconda c' è un complimento in più: «Se non fossi già sposato la sposerei subito..». 

Poco prima di andare è la volta della favola: «Uno scorpione - racconta il Cavaliere - chiese alla rana di poter salire sul suo dorso, per farsi trasportare oltre il torrente. La rana rispose: "Non lo farò, perché altrimenti, durante il guado, mi pungerai". E lo scorpione: "Non potrei mai farlo, altrimenti annegheremmo entrambi".

La rana si fa convincere ma arrivati al centro del torrente lo scorpione la punge a morte. Prima che ambedue anneghino - conclude Berlusconi- alla rana rimane il tempo di chiedere allo scorpione il perché del suo gesto. Risposta: "l' ho fatto semplicemente perché è nella mia natura"». Morale: «Non si meravigli ora Prodi se all'interno della coalizione, sui temi delle riforme, i partiti che vantano ancora la definizione di comunisti prendano posizione divergenti: è la loro natura».
Da gazzetta.it – 31 gennaio 2007

"A mio marito e all'uomo pubblico chiedo pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente". Veronica Lario Berlusconi sceglie la strada di una lettera aperta al direttore di Repubblica per esprimere le sue reazioni alle affermazioni dell'ex presidente del Consiglio nel corso della cena di gala dopo la consegna dei Telegatti. 

"Mio marito - scrive Veronica Berlusconi - riferendosi ad alcune delle signore presenti - si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili: 'se non fossi già sposato la sposerei subito', 'con te andrei ovunque". "Sono affermazioni - prosegue la Lario nella lettera - che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l'età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni".

LA RISPOSTA DI BERLUSCONI - Ecco il testo della lettera di risposta inviata dal Presidente Silvio Berlusconi alla moglie Veronica, che ha rifiutato poi ogni commento: "Cara Veronica, eccoti le mie scuse. Ero recalcitrante in privato, perché sono giocoso, ma anche orgoglioso. Sfidato in pubblico, la tentazione di cederti è forte. E non le resisto. 

Siamo insieme da una vita. Tre figli adorabili che hai preparato per l'esistenza con la cura e il rigore amoroso di quella splendida persona che sei, e che sei sempre stata per me dal giorno in cui ci siamo conosciuti e innamorati. Abbiamo fatto insieme più cose belle di quante entrambi siamo disposti a riconoscerne in un periodo di turbolenza e di affanno. Ma finirà, e finirà nella dolcezza come tutte le storie vere.

Le mie giornate sono pazzesche, lo sai. Il lavoro, la politica, i problemi, gli spostamenti e gli esami pubblici che non finiscono mai, una vita sotto costante pressione. La responsabilità continua verso gli altri e verso di sè, anche verso una moglie che si ama nella comprensione e nell'incomprensione, verso tutti i figli, tutto questo apre lo spazio alla piccola irresponsabilità di un carattere giocoso e autoironico e spesso irriverente. 
Ma la tua dignità non c'entra, la custodisco come un bene prezioso nel mio cuore anche quando dalla mia bocca esce la battuta spensierata, il riferimento galante, la bagattella di un momento. Ma proposte di matrimonio, no, credimi, non ne ho fatte mai a nessuno. Scusami dunque, te ne prego, e prendi questa testimonianza pubblica di un orgoglio privato che cede alla tua collera come un atto d'amore.
Uno tra tanti. Un grosso bacio Silvio". Insomma Berlusconi sembra sottoscrivere ancora quanto ribadito in un'intervista ad A e anticipata proprio oggi dal Corriere della Sera. "Veronica è una donna speciale. È stata una passione totale. Non mi ha mai fatto fare una brutta figura...". "E poi - conclude dulcis in fundo - è anche indulgente". 
REAZIONI - Le affermazioni audaci che hanno scatenato la reazione della signora Berlusconi sono state rivolte dal Cavaliere ad AIda Yespica e Mara Carfagna. All'arrivo dell'ex premier alla cena dei Telegatti, la prima gli si sarebbe rivolto confessando: "Presidente, con lei andrei su un'isola deserta".

Brillante e dalla risposta pronta, il Cavaliere le ha quindi risposto: "Io con te andrei dovunque". Ma è per la Carfagna, showgirl eletta nelle fila di Forza Italia, che l'ex-premier riserva la nota più romantica: "Guardatela... se non fossi già sposato me la sposerei". 

Veronica Berlusconi premette che gli costa molto vincere "la riservatezza" che ha contraddistinto il suo modo di essere "nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi" qual è suo marito. Ma dopo aver affrontato "gli inevitabili contrasti e momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta, con rispetto e discrezione", Veronica Lario decide di rompere il muro del silenzio non solo per tutelare la sua dignità di donna, ma anche per dare un esempio ai figli: prima di tutto alle sue figlie femmine e poi per "aiutare suo figlio maschio a non dimenticare mai di porre tra i suoi valori fondamentali il rispetto per le donne".

"Oggi - sottolinea - nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l'esempio di una donna capace di tutelare la propria dignità nel rapporto con gli uomini assume un'importanza particolarmente pregnante".

I fuorionda di «Striscia» su Giambruno (e l’assenza di ieri dalla conduzione). Le frasi: «Sei aperturista? Dove ti ho già vista?». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2023
Il tg satirico Mediaset giovedì sera ha fatto sentire degli altri audio in cui il compagno della premier fa riferimenti sessuali verso una collega

Un doppio fuorionda di «Striscia la notizia» mette in imbarazzo Andrea Giambruno , il compagno della premier Giorgia Meloni. Il primo è stato trasmesso dal tg satirico di Antonio Ricci martedì sera. Su di giri, qualche battuta, qualche parolaccia, il giornalista si lamenta per le ironie sulla sua capigliatura («ma non mi rompessero per il ciuffo, già che ce li ho i capelli; qua dentro sono tutti pelati»). Poi si avvicina alla collega Viviana Guglielmi e se ne esce con una frase poco felice («sei una donna intelligentissima, ma perché non ti ho conosciuta prima?»).

Ieri sera il secondo round: lui non si vede ma si sente fare diversi espliciti riferimenti sessuali nei confronti di una collega: «Sei aperturista? Come ti chiami? Ci siamo già conosciuti? Dove ti ho già vista? Ero ubriaco?». Poi l’audio prosegue. «Come amore? Sai che io e XXX (il nome viene censurato, ndr) abbiamo una tresca? Lo sa tutta Mediaset, adesso lo sai anche tu. Però stiamo cercando una terza partecipante. Vuoi entrare a far parte del nostro gruppo di lavoro, ti piacerebbe?». A un certo punto forse si accorge di aver esagerato e minimizza: «Ma cosa ho detto? Si ride e si scherza, veniamo da una pandemia. Manco stessimo parlando dell’Agenzia delle Entrate».

Il primo fuorionda si è portato dietro anche una coda di giallo, perché ieri pomeriggio Giambruno non ha condotto il suo Diario del giorno su Rete4. Ma in realtà non c’era nessun mistero perché il compagno di Giorgia Meloni era impegnato in un convegno previsto già da tempo (le «prove» anche sui giornali e siti locali che nei giorni scorsi avevano annunciato l’evento) ed è stato sostituito in conduzione da Manuela Boselli. Andrea Giambruno si trovava infatti a Pavia per moderare uno degli incontri per «Gli Stati Generali su cammino e turismo sostenibile», con la ministra del Turismo Daniela Santanchè a inaugurare i lavori. Ma anche qui è stato «vittima» di un altro audio «rubato» mentre parlava con l’assessora al Turismo della Regione Lombardia, Barbara Mazzali: «Ormai sono terrorizzato da tutto — si era sfogato —, appena parlo qualunque cosa diventa oggetto di mistificazione».

Non era la prima volta che Giambruno saltava una puntata di «Diario del giorno», era già successo altre volte in passato. Ma è evidente che oggi l’attenzione si concentra sempre più spesso su di lui per via anche di uscite mediatiche non sempre felici. Mediaset comunque assicura che oggi il giornalista sarà regolarmente al suo posto.

Chi è Manuela Boselli, la giornalista di Parma che ha sostituito Giambruno. Vittoria Melchioni su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2023.

Dopo lo «scandalo dei fuorionda» e la rottura della premier Meloni, è lei il volto della trasmissione da due giorni

Dopo il benservito da parte della premier Giorgia Meloni, Andrea Giambruno ha deciso di autosospendersi per una settimana dalla conduzione di Diario del giorno  in onda su Rete4. Mediaset, forse anche alla luce delle accuse sessiste mosse nei confronti del first gentleman, lo ha sostituito con una giornalista, la parmigiana Manuela Boselli, classe 1984. 

La gavetta nei media locali

Assente giustificato dal video già da una puntata (Giambruno ere impegnato nella moderazione di un convegno a Pavia sul turismo sostenibile dove era previsto un intervento del ministro del turismo Daniela Santanché), il conduttore non era in studio neanche il giorno seguente la messa in onda dei compromettenti fuorionda in cui flirta in modo esplicito con un’altra collega Viviana Guglielmi. A fare gli onori di casa dello spazio di approfondimento del TG4 è stata, appunto, Boselli, volto familiare agli spettatori della rete dato che ha spesso condotto alcune edizioni del telegiornale, ha un curriculum di tutto rispetto. Laureata in Scienze della comunicazione presso all’Università di Parma, Manuela è iscritta all'Albo dei giornalisti professionisti dal 2012. Giornalista della Gazzetta di Parma, dal 2003 passa alla televisione a Tv Parma dove resta fino al 2015 conducendo il Tg e occupandosi un po’ di tutto, come accade nelle redazioni di testate locali dalla cronaca bianca, alla nera, alla politica, alla cultura. 

Il passaggio a Mediaset

Ma anche lo sport la appassiona (diventa anche capo ufficio stampa del CSI parmigiano) e diventa il volto di trasmissioni come Tv Parma Football Club, dedicata al calcio dilettantistico, o Pit Stop, dedicata al mondo dei motori; poi Parma Ring programma sulla boxe. A maggio 2015 il passaggio a Mediaset, precisamente al canale Premium News dove, anche lì, ha condotto il telegiornale. Nel 2016 entra a far parte della redazione di Tgcom24 e nel 2018 arriva nella redazione del Tg4, dove conduce entrambe le edizioni delle news: quella di mezzogiorno e quella delle sette di sera. Infine, la sostituzione, temporanea o meno, di Andrea Giambruno alla conduzione di “Diario del giorno”. E' sposata ed è mamma del piccolo Giulio. 

Meloni: «La mia relazione con Andrea Giambruno finisce qui. Difenderò nostra figlia Ginevra». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2023

Su Twitter la premier Giorgia Meloni ha scritto che la relazione con il compagno Andrea Giambruno è conclusa. Il post arriva dopo i fuorionda di Striscia registrati a margine della trasmissione del giornalista Mediaset
Giorgia Meloni lascia Andrea Giambruno: «La mia relazione con Andrea Giambruno, durata quasi dieci anni, finisce qui. Lo ringrazio per gli anni splendidi che abbiamo trascorso insieme, per le difficoltà che abbiamo attraversato, e per avermi regalato la cosa più importante della mia vita, che è nostra figlia Ginevra» ha scritto la premier su Twitter.

«Le nostre strade si sono divise da tempo, ed è arrivato il momento di prenderne atto» ha aggiunto la presidente del Consiglio a proposito del suo rapporto con il giornalista Mediaset. La figlia della coppia, Ginevra, è nata il 16 settembre 2016.

Il messaggio, pubblicato anche sugli altri account social di Meloni, arriva dopo i fuorionda di Striscia la Notizia che contengono dichiarazioni sessiste e a sfondo sessuale rilasciate da Giambruno a margine della sua trasmissione Diario del giorno, in onda su Rete 4.

Le gaffe di Giambruno

«Sei aperturista? Come ti chiami? Ci siamo già conosciuti? Dove ti ho già vista? Ero ubriaco?» si sente in uno degli audio trasmissi dal tiggì satirico. Nei mesi scorsi, da quando la leader di Fratelli d'Italia è stata nominata premier, Giambruno si è reso protagonista di altre gaffe e uscite più o meno gravi: in settembre ha parlato di «transumanza» riferendosi ai migranti, per poi scusarsi dopo le critiche. Sugli stupri aveva detto: «Se eviti di ubriacarti o perdere i sensi magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche e poi rischi che il lupo lo trovi». Al al ministro della Sanità tedesco Karl Lauterbach, ironizzando sui cambiamenti climatici: «Se non ti sta bene stai a casa tua. Stai nella Foresta nera, stai bene, no?». Meloni è stata chiamata anche a commentare alcune di queste uscite: «Penso che Andrea Giambruno abbia detto in modo frettoloso e assertivo una cosa diversa da quella interpretata dai più. Non è una giustificazione per stuprare le ragazze, ma per dire "state attente, occhi aperti": questo ci vedo io» aveva detto, aggiungendo poi: «Non ritengo di dover essere io a dirgli quel che deve dire...». Lui al Corriere, in un'intervista a Candida Morvillo, aveva sottolineato: «Anche Meloni non si è mai permessa di dirmi cosa dire»

La goccia e la pietra

Nel post in cui annuncia la rottura, Meloni conclude: «Difenderò quello che siamo stati, difenderò la nostra amicizia, e difenderò, a ogni costo, una bambina di sette anni che ama la madre e ama il padre, come io non ho potuto amare il mio. Non ho altro da dire su questo. Ps. tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua».

La mia relazione con Andrea Giambruno, durata quasi dieci anni, finisce qui. Lo ringrazio per gli anni splendidi che abbiamo trascorso insieme, per le difficoltà che abbiamo attraversato, e per avermi regalato la cosa più importante della mia vita, che è nostra figlia Ginevra.

(ANSA venerdì 20 ottobre 2023) "Tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua". Lo scrive sui social la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in un post scriptum al post in cui annuncia la fine della propria relazione sentimentale con Andrea Giambruno.

EROSIONE. Estratto dall’enciclopedia Treccani

L'acqua piovana, le acque correnti, il mare, il vento, i ghiacciai contribuiscono a dare forma alla superficie terrestre sottraendo materia alle rocce e ai terreni. Il fenomeno dell'erosione si realizza in natura producendo talvolta forme suggestive e bizzarre che dipendono dal tipo di roccia che viene erosa (rocce più o meno compatte, fratturate oppure stratificate), dal territorio interessato (montuoso, collinare, litorale a costa alta) e dal clima.

Qualche volta, l'erosione può essere molto rapida e si definisce 'accelerata': per esempio, piogge intense e irregolari possono far franare pendii di rocce poco resistenti, causando condizioni di rischio in prossimità di luoghi abitati. Spesso l'intervento umano (per esempio, nei casi di diboscamento incontrollato) accelera ancora di più l'erosione, specialmente del suolo, con gravi e negative conseguenze sull'ambiente e sull'economia.

A volte, si rimane stupefatti di fronte alla stranezza di alcune rocce, e può essere utile e divertente risalire da quelle forme alle cause che le hanno generate. In zone prive di vegetazione, come le regioni di alta montagna o quelle desertiche, si osservano nicchie e cavità tondeggianti e levigate, anche molto grandi: sono il risultato della lenta e incessante azione erosiva del vento (corrosione), dovuta all'attrito esercitato dai microscopici granuli minerali trasportati in sospensione nell'aria.

Lungo le coste, all'azione del vento si accompagna quella del mare (abrasione): ne è un tipico esempio il cosiddetto 'orso di Palau', in Sardegna nei pressi di Sassari; in questo caso, al sorprendente risultato quasi scultoreo ha contribuito l'umidità dell'aria che ha alterato la superficie della roccia (un granito). Lungo i litorali dalle coste alte, è anche frequente incontrare archi naturali, pareti mozzafiato a strapiombo sul mare, profonde grotte, tutte manifestazioni dell'erosione marina provocata dalle onde.

Quando invece si attraversano zone collinose, come quelle dell'Appennino tosco-emiliano, abruzzese o lucano-calabrese, è possibile imbattersi in paesaggi da film di fantascienza: pendii nudi incisi da una miriade di stretti solchi che si diramano. È il frutto dell'azione delle acque correnti sulle rocce tenere, quando ancora non sono raccolte nei ruscelli. Non a caso queste acque si chiamano selvagge o dilavanti: esse portano via detriti dal terreno segnandolo in modo spettacolare e diffuso, come accade in una località del Trentino Alto Adige con le singolari piramidi di terra.

Tuttavia, l'erosione delle acque correnti più importante è quella delle acque incanalate nei torrenti e nei fiumi. Questi corsi d'acqua plasmano intere vallate con la caratteristica forma a V e in alcuni casi, anche su rocce dure e compatte come i basalti e i graniti, provocano incisioni che possono approfondirsi tra pareti fortemente inclinate: si formano in questo modo i canyon (per esempio, il celebre Grand Canyon del fiume Colorado negli Stati Uniti d'America).

L'opera demolitrice delle acque incanalate, oltre che per asportazione di granuli, può agire per dissolvimento chimico delle rocce. Anche la forma delle vallate sagomate dai ghiacciai, con il suo profilo a U, è caratteristica e inequivocabile. In questi ambienti, le superfici arrotondate a dorso di balena e le tipiche strie delle rocce sono la traccia lasciata dal movimento della massa glaciale.

Non siamo principi consorti. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2023.

Dai movimentati fuori onda di «Temptation Palace» (Chigi) escono bene solo le donne: la giornalista vestita di giambruniano «blu Estoril» (qualunque cosa voglia dire), che oppone un muro di educato disinteresse alle farfugliate avance del conduttore, e la premier-compagna che lo mette alla porta con poche e inesorabili parole: lo stesso trattamento che spera di riservare un giorno a Salvini. Duole invece riconoscere che noi maschi abbiamo perso un’altra occasione per evolvere verso forme di vita più complesse. L’Italia non è ancora un Paese per «first gentleman» e forse nemmeno per gentlemen, cioè per uomini che sappiano camminare all’ombra di una donna di potere resistendo al desiderio di prendersi il centro della scena. Qualcuno ricorda un titolo di giornale che avesse per protagonista i coniugi di Thatcher e Merkel? Lo stesso marito di Elisabetta, prototipo universale di principe consorte e gaffeur di Stato, ha sempre coltivato la sua fama di seduttore con discrezione, addirittura senza mai strizzarsi il pacco davanti a una telecamera.

Filippo rimase accanto alla Regina per oltre mezzo secolo. Ora, quanto potrà durare il governo Meloni? Non un ventennio, altrimenti sarebbe una battuta, ma un tempo circoscritto durante il quale Giambruno si poteva ben accomodare dietro le quinte, sforzandosi di non far dipendere la propria autostima dal numero di volte in cui avrebbe messo a disagio la sua compagna. Certo che la destra di Dio, Patria e Famiglia ha qualche problema almeno con la famiglia, ma questo è un altro discorso.

Antonio Ricci: «Meloni un giorno scoprirà che le ho fatto un piacere». Quando Striscia entra a gamba tesa sulla politica. Edoardo Lusena su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2023.

Il padre di Striscia la notizia commenta la separazione fra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno dopo i suoi fuorionda. Tra i precedenti il caso del video di Elisabetta Tulliani che portò alla svolta del predellino e alle ruggini Berlusconi-Fini

«Meloni. Un giorno scoprirà che le ho fatto un piacere». Questo il commento che Antonio Ricci, padre di Striscia la notizia, ha affidato all’Ansa dopo la decisione della premier Giorgia Meloni di interrompere la relazione con Andrea Giambruno a poche ore dai fuori onda trasmessi dal tg satirico.

Ma quello di Andrea Giambruno, colto dagli occhi di Antonio Ricci e della sua Striscia la notizia mentre si lasciava andare a frasi inopportune non è che l’ultimo caso di una serie di fuorionda e di frasi rubate entrate a gamba tesa sulla scena politica e non solo.

Come non ricordare, ad esempio, il simile scossone privato, poi diventato pubblico, tra l’allora leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi e l’ex moglie, Veronica Lario. «Se potessi la sposerei subito», fu l’apprezzamento del Cavaliere alla deputata di Forza Italia, Mara Carfagna. Frase che fu carpita durante la cena successiva ai Telegatti del 2007, e pubblicata in un retroscena di Marco Galluzzo sul Corriere della Sera, che fece infuriare la signora Berlusconi che chiese – e ottenne – scuse pubbliche in una lettera inviata a Repubblica. 

Ancora la politica e ancora Striscia fra i protagonisti. Sempre nel 2007 il tg satirico manda in onda un video che ritrae Elisabetta Tulliani - allora compagna dell’alleato di Berlusconi, Gianfranco Fini, leader di AN- insieme al suo ex Luciano Gaucci. Fini andò su tutte le furie sospettando il fondatore di Forza Italia di aver ispirato la messa in onda. Qualche giorno dopo arrivò l’annuncio di Berlusconi dal celebre predellino, del partito unico del centrodestra, il Popolo della Libertà. Ne seguirono l’adesione di un recalcitrante Fini, lo strapotere berlusconiano e poi lo strappo definitivo in diretta tv con il celebre «Che fai mi cacci?» gridato dal presidente della Camera Fini al Cavaliere sul palco a un’assemblea di partito.

Quanto ai fuorionda di Striscia, si diceva, non sono certo una novità. Chiunque si sieda in uno studio Mediaset (e non solo), sa che ad ascoltare potrebbe esserci il grande orecchio di Striscia , con le trasmissioni - rigorosamente interne all’azienda - in bassa frequenza lì a raccontare ciò che succede negli studi anche quando la luce rossa delle telecamere è spenta, in pause di registrazione o pubblicitarie. 

Lo sa bene lo storico direttore del Tg4, Emilio Fede, mille volte finito in onda con le sue sfuriate carpite dagli uomini di Ricci. A farne le spese più volte fu lo stesso Berlusconi mandato in onda mentre, fra un’intervista e l’altra nei tour de force che si concedeva con i media di tutta Italia prima di qualche elezione, veniva pizzicato in una pennichella. O ancora le gaffe mandate in onda e sottolineate senza pietà. Insomma, neanche lo stesso fondatore di Mediaset si salvava dall’occhio di Ricci e di Striscia.

Strumento potente, quello dei fuorionda: tra i tanti a farne le spese pure l’attuale sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi furibondo anni fa contro Mario Giordano, o per tornare a casi più recenti all’epiteto usato un anno fa dal ministro della Difesa Crosetto contro il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte apostrofato come «deficiente» in una pausa di un’intervista. Crosetto si scusò e attaccò i metodi del tg satirico di Ricci. Ma se la frase più comune tra chi frequenta gli studi televisivi è «qui finiamo su Striscia», un motivo ci sarà.

Antonio Ricci: «I fuorionda di Giambruno? Coerenti con le cose che diceva in tv. Pier Silvio Berlusconi non l’ho sentito». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 28 ottobre 2023.

L’ideatore di «Striscia la notizia»: «Ho fatto un favore a Giorgia Meloni: semplificando il cattivo è lui, la vittima stravince sempre. Il suo messaggio è stato efficace, ma non ha speso una parola per le ragazze coinvolte. Marina Berlusconi? Mai sentita al telefono»

«Sono padrone e mandante di me stesso. Non ho mai avuto un’esclusiva con nessuno. Ai tempi di Drive In tenevo appesa sul muro una vignetta di Altan: v orrei sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio». Antonio Ricci si è costruito nel tempo una fama da cane sciolto o lupo solitario (come da titolo di un suo vecchio programma).

I fuorionda di Giambruno sono diventati un caso, ognuno dà una sua lettura: complotto a favore o contro Giorgia Meloni? Comunque sia: complotto . «Vedo tanti opinionisti che dibattono, tutti esperti in ventriloquia e paranormale; sento giornalisti che sostengono che prima di scrivere un articolo devono confabulare con l’editore: possibile che non ci sia nessuno che dice che uno può prendere un’iniziativa di sua volontà? Mi pare una cosa oscena. Qui viene messa in discussione la libertà di stampa, mi chiedo come mai Mattarella non abbia ancora detto niente. La satira deve essere riverente o irriverente?».

Non è la sola cosa che colpisce l’ideatore di Striscia la notizia.

«Tutto questo stupore mi stupisce, non ho scoperto niente di che. Trovo assolutamente coerenti i fuorionda di Giambruno con le cose dette da lui in onda. E poi quel che è successo è banalmente capitato a tutti i grandi leader europei: Re Carlo, Merkel, Pompidou, Giscard d’Estaing...».

Giorgia Meloni però sarebbe furiosa.

«Io credo che la premier soprattutto non abbia sopportato la chiusa sulla mia versione dei fatti: la pioggia che si può trasformare in arcobaleno. Il significato è che certe posizioni così rigide, da pietra, potrebbero anche in maniera positiva trasformarsi in un’apertura verso un mondo che ha bisogno di diritti, certezze e anche regolamentazione».

Ricci sostiene però di aver fatto un favore alla premier.

« Semplificando il cattivo è lui. La vittima stravince sempre. Il suo messaggio dal punto di vista della comunicazione nell’immediato è stato molto efficace. Ma è importante anche la parte mancante: non ha speso neppure una parola per le ragazze coinvolte».

Cosa la stupisce ancora?

«Il primo messaggio ufficiale di lui con foto: mi sono tagliato i capelli. Forse un minaccioso significato biblico. Dopo l’età dei sepolcri imbiancati, posso, come Sansone, aver perso la potenza, ma me ne resta abbastanza perché muoia Sansone con tutti i Filistei! Comunque anche lui è destinato ad avere il suo bel codazzo di fan».

Protagonista indiscusso della tv italiana (il 10 novembre su 7 l’intervista-omaggio ai 40 anni di Drive In) spiega così perché ha tenuto per due mesi i fuorionda «in frigo».

«Risalivano a giugno, la data è facilmente deducibile dall’immagine che si vede dell’incidente di Casal Palocco. Striscia però era in vacanza. Solo a fine settembre li ho visti. Nel mio cuore fanciullo, anche un po’ gitano, mi sono detto: il soggetto potrebbe fornire qualche altra chicca. Quindi ho deciso di aspettare che facesse qualcosa di peggio. Ma da allora non ha fatto più niente, non si è espresso...».

A questo punto Ricci sfoglia Chi, indugia sulla foto di Giambruno nel campo di grano.

«Quando mi sono ritrovato questo davanti e ho letto la sua celebrazione mi sono tornati in mente i filmati, ancora freschi come uno yogurt».

Nessuno è intervenuto nemmeno tra un fuorionda e l’altro per provare a fermarlo.

«Ma come potevano? Nessun dirigente Mediaset mi chiama perché hanno paura che li registri. Si buttavano in mezzo alla regia? Chiamavano i Carabinieri? Io poi, per evitare eventuali intercettazioni e rotture di scatole, avevo preparato — come altre volte — un finto copione, che poi all’ultimo ho sostituito con quello vero».

Nessun dirigente l’ha chiamato e lui assicura di non aver avvisato Pier Silvio Berlusconi.

«E perché? Non lo vedo mai, forse una volta all’anno. Adesso ho saputo che vorrebbe chiamarmi, vediamo se succede, lunedì. È sempre molto indaffarato. E non è stato un gioco delle parti, sarebbe infantile e crollerebbe in un secondo. Pier Silvio è come il padre, vuol piacere a tutti».

Se uno lo vede una volta all’anno, l’altra non la vede mai: con Marina Berlusconi i rapporti sono inesistenti.

«Non l’ho mai sentita al telefono in vita mia e non la vedo da non so quanti anni. Penso sia sempre impegnata giorno e notte a lavorare sui testi degli scrittori Einaudi e Mondadori: lei li corregge tutti e a volte li riscrive completamente. Ma loro, gli scrittori, vigliaccamente non lo dicono».

Nella «narrazione del trappolone» Mediaset ha perso in Borsa però. La battuta è fulminea.

«È il momento di comprare allora».

Il frigo del resto ora è vuoto.

«Giuro, l’ho detto subito, ma nessuno, anche a Mediaset, ci crede. A questo punto mi farò dei finti Giambruni con il deepfake visto che c’è richiesta di mercato... Tengo soprattutto a sottolineare che non ho fatto niente di illegale: trasmettere i fuorionda non è reato, ho una sentenza del Tribunale Europeo dei diritti dell’uomo che lo sancisce e dice che sono un bravo ragazzo».

Alla fine in questa storia trova due lezioni.

« C’è sempre qualcosa da imparare, ad esempio non sapevo che esistesse il Blu Estoril. L’altra lezione è che i parrucchieri sono la vera potenza di questa Italia, sanno tutto, sono il cuore e la colonna vertebrale del Paese; solo un passo dietro rispetto all’armocromista che risalta di più solo per via del nome buffo».

Intanto ha raccontato che Fedele Confalonieri l’ha definito «l’imperatore dei rompicoglioni».

« Io sono democratico, quindi mi stanno sui maroni le figure apicali, me compreso. Essere rompicoglioni è nel mio Dna. Ho apprezzato anche la promozione, prima mi ha definito re, poi imperatore. Ha ragione, io nasco così fin da bambino, con un’inclinazione che ha avuto anche effetti paradossali: per farmi studiare i miei genitori mi dicevano di non studiare. Ho sempre avuto quest’animo bastian contrario, sempre a fare e a rigirare frittate. Non lo sento come un merito, ma con il tempo gli ho dato delle coperture ideologiche e professionali. Mi ha procurato centinaia e centinaia di cause legali, ma non riesco a smettere».

La percentuale di verità in questa intervista?

«Il 100 per 100. Per natura io non vengo creduto, quindi posso dire la verità senza che mi succeda niente».

Meloni, il rapporto con Giambruno finito «da mesi» il timore di nuovi audio: perché la premier ha deciso di lasciarlo. Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.

La relazione tra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno era compromessa da tempo. Le rivelazioni di Striscia e il timore di nuovi fuorionda imbarazzanti hanno spinto la premier a questa decisione

Della sua storia d’amore con Andrea Giambruno e soprattutto del doloroso commiato, affidato a un post sui social che ha fatto il giro del mondo, Giorgia Meloni non intende parlare «mai più». La favola con il giornalista e conduttore «bello come il sole», che le ha regalato la figlia Ginevra, è durata un decennio ed è finita. Non ieri, ma «da mesi». Così racconta chi le ha parlato nelle ore più laceranti, in cui la leader della destra ha giurato che proteggerà «a ogni costo» la figlia di 7 anni, come ha scritto in quelle righe in cui non recrimina e non rinnega nulla della relazione iniziata e naufragata in uno studio televisivo.

Giambruno e le sparate politicamente scorrette

Se non ha buttato fuori casa il compagno già da tempo come tanti le rimproverano, a seguito della sequela di gaffe e sparate politicamente scorrette, è perché ha sempre ritenuto Giambruno «un padre bravissimo e amorevole». E ha provato in ogni modo a salvare l’unità della famiglia, per quanto la relazione fosse compromessa da tempo. Finché gli ultimi fuorionda volgari e sessisti catturati da Striscia la notizia hanno mandato la cornice in pezzi e rilanciato la photo story della (ex) coppia presidenziale, dal Teatro alla Scala al red carpet di Venezia. Nella galleria di immagini recenti all’apparenza felici ce n’è una che rivela da quanto Meloni e Giambruno fossero ormai lontani. È il 30 luglio scorso, lei è sull’aereo di Stato che da Washington la riporta a Roma, tiene in braccio Ginevra e posta una dichiarazione d’amore che taglia fuori il papà della bambina: «Io e te, che affrontiamo il mondo mano nella mano».

Meloni e la resistenza a oltranza

Per quanto scossa, provata e addolorata possa essere in un passaggio così stretto e difficile della sua vita sentimentale e familiare, Meloni non perde di vista gli aspetti politici del caso. Nelle ultime righe del post di addio la premier aggiunge una breve nota destinata a essere scannerizzata anche dai leader politici, soprattutto di maggioranza: «Tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa...». È un annuncio di resistenza a oltranza, la promessa che non saranno certo i comportamenti passati e futuri del padre di sua figlia, né le strumentalizzazioni da una parte e dall’altra, a incrinare la sua determinazione a restare a Palazzo Chigi fino al termine della legislatura.

Ricci: Giorgia capirà che le ho fatto un favore

 Eppure quel post scriptum fa rumore nei palazzi perché rievoca, chissà quanto involontariamente, la durissima replica a Berlusconi nei giorni della nascita del suo governo: «Io non sono ricattabile». La tesi che Meloni abbia architettato la defenestrazione del conduttore Mediaset assieme ad Antonio Ricci, per i meloniani non sta in piedi, anche se lo sceneggiatore di Striscia lo ha lasciato intendere quando ha scritto «Giorgia capirà che le ho fatto un favore». Per lei non è un favore, è un dolore.

Tajani: nessun complotto, Forza Italia non c'entra niente

Fonti di governo hanno passato la giornata a smentire e smontare ogni ipotesi di complotto. Lo stesso ha fatto Antonio Tajani, tirato in ballo da quanti hanno unito i puntini e ipotizzato il doppio zampino di Marina e Pier Silvio, gli eredi di Berlusconi. La convinzione dentro Forza Italia è che la sberla a Giambruno e quindi a Meloni nulla c’entri con la politica, con la legge finanziaria, con il ventilato aumento della tassa di successione. Nelle riunioni riservate il vicepremier e ministro degli Esteri va assicurando che «non c’entra niente Forza Italia e niente la famiglia Berlusconi». Ricci è Ricci, aveva una notizia e l’ha data. «E basta».

Fabrizio Corona e la fake news su Meloni

Le frasi moleste e le allusioni sessuali dei fuorionda che hanno fatto impazzire il web sono per Giorgia Meloni davvero troppo. La premier ha chiaro che non sono gli ultimi, altre battutacce e volgarità sessiste rubate dietro le quinte dello studio a «Giancoso», come lo hanno ribattezzato i social in uno sbeffeggiamento senza fine, potrebbero presto uscire. Anche per quell’indugiare dei conduttori di Striscia sulla frase «tira su col naso», che ha scatenato i commenti più feroci. La premier ha preso dolorosamente atto che l’immagine del governo di un Paese del G7, presieduto per la prima volta da una donna, non può restarne ostaggio. Né lei intende restare ostaggio di questa storia e del suo brutto epilogo. Fabrizio Corona, che ha pubblicato sul suo nuovo sito la notizia (falsa) di una relazione tra la leader di FdI e il deputato Manlio Messina, potrebbe presto doversela vedere con una doppia querela.

Le date, le voci, le registrazioni: nei corridoi di Mediaset i malumori su Giambruno. Renato Franco su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.

Più di un collega si lamentava per i suoi modi, in tanti mal sopportavano quel fare sul confine tra lo sbruffone e l’arrogante, la sicumera di quello che te la spiega lui

Invidie e gelosie erano naturali nei confronti del «first gentleman» Andrea Giambruno, ma anche lui ci ha messo del suo per non farsi particolarmente amare all’interno della stessa Mediaset. Chi gli rimproverava l’atteggiamento da gagà e il ciuffo esibito; chi stigmatizzava l’aria da coatto del Nord e la parlata da milanese imbruttito; in tanti mal sopportavano quel fare sul confine tra lo sbruffone e l’arrogante, la sicumera di quello che te la spiega lui. E poi la gestualità impettita, l’irrefrenabile voglia di fare una battuta, «meglio» se a sfondo sessuale.

Un atteggiamento che facilmente suscita malumori, soprattutto se — volente o nolente — molti ti etichettano come il «compagno di». Anche se Giambruno aveva già cominciato prima di fidanzarsi con Giorgia Meloni a fare il giornalista, non erano pochi quelli che avevano letto la sua promozione non come una diretta conseguenza delle sue capacità, ma come un’attenzione verso la premier. Inevitabile che oggi molti a Cologno Monzese festeggino l’«hybris» punita, quella tracotanza immancabilmente seguita dalla vendetta divina.

È difficile dire a quando risalgano i fuorionda di Giambruno, alcuni ipotizzano che possano essere di un paio di mesi fa (soprattutto il secondo). Certo Ricci ha — da sempre — occhi e orecchie in tutte le trasmissioni, anche quando la luce rossa non è accesa (durante le pause di registrazione o pubblicitarie) perché in bassa frequenza si può origliare anche il dietro le quinte, si possono cogliere le frasi da non dire che i meno accorti possono lasciarsi sfuggire pensando di non essere ascoltati. E in questo Giambruno è stato a dir poco leggero, perché nel nuovo ruolo di fidanzato d’Italia doveva «volare basso», esporsi meno, anziché chiedere di più.

Dall’altra parte è facile immaginare l’umore di Antonio Ricci , il sorriso sornione, le mani ad accarezzare il pizzetto, ora che ha piazzato una doppietta che ha tenuto in scacco la politica italiana con il suo cascame di gossip. Del resto i fuorionda sono da sempre uno dei core business dell’inventore di Striscia : audio rubati, parole orecchiate di nascosto, confidenze rivelate a milioni di spettatori che diventano notizia. Quello delle immagini «segrete» di Giambruno è solo l’ultimo dei colpi. Negli anni era già successo tante volte, a destra e a sinistra, senza andare troppo per il sottile, senza problemi a colpire anche Silvio Berlusconi, il suo stesso datore di lavoro. A Mediaset (quasi) tutti hanno paura di Ricci. La sua fama lo precede. E il suo metodo di lavoro, con pochi e selezionati contatti all’esterno, alimenta la sua aura da guru, tanto che il dubbio se i fuorionda siano stati una mossa contro la premier o un aiuto concertato forse non avrà mai una (vera) risposta. Certo a Cologno Monzese vivono Ricci come un cane sciolto, uno che lavora in autonomia, uno che non ha mandanti o padroni. E che questa descrizione non sia lontana dalla realtà lo confermano anche gli appuntamenti pubblici (su tutte l’annuale conferenza stampa di Striscia) dove Ricci non lesina battute, stilettate e frecciate contro la sua stessa azienda. Chi altri lo farebbe?

Andrea Giambruno, quando a 25 anni lavorava alla lombarda Telenova: «Garbato, mai sopra le righe, oggi è irriconoscibile». Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.

Adriana Santacroce, coordinatore di redazione della tv lombarda, assunse l’ex compagno della premier per un anno. «Mai un atteggiamento sopra le righe. Ho faticato a riconoscerlo nei fuori onda»

«Cercavo un assistente per il nostro programma di politica, Linea d’Ombra. Andrea Giambruno si presentò insieme ad altri due ragazzi. Feci il provino a tutti e tre e scelsi lui. Era un ragazzo educato, preparato. E anche di bell’aspetto e questo è utile a livello televisivo. Ebbe un contratto di collaborazione annuale».

L’ex compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, ha mosso i primi passi nel mondo del giornalismo televisivo a Telenova, storica tv lombarda del Gruppo Editoriale San Paolo. E ha debuttato con Adriana Santacroce, conduttrice di Linea d’Ombra e coordinatore di redazione di Telenova. «All’epoca il nostro programma faceva soprattutto politica nazionale e lui si occupava degli approfondimenti. Ricordo che abitava a Monza e veniva 2-3 volte la settimana in redazione, confezionava i servizi, a volte usciva per interviste sul posto con il cameraman. E poi stava in onda insieme a me, leggeva i messaggi che arrivavano da casa».

Un anno in cui la collaborazione è proficua: «Da noi ha imparato tanto, per prima cosa a distinguere l’importanza delle notizie. In una tv locale devi fare tutto da solo, ad esempio devi montare i servizi, non c’è la figura del montatore». Ma si vedeva che Giambruno scalpitava. «Era sveglio e si capiva che puntava a una carriera con una platea più ampia di quella regionale. D’altronde, da noi non c’era possibilità di stabilizzazione. Quando l’anno di contratto terminò, rimanemmo in buoni rapporti. Ricordo che lo misi in contatto con una conoscenza che avevo a Mediaset, ma non so se poi la sua collaborazione con loro sia scaturita da quello».

La descrizione di Santacroce cozza con l’immagine dell’ex first gentleman catturata dai fuori onda di Striscia. «Ho faticato a riconoscerlo, perché quando ha lavorato da noi era molto educato, mai un atteggiamento sopra le righe o una battuta fuori posto, anche con altre colleghe o con le ragazze che facevano le vallette nelle trasmissioni sportive. Ma, del resto, aveva 20 anni in meno». Forse non faceva il «cascamorto», ma già allora aveva il gusto del bello. «Curava molto il suo look e l’estetica. E a Natale mi ricordo che mi regalò una trousse di trucchi» dice Santacroce.

A sentirlo pronunciare quelle battute cosa ha pensato? «Che forse avere troppi riflettori addosso ti dà alla testa». Prima che lo scandalo dei fuori onda scoppiasse, la sua ex caporedattrice aveva pensato di dargli un consiglio. «In questi anni sono stata spesso ospite a Mattino Cinque, dove lui lavorava come autore, quindi ci incontravamo e salutavamo. Una volta lo vidi in trasmissione anche insieme a Giorgia Meloni. L’ultima volta che l’ho sentito, via sms, è stato un paio di mesi fa, abbiamo parlato di un collega che apprezziamo entrambi e collabora con le nostre tv».

Cosa avrebbe voluto dirgli? «Di frenarsi, di stare più attento, viste le uscite infelici che aveva avuto, ma poi ho pensato di non avere con lui un simile livello di confidenza. E pensavo che il consigliere ce l’avesse in casa».

Ricci, 'su Giambruno ricostruzioni mirabolanti'. (ANSA sabato 21 ottobre 2023) "Del caso 'Fuorionda' ho letto ricostruzioni mirabolanti, complottarde, a volte incredibili, ma tutte divertenti" così ha detto l'ideatore di Striscia la notizia Antonio Ricci dopo le ipotesi sulle ragioni dei fuorionda dell'ormai ex compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, prima di "fornire la mia versione, naturalmente senza nessuna pretesa di esser creduto, ci mancherebbe, ma solo per dare un contributo al dibattito". Ricci ha spiegato di aver letto l'intervista su Chi a Giambruno, una sorta di "beatificazione" a cui ha "pensato subito di utilizzare l'antidoto".

Ricci ai media, 'c'è chi prende iniziative di testa sua'

(ANSA sabato 21 ottobre 2023)  "La cosa che mi ha più stupito di tutto il dibattito è che per il 90% dei giornali sembra impossibile che possa esistere qualcuno che prende iniziative di testa sua e non sia un mero ventriloquo. Un'anomalia da censurare". Lo ha detto Antonio Ricci, ideatore di Striscia la notizia, in una lunga dichiarazione in cui ha voluto spiegare la ricostruzione sulla decisione di trasmettere i fuori onda di Andrea Giambruno.

Ricci, 'Confalonieri mi ha chiamato dandomi del rompicoglioni'

(ANSA sabato 21 ottobre 2023) "Violando la privacy vi posso raccontare della telefonata di Fedele Confalonieri. L'incipit è stato: 'Sei il re dei rompicoglioni, anzi sei l'imperatore dei rompicoglioni': Antonio Ricci, ideatore di Striscia la notizia, lo ha spiegato parlando del caso Andrea Giambruno e della trasmissione dei suoi fuori onda, dopo i quali la premier Giorgia Meloni ha annunciato la fine della loro relazione. "Il seguito, essendo stato pronunciato in stretto lombardo - ha aggiunto Ricci -, anche volendo, non sono in grado di riferirlo".

Ricci, di Giambruno avevo due audio estivi

(ANSA sabato 21 ottobre 2023) "Da una fortunosa pesca estiva avevo due fuorionda del giornalista in frigo. Li ho usati. Così come son solito fare": Antonio Ricci lo ha sottolineato raccontando dell'utilizzo del materiale sul giornalista Andrea Giambruno, ormai ex compagno della premier Giorgia Meloni". "Come quello di "Buttiglione-Tajani" che Berlusconi dichiarò esser la causa della caduta del suo governo. Qualche lombrosiano potrebbe obiettare: 'Potevi mandarlo senz'audio, non ci vogliono mica dieci anni per capire che soggetto è, basta solo vedere come cammina'. Lo so - ha aggiunto -, a volte son didascalico. È un mio difetto". 

Antonio Ricci, 'ecco la mia ricostruzione sul caso Giambruno' 

(ANSA sabato 21 ottobre 2023) "Vorrei anch'io fornire la mia versione, naturalmente senza nessuna pretesa di esser creduto, ci mancherebbe, ma solo per dare un contributo al dibattito. Il fatto, secondo me, si sarebbe svolto così". Antonio Ricci, il patron di Striscia la Notizia, ha scritto una lunga dichiarazione per fornire la sua versione su quanto accaduto in questi giorni, dai fuori onda sull'ex compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, alla decisione della premier di interrompere la relazione con lui. 

"Mercoledì mattina sulla scrivania mi trovo la rivista Chi (secondo alcuni house organ della fam. Berlusconi) con in prima pagina la foto del first gentleman in un campo di grano, a guisa di papaverone o spaventapasseri - scrive Ricci - . All'interno veniva esaltato il cuore 'gitano' e il ciuffo del giornalista che sarebbe priapescamente cresciuto con gli ascolti. 'Acciderbola - ho pensato - l'astuto cardinal Signorini si sta preparando a celebrare una beatificazione'. Siccome sono un laico, specie in estinzione, ho una naturale diffidenza verso i nuovi santi, ricorderete il 'Caso Soumahoro'. 

Ho pensato subito di utilizzare l'antidoto. Da una fortunosa pesca estiva avevo due fuorionda del giornalista in frigo. Li ho usati. Così come son solito fare. Come quello di 'Buttiglione-Tajani' che Berlusconi dichiarò esser la causa della caduta del suo governo". "Qualche lombrosiano potrebbe obiettare: 'Potevi mandarlo senz'audio, non ci vogliono mica dieci anni per capire che soggetto è, basta solo vedere come cammina' - continua Ricci - . Lo so, a volte son didascalico. È un mio difetto. Violando la privacy vi posso raccontare della telefonata di Fedele Confalonieri. L'incipit è stato: 'Sei il re dei rompicoglioni, anzi sei l'imperatore dei rompicoglioni'". 

"Il seguito, essendo stato pronunciato in stretto lombardo, anche volendo, non sono in grado di riferirlo - aggiunge l'ideatore di Striscia la Notizia -. La cosa che mi ha più stupito di tutto il dibattito è che per il 90% dei giornali sembra impossibile che possa esistere qualcuno che prende iniziative di testa sua e non sia un mero ventriloquo. Un'anomalia da censurare". "Per quanto riguarda la pioggia sulla roccia - conclude riferendosi all'ultima parte del post di ieri di Giorgia Meloni - , magari non scalfisce subito, ma può far nascere un bell'arcobaleno".

stratto dell’articolo di Eleonora D'Amore per fanpage.it sabato 21 ottobre 2023.

Dopo il caos scatenato dai fuorionda di Striscia La Notizia sulla condotta di Andrea Giambruno sul luogo di lavoro, ovvero lo studio di Diario del giorno, Fanpage.it apprende da fonti interne a Mediaset che i video di ciascuna trasmissione possono essere registrati in quella che tecnicamente si chiama “bassa frequenza”, una sorta di circuito chiuso che collega le varie regie degli studi tv e che potrebbe fornire filmati di momenti off record. 

Su questa regia in bassa frequenza si muoverebbero occhi e orecchie della redazione di Antonio Ricci, che potrebbero riferire banalmente di papere e strafalcioni, perfetti per esempio per gli speciali di Paperissima dedicati ai backstage della tv, ma anche di altri più informali e, in certi casi, scivolosi.

Su come siano arrivati i video di Giambruno a Striscia si sono rincorse voci e supposizioni per tutta la giornata: c'è chi riferisce, in aggiunta, la possibilità di registrazioni private con cellulari, convertite in tracce audio da montare su appositi video, ma non sembra il caso dei fuorionda di Giambruno. Si aggiunge solo la possibilità che qualcuno di interno al programma Diario del giorno abbia avuto interesse a passare momenti fuori onda al patron di Striscia per una segnalazione diretta sul noto giornalista di Rete 4, ma non c'è alcuna evidenza di questo al momento. Nel novero delle registrazioni private finirono sicuramente i filmati che mostrarono Flavio Insinna furibondo ad Affari Tuoi, dove fu intercettato nello studio e nei corridoi. […]

Antonio Ricci su Giambruno: «Avevamo quei fuorionda dall’estate. Ecco cosa mi ha detto Confalonieri». Renato Franco su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.

La versione dell’inventore di «Striscia la notizia»: «Lo stavano beatificando. E io ho usato l’antidoto»

«Ho deciso di agire contro Giambruno dopo la sua beatificazione su Chi »: in sintesi Antonio Ricci spiega così il motivo per cui ha deciso di trasmettere a Striscia la notizia i due fuorionda che hanno affossato l’ex compagno di Giorgia Meloni. Un chiarimento che nasce dopo aver letto «ricostruzioni mirabolanti, complottarde, a volte incredibili, ma tutte divertenti», per questo «voglio fornire la mia versione, naturalmente senza nessuna pretesa di esser creduto, ci mancherebbe, ma solo per dare un contributo al dibattito».

Ricci comincia dal principio: «Mercoledì mattina sulla scrivania mi trovo la rivista Chi (secondo alcuni house organ della famiglia Berlusconi) con in prima pagina la foto del first gentleman in un campo di grano, a guisa di papaverone o spaventapasseri. All’interno veniva esaltato il cuore “gitano” e il ciuffo del giornalista che sarebbe priapescamente cresciuto con gli ascolti. Acciderbola — ho pensato — l’astuto cardinal Signorini si sta preparando a celebrare una beatificazione». Così a Ricci viene l’idea di spegnere quella che vede come un’immotivata esaltazione: «Siccome sono un laico, specie in estinzione, ho una naturale diffidenza verso i nuovi santi, ricorderete il caso Soumahoro. Ho pensato subito di utilizzare l’antidoto. Da una fortunosa pesca estiva avevo due fuorionda del giornalista in frigo. Li ho usati. Così come son solito fare. Come quello di Buttiglione-Tajani che Berlusconi dichiarò esser la causa della caduta del suo governo».

Quindi affila l’arma dell’ironia: «Qualche lombrosiano potrebbe obiettare: “Potevi mandarlo senz’audio, non ci vogliono mica dieci anni per capire che soggetto è, basta solo vedere come cammina”. Lo so, a volte son didascalico. È un mio difetto. Violando la privacy vi posso raccontare della telefonata di Fedele Confalonieri. L’incipit è stato: “Sei il re dei rompicoglioni, anzi sei l’imperatore dei rompicoglioni”. Il seguito, essendo stato pronunciato in stretto lombardo, anche volendo, non sono in grado di riferirlo».

Dopo aver raccontato la genesi spontanea della sua personale caccia al Giambruno, Ricci riflette sulle ricostruzione che ne sono scaturite: «La cosa che mi ha più stupito di tutto il dibattito è che per il 90% dei giornali sembra impossibile che possa esistere qualcuno che prende iniziative di testa sua e non sia un mero ventriloquo. Un’anomalia da censurare». Quindi chiude la sua riflessione riferendosi all’ultima parte del post di Meloni: «Per quanto riguarda la pioggia sulla roccia, magari non scalfisce subito, ma può far nascere un bell’arcobaleno».

In sostanza Ricci ha voluto confermare l’autonomia che spinge da sempre il suo modo di agire, la volontà di nuotare spesso controcorrente, di comportarsi da lupo solitario o cane sciolto. Come aveva spiegato al Secolo XIX «faccio cose che altri non farebbero mai, non perché sia potente, ma perché sono incosciente. Cammino su un filo tra due palazzi, ma non sono un acrobata. Sono solo uno che ci prova e finora non sono mai caduto».

Arianna Meloni difende la sorella: «Giorgia indebolita per il caso Giambruno? No. E questo non è giornalismo». Erica Dellapasqua e Giuliano Benvegnù su Il Corriere della Sera domenica 22 ottobre 2023.

La sorella della premier Giorgia Meloni, che oggi non ha partecipato al convegno di Fratelli d'Italia per stare con la figlia dopo la separazione da Andrea Giambruno, sale in scooter e critica: «Ci fate prendere voti»

Il partito di Giorgia Meloni, riunito al teatro Brancaccio di Roma per celebrare il primo anno di governo, difende la sua leader e attacca. La sorella Arianna Meloni, in particolare, che andando via in scooter - tailleur panna e casco tricolore - critica la stampa sulla gestione del caso Andrea Giambruno, il conduttore Mediaset ormai ex compagno della premier: «Se a voi vi sembra normale questo tipo di stampa ragazzi ditelo voi, vi rispondete da soli, grazie per il lavoro che fate perché secondo me ci fate prendere un sacco di voti: questo non è giornalismo, è pettegolezzo». Ma lei che Giorgia Meloni l'ha sentita, chiedono i cronisti, come sta: «Secondo lei? Come sta?», risponde seccata Arianna Meloni prima di sfrecciare via, stizzita.

«Giorgia a casa a riposare»

Poi, gli altri di Fratelli d'Italia, che al Brancaccio avevano organizzato - così speravano - un'occasione di riflessione e condivisione per fare il punto sul percorso fatto in un anno di governo. «È arrivata questa notte, mi sembrava molto più giusto lasciarla riposare...». Indebolita? Io la vedo sempre più forte». È Guido Crosetto, fuori dal teatro Brancaccio, a spiegare perché la premier Giorgia Meloni non partecipa alla kermesse. 

Crosetto risponde alle domande

Non si sottrae alle domande neanche questa volta, il ministro della Difesa Crosetto, che si ferma per rispondere ai giornalisti che si aspettavano Meloni al Brancaccio. O almeno questo era il programma, prima dell'annuncio della fine della relazione col conduttore Andrea Giambruno dopo gli audio di Striscia la Notizia.

L'amico della premier

Crosetto, cofondatore di Fratelli d'Italia e amico di Meloni, vicini nelle vacanze o nei momenti cruciali come l'addio al Pdl, è sempre stato un membro della "comunità" premier, e dalle sue parole anche oggi traspare senso di protezione e di umanità. «Shrek azzurro», lo avevano ribattezzato quando - era il 2012, Auditorium Conciliazione - sollevò in braccio Meloni alla presentazione del movimento «Senza paura», anticipatore del partito con la fiamma. 

«Indebolita? Io vedo Giorgia sempre più forte»

«Come voi sapete - ha detto sull'assenza di Meloni dalla kermesse - ha un grandissimo compito da svolgere ogni giorno che è quello di presidente del Consiglio, quindi è giusto che trovi anche un po' di tempo per riposarsi e per stare a casa». Un tentativo di indebolirla politicamente?, gli chiedono. Lui curva le labbra, non nega, e aggiunge: «I tentativi ci sono sempre, di indebolire chiunque governi, con qualcuno ci si riesce e con altri meno: con lei non ci si riesce», conclude sicuro.

Giorgia Meloni e Striscia la notizia: quello che non torna nel "caso Giambruno". L'annuncio della fine relazione col giornalista dopo i fuorionda imbarazzanti scatena un consenso unanime. Al punto che sorge un dubbio. Una mossa contro la premier o un aiutino concertato? Beatrice Dondi su L'Espresso giovedì 19 ottobre 2023

Giorgia Meloni annuncia la fine della sua storia con Giambruno via Instagram: come lei Valentina Ferragni («Dopo tanti anni condivisi insieme io e Luca abbiamo deciso di intraprendere due strade separate»), Damiano dei Maneskin e Giorgia Soleri, Serena e Pago, Stefania Pezzopane e Simone Coccia. E altre personalità di questo calibro. Meloni è la premier, ma pazienza, la via dell’influencer è lunga e ben lastricata e può rendere assai in termini di reputazione. 

Col post a social unificati (Instagram, Facebook e Twitter) di prima mattina, Giorgia Meloni ha scatenato una solidarietà condivisa, “brava sei una grande donna”, “questa è la mossa giusta” e “non ti ho votato ma devo dire che ti ammiro, così si fa a chi ti manca di rispetto” che arriva all’indomani delle performance da buzzurro di risulta di Giambruno mandate in onda da Striscia la notizia. Due puntate in crescendo, con cui il giornalista di Rete 4 fa una figura barbina e tapina, sessista e volgare, molesta e sopra le righe altro che Tapiro. Quindi lei lo caccia, per colpa di un fuorionda subito che a prima vista ha implicazioni politiche mica da ridere. 

Però dieci giorni prima era uscita l’intervista su Chi, la rivista di Alfonso Signorini che insieme ad Antonio Ricci a Mediaset qualcosina conta. «Io e Giorgia forse ci siamo già sposati e non l’abbiamo detto a nessuno» aveva dichiarato Giambruno, sventolando l’anello gitano che fa tanto famiglia queer. E i riflettori si erano di nuovo accesi sul fantomatico ciuffo del bizzarro giornalista della transumanza, tutti avevano ricominciato a parlarne in attesa dell’ennesima imitazione di Crozza e l’arrivo del fuorionda con le mani sui gioielli di famiglia sembrava un perfetto controcanto.

Non solo. Alfonso Signorini, la sera stessa apre il Grande Fratello con uno scambio di battute ben studiate sul blu Estoril, una presa per i fondelli in grande stile fatto sempre in casa Piersilvio. Ma il post di Meloni scombussola tutto, perché la reazione scatena consenso unanime. «Tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua». E a questo punto, lasciando stare quelle bizzarre teorie sull’erosione che ognuno alla fine le legge come meglio crede, è sempre la somma che fa il totale. E un pensiero si insinua prepotente. Davvero Striscia ha combinato un guaio contro Meloni a suon di perle rubate? Oppure, al contrario, questa relazione “già finita da tempo” come dice Meloni, e che lei si è trovata dover difendere abbassando la sua reputazione a ogni idiozia sparata da Blu Giambruno ha usufruito di una spintarella ben concertata in grado di procurarle un plauso di una platea ben più ampia di quella di Canale 5? Difficile dirlo ovviamente, ma come diceva qualcuno, “al sol pensier rinnova la paura”. E pure i sondaggi.

Caso Giambruno, quando Giorgia Meloni disse: «Non sono ricattabile». L'annuncio della premier sulla fine della relazione con il compagno arriva dopo un anno di Governo. E il coinvolgimento di Mediaset nell'affaire fa tornare di attualità la risposta che la futura premier diede a Berlusconi nel mezzo delle trattative per la formazione dell'Esecutivo. Susanna Turco su L'Espresso il 20 ottobre 2023.

Il senno del poi cambia sempre le luci del prima, per cui mettiamo per qualche momento da parte le nuance di blu, il ciuffo, gli irripetibili dialoghi da fuori onda trasmessi da "Striscia la notizia" e tutti gli altri dettagli del caso Giambruno, già primo first gentlemen d’Italia, da oggi primo first gentlemen del mondo ad essere lasciato ufficialmente via social.

Il post in cui Giorgia Meloni annuncia la fine della relazione contiene un prezioso post-scriptum, su cui aleggia un concetto familiare: «Tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua».

La parola «ricattabile» la tirò fuori Giorgia Meloni esattamente un anno fa, non ancora premier, uscendo dalla Camera dei deputati: «Mi pare che mancasse un punto a quelli elencati a Berlusconi: che non sono ricattabile». Era il 14 ottobre 2022 , nel pieno della furibonda trattativa nel centrodestra per formare il governo (in particolare Silvio Berlusconi appariva imbizzarrito all’idea di diventare un semplice comprimario). Ignazio la Russa era stato eletto il 13 ottobre presidente del Senato, senza i voti di Forza Italia; le telecamere avevano immortalato sul banco di Berlusconi un biglietto, in cui il Cavaliere definiva Meloni «supponente, prepotente, arrogante e offensiva», una che «non ha disponibilità ai cambiamenti», «con cui non si può andare d’accordo».

Meloni aveva risposto solo con quell’aggettivo, «non ricattabile»: era come posizionare un kalashinov in replica a una doppietta. Un modo per chiarire a tutti il livello dello scontro e i termini delle trattative (i ricatti) e anche per ricordarci che dopo tutto eravamo ancora nell’Italia berlusconiana. Quella dove cioè un impero mediatico può variamente soccorrere, nel caso, ai capricci del drago (per dirla con Veronica Lario), dei draghetti, o dei draghi del momento.

«Ricattabile», infatti, fece venire in mente all’intero mondo politico-giornalistico due cose: la prima era la storia di Gianfranco Fini, il capo di An che dopo essere entrato in conflitto con Berlusconi aveva subìto la gogna in versione “Striscia la notizia” (i video della sua compagna Elisabetta Tulliani ai tempi in cui era fidanzata con Gaucci) e poi in versione “Giornale” (l’inchiesta sulla casa di Montecarlo e propaggini, letale); la seconda era la figura di Andrea Giambruno, all’epoca un dipendente Mediaset, in forze a Studio aperto, a volte in video ma pressoché sconosciuto anche agli addetti ai lavori (una sola intervista al “Corriere della sera”, in cui definiva Meloni «un essere umano con una propria sensibilità » e assicurava: «Non smanio per esserci»). Uno di cui, il 19 ottobre 2022 sempre Berlusconi aveva detto: «È un mio dipendente». Brandendolo come una clava.

La risposta di Meloni di quei giorni - «Non sono ricattabile» - ha dunque aleggiato per un anno, ed è tornata al suo scadere. In questo anno, abbiamo visto Giambruno («le nostre strade sono divise da tempo», scrive oggi Meloni) fare il first gentlemen: al Giuramento, al primo discorso alla Camera della premier, alla serata inaugurale della stagione della Scala a Milano, ai giardini del Quirinale per la festa della Repubblica. L’abbiamo visto, insieme a Meloni e alla figlia Ginevra, anche da Papa Francesco. Oggi Meloni svela che «le nostre strade sono si divise da tempo». Ma torna sul punto: «Tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua», scrive Meloni nel post scriptum del suo post.

Non sappiamo dire i contorni esatti di questo “tutti”. Per certo sappiamo soltanto che i fuori onda sono andati in onda su Mediaset, cioè sulle stesse frequenze che li hanno captati, e registrati. Tutto è avvenuto nello stesso regno che in quest’anno ha promosso Giambruno facendogli condurre il programma che prima curava, il Diario del Giorno, e che in estate ha deciso di portare lo studio da Milano a Roma. Lo stesso regno che proprio mercoledì, il giorno in cui Striscia iniziava coi fuori onda, mandava in edicola “Chi?” Con una lunga intervista e tutti gli onori a Giambruno, assiso sul divano di casa (di lei).

Per certo dunque un’altra volta la storia di Meloni è andata a incrociarsi con quella di Fini. E ancora una volta lei ha fatto diversamente: lui non lasciò Tulliani, lei ha lasciato Giambruno. Ancora una volta un leader di centrodestra è andato in crash con l’idea di famiglia che propala. Come accadde proprio a Silvio Berlusconi, per il quale la scandalosa e clamorosa fine del matrimonio con Veronica Lario ha segnato l’inizio della fine della sua stagione da premier e da leader incontrastato.Dagospia venerdì 20 ottobre 2023. Da Un Giorno da Pecora

Giulia Cerasoli, giornalista di 'Chi' ed ultima ad aver intervistato Andrea Giambruno prima della rottura della relazione con la premier Meloni, oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1 ha raccontato come aveva trovato il conduttore Mediaset quando lo aveva incontrato, solo pochi giorni fa.

“Posso dire che lui non pensava sicuramente di esser lasciato. Era normale, è una persona che scherza molto, gentilissima, non ho avuto nessun sentore che pensasse si stessero lasciando ma forse di lì a poco forse qualcosa è successo e la premier ha preso le sue decisioni”, ha esordito Cerasoli a Un Giorno da Pecora.

La premier però ha scritto che le strade della ex coppia ormai si erano divise da tempo. “Forse c'erano già stati degli episodi nei quali lui aveva detto cose che lei non aveva gradito”. Quali? “Non so esattamente ma conoscendo bene da anni la premier e conoscendo anche Giambruno sicuramente c'erano stati dei dissapori. Questo capita a tutti ma lei è il Presidente del Consiglio. Sia come premier che come donna non poteva tollerare più queste cose e ha fatto benissimo”. L'intervista a Giambruno era stata organizzata anche con lo staff della premier? “No, non c'era niente di organizzato, ci è venuto in mente e l'abbiamo chiamato, io l'ho visto di persona anche perché ci conosciamo da tempo”.

Estratto dell'articolo di Giulia Cerasoli per "Chi" venerdì 20 ottobre 2023.

Oggi è il “Giambruno day”. Quindi può dire tutto quello che le viene in mente senza essere criticato. «Sono assolutamente felice e di ottimo umore. In realtà ho sempre detto e fatto quello che penso, anche in passato, ma solo ora sono arrivati ad attaccarmi perché mi lavo bene i denti... (si riferisce al nuovo spot del suo programma, ndr)».

Andrea Giambruno è tornato. In tv, nel pomeriggio di Rete 4, con il suo Diario del giorno, striscia di attualità con ospiti in onda dal lunedì al venerdì. Ed è tornato, dopo un anno da “first gentleman”, per rispondere alle nostre domande. Senza peli sulla lingua.

Domanda. Cominciamo dal programma. Che ha suscitato polemiche già dal suo promo, dove lei cammina con il suo ciuffo in bella mostra e il sorriso candido e un po’ sfacciato...

Risposta. «Mi dica: faccio peccato? È vietato avere i denti bianchi e i capelli folti? Ho 42 anni e non li perdo. Devo nascondermi? Anzi me li faccio crescere appositamente. C’è un’invidia in giro ragazzi... Incredibile».

D. Forse è per quel ciuffo. A proposito, dov’è finito?

R. «Beh, ogni tanto taglio i capelli... Ora li lascerò crescere sulle spalle, visto che insistono con questa storia. Il ciuffo aumenterà con gli ascolti!». […]

D. Da Roma e non più da Milano...

R. «Vuole dire che sono raccomandato o parzialmente raccomandato per questo? Allora, io facevo il giornalista da molto prima di conoscere Giorgia. Poi, per alterne vicende, mi avevano trasferito a Milano, curavo il programma di cui mi hanno offerto la conduzione. Sono stato riconfermato e ho chiesto di andare in onda da Roma. Con i miei angeli custodi accanto, Emanuela Sandali ed Eliano Rossi». […]

D. A posteriori non sarebbe stato più opportuno non condurre un programma tutto suo, mentre al governo c’è la sua compagna?

R. «Faccio il giornalista, so fare solo questo. E non ricevo consigli né ordini da nessuno. Conduco un piccolo programma nel daytime invece di andare in onda di notte come prima. Non cambia molto. Se poi alcuni colleghi in mala fede pensano che io prenda ordini da Giorgia, sono fatti loro. Sono libero e la mia compagna non si sognerebbe mai di intromettersi in quello che faccio. Anzi, ho trovato sgradevole che le chiedessero di commentare le mie parole in una conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ha altro a cui pensare».

D. Un anno da “first papà”. Come se l’è cavata?

R. «Ho visto crescere il rapporto con la mia bambina che per fortuna, nonostante gli impegni dei genitori, è molto serena e gioiosa. Mi sorprendo ancora di come Giorgia, pur avendo un incarico così gravoso e con un impegno 24 ore su 24, quando arriva a casa riesca a resettarsi di botto in modalità mamma, dando il massimo a Gigì. Una capacità tipicamente femminile».

D. Lei è stato molto criticato per altri due episodi. Quando ha parlato di “transumanza” riferendosi ai migranti e quando ha affrontato il tema delle ragazze stuprate.

R. «Primo: premesso che in diretta si possono fare errori affrontando tanti argomenti delicati, anche sul sito del Corriere della Sera giorni dopo si alludeva a una transumanza parlando di persone. Di certo la mia non era una espressione razzista! Secondo: ma davvero pensate che io, padre di una bimba che adoro e professionista della comunicazione, possa giustificare uno stupro?».

D. No, ma forse tutte le ragazze dovrebbero essere libere di bere e mettersi le minigonne senza venire violentate, non crede?

R. «Certo che lo credo. E sfido chiunque a provare che io abbia pronunciato la frase: “Se la sono cercata”. Mai detta una cosa simile. Semmai la mia voleva essere la raccomandazione del papà preoccupato per la sicurezza di sua figlia. Un consiglio a non esporsi a un rischio. Stop».

D. Però è finito comunque nel tritacarne.

R. «Quindi? Non sono il megafono di Giorgia, esprimo le mie idee. E devo smettere di farlo perché qualcuno si arroga il diritto di criticarmi? Allora la stampa non è libera in Italia. Si può stravolgere la realtà e strumentalizzare ogni cosa». […]

D. Ne avete parlato con la presidente del Consiglio?

R. «Giorgia è troppo intelligente. Sa bene che tutto questo è un segnale di debolezza della stampa. Solo pensare che se vado in onda sui migranti io mi consulti con lei prima per sapere che cosa ne pensa... Via, è in mala fede chi dice queste cose».

D. La sua routine quotidiana.

R. «Mi sveglio presto, porto a scuola Ginevra, poi faccio un’ora di ginnastica cardio e vado in riunione al Palatino, dove lavoro tutto il giorno. Con Gigì che esce da scuola facciamo i salti mortali, con babysitter, mamme di amichette...».

D. L’anello piuttosto vistoso che porta all’anulare che cosa significa? Una promessa di matrimonio o cosa?

R. «Finché ce lo chiederanno, io e Giorgia non ci sposeremo. Lo faremo quando ci andrà. Oppure ci siamo già sposati e non l’abbiamo detto a nessuno».

D. E quell’anello?

R. «Mi piace così. Ho il cuore gitano io».

Estratto dell'articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” venerdì 20 ottobre 2023.

Le appassionanti avventure del compagno della presidente Giorgia Meloni sono ormai l’unica ragione per cui ci si augura che questo governo duri il più a lungo possibile. […]

Eravamo tutti convinti che Giambruno diventasse la parodia di Giambruno a telecamere accese, pensavamo che fosse la lucina rossa a trasformarlo nel bambolotto impettito dai modi affettati e invece no. Sorpresa.

A telecamere spente Giambruno è una parodia ancora più efficace di Giambruno, ma nella versione coatta. Abbronzatura made in Ostia e camicia che tira sull’italico petto del mejo ciuffo del reame, Giambruno parte vantandosi proprio di avere i capelli, mentre nello studio “so’ tutti pelati”. E fin qui, sebbene nessuno conosca la composizione chimica delle rigogliose fibre che gli germogliano sul capo, tocca dargli ragione.

Poi, tra un delicato “Che cazzo vuoi” e un garbato “Non dire cazzate”, passa a fare il piacione con la collega Viviana che ha una postazione in studio lì accanto a lui, a questo punto non si sa se in qualità di supporto giornalistico o di assistente sociale.

Camminata con i tacchi che picchiano sul pavimento e andatura a metà tra il passo dell’oca e Ivano il truzzo di Verdone in Viaggi di nozze, Giambruno inizia il suo rituale di accoppiamento. Mentre è lì che secerne una tale quantità di ormoni sessuali da indurre gli operatori ad abusare delle loro telecamere, si avvicina alla povera Viviana vestita di blu e la butta sull’armocromia: “Il tuo vestito blu Estoril”, “Non è blu Cina, tu sei un livello superiore”, “Sei una donna intelligentissima, perché non ti ho conosciuto prima?”. E infine: “Oggi sei di buon umore? Ieri mi è dispiaciuto, ti ho vista un po’ così”. Il tutto accompagnato da una carezzina sulla testa come al Labrador prima dell’iniezione finale.

[…] Morale: caro Giambruno, se eviti di fare il piacione, “magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi”. Anzi, la lupa. Detto ciò, ti siamo vicini. Facci sapere se ti serve una mano per il trasloco. Anzi, per la transumanza.

(AGI venerdì 20 ottobre 2023) "Apprendo dal sito di Fabrizio Corona di una mia presunta storia con Giorgia Meloni". A dirlo, su Facebook, e' il deputato FdI Manlio Messina, che informa anche

di avere "chiamato direttamente lo stesso Corona, conoscendolo da molti anni" e che lo stesso Corona "mi conferma che la notizia e' falsa ma che gli serve solo a fare aumentare lo share del suo nuovo sito". "Ecco chi e' Fabrizio Corona!", aggiunge Messina.

Il ruolo e la funzione pubblica. "Blocco navale sul pianerottolo". Meloni lascia Giambruno dopo i fuorionda e l’ironia dei social: “E’ lui il lupo”, “Le famiglie tradizionali fanno la threesome”. Redazione su Il Riformista il 20 Ottobre 2023

Adesso abbiamo capito, è lui il lupo”. Da 48 ore Andrea Giambruno e i suoi fuorionda lanciati da Striscia la Notizia sono in Trend su X e poco fa, sempre via social, è stato silurato dalla premier Giorgia Meloni che ha ufficializzato la fine della loro relazione, durata quasi 10 anni, ma in crisi – stando alle parole della stessa Meloni – già da tempo.

Migliaia i commenti dopo le performance del first gentleman, compagno della premier Giorgia Meloni. Battute volgari, riferimenti sessuali espliciti e un atteggiamento che, pur scherzoso (giusto per essere garantisti), ha creato più di qualche imbarazzo alla diretta interessata.

Su X i commenti non perdonano. Da “le famiglie arcobaleno no. Ma “le famiglie tradizionali” che fanno “le threesome” sì” al fotomontaggio del Grande flagello con Giambruno che prova a giustificarsi con la premier (“Te posso spiegà amò”) che replica: “Zitto che te faccio ‘n occhio blu estoril”, in riferimento ai complimenti alla collega.

C’è chi rispolvera lo storico discorso di Meloni, adattandolo ai fuorionda. “Adesso sappiamo che l’uomo #cristiano della #famiglia tradizionale si tocca il #pacco mentre parla con una donna; fa le #threesome e #foursome; ed è #aperturista”.

Chi invece lancia la nuova versione dello spot dell’Esselunga e della pesca delle polemiche, spot difeso settimane fa dalla stessa Meloni. “Leggo che questo spot avrebbe generato diverse polemiche e contestazioni. Io lo trovo molto bello e toccante (new version)”…

L’ironia non si placa. “Altro fuorionda di #Giambruno a #StrisciaLaNotizia. Dopo questa figure di merda, la #Meloni il blocco navale lo fa direttamente sul pianerottolo di casa”.

Ha raccolto invece centinaia di commenti di solidarietà e vicinanza il post di Giorgia Meloni che annuncia la fine della relazione con Giambruno.

"Ma cosa ho detto? Si ride e si scherza, veniamo da una pandemia". Andrea Giambruno “terrorizzato”, il secondo fuorionda imbarazza Meloni: “Abbiamo una tresca, lo sanno tutti. Posso toccarmi il pacco?” Redazione su Il Riformista il 20 Ottobre 2023

Striscia la Notizia lancia un secondo video con i fuorionda di Andrea Giambruno, il giornalista, compagno della premier Giorgia Meloni, che conduce Diario del giorno in onda tutti i pomeriggi su Rete 4. Se nel primo video il first gentleman è finito nel mirino del tg satirico di Antonio Ricci sia per i complimenti alla collega Viviana Guglielmi che per i continui tocchi “al pacco” e per il linguaggio assai colorito, in questo secondo filmato Giambruno si lascia andare a una serie di battute a sfondo sessuale che creano imbarazzo tre le interlocutrici.

Il compagno di Meloni inizia a parlare di “foursome“, una forma di sesso di gruppo che coinvolge quattro persone, chiedendo a una donna se le piacerebbe “entrare a far parte del nostro gruppo di lavoro” perché “noi facciamo le ‘foursome’…. tradotto si s…a”. Sorridente e disinvolto, quando un collega gli fa notare “Se ti registra Striscia poi vedi te”, lui minimizza. “Ma cosa ho detto? Si ride e si scherza, veniamo da una pandemia. Manco stessimo parlando dell’agenzia delle Entrate”.

Giorgia Meloni lascia Andrea Giambruno: “La relazione finisce qui, strade divise da tempo”
Nel video mandato in onda da Striscia, Giambruno esordisce così: “Posso toccarmi il pacco mentre vi parlo?”, replica una voce femminile: “L’hai già fatto”. “Tu sei fidanzata?”, chiede il giornalista. “Sì, gliel’hai già chiesto stamattina Andrea”, ribatte la stessa donna. Poi lo show: “Sei aperturista? Come ti chiami? Ci siamo già conosciuti? Dove ti ho già vista? Ero ubriaco?”. Parole che, pur dette in modo scherzoso, creano un certo imbarazzo. L’audio prosegue. “Come amore? Sai che io e … abbiamo una tresca? Lo sa tutta Mediaset, adesso lo sai anche tu… Però stiamo cercando una terza partecipante, facciamo le threesome. Anche le foursome con …. Però … generalmente va a Madrid a ciu… Ma hai sco…? C’è fi…? Sc…to?”.

Lo show del first gentleman non si placa. “Ascolta – si sente ancora parlare Giambruno -, ti volevo dire una cosa, tu entrerai a far parte del nostro gruppo?”. “La risposta è: quale?”, replica una donna, e il dialogo fra i due va avanti. “Entrerai a far parte del nostro gruppo di lavoro? Ti piacerebbe?”. “Sì, sì”. “Però devi darci qualcosa in cambio”. “La mia competenza” risponde lei. “Sì, devi far parte del nostro gruppo. Noi facciamo le foursome”. “C’è un test attitudinale?”. “Certo”. “Cos’è il sottotitolo?”. “Si sco..”. Poi il compagno di Meloni si rivolge a un’altra persona. “Le ho detto: ‘vuoi entrare nel nostro gruppo?’. ‘Sì mi piacerebbe’. ‘Devi fare le foursome con noi’. ‘In che senso?’. ‘Tradotto si sc…'”.

Giambruno che ieri, giovedì 19 ottobre, non ha condotto la puntata pomeridiana di ‘Diario del giorno’. In studio c’era Manuela Boselli, mentre il compagno di Meloni era a Pavia per fare da moderatore agli Stati Generali su cammino e turismo sostenibile. E anche in quest’occasione alcune sue considerazioni sono finite in un fuorionda, rilanciato da stavolta Open. “Ormai sono terrorizzato da tutto, appena dico qualunque cosa diventa oggetto di mistificazione”, dice il giornalista all’assessora al Turismo della Lombardia Barbara Mazzali, di FdI.

Il Sì&No del giorno. L’allucinante fuorionda di Andrea Giambruno e gli atteggiamenti da maschio patriarca: quante donne sono costrette ad abbassare lo sguardo ogni giorno? Iacopo Melio su Il Riformista il 20 Ottobre 2023’

Nel Sì&No del giorno del Riformista spazio al dibattito sul fuorionda di Andrea Giambruno, giornalista, conduttore di Diario del giorno su Rete4 ed ex compagno della premier Giorgia Meloni. Come interpretare e contestualizzare le sue dichiarazioni? Ne scrivono il direttore Andrea Ruggieri e l’attivista politico Iacopo Melio, fornendo due visioni opposte.

Andrea Giambruno ne ha combinata un’altra delle sue, dimostrandosi ancora una volta per quello che è. Dopo aver colpevolizzato le donne vittime di molestie, sostenendo che “se non ti ubriachi il lupo lo eviti” (scaricando su di loro la responsabilità), e dopo le imbarazzanti scuse avvenute successivamente (ma solo pro forma verso la rete che gli dà lavoro, ritenendo poi di esser stato “frainteso” e addirittura che si sia distorta la realtà circa la sua dichiarazione – un classico, insomma), si è lasciato andare a un fuorionda allucinante che ha acceso di nuovo il web.

Nel video pubblicato da Striscia La Notizia si vede infatti Giambruno intento a imprecare perché qualcuno, evidentemente, gli ha criticato la capigliatura, ma non sono certo qualche “cazzo” e “coglioni” espressi con nonchalance a scandalizzarci, bensì il suo atteggiamento machista: prima si palpeggia più volte le parti intime con fare strafottente, allargando il proprio corpo come a voler occupare più spazio (richiamando la pratica del “manspreading” che, se non conoscete, vi invito a cercare perché significativa), poi uno spazio addirittura lo invade, avvicinandosi molto alla collega Viviana Guglielmi. Ecco allora che partono “apprezzamenti” nemmeno troppo velati, prima sull’abbigliamento della giornalista e poi sulla sua intelligenza, concludendo con «Sei di un’intelligenza… Ma perché non ti ho conosciuta prima io?».

Ora, senza volerci addentrare nelle dinamiche di coppia, limitiamoci a soffermarci sull’apparente disagio provato da Viviana Guglielmi che, per quasi tutto il tempo, è rimasta a sguardo basso durante le parole del conduttore. Un segnale che ci potrebbe far intendere come Giambruno abbia esercitato il proprio potere di “maschio” sulla donna, confermato da quella mano appoggiata sulla testa di lei che, accompagnata da una frase “premurosa” («Meglio oggi? Sei di buon umore? Ieri mi è dispiaciuto vederti un po’…»), in realtà sembra solo prevaricare la donna, stabilendo una posizione di superiorità da maschio patriarca.
Ecco, laddove migliaia di persone stanno in queste ore gridando alla “molestia”, ritengo che debbano essere altre le persone che, con cognizione di causa ed equilibrio, ma soprattutto competenze (possibilmente donne), possano dare un giudizio in tal senso. Non di certo io. Anche perché il vissuto e l’esperienza personale è quasi tutto in certi casi, perciò non potrò mai comprendere davvero. Ciò che è certo, però, è che la cosa più triste sia il fatto che Andrea Giambruno non sia un caso isolato: quante donne ogni giorno abbassano lo sguardo a battute realmente inopportune, a frasi viscide, a richieste esplicite o ad atteggiamenti subdoli, quante donne devono assistere ad auto-palpate grezze, a sfuriate arroganti, a equilibri non certo paritari…

Che poi, diciamolo, non sappiamo quale sia il vero rapporto tra Giambruno e Guglielmi: e se quelle risatine fossero magari il frutto di complicità o sincero divertimento? Di certo stavolta un minuto e mezzo di fuorionda, estrapolato così, potrebbe davvero venire distorto. E su questo possiamo dare il beneficio del dubbio. Lo spettacolo comunque risulta indegno e soprattutto può essere tremendamente dannoso per chi in situazioni di abuso di potere si è ritrovata davvero, rivivendo traumi passati che le risate di sottofondo applicate da Striscia La Notizia non fanno che sminuire, rendendo quelle immagini, fraintese o meno, ancor più diseducative. Perché sono centinaia, migliaia, milioni le donne che con il maschilismo performativo tossico hanno fatto e devono fare i conti. In famiglia, sul posto di lavoro, nella società. E sarebbe anche l’ora di smetterla con il prestare il fianco a tutto questo, anche solo fosse per sbaglio. Perché la visibilità è un potere immenso e se non lo sai usare, forse, è giusto esserne privati. Iacopo Melio

Il Sì&No del giorno. Andrea Giambruno vittima di un fuorionda. Si deve davvero rispondere in pubblico di una battuta fatta in privato? Andrea Ruggieri su Il Riformista il 20 Ottobre 2023
Nel Sì&No del giorno del Riformista spazio al dibattito sul fuorionda di Andrea Giambruno, giornalista, conduttore di Diario del giorno su Rete4 ed ex compagno della premier Giorgia Meloni. Come interpretare e contestualizzare le sue dichiarazioni? Ne scrivono il direttore Andrea Ruggieri e l’attivista politico Iacopo Melio, fornendo due visioni opposte.

L’unico dubbio che è lecito porsi è se il fuorionda di Andrea Giambruno pubblicato da Striscia la Notizia, faccia o meno ridere. E a me ha fatto ridere. Altre discussioni, le trovo francamente ridicole. Ma anzitutto, chiariamo: Andrea Giambruno è rimasto vittima della pubblicazione di alcuni fuorionda, cioè espressioni che un conduttore rilascia a telecamere spente, quando non è in onda (cioè durante una pausa pubblicitaria o un servizio), ma è in studio, e col microfono acceso collegato solo con la regia.
Non parliamo quindi di dichiarazioni pubbliche. Sono cose che, regola vorrebbe, rimanessero private tra gli astanti presenti in studio, senza diventare pubbliche. Cose paragonabili a uno scambio di battute tra colleghi in qualsiasi ufficio, nella pausa di una riunione. Ma Giambruno che dice? Di non “rompergli le scatole con la storia del ciuffo perché lui almeno i capelli li ha, a differenza dei pelati” che ci sono (non si è capito se nel mondo, o a Mediaset). E che attaccarsi al capello è ridicolo, vista la maleducazione che a volte abita la tv (fatto peraltro oggettivamente vero).

In fuori onda simili sono cascati tutti (da Emilio Fede a Flavio Insinna, e mille altri); semmai, le uniche cose che mi meravigliano sono come ci sia cascato anche lui, visti i precedenti eccellenti di cui sopra, e come sino ad oggi non ci sia cascato anche io, che gli studi televisivi li frequento stabilmente da anni, e che cazzeggio come, e a volte peggio di Giambruno. Cui, diciamo la verità, non si perdona di essere (l’ex) compagno della premier Giorgia Meloni. Altrimenti i suoi fuorionda, che – ribadisco – non sono certo dichiarazioni, non creerebbero tanta ipocrita indignazione, e forse nemmeno troverebbero pubblicazione.
Davvero si deve rispondere pubblicamente di una battuta fatta in privato, giacché di pubblico c’è, giustamente, solo quello che va in onda? Io credo di no, e credo che si stia esagerando: relativamente a Giambruno, solo per acrimonia o antipatia politica verso la sua compagna; e in assoluto, se pretendiamo un rigore, una sobrietà austera e noiosissima, da chiunque abbia una minima caratura pubblica.
È incredibile come si sovrappongano il piano dell’eleganza con quello della opportunità o addirittura, anche se non è questo il caso, con quello della liceità. Io quando devo parlare a un convegno subito dopo qualcuno che non ha lasciato la platea sveglia e attenta, per recuperare la sua attenzione, faccio la seguente battuta: “Come dico sempre alla mia fidanzata quando mi metto a letto con lei: sarò breve”. Chi segue, ride. Chi non segue, si chiede cosa accada sul palco che faccia ridere gli altri, e si volta verso di me. A quel punto ho richiamato l’attenzione e comincio a parlare di quel che devo. Devo smettere?
Allora facciamo una bella cosa: imponiamo per legge il grigiore. Puntiamo sulla tristezza, convinti della sciocchezza che essere seri ed essere seriosi coincidano (cosa assolutamente falsa). Quanto alla venatura maliziosa che qualcuno vuol dare al suo scambio con la collega Viviana Guglielmi, cui rivolge un apprezzamento sull’abito ‘blu Estoril’ (espressione secondo lui migliore di ‘blu Cina’ perché ‘a noi sta sulle palle’) e sul fatto che Viviana sia intelligentissima (“ma perché non ti ho conosciuta prima”) beh a me pare evidente che Giambruno scherzi usando dell’ironia, e che non ci possa essere nessuna malizia, visto che egli sa benissimo che col microfono aperto lo sentono tutti i cameramen e le persone presenti in regia (almeno una quindicina di persone). Dovesse fare davvero il birichino, sicuramente non lo farebbe in quella sede. Dunque rimettete in tasca il vostro perbenismo noioso e fuori luogo, e fatevi una risata.
Oppure (idea da proporre al Pd), aboliamola, la risata. Vietiamo lo scherzo, l’ilarità, la comicità e ogni battuta che non si ispirata al massimo rigor mortis. Scegliamo la tristezza come unico metro di civiltà. Dopo di che abbandoniamo l’Italia, però. Perché se ci priviamo anche del nostro essere scanzonati, ci restano solo le tasse, sempre troppe, da pagare. Andrea Ruggieri

Un abbraccio anche al suo ex compagno. Complimenti a Giorgia Meloni, altre donne famose prendano esempio da lei. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 21 Ottobre 2023

Non spenderò, né lo farà questo giornale, mezza parola di commento sulla vicenda della separazione tra Giorgia Meloni e il suo compagno, Andrea Giambruno. Li conosco personalmente, e sono una famiglia che si divide. Immagino il dolore. Credo lo possiate immaginare tutti.

Mi dispiace per entrambi, e vorrei che tutti si rispettasse il loro dolore con rispetto.

Voglio però fare i miei complimenti a Giorgia Meloni per lo stile e la decisa compostezza che ha dimostrato in questa vicenda per lei sicuramente assai triste, e da lei pubblicamente confessata con un post sui social molto bello, asciutto e misurato. Si dimostra una donna seria, equilibrata, e di grande stile, se posso permettermi.

Quando al dolore privato si somma il clamore pubblico, tutto pesa assai di più. Se a questo aggiungiamo il peso, tautologico, che guidare l’Italia comporta, la pressione diventa ciclopica.

È chiaro, non ce lo ha ordinato il medico di svolgere lavori pubblici. Ma non crediate nemmeno che sia facile, essere costantemente sotto i riflettori.

Anche io, più in piccolo, sono stato a lungo e molto felicemente legato a una donna estremamente famosa. Molti si immaginano sia un privilegio, o una condizione sempre piacevole, quella di avere accanto una donna così. Si sbagliano, credetemi. Nel senso che non è sempre semplice e piacevole avere gli occhi di chiunque addosso, specie se, a tua volta, fai anche tu un mestiere pubblico (come era il mio caso, visto che ero deputato, e come è quello di Giambruno, conduttore tv). Non hai una vita privata, la curiosità di molti a volte non è benevola, ma anzi è ispirata dalla cattiva fede di chi deve per forza vedere il marcio anche laddove non esiste, la tua socievolezza viene costantemente equivocata con malizia anche se tu ti comporti bene, ogni tuo gesto può essere frainteso, sei divorato dalla morbosità e dal continuo deludente pettegolezzo. Questo genera una pressione da cui a volte si vuole evadere, alla ricerca di un po’ di normalità, che ad esempio uno come me ama molto.

Ma altre donne famose come Giorgia Meloni prendano esempio da lei: nessuna sciatteria, anche nel comunicare una cosa così intima. A me ad esempio -piccola confidenza- non è accaduto così: mi ritrovai, mio malgrado, i miei problemi di coppia (dolorosi già di per sé) buttati sui giornali, per decisione della mia fidanzata del tempo, che nemmeno mi avvertì di aver informato il mondo intero di fatti privati che erano anche miei, con un’intervista assai ingenerosa verso di me, e che ancora oggi le rimprovero per sciatteria.

Per questo, complimenti a Giorgia, e un abbraccio a lei ma anche al suo ex compagno. E noi dimostriamo di saperci comportare, rispettando il dolore di una bella famiglia che viene meno.

Io sono goccia. Ascesa e caduta di Giambruno, l’opera struggente di una formidabile genia. Guia Soncini su L'Inkiesta il 21 ottobre 2023.

Giorgia Meloni mostra al pubblico come molla un’italiana, e la sinistra non lo capisce. La presidente del Consiglio, invece, liquida il compagno impresentabile sapendo benissimo che gli elettori amano votare chi gli somiglia

«Per oggi ci sono io, poi la settimana prossima vediamo». Sono le 15 e 40 d’un venerdì che tutti abbiamo passato a cercare di farci dire cosa intendesse fare Mediaset del posto di lavoro di Bellicapelli, nessuno riuscendoci (come fanno a rivelare una decisione che ancora non hanno preso?), qualcuno inventando e tirando a indovinare e vedi mai che ci prenda e poi tra una settimana possa dire «io sapevo da prima».

Sono le 15 e 40, “Diario del giorno” è iniziato da pochi minuti, Bellicapelli Giambruno non è in studio, al suo posto c’è un tizio irrilevante ai fini del romanzone sentimentale cui stiamo assistendo da tre giorni. Ci sono degli ospiti collegati. 

Sono le 15 e 40, quando il supplente di bellicapellitudine in studio fa al direttore del Foglio, collegato in uno degli schermi, una domanda su Al Sisi, e l’eroico Claudio Cerasa, invece di rispondere, controdomanda.

Dicendo che sì, tutto molto interessante, ma intanto deve fare una domanda lui: come mai Giambruno non c’è, tornerà, lo licenziano, lo demansionano, cosa? Il supplente di bellicapellitudine ha l’aria imbarazzata del bambino che non ha mai parlato coi cuginetti di quella scena che ha fatto lo zio ubriaco al pranzo di Natale, hanno fatto tutti finta di niente e ora arriva Cerasa e ci costringe a prenderne atto. 

La settimana prossima vediamo, ma intanto c’è da raccontare questo venerdì, terzo giorno non di resurrezione ma di giambruneide, cominciato alle otto e trentacinque del mattino, quando Giorgia Meloni decide di farci vedere come molla un’italiana. Senza vergini e draghi e altre scarsissime immedesimabilità veronicalariste: Meloni è lo specchio perfetto dell’elettorato, fin dal lessico.

Mentre una sinistra destinata a perdere le prossime quattrocentoventi elezioni corre sui social a spiegare con grandissimo senso delle priorità che la chiusa meloniana «per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua» dimostra scarsa conoscenza delle leggi fisiche e del principio di erosione, quella frase lì è già tatuaggio ordinato in periferia e slogan ripetuto nei gruppi di mamme su Facebook.

Due anni e mezzo fa, quando non era ancora presidente del Consiglio ma la sua qualità di Chiara Ferragni della politica era evidente a chiunque volesse incomodarsi a guardare, Giorgia Meloni pubblicò la sua autobiografia.

C’erano dentro tutti i colori necessari ad avere successo nel nostro tempo, tutti i colori che ti rendono popolare presso il pubblico di donne che si tatuano la data di nascita dei figli su una caviglia, che dicono serie «siamo mamme, possiamo tutto», che si sentono eroiche perché hanno montato da sole la libreria Ikea e schienadrittiste perché una volta non l’hanno data a uno con cui si sarebbero sistemate. C’erano tutti i sono-forte-ma-anche-fragile dei drammi a lieto fine da filmone lacrimevole.

«Andrea è intelligente e sicuro di sé, è molto bravo nel suo lavoro, e questo lo rende uno dei pochissimi uomini al mondo capaci di non soffrire se hanno accanto una donna affermata. Non ha mai avuto alcuna soggezione per il mio ruolo di “capo”, forse anche perché conosce quella vulnerabilità che sono in grado di mostrare solo alle persone che amo».

Quando “Io sono Giorgia” uscì, nessuno di noi aveva mai visto Giambruno, stipendiato Mediaset senza particolare gloria professionale. Se Giorgia Meloni non avesse preso nell’ultimo anno e mezzo tutti gli ascensori sociali che avevamo sostenuto non funzionassero in questo paese fatto a scale, avremmo potuto continuare a crederle.

Avremmo potuto pensare che il padre di sua figlia fosse intelligente, sicuro di sé, molto bravo nel suo lavoro, e per nulla frustrato dal maggior successo della donna dall’esistenza della quale la di lui carriera è stata (brevemente) miracolata. E invece è andata così: che Giambruno ha avuto un’opportunità, e abbiamo visto tutti cos’è successo poi.

Il consumarsi delle questioni in pubblico è un elemento importante in questa vicenda. Se Giambruno non avesse ambìto a un ruolo pubblico, smaniando per stare in scena invece che fuori scena, nessuna delle polemiche che l’hanno riguardato negli ultimi mesi sarebbe esistita, e Giorgia Meloni magari avrebbe potuto continuare a pazientare, come chiunque di noi abbia un cretino a casa ma non il ricarico di venirne umiliata in pubblico.

Oppure. Se le vite private non fossero ormai consumate in pubblico tutte e sempre e comunque, Giorgia Meloni avrebbe potuto lasciare il padre di sua figlia con un biglietto, un WhatsApp, una piazzata, una serratura cambiata: uno qualunque dei modi in cui ci si lasciava quando il mondo non costituiva un continuo e gigantesco sondaggio d’opinione a mezzo cuoricini.

Dieci ore prima che Giorgia Meloni – madre, quarantaseienne, bionda, presidente del Consiglio – scrivesse sui social «La mia relazione con Andrea Giambruno, durata quasi dieci anni, finisce qui», Lupita Nyong’o – premio Oscar, quarantenne, nera, attrice – scriveva su Instagram che la sua relazione (con un innominato) era finita giacché lei era stata tradita.

Entrambe le signore sono abbastanza adulte da ricordare gli anni in cui, se eravamo cornute, al massimo lo dicevamo alle amiche. Ma entrambe vivono in questi tempi qui, in cui il pubblico che infila la scheda elettorale nell’urna e quello che compra il biglietto del cinema vogliono la stessa cosa: sapere che stanno dando la loro fiducia a qualcuno cui somigliano.

Che tu sia cornuta come me, vessata come me, tra le difficoltà d’essere donna in carriera ma anche madre come me, con la ritenzione idrica come me, che tu sia il mio specchio vale più d’una finanziaria che metta i soldi nei posti giusti, più d’una politica estera così o cosà, più del maggioritario, del proporzionale, e persino delle liste d’attesa per una tac.

Il catalogo delle risposte imbecilli da sinistra alla vicenda Meloni/Giambruno è sterminato, ma s’individuano due filoni preponderanti.

Quelli che «Lo vedi Giorgia che allora le famiglie tradizionali finiscono male e tu che non vuoi riconoscere i diritti queer ora sarai pentita» (invece di rivendicare che pure tra busoni ci si lasci con pubblici rinfacci; invece di dire: vieni, Giorgia, parliamo di come vendicarci dell’ex ché noialtri invertiti siam specialisti).

E quelli che le cafonate di Bellicapelli nei filmati mandati da “Striscia” non erano solo cafonate: erano vessazioni verso povere colleghe vittimizzate in quanto donne, e Giambruno è un esponente del patriarcato dominante. Giambruno, che se Mediaset non gli conserva uno strapuntino alle previsioni del tempo dovrà farsi dare gli alimenti dalla ex, che però saggiamente non se l’è sposato e quindi non lo vedo benissimo, non dico come patriarca ma anche solo come titolare di conto corrente non a doppia firma.

Sulla sinistra non si può infierire, e in questo Giorgia Meloni è stata provvidenziale. Monopolizzando col suo addio alla coppia la giornata, ci distrae dall’accanirci su Beppe Sala, che fa non ho capito bene se Batman o un altro personaggio in un video per i Club Dogo (chiunque essi siano), con una recitazione di squisita scuola canile municipale.

Ma ora basta parlare di disastri, torniamo a Giambruno. Quella di Bellicapelli è, in fondo, una edificante storia che ci insegna il rilancio d’un marchio, l’infondatezza di alcune leggende circa la meritocrazia, e lo straordinario talento che ci vuole per emergere come la più politica delle influencer in un decennio in cui tutte le influencer ambiscono a essere politiche.

Ieri pomeriggio, il pubblico alfabetizzato ha fatto una cosa che non faceva da decenni: sintonizzarsi su un canale Mediaset. Di giorno, nientemeno (era dai tempi di Costantino Vitagliano e Alessandra Pierelli). Eravamo lì ad aspettare di vedere se Bellicapelli ci fosse o no, con quell’attesa televisiva da Vermicino (lo so, lo so: che paragone di pessimo gusto, neanche avessi figliato con la presidente del Consiglio).

Addirittura, io ho recuperato qualche minuto del “Grande Fratello”, un programma che credevo avessero chiuso da almeno quindici anni, per vedere se davvero uno avesse detto «Ti sta bene quel blu estoril» e un’altra avesse risposto «È blu Cina» (sì, davvero).

È così che si rianima un’azienda televisiva comatosa, e allo stesso tempo si demoliscono le superstizioni circa quella leggenda metropolitana che sono le raccomandazioni italiane. Se c’è una cosa che c’insegna Bellicapelli è che essere parente di qualcuno può darti una chance, ma se non hai le qualità per giocartela sarebbe stato meglio tu non ne ricevessi mai una.

A meno che, certo, fare il giornalista televisivo e il convivente della capa d’Italia non sia stata che una tappa della tua ascesa a una gloria postmoderna in cui quelli che ora paiono inciampi saranno punti simpatia. Immaginiamo un Giambruno, chessò, concorrente di “Pechino Express” (in coppia con Renato Zero, che si dice gli abbia regalato una Smart: Giambruno è già leggenda, era sprecato a fare la persona seria).

Infine, Giorgia, rappresentazione plastica di come funzioni il successo oggi: più col consenso che col talento, più con l’immedesimazione che con la verticalità. Una influencer è un “Abitudinario”, quello di Elio e le storie tese, che riceve molti cuoricini da gente che pensa: se ce l’ha fatta lei, allora anch’io.

Perfino nel post di mollamento, una specie di versione più pubblica e vieppiù umiliante della leggenda secondo cui Daniel Day Lewis aveva mollato Isabelle Adjani con un fax, persino lì Giorgia Meloni sa giocare le carte del sentimentalismo e dell’immedesimabilità. Buttando lì che la figlia «ama il padre come io non ho potuto amare il mio».

Sono Giorgia, sono una donna, sono senza padre, sono circondata da uomini meno capaci di me che rallentano la mia ascesa, sono piena di rotture di coglioni e mai nessuno che mi risolva problemi invece di crearmene, e sto con uno con cui proprio non so come mi sia venuto in mente di mettermi: siete come me.

Il diavolo veste blu Cina. La sorte di Giambruno, l’avvenire del suo ciuffo e il mestiere da sor Meloni. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 ottobre 2023.

Potrei scrivere di tante cose e invece ogni santo giorno c’è da occuparsi di Bellicapelli, che se non avesse conosciuto la presidente del Consiglio sarebbe rimasto uno che si ravana il pacco in una redazione, invece che in uno studio televisivo

Anni fa, i saperlalunghisti dicevano che la ragione per cui alcuni dei figli di Silvio Berlusconi si riproducevano senza sposarsi fosse un veto paterno: se poi ti separi, non disperdiamo il patrimonio dovendo dar soldi a qualcuno che non è sangue del nostro sangue e piume delle nostre piume.
Mi è tornato in mente ieri, mentre pensavo quant’è stata sveglia Giorgia Meloni a non sposarsi, quanto aver evitato di dire «finché morte non ci separi» sia stato il gesto che più la qualifica come statista, come politologa, come pianificatrice che come tutte noi si prende delle cotte per degli impresentabili ma mica le degna d’un sigillo formale.

Mi è tornato in mente mentre non smaltivo la lista dei temi di cui avrei dovuto scrivere in questa paginetta. Potrei scrivere di quel tal spettacolo, sono andata a Londra apposta a vederlo. Potrei scrivere del romanzo di Zadie Smith, sono settimane che voglio parlarne e intanto l’autrice è persino venuta a farsi intervistare in Italia. Potrei scrivere della Succession italiana, la saga di famiglia dei Caprotti che la prossima settimana sarà alta in classifica e contiene più colpi di scena di certi romanzoni di Jackie Collins.
Potrei principiare il culturale in vari modi, potrei rendere utile il fatto d’andare in giro per il mondo a vedere e leggere cose, potrei fare molte cose, ma non posso, perché ogni cazzo di giorno c’è da occuparsi di Bellicapelli Giambruno, ditemi voi se è vita questa, ditemi voi se una può mai fare l’intellettuale nell’epoca in cui c’è un Giambruno al giorno.

Il mercoledì c’è Bellicapelli che dice a Chi che siamo tutti invidiosi del suo ciuffo (quanti capelli che ha, non si riesce a contare, sposta la Meloni e lasciami guardare).

Il giovedì c’è Bellicapelli che interpreta Verdone in “Un sacco bello” in delle immagini mandate in onda da “Striscia la notizia”.

Oggi, se ci vogliono male, ci sarà come minimo un giornalista schienadrittista che chiede conto alla Meloni di Bellicapelli in quel filmato, e lei che ci redarguisce sulla libertà d’espressione, e neanche domani io potrò principiare il culturale. Non vorrei ripetermi, ma: non è vita.

Ieri, i saperlalunghisti ci spiegavano che “Striscia” che manda in onda delle immagini di Bellicapelli che, durante la pubblicità, si aggiusta il pacco, fa il mollicone con una giornalista, parla (come sempre) dei propri capelli, e in generale è tragicamente sé stesso, che il fatto che quelle immagini siano state trasmesse da “Striscia” è il segno dell’avvio della guerra di Forza Italia contro la Meloni.

A parte che vorrei sapere chi altro le avrebbe potute trasmettere – dove diavolo dovevano trasmetterlo, un «fuori onda», un concetto che non esisterebbe se non se lo fosse inventato Antonio Ricci? – c’è, in chi fornisce questa analisi, una commovente sottovalutazione dell’indole personale.

Tra tutti i bracci armati servizievoli, malleabili, smaniosi di essere il Calboni del potente di turno, tra tutti coloro che si possono scegliere per l’operazione di boicottaggio del convivente di Giorgia Meloni, e di conseguenza per sbilanciare i rapporti di forza interni alla maggioranza di governo, chi è il folle che va a rischiare la vita e la strategia e la salute affidando un’operazione che prevede assenza di guizzi personali e cieca lealtà a, mi viene da ridere anche a scriverlo, Antonio Ricci?

Lo so, lo so: non vi ho ancora parlato in dettaglio del video, casomai nelle ultime trentasei ore aveste tenuto tutto spento per leggere Zadie Smith o Giuseppe Caprotti (beati voi) e non sapeste che la nazione dibatte della differenza tra blu Cina e blu estoril, cioè due nomi della tinta burina preferita dalle americane nelle serate di gala, il blu elettrico.

Accade che, nelle immagini che pensava – tapino – non sarebbero mai state trasmesse, Giambruno faccia abbondante uso di «coglioni» e «cazzo», intesi come lemmi e non come organi, e lo faccia con un fastidioso uso meridionalista dei tempi verbali («ma non mi rompessero i coglioni», invece di «ma non mi rompano»: lo so, a Roma è una battaglia persa, ma sono le uniche che m’appassionino).

Accade poi che si ravani assaissimo il pacco, inteso come zona dei pantaloni che contiene gli organi da cui i suddetti lemmi. Accade poi che si avvicini a una giornalista in studio e i due non concordino sul nome del colore della di lei giacca, e a quel punto Bellicapelli dica una cosa su cui non riesco a capire come mai non si sia concentrata la conversazione collettiva.

«A noi sta sul cazzo la Cina», dice Bellicapelli quando lei vuole chiamare la sfumatura «blu Cina», e la nazione già insorta quando il nostro eroe dell’intrattenimento pomeridiano aveva detto a un ministro tedesco di starsene a casa invece di lamentarsi delle vacanze in Italia, quella nazione lì non fa un plissé, non pronostica che la Cina ci sgancerà l’atomica per colpa di Bellicapelli, non grida all’incidente diplomatico.
Essendo troppo impegnata, la nazione, a concentrarsi sul «Ma perché non ti ho conosciuta prima?» sospirato a questa tizia in blu elettrico, che permette ai commentatori da social di usare una delle poche categorie filosofiche a essi note: la Meloni è cornuta (più fanno gli illuminati di sinistra, più hanno la morale sessuale della moglie del Gattopardo).

Pensano che tutto accada per caso: che colpa ne ha Giambry, se il cuore è un gitano e va? Non avendo essi chiaro che quel tono da mollicone è l’ultimo rifugio d’un uomo disperato, che a casa non è quello che guadagna di più, non è quello più famoso, non è quello più di successo, non è nemmeno quello più capace di usare i tempi verbali.

Cosa resta, a quella ferita narcisistica ambulante che è Bellicapelli, se non sentirsi vero uomo in quei dieci secondi in cui fa il cretino con una che, trovandosi loro in uno studio televisivo, e rassicurata dal fatto che non le potrà mettere le mani addosso, neanche s’incomoda a mandarlo a quel paese?
Ieri sera, Ricci è tornato a infierire (quanta cascina di Bellicapelli sarà riuscito ad accumulare, Ricci, prima che l’eroe tricologico della nazione capisse come funzionano i microfoni e che doveva darsi una regolata?).

Questa volta Giambry era fuori dal raggio delle telecamere, ed è quindi in solo audio che ci ha deliziato di alcune mitomanissime cronache di threesome e foursome (Bellicapelli è il genere di provinciale che pensa che faccia fino chiamare l’orgia in inglese). Sempre più Verdone che tenta di rimorchiare europee dell’est, sempre più Manuel Fantoni che «Raquel c’ha du’ chiodi», ma un Fantoni col complesso muliebre.
Quando uscì “Il diavolo veste Prada”, film-manifesto delle frustrazioni maschili di fronte all’affermazione professionale femminile, il pubblico si divise in due.

Le beate ingenue, convinte che il problema fossero le multinazionali cattive, e che il fidanzato cuoco facesse bene a boicottare la protagonista che lavorava per una che l’aveva sì resa una che sapeva lavorare e sapeva vestirsi, ma era comunque una megera.

E le adulte, che erano prima o poi inciampate in un uomo con una carriera meno brillante della loro, e sapevano che il fidanzato non la boicottava per proteggere lei dal troppo lavoro ma sé stesso dal troppo sbilanciamento all’interno della coppia.

A un certo punto Anne Hathaway diceva che la sua vita privata stava andando a puttane, e Stanley Tucci le rispondeva che era il segno che la sua vita professionale stava andando bene: quando andrà completamente a puttane, concludeva, significa che è ora di una promozione.

Certo, Giorgia Meloni ha le parate militari, gli incontri coi capi di Stato, i Consigli dei ministri, le conferenze stampa, le leggi di bilancio, gli editorialisti che la criticano, i comici che la sbeffeggiano, gli elettori suoi che la idolatrano e quelli altrui che la detestano: ha continue conferme del peso del proprio ruolo.
Ma nessuna vale quanto: il tizio con cui dividi il letto scapriccia e fa i dispettucci e si copre continuamente di ridicolo per rifarsi del divario tra quella che eri quando ti ha preso e quella che sei diventata, mentre lui sempre dov’era è rimasto. O quasi.

«Ma perché non ti ho conosciuta prima?», chiede Bellicapelli. Perché, Bellicape’, se avessi conosciuto Blucina invece che la presidente del Consiglio, saresti rimasto uno che si ravana il pacco in una redazione invece che in uno studio televisivo, e non rilasceresti interviste sul tuo ciuffo. Ciuffo che sarebbe comunque, anche in quel caso, come lo è oggi, il tuo traguardo più prezioso.

 Mariti strazianti. Giambruno e la maledizione dei coniugi imbarazzanti (cioè di tutti). Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Luglio 2023

Il compagno della premier è talmente incapace di stare in video da far venire il dubbio che a Mediaset ci sia una fronda anti Meloni, come a Repubblica contro Elkann figlio

Non esistono congiunti non imbarazzanti. Cioè, esistono, ma sono talmente eccezionali da non fare media. Perlopiù, tutti nascostamente esultiamo quando un nostro amico ci dice che la moglie a cena non potrà esserci, o un’amica ce lo dice del marito.

Poi siamo persone garbate, e alla nostra amica senza gusto per la scelta del coniuge non lo diciamo fino alla separazione, quanto le barzellette di suo marito facciano ridere solo lui. Le separazioni sono un florilegio di gente che improvvisamente ti dice quanto le faceva schifo la persona che avevi sposato, dopo aver fatto finta di niente per anni o decenni.

Il coniuge imbarazzante è peggio della madre o del figlio imbarazzanti, perché loro non te li sei scelti: ma cosa mi dice di te il fatto che tu abbia sposato un cretino, una che non si sa vestire, uno che usa lo stuzzicadenti, una con una dialettica da seconda media, uno col marsupio, una mitomane, uno che pretende di scegliere il vino senza capire niente di vini – eccetera?

Ho un’amica con cui faccio questa discussione da anni: la persona con cui ti accoppi è parte dei parametri con cui valutarti? Lei dice di sì, ma secondo me lo dice solo perché ha uno dei pochi mariti fighi in circolazione, ed è come tutti convinta d’essere misura del mondo e che quindi sia normale che la gente con delle qualità si accoppi con altra gente con delle qualità.

Io dico di no: le ragioni per cui t’incastri in una coppia con qualcuno sono misteriose e perlopiù nevrotiche, l’idea che si possano pianificare gli accoppiamenti in base alle caratteristiche è una semplificazione da Tinder. Gente favolosa sta con gente orrenda quasi sempre, per motivi che spesso neanche sanno loro due, figuriamoci se li possiamo conoscere noialtri osservatori.

Tutto questo per dire che non credo che Giorgia Meloni abbia deciso di figliare con Andrea Giambruno perché le pareva un talentuoso uomo di televisione: non funziona così, non si fa un business plan e una valutazione oggettiva delle qualità dell’altro, prima di accoppiarsi (lo facevano una volta le famiglie reali, e finivano per accoppiarsi solo tra consanguinei, il che presenta altri svantaggi).

Né il povero Giambruno poteva prevedere che la sua scarsa resa televisiva sarebbe stata valutata, una volta diventata sua moglie presidente del Consiglio, com’egli fosse il conduttore della notte degli Oscar e non quello d’una striscia informativa di Rete4 che nessuno di noi sapeva esistesse fino a tre quarti d’ora fa (sì, lo so che non sono sposati, ma sono lieta d’informarvi che “marito” e “moglie” sono ruoli: se due dividono un mutuo e dei figli, sono marito e moglie).

Quindi lunedì Giambruno ha detto, di fronte alle immagini del tifone milanese, «questa è la notizia: che in luglio ci siano questi eventi è ’na notizia e noi la diamo». L’ha detto in romanesco, giacché i romani sono convinti che quello che parlano sia italiano; l’ha detto dopo aver negato d’essere negazionista e prima di dire che il caldo a luglio non è una notizia. Il meteorologo con cui era collegato, che diversamente da Giambruno ha un’idea della differenza tra stare in tv e stare in tinello, ha proceduto a spiegare che le cose sono collegate, la tempesta è l’effetto del carico di calore nell’aria, ma Giambruno non lo stava ascoltando. Come faccio a saperlo? Perché il collegamento era a tutto schermo.

Negli strazianti quarantacinque minuti che avevano preceduto quel momento, infatti, ogni volta che il collegamento era a tutto schermo Giambruno ne aveva approfittato per comunicazioni di servizio. Senza però farsi chiudere il microfono (o forse la regia non gliel’aveva chiuso per dispetto? Le regie di Mediaset boicottano il marito della presidente del Consiglio come la redazione di Repubblica boicotta gli articoli del padre dell’editore?).

Il risultato è che ogni collegamento ha in sottofondo Giambruno che bisbiglia. Pulcino, sono troppi minuti che fai televisione per non sapere che, se sei microfonato, il bisbiglio viene comunque captato. Il risultato è che, quando quello spiega il tifone, Giambruno non lo ascolta e conclude: «Almeno la scienza mi supporta».

D’altra parte il programma è fatto per mandare Giambruno a schiantarsi (si rafforza l’ipotesi Repubblica/Alain Elkann): Giambruno è in piedi, in uno studio vuoto, e parla a braccio. Una situazione da cui esce vivo Enrico Mentana e non so bene chi altro, forse nessuno, certo non gli Andrea Giambruno del mondo. Quando Giambruno dice «cominceranno a essere pesanti il resoconto di quanto si dovrà sborsare» o «un fatto che scosse di fatto le redazioni tutte», io penso: certo, sbaglia le concordanze, certo, ha un vocabolario di duecento parole, ma la colpa è vostra che l’avete mandato allo sbaraglio.

L’altro giorno ho ascoltato un giornalista ben più noto di Giambruno, ben più retribuito di Giambruno, ben più abituato a parlare in pubblico di Giambruno dire, a proposito del lino stazzonato indossato da Alain Elkann, che lui non ha mai capito cosa significhi «stazzonato», e che non lo si sentiva dire dai tempi di Gozzano. Nessuno se n’è scandalizzato, perché ormai evidentemente è reputato normale che chi lavora con le parole abbia un vocabolario più limitato di quello del barista, dell’ingegnere, del calciatore, e ritenga pure di rivendicare le proprie voragini di lacune. Nessuno se n’è scandalizzato anche perché quello che deve cercare sul dizionario «stazzonato» non divide il mutuo con la presidente del Consiglio.

Giambruno è così incapace di capire i diversi registri lessicali che introduce i collegamenti con frasi come «dovrebbe essere buono anche il ministro», cioè il modo tecnico in cui lui e la regia si dicono che il collegamento è attivo sia in video che in audio. Se qualcuno guardasse la tv con una qualche attenzione, si chiederebbe se Giambruno stesse facendo una valutazione delle doti morali del ministro, invece no: parla gergo tecnico, come la De Filippi quando dice «mandate l’rvm» – solo che non è la De Filippi, lui.

Meno male che le elezioni le ha vinte una donna, almeno possiamo sfogarci. Almeno possiamo trattare la scarsezza televisiva di Giambruno, o i suoi capelli non donanti, o il suo lessico traballante, come fossero eccezionali e meritevoli del nostro sarcasmo, e non la media in un mondo in cui quelli che non sanno fare il loro lavoro sono la schiacciante maggioranza.

Meno male che le elezioni le ha vinte una donna, perché sto cercando da giorni d’immaginarmi cosa sarebbe successo se una frazione delle cose che vengono disinvoltamente dette di Giambruno qualcuno avesse provato a dirle di una qualche moglie. Ma, per carità, non è mai successo che le congiunte degli uomini di potere avessero un piccolo ruolo pubblico che non ricoprivano con inarrivabile talento. Tutte al di sopra d’ogni sospetto, le mogli di Cesare.

Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” sabato 21 ottobre 2023.

Ed è così che Andrea Giambruno, ormai da giorni retrocesso da fidanzato a carico residuale, "è stato transumato” alla porta. Giorgia Meloni, fedele al suo motto, deve aver telefonato alla sua ormai ex suocera per dirle con tono perentorio: “Ospitalo a casa tua”. Era difficile, del resto, ignorare le avance alla collega in blu estoril, le battute a sfondo sessuale, i toni camerateschi di Giambruno svelati dai fuori onda di Striscia la notizia. Il dubbio, casomai, è su come lui in passato avesse fatto a conquistarla, visto che si erano conosciuti proprio dietro le quinte di un programma (Matrix) dieci anni fa.

[…] Partiamo dalla velocità della sua reazione: esistono molte ipotesi di complotto su come quel fuori onda sia diventato pubblico e perfino ipotesi sul fatto che lei sapesse tutto, ma l’impulsività con cui ha agito sembra quella di una donna ferita. Di una che forse era preparata a vedere il padre di sua figlia in modalità piacione ipertricotico, ma non in quella di allupato che, per giunta, mette in guardia dai lupi.

C’è poi il primo passaggio interessante del testo, ovvero quel “le nostre strade si sono divise da tempo” perchè se è vero allora le cose sono tre: o le strade si erano divise all’insaputa di Giambruno, visto che pochi giorni fa su “Chi”, er mejo ciuffo del globo terraqueo aveva ipotizzato che i due potessero addirittura essersi già sposati, oppure dopo aver visto i fuori onda, Giorgia ha optato per un decreto di espulsione immediato, come per un clandestino qualunque.

Terza opzione: sapeva e le andava bene così.  Probabilmente la sua era una famiglia tradizionale nell’accezione antichissima per cui i panni sporchi si lavano in famiglia e si fanno asciugare sul termosifone. Poi arriva Striscia la notizia, piazza magliette e mutande bagnate sullo stendino in giardino, al sole, e improvvisamente “le strade si erano divise da tempo”. 

[…] sarebbe ora che Giorgia Meloni realizzasse una cosa importante: il suo cerchio magico, quello che nella sua testa doveva proteggerla, è la sua più grande debolezza. Per gestire la sua paranoia del nemico ha costruito questo muro di parenti e improbabili amici intorno a sé che presidiano stampa, ministeri e partito col risultato che la mediocrità altrui l’ha resa attaccabile su più fronti. Perché gli errori degli altri sono i suoi. Antonio Ricci con quei fuori onda, in fondo, l’ha aiutata davvero.

Di Giambruno si è potuta liberare come se non fosse colpa sua, ma ora resta un problema politico non da poco. Deve decidere come risolvere questa sua sempre più imbarazzante contraddizione tra la propaganda basata sulla storiella della famiglia tradizionale e la sua vita privata, perchè le due cose faticano sempre di più a stare insieme. Forse oggi ha scoperto che le famiglie non sono entità superiori ma nuclei incerti, spesso sgangherati, composti da esseri umani con i loro limiti, con le loro mancanze, le loro debolezze e che nessuno, da un pulpito, può sancire la superiorità di una composizione familiare o di un’idea di famiglia. […]Estratto dell’articolo di Giovanna Vitale per “la Repubblica” sabato 21 ottobre 2023.

 “Due colleghi non possono neanche andare a mangiare una pizza insieme che si monta subito un caso. Giambruno e io siamo amici da dieci anni: in qualche occasione ci siamo frequentati anche con Giorgia, da molto prima che lei diventasse presidente del Consiglio. Chi lo conosce sa che è un burlone, che scherza con tutte. Io non c’entro niente e voglio essere lasciata fuori”. Simona Branchetti, classe ‘76, uno dei volti più noti del Tg5, non ci sta a farsi coinvolgere nelle relazioni pericolose dell’ex compagno della premier. 

Tuttavia Dagospia, in un flash di un paio di mesi fa, propone un accostamento parecchio allusivo.

“Io e Andrea ci conosciamo da tanto tempo, lavoriamo nella stessa azienda e siamo andati spesso a pranzo insieme, anche con amici comuni: un gruppo consolidato col quale di tanto in tanto ci si vede. Non c’è mai stato nulla da nascondere. Quindi, uscire una sera per una pizza è una cosa normale”.

Le voci che circolano sono solo pettegolezzi velenosi?

“Senta, io della mia vita privata non parlo volentieri. Dopodiché, giusto per chiarire: da giugno ho un compagno a cui tengo molto e non mi va di finire nel calderone di una vicenda così strumentale e aggressiva nei confronti di un collega che avrà pure toni e modi discutibili, però lo conosciamo: è uno che gioca in modo anche pesante con tutte, dalla barista alla co-conduttrice, giovani e meno giovani. Non si può mettere nel tritacarne chi non ha nulla a che fare con questa storia”. 

Le avances e le parolacce trasmessi da Striscia sono solo un gioco?

“In azienda si sa che è un burlone, un ragazzo sopra le righe, che utilizza espressioni colorite. Nessuno si è scandalizzato nel vederlo scherzare con le ragazze della sua squadra. Da qui a creare un mostro ce ne corre. Detto questo, quelle frasi sono volgari e inappropriate”. 

[…] Lui le aveva confidato di avere problemi con la compagna?

“Dalla bocca di Giambruno non è mai uscita una sola parola sulla sua famiglia. In questo è di un rigore incredibile, credo lo facesse per proteggere la loro storia. Certo, noi lo avevamo avvertito che esporsi in video era una scelta rischiosa, ma lui ha sempre difeso il suo lavoro e il diritto a esercitarlo”.
Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” venerdì 20 ottobre 2023.

Non fa più ridere, Andrea Giambruno, che si tocca e ritocca il pacco con la mano a coppa e ogni due parole dice almeno un “cazzo” e poi spiega a una collega di cui non si vede il viso che la filosofia aziendale è «scopare», in due, in tre, «sì, noi facciamo anche la foursome». E a poco a poco il tonto broccolone si fa lupo e porcello e vuole le prove della competenza sul lavoro. «Un test attitudinale?» «Si, sco-pa-re».

Neppure lo sberleffo è ormai adatto a raccontarlo, adesso che “Striscia la notizia” ha denudato il reuccio che posa il palmo sulla testa della collega Viviana Guglielmi in un moto di confidenza e di tutela, figurazione plastica di un potere personale, di una supremazia, di una padronanza da maschio caprone: «Perché non ti ho incontrato prima?».

Il giornalismo televisivo, ammorbato come mai era stato dai “fenomeni” da baraccone politico, dalla faziosità e dalla prosopopea, si è dunque preso la rivincita con i vecchi fuori onda del solito Antonio Ricci che sono oramai una saga a puntate che ha finalmente mostrato la verità di Giambruno, ha misurato l’uomo, ha spiegato meglio di un libro del professor Crepet la sua antropologia “Pop Trash”, che è il titolo- bandiera della decadenza dei Duran Duran.

Ben oltre le gaffe sulle donne stuprate “che se si ubriacano e perdono i sensi il lupo lo trovano”, sul drammatico caldo che “non è una notizia”, sui tedeschi che “farebbero bene a restar a casa loro” e sulla “transumanza dei migranti” questo Giambruno che vuole “ciulare” e intanto ronza attorno alla collega importunandola è un diario intimo che rivela il mondo che abbiamo mandato al governo, è una seduta di psicanalisi: «Sei di un livello superiore, tu. Va meglio oggi? Mi è dispiaciuto ieri vederti un po’… Sembri una donna intelligentissima».

Evoluzione (si fa per dire) dei “tamarri”, il modello di Giambruno sono i “maranza” che su Tik Tok incarnano la versione estiva del coatto settentrionale, da Riccione a Milano, che è la città di Giambruno. E invece con le gaffe […] restavamo ancora nella leggerezza che, in fondo, già ai bei tempi di Mike Bongiorno («Lei mi cade sull’uccello, signora Longari»), era umorismo involontario.

I maranza no. I maranza irritano e non divertono quando si divertono a importunare le turiste. E appunto si toccano, camminano con la “scivolata” e tutti portano il ciuffo, che diventa un ricordo di Little Tony anche se nasce come un’ allucinazione di Elvis Presley […]: «Ma non mi rompessero il “cazzo “col ciuffo, ho 42 anni e ce li ho i capelli, io. Qua dentro sono tutti pelati, ma non mi rompessero i “coglioni”».

Va dunque segnalato all’Ordine, ai distributori di premi dell’informazione italiana, ai venerandi custodi dei segreti e della morale della professione che […] la nostra finestra sul cortile- Italia è ancora il retroscena che, scritto o per immagini, ma sempre sapido e scanzonato, è il meglio del giornalismo politico italiano.

[…]sarebbe vacuo cercare un senso di bottega politica anti Meloni, una Mediaset contro il governo, in questi fuori onda di Giambruno che «ogni volta che esprime il suo parere… ne pesta una». Si sa che Antonio Ricci, dentro Mediaset, è da sempre uno speciale caso di libertà e “Striscia la notizia” è una trasmissione, appunto, a statuto speciale.

E ora ditemi se non è un magico “retrobottega” quell’elogio del “blu Estoril” della camicetta di Viviana Guglielmi. “Blu Cina” lo corregge lei, ma con un sussurro perché sono una strana coppia di orizzonti lontani e inavvicinabili, turpiloquio Andrea e ingenuità Viviana, che sogna un programma di sport e come idealtipo ha scelto Candido Cannavò, “rigore e mai sopra le righe” dice.

[…] E invece Giambruno, che le balla attorno, sembra Zucco di Grease, ciuffo, bicipiti, macchinoni e masculinità. […] Così, a furia di dettagli fuorionda, si arriva al grottesco dei “maranza” appunto, e forse anche ai romanzi di Tommaso Labranca, e al suo “nevroromanticismo”, che raccontavano con l’irrisione e un linguaggio deformato alla Frassica del Nord (“I giovani salmoni del trash” e “Chaltron Hescon, fenomenologia dei cialtroni”, Einaudi) i coatti milanesi.

E la parola “coatti” ci riporta a Roma, aggiungendo per onestà che è parola spinosa perché Giorgia Meloni ci querelò quando nel 2019 la chiamavamo “reginetta di Coattonia” (e ancora il processo non è cominciato). “Coattonia”, non perché si muovesse come ora si muove il suo compagno nello studio Mediaset di “Diario del giorno”, ma per esaltarne l’identità di passionaria di periferia che lei stessa esibiva e rivendicava in contrapposizione alla spregevole natura nostra di radical chic.

Ed era anche un gioco d’ironia con l’album di famiglia politica di Giorgia perché “Coatto antico” era il titolo della canzone che nel 1998 le era stata affettuosamente “dedicata dalla band di estrema destra, Aurora” . Eccone due versi: “Coatto antico in un corpo da bambina/ ci tieni ‘n core grosso e ‘na testa fina / Coatto antico dici troppe parolacce / ma quanta grazia col trucco e le trecce… / guardi e sorridi con i tuoi occhioni / ma quando serve quadrati hai i coglioni. / Coatto antico vieni dalla Garbatella / borgatara ignorante di presenza bella”.

Alla fine, il fuorionda a puntate di Giambruno da Milano tende la mano a Califano, a un gusto e a un’estetica della destra romana. E i maranza a Coattonia hanno una stessa idea del comico. Insieme, Giorgia e Andrea erano in prima fila al teatro Brancaccio ad applaudire Pio e Amedeo, che sono di Foggia, è vero, ma ecco un paio di battute del loro repertorio: «No alla tessera, si alla Passera», «Irina, ti spacco in due, come l’ovetto Kinder». E a Giorgia hanno detto: «Ahó, ora portaci alla Rai».

Giambruno, Massimo Cacciari: "Meloni, qualche voto in più". Libero Quotidiano il 21 ottobre 2023.

La rottura tra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno, diventata di dominio pubblico dopo l'annuncio della stessa premier sui social, è la discussione principale dei politici e dei commentatori. Logico, visto che di mezzo c'è Striscia la notizia (che con due servizi con imbarazzanti fuorionda del giornalista di Mediaset sul set di Diario del giorno, su Rete 4, ha molto probabilmente portato alla fine della decennale relazione) e, soprattutto, la stessa presidente del Consiglio. E secondo Massimo Cacciari la pur dolorosa vicenda personale, alla lunga, potrebbe giovare alla premier anche dal punto di vista mediatico e anche politico.

La domanda che tutti si fanno, nei corridoi dei palazzi romani, è in queste ore solo una: la premier perderà o guadagnerà voti dopo il suo annuncio? "Può darsi che prenda qualche voto in più visto che lui è un personaggio decisamente impresentabile. Questa separazione può fare gioco a Meloni", spiega a sorpresa il filosofo ed ex sindaco di Venezia Cacciari ad Affariitaliani.it. "C'è anche una bambina piccola di mezzo...e i bambini sono sempre innocenti, tanti auguri alla bambina, di cuore". "Di questa notizia - puntualizza però il professore - non me ne frega assolutamente niente. La politica ovviamente non c'entra niente. E comunque tutto ciò che succede in Italia non conta assolutamente nulla. Non ha alcun senso parlare di politica italiana con le catastrofi che ci sono nel mondo e che stanno per travolgere tutti".

Vero, ma chi fa politica anche solo di riflesso deve tenerne conto. E infatti, scrive il sondaggista di YouTrend Lorenzo Pregliasco su X (l'ex Twitter), siamo sì di fronte a "una vicenda personale", ma "ha anche un valore mediatico e pubblico: questo tweet è già stato visto più di 1 milione di volte". Che corrispondono a un milione di voti.

Meloni e Giambruno Nicola Porro contro Repubblica: "Ho letto e ho capito tutto". Libero Quotidiano il 21 ottobre 2023.

Un messaggio chiaro, quello di Giorgia Meloni, che ha annunciato la fine della storia con Andrea Giambruno senza risparmiare frecciate a chi ha tentato di metterle i bastoni tra le ruote. "Non so a chi pensasse - commenta Nicola Porro nel consueto editoriale di Stasera Italia -, ma io a qualcuno pensavo". Il conduttore di Rete 4, nella puntata di venerdì 20 ottobre, ammette: "Leggendo questa mattina Repubblica e l'articolo di Francesco Merlo, ho capito dove questa storia sarebbe arrivata e dove sarebbe potuta arrivare". Il motivo? Merlo parla di "un diario intimo che rivela il mondo che abbiamo mandato al governo". Eppure per Porro non è così: "Meloni ha fatto delle scelte private e secondo me è stata costretta per il suo ruolo istituzionale a renderle pubbliche". Insomma, "il governo in questa storia non c'entra nulla e non c'entra la classe dirigente di questo governo. Cercano solo di usare questioni private per evitare che un governo eletto dagli italiani continui a governare".

E Meloni lo ha capito. Nel suo post, il premier ha scritto: "Tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua". Una posizione chiara, che aveva ribadito anche settimane prima in conferenza stampa, quando qualcuno è tornato sulle polemiche legate ad alcune affermazioni del compagno, ora ex. La bellezza nei piccoli dettagli. Made in Italy.

Attacchi a Giambruno strumentali e ipocriti. Non consiglio a Meloni, che peraltro non ha bisogno di consigli, di lasciare Andrea, perché questa unione non è che un successo privato per entrambi. Vittorio Feltri il 20 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Egregio Direttore,

è stato spesso ospite nel programma del compagno di Giorgia Meloni, il giornalista Andrea Giambruno, e dalla confidenza che c'era tra voi ho capito che lo conosce bene. Del resto, è stato lei stesso più volte a intervenire in sua difesa quando certi giornali lo hanno attaccato e preso di mira dipingendolo nel peggiore dei modi, da succube della partner a maschio malato di protagonismo e pronto a mettere in imbarazzo la premier. Ora Andrea ne ha fatta un'altra delle sue finendo nel tritacarne. Striscia la Notizia ha mandato in onda una serie di gaffe ma soprattutto un fuori onda dove il giornalista usa un linguaggio volgare e fa qualche complimento alla collega, aggiungendo: «Peccato non averti conosciuta prima...» o qualcosa del genere.

Cosa ne pensa lei di questi scivoloni? Meloni è una sua amica, le consiglierebbe di mollare Andrea? Michela Giordano

Cara Michela,

non consiglio a Meloni, che peraltro non ha bisogno di consigli, di lasciare Andrea, perché questa unione non è che un successo privato per entrambi, dato che si basa su dialogo, rispetto reciproco e fiducia, tutto ciò che non dovrebbe mancare in una coppia. Quello nei confronti di Giambruno da parte della stampa non è un semplice interesse dettato dalla mera circostanza che egli è compagno della premier nonché padre della figlia di Meloni. A mio avviso, si tratta di un interesse malato, una sorta di fissazione, a tratti appare quasi una persecuzione, fondata su motivi e fatti irrilevanti, come la sua capigliatura. Dopotutto è costume della sinistra, in assenza di argomentazioni, focalizzarsi sul taglio di capelli della persona presa di mira, basti considerare la derisione di Trump per il suo ciuffo durante la campagna elettorale che poi lo vide conquistare la Casa Bianca. Si tenta pure, nel caso specifico, di creare cattivi umori o conflitti in casa Giambruno-Meloni. Ma sia Andrea che Giorgia ci ridono su, consapevoli che, se Giorgia fosse una politica di sinistra, Andrea sarebbe lodato, di lui leggeremmo ritratti stupefacenti su tutti i giornali e sarebbe proposto come uomo dell'anno. Si cerca di demolire la presidente del Consiglio colpendola persino negli affetti privati, prendendosela con i suoi cari, accanendosi con chi le sta accanto. Questo non è giornalismo. E non è una condotta corretta nei confronti di un collega giornalista che viene presentato quale raccomandato, o almeno avvantaggiato dal ruolo della compagna, mentre sappiamo benissimo che Giambruno faceva il giornalista e lavorava a Mediaset da prima che incontrasse Giorgia, anzi i due si sono conosciuti proprio negli studi televisivi. Ammetto però che tutta la situazione mi stupisce. Siamo da sempre abituati all'accanimento nei confronti delle compagne o delle fidanzate di personaggi politici del centrodestra, che la vittima ora sia un uomo mi fa quasi sorridere. Segno che qui il sessismo non c'entra, è tutta questione di pura cattiveria di natura ideologica, quella cattiveria propria della sinistra, che ammette il pregiudizio e l'insulto se indirizzato a un soggetto che non aderisce alla sua religione del pensiero. 

Allora, cosa avrà mai detto Andrea di tanto compromettente? Ha detto «rompere il cazzo» durante un fuori onda. Chi di noi non adopera simili espressioni ogni giorno sia a casa che in ufficio? Io lo faccio quotidianamente e non mi reputo una brutta persona per questo. Si dia il caso che Giambruno si trovava sul posto di lavoro, in un momento di pausa. Vogliamo fare le educande e urlare allo scandalo?

Per quanto riguarda i complimenti alla collega, la buonafede del giornalista si evince dal fatto che quelle parole sono state pronunciate davanti alle telecamere e ad altre persone, in un contesto pubblico. E sono parole gentili, pulite, non contengono avances di alcun tipo. Se Andrea avesse voluto essere poco rispettoso verso Giorgia, provarci con un'altra, fare il cascamorto, avrebbe avuto quantomeno l'accortezza di farlo trovandosi da solo con l'interlocutrice e non in pubblica piazza.

Finiamola di scandalizzarci per tutto meno che per i fatti che davvero dovrebbero disgustarci.

Paolo Landi per Dagospia sabato 21 ottobre 2023.

Quando si parla dei comportamenti dei leader di destra bisogna sempre fare i confronti con quelli furbi che li hanno preceduti. Se si parla per esempio del tweet con il quale la Meloni ha scaricato il tizio che conviveva con lei, non ci si può rifare a Trump: lui, probabilmente, avrebbe fatto lo stesso, era un maniaco della piattaforma che maneggiava sconsideratamente in diretta, a ogni ora del giorno e della notte. 

No, bisogna immaginare cosa avrebbero fatto Margareth Thatcher, Mario Draghi, Angela Merkel, Emmanuel Macron. Avrebbero fatto un tweet (a parte la Thatcher per ovvie ragioni: non lo avrebbe fatto perché allora Twitter non esisteva) per annunciare il loro divorzio? Non si può sapere, ovvio, ma lo stile di questi leader conservatori, il loro modo di rapportarsi alle istituzioni di cui sono servitori, l'aplomb con il quale hanno affrontato e affrontano la loro vita pubblica, farebbe presagire di no.

Bisogna quindi circoscrivere alla provincia profonda da cui la Meloni proviene (anche se è di Roma), al piccolissimo cabotaggio dell'impiego del convivente, in una scalcagnata rete televisiva generalista che solo gli over settanta guardano (ma solo se vivono al paesello: in città anche i settantenni hanno di meglio da fare, vanno in palestra, al cinema, a teatro, allo stadio, a giocare a burraco), e al marasma che ha pubblicato un cosiddetto "fuorionda", la decisione di affidare a un social (bollito anche quello: da quando Elon Musk ha cambiato nome a Twitter, diventato X, c'è la fuga dei cervelli) l'annuncio della propria separazione. 

Per non smentirsi, togliendosi anche un volgarissimo sassolino dalla scarpa, che le dava fastidio al callo: "Ps. tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua".

Gravissimo aver poi illustrato - con un occhio alla campagna elettorale - il suo sfogo con una foto in cui la ex-famigliola compare felice, con tanto di ragazzina che non si è presa nemmeno il disturbo di pixelare. Dice che la vuole difendere, menzogna: la sta consegnando all'eternità della Rete, la regazzina appena avrà lo smartphone (se non ce l'ha già) si rivedrà, con tutti i commenti, quelli gentili e quelli no. 

Si trasecola perciò a leggere Giuliano Ferrara che, sul Foglio, parla di "stile" e di "imprevedibile gravitas" della Meloni nell'affrontare in pubblico una sua crisi privata, che, a dire il vero, ha scaraventato sui social con una leggerezza sconsiderata, altro che "gravitas", come se fosse una Ferragni qualsiasi, invece di essere il presidente del consiglio dell'Italia.

Prima, è vero, c'era stato Berlusconi, con quelle ragazze che si riprendevano nei bagni di casa sua e di cui abbiamo dovuto ascoltare certe telefonate da far impallidire un prete in confessionale, ma credevamo, per l'appunto, di avere già dato. Non occorre essere esperti di comunicazione politica per vedere una tale montagna di errori, così grossolani, in questa strategia casalinga messa in atto da una donna che evidentemente non ne poteva più e non ha contato fino a sette prima di sbottare, cadendo nel trabocchetto e rispondendo alla perfida sollecitazione di un programma tv in via di estinzione: sembra impossibile immaginarla dribblare lo staff, i consiglieri, l'addetto al cerimoniale, l'amica del cuore, se ne ha una, e fare tutto da sola.

Nessuno che le abbia detto: fermati? Sempre più difficile per Giorgia: conquistato il potere urlando in Italia e in Spagna "Dio Patria e Famiglia" vede avverarsi la profezia di Mario Draghi: "Ricordate - disse - qualunque governo esca da queste elezioni, non cambierà niente". Uscì lei, col suo governo di impresentabili: e infatti Giorgia ha dovuto draghizzarsi rimangiandosi un elenco di promesse elettorali così lungo che non vale nemmeno la pena elencarle. 

Fa pena vederla chiedere aiuto all'Europa, parlare a vanvera di immigrazione dopo aver giurato di avere non una ma almeno dieci soluzioni, tradire le periferie che l'hanno eletta per concedere i soliti favori ai ricchi. Ora avrà anche una famiglia queer, sarà lei, la regazzina, la sorella, il cognato, la nonna. La sua metamorfosi si sta compiendo, con tutti i rospi che dovrà ingoiare per imparare a stare zitta, come hanno sempre fatto la Thatcher, Draghi, la Merkel e Macron. Solo che a Giorgia piaceva Trump, quel chiacchierone.

[…]

DAGOREPORT venerdì 20 ottobre 2023.

C’è una corrente di pensiero che narra di Ricci e Meloni uniti nella lotta per incastrare Giambruno e buttarlo fuori di casa. La donna tradita, si sa, in Italia fa tenerezza e voti e solidarietà. Una narrazione che viene negata da alcuni ambienti vicini a Marina e Piersilvio dove non si nasconde soddisfazione per il gigantesco sputtanamento di Casa Meloni.

I due raccapriccianti fuorionda di Andrea Giambruno, trasmessi da “Striscia la Notizia”, sono stati registrati almeno due mesi fa. Erano nel cassetto di Antonio Ricci, pronti per l’uso. Se ci fosse stato un accordo, sarebbero andati in onda quando sono stati registrati e Giorgia non avrebbe fatto coppia con il suo Ken col ciuffo trapiantato a teatro per lo spettacolo di Pio e Amedeo al Brancaccio di Roma, appena due settimane fa.

Per comprendere il contesto in cui si inserisce il cazzottone rifilato da “Striscia” alla Meloni (ma anche a Tajani, oggi considerato un peluche della Ducetta), e quindi da Mediaset, e dunque dalla famiglia Berlusconi, nelle persone di Marina e Piersilvio, bisogna fare qualche passo indietro.

Dopo la trionfale vittoria del centrodestra alle elezioni politiche del 25 settembre 2022, smaltiti i fumi dello champagne, Giorgia Meloni e i suoi alleati, Salvini e Berlusconi, hanno cominciato un lungo scontro a distanza per la spartizione – e la gestione - del potere.

Donna Giorgia, dopo anni vissuti alle periferie del “sistema”, in testa a un partitino del 4%, con molti colonnelli abituati alle “fogne” del Movimento Sociale, ha scontato una vertigine del comando, del successo e del consenso. “Qui comando io!”, tuonò la novella Marchesa del Grillo (Io so’ Giorgia e voi non siete un cazzo), dimenticando la tapina che, senza l’8,8% della Lega e l’8% di Forza Italia, con il suo 27% non avrebbe mai potuto salire a Palazzo Chigi.

Il primo, indigeribile rospo che dovettero ingoiare i primogeniti di Arcore si consumò sull’elezione del Presidente del Senato: era il 14 ottobre dello scorso anno e per l’ex Cavalier Pompetta quel giorno non c’era in ballo non solo la seconda carica dello Stato, ma soprattutto il suo trionfale ritorno nell’aula che lo aveva espulso con una ignominiosa decadenza.

Era il giorno del riscatto, la “vendetta” contro i magistrati e gli oppositori politici che godevano per la sua fine: Berlusconi immaginava un red carpet circondato dagli amici di sempre e da una claque festante di quelli che lui ha sempre considerato dei suoi sottoposti.

Sebbene fisicamente malconcio, il Cav., nel solito eccesso di autoconsiderazione, in quel periodo sognava il Quirinale, vedeva se stesso in subordine proprio alla guida del Senato. Insomma, debordava. Ma quando gli fu spiegato che la sua condizione di salute era incompatibile con certi sogni, si accontentò di poter almeno esprimere il nome da issare a Palazzo Madama. Voleva, nel suo piccolo, ancora dare le carte. D’altronde, Fratelli d’Italia aveva preso Palazzo Chigi, la Lega Montecitorio, per Forza Italia doveva esserci uno strapuntino di peso.

Anche i figli di Berlusconi aspettavano con magnum di champagne nel secchiello del ghiaccio il giorno della redenzione paterna, dopo anni e anni di tribolazioni giudiziarie. Al Senato, in quel momento, convergevano gli occhi di Casa Arcore. E cosa avvenne? Il suo sogno fu frantumato da una Giorgia Meloni in modalità olio di ricino e manganello e al Cav, e a tutta Forza Italia, fu detto chiaramente: il candidato è Ignazio La Russa, e voi lo votate.

Una purga invereconda per l’ego espanso di “Sua Emittenza” che, da uomo di comunicazione, non mancò di far trapelare tutta la sua incazzatura attraverso dei bigliettini, offerti volutamente a favor di telecamera.

In quei “pizzini”, Berlusconi metteva nero su bianco, a caratteri cubitali, la sua opinione sulla premier in pectore: “Giorgia Meloni, un comportamento supponente, prepotente, arrogante, offensivo, ridicolo. Nessuna disponibilità ai cambiamenti, è una con cui non si può andare d'accordo".

Il suo malumore si materializzò, sempre ripreso dalle telecamere, quando mandò a quel paese platealmente La Russa ma dopo il vaffa fu portato a braccio da Daniela Santanchè a votare per il suo fraterno amico ‘Gnazio, mentre i parlamentari di Forza Italia, guidati da Licia Ronzulli, disertarono la votazione.

Silvione ingoiò il rospo ma non smaltì il veleno. Uscito da un incontro faccia a faccia con la Sora Giorgia, sbottò: “Noi gli abbiamo chiesto tre ministeri, mi ha riso in faccia, ne ho chiesti due, ha riso ancora, ne ho chiesto uno, ha detto ok”.

Resosi conto della sua irrilevanza all’interno della coalizione, si travestì da guastatore: prima con esternazioni pro-Putin per mettere in difficoltà la novella turbo-atlantista Giorgia Meloni, poi l’artigliata felina su Andrea Giambruno: “Il suo uomo è un mio dipendente”. Un messaggio velenoso, nato dalla consapevolezza che il testosteronico Giambruno avesse qualche scheletro in gonnella nell’armadio, da tirar fuori al momento opportuno.

Qualche ora dopo, la Ducetta replicò alle polemiche sui giudizi espressi su di lei da Silvio con aria tronfia: “Mi pare che tra quegli appunti mancasse un punto e cioè 'non ricattabile'”.

L’“ammonimento” sul “dipendente Mediaset Giambruno” non servì ad ammorbidire la Meloni, che non indietreggiò dal suo approccio coatto da “Marchesa del Grillo”. Scelse i ministri in autonomia e gettò nella spazzatura le ambizioni di Licia Ronzulli che sognava di prendersi il dicastero della Sanità.

Diede a Tajani l’autorevole poltrona di Ministro degli Esteri, ma solo perché le conveniva avendo bisogno di una personalità conosciuta a Bruxelles e che avesse buoni rapporti con Manfred Weber, presidente del Ppe: la prima poltrona della Farnesina sarà importante, però, non porta consensi, né dividendi politici (è un ministero che non assume e non distribuisce soldi).

Al Mef, la Ducetta voleva l’ex Bankitalia Fabio Panetta, ma pur simpatizzante per la destra l’economista della Bce si sfilò subito temendo di finire a fare il maggiordomo di Casa Meloni e preferendo la poltrona, più onorifica che operativa, di Governatore di Bankitalia. Su consiglio di Mario Draghi, la premier chiamò allora il leghista Giancarlo Giorgetti, vicino all’establishment dei poteri economici-finanziari, con l’obiettivo nemmeno tanto nascosto di allontanarlo dalla morsa di Salvini e accoglierlo tra i fratellini d’Italia.

Cosa restò per Forza Italia? Le briciole: l’irrilevante Pichetto all’Ambiente, la trascurabile parrucca di Anna Maria Bernini all’Università, l’accidentale Zangrillo alla Pubblica Amministrazione e la decorativa Casellati Mazzanti Serbelloni vien dal mare alle Riforme. Altro rospo da ingoiare per il Cav., che si era già visto imporre da Mario Draghi la scelta di Brunetta, Gelmini e Carfagna nel ‘’governo dei migliori”.

Passano le settimane, ed esplode la faida dentro Forza Italia, con la lotta intestina tra il meloniano Tajani e la “pasdar” Ronzulli. Il partito di Berlusconi si indebolisce ancor di più diventando marginale nelle dinamiche di Palazzo e lo stesso ministro degli Esteri si vede scavalcato dalla premier, che gestisce in prima persona le relazioni internazionali dell’Italia alle prese con il conflitto russo-ucraino.

Giorno dopo giorno, agli occhi dei fratelli Berlusconi, c’è un presidente di Forza Italia totalmente superfluo: s’avanza un Tajani che non riesce a farsi valere nel governo, che ‘gna fa proprio ad alzare la testa ai diktat della Sora Giorgia. E’ capace solo di metter su un burinesco Berlusconi-day a Paestum: magari Milano, ma che ci azzecca Silvio con Paestum? Ma ormai il partito, affermano i soliti bene informati, è finito nelle mani di Fulvio Martusciello…

Marina Berlusconi osserva, tace ma non dimentica.

Quando il Governo si trova a gestire il dossier Rai, gli appetiti famelici di Fratelli d’Italia spazzano via ogni richiesta dei berluscones. Giorgia Meloni conferma in prima battuta Carlo Fuortes, ottiene al volo la striscia serale per Bruno Vespa, blinda il Tg1 con il sodale Gian Marco Chiocci e si pappa anche il Tg2 con la nomina di Nicola Rao. Un’abbuffata che fa imbufalire Salvini e costringe Gianni Letta a intervenire a difesa degli interessi azzurri e a obbligare la premier a cedere il Tg2 ad Antonio Preziosi, in quota Forza Italia.

Il decisionismo “ghe pensi mi” della Thatcher della Garbatella straborda quando, in tandem Matteo Salvini, attovagliati in una trattoria di Bolgheri, pianifica l’idea di sottosegretario Fazzolari per acchiappare consensi: la tassa sugli extraprofitti delle banche. Ma tenendo all’oscuro il vicepremier e presidente di Forza Italia, il superfluo Antonio Tajani. La norma avrebbe colpito pesantemente Banca Mediolanum, vero gioiellino della galassia Fininvest, e il ministro degli Esteri si sarebbe messo di traverso. Il resto, è cronaca. La misura, criticata anche dalla Bce, è stata annacquata e depotenziata, ma la rottura con Casa Berlusconi era ormai avvenuta.

Nulla ha convinto la premier a deporre il suo piglio decisionista, e a considerare interlocutori gli azzurri. La morte di Berlusconi ha dato poi alla Meloni l’illusione che Forza Italia non contasse più nulla, fosse ormai sul punto di liquefarsi, destinata prima o poi a confluire in Fratelli d’Italia.

La scarsa considerazione per gli azzurri si è ulteriormente manifestata con la decisione di vietare gli emendamenti di maggioranza alla legge di Bilancio. Una scelta, apertamente incostituzionale, e non condivisa da Forza Italia, tant’è che Tajani avrebbe chiesto a qualche amico dell’opposizione di presentare emendamenti al posto suo.

Ogni limite ha la sua pazienza, sappiamo da decenni che il Parlamento è sostanzialmente irrilevante, con deputati e senatori ridotti a pigiabottoni, ma formalizzare la sua inutilità è un passo ulteriore verso l’incoronazione a Ducetta d’Italia (vedi il premierato che Mattarella vede come il fumo negli occhi).

Arriviamo alla diffusione dei fuorionda di Andrea Giambruno da parte di “Striscia la Notizia”. Cosa c’entrano con le diatribe politiche del Governo di destra-centro? E perché saltano fuori solo ora, nonostante siano vecchi di almeno due mesi? Per gli “addetti ai livori” è un altolà al protagonismo della Sora Giorgia. Della serie: con gli alleati si discute e non si trattano a pesci in faccia.

Gli occhiuti osservatori di cose del Biscione hanno maliziosamente notato lo sfottò a Giambruno fatto da Alfonso Signorini e Cesara Buonamici, in diretta al Grande Fratello, giocando su “blu cina-blu estoril” della giacca dell’opinionista. Un esplicito riferimento alle valutazioni armocromatiche fatte dall’ormai ex Signor Meloni alla collega Viviana Guglielmi, che lascia intendere quale sia il “clima” dentro Mediaset: liberi tutti!

Le serpi di Cologno Monzese si chiedono: è finita qui? “Striscia”, ottenuta la separazione tra Giambruno e Meloni, chiuderà anzitempo la “rubrica” “il Giornalino di Gianbrunasca”, inaugurata appena due giorni fa? C’è chi giura che il tg satirico di Antonio Ricci abbia in canna altri contenuti imbarazzanti sul “provolone affumicato” di casa Meloni. Li manderanno in onda? O li terranno in cassaforte?

E qualcuno si chiede: cosa accadrebbe se Andrea Giambruno, umiliato, giubiliato e spernacchiato, decidesse di dire la sua spifferando tutti i segreti familiari e politici?

Ps. L’ira della famiglia Berlusconi è rivolta anche ad Alessandro Sallusti. I patti non sono stati rispettati. Il neo-direttore del “Giornale”, di cui Paolo è ancora azionista con il 30%, si è totalmente melonizzato e ha spostato il quotidiano sulle posizioni gradite a Fratelli d’Italia. Ad Arcore si confidava, invece, che il giornalista svezzato e cresciuto da Berlusconi mantenesse vivo il ricordo politico del Cavalier Estinto, dando una mano a Forza Italia.

Ps. /2 – Se è vero che ogni tavolo si regge almeno su tre gambe, cosa succederà al Governo se alle prossime europee Forza Italia tracollasse nei consensi? Può l’esecutivo Meloni sopravvivere allo schianto di uno dei suoi tre pilastri? Ah, non saperlo…

Piovono gocce. Meloni è la prima e unica vittima di un complotto di se stessa ai suoi danni. Francesco Cundari il 23 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Delle due l’una: o Giambruno è l’incolpevole bersaglio di una macchinazione ordita dai media e dall’establishment di sinistra, ma allora non si capisce perché lei l’abbia scaricato, oppure non lo è, e allora non si capisce perché lei se la prenda con gli avversari

Prima che il minaccioso videomessaggio inviato ieri all’iniziativa di Fratelli d’Italia fornisse nuovi argomenti alla discussione, il famigerato post scriptum sulla goccia e sulla pietra aveva già suscitato un ampio dibattito su risentimenti e retropensieri di Giorgia Meloni. Dibattito che a mio modesto parere manca però il punto di fondo.

Domandarsi con chi ce l’avesse la nostra presidente del Consiglio, quando su Instagram, dopo aver dichiarato conclusa la sua relazione con Andrea Giambruno, se la prendeva con «tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa», è infatti del tutto ozioso, perché lo stile complottista tipico del populismo italiano è ormai in lei al tempo stesso una tattica consolidata e un riflesso condizionato, quasi un automatismo psico-politico, e non ha più bisogno del benché minimo pretesto.

Per farla breve: non è affatto detto che ce l’avesse con niente e con nessuno in particolare. Il tono vittimista come premessa che giustifica la reazione veemente e l’atteggiamento intimidatorio nei confronti del nemico è una posa, la sua preferita, insieme studiata e perfettamente naturale, e prescinde da qualunque dato di fatto.

Il discorso all’evento autocelebrativo organizzato da Fratelli d’Italia per il primo anno di governo ha dato la definitiva dimostrazione di questa tesi. Nel video Meloni è tornata infatti sul tema del complotto. «La cattiveria verso di noi, i metodi che si utilizzano per tentare di indebolirci – ha scandito – hanno raggiunto vette mai viste prima».

Un’animosità in netto contrasto con l’affetto e il sostegno che a suo giudizio circonderebbero il governo, e che ovviamente sono «distanti anni luce dal racconto dominante sui media» (e qui invece sì che ci sarebbe da domandarsi con chi ce l’abbia, considerando che i vertici della tv pubblica li ha nominati la maggioranza, e che il principale gruppo televisivo privato apparteneva fino a ieri al suo principale alleato, e oggi ai suoi eredi).

La posa è sempre la stessa. Come al solito, Meloni parla come fosse una specie di leader rivoluzionario appena rientrato in patria da un lungo e doloroso esilio, cui tocchi ora la storica occasione di voltare pagina e rinnovare il paese (pardon, la nazione), lei che era ministra già nel 2008, autorevole esponente di una maggioranza che ha governato l’Italia, con Silvio Berlusconi, più di chiunque altro negli ultimi trent’anni.

Eppure ripete senza un tremito nella voce: «Noi abbiamo portato al governo l’Italia vera, che non è quella descritta dai giornaloni, o nei salotti tv, abbiamo portato al governo l’Italia dimenticata e umiliata da anni di governi di sinistra». Si scaglia contro «tutti quelli che hanno bivaccato sulla pelle della nazione, grazie alle amicizie giuste, alle lobby di potere, agli interessi particolari, ai privilegi» (ce l’avrà mica con le leggi ad personam? con i balneari? con gli evasori?).

La verità, spiega, è che in tanti non sopportano il fatto che la destra stia dimostrando come si potessero raggiungere «risultati inimmaginabili e fare cose straordinarie» (il decreto rave?) senza «fare cose impresentabili o dover compiacere persone impresentabili» (tipo votare in Parlamento che Ruby Rubacuori era la nipote di Mubarak?).

Inutile continuare a chiedersi con chi ce l’abbia Meloni quando denuncia il complotto ai suoi danni, a meno di non pensare seriamente che il potere di quell’establishment progressista così lontano dall’«Italia vera» sarebbe rappresentato da “Striscia la notizia”. E che questo arcano potere sia anche responsabile del comportamento a dir poco sconcertante del suo compagno nei confronti delle colleghe (sul posto di lavoro, peraltro, mica nel privato di casa sua).

Il che in ogni caso continuerebbe a non spiegare come mai lo stesso Giambruno sia passato in un nanosecondo da vittima innocente della dittatura del politicamente corretto a reprobo meritevole di essere istantaneamente scaricato, senza tante discussioni (dobbiamo dunque concluderne che i sostenitori del politicamente corretto di ieri non avessero poi tutti i torti, sulle sue uscite e sulla visione del mondo che esprimevano?).

Perché, alla fin fine, delle due l’una: o Giambruno è vittima del complotto ordito dall’establishment, dai partiti di sinistra, da George Soros o chi volete voi, ma allora non si capisce perché lei l’abbia scaricato, oppure non lo è, e allora non si capisce perché lei se la prenda con le gocce, i «giornaloni» e la sinistra.

Naturalmente con tutto questo non sto dicendo che Meloni non possa essere arrabbiatissima con “Striscia la notizia” e con Mediaset, o con i giornali che si sono occupati del caso, o con i leader dell’opposizione, o con chiunque altro.

Sto dicendo che non ha nessuna importanza, perché avrebbe detto le stesse cose comunque, a prescindere, anche se fosse stata la prima a rendersi conto, in cuor suo, che nessuno di loro l’aveva costretta a trovare di ottimo gusto il senso dell’umorismo di quell’autore televisivo, conosciuto giusto negli studi di Mediaset, e se è per questo nemmeno a fare Ignazio La Russa presidente del Senato e Daniela Santanchè ministra, né a ripetere per anni che il problema degli sbarchi si poteva risolvere benissimo con il blocco navale, né a sostenere in Europa tutti i leader sovranisti più ostili a qualsiasi forma di solidarietà con l’Italia sulla ricollocazione dei migranti, né a gridare con la consueta magniloquente assertività tutte le parole d’ordine che non ha ancora finito di rimangiarsi.

Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” domenica 22 ottobre 2023.

Eppure Signora, lei con quell’uomo carino, che l’ha fatta indignare, ci ha vissuto dieci anni. A meno che con lei si comportasse da gran signore — cosa che non credo — lui deve aver portato nella sua vita tutto ciò che lei teme di più, la frivolezza, la voglia di non aver problemi, una cafona leggiadria, tutto ciò che la signora Meloni, dalla vita da sempre dura e dai capelli diventati biondi, sta affrontando con un imperio deciso, circondata da anziani che le sbagliano tutte.

Del disastro avvenuto con il fuorionda […] cosa le ha dato più dolore, […] un compagno inadatto alla sua ambizione, un errore nella sua vita? Uno che non avrebbe mai dovuto rivelare la sua natura, un po’ modesta, tenendola quasi nascosta e mostrandola alla Scala con la di lei giusta soddisfazione? 

Il premier d’Italia ha visto, pubblicamente, cose che non possono esserle estranee, che fanno parte del modo di vivere che il suo compagno ha da sempre: mostrarsi mentre si tocca vistosamente davanti un paio di volte, […] dire alle belle signore “peccato che non ti ho conosciuto prima”, e poi magari mettersi in pantofole e addormentarsi russando […]

Le donne italiane sono state contente che la signora Meloni abbia chiuso con quell’uomo che, del resto, lei così cattolica non ha mai voluto sposare sapendo che prima o poi se ne sarebbe liberata. Quando avrebbe finito di volerlo malgrado tutto, perché, lo sappiamo, un figlio c’era, e ci sono le donne che perdono la testa per un uomo cattivo, crudele o semplicemente non all’altezza, e se ne liberano quando il loro richiamo non le attira più. 

Andrea Giambruno probabilmente ha reso la mamma di Ginevra felice per quasi dieci anni, dandole, forse, quel che lei voleva, che adesso non vuole più. Si spera che non ci siano dei furbacchioni che prendano le distanze dall’Andrea, di famiglia — dicono — molto umile, semmai ringraziamolo perché la sua signora sta benissimo e magari è anche merito suo. Certo, adesso ci troviamo con una graziosa signora […] con questo lutto, di aver sbagliato compagno, e quindi di essere, carina ancora, una possibile preda che non può più sbagliare. […]

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” lunedì 23 ottobre 2023. 

L’unico aspetto che merita rispetto nella Giambruneide è il turbamento di Giorgia Meloni. Il resto è commedia all’italiana. […] il meglio lo dà la stampa di destra. Che, quando B. faceva mille volte peggio di Giambruno […] era schierata anima e lingua con lui: è fatto così, esuberante e scorretto, gli piacciono le donne, beato lui, che male c’è, sempre meglio della sinistra che va a gay e a trans.

Sallusti, già adibito a scudo umano, argomentava con la sua logica stringente: “E Kennedy, allora? Se la faceva con Marilyn” (che era maggiorenne, non faceva la escort e Kennedy non chiamò l’Fbi per farla rilasciare dopo un arresto, ma fa niente). E ogni giorno sbatteva sul Giornale un nuovo alibi di ferro che scagionava il latrin lover di Hardcore […] 

Quindi B. era innocente. E Veronica era una “velina ingrata” (Vittorio Feltri dixit su Libero , con foto della Lario svestita in palcoscenico). E ora contrordine maschilisti! Son diventati tutti femministi, e antemarcia: tutti con la donna (quella che comanda) e contro lo sporcaccione.

Sallusti sul Giornale, anzi il “Giorgiale”: “Meloni dimostra coerenza... la fermezza che le ha permesso di scalare la montagna della vita e della politica”, mentre Giambruno “non ha capito di che pasta è fatta questa donna”, “forte ma dolce”. Da Libero ti aspetteresti il sequel della velina ingrata, o della patata bollente. Invece si riesuma la Fallaci: “Giorgia, la rabbia e l’orgoglio”.

Straziante l'editoriale “La lezione di una leadership” dell’ex portavoce Mario Sechi, che non riesce a scollare la lingua di lì. E, siccome Giorgia dice di aver mollato Andrea “da tempo” (il 2 ottobre erano a teatro da Pio e Amedeo), Libero retrodata la rottura al 2021, perché nel libro di Giorgia “Andrea appare come papà di Ginevra e non l’uomo della vita”. A saperlo prima, oggi Mediaset non dovrebbe cacciarlo: perché non gli avrebbe dato un programma.

(ANSA lunedì 23 ottobre 2023) - Andrea Giambruno, ex compagno della premier Giorgia Meloni, è stato segnalato dal Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia al proprio Consiglio di disciplina territoriale in merito ai fuorionda del tg satirico Striscia la Notizia. Giambruno, 42 anni, è giornalista pubblicista dal 2014. (ANSA).

Estratto dell’articolo di R. Fra. Per il “Corriere della Sera” lunedì 23 ottobre 2023. 

«Sta sotto un treno». Serve la metafora ferroviaria per descrivere l’umore di Andrea Giambruno: lo stato d’animo è «nero» quanto quello di Giorgia Meloni, ma per motivi diversi. Il giornalista sta vivendo ore di doppia preoccupazione: da una parte la fine inaspettata […] della relazione con la presidente del Consiglio; dall’altra i timori sul suo futuro professionale. 

[…] Le sue uscite sessiste hanno dato un’accelerata inattesa a una situazione che, come confermato dalla stessa premier nel post sui social, era già compromessa da tempo.

[…] L’altro fronte aperto è quello del lavoro perché i fuorionda di cui è stato protagonista hanno messo in grande imbarazzo lui, ma soprattutto Mediaset che sta procedendo con i suoi «accurati accertamenti» e poi deciderà il da farsi. Niente è stato ancora stabilito, ma questa attesa nel limbo di color che son sospesi lo sta snervando.

Le prime […] paure di Giambruno sono affiorate all’indomani del primo fuorionda, quello della frase poco felice nei confronti della collega Viviana Guglielmi («Ma perché non ti ho conosciuta prima?»). Il giorno dopo la sua assenza in video a Diario del giorno aveva subito acceso una ridda di ipotesi, ma in realtà lui (giovedì) era a Pavia per un impegno già in calendario. Anche lì si era lasciato sfuggire un fuorionda («Ormai sono terrorizzato da tutto, appena parlo qualunque cosa diventa oggetto di mistificazione»). Ma se il primo «video rubato» poteva essere perdonato, il secondo — quello delle esplicite allusioni sessuali — era inammissibile.

[…] A quel punto era a Milano (dove vive in albergo) con il telefono che bolliva di messaggi e telefonate. Il giorno dopo invece lo ha passato in famiglia, come testimonia la foto che gli hanno scattato al centro commerciale di Orio al Serio, alle porte di Bergamo, proprio di fronte all’aeroporto. Era seduto al tavolo di un bar: con lui c’era una donna (probabilmente la sorella), due bambini (la figlia e il cugino) e due uomini.

[…] in un attimo ha visto crollare la sua vita; si sentiva re e si è ritrovato senza scettro, mai avrebbe immaginato che nel momento della popolarità più luminosa tutto si sarebbe spento all’improvviso, una fragorosa caduta che ha mandato il suo mondo in pezzi. Ci ha messo tanto di suo […] l’atteggiamento sopra le righe lo aveva, ma con il tempo si sono aggiunte una certa arroganza e presunzione che gli avevano fatto credere di essere intoccabile, di potersi permettere qualunque uscita, perché lui era quello che in agenda aveva i numeri della gente che conta. Da re a reietto.

Estratto dell’articolo di Renato Franco per il “Corriere della Sera” lunedì 23 ottobre 2023. 

[…] Esistono altri fuorionda? È possibile che Ricci abbia altro materiale bollente? L’inventore di Striscia sostiene di no ed è l’unico che veramente lo sa. Però potrebbe anche «mentire» perché ormai ha raggiunto il suo scopo, quello di sconfessare «l’astuto cardinal Signorini». Certo il modus operandi di Giambruno farebbe pensare che non siano due casi isolati, oramai lui era diventato così, faceva «lo splendido» in qualunque occasione, sentiva di potersi muovere indisturbato, pensava di essere intoccabile.

[…] Alla organizzazione di Ricci si può anche essere aggiunta l’insofferenza di qualcuno che lavora a Diario del giorno: stanco (o stanca) di certi atteggiamenti, avrebbe segnalato le intemperanze del giornalista. Che ora rimane in attesa delle decisioni di Mediaset.

L’autosospensione di una settimana, in accordo con la direzione di testata, si conclude venerdì. Ma nulla è stato ancora deciso. 

L’azienda sta procedendo con i suoi «accurati accertamenti», la verifica in corso sarebbe legata a possibili violazioni del codice etico aziendale a cui — in caso di risposta affermativa — potrebbe seguire una lettera di contestazione e il coinvolgimento degli organi sindacali. Il ventaglio di ipotesi è largo: il ritorno in video, una nuova autosospensione che prelude al reintegro ma dietro le quinte, il licenziamento (ipotesi che sembrerebbe comunque molto remota): le possibilità sul tavolo sono queste, con la seconda che sembra essere quella con qualche chance in più. […]

Giancarlo Dotto per Dagospia venerdì 27 ottobre 2023.

Preso atto che tutti noi, da che eravamo teneri pischelli sognanti, siamo in vita la somma delle nostre allucinazioni (in attesa di diventarne la sottrazione nei giorni, quando sarà, della massima entropia, alle porte del cadavere), essendo noto che lo stato amoroso è il più fertile campo allucinatorio che ci sia, detto altresì che, in questa attitudine a trasfigurare l’altro, il femminile da sempre eccelle nei millenni, da cui una certa farneticante pervicacia a scambiare degli imbecilli per fulgidi Lancillotti a cui consegnare quel che resta della nostra o vostra castità, detto tutto questo e chissà quant’altro, ditemi perché mai la signora Meloni non dovrebbe avere diritto al suo quarto d’ora o quarto di vita allucinatorio, e vedere cioè in un eventuale imbecille se non proprio un Lancillotto, almeno un irresistibile Gigi Rizzi dei giorni nostri e, in ogni caso, qualcuno da amare?

Al netto di tutti i deliri allucinatori con cui incoroniamo cretini, psicopatici, nullità conclamate, a cominciare da noi stessi, o andiamo in deliquio per zoticoni egoici, cazzoni pomposi, l’esistenza sarebbe una noia mortale, una triste penitenza dentro un sacco penitenziale più asciutto di una lacrima nel deserto. Senza allucinazione, non ci sarebbe amore. Fatti fummo per amare, ma soprattutto per delirare. 

Scribacchio questo perché da più parti, in particolare dal versante della supposta oltre che supponente “intellighenzia”, si leva la domanda “intelligente”: ma come ha potuto una donna come la Meloni, donna di accertato carattere e solida intelligenza, una donna che ci sa fare, eccome, nel serraglio maschiaccio, farsi irretire per ben otto anni da un simile soggetto? Come ha fatto a conversarci e non solo? Si fanno la pensosa e insinuante domanda.

Ecco, non ve la fate la domanda. E non solo perché “ogni scarrafone è bello a mamma soja” canta Pino Daniele e che, nell’amore della donna latina, il latte versato è sempre tanto e, non sarà un caso che, per la legge della reciprocità, son tutte belle le mamme del mondo. Il punto è un altro. 

Dovrebbe esserlo. Una volta tramato e perpetuato l’autoinganno, in questo caso di lei, l’allucinata, dovrebbe essere cura e astuzia del beneficiato, l’oggetto allucinatorio, a far di tutto perché l’equivoco insista e resista il più a lungo possibile. Stare zitti, converrebbe, sparire, inventarsi un dietro le quinte ferreo. E, invece, lui che fa? Si mostra a più non posso. Prima con qualche decenza, poi a tutta ganascia. Scodella decine di cazzate. Gli va anche bene, fino a che non passa da quelle parti, sarebbe il caso dire striscia, Lucifero fatto persona. E poi che fai, te la prendi con Lucifero? 

Roma unica, "New York, Londra hanno le loro stagioni e poi passano, Roma resta con Dio a destra e il demonio a sinistra, il Papa e la Dolce Vita ma non uno contro l'altro ma uniti nella lotta senza ideologia, quella dello sticazzi e del mecojoni, Roma tenera, debole, compassionevole, godereccia in cui vivere è surfare sulle onde, mescolarsi sapendo di arrivare a riva perchè tutto a Roma finisce con una pernacchia".

Marco Zonetti per Dagospia sabato 28 ottobre 2023.

Come si dice in italiano "sleazeball" (libertino)? La presidente del Consiglio italiana ha scaricato il suo compagno dopo che, in alcuni fuorionda televisivi, è stato beccato a vantarsi di una storia extraconiugale e a proporre sesso a tre… Ma i fuorionda sono forse stati fatti uscire dai nemici della premier in seno al clan Berlusconi? 

Questo il titolo dell'articolo uscito questa mattina sul quotidiano britannico Daily Mail e firmato dal giornalista Tobias Jones, autore fra l'altro del saggio "Il cuore oscuro dell'Italia. Un viaggio tra odio e amore".

In tutta evidenza, la rottura tra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno continua a suscitare curiosità nell'opinione pubblica non soltanto in Italia ma anche all'estero. Tobias Jones ricostruisce infatti nella sua lunga disamina sul Daily Mail tutte le tappe della vicenda, partendo dai fuorionda trasmessi dal tg satirico di Antonio Ricci, Striscia la Notizia, per poi ripercorrere la carriera dell'ex compagno della premier italiana, a partire dai suoi trascorsi nella scuderia di Lele Mora, colui che presentò Ruby Rubacuori a Silvio Berlusconi. 

A tal proposito, a parere di Jones, Giambruno "non può non aver assistito alle sordide commistioni tra politica, prostituzione e mondo dello spettacolo", che portarono Mora alla condanna "per induzione e sfruttamento della prostituzione".

Quindi vi è l'accenno al passaggio di Giambruno nell'entourage del "potentissimo" Alfonso Signorini e poi, nel 2014, l'incontro con la "bionda e spietatamente ambiziosa" Giorgia Meloni in uno studio televisivo, occasione nella quale scattò "l'amore a prima vista".

Tobias Jones ricorda quindi come Meloni si sia detta in qualche occasione gelosa del compagno, "i segnali del cui penchant verso le donne potevano essere nascosti in bella vista". Un po' come la lettera rubata cara a Edgar Allan Poe. 

A quel punto il giornalista del Daily Mail cita espressamente Dagospia e per la precisione l'articolo che raccoglieva un florilegio degli articoli pubblicati da Giambruno con lo pseudonimo di "Arnaldo Magro" nella sua rubrica "Segretissimo" sul quotidiano "Il Tempo".

In particolar modo, il Daily Mail evidenzia le occasioni - ricordate per l'appunto da Dagospia - in cui l'aitante Andrea esaltava protetto dal nom de plume l'amica e collega Simona Branchetti, definendola "la gallina dalle uova d'oro" e "bella, ma soprattutto brava". 

Qui il passaggio relativo al sito di Roberto D'Agostino: "[...] the Italian gossip website, Dagospia, trawled through his columns and discovered that Giambruno repeatedly heaped praise on one person in particular: a leggy blonde TV presenter called Simona Branchetti".

Passaggio la cui traduzione è la seguente: "Il sito italiano di gossip Dagospia ha frugato tra gli editoriali di Giambruno scoprendo che egli colmava di lodi una persona in particolare: una bionda conduttrice televisiva tutta gambe di nome Simona Branchetti". 

In molti ora, ricorda quindi Tobias Jones, ipotizzano che i due fossero amanti, illazione più volte smentita dalla stessa Branchetti ribadendo la semplice amicizia che li lega. 

Il giornalista del Daily Mail rievoca poi il retroterra meloniano fondato sul motto "Dio, patria e famiglia", non rivendicato tuttavia dallo stesso Giambruno che si è detto aperto ai diritti dei gay e alla liberalizzazione delle droghe leggere, "forse per via del periodo trascorso con Lele Mora".

La disamina della testata britannica prosegue sottolineando le varie "spacconate" (con conseguenti strascichi diplomatico-istituzionali) del giornalista durante le dirette al Diario del Giorno, nonché le presunte responsabilità del clan Berlusconi nella divulgazione dei famigerati fuorionda, per poi chiudersi con una battuta/augurio sull'ormai emblematico "ciuffo" di Giambruno cui l'ex compagno della premier ha dato in questi giorni un taglio netto. 

"Meloni può solo sperare che, come Sansone nell'Antico Testamento, la vitalità sensuale di Giambruno venga meno assieme alla perdita delle sue fluenti chiome".

L'opinionista Patrizia Scerbo contro Nunzia Di Girolamo: "Quelle di Giambruno sono molestie". Estratto da lastampa.it sabato 28 ottobre 2023. 

"Il punto non è Giorgia Meloni o il tradimento di Giambruno. Qua l'unica vera tragedia sono le donne che sono state molestate sul luogo di lavoro". 

Così, Patrizia Scerbo, giovane content creator e opinionista di Avanti popolo, su Rai 3, parlando della vicenda Giambruno. Parole che hanno spinto la conduttrice del programma, Nunzia Di Girolamo, a intervenire e a catalogare l'accaduto come un "fuorionda di gioco": "Non mi pare ci sia stata una donna che abbia detto 'Sono stata molestata'. Lui ha sbagliato, ma parlare di molestie mi pare eccessivo".

Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” sabato 28 ottobre 2023. 

Se c’è una cosa che a Giorgia Meloni è riuscita benissimo è far passare il suo comunicato sulla (presunta) fine della storia con Andrea Giambruno per qualcosa che abbia a che fare col femminismo. O con l’eroismo. Tutti presi come eravamo a commentare le sue parole, ci siamo persi quelle degli altri. Ed è un peccato, perché a leggerle tutte insieme viene da tifare per il machismo, le battute da caserma e le mani sul pacco.

Uno dei primi a twittare è stato Carlo Calenda, il quale si è prontamente indignato per la volgarità della vicenda: “Così in Italia non si produrrà mai nulla tranne il fango, finché il fango non sommergerà tutti e tutto”. Detto da quello che ama risolvere i conflitti con sobrietà e discrezione, che non cerca le risse nel fango. Come dimenticare quell’addio elegante tra lui e Matteo Renzi: “Caro Renzi, io non ho mai preso soldi da un assassino”, “Calenda è pazzo, ha sbagliato pillole”. 

Abbiamo poi la fila delle pidine che come al solito perdono l’occasione per tracciare una linea di confine netta tra il femminismo e il piagnisteo rancoroso e si buttano sulla solidarietà pelosa. Scrivono tweet zuccherosi esibendo la superiorità morale di chi mostra benevolenza nei confronti dell’avversario, senza mai capire che Giorgia Meloni, su questo furbo bilanciamento tra vittimismo tattico in tutto quello che riguarda se stessa e sul cinismo spietato nei confronti delle debolezze altrui, ha costruito il consenso politico.

E così, Alessandra Moretti scrive: “Giorgia Meloni ha agito da donna libera. Chiedo io per lei che le lascino fare la madre”. A leggerla così sembra che gli assistenti sociali siano andati all’alba, in casa Meloni, a portarle via la figlia. Alessia Morani: “Cerchiamo di evitare i dibattiti da bar dove ognuno dice la qualunque”. In pratica chiede di essere delicati con la famiglia di quella che da anni passa col bulldozer sulle famiglie altrui. 

Pina Picierno: “Solidarietà e abbraccio a Giorgia Meloni. Diffondere gli audio del compagno, utilizzare la vita privata per colpirla è stato spregevole e abietto”. Anziché esprimere solidarietà alle donne costrette a lavorare con lo spregevole compagno di Giorgia Meloni, lei abbraccia Giorgia Meloni per avere lasciato un uomo molesto, ringraziandolo pubblicamente per gli anni meravigliosi trascorsi insieme.

[…] Infine, la vincitrice assoluta: Nunzia De Girolamo. Nel suo Avanti popolo, programma tv che riesce a far indietreggiare il popolo al punto da realizzare il 2% di share, dopo aver invitato suo marito e un pluricondannato, è riuscita a fare di peggio. Nell’ultima puntata ha pensato bene di dedicare un monologo al caso Meloni/Giambruno con la sintassi della letterina “Piccola Chiara” a Sanremo e i contenuti della propaganda nordcoreana. 

Mancava solo che sparasse un razzo nel laghetto di Cologno Monzese come avvertimento a Mediaset. Ha iniziato con “IL NOSTRO presidente del consìio ci ha messo la faccia” per poi passare a un improvviso cambio di sesso: “LA NOSTRA presidente del consìio ha scritto sui social, lo ha fatto da donna, da madre, da presidente del consìio”. Perché voi forse non lo sapete, ma se uno scrive sui social non da sorella, da trans o da segretaria ma “da madre, da donna, da presidente del consìjo” c’è una tastiera a parte, proprio. È tutta glitterata, se premi il tasto cancelletto esce il colostro e manca la G, ovviamente.

DAGONEWS lunedì 23 ottobre 2023.

Scazzo sui social tra Selvaggia Lucarelli e Gaia Tortora che vorrebbe che calasse il silenzio sugli imbarazzanti fuori onda di Andrea Giambruno. Su Twitter il vicedirettore del tgla7 si lancia in un’improvvida difesa dell’ex signor Meloni, tirando in ballo tutti: «Al netto di tutto ora basta però. Se andassero in onda anche la metà dei fuori onda dei conduttori in tv non ci sarebbe più nessuno». 

E Selvaggia Lucarelli si inalbera: «Ho lavorato in tanti programmi tv. Mi sono talvolta imbattuta in persone più o meno sgradevoli, ma non ho mai visto nessun conduttore avere i comportamenti di Giambruno. Affermare che i fuori onda di noi tutti, se svelati, racconterebbero molestie, sessismo, mani sul pacco e battute inopportune mi sembra azzardato.

E pure se fosse, ricorderei che Giambruno non era neppure un conduttore comune, ma un conduttore in una posizione ben più che dominante, per cui una sua battuta aveva un peso maggiore anche per chi doveva subirla». E a chi le chiede cosa ci sarebbe di sbagliato nel sanzionare “gli altri che si comportano così”, la Lucarelli affonda in maniera sibillina: «Ah boh, non ho capito il senso del tweet. O forse non lo voglio capire».

Selvaggia Lucarelli per il Fatto Quotidiano – Estratti il 24 Ottobre 2023

Che tenerezza il video che Giorgia Meloni ha registrato perché andasse in onda alla manifestazione organizzata da Fratelli d’Italia per festeggiare un anno di governo. 

Travolta dal caso Giambruno, dopo il viaggio in Egitto e poi in Israele, ha infatti deciso che al rientro in Italia avrebbe saltato la festa e sarebbe tornata da sua figlia. “In fondo anche io sono un essere umano e se c’è qualcuno a cui posso chiedere comprensione sono i militanti e i simpatizzanti di Fratelli d’Italia!”, ha detto. Insomma, ancora una volta, dopo il comunicato via social sulla fine della sua relazione con Andrea Giambruno, Giorgia Meloni chiede comprensione per il suo difficile momento personale, perché povera donna, è un essere umano, mica un robot. E lo ammetto, per poco non mi sono lasciata fregare 

(...)

Poi mi è tornato in mente un momento di debolezza altrui, nel 2016, quando Giorgia Meloni era candidata a sindaco di Roma. 

Federica Mogherini, ai tempi Alto Rappresentante dell’Unione europea per la Politica estera, mentre parlava a una conferenza stampa a seguito degli attentati di Bruxelles, si era commossa. Del resto, con 32 morti e 340 feriti, era più che comprensibile.

Comprensibile per tutti tranne per chi? Per Giorgia Meloni, la quale commentò sprezzante: “Mi vergogno di essere rappresentata in Europa da Federica Mogherini, che ieri è scoppiata a piangere durante la conferenza stampa sui fatti di Bruxelles. È il simbolo di un’Europa debole, molle e incapace davanti agli attacchi che subisce. Mi auguro che la Mogherini, dopo questa figuraccia, voglia dimettersi e lasciare il suo incarico a qualcuno che non alimenti il desiderio di conquista per la fragilità che dimostra in ogni occasione significativa.

P.s. L’ultima che ha pianto durante una conferenza stampa è stata Elsa Fornero.

Abbiamo visto come è andata a finire per gli italiani.

Morale: per Giorgia Meloni, Federica Mogherini ed Elsa Fornero erano due mammolette frignone che dimostravano debolezza. 

Mogherini, soprattutto, non poteva suscitare empatia ma sdegno e quella inopportuna dimostrazione di umanità doveva addirittura spingerla a dimettersi. 

Ora che tocca a Meloni e per questioni che non hanno neppure a che fare con la sfera pubblica ma solo con quella privata, la presidente chiede comprensione, ci ricorda che anche lei è umana. Ma tu pensa. I 32 morti di Bruxelles richiedevano freddezza, le battute sul blu Estoril impongono comprensione per il dramma umano della nostra premier. Non bastava la doppia morale, ora abbiamo pure la doppia sensibilità. Ci abitueremo anche a questo.

La confusione di Selvaggia Lucarelli tra i casi Meloni e Mogherini. Stefano Graziosi su Panorama il 24 Ottobre 2023  

La giornalista ha accusato il presidente del Consiglio di incoerenza per le sue vecchie critiche all'ex ministro, ma l'argomentazione non regge È un'argomentazione curiosa quella usata da Selvaggia Lucarelli contro Giorgia Meloni. In un articolo sul Fatto Quotidiano, la giornalista ha accusato di doppiopesismo il presidente del Consiglio sul caso Giambruno. Il motivo? La Meloni pretenderebbe oggi quella “comprensione” che lei stessa tuttavia avrebbe negato all’allora Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri Federica Mogherini quando, nel 2016, si commosse pubblicamente a seguito degli attentati terroristici di Bruxelles. “Insomma, ancora una volta, dopo il comunicato via social sulla fine della sua relazione con Andrea Giambruno, Giorgia Meloni chiede comprensione per il suo difficile momento personale, perché povera donna, è un essere umano, mica un robot. E lo ammetto, per poco non mi sono lasciata fregare” ha scritto la Lucarelli per poi aggiungere: “Federica  lasciata fregare , ha scritto la Lucarelli, per poi aggiungere: Federica Mogherini, ai tempi Alto Rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, mentre parlava a una conferenza stampa a seguito degli attentati di Bruxelles, si era commossa. Del resto, con 32 morti e 340 feriti, era più che comprensibile. Comprensibile per tutti tranne per chi? Per Giorgia Meloni”. La Lucarelli ha quindi ricordato che la Meloni criticò duramente le lacrime della Mogherini, definendole una “figuraccia” ed esortando la diretta interessata a dimettersi. “Ma tu pensa”, ha concluso la giornalista, “I 32 morti di Bruxelles richiedevano freddezza, le battute sul blu Estoril impongono comprensione per il dramma umano della nostra premier. Non bastava la doppia morale, ora abbiamo pure la doppia sensibilità. Ci abitueremo anche a questo”. Dunque questo dimostrerebbe l’incoerenza dell'attuale presidente del Consiglio. Peccato che il ragionamento della Lucarelli sia totalmente fuori fuoco. L’analogia da lei stabilita infatti non regge dato che si tratta di due casi totalmente differenti. Condivisibile o meno, la critica che la Meloni mosse alla Mogherini era di natura politica. E, per dirla tutta, non era poi neppure troppo infondata. È senza dubbio comprensibile che una tragedia come quella degli attentati di Bruxelles possa spingere alla commozione. È umano, naturale. Il problema però è un altro. Se hai delle responsabilità politiche e istituzionali, è bene che quel tipo di reazione resti confinato al privato. E che non raggiunga la sfera pubblica. Altrimenti il rischio è quello di finire con l’inviare, magari anche in buona fede, dei messaggi totalmente sbagliati. Mostrarsi fragili e piangenti all’indomani di un attacco non significa essere empatici, significa apparire deboli. E apparire deboli vuol dire offrire a chi ti ha attaccato una vittoria d’immagine. Vuol dire offrire ai tuoi avversari internazionali un motivo in più per considerare l’Ue un’entità vulnerabile. Ecco, se rappresenti un’istituzione, questo lo devi sapere. Altrimenti fai un danno all’istituzione che stai rappresentando. È lo stesso motivo per cui Joe  Biden commise un errore quando, nel pieno della crisi afghana, tenne una conferenza stampa, mostrandosi affranto e quasi piangente. Come privato cittadino si trattava di un atteggiamento più che comprensibile. Non lo era però come presidente degli Stati Uniti. Presentarsi in quel modo al mondo ha inviato un segnale di debolezza agli avversari dell’America che, nelle settimane e nei mesi successivi, ne hanno approfittato (non a caso, poco tempo dopo la crisi afghana, la Cina ha ripreso a violare lo spazio aereo di Taiwan, mentre la Russia ha intensificato l’ammassamento di truppe al confine ucraino). La critica della Meloni alla Mogherini era quindi una critica politica, non personale. Non rimproverava alla Mogherini di essersi commossa, ma di averlo fatto nel momento sbagliato, creando così potenzialmente un danno all’Unione europea. Questo è il punto. Al contrario, la morbosa attenzione sul caso Giambruno e le surreali critiche alla famiglia tradizionale ad esso connesse hanno a che fare con una sfera che è privata e che di certo non riguarda la sicurezza nazionale. Tra l'altro, è la stessa Lucarelli, sul finire dell'articolo, ad ammettere che le questioni riguardanti la Meloni hanno a che fare "solo" con la sfera privata, sconfessando così di fatto la sua stessa argomentazione. Un'argomentazione che, lo abbiamo visto, non sta in piedi. Eppure non è così difficile accorgersene. Ma si sa: la voglia di strumentalizzare fa spesso delle vittime. E l’onestà intellettuale è una di queste.

DAGONEWS martedì 24 ottobre 2023.

Giorgia Meloni sapeva o non sapeva delle sbandate del ciuffo, ormai ammosciato, di Andrea Giambruno? Sentite cosa diceva la ducetta a "Belve" nel dicembre del 2018 quando, intervistata da Francesca Fagnani, ammetteva di essere gelosa del compagno ed era sicura di tenerlo sotto controllo: «Sbirciatina al cellulare di Andrea? Ma certo! Questi uomini non sono capaci. 

Facciamogli un corso di formazione. È impossibile non beccarli. Se hanno fatto qualcosa di male, tu lo sai perché non lo sanno fare. Bello mio, anche se cancelli un sms io comincio a fare tutta la ricerca. Mi guardo le telefonate di una settimana prima, tutte le foto, chiamo in servizi segreti. Ho pure un amico al ministero degli interni che si chiama Matteo Salvini.  

Gli chiedo: “Senti scusa mi servirebbero questi tabulati”. Ma non serve neanche, tanto è facile con loro». E ancora: «La volta che mi sono arrabbiata di più con Andrea? All’inizio della nostra storia ci fu un fatto di gelosia che mi fece arrabbiare parecchio. Botte? Mi sono difesa». In un passaggio precedente aveva scherzato: «Io non meno, salvo per gelosia…Ogni tanto è successo»

Dagopsia martedì 24 ottobre 2023.  

Gentile Flavia Perina, abbiamo letto con interesse il suo articolo “Fuorionda” su La Stampa del 24 ottobre. Pur senza mai citare esplicitamente Striscia la notizia, lei parla di «macchina del fango» e di «fuoriondismo arrivato al top», e auspica «finalmente una riflessione sulla differenza tra giornalismo e character assassination, inchieste e manipolazione, che accenda i riflettori sul ruolo che hanno avuto nella delegittimazione delle nostre istituzioni una serie di comportamenti che giudichiamo normali».

Per dare il via a questa riflessione si potrebbe per esempio ripensare al giornale su cui lei scrive, che lo scorso 9 agosto nella sua versione online ha dato rilievo nazionale a «un video che da alcuni giorni circola sui social» e che confermava «la fine della relazione tra Massimo Segre e Cristina Seymandi», tornando poi diverse volte sulla vicenda, anche – ovviamente – sul quotidiano. 

Dei fuorionda di Striscia la notizia – in cui non dimentichiamo che, al di là di chi è coinvolto, viene documentato un fatto che è stato anche oggetto di una segnalazione dell’ordine dei giornalisti – parlano da giorni tutte le testate italiane e moltissime internazionali (New York Times, Financial Times, The Times, Suddeutsche Zeitung, Cnn, El Pais). Nel caso Segre-Seymandi, invece, dov’era l’«interesse pubblico» nella diffusione di immagini e notizia?

Estratto dell’articolo di Flavia Perina per “La Stampa” martedì 24 ottobre 2023.

Macchina del fango è un'espressione così rilevante in Italia che ha persino una voce su Wikipedia: «Indica l'azione coordinata di un gruppo di pressione, soprattutto attraverso i mass media, volta a delegittimare o ledere l'onore e la credibilità di una persona, ovvero infamarne o screditarne l'immagine pubblica».

E' questa la macchina che ha investito Andrea Giambruno e di conseguenza Giorgia Meloni? E' la domanda che a destra si fanno quasi tutti, tutti quelli che stentano a credere alla versione dei fuorionda resi pubblici da Striscia per motivi di audience o semplicemente per divertimento. E tuttavia non si può dirlo ad alta voce, bisogna usare cautela, perché il diritto al pettegolezzo, alla foto o all'audio rubato, il gossip power del mondo berlusconiano è stato così a lungo difeso dalla destra che oggi sembrerebbe un controsenso imbracciare il fucile e dire: questo non è giornalismo, è spazzatura.

[…] 

Il fuori-ondismo è stato, fino all'altro ieri, un genere minore di questo tipo di gossip power. Si limitava a punzecchiare, raramente era cattivo. Faceva addirittura simpatia, tantochè non risulta che il Cavaliere si sia mai arrabbiato per gli spezzoni dove dormicchiava attendendo un intervista di Rete4, raccontava barzellette sulle sue notti brave o faceva imitazioni degli avversari politici. 

Il suo fedelissimo portavoce, Sandro Bondi, ne fu a lungo vittima privilegiata, un tormentone: Bondi che si scorda cosa ha appena detto ai giornalisti, Bondi che deve ripetere tre volte una dichiarazione perché si impiccia sempre, Bondi inseguito dal Tapiro D'Oro. Ridevano tutti meno lui, perché era chiaro che quell'inseguimento ad personam ne screditava il ruolo e l'autorevolezza, lo trasformava in un pupazzo.

Ma nella nuova era del governo delle destre non si era visto, finora, nulla di simile. L'episodio più rilevante era stata una frase rubata al ministro Guido Crosetto su Giuseppe Conte («Ho a che fare con un deficiente»). Poca roba, senza alcun seguito dopo le doverose scuse e il chiarimento tra i due. Anche per questo il salto di qualità del gossip power impensierisce e preoccupa la destra, che conosce bene il meccanismo, lo ha visto a lungo usare contro gli avversari di Arcore e conosce i danni che può causare soprattutto nella versione che chiama in causa i dati più privati, le relazioni, il sesso.

Anche Metodo Boffo ha una voce su Wikipedia che spiega come, nel 2009, il quotidiano dei vescovi Avvenire perse il suo direttore dopo la pubblicazione su Il Giornale di una (presunta) informativa di polizia che lo segnalava come omosessuale. «Non ha il diritto di scagliare anatemi contro altri peccatori veri o presunti, e neanche di tirare le orecchie a Berlusconi, in campo sessuale ciascuno ha le sue debolezze»: questa la chiosa, che chiariva bene lo scopo dell'operazione (che poi si rivelò fondata su un falso grossolano).

Storie e tempi imparagonabili con quelli di oggi, soprattutto perché il Cavaliere non c'è più e quel tipo di potere di demolizione mascherato da ironia, scandalo sexy, scoop, non dovrebbe avere motivo di agire. Tantomeno nei confronti della presidente del Consiglio che ha riportato il centrodestra alla vittoria e al governo. Però il sospetto sulla possibile riattivazione della vecchia macchina rimane. 

E chissà che il "file Giambruno", con le sue conseguenze così enormi per la vita personale di Meloni, non introduca finalmente una riflessione sulla differenza tra giornalismo e character assassination, inchieste e manipolazione, e accenda i riflettori sul ruolo che hanno avuto nella delegittimazione delle nostre istituzioni una serie di comportamenti che giudichiamo normali e non lo sono: l'inseguimento stradale dei personaggi sperando di ricavarne un gesto di stizza o una parolaccia, le chiacchierate informali registrate da telecamere e microfoni nascosti, i parlamentari intortati da richieste apparentemente serie che poi sfociano in domande assurde (mi canta Astro del Ciel? Mi dice le province della Lombardia?).

Magari ora che il fuori-ondismo è arrivato al top, al portone di Palazzo Chigi, anche la destra riuscirà a rettificare la generosità con cui finora ha trattato l'egemonia sottoculturale della maldicenza, scambiando le sue campagne ad personam per inchieste giornalistiche. Magari si riuscirà finalmente a riconoscere, anche se sottovoce, anche se con gli opportuni giri di parole: no, questa non è informazione; sì, questa è spazzatura.

Lucetta Scaraffia per “la Stampa” martedì 24 ottobre 2023.

Andrea Giambruno non ce l'ha fatta, non ha retto la parte dell'uomo che sta accanto a una donna più brava di lui, una donna di potere.

Aveva affermato con forza di saper stare dietro le quinte, ma alla prova dei fatti ha ceduto alla più tradizionale vanità maschile. Del resto perfino il marito della Merkel, uno scienziato in odore di Nobel, dopo anni di comportamento esemplare come principe consorte, non ha saputo reggere fino alla fine e ha sbandierato un nuovo amore. 

La storia e l'attualità insegnano che gli uomini non sono capaci di stare un passo indietro senza farla pagare alle loro compagne, non sono capaci di dimostrare quella solidarietà inscalfibile di tante di loro in analoghe circostanze. Una solidarietà che ha aiutato in modo spesso determinante la carriera degli uomini di potere: li ha protetti dagli attacchi e ha dato loro la sensazione di avere accanto una persona di cui potersi fidare sempre.

Ora dunque Giorgia è sola, ma probabilmente lei già da tempo sa di esserlo, e infatti conta da sempre solamente sulla solidarietà della sorella e della madre, e ora della figlia, per proteggere la quale ha scritto un comunicato così fermo ma anche così leale nei confronti dell'ex. 

Siamo davanti a un caso di scuola della storia dell'emancipazione femminile: l'ascesa di una donna nella vita sociale e politica le impone costi elevati nella vita privata.

(...)

Estratto dell’articolo di Valentina Stella per ildubbio.news martedì 24 ottobre 2023.

I fuorionda del giornalista Andrea Giambruno, ex compagno della premier Giorgia Meloni, trasmessi da Striscia la notizia e l’arresto in diretta di Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, riaccendono il dibattito sul modo di fare giornalismo nel nostro Paese […]. 

Ne parliamo con il giornalista e scrittore Alessandro Barbano che ci dice: «Siamo noi le vittime di quella violazione, che offende la dignità di una democrazia liberale, colpita nella sua privacy». Ormai, secondo Barbano, siamo in una «democrazia giudiziaria-mediatica».

Direttore Barbano che ne pensa della pubblicazione da parte di Striscia la notizia del fuorionda dell’ex compagno della premier Meloni?

Siamo di fronte ad una gravissima emergenza. Non ci accorgiamo più del livello di violazione dei diritti fondamentali che la democrazia subisce da un uso distorto del potere mediatico. Esiste una questione pregiudiziale che in uno Stato di diritto viene prima della valutazione del fatto. 

Qual è?

Se il fine giustifica il mezzo. Ossia se la “porcata”, come l’ha chiamata sul vostro giornale Daniele Zaccaria, possa essere considerata un metodo sostenibile della comunicazione pubblica. Il giorno dopo la trasmissione di Striscia pochi giornali, e tra questi il Dubbio, si sono chiesti se sia digeribile il fuorionda di un giornalista nel contesto in cui è stato carpito. 

La maggior parte delle testate invece si è concentrata sul merito delle parole di Giambruno, disconoscendogli, in ragione del disdoro, lo statuto di vittima. In realtà siamo noi le vittime di quella violazione, che offende la dignità di una democrazia liberale, spiandola in uno dei luoghi più sacri, la redazione. 

Sacro non per un privilegio riconosciuto ai giornalisti, ma perché in quel luogo si costruisce il pluralismo. Nessuno sembra accorgersi che quel fuorionda rientra nel novero delle intercettazioni preventive, simili a quelle dei Servizi Segreti. 

Ci spieghi meglio.

Le intercettazioni preventive sono eseguite senza un titolo di reato e senza l’autorizzazione di un giudice. Nella dimensione mediale coincidono con i dialoghi captati e diffusi senza una ragione informativa che non sia l’obiettivo di assumere una persona a bersaglio. 

La Cassazione, nella storica e ormai ignorata sentenza del Decalogo, sostiene che una notizia lesiva della reputazione di un individuo si giustifica se è vera. E già su questo si potrebbe eccepire, perché brandelli di frasi decontestualizzate non sono mai verità. Se è continente. È certamente non lo è una captazione rubata. E se è utile socialmente. E qui l’utilità sociale coincide con il principio per cui tutto ciò che è possibile sapere è giusto che si sappia. In nome dello stesso principio rivendichiamo il diritto di conoscere le intercettazioni penalmente irrilevanti, ma utili a vedere il lato oscuro dei potenti.

Ci spostiamo dal piano penale a quello morale?

[…] Ormai processo penale e processo mediatico sono la stessa cosa. C’è un travaso e una confusione di paradigmi giudiziari e giornalistici. Siamo una democrazia giudiziaria-mediatica. 

Secondo Lei la famiglia Berlusconi ha voluto lanciare un messaggio alla premier?

Mi rifiuto pregiudizialmente di fare una valutazione dietrologica sul ruolo della famiglia Berlusconi in questa vicenda.

Antonio Ricci ha detto di aver fatto un favore alla premier. Che ne pensa?

Quest’affermazione racconta un delirio totalitario di onnipotenza che si commenta da sé. Ricci vuole spiegarci che l’utilità sociale del fuorionda sta nell’aver fatto sapere alla premier che viveva con un uomo inadeguato. 

E allora perché non applicare su larga scala questo “nobile” intento, istituendo un’Authority del Grande Fratello e nominandolo presidente? Immagini quanti utili divorzi. Senonché Ricci crede di essere un moralista, in realtà non è che un modesto tecnocrate. 

Quella che a lui sembra la massima espressione dell’esercizio della moralità - e quindi del fine - non è altro che l’epifania senza controllo del mezzo. Lui crede di adempiere a uno scopo qualitativo, in realtà reagisce a uno stimolo quantitativo.

Ha detto che ha deciso di diffondere le battutacce di Giambruno dopo aver letto un’intervista su “Chi” che lo santificava. È una giustificazione che si dà a posteriori. La verità è che lui esiste in quanto veicola ciò che raccoglie. È simile a un anello di silicio di un circuito tecnologico fuori controllo. Perciò pericoloso. 

Perché pericoloso?

Nel cosiddetto mondo dell’informazione, ma anche dell’impresa, tutti hanno paura, non so dire quanto fondata, di questo signore. Si temono rappresaglie mediatiche, perché ciascuno, anche se non ha nulla da nascondere, sa che il suo privato messo in piazza può distruggerlo. Si vive di reputazione. E quando il Grande Fratello propala il suo ultimo schizzo di fango, si rinuncia a ribellarsi, e si sta chiusi in casa in attesa che la telecamera si allontani dai paraggi. Mi chiedo quale sacrificio della libertà stiamo subendo per il timore della gogna che potrebbe scaturirne. 

[…] Come giudica la risposta della Meloni?

Quando si sostiene che il suo gesto sia stato coraggioso, si dice un falso. 

Perché?

Ha fatto ciò che avrebbe fatto chiunque nelle sue condizioni. Non aveva altra scelta, come non ebbe scelta Romano Prodi quando fu costretto a licenziare il suo portavoce che era stato filmato, mentre tornava a casa, a chiacchierare con una prostituta. 

Se la Meloni avesse opposto alla messa in onda una sdegnata rivendicazione della sua privacy, sarebbe stata travolta dalle critiche. Perché la democrazia giudiziaria-mediatica aveva già ammesso al processo pubblico le frasi di Giambruno. 

Questo slittamento totalitario […] è già una democrazia necessitata. In cui le scelte diventano mere reazioni a stimoli. E in cui scompaiono le persone: Meloni, Giambruno, una bambina di sei anni.

Ci siamo accorti che esistono le persone quando, due giorni fa, la presidente del Consiglio non si è presentata alla convention di Fratelli d’Italia. Mi chiedo quali parole abbia usato la premier per spiegare alla figlia che vive nella teocrazia dei maiali di Orwell. 

A proposito di processo mediatico, come giudica l’arresto in diretta dell’ex magistrata Silvana Saguto con il figlio che si frappone tra lei e le telecamere?

Non entro sul tecnicismo della questione giudiziaria, o meglio sulla sussistenza dei requisiti per disporre l’arresto dopo una conferma parziale da parte della Corte di Cassazione della sentenza di appello.

Rilevo però che la nota diffusa da piazza Cavour sembra il comunicato di un’agenzia che ha nel consenso la sua legittimazione. Tuttavia la ferocia dell’arresto sbrigativo e la traduzione in carcere dall’ospedale, dove la donna era ricoverata, con tanto di telecamere pronte a filmare […] rispondono a due esigenze: accontentare la piazza e fare dell’ex giudice il capro espiatorio per purificare e difendere la vergogna delle misure di prevenzione.  […]

Lettera a Vittorio Feltri pubblicata dal Giornale martedì 24 ottobre 2023.

Caro Direttore, lei ha difeso l'unione tra Giorgia e Andrea, sostenendo che sia una relazione solida, intanto Meloni questa mattina ha dichiarato pubblicamente che «la storia finisce qui» e quel «qui» fa proprio intuire che finisca per le gaffe di Giambruno mandate in onda da Striscia La Notizia. Insomma, Meloni non l'ha presa affatto bene, a quanto pare. 

È ancora convinto che Giambruno non abbia fatto nulla di male e che sia stato montato un caso dalla sinistra? Sembra che ora pure Mediaset voglia liberarsi del giornalista, scaricandolo proprio come ha fatto la compagna, come uno straccio vecchio o come un sacco della spazzatura. Ci dica la sua. Grazie. 

Francesco Manfredi

LA RISPOSTA DI VITTORIO FELTRI

Caro Francesco, non mi permetto di ficcare il naso negli affari privatissimi di una coppia, quantunque entrambi i componenti siano personaggi pubblici, in quanto quello che accade in un ambito così intimo riguarda solo e unicamente i diretti protagonisti e soltanto questi possono sapere come stanno davvero le cose. 

 Ho difeso Giambruno, è vero, e lo farei ancora, perché nella sua condotta non ho ravvisato nulla di scandaloso, eppure sembra che egli abbia compiuto chissà quale crimine a sfondo sessuale, che sia stato sorpreso a letto con un'altra, che abbia stuprato una donna. È questo ciò che veramente dovrebbe disgustarci: la capacità di fare in un momento di un essere umano una sorta di bestia, condannandolo senza possibilità di appello, anzi senza processo e per direttissima. Ho visto che sono stati diffusi altri video in cui Andrea si è lasciato andare a frasi magari poco eleganti, ma ancora una volta non mi posso dire sconcertato.

Mi sconcerta piuttosto che Mediaset stia valutando di punire, forse mediante il licenziamento, il suo giornalista, quando per fuori onda di questo tipo o molto simili, diffusi in passato, nessuno è mai stato stroncato e lasciato a casa. Trovo la punizione eccessiva, sproporzionata, anzi trovo che sia esagerato proprio il semplice valutare una punizione per qualche battutaccia, per quanto di pessimo gusto e infelice. Questo signore è stato appena mollato con un post dalla compagna nonché madre di sua figlia. Da giorni subisce insulti, attacchi, aggressioni. 

Nessuno che lo difenda. Con il mostro di Firenze o con i terroristi dell'Isis siamo stati più gentili, più umani, più clementi. Mi rifiuto di partecipare a questo coro di accusatori, che non sono meno marci di Giambruno ma soltanto più ipocriti.

Per quanto riguarda Meloni, reputo la sua reazione fortemente emotiva e me ne stupisco, dato che Giorgia ha sempre un lodevole controllo su se stessa. È evidente che certe cose l'abbiano ferita e di questo mi dispiace poiché le voglio bene e la stimo in modo speciale. 

La capisco, ella è una donna orgogliosa, che ha faticato per la sua reputazione, per conquistare il rispetto e la fiducia degli italiani, per costruirsi, per arrivare dove è arrivata con le sue forze e la sua tenacia. È probabile che si sia sentita umiliata, offesa, tradita in un certo senso dalle parole usate dal compagno. In questo caso, restare in silenzio sarebbe forse stata la scelta più giusta.

(...)

Porto una taglia 42, e mi sento dire a volte "dovresti perdere un po' di peso” per un abito che voglio usare. Non si valuta nemmeno di adattare l'abito. Io penso di avere un buon carattere, mi prendo in giro ed è la mia difesa, ma fa molto male. È una continua, costante mancanza di rispetto e di educazione». […]

Estratto dell’articolo di liberoquotidiano.it l'1 agosto 2023. 

[…] Rita Dalla Chiesa […] scende in campo per difendere Andrea Giambruno, compagno […] di Giorgia Meloni […] travolto dalle polemiche per aver detto al ministro della Sanità tedesco Karl Lauterbach - che aveva pronosticato la fine del turismo in Italia per il troppo caldo - "Se non ti sta bene, stai a casa tua, nella foresta nera":

"Credo che Andrea Giambruno, da anni conduttore e giornalista Mediaset, abbia tutto il sacrosanto diritto di parlare ed esprimere opinioni come tutti i suoi colleghi di carta stampata e televisione. E basta, che noia, guardate in casa vostra, piuttosto", ha scritto la Dalla Chiesa in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. E a un utente che ha ribattuto - "Ma il decoro istituzionale? Non è uno qualunque, lo sanno tutti che è il compagno del premier. Il decoro istituzionale non si usa più?" -  la deputata ha replicato in modo molto duro: "Allora Nilde Iotti non avrebbe dovuto stare in Parlamento perché compagna di Togliatti?".

Una frase che ha fatto infuriare a sua volta il presidente del Pd Stefano Bonaccini: "Nilde Iotti con Giambruno che fa il giornalista? Ma che paragone surreale sta facendo?". A quel punto Rita Dalla Chiesa non ci ha visto più e ha attaccato il governatore dell'Emilia Romagna: "Forse lei fa finta di non capire. Si attacca Andrea Giambruno in quanto compagno di Giorgia Meloni. Penso che sia anche ora di finirla. È un esempio spinto per far capire il concetto anche a chi ha pochi neuroni e quei pochi li usa per odiare". Quindi ha concluso: "Alle vostre lezioni di vita io mi siedo all'ultimo banco a lanciare aeroplanini di carta".

La prima visita della premier Meloni con la famiglia in Vaticano dal Papa. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Gennaio 2023

La presidente del Consiglio regala al Pontefice un libro di Maria Montessori e un angelo della sua collezione. E gli presenta i suoi collaboratori, a cominciare da Mantovano, «grande cattolico»

Il giorno tanto atteso dell’incontro tra Papa Francesco Bergoglio e la premier italiana è arrivato. Questa mattina Il Papa ha ricevuto in Vaticano la presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni. Si è trattato del suo esordio da Capo del Governo oltretevere. Ad accogliere la Meloni nel “Cortile di San Damaso”, con le guardie svizzere sono schierate nel picchetto d’onore, è stato il reggente della Casa pontificia, monsignor Leonardo Sapienza. La prima premier donna della storia italiana è arrivata dentro le sacre mura accompagnata dal suo compagno Andrea Giambruno, e la loro bambina Ginevra. L’incontro con il Pontefice, in programma per le ore 10, è  durato 35 minuti. Meloni ha presentato a Papa Francesco i suoi collaboratori, a cominciare dal sottosegretario Alfredo Mantovano, “un grande cattolico”. 

Nella mattina dentro i Sacri Palazzi si è parlato in particolare di migranti, famiglia, natalità, povertà e guerra in Ucraina. Tra gli omaggi che la Meloni ha consegnato a Jorge Mario Bergoglio, un libro di Maria Montessori e un angelo.  Il Papa ha dato alla premier alcuni documenti: il “Messaggio per la Pace” di quest’anno, il “Documento sulla Fratellanza Umana. Per la Pace mondiale e la Convivenza comune“, il libro sulla “Statio Orbis” del 27 marzo 2020, il volume sull’appartamento pontificio e il libro “Un’ Enciclica sulla Pace in Ucraina”. L’udienza è poi proseguita con il cardinale segretario di Stato Parolin e con il “ministro degli Esteri” del Vaticano, monsignor Paul Richard Gallagher.

In una recente intervista rilasciata a La Stampa , alla domanda su che cosa avrebbe detto nel colloquio con Giorgia Meloni, il Papa aveva risposto: “Non voglio interferire nelle questioni politiche specifiche italiane. C’è un governo legittimo, votato dal popolo, è all’inizio del suo percorso, e auguro il meglio a chi lo guida e ai suoi collaboratori, e anche all’opposizione affinché sia collaborativa, perché il governo è di tutti, e ha come compito e obiettivo il bene comune, e come unico orizzonte a cui puntare un futuro migliore per l’Italia. Domenica abbiamo celebrato la Giornata Mondiale dei Poveri: come a tutti i governanti di ogni Paese, chiedo per favore di non dimenticare gli ultimi”.

La Santa Sede ha informato che durante “i colloqui in Segreteria di Stato sono state sottolineate le buone relazioni bilaterali e si è fatto cenno ad alcune questioni relative alla situazione sociale italiana, con particolare riferimento ai problemi legati alla lotta alla povertà, alla famiglia, al fenomeno demografico e all’educazione dei giovani”. Durante la conversazione “sono state prese in esame tematiche di carattere internazionale, con speciale riferimento all’Europa, al conflitto in Ucraina e alle migrazioni”. Un clima cordiale, quindi.

Il premier Giorgia Meloni è apparsa impressionata dagli ambienti: “Qui davvero c’è un’infinità da raccontare”, ha detto. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Giampaolo Visetti per “la Repubblica” il 3 Gennaio 2023.

 […] A Cortina d'Ampezzo, dopo la serrata del Covid e gli anni del basso profilo da Seconda Repubblica, è tornato anche il compiaciuto potere nazionale, con il corteo che fedelmente lo accompagna. 

«Finalmente - esulta il sindaco Gianluca Lorenzi - rivedo i vecchi tempi del tutto esaurito.

Tra Natale e Capodanno mezzo governo, leader politici, gotha dell'economia e star tivù sono ritornati nella città-simbolo delle Dolomiti. Alle feste in ville, hotel e après-ski l'atmosfera ricorda l'epoca d'oro degli anni Ottanta. 

L'effetto Olimpiadi 2026 si sente già: nei prossimi giorni spero di incontrare anche Giorgia Meloni». In effetti, alla migrazione di istituzioni romane e alta borghesia capitolina verso il Cadore, ora manca solo la premier.

«Doveva essere già qui - conferma una delle regine dei dopo-cena cortinesi - come l'anno scorso. Il marito Andrea Giambruno sta insegnando a sciare alla figlia Ginevra. Non fosse per la morte di Ratzinger e gli imminenti funerali, Giorgia sarebbe sulla neve». 

La leader della destra italiana, dopo il Natale 2022 in una casa in affitto, è data tra Tofane e Cristallo per qualche giorno di vacanze in albergo con la famiglia.

Dopo l'attacco di Renzi a Conte, colpevole di alloggiare in una suite del Savoia, albergo con lo stesso numero di stelle del suo neo-proletario movimento, i colonnelli meloniani prevengono così altri veleni.

 «Conte soggiorna dove vuole - dice il ministro della Difesa, Guido Crosetto - e dove può permettersi di farlo: attaccarlo per il soggiorno a Cortina è demagogia di infimo livello».

 Il problema è che all'hotel De la Poste in questi giorni si sono affacciati lo stesso Renzi, ospite da amici, e la fedelissima ex ministra Maria Elena Boschi, attenti a non incrociare i campioni di una destra folgorata dalla Grande Bellezza della "Montagna Incantata". 

«Tra Meloni, Conte e Renzi - scherza Gherardo Manaigo, icona storica dell'accoglienza cortinese - potremmo organizzare un vertice tra gli ultimi premier. Anche Draghi, in passato, per riposarsi è salito qui».

 Nel rimpianto dei cinepanettoni la "perla delle Dolomiti" si consola così con la realtà di un nuovo potere immune all'antico moralismo, che spingeva Giulio Andreotti nella clausura conventuale delle Orsoline.

 Onnipresente la ministra del Turismo Daniela Santanché, pronta ad ospitare Meloni nella sua ambitissima villa. Con lei anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, veterano delle vacanze di Natale a Cortina, attento a non mancare l'aperitivo con il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, corteggiatissimo ospite di una "Montagna di Libri" per la presentazione della sua ultima fatica.

Oggi qui sarà il turno del governatore veneto Luca Zaia, promotore della sua seconda autobiografia, e per la destra di sci e di governo sarà un'impresa tapparsi le orecchie al rinnovato diktat pro-autonomia.

 […] Nella conca anche il sottosegretario Vittorio Sgarbi, la ministra Elisabetta Casellati, che ha riaperto il suo appartamento in centro, il presidente del Coni Giovanni Malagò, l'ex leader di An Gianfranco Fini e Stefania Craxi, la truppa dei deputati e senatori di centrodestra devoti alle pomeridiane discese dal Faloria.

 Le stesse che alla vigilia di Tangentopoli hanno visto protagonisti, tra i tanti, Gianni De Michelis, Francesco De Lorenzo e Duilio Poggiolini, pure notoriamente allergici alla discrezione. Non solo politici però.

Il grande ritorno del potere romano a Cortina, staccata da Madonna di Campiglio e Ponte di Legno quando a guidare era la Lega salviniana, segna la riapertura alpina anche delle grandi residenze di economia e finanza nel Nordest: dai Benetton ai Barilla, dai Marzotto ai Brion, da Riello agli eredi Del Vecchio, da Mario Moretti Polegato a Renzo Rosso, impegnati a investire in immobili e hotel in vista dei Giochi. 

[…] A proposito di spettacolo: tra le Dolomiti a corto di neve i compaesani adottivi Fiorello e Albanese, che in piazza Roma incrociano gli habitué Enrico Mentana e Bruno Vespa. Cortina riproietta il suo film: il potere passa, il suo dolomitico resort no.

M come Merkel. Edoardo Sirignano su L’Identità il 3 Gennaio 2023

A Giorgia non basta essere la prima donna premier. Per il 2023 Meloni ha obiettivi ancora più grandi o meglio un vero e proprio piano nel cassetto pronto a essere attuato. A svelarlo i fedelissimi consiglieri della leader di Fratelli d’Italia, tra cui il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e il ministro ai rapporti col Parlamento Luca Ciriani. L’obiettivo non è solo smorzare ogni polemica sul nascere, ma creare quelle condizioni indispensabili per andare oltre la fine del mandato. I sondaggi riguardanti le regionali, d’altronde, consentono di guardare tranquillamente al lungo periodo. Il modello da imitare ha un nome e cognome: Angela Merkel.

Parte I: Il partito unico

dei conservatori

La prima parte del progetto, quindi, è superare, sin dal principio, ogni divisione tra le forze della coalizione. Un’operazione non impossibile, considerando lo stato di salute dei partiti alleati. Matteo Salvini, senza Fdi, non riesce neanche a mantenere le roccaforti del Nord. Esempi sono la Lombardia, dove la politica romana prenderà più voti dei verdi (divisi tra Bossi e il segretario), il Veneto, dove non c’è un erede a Zaia e il Veneto, in cui un ingestibile Fedriga s’inventa la scusa delle civiche per scaricare i compagni scomodi. Forza Italia non se la passa meglio. Le faide interne dilaniano gli azzurri. Lo stesso Cav, secondo gli ultimi rumors, sarebbe stanco di fare il paciere. Un grande leader, d’altronde, è a dir poco sprecato in quella funzione. Ecco perché è lo stesso Silvio a voler cambiare strategia, a rimescolare le carte. Berlusconi, si sarebbe ripetuto nelle stanze di Arcore, vuole chiudere la carriera facendo il padre saggio, lo statista illuminato. Sembrerebbe, pertanto, che sia disposto a mettersi di nuovo a disposizione di quella Giorgia, che gli ha consentito di realizzare il più grande sogno, portare la sua creatura-invenzione, il centrodestra, di nuovo al governo. La sfida, stavolta, si chiama casa dei conservatori, un Cdu alla tedesca. A rivelarlo lo stesso ex premier, che utilizza un linguaggio diverso dal solito. Non si fa più intervistare, in più puntate, dal “Giornale”, venduto prima della fine dell’anno agli Angelucci, ma da “Libero”. Su queste colonne parla, appunto, di forza unica conservatrice, cristiana e liberale in grado di bloccare ogni avanzata progressista. Ciò è più di un semplice assist verso Giorgia, che da tempo auspicava il superamento delle vecchie sigle per dar vita a qualcosa di nuovo e più inclusivo.

Parte II: il presidenzialismo

Per scrivere la storia, non basta vincere una sola volta. Occorre mettere radici profonde. Altrimenti, prima o poi, il consenso si sgretola e ci si viene dimenticati. Per fare ciò è indispensabile cambiare le stesse istituzioni. La strada per Meloni è una sola: l’art. 83 della Costituzione, ovvero quello che regola le modalità di elezione del capo dello Stato. Quest’ultimo non dovrebbe più essere votato dal Parlamento e dai suoi membri in seduta comune, ma scelto direttamente dai cittadini. Per giungere al traguardo, alquanto complicato, sono indispensabili le larghe intese, quelle che vanno oltre gli steccati dei partiti e delle tradizionali coalizioni. Non basta avere il placet dei soli alleati. Serve, a contrario, che qualcuno con una storia diversa sia pronto a lavorare per un fine più alto. L’interlocutore c’è e si chiama Matteo Renzi. Il giglio ha già espresso gradimento verso la riforma che dovrebbe realizzare il dicastero presieduto da Casellati. Non sarebbe, d’altronde, la prima volta che l’ex fascia tricolore di Firenze si spenda per le cause di Giorgia. L’elezione di La Russa al Senato ne è la prova. La storia, in questo caso, comunque, è differente. L’altro socio del Terzo Polo, ovvero quel Carlo Calenda, definito dai più il cinguettatore o la stampella, non sarebbe d’accordo. Detto ciò, neanche i centristi uniti bastano allo scopo. L’unica medicina per dormire sogni tranquilli sarà convincere la sinistra. Un’impresa non impossibile, considerando la recente politica estera, dove Letta e Giorgia parlano la stessa lingua e l’idea dem del cancellierato alla tedesca. Un modello, che prende spunto da quello teutonico, potrebbe essere più di un semplice ponte per arrivare, in breve tempo, a l vero obiettivo del Meloni I.

Parte III: gli ostacoli

da superare

Nel cammino ovviamente non mancheranno gli ostacoli. Il primo potrebbe arrivare da quel Colle, che fino a ora ha sempre dato man forte alla numero uno di Fdi. Sostegno riconosciuto dalla stessa inquilina di Palazzo Chigi, che tramite una telefonata di Mantovano avrebbe ringraziato Mattarella per il sostegno prestatogli fino a ora. Basta d’altronde ascoltare attentamente il discorso di fine anno del Quirinale per non trovare un solo verbo contro l’ attuale esecutivo. Nonostante ciò, esiste un limite che Re Giorgio non consente di superare. Stiamo parlando delle riforme. Chi deve mantenere gli equilibri non vuole grane, stravolgimenti, confusioni o nuove pretese. Il presidenzialismo potrebbe avviare quello che in politichese si chiama precedente. Il ministro all’Agricoltura Francesco Lollobrigida, braccio destro della premier, ad esempio, ha già parlato di nuovi poteri per la capitale. Umbria, Molise e Basilicata, invece, da tempo richiedono più consiglieri regionali. Il silenzio, poi, sull’autonomia differenziata vale più di mille parole. Se il super premier è al primo posto dell’agenda della maggioranza, dopo il 25 settembre non si è parlato neanche un secondo del cavallo di battaglia del Carroccio. Secondo qualche mal pensante sarebbe dovuto a precise volontà di via della Scrofa. Fdi, sapendo di avere già il Nord in mano, non sarebbe disposta a cedere il Sud al Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, allo stato primo oppositore dell regionalismo. Il Mezzogiorno, a parte qualche voce isolata, non sembrerebbe ancora ritrovarsi sulla svolta federalista.

Donna, premier, non riformatrice. L’illusione Meloni e l’ennesima sbandata degli intellettuali. Mario Lavia su L’Inkiesta il 4 Gennaio 2023.

La leader sovranista finora si è dimostrata più dirompente a parole che nei fatti. E pur non avendo fatto granché, riceve inviti a fare le riforme senza perdersi in compromessi

L’encomio di Ernesto Galli della Loggia a Giorgia Meloni (Corriere della Sera di ieri) è come la notizia della morte di Mark Twain per il diretto interessato: «Grossolanamente esagerata». In sostanza, lo storico sprona la presidente del Consiglio ad andare avanti grazie alla sua sagacia senza perdersi in compromessi e lungaggini: il che sarebbe anche cosa buona e giusta ma diciamo che è un auspicio che vale sempre, chi si augurerebbe che un capo di governo si impantanasse nella politichetta rinunciando a voltare alto? 

Lasciando da parte considerazioni soggettive dell’autore dell’articolo che in certi passaggi ricorda Pascoli («Una stanca Italia sessista e popolata da vecchi, vedendo seduta là, al centro del banco del governo, quella figura minuta dai capelli biondi, è stata percorsa da un brivido d’emozione nel ritrovarsi governata da una giovane donna, per giunta madre di una bella bambina, moderna e spigliata quanto basta»), sarebbe necessario per l’analisi politica vedere la realtà così com’è, insomma rievocare i fatti, essendo «più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa» (Machiavelli, Il Principe, capitolo XV). 

E seppure sia passato poco tempo dall’insediamento del nuovo governo, non è difficile fare un primo punto della situazione. Prima di tutto, la legge di Bilancio – lo ammette persino Galli della Loggia – ha rappresentato «un episodio goffo e pasticciato», in poche parole un’occasione mancata per dare un minimo di respiro e di prospettiva all’economia italiana, con in aggiunta la pazzesca “dimenticanza” della conferma del taglio delle accise voluta da Mario Draghi che ha già portato la benzina a 2 euro al litro, e giustamente si ironizza sul famoso video meloniano in cui la leader di Fratelli d’Italia definiva le accise «una vergogna» che in caso di vittoria della destra sarebbero state «abolite». 

Secondo, la timidezza (chiamiamola così) della presidente del Consiglio nell’affrontare la questione dei vaccini, anche qui “dimenticati” nella conferenza stampa di fine anno e menzionati solo dopo la sollecitazione del giornalista Lauria di Repubblica. Dimenticanza? No. Ci siamo tutti scordati che un anno fa esatto Meloni andava spiegando che non avrebbe vaccinato la figlia perché la vaccinazione «non è una religione» e che insomma chi l’ha detto che la scienza ha sempre ragione? Certamente avrà cambiato idea ma non fino al punto di dire al Paese una cosa semplice semplice e decisiva: «Vaccinatevi tutti». Ora, ci rendiamo conto cosa significherebbe fronteggiare una nuova ondata di contagi con una presidente del Consiglio quantomeno titubante sull’efficacia dei vaccini? 

Terzo, Galli della Loggia scrive ancora che «l’Italia si aspetta che ella possa darle quella visione e quelle prospettive del futuro che da troppo tempo le mancavano», e però l’unica idea sin qui abbozzata (anzi, riverniciata), quella del presidenzialismo, offre una «prospettiva» che potrebbe rivelarsi inquietante, cioè la spaccatura del Paese sulla forma di governo, con lei a guidare un fronte (come ai bei tempi di gioventù) contro un altro, che non è esattamente ciò che si chiede a un leader che cerchi l’unità del Paese, o della Nazione come piace a dire a lei. 

Infine, lo storico invita Meloni a non lasciarsi «prendere in ostaggio» dalla solita politichetta fatta di compromessi e lottizzazioni, ma peccato che a Palazzo Chigi siano pronte le liste dei promossi e dei bocciati per quanto riguarda i grandi enti nazionali e da lì sia sottilmente partito il lento ma inesorabile allungamento delle mani sulla Rai, dove se ne vedranno di cotte e di crude. 

Forse, in conclusione, è proprio il punto di partenza di Galli della Loggia a essere sbagliato, cioè l’idea che Giorgia Meloni sia una newcomer venuta dalla Luna e non l’ennesima rappresentante politica che con «la sua figura minuta e i capelli biondi» va a chiudere la stagione del più bieco populismo per riaprirne un’altra già letta e riletta in questi decenni, e se questo fosse vero allora il grande equivoco del 25 settembre 2022 starebbe proprio nella percezione della novità laddove di nuovo c’è davvero poco. Ma non è da escludere che agli italiani vada bene così.

Matteo Milanesi per nicolaporro.it il 30 dicembre 2022.

Pci contro Msi. A distanza di trent’anni dalla loro dissoluzione, i due partiti degli “estremi opposti” continuano a rimanere al centro del dibattito politico attuale. Non solo perché, da sinistra, molti analisti hanno utilizzato la vecchia appartenenza studentesca di Giorgia Meloni al movimento di Almirante per screditarla negli anni; ma anche perché la strategia di demonizzazione continua anche da Presidente del Consiglio. 

Spieghiamoci meglio. Nel corso della conferenza di fine anno del premier, un giornalista di Fanpage ha cercato di incalzare la leader di Fratelli d’Italia proprio sulle dichiarazioni di Ignazio La Russa, che ha “festeggiato” l’anniversario della nascita del Msi, datata 26 dicembre 1946. L’idea velata è quella di sempre: cercare di far uscire allo scoperto l’anima “nera”, fascista, reazionaria (e ribadiamo inesistente) del Presidente del Consiglio in carica. 

Eppure, Meloni sottolinea: “Quello sul Movimento sociale italiano è un dibattito che mi ha molto colpito. Credo che il Msi sia un partito che abbia avuto un ruolo molto importante nella storia della Repubblica, quello di traghettare verso la democrazia milioni di italiani usciti sconfitti dalla guerra. È stato il partito della destra repubblicana, pienamente presente nelle dinamiche democratiche di questa nazione, che è arrivato al governo prima del congresso che lo trasformò in An.

È stato un partito della destra democratica, dell’Italia democratica e repubblicana”. Un partito che ha combattuto la violenza politica, extraparlamentare e di estrema destra, contribuendo alle elezioni di Presidenti della Repubblica, e sedendo in Parlamento dal 1948 al 1994. 

Ora, possiamo dire tutto, ma non che si tratti di un movimento eversivo, visto che (come sottolinea giustamente Meloni) si tratta di un partito che ha contribuito per cinquant’anni ad alimentare il dibattito nelle stanze di potere, e che ha rappresentato una fetta (seppur limitata) di popolazione. 

Un dibattito, quello sul fascismo, che riguarda sistematicamente tutti i leader della destra. Nel 2003, per esempio, L’Unità paragonava Berlusconi a Mussolini; ed oggi il pericolo di un’onda nera è stato ampiamente propagandato dalla sinistra più progressista e radical. Guarda caso, però, lo stesso trattamento non riguarda chi, senza neanche troppo nascondersi, si fa immortalare con alle spalle una bandiera rossa, composta da falce e martello: quella del Partito Comunista Italiano. 

È il caso del presidente dell’Emilia-Romagna, nonché candidato alla segretaria del Pd, Stefano Bonaccini, che ha pubblicato sui social una sua foto a Livorno con alle spalle il simbolo del Pci. Si badi bene: qualsiasi leader di sinistra, a nostro parere, può rivendicare la propria appartenenza ideologica con fermezza, senza essere soggetto a censure o criminalizzazioni. 

Nonostante tutto, sorge un grandissimo però: perché La Russa (per citare l’ultimo caso) non può ricordare le proprie origini, che risiedono proprio nel Movimento Sociale Italiano, mentre la sinistra lo può fare con il Pci? Se adottiamo l’equazione “Msi è erede della Rsi”, allora dovremmo dire tranquillamente che il Pci è il diretto erede del comunismo sovietico, e quindi di tutti gli orrori rossi che sono costati la vita a milioni di persone. 

Insomma, è il classico doppio-pesismo politico italiano: alcuni regimi autoritari paiono essere più accettabili rispetto ad altri. Quando, in realtà, rappresentano due facce della stessa medaglia: la coercizione e l’abbattimento di qualsiasi libertà individuale. Forse, a sinistra, dovrebbero tenere a mente l’insegnamento di Margaret Thatcher, la quale dichiarò di disprezzare il fascismo tanto quanto il comunismo, in quanto entrambe ideologie con l’obiettivo di stabilire il primato dello Stato sull’individuo. Eppure, mai e poi mai si sarebbe sognata di censurarli o metterli fuori legge: “Li batteremo sul campo del confronto”, continuava a ribadire la Lady di Ferro. Un messaggio che, con umiltà, rivolgiamo direttamente alla sinistra da bavaglio.

Tutte le domande inevase. Giorgia Meloni fa una conferenza show, ma se la canta e se la suona. Claudia Fusani su Il Riformista il 30 Dicembre 2022

Una maratoneta con notevole capacità di possesso palla e di avanzare nella metà campo avversaria tra un dribbling e un tunnel. Un bel gioco che però non ha fatto la differenza perché alla fine le risposte non sempre sono state esaustive o pertinenti. E più che altro, dopo tre ore tonde di conferenza stampa, restano i proclami di un comizio sviluppato secondo la traccia di ben 43 domande. “E’ Telethon, quando finisce” ha sorriso all’ultimo miglio mentre il presidente dell’Ordine Carlo Bartoli e il presidente della Stampa parlamentare la aggiornavano sulle cinque domande mancanti.

Giorgia Meloni ha dato prova, meglio dire conferma, di una notevole capacità retorica. Lo staff esulta: “Bravissima, molto padrona di tutti i dossier”. Deputati e senatori di Fratelli d’Italia parlano di “Meloni da record, spazzata via l’ennesima bufala delle opposizioni per cui la nostra leader non amerebbe il confronto con la stampa”. E poi il record: tre ore non le aveva mai fatte nessuno. Conte era arrivato a 2 ore e 56 minuti. Il problema è che le risposte sono state spesso evasive e generiche. Le regole d’ingaggio della conferenza stampa, per dare a tutti i giornalisti sorteggiati il tempo di poter fare la propria domanda, escludono l’interlocuzione tra il giornalista e la premier. Ciò significa che se la risposta resta generica non c’è possibilità di renderla specifica e calzante. Quella che segue è quindi una sintesi delle risposte mancate.

La tenuta della maggioranza

Mi fido della mia maggioranza, c’è un buon clima, positivo e una visione comune” ha detto la premier rispondendo alla domanda sulle fibrillazioni e le divisioni all’interno della maggioranza. Risposta parziale e omissiva. Nessun riferimento al fatto che anche giovedì i ministri Matteo Salvini (Infrastrutture) e Matteo Piantedosi hanno dovuto fare più di un passo indietro rispetto al nuovo decreto sicurezza. La Lega voleva un pacchetto unico con dentro le nuove regole per le navi delle Ong, il giro di vite contro gli stalker per provare a gestire l’emergenza femminicidi e contro i minorenni protagonisti delle baby gang che infestano centro e periferie delle città.

La premier ha fatto muro, con il ministro Crosetto e il sottosegretario Mantovano, per evitare l’ennesimo decreto salame che non risponde ai criteri di omogeneità e urgenza. Esattamente come quello contro i rave party su cui le opposizioni stanotte hanno continuato a dare battaglia nel tentativo – disperato – di farlo decadere. Non per questioni ideologiche. Ma perché quel provvedimento, il primo nel governo Meloni, mette insieme le mele con le pere, lo stop alle ultime misure di contenimento del Covid con la stretta sui rave party e le nuove regole sull’ergastolo ostativo. E, soprattutto, perché quel decreto risulta sbagliato e pericoloso oggi che i cinesi sono tornati a viaggiare e stanno portando in giro per il mondo il virus col rischio di nuove possibili varianti.

Allarme Covid e decreto rave

Durante la conferenza stampa la premier è stata sollecitata più volte sul tema virus, vaccini e pandemia. La nuova emergenza cinese ha costretto il ministro della Salute a prendere nuove misure, dall’obbligo delle mascherine negli ospedali e nelle Rsa, ai tamponi obbligatori per chi arriva dalla Cina e isolamento in caso di positività. E tutto questo stride con il decreto che la maggioranza deve convertire entro le 24 di oggi 30 dicembre. Un testo in cui sono stati messi insieme Covid, giustizia e sicurezza.

Sulla nuova emergenza sanitaria ci stiamo muovendo con tempismo, abbiamo chiesto all’Europa di agire insieme e in modo omogeneo per rendere più efficaci le misure”. Non c’è dubbio poi che mascherine e tamponi siano “utili” e per i vaccini (che si era dimenticata di menzionare nella prima risposta sul tema) “il governo ha in piedi una campagna per la vaccinazione di fragili e over 65”. Una campagna che non sortisce grandi effetti se al momento solo il 28 % degli italiani ha la quarta dose e che forse andrebbe potenziata. Sollecitata sulla possibilità di “ragionare” – come chiedono le opposizioni – sulla possibilità di congelare il decreto rave-covid-ergastolo ostativo per non cadere in contraddizione con quanto aveva appena detto su mascherine e tamponi, la premier ha sottolineato un secco no, “significherebbe farlo decadere”.

Ma le cose cambiano e le situazioni anche… “Il decreto stabilisce solo il reintegro in corsia dei medici che non si sono vaccinati e che comunque sarebbero rientrati il primo gennaio”. Falso: il decreto congela le multe per chi non si è vaccinato; limita a cinque giorni l’isolamento che può terminare senza controlli; leva l’obbligo del tampone per entrare in ospedali e Rsa. Nell’insieme, le norme danno un messaggio per cui il Covid è un’emergenza del passato. E’ il paradosso: un decreto smantella le precauzioni; una circolare del ministro ne inserisce altre.

La centralità del Parlamento

Suo cavallo di battaglia quando era all’opposizione, Meloni conferma di non aver cambiato posizione. “Sulla manovra i tempi sono stati stretti e il Parlamento non ha potuto lavorare. Mi dispiace, abbiamo avuto solo due mesi di tempo ma sono fiera del fatto che l’abbiamo approvata anche un giorno prima del previsto. Il prossimo anno andrà sicuramente meglio”. Anche qui le contraddizioni sono evidenti ma non possono essere sollevate. Proprio ieri il governo ha messo la tagliola, ha cioè tagliato i tempi del dibattito parlamentare, sul decreto rave-covid-giustizia. La “tagliola” è la negazione della centralità del Parlamento. Così come il ricorso costante alla decretazione d’urgenza (sono 14 i decreti in due mesi) e al voto di fiducia.

Ma guai a chi tocca il decreto rave. “In quel testo – precisa Meloni – ci sono anche altre norme necessarie contro i rave party rispetto ai quali dovevamo dare un segnale (e da quando si usa un decreto per dare segnali? ndr) e l’urgenza di modifiche all’ergastolo ostativo che se non avessimo proceduto i boss di mafia sarebbe usciti dal carcere”. Falso, anche questo. Nessun boss di mafia esce dal carcere se non viene approvata la riforma dell’ergastolo ostativo. Quindi il decreto in sé oltre che sbagliato e anche la negazione del Parlamento. Ma la conferenza stampa non prevede contraddittorio.

Il miracolo del Pnrr

Sono molto fiera del fatto che abbiamo raggiunto tutti i trenta obiettivi mancanti. La staffetta con Mario Draghi ha funzionato”. Sarebbe stato interessante chiedere che fine hanno fatto le polemiche degli ultimi due mesi in cui alcuni ministri e anche la premier hanno “accusato”  il precedente governo di non aver lavorato bene. Di aver lasciato una situazione confusa. Delle due l’una: o erano esagerate le critiche o il governo è diventato Mandrake.

Buona la seconda par di capire. “Abbiamo centralizzato le competenze in capo ad un solo ministro (Raffaele Fitto che sta facendo un gran lavoro, ndr) che con la sua struttura ha preso il posto della cabina di regia Covid (lapsus, ndr), scusate Pnrr”. Restano i problemi del costo dei materiali e della capacità di spesa. “Dobbiamo semplificare e lo faremo”. C’è da chiedersi a questo punto cosa resta del ruolo di soggetti attuatori di Comuni e Regioni.

Nessun condono”

Molte domande si sono concentrate sulla manovra approvata al Senato un minuto prima dell’inizio della conferenza stampa. Meloni rifiuta l’accusa sugli undici piccoli condoni (“Solo rateizzazioni e la cancellazione delle cartelle sotto i mille erano un costo per lo Stato”) e dice di “non accettare lezioni da chi ha fatto il condono di Ischia e ha fatto uscire i boss dal carcere per il rischio Covid”, cioè Giuseppe Conte. Rivendica che è una legge di bilancio che “redistribuisce alle famiglie più povere, aiuta le aziende che sono le uniche che possono creare lavoro e quindi ricchezza” e che il motto del governo è “non disturbare chi può creare lavoro”. Un fisco “severo ma amico e non nemico” è l’obiettivo della legislatura.

La flat tax a 85 mila euro non discrimina nessuno”. Avanti quindi con la riforma e il taglio del cuneo fiscale. Tutto bello e tutto vero. Peccato che gli undici condoni, tra cui la salva-calcio (“sono società sportive come le altre a cui è stato concesso di rateizzare un debito”) producono un mancato incasso per lo Stato di circa tre miliardi che potevano essere destinati al taglio del costo del lavoro, la cosa che più serve in assoluto. Per creare lavoro. Per combattere le disuguaglianze.

Sanità

Alla domanda cosa pensa di fare il governo per rispondere all’emergenza sanitaria negli ospedali e nei pronti soccorso, la risposta chiara è stata una sola: no al Mes (sanitario). Eppure un milione e mezzo di italiani sono senza medico di base e mancano ventimila medici in corsia. Nella Manovra ci sono solo due miliardi in più di cui 2/3 sono assorbiti dal caro energia. Gli italiani però spendono ogni anno oltre 40 miliardi in sanità privata. I conti non tornano. La premier non risponde.

S’impegna però sull’assunzione del controllo da parte dello Stato della rete Tim. Per l’elezione diretta del Capo dello Stato (“lo faremo, con o senza l’accordo delle opposizioni”) e per la riforma della giustizia. “Faremo la separazione delle carriere e tutto quello che serve, il coraggio non ci manca e il ministro Nordio è bravissimo”.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Totus politicus. Augusto Minzolini il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Era dai tempi di Matteo Renzi che nella conferenza stampa del Premier di fine anno non si vedeva un personaggio "totus politicus"

Era dai tempi di Matteo Renzi che nella conferenza stampa del Premier di fine anno non si vedeva un personaggio «totus politicus». Paolo Gentiloni non è mai stato un leader di partito, Giuseppe Conte nei suoi due governi era più un professore che obbediva agli ordini di Giggino Di Maio prima di emanciparsi e prendersi i 5 Stelle, e Mario Draghi, al di là delle indubbie sensibilità politiche da esponente navigato dell'establishment che tutti gli riconoscono, è sempre stato il «tecnico» con la «T» maiuscola. Con Giorgia Meloni, invece, ritorna in auge la figura del leader «politico» per eccellenza. Quello che arriva a Palazzo Chigi sulla scia di una vittoria elettorale e, a differenza di quello che capita alle riserve della Repubblica chiamate a guidare un esecutivo di emergenza, la sua permanenza nella stanza dei bottoni non ha una scadenza temporale determinata da un'intesa istituzionale, ma si nutre dell'ambizione di durare l'intera legislatura, fino alle elezioni.

Non è un cambiamento di poco conto perché testimonia un ritorno alla normalità per il nostro Paese guidato per un'intera legislatura, quella trascorsa, da personalità di altro tipo che erano arrivate al governo come risultato di alchimie politiche e non sulla base di un chiaro responso delle urne. Un leader politico, infatti, può rispondere a tre ore di domande di fila senza sottoporsi ad equilibrismi, utilizzando un linguaggio diretto. Come pure può usare l'arma della polemica di parte, visto che è l'espressione di una parte («il Qatargate è un socialist job»). Può essere netto sull'Ucraina come sulla politica economica magari sposando una filosofia economica che può star stretta ad una parte della sua maggioranza («lavoreremo sempre dando priorità ai saldi di bilancio»). E, sopratutto, può dare un colore definito al proprio esecutivo dopo gli arlecchinismi dei governi gialloverde o giallorosso o le tinte neutre di quelli d'emergenza («quanto fatto finora è di destra»). E ancora può assumere posizioni corraggiose dall'impronta anti-giustizialista e garantista, appoggiando il ritorno alla prescrizione e ad un uso corretto e limitato delle intercettazioni telefoniche. O legare la sua eredità ad una riforma istituzionale epocale come il semi-presidenzialismo. Infine può anche accettare il «rischio» sula base di una valutazione politica come quella di avere di fronte un'opposizione divisa in tre tronconi («se le regionali saranno un test sul governo? Do per scontato che faremo i conti con il voto»).

Anche perché quando non sei al riparo di maggioranze larghe come premier «superpartes» e non guidi alleanze spurie imposte dalle condizioni date, è ovvio che il governo è sempre una sfida, perché offri una ricetta economica, una visione del mondo, una filosofia ad un Paese che è libero di giudicarti, di lasciarsi convincere o no. È il rischio della Politica. Bentornata. Finalmente.

Da donna porto concretezza”. Cosa ha detto Meloni nella conferenza di fine anno: presidenzialismo, Msi, covid e guerra in Ucraina. Redazione su Il Riformista il 29 Dicembre 2022

Per Giorgia Meloni è stata la prima conferenza stampa di fine anno a tre mesi dalla vittoria elettorale e a due dal suo ingresso ufficiale a Palazzo Chigi. “Io prendo in considerazione ipotesi non essere eletta tra 5 anni, quello che non prenderei in considerazione è di non fare quello che ritengo giusto fare. Sono donna e porto concretezza”, ha detto. Una conferenza stampa da record durata quasi tre ore: Meloni ha risposto a 45 domande dei giornalisti. In più occasioni ha ironizzato sulla durata della conferenza stampa. Un cronista, a circa due ore dall’inizio dell’incontro con la stampa, la saluta con un “buon pomeriggio”. E la premier replica divertita: “In effetti, che è Telethon?”. Più avanti, poco prima della fine, un’altra frase quasi rassegnata: “Altre domande? Al vostro buon cuore…Ma c’è una fine a tutto ciò? O andiamo avanti sino a quando rimane ancora qualcuno?”.

Pochi minuti prima che iniziasse la conferenza stampa il Senato ha dato il via libera alla sofferta legge di bilancio 2023. Dice che è “figlia di scelte politiche”, ribadendo di fidarsi dei suoi alleati. Il braccio di ferro al governo? “È normale che ci siano sfumature diverse. Io mi fido dei miei alleati. Abbiamo approvato la legge di bilancio, che non era facile”, dice poi la premier commentando il percorso che ha condotto alla complessa approvazione della prima manovra della XIV legislatura. “Quando non c’è approccio pregiudiziale da parte dell’opposizione, possono arrivare anche buone idee. Ritengo il dibattito parlamentare prezioso. Avrei voluto dare più tempo alla legge di bilancio. Ma senza fare polemiche, il precidente governo ha depositato la legge di bilancio l’11 novembre ed era in carica in febbraio. Nonostante questo, all’epoca i tempi del dibattito parlamentare furono sicuramente più strozzati dei nostri. Non rinnego di aver detto che non avrei votato il Pnrr, quando ero all’opposizione, perché non l’avevamo letto in quanto ci è stato consegnato un’ora prima. Chi dell’opposizione mi ha chiesto confronto sulla manovra ha avuto la mia accoglienza”.”Il prossimo anno lavoreremo in anticipo e depositeremo” in Parlamento “la legge di bilancio nei tempi previsti“, ha aggiunto.

Ha detto che il presidenzialismo è una sua priorità. Secondo la Premier una riforma delle istituzioni “che dia stabilità e governi” come specchio delle indicazioni popolari “può solo fare bene all’Italia”, chiarisce Meloni, ribadendo di voler fare una “legge ampiamente condivisa e per questo siamo partiti dal semipresidenzialismo alla francese ma di modelli ce ne sono diversi e si possono anche inventare. Ma bisogna capire la volontà”.

Sulla guerra in Ucraina ha detto che l’”Italia è pronta” a “farsi garante di un eventuale accordo di pace. È la ragione per la quale penso di recarmi a Kiev prima della fine di febbraio. Perché credo che il 24 di febbraio” ad un anno dall’inizio della guerra in Ucraina “si possa fare una iniziativa. Di questo sto parlando con il presidente ucraino Zelensky. Fin quando non maturano le condizioni per una pace” occorre “continuare a sostenere l’Ucraina”. A quanto ammonterà il contributo dell’Italia alla Nato per le spese militari? “Dipende dalle condizioni che ci circondano quindi non si possono dare ore numeri e tempistiche”.

Dice di sentire il peso del paragone con il suo predecessore Mario Draghi ma che la staffetta del passaggio di consegne è andata bene. “Lo sento chiaramente e mi fa piacere. Misurarmi con persone capaci e autorevoli è stata la sfida di tutta la mia vita. A me non è mai piaciuto vincere facile, mi stimolano le persone capaci e autorevoli, e Draghi lo è a livello nazionale e internazionale. Mi rendo conto dell’eredità e anche dei paragoni che si possono fare, lo trovo affascinante”. Questo “deve spingere me e tutto il governo che si può fare bene, non dico meglio, non lo direi mai. È una cosa che non mi dispiace pur sentendo questo peso di un paragone continuo e reiterato. Mi pare che rispetto alle 10 piaghe d’Egitto che si diceva sarebbero arrivate al cambio di governo in fin dei conti ancora stiamo difendendo questa nazione nel migliore dei modi”.

Ha risposto anche sulla polemica sul tweet di Ignazio La Russa e Isabella Rauti che hanno annunciato di partecipare alle celebrazioni per la fondazione del Movimento Sociale Italiano. Quello sul Msi “è un dibattito che mi ha molto colpito. Credo che il Msi sia un partito che abbia avuto un ruolo nella storia della Repubblica, il ruolo di traghettare verso democrazia milioni di italiani che erano usciti sconfitti dalla guerra, un partito della destra repubblicana, che ha partecipato all’elezione dei presidenti della repubblica e ha avuto un ruolo molto importante contro le violenze e il terrorismo”.

Francamente non capisco perché qualcosa che era perfettamente presentabile 10, 20, 50 anni fa tanto da partecipare all’elezione di Presidenti della Repubblica, debba diventare impresentabile oggi. Non mi torna il gioco al rilancio eterno, per cui si deve sempre cancellare di più. Il Msi è sempre stato chiarissimo sulla lotta all’antisemitismo, ha fatto il suo percorso. Oggi alcuni esponenti del governo, delle massime cariche dello Stato, vengono da quell’esperienza. Ci sono arrivati con un voto democratico. Vuol dire che la maggioranza degli italiani non considerava quella storia impresentabile, e penso che anche questo si debba rispettare”.

Ha cercato di tranquillizzare tutti sulla situazione del Covid in Italia soprattutto dopo al diffusione delle notizie allarmanti dalla Cina. “Il governo si è mosso immediatamente” e poi chiede che “i tamponi per chi arriva da Oriente siano una misura presa a livello Ue”. E poi: “I primi casi sequenziati sono varianti Omicron già presenti in Italia. Per come la vedo io credo che la soluzione siano sempre i controlli, continuano ad essere utili tamponi e mascherine, la privazione della libertà che abbiamo conosciuto in passato non credo sia efficace, lo dimostra quanto accaduto in Cina. Dobbiamo lavorare sulla responsabilità dei cittadini piuttosto che sulla coercizione”. Fermo restando che “oggi la situazione è sotto controllo”.

E difende la revisione sul Reddito di Cittadinanza tirando dritto oltre le polemiche: “Il lavoro lo creano le aziende, lo Stato non può abbattere la povertà per decreto”, dice. E sottolinea “la misura della decontribuzione totale per chi assume a tempo indeterminato”. E poi: “Dobbiamo comunque considerare che il mercato del lavoro è cambiato”, ma “bisogna evitare che il lavoro sia fatto in nero. Occorre diversificare le tipologie contrattuale facendo i controlli per evitare distorsioni”, spiega rilanciando il sistema dei voucher, “alcune degenerazione del passato oggi sono più difficili”. La premier immagina “un meccanismo così: quando ci si reca ad un centro per l’impiego il soggetto deve essere in grado di indicare il lavoro e chi pensa alla formazione”, sottolinea. “Se il tema della congruità è ‘io non voglio accettare un lavoro sottopagato’ sono d’accordo, ma se il tema della congruità è ‘non considero il lavoro all’attesa dei miei studi’ allora no. Tutti vorremmo trovare il lavoro dei nostri sogni ma non capita a tutti”, affonda Meloni. Riguardo la riforma fiscale e il taglio del costo del lavoro, il capo del governo afferma poi che “l’obiettivo della legislatura è di tagliare di 5 punti il cuneo fiscale”.

Fa un passaggio anche sulla delicata questione della giustizia: “La mia carriera politica è stata ispirata a Paolo Borsellino. Sono stato contenta che il mio provvedimento è stato sulla mafia, salvando il carcere ostativo. Mi dispiace aver visto un’ opposizione così dura su un provvedimento del genere, si è tentato di evitare la conversione di quel decreto”. Riguardo la riforma a cui sta lavorando il Guardasigilli Carlo Nordio, l’obiettivo del governo “non è privare la magistratura dello strumento delle intercettazioni” ma “occorre evitare l’abuso ed evitare il cortocircuito nel rapporto tra media e intercettazioni senza alcuna rilevanza penale finite sui giornali solo per interessi politici o altro. Non credo sia giusto in uno stato di diritto. Abusi ci sono stati e vanno corretti”. E poi rilancia “il tema della separazione delle carriere”.

Parole dure sul Qatargate: “Una cosa mi ha molto innervosito: molti colleghi internazionali definiscono questi fatti con la locuzione “italian job”, come se fosse una macchia sulla nostra nazione. La vicenda non riguarda solo italiani, anche belgi, greci e esponenti di altre nazioni. Semmai è un tema di partito, un “socialist job”. Se avesse riguardato i conservatori sarebbe stato un “conservative job”. Riguarda una famiglia politica ma non l’Italia. Va difeso l’orgoglio e l’onore della nazione che rappresento dagli attacchi. Le responsabilità sono trasversali non fra i partiti ma fra le nazioni”.

Infine si è espressa anche sulla situazione in Iran: quello che sta accadendo “per noi è inaccettabile e non intendiamo tollerarlo oltre, abbiamo sempre avuto un approccio dialogante ma, se queste repressioni” del regime “non dovessero cessare e non si dovese tornare indietro, l’atteggiamento dell’Italia dovrà cambiare, con quale provvedimento dovrà essere oggetto di una interlocuzione a livello internazionale”.

E ha concluso con uno slogan ottimista che ripete da giorni: “Mi piacerebbe lasciare una nazione orgogliosa, ottimista, tutte cose che ci mancano. Quando si va all’estero ci si rende conto di quanto ci sia grande voglia di Italia, di quanto siamo stimati. L’unico posto dove non c’è stima per l’Italia è all’interno dei nostri confini. L’ottimismo è l’altra cosa. Bisogna dare la ragione per non mollare e si riesce se sai che il governo sta facendo quello che fa perché è giusto”.

Tra Cina, manovra e domande a raffica: la conferenza della premier Meloni. CORNAZ0 il 29 dicembre 2022 su Il Corriere Nazionale.  

Dalla Cina alla guerra in Ucraina, la premier Meloni fa il punto sui primi mesi a capo del Governo e sugli scenari per il 2023. Alla conferenza record di domande

Prima conferenza stampa di fine anno per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Dalla Nuova Aula dei Gruppi parlamentari, la premier traccia un bilancio dei primi mesi del Governo e analizza gli scenari per il 2023.

In caso di una nuova emergenza covid con i casi provenienti dalla Cina “credo che la soluzione siano sempre i controlli, quindi tamponi e mascherine, ma il modello di privazione delle libertà conosciuto in passato non mi è parso così efficace e lo dimostra bene il caso cinese”, ha detto la premier Giorgia Meloni durante la conferenza stampa di fine anno. “Per il momento stiamo affrontando la questione in coerenza con quanto avevamo chiesto di fare in passato. Come ad esempio il tampone per chi arriva dalla Cina ma questa misura rischia di essere non efficace se non viene presa a livello europeo. Il ministro Schillaci mi dice che i casi rilevati sono varianti omicron già presenti in Italia e questo dovrebbe essere tranquillizzante. La situazione è quindi sotto controllo”.

IL RECORD DI DOMANDE

Quarantacinque domande e tre ore di conferenza stampa. Giorgia Meloni batte il record di Mario Draghi (43 domande) e Giuseppe Conte (37) nel tradizionale – e lungo – incontro di fine anno con la stampa. “Ma quanto dura ‘sta cosa?“, ha chiesto più o meno alla 30esima domanda. Poi ha portato le mani alle orecchie e ha mimato i partecipanti ai quiz di Mike Bongiorno. “Le so tutte, le so tutte…”.

Alla fine le domande sono state quarantacinque. Lasciando l’auletta dei gruppi parlamentari, Meloni ha commentato sorridente al cronista della Dire: “Poi dicono che non rispondo alle domande…“. Curiosità spicciola. Per tutta la durata della conferenza stampa, tra appunti e dossier, la presidente del Consiglio ha tenuto con sé anche un rosario azzurro.

MELONI: VACCINO? MIO INVITO PER ANZIANI E FRAGILI, ALTRI CHIEDANO AL MEDICO

Abbiamo fatto una campagna per invitare alla vaccinazione gli anziani e i fragili, che sono le categorie più a rischio per cui mi sento di fare un invito più deciso. Gli altri si rivolgano al medico che ne sa più di me”.

MELONI: PENSO DI ANDARE A KIEV ENTRO FINE FEBBRAIO

Penso andrò a Kiev prima della fine di febbraio”.

COVID, MELONI: OSTRUZIONISMO OPPOSIZIONI? REINTEGRO NO VAX SCATTA COMUNQUE

In relazione al Covid “il decreto rave prevede una norma che riguarda il reintegro dei medici non vaccinati che anticipa un reintegro che vale comunque per domani. Si figuri su cosa l’opposizione sta facendo ostruzionismo…”, ha risposto Giorgia Meloni a proposito dell’approvazione del decreto rave, dopo le proteste delle opposizioni.

DL RAVE, MELONI: NORMA GIUSTA E NECESSARIA, IMPORTANTE DARE IL SEGNALE

Il decreto rave “è una norma giusta e necessaria. È importante dare il segnale”.

MELONI: LA NATO SIA BASATA SU COLONNA EUROPEA E SU COLONNA USA CON PARI DIGNITÀ

Non sono d’accordo sul modello federale di Unione europea. L’Europa che può dare soluzioni migliori è un’Europa di stampo confederale, cioè con la condivisione di alcune materie piuttosto che la cessione di sovranità”, ha detto Giorgia Meloni, rispondendo alla domanda dell’agenzia Dire. “Sulle grandi materie – ha aggiunto- è più facile trovare soluzioni comuni e il tema della difesa è tra questi. Alleanza atlantica e difesa europea possono essere cose complementari. Nella Nato c’è bisogno però di una presenza europea più organizzata, c’è bisogno di una colonna europea e una americana, con pari dignità”.

MELONI: MI FIDO DEGLI ALLEATI, CLIMA MAGGIORANZA POSITIVO

Mi fido dei miei alleati di governo. Al di là dei dibattiti naturali all’interno di una maggioranza composta da più partiti, c’è una visione comune. Nei programmi dei singoli partiti sicuramente ci sono sfumature diverse, ovvio ci sia un dibattito ma poi contano i fatti. Il clima è assolutamente positivo nella maggioranza”.

MELONI: DONNE CANDIDATE A SEGRETERIA PD? HO DIMOSTRATO CHE SI PUÒ FARE

Sono contenta del fatto che ci siano donne che corrono alla guida del Pd forse anche perché ho dimostrato che si può fare”.

DONNE, MELONI: COMPETIZIONE È TALE SOLO SE NESSUNO TI REGALA NULLA

Ci sono cose che noi donne abbiamo salutato come vittorie, secondo me non lo erano. La competizione è tale se competo a 360 gradi, vuol dire che nessuno mi deve regalare nulla”.

MELONI: L’ITALIA NON ACCEDERÀ MAI AL MES FINCHÈ IO CONTO QUALCOSA

Atteso che l’Italia non accederà mai al Mes finché io conto qualcosa, ma temo che anche altri Paesi non accederanno. Temo che quel fondo non verrà utilizzato perché le condizionalità sono troppo stringenti”.

MELONI: STOP REPRESSIONE IN IRAN O L’ATTEGGIAMENTO DELL’ITALIA CAMBIERÀ

Sono rimasta colpita dalla storia della campionessa di scacchi iraniana che ha partecipato al mondiale togliendosi il velo. Noi siamo abituati a gesti simbolici che però non hanno conseguenze gravi. Ho concordato con il ministro Tajani sulla convocazione dell’ambasciatore iraniano, per dirgli che quello che sta accadendo è inaccettabile e che non accettiamo tollerarlo oltre. Se non dovessero cessare le repressioni e se non si torna indietro sulla pena di morte a degli innocenti il nostro atteggiamento cambierà e su come cambierà sarà oggetto di una interlocuzione internazionale”.

MELONI: PER ME BLOCCO NAVALE NON È ‘GUERRA’ AI MIGRANTI, È UNA MISSIONE UE

Io non ho parlato del blocco navale, per come molti di voi giornalisti lo hanno raccontato. Io non intendo il blocco navale contro la volontà dei paesi del nord Africa e poi ‘scateniamo la guerra’. Il blocco navale per come lo intendo io è una missione europea”.

MELONI: CREARE LE CONDIZIONI PER ASSUMERE, IN ITALIA NON SI È FATTO

Creare le condizioni per migliorare la qualità del lavoro è materia che riguarda soprattuto il tema della crescita, bisogna mettere le persone in condizioni di assumere, questo avviene quando l’economia è libera di operare e la politica fa del suo meglio per favorire chi crea ricchezza e lavoro, non è quello che sempre l’Italia ha fatto, ha lavorato per rappresentare più un limite che uno stimolo alla ricchezza”.

MELONI: IL LAVORO NON LO CREA LO STATO, POVERTÀ NON SI ABOLISCE PER DECRETO

In passato è stato detto che il lavoro si creava per decreto e la povertà si aboliva per decreto ma non è così, non è lo Stato che genera lavoro”.

MELONI: MEGLIO VOUCHER CHE LAVORO IN NERO, BASTA RIGIDITÀ

La vicenda voucher riguarda alcune tipologie specifiche di lavoratori stagionali e credo sia meglio normarlo che rischiare che quel lavoro sia fatto in nero, la eccessiva rigidità ha provocato aumento di lavoro sommerso”.

MELONI: STAFFETTA HA FUNZIONATO, CON NOI CENTRATI 30 OBIETTIVI DEL PNRR SU 55

Sono contenta che l’Italia sia riuscita a raggiungere tutti e 55 gli obiettivi previsti per richiedere la tranche di 19 miliardi di euro. Quando siamo arrivati erano stati conseguiti 25 obiettivi su 55, quindi abbiamo lavorato per terminare gli altri 30. Direi che questa staffetta ha funzionato”.

PNRR. MELONI: ORA COMINCIA FASE PIÙ DIFFICILE, OBIETTIVI DIVENTINO CANTIERI

Ora si entra nella fase difficile del Pnrr. Finora servivano programmazione e riforme, ora arriva la parte molto più complessa perché questi obiettivi devono diventare cantiere“.

MELONI: PRESIDENZIALISMO PRIORITÀ, GIÀ AVVIATE CONSULTAZIONI

Confermo che il presidenzialismo è una delle mie priorità è un obiettivo a cui tengo particolarmente. Credo che possa fare bene all’Italia una riforma che consenta di avere stabilità e governi frutto dell’indicazione popolare. Il semipresidenzialismo alla francese è il modello dove c’era maggiore convergenza, il concetto è che vorrei fare una riforma il possibile condivisa. Di modelli ce ne sono tanti addirittura se ne potrebbero inventare. Non ho pregiudizi ma la riforma la voglio fare”, ha detto la premier durante la conferenza stampa di fine anno.

Il ministro Casellati ha già avviato le sue consultazioni, parlando con i partiti della maggioranza e a gennaio parlerà con l’opposizione. Non escludo iniziative del governo ma se ci fosse la disponibilità a livello parlamentare non avrei preclusioni, ma non sarò sprovveduta da non capire atteggiamenti dilatori. Vorrei lasciare come eredità di questa esperienza istituzioni più stabili”, ha aggiunto.

MELONI: INDUSTRIALI SANNO CHE GOVERNO È AMICO DELLE AZIENDE

Gli industriali hanno ampiamente compreso che il governo è amico di chi produce, amico delle aziende, vanno ascoltate le associazioni, come i sindacati sapendo che sono portatori di un interesse e noi dobbiamo tenere insieme il quadro generale e i saldi”.

MELONI: IN RIFORMA TAGLIO CUNEO FISCALE E VALUTAZIONE CARICHI FAMILIARI

Sul tema della riforma fiscale andremo avanti secondo direttrici già visibili in manovra finanziaria. La grande questione su cui si deve muovere la riforma fiscale è il taglio del cuneo fiscale. Su questo andremo avanti. Il secondo grande obiettivo è una tassazione che tenga conto della composizione del nucleo familiare, del numero di figli a carico”.

MELONI: CON LA FLAT TAX NESSUNA DISCRIMINAZIONE

Con la flat tax “non c’è nessuna discriminazione”, ha dichiarato la presidente del Consiglio. “Il lavoratore autonomo non ha nessuna delle tutele, giuste, che vorremmo anche per gli autonomi, dei dipendenti”, ha aggiunto.

MELONI: NO CONDONI MA PREVISTA RATEIZZAZIONE CARTELLE

Non ci sono condoni nella manovra, c’è solo una norma che chiede a tutti di pagare il dovuto, consentendo una rateizzazione. Le uniche cartelle che abbiamo stralciato sono quelle vecchie di sette anni e questo conviene allo Stato, perché è più costoso riscuoterle”.

MELONI: SE PROPOSTE UTILI PER LA MANOVRA DALLA OPPOSIZIONE NON RIFIUTO PER PRINCIPIO

Senza fare polemica, ricordo che il precedente governo che stava lì da febbraio ha depositato la legge di bilancio l’11 di novembre, noi il 29 novembre ma il governo stava li’ dal 22 di ottobre. Tra i due chi ha strozzato di piu’ il dibattito?”, si chiede la presidente del consiglio Giorgia Meloni in conferenza stampa. “Per me quando arriva una proposta utile dall’opposizione, non ho grandi ragioni per rifiutarla per principio. Chi mi ha chiesto un confronto sulla manovra l’ho ricevuto…”.

MELONI: CON TETTO PREZZO GAS POTREMMO LIBERARE ALTRE RISORSE

Oggi i provvedimenti di sostegno all’energia costano 5 miliardi al mese. Il tetto al prezzo del gas cambia il quadro. Se così fosse confermato, parte di quelle risorse potrebbe liberarsi per altre misure”.

MELONI: RISOLVENDO COLLO BOTTIGLA GAS OPPORTUNITA’ PER CITTA’ SUD

Per quel che riguarda le strozzature sulla dorsale gas adriatica, “quando avremo risolto il bottleneck nel Centro Italia ciò comporterebbe per l’Italia la possibilità di valorizzare e implementare anche diverse città del Sud Italia, anche sul tema dell’approvvigionamento gas e dei gasdotti”. Città “che sarebbero più che contente di poter avere sviluppo affrontando una questione che per l’Italia e l’Europa è assolutamente strategica”.

MELONI: ITALIA PUÒ ESSERE PORTA D’INGRESSO DI ENERGIA PRODOTTA IN AFRICA

Con un po’ di risorse spese bene, anche nel nostro Pnrr, si può ragionare con il Nord Africa, ma non solo con il Nord Africa, per produrre l’energia che serve diversificando le fonti di approvigionamento e fare dell’Italia la porta dell’ingresso di questa energia“, ha detto la presidente del Consiglio. Per Meloni questo fa parte di un “piano Mattei per l’Africa“, in “un approccio non predatorio” che ha caratterizzato l’Italia. “Noi non andiamo per portare via qualcosa. Ma per lasciare qualcosa”, ha detto Meloni.

MELONI: RISPETTIAMO LA BCE, MA MEGLIO EVITARE SCELTE PEGGIORATIVE

La Banca centrale europea ha una sua autonomia che rispettiamo ma ora sarebbe meglio evitare di fare scelte peggiorative, sarebbe anche utile gestire bene la comunicazione sulle scelte che si fanno”.

MELONI: L’ITALIA PUÒ GIOCARE UN RUOLO DA PROTAGONISTA NEL MEDITERRANEO

L’Italia può giocare un ruolo da protagonista nel Mediterraneo”.

MELONI: RIFORMA DEL CATASTO? DA QUESTO GOVERNO MAI AUMENTO DELLE TASSE SULLA CASA

Si può fare una mappatura per migliorare la conoscenza delle costruzioni italiane. Ma da questo governo non partirà mai un aumento della tassazione sulla casa, in particolare sulla prima casa che io considero un bene sacro, non pignorabile”.

MELONI: LE REGIONALI SONO ANCHE UN TEST POLITICO DEL GOVERNO

Le elezioni regionali sono anche un test politico. Il modo migliore per fare campagna elettorale in questo senso è fare bene il proprio lavoro”.

MELONI: NON GARBATO CHI OCCUPÒ SPAZI MACCHINA PUBBLICA PRIMA DI MIO GOVERNO

Non ho apprezzato che nel passaggio di consegne di governo qualcuno si adoperasse a coprire gli spazi nella macchina pubblica. Non l’ho trovato garbato. Alcuni, prima di andarsene, hanno pensato come assumere persone”, ha spiegato Meloni. “Voglio sperare sia stato fatto per dare una possibilità in più a chi ha lavorato con te, piuttosto che per creare problemi”, ha aggiunto.

MPS. MELONI: AL LAVORO PER USCITA ORDINATO DELLO STATO

Credo che occorre lavorare per favorire un sistema bancario che non ripeta gli errori del passato, siamo al lavoro sul dossier di Monte dei Paschi di Siena, decine di miliardi spese a carico dei contribuenti. Stiamo lavorando per un’uscita ordinata dello Stato”.

PA, MELONI: SERVE PROFONDA REVISIONE LEGGE BASSANINI

Credo serva una profonda revisione della legge Bassanini. Se ho una responsabilità, allora ce l’ho nel bene e nel male”.

MELONI: ANDARE FINO IN FONDO AL QATARGATE SENZA FARE SCONTI

Su questa questione si deve andare fino in fondo senza fare sconti. Perché il rischio è che alcune istituzioni siano troppo permeabili agli interessi”.

MELONI: QATARGATE NON È ITALIAN JOB, PIUTTOSTO SOCIALIST JOB

Mi ha innervosito che alcuni colleghi internazionali definiscano questi fatti con la locuzione ‘italian job’, come fosse una macchia sul nostro paese, ma la vicenda non riguarda solo italiani, riguarda un solo partito questo sì, allora forse socialist job“, ha dichiarato la premier in rifermento al Qatargate. “È un tema che riguarda sicuramente una famiglia politica, ma non l’Italia, come se l’Italia fosse il grande corruttore d’Europa”, ha aggiunto.

MELONI: RIFORMA DELLA GIUSTIZIA È PRIORITÀ, NORDIO OTTIMO MINISTRO ANDRÀ AVANTI

La riforma della giustizia è una priorità per cui serve un governo coraggioso e deciso”, qualità “che non ci mancano. La materia è delicata e maneggiata con molta cura ma abbiamo scelto un ottimo ministro della Giustizia, coadiuvato dai partiti della maggioranza. Anche lui è molto deciso ad andare avanti”.

 MELONI: PRESCRIZIONE FONDAMENTO DELLO STATO DI DIRITTO

La prescrizione rimane uno dei fondamenti dello Stato di diritto o si rischia di avere un sistema con indagati e imputati a vita”, ha detto il Consiglio. “Il Parlamento ha presentato un odg per chiedere il ritorno della prescrizione a come era prima del ministro Bonafede, il governo ha dato parere favorevole perché ci sembra una indicazione di buonsenso“, ha aggiunto.

MELONI: HA BISOGNO DI UN TAGLIANDO, CI LAVOREREMO NEI PROSSIMI MESI

Nei prossimi mesi lavoreremo per mettere a punto la riforma della Giustizia, col tema anche della separazione delle carriere. La Giustizia ha bisogno di un tagliando”.

MELONI: LE INTERCETTAZIONI SONO UNO STRAORDINARIO STRUMENTO MA LIMITARNE ABUSO

Le intercettazioni sono uno strumento straordinario, non intendiamo privare la magistratura di questo. Ma dobbiamo limitare l’abuso ed evitare un cortocircuito che c’è stato molto spesso”.

MELONI: BATTAGLIA PER LEGALITÀ A 360 GRADI, IO ISPIRATA DA BORSELLINO

La mia carriera politica è ispirata a Borsellino, lo confermo. La battaglia per la legalità contro la mafia sarà a 360 gradi”.

DIFESA, MELONI: ITALIA FARÀ LA SUA PARTE SU IMPEGNO 2% PIL

Il 2% del Pil investito per la Difesa è un impegno assunto con la Nato che tutti cercano di rispettare il più possibile. Il tema è che la libertà delle Nazioni ha un costo, se appalti la tua sicurezza a qualcuno devi sapere che quel qualcuno non lo farà gratis. L’Italia sta facendo e farà la sua parte, lo farà per essere credibile”.

MELONI: DALLA RUSSIA UNA GUERRA INACCETTABILE, FERMI L’AGGRESSIONE

Il principio che sta facendo passare la Russia per cui chi è militarmente più forte può invadere il suo vicino è inaccettabile, spero che prima o poi il governo russo si renda conto dell’enorme errore che sta facendo e decida si fermare questa inaccettabile guerra di aggressione all’Ucraina”.

UCRAINA. MELONI: SCELTE GOVERNO RUSSO NON RICADANO SUL SUO POPOLO

Confermo che i rapporti anche culturali con la Russia sono solidi e antichi, per questo ho difeso la scelta della Scala di Milano di dedicare la prima a un’opera russa. Non credo che le scelte del governo debbano ricadere sul popolo russo”.

MELONI: POLITICA FUORI DA AULA? NO, DAI DOCENTI

Scorporare la scuola dalla politica? Non sarei d’accordo se il ministro Valditara avesse detto così, ma si riferiva all’utilizzo della scuola come luogo dell’indottrinamento politico da parte non di chi la frequenta ma di chi ci lavora. Io di questo ne sono stata vittima da ragazza per il fatto che facevo politica e questo credo che non sia giusto. Bisogna fare attenzione all’utilizzo che a volte si fa dell’insegnamento”.

MELONI: SENTO IL PESO DELL’EREDITÀ DI DRAGHI, MI SPINGE A FARE MEGLIO

Sento il peso” dell’eredità di Mario Draghi “e mi fa piacere”, dice la presidente del Consiglio. La premier ricorda: “Misurarmi con persone capaci e autorevoli è stata la sfida di tutta la mia vita. Io invidio quelli che si divertono a essere qualcuno, vincendo facile. A me non piace, a me piace lo stimolo. Draghi è una persona di grande autorevolezza a livello internazionale. Anche a livello dei paragoni, lo trovo affascinante e mi spinge a dimostrare che si può fare bene, pur sentendo questo peso perché il paragone è continuo e reiterato. Rispetto alle ’10 piaghe d’Egitto’ che sarebbero arrivate tra vecchio e nuovo governo, stiamo ancora difendendo questa nazione nel migliore dei modi”.

MELONI: SUL PATTO DI STABILITÀ NO ALLE VECCHIE REGOLE, CONCENTRARSI SULLA CRESCITA

Sul patto di stabilità, dalle prime interlocuzioni in Ue, siamo tutti d’accordo sul fatto che non si possa tornare alle regole precedenti. Il nuovo patto di stabilità credo che debba essere più concentrato sulla crescita. La mia proposta è separare la spesa corrente dagli investimenti”.

CALCIO, MELONI: NIENTE REGALI, SOCIETÀ PAGANO IL DOVUTO MA A RATE

Regali alle società di calcio? Il governo precedente aveva sospeso i pagamenti dovuto dalle società sportive, non di calcio. Abbiamo ereditato questa situazione e abbiamo deciso di applicare a questa fattispecie le stesse regole per gli altri contribuenti: ‘mi dai il dovuto con la possibilità della rateizzazione e una maggiorazione del 3%’. Gridano allo scandalo, ma allora perché sono stati sospesi i pagamenti?”, domanda la premier. “Se le società non dovevano essere aiutate – ha continuato – non si dovevano nemmeno sospendere i pagamenti. Tra l’altro, chi accede a questa possibilità, deve comunque dare subito le prime tre rate e applicare le maggiorazioni. Non regaliamo nulla”.

TIM, MELONI: GOVERNO VUOLE CONTROLLARE LA RETE E MANTENERE I LIVELLI OCCUPAZIONALI

La natura di Tim, società privata e quotata, richiede molta prudenza e riservatezza. Confermo che questo governo ha il duplice obiettivo di assumere il controllo della rete, che è strategica, e di lavorare il più possibile per mantenere i livelli occupazionali. Il resto lo lasciamo alla dinamica del mercato, ma su come ci si arriva mi si consenta di essere prudente”.

EXPO 2030, MELONI: SAREBBE GRANDE OCCASIONE, NON DIAMOCI PER VINTI

Expo 2030? Da italiana e da romana dico che sarebbe una grande occasione. In passato sono stata polemica con chi diceva che Roma non ha gli anticorpi per i grandi eventi. Quello che ho fatto finora è segnalare questo interesse ai moltissimi leader internazionali incontrati e parliamo di 30-40 capi di governo. Non posso garantire come andrà a finire, ho iniziato a lavorarci un po’ tardi ma ce la mettiamo tutta, non ci darei per vinti”.

MELONI: IRRAGIONEVOLE STOP UE NEL 2035 PER I MOTORI A COMBUSTIONE

L’addio ai motori a combustione interna fissato dall’Unione europea al 2035 “no, non lo considero ragionevole. Lo considero profondamente lesivo del nostro sistema produttivo. Mi pare che questa sia materia su cui ci sia una convergenza abbastanza trasversale in Italia, intendo approfittarne per porre la questione con forza”.

MELONI: IL GIORNALISMO È LA MIA PROFESSIONE, CI TORNERÒ DOPO LA POLITICA

Da iscritta all’ordine dei giornalisti considero che un giorno tornerò alla mia professione. Ho sempre pensato che la politica fosse una fase di passaggio”.

GIORNALISMO, MELONI: POSSIBILE INIZIATIVA DEL GOVERNO SU TEMI NON AFFRONTATI

Sarò molto contenta di incontrare il presidente dell’Ordine dei giornalisti per approfondire temi come questi e può essere anche una iniziativa di governo ad affrontare materie non affrontate nei decenni”.

MELONI: QUI NON PER SOPRAVVIVERE, VOGLIO LASCIARE NAZIONE ORGOGLIOSA E OTTIMISTA

Tutto quello che abbiamo fatto è stato di destra altrimenti non lo avremmo fatto. Il mio atteggiamento non è quello di sopravvivere. Per essere fiero di quello che hai fatto devi essere coerente con quello in cui credi. Rivendico quello che abbiamo fatto finora. Mi piacerebbe lasciare una nazione orgogliosa, vorrei lasciare una nazione ottimista. Cose che ci mancano”.

Alfredo Mantovano.

Serietà e riserbo: Alfredo Mantovano “uomo ombra” di Giorgia Meloni. Lontano dalle polemiche, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è il motore invisibile del Governo. Francesco Damato su Il Dubbio l'1 settembre 2023

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e segretario dello stesso Consiglio, che lo nomina nella sua prima seduta, è sempre contato più di un ministro e di un vice presidente del Consiglio per il rapporto fiduciario che lo lega al capo del governo. E per il filtro che costituisce su ogni documento che arriva ed esce come provvedimento da Palazzo Chigi, o arrivava ed usciva dal Viminale quando era quella la sede anche del governo, oltre che del Ministero dell’Interno.

Storiche sono rimaste le figure dei sottosegretari, alcuni dei quali destinati poi a scalare la politica, Paolo Cappa e Giulio Andreotti con Alcide Gasperi, Mariano Rumor e Umberto delle Fave con Amintore Fanfani, Oscar Luigi Scalfaro con Mario Scelba, Angelo Salizzoni con Aldo Moro, Antonio Bisaglia e Adolfo Sarti con Rumor, Franco Evangelisti con Andreotti, Giuliano Amato con Bettino Craxi, Gianni Letta con Silvio Berlusconi. Che, senza farselo imporre da Scalfaro, come racconta invece una leggenda, si scelse di sua spontanea volontà nel 1994 l’ex direttore del Tempo poi entrato nella sua scuderia, confermandolo negli altri passaggi a Palazzo Chigi e considerandolo con pubbliche dichiarazioni un capo dello Stato ideale: persino migliore di lui stesso, che vi aspirava.

“Indipendente” è la qualifica politica di Gianni Letta nell’elenco dei sottosegretari avvicendatisi a Palazzo Chigi. Egli infatti, se mai è stato iscritto alla Dc secondo un’altra leggenda, non lo è mai stato a Forza Italia e ai partiti o sigle che ne hanno accompagnato la storia. Indipendente è indicato anche Alfredo Mantovano, per quanto egli sia stato collega di partito di Giorgia Meloni nelle varie formazioni di destra avvicendatesi prima degli attuali Fratelli d’Italia, o sorelle come più o meno ironicamente si scrive sui giornali dopo i gradi guadagnatisi della sorella maggiore della premier, Arianna.

Se “Sorelle d’Italia” è diventato per scherzo il nome del partito della Meloni, “vicerè” di Palazzo Chigi viene spiritosamente chiamato Mantovano per il peso crescente nell’entourage della presidente del Consiglio. Che se ne fida ciecamente e gli affida le missioni più delicate, conoscendone la serietà, la competenza giuridica, le relazioni al di qua e al di là del Tevere.

Diversamente dai non indipendenti, cioè dai militanti di partito che lavorano con la Meloni a Palazzo Chigi e dintorni, Mantovano non ha bisogno di ostentare la sua forza o peso con dichiarazioni, interviste e tanto meno, o tanto più, con sortite estemporanee. Egli lavora in silenzio, con una discrezione che l’accompagna dall’esperienza di magistrato, nell’esercizio delle cui funzioni fu severo come altri colleghi negli anni di Tangentopoli senza tuttavia cercare la ribalta dei Di Pietro e dei Davigo. Il mio compianto amico Pino Leccisi, della Democrazia Cristiana, che divideva le sue simpatie fra Silvio Berlusconi e Arnaldo Forlani dopo una lunga militanza nella sinistra sociale di Carlo Donat- Cattin, piangendo una volta con me per la severità di trattamento ricevuto sul piano giudiziario mi parlò appunto di Mantovano senza che io ne conoscessi neppure il nome, tanto era stata la sua doverosa riservatezza nell’espletamento del proprio lavoro.

Più è cresciuto accanto alla Meloni, più è stato da lei coinvolto negli affari riservati e non riservati del governo, con delega peraltro ai servizi segreti concessagli dal primo momento, più Mantovano ha finito per procurarsi, suo malgrado, una certa insofferenza di altri sottosegretari, ministri e vice presidenti del Consiglio: quello leghista, Matteo Salvini, di sicuro non riuscendo il capo del Carroccio a dissimulare i suoi umori camminando e parlando di fretta con le solite frotte di giornalisti al seguito.

Ogni tanto i giornali scrivono e titolano di “caso” Salvini, appunto, o Tajani, o Giorgetti, o Valditara, o Lollobrigida, o Sangiuliano e via spulciando nella composizione del governo, ma forse il caso più avvertito fra i ministri che si sentono di volta in volta scavalcati, maltrattati, spiazzati, incompresi è proprio quello che porta il nome di Mantovano, salito peraltro così in alto senza avere mai dovuto fare il ministro. Al massimo, il vice ministro dell’Interno, e prima ancora il sottosegretario allo stesso dicastero nei governi Berlusconi, con deleghe e competenze delicatissime, anche allora, come il trattamento dei pentiti.

Anche quando il suo impegno politico gli impose di rinunciare un po’ ai suoi modi felpati per procurarsi i voti necessari alla sua elezione a deputato o senatore Mantovano riuscì a sorprendere e a preoccupare avversari al cui solo nome, per notorietà e peso, avrebbe dovuto preoccuparsi lui: per esempio, Massimo D’Alema. Che andò particolarmente fiero della propria elezione alla Camera nel collegio uninomimale di Gallipoli per avere battuto Mantovano. E volete che ora lui si preoccupi dei malumori di qualche ministro insofferente della sua pur involontaria vigilanza? Il “vicerè” è tranquillissimo. Sessantacinque anni compiuti a gennaio scorso, lavora, prega e dorme fra i due classici guanciali.

Destra costituzionale. Mantovano è il vicepremier ombra che Meloni cercava (a differenza di Salvini e Tajani). Mario Lavia su L'Inkiesta l'1 Settembre 2023

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è un veterano della politica, un mediatore e un tipico giurista conservatore. Il profilo perfetto per scalare gerarchie nelle preferenze della premier, superando i leader di Lega e Forza Italia 

Una delle non moltissime sfide memorabili all’epoca dei collegi uninominali fu quella nel 2001 tra Massimo D’Alema e Alfredo Mantovano a Gallipoli. Una bella gara anche perché era senza paracadute del proporzionale, o dentro o fuori. Silvio Berlusconi mandò un elicottero per fare propaganda per il candidato di Alleanza nazionale anti-D’Alema. Alla fine prevalse proprio D’Alema, seppur di poco («Il Cavaliere ha sprecato il carburante», ironizzò il lìder Maximo).

Quella volta davvero il capo dei Ds ebbe paura di non rientrare in Parlamento: quel Mantovano si rivelò un osso durissimo. Perché Alfredo Mantovano, sessantacinque anni, leccese, è un politico tosto. Oggi è sottosegretario alla presidenza del Consiglio ma in realtà è un vicepresidente-ombra che fa, appunto, ombra a Matteo Salvini (che molto ne soffre) e Antonio Tajani, che invece fischietta come sempre.

Da ultimo, Giorgia Meloni ha messo nelle sue mani la patata bollente dell’immigrazione, esautorando un Matteo Piantedosi che dai fatti di Cutro è politicamente sotterrato, e senza coinvolgere Salvini che si ritiene il dominus della questione.

È solo un esempio, ma dà il senso del peso del sottosegretario alla presidenza, che non a caso maneggia il dossier dei servizi. Senza questo uomo di legge, ex magistrato, politico da trent’anni ma senza essersi mai sporcato le mani con la politica intesa alla Rino Formica – «sangue e merda» –, gentile senza essere untuoso (da giovani cronisti parlamentari non ricordiamo una sua risposta che non fosse più che garbata, forse anche perché addolcita da una particolare erre moscia), dotato di uno spiccato senso delle regole che gli consente di essere l’interlocutore primo del Quirinale. Il tutto, per Mantovano, incapsulato in una inflessibilità ultra-conservatrice un po’ ottocentesca e da baciapile ben distinta e distante dall’antimodernità militante di una Eugenia Roccella: il sottosegretario ha fatto le sue battaglie contro l’aborto, la fecondazione assistita e quant’altro, e probabilmente ritiene che tutto discenda da Dio ma tutto questo non lo porta a manifestazioni di intolleranza.

Rigido sui principi, mediatore in politica: ingredienti che fanno di Mantovano l’uomo giusto al posto giusto, il che gli garantisce oggi grandissimo potere.

Su di lui vengono scaricate le patate più bollenti, in questo assomigliando a predecessori come Enrico Micheli (sottosegretario di Romano Prodi, l’altro, Arturo Parisi, era la testa politica), Franco Bassanini (D’Alema), ovviamente Gianni Letta (Berlusconi), in grado minore Graziano Delrio (Matteo Renzi), tutte figure chiave dei rispettivi governi.

Mantovano, come tutti quelli citati, ha buone doti di ascolto, è arciconvinto delle proprie idee ma non chiuso al confronto. Sembra ma non è un democristiano. Non siamo in grado di dirlo con certezza ma non escluderemmo che in questo senso abbia contato la lezione di Pinuccio Tatarella, gran ras missino – e poi di Alleanza nazionale – della Puglia, col quale pure non furono sempre rose e fiori, ma quel che è sicuro è che pesa su di lui quel senso delle regole tipico del giurista di destra, secondo una particolare tradizione di avvocati del mondo missino come Giulio Maceratini, Raffaele Valensise, forse Romano Misserville, per non parlare del senso dello Stato di un uomo di destra come Paolo Borsellino.

Dalla sua, Mantovano ha anche un altra carta buona: non è e non vuole essere un leader di partito, dunque non s’impegola nelle ragnatele di potere dei seguaci di Giorgia Meloni, non punta al Parlamento Europeo, restando quindi al di sopra della politichetta di questa fase. Se fossimo in un altro tempo politico, Mantovano sarebbe una riserva nel caso di naufragio meloniano, ma è chiaro che se cade lei cade tutto il cucuzzaro. Cosi il “vicepremier ombra” non ha avversari che possano impensierirlo. Almeno per ora.

Estratto dell’articolo di Susanna Turco per “l’Espresso” il 9 aprile 2023.

E’ il capo ombra del governo, l’uomo che ha in mano le leve, è la «carta copiativa» di Giorgia Meloni. Ha una lunga storia, molteplici relazioni, notevoli tessiture con il Vaticano, ma anche con il Quirinale, solida consuetudine con gli apparati dello Stato, l’apparenza grigia […] Alfredo Mantovano, 64 anni, nato a Lecce, laureato a Roma, sottosegretario alla Presidenza con delega ai Servizi segreti, è per il governo come la schiuma del mare: è presente ovunque, si rende visibile solo nel caso di forti tempeste […] Altrimenti è come se non ci fosse.

«Parlo poco perché non serve», ebbe a dire appunto in una delle rare occasioni in cui aprì bocca, dopo essersi presentato come per caso ai cronisti sotto a palazzo Chigi, alle 15 in punto, nel bel mezzo delle polemiche sui morti di Cutro, mentre la premier era in visita in India, per anticipare la linea del governo sulla ricostruzione di quella notte, che sarebbe stata enunciata tre giorni dopo in Parlamento dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (e da allora su di lui aleggia il fantasma del commissariamento). La stessa cosa aveva fatto un mese prima, nel bel mezzo della bufera sul duplex Donzelli-Delmastro […]

Cattolico […], Alfredo Mantovano con […] tetragonia laica […] sostiene Giorgia Meloni: ritiene infatti che la sua interlocutrice debba essere unicamente lei, senz’altra dialettica. Un affidarsi apodittico, capace di azzerare qualunque teoria del complotto, materia in cui pure i Fratelli d’Italia sono esperti. Ed ecco perché Mantovano, a differenza di quasi tutti gli altri, ha trovato posto nella più stretta cerchia fiduciaria della premier anche senza aver condiviso con lei la militanza giovanile. È peraltro l’unico, assieme per certi versi a Guido Crosetto, che possa metaforicamente avvolgere Meloni come un mantello protettivo, così come l’unico che possa politicamente sopravviverle […]

Le è accaduto persino con Giovanbattista Fazzolari: definito da Luigi Bisignani «copilota chiave» assieme a Mantovano, eppure bisognoso anche lui, in almeno due casi, dell’intervento della premier. Infinitamente più felpato rispetto al sottosegretario all’Attuazione appassionato d’armi, Mantovano ha almeno due skill («abilità», direbbe Rampelli) che a Meloni tornano utili più di qualsiasi fiamma. La prima riguarda la consuetudine a muoversi dentro gli apparati dello Stato, la seconda riguarda i rapporti col Vaticano.

Magistrato e parlamentare, è stato sottosegretario all’Interno nei governi Berlusconi per complessivi nove anni (Scajola, Pisanu, Maroni) e membro del Copaco (antesignano del Copasir): una formazione che ad esempio il 6 marzo gli ha dato la piena tranquillità di decidere, senza troppe consultazioni, la rimozione di Roberto Baldoni da una casella delicata come quella di direttore dell’Agenzia per la cybersicurezza (l’aveva messo il suo predecessore, Franco Gabrielli).

La sua parabola politica è legata a quella di An: avvicinatosi attraverso il partito guidato da Gianfranco Fini, di cui fu a lungo considerato il delfino, Mantovano lasciò i palazzi con la fine del Pdl. Quando Meloni fondava Fdi, lui tornava in magistratura, senza interrompere i rapporti. Lei, d’altra parte, non ha mai smesso di invitarlo. E ora lui vede in Meloni incarnata (addirittura) una nuova stagione del tatarellismo […]

 Il suo vero ritorno in scena è avvenuto giusto un anno fa, per la Conferenza programmatica dei Fratelli a Milano. Dove ha parlato di natalità, di famiglia naturale, si è espresso contro l’eutanasia («diventerà a breve uno strumento per il controllo della spesa pubblica»), contro il ddl Zan, contro le coppie omogenitoriali, contro ovviamente la gestazione per altri. Argomenti che poi tante volte sono affiorati sulle bocche di Meloni e dei Fratelli. Lì Mantovano ha sfoderato insomma il suo tradizionalismo di destra, quello da campione di Alleanza Cattolica e fondatore del centro Studi Livatino.

Una certa impostazione culturale che è quella che nel 2005 lo portò ad allontanarsi da Fini, ai tempi della svolta laica. Cultura che in questi mesi l’ha portato davanti alla reliquia della camicia insanguinata di Livatino, il giudice-beato, esposta in Senato. Così come per altri versi alla conferma a vice capo del Dagl di Roberto Tartaglia, già pm del processo Trattativa, e al sostegno per la candidatura al Csm di Daniela Bianchini, anche lei Centro Studi Livatino, di cui Mantovano entrando al governo ha lasciato la vicepresidenza.

Insieme con la presidenza della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre: «Sono stato in questa sala a trovarla, portando i familiari di Asia Bibi qualche anno fa, non so se ricorda», ha detto al Papa a gennaio, baciandogli l'anello. C’era già stato, prima di Meloni. E, visto l’andazzo di questi mesi, potrebbe esserci anche dopo.

Marco Tarchi.

Estratto dell’articolo di Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica” il 9 ottobre 2023.

Lo status di scienziato della politica scorre nelle vene di Marco Tarchi. […] Marco è soprattutto un anticonformista. […] Marco, che di destra è stato, ha guardato spesso con interesse a sinistra. Le sue origini sono nel neofascismo degli anni settanta: Giovane Italia, Fronte della Gioventù, Movimento sociale italiano. Oggi che ha 70 anni cerco di fare il punto di quella storia che lo ha visto protagonista. 

[…] «Nasco a Roma, casualmente. Ci vivevamo una delle mie nonne. […] Fin da adolescente un lettore onnivoro e curioso, orientato verso i problemi della storia e della politica […] Le mie idee, ancora acerbe, si nutrivano di un vago socialismo». 

I tuoi che dicevano?

«La mia era una famiglia fascista. Orgogliosa di esserlo. Avevo 13 anni quando mio padre, avvocato, e mia madre dissero che non sarebbe stato semplice per me: siamo persone per bene ma il fatto di essere fascisti significa che ci giudicheranno come mostri». 

Cosa voleva dire dichiararsi così apertamente fascisti?

«Era la loro storia, erano le loro radici. Angelo Tarchi, fratello di mio nonno, fu ministro dell'Economia corporativa durante la Repubblica sociale italiana. […]».

 Non hai mai avuto la sensazione che quella fosse la parte sbagliata?

«Per la mia famiglia non fu una scelta sbagliata. Fu una decisione coerente con i valori in cui credevano[…]».

Quali valori ti hanno influenzato?

«[…] Tra i motivi che mi spinsero all'attivismo politico ci fu la contrapposizione al professore di lettere. Era amico di Mario Capanna, leader del movimento studentesco. […]». 

Perché il bisogno di militanza?

«In quel momento quasi tutti i giovani della mia età avevano scelto la sinistra. […]».

 […] A Firenze che clima trovasti?

«Nel 1969 il clima politico era rovente. Un amico mi condusse alla sede missina di piazza Indipendenza. […] In quel palazzo antico avevano staccato la luce. Vidi gente del partito che parlottava a lume di candela […] erano quattro gatti disperati. […] ma trasformai quel deserto umano in sfida intellettuale. Nel giugno del 1969 venne Adriano Cerquetti della direzione del partito ad offrirmi la carica. Cominciò per me una vicenda che sarebbe finita nel febbraio del 1981, quando fui dichiarato decaduto dalla carica e dall'iscrizione al partito» 

Chi ti ha fatto decadere?

«Giorgio Almirante in persona. Da due anni ero in completa rotta con il partito. Nel 1979 mi ero dimesso da vice segretario del Fronte della Gioventù. […] Nel 1977 si svolse l'assemblea del Fronte della Gioventù per la carica di segretario. Presi più voti di tutti. Anche Gianfranco Fini ha partecipato arrivando solo quinto nelle preferenze. Ma alla fine venne proclamato segretario e io solo vice».

Vieni, è possibile?

«Lo statuto prevedeva che il segretario del partito, cioè Almirante, poteva decidere chi avrebbe avuto l'incarico a prescindere dai voti. Alcuni di noi si erano opposti a quella norma e alla fine di una lunga ed estenuante trattativa ottenemmo che Almirante avrebbe potuto scegliere tra i primi tre più votati. Ricordo l'incontro notturno con Ignazio La Russa e il documento dove venne in parte ratificata la richiesta di modifica dello statuto».

A quel punto?

«Si andò alla votazione, vinsi e Fini giunse quinto. La sorpresa fu quando vidi sul documento che il numero tre, scritto a macchina, che limitava la decisione del segretario, era stato maldestramente corretto a penna con il numero 5. E questo arbitrio consentì ad Almirante di eleggere Fini a segretario del Fronte della Gioventù». 

Perché Almirante non ti vuole?

«La mia visione politica e culturale andava nella direzione opposta a un partito asfittico, immobile, incapace di recepire i fermenti giovanili della società civile […] molti simpatizzanti di destra erano passati a sinistra. La parte più inquieta, di cui io fui una delle espressioni, si produsse in uno sforzo provocatorio. Fondai nel 1974 La voce della fogna, una rivista dai tratti underground che ebbe un certo successo». 

La ricordo perfettamente, ma quel titolo come era nato?

«Uno degli slogan ricorrenti a sinistra era “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”. E noi rispondiamo ironicamente con quella testata. […]». 

Vi sentivate così reietti?

«Eravamo ai margini di tutto. Ma piuttosto che piangerci addosso, o attaccarci a un passato nostalgico, riprendemmo i temi che avevano terremotato la cultura degli anni Settanta. La musica, il rock, in particolare, il cinema, la letteratura: esperienze in larga parte estranee al mondo della destra. […] Senza essere presente in libreria o nelle edicole, la rivista vendette quasi cinquemila copie. […] Poi da destra arrivarono gli attacchi».

Chi vi attacca?

«Il Centro studi evoliani cominciò a insultarci. Il loro Bollettino ci definiva disgustosi, dissacranti, culturalmente indecenti. Ricordo poi un attacco da Marcello Veneziani: eravamo colpevoli secondo lui di inseguire le mode giovanili invece che contrastarle». 

Veneziani cosa faceva a quel tempo?

«Se non ricordo male era un giovane dirigente del Fronte della Gioventù. In seguito giunsero le reazioni del partito». 

Intendi il Msi?

«Dall'alto è arrivato l'ordine di boicottarla. La Voce della Fogna chiuse nel 1983. Avrei fatto poi altre riviste importanti come Diorama ed Elementi, più pensate ma senza l'impatto rude e provocatorio che aveva contraddistinto quella prima esperienza». 

Fu così importante e irregolare da interessare prima Giampiero Mughini e poi filosofi di sinistra come Giacomo Marramao e Massimo Cacciari.

«Sia Marramao che Cacciari avevano guardato con interesse ad alcuni pensatori di destra e a tutta la “rivoluzione conservatrice” e aprirono un dialogo con noi che sulla rivista  Diorama intitolammo Sinistra e nuova destra, appunti per un dibattito. Quell'incontro fu giudicato scandaloso dalle forze più tradizionali tanto da uno schieramento che dall'altro».

I tuoi interessi culturali politici si rivolgevano al pensiero della destra francese. In particolare alla figura di Alain De Benoist.

«Lo conobbi nel luglio del 1972. Andai a trovarlo a Parigi. Trovavo stimolante l'idea che le categorie della politica andassero rifondate fuori dalla netta opposizione tra destra e sinistra. Del resto come facevi ad appropriarti da sinistra o da destra del fenomeno delle radio libere o degli indiani metropolitani, o delle prime importanti esperienze ecologiste? […]».

Un libro che rompe le rigide distinzioni destra e sinistra fu anche Il Signore degli Anelli. Che pensi di quel romanzo?

«Sotto le bandiere di quel fantasy si riunirono i lettori più irregolari, coloro che vedevano nel romanzo la critica alla società mercantile e al tempo stesso il richiamo al mito. La storia del modo in cui Il Signore degli Anelli penetrò nella cultura italiana deve tenere conto del ruolo che svolsero due personaggi molto lontani dal pensiero della sinistra: Elémire Zolla e Quirino Principe. Furono loro a riprendere in mano il lavoro della prima traduttrice, Vittoria Alliata, ea farne una sorta di manifesto culturale, non so quanto intenzionale».

Da quell'esperienza letteraria nacquero i “Campi Hobbit”. Chi furono i promotori?

«Diversi, tra cui io. Si riassumono in tre appuntamenti che organizzammo tra il 1977 e il 1980. I Campi Hobbit erano laboratori di pensiero alternativo […]». 

[…] Dicevi di essere uscito dal partito nel 1981. Come hai vissuto il distacco?

«Con dolore da un lato, perché la “decadenza da iscritto” decretata contro di me era ingiusta […] Con sollievo dall'altro, perché, […] la vita in un partito di cui non condividevo più gran parte della linea politica mi era diventata insopportabile. […]». 

[…] Eri ha avviato una brillante carriera politica. Sei pentito di non averla fatta?

«Ho sempre reputato più importante difendere la mia libertà di pensiero, senza tuttavia abiurare alle mie scelte […]».

Claudio Anastasio.

Estratto dell’articolo di Lorenzo Salvia per roma.corriere.it il 16 marzo 2023.

(...) Claudio Anastasio, il presidente della società pubblica 3-I che si è dimesso dopo la sua incredibile mail in cui parafrasava un discorso di Benito Mussolini, non accetta di fare interviste.

 Ma dà la sua versione dei fatti con un messaggio inviato a chi lo ha cercato in queste ore. «Potevo giustificarmi di essere stato hackerato – scrive - come hanno fatto altri esponenti politici prima di me (non vero, proteggo i miei account di posta elettronica a massimo fattore come volevo così proteggere le connessioni di tutti i cittadini). 

 (...)

Invece mi sono assunto le mie uniche responsabilità in merito e mi sono dimesso all'istante».

«Il mio errore pubblico in email privata – scrive Anastasio - è gravissimo e non giustificabile. Giuste e doverose le mie immediate e irrevocabili dimissioni nel solo interesse di gestione della cosa pubblica e del Governo pro-tempore».

(...)

 Poi Anastasio passa anche all’attacco: «Si pubblichino anche tutte le mie altre email intercorse sulla gara pubblica di INPS di 1 miliardo di euro, ma che io non fornisco, poiché ho il senso istituzionale di riservatezza ai sensi dell'art. 15 della nostra Carta costituzionale della Repubblica italiana, il cui dileggio nei miei confronti è sfuggito a taluni in seno ai componenti del CdA della 3-I S.p.A. di Stato».

Perché si è dimesso Claudio Anastasio: il discorso di Mussolini su Matteotti che ha fatto saltare il manager di 3-I. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Marzo 2023

Lo temevamo, sembrava che quasi ce l’avessimo fatta, ma ci eravamo illusi. Ci eravamo convinti che questo governo nato in mezzo alle polemiche e ai luoghi comuni del fascismo, neofascismo, post-fascismo e anche dell’antifascismo strumentale, avesse giurato di prestare una maniacale attenzione per evitare come la peste qualsiasi allusione che mettesse di nuovo a nudo il suo legame, anche sciattamente sentimentale, col fascismo, con Mussolini e parentela derivata.

Dicono che Giorgia Meloni lo predichi e si raccomandi, ma quando poi arriva alla notte degli Oscar, quando un governo deve fare i nomi dei suoi manager di fiducia per l’assegnazione dei posti di sottogoverno, ecco che salta fuori un clan di parenti, affini e discendenti di Mussolini, sicché come fai a dire di no alla nipote di nonna Rachele, e finisce in disastro. O almeno un figura escrementizia smaltata dalla storia, con inevitabile perdita di punti e di faccia del governo e dell’Italia tutta di fronte all’Europa e al mondo. Lo strabiliante caso registrato ieri è quello di un manager di area governativa, con i sentimenti in orbace, che, per fare lo spiritoso, usa uno dei più miserabili discorsi di Mussolini (quello con cui annuncia l’inizio della vera dittatura) e lo usa come testo base per una comunicazione ai dipendenti di una azienda informatica di Stato e parastato di nome “3-I”.

I dipendenti si sono visti recapitare una email con frasi come questa: “Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di Voi, ed al cospetto di tutto il governo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità di “3-I” (nell’originale “del partito fascista”) di tutto quanto è avvenuto”. E poi: “Se 3-I è stata una mia colpa, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho alimentato nel mio ruolo”. Repubblica giustamente ne fa un gran caso e finalmente il signor Claudio Anastasio, autore di cotanta burla macabra, si dimette davvero, fa fagotto e se ne va. Caso chiuso? Non del tutto. Ciò che qua e la riciccia non è solo la banale apologia del fascismo, le solite braccia tese e qualche starnazzo da manipolo sperduto. Si tratta piuttosto di una nuova forma di cretinismo degna del Corriere dei Piccoli anni Trenta: “Non siamo grandi, siam bambini, tutti parenti di Mussolini”.

Questo manager insediato dal governo Meloni ha usato la parafrasi dell’infame discorso con cui Benito Mussolini, ancora capo di un governo parlamentare, annunciava l’inizio della dittatura e si assumeva la responsabilità civile, penale e morale dell’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti. È un testo violento, funerario ed era la sentenza di morte per la democrazia parlamentare e l’annuncio della sentenza inflitta a Giacomo Matteotti, leader dell’opposizione socialista. Ora, con quali categorie anche patologiche oltre che etiche e politiche si può spiegare impresa come quella di un manager che usa i discorsi di Mussolini per rivolgersi al proprio consiglio d’amministrazione scopiazzando il discorso del 3 gennaio del 1925? Nota a margine: dopo il ritorno della democrazia tutti i partiti hanno riconosciuto il grave errore di avere abbandonato l’aula del Parlamento lasciando il campo al dittatore che con la stessa lugubre grazia portò il Paese alla guerra e alla rovina.

Appunto per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni la quale ovviamente non sarà stata affatto contenta per questa vicenda. L’appunto è questo: tutti ci siamo augurati nel momento in cui passava dalla vittoria elettorale al governo della Repubblica italiana che la premier facesse un passo breve ma visibile per azzerare tutto ciò che le ronza intorno rimettendo ogni volta in discussione la questione del vero o presunto o falso neofascismo del suo governo. L’episodio di Anastasio sembra una barzelletta ma non lo è, sarebbe ora che Giorgia Meloni ne prendesse atto mettendo un punto fermo, definitivo a questo scempio della ragione.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Anastasio: «Ho citato Mussolini? Avrei potuto usare una frase di Obama che è analoga. Ho dato fastidio a qualcuno». Lorenzo Salvia su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2023.

L’ex presidente di 3-I che si è dimesso dopo il messaggio con le parole di Mussolini: «Un marziano avrebbe pensato che quelle frasi fossero di Shakespeare». Io fascista? «No. Aiutavo Romano Mussolini per i suoi concerti»

Claudio Anastasio, partiamo dall’inizio. Perché quel messaggio in cui parafrasava un discorso di Benito Mussolini?

«Venivo da una settimana di duro lavoro per sbloccare una situazione di stallo. Volevo provocare, far passare un senso di richiamo ai valori nazionali, all’amore per questo Paese».

D’accordo. Ma perché proprio Mussolini?

«È stato un mio gravissimo errore, nella mia testa ho isolato quelle parole dal loro contesto storico. Imperdonabile. Avrei potuto citare delle parole analoghe, che avrebbero avuto lo stesso effetto, dal discorso di insediamento di Obama».

L’ex presidente degli Stati Uniti?

«Lui. Se mi aspetta un attimo le recupero. Sono in un libro non ancora pubblicato»

Aspetto.

«Eccole: “È venuto il momento di riaffermare il nostro spirito tenace, di scegliere il nostro spirito migliore...”, poi continua. Lo sente, l’effetto sferzata è lo stesso».

Dice? Ma quello era l’insediamento del presidente degli Stati Uniti. Nella sua mail c’è il discorso con cui Mussolini si assumeva la responsabilità politica dell’omicidio Matteotti, l’inizio della dittatura. Non esattamente la stessa cosa, no?

«Infatti ho sbagliato, ho decontestualizzato. E mi sono assunto le mie responsabilità. Ma un marziano, a leggere quelle parole senza sapere il contesto, poteva pensare che fossero state scritte da Shakespeare».

Ma quella mail non l’ha mandata a un marziano, l’ha mandata ai componenti del suo Cda. E poi il contesto, quel contesto, conta.

«Mi sono fatto prendere la mano, avevo in testa tante citazioni. Lo so che non mi crede ma ne avevo in testa anche una di Matteotti, quando dice “chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente ma parlamentarmente”. Bellissima».

Ecco, sarebbe stato meglio.

«Di sicuro. Ha un grande valore la capacità di citare discorsi del passato parafrasando parole che ci richiamano al nostro senso di stato, immaginando un mondo dove tutto fa parte del mondo».

Dipende da quali frasi.

«Sì, certo. Ma comunque è chiaro che ho dato fastidio a qualcuno».

Non vorrà mica dire che è stato un complotto?

«Non sono complottista ma è chiaro che c’è una linea contro questo governo, una volontà di sabotaggio contro il governo e contro il Pnrr».

Addirittura.

«Io scrivo quella mail l’8 marzo per sbloccare le cose. E almeno un risultato lo ottengo perché il giorno dopo 3-I ha finalmente una posizione Inail, che prima incredibilmente non aveva. Ma poi c’è la questione della gara Inps da un miliardo di euro per assistenza e manutenzione del software in cui avevamo chiesto di far parte della commissione tecnica. Non aggiungo altro».

Palazzo Chigi l’ha chiamata per chiederle di dimettersi?

«No. Quel mattino alle 9.58 sono entrato nella sede di 3-I e subito, senza che nessuno me lo chiedesse, ho scritto la mia lettera di dimissioni».

Anastasio, lei è fascista?

«No, nel modo più assoluto».

Politicamente è di Fratelli d’Italia?

«Mi riconosco in quel partito, sì».

In che senso era collaboratore di Romano Mussolini?

«Ero un ragazzo, lo aiutavo nelle trasferte per i suoi concerti. Ma in casa di Romano non c’era alcun richiamo al fascismo. C’era solo bellezza, musica e quadri».

B enito Mussolini invece chi era?

«Un fascista».

Certo. Solo questo?

«Un male assoluto. Quel periodo fu un male assoluto»

Claudio Anastasio, chi è il nostalgico di Mussolini che si è dimesso dalla società pubblica. Il presidente di 3-i, neonata spa per l’innovazione digitale di Inps, Inail e Istat, lascia dopo lo scandalo della mail scritta imitando i discorsi del Duce. L’Espresso aveva raccontato gli altri suoi “ammiccamenti” al fascismo. Sergio Rizzo su La Repubblica il 6 febbraio 2023.

Esperienza senza precedenti, quella di Roberto Lancellotti. A nessuno era capitata la nomina a presidente di una società di Stato che non esiste ancora, e di perdere l’incarico addirittura prima che quella società veda la luce. Lasciando il posto a un altro presidente, designato a sua volta prima della costituzione della società.

Il sostituto di Lancellotti è un altro imprenditore del settore informatico, Claudio Anastasio. La società in questione si chiama 3-i spa. È un’idea del governo di Mario Draghi targata Vittorio Colao, l’ex capo di Vodafone già ministro della Transizione digitale. Le tre “i” della denominazione rappresentano i tre soci Inps, Inail e Istat. Sono loro, dice un decreto del governo Draghi, che tramite quella società devono occuparsi di «sviluppo, manutenzione e gestione di soluzioni software e servizi informatici a favore degli enti previdenziali e delle pubbliche amministrazioni centrali». Ma a dispetto delle formule burocratiche, il progetto è assai più ambizioso: realizzare la software house unica di un Paese dove l’informatica pubblica è balcanizzata, con mille banche dati che parlano linguaggi differenti.

La scelta di chi la deve guidare cade subito su Lancellotti. Esperto di informatica, è stato anche consigliere di amministrazione del Montepaschi e appartiene alla stessa nidiata McKinsey di Colao. Il decreto di nomina è scritto, ma la società non decolla. Mettere tutti d’accordo non è semplice.

Poi c’è chi solleva un problema: oltre ad avere interessi in società informatiche private, Lancellotti è consigliere di amministrazione dell’Inps. Il che, secondo alcuni, potrebbe prefigurare una qualche incompatibilità. Il nuovo governo cancella ripetutamente gli appuntamenti dal notaio. E si capisce subito che il piano Draghi-Colao fa storcere il naso a qualcuno.

Le perplessità però svaniscono quando si mettono a fuoco l’enormità e le opportunità dell’operazione. E che un nuovo governo non voglia mettere le mani sopra una roba del genere è in Italia eventualità da non prendere in considerazione. Si va allora dal notaio, il 12 dicembre 2022. Ma non prima che la presidenza del Consiglio di Giorgia Meloni, cui spetta la nomina, abbia designato il 29 novembre il nuovo presidente della 3-i spa. Nella persona di Claudio Anastasio. E nel segno di Mussolini.

Non Benito, s’intende. Mussolini Rachele, la nipote. Figlia di Romano e sorella di Alessandra, appartiene alla numerosa schiera di parenti del capo del fascismo impegnati in politica. Rachele è consigliere comunale di Roma eletta con Fratelli d’Italia. E rivendica l’amicizia con Anastasio. «Lo conosco da più di trent’anni e ho vissuto tutto il suo travagliato percorso che lo ha portato ad un successo incredibile nel suo lavoro. Si è realizzato come imprenditore vivendo anche dei momenti molto difficili», ha dichiarato. Ammettendo con orgoglio anche la comune fede partitica: «Sono felice ad essere stata io a portarlo all’interno della famiglia di Fratelli d’Italia». Pane al pane.

Pioniere del web, cui ha dedicato tutta la carriera, Claudio Anastasio ha con la famiglia Mussolini, prima ancora che con quella di Fratelli d’Italia, un rapporto sentimentale di lunga data. Il 13 giugno 1997, secondo quanto riferisce l’Ansa, va online il sito Internet ufficiale Mussolini. «L’iniziativa», precisa l’agenzia di stampa, «è della Mussolini internet di cui è presidente esecutivo Claudio Anastasio».

Che, aggiunge l’Ansa, «ha già diramato stamane una lettera aperta per esprimere il suo profondo dolore per la scomparsa “dell’ultimo personaggio storico del ventennio fascista”». Il giorno prima è morto Vittorio Mussolini, il figlio maggiore di Benito. Regista, sceneggiatore e produttore, appassionato di cinema, durante il regime si fa chiamare con un anagramma del nome reale: Tito Silvio Mursino. Segue il padre a Salò; quando poi la Repubblica sociale crolla va in Sudamerica, per tornare in Italia solo nel 1967. Senza mai, in trent’anni, occuparsi di politica a differenza di altri suoi parenti come la nipote Rachele.

La quale per anni ha sponsorizzato al Comune di Roma la raccomandata elettronica ideata dal suo amico di lunga data Claudio Anastasio. A furia di insistere, alla fine fa passare una mozione nel consiglio comunale a sostegno di questo progetto, condotto da Anastasio attraverso InPoste.it. È una società privata, di cui il nuovo presidente di 3-i spa è consigliere delegato e azionista, che opera nel campo dei servizi postali digitali ed è reduce da un periodo di difficoltà aggravata dalla pandemia. Tanto che ha dovuto abbattere il capitale sociale per far fronte a perdite di oltre 5 milioni accumulate fino al 2020. Le prospettive della società ora indicano una robusta ripresa della redditività.

Quanto all’incarico di presidente di un’azienda pubblica resta da capire il profilo esatto delle possibili incompatibilità con l’attività privata. Per il resto, la prima nomina del governo Meloni spedisce un avviso chiaro ai vertici di tutte le grandi aziende di Stato da rinnovare fra breve. Niente di nuovo sotto il sole: qualcuno cominci già a fare le scatole.

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 14 marzo 2023.

"Comunico la volontà irrevocabile di rassegnare le mie dimissioni dall'incarico di componente del cda e presidente della società 3-I S.p.A. con effetto immediato". Firmato Claudio Anastasio.

 Il manager nominato dal governo Meloni presidente di 3-I, la società pubblica che dovrebbe gestire il software di Inps, Istat e Inail, è finito nel mirino per una mail con una citazione esplicita del discorso di Benito Mussolini del 3 gennaio del 1925, con cui rivendicava la responsabilità politica del delitto Matteotti. Un'orazione considerata dagli storici come l'inizio alla dittatura. Una mail che ha scatenato le polemiche con le opposizioni subito all'attacco.

Tra i primi a commentare il discorso del Duce copiato è stato il deputato del Pd, Claudio Mancini: "L'uso della rivendicazione dell'omicidio Matteotti è vomitevole - dichiara - Il governo spieghi in Parlamento perché è stato nominato e quali interessi muovono una lettera di minacce così esplicita ai componenti del Cda", aggiunge il deputato dem.

 Una "vergogna" per Simona Malpezzi, capogruppo dem al Senato: "Questa è la cifra della classe dirigente scelta dalla destra", il commento su Twitter.

 Ha chiesto le dimissioni del manager anche Angelo Bonelli, co-portavoce nazionale di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. […]

Estratto dell'articolo di Francesco Bei per “la Repubblica” La Repubblica il 14 marzo 2023.

«Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di Voi, ed al cospetto di tutto il Governo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità di 3-I (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se 3-I è stata una mia colpa, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho alimentato nel mio ruolo».

 I componenti del Cda di 3-I, la società pubblica che dovrebbe gestire il software di Inps, Istat e Inail, sono sobbalzati quando ieri mattina, aprendo la posta, hanno trovato questa mail del presidente Claudio Anastasio. Una retorica così eccessiva, così lontana dal linguaggio aziendale, ha quindi portato qualcuno più curioso degli altri a inserire su Google quelle frasi pittoresche e...rapido giro di telefonate, commenti increduli, «davvero è arrivato a tanto?».

Sì, perché Anastasio, nominato dal governo Meloni, uomo di provata fede (inutile dire quale) e salutato il giorno della nomina a novembre con gli auguri più calorosi di Rachele Mussolini, stavolta l’ha fatta davvero grossa. È andato a copiare parola per parola il celebre discorso del 3 gennaio 1925 con cui Mussolini rivendicò la responsabilità politica del delitto Matteotti, un’orazione considerata dagli storici come l’inizio alla dittatura.

[…] Anastasio ha provato a emulare l’eloquio del suo lontano ispiratore: «Il Governo è il mio Partito, è in piena efficienza. Signori, vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che 3-I fosse finita perché io la comprimevo, che il Partito fosse così in difetto perché io lo esponevo a confronto, e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Se io la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimere 3-I la mettessi a scatenarlo, oh, vedreste allora… labellezza per l’Italia. Ma non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno e definitivamente la mia sedizione».

 Basta sostituire la parola “3-I” con la parola “Fascismo” e la lettura sinottica è perfetta. Riga per riga. […]

Rachele Mussolini e il manager Anastasio che copia i discorsi del Duce: «È un amico di famiglia ma ha sbagliato». Redazione il 14 Marzo 2023 su Open.

La consigliera comunale dice che Anastasio le ha spiegato di non aver realizzato la gravità della cosa. E che quelle che ha mandato erano comunicazioni private

Rachele Mussolini, nipote del Duce, è consigliera comunale a Roma con Fratelli d’Italia. In un’intervista rilasciata a Repubblica oggi ricostruisce l’ascesa e la caduta di Claudio Anastasio, il manager di 3-I che ieri si è dimesso dopo aver inviato una mail che parafrasava il discorso di Benito dopo l’omicidio Matteotti. Premettendo che è stata lei a presentarlo a Giorgia Meloni: «Lo conosco da 30 anni. Eravamo ragazzini, dirimpettai nello stesso palazzo a Talenti». Rachele dice che Anastasio ha frequentato suo padre Romano. Ma era amico anche di sua zia Edda Mussolini e di zio Vittorio: «Con la mail ha compiuto un imperdonabile errore. Ha fatto bene a dimettersi». Anche se Anastasio è «un genio nel suo campo! Si era inventato la raccomandata elettronica. E una bravissima persona».

«Rimettendoci di tasca sua»

Secondo Rachele Mussolini l’amico Claudio Anastasio si era gettato nell’avventura «dando tutto se stesso, rimettendoci di tasca sua». Perché «la società non era ancora avviata. Stava lavorando a titolo gratuito». Dice che “Claudio” non è un politico, non è fascista: «Guardi, è una persona aperta, open minded. Non mi so spiegare quello che è successo. Sono basita». Dice che Anastasio le ha spiegato di non aver realizzato la gravità della cosa. E che quelle che ha mandato erano comunicazioni private. Ma poi spiega che una mail al consiglio di amministrazione in effetti non lo è: «Se sei a capo di una società non c’è niente di privato». Anastasio «si è saputo rialzare dopo qualche rovescio», ma quello di ieri «è stato uno scivolone. E io ho subito condannato la sua uscita». Che però secondo la consigliera è un incidente passeggero: «Claudio non ha ucciso nessuno. Non si è appropriato di soldi pubblici. La polemica? Passerà».

Claudio Anastasio, chi è il manager che imita il Duce: il ‘sito Mussolini’, l’amicizia con Rachele e il “sogno” delle raccomandate online.

Nel 1997 il dimissionario presidente della 3-I inaugurava "il sito Internet ufficiale Mussolini", per celebrare Vittorio, secondogenito del duce l'''ultimo personaggio storico del ventennio fascista''. Tra il 2010 e il 2012 entra a far parte del team di "The Week", un settimanale dalla vita breve fondato da Mario Adinolfi. Prima della nomina di Meloni aveva lanciato tNotice, una piattaforma (mai decollata) per inviare e ricevere raccomandate online con valore legale. Paolo Frosina il 14 Marzo 2023 su Il Fatto Quotidiano.

Ha copiato in una mail aziendale il discorso fatto da Mussolini dopo il delitto Matteotti: si è dimesso il manager nominato da Meloni

Una carriera nel segno del web e dei Mussolini. Non solo Benito, ma soprattutto la nipote Rachele, amica di una vita, e pure il figlio secondogenito, lo sceneggiatore e produttore Vittorio. Cercando nell’archivio Ansa il nome di Claudio Anastasio – l’ormai ex manager pubblico che ha parafrasato il discorso con cui il Duce rivendicava l’omicidio Matteotti – si risale a un lancio del 13 giugno 1997: “Si inaugura stasera, in memoria di Vittorio Mussolini, il sito Internet ufficiale Mussolini. L’inaugurazione avverrà durante una festa con esponenti della politica, della cultura e dello spettacolo, in un locale notturno di Fregene. L’iniziativa, annunciata in una nota, è della Mussolini Internet, di cui è presidente esecutivo Claudio Anastasio, il quale ha già diramato una lettera aperta per esprimere il suo profondo dolore per la scomparsa dell”’ultimo personaggio storico del ventennio fascista” e per denunciare ”i soliti noti che esprimono le loro pubbliche condoglianze, quasi un atto dovuto, citazioni convenzionali e di circostanza”. Il sito Internet”, si legge ancora, “ospiterà il Museo storico italiano, primo museo al mondo del ventennio fascista completamente virtuale, oltre alle rubriche di studi epistemologici storici, d’arte e spettacolo, un magazine elettronico, un club associati, una biblioteca littoria con i documenti originali della dottrina fascista”.

Ai tempi, il dimissionario presidente della 3-I (l’azienda pubblica creata a dicembre per unificare i software di Inps, Istat e Inail) non aveva nemmeno trent’anni. Romano di nascita, studi in informatica e poi in giurisprudenza, tra gli anni Novanta e i primi Duemila salta da un impiego all’altro, sempre come consulente in materia tecnologica: lavora per aziende del settore oil&gas (Esso, Agip, Agi), nell’industria chimico farmaceutica e pure per il Consiglio di Stato, per cui si occupa di ingegneria IT (Internet technologies). Nel 2006 lancia la prima iniziativa imprenditoriale: diventa amministratore e socio unico della Chorus, una srl di tecnologia con cui, scrive nel curriculum, si occupa di “progetti militari in Italia e Libia”, nonché “relazioni con i servizi d’intelligence di altri Paesi stranieri per la definizione di tecnologie di sicurezza dei confini”. Tra il 2010 e il 2012 anche un’esperienza nel giornalismo: entra a far parte del team di “The Week“, un settimanale dalla vita brevissima fondato da Mario Adinolfi. Ma è nel 2014 che arriva la svolta: a 44 anni Anastasio lancia tNotice, una piattaforma per inviare e ricevere raccomandate online con valore legale. Un’idea, raccontava a Repubblica, arrivata “durante un delirio febbrile da quaranta gradi di temperatura. Mi sono svegliato nel cuore della notte: avevo appena sognato la raccomandata elettronica“.

La start-up che parte con grandi ambizioni: “Raggiungere lo 0,5 per cento dei volumi del mercato italiano entro il 2015 e, contemporaneamente, iniziare a dare uno sguardo all’estero”. Dell’iniziativa si parla in toni entusiastici sui media vicini al centrodestra, con servizi dedicati al Tg2, al Tg5 e sul Tempo. Rachele Mussolini, storica amica del fondatore e consigliera comunale a Roma, fa di tutto per convincere l’amministrazione capitolina ad adottare il sistema: “Ormai la pec è obsoleta, quindi invito i colleghi consiglieri ad andare su Google e digitare “T-Notice”. Si renderanno conto delle potenzialità enormi che ha questo nuovo modo di comunicare, che ha valenza legale e potrebbe determinare enormi risparmi, nell’ordine di milioni di euro, come già è stato fatto in altri piccoli comuni”, dice in Aula nel 2017. Ma il progetto non decollerà mai, anzi: di recente la società ha dovuto abbattere il capitale sociale per far fronte a perdite di oltre cinque milioni accumulate fino al 2020. Gli ultimi due bilanci (2020 e 2021) sono approvati con un grosso passivo, rispettivamente due milioni e un milione di euro. A fine 2022, però, Meloni sceglie Anastasio come capo della software house pubblica. E subito arrivano le congratulazioni di Rachele: “Faccio il mio in bocca al lupo a Claudio, lo conosco da più di trent’anni e ho vissuto tutto il suo travagliato percorso che lo ha portato a un successo incredibile nel suo lavoro. Si è realizzato come imprenditore vivendo anche dei momenti molto difficili. Si è meritato tutto quello che si è conquistato e sono felice ad essere stata io a portarlo all’interno della famiglia di Fratelli d’Italia e che si sia appassionato alla politica“, detta in un comunicato. Da oggi, forse, la premier è un po’ meno soddisfatta.

Patrizia Scurti.

Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “il Foglio” l’11 dicembre 2023.

In America il più famoso è stato Henry Kissinger, in Italia la prima è Patrizia Scurti. E’ la “segretaria di stato”, nell’accezione italiana, il tuttofare, il “tranquilla, me la spiccio io”. E’ davvero la segretaria, ma di Giorgia Meloni. A Palazzo Chigi è inquadrata come capo della segreteria particolare. Ha partecipato agli incontri riservati tra la premier Joe Biden e Xi Jinping. Olaf Scholz le ha stretto la mano.

 Al G20 di Bali accarezzava  la piccola Ginevra. Sua è la stanza più solenne del governo, quella che affaccia su Piazza Colonna. Il compagno è un agente di polizia mentre lei è la “pulizia”, la serenità della premier che ringrazia  “Dio, e Gianfranco Fini, per aver messo Patrizia al mio fianco. E’ il mio rifugio, la mia protezione”.

[…] Quando Giorgia Meloni è entrata per la prima volta a Palazzo Chigi, una donna di cui non si conosce la data di nascita, il luogo di nascita (manca il cv sul sito del governo) si è rivolta ai funzionari dicendo che lei si sarebbe occupata della disposizione delle stanze. Quella donna è Patrizia Scurti, e dal 2006, come scrive Meloni, nell’autobiografia è la sua, “padrona” e lo “dico spesso scherzando, perché non c’è nulla della mia vita che non passi da lei”.

 […] E’ oramai chiaro che tutte le vere competenze del governo Meloni, i saggi, non sono che le leve della stagione Fini. Scurti, la segretaria che oggi costruisce l’agenda della premier e che ascolta le parole del presidente degli Stati Uniti, ha lavorato con Rita Marino, la storica segretaria dell’ex leader di An […]

Si possono scrivere libri e libri su segretarie e politica. Il più famoso è Antonio Tatò di Berlinguer. Vincenza Enea era l’ombra di Andreotti e “Marinella” (Brambilla) di Silvio Berlusconi. Matteo Renzi aveva chiamato da Firenze il suo “Franchino” Bellucci mentre Mario Monti aveva “Betty” Olivi. Con Draghi la segretaria era un cognome “la Ciorra” (Mariagrazia). Solo alla Scurti è riuscito l’inedito della Repubblica: elevarsi da segretaria, […] a capo di gabinetto, madre, sorella, consigliera, ambasciatrice […] Oggi guadagna 179.999 euro. Manca solo un euro per arrivare a 180 mila.

Ogni volta che un giornalista si avvicina a Meloni, Scurti preme il tasto del registratore per avere l’audio di quanto dichiarato. Potrebbe essere una futura prova. Nel 2006 viene “affidata” da Fini a Meloni […] L’uomo che in realtà scopre il suo talento è Donato La Morte, ex deputato di An, che è stato a sua volta il Kissinger di Almirante. Non si inventa nulla. Quanto si virgoletta lo ha dichiarato la premier: “Mi piace pensare che Patrizia mi consideri un po’ come sua figlia. In un mondo nel quale tutti pensano a cosa io possa fare per loro, Patrizia pensa sempre a cosa lei possa fare per me”.

 […] Non ha profili social (magari fosse il metodo del governo!). Non esiste nulla di lei, se non le sue fotografie durante le cerimonie, le parate, sempre vicinissima a Meloni. Sul suo profilo Whatsapp tiene l’immagine di lei abbracciata con Meloni vestita da cappuccetto blu. E’ definita l’artificiere che “disinnesca” la dinamite d’Italia, gli scervellati di FdI […]

Augusta Montaruli.

Il caso dell'ex sottosegretaria. Perché si è dimessa Augusta Montaruli, rimborsopoli una bufala che dimostra il potere delle procure. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Febbraio 2023

Se Augusta Montaruli fosse stata consigliera regionale in Lombardia invece che in Piemonte, oggi sarebbe ancora sottosegretario all’università. Perché la cassazione, si proprio lo stesso organismo che ha confermato le condanne piemontesi, ha accolto per i lombardi una riqualificazione del reato proposta dall’avvocato Jacopo Pensa e altri legali.

Così l’articolo 314 del codice penale, cioè il peculato (pena da 4 a dieci anni e sei mesi) si è trasformato nel 316 ter, cioè indebita percezione di erogazioni pubbliche, con pena da sei mesi a tre anni e da uno a quattro anni in caso di pubblico ufficiale. E reato prescritto, a questo punto. Non si è posto nessun problema di dimissioni dal ruolo di capogruppo della Lega al Senato, per esempio, per Massimiliano Romeo. Ammesso che tutte queste perdite di galloni decise dai processi abbiano un senso. Ancora meglio sarebbe andata per Augusta Montaruli in Liguria, dove sono fioccate le assoluzioni, piuttosto che in Emilia-Romagna, dove ne sa qualcosa l’ex consigliere regionale Stefano Bonaccini, il candidato alla segreteria del Pd che ha sguainato subito lo spadone in favore delle dimissioni della sottosegretaria.

Chissà come sarebbero andate le sue vicende politiche se avesse trovato sul suo cammino a Bologna un pm come il piemontese Giancarlo Avenati Bassi? Uno che, di fronte al fatto che la gran parte degli imputati accusati di peculato per i famosi rimborsi fosse stata assolta nel processo di primo grado, considerata non colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”, non solo è ricorso in appello, ma ha chiesto e ottenuto di indossare per la seconda volta la toga nell’aula. Proprio come avrebbe voluto il suo collega milanese Fabio De Pasquale nel processo Eni, se gli fosse stato concesso e se l’appello fosse poi stato celebrato. Ma c’è toga e toga, e non è solo questione di separazione delle carriere.

Chi non vorrebbe per esempio incontrare sul proprio cammino uno come Letizio Magliaro, gip a Bologna? Cioè il magistrato che in una sentenza di assoluzione del 2015 auspicava che certe manifestazioni autopromozionali ed elettorali dei consiglieri trovassero sanzioni fuori dal processo penale. E poi esprimeva “l’amara constatazione che se ciò normalmente non accade, non può però indurre a una impropria sostituzione della responsabilità penale a quella politica; su ciò di cui il giudice penale non può parlare, occorre tacere”. Ben diverso e sbrigativo quel pm di Milano che diceva “lo so che è sempre stato così, ma non mi interessa, per me è peculato”. Qualificazione molto discutibile, dal momento che è difficile considerare il gruppo consiliare come un ente di diritto pubblico. Il che è proprio il nodo giuridico del problema.

Cosa di cui si infischiano quasi tutti i giornalisti italiani, più interessati al fatto che Nicole Minetti avesse comprato “Mignottocrazia”, un libro politico di Paolo Guzzanti dal titolo pruriginoso, oppure Augusta Montaruli una modesta borsa di Borbonese da mettere in palio a un evento di beneficenza. Su cui non solo i giornalisti si sono mostrati superficiali e moralisti, ma anche qualche magistrato disinformato, che col ditino alzato ci ha informato che Borbonese produce solo borse in pelle e “lussuose”. Naturalmente non è vero, stiamo parlando di valori inferiori a duecento euro, ben lontani dalle migliaia di brand come Hermès. Ma parole come lussuoso” o “prestigioso” paiono proprio finalizzate a invocare forche appese in piazza.

E’ tutta assurda la storia di questa “Rimborsopoli”, sorella minore di “Tangentopoli”, scoppiata vent’anni dopo nel momento di quel grido onestà-onestà che allora rimbombava nelle nostre orecchie e ora fa vergognare anche chi lo gridava. Per decenni, cioè da sempre, sia i gruppi parlamentari che quelli consiliari regionali di ogni partito hanno avuto in dotazione finanziamenti che erano affidati alla totale discrezionalità degli eletti. Alla Camera per esempio il gruppo misto li ha sempre distribuiti a ogni singolo parlamentare senza nessuna rendicontazione su come venivano spesi. I gruppi che si riferivano ai partiti invece li gestivano in modo centralizzato. Nelle Regioni invece sono sempre stati distribuiti a titolo di rimborso spese, giustificate con scontrini e sempre approvate, nelle voci di bilancio, dalle stesse Corti dei Conti. Una forma di autogestione, presupposto della libertà dell’eletto. Poi improvvisamente, proprio come era stato per Tangentopoli, una scintilla ha appiccato il fuoco.

Forse qualche eccesso, qualche esibizione fuori dalle righe, hanno trasformato onesti rimborsi in “spese pazze” e le rendicontazioni in Rimborsopoli. E poi anche il primo suicidio, quello dell’ex capogruppo di Forza Italia in Regione Piemonte, Angelo Burzi, un liberale rigoroso e anche un po’ pignolo sui conti pubblici da assessore al bilancio. Che dopo l’assoluzione del primo processo ha subito altri dieci anni di tormenti, poi la condanna, insieme all’ex presidente Roberto Cota, altro esemplare di rettitudine, e poi la gogna, fino a non sopportarlo più. E oggi abbiamo le prime dimissioni, quelle della sottosegretaria Augusta Montaruli. Quanti “incidenti” di giustizia dovremo aspettare prima che Giorgia Meloni apra gli occhi e capisca che nessuno è immune al circo mediatico-giudiziario?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato e Bernardo Basilici Menini per “La Stampa” il 19 febbraio 2023.

La progressiva ascesa ai piani che contano della destra italiana […] non si può certamente negare. Non foss'altro perché a 40 anni è già stata eletta due volte [...] in Parlamento, un mandato in Regione, già dirigente provinciale della defunta Alleanza Nazionale e nell'esecutivo nazionale di Azione Universitaria, sigla che tanto bene ha portato anche a Giovanni Donzelli attuale vicepresidente del Copasir finito al centro delle rivelazioni sulle intercettazioni dell'anarchico Cospito al 41 bis.

E però, spiegazioni personali (ed extraprocessuali) a parte, è davvero pesante la condanna per Augusta Montaruli, da ieri colpevole senza più appello, di peculato e cioè per aver speso 25 mila euro dei cittadini piemontesi non esattamente a fini istituzionali. Un anno e sei mesi, pronuncia definitiva.

 […] Nelle note spese [...] presentate tra giugno 2010 e settembre 2012, ha inserito 20 mila euro di ristoranti, bar e pub, duemila euro per soggiorni in albergo, mille per abbigliamento, articoli per la casa, voce "varie". Tra queste ricadono un microtouch (rasoio depilatore) due gioielli Swarovski (200 euro circa) e composizioni floreali.

 C'è poi la borsa di Borbonese che […] ha dichiarato di aver messo in palio per una lotteria di quartiere, […], 4800 euro per un corso sull'uso dei social network, 7200 per la creazione di un database […] e sei mila euro per un monitoraggio sulla propria reputazione on line.

Infine: lavanderia, sigarette cornici, consumazione in yogurterie, pasticcerie e gelaterie «anche a tarda ora - si legge in sentenza - e in giorni festivi». [...] E poi ci sono due libri finiti nei conti del partito: "Mia suocera beve" e – soprattutto - "Sexploration». L'esperienza del sesso che fa divertire le coppie stanche e annoiate. Edizione Mondadori, allegate istruzioni per l'uso. Un po' hard da far passare tra le spese istituzionali.

 […] All'epoca lei, pasionaria già dai tempi delle battaglie (o se preferite barricate) all'università tra le fila di Azione Studentesca, passata per un viaggio a Predappio con tanto di foto, croce celtica e saluto fascista a braccio teso («un errore di gioventù»), la visse come un agguato dei pm: «Lo tirano fuori ora che la fase istruttoria è chiusa. I procuratori sono in difficoltà rispetto alla mia posizione e usano questo colpo basso proprio». […]. Ha restituito l'intera cifra contestata – «quasi il doppio» – ma le è valsa una attenuante per avvenuta riparazione del danno: in caso contrario la condanna sarebbe stata superiore.

Estratto dell’articolo di Vanessa Ricciardi per “Domani” il 19 febbraio 2023.

La sottosegretaria del ministero dell’Università Augusta Montaruli si è dimessa, ma si reputa innocente e tira ancora in ballo la gioventù. […] Dice di credere nella giustizia, di aver restituito le somme contestate: «Anche da un punto di vista istituzionale ho provveduto a partire dal 2012 ad autoescludermi da ogni candidatura per ben cinque anni ed in ogni caso fino alla prima sentenza di assoluzione». […]

La sottosegretaria era finita al centro delle polemiche già a novembre per le immagini che la ritraevano in pellegrinaggio a Predappio, dove si trova la tomba di Mussolini. «Errori di gioventù», aveva commentato.

 La difesa del suo avvocato [...] è stata che aveva presentato sì gli scontrini di tutto, dalle cene al libro “Sexploration. Giochi proibiti per coppie” prendendo i rimborsi, ma senza fare pressioni e senza ricevere lamentele [...].

 Anche il presidente di Regione, Roberto Cota che fino a oggi l’ha difesa, ha fatto la stessa cosa, e come lei è stato condannato.

Dopo che la cassazione ha confermato il giudizio di colpevolezza [...], Montaruli torna ancora sulla questione dell’età come per Predappio: «Concludo oggi questa vicenda ringraziando tutti i protagonisti perché nel giudizio verso una ragazza di ventisei anni, entusiasta di entrare per la prima volta in un’assemblea legislativa e che riteneva di non dover dubitare delle indicazioni sulle modalità di uso dei fondi dei gruppi, non sono stati mai severi quanto il mio».

 Queste persone «hanno determinato in maniera fondamentale, nel pubblico e nel privato, la donna che sono e che continua a battersi per ciò che è giusto». [...]

 La Cassazione conferma la condanna della sottosegretaria: Montaruli ora è una pregiudicata. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 17 febbraio 2023

La condanna per peculato confermata a Domani da Fratelli d’Italia è di un anno e sei mesi, la ministra Anna Maria Bernini non commenta.

Ha acquistato con i soldi della regione borse, Swarovski e i libri Mia suocera beve e Sexploration, di cui però, riportavano le motivazioni della sentenza dell’appello «non si coglieva il nesso con l’evento letterario sulla violenza sulle donne»

Stefano Bonaccini, favorito nella corsa alla segreteria del Pd, chiede che lasci subito il suo incarico ministeriale. Si apre un enorme caso politico per la presidente del Consiglio che tiene la linea della fermezza su un anarchico al 41 bis nel nome della legalità e insegue i giornalisti nelle aule di tribunale.

La sottosegretaria del ministero dell’Università Augusta Montaruli, deputata vicinissima alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è stata definitivamente condannata per peculato a un anno e sei mesi per il caso dei rimborsi in Piemonte. I fatti risalgono a quando era consigliera regionale. La Cassazione sì è pronunciata giovedì notte: la notizia è stata riportata dalla stampa locale e confermata a Domani da Fratelli d’Italia. La ministra dell’Università Anna Maria Bernini (di Forza Italia) non commenta.

La Corte d’Appello aveva già condannato Montaruli per essersi fatta rimborsare impropriamente spese per un totale di oltre 25mila euro: 20mila euro di bar e ristoranti, borse, Swarovski e altri beni fra cui i libri Mia suocera beve e Sexploration. Giochi proibiti per coppie, di cui però, riportavano le motivazioni, «non si coglieva il nesso con l’evento letterario sulla violenza sulle donne, stranamente organizzato in notturna».

La Cassazione nel 2019 aveva rimandato all’appello e il bis si è concluso nel 2021. Ancora colpevole. La condanna definitiva adesso è di un anno e sei mesi, un mese in meno rispetto a quanto stabilito dalla Corte d’Appello la seconda volta.

IL CASO

Il caso risale quasi a dieci anni fa e riguarda le spese fatte tra il 2010 e il 2014. La procura di Torino aveva contestato una lunga serie di acquisti: cene, abiti di lusso, e, dettaglio entrato di prepotenza nell’immaginario dei media, le mutande verdi del governatore, il leghista Roberto Cota. Le spese contestate a Montaruli all’inizio erano 41.552 euro.

La difesa si basava sul fatto che avevano presentato gli scontrini, ma senza fare particolari pressioni per ottenere i rimborsi: «In merito alle spese attribuite ai miei assistiti – ha detto a questo proposito l’avvocato Guido Carlo Alleva, difensore di Cota e della parlamentare Montaruli (FdI) – non vi furono comunicazioni, discussioni o anche semplici conversazioni con i capigruppo». Non ci sono state «insistenze, proteste o pressioni per ottenere il rimborso, né verso le segretarie, né verso chiunque altro. Si tratta di semplice presentazione di scontrini».

DA PREDAPPIO AL GOVERNO

Montaruli, classe 1983, prima di essere nominata sottosegretaria ha iniziato da giovanissima a fare politica. A partire dai pellegrinaggi a Predappio sulla tomba di Benito Mussolini, che ha definito «un errore di gioventù» a DiMartedì, trasmissione che il 1° novembre ha mostrato la foto dell’happening neofascista in onore del Duce a cui lei ha preso parte.

Rappresentante degli studenti universitari per il Fuan, Fronte universitario d’azione nazionale, ha trasformato il suo attivismo in presenza istituzionale.

Avvocata, Montaruli è stata militante nel Popolo della libertà prima e in FdI poi, consigliera comunale e assessora alla cultura a San Mauro Torinese dal 2007 al 2010. Dopo essere stata eletta consigliere regionale è diventata portavoce nazionale della Giovane Italia nel 2012. Candidata già nel 2013, è entrata a Montecitorio nel 2018, quando il caso dei rimborsi era già conclamato.

La lista dei guai di Fratelli d’Italia nelle aule giudiziarie si arricchise così di un caso inedito, quello di una pregiudicata in parlamento. Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia ed ex avvocato di Meloni, è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio per aver passato al collega di partito Giovanni Donzelli intercettazioni tra l’anarchico Alfredo Cospito e i boss mafiosi al 41 bis.

Nicola Procaccini, europarlamentare e responsabile energia del partito (nonché amico fraterno di Meloni) è indagato con le accuse di turbativa d’asta e induzione indebita a dare o promettere utilità dalla procura di Latina. La legge Severino si applica solo per le pene superiori ai due anni, dunque Montaruli non decade automaticamente dal ruolo di parlamentare, come accaduto a Silvio Berlusconi nel 2013.

Stefano Bonaccini, favorito nella corsa alla segreteria del Pd, chiede che lasci subito il suo incarico ministeriale. Si apre un enorme caso politico per la presidente del Consiglio che tiene la linea della fermezza su un anarchico al 41 bis nel nome della legalità e insegue i giornalisti nelle aule di tribunale. Accetterà che una pregiudicata continui a sedere in parlamento?

VANESSA RICCIARDI

Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Fondi Piemonte, Cassazione conferma condanna per Montaruli. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2023.

Un anno e sei mesi. Ribadite pene anche per Cota e Tiramani

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per il sottosegretario all’Università Augusta Montaruli (FdI) per l’uso improprio dei fondi dei gruppi consiliari del Piemonte negli anni dal 2010 al 2014, applicando uno sconto di pena di un mese rispetto a quanto stabilito dalla corte d’Appello di Torino nel 2021: un anno e sei mesi invece che un anno e sette mesi.

La notizia, anticipata dalla Tgr Piemonte, è stata confermata da ambienti parlamentari del centrodestra. Confermate anche le condanne per l’ex presidente della Regione, il leghista Roberto Cota (un anno e sette mesi), e per l’ex deputato ed ex sindaco di Borgosesia, Paolo Tiramani, sempre della Lega, (un anno e 5 mesi).

Il caso risale quasi a dieci anni fa e riguarda le spese fatte tra il 2010 e il 2014. La Procura di Torino, spulciando i rimborsi dei consiglieri torinesi, aveva contestato una lunga serie di acquisti: cene, abiti di lusso, le mutande verdi del governatore allora leghista Roberto Cota. Le spese contestate a Montaruli all’inizio erano di 41.552 euro.

La vicenda giudiziaria

In primo grado i giudici avevano creduto alla sua versione e giudicato legittime buona parte delle spese sostenute, tra cui un corso per l’uso dei social network da 4.800, spese per la creazione di database per 7.200 euro, monitoraggio della reputazione online per 6mila. Se l’era cavata con 4 mesi per finanziamento illecito. La Corte d’Appello aveva ritenuto poi Montaruli colpevole di essersi fatta rimborsare impropriamente spese per un totale di oltre 25mila euro, tra bar e ristoranti, borse, Swarovski e libri come «Mia suocera beve» e «Sexploration. Giochi proibiti per coppie», di cui però, riportavano le motivazioni, «non si coglieva il nesso con l’evento letterario sulla violenza sulle donne, stranamente organizzato in notturna». La Cassazione nel 2019 aveva rimandato indietro, e l’appello bis si era concluso nel 2021: un anno e sette mesi. La condanna definitiva adesso è di un anno e sei mesi, un mese in meno rispetto a quanto stabilito dalla Corte d’Appello la seconda volta.

Montaruli si dimette, "sono innocente, difendo istituzioni". (ANSA il 18 febbraio 2023) Augusta Montaruli si dimette da sottosegretario all'Università, dopo la condanna definitiva per l'uso improprio dei fondi dei gruppi consiliari del Piemonte negli anni dal 2010 al 2014. "Ho deciso di dimettermi dall'incarico di Governo - dice l'esponente di FdI - per difendere le istituzioni certa della mia innocenza"

Estratto dell’articolo di Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 18 febbraio 2023.

La sottosegretaria  Augusta Montaruli  condannata in via definitiva a un anno e sei mesi di è dimessa. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni fino a inizio mese parlava di «certezza del diritto e certezza della pena».

 Intendiamo esattamente fino al 5 febbraio, quando all’Auditorium della Conciliazione, in occasione dell’evento di chiusura della campagna elettorale di Francesco Rocca (oggi presidente del Lazio) scandiva: «Certezza del diritto, certezza della pena. Che significa che chi è indagato o sotto processo deve avere il massimo delle garanzie, ma significa anche che quando sei condannato con sentenza passata in giudicato la pena te la devi scontare».

La Cassazione giovedì notte ha confermato la sentenza della Corte d’appello che ha chiarito che Montaruli, oggi deputata e con un ruolo di governo, quando era consigliera regionale in Piemonte si è fatta rimborsare indebitamente spese per 25 mila euro, tra cene di lusso, borse, Swarovski, e un libro piccante, e per questo si è macchiata di peculato. Nessuno di Fratelli d’Italia, nonostante il partito abbia confermato la sentenza, finora si è espresso, nemmeno la presidente del Consiglio che ha indicato il nome di Montaruli per l’incarico ministeriale. […]

Montaruli, la telefonata con la premier e la linea delle dimissioni. Gli altri attriti con i forzisti. Storia di Giuseppe Alberto Falci su Il Corriere della Sera il 18 febbraio 2023.

Dice di essersi dimessa spontaneamente, senza alcuna spinta da parte di Palazzo Chigi. Augusta Montaruli, dirigente di FdI e ormai ex sottosegretaria all’Università, si trova nella sua Torino quando diffonde la lettera in cui annuncia il passo indietro da membro dell’esecutivo Meloni. Il suo telefono squilla per tutta la mattinata. Dimettersi o non dimettersi, è il dilemma che travolge lei e in particolare la war room di Palazzo Chigi. La condanna in via definitiva per peculato a un anno e sei mesi non può prevedere scenario diverso dalla fine del mandato da sottosegretario. A maggior ragione per un partito, come Fratelli d’Italia, che batte il tasto ripetuto recentemente da Giorgia Meloni: «Certezza del diritto e della pena significa che chi è indagato o sotto processo deve avere il massimo delle garanzia ma chi è condannato con sentenza passata in giudicato la pena se la deve scontare, vale per tutti».

Se vale per tutti vale anche per Montaruli, il cui percorso ora dopo ora appare segnato. Non a caso, un minuto dopo il beau geste di Montaruli, la linea di diversi ministri meloniani diventa: «Augusta, come tutti noi, crede nella giustizia. Ha scolpito nella sua lettera affermazioni corrette e condivisibili utili a salvaguardare il governo e il partito. Il che differisce da chi nel passato non ha avuto lo stesso atteggiamento...». Il riferimento, nemmeno poi così velato, sembra essere rivolto agli alleati di Forza Italia. «Non confermo, né smentisco», sorride un altissimo dirigente di Fratelli d’Italia.

Così, la versione ufficiale prevede che le dimissioni siano da ascrivere solo al senso di responsabilità di «Augusta» che «è una intransigente, rigorosa, una a cui non c’è bisogno di chiederle di dimettersi e che ora potrà dedicarsi al lavoro da deputato e al partito».

Dopodiché, c’è un’altra versione che fa il giro dei cellulari di diversi protagonisti del governo. Montaruli fa parte del primo girone dei fedelissimi dell’inquilina di Palazzo Chigi, gode della massima stima da parte di Meloni. Dunque, non può che avere concordato la strategia con la presidente del Consiglio e leader di FdI. Risulta allora «evidente — assicurano nel partito — che c’è stato un confronto tra Giorgia e Augusta. E per evitare di finire attaccate dentro e fuori la maggioranza, hanno deciso di comune accordo il passo indietro. Non possiamo permetterci due pesi e due misure».

Non è dato sapere se le telefonate siano state più di una o se la questione si sia risolta con un semplice «non hai altra scelta». C’è anche chi sostiene che la lettera fosse pronta da diversi giorni. Fatto sta che l’affaire Montaruli piomba sul tavolo in un contesto non facile per il cammino dell’esecutivo, vedi lo scontro sul Superbonus tra Palazzo Chigi e gli azzurri di Forza Italia. Per di più al mattino il primo a pronunciare la parola dimissioni è stato il berlusconiano Giorgio Mulè ai microfoni di Rainews24: «Va fatta una valutazione perché in questo caso c’è una condanna definitiva, si deve valutare se mette in imbarazzo il governo». Segue reazione da parte di «fonti di FdI»: «Mulè pensava di metterci in difficoltà con le sue provocazioni: invece ha preso uno schiaffo morale dalla Montaruli la cui impronta gli manterrà la faccia ben più rossa di quanto rubiconda già sia. Che provocatorie insinuazioni vengano da un personaggio come Mulè, che di pregiudicati eccellenti nel suo partito ne vanta più di uno, è intollerabile». Mulè controreplica: «Poiché ritengo impossibile che queste espressioni siano da attribuire a fonti autorevoli mi vedo costretto a sollecitare gli autorevoli esponenti di FdI a prendere le distanze da queste gravissime, velenose e calunniose affermazioni al limite della minaccia». Non è finita qui, perché a sera il direttivo di FdI precisa: «Anche FdI non risponde agli anonimi e se avesse dovuto rispondere a Mulè lo avrebbe fatto di persona e non attraverso le agenzie». Come dire: prendono sì le distanze da quanto attribuito a «fonti di FdI», ma non negano il malumore nei confronti di Mulè. E la lite continua.

Mulè escluso dal governo Meloni ha qualche nervo scoperto o forse la memoria corta…? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2023

Mulè ha dimenticato la condanna del suo amato presidente-sponsor-protettore Berlusconi, anch'egli condannato in via definitiva (con ritiro del passaporto !) che ciò nonostante resta il "deus ex machina" e principale finanziatore di Forza Italia.

Il crescente “nervosismo” di Mulè” ed il suo sentimento di gratitudine reverenziale nei confronti del suo leader-padrone Silvio Berlusconi, devono averlo accecato al punto tale da offendere in diretta, il collega giornalista Alessandro De Angelis, condirettore del quotidiano Huffington Post, che peraltro è il compagno nella vita dell’attuale ministro Annamaria Bernini (anche lei esponente di Forza Italia) .

Nel corso della puntata del 15 febbraio di Tagadà (La7) talk show politico condotto da Tiziana Panella, affrontando il discorso dell’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter (grazie solo ad un errore procedurale della Procura di Milano e non certamente nel merito) , Mulè se l’è presa con De Angelis, intervenuto nel corso della stessa trasmissione: “La persecuzione giudiziaria nei confronti di Berlusconi si concretizza nella 135ª assoluzione perché il fatto non sussiste, non per l’insufficienza di prove o per non aver commesso il fatto, ma perché il fatto non c’è. De Angelis, bestemmiando alla sua stessa professionalità, dice cose che non vanno bene quando parla di ‘quelli di Forza Italia che si devono guadagnare lo stipendio’. In realtà è De Angelis, che per guadagnarsi due minuti di popolarità debba continuare a gettare fango nei confronti di chi dice le sue idee in maniera lineare. Lo lascio alla sua ignoranza. Se una persona viene assolta questo alto numero di volte c’è un problema in questo Paese. De Angelis ha detto tante fesserie”.

La conduttrice Tiziana Panella ha immediatamente difeso la libertà di De Angelis e dei vari giornalisti di discutere del caso Berlusconi, in quanto era il presidente del Consiglio all’epoca. Mulè non accetta il rimbrotto e resta della sua idea: “Io non mi permetto di giudicare la morale di De Angelis, né quella di nessun altro. C’è una verità giudiziaria però. Se la porta della camera da letto è chiusa e c’è un rapporto consenziente non autorizzo nessuno a farmi la morale. Non accetto la morale di ‘Don’ De Angelis. È un caso giudiziario che dovrebbe fare scuola su come non si fa un’inchiesta in Italia”. Ma probabilmente Mulè deve aver dimenticato di leggere con attenzione il codice di procedura penale, nonostante abbia iniziato la sua carriera come cronista di giudiziaria.

Leggere poi successivamente le ultime dichiarazioni del vicepresidente della Camera Mulè, rivolte alla parlamentare Montanaruli esponente del partito del premier Giorgia Meloni, in seguito alla condanna definitiva a un anno e sei mesi per peculato nel processo ‘Rimborsopoli’ della Regione Piemonte insieme ad altri consiglieri regionali la quyale ha dichiarato:  “Ho deciso di dimettermi dall’incarico di Governo per difendere le istituzioni certa della mia innocenza – annuncia Montaruli -. Se ciò non avvenisse sarei come coloro che vorrebbero demolito il senso dello Stato, rendendolo debole con una ricerca costante di una giustificazione alle proprie azioni, sentendosi moralmente superiori o cercando di piegare le norme ai comportamenti, addirittura ostentando clemenza verso chi agita l’arma del ricatto e per scappare dalla legge si vorrebbe ridisegnare vittima, rimanendo nell’ombra davanti alla ‘protesta più forte’ di chi la vita se l’è tolta davvero poco più di un anno fa”.

Mulè evidentemente desideroso di uscire sui giornali aveva subito dopo commentato riferendosi alla Montanaruli: “Lei o il suo partito devono trarre le conseguenze e capire cosa fare, nel suo caso c’è una condanna definitiva, si deve valutare se mette in imbarazzo il governo”, dimenticando però la condanna del suo amato presidente-sponsor-protettore Berlusconi, anch’egli condannato in via definitiva (con ritiro del passaporto !) e ciò nonostante resta il “deus ex machina” e principale finanziatore di Forza Italia. Onestamente viene solo da ridere o preoccuparsi che Mulè così giovane stia perdendo la memoria. Ma probabilmente la citazione latina “pecunia non olet” (trad.: i soldi non puzzano) deve essere molto presente nella sua nuova vita politica fuori dal Governo eletto grazie al volere di Silvio Berlusconi., che alle ultime elezioni politiche anticipate del 25 settembre 2022 lo ha candidato alla Camera dei deputati come capolista nel collegio plurinominale (cioè listino “bloccato”) di Palermo dove è stato eletto.

Alcune agenzie stampa hanno riportato le repliche di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia. “Mulè pensava di metterci in difficoltà con le sue provocazioni: ha preso uno schiaffo morale dalla Montaruli la cui impronta gli manterrà la faccia ben più rossa di quanto rubiconda già sia. Che provocatorie insinuazioni vengano da un personaggio come Mulè, che di pregiudicati eccellenti nel suo partito ne vanta più di uno, è intollerabile”, come ha riportato l’Agi, attribuendo il virgolettato ad esponenti di Fratelli d’Italia. Le parole di Mulè, rilevano in Fratelli d’Italia, “hanno creato infatti non poco subbuglio, visto che anche Berlusconi è un condannato in via definitiva e ciononostante resta il deus ex machina degli azzurri“.

L’attuale vicepresidente della Camera Giorgio Mulè ha la memoria corta…dimenticando una propria condanna subita nel 2013 dal Tribunale di Milano a 8 mesi di reclusione senza sospensione condizionale della pena, dal giudice di primo grado, Caterina Interlandi, ricevuta durante la sua direzione del settimanale Panorama il cui editore era Silvio Berlusconi attraverso le società di famiglia. Mulè venne processato per una diffamazione ai danni del procuratore di Palermo, Francesco Messineo, in relazione ad un articolo del 2010 pubblicato sul settimanale che lui dirigeva.

Mulè era stato condannato per aver definito il magistrato Messineo “come “privo di carisma”, dirigente della Procura di Palermo solo formalmente e “tanto in ombra” come “Procuratore a termine”, a cui si contrappone “un Procuratore ombra, che è il vero capo”, “discusso Messineo” e così via, il tutto con un riferimento insinuante a vicende familiari della parte offesa“. La condanna per fortuna di Mulè venne ribaltata dalla Corte d’Appello che assolse Mulè “perché il fatto non sussiste”.

Il permaloso vice presidente della Camera azzurro, ha replicato piccato a Fratelli d’ Italia : “Leggo su tutte le agenzie di stampa frasi che mi riguardano con il ricorso a espressioni gravi e grevi attribuite a “fonti autorevoli di Fratelli d’Italia”. Non c’è risposta alcuna da dare per il semplice fatto che tutta la costruzione delle invettive anonime si basa su fatti mai avvenuti. Poiché ritengo impossibile che queste espressioni siano da attribuire a “fonti autorevoli” mi vedo costretto a sollecitare gli autorevoli esponenti di Fratelli d’Italia a prendere immediatamente le distanze da queste gravissime, velenose e calunniose affermazioni al limite della minaccia“, dice Mulè. “Ove ciò non avvenisse – ma lo escludo dice Mulè – mi appello ai giornalisti affinché rivelino l’identità di queste “fonti autorevoli” facendole uscire da un anonimato che sa solo di viltà“. A parere nostro di viltà c’è solo il suo attacco alla Montanaruli.

Ma possibile che nessuno abbia mai ha spiegato a Mulè che esiste il segreto professionale per i giornalisti? Possibile che non abbia letto nel corso della sua fortunata carriera migliaia e migliaia di dichiarazioni a giornali ed agenzie di stampa, provenienti da “ambienti” di vari partiti ? Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di T.L. per il “Corriere della Sera” il 20 febbraio 2023.

«[…] questi, da quando è nato il governo, non solo non tollerano il benché minimo accenno di dissenso rispetto a quello che fanno e dicono. Questi o la pensi come loro oppure sei un loro nemico. Ragionano sulla base dell’“O con noi o contro di noi”. Tutti quelli con un minimo di pensiero autonomo, loro li vogliono sottomessi, con la testa nell’acqua, morti».

Lui è Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera, carattere ruvido, pensiero altrettanto, uno che non le manda a dire e che spesso non si trattiene. I «loro» a cui si riferisce […] sono invece i Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni. […] Mulè è una furia. Già di suo si surriscalda quando lo accusano di essere una spina nel fianco della maggioranza o un falco di Forza Italia, figurarsi ieri. […] «Mulè pensava di metterci in difficoltà con le sue provocazioni (...), ha preso uno schiaffo morale dalla Montaruli, la cui impronta gli manterrà la faccia molto più rossa di quanto rubiconda già sia».

 […] Le dichiarazioni agguerrite di Mulè sulle dimissioni dell’ormai ex sottosegretaria ingialliscono in mezzo secondo come una vecchia foto dimenticata in un cassetto e lui stesso, […] sembra sconfessato dal Cavaliere in persona. Un collega di partito lo chiama per chiedergli lumi, lui risponde mandandogli il video con le risposte a Sabato24 su Rainews.

«Ma quale sconfessato e fuori linea, Berlusconi dice le cose che avevo detto io, ascolta bene! […] Io non penso di dire cose campate in aria. Porto in giro la linea di Forza Italia, che è quella di un signore che ha fatto per anni il presidente del Consiglio e che ha fondato il centrodestra, che si chiama Silvio Berlusconi. Il problema sono questi», e cioè Fratelli d’Italia, «che da quando è nato il governo si sono scoperti seguaci di un pensiero unico: il loro. Su tutto, dalla composizione della squadra dell’esecutivo al Superbonus, o si fa come dicono o sei un nemico. Vediamo come va a finire...».

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 20 febbraio 2023.

«Scriva: questo comunicato di Fratelli d’Italia contro di me equivale alle scritte che si vergano nei cessi degli autogrill». Bum! Alle nove di sera il vicepresidente della Camera Giorgio Mulé, uno dei dirigenti più in vista di Forza Italia, non ha nessuna intenzione di porgere l’altra guancia. È gelido.

 In mattinata, ospite di Rai News, aveva chiesto alla sottosegretaria all’Università, la meloniana Augusta Montaruli, condannata per peculato in Rimborsopoli, di prendere in considerazione le dimissioni. «Lei e il suo partito devono trarre le conseguenze e capire cosa fare, nel suo caso c’è una condanna definitiva, si deve valutare se mette in imbarazzo il governo », aveva detto Mulé.

Poi Montaruli si è dimessa da sottosegretaria all’Università. E a quel punto «fonti autorevoli» di Fratelli d’Italia davano, sulle agenzie di stampa, dell’ubriacone a Mulé: «Pensava di metterci in difficoltà con le sue provocazioni: invece ha preso uno schiaffo morale dalla Montaruli, la cui impronta gli manterrà la faccia ben più rossa di quanto rubiconda sia già». Poi, a rincarare la dose, si ricordava che Forza Italia di «pregiudicati eccellenti ne vanta più di uno».

 Schiaffo contro schiaffo. Veleno contro veleno. Dentro la maggioranza di destra che governa il Paese è un ring continuo. Balneari. Super bonus. La commissione d’inchiesta sui giudici, proposta dal forzista Cattaneo e stoppata dai meloniani: i fronti del dissidio sono ormai quotidiani. Mulé ha aspettato per tutto il pomeriggio una telefonata di scuse da qualche big di FdI. Nessuno lo ha cercato.

[…] In Fratelli d’Italia si accorgono di avere forse esagerato un po’ con quel cazzotto sferrato a Mulé. Allora viene diramata una nota del direttivo del partito: «Anche Fratelli d’Italia non risponde agli anonimi e se avesse dovuto rispondere a Mulé lo avrebbe fatto di persona e non attraverso le agenzie». Insomma Fratelli d’Italia smentisce Fratelli d’Italia. Il centrodestra italiano è sempre più il partito dell’amore.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 20 febbraio 2023.

Cita Angelo Massimino, l’indimenticato presidente del Catania: «L’amalgama non si può comprare, perciò noi il partito unico non lo faremo». Sornione e diretto, […] Giorgio Mulé di Forza Italia, il vero capo dell’opposizione interna a Giorgia Meloni. […] si è ritagliato la parte del guastafeste di lotta e di governo. Sul decreto Rave. Sul Superbonus. Sulla Finanziaria, definita «una tisana». L’altro giorno quelli di Fratelli d’Italia hanno perso la pazienza e gli hanno dato dell’ubriacone […]

 […] «Non vogliamo fare le ancelle. Non siamo in maggioranza per ascoltare le messe cantate. Siamo i liberali, i garantisti, gli europeisti, e vogliamo dire la nostra con piena dignità». […] Con Meloni solo per sporadici messaggi. Circola voce che la premier un giorno lo abbia rimproverato per l’eccesso di autonomia. Mulé teme come tanti che Meloni voglia fagocitare Forza Italia alle Europee.

Mulé non sa celare il proprio malumore. E quando Giovanni Donzelli attaccava il Pd lui, che presideva l’Aula, per tre volte ha cercato di contenerlo, invitandolo a chiudere l’intervento. «Niente, io ho provato a metterlo in guardia che stava facendo un grave errore di ortografia: non si attacca in quel modo l’opposizione». Ora Francesco Lollobrigida va dicendo in giro che Mulé farà la fine dei finiani. «Minchiate!», reagisce Mulé, e si mette a ridere.

[…] Reputa i meloniani troppo baldanzosi, irrispettosi, hanno trattato male Berlusconi, non volevano Ronzulli ministro, Giuseppe Mangialavori sottosegretario. Insomma, a mettere in fila i fatti, più che una battaglia ideale sembra una manovra di posizionamento. […] Ha 54 anni. È figlio di un oculista e di un’insegnante di lettere. Terzo di quattro figli maschi. Infanzia a Mazara del Vallo, in Sicilia, dove la mamma, di 82 anni, vive ancora.

 Sono le zone di Matteo Messina Denaro. «Avevo amici di Castelvetrano, chi dice che sono tutti omertosi non conosce la complessità dell’isola, e nemmeno io del resto l’avrei riconosciuto se l’avessi incontrato per strada». […]

Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini per “il Fatto quotidiano” il 20 febbraio 2023.

[…] Francesco Lollobrigida, fedelissimo della premier e ministro dell’Agricoltura, risponde per le rime: “Il controcanto modello Fini non ha mai pagato, anzi è l’inizio della decadenza – dice Lollobrigida al Fatto Quotidiano – e Forza Italia dovrebbe saperlo bene...”. Una risposta al veleno che va a colpire proprio Berlusconi, “vittima” dell’opposizione interna dell’ex presidente della Camera accusato ad Arcore di essere un “traditore”. […]

Da agi.it il 20 febbraio 2023.

"Gentile Direttore, caro Alessandro, c’è un limite invalicabile alla critica ed è quello di aver sempre accanto il beneficio della verità. O almeno dell’interpretazione di un fatto realmente accaduto".

 Lo scrive Giorgio Mulè, vice presidente della Camera ed esponente di Forza Italia, in una lettera al direttore di 'Libero', Alessandro Sallusti, in cui esprime il suo dispiacere per un editoriale sul quotidiano di ieri "su un fatto mai accaduto.

Chiamiamolo col suo nome: una patacca. Sulla vicenda dell’onorevole Montaruli mi hai attribuito di aver 'provato a girare il coltello nella piaga con una uscita di prima mattina intempestiva e violenta nei confronti degli alleati'".

 "Caro Alessandro, non ho mai pronunciato questa frase e neppure è tollerabile una sintesi che riporti le parole che tu mi hai attribuito tra virgolette". Intervistato ieri ida Rainews24 "ho replicato, come ripeto da giorni, di non ravvisare alcun motivo perché presenti le dimissioni dall’incarico sia perché i fatti sono stati chiariti sia perché giudico una barbarie chi usa indagini - per giunta preliminari - per fini politici". Incalzato dai giornalisti presenti, casomai sarebbero dovuti essere lei e il suo partito a valutare quest’opportunità e che l’eventuale ulteriore valutazione sull’imbarazzo che questa vicenda avrebbe creato all’esecutivo" spettava solo a Montaruli e a Fratelli d’Italia".

"Per questo ho trovato davvero ingiusta la sintesi che, basata su parole da me mai pronunciate, hai fatto sul tuo giornale. Tralascio il contenuto dell’ignobile e anonimo comunicato diffuso nel pomeriggio dalle agenzie di stampa attribuito a 'fonti autorevoli' di Fratelli d’Italia che mi riguardava. Lo cito unicamente per sottolinearti quanto questa subcultura della vigliaccheria sia lontana anni luce dalla mia persona e non troverà mai cittadinanza nella mia modalità di confronto".

 La replica di Sallusti: "Gentile onorevole, se si fosse trattato di una patacca non credo che Fratelli d’Italia avrebbe reagito come ha reagito né che tutti i giornali d’Italia l’avrebbero riportata con grande evidenza in prima pagina. Ammetto la sintesi eccessiva che però non cambia la sostanza di aver lei auspicato le dimissioni di un sottosegretario di un partito alleato in quanto colpito da 'sentenza definitiva', alias pregiudicato".

Gianfranco Fini.

Il lungo viaggio di Fini che non lo portò al governo.

Caro Aldo,

noto negli ultimi tempi il ritorno di Gianfranco Fini nei salotti televisivi. Mi suona una operazione di restituzione di dignità (dopo i fatti dell’appartamento di Montecarlo) per preparare la sua candidatura alle prossime elezioni del capo dello Stato. Probabilmente unico nome presentabile dalla destra. Che opinione ha del personaggio?

Riccardo Benini

Caro Riccardo,

Quando alla fine degli anni ’90, dopo dieci anni passati a occuparmi di esteri, mi mandarono a fare il cronista politico a Roma, inevitabilmente incontrai un po’ tutti i leader su piazza. D’Alema era presidente del Consiglio e com’è noto non amava i giornalisti, anche se conversare con lui era tutt’altro che impossibile o inutile. Berlusconi era all’opposizione ma difficile da avvicinare, anche perché la scorta menava. Bossi era divertente ma poteva rimangiarsi il giorno dopo quello che aveva detto. Gli altri erano troppo prudenti o non contavano molto. Gli unici due leader che amavano il contatto anche confidenziale con i cronisti erano quelli alle estreme: Fausto Bertinotti e, appunto, Gianfranco Fini. Lo seguii nelle campagne elettorali e nel viaggio a Gerusalemme del 2003, quello del «fascismo male assoluto», frase in realtà da lui mai pronunciata. Era un «totus politicus», un uomo del tutto dedito alla politica, e per questo non amava Berlusconi, non riamato. Era convinto che la destra italiana per andare al potere dovesse fare tre cose: riconoscersi nell’antifascismo, condannando senza reticenze non solo le leggi razziali e l’alleanza con Hitler, ma tutta la sua politica; aprirsi a forze riformiste e di centro, ad esempio quelle referendarie di Mario Segni; diventare il motore di una riforma costituzionale, da concordare con la sinistra, in modo da rafforzare il legame tra i cittadini e le istituzioni, e rendere i governi più solidi e capaci di decidere. Oggi possiamo serenamente concludere che la sua convinzione era errata: la destra italiana è andata al governo senza fare nessuna di queste tre cose; ma con il consenso della maggioranza relativa degli italiani, che è poi quello che in democrazia conta. Per ottenerlo è bastato attendere il declino della lunga parabola di Berlusconi e lo spegnimento della fiammata Salvini. Quando dicono che questo non è il tempo di Fini, non dicono il falso. Altro che Quirinale. Però sarebbe altrettanto falso raffigurarlo come un amico della sinistra. Resterà come quello che ha «abbandonato la casa del padre». Una scelta che, insieme con la rottura di Berlusconi, gli è costata molto (altro che casa di Montecarlo); però era giusta.

25 aprile, Fini: “Meloni e La Russa dicano che FdI si riconosce nei valori antifascisti. Non giustifico la ritrosia a usare quest’aggettivo”.  Il Fatto Quotidiano il 23 aprile 2023. 

“Spero che Giorgia Meloni voglia cogliere anche questa occasione per dire senza ambiguità – lei non è una donna ambigua – e reticenze che la destra i conti con il fascismo li ha fatti in fondo e senza infingimenti quando è nata Alleanza nazionale. An condannò il fascismo, Giorgia Meloni ha questa sensibilità”. Dopo i distinguo dei leader della Lega (prima Matteo Salvini e Luca Zaia, poi Lorenzo Fontana), a mettere in mora Fratelli d’Italia sulla Liberazione arriva anche Gianfranco Fini, l’ex delfino di Giorgio Almirante, l’ultimo leader del Movimento sociale italiano e il primo di An, promotore della svolta di Fiuggi con cui la destra abbandonò i riferimenti ideologici al fascismo. “Ancora una volta un 25 aprile di divisione, di polemiche e in alcuni casi di risse. Tutti si devono chiedere perchè e fare quello che possono per evitare che nei prossimi anni si sia nelle stesse condizioni. E deve farlo soprattutto la destra, che oggi governa forte di un voto indiscutibile e che per alcuni non avrebbe fatto i conti col suo passato”, avverte, ospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora in più su Rai 3.

Invece, secondo Fini, la destra “i conti li ha fatti”: “Proprio perché conosco Ignazio La Russa da una vita e Giorgia anch’essa da tanto tempo, sono convinto che ne siano consapevoli, ergo, soprattutto la premier, abbiano la determinazione nel dire chiaramente quello che so che ritengono veritiero: libertà, giustizia, solidarietà sono valori antifascisti, perché i sono valori della Costituzione. Non capisco la ritrosia a pronunciare questo aggettivo. O meglio, la capisco ma non la giustifico. Si dica chiaramente che FdI si riconosce nei valori antifascisti”, incalza. E fa una precisazione anche sul concetto di “pacificazione” più volte tirato in ballo da destra: “Pacificazione non vuol dire parificazione, pacificare vuol dire avere una memoria condivisa di quello che è accaduto: tutti coloro che sono caduti per i valori in cui credevano vanno onorati, i criminali no, però occorre anche saper distinguere qual era la parte giusta e quale la parte sbagliata, questo è il punto ineludibile”. Ma “bacchetta” anche la sinistra: La smetta di avere la paternità esclusiva della Resistenza, nella Resistenza c’erano anche uomini di destra, Mattei era un partigiano”. 

Se con la scusa dell’antifascismo Fini si riprende la ribalta mediatica. Gianfranco Fini, ex segretario di Alleanza Nazionale. Per l’ex presidente della Camera il suo invito a Meloni «è stato accolto nella sostanza». Francesco Damato su Il Dubbio il 27 aprile 2023

Incalzato da Roberto Gressi sul Corriere della Sera dopo le “riflessioni” affidate da Gorgia Meloni allo stesso giornale per spiegare la posizione sua personale e del proprio partito dopo le accuse di reticenza, quanto meno, rivoltele in vista della festa di Liberazione del 25 aprile, Gianfranco Fini non ha mai avvertito il bisogno di sbottare, come umanamente forse si aspettava la presidente del Consiglio, per il tentativo di contrapporlo ancora alla sua ex enfant prodige. Ch’egli ai tempi d’oro volle vice presidente della Camera e poi ministra con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi.

Non solo Fini non è sbottato ma, quasi stressato, ha finito - nomen omen- per accogliere o soddisfare l’attesa, l’interesse, chiamatelo come volete, dell’intervistatore di marcare una differenza dalla premier sul terreno di un antifascismo da chiamare per nome, magari rafforzato da qualche aggettivo. «Di certo - ha detto riferendosi a ciò che aveva dichiarato a Lucia Annunziata in televisione, a Rai 3, procurandosi critiche e anche improperi da quelle che una volta erano le sue parti - il mio invito a molti a definirsi antifascista non è stato accolto alla lettera: nel lessico non cita l’antifascismo».

Questa risposta - che Fini ha voluto dare pur conoscendone la possibile strumentalizzazione da politico e da giornalista per quanto ormai in pensione, dove peraltro l’uno e l’altro non finiscono mai davvero quando accettano di parlare e di scrivere dell’attualità - ha un po’ ridotto, depotenziato tutto il resto dell’intervista. In cui l’ex leader della destra italiana ha detto che il suo invito alla Meloni «è stato accolto nella sostanza, nei valori richiamati e nei riferimenti alla destra del dopoguerra».

«Al riguardo non avevo, per la considerazione che ho del presidente del Consiglio, alcun dubbio», ha aggiunto l’intervistato smentendosi - nella sostanza, direi per rimanere al suo fraseggio - rispetto alle parole usate con l’Annunziata. Alla quale aveva detto, in particolare, di «comprendere» ma non condividere la ritrosia della premier a dichiararsi antifascista. Il suo vecchio maestro Giorgio Almirante, che lo preferì nella successione nonostante il parere diverso poi rivelato da “donna Assunta”, come veniva chiamata la consorte del leader missino, avrebbe detto meglio e più di Fini con quell’astuzia e prontezza di riflessi che lo distinguevano. E che giornalisti anche famosi schierati politicamente su fronti opposti o comunque diversi dal suo temevano disertandone le tribune televisive - o mandandovi altri di grado minore a rappresentare le loro testate - col pretesto di non volere deflettere da un antifascismo intransigente, sino alla discriminazione. Che sulle piazze diventava anche licenza alle aggressioni e persino alla morte. È stato appena celebrato in Parlamento il famoso eccidio di Primavalle, a Roma, dove due figli del segretario di quartiere del Movimento Sociale arsero vivi nella loro abitazione per un incendio appiccato da militanti di sinistra riusciti a farla franca, non certo da soli.

Fra i meriti riconosciuti alla Meloni nelle riflessioni affidate al Corriere della Sera Fini ha ricordato come un inedito nella storia della destra anche il richiamo al leader storico del comunismo italiano, Palmiro Togliatti, per l’amnistia voluta come ministro della Giustizia a favore dei fascisti dopo la Liberazione. Che per lui doveva fare prima il più rapidamente possibile con pacificazione.

Giuliano Ferrara, che Bettino Craxi amichevolmente mi diceva «cresciuto sulle ginocchia di Togliatti», del quale la madre era stata segretaria, ha colto bene, e più esplicitamente di Fini, sul Foglio l’importanza del richiamo della Meloni. «È una notazione storica significativa e intelligente, in armonia con quanto ho appreso nella mia formazione in una famiglia di resistenti comunisti e togliattiani, in conflitto con la vulgata resistenziale degli epigoni dell’azionismo politico e culturale, una componente minoritaria ma nobile e tenace della Resistenza convinta che la guerra di Liberazione dovesse mettere capo a una svolta radicale e moralmente rigeneratrice, dalle fondamenta, della storia italiana», ha scritto Giuliano.

Politicamente ancora più incisiva, e soprattutto attuale, mi sembra la conclusione del ragionamento del fondatore del Foglio. «Con l’aiuto - egli ha scritto - di un testimone a sorpresa nella sua penna, Togliatti, e della sua posizione resistenziale sulla guerra oggi in Ucraina, il capo della prima maggioranza e del primo governo di destra democratica della Repubblica argomenta le sue tesi a favore della riconciliazione nel segno inclusivo per tutti della libertà. Non è poco come risultato ultimo e come vittoria nazionale di un 25 aprile privato della sua componente retorica, restituito al suo vero significato politico a quasi ottant’anni da quel giorno fatale».

Resta ora da vedere se a Fini, per tornare a lui, con quel pur riduttivamente “sostanziale” riconoscimento fatto alla Meloni di avere risposto alle sue sollecitazioni antifasciste alla vigilia del 25 aprile, riuscirà di sottrarsi alla nebbia politica in cui si infilò nel 2010 rompendo con Berlusconi pur col piombo nelle ali costituito dalla famosa vicenda, ora anche giudiziaria, di una casa del suo partito, a Montecarlo, lasciata inconsapevolmente nelle mani speculative della sua nuova famiglia. Lui ha assicurato nell’intervista al Corriere di non avere ambizioni o progetti politici, declassati a «sciocchezze» attribuitegli da altri. Ma la carne, si sa, è umanamente debole

Bollinature. Gianfranco Fini dice che Giorgia Meloni è antifascista nella sostanza. Linkiesta il  26 Aprile 2023

L’ex leader di Alleanza nazionale sottolinea il valore dei gesti simbolici: «Cosa significa quindi l’abbraccio tra Meloni e Paola Del Din, medaglia d’oro della Resistenza, combattente antifascista della Brigata Osoppo, se non la concreta, fisica dimostrazione di credere davvero nel valore supremo della libertà e di onorare coloro che rischiarono la vita per restituirla al nostro popolo?» 

L’ex leader di Alleanza nazionale Gianfranco Fini al congresso di Fiuggi disse che è giusto chiedere alla destra di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato. E in continuità con questo ragionamento, ha chiesto a Giorgia Meloni di vincere la ritrosia a pronunciare l’aggettivo «antifascista».

Invito non accolto alla lettera, visto che – come lo stesso Fini ammette – nella lettera che la presidente del Consiglio ha scritto al Corriere per il 25 aprile, l’antifascismo non viene citato. Ma l’invito «è stato accolto nella sostanza, nei valori richiamati e nei riferimenti alla destra del dopoguerra», la difende Fini sul Corriere. «Al riguardo non avevo, per la considerazione che ho del presidente del Consiglio, alcun dubbio».

Nella lettera, Meloni ha parla di festa della libertà, e non della «Liberazione». Fini commenta: «È ovvio che se oggi possiamo festeggiare il 25 aprile come festa della libertà è solo perché gli italiani sono tornati liberi con la fine del regime fascista. Meloni ha scritto anche che “i costituenti affidarono alla forza della democrazia il compito di includere anche chi aveva combattuto tra gli sconfitti”. E ha fatto un inedito, per la destra, quanto esplicito riferimento all’amnistia firmata da Togliatti. È un concetto importante perché sottolinea l’auspicio che la celebrazione del 25 aprile non sia più strumentalmente utilizzata per stilare la lista “dei buoni e dei cattivi”, non già, come è giusto, in ragione del giudizio sul fascismo e sulla Resistenza, bensì in ragione della contrapposizione politica tra destra e sinistra».

Meloni ha richiamato le parole di Violante su una certa “concezione proprietaria della Resistenza”, secondo Fini, «per ricordare con garbo che è storicamente vero che, specie nel biennio ’43-’45, non tutti gli antifascisti credevano nella democrazia liberale. Una parte guardava all’Urss come riferimento politico e culturale. E non si tratta di mistificazione. Ma oggi che fortunatamente nessuno indica più il comunismo come modello e che a destra si è tagliato ogni legame, anche di carattere nostalgico, con il fascismo, non si può continuare a sostenere che l’antifascismo è autentico solo quando è di sinistra, e che la destra non lo è perché non pronuncia mai nemmeno la parola».

Le parole, però, sono importanti. E «antifascismo» lo è più di altre. «Ma lo sono anche i gesti simbolici», dice Fini. «Cosa significa quindi l’abbraccio tra Meloni e Paola Del Din, medaglia d’oro della Resistenza, combattente antifascista della Brigata Osoppo, se non la concreta, fisica dimostrazione di credere davvero nel valore supremo della libertà e di onorare coloro che rischiarono la vita per restituirla al nostro popolo? E Meloni ha ribadito che è un dovere di tutti stare dalla parte della libertà e contro la dittatura sempre e ovunque, anche in Ucraina».

Fini: «Da Meloni è arrivata una risposta inequivocabile. A Fiuggi si parlò di valori conculcati dal fascismo». Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 25 aprile 2023 

Il fondatore di An:«Meloni ha ribadito che è un dovere di tutti stare dalla parte della libertà e contro la dittatura sempre e ovunque, anche in Ucraina» 

Gianfranco Fini al congresso di Fiuggi disse che è giusto chiedere alla destra di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato. E domenica ha chiesto a Giorgia Meloni di vincere la ritrosia a pronunciare l’aggettivo «antifascista».

«Incompatibile con qualsiasi nostalgia del fascismo». Presidente Fini, la frase di Giorgia Meloni risponde alla sua richiesta di un pronunciamento chiaro della destra sul 25 aprile?

«Sì. Rileggiamo alcune frasi della lettera al Corriere : “25 aprile momento di ritrovata concordia nazionale, celebrazione della nostra ritrovata libertà... il 25 aprile è stato e rimane l’affermazione dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato (calpestato con forza, ndr) e che sono scolpiti nella Costituzione... la destra da trent’anni è incompatibile con qualunque nostalgia del fascismo...”. Faccio notare che Alleanza Nazionale nacque proprio tre decenni fa e che le parole “valori conculcati dal fascismo” sono contenute nel documento finale del congresso di Fiuggi».

Lei però in tv, ospite di Lucia Annunziata, si era chiesto perché Meloni esitasse a definirsi antifascista. Quella parola non c’è.

«Di certo il mio invito a Meloni a definirsi antifascista non è stato accolto alla lettera: nel lessico, non cita l’antifascismo. Ma è stato accolto nella sostanza, nei valori richiamati e nei riferimenti alla destra del dopoguerra. Al riguardo non avevo, per la considerazione che ho del presidente del Consiglio, alcun dubbio».

Meloni parla di festa della libertà, e non della «Liberazione». C’è ritrosia?

«No, perché è ovvio che se oggi possiamo festeggiare il 25 aprile come festa della libertà è solo perché gli italiani sono tornati liberi con la fine del regime fascista. Meloni ha scritto anche che “i costituenti affidarono alla forza della democrazia il compito di includere anche chi aveva combattuto tra gli sconfitti”. E ha fatto un inedito, per la destra, quanto esplicito riferimento all’amnistia firmata da Togliatti. È un concetto importante perché sottolinea l’auspicio che la celebrazione del 25 aprile non sia più strumentalmente utilizzata per stilare la lista “dei buoni e dei cattivi”, non già, come è giusto, in ragione del giudizio sul fascismo e sulla Resistenza, bensì in ragione della contrapposizione politica tra destra e sinistra».

Violante dice che Meloni è estranea al fascismo, ma auspica che sappia allontanare mistificatori e estremisti.

«Meloni ha richiamato le parole di Violante su una certa “concezione proprietaria della Resistenza”. Per ricordare con garbo che è storicamente vero che, specie nel biennio ’43-’45, non tutti gli antifascisti credevano nella democrazia liberale. Una parte guardava all’Urss come riferimento politico e culturale. E non si tratta di mistificazione. Ma oggi che fortunatamente nessuno indica più il comunismo come modello e che a destra si è tagliato ogni legame, anche di carattere nostalgico, con il fascismo, non si può continuare a sostenere che l’antifascismo è autentico solo quando è di sinistra, e che la destra non lo è perché non pronuncia mai nemmeno la parola».

Le parole, però, sono importanti. E «antifascismo» lo è più di altre.

«Certo, sono importanti. Ma lo sono anche i gesti simbolici. Cosa significa quindi l’abbraccio tra Meloni e Paola Del Din, medaglia d’oro della Resistenza, combattente antifascista della Brigata Osoppo, se non la concreta, fisica dimostrazione di credere davvero nel valore supremo della libertà e di onorare coloro che rischiarono la vita per restituirla al nostro popolo? E Meloni ha ribadito che è un dovere di tutti stare dalla parte della libertà e contro la dittatura sempre e ovunque, anche in Ucraina».

Sono tornate, a destra, le accuse a «Fini il traditore». Lollobrigida dice che il suo tempo è finito. Altri pensano che lei usi la storia per inseguire ambizioni personali, perfino il Quirinale.

«Sciocchezze. Spero che si ricredano quelli che a destra, non molti in verità, hanno visto nelle mie parole la volontà di mettere in difficoltà Giorgia Meloni. E che si ricredano i pochi che hanno pensato che avessi chissà quali obiettivi reconditi. Non aspiro a nulla. Intendevo solo contribuire, in forza del ruolo che ho avuto nel passato, a fare chiarezza sul rapporto attuale della destra, Fratelli d’Italia, con la Liberazione. Meloni ha dato una risposta inequivocabile, ne sono lieto».

Estratto dell’articolo di Massimo Malpica per “il Giornale” l’8 marzo 2023.

Preso in giro per anni dalla madre delle sue figlie e dal di lei fratello e per questo, per anni, costretto a mentire. Salvo decidersi a vuotare il sacco quando lo scandalo, dai giornali, s’è trasferito in tribunale. L’ultima verità di Gianfranco Fini sulla vicenda della casa di Montecarlo arriva quando il fondatore di An viene ascoltato, in aula, nel processo dov’è imputato per riciclaggio insieme ai Tullianos: la compagna Elisabetta, suo fratello Giancarlo e il padre dei due, Sergio.

 «La vendita dell’appartamento di Montecarlo è stata la vicenda più dolorosa per me, sono stato ingannato da Giancarlo Tulliani e dalla sorella Elisabetta», sospira Fini. «Solo nel dicembre 2010 – aggiunge - ho scoperto che il proprietario della casa era Tulliani e ho interrotto i rapporti con lui».

Sono passati 4606 giorni dal 27 luglio del 2010, quando il Giornale scoprì che in un appartamento monegasco lasciato in eredità ad An dalla nobildonna romana Anna Maria Colleoni abitava Gianfranco Tulliani […] la verità venne a galla, anche grazie alle prove arrivate da Saint Lucia, dove avevano sede le offshore che avevano comprato l’immobile per 300mila euro, un piatto di lenticchie: il reale acquirente era proprio Tulliani. Fini […] a settembre 2010 promise: «Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera».

La lasciò solo a fine legislatura, a marzo 2013, ma adesso ammette di aver saputo che il cognato lo aveva preso per il naso già 27 mesi prima di passare il testimone a Laura Boldrini. […] anche se la nuova versione arriva solo dopo che la magistratura ha riacceso i fari sulla vicenda, all’epoca derubricata a «campagna denigratoria», con tanto di etichetta per questo quotidiano e per chi ci lavorava di «macchina del fango».

Invece, per gli inquirenti, quella casa Tulliani l’ha comprata - con i soldi di Corallo transitati per le offshore da An, che gliel’aveva lasciata per un prezzo ben al di sotto del valore di mercato, tanto che i Tullianos l’avevano poi rivenduta, nel 2015, a 1,36 milioni di euro. Una storia di riciclaggio, secondo l’accusa e secondo il gup che, a luglio 2018, ha rinviato a giudizio per questa ipotesi di reato Fini e i suoi familiari. Dalla negazione, allora, l’ex leader di An è passato a difendersi scaricando sui Tullianos.

«Sono un coglione, corrotto mai», aveva detto già all’alba delle indagini, a fine 2016, dopo le perquisizioni a casa di cognato e suocero, poi sfociate in un sequestro di beni per 5 milioni di euro ai Tulliani. Della ricca plusvalenza ricavata dalla casa Fini ha sempre negato di aver goduto in qualche maniera. E lo ha ribadito ieri.

 «Anche il comportamento di Elisabetta mi ha ferito - ha spiegato in aula - ho scoperto solo dagli atti del processo che lei era comproprietaria dell’appartamento e poi appresi anche che il fratello le bonificò una parte di quanto ricavato dalla vendita. Tutti fatti che prima non conoscevo». […]

Estratto dell’articolo di Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” l’8 marzo 2023.

 «Sono stato ingannato da Giancarlo Tulliani e dalla sorella Elisabetta». […] Gianfranco Fini […] ha “scaricato” tutte le responsabilità sulla famiglia della compagna, Elisabetta. […] La vicenda, che determinò l’uscita di scena di Fini dalla politica, ebbe inizio nel lontano 2010 da un esposto del popolo di An. Nel luglio 2008, un appartamento sito in Boulevard Principesse Charlotte che era stato donato qualche anno prima ad Alleanza nazionale dalla contessa Anna Maria Colleoni, viene venduto per soli 300mila euro.

Ad acquistarlo è una società offshore dell’isola di Santa Lucia, la Printemps, che poco dopo decide di rivenderlo per 330mila euro ad un’altra società caraibica anonima, la Timara Limited. L’immobile viene affidato al cognato di Fini, il vero titolare delle due società offshore.

 […] Il caso ha subito un enorme clamore mediatico, considerato il ruolo all’epoca di Fini. Le indagini, però, si chiudono con una archiviazione. Nel 2015 il fascicolo viene riaperto e gli inquirenti scoprono come l’intero prezzo della casa era stato invece pagato da una società offshore controllata da Francesco Corallo, il re delle slot machine. Per l’accusa, dunque, Tulliani era entrato in possesso dell’appartamento gratis.

L’inchiesta […] riesce ad accertare che l’appartamento era stato rivenduto ad una cifra decisamente maggiore e che fu incassata dalle offshore di Tulliani. Dal “doppio” affare di Montecarlo, dunque, è emerso come cognato e suocero di Fini si intascarono oltre 300mila euro dalle offshore Corallo ed oltre un milione e 300mila euro dall’acquirente finale.

 Fra gli altri imputati, insieme ai componenti della famiglia Tulliani, a dibattimento c’è anche l’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Laboccetta. «Sono stato coinvolto in questo processo in seguito a decine di dichiarazioni false fatte da Labocetta per un astio politico, nei miei confronti, che era ben noto. Il 2010 era l’anno del mio scontro con Silvio Berlusconi, il clima era diventato incandescente e agli occhi di molti ero un bersaglio da colpire», ha precisato Fini. […]

Estratto da liberoquotidiano.it il 21 febbraio 2023.

Ancora lui, ancora Gianfranco Fini, ospite di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più, il programma della domenica pomeriggio in onda su Rai 3. Il fondatore di Alleanza Nazionale torna in tv e spazia a tutto campo. Parte con un parere su Giorgia Meloni: "Non è fascista, è una donna di destra in gamba, come dice Stefano Bonaccini", taglia corto.

Ben meno lusinghiero il parere su Silvio Berlusconi, lo storico nemico dal celeberrimo "che fai mi cacci?" in poi. "Forza Italia è una monarchia, Berlusconi è la suprema corte. Tutti i suoi ministri hanno votato a favore dell'abolizione del superbonus, delle misure sull'Ucraina" del governo. Ma, aggiunge Fini, "non stanno implodendo, c'è una dialettica interna a quel partito".

[...] E ancora, sul caso Cospito-Donzelli, Gianfranco Fini si mostra molto critico nei confronti dell'esponente di Fratelli d'Italia: "Non si confonde un'aula del Parlamento con la piazza di un comizio. Giovanni Donzelli, quando ha preso la parola, ha dimenticato di essere un autorevolissimo esponente del partito che esprime il presidente del Consiglio.

 Non si lanciano accuse in questo caso, tra l'altro, del tutto infondate al Pd, dicendo 'strizzate l'occhio alla mafia'. [...]

Da “Posta e riposta – la Repubblica” il 21 febbraio 2023.

Caro Francesco, che senso ha e a cosa serve intervistare Gianfranco Fini per più di mezz’ora? A chi interessano le sue idee? Lucia Annunziata ha fatto un passo falso, il mondo è cambiato!

Donata Beretta

 Risposta di Francesco Merlo:

Fini ha un merito che la storia di sicuro gli riconoscerà: avere dato alla destra italiana lo ius soli nella democrazia. Ha inventato un mondo, del quale non fa parte, ma che gli deve tutto e non gli riconosce nulla. Non è il primo e non sarà l’ultimo.

Martinazzoli, che chiuse la Dc e fondò il Partito popolare, morì in totale solitudine politica.

Occhetto è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani e il primo leader dei democratici, ma la sinistra lo seppellisce nel silenzio. Bossi, che creò la Lega, ne è emarginato. A Grillo, da quando ha smesso tutto, anche di far ridere, i “postgrillini” versano un assegno di mantenimento. Sono uomini e storie diverse ma con un destino comune: l’irrilevanza del fondatore. Eppure, quando senti parlare Fini capisci subito che per i giornalisti è uno spreco non intervistarlo e per la destra uno scandalo confinarlo nella memorialistica.

 Fini, nella destra che ha “sfascistizzato”, è l’unico al quale non si devono chiedere abiure. Da pupillo di Almirante arrivò a Norberto Bobbio, a Gerusalemme, si liberò di Berlusconi e, coniugando la vecchia idea dell’ordine con il bisogno di giustizia, per primo propose di dare la cittadinanza ai nuovi italiani di colore. Nel paesaggio poverissimo di una destra di giovani e vecchi ai quali, ogni tanto parte, ciascuno nel proprio ambito, qualche tic fascista, è il solo che nessuno si sognerebbe mai di trattare da fascista.

Estratto dell'articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l’1 febbraio 2023.

Programma di inserimento televisivo. All’asilo funziona così: il primo giorno, il genitore – o chi per lui – passerà un’ora insieme al bambino, giocandoci in classe; il secondo giorno, sempre di un’ora, il bambino sarà solo; il terzo giorno… In tv, lo schema è abbastanza simile, fatto salvo l’accompagnamento genitoriale.

 Dunque, è venuto il momento di ricollocare nell’area Fratelli d’Italia Gianfranco Fini. Con discrezione, con tatto, con oculatezza. La casa di Montecarlo pesa ancora, un Tulliani (inteso come cognato) è per sempre. Allora si fa così: prima Fini appare a qualche manifestazione pubblica in modo da essere ripreso da qualche telecamera e finire in un notiziario, uno qualunque.

Poi si ascende al gradino più basso della catena alimentare televisiva, in questo caso Bella Ma di Pierluigi Diaco (Rai2), il luogo ideale per confessioni generiche, per una ricerca di complicità, per struggimenti musicali. Per rientrare nel giro bisogna pagare pegno al sentimentaloide, alla chick-tv, la tv per pollastrelle, una consolazione per spettatori dalla lacrima facile e dalla bocca buona. Terminato il bagno d’umiltà con Diaco si può aspirare a qualcosa di più.

 (...)

Se Fini venisse invitato da Veronica Gentili o da Giuseppe Brindisi o da Massimo Giletti sarebbe perfetto. Il percorso di inserimento televisivo potrebbe dirsi concluso e il Nostro avrebbe le carte in regola per rientrare alla corte della papessa Giorgia.

P.S. È vero, ci sarebbero i passaggi dall’Annunziata, ma Mezz’ora in più appartiene al secolo scorso.

Anna Paola Merone per ilcorriere.it il 28 gennaio 2023.

Gianfranco Fini dieci anni dopo non ha perso lo smalto. Ha scelto di restare assente dalla scena pubblica politica - al di là di alcune interviste televisive - per un tempo lungo, ma ora è tornato. E lo ha fatto a Napoli, per prendere parte ad un incontro al Circolo artistico politecnico. […]

 Misurato come sempre, sorridente, deciso a restare in un garbati equilibrio di distanza con la stampa, Fini stringe mani e incrocia gli sguardi di vecchi militanti. Sorrisi e nostalgia. E voglia di esserci. C’è un copione dell’incontro. Ci sono dieci domande alle quali Fini ha accettato di rispondere. Giustizia, intercettazioni, autonomia regionale, politica internazionale, Europa i temi sul tappeto. All’incontro presente anche Enzo Raisi, autore del libro “La casta siete voi”.

 La politica vecchia e nuova

Un volume che racconta la storia di un ragazzo che a Bologna a 14 anni ha iniziato a fare politica, a destra. Fini ha scritto la prefazione e il libro è il motivo ufficiale della sua presenza in città. È spigoloso, il presidente. Attento a che le sue parole non vengano interpretate male.

 «In certi anni avere idee di destra e militare a destra significava correre qualche rischio. A Napoli certo meno che a Bologna. Ma sventolare un tricolore significava scegliere una strada. Qualcuno - ricorda Fini - è rimasto silente. Oggi i tempi sono cambiati ma resta un dato di fondo: la politica è un impegno che può diventare totalizzante ma se non tiene viva la fiamma della passione e della certezza di poter fare del bene diventa assai meno gradita. E negli anni recenti c’è stata una degenerazione della politica. Noi venivamo da altre scuole e altre esperienze».

Solo propaganda

La politica per Fini rischia di finire in secondo piano per lasciare spazio alla sola propaganda. «[…] l’antipolitica ha preso il sopravvento. Il populismo è finito nel lessico comune e il palazzo si è spaccato nel corpo centrale». […]

 «I partiti e i sindacati sono entrati in crisi. Il peso che avevano Confindustria, Confcommercio, Confagricoltura è perso, non hanno più capacità aggregante. Una via diversa potrebbe essere partecipare a iniziative legate al territorio. Ne è prova l’esplosione delle liste civiche. La politica è attività non legata solo all’azione dei partiti. Chi ritiene di fare qualcosa di utile può farlo e ottenere apprezzamenti più dei cosiddetti politici».

La sinistra

Alla sinistra Fini non fa sconti. «La crisi riguarda tutti, ma la sinistra sta pagando il conto salato della sua presunzione - dice-. Ha avuto il complesso di superiorità negli ultimi 15 o 20 anni e non si è curata. Convinta di rappresentare la parte migliore del Paese e di dover avversare la destra ha praticato l’autoreferenzialitá ed è rimasta dieci anni al Governo senza vincere le elezioni».

[…]

Il lungo ritorno di Fini tra incontri e interviste. Obiettivo Europee 2024. Pasquale Napolitano il 28 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Oggi rimpatriata a Napoli con gli ex fedelissimi. Ormai è rientrato a casa Fdi

Rimpatriata finiana a Napoli. L'ex presidente della Camera Gianfranco Fini raduna i fedelissimi per un evento in pubblico, tra la gente (e non in uno studio televisivo), dopo il lungo esilio iniziato all'indomani della disfatta elettorale del 2013 con Futuro e Libertà. La reunion finiana è in programma oggi alle 10.30, in piazza Trieste e Trento, al secondo piano di Palazzo Zapata. A pochi passi da piazza del Plebiscito, che rievoca per la destra italiana gloriosi ricordi nel nome di Giorgio Almirante.

A Palazzo Zapata si ritroverà tutta la vecchia guardia delle truppe finiane. Ci sarà Enzo Raisi, uno dei colonelli di Fli, che per l'occasione presenta il suo libro («La Casta siete voi»). E poi un nutrito gruppo di ex dirigenti ex An: tutti in congedo dalla vita pubblica dal 2013 assieme al loro leader.

Ci saranno gli ex consiglieri provinciali di Fli Enrico Flauto e Carlo Di Dato, volti storici della destra partenopea. Ci sarà Ugo Maria Chirico, ultimo coordinatore di Fli di Napoli, prima della dissoluzione. Italo Bocchino? «Sicuramente farà una capatina», assicurano gli organizzatori dell'evento, che al Giornale però minimizzano il significato del rientro: «Siamo noi coinvolgerlo. Fini non ne vuole sapere di un rientro in politica».

Intanto però l'ex capo di An inizia a prendere contatto con la gente. Vuole riassaporare il gusto di una stretta di mano o di un applauso dal vivo. Sonda il terreno. Ufficialmente, Fini allontana l'ipotesi di un ritorno in campo. Ma in realtà ha riannodato i rapporti con i suoi ex colonnelli. E il suo ritorno a casa pare che avvenga sotto lo sguardo benevolo di Palazzo Chigi. Da qualche mese, comunque, sembra aver abbandonato il letargo. L'incontro con la stampa estera, all'indomani del trionfo elettorale di Giorgia Meloni, è stata l'occasione per rompere il ghiaccio. Poi una doppia apparizione in tv da Lucia Annunziata in cui ha dispensato suggerimenti e consigli al primo premier italiano di destra. E poi ancora in tv da Lilli Gruber (dove è di casa Italo Bocchino) e infine ieri alla puntata di «BellaMa». Il passato è ormai azzerato. L'esperienza di Futuro e Libertà è dimenticata. La riappacificazione è ormai compiuta. Alessio Butti, Roberto Menia, Alfredo Mantovano: tutti fanno parte del progetto Fratelli d'Italia. Vecchia e nuova guardia si è ritrovata. C'è chi come Peppe Valditara si è riproposto come ministro in quota Lega. Un fedelissimo di Fini fissa un concetto: «Non scherziamo, Meloni e Fini non hanno mai litigato». E in effetti i rapporti non si sono mai interrotti, l'ex capo della destra è ascoltato da Meloni e per lei dispensa solo parole al miele: «Credo che la grande qualità che ha quella donna è che quando si sente impreparata, o teme di esserlo, studia. Quindi non improvvisa. Il presidente Bertinotti, che stimo, e credo di poter dire che godo della sua stima, quando era presidente della Camera mi disse Meloni ha presieduto da vicepresidente in modo ineccepibile. Non aveva alcuna esperienza, ma studiava» ha ribadito ieri su Rai2. Fini nell'intervista al programma BellaMa ha fornito uno spunto sull'autonomia, tema spinoso per la maggioranza: «Le Regioni, istituite nel 1970, oggi hanno un ruolo molto importante nella vita della Repubblica. Si sta discutendo tra l'altro dell'autonomia, cosiddetta, differenziata. E allora perché non pensare di guardare un po' in Europa, dove per esempio c'è il modello tedesco». Sul futuro di Fini si fanno congetture. Chi lo vedrebbe già in campo alle Europee in lista con Fdi. Chi invece lo indica come candidato naturale per la poltrona di commissario Ue al posto di Gentiloni su indicazione del governo italiano. Ipotesi, per ora. Una certezza: Fini è ritornato a casa.

Ignazio La Russa.

La Famiglia.

Ignazio.

La Famiglia.

 Egomania culturale. Tranquilli, non c’è nessuna nuova narrazione egemonica: è solo fame. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 9 Novembre 2023

Dal piccolo La Russa al Piccolo fino all’interminabile disfida tra Sgarbi e Sangiuliano, nel nuovo potere c'è molto di antico, con una dose aggiuntiva di ridicolo

Il primo anno di governo meloniano è stato segnato dalla grande lotta per l’egemonia sulla cultura, l’immaginario, la narrazione. O almeno così è stato raccontato da giornali e tv, in positivo e in negativo: come svolta epocale, portatrice di un salutare rinnovamento (secondo i sostenitori) o al contrario come dimostrazione di un’insaziabile volontà di potenza, con conseguente allarme democratico (secondo gli avversari). Ma non era nessuna delle due cose.

Potremmo dilettarci a lungo declamando l’improbabile elenco di tutti gli intellettuali organici chiamati in questi mesi a riscrivere l’autobiografia della nazione, e certamente passeremmo ore assai liete nel rievocare gli innumerevoli episodi di cui si sono resi protagonisti, peraltro con scarsi riconoscimenti di critica e di pubblico, ma per dimostrare una tesi la via più breve è sempre preferibile. E da questo punto di vista mi pare che la nomina di Geronimo La Russa, figlio maggiore dell’attuale presidente del Senato, come rappresentante del ministero della Cultura nel cda del Piccolo teatro di Milano dica già tutto circa l’ampiezza del disegno politico, il respiro del progetto culturale, l’ampiezza delle ambizioni coltivate dal nuovo potere. O c’è qualcuno davvero convinto che il giovane Geronimo possa essere l’alfiere di una spregiudicata sfida egemonica, il sottile tessitore di quella nuova narrazione di cui tanto si discute?

Mi pare piuttosto evidente che moventi e obiettivi di simili nomine siano assai più elementari. Talmente terra terra che già mi sarebbe passata la fantasia di occuparmene, se non fosse per il mio innato spirito di contraddizione, oltre che per il modo surreale in cui anche questa vicenda è andata a intrecciarsi alla tragicomica disfida tra il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, e il suo sottosegretario ribelle, Vittorio Sgarbi.

Per chi si fosse perso le puntate precedenti, qualche settimana fa un’inchiesta del Fatto quotidiano aveva rivelato che il sottosegretario Sgarbi, soltanto negli ultimi sei mesi, avrebbe incassato – direttamente o attraverso società intestate al suo principale collaboratore e a una sua storica fidanzata – trecentomila euro in cachet per la partecipazione a mostre, premi e inaugurazioni, compresa la presidenza della giuria per la finale di Miss Italia del prossimo 11 novembre. Notizie delle quali il ministro si era detto indignato, definendo il comportamento del suo sottosegretario «illegale», e denunciandolo pure all’Antitrust.

A suo tempo i giornali spiegarono che Giorgia Meloni si sarebbe occupata del caso non appena tornata dal Cairo, dove era impegnata in un vertice sulla crisi mediorientale, ma quale sia stato il frutto dei suoi sforzi non è dato sapere. Fatto sta che il sottosegretario è ancora al suo posto, dice che con Sangiuliano non ci parla e andrà pure a Miss Italia.

Siccome viviamo nell’epoca della post-verità, ma soprattutto nell’era della post-ironia, sfido il lettore a capire come debba essere dunque interpretata la seguente dichiarazione, realmente pronunciata dal sottosegretario Sgarbi in merito alla nomina del giovane La Russa al Piccolo teatro: «Conosco Geronimo La Russa e ne ammiro l’esemplare conduzione dell’Automobile Club d’Italia. Per questo ritengo che l’indicazione del ministro Sangiuliano sia apprezzabile ed espressa con piena convinzione e totale autonomia».

Personalmente, mi sono da tempo arreso all’impossibilità di distinguere quando parlano sul serio da quando scherzano (o pensano di scherzare). Ma comunque si vogliano prendere questi scampoli di dibattito sulle politiche culturali dentro al governo Meloni, e comunque se ne vogliano spiegare le singole nomine, per acclarata competenza nel settore automobilistico, per indiscutibili meriti civili o per chiara fama, mi pare ampiamente confermata la tesi che non ci sia dietro nessuna minacciosa ambizione egemonica. È solo fame.

Estratto dell'articolo di Paolo Berizzi per repubblica.it mercoledì 8 novembre 2023. 

Il più grande dei tre piccoli “indiani”. E anche il più navigato. Uomo di numeri, ma soprattutto di relazioni, aperitivi e sorrisi. Geronimo La Russa, per gli amici “il presidente” (come papà, in fondo). Del primo dei tre figli che Ignazio Benito Maria ha voluto battezzare con nomi da nativi […] raccontano che il talento più riconoscibile, affinato negli anni, ma chissà, magari anche innato, sia quello più consono al tempi complessi e spiazzanti di oggi. Farsi trovare al posto giusto nel momento giusto.

[…]  In scia ovviamente agli spazi aperti dal padre, quella Milano del potere finanziario e clientelare sulla quale il primo a mettere le mani fu il capostipite, nonno Antonino. “Assomiglio tanto a mio nonno”, raccontò anni fa Geronimo a un’amica carissima figlia di tanto padre. Ne avrà anche molti altri di meriti, per carità, il 43enne avvocato Antonino Geronimo Giovanni Maria La Russa – così all’anagrafe. E però il presenzialismo spicca. Lo impone pure il ruolo che ha.

Da presidente dell’Automobile Club Milano e Lombardia – un incarico di potere nella regione locomotiva d’Italia – il 3 settembre scorso è lui, anche ribattezzato con enfasi patriottica “il re dell’Autodromo di Monza”, che accoglie la premier Giorgia Meloni al box Alfa Romeo prima del Gp di Formula 1. […] La Russa jr, che della velocità è sempre stato innamorato. “A bordo di qualunque mezzo a motore”, raccontò in un’intervista-intima. Pure troppo, innamorato. Molti anni fa uscì indenne da un incidente in macchina con degli amici. Dall’auto saltò fuori anche della droga, ma per GL, anche da quel punto di vista, non ci fu nessuna conseguenza.

[…] E’ lui che al Gp favorisce l’incontro tra Meloni e Barbara Berlusconi che di Geronimo è amica da una vita e pure socia (hanno fondato insieme la onlus Milano Young, poi c’è anche H14, la holding dei tre berluschini Barbara, Eleonora e Luigi). Al centro di quella chiacchierata tra la presidente del Consiglio e Barbara ci fu il tema, oggi arrivato a tombola, del premierato forte […] Ma restiamo a Geronimo. E’ in effetti una notizia che l’avvocato collezionista di poltrone sia dia ora anche al teatro, terreno fin qui a lui poco conosciuto.

Entrando nel cda del Piccolo in rappresentanza del ministero della Cultura guidato dall’ex missino almirantiano Sangiuliano, GL aggiunge un posto in più alla sua già lunga sfilza di incarichi. ACI e studio legale di famiglia a parte, sono tutti scranni in consigli di amministrazione. Elencarli è una mezza maratona. M4 Spa (linea blu della MM), Sara Assicurazioni, Milano Real Estate, M-1 Stadio srl, la già citata H14 e un’infilata di altre finanziarie, vecchio giro Ligresti e dintorni. […]

 Ha combinato anche qualche casino ed è sempre lui, sempre in un’intervista, a ripercorrere quelle tappe di crescita. “Ho avuto un’adolescenza molto agitata e con un po’ di problemi”.

Non è elegante ma occorrerebbe ricordare che il fratello trapper Leonardo Apache, accusato di stupro, lo ha già superato. Ma questa è cronaca, sono atti giudiziari che Geronimo mastica di mestiere. Di inciampi, anche al maggiore dei La Russa, ne capitarono. Fu il cantante Roberto Vecchioni a raccontare di un blitz vandalico a casa durante la festa di compleanno della figlia. A disfargli l’appartamento e a razziare gioielli e soprammobili e vestiti, un gruppo di fighetti che passavano le serate in giro a far casino. Nel gruppo c’era anche Geronimo. […]

Oggi tra gli amici e “colleghi” di partito più vicini a GL c’è l’europarlamentare Carlo Fidanza, che ha recentemente patteggiato 1 anno e 4 mesi per corruzione. E’ il Fidanza del saluto romano e del “Heil Hitler” ripresi da una telecamera di Fanpage a una cena elettorale di camerati vicini a FdI. […]na volta chiesero a Geronimo La Russa se avesse mai fatto il saluto romano. Rispose così: “Una volta, quando mi sono vestito da Balilla a Carnevale. E un’altra volta quando mi mascherai da Giulio Cesare”. Due volte accertate, non male. Difficile pensare che il padre Ignazio lo abbia rimproverato. Lui il braccio teso lo mostrò in parlamento. […]

Estratto dell’articolo di Andrea Montanari per repubblica.it mercoledì 8 novembre 2023.

Da Fratelli d’Italia a figli, cognati, parenti, collaboratori fedelissimi. In Lombardia, è lunga la lista di nomine eccellenti sponsorizzate dal partito di Giorgia Meloni, che hanno fatto discutere e in qualche occasione creato perfino imbarazzo. A partire da Romano La Russa, assessore regionale alla Sicurezza e fratello del presidente del Senato Ignazio, che finì nella bufera per un saluto romano durante i funerali del cognato. […] 

Che dire poi di Francesca Caruso, che lavorava come avvocata nello studio La Russa? Appena nominata assessora lombarda alla Cultura non trovò di meglio che dichiarare candidamente: «La cultura l’ho respirata in famiglia. Mia nonna era la sorella di Fausto Papetti».

Un capitolo a parte […] è quello degli eredi La Russa. Geronimo, primogenito del presidente del Senato, è da anni il titolare dello studio legale di famiglia, ma anche presidente dell’Aci Lombardia e siede in una vera miriade di altri consigli d’amministrazione. Invece il secondogenito Lorenzo Cochis lavora come Cerimonies Coordinator presso la fondazione Milano-Cortina 2026 presieduta dal numero uno del Coni Giovanni Malagò. 

Parenti, ma anche amici. Lucia Lo Palo, candidata di Fratelli d’Italia a Brescia alle ultime elezioni regionali e non eletta, è stata ricompensata con la nomina a presidente di Arpa Lombardia. Nella sua prima uscita ha messo in imbarazzo il centrodestra sostenendo che «il cambiamento climatico non è causato dall’uomo».

Il governatore Attilio Fontana non l’ha presa bene. «Bisogna vedere se è negazionista, lei ha negato di esserlo. Cercare di capire e contestualizzare il tutto». Lo Palo, però, non cambia idea. Precisa solo di aver parlato a titolo personale. […] 

Tornando alla cultura, se la Regione ha nominato nei board del Piccolo Teatro e della Triennale, rispettivamente, gli ex assessori comunali Massimiliano Finazzer Flory e Stefano Zecchi, quest’ultimo anche lui tra i candidati non eletti alle ultime Regionali nella lista di Fratelli d’Italia, c’è un altro nome che ha fatto rumore.

Quello del direttore d’orchestra Alberto Veronesi, uno dei figli del celebre oncologo Umberto, che nel 2016 si era candidato in Comune nella lista di Beppe Sala: alle Regionali di febbraio però era in lista con FdI, non è stato eletto e il governatore lo ha ricompensato nominandolo nel cda dell’Accademia delle Arti e dello Spettacolo della Scala. 

Tutto dopo che il maestro era stato duramente contestato quest’estate per aver scelto di dirigere bendato la prima della Boheme al festival di Torre del Lago per protesta contro la regia del francese Christophe Gayral, che aveva ambientato il capolavoro di Giacomo Puccini nel ‘68. Sempre FdI ha fatto fuoco e fiamme per piazzare al Corecom Veronica Cella e Maurizio Gussoni, quest’ultimo ammiratore di Giorgio Almirante e della Decima Mas, per anni al vertice della Croce Rossa.

Con i nuovi assetti di potere c’è chi corre. Anche troppo, come nel caso di Beniamino Lo Presti, commercialista di fiducia di Ignazio La Russsa, che da presidente della società autostradale Milano-Serravalle […] ha provocato imbarazzo postando sui social un video che lo ritraeva mentre sfrecciava a 150 chilometri l’ora a bordo di una Porsche […]. Pochi mesi prima aveva promosso una campagna sulla sicurezza alla guida.

Estratto dell’articolo di Maurizio Giannattasio per il “Corriere della Sera” venerdì 10 novembre 2023.

Geronimo La Russa, anche il sindaco Beppe Sala nutre dei dubbi sulla sua nomina.

«Il tono delle sue parole mi ha fatto pensare più a un “atto dovuto” del sindaco di una giunta di sinistra che ad altro. Lotto per un mondo che non abbia preconcetti. Ho un cognome importante, lo so, ma ho anche 43 anni. Cosa devo fare? Devo annientare la mia vita e le mie passioni e aspettare il giorno in cui mio padre non darà più fastidio a nessuno? È giusto che il cognome non debba portare vantaggi, ma neanche nocumento». 

Cosa risponde al sindaco?

«È stato proprio Sala a nominarmi nel cda di M4, la società che si occupa della realizzazione della nuova linea del metro. E ha nominato tre avvocati tra cui me e non tre ingegneri! Idem per il cda del Piccolo. Per la Fondazione non si cerca un uomo di teatro perché c’è già il direttore artistico. Leggo che il presidente sarà un giurista illustre, il notaio Piergaetano Marchetti. Sarei onorato di lavorare con lui. A proposito di preparazione culturale, mi faccia fare una citazione “colta”». 

Colgo dell’ironia.

«Sono poco se mi considero, ma molto se mi confronto. Questa mattina ho guardato su Google la composizione di vari cda di istituzioni culturali, sicuramente tutte persone bravissime, ma tanti nomi di politici o ex politici di sinistra... Perché La Russa non va bene, e altri sì?».

La critica principale è che lei non siederebbe nel cda del Piccolo se non fosse figlio di suo padre. Il presidente del Senato è intervenuto per la sua nomina?

«Assolutamente no. Mio padre è anzi contrario. Vorrebbe che mi dedicassi solo a mandare avanti lo studio legale perché è quello che mi dà da vivere. […] c’è l’Aci dove sono stato eletto e non nominato e una società privata con l’amica Barbara Berlusconi che conosco da 20 anni e con i suoi fratelli. E sottolineo che nessuno ricorda che l’incarico al Piccolo è gratuito. L’unica nomina remunerata è quella in M4 avuta dal sindaco». […]

La Russa, i fratelli dipinti da "Repubblica" quasi come gangster. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 10 luglio 2023

Che i tre “indiani” La Russa – nativi milanesi, stirpe di padre cultore della nobile epopea degli sconfitti – rappresentino una tribù familiare solida è un dato antropologico tutto sommato banale: capita di essere uniti anche ai figli dei tanti Mario Rossi sparsi per lo Stivale. Ci vuole la fantasia (contorta) dei segugi di Repubblica, allora, per trasformare un’ovvietà in una sorta di romanzo criminale: con i tre fratelli Leonardo “Apache”, Lorenzo “Cochis” e Antonino “Geronimo” La Russa sbattuti in pagina come membri di un «clan». Proprio così: eccoci nella «Milano del clan La Russa. Tra guai e vita spericolata».

Una sceneggiatura, titola proprio così il quotidiano del gruppo Gedi, che sfrutta un elemento di cronaca – l’indagine per violenza sessuale nei confronti di Leonardo Apache, il più piccolo della progenie di Ignazio La Russa – per costruire un nuovo girone infernale: quello dei “rampolli”. È lì che i tre fratelli sono stati spediti senza alcuna garanzia (ma va?) dalla redazione progressista. Una cerchia dove si finisce – udite, udite – per «esuberanza giovanile, testa calda, azzardi e inciampi». E, chiaramente, se si è figli di un esponente del centrodestra. Già, se l’obiettivo della campagna stampa sulla vita dei fratelli La Russa è fornire ai lettori un incrocio fra gli antieroi di Scarface e i drughi di Alex, la realtà che emerge dallo stesso racconto del cronista di Repubblica, alla fine, è tutt’altra.

Certo, a «far tremare la casa» adesso è “Larus”, nome d’arte del ventunenne Leonardo Apache, accusato da una sua ex compagna di scuola di stupro dopo una serata in discoteca avvenuta nel maggio scorso. Al momento, però, nel suo curriculum è solo il «terzogenito che fa brutto con la trap». Autore di testi improbabili («Sono tutto fatto, sono tutto matto, ti fotto pure senza storie») di cui la storia della musica farà tranquillamente a meno. Uno che, al suo diciottesimo, si è presentato con la camicia con le iniziali ricamate. «Roba che il suo idolo Sfera Ebbasta – si legge nell’articolo – lo squalificherebbe per molto meno». Tutto qui. E gli altri due? “Colpevoli” di chiamarsi anch’essi La Russa.

Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per repubblica.it domenica 9 luglio 2023.

I figli sono la benedizione di Dio, i figli sono la Provvidenza, i figli so’ piezz’ ‘e core. Però anche: chi non ha figlioli non ha né pene né duoli, figlioli e guai non mancano mai. Si trova la più vasta e contraddittoria gamma di proverbi in tema nel benemerito dizionario di Carlo Lapucci (Mondadori, 2007), compreso il motto secondo cui i figli scontano le colpe dei padri, vedi le malattie ereditarie, la cattiva fama e la perdita del patrimonio, come accade fin dai tempi della Tragedia greca e della Bibbia – anche se lì nessun genitore risulta aver colpevolmente battezzato i propri figli Geronimo, Cochis e Apache.

Vero è che anche Umberto Bossi, chiamando gli ultimi suoi due innocenti Roberto Libertà ed Eridano Sirio, qualche rischio se l’è assunto; anche se i guai più seri gli sono arrivati a causa di Renzo, detto il Trota, catapultato in politica con un eccesso di capricci suoi e di chi lo proteggeva. Ma al di là delle lauree albanesi e della fantasia onomastica è pur vero, anzi è verissimo che anche le colpe dei figli ricadono sui padri, tanto più, viene da pensare, quando questi ultimi sono potenti e fin troppo felici di esserlo, e allora sul più bello, al culmine dell’arroganza e della vanità: zòt, ecco il fulmine del figlio che ti inguaia e ti sistema per le feste.

Su questo Ignazio La Russa potrà utilmente confrontarsi, magari a cena o anche solo per un caffè, con Beppe Grillo, gemello di disgrazia filiale senza più limiti di schieramento. Può suonare lievemente ironico, ma più che la politica c’entra la vita e il destino; e se in questi ultimi due casi si tratta di vicende tristi e drammatiche, è pur vero che il Presidente del Senato e l’Elevato del Vaffa la loro bella passeggiata nella storia patria se la sono fatta, e forse pure troppo, mentre Ciro e Leonardo Apache, per come sono messi a poco più di vent’anni, vai a sapere.

(…) 

In questo senso l’esempio primigenio va recuperato nell’affare Montesi (1954 e seguenti), antenato e modello di tutti gli scandali d’età repubblicana; allorché durante successione di De Gasperi la carriera di Attilio Piccioni, segretario dc del 18 aprile, venne bloccata e stroncata perché il figlio Piero, che componeva musica jazz e aveva una relazione con Alida Valli, finì in galera per la morte della povera Wilma (Montesi, appunto) senza che alcuno abbia mai dimostrato che avesse conosciuto quella giovane e sventuratissima donna.

Secondo caso, anche più crudele e lacerante, quello di Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, influente ministro, di cui nella primavera del 1980 in modo abbastanza avventuroso si venne a sapere che non solo aveva parte attiva nel terrorismo (Prima linea, uno dei gruppi più sanguinari), ma che il governo guidato da Cossiga avrebbe fatto in modo di farlo scappare all’estero. La storia è ovviamente più intricata anche perché c’era chi da tempo sapeva e taceva, o aspettava il momento giusto; ma di sicuro, oltre a dimettersi, Carlo Donat Cattin smise di essere figura chiave della nuova maggioranza Dc.

Dopo di che, nel paese del familismo amorale, si potrebbe compilare un lungo elenco di più lievi traversie causate da figli discoli o potenzialmente nocivi. Con l’avvertenza che non è possibile né giusto fare di tutt’erba un fascio; mentre su di un altro piano è forse utile riconoscere che il ruolo di figli di padri e madri ingombranti, se qualche vantaggio materiale procura, è spesso scomodo, faticoso e tale da spingere a compiere qualche scemenza in più. Si aggiunga il fatto che, in quel campo di veleni e trabocchetti, la famiglia si colloca nell’area della vulnerabilità dell’uomo o della donna impegnati in politica, che cento occhi stanno addosso ai figli della gente che conta e che la crescente disponibilità di mezzi tecnologici aumenta a dismisura i rischi.

Se ne può chiedere conferma, per quanto riguarda la Prima Repubblica, ai figli del presidente Leone (“i tre monelli” delle intemerate di Mino Pecorelli e del libro di Camilla Cederna); così come ai figli di Ciriaco De Mita e a quelli di Bettino Craxi. Rispetto alla Seconda, tenendosi prudentemente sul vago e per pura vocazione documentaria gli osservatori più diligenti hanno trovato traccia di: raccomandazioni telefoniche eseguite dal figlio del celebre e severissimo Pm divenuto politico; euforiche frequentazioni di figlie di magnati (con costoso acquisto di relative foto); singolari esuberanze edilizie ispirate a super eroi e altre stranezze da parte di figlio di alte cariche municipali; raid menacciuti di ulteriore figlio di sindaco.

Si omettono i nomi con la più viva speranza che abbiano tutti messo la testa a posto. Si raccomanda infine un supplemento di riflessione su un breve e simpatico adagio, pure estratto dall’inesauribile giacimento della sapienza popolare: trulli trulli, chi li fa se li trastulli.

La vita privata del nuovo Presidente del Senato. Chi è la moglie e chi sono i figli di Ignazio La Russa: Laura De Cicco e Geronimo, Lorenzo Kocis e Leonardo Apache. Vito Califano su Il Riformista il 13 Ottobre 2022

Ignazio La Russa è stato eletto oggi, alla prima chiama, Presidente del Senato. Il fondatore di Fratelli d’Italia, oltre a essere un volto storico della destra italiana, è anche un volto noto al grande pubblico: noto negli ambienti della destra giovanile come “La Rissa”, tifosissimo dell’Inter, appassionato di romanzi di fantascienza, dal marcato accento siciliano, dal temperamento fumantino.

L’ex ministro della Difesa, che da oggi ricopre la seconda carica dello Stato, è sposato e ha tre figli. Due con la moglie: Laura De Cicco. Sulla vita privata il senatore è sempre stato molto riservato, perciò poco si sa della donna con la quale ha avuto Lorenzo Kocis e Leonardo Apache. Solo una volta la donna ha rilasciato un’intervista alla rivista settimanale Chi in cui lasciava trapelare qualche aspetto della relazione.

“Io non sono molto gelosa però sulla sua fedeltà non metterei la mano sul fuoco. Invece Ignazio da bravo siculo è abbastanza geloso. Mi telefona spesso per sapere dove sono e cosa sto facendo. Ora che è più preso, però ha dovuto limitare le chiamate, e un po’ mi dispiace“, si leggeva sul giornale. Dal matrimonio sono nati Lorenzo Kocis e Leonardo Apache, che hanno 27 e 19 anni.

Il primo, Lorenzo Kocis, è laureato in Giurisprudenza. L’anno scorso è stato eletto nel parlamentino del Municipio 1, il Consiglio di zona del centro di Milano. Il secondo si chiama Leonardo Apache La Russa, in arte Larus, ha 19 anni e nel 2019 ha intrapreso la carriera di trapper. “Se lo acchiappo con la droga lo ammazzo”, diceva all’Agi il padre commentando una parte del testo di Sottovalutati in cui il figlio canta “Sono fatto”. 

Ignazio La Russa inoltre è padre di Geronimo, nato dalla sua precedente relazione con Marika Cattare, presidente di Aci Milano. Il fratello è Romano La Russa, ex europarlamentare di Alleanza Nazionale ed ex assessore alla protezione civile della Regione Lombardia, attualmente alla Sicurezza. L’altro fratello, Vincenzo La Russa, è avvocato ed è stato parlamentare della Democrazia Cristiana.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

(ANSA il 19 luglio 2023) "Sono allibito per la notizia pubblicata dal Fatto Quotidiano, con richiamo in prima pagina, dal titolo "Vecchioni ricorda: Geronimo e soci mi rubarono pure le mutande" ripreso poi parzialmente dal sito Dagospia e da altri". 

Lo scrive in una nota Geronimo La Russa, primogenito del presidente del Senato, trovando "incredibile che Vecchioni, intervistato dal noto giornalista del Fatto, Scanzi, provi a gettare immotivatamente e falsamente discredito su me e sulla mia famiglia già oggetto in questi giorni di particolare attenzione mediatica". 

Il riferimento è ad un articolo che riprende un aneddoto raccontato dal cantautore alla Gaberiana - il festival organizzato da Andrea Scanzi a Firenze in ricordo di Giorgio Gaber - durante il quale Vecchioni ha raccontato di una festa organizzata nel 1997 da sua figlia, allora quattordicenne, durante la quale avrebbe subito danni e piccoli furti in casa. 

Geronimo La Russa, spiegando di aver "dato mandato al mio avvocato Vinicio Nardo affinchè tuteli in ogni sede competente la mia onorabilità", osserva che "Vecchioni, che già all'epoca in cui ero minorenne incentrò le sue attenzioni solo sul figlio diciasettenne di un deputato di destra, cioè mio padre, a distanza di 26 anni dovrebbe sapere benissimo che nei miei confronti non ci fu alcuna imputazione e che non fui affatto 'perdonato' in quanto il perdono giudiziale può essere concesso solo a chi è imputato e colpevole e io non lo sono mai stato!". "Altri giovani conoscenti che parteciparono alla festa della figlia di Vecchioni - conclude Geronimo La Russa - ebbero invece conseguenze giudiziarie ed io ne presi immediatamente le distanze".

Dagonota il 19 luglio 2023.  

Geronimo La Russa fu convocato solo come persona informata dei fatti. Non ebbe nulla a che fare con il furto come dimostrano gli atti giudiziari. Geronimo, allora 17enne, andò con la madre dagli inquirenti, come persona informata dei fatti

Estratto dell'articolo di Tommaso Rodano per il Fatto Quotidiano il 19 luglio 2023.  

Fa una strana impressione pronunciare nella stessa frase i due nomi: Roberto Vecchioni e Geronimo La Russa. L’improbabile associazione ha preso forma lunedì, nella serata del festival “La Gaberiana”, per via di un aneddoto riportato alla luce dal cantautore. 

Innanzitutto il contesto: Vecchioni era sul palco a fianco di Andrea Scanzi per conversare di un argomento più alto: “La Gaberiana” è un festival organizzato da Scanzi a Firenze e dedicato al ricordo di Giorgio Gaber, con spettacoli e incontri gratuiti in cui si alternano intellettuali e artisti accomunati dall’amore per l’opera del signor G. 

Si parlava di Gaber, appunto, ma una battuta paradossale di Scanzi su La Russa ha rimesso in moto la memoria del professore, che ha voluto raccontare la sua infausta esperienza con uno dei figli del presidente del Senato (non il chiacchierato Leonardo Apache, ma il primogenito Geronimo, oggi titolare dello studio legale di famiglia).

“È passato tanto tempo e la posso raccontare, anche perché ormai è andata in prescrizione”, ha premesso Vecchioni, che non ha mai voluto pronunciare esplicitamente il nome La Russa. “Mia figlia aveva 14 anni, era il 1997 – ricorda – . Per la prima volta volle fare una festicciola in casa, insieme a quattro amiche. Voleva che andassimo fuori, così noi decidemmo di passare la sera a casa di mia mamma, che era vicina. Bene, dopo pochissimo che era iniziata la festa è cominciata ad arrivare gente. Ragazzi di 17, 18, 19 anni, quindi sia minorenni che maggiorenni. Mi hanno rubato di tutto”. 

Vecchioni sorride, l’esperienza è spiacevole e violenta, ma pure surreale: “Hanno spaccato un bel po’ di roba. Mi hanno preso davvero di tutto, anche il portasigari, ma sono andati addirittura a rubarmi le t-shirt e le mutande. Non ho capito perché le mie mutande... un feticismo assoluto”. Il cantautore ride di gusto, poi torna serio. “Bene, a quel punto ovviamente io vado a fare la denuncia e un bel po’ di loro vengono beccati. Ora, io non voglio fare il cognome, ma dirò come si chiama il ragazzo, così si capisce chi era il padre: il giovane si chiama Geronimo”.

Il racconto che Vecchioni affida a Scanzi e al pubblico fiorentino non è inedito: le scorribande e gli atti vandalici della “banda” di amici milanesi del primo figlio di La Russa, nella fattispecie quelli in casa del cantautore, sono fatti accertati. E riconosciuti in parte dallo stesso Geronimo, che aveva ricostruito a modo suo la vicenda in un’intervista con Claudio Sabelli Fioretti: “Arrivai con una ventina di amici – parola di La Russa junior –. Ci furono dei furti. Anche tre dei miei amici, è stato accertato, rubarono qualcosa. Ci rimasi talmente male che da allora non li frequentai più”. 

Ad ascoltare il cantautore non è andata proprio così.

Secondo Vecchioni le responsabilità del giovane La Russa sarebbero state “perdonate” dagli inquirenti nonostante i fatti che lo riguardavano fossero certi: “Tutto è finito in una bolla di sapone – dice l’artista – e nessuno è stato accusato di niente. Nessuno. Quando la polizia mi ha chiamato, ho avuto un confronto proprio con Geronimo e una signora che lo accompagnava”. 

(...)

 "Mi rubarono le mutande", "Lo querelo": scontro tra Vecchioni e il figlio di La Russa. Francesca Galici il 19 Luglio 2023 su Il Giornale.

Geronimo La Russa ha replicato all'aneddoto raccontato da Roberto Vecchioni ad Andrea Scanzi: "Nei miei confronti non ci fu alcuna imputazione"

Roberto Vecchioni, al festival La Gaberiana di Firenze, mentre era sul palco con Andrea Scanzi, ha voluto raccontare un aneddoto del passato che ha tra i protagonisti Geronimo La Russa, maggiore dei figli del presidente del Senato Ignazio. Quando reso noto dal cantautore risale a quasi 30 anni: "È passato tanto tempo, la posso raccontare perché ormai è andata in prescrizione". Ma Vecchioni non ha considerato la reazione di La Russa, che oggi è un avvocato, e ha deciso di agire: "Sono allibito per la notizia pubblicata dal Fatto Quotidiano, con richiamo in prima pagina, dal titolo 'Vecchioni ricorda: Geronimo e soci mi rubarono pure le mutande' ripreso poi parzialmente dal sito Dagospia e da altri".

Durante il suo racconto, il cantautore non cita mai il cognome del figlio dell'esponente di Fratelli d'Italia chiamandolo solo per nome: "Mia figlia aveva 14 anni, era il 1997. Per la prima volta volle fare una festicciola in casa insieme a quattro amiche. Lei voleva che noi andassimo fuori, così abbiamo passato la serata a casa di mia mamma. Bene, dopo pochissimo che la festa è iniziata ha cominciato ad arrivare gente". Tra queste persone, "ragazzi di 17, 18, 19 anni", dal racconto di Vecchioni pare ci fosse anche il figlio del presidente del Senato: "Mi hanno rubato tutto. Hanno spaccato un bel po’ di roba. Mi hanno preso davvero di tutto, anche il portasigari, ma sono andati addirittura a rubarmi le t-shirt e le mutande. Non ho capito perché le mie mutande… Un feticismo assoluto".

Il cantautore milanese in quell'occasione procedette alla denuncia "e un bel po’ di loro vengono beccati. Ora, io non voglio fare il cognome, ma dirò come si chiama il ragazzo, così si capisce chi era il padre: il giovane si chiama Geronimo". Nella versione di Vecchioni, il figlio di La Russa venne "perdonato" dagli inquirenti nonostante, a suo dire, i fatti fossero certi. La storia non è inedita, lo stesso Geronimo La Russa l'aveva raccontata nel 2005: "Arrivai con una ventina di amici. Ci furono dei furti. Anche tre dei miei amici, è stato accertato, rubarono qualcosa. Ci rimasi talmente male che da allora non li frequentai più". Oggi, il figlio del presidente del Senato attacca: "Vecchioni, che già all'epoca in cui ero minorenne incentrò le sue attenzioni solo sul figlio diciassettenne di un deputato di destra, cioè mio padre, a distanza di 26 anni dovrebbe sapere benissimo che nei miei confronti non ci fu alcuna imputazione e che non fui affatto 'perdonato' in quanto il perdono giudiziale può essere concesso solo a chi è imputato e colpevole e io non lo sono mai stato".

Il figlio del senatore, quindi, prosegue, ricordando che "altri giovani conoscenti che parteciparono alla festa della figlia di Vecchioni ebbero invece conseguenze giudiziarie ed io ne presi immediatamente le distanze. È incredibile che Vecchioni, intervistato dal noto giornalista del Fatto, Scanzi, provi a gettare immotivatamente e falsamente discredito su me e sulla mia famiglia già oggetto in questi giorni di particolare attenzione mediatica". Per questa ragione, Geronimo La Russa ha concluso: "Ho dato mandato al mio avvocato Vinicio Nardo affinché tuteli in ogni sede competente la mia onorabilità".

Da repubblica.it venerdì 7 luglio 2023.

Il figlio di Ignazio La Russa, il 19enne Leonardo Apache La Russa, nel video del suo brano "Sottovalutati". Un testo con volgarità e insulti alle donne e riferimenti all’uso di droghe, nello stile trap. Una canzone che aveva anche spinto il padre a commentare: "Se lo acchiappo con la droga lo ammazzo"

Il più giovane dei figli. Chi è Leonardo Apache, il figlio terzogenito di La Russa: aspirante rapper, nome d’arte Larus.  Redazione Web su L'Unità il 7 Luglio 2023

Ha 19 anni e ha già scritto e pubblicato alcuni brani rap. Leonardo Apache La Russa, 19 anni, è il terzogenito di Ignazio, dopo Geronimo e Lorenzo Cochis, tutti nomi scelti per omaggiare gli antichi capi americani. Geronimo, nato nel 1980 è il maggiore, figlio della relazione con Marika Cattare. Lorenzo Cochis e Leonardo Apache, nati rispettivamente nel 1995 e nel 2005, sono figli di Laura De Cicco, attuale moglie di Ignazio La Russa.

Il figlio più piccolo di La Russa studia tra Londra e Milano, dove frequenterebbe il liceo artistico e aspira a diventare rapper, conosciuto sotto il nome d’arte Larus. Ha inciso diverse canzoni, quella che ha avuto più successo si intitola Sottavalutati, scritta e interpretata con Apo Way, in cui rimava: “Sono tutto matto, sono tutto fatto, sono tutto pazzo, ma ti fo**o anche senza storia”. Parole che non piacquero al padre che in un’intervista alla radio spiegò: “Tranquilli, non è fatto, il concetto di fatto ha un significato diverso. Comunque, i padri sono sempre gli ultimi a saperlo. Se lo acchiappo con la droga lo ammazzo”, come riportato dal Corriere della Sera. “Mi disse che senza parolacce le canzoni rap non hanno senso – spiegò ancora il presidente del Senato -, e concluse con un ‘papà non sai un c…o dei rapper’”.

Repubblica ricorda che quel testo non piacque affatto alla famiglia La Russa che però sottolineò che quel mondo era assolutamente distante da quello reale del giovane Leonardo Apache. “Scemenze da ragazzi” liquidò la mamma, che però aggiunse. “Quei testi non mi piacciono per niente, sono forti, volgari, senza senso. Ma visto che non fa niente di sconveniente e il rap lo diverte, proibirglielo sarebbe sbagliato”. E il “sono fatto”? “Quella parola gli serviva soltanto per la rima. Sulla questione canne noi siamo molto rigidi e lui lo sa bene. Non penso, o almeno spero, che se le faccia”.

Dal passato il Corriere della Serra ricorda un litigio via social con Fedez a suon di stories su Instagram poi cancellate. Il giovane La Russa avrebbe scritto al cantante di smetterla di attaccare il padre. Fedez aveva risposto: “Ci mancavano solo i figli di politici che fanno la trap. Già a dirlo mi vengono i conati”.

Redazione Web 7 Luglio 2023

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it venerdì 7 luglio 2023.

Forse nel secondo nome, Apache, è già scritto tutto. Per avere 19 anni infatti, il terzogenito del presidente del Senato Ignazio La Russa, ha all’attivo già parecchie liti e un profilo – non solo social – che dir turbolento è poco. Il giovane – fratello di Geronimo e Lorenzo Cochis tutti battezzati con nomi da capo indiano – in arte si fa chiamare Larus (perché il padre non voleva che usasse il nome vero) ed è un trapper.

Basta ascoltare una sua canzone – l’unica che ha conquistato per il momento una certa popolarità – del 2019, «Sottovalutati», e realizzato in duo con l’amico «Apo Way, riporta frasi non proprio tranquillizzanti, come «sono fatto», «se lo acchiappo con la droga lo ammazzo». E pure «ma ti fotto pure senza storie»: passaggio che, riascoltato oggi, alla luce delle accuse mosse da una giovane milanese di violenza sessuale, mette i brividi.

Estratto da open.online venerdì 7 luglio 2023.

Leonardo Apache La Russa, il figlio 19enne del presidente del Senato Ignazio La Russa, è accusato di stupro. Una ragazza di 22 anni si è presentata alla procura di Milano per raccontare una serie di abusi. Che sarebbero avvenuti in seguito a una serata in discoteca. Leonardo è il terzogenito del presidente del Senato. Gli altri due si chiamano Lorenzo Kocis e Geronimo. 

È figlio di Laura De Cicco. L’inchiesta, scrive il Corriere della Sera, è coordinata dalla pubblica ministera Rosaria Stagnaro e coordinata dall’aggiunta Letizia Mannella. Secondo la difesa del giovane non c’è stata invece «nessuna costrizione». Lei ha detto di essersi svegliata nuda e in stato confusionale nel letto del 19enne. L’avvocato che la assiste è Stefano Benvenuto.

Il rapper

Del figlio di La Russa Leonardo si parlò qualche tempo fa sui giornali perché era un rapper con il nome d’arte di Larus. In un video in cui canta un brano dice: «Sono tutto matto / Sono tutto fatto».  

(...) 

L’indagine per stupro

Il Corriere racconta che l’accusa a Leonardo La Russa è simile a quella di tante altre. La ragazza era a una serata in discoteca con amici. Dice di aver perso il controllo di sé stessa e di essersi risvegliata con la sensazione di aver subito una violenza sessuale. L’avvocato di lei dice: «È una questione delicata. Non rilascio dichiarazioni per rispetto della legge penale». Il tutto sarebbe accaduto il 18 maggio scorso. Lei ha 22 anni e viene da una famiglia benestante milanese. 

Era uscita a mezzanotte con un’amica per andare in una discoteca del centro vicino al Duomo: «Mentre ballavamo mi ero accorta della presenza di un mio compagno di scuola di liceo (…) Leonardo La Russa, figlio di Ignazio La Russa. Ci salutammo e da quel momento non ricordo più niente». Ma ricorda di aver bevuto due drink prima di risvegliarsi nel letto di Leonardo. 

Il mattino dopo

Il mattino dopo la ragazza dice che si trovava «in assoluto stato confusionale». Dice che era «nuda nel letto con a fianco Leonardo La Russa». Il racconto riprende dal mattino dopo quando, intorno a mezzogiorno, si sveglia «in assoluto stato confusionale», «nuda nel letto con a fianco Leonardo La Russa», nudo anche lui. «Gli ho chiesto immediatamente spiegazioni del perché fossi lì in quanto non mi ricordavo nulla della serata», sostiene la ragazza. Che, «spaventata» chiede «cosa fosse successo, come siamo arrivati a casa, dove fossimo». Leonardo, secondo la giovane, risponde così: «Mi disse “siamo venuti qui dopo la discoteca con la mia macchina”». E poi «aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti». 

L’amico e l’amica

Infine, le rivela anche che un suo amico, che stava dormendo (lei non lo ha mai visto) in un’altra stanza, aveva «avuto un rapporto con me a mia insaputa», dopo che entrambi l’avevano spogliata. A quel punto lei scrive all’amica che l’ha accompagnata in discoteca. Le chiede: «Non mi ricordo nulla, raccontami di ieri, sono stata drogata?». La risposta: «Penso ti abbia drogata. Non mi ascoltavi, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata». E ancora: «Stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink», «ho provato a portarti via non riuscendovi». L’amica le dice di averla notata «euforica». E aggiunge di averla vista baciare il figlio del presidente del Senato.

L’entrata in scena di Ignazio La Russa

Il racconto procede. La ragazza si sente presa dalla vergogna. Chiede di riavere i vestiti. Che erano rimasti al piano di sotto. Descrive così l’appartamento a due piani in cui vive Leonardo.

A un certo punto entra in scena anche il presidente del Senato: «Intorno alle 12.30 Ignazio la Russa si affacciò alla camera vedendomi nel letto. Se ne andò via». Vuole andarsene, ma Leonardo la ferma: «Mi disse “pretendo un bacio, se no non ti faccio uscire”. A quel punto si avvicinò e mi baciò contro la mia volontà. Non dissi nulla per paura». Lei annota l’indirizzo e va a prendere la metropolitana. Chiama la madre che la convince ad andare alla clinica Manganelli. Qui le riscontrano un’ecchimosi al collo e una ferita a una coscia. Risulta anche positiva alla cocaina. Ma l’ha assunta prima di andare in discoteca. 

La versione di Leonardo La Russa

Dice di avere per tutto il giorno nausee e capogiri. Il giorno dopo il figlio di La Russa le manda un messaggio su Instagram: «Io per paura non risposi». Una quarantina di giorni dopo formalizza la denuncia. Adriano Bazzoni, l’avvocato che difende Leonardo La Russa, dice che non ha letto ancora le carte dell’accusa. Ma aggiunge anche che «in base a quanto ci state dicendo, sembra che la giovane si riferisca a una notte nella quale ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione: è stata d’accordo nel trascorrere il dopo discoteca con il mio assistito, liberamente andando con lui a casa sua, passando la notte e rimanendo con lui fino a mezzogiorno successivo, per poi salutarsi normalmente». 

E conclude: «Leonardo è molto scosso ed esclude che la ragazza possa aver detto qualcosa del genere nei suoi confronti, così come esclude di aver avuto rapporti insieme ad una terza persona. Quanto a quello che la ragazza avrebbe consumato, non solo esclude di averglielo offerto, ma, qualora si vedesse attribuire questo tipo di condotta, si vedrebbe costretto a sporgere denuncia».

Estratto da ilmessaggero.it venerdì 7 luglio 2023.

Il figlio 19enne del presidente del Senato Ignazio La Russa, Leonardo Apache, denunciato da una ragazza per violenza sessuale. La denuncia è stata presentata Milano. Sul caso indaga la procura. A dare la notizia è il Corriere della Sera. […] Dopo aver bevuto un drink, stando alla denuncia, la ragazza non ricordava più nulla e si sarebbe ritrovata il giorno dopo nuda nel letto con il giovane.

Agli inquirenti ha raccontate che Leonardo Apache le avrebbe detto che «aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti» e che anche un suo amico, che lei non ha mai visto, aveva avuto un rapporto con lei a sua insaputa. 

La ragazza avrebbe quindi scritto all’amica con cui era andata in discoteca, chiedendole cose fosse successo e lei le aveva risposto: «Penso ti abbia drogata, non mi ascoltavi». Dopo essere uscita dalla casa la giovane è andata alla Mangiagalli dove le sono stati riscontrati un livido sul collo e una ferita alla coscia.

Circa 40 giorni dopo i fatti, la denuncia a cui, interpellato dal Corriere, replica Adriano Bazzoni, l’avvocato milanese incaricato dalla famiglia. «Nessuna violenza. Sembra che la giovane si riferisca a una notte nella quale ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione». 

«Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio». Lo afferma il presidente del Senato Ignazio La Russa in una nota. 

«Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall'avvocato estensore che - cito testualmente il giornale che ne dà notizia - occupa questo tempo "per rimettere insieme i fatti".

Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua», aggiunge. 

Poi, la precisazione: «Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno e men che meno la ragazza - afferma il presidente del Senato in una nota - Semplicemente, da padre, dopo averlo a lungo sentito, credo a mio figlio. […]».

È risultata positiva alle benzodiazepine, ma non si sa se solo in quantità compatibile con l'uso abituale di tranquillanti su prescrizione medica, o in quantità superiore da fare ipotizzare che sia stata «stordita», la 22enne che ha denunciato Leonardo Apache La Russa, ora indagato dalla Procura di Milano con l'ipotesi di violenza sessuale. 

Da quanto si è saputo le analisi effettuate alla Mangiagalli, l'ospedale dove la giovane si è recata dopo la presunta violenza, hanno rilevato presenza di cocaina e di benzodiazepine dovute ai tranquillanti che lei ha detto di prendere.

Sul punto verranno fatti accertamenti per capire l'esatta quantità di sostanze che la giovane aveva in corpo. […] La ragazza sarà sentita tra domani e dopodomani dai pm milanesi. Sulla vicenda la Procura ha aperto una inchiesta in cui il figlio del presidente del Senato, Ignazio La Russa, è indagato. Il giovane respinge le accuse e parla di rapporto consenziente.

La Russa e il figlio denunciato: «Io l’ho interrogato a lungo». Poi le chiamate agli avvocati e la decisione di scrivere la nota. Marco Galluzzo venerdì 7 luglio 2023 su Il Corriere della Sera.

La difficile giornata del senatore: «Mi spiace per entrambi i ragazzi» 

Al telefono, alle cinque del pomeriggio, il presidente del Senato risponde con voce stanca e la promessa di non aggiungere una parola di più rispetto alla nota, l’ultima, che ha dettato alle agenzie di stampa.

Poi però almeno un minimo si scioglie: «È chiaro che mi dispiace, e per entrambi i ragazzi, per questa ragazza, per tutti, è una brutta vicenda. Sto solo cercando di fare il padre e mi sono incazzato con mio figlio perché ha portato a casa una ragazza che nemmeno conosceva bene, l’ho interrogato su tutto quello che è successo, d’ora in poi parlerà soltanto il nostro avvocato...».

Ignazio La Russa non ha avuto una giornata semplice. È la seconda carica dello Stato e suo figlio è accusato di aver violentato una ragazza. Che ci fosse un’indagine in corso il presidente di Palazzo Madama lo sapeva almeno da quattro giorni e dunque per lui non è stata una sorpresa quando la notizia è diventata pubblica, insieme ai primi dettagli dell’inchiesta.

Ma a destare stupore e suscitare polemiche sono state piuttosto proprio le prime parole di papà La Russa, dettate alle agenzie e in sostanza assolutorie del figlio: «Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio».

Parole che scatenano molte reazioni politiche, da parte dell’opposizione, e che di sicuro possono apparire stonate rispetto alla figura istituzionale che in questo momento La Russa ricopre. La seconda carica dello Stato continua in questo modo: «Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che, cito testualmente il giornale che ne dà notizia, occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”. Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio — prosegue La Russa —. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua».

C’è infine una postilla domestica che per La Russa padre ha anch’essa rilievo: «Inoltre, incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla. Altrettanto sicura è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero».

Passano poche ore e le parole del presidente del Senato, esponente di Fratelli d’Italia, diventano oggetto di critica feroce da parte del Pd e del resto delle opposizioni. Alla fine Ignazio La Russa sente il bisogno di chiarire, correggere il tiro, forse anche di fare marcia indietro rispetto a qualche parola di troppo contenuta nella prima nota.

«Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno e men che meno la ragazza. Semplicemente, da padre, dopo averlo a lungo sentito, credo a mio figlio. Sottolineo il mio rispetto per gli inquirenti e il desiderio che facciano chiarezza il più celermente possibile. Leonardo ha nominato un suo difensore e da ora toccherà a quest’ultimo decidere se e quando intervenire».

Lo stesso avvocato di cui parla, al termine di una giornata certamente faticosa, al telefono con il nostro giornale. Quando promette che d’ora in poi su questa vicenda non dirà più una parola. Anche se non sarà facile.

La denuncia di una ragazza: “Violentata dal figlio di La Russa dopo la serata in discoteca”. Indaga la procura di Milano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Luglio 2023

La narrazione di questa vicenda, così come l’ha raccontata la giovane ragazza, è molto simile al racconto di altra violenze sessuali che si ripetono continuamente all’ombra delle movide: serata in discoteca con gli amici, perdita di controllo di sé stessi e risveglio con la drammatica sensazione di aver subito un abuso sessuale

Leonardo Apache Larussa figlio 19enne terzo genito del presidente del Senato Ignazio La Russa, è stato denunciato da una ragazza per violenza sessuale. La denuncia è stata presentata a Milano e sul caso indaga la procura. A dare la notizia è il Corriere della Sera.  La denuncia è stata depositata da una ragazza di 22 anni alla Procura di Milano che ha aperto un’inchiesta affidata al pm Rosaria Stagnaro e coordinata dal procuratore aggiunto Letizia Mannella. I presunti abusi sarebbero avvenuti dopo una serata in discoteca a Milano. Il figlio di Larussa si difende: “Non c’è stata nessuna costrizione”. L’ avvocato Stefano Benvenuto che assiste la giovane ragazza a sua volta non commenta: “È una questione delicata. Non rilascio dichiarazioni per rispetto della legge penale”.

La narrazione di questa vicenda, così come l’ha raccontata la giovane ragazza, è molto simile al racconto di altra violenze sessuali che si ripetono continuamente all’ombra delle movide: serata in discoteca con gli amici, perdita di controllo di sé stessi e risveglio con la drammatica sensazione di aver subito un abuso sessuale. Dai racconti sembra di riassistere alla vicenda che ha coinvolto il figlio di Beppe Grillo accusato anch’egli per avere abusato di una ragazza insieme a degli amici. 

Qualche tempo fa sui media si parlò del figlio Leonardo di La Russa perché era un rapper con il nome d’arte di “Larus“. In un video in cui canta un brano dice: “Sono tutto matto / Sono tutto fatto“. All’epoca suo padre spiegò: “Fa il rapper per hobby. Non è fatto, il significato è diverso. Comunque, i padri sono sempre gli ultimi a saperlo, ma se lo acchiappo con la droga lo ammazzo”. Aggiungendo: “Lui mi ha detto che se in queste canzoni non ci si mette le parolacce non hanno senso. Gli ho chiesto: perché? Lui mi ha risposto: “Papà, non sai un c… dei rapper”. Io sono un liberale. Ho le mie idee e non voglio imporle a nessuno, neanche a mio figlio“»”. Gli altri figli di La Russa, Lorenzo è laureato in giurisprudenza ed è stato eletto consigliere nel municipio 1 di Milano. Geronimo, figlio di Marika Cattare, è anche lui avvocato e presidente dell’ ACI Milano e Monza. 

La denunciata violenza sessuale sarebbe accaduto lo scorso 18 maggio. La ragazza ha 22 anni e viene da una famiglia benestante milanese. Era uscita a mezzanotte con un’amica per andare in una discoteca del centro vicino al Duomo, ed ha dichiarato agli investigatori: “Mentre ballavamo mi ero accorta della presenza di un mio compagno di scuola di liceo (…) Leonardo La Russa, figlio di Ignazio La Russa. Ci salutammo e da quel momento non ricordo più niente“. Ricorda solo di aver bevuto due drink prima di risvegliarsi “in assoluto stato confusionale” e di essersi trovata nuda nel letto di casa Larussa accanto al giovane Leonardo nudo anche lui.

“Gli ho chiesto immediatamente spiegazioni del perché fossi lì in quanto non mi ricordavo nulla della serata”, racconta la ragazza che, “spaventata” chiede “cosa fosse successo, come siamo arrivati a casa, dove fossimo”. Leonardo Larussa, secondo la giovane, risponde così: “Mi disse “siamo venuti qui dopo la discoteca con la mia macchina” riferendole che “aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti”.

Leonardo Larussa, secondo il racconto della ragazza, le avrebbe rivelato che anche un suo amico, che stava dormendo (lei non lo ha mai visto) in un’altra stanza, “aveva avuto un rapporto con me a mia insaputa”, dopo che entrambi i ragazzi l’avevano spogliata. A quel punto la ragazza scrive un messaggio all’amica con cui si era recata in discoteca: “Non mi ricordo nulla, raccontami di ieri, sono stata drogata?”. Questa la risposta: “Penso ti abbia drogata. Non mi ascoltavi, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata” aggiungendo “Stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink, ho provato a portarti via non riuscendovi“. L’amica le spiega di averla notata “euforica” ed aggiunge di averla vista baciare il figlio del presidente del Senato. 

Il racconto della ragazza continua, riferendo di sentirsi presa dalla vergogna. Chiede al figlio di Larussa di riavere i suoi vestiti che erano rimasti al piano di sotto, e descrive l’appartamento a due piani in cui vive Leonardo. A un certo punto nel racconto entra in scena anche il presidente del Senato: “Intorno alle 12.30 Ignazio la Russa si affacciò alla camera vedendomi nel letto. Se ne andò via“. La ragazza voleva andarsene, ma Leonardo la ferma: “Mi disse “pretendo un bacio, se no non ti faccio uscire” ed a quel punto si avvicinò e mi baciò contro la mia volontà. Non dissi nulla per paura“. Lei scrive l’indirizzo dello stabile da cui era riuscita ad uscire e va a prendere la metropolitana. Chiama la madre che la convince ad andare alla clinica Manganelli. Qui le riscontrano un’ecchimosi al collo e una ferita a una coscia. Risulta anche positiva alla cocaina.

La ragazza riferisce di avere avuto per tutto il giorno nausee e capogiri. Il giorno dopo il figlio di La Russa le manda un messaggio su Instagram: “Io per paura non risposi”. Una quarantina di giorni dopo presenta la denuncia. L’ avvocato Adriano Bazzoni, che difende Leonardo La Russa, afferma che non ha letto ancora le carte dell’accusa ed aggiunge anche che “in base a quanto ci state dicendo, sembra che la giovane si riferisca a una notte nella quale ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione: è stata d’accordo nel trascorrere il dopo discoteca con il mio assistito, liberamente andando con lui a casa sua, passando la notte e rimanendo con lui fino a mezzogiorno successivo, per poi salutarsi normalmente”. Una perfetta ricostruzione difensiva.

Il legale di Leonardo Larussa aggiunge: “Leonardo è molto scosso ed esclude che la ragazza possa aver detto qualcosa del genere nei suoi confronti, così come esclude di aver avuto rapporti insieme ad una terza persona. Quanto a quello che la ragazza avrebbe consumato, non solo esclude di averglielo offerto, ma, qualora si vedesse attribuire questo tipo di condotta, si vedrebbe costretto a sporgere denuncia”.

La ragazza e le amiche che erano con lei non sono ancora state convocate in Procura. Le indagini sono alla stadio iniziale e dal Palazzo di Giustizia milanese trapela un certo disappunto per la fuga di notizie che rende l’inchiesta più complicata. 

La difesa di Ignazio Larussa

“Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante“. Sono le prime dichiarazioni di Ignazio La Russa dopo la notizia che il suo terzogenito, Leonardo Apache, è indagato per violenza sessuale.  La nota del presidente del Senato continua: “Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale, ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio“. “Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne da notizia (cioè il Corriere della Sera, ndr) – occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”.

“Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua. Inoltre, incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla. Altrettanto sicura è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero“.

Redazione CdG 1947

I "dubbi" sulla ragazza. La Russa padre-magistrato, assolve il figlio accusato di violenza sessuale: “L’ho interrogato, nessun atto penalmente rilevante”. La retromarcia del Presidente del Senato dopo la polemica: "Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno e men che meno la ragazza”. Redazione su L'Unità il 7 Luglio 2023

Difende a spada tratta, convinto e senza dubbio alcuno della sua innocenza. Travolto dall’indagine per violenza sessuale nei confronti del terzogenito Leonardo Apache, di 19 anni, il presidente del Senato Ignazio La Russa veste i panni di avvocato e padre per difendere il figlio.

In una nota la seconda carica dello Stato dice di “averlo interrogato a lungo” , in una sorta di indagine preliminare domestica, e dopo aver ascoltato i fatti raccontati da Leonardo “ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio”.

Anzi, La Russa ‘senior’ di dubbi ne avanza sulla 22enne, ex compagna di liceo di Lorenzo Apache, che ha sporto denuncia nei confronti del figlio, che l’avrebbe drogata e violentata il 18 maggio scorso dopo una serata in una nota discoteca di Milano. Per il presidente del Senato “lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne dà notizia – occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”. Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua”.

La Russa conferma invece quanto riferito dalla 22enne e dall’articolo pubblicato oggi dal Corriere della Sera che riportava la vicenda, ovvero che l’esponente di FdI si si sarebbe affacciato nella camera di suo figlio Leonardo, per poi andarsene non appena vista la ragazza ancora a letto. “Incrociata al mattino, sia pure fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla – spiega però La Russa – Altrettanto sicuro è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero”.

L’intervento di La Russa viene invece stigmatizzato duramente dalla segretaria del Partito Democratico. Per Elly Schlein, impegnata ad Enna per un incontro sul tema dell’autonomia regionale, è “disgustoso che il Presidente del Senato colpevolizzi una donna che denuncia una violenza”.

Affermazioni, quelle nella difesa di ufficio di La Russa nei confronti del figlio 19enne, rispetto alle quali Schlein rileva che “al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire, è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare la credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull’eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso. Il presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria“. “È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali la legittimazione del pregiudizio sessista“, aggiunge la leader Dem.

Di fronte alla levata di scudi, La Russa è quindi costretto a fare una parziale retromarcia e a rilancia un grande classico della politica italiana: il fraintendimento. “Mi dispiace essere frainteso. Lo dico sinceramente. Io non accuso nessuno e men che meno la ragazza”, dice il presidente del Senato tentato di correre ai ripari. “Semplicemente, da padre – prosegue La Russa – dopo averlo a lungo sentito, credo a mio figlio. Per il resto, sottolineo il mio rispetto per gli inquirenti e il desiderio che facciano chiarezza il più celermente possibile. Leonardo ha nominato un suo difensore e da ora toccherà a quest’ultimo decidere se e quando intervenire“.

Chi è Leonardo Apache

Ha 19 anni e ha già scritto e pubblicato alcuni brani rap. Leonardo Apache La Russa, 19 anni, è il terzogenito di Ignazio, dopo Geronimo e Lorenzo Cochis, tutti nomi scelti per omaggiare gli antichi capi americani. Geronimo, nato nel 1980 è il maggiore, figlio della relazione con Marika Cattare. Lorenzo Cochis e Leonardo Apache, nati rispettivamente nel 1995 e nel 2005, sono figli di Laura De Cicco, attuale moglie di Ignazio La Russa.

Il figlio più piccolo di La Russa studia tra Londra e Milano, dove frequenterebbe il liceo artistico e aspira a diventare rapper, conosciuto sotto il nome d’arte Larus. Ha inciso diverse canzoni, quella che ha avuto più successo si intitola Sottavalutati, scritta e interpretata con Apo Way, in cui rimava: “Sono tutto matto, sono tutto fatto, sono tutto pazzo, ma ti fo**o anche senza storia”.

Parole che non piacquero al padre che in un’intervista alla radio spiegò: “Tranquilli, non è fatto, il concetto di fatto ha un significato diverso. Comunque, i padri sono sempre gli ultimi a saperlo. Se lo acchiappo con la droga lo ammazzo”, come riportato dal Corriere della Sera. “Mi disse che senza parolacce le canzoni rap non hanno senso – spiegò ancora il presidente del Senato -, e concluse con un ‘papà non sai un c…o dei rapper’”.

Redazione  7 Luglio 2023

"Forte reprimenda perché ha portato a casa una ragazza con cui non aveva rapporti consolidati”. La Russa difende Leonardo Apache: “L’ho interrogato, nulla di penalmente rilevante. La ragazza ha preso cocaina, lui no”. Il legale delle 22enne rilancia: “Si faccia chiarezza sulla droga”. Redazione su Il Riformista il 7 Luglio 2023 

Ha la “certezza” che il figlio, Leonardo Apache La Russa, “non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante“. Avanza dubbi sulla versione della ragazza perché “per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio” e “di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne da notizia – occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”.

Ignazio La Russa dice di “averlo interrogato a lungo” dopo la vicenda riportata dal Corriere della Sera. In una nota il presidente del Senato offre la sua versione sul presunto coinvolgimento del terzogenito, 19enne, in un caso di violenza sessuale, partito dalla denuncia di una ragazza di 22 anni. “Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio”.

La seconda carica dello Stato aggiunge di aver rivolto al figlio una “forte reprimenda” per “aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato” e sottolinea “Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero”. Tornando all’assunzione di cocaina, precisa: “Per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua”.

Ragazza che “incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, appariva assolutamente tranquilla” spiega La Russa. Dal canto suo la giovane ha raccontato che il 18 maggio intorno a mezzanotte era in una discoteca nel centro di Milano con una amica e lì ha incontrato Leonardo Apache La Russa, che in passato era stato suo compagno di scuola.

E, dopo un drink, ha riferito di non ricordare nulla di quando successo, ma di essersi svegliata confusa e nuda nel letto del ragazzo intorno a mezzogiorno. Alla richiesta di spiegazioni “mi disse: siamo venuti qui dopo la discoteca con la mia macchina‘” e che “aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti‘ e che un suo amico, che stava dormendo” – lei ha precisato di non averlo mai visto – in un’altra stanza, aveva “‘avuto un rapporto con me a mia insaputa”.

Il legale della giovane: “Si faccia chiarezza sulla cocaina”

Immediata la controreplica del legale della 22enne, l’avvocato Stefano Benvenuto: “Dopo aver preso contezza dell’articolo apparso sul giornale ‘Corriere della Sera’ e dopo aver letto le dichiarazioni del presidente del Senato rilevo quanto segue: senza entrare nel merito della vicenda coperta da segreto istruttorio, la domanda che mi pongo da normale cittadino e non da avvocato come possa una ragazza aver assunto cocaina e non ricordare nulla fino all’indomani, laddove la cocaina è nota essere sostanza eccitante e non che provochi sonnolenza. La domanda a cui dovranno rispondere i magistrati è se la ragazza abbia assunto sostanze stupefacenti che hanno provocato un tale stordimento e in caso affermativo da chi siano state offerte”. E conclude: “Per noi l’attenzione è massima a tutela del diritto di difesa di una semplice ragazza che ha raccontato fatti che, se provati, costituirebbero una inammissibile offesa alla dignità femminile. Mi schiero sempre verso La ricerca della verità”.

Le reazioni politiche

“Al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire, è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare La credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull’eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso. Il Presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria. È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali La legittimazione del pregiudizio sessista”. Lo afferma in una nota la segretaria del Pd Elly Schlein.

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) - "Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinchè faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio". Lo afferma il presidente del Senato Ignazio La Russa in una nota.

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) - "Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall'avvocato estensore che - cito testualmente il giornale che ne dà notizia - occupa questo tempo "per rimettere insieme i fatti". Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua". Lo afferma il presidente del Senato Ignazio La Russa in merito alla notizia di un'indagine a carico del figlio Leonardo denunciato per violenza. 

"Inoltre - prosegue il presidente di palazzo Madama nella nota - incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla. Altrettanto sicura è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero"

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) - "Mio figlio mi ha detto che quella ragazza era una sua compagna di scuola che non vedeva da tanto tempo. E che durante la serata gli ha raccontato tante cose della sua vita a dimostrazione che era lucida". 

Lo ha detto Il presidente del Senato Ignazio La Russa, incrociato fuori da un ristorante vicino al suo studio nei pressi del Palazzo di Giustizia di Milano, ribadendo di "essere tranquillo" per l'inchiesta in cui suo figlio Leonardo Apache è indagato per violenza sessuale in seguito alla denuncia della 22enne.

"E' dispiaciuto - ha aggiunto - perchè non si aspettava una cosa simile". Inoltre La Russa ha spiegato di aver "visto fuggevolmente" la mattina dopo la ragazza. "Ho aperto la porta, - ha affermato - l'ho vista, era tranquilla e poi se ne è andata". Quanto all'amico del figlio presente in casa ha sottolineato che "dormiva in un altro piano, era uno dei due ospiti che studiano con mio figlio", mentre l'altro non c'era e "non ne sa niente". Il Presidente del Senato ha tenuto a precisare che la giovane "per sua ammissione aveva assunto sostanze stupefacenti prima di incontrare" suo figlio.

Estratto da repubblica.it venerdì 7 luglio 2023.

“Disgustoso”. Elly Schlein interviene dopo le parole pronunciate da Ignazio La Russa in difesa del figlio Leonardo Apache, accusato di violenza sessuale.  

(...) 

La Russa ha contestato i tempi della denuncia da parte della ragazza: “Presentata dopo quaranta giorni dall'avvocato estensore che, cito testualmente il giornale che ne dà notizia, occupa questo tempo per rimettere insieme i fatti”, ha evidenziato il presidente del Senato. E sulla ragazza che ha dichiarato di aver subito violenza La Russa ha sollevato dubbi: “Per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua”.

Affermazioni rispetto alle quali Schlein rileva che "al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire, è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare la credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull'eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso. Il presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria. 

È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali la legittimazione del pregiudizio sessista"

La Russa jr accusato di molestie Il padre: “Ci ho parlato, non è così”. Rita Cavallaro su L'Identità il 7 Luglio 2023 

“Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio. Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne dà notizia – occupa questo tempo “per rimettere insieme i fatti”. Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua. Inoltre, incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla.

Altrettanto sicura è la forte reprimenda rivolta da me a mio figlio per aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato. Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero”. È la lunga nota del presidente del Senato, Ignazio La Russa, a difesa del suo terzogenito, Leonardo Apache, indagato dai magistrati meneghini per violenza sessuale a seguito della querela sporta da un’ex compagna di liceo, un 22enne della Milano bene, che sostiene di essere stata stuprata dal figlio del numero uno di Palazzo Madama. Il presunto stupro, ricostruito dal Corriere, sarebbe avvenuto il 18 maggio scorso, quando la giovane, dopo aver assunto cocaina durante una serata all’insegna dello sballo, aveva incontrato in una discoteca a due passi da piazza Duomo il suo ex compagno di scuola, il rapper esordiente di 19 anni, nome d’arte Larus. La ragazza, che era in compagnia di un’amica, ha raccontato di aver accettato un drink offertole da Leonardo e che, dopo averlo bevuto, è entrata in uno stato confusionale. Non ricorda null’altro di quella notte, giura, e anche se non lo dice esplicitamente, con la sua ricostruzione allude alla probabilità che in quel cocktail ci fosse la droga dello stupro, la sostanza stupefacente troppo spesso usata dai giovanissimi.

Il terribile sospetto che sia stata vittima di violenza sessuale ha assalito la 22enne soltanto la mattina, quando, intorno a mezzogiorno, si era risvegliata svestita e confusa nel letto di Leonardo Apache, anche lui nudo. Allora avrebbe chiesto spiegazioni e lui le avrebbe risposto che “aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti”, racconta la giovane. Non solo, oltre a Leonardo “ha avuto un rapporto con me a mia insaputa” anche un amico del rapper, che dormiva in un’altra stanza e che lei non ha mai visto. A quel punto avrebbe mandato messaggi all’amica con cui era uscita la sera prima: “Non mi ricordo nulla, raccontami di ieri, sono stata drogata?”. E anche l’altra ipotizza che in quel drink ci fosse la droga: “Penso ti abbia drogata… stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink”. La descrive “euforica” e ricorda di averla vista baciare Leonardo in discoteca, per poi perdere del tutto le tracce dell’amica. Messaggi che avevano convinto la 22enne di essere stata violentata in casa La Russa. La vittima, inoltre, nella denuncia ha parlato anche del presidente del Senato, raccontando che “intorno alle 12.30 Ignazio la Russa si affacciò alla camera vedendomi nel letto. Se ne andò via”. E che, prima di lasciare l’abitazione, Leonardo pretese un bacio “contro la mia volontà”.

Uscita dal palazzo, si era annotata l’indirizzo e aveva chiamato in lacrime la madre, la quale l’aveva convinta ad andare alla clinica Mangiagalli, dove i medici del servizio antiviolenza avrebbero riscontrato ecchimosi al collo e una ferita alla coscia. È lì che è stata sottoposta pure ai test antidroga, che hanno accertato la positività alla cocaina, assunta volontariamente prima della serata in discoteca. Assistita dall’avvocato Stefano Benvenuti, la 22enne ha formalizzato la denuncia dopo quaranta giorni e ora Leonardo Apache La Russa è indagato per violenza sessuale nell’inchiesta del pm di Milano Rosaria Stagnaro, coordinata dall’aggiunto Letizia Mannella. Il rapper nega ogni addebito e sostiene che si è trattato di un rapporto consensuale. L’avvocato Adriano Bazzoni, difensore del figlio del presidente del Senato, ha sottolineato che attende di leggere le carte ma “sembra che la giovane si riferisca a una notte nella quale ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione: è stata d’accordo nel trascorrere il dopo discoteca con il mio assistito, liberamente andando con lui a casa sua, passando la notte e rimanendo con lui fino a mezzogiorno successivo, per poi salutarsi normalmente”. Il penalista ha precisato che la ricostruzione contenuta nella denuncia è “fumosa” e che “è pacifico che lei ha assunto sostanze prima di incontrare Leonardo”. Riguardo al drink, La Russa jr “non solo esclude di averglielo offerto, ma, qualora si vedesse attribuire questo tipo di condotta, si vedrebbe costretto a sporgere denuncia”, ha concluso Bazzoni. La vicenda, seppure dai contorni diversi, ricorda il caso di Ciro Grillo, il figlio del leader dei pentastellati Beppe, a processo per uno stupro di gruppo.

La Russa? "Ha solo letto il Corriere", Senaldi smaschera il gioco della sinistra. Il Tempo il 07 luglio 2023

Lo scontro sulla giustizia infiamma il dibattito politico con le parole di Ignazio La Russa sulle indagini che riguardano il figlio su una presunta violenza sessuale che si aggiungono alle polemiche su Daniela Santanchè e per l'imputazione coatta ad Andrea Delmastro per le rivelazioni sul caso Cospito. Se ne parla a Controcorrente, il talk show di Rete 4 condotto da Veronica Gentili. Pietro Senaldi viene chiamato a commentare il primo caso, in relazione alle parole del presidente del Senato che secondo il Pd, come detto da Elly Schlein, offendono le donne: "È veramente disgustoso vedere la seconda carica dello Stato utilizzare parole che tendono a minare la credibilità delle donne che denunciano a seconda di quanto tempo ci mettono per farlo". 

Il condirettore di Libero non è dello stesso avviso: "La Russa non ha fatto altro che leggere l'articolo del Corriere della sera che ha dato la notizia" dell'indagine su Leonardo Apache La Russa "e ha dato adito a tutti questi dubbi. Che la ragazza ha assunto cocaina prima di incontrare in modo casuale il figlio di La Russa l'ho letto sul Corriere, che la ragazza dice non ricordare niente l'ho letto sul Corriere..." afferma il giornalista.  Allora perché le polemiche sulle dichiarazioni del presidente del Senato? "O uno non può parlare... Diciamoci la verità, perché La Russa non può parlare? Perché la notizia è finita in prima pagina perché riguarda il figlio di La Russa. Se sei il presidente del Senato ti possono tirare le pietre e non puoi dire niente, non è correttissimo", spiega Senaldi. 

Poco prima Antonio Padellaro del Fatto quotidiano aveva affrontato il caso della ministra del Turismo affermando che il nodo vero sono i problemi delle sue aziende. Per Senaldi il discorso non regge perché il punto vero, sugli imprenditori che fanno politica, non è il bilancio dei loro risultati economici: "Capisco che dall'altra parte", ossia a sinistra, "ci sono imprenditori che vanno male, non fanno politica come frontman, ma poi si fanno risolvere i problemi dal Pd, e fanno scrivere sui loro giornali che gli altri sbagliano..." Ma perché dobbiamo fare sempre 1-1, se sei convinto che Santanchè sia l'imprenditrice migliore del mondo..." è la replica di Padellaro. "Per essere eletto in Parlamento devi raccogliere i voti, punto", taglia corto Senaldi. 

La Russa jr, il giallo dello stupro. La denuncia prima al «Corriere» che alla Procura. Giacomo Amadori su Panorama l'8 Luglio 2023

Querela consegnata a una corrispondente locale del quotidiano: «Agganciata in discoteca, mi ha offerto un drink e mi sono trovata nuda a casa sua». Il cofondatore di Fdi: «Dubbi su questa versione, lei aveva assunto cocaina». La Schlein: «Vergogna»

La denuncia per violenza sessuale presentata nei giorni scorsi da una ventiduenne milanese contro Leonardo Apache La Russa, ventunenne figlio del presidente del Senato Ignazio, potrebbe far pensare a un accerchiamento giudiziario nei confronti degli esponenti di Fratelli d’Italia (in ordine Andrea Delmastro, Daniela Santanché e La Russa). Ma forse ad attaccare il socio di maggioranza del governo sono soprattutto i media che amplificano ogni sospiro che provenga dalle Procure, ma anche da altri luoghi. Il caso di questo presunto stupro, rivelato ieri dal Corriere della sera, a noi ricorda da vicino quello del figlio di Beppe Grillo, Ciro. In quella storiaccia noi, in beata solitudine, abbiamo evidenziato per mesi tutto ciò che non tornava nelle accuse della presunta vittima.

Inchiesta su La Russa junior, la ragazza era positiva alle droghe. Luigi Frasca su Il Tempo il 09 luglio 2023

Gli sviluppi dell’inchiesta in cui è indagato Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio, avranno un primo snodo importante nelle dichiarazioni che metterà a verbale la ragazza che lo ha denunciato di avere abusato di lei il 18 maggio scorso dopo una serata nel club milanese Apophis. Il confronto coi magistrati avverrà domani o, al più tardi, martedì, fanno sapere in ambienti giudiziari, mentre è iniziato l’ascolto dei primi testimoni presenti in discoteca. La giovane ha spiegato di avere assunto cocaina prima della discoteca, circostanza poi ribadita nell’esposto presentato pochi giorni fa dal suo legale Stefano Benvenuto. E le analisi a cui è stata sottoposta in effetti evidenziano la presenza nel suo organismo di tracce di stupefacente, di benzodiazepine e di hashish in quantità che sono ancora da determinare.

Il referto dei sanitari, dai quali emergono anche un’ecchimosi e una ferita alla gamba, è stato inviato alla procura. L’ex compagna di scuola di Leonardo ha scritto nella denuncia di essersi ritrovata dopo una serata di eccessi «nuda» nel letto a casa dei La Russa e che il ragazzo le disse di avere avuto un rapporto sessuale «sotto effetto di sostanze stupefacenti» sia con lui sia con un suo amico, il dj della serata, mentre lei era «incosciente». L’identificazione del dj è in corso da parte della squadra mobile. La legge considera violenza sessuale quella compiuta da chi «induce taluno a subire o compiere atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto». Per il momento non è previsto l’ascolto del figlio di La Russa.

Estratto dell'articolo di G. Gua. per il Corriere della Sera sabato 8 luglio 2023.  

Avvocato Stefano Benvenuto, ha sentito la sua assistita dopo la querela in cui accusa Leonardo Apache La Russa di averla violentata?

«No perché è sconvolta e voglio lasciarla tranquilla per il momento. Ora sto dedicando tutte le mie attenzioni professionali a questa vicenda». 

È stata già chiamata dagli inquirenti per testimoniare?

«Non ancora. Credo che avverrà presto». 

Il presidente del Senato Ignazio La Russa, padre di Leonardo, ha detto che il racconto della sua assistita lascia «molti interrogativi» a partire dal fatto che ha dichiarato di aver assunto cocaina.

«Senza entrare nel merito dell’inchiesta coperta dal segreto, la domanda che mi pongo da normale cittadino e non da avvocato è come possa una ragazza aver assunto cocaina e non ricordare nulla fino all’indomani. La cocaina è nota perché provoca eccitamento, non sonnolenza. Ciò a cui dovranno rispondere i magistrati è se abbia assunto a sua insaputa sostanze diverse dalla cocaina che le hanno provocato un tale stordimento da non farle ricordare nulla e, in caso affermativo, chi gliele abbia date e se ci sia no il coinvolgimento di Leonardo La Russa. 

(...)

Secondo il senatore non ci sarebbe stato alcun reato.

«Non spetta alla seconda carica dello Stato stabilire se un elemento possa costituire o no un reato. Questo è compito esclusivo della magistratura alla quale, ribadisco ancora una volta, affido l’analisi di questo caso».

Sempre il presidente del Senato ha confermato che il 19 maggio si affacciò alla porta e vide il figlio e la ragazza in camera da letto.

«Mi ha dato un grande assist, in quanto riconosce e conferma che la ragazza era in casa sua. Questo semplifica tutto, perché ora il presidente del Senato è testimone primario di questo processo. Non solo ha dichiarato che la ragazza era in casa sua, ma anche che era nel letto con suo figlio dove è finita non si sa come, visto che non si frequentavano assiduamente. Sta venendo a galla la verità».

La giovane ha anche parlato di un bacio che avrebbe dovuto dare contro la sua volontà .

«Che costituisce di per sé un reato di violenza sessuale per giurisprudenza consolidata» . 

Estratto dell’articolo di Paolo Berizzi per repubblica.it sabato 8 luglio 2023.

Apache, il trapper “sottovalutato” (dal titolo di un suo pezzo). Geronimo, il “presidente” collezionista di poltrone amante della velocità. Cochis, il “politico”. Se fosse un romanzo sarebbe “tre piccoli indiani”. Sottotitolo: figli vivaci di padre gagliardo. Oppure – un po’ per scherzo me nemmeno troppo - gioventù “bruciata” e maturità dorata. Volendone emendare i tratti per renderla più presentabile, la storia dei La Russa jr sembra la continuazione di una tradizione di famiglia un po’ spericolata. Che vede nel padre, Ignazio Benito la Russa, il più autorevole interprete.

Esuberanza giovanile, testa calda, azzardi, inciampi. Surfando sopra le righe, e sempre nell’orbita del potere. L’attualità impone di partire dal più piccolo dei La Russa Bros: lui, Leonardo Apache. Il terzogenito che fa brutto con la trap. L’“artistoide” di casa (Geronimo dixit) che adesso la casa la sta facendo tremare. Ma non più per il volume della musica politically uncorrect. Accusato di avere violentato una 22enne, a “Larus” – nome d’arte – tocca subire il contrappasso che, ironia del caso, gli sbatte addosso direttamente dal suo brano più conosciuto. “Sono tutto fatto, sono tutto matto, ti fotto pure senza storie”, canta insieme a Apo Way, un altro trapper, ne “I sottovalutati”. 

(...)

L’eredità politica del presidente del Senato, al momento, pare risiedere nel destino di Lorenzo Cochis. L’anno scorso è stato eletto nel parlamentino di zona in centro città ed è chiaramente capogruppo di FdI. Molto meno istintivo e fumantino del padre. Guai però a toccargli il tema auto e automobilisti. Una fissa, in famiglia. Geronimo La Russa, 43 anni, figlio di primo letto di Ignazio, è avvocato e presidente dell’Automobile Club di Milano. A 14 anni volantinava per il Fronte della Gioventù, a 25 è nel cda della Premafin di Ligresti che dei La Russa è stato la vera fortuna. Poltrone, poltrone. 

Anche al Milan, grazie all’amica Barbara Berlusconi con cui fonda la onlus Milano Young (La Russa è anche in H14, la holding dei tre berluschini, Barbara, Eleonora, Luigi). In un’intervista Geronimo raccontò di un’adolescenza molto agitata e con «un po’ di problemi». Spericolato, gli piace correre con qualunque cosa a motore, macchine, motorini, barche. «Il sabato sera si usciva tutti insieme, in discoteca, oppure in giro a fare casino».

Qualche casino, in effetti, l’ha combinato. Molti anni fa dopo un incidente in auto insieme ad amici saltò fuori della droga: per lui non ci fu alcuna conseguenza. Negli anni ’90 GL faceva parte di un gruppo di fighetti che si imbucavano alle feste per vandalizzarle. 

Li chiamavano i “vandali del sabato sera”. 15 marzo 1997: compleanno di Carolina Vecchioni, figlia del cantautore. I vandali portano via gioielli, soprammobili e maglie Lacoste. «Sì, arrivai con una ventina di amici – raccontò La Russa -. Ci furono dei furti. Anche tre miei amici, è stato accertato. Non li frequentai più». Tra le persone a lui più vicine, l’europarlamentare FdI Carlo Fidanza che ha recentemente patteggiato 1 anno e quattro mesi per corruzione. Quando chiesero a Geronimo se aveva mai fatto il saluto romano rispose così. «Una volta, quando mi sono vestito da Balilla a Carnevale. E un’altra volta quando mi mascherai da Giulio Cesare». 

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per repubblica.it sabato 8 luglio 2023.

Un incontro casuale all’Apophis club, tra le vibrazioni della musica techno e le luci laser che bucano le ombre della giovane borghesia milanese. Disposta a pagare cinquecento euro per una “membership”, nove mesi di ingressi riservati in uno dei posti più esclusivi nel cuore della città. Tra dj set e bicchieri a 25 euro di alcolici “premium”, il 18 maggio scorso Leonardo “Apache” La Russa, 21 anni, incontra una vecchia amica del liceo, di un anno più grande, arrivata nel piccolo locale in stile londinese con una sua amica. 

I due si riconoscono subito, si salutano e iniziano a bere insieme. In consolle, quella sera, c’è uno dei due amici di Leonardo arrivati da Londra. Poi, per la ragazza, il buio. Si risveglia nuda e in stato confusionale a casa di Leonardo, in quella che è anche l’abitazione del padre, il presidente del Senato Ignazio La Russa. Per questo – a differenza del cellulare della ventiduenne e dell’amico di Leonardo, in casa quella notte – il telefono di Leonardo, ora indagato per violenza sessuale, non è stato sequestrato. In attesa di sentire – oggi o domani – la ragazza e per evitare possibili problemi giuridici legati al ruolo e alle garanzie proprie della seconda carica dello Stato. 

Quando si sveglia a casa La Russa la ventiduenne dice di non capire dove si trova. «Gli ho chiesto spiegazioni, non ricordavo nulla», mette a verbale nella denuncia di lunedì scorso. Leonardo le dice di essere «tornati a casa dalla discoteca» e «di aver avuto un rapporto sessuale consensuale». Ma la giovane sprofonda nel panico. Contatta subito l’amica lasciata nel locale. «Dove sono? – le scrive su WhatsApp –. Perché mi hai lasciato sola?». «Penso ti abbia drogata. Stavi benissimo finché non hai bevuto il drink. Scappa via!», è la risposta. «Aiutami!», scrive ancora la presunta vittima.

E ricorda: «Ho chiesto di riavere i miei vestiti, che erano al piano di sotto, per andarmene». Capisce di trovarsi dai La Russa perché, a mezzogiorno, «Ignazio La Russa si è affacciato in camera e, vedendomi nel letto, è andato via». Qualche giorno dopo, Leonardo la contatta su Instagram. Una telefonata a cui lei non risponde. «Avevo paura». Queste e altre chat verranno ora analizzate dagli investigatori. Poi contatta la madre e insieme si recano al centro Antiviolenze della clinica Mangiagalli. Dopo quaranta giorni, l’avvocato Stefano Benvenuto deposita la denuncia, e il procuratore aggiunto Letizia Mannella, a capo del pool “soggetti deboli”, e il pm Rosaria Stagnaro iscrivono Leonardo La Russa per violenza sessuale.

Le indagini, coordinate dal capo della procura Marcello Viola, sono delicate e complesse. Difficile, dopo il tempo trascorso dai fatti, avere elementi utili dalle telecamere. La squadra mobile, diretta da Marco Calì, dovrà accertare se quella notte c’è stata una violenza sessuale o un rapporto consensuale. Gli esami alla Mangiagalli hanno individuato, oltre a un’ecchimosi e una ferita a una gamba, anche positività alla cocaina e la presenza di benzodiazepine, anche se non è possibile accertare se dipenda da sostanze che potrebbero essere state sciolte nei cocktail o dall’uso abituale – ammesso dalla stessa ragazza – di tranquillanti prescritti dal medico. 

Le indagini devono verificare se il consumo di cocaina, con i tranquillanti e l’alcol, possa avere provocato la perdita di sensi. L’avvocato della ragazza si dice certo «che il rapporto sessuale non è stato consensuale», mentre per il legale di La Russa, Adriano Bazzoni, il suo racconto è «fumoso». «È pacifico – dice – che trascorrere la serata insieme e andare a casa di La Russa è stata una scelta condivisa». 

Estratto dell’articolo da open.online.it sabato 8 luglio 2023.

È l’Aphopis Club la discoteca di Milano in cui la ragazza che poi lo ha denunciato per stupro ha incontrato Leonardo Apache La Russa. La notte era quella tra giovedì 18 e venerdì 19 maggio scorsi. Mentre la denuncia, inviata via Pec dall’avvocato Stefano Benvenuto risale al 29 giugno. Oggi alcuni giornali ne raccontano nel dettaglio il contenuto. Mentre La Verità sostiene che il testo fosse nella disponibilità del Corriere della Sera già in quei giorni. 

La ragazza sostiene che Leonardo ha anche ammesso di aver avuto rapporti sessuali con lei a sua insaputa. E ha dichiarato di aver fumato cannabis e sniffato cocaina per due volte durante la serata. Oltre all’assunzione di farmaci come Xanax e Fluoxetina. Mentre alla clinica Mangiagalli le è stata riscontrata la presenza di benzodiazepine nel sangue.

Il racconto della serata

Dal racconto della denuncia è possibile ricavare un racconto coerente della serata e di quello che è successo il mattino seguente. La storia si dipana in 23 punti. «A mezzanotte con la mia cara amica M. sono andata alla discoteca Apophis Club. Quando siamo arrivate ci siamo messe a ballare e ci ha raggiunto anche un’altra ragazza. Mi sono accorta della presenza di un mio compagno di scuola del liceo: Leonardo Apache, figlio del politico Ignazio La Russa. Ci siamo salutati. Da quel momento non ricordo più nulla», racconta la ragazza come riporta La Stampa. L’Apophis è un club membership only, ovvero si accede tramite iscrizione. Si trova in via Merlo.

La scena successiva si svolge in una casa di Milano: «Mi svegliai in assoluto stato confusionale, non ricordandomi cosa avvenne la sera prima, nuda nel letto con a fianco Leonardo La Russa». A quel punto «chiesi espressamente cosa era successo, come eravamo arrivati a casa, dove fossimo». Allora Leonardo Apache le risponde: «Supino nel letto con me, anche lui nudo, mi disse, “siamo venuti qui dopo la discoteca, con la mia macchina”». E la ragazza racconta anche dell’altro ragazzo: «Mi confermò (Leonardo, ndr) che sia lui sia il suo amico avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa». L’altro ragazzo si sarebbe fermato a dormire in un’altra stanza. L’altro ragazzo, N., fa il deejay.

[…]

La clinica Mangiagalli e il bacio

«Lei stessa mi invitò a recarmi al Pronto soccorso, prodigandosi nell’accompagnarmi, chiesi aiuto anche a lei». E ancora: «Parlai anche di questi episodi a mia madre e lei stessa mi accompagnò all’Ospedale Mangiagalli». Il racconto poi torna alla mattina in casa di Leonardo: «Dopo aver sentito da lui cosa avvenne, dopo che lo stesso mi ha dichiarato di avere avuto un rapporto con me certamente sotto effetto di sostanza stupefacente (infatti non ricordo nulla di quanto avvenuto dalla discoteca al mio risveglio), presa dalla vergogna ho richiesto i miei vestiti, che non erano nella stanza».

A quel punto Leonardo sarebbe sceso al piano di sotto. «Capii di essere in un immobile a due piani, la camera aveva un letto a una piazza e mezza». Infine, i saluti: «Leonardo sulla porta, per farmi uscire, mi disse, “pretendo un bacio, se no non ti faccio uscire”, a quel punto si avvicinò e mi baciò contro la mia volontà. Non dissi nulla per paura». 

La comparsa di Ignazio La Russa

Poi la ragazza racconta la comparsa di Ignazio La Russa, peraltro confermata dal presidente del Senato. Si sarebbe affacciato in camera e l’avrebbe salutata «vedendomi nel letto». Poi «se ne andò via». Lei dice di aver percepito in casa anche una voce di donna. Dovrebbe essere quella della moglie di La Russa (e madre di Leonardo) Laura De Cicco. La ragazza dice di non sapere se fossero arrivati in mattinata o se fossero già presenti in casa. In compenso descrive l’immobile: «Molto grande, con corridoi e altre stanze. Ricordo vagamente di essere stata nel salotto».

Torna sul bicchiere offerto: «L’unico dato certo che posso riferire è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che io fossi nelle condizioni di poter scegliere cosa fare, mi ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali, lui e l’amico, sempre a mia insaputa; la mia amica mi ha riferito che dopo l’assunzione di quella bevanda alcolica non era più in grado di parlare normalmente; mi disse che ero stata drogata». 

L’uscita dalla casa

La ragazza si veste ed esce di casa. Si appunta l’indirizzo dell’abitazione. Chiama l’amica che la raggiunge e la convince a dire tutto alla madre. Che la porta alla visita con procedura di stupro alla Mangiagalli. Il referto riscontra una «ecchimosi superficiale di 2,5 e 1,5 centimetri a livello della cute del collo e un graffio non sanguinante di cinque centimetri a livello della faccia laterale della coscia sinistra». 

Il giorno successivo Leonardo la contatta via Instagram perché non ha il suo numero di cellulare. Lei non risponde […] il cellulare del ragazzo non è stato ancora sequestrato. L’altro amico non è indagato. Ma il suo telefono, insieme a quello della ragazza, è stato invece “acquisito” dai magistrati. La delega ad indagare per la squadra mobile è arrivata ieri.

L’avvocato e lo scoop

Giacomo Amadori su La Verità sostiene anche che la denuncia fosse in possesso del Corriere a ridosso della presentazione in Questura. Da prima che finisse sul tavolo delle pubbliche ministere che indagano: Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro. Benvenuto è un civilista esperto di trust, di diritto societario e di famiglia. Il Fatto invece ipotizza che il telefono non sia stato sequestrato perché non intestato al ragazzo, ma al padre. Bisogna in ultimo ricordare che il codice penale in Italia punisce la violenza sessuale sia per costrizione che per induzione. Ovvero anche chi agisce approfittando della condizione di menomazione della presunta vittima. La ragazza testimonierà nelle prossime ore in procura.

M . Ser. per “La Stampa” sabato 8 luglio 2023. 

«L'unico dato certo che posso riferire è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che fossi nelle condizioni di scegliere, ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali con me, lui e il suo amico, sempre a mia insaputa. La mia amica mi ha riferito che dopo aver bevuto il drink che mi ha dato lui non ero più in grado di parlare normalmente: mi ha detto che ero stata drogata». 

[...]

Che ai medici dell'Svs ha dichiarato «di aver fumato cannabis e sniffato cocaina due volte nella serata» prima di incontrare La Russa jr. E di assumere alcuni psicofarmaci: «Xanax e Fluoxetina». Per questo, solo accertamenti più approfonditi potranno aiutare a capire se sia stata o meno «drogata», come ripete più volte nella denuncia. Due pagine, con referto allegato, in cui l'avvocato Stefano Benvenuto mette in fila in 23 punti il racconto della presunta vittima, che Leonardo La Russa respinge con forza attraverso l'avvocato Adriano Bazzoni: «Non c'è stata alcuna costrizione».

Racconta invece la ventiduenne, che sarà sentita dalle pm nelle prossime ore: «A mezzanotte con la mia cara amica M. sono andata alla discoteca Apophis Club. Quando siamo arrivate ci siamo messe a ballare e ci ha raggiunto anche un'altra ragazza. Mi sono accorta della presenza di un mio compagno di scuola del liceo: Leonardo Apache, figlio del politico Ignazio La Russa. Ci siamo salutati. 

Da quel momento non ricordo più nulla». Almeno fino a quando, la mattina dopo, la ragazza si è svegliata «in assoluto stato confusionale, nuda nel letto». Così, «spaventata», avrebbe chiesto spiegazioni al diciannovenne: «Gli ho chiesto cosa è successo, come siamo arrivati a casa, dove siamo. Leonardo, supino nel letto con me, anche lui nudo, mi ha detto: siamo venuti qui dopo la discoteca, con la mia macchina». Sarebbe stato proprio lui a confessarle «che sia lui, sia il suo amico N.

che fa il dj, avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa» per poi aggiungere che anche N. «si era fermato a dormire in un'altra stanza dell'appartamento». Lei però non lo ha visto. «Mi avevano spogliata. Scioccata, tremavo e scrivevo alla mia amica mentre ero nel letto, chiedendo il perché fossi da sola a casa di Leonardo e dove si trovasse lei: non mi ricordo nulla, raccontami di ieri, sono stata drogata». Ricostruisce ancora la vittima: «Lei mi ha risposto: non mi ascoltavi, penso ti abbia drogata, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata. 

Stavi benissimo fino a prima del drink . Mi ha detto anche che ha provato a portarmi via ma non ci è riuscita».

Così, la ragazza ricostruisce che «presa dalla vergogna» ha chiesto a La Russa jr i vestiti, che non erano nella stanza, ma «al piano di sotto in sala». E aggiunge: «A quel punto Leonardo sulla porta mi ha detto "pretendo un bacio, se no non ti faccio uscire", si è avvicinato e mi ha baciata contro la mia volontà. Non ho detto nulla per la paura». Poi racconta di «aver visto, intorno alle 12,30, anche Ignazio la Russa, che si è affacciato alla camera e mi ha trovata nel letto. Se n'è andato e ho sentito la voce di una donna, penso la madre di Leonardo. Non so a che ora erano arrivati in casa».

[...] 

In Onda, Bindi va allo scontro con il governo: incapaci, disprezzano le istituzioni. Luca De Lellis su Il Tempo l'8 luglio 2023

Rosy Bindi ne ha per tutti. Da Ignazio La Russa e la vicenda dell’autoassoluzione del figlio accusato di stupro, alle aspre critiche rivolte verso un governo, parole sue, “che sta raccogliendo la peggiore eredità di Silvio Berlusconi e assolutamente incapaci di governare”. Durante il programma di La7 In Onda, trasmesso sabato 8 luglio, l’ex presidente del Partito Democratico si è scagliata anzitutto contro la seconda carica dello Stato, rea di aver portato avanti un atteggiamento “maschilista”. Di più, perché Bindi ha ammesso: “Credo che il maschilismo a La Russa gli appartenesse anche precedentemente all’elezione di Berlusconi (del 1994, ndr)”.

Il presidente del Senato, dopo aver di fatto scagionato suo figlio da ogni possibile responsabilità, ha rivisto la sua versione sostenendo soltanto di credere a ciò che racconta il suo Leonardo. Ma le dichiarazioni non hanno convinto l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia: “Avrebbe fatto prima a tacere. Non può permettersi, vista la sua carica, di diventare avvocato e prendere le difese del figlio mostrando ancora una volta questo desiderio di impunità che sta caratterizzando la classe dirigente di questo momento”. E ancora: “Ha assunto un’abitudine sbagliata. Prima fa delle affermazioni, poi spiega, poi smentisce se stesso, ma intanto lancia dei messaggi sempre pericolosi e stavolta ha oltrepassato il segno”.

L’ospite dei conduttori Luca Telese e Marianna Aprile è scatenata, si sofferma ancora su quella che secondo lei è stata “un’assoluta mancanza di rispetto” da parte di La Russa “nei confronti delle donne, che in ogni parte del mondo subiscono violenza. Nel nostro Paese ne muore una ogni 3 giorni”. Poi un appello al premier Giorgia Meloni: “Spero che, in quanto donna, possa spendere una parola di richiamo esplicita nei confronti della seconda carica dello Stato”. Per concludere, un’ultima stoccata rivolta verso un esecutivo che sta assumendo “atteggiamenti di disprezzo delle istituzioni e soprattutto di attacchi alla magistratura come si sta ripetendo quando viene sfiorato qualcuno di questo governo”. E, ormai, “tra fatti familiari, imprese e altre cose varie”, chiosa Bindi, “credo che si stia calpestando la dignità di questo Paese”.

Il caso del giovane. Di cosa è accusato Leonardo Apache La Russa, la presunta violenza e le reazioni politiche. A denunciarlo una 22enne milanese. L’incontro in discoteca, un drink, “poi non ricordo più nulla”, ha riferito la giovane, “mi sono svegliata nel suo letto e lui mi ha detto di aver avuto un rapporto con me sotto effetto di stupefacenti”. Angela Stella su L'Unità l'8 Luglio 2023

A poco più di due anni dal video in cui un Beppe Grillo furioso si scagliava contro la magistratura e rendeva pubblica l’accusa di violenza sessuale di gruppo a suo figlio Ciro e tre suoi amici, ieri sotto i riflettori mediatici è finito Leonardo Apache La Russa, uno dei figli del presidente del Senato Ignazio La Russa.

Il Corriere della Sera ha dato notizia di una denuncia a suo carico per violenza sessuale da parte di una 22enne milanese La ragazza ha raccontato che il 18 maggio intorno a mezzanotte era in una discoteca nel centro di Milano con un’amica e lì ha incontrato Leonardo, che in passato era stato suo compagno di scuola. E, dopo un drink, ha riferito di non ricordare nulla di quando è successo, ma di essersi svegliata confusa e nuda nel letto del ragazzo intorno a mezzogiorno. Alla richiesta di spiegazioni «mi disse ‘siamo venuti qui dopo la discoteca con la mia macchina’» e che «aveva avuto un rapporto con me sotto effetto di sostanze stupefacenti» e che un suo amico, che stava dormendo in un’altra stanza, aveva «avuto un rapporto con me a mia insaputa».

Uscita dalla casa di La Russa, ha preso l’indirizzo e ha chiamato la madre che l’ha convinta a farsi visitare alla clinica Mangiagalli dove le hanno riscontrato una ecchimosi al collo, una ferita alla coscia e positività alla cocaina che aveva assunto prima di andare in discoteca. La 22enne ha avuto nausee e capogiri. Ha presentato denuncia dopo 40 giorni. Il legale incaricato dalla famiglia La Russa, dopo aver premesso di non aver visto le carte, ha spiegato che quella notte ad avviso di Leonardo non vi fu alcuna forma di costrizione e che la ragazza era «d’accordo nel trascorrere il dopo discoteca con il mio assistito». Ma allora perché lo accuserebbe? «Leonardo – ha risposto il legale – è molto scosso ed esclude che la ragazza possa aver detto qualcosa del genere nei suoi confronti, così come esclude di aver avuto rapporti insieme ad una terza persona. Quanto a quello che la ragazza avrebbe consumato, non solo esclude di averglielo offerto, ma, qualora si vedesse attribuire questo tipo di condotta, si vedrebbe costretto a sporgere denuncia».

Non si è fatta attendere la reazione di La Russa padre che da avvocato penalista si è trasformato in pubblico ministero verso il figlio: «Dopo averlo a lungo interrogato ho la certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante. Conto sulla Procura della Repubblica verso cui, nella mia lunga attività professionale ho sempre riposto fiducia, affinché faccia chiarezza con la maggiore celerità possibile per fugare ogni dubbio». Aggiunge di aver rivolto al figlio una «forte reprimenda» per «aver portato in casa nostra una ragazza con cui non aveva un rapporto consolidato» e ha dichiarato: «Non mi sento di muovergli alcun altro rimprovero».

Afferma invece di avere «molti interrogativi» sul racconto della ragazza: «per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. Un episodio di cui Leonardo non era a conoscenza. Una sostanza che lo stesso Leonardo sono certo non ha mai consumato in vita sua». E ha contestato anche la denuncia «presentata – ha detto Ignazio La Russa – dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che, cito testualmente il giornale che ne dà notizia, occupa questo tempo per rimettere insieme i fatti». Una domanda sorge spontanea: chi ha fatto trapelare la notizia? La procura o la parte offesa? Non lo sapremo mai ma quanto accaduto potrebbe convincere la maggioranza di Governo a spingere l’acceleratore sulla riforma del segreto d’indagine.

Sulla vicenda si è espressa la Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein: «Al di là delle responsabilità del figlio, che sta alla magistratura chiarire, è disgustoso sentire dalla seconda carica dello Stato parole che ancora una volta vogliono minare la credibilità delle donne che denunciano una violenza sessuale a seconda di quanto tempo ci mettono, o sull’eventuale assunzione di alcol o droghe, come se questo facesse presumere automaticamente il loro consenso. Il Presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria. È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute. Inaccettabile da chi ha incarichi istituzionali la legittimazione del pregiudizio sessista».

Per Riccardo Magi, deputato di +Europa, «ognuno è innocente fino al terzo grado di giudizio e capisco anche il dolore di un padre nel leggere certe accuse. Ma Ignazio La Russa non è solo un padre, è anche il presidente del Senato. Soprattutto non è un magistrato, né un organo inquirente. Per questo nella nota che ha diffuso è alquanto preoccupante che abbia già chiuso il caso: ha interrogato il figlio, ne ha decretato l’innocenza, mentre la testimonianza della ragazza non è attendibile perché ‘drogata’. Per il ruolo che svolge, sarebbe stato meglio un dignitoso silenzio.  Questa è invece un’ingerenza intollerabile da parte della seconda carica dello Stato verso chi sta svolgendo le indagini».

Silenzio invece dal centro destra. Per onor di cronaca ricordiamo cosa disse Salvini dopo il video di Grillo: «Mi disgustano le parole del padre, che mette sul banco degli imputati la ragazza che ha denunciato lo stupro e non il figlio, fermo restando che fino al giudizio tutti sono innocenti». La stessa Giorgia Meloni disse: « Mi ha colpito devo dire il modo in cui Grillo ha minimizzato su un tema pesante, come quello che è la vicenda della presunta violenza sessuale».

Angela Stella 8 Luglio 2023

Caso La Russa, il silenzio di Meloni. Ma in passato difendeva le donne vittime di violenza. Matteo Pucciarelli su La repubblica su il 9  Luglio 2023

La premier aveva preso posizione anche contro Beppe Grillo che difese suo figlio Ciro come ora sta facendo il presidente del Senato nei confronti di Leonardo Apache

È sempre la stessa storia, più o meno: garantisti e pacati con gli amici, forcaioli ed esagitati con tutti gli altri. Vale anche per Giorgia Meloni e il delicato tema della violenza sessuale. Quando in passato le notizie di cronaca – con indagini spesso ancora tutte da fare – riguardavano presunti molestatori stranieri e Fratelli d’Italia stava all’opposizione, era un tripudio di “vermi” (testuale: “branco di vermi magrebini”, agosto 2017), “bestie”, “animali” e altri epiteti; né ci si faceva troppi problemi a invocare la castrazione chimica oppure in alternativa una pena di 40 anni di carcere. 

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 17 luglio 2023.  

[…]Zac! “La castrazione chimica per pedofili e stupratori è una storica battaglia della destra, dimenticata nel decreto sicurezza del governo. Per questo Fratelli d’Italia l’ha ripresentata con un suo emendamento” (Giorgia Meloni, FdI, 3.11.2018). 

“Per far approvare la castrazione chimica chiamiamola ‘scelta temporanea di azzeramento della libido'” (Ignazio La Russa, FdI, Secolo d'Italia, 5.4.2019). 

Pare che, a scanso d’equivoci, Leonardo Apache abbia fatto sparire da casa tutte le forbici. […]

Meloni attaccava Grillo, oggi tace su La Russa.

In Onda, La 7, condotto da Luca Telese e Marianna Aprile, minuto 15:00

Giorgia Meloni 25 maggio 2021: “Ritengo vergognoso e inaccettabile che la denuncia di stupro fatta da una giovane donna finisca in pasto alla curiosità generale perché pubblicata e diffusa su giornali e televisioni.

E’ quello che sta accadendo con il caso che riguarda il figlio di Beppe Grillo. Una gogna indegna di una società civile, a prescindere dall’esito giudiziario della questione.

E’ una forma di intimidazione e di avvertimento a non denunciare, come dire: “attenta che se denunci uno stupro finisci sputtanata in mondo visione”. Solidarietà alla ragazza e a tutte le donne che hanno dovuto subire questo schifo.

Giampiero Mughini per Dagospia sabato 8 luglio 2023.

Caro Dago, mi pare fosse Arrigo Benedetti - il grande giornalista che aveva imparato da Leo Longanesi a usare le foto nella comunicazione giornalistica - a dire che laddove gli articoli di un giornale si "guardano", le foto invece si "leggono". E cioè che una foto azzeccata è persino più pregnante di un articolo ben scritto. 

Vedo sui giornali di oggi una foto in primissimo piano di Ignazio La Russa e di suo figlio Leonardo Apache (quello che è accusato di avere stuprato una ragazza) con sullo sfondo le tombe del cimitero dove riposano i caduti i Salò, ossia i fascisti che sono morti combattendo dalla parte della Repubblica di Salò. 

Ecco, non vorrei che qualcuno "leggesse" questa foto più o meno così. Se padre e figlio si fanno fotografare con sullo sfondo quelle tombe, di uomini caduti combattendo dalla parte dei tedeschi e dunque dalla parte sbagliata, allora quel giovanotto non può che essere colpevole del reato che gli viene addebitato.

Mi spiego meglio.

Dato che in Italia la gran parte del discorso pubblico è influenzato dalle appartenenze ideologiche, niente di più facile che nell'opinione di molti il giudizio sul destino processuale del figlio del presidente del Senato sia condizionato dal marchio politico di La Russa padre. Mi sbaglio? Non credo. Ne incontro pochi, pochissimi anzi, i cui giudizi siano liberi dal loro orientamento ideologico. Quel tale è un fascista, allora è un pezzo di merda. Quel tale è un compagno, allora è un sant'uomo. O viceversa, naturalmente. Ne sta parlando uno che ormai da anni non ha alcun pregiudizio ideologico al quale far sottostare i suoi giudizi su cose e persone. Come per chiunque altro la mia idea sul figlio di La Russa è che sia innocente sino a prova contraria, sino al momento in cui verrà dimostrato che ha agito con prepotenza nei confronti di una ragazza che non ci stava e non voleva farlo. Semplice, no? 

E poi c'è un'altra cosa, forse ancora più decisiva. Nel vedere le tombe dei caduti di Salò io non provo affatto una sensazione tipo "Ben gli sta, se l'erano cercata quei gaglioffi". La mia idea, al contrario, è che la memoria dei caduti dell'una e dell'altra parte della guerra civile 1943-1945 debba essere una memoria condivisa, la memoria di un lutto comune a tutti gli italiani, la memoria di una tragedia in cui degli italiani ci provavano gran gusto a uccidere altri italiani. Né i fascisti i Salò erano necessariamente e senz'altro tutti dei gaglioffi che volevano arrecare danno agli ebrei. 

Lo sappiamo benissimo, dopo aver letto quel magnifico romanzo di Carlo Mazzantini, A cercare la bella morte, che tra di loro c'erano molti italiani per bene. Erano degli italiani per bene Giovanni Gentile, ucciso dai gappisti fiorentini; Aldo Resega, il commissario federale di Milano ucciso mentre stava tornando a casa senza scorta perché lui l'aveva rifiutata e che nel suo testamento aveva implorato che non ci fosse rappresaglia ove fosse caduto per mano di un agguato partigiano; Igino Ghisellini, il commissario federale di Ferrara il cui assassinio provocò la mostruosa rappresaglia che Giorgio Bassani ha raccontato in un suo libro famoso. Era un italiano per bene mio padre, che era stato un fascista convinto e che nella Firenze dell'agosto 1944 avrebbe potuto essere intercettato da partigiani che non si sarebbero comportati da "cristiani" a dirla con il Curzio Malaparte de La pelle, il suo romanzo del 1949.

E' stata una guerra civile, almeno nella nostra memoria attenuiamone l'orrore col portare pari rispetto alle vittime dell'una e dell'altro parte. Ecco perché a vedere le tombe dei caduti di Salò, il mio è un lutto sincero.

Da ilgiornale.it sabato 8 luglio 2023.

Una Zanzara nella Zuppa. Cioè Nicola Porro e Giuseppe Cruciani e la loro irriverente lettura dei quotidiani. Dal palco del Teatro Petruzzelli di Bari, in occasione della Ripartenza 2023, evento arrivato alla sua quinta edizione, la seconda giornata di lavori si apre con la rassegna stampa quotidiana da parte del vicedirettore del Giornale e del conduttore di Radio24. 

(...)

Da nicolaporro.it sabato 8 luglio 2023.

Nell’ultima puntata della Zanzara, Giuseppe Cruciani ha commentato alcune delle notizie più discusse dei giorni scorsi. Iniziamo con la prima “cartolina” del conduttore, che riguarda Ignazio La Russa. “Il figlio di Ignazio La Russa è stato accusato di violenza sessuale e se ne occuperanno i giudici. Ma perché il presidente del Senato si mette a parlare difendendo il figlio dicendo che la donna ha assunto cocaina? Qual è il collegamento tra la cocaina e lo stupro? Nessun collegamento. Quindi, errore da matita blu per La Russa. La questione è molto semplice: anche se tuo figlio è implicato in una storia grave, tu non devi parlare. Consiglio anche di comunicazione molto semplice”, ha esordito Cruciani.

Successivamente, il conduttore di Radio24 ha commentato le polemiche su Vittorio Sgarbi e la questione dell’inclusività nel linguaggio. “Sgarbi è stato bastonato nei giorni scorsi perché vittima di parole italiane, ormai entrate nel gergo comune. Alcuni le chiamano volgarità, altri maleducazione. Mentre veniva esaltato un ragazzo che, durante il tema di italiano alla maturità, ha stuprato la lingua italiana mettendo la schwa, le lettere invertite per l’inclusività. Io vado al manicomio per queste cose qui. Uno esaltato, l’altro bastonato per aver utilizzato parole italiane, ormai entrare nella Treccani. Questo è il punto.”

Caso La Russa, scontro di fuoco tra Cruciani e Porro: caos sul palco. Il Tempo l'08 luglio 2023

Il celebre conduttore di Quarta Repubblica Nicola Porro e il conduttore radiofonico Giuseppe Cruciani hanno offerto al pubblico di Bari una lettura dal carattere irriverente delle ultime notizie di politica e di attualità. Il palco del Teatro Petruzzelli, in occasione della Ripartenza 2023,evento arrivato alla sua quinta edizione, è diventato il luogo di una rassegna stampa dalle tinte forti. 

Nell’ultima puntata de La Zanzara, Giuseppe Cruciani ha commentato alcune delle notizie più discusse dei giorni scorsi. Nel mirino del conduttore radiofonico il caso di Leonardo Apache La Russa: “Il figlio di Ignazio La Russa è stato accusato di violenza sessuale e se ne occuperanno i giudici. Ma perché il presidente del Senato si mette a parlare difendendo il figlio dicendo che la donna ha assunto cocaina? Qual è il collegamento tra la cocaina e lo stupro? Nessun collegamento. Quindi, errore da matita blu per La Russa. La questione è molto semplice, anche se tuo figlio è implicato in una storia grave, tu non devi parlare. Consiglio anche di comunicazione molto semplice”. 

A Bari, invece, Giuseppe Cruciani ha messo subito in difficoltà Nicola Porro, che lo ha invitato a prendere parte al suo evento La Ripartenza. "Tu stai con La Russa o no? So che abbiamo idee diverse": così, in maniera diretta, il conduttore de La Zanzara si è rivolto al suo interlocutore. "Sai cosa mi fa inc***e? Non sono i fatti...", ha detto Cruciani. "No i fatti li dico io - lo ha interrotto Porro -. L'avvocato di una ragazza ha denunciato per violenza sessuale il figlio di La Russa. Leonardo Apache è andato in discoteca, poi una ragazza è andata a casa di La Russa, c'erano anche Ignazio e sua mamma, e si è svegliata la mattina senza ricordarsi più nulla".

"Quando bevi e poi non ti ricordi più nulla il sospetto è che ti abbiano dato la droga dello stupro. Ma dalle analisi effettuate alla Mangiagalli è emerso che la ragazza avesse assunto cocaina". "Vabbè, stai già assolvendo Apache..." l'ha provocato Cruciani. "Te lo dico prima che mi rompi i cog***i. Lo stesso problema c'era con il figlio di Beppe Grillo. Il problema non è solo quello che ha fatto o non fatto il figlio, ma le parole dei padri". "Stamattina ero infastidito, perché ho dovuto dare ragione purtroppo, devo fare uno sforzo titanico, a quei giornali che dicono che La Russa ha fatto semplicemente una caz***a, doveva stare zitto". 

“Assalto fallito”. 

Garantismo? No, si chiama familismo...Grillo e i 5 stelle contro la donna che ha denunciato lo stupro: “È stata solo una ragazzata”. Angela Azzaro su Il Riformista il 20 Aprile 2021 

La rabbia di Beppe Grillo che ieri, in un video, è intervenuto in difesa del figlio accusato di stupro insieme ad altri tre amici, fa pensare – in prima battuta – che dopo anni e anni finalmente il capo dei forcaioli abbia scoperto il garantismo. Se la prende con i giornalisti che da due anni trattano il figlio da stupratore anche se su di lui pesa un’accusa e non una condanna: «Non ha fatto nulla – ha gridato – arrestate pure me».

A dire il vero mai accusato fu trattato più con i guanti dalla stampa nazionale di Ciro Grillo: pochi articoli, molto sobri, nessun linciaggio. A tal punto da far venire il sospetto che la notizia fosse tenuta un po’ nascosta. Ma tanto è bastato perché il capo dei grillini si inalberasse e chiedesse per il figlio un diverso trattamento. Lo stesso trattamento che in questi decenni non è stato concesso a persone accusate di reati meno gravi e per questo messe sulla graticola, umiliate e offese insieme alla loro famiglia, con grande godimento del movimento Cinque stelle che su questa cultura politica ha costruito la sua fortuna. Benvenuto Grillo, verrebbe da dire, nel mondo di chi ha perso il sonno, di chi non ha più futuro, per colpa del processo mediatico. Di chi si è suicidato perché messo alla gogna, di chi ha perso tutto per colpa dei manettari che grazie a te hanno trovato casa, hanno costituito un partito e hanno governato il Paese. Benvenuto nel mondo dei diritti…

Ma a sentire bene le urla di Grillo, non si tratta di garantismo. Il comico non chiede di applicare l’articolo 27 della Costituzione (non si è colpevoli fino a sentenza definitiva…) e ha una strana idea della custodia cautelare che lui considera come una sentenza anticipata: se fosse stato colpevole il figlio sarebbe stato già in galera, ancora prima del processo. Quindi se non ci è finito – è il suo ragionamento – allora vuol dire che non è colpevole. Un abominio dal punto di vista del diritto, che la dice lunga su come lui e i suoi accoliti giudichino gli arresti preventivi e conoscano (male) la legge. Grillo, non nuovo a veri e propri deliri di onnipotenza, però non ha fatto il garantista, e non lo ha fatto perché si è sostituito direttamente al giudice, ha valutato lui le carte e ha deciso che Ciro non ha commesso il fatto. È stata una ragazzata, avevano il pisello di fuori, si stavano divertendo, ha detto. E la ragazza era consenziente. La prova? Ha denunciato solo dopo otto giorni. Di tutte le fesserie sparate ieri dal comico, questa è la più grave di tutte.

Spesso le donne che subiscono violenza hanno paura a denunciare, sanno che poi le accuse gli si ritorcono contro. Diventano loro “le poco di buono”, quelle che “l’hanno data”, che prima ci stanno e poi si pentono. Altre volte è difficile denunciare perché doloroso il ricordo, perché si vuole rimuovere, perché si vorrebbe che non fosse mai accaduto. A volte si ha paura che sotto processo finisca chi denuncia. Esattamente come sta accadendo questa volta grazie a Grillo, che sul banco degli imputati manda la ragazza. Sembra di essere tornati indietro di decenni, quando il film documentario Processo per stupro nel 1979 entrava nelle aule giudiziarie facendo vedere quanti pregiudizi pesassero sulle donne che denunciavano chi le aveva violentate. Il giudice le processava, la società le additava. Ma sono passati decenni, tante lotte, tanti cambiamenti. Non per il capo dei Cinque stelle, non per chi in questi anni ha alimentato la cultura della violenza verbale, del linciaggio, delle manette.

A differenza di molti altri giornali, anche sul figlio di Grillo Il Riformista non ha sparato a zero. Potevamo in tante situazioni dare un diverso risalto alla notizia. Ma noi siamo garantisti sempre, crediamo davvero alla presunzione di innocenza, crediamo veramente che non si è colpevoli fino a sentenza definitiva. E anche in questo caso sarà un tribunale a decidere. Ma il ragionamento con cui Grillo ha difeso il figlio è gravissimo. È la difesa della cultura dello stupro che non possiamo accettare a prescindere da quello che accadrà in sede processuale. Non puoi dire a una donna che siccome ha denunciato in ritardo allora mente. Perché stai recando offesa a tutte quelle donne che hanno avuto il coraggio di non stare zitte, di ribellarsi alla cultura patriarcale.

Purtroppo crediamo non si tratti di uno sfogo. Altrimenti non si capirebbero la solidarietà di Paola Taverna («da mamma gli sono vicina») o di Alessandro Di Battista («coraggio, hai parlato da padre»), senza dire una parola sulla donna che ha denunciato. Si chiama esaltazione della cultura familista, la stessa che del resto ha regolato i rapporti all’interno del movimento Cinque stelle. Dovevano fare la rivoluzione e parlano dello stupro come se fosse una “ragazzata”. Dovevano cambiare il Paese e si danno le pacche sulle spalle davanti a un’accusa così grave. Dovevano mettere le manette a tutti, ma quando ci vanno di mezzo loro, si scoprono garantisti. Se questa non è la fine dei Cinque stelle, che altro deve ancora accadere?

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

La Russa, tutti i segreti dell’inchiesta. Fabio Amendolara su Panorama il 10 Luglio 2023

Oltre a Xanax e cocaina la ragazza avrebbe assunto anche altre sostanze come Quetiapina (calmante) e Stilnox (sonnifero). È arrivata in ospedale «lucida» e in «buone condizioni generali». Le lesioni di cui si è parlato «non sono lesioni da stupro conclamato». I presunti violentatori avrebbero usato il preservativo.

La storia del presunto stupro che sarebbe stato commesso da Leonardo Apache La Russa, ventunenne terzogenito del presidente del Senato Ignazio, ogni giorno registra qualche scoop orientato, che cerca di condurre l’opinione pubblica, come continua ad accadere nel caso di Ciro Grillo, verso una condanna anticipata dell’ipotetico giovane stupratore. Ieri i cronisti del Corriere della Sera, probabilmente persuasi dalle buone argomentazioni dell’avvocato Stefano Benvenuto, legale della presunta vittima, hanno sparato questo titolo: «Lesioni come per una violenza. La visita in clinica dopo la notte». Nel pezzo si leggeva: «Tre lesioni sono state accertate dai medici della clinica Mangiagalli di Milano dopo la visita ginecologica» della presunta vittima. Una fonte anonima «che lavora all’inchiesta» avrebbe aggiunto: «Potrebbero essere compatibili con una violenza sessuale». Ma i nostri interlocutori vicini all’inchiesta, invece, sono convinti che non esistano lesioni da stupro conclamate.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” domenica 9 luglio 2023.

Il procedimento contro il ventunenne Leonardo Apache La Russa si incentrerà tutto sulla capacità della ventiduenne milanese che lo accusa di stupro di esprimere un valido consenso al rapporto sessuale che i due avrebbero consumato sotto il tetto di casa La Russa.

Nessuno nega, nemmeno il presidente del Senato, che la ragazza fosse nel letto del trapper la mattina del 19 maggio, dopo la festa privata che si era svolta nell’Apophis club, esclusiva discoteca milanese.

La giovane dice di aver dimenticato tutto dopo aver bevuto il drink che l’ex compagno di scuola, incontrato casualmente alla festa, le aveva offerto.

«Ha avuto un rapporto con me certamente sotto l’effetto di sostanza stupefacente (infatti non ricordo nulla di quanto successo dalla discoteca al mio risveglio)» ha denunciato la donna. 

Una dichiarazione che non può non tenere conto di quanto rilevato dagli esami del sangue e delle urine effettuati il 19 maggio alla clinica Mangiagalli di Milano, prelievi previsti dal protocollo per i sospetti casi di violenza sessuale.

La ragazza ai medici dell’associazione Donna aiuta donna ha dichiarato di aver fumato cannabis e sniffato cocaina due volte prima di incontrare La Russa jr e ha raccontato di assumere psicofarmaci come Xanax, un ansiolitico, e fluoxetina, un antidepressivo (che possono essere utilizzati negli attacchi di panico).

E, in effetti, nel sangue della ragazza sono state trovate tracce di benzodiazepine, sostanze calmanti e ipnoinducenti contenute, per esempio nello Xanax.

Ma non è stata trovata traccia della cosiddetta droga dello stupro, il Ghb, o di inibitiori della volontà simili.

Eppure l’avvocato Stefano Benvenuto, estensore della denuncia, ieri con Il Corriere della Sera, l’aveva buttata lì: «La cocaina è nota perché provoca eccitamento, non sonnolenza. Ciò a cui dovranno rispondere i magistrati è se (la sua cliente, ndr) abbia assunto a sua insaputa sostanze diverse dalla cocaina che le hanno provocato un tale stordimento da non farle ricordare nulla e, in caso affermativo, chi gliele abbia date e se ci sia o no il coinvolgimento di Leonardo La Russa». 

Un’ipotesi che sembra adombrata nella denuncia, laddove si legge: «Tu stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink». […] In Procura, tra i magistrati che hanno in mano il fascicolo, c’è chi sostiene che anche le benzodiazepine mescolate all’alcol possano dare gli stessi sintomi della droga dello stupro. Ma al momento siamo a livello di chiacchiere da bar o poco più e la parola deve passare agli esperti. 

«Può avere quell’effetto», conferma alla Verità Donata Favaretto, tossicologo forense dell’Università di Padova, e aggiunge: «La benzodiazepina può portare amnesia retrograda, ovvero fa sì che chi la assume non ricordi esattamente cosa le è successo. Poi, ovviamente, bisognerebbe capire in che quantità sia stata assunta questa sostanza». 

Nella vicenda che coinvolge Ciro Grillo e tre suoi amici, la presunta vittima non è ricorsa immediatamente ai controlli medici, impedendo di individuare la presenza di droga o alcol nel sangue immediatamente dopo il rapporto sessuale con i quattro amici.

Ma anche lei, come la coetanea finita nella stanza di La Russa jr, ha denunciato un black out. 

Nel processo Grillo, l’avvocato Giulia Bongiorno, che assiste la presunta vittima, ha ingaggiato come consulente il professor Enrico Marinelli, il quale ha specificato che l’assunzione di alcol, pur non quantificata, «scemava grandemente la sua capacità decisionale, annullava la sua capacità di autodeterminazione ovvero la facoltà di scelta autonoma e indipendente dell’individuo che rappresenta uno dei principi fondamentali della libertà individuale e sessuale». 

Quindi citava il caso di blackout […] Ma in nessuno dei due casi c’è la prova dell’uso di queste sostanze.

Insomma oggi Grillo e La Russa senior si trovano dalla stessa parte della barricata, mentre la Bongiorno dall’altra. Un bel rimescolamento politico.

Anche perché i due padri hanno entrambi assolto i figli prima dei giudici.

Certo, analisi alla mano, la posizione di Leonardo potrebbe risultare persino più delicata di quella di Ciro. Anche se alcune cose non tornano. Per esempio è difficile credere che uno stupratore porti a casa dei genitori la vittima, ma soprattutto che confessi la violenza senza troppi giri di parole. 

Nel racconto della ragazza Leonardo avrebbe ammesso di aver abusato di lei: «Mi confermò che sia lui e sia il suo amico di nome Nico avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa. Leonardo mi dichiarò che Nico si era fermato a dormire in un’altra stanza nel medesimo appartamento. Mi avevano spogliato».

[…]

Adesso i magistrati e la Squadra mobile di Milano dovranno sentire «Nico», anche se la ragazza, pur essendo a conoscenza del doppio stupro, ha denunciato solo «il figlio del politico Ignazio La Russa».

Pare che il secondo uomo sia stato individuato dai poliziotti che, però, non avrebbero fretta di sentirlo, anche perché potrebbe presto essere iscritto sul registro degli indagati. 

[…]

Quando abbiamo chiesto come mai non avessero identificato compiutamente «Nico» nella denuncia, l’avvocato Benvenuto è stato sibillino: «Se lei mi chiama esattamente domani potrò darle un elemento nuovo».

Gli inquirenti, tra lunedì e martedì, sentiranno la presunta vittima e le due testimoni da lei indicate nella querela, la migliore amica e un’altra partecipante alla festa 

[…]

La ventiduenne è figlia di genitori separati. La madre fa la giornalista ed essendo del mestiere potrebbe non aver subito passivamente l’operazione mediatica portata avanti dal Corriere della Sera insieme con l’avvocato Benvenuto ancor prima che iniziassero le indagini vere e proprie affidate alla polizia venerdì pomeriggio.

Ignazio La Russa venerdì ha confermato di aver trovato la presunta vittima nel letto del figlio: «Incrociata al mattino, sia pur fuggevolmente da me e da mia moglie, la ragazza appariva assolutamente tranquilla». 

L’avvocato Benvenuto ha festeggiato queste dichiarazioni: «Mi ha offerto (La Russa, ndr) un grande assist, in quanto riconosce e conferma che la ragazza era in casa sua. Questo semplifica tutto, perché ora il presidente del Senato è testimone primario di questo processo. Non solo ha dichiarato che la ragazza era in casa sua, ma anche che era nel letto con suo figlio dove è finita non si sa come, visto che non si frequentavano assiduamente. Sta venendo a galla la verità». […]

Estratto dell'articolo di Monica Serra per "La Stampa" domenica 9 luglio 2023.

 Quella notte c'era anche un altro ragazzo a casa La Russa. Si chiama N. e fa il dj. «È un amico di mio figlio Leonardo», ha confermato venerdì il presidente del Senato, Ignazio La Russa. «Come mio figlio, vive, studia e lavora a Londra. Era nostro ospite da un paio di giorni». 

La ventiduenne che ha denunciato di aver subito presunti abusi sessuali nel letto a una piazza e mezza di La Russa jr non ha visto N., non se lo ricorda. Quando la mattina di sabato 19 maggio, «spaventata» e «nuda», dopo una serata in discoteca, si è risvegliata a casa di Leonardo Apache La Russa, è stato lui a confessarle la presenza di N.: «Gli ho chiesto spiegazioni – si legge nella denuncia –. Mi ha detto: "Siamo venuti qui con la mia macchina, mi ha confermato che sia lui, sia il suo amico di nome N., avevano avuto un rapporto con me, a mia insaputa.

E che N. si è fermato a dormire in un'altra stanza dello stesso appartamento. Mi avevano spogliata. Ero scioccata».

La ragazza è confusa: «Non ricordavo nulla».

Neanche di questo N. E scrive all'amica che era con lei la sera prima mentre è ancora nel letto del diciannovenne: «Non mi ascoltavi – le avrebbe risposto – penso ti abbia drogata, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata. Stavi benissimo fino a quando hai bevuto il drink che ti ha portato Leonardo».

La ventiduenne prova a ricostruire nelle settimane successive, prima di decidere di depositare la denuncia: «Giorni dopo, la mia amica M. che era con me in discoteca mi ha detto che la sera dei fatti era stata organizzata da Leonardo e che tale N. era il dj della serata». Ma il dato al momento non torna. Almeno in base all'evento pubblicizzato dalle pagine social del locale, a pochi passi dal Duomo di Milano. E l'identità di N. non è chiara. 

Come non è chiaro se possa o meno aver preso parte ai presunti abusi. La Squadra mobile della Questura di Milano lo identificherà e ascolterà nei prossimi giorni anche per stabilire se e quale eventuale ruolo abbia avuto. Come conseguenza della querela e per effettuare gli accertamenti, l'unico nome che le pm Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro hanno iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale è quello di Leonardo Apache La Russa. 

[…] Ai medici ha dichiarato di «aver consumato cannabis e sniffato cocaina due volte nella serata prima di arrivare all'Apophis club di via Merlo con l'amica M.». Una volta nel locale, avrebbe «bevuto due drink: mi sentivo bene ma non ricordo che cosa sia successo dopo». Sarebbe stata, infatti, l'amica M. a raccontarle «di averla vista in compagnia di un ragazzo di nome Leonardo che le offriva un drink». Dopo, di aver notato che «lei si comportava in maniera euforica. Di averla vista baciarsi con Leonardo», prima di sparire.

Al risveglio a casa del ragazzo, la ventiduenne non ricordava nulla. Da qui il dubbio paventato dall'avvocato, Stefano Benvenuto, che «al di là della cocaina che normalmente dà eccitazione, la ragazza possa aver assunto qualcos'altro, magari contro la sua volontà». Lo stabiliranno esami più specifici sui campioni raccolti dalla Mangiagalli, che hanno attestato la presenza nel sangue di benzodiazepine. Anche se è stata la stessa ragazza a dichiarare l'utilizzo di psicofarmaci: «Xanax e Fluoxetina». 

È sempre lei a raccontare: «Ricordo di aver visto intorno alle 12,30 anche Ignazio la Russa, che si è affacciato nella camera». Un dato confermato dal presidente del Senato, che «così per noi è diventato un testimone importante», aggiunge l'avvocato Benvenuto. E ancora, racconta la presunta vittima, mentre stava per uscire «Leonardo sulla porta ha preteso un bacio. Si è avvicinato e mi ha baciata contro la mia volontà. Non ho detto nulla per la paura».

Estratto dell’articolo di open.online.it domenica 9 luglio 2023.  

Oggi il Corriere della Sera entra nei dettagli della refertazione della clinica Mangiagalli. Le lesioni «potrebbero essere compatibili con una violenza sessuale» afferma alla testata una fonte che lavora all’inchiesta della Procura di Milano. Il racconto è ritenuto «credibile». I pm dovranno accertare cosa è successo nell’ appartamento su due piani della famiglia La Russa nei pressi di corso Buenos Aires. L’esame ginecologico, come detto, ha accertato le tre lesioni.

La questione della compatibilità è molto sdrucciolevole. Tra l’altro, spiega la testata, non sarebbe neppure un tema risolutivo per l’esito dell’inchiesta, perché il reato di violenza sessuale può essere commesso anche senza costrizione ma per induzione. Gli investigatori della Mobile di Milano acquisiranno i tabulati dei telefonini per verificare comunicazioni e movimenti delle persone coinvolte.

Non sarebbe stato ancora formalmente identificato l’altro giovane che avrebbe avuto rapporti con la ragazza, anche se il suo nome di battesimo è nella querela. Saranno acquisite anche le registrazioni delle telecamere fuori e dentro la discoteca e nei pressi dell’abitazione dei La Russa.

La chat con le amiche

Sempre il Corriere precisa che sono tre le ragazze — due amiche e una conoscente — dalle quali gli inquirenti potranno trarre, o come testimoni oculari di alcuni momenti cruciali o come interlocutrici nella mattina successiva di alcune chat, elementi utili a verificare l’attendibilità del racconto della 22enne. Una in particolare spiega alla ragazza che dopo il cocktail non era più in sé. «Non mi ricordo nulla. Raccontami di ieri, sono stata drogata?».

Domanda alla quale l’amica avrebbe risposto: «Non mi ascoltavi, penso ti abbia drogata. Non mi ascoltavi, poi sei corsa via perché non ti ho più trovata. Tu stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink». Stando alla denuncia, la giovane spiega che questa «mia amica mi ha anche detto che aveva provato a portarmi via non riuscendovi», «mi ha riferito che dopo l’assunzione di quella bevanda alcolica da parte di Leonardo non ero più in grado di parlare. Mi disse che ero stata drogata», e «mi scrisse di scappare». Ed è sempre questa l’amica che ha chiamato la giovane, in lacrime, appena uscita verso le 13 e 15 da casa La Russa.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Guastella e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 10 luglio 2023.

«Dopo quasi due mesi sono ancora impaurita», ma la paura di cui parla la 22enne che ha denunciato di aver subìto violenza sessuale dal terzogenito di Ignazio La Russa nella casa del presidente del Senato dopo una serata in discoteca a Milano non è tanto di rivivere psicologicamente il dramma, quanto un timore per certi versi più difficile da scrollarsi di dosso: «Ho paura di essere finita in una cosa più grande di me. Ma ho detto solo la verità, voglio affrontare questa vicenda sino alla fine».

E ribadisce al suo legale […] di aver denunciato «perché penso si debba avere il coraggio di affrontare le conseguenze di una violenza senza vergognarsene». Dai tanti, lunghi messaggi che scambia dal letto stesso in cui l’ha lasciata Leonardo La Russa la mattina del 19 maggio, si comprende con chiarezza che a convincerla di essere stata drogata è il racconto dell’amica con la quale era andata a ballare.

Chat che documentano tre circostanze: lei sembra davvero non ricordare nulla; l’amica è una testimone diretta di quello che è successo in discoteca; e se la ragazza prende coscienza di aver avuto rapporti sessuali con il figlio di La Russa, è perché proprio il giovane glielo avrebbe rivelato quella mattina. 

«Amo (amore, ndr) mi sono risvegliata da La Russa... (...) ma che problemi ho... o mi hanno drogata. Non mi ricordo bene, non va bene, faccio troppi casini. Non sono normale, raccontami di ieri»: è da poco passato mezzogiorno e la 22enne si è appena svegliata nuda nel letto.

Non ricorda nulla, ma il 19enne, dichiarerà dopo, le ha detto che avevano avuto un rapporto sessuale sotto effetto di stupefacenti dopo che si erano incontrati la sera nella discoteca Apophis di Milano. «Mi sto prendendo male, ma davvero, troppo. Cosa è successo? Amo mi sono svegliata qui da lui e non ricordo nulla. Aiuto...» scrive all’amica. È solo il primo messaggio della chat che proseguirà finché non si recherà di pomeriggio nel centro anti violenze della clinica Mangiagalli. Leonardo è fuori dalla stanza quando l’altra le chiede a bruciapelo: «Tu sei da lui ora?», «Avete fatto sesso?», «scappa, scherzi, va’ via subito», quasi le «urla».

Le racconta che a un certo punto della serata l’aveva vista perdere il controllo di sé stessa. «Amo penso che lui ti abbia drogata, ma tu non mi ascoltavi ieri» perché «sei corsa via e non ti ho più trovata». La ragazza è sconvolta: «Dio santo, davvero? Cosa è successo? Non ricordo nulla». 

Stava «benissimo» […]. Almeno «fino a quando lui ti ha offerto il drink, tu eri stata normale, eri stranormale. Avevamo fatto delle strisce (probabilmente di cocaina, ndr) anche lì all’Apophis», ma «non è quello che ti ha fatto diventare strana», perché «è dopo il drink che sei diventata strana strana. Lo continuavi a baciare», e «io ti ho chiesto se lui ti piacesse o meno, e tu mi fai “Sì lo amo” (...) Poi hai urlato “facciamo una botta”, io ti ho spiegato che l’abbiamo finita assieme (forse si riferisce ancora alla droga, ndr)». Ricorda solo le «strisce» che avevano consumato, il resto è buio totale.

È questo uno dei punti cardine dell’inchiesta del pm Rosaria Stagnaro e dell’aggiunto Letizia Mannella: la giovane, che già era sotto effetto della coca che aveva assunto volontariamente, è stata drogata anche con una sostanze versata di nascosto nel suo bicchiere? […] L’amica ha […] tentato di portarla via dal club, ma non c’è stato verso. «Ti ho detto che volevo andare a casa e ti ho chiesto di accompagnarmi fuori» e «alle tre ho chiamato un taxi, ti ho anche chiesto se volessi tornare con me, ma dicevi di voler stare con lui». Da quel momento l’ha persa di vista. 

«Amo, mi ha drogata, per forza», si convince in quel momento la 22enne. Nella querela depositata dall’avvocato Benvenuto, la giovane afferma di aver cominciato allora a tremare: «Ho paura, me ne sto andando», messaggia all’amica che, evidentemente molto preoccupata, le consiglia: «Amore tu ora torna esattamente a casa tua».

«Perché mi succedono ste cose?», si chiede lei mentre l’altra la interroga con crudezza: «Pensi ti abbia stuprata?». Perché «c...o ti ha sicuramente drogata. Comunque, che m...a, sempre odiato». La risposta è ancora una volta la stessa «Non mi ricordo nulla amore, ma niente proprio», mentre si fa strada il timore per quello che potrebbe succedere dopo: «Lascia stare. Che non esca la cosa», «spero non mi abbia vista nessuno». 

[…] «Che vergogna, amo mi dovevi portare via», dice la 22enne quasi rimproverando l’amica, che infatti reagisce: «Amore ci ho provato, ma sai che sei più forte di me. Sei letteralmente scappata correndo via», […] «te l’ho detto più di una volta ma non ragionavi proprio», «non so come spiegarlo, non eri tu. Amore posso solo immaginare, che m...a». Lei quasi crolla sullo schermo del cellulare: «Mi viene da piangere», «aiuto cosa mi ha fatto…».

«Spero lo denunci», le dice l’amica. «L’abbiamo fatto, da come dice (Leonardo, ndr)», ma «non mi ricordo nulla». Sembra ancora titubante su cosa deve fare: «Denuncio… come?». L’altra: «Ti ha per forza drogata», «non può essere c (forse: cocaina, ndr). Non ti fa quell’effetto. Non era mai successo tutte le altre serate», commenta dimostrando che le due «strisce» della sera prima non sarebbero state un caso isolato.

[…] «Mi ha drogata. Mi ricordo tutto perfettamente fino a un certo punto (...). Ma ti rendi conto... Che vergogna. Sto uscendo. Non ho parole... Inizia pure a girarmi la testa… Sono terrorizzata, sto aspettando (che Leonardo) mi porti le mie cose», «vestiti e cose varie. No, me ne vado». La chat si interrompe. Riprende alle 15.18 quando la 22enne sta andando alla Mangiagalli: «Vado in ospedale. Sta venendo mia madre a prendermi». E l’amica le dà l’ultimo consiglio: «È giusto che denunci la cosa, però stai veramente attenta, suo padre è il presidente del Senato».

Estratto dell’articolo di Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 10 luglio 2023.  

A domanda, ci risponde. «Sì, sono un’amica di entrambi». «No, da quando è uscita la notizia non ho sentito nessuno dei due, mi è sembrato poco opportuno». Qui parla senza che ci sia prima un nostro quesito: «In ogni modo Leonardo lo conosco bene, davvero bene, abbiamo frequentato insieme l’università a Londra, e con me, così come con tutte le altre, non ha mai superato il confine, se intende quello che dico: uno che sta al suo posto, che non va contro le volontà delle donne...».

Altri interrogativi. Il primo: la droga. «Leonardo e la droga? Ma no, impossibile, le due cose non c’entrano nulla. O almeno, io adesso mi sto riferendo al nostro comune vissuto, ignoro come siano andati i fatti nella sua abitazione, e non mi permetto di avanzare sospetti in una oppure nell’altra direzione, però con la droga non l’ho mai visto». Dopodiché: lei era in quel locale, giusto? «No». Ma viene collocata lì. «Eh, forse c’ero, forse non c’ero. Guardi, non mi ricordo». E ancora: chi è il ragazzo che ha dormito nell’appartamento di Leonardo e avrebbe partecipato alle violenze? «Non ho idea. Glielo giuro».

Il Corriere ha cercato le tre amiche della coetanea che ha denunciato Leonardo Apache La Russa per stupro. Quelle appena lette sono le frasi della ventenne che, nel parziale ordine cronologico stilato dagli investigatori, è stata la seconda a comparire con il suo ingresso nell’esclusivo club Apophis [...] : è stata lei a ricordare alla coetanea l’eventualità del versamento di droga nel suo bicchiere; era stata appunto lei, in precedenza, a condividere frammenti della serata prima dell’arrivo all’Apophis e magari, ma è una mera ipotesi, anche condividere, oppure essere una spettatrice dell’evento, l’assunzione di sostanze stupefacenti. 

Saranno magistrati e poliziotti ad aggiungere elementi al fascicolo, a cominciare dalle deposizioni di queste tre ragazze. E risulta scontato che quel tema, l’ipotetica droga nel calice, e magari versata da La Russa, necessiterà di ramificati dettagli. Sull’argomento non intende pronunciarsi la terza ventenne, la quale, sempre nella scansione temporale degli investigatori, è entrata in scena per ultima.

Ovvero con la chat in cui era stata informata dalla coetanea delle ore trascorse a casa di Leonardo, e con il suo invito ad andare in Mangiagalli per la visita. Di più: si era proposta di raggiungere l’amica e accompagnarla di persona nella clinica. [...]

 Da repubblica.it il 10 luglio 2023.

Il disorientamento e la paura per essersi risvegliata in un luogo a lei sconosciuto, la camera da letto di Leonardo La Russa, e di trovarselo accanto nel letto, la mattina dopo l’incontro all’Apophis, la discoteca in centro a Milano. 

La ventiduenne che ha denunciato il figlio del presidente del Senato, ora indagato per violenza sessuale, è in preda al panico e inizia a scrivere all’amica con cui era arrivata nel locale, la sera del 18 maggio scorso, ma che poi non ha più visto, restando con il vecchio amico che non vedeva da tanto tempo e con cui ha bevuto un paio di cocktail, prima di sprofondare in uno stato di “amnesia completa”. 

(...) 

 “Amo.. – è il primo messaggio della ventiduenne - mi sono risvegliata da La Russa, ma che problemi ho.. o mi hanno drogata... Non mi ricordo bene, non va bene, faccio troppi casini. Non sono normale, raccontami di ieri”. La ragazza non riesce a ricordare nulla della sera prima. E’ da poco passato mezzogiorno. Scrive ancora: “Mi sto prendendo male, ma davvero, troppo. Cosa è successo? Amo mi sono svegliata qui da lui e non ricordo nulla. Aiuto...”. L’amica cerca di capirne di più. “Tu sei da lui ora? Avete fatto sesso?”. “Scappa, scherzi, va via subito” le dice.

Il sospetto su possibili sostanze versate nei drink del locale arriva proprio dall’amica. “Amo penso che lui ti abbia drogata, ma tu non mi ascoltavi ieri, eri corsa via e non ti ho più trovata”. “Dio santo, davvero? Cosa è successo? Non ricordo nulla”, reagisce la presunta vittima. E l’altra cerca di spiegarle cos’ha visto sulla pista da ballo del club. “Stavi benissimo, fino a quando lui ti ha offerto il drink, tu eri stata normale, eri stranormale. Avevamo fatto delle strisce (forse di cocaina, ndr) anche lì all’Apophis”. 

Ma, dice ancora l’amica, “non è quello che ti ha fatto diventare strana, è dopo il drink che sei diventata strana strana. Lo continuavi a baciare – scrive ancora - io ti ho chiesto se lui ti piacesse o meno, e tu mi fai “Sì lo amo”. Poi hai urlato “facciamo una botta”, io ti ho spiegato che l’abbiamo finita assieme (il riferimento potrebbe essere al consumo di droga, ndr). 

L’amica cerca di far ricordare alla presunta vittima qualche dettaglio. “Ti ho detto che volevo andare a casa e ti ho chiesto di accompagnarmi fuori, alle tre ho chiamato un taxi, ti ho anche chiesto se volessi tornare con me, ma dicevi di voler stare con lui”. Poi le strade delle due si sono divise.

Al mattino la ventiduenne è in preda alla paura. “Amo, mi ha drogata, per forza”, si convince. E decide di abbandonare la casa. “Ho paura, me ne sto andando”. “Amore tu ora torna esattamente a casa tua”. E ancora: “Pensi ti abbia stuprata, Perché ti ha sicuramente drogata. Comunque, che m...a, sempre odiato”. “Non mi ricordo nulla amore, ma niente proprio - è ancora la risposta della ventiduenne – Lascia stare. Che non esca la cosa”, dice “spero non mi abbia vista nessuno”, “Che vergogna, amo mi dovevi portare via”. A quel punto l’amica spiega nuovamente cos’è successo la sera prima. “Amore ci ho provato, ma sai che sei più forte di me. Sei letteralmente scappata correndo via”, “Io ti volevo portare a casa mia”, “te l’ho detto più di una volta ma non ragionavi proprio”, “non so come spiegarlo, non eri tu”.

“Amore posso solo immaginare, che m...a”. Lo sconforto prende il sopravvento: “Mi viene da piangere”, “aiuto cosa mi ha fatto…”. “Spero lo denunci”, risponde l’amica. “L’abbiamo fatto, da come dice, non mi ricordo nulla”. Si fa subito avanti l’idea di denunciare Leonardo La Russa. “Denuncio… come?”, scrive. “Ti ha per forza drogata, non può essere c (probabilmente il riferimento è alla droga ndr). Non ti fa quell’effetto. Non era mai successo tutte le altre serate”, risponde l’altra. 

“Vado in ospedale”, si decide la ventiduenne. E ancora all’amica: “Mi ha drogata. Mi ricordo tutto perfettamente fino a un certo punto. Ma ti rendi conto... Che vergogna. Sto uscendo. Non ho parole... Inizia pure a girarmi la testa. Sono terrorizzata, sto aspettando che mi porti le mie cose, vestiti e cose varie, me ne vado”.

Nel pomeriggio la ventiduenne riscrive. “Vado in ospedale. Sta venendo mia madre a prendermi”. Un messaggio a cui l’amica risponde chiedendole di essere prudente. “È giusto che denunci la cosa, però stai veramente attenta, suo padre è il presidente del Senato”. Questa settimana in procura si comincerà a ricostruire i fatti di quella notte, con le prime convocazioni di testimoni. Prima però sarà la denunciante a dover essere sentita. Poi toccherà alla prima testimone oculare dell’incontro tra la ventiduenne e Leonardo La Russa, insieme a altri amici e avventori nel locale.

Dagonews il 10 luglio 2023.

Lo scandalo che ha coinvolto Leonardo Apache La Russa, accusato di stupro, ha acceso le vipere milanesi che si sono messe a sibilare l’una con l’altra per saperne di più. Pare che la ragazza, presunta vittima della violenza, appartenga a una famiglia dell’alta borghesia milanese. 

La posizione sociale e la disponibilità economica, potrebbero spingere i genitori della 22enne a non lasciarsi intimorire da un processo contro il figlio del presidente del Senato…

Ha destato scalpore la notizia del mancato sequestro del telefono di Leonardo Apache La Russa, a differenza degli smartphone della presunta vittima e dell’amico di Leonardo immediatamente presi in carico dall’autorità giudiziaria.

Secondo Sandro De Riccardis di “Repubblica”: “il telefono di Leonardo, ora indagato per violenza sessuale, non è stato sequestrato in attesa di sentire la ragazza e per evitare possibili problemi giuridici legati al ruolo e alle garanzie proprie della seconda carica dello Stato”.

Sempre sul telefonino del giovane La Russa, Davide Milosa sul “Fatto Quotidiano” scrive:

“Da capire se non sia stato trovato oppure non fosse intestato a lui o ancora, la Procura attende di sentire prima la ragazza per poi fare un accesso mirato e senza rischi di essere respinta, visto che La Russa jr vive a casa del padre. 

E questo anche perché la querela, secondo fonti inquirenti, lascerebbe alcuni punti oscuri. 

Di certo l’anomalia del mancato sequestro è evidente. In mano gli investigatori hanno il telefono della vittima e quello di un amico di La Russa presente in casa, quest’ultimo non indagato. I telefoni non sono stati sequestrati ma solo acquisiti”.

A parte il fatto che, oggi, per ottenere dati e informazioni presenti su uno smartphone non è necessario disporre fisicamente del dispositivo. Basta un bravo hacker in grado di accedere al cloud o un trojan infilato nel telefono. Gli investigatori possono accedere alle informazioni nel telefono di Leonardo Apache in molti modi. Qualcuno si chiede se lasciare il dispositivo al ragazzo sia stato un modo per indurlo a comunicare liberamente, con l’obiettivo di registrare eventuali “passi falsi”…

Da repubblica.it domenica 9 luglio 2023.

La Rai sta valutando di sospendere il nuovo programma di Filippo Facci. Doveva essere una delle nuove trasmissioni della stagione di Rai2, dal titolo “I Facci vostri”, ma l’editorialista di Libero è finito nel mirino di Viale Mazzini dopo le polemiche per le affermazioni del giornalista sulla ragazza che ha denunciato il figlio di Ignazio La Russa, Leonardo Apache, per violenza sessuale. A denunciare quanto scritto dal giornalista sul quotidiano è stato Sandro Ruotolo, responsabile Informazione del Pd. “Conviene alla Rai, al servizio pubblico, affidare un programma a Filippo Facci” che su Libero parla della vittima come di “una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa? Può la tv pubblica essere affidata a chi fa vittimizzazione secondaria?". 

Poi domanda: "E che dice il comitato etico della Rai? Il servizio pubblico può consentire una lettura del genere sulle donne? Pensateci bene dirigenti di viale Mazzini. Il servizio pubblico è di tutti ma non può esserlo dei sessisti, dei razzisti e del pensiero fascista".

Travolto dalla polemica, Facci fa un passo indietro, parlando con l’Ansa: “"Riscriverei quella frase? No, perché conta un solo fatto: che la frase non ha portato niente di buono e che ha fatto malintèndere un intero articolo. La professionalità innanzitutto, l'orgoglio personale poi”. Il giornalista parla di una polemica "costruita sul nulla" e afferma che da giorni si cercava un incidente per investirne la Rai, "colpevole – dice – di avermi proposto una collaborazione per ora non formalizzata". E rivendica che "chiunque abbia letto l'articolo interamente, e sottolineo chiunque ha convenuto che il mio articolo fosse equilibrato ed equanime".

[…]

Estratto dell’articolo di Filippo Facci dell'8 Luglio per “Libero Quotidiano” domenica 9 luglio 2023.  

una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa (una famiglia, una tribù) e che perciò ogni racconto di lei sarà reso equivoco dalla polvere presa prima di entrare in discoteca, prima di chiedere all’amica «sono stata drogata?» anche se lo era già di suo.

Il resto è un confronto epocale tra maschio e femmina che la Costituzione mette sullo stesso piano, ma la giurisprudenza, ultimamente, un po’ meno. Restano dettagli off the records, tipo che la denuncia era su un giornale prima ancora di essere nella disponibilità cartacea dell’accusato, e che il racconto di lei, per emblematico che sia, sembra un format da movida milanese: il ricordo, quello vivido, è solo di aver bevuto due drink con un ragazzo e poi di essersi svegliata nel letto di lui l’indomani a mezzogiorno; quella che sta in mezzo è l’auto-ricostruzione mnemonica di una 22enne fondata su «sensazioni», in grado, in ogni caso, di finire sulla prima pagina del più diffuso quotidiano nazionale. 

Poi è vero, tra il fatto e la denuncia sono passati quaranta giorni – l’ha fatto notare Ignazio La Russa, nel ruolo di padre – ma per la nostra giurisprudenza significa poco: è lo stesso genere di perplessità, pur istintiva, che aveva avuto Beppe Grillo nello scagliarsi contro l’accusatrice di suo figlio Ciro, la quale aveva denunciato uno stupro dopo più di una settimana, solo una volta tornata a Milano, solo prima di proseguire la vacanza per un’altra settimana; le sentenze italiane però spiegano che uno stupro non implica comportamenti codificati, tipo rinunciare al prendersi un po’ di tempo per decidere se denunciare o no.

LA NORMALITÀ DEL MALE I problemi sono altri. Uno è che, di mezzo, non c’è soltanto la millesima generazione sconosciuta e ultralight, svagata, lontana dai nostri tabù e dal gravoso concetto di «reato»: di mezzo c’è quella normalità del male che sono le droghe da discoteca di oggi – in continua evoluzione – e la scarsa conoscenza che spesso ne hanno giudici, periti e giornalisti; sul Corriere, ieri, c’era un elenco delle «nuove droghe» con una castroneria dietro l’altra: le benzodiazepine per dormire erano definite «droga dello stupro» (ma vale solo per il Rivotril, un antiepilettico, non certo per i diffusissimi Tavor, Xanax, Lexotan, Valium, En) con menzione d’onore per la star mediatica degli ultimi anni, il Ghb, un derivato aminoacidico presente nelle tabelle delle sostanze psicotrope da 22 anni e che è piuttosto difficile che «non faccia ricordare niente fino al giorno dopo» (amnesia anterograda) perché, nel caso, bisogna assumerne una tonnellata e finire in uno stato comatoso che è tipico dei vecchi anestetici.

Nella tabella delle «droghe sintetiche» del Corriere non compare giustamente la cocaina (che non è sintetica) anche se è l’unica droga che di sicuro ha fatto la sua comparsa, visto che la ragazza l’ha assunta prima di entrare in discoteca- come appurato da un esame tossicologico fatto alla clinica Mangiagalli. Ma anche qui bisogna vedere, perché le sostanze da taglio della cocaina – che neppure i medi spacciatori conoscono – possono essere anfetaminiche o anestetiche, quindi avere effetti opposti e reattività diverse all’alcol, che pure, il Corriere, spiegava essere «la sostanza più spesso effettivamente correlata a casi di violenza sessuale».

Dunque a seconda del tipo di cocaina – stiamo parlando di schifezze illegali, ricordiamolo – si avrà una reattività diversa con eventuali «droghe dello stupro», che pure, per ora, sono esistite soltanto nelle ricostruzioni mnemoniche fatte dalla ragazza: «Raccontami di ieri, sono stata drogata?» chiede lei all’amica, una volta svegliatasi nel letto di Apache La Russa, «penso ti abbia drogata», risponde l’amica. Ma l’unica certezza sarebbe stata questa: «Ti era drogata da sola, anzitutto».

LE DIVERGENZE Il resto fa parte di una proiezione che non possiamo sapere quanto vera e quanto fantasticata: «Non mi ascoltavi, poi sei corsa via», le ha riferito ancora l’amica, «stavi benissimo fino a prima che ti portò il drink», le ha riferito ancora l’amica, prima di vederla baciare Leonardo La Russa in discoteca, altra certezza. Sappiamo che il giorno dopo lei fu «spaventata» e «presa dalla vergogna», e che, a suo dire, nel salutarla, Leonardo la «baciò contro la mia volontà», però lei non disse nulla «per paura». 

Il racconto di lui è più banale: lei venne spontaneamente a casa di lui, passarono la notte assieme e, a mezzogiorno del giorno dopo, si salutarono senza problemi.

La banalità del bene. È pieno di vecchi film dove lui o lei si svegliano in letti sconosciuti, ricordando a malapena il proprio nome ma non che cosa abbiano fatto e con chi:nei vecchi film c’era sempre di mezzo una sbronza, e la verità la sapeva soltanto lo spettatore. Oggi invece si parla di Ghb, e la sgradevole sensazione è che la verità possa essere drogata e stuprata dalla politica

Carmelo Caruso per ilfoglio.it domenica 9 luglio 2023.

La Rai starebbe per fermare la striscia di Filippo Facci, editorialista di Libero. Facci è presente nel prossimo palinsesto Rai con un suo programma, una striscia su Rai 2, chiamata "I Facci del giorno", ma un articolo di Facci, sul caso del figlio La Russa, starebbe per fare saltare tutto. Il Pd, Fnsi, Usigrai, da stamane si stanno scagliando contro Facci, responsabile, a parere del Partito democratico, di posizioni che vanno ben oltre il tono "ironico e dissacrante". 

A sollevare le proteste un passaggio dell'articolo ritenuto offensivo nei confronti della ragazza che ha denunciato il figlio del presidente del Senato. Questo è il passaggio: "Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo". I vertici Rai stanno ragionando in queste ore

Estratto da liberoquotidiano.it domenica 9 luglio 2023.  

I "sinceri democratici" del Pd vogliono censurare Filippo Facci, firma di Libero e presto su Rai 2 con la conduzione della striscia quotidiana I facci vostri. Già, perché secondo Sandro Ruotolo, responsabile informazione del Pd nonché vecchia conoscenza di santoriana memoria, Filippo Facci semplicemente non può condurre sul servizio pubblico. 

(…)

"Che dice il comitato etico della Rai? Il servizio pubblico può consentire una lettura del genere sulle donne? Pensateci bene dirigenti di viale Mazzini. Il servizio pubblico è di tutti ma non può esserlo dei sessisti, dei razzisti e del pensiero fascista", conclude Sandro Ruotolo la sua intemerata.

Mail di Filippo Facci a Dagospia domenica 9 luglio 2023.

Caro Dago,

i weekend estivi con poche notizie sono disperanti, perché costringono a occuparsi anche di spiacevoli sconfitte professionali, e una mi vede nel ruolo di protagonista. La comparsa invece è Sandro Ruotolo, senatore e responsabile informazione del Pd in cattivissima fede,  il quale mi ha attribuito quattro reati sanzionati dal Codice di procedura Penale, ossia: 1) Razzismo; 2) Sessismo; 3) Apologia del fascismo; 4) «Vittimizzazione secondaria» di una presunta stuprata. 

Questi reati deriverebbero tutti dal seguente passaggio di un mio articolo pubblicato sabato su Libero: «Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa».  

E’ un passaggio stilistico, può non piacere, e la mia sconfitta professionale e il mio dispiacere derivano proprio da questo: dal fatto che ne abbiano fatto un caso senza aver letto l’articolo da cui il passaggio è estrapolato. Chiedo anche a te: tu l’hai letto? Non che lo pretenda. 

E infatti la mia sconfitta professionale deriva tipicamente dalla pretesa che i più ti leggano per intero prima di esprimersi, e che magari conoscano i tuoi trascorsi, addirittura i tuoi libri, che abbiano cognizione di causa prima di attribuirti degli odiosi reati: che insomma non ti trasformeranno in carne da cannone per alimentare le polemichette politiche di cui divieni vittima secondaria. 

Riscriverei quella frase? No, perché conta un solo fatto: che la frase non ha portato niente di buono e che ha fatto malintèndere un intero articolo. La professionalità innanzitutto, l’orgoglio personale poi. Stammi bene.

Estratto da open.online il 10 luglio 2023.

Che sia la solidarietà tra polemisti o una genuina convinzione, per Filippo Facci arriva oggi un’altra difesa «d’autore» dopo l’ondata di polemiche per quanto scritto domenica sul caso del presunto stupro commesso da Leonardo Apache La Russa: quella di Vittorio Sgarbi. 

Il giornalista è da ieri nell’occhio del ciclone per l’articolo pubblicato sull’edizione del 9 luglio di Libero, nel quale commentava cinicamente il caso e in particolare la posizione della 22enne milanese, che fin da subito ad amiche e medici del pronto soccorso ginecologico ha ammesso di aver assunto sostanze stupefacenti la sera dell’incontro in discoteca con La Russa jr.

«Le sofisticate scienze forensi non impediscono che alla fine si scontri una parola contro l’altra, e che, nel caso, risulterà che una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa», scriveva nell’articolo Facci. […] 

Facci «ha utilizzato un participio passato (“fatta”, ndr) riferito alla ragazza nella maniera in cui abitualmente si usa nel linguaggio comune tra le persone», ragiona Sgarbi a margine della conferenza stampa di presentazione del festival “ContemporaneaMente Gualdo Tadino”. 

Il sottosegretario alla Cultura afferma di aver «letto con attenzione» l’articolo discusso e ammette di aver trovato quel gioco di parole «non di buongusto» alla luce delle indagini in corso. Facci, insomma, «poteva risparmiarselo». Ma una volta chiarito ciò, Sgarbi punta il dito contro un problema ai suoi occhi di ordine più generale.

Ogni volta che si affronta la materia sessuale «mi sembra ci sia una paura delle parole, emerge una sessuofobia». Oltretutto, continua il sottosegretario all’Ansa ricordando la parziale ritrattazione dell’articolo, Facci «ha spiegato che la frase non l’avrebbe più scritta. È una battuta forse sbagliata ma è anche vero che nella seconda parte dell’articolo ha citato il capo d’imputazione contro il figlio di La Russa». 

Quanto alle richieste d’intervento del comitato etico della Rai sulla posizione del futuribile neo-conduttore, Sgarbi contrattacca tirando in ballo un’altra ben nota voce: «Saviano che ha un contratto sicuro ha detto “bastarda” alla Meloni. È vero che è un termine dal connotato politico, ma non è una gran parola. Perché il peso dell’uso del termine “fatta” è maggiore?».

Nulla di male quindi in una collaborazione di Facci con la Rai, lo incalza l’agenzia di stampa? «No, tranne che sul piano estetico: dovrebbe pettinarsi in modo diverso», è la chiosa di Sgarbi. […]

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 luglio 2023.

Caro Dago, ti avevo scritto di recente che il più delle volte io preferisco il silenzio quando ci sono di mezzo delle gigantesche risse fondate sul nulla e che per tuttavia occupano pagine di giornali. 

Mi sto riferendo alle accuse mosse a Filippo Facci - che un tempo era un mio aguzzo disistimatore e con il quale siamo poi divenuti amici e spesso sodali - che in merito alla faccenda dello stupro di cui viene accusato Leonardo Apache La Russa aveva usato un'espressione non felice nel definire la ragazza accusante "fatta di cocaina prima ancora che fatta" dal ragazzo che lei accusa. 

Di certo un'espressione non felicissima, altrettanto certo che Filippo non è né "un sessista", né "un razzista", nè un "fascista" per come lo stanno accusando dei tipi che evidentemente non hanno mai letto un suo libro, e forse neppure per intero l'articolo in questione. Mi pare roba da selvaggi o da barbari impiccare qualcuno (sia esso di destra, di sinistra o di centro) a una frase, di ciascuno devi raccontare la storia e la personalità complessiva: a quella devi fare riferimento se vuoi giudicarlo.

Ebbene se fai riferimento alla storia intellettuale di Filippo e ai suoi libri, ti è facile capire che mai e poi mai lui voleva dire che la ragazza se l'era cercata. Perché di questo si tratta. 

E' facilissimo da capire eccezion fatta per quelli che di libri ne leggono uno al mese e quindi non sono abituati a penetrarne il significato. E forse neppure abituati a penetrare il significato di un articolo se letto per intero. Quanto alla valutazione di Facci e di quel suo articolo mi sto sbagliando? Non è che siete obnubilati dall'odio di parte, dall'essere di una parte diversa da quella di Facci e ammesso che lui ne abbia una? Provateci a dimostrarmelo. Sono qui che vi aspetto, col sorriso sulle labbra.

La Russa jr colpevole per la stampa senza processo Leonardo. Federico Novella su Panorama il 10 Luglio 2023

Il tribunale popolare sembra aver deciso, ma forse sarebbe il caso di fermarsi un attimo per riflettere e capire che il caso del presunto stupro è una vicenda delicata che dovrebbe essere trattata con prudenza e non come una guerra tra tifoserie opposte

Forse sarebbe il caso di fermarsi un momento e riflettere. Il caso La Russa sta sfuggendo a tutti di mano: quella che è una vicenda delicata che dovrebbe indurre pazienza e prudenza, si è già trasformata in una guerra tra opposte tifoserie. Bisognerebbe avere l’accortezza di separare il caso giudiziario dai suoi riflessi politici, ma a leggere i giornali sembra di capire che la sentenza nei confronti di Leonardo Apache La Russia sia stata già emessa dal tribunale del popolo. Come niente fosse, la stampa pubblica le chat private della ragazza coinvolta, hanno già la verità in pugno, il verdetto è già stato vergato. Dovrebbe essere interesse di tutti una celere ricostruzione dei fatti, per capire se la presunta vittima è davvero vittima, e il presunto colpevole è davvero colpevole: ma a tratti sembra quasi che certi giornalisti parteggino apertamente per la ragazza, ancor prima di conoscere i dettagli incontrovertibili di quanto sia successo quella notte a Milano. Si racconta in maniera generica di accertamenti medici, aggiungendo che tali esami farebbero propendere per una violenza effettivamente subita. Si confondono i fatti con le opinioni. Nessuno che ricordi alcune semplici verità: le prove si raccolgono nei processi, e non sui giornali, e prima ancora i processi devono essere chiesti e concessi da un giudice terzo. Secondo assioma: tutti sono innocenti fino alla sentenza definitiva, tutti, anche i figli dei presidenti del Senato. Come si diceva, nella foga di voler crocifiggere, si mescola il piano giudiziario, quello in cui sul tavolo c’è una denuncia al vaglio della procura, con quello politico. E in questo caso nel banco degli imputati allestito in fretta dalla folla mediatica ci è finito il padre dell’accusato, vale a dire Ignazio La Russa. Il quale, anziché mantenere un basso profilo e limitarsi ad attendere gli eventi nutrendo fiducia nella magistratura, è intervenuto (poi ritrattando) con un comunicato rumoroso e controproducente. Certamente una gestione più avveduta a livello comunicativo avrebbe evitato un’ulteriore dose di partigianeria su tutta questa storia. Ma ciò non toglie che il principio di fondo resta immutato. Al di là della polemica politica, non è accettabile una condanna a priori. In nessun caso. Non era accettabile per Ciro, il figlio di Beppe Grillo accusato di violenze durante una vacanza in Sardegna da una sua amica; non è accettabile neanche oggi nel caso di La Russa. Sembra che trent’anni di guerra tra politica e giustizia non abbiamo insegnato niente a nessuno. Le stesse storture, le stesse connivenze, gli stessi giudizi e pre-giudizi, avvelenano il clima. Chi farà il primo passo per uscire dalla barbarie e entrare nella civiltà?

Da “il Foglio” l'11 luglio 2023.

Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato tutte le chat della ragazza che ha denunciato di aver subìto violenza sessuale da Leonardo La Russa, figlio del presidente del Senato, Ignazio. Il quotidiano di Via Solferino ha riportato i messaggi scambiati dalla ragazza con una sua amica non appena svegliatasi nuda nel letto del terzogenito di Ignazio La Russa, dai quali emerge la confusione su quanto avvenuto la sera prima, il ricordo di aver assunto cocaina, la sensazione di essere poi stata drogata da qualcuno, forse con una sostanza versata di nascosto nel bicchiere. 

Insomma, si tratta di messaggi che possono essere interpretati in una miriade di modi, e spetterà ai magistrati verificarli alla luce dei dati e delle testimonianze effettivamente a disposizione. Ciò che colpisce, tuttavia, è la facilità con cui queste chat sono finite interamente sulle pagine di uno dei principali quotidiani del paese. 

A diffonderle, secondo quanto ricostruito dalla Verità, sarebbe stato il legale della ragazza, l’avvocato Stefano Benvenuto, che avrebbe proposto la storia del presunto stupro a una corrispondente locale del Corriere, la quale avrebbe poi girato la pratica ai redattori milanesi. 

Probabilmente i quotidiani abituati a pubblicare le veline provenienti dalle procure ora evidenzieranno il fatto che a diffondere le notizie coperte da segreto sia stato un avvocato, e non un magistrato o un ufficiale di polizia giudiziaria come i critici della gogna mediatico-giudiziaria denunciano da tempo.

La procura di Milano, a quanto pare, sarebbe intenzionata ad approfondire le cause di questa fuga di notizie. L’auspicio è che la stessa solerzia sarà usata in futuro di fronte a tutte le violazioni del segreto investigativo, anche se commesse dalle toghe.

Estratto dell’articolo di Giulia Sorrentino per “Libero quotidiano” l'11 luglio 2023.

Si sa vita morte e miracoli della breve biografia di Leonardo Apache La Russa, del presidente del Senato non parliamone neanche, ma di G. - la ventiduenne che ha denunciato il figlio dell’esponente di Fratelli D’Italia- finora che cosa sappiamo? 

Ieri il Corriere della Sera ha riportato le chat tra G. e la sua amica, abbiamo avuto modo a mezzo stampa di carpire quale fosse lo stato d’animo […] nella famiglia anche tramite le dichiarazioni del padre della ragazza che la definisce «devastata», aggiungendo: «Se verrà dimostrato quello che racconta mia figlia, e io credo a mia figlia, lei resterà segnata per tutta la vita».

Qualcuno ha fatto in tempo a sbirciare sul suo profilo Instagram? Difficile, perché lo aveva già chiuso quando è scoppiata tutta la polemica che sta tenendo con il fiato sospeso l’Italia... Non tutto è stato chiuso, però, perché manca all’appello il suo profilo di TikTok, che pullula ancora di video. 

[…] Il primo che compare successivamente alla fatidica notte del presunto stupro è di soli tre giorni dopo, esattamente il 22 di maggio: c’è stata giusto una parentesi in cui non ha caricato contenuti che comprende i giorni dal 19 al 21 di maggio. Si mostra in pose provocanti, spesso con mini abitini, e giusto quattro giorni fa la troviamo vestita di bianco, con un copricostume vedo non vedo e un calice di vino in mano.

Ma c’è dell’altro, perché G. fa anche dei riferimenti sessuali nelle sue performance, come in un video corredato dal seguente testo: «Quando sono a letto con uno e mi chiede scusa per uno schiaffo sul culo (lo fa intendere mettendo l’emoji di una pesca)» e il tutto è accompagnato da G. che dice «Non mi fai male» e fa una smorfia. 

Il 12 giugno invece appare il volto di G. che recita la frase: «Continuano a dire scegline uno, creandomi un certo disagio, perché disponendo di 20 tipi non saprei quale scegliere», citando la celebre gag di Silvio Berlusconi in cui l’ex premier parlava della sue 20 case. Uno scherzo. […]

Nel video successivo pubblica l’immagine di lei seduta sul letto con una maglietta indosso che tira su facendoci intravedere le sue mutande. Colpisce anche un video in cui lei usa uno di quei “filtri” «che tipo di donna sei?» e le esce fuori la dicitura: «Tossica». A quel punto lei ride portandosi una mano sul volto e sotto scrive «Io che sorrido pure». 

E non manca il frammento in cui c’è scritto: «Quando lui ha ambizioni per la sua vita, una bella macchina, ama viaggiare, gioca a poker e mi guarda come se fossi un pasticcino» lei mima con le labbra il testo di una canzone che ripete in loop “famo un fijo”.

[…] Nessuno vuole fare il processo alla presunta vittima. E il fatto che siano presenti questi video ovviamente non dimostra che la violenza non c’è stata. Di sicuro stanno emergendo molti dettagli sudi lui, sulle sue canzoni, dichiarazioni a gogò di chi chiede dimissioni di chiunque; ma finora di G. si sapeva pochissimo. 

Lo stupro non è mai legittimo, ma saranno i giudici, con tutti gli elementi che hanno e di cui noi non siamo in possesso, a stabilire se sia stato o meno violato il codice penale quella sera a casa di Leonardo La Russa. Tra gli elementi che finora noi conosciamo, oltre al fatto che G. si fosse drogata già prima di vederlo (e che quindi Leonardo potesse non saperlo), è che, da ciò che dice una amica di G., sia stata lei a voler baciare lui e non il contrario.

Estratto dell'articolo di Andrea Siravo per lastampa.it l'11 luglio 2023.

Ha parlato con i pubblici ministeri per circa tre ore raccontando quanto accaduto la notte fra il 18-19 maggio la ragazza di 22 anni che ha denunciato per violenza sessuale Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato, Ignazio La Russa. […] Poi gli inquirenti hanno iniziato ad ascoltare le due amiche della giovane, principali testimoni oculari dei fatti avvenuti dentro e fuori l'Apophis Club di via Merlo a Milano[…]

Nella denuncia la 22enne ha parlato di un «unico dato certo» di cui sarebbe in grado di riferire, e cioè «che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che io fossi nelle condizioni tali di poter scegliere cosa fare, mi ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali, lui e l'amico, sempre a mia insaputa; la mia amica mi ha riferito che dopo l'assunzione di quella bevanda alcolica da parte di Leonardo, non ero più in grado di parlare normalmente; mi disse che ero stata drogata». 

La giovane, assistita dall’avvocato Stefano Benvenuto, è stata convocata negli uffici della Questura del capoluogo lombardo. La scelta di non sentirla al quarto piano del Palazzo di Giustizia è stata dettata anche per garantire maggiore privacy alla ragazza ed evitare il clamore mediatico.

[…]

Estratto dell’articolo di Andrea Galli per il “Corriere della Sera” l'11 luglio 2023. 

Più che difese argomentate, son difese a prescindere: «Lui? Sei sicuro? Ma se è uno che sta per i fatti suoi... Gli piace camminare per Milano, fare foto e girare video... Dico che è impossibile... C’ha in testa solo la musica, un’ossessione, ma ci crede e fa bene. A noi piace ballare mentre a lui piace far ballare. Semplice. Non lo sento da settimane, sarà via». 

[…] non riceviamo conferma definitiva sul fatto che il soggetto in argomento, cioè il deejay ventenne dato per presente nell’appartamento dei La Russa e presunto autore insieme a Leonardo dello stupro contro la coetanea, sia lo stesso giovane del quale abbiamo parlato con un suo amico. Ma che le identità coincidano è altamente probabile. Il rifiuto del diretto interessato, della famiglia e di una buona cerchia di conoscenti di rispondere alle nostre domande […] potrebbe avvalorare l’ipotesi di un coinvolgimento, da capire in quale misura.

Non bisogna però escludere scenari differenti […]. Uno dei «vantaggi» investigativi è dato dal fatto che ragioniamo su un gruppo unitario, nel senso che i ventenni hanno frequentato le superiori insieme, e in parte frequentano adesso l’università; si incrociano a Milano nella zona dei Navigli, sono ospiti di discoteche quasi elitarie come l’«Apophis», in Liguria hanno per base fissa e irremovibile l’iconica «Santa», ovvero Santa Margherita Ligure, all’estero capita loro di vedersi a Formentera per il divertimento e a Londra per proseguire gli studi.

Alta se non altissima borghesia, genitori con impieghi di rilevante peso (non unicamente) professionale, ramificate relazioni, ampie disponibilità economiche; in prevalenza sono figli unici che con i coetanei compongono una forte comunità, una tribù, anche intima, di condivisioni di segreti maggiori che in altri contesti giovanili; le sigarette (elettroniche) sono un vezzo più che un vizio; drammatico il tema delle droghe e dell’abbinamento con psicofarmaci; a unire i giovani, anche solidi legami con le mamme e i papà degli amici, al netto della frequenza di coppie separate; l’uso dei social network ha sì un ruolo ma senza sconfinare: una delle urgenze è esplorare il mondo.

Al proposito, tra le mete aumentano quelle arabe. Viaggi che appaiono estranei al deejay, ancorato all’operazione di conquista delle consolle dei locali milanesi. Non importa quali, basta salire in postazione. Gioia, rivincita per chi dubitava che ci sarebbe riuscito, anche se è un nome ancora non di grosso livello. 

Nuove verifiche col personale dell’«Apophis» non hanno generato dettagli utili al rapporto tra il ragazzo e la medesima discoteca. Acclarato il legame con Leonardo La Russa, che risalirebbe negli anni; il circuito delle amiche della presunta vittima negherebbe di averlo mai incontrato in precedenza, il che però non risulterebbe veritiero in virtù delle incrociate conoscenze fra i ventenni. E pure fra gli adulti. Ci riferiscono infatti di riunioni di famiglia e di incontri collegiali negli uffici di avvocati «influenti», in preparazione dell’iter giudiziario. Con una rara, maniacale attenzione a ogni riga uscita sui giornali, anzi a ogni singola parola.

Estratto dell’articolo di Federica Zaniboni per “il Messaggero” l'11 luglio 2023. 

Da una parte, una ragazza di 22 anni che si è svegliata «nuda» e senza ricordi a casa del presidente del Senato. Dall'altra, il figlio della seconda carica dello Stato, accusato di violenza sessuale. 

Una nottata che al momento sembra avvolta nel mistero e che la giovane dovrà ricostruire oggi davanti ai pm milanesi. Finito all'improvviso al centro di un «processo mediatico», Leonardo Apache La Russa, terzogenito di Ignazio, conferma tramite il suo legale «l'estraneità ad ogni ipotesi delittuosa», ma al momento resta l'unico indagato […]

Intanto continuano le ricerche […]. Chiunque abbia incrociato quella sera gli ex compagni di scuola all'Apophis Club, dove i due si sarebbero incontrati per caso, potrà infatti fornire dettagli sulle condizioni psicofisiche della ragazza, che ha riferito in sede di denuncia di avere perso lucidità dopo avere bevuto un drink insieme a Leonardo. 

La versione della 22enne su quanto accaduto nella notte tra il 18 e il 19 maggio, al momento sembrerebbe essere l'unica. Di certo vi sono tre amiche che hanno trascorso con lei la serata nell'esclusivo club in centro a Milano e che […] le avrebbero detto di averla vista confusa dopo avere bevuto quel cocktail. Un'importante testimonianza, però, potrà fornirla anche il deejay che fino ad adesso è stato conosciuto soltanto con il nome Nico, finalmente identificato. 

La 22enne - sempre secondo il suo racconto - la mattina seguente avrebbe saputo dallo stesso Leonardo di aver avuto rapporti sessuali con lui e anche con l'amico Nico, che in quel momento dormiva in un'altra stanza. Rapporti di cui lei non conservava alcun ricordo.

Vi è poi quello che per l'avvocato Stefano Benvenuto, legale della giovane, resta il «testimone primario» ed è proprio il presidente del Senato Ignazio La Russa, che la mattina del 19 maggio ha incrociato la ragazza nel letto del figlio. 

Nel frattempo l'avvocato continua la ricerca di eventuali persone coinvolte nella movida di Milano e Roma, dove potrebbero trovarsi altri ragazzi in grado contribuire a ricostruire la vicenda.

«Il desiderio mio e del mio assistito è che la sua vicenda cessi di costituire un processo mediatico - ha fatto sapere il difensore di Apache Adriano Bazzoni -, nel pieno e convinto rispetto dell'attività degli inquirenti». Diverse testate giornalistiche e televisive «mi hanno chiesto interviste che ho cortesemente rifiutato, perché formato deontologicamente a quanto sottolineato domenica dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Milano sui doveri degli iscritti. A tali doveri - ha aggiunto - mi attengo da sempre, nello stile mutuato anche dallo Studio La Russa, dove ho lavorato per molti anni in passato».  […]

Natalia Aspesi insulta La Russa: "Pochi capelli e sempre unti, fa paura ai bimbi". Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 12 luglio 2023

Stupro, violenza, sessismo. Parole tornate purtroppo al centro del dibattito pubblico. E che hanno scatenato un appassionato confronto tra donne. Che, per fortuna, è andato anche oltre le accuse di Elly Schlein sulla «destra patriarcale» e sul «maschilismo tossico». Ieri, sulla Stampa, si sono “scontrate” Lucetta Scaraffia e Annalisa Cuzzocrea. «Uomini e donne sono diversi», ha scritto la Scaraffia, «le ragazze sono oggettivamente più in pericolo di subire una violenza. Non è piacevole, lo so, dover ammettere che girare sole a notte fonda, magari non troppo sobrie, candida una ragazza a diventare vittima di qualche giovanotto, magari anche lui non troppo sobrio. Ma è così, c’è poco da fare.  È impossibile creare una società in cui le giovani donne possano muoversi con la stessa libertà dei giovani maschi. Si tratta semplicemente di fare i conti con la realtà, il resto è utopia. Le ragazze dovrebbero tenerlo bene a mente, e i genitori, magari, ricordarglielo la sera quando escono».

Queste parole non sono piaciute per niente alla Cuzzocrea. «Non voglio», ha replicato, «abusare di termini come vittimizzazione secondaria. La legge dice chiaramente che non si può approfittare sessualmente di una persona che è in “condizioni di inferiorità psichica o fisica”. Se non c’è il consenso, è stupro. Bisogna partire da questo, non invertire il paradigma. Partire cioè da quel che dobbiamo insegnare ai nostri figli maschi: se ti ritrovi con una ragazza che non ha coscienza di quel che fa, per quanto possa piacerti, la porti a casa sua, non tua. È perbenismo? È utopia? Io penso siano le basi del vivere civile». Già, ma nelle due posizioni c’è una differenza sostanziale: la Scaraffia vuole insegnare alle donne come difendersi da sole, mentre nel ragionamento della Cuzzocrea la donna finisce paradossalmente per mettere ancora il suo destino nelle mani dei maschi, sperando di incontrarne uno che la riaccompagni a casa se non dovesse più essere in sé. Certo, dovrebbero farlo tutti, ma come si può escludere di trovare invece qualcuno con delle brutte intenzioni?

Più “radicale” il pensiero della scrittrice Dacia Maraini. Che a Coffee Break, su La7, rispondendo al giornalista Marco Ventura, secondo cui lo stupro ai danni della ragazza che ha denunciato il figlio di Ignazio La Russa «è tutto da dimostrare», ha commentato: «Non capisco perché se io denuncio di essere stata rapinata, nessuno mette in dubbio che sia vero e nessuno pensa che io abbia avuto piacere nel subire una rapina. E invece nello stupro bisogna dimostrare che non si è stati consenzienti. Questa è una cosa gravissima». È vero che, come ha detto la Maraini, dopo la denuncia la donna è «costretta ad affrontare situazioni sgradevolissime», ma qual è l’alternativa? Considerare ogni denuncia vera a prescindere? Così, però, le persone accusate non avrebbero più la possibilità di difendersi... E chiudiamo con Natalia Aspesi, che su Repubblica ha definito Ignazio La Russa «un uomo con un’aria e una voce da far paura, e pochi capelli sempre unti e spettinati, che se li vede un bambino diventa subito comunista». Insomma, se non lo avesse scritto con la tipica ironia della Aspesi, se non lo avesse scritto su Repubblica e se non lo avesse scritto riferendosi a un uomo di destra, qualcuno, magari del Pd, avrebbe gridato al body shaming... 

Caso La Russa, qualcuno ricorda cosa vuol dire garantismo? Piccolo promemoria per chi ritiene che il doveroso garantismo nei confronti del figlio della seconda carica dello Stato vada sostenuto cancellando qualsiasi garanzia per la ragazza che lo ha denunciato. Simona Musco su Il Dubbio il 10 luglio 2023

«Fratelli d’Italia chiede che ci sia, perché lo riteniamo assolutamente doveroso e necessario, una conferenza di capigruppo affinché si possa insieme esprimere la vicinanza di tutto il Parlamento italiano ad una giovane donna vittima in questo momento anche soltanto dell'arroganza e del sessismo verbale di un leader politico». Correva l’anno 2021, il partito di Giorgia Meloni era all’opposizione. Dai banchi della minoranza Ylenia Lucaselli puntava il dito contro Beppe Grillo, reo di vittimizzazione secondaria nei confronti della giovane che ha denunciato il figlio del comico per violenza sessuale.

Guai a prendersela con la ragazza, insisteva FdI, indignata per quel sessismo che voleva la giovane troppo disinibita, troppo qualcosa, e quindi, comunque, colpevole. Un copione che oggi viene recitato in senso inverso: la 22enne che ha denunciato il figlio del presidente del Senato era fatta di cocaina, quindi è inattendibile. O, come minimo, un filino spudorata, quasi quasi le sta bene. Lo stesso presidente del Senato ha interrogato (sic) il figlio e quindi il processo può dirsi chiuso: il giovane è senz’altro innocente, lei moralmente riprovevole. L’intellighenzia di destra si è subito schierata: era fatta e poi è stata fatta da La Russa, dice un raffinatissimo Filippo Facci, secondo cui il giusto e doveroso garantismo nei confronti del giovane figlio della seconda carica dello Stato va sostenuto cancellando qualsiasi garanzia per la ragazza che lo ha denunciato. Poche ore dopo, sommerso dalle critiche, quella frase se la rimangia: «Non la riscriverei», dice, ma solo perché noi non l’abbiamo capita.

Ma anche i giornali di sinistra non vogliono sfigurare, pubblicando il profilo di La Russa jr in perfetto stile lombrosiano, col sottotesto che lo vuole difficilmente innocente, perché nei testi delle sue canzoni inneggia alle droghe e racconta le donne non proprio come esseri con pari dignità degli uomini. Ci saremmo aspettati anche una didascalia con scritto: guardate che faccia. E immancabili sono le chat che raccontano il dramma interiore, slegato da qualsiasi contesto, da qualsiasi contraddittorio. Non c’è via di mezzo: ci dev’essere comunque un colpevole.

Ed è solo la contingenza a stabilire chi sia: se al potere c’è una forza politica e il presunto colpevole è di quella forza politica allora tutti addosso alla presunta vittima, che all’improvviso si ritrova dall’altro lato della barricata. Per le sue abitudini, per i suoi vestiti - grande classico -, perché è salita in casa di un uomo a notte fonda. Tocca ricontrollare i calendari per essere sicuri di non aver fatto un balzo indietro nel tempo. C’è chi addirittura sostiene che se pubblico dev’essere il nome del presunto colpevole, pubblico dovrebbe essere anche quello della presunta vittima. E al diavolo tutte le norme deontologiche, che in questa storia sono le grandi assenti, sotto qualsiasi punto di vista.

Non sappiamo cosa rimarrà di questa storia: magari, semplicemente, La Russa jr non è colpevole e la ragazza non ha provato ad incastrarlo. Oppure la storia è vera. O chissà: sarà la giustizia a stabilirlo. Ma nel frattempo, di sicuro, per entrambi è arrivata la sentenza. Perché il garantismo, troppo spesso, è solo una parola vuota, anche per chi ogni giorno si appella alla Costituzione. E finora nessuno sembra averne capito davvero il senso.

Vittorio Feltri a valanga su La Russa jr: "Sessismo rovesciato, la ragazza..." Il Tempo il 13 luglio 2023

Una presa di posizione destinata a creare polemiche quella di Vittorio Feltri che in un lungo articolo spiega che oggi "il maschio è la vera vittima del sessismo". Si parla naturalmente dell'indagine a carico di Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa, accusato da una ragazza di violenza sessuale. Una vicenda dai contorni ancora poco chiari e su cui indagano gli inquirenti. Il direttore editoriale di Libero nel suo articolo afferma che il 19enne "è stato accusato da una ragazza di averla stuprata. Può darsi che sia vero, ma il reato va accertato e non solo sospettato su basi fragili". Perché scrive così? Feltri ricorda che "la fanciulla afferma di essere stata drogata. A me risulta che gli stupefacenti vengano assunti volontariamente", e "inoltre la fanciulla in persona si è recata a notte fonda in casa del suo presunto violentatore. Si è spogliata e nuda come un verme si è infilata nel letto del giovanotto. Cosa pensava di fare in quello stato: di recitare il rosario col suo amico? Io a certe stupidaggini non credo", è il commento che chiude l'articolo di Feltri destinato a far discutere dopo le polemiche su Filippo Facci. 

Il tessuto utilizzato per la stampa delle nostre bandiere a vela è un telo nautico 100% poliestere da 120 grammi per metro quadrato, perfetto per assicurare elevata qualità di stampa, lunga durata e ottima resistenza al vento e agli agenti atmosferici. La stampa è monofacciale e viene realizzat... 

In precedenza Feltri afferma che "in tv così come sui giornali divampa la criminalizzazione del genere maschile, che sembra composto da soggetti incapaci di tenere l’uccello nelle mutande e pronti ad approfittare di qualsiasi donna si presenti indifesa alla prima occasione". Una "rappresentazione viziata dalla cultura di sinistra che difende solo i maschi omosessuali", argomenta il direttore che rimarca: "si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Eppure, nei casi di presunto stupro, si è colpevoli soltanto perché una donna si è dichiarata vittima".

Insomma, è un "sessismo rovesciato", commenta Feltri, "se per la parità siamo, e lo siamo tutti, sarebbe ora che il genere femminile si assumesse le sue responsabilità e con questo non intendo sostenere che una ragazza la violenza sessuale se la vada a cercare o se la sia meritata, lungi da me l’esprimere un concetto tanto primitivo e mostruoso. Però converrete che, quantunque l’uso e l’abuso di alcol e droghe da parte della presunta vittima non costituiscano un’attenuante a carico del presunto autore del presunto delitto, bensì un’aggravante, in quanto lo stato di alterazione implica che il presunto reo abbia approfittato della condizione di debolezza altrui, è evidente che, se una ragazza si stordisce introducendo determinate sostanze, sarà più agevole che ella si ritrovi in situazioni quantomeno spiacevoli". Affermare che tutti "i maschi siano tutti porci e le femmine tutte sante" è "semplicistico" e "ipocrita", perché "il diritto non distingue tra maschio e femmina, esiste la persona".

Estratto dell'articolo di Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 12 luglio 2023.

Dopo aver parlato con noi in una pausa dalla lettura di un libro, dice di essere «a disposizione della Procura». È una delle ventenni che, nella denuncia per violenza sessuale presentata dalla coetanea contro Leonardo Apache La Russa, figura quale «testimone». Al momento, una delle quattro «testimoni». Come avvenuto con le precedenti ragazze, il Corriere protegge le identità. Sia le loro sia quelle delle famiglie, indipendentemente da chi siano. 

Iniziamo dall’evento all’interno dell’Apophis che risulta descritto nella chat tra la stessa presunta vittima e una sua amica. In quella chat si raccontava dell’ipotetico versamento di droga nel bicchiere. 

«Quella notte ero nel locale, ma non ho assistito a nessun fatto». Non sarebbe però così sulla droga. In generale. La ragazza afferma con nettezza che «si sa». Cioè, a suo dire si sa che in posti del genere non risulterebbe difficile procurarsi sostanze stupefacenti.

(...)

La ventenne fa capire che un eventuale sistema di circolazione della droga potrebbe essere di un livello differente, più «protetto». Quasi che tutto debba avvenire, sempre beninteso ammesso che avvenga, per mano magari di clienti che introducono dosi e pasticche. Oppure per mano di altri soggetti privi dell’interesse del ballo che accedono con l’unico obiettivo di piazzare dosi e intascare soldi. 

(...)Quanto a La Russa e alla presunta vittima, «conosco entrambi. Tra noi ragazzi ci conosciamo tutti, però non significa che le frequentazioni siano assidue. Le amicizie hanno come collante i canali social e poi si sviluppano di persona quando ci si incrocia in giro».

Cosa può riferirci di entrambi?

«Conosco più lui». E prima di quella notte aveva contezza di comportamenti strani, equivoci, prevaricatori di Leonardo Apache? «No». Senta, l’Apophis che locale è? «Ha aperto da poco. Un club. Piccolo. Musica techno. Come in ogni discoteca, uno sceglie come comportarsi… 

(...)

Estratto da open.online il 12 luglio 2023.

«Quando mi sono svegliata nel suo letto mi sono ritrovata in un luogo sconosciuto. Ho avuto tanta paura». La ragazza che accusa Leonardo La Russa di stupro ha confermato la versione della denuncia nelle tre ore davanti alle pm di Milano Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro. Ha ripercorso le ore tra il 18 e il 19 maggio scorsi. 

Ha raccontato l’inizio della serata all’Apophis. Confermando il blackout dopo i due drink offerti dal figlio del presidente del Senato. E le parole sulla presenza del dj Nico, che nel frattempo è stato identificato. Successivamente, gli investigatori diretti da Marco Calì hanno ascoltato le tre amiche chiamate a testimoniare. Due erano presenti nel locale. Un’altra con cui ha parlato il giorno seguente. Ma ora bisognerà colmare i buchi. In particolare quelle tre ore tra l’uscita dall’Apophis e l’arrivo a casa.

I pm

«Dopo avermi offerto da bere, Leonardo mi ha portato a casa. La mattina dopo mi ha detto di aver avuto un rapporto sessuale con me, ma io non avevo nessun ricordo, non ero nelle condizioni di scegliere cosa fare», è la versione della ragazza riportata oggi da Repubblica. E ancora: «È stato un incubo. Quando mi sono svegliata nel suo letto mi sono ritrovata in un luogo sconosciuto.

Ho avuto tanta paura. Ho preso subito il cellulare e ho chiesto aiuto alle mie amiche». Poi il dialogo con La Russa jr: «La mattina dopo mi ha detto che anche il suo amico aveva avuto un rapporto sessuale con me, ma io non ero cosciente, non ricordavo niente. E non ricordo di averlo visto». Dice anche di non ricordare nulla di quanto successo nel locale e che le è stato raccontato dalle amiche. «La prima immagine che ho avuto è stata il giorno dopo, a casa di La Russa».

Il bacio

Poi c’è la scena del bacio. Prima Leonardo le ha recuperato i vestiti. Poi «era sulla porta, e per farmi uscire mi disse: “Pretendo un bacio, altrimenti non ti faccio uscire”, quindi si avvicinò e mi baciò contro la mia volontà. Non dissi nulla per la paura». Infine, la conferma di aver visto Ignazio La Russa e di aver sentito una voce di donna che poteva essere quella di sua moglie. La ragazza, ex compagna di liceo del terzogenito dell’esponente di Fdi, lo aveva già raccontato nella querela, depositata dal legale Stefano Benvenuto il 29 giugno e arrivata sul tavolo dei magistrati il 3 luglio. 

Le chat tra le ragazze sono state decisive nella ricostruzione: «Amo.. mi sono risvegliata da La Russa, ma che problemi ho… o mi hanno drogata… Non mi ricordo bene, non va bene, faccio troppi casini. Non sono normale, raccontami di ieri. Amo mi sono svegliata qui da lui e non ricordo nulla. Aiuto…». 

Verso il Duomo

La testimone ha spiegato agli investigatori lo stato di euforia dell’amica. Un atteggiamento che l’ha sorpresa. «È stato dopo il drink», ha confermato. L’ha vista l’ultima volta alle 3 mentre correva verso il Duomo. Dice che successivamente si è offerta di accompagnarla alla clinica Mangiagalli. Anche un’altra giovane ha parlato con i pm della vicenda. 

(...)

 Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella per corriere.it il 12 luglio 2023.  

Ha da poco confermato a verbale le sue accuse, quando la ragazza 22 enne milanese che ha denunciato Leonardo La Russa per violenza sessuale rimette insieme i pensieri. Al termine di oltre tre ore di testimonianza e dopo giorni in cui è finita al centro dell’attenzione, decide di dire la sua: «Colpevolizzare una donna che si espone per far valere i suoi diritti è una doppia umiliazione, ancora prima di poter raccontare apertamente la mia versione».

Poco prima delle 11 di ieri raggiunge la Questura per essere sentita come testimone dal pm Rosaria Stagnaro, dall’aggiunto Letizia Mannella che dirige il dipartimento che si occupa dei reati sessuali e dagli uomini della squadra mobile guidata da Marco Calì. È tesa. Le domande non possono che partire dall’inizio della vicenda che l’ha coinvolta. Da quando il 18 maggio ha deciso con una amica di fare «serata» nella discoteca-club Apophis a qualche centinaio di metri dal Duomo dove incontra Leonardo Apache La Russa, il 19 enne terzogenito del presidente del Senato che conosce dal liceo. La giovane aveva già assunto cocaina e due farmaci, uno dei quali è un tranquillante. Risulterà positiva alla cannabis.

(...)

Tra la denuncia, il racconto fatto alla Mangiagalli e la chat è possibile ricostruire quello che secondo le amiche sarebbe accaduto. Tre delle quali sono state ascoltate ieri fino a tarda sera dagli inquirenti per acquisire tutti i possibili elementi che chiariscano cosa è successo dentro e fuori la discoteca fino a casa del presidente del Senato. Come le tre ore di buco nel racconto tra le tre di note, quando l’amica la vede correre fuori dal locale correre verso il Duomo in stato confusionale, e le sei del mattino, ora alla quale sarebbero andati a casa in macchina secondo quanto le dice Leonado La Russa.

Passaggi che gli inquirenti cercheranno di ricostruire anche dalle immagini delle telecamere di sorveglianza, ammesso che a quasi due mesi di distanza le registrazioni non siano state cancellate. La ragazza attraversa un momento difficile: «Una donna non deve avere paura di vivere la sua vita ed essere giudicata prima dei fatti rispetto alle scelte che prende», dichiara al Corriere della Sera tenendo a ringraziare il suo avvocato «per il lavoro che sta facendo anche per le donne che non hanno avuto coraggio». Sfogo comprensibile, come pure non può non esserlo il disagio del giovane che lei accusa, solo espresso in maniera diversa attraverso la scelta del silenzio da parte del suo difensore Adriano Bazzoni. Perché il fatto che la donna che denuncia venga colpevolizzata e finisca vittima due volte non può bastare di per sé a confermare che dica il vero.

E nemmeno si può immaginare che il denunciato, per il solo fatto di essere accusato di violenza sessuale, venga condannato a priori. Di certo la giovane si è assunta una grande responsabilità, di cui le va dato atto, che la espone, se si dovesse provare che ha detto il falso, al rischio di essere accusata di calunnia ai danni del figlio di La Russa, il quale rigetta con sdegno il sospetto di essere stato lui a drogarla e sostiene che tra loro ci sia stato solo un rapporto consensuale.

(ANSA il 12 luglio 2023) I rapporti sessuali non consensuali verranno considerati come stupro. È una delle principali misure contenute nella posizione negoziale del Parlamento europeo approvata in plenaria senza votazione, in vista dell'avvio domani dei negoziati con il Consiglio dell'Ue. In particolare, il Pe chiede che il consenso venga valutato caso per caso e che l'elenco delle circostanze aggravanti includa le situazioni particolari della vittima come gravidanza, disagio psicologico, l'essere vittima di tratta o in strutture per richiedenti asilo.

Il mandato, elaborato dalle commissioni per le libertà civili e per i diritti delle donne, include una definizione di stupro basata sul consenso, norme più severe sulla violenza informatica e un migliore sostegno alle vittime. Nel testo viene chiesto di inserire un numero maggiore di circostanze aggravanti, come i reati che hanno provocato la morte o il suicidio delle vittime, quelli contro una figura pubblica e quelli basati sull'intenzione di preservare o ripristinare "l'onore".

Il mandato include anche norme più severe sulla violenza informatica. Gli eurodeputati chiedono inoltre una definizione ampliata di "materiale intimo" che non può essere condiviso senza consenso, per includere immagini di nudo o video non di natura sessuale e prevenire il fenomeno del 'revenge porn' che dovrebbe essere classificato come molestia informatica. Infine, il sostegno alle vittime. Il Parlamento europeo chiede infine che i Paesi membri garantiscano assistenza legale gratuita alle vittime, in una lingua a loro comprensibile, e raccolgano le prove il più rapidamente possibile grazie a un supporto specializzato. 

«Se non c’è consenso è stupro. Punto. E non conta nulla chi è drogato o ubriaco». «Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali». Parla la giudice Paola Di Nicola Travaglini, già consulente della Commissione sul femminicidio. È anche una questione culturale: «Da millenni il corpo delle donne è un teatro di guerra». Simone Alliva su L'Espresso l'11 luglio 2023.

Lontano da quello di cui si nutre il quotidiano dibattito sui social e in tv. Fuori dalle polemiche del giorno e dai casi quotidiani, per capire come lo Stato italiano affronta la questione dello stupro, una modalità consueta di possesso, una violenza che è un codice di racconto del nostra Paese, bisogna affidarsi a Paola Di Nicola Travaglini, giudice della Corte di Cassazione già consulente giuridica della Commissione parlamentare sul femminicidio. 

L’Italia registra un trend in crescita per le violenze sessuali: dal 2020, anno nel quale si è registrato il dato minore (4.497), l'incremento è stato significativo e si è attestato, nel 2022, a 5.991 eventi (+33% dal 2020). Un fenomeno allarmante che pure ancora oggi viene silenziato, ridotto, minimizzato da prese di posizioni, difese e pregiudizi: aveva bevuto troppo, era salita coscientemente a casa di lui, la deriva della conversazione pende verso il "se l’è cercata": «Da millenni il corpo delle donne è stato un teatro di guerra», specifica a L’Espresso la magistrata, Paola Di Nicola Travaglini e racconta come la voce delle donne venga silenziata anche nei codici che dovrebbero garantire sicurezza ai cittadini. Eppure la questione è molto semplice, ruota intorno alla questione del consenso. Una donna alterata, drogata, ubriaca poco importa: «Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali».

Dottoressa, nel Codice penale la parola “consenso” è assente. Insomma la parola delle donne sul consenso non è mai stata realizzata. Eppure la gran parte delle violenze avvengono senza alcuna minaccia.

«La parola consenso nel codice penale per la violenza sessuale non è prevista. Nel senso che è vista solo dalla parte dell’autore. La condotta della violenza sessuale è centrata sull’autore che commette un atto minaccioso violento o induttivo. Ed è curioso perché invece nella violazione del domicilio (Articolo 614 Codice Penale) è ribaltato, qui il centro della norma è la volontà della vittima: “Chiunque s'introduce nell'abitazione altrui […] contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo […] è punito”. Questo è molto interessante perché proprio in relazione ad un delitto quale la violenza sessuale, in cui l’elemento cruciale è la volontà della vittima, ci si sposta sull’autore. E in un altro reato, di minore gravità, è la volontà che viene declinata». 

E questo come se lo spiega?

«La paura del legislatore e del codice è che si dia alle donne vittime il potere di rappresentare la loro volontà».

È una questione culturale.

«Certo, da millenni il corpo delle donne è stato un teatro di guerra. Nessuno ha mai chiesto alle donne il consenso. Il consenso femminile non appartiene al mondo del diritto nella storia dell’umanità: le donne venivano fatte sposare per evitare le guerre, le regine diventavano mogli per creare alleanze. Il corpo delle donne e l’utilizzo della violenza sessuale è stata sempre una questione politica».

Una questione politica e una questione culturale. Di violenza sessuale se ne parla, ancora male. Come se non avessimo gli strumenti per codificarla. Vorrei prendere un caso comune, che somiglia a molti altri casi, una persona denuncia per stupro un’altra persona. Entrambi però, sia vittima che aggressore erano incoscienti nel momento dell’atto. Si parla ancora di stupro?

«Il codice penale prevede che chi compie atti sessuali, a prescindere da violenza o minaccia, abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, determina un abuso per assenza di consenso. Il delitto di violenza sessuale è composto da due parti: la prima è “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito”. Ad esempio: esco da casa vengo violentata in mezzo alla strada, vado a scuola e il professore con abuso d’autorità compie atti sessuali su di me. La seconda parte dice: anche quando la persona che compie atti sessuali e abusa della condizione di inferiorità. Ad esempio se io abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica, su una persona in sedia a rotelle che non si può muovere, su una persona malata che sta su una corsia ospedaliera in fin di vita, una giovane donna talmente ubriaca che non è in grado di reagire. Basta che il giudice accerti che la vittima fosse in fase di inferiorità fisica o psichica. È previsto come regola base. Poi c’è un’aggravante: è quella che prevede l’aumento di un terzo dalla pena quando la violenza è commessa con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti».

Mi permetta di fare l’avvocato del diavolo: se l'aggressore fosse stato così alterato da non conoscere lo stato di alterazione della vittima?

«La condizione di alterazione o abuso di alcol per il codice penale non rileva quando riguarda l’autore. Perché il codice penale non può dare la licenza di commettere reati a chi consapevolmente si mette in quella condizione. Pensiamo al caso dell’omicidio stradale oppure altri reati. Se una persona si mette alla guida dopo aver assunto droga o alcol, è una bomba a orologeria. Per il codice penale la condizione di sottoposizione a questo tipo di sostanze “non rileva” perché il principio è che lo Stato si deve proteggere e deve proteggere cittadini e cittadine da situazioni che attraverso la riduzione delle capacità di non essere completamente all’erta e presenti a se stessi, condizione che può creare un pericolo per la collettività. Ma le dico di più. Per il codice penale è un’aggravante quando l’autore di un reato si trovi in una situazione abituale. Il caso della ubriachezza abituale e intossicazione da sostanze stupefacenti, determina l’aumento della pena (Articolo 94 del codice penale). L'abitualità è una modalità comportamentale di assumere alcolici in maniera spropositata. Se la donna invece è ubriaca non è in grado di prestare il consenso. Punto. Sostanzialmente si presume l’assenza di consenso nel delitto: non sono messa nella condizione di dare un consenso libero, autonomo e non condizionato».

Mi scusi se insisto: l’aggressore potrebbe non essere cosciente dello stato dell’altra persona se entrambi sono ubriachi.

«Un adulto se ne accorgerebbe. Questa cosa che gli uomini ritengono di essere confusi dal consenso o non consenso è ancora una volta una vittimizzazione secondaria. Perché io sto parlando di un reato. Io devo accertare se c’è consenso della vittima, non se lo hai capito o meno. Come scrive la Cassazione da ultimo in una sentenza di aprile 2023 “il dissenso è sempre presunto, salva prova contraria”. Pensi al caso della rapina, lei tutte queste domande oggi non me le farebbe».

Dice molto sullo stato culturale del Paese.

«Invertiamo la logica solo per questi reati. Se si ha di fronte una ragazza o un ragazzo che non è in grado di prestare il proprio consenso, non ci si può avvicinare con richieste sessuali».

Andrebbe riformato questo codice penale o ci sono sentenze che ci aprono la strada?

«La Corte di Cassazione da anni ritiene che il consenso debba essere libero e prestato in modo inequivoco. Quindi in realtà la magistratura ha fatto un’operazione interpretativa che non richiederebbe un intervento legislativo. Però molti giudici questo orientamento pacifico della Corte o non lo conoscono o non lo seguono. Se non lo scriviamo in modo chiaro ognuno andrà per la sua strada. Ricordo inoltre che la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia, all’articolo 36 parla di "atto sessuale non consensuale". Il consenso è l’elemento cardine, sarebbe opportuno modificare il codice penale perché avere una legge che lo scrive in modo chiaro, vuol dire che il Parlamento si assume la responsabilità di dire che il consenso delle donne è il perno della norma penale. I processi durerebbero un minuto: hai prestato il consenso come richiede la norma? No. Perfetto. Poi si verifica il resto. Il consenso è cosa delicata e complessa ma semplice da accertare: basta chiedere».

Estratto dell’articolo di Federica Zaniboni per “il Messaggero” sabato 15 luglio 2023.

[…] tra chi è stato chiamato a rispondere alle domande di inquirenti e investigatori, spunta un primo racconto che apparirebbe in contrasto con la denuncia presentata dalla ragazza di 22 anni che accusa l'ex compagno di scuola [Leonardo La Russa]. Nonostante lei stessa abbia dichiarato di non avere alcun ricordo delle ore trascorse nella discoteca di Milano, una conoscente ha spiegato che non sembrava «particolarmente alterata». 

L'amica della 22enne che era con lei nel locale, però, la mattina seguente le aveva scritto in chat di averla vista perdere lucidità dopo avere bevuto un paio di drink. Da qui, il sospetto che il terzogenito del parlamentare di Fratelli d'Italia possa averla «drogata» prima di violentarla a casa sua a fine serata. Dagli esami a cui è stata sottoposta alla Clinica Mangiagalli il giorno dopo, è risultata positiva sia alla cocaina che alla cannabis e alle benzodiazepine.

[…] È dunque fondamentale […] raccogliere le testimonianze di quante più persone possibili per chiarire, tra gli altri aspetti, in quali condizioni fosse la giovane quella notte. Oltre a tre amiche di lei, sono già stati ascoltati anche la madre e il titolare dell'Apophis, e alcuni ragazzi che potrebbero avere visto o sapere qualcosa. 

Intanto, nel cellulare di Leonardo verranno cercati eventuali contatti avuti a partire dal 19 maggio, quando la presunta vittima si è svegliata a casa La Russa senza sapere cosa fosse accaduto. Lei stessa, in sede di denuncia, aveva dichiarato che Apache aveva tentato di chiamarla su Instagram il giorno dopo, ma lei non aveva risposto «per paura».  […]

Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella per corriere.it sabato 15 luglio 2023.

La Procura di Milano ha sequestrato il telefono cellulare di Leonardo Apache La Russa [...]. Non è stata, invece, sequestrata la sim dell’apparecchio. 

Il decreto di sequestro è stato notificato nel tardo pomeriggio di ieri allo stesso Leonardo La Russa che poi, accompagnato dalla madre e dall’avvocato Adriano Bazzoni, si è presentato negli uffici della Squadra mobile e ha consegnato il telefono dopo averlo recuperato a casa. 

Il cellulare è stato sequestrato perché [...] era in «uso personale ed esclusivo» al ragazzo e, quindi, potrebbe contenere nella sua memoria elementi utili alle indagini, come foto, traffico Internet e messaggi. Tra cui la chiamata via Instagram che il ragazzo, il giorno dopo la presunta violenza, avrebbe fatto alla 22enne la quale, come lei stessa ha dichiarato, non avrebbe risposto per paura.

[...] la sim [...] non è stata toccata perché è intestata allo studio legale associato tra i cui avvocati c’è anche un parlamentare, cioè il padre, Ignazio La Russa, presidente del Senato. Se dovesse essere necessario acquisire sim o tabulati telefonici, la Procura chiederà l’autorizzazione al Senato prevista dall'articolo 68 della Costituzione. [...]

Estratto dell’articolo di Andrea Siravo per “La Stampa” sabato 15 luglio 2023. 

[...] Sono serviti giorni di studio per venire a capo del nodo giuridico attorno al numero di telefono associato allo smartphone che risulta intestato allo studio legale del padre. Alla fine in procura è stato valutato troppo lungo e dispendioso l'iter della richiesta alla giunta delle autorizzazioni del Senato per avere anche la scheda.

Ieri, all'ora di pranzo, sotto lo studio a due passi da Palazzo di Giustizia, Ignazio La Russa[…]  è stato di poche parole: «Sono sereno. Della vicenda del telefono se ne occupa l'avvocato Adriano Bazzoni. Chiedete a lui. Mi va dato atto che su questa cosa non ho più detto una parola». 

 A rompere, invece, un silenzio che si prolungava da giorni è stato il suo staff con una lunga nota. «Non risulta più tollerabile la condotta di chi si sostituisce ai pm con pretese di indagine e richieste istruttorie». Tuttavia, per «tutelare l'onorabilità» della sua famiglia dalla «speculazione politica» – pur confermando di avere «piena fiducia nell'operato dei Magistrati della Procura di Milano» – la seconda carica dello Stato «si è vista costretta» a incaricare un altro legale, l'avvocato Vinicio Nardo […] per raccogliere «tutti gli elementi che da giorni esulano dal normale esercizio del diritto di cronaca e di critica». 

Un attacco al mondo dell'informazione tacciato di aver ripetutamente pubblicato «le foto di un altro figlio del Presidente, col nome del fratello, nonché ricostruzioni artefatte a fini suggestivi della vita giovanile dei fratelli La Russa e dello stesso Leonardo (definito' "trapper'' per avere messo in rete solo nell'anno 2019, due canzoni col testo non suo, mentre è ormai al terzo anno di università)». Ma anche i talk show che hanno ospitato «esponenti privi di ogni conoscenza dei fatti ma forti delle loro convinzioni ideologiche […]». C'è poi «l'operato delle associazioni di sinistra che affiggono manifesti e preannunciano flash-mob politici e diffamatori». Un riferimento ai poster incollati la scorsa notte in giro per Milano […]

Estratto dell’articolo di Davide Milosa e Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” sabato 15 luglio 2023.

[…] Ieri, prima che Il Fatto desse la notizia […], fonti della Procura confermavano di volere arrivare in modo rapido alla chiusura del cerchio. Non rispetto all’indagine, ma alla possibilità di sequestrare il telefono. Ipotizzando anche una richiesta alla Giunta per l’autorizzazione a procedere del Senato, come stabilito dalla carta costituzionale. Ora il sequestro c’è stato.

[…] Secondo alcuni giuristi l’articolo 68 della Costituzione non poteva essere applicato al caso specifico, per un motivo: la consapevolezza che quel telefonino […] era in un uso al figlio e non al politico. E dunque il sequestro sarebbe possibile. Anche perchè altrimenti si potrebbe pensare che se un parlamentare decidesse di acquistare dieci schede sim e distribuirle a suo piacere ci si ritroverebbe di fronte a un’immunità diffusa. 

[…] Detto questo, i punti sul caso, anche dopo il sequestro sono vari. […] A partire, ad esempio, dalla scorta del presidente, presente nella notte tra il 18 e il 19 maggio davanti alla sua casa, dove vive Leonardo Apache. In quella serata in un club di via Merlo a Milano va in scena una serata. La presunta vittima […] incontra il figlio del presidente del Senato. Così dice nella querela, confermata anche davanti ai pm e alla Squadra mobile. 

Qui, spiega, lui le offre un drink. Dopodiché nulla ricorda. Se non, per quello che le direbbe il ragazzo, di essere rientrata alle 6 del 19 in casa La Russa. Si legge nella denuncia nella parte in cui la ragazza riferisce le parole del ragazzo: “Siamo venuti qui dopo la discoteca, con la mia macchina, mi confermò che sia lui e sia il suo amico avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa”. 

Per questo, allo stato, sarebbe molto utile interrogare la scorta del presidente. E per due motivi: il primo, capire se la ragazza fosse realmente in stato confusionale […], il secondo per capire se realmente La Russa jr in auto con lei e un amico è rientrato alle 6 […]. L’amico resta poi forse la pistola fumante. Proprio lui, tale Nico - che secondo la querela avrebbe abusato della 22enne - al momento non risulta ancora identificato. Un dato rilevante perché se lo fosse potrebbe essere indagato, anche a sua tutela, modificando il reato in violenza di gruppo.

Estratto dell’articolo di Pier Luigi Pisa per repubblica.it sabato 15 luglio 2023.

Cosa è possibile scoprire in un telefono se manca la Sim? È quello che tutti si domandando dopo il sequestro - da parte della procura di Milano - del cellulare di Leonardo La Russa. 

Nell'era degli smartphone, il ruolo delle Sim è ampiamente sopravvalutato. Quella piccola scheda a cui è associato il nostro numero di telefono, […] che presto scomparirà in favore delle eSim, le schede virtuali, consente a un telefono di usare la rete cellulare per effettuare chiamate e inviare Sms. E dispone di una piccola memoria su cui salvare altri numeri di telefono. 

In passato, […] si usava in effetti memorizzare i propri contatti sulla Sim, che faceva anche da "rubrica". Quando cambiavamo telefono, bastava semplicemente passare la Sim dal vecchio al nuovo. I numeri, in fondo, erano tutto ciò di cui avevamo bisogno.

Oggi, invece, è più facile che la nostra rubrica telefonica si trovi sul dispositivo che usiamo. Perché è qui che i nuovi numeri vengono memorizzati di default […] . Col passare degli anni, infatti, le persone hanno iniziato a trasferire da un telefono all'altro non solo i loro numeri, ma anche fotografie, video, indirizzi e-mail e cronologia delle chat di app di messaggistica istantanea come WhatsApp. La rubrica telefonica, insomma, è diventata semplicemente una parte dell'archivio digitale che ci accompagna da un dispositivo all'altro. Lo smartphone, insomma, sa tutto di noi, Sim o non Sim.

[...] Sia WhatsApp sia Telegram continuano a funzionare[...]. […] La Sim […] è cruciale infatti solo in fase di registrazione al servizio. In seguito non è più richiesta. Se venisse a mancare, sarebbe comunque possibile accedere alle proprie conversazioni, comprese quelle passate. E si potrebbe effettuare qualsiasi operazione: dalla ricerca di messaggi - usando una parola chiave - a quella di contenuti multimediali come foto e video. 

Anche le app più popolari, come Instagram, Facebook, TikTok e Twitter resterebbero accessibili nel caso in cui una Sim venisse estratta dal telefono. In questo caso sarebbe sufficiente connettersi a una rete wi-fi. […] 

Senza Sim inoltre, se si usa un telefono Android, si potrebbe comunque utilizzare Google Maps per rivedere tutti gli spostamenti che abbiamo fatto in passato. Questa particolare funzione, attiva quando si abilita la cronologia delle posizioni nelle impostazioni, permette di fare un salto indietro nel tempo e di ricordare quali luoghi abbiamo visitato in un determinato giorno. […]

Estratto dell’articolo di Daniele Alberti per repubblica.it sabato 15 luglio 2023. 

Dopo l'affissione dei manifesti vicino ai locali notturni di corso Como, accanto allo studio legale di Porta Romana del presidente del Senato, Ignazio La Russa con la scritta "El violador eres tu", il movimento si dà appuntamento alle 18.30 in piazza 25 aprile per un presidio e un flash mob con la parole d'ordine: "Puntiamo il dito contro i violadores!".

Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” sabato 15 luglio 2023. 

Cronaca di una giornata surreale, che ha avuto perlomeno il merito di chiarire dove si aggirino oggi istinti autoritari. Ieri mattina Milano si è svegliata con qualche poster in più, affisso dalle attiviste di Non una di Meno […]. 

I manifesti sono comparsi sotto lo studio legale dei La Russa in Porta Romana, vicino ai locali notturni di corso Como e anche all’Apophis club invia Merlo, dove Leonardo Apache e la ragazza che lo ha denunciato per stupro si sono incontrati. In primo piano ci sono il volto di Leonardo e quello del padre Ignazio, entrambi coperti da scritte incollate in stile anni ’70 […] 

La più evidente recita: «El violador eres tu», lo stupratore sei tu. Non si capisce subito se la sentenza teppista si rivolga al ragazzo o per ipotetica catena della colpa anche al padre, quel che si capisce è che le signore non sono esattamente ispirate dai principi garantisti di Cesare Beccaria. 

Infatti il post con cui poi rivendicano l’eroica azione esordisce così: «Sì tu, La Russa junior, che hai stuprato una ragazza.  Fare sesso con una persona che non è presente a se stessa, che non è in grado di parlare, è stupro». 

Evidentemente, quella sera […] nella camera in questione […] c’era anche un’esponente di Non una di Meno: non si spiegano altrimenti le certezze in […] la cui acquisizione in teoria è il motivo per cui si tiene quel noioso dettaglio chiamato processo.

Ma non salta soltanto la presunzione d’innocenza, bensì la stessa responsabilità individuale: «Sì tu La Russa padre, perché violador è un presidente del Senato che colpevolizza una ragazza stuprata». Conta nulla che lui, in quello che è stato indubbiamente un eccesso istituzionalmente sgrammaticato di impeto paterno, abbia comunque detto il contrario: «Non accuso la ragazza, credo a mio figlio».

Quello che conta è il teorema, e il teorema fila alla perfezione: politico di destra usa «il suo potere istituzionale e di maschio bianco, etero, ricco» per proteggere «uno dei nostri bianchissimi giovani» (giuro, nel comunicato successivo queste talebane usano il superlativo cromatico per sottolineare una delle colpe principali dei protagonisti, la pigmentazione ideologicamente sbagliata). 

Ma il veleno squadrista (perché di questo si tratta) sta in coda al post. «Vogliamo cacciare La Russa da ogni incarico pubblico». L’avversario non esiste, esiste un nemico che non può fare politica in nessun modo, non può ricoprire alcun ruolo né dare rappresentanza alle proprie idee.

È già fortunato, Ignazio, che non propongano di spedirlo in Siberia. «Vogliamo chiusi i locali della famiglia e lo studio legale». Il nemico non può nemmeno esercitare la propria libertà economica, non può lavorare né guadagnare, come l’ebreo sotto il Reich o il kulako sotto il Soviet. 

«Vogliamo requisiti i loro soldi e devoluti ai centri anti -violenza». Qui siamo all’esproprio puro (non più proletario, ma femminista-chic), […], in un’allucinata caricatura matriarcale del totalitarismo. La stessa che è andata in scena ieri sera in piazza XXV aprile  […] al «presidio contro il sistema di potere economico e patriarcale» incarnato dai La Russa, dove le Erinni dell’ultra-femminismo hanno ripetuto tutte le follie di cui sopra, Non una di Meno. 

Il “dress code” di convocazione  […] consigliava «bende nere» da mettere sugli occhi. Forse un lapsus freudiano, l’ammissione involontaria che no, il fascismo in questa storia non sta a casa La Russa.

Leonardo La Russa insultato da Repubblica: "Paffuto, impacciato. E quel fisico..." Ignazio Stagno su Libero Quotidiano il 15 luglio 2023

“Chi sa cos’è il body shaming alzi la mano”. Così Repubblica ci spiegava la derisione dell’aspetto fisico altrui a giugno del 2020. Sono passati fiumi di inchiostro da parte del quotidiano progressista in tutti questi anni che hanno (giustamente) sottolineato l’importanza di mettere un freno al body shaming capace di provocare ansia e stress nelle vittime, come ha rivelato uno studio canadese. 

Ma a quanto pare la regola non vale se di mezzo c’è il figlio di Ignazio La Russa, Leonardo Apache. Paolo Berizzi, su Repubblica, lo presenta così: «La storia di “Larus”, come si fa chiamare Leonardo Apache da quando ha iniziato a rappare, è quella di un adolescente paffuto e un po’ impacciato; non uno con il fisico del ruolo, diciamo». Commenti e opinioni sull’aspetto fisico di questo 19enne, finito sui giornali per una accusa di stupro, che sconfessano tutte le battaglie di Repubblica contro il body shaming. Ma su questo filone dell’insulto che vale solo se nel mirino c’è qualcuno di destra o figlio di un esponente conservatore, bisogna anche registrare le parole di Natalia Aspesi che ha così parlato del presidente del Senato mentre si indignava per le parole di Ignazio La Russa sulla presunta vittima dello stupro del figlio: «Signora Meloni c’era davvero bisogno che mettesse sulla poltrona della seconda carica dello Stato un uomo con una voce da far paura e con pochi capelli sempre unti e spettinati», spiega la penna di Repubblica. Ma non chiamatelo body shaming.

E l’insulto, il dileggio sul fisico dell’avversario politico è abbastanza frequentato dalle parti progressiste. Basti pensare alle parole usate per attaccare l’ex ministro (oggi presidente del Cnel) Renato Brunetta: “Energumeno tascabile” per Massimo D’Alema, “mini-ministro” per Furio Colombo, “una seggiola” per Dario Fo, “sua altezza” per Marco Travaglio. E che dire poi degli attacchi reiterati al Cavaliere. Bersaglio preferito soprattutto da Beppe Grillo che lo definì uno “psiconano”. E Giuliano Ferrara? Sempre da Grillo venne etichettato come un «container di merda liquida». E ora gli eredi di Beppe, con la pochette, stringono accordi con la sinistra che si è sempre intestata il rispetto verso l’avversario e quel bon ton delle parole che resta solo teoria sugli scaffali. Inutile poi ricordare quante volte sia stata offesa e insultata Giorgia Meloni per la sua voce: «Urla come una pescivendola», disse Mr.

Alan Friedman. Ma negli anni passati a finire nel mirino dei maestrini di sinistra fu anche Mara Carfagna, insultata (un paradosso) per la sua bellezza. L’attore Neri Marcorè, a Ballarò scivolò su una pietosa gaffe: «Meno male che c’è la Carfagna, che qualcosa ci tira su». E lei diede una lezione a tutti, presente in studio chiese e ottenne le scuse dell’attore e anche del conduttore Giovanni Floris. Insomma chi dà lezioni su come bandire il body shaming alla fine è il primo a sferrare colpi bassi. Chissà seRepubblicaporgerà mai le sue scuse al giovane La Russa. Staremo a vedere. Intanto magari torna utile ricordare quanto spiegava proprio il quotidiano diretto da Maurizio Molinari qualche tempo fa: «Depressione, disturbi dell’alimentazione e autolesionismo possono colpire chi è ferito nella propria immagine, ma lo stress che ne deriva può portare a un incremento cronico della produzione di cortisolo, l’ormone dello stress, con conseguente aumento del rischio di disturbi cardiovascolari e metabolici». Memoria corta? O forse quando l'obiettivo è ghiotto le valvole dell'odio si aprono senza freni? Il dubbio resta. 

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” domenica 16 luglio 2023.

Un minuscolo rettangolino di plastica rischia di incenerire il pochissimo che resta di uno dei rarissimi pregi della destra postfascista: quello che i fessi chiamano “giustizialismo” e che invece è (anzi era) solo legalitarismo. Quello che portò il giovane Borsellino a iscriversi al Fronte della Gioventù e a frequentarne le feste fino al 1990. 

Quello che nel 1992 portò il Msi dalla parte del pool Mani Pulite e contro l'immunità parlamentare (abolita nel '93 a furor di popolo su pressione soprattutto di Lega e Msi). Quello che, dopo troppi compromessi, tornò in mente a Fini nel 2010, quando ruppe con B. sulla lotta alla mafia e all'impunità. 

Il rettangolino di plastica è la scheda sim dello smartphone consegnato l’altroieri da Leonardo Apache La Russa ai pm milanesi […]. La sim è intestata alla società che controlla lo studio legale La Russa, […] di cui il presidente del Senato è azionista.

Con un’interpretazione molto generosa dell'articolo 68 della Costituzione, la Procura ha ritenuto che la sim […] non potesse essere sequestrata senza il permesso del Senato, anche se la usava solo Leonardo. 

E anche se l'immunità rimasta […] copre solo i parlamentari e solo per intercettazioni, misure cautelari e processi per opinioni e voti espressi nell’esercizio delle funzioni: non gli oggetti a essi riferibili in uso ad altri. Altrimenti che si fa se un eletto compra un’auto e la presta a qualcuno che investe un passante e lo ammazza o fa una rapina in banca? 

[...] Ma ora, se scopriranno che sullo smartphone manca qualcosa di utile all’indagine che può essere memorizzato solo sulla sim, chiederanno al Senato l'autorizzazione a sequestrarla. E ad acquisire chat su (o con) Ignazio e tabulati telefonici.

Quindi è possibile che il Senato, trasformato in Fort Apache e presieduto dal padre dell'indagato, debba presto votare su una o più richieste dei pm che indagano sul figlio. Con lunga scia di imbarazzi per Meloni e FdI, ma anche per Lega e FI. Sarà dura intonare il coretto della persecuzione giudiziaria, trattandosi di verificare la denuncia di una ragazza che sostiene di essere stata stuprata. 

Non da un parlamentare sacro e inviolabile, ma da un cittadino comune. Che farà a quel punto il partito che fino all’altroieri, per bocca di Meloni, Santanchè e pure La Russa, invocava per gli stupratori 40 anni di galera e la castrazione chimica? Riusciranno i nostri eroi a mettersi nei guai da soli un'altra volta, o già oggi La Russa padre e figlio correranno in Procura per cacciare la sim?

Estratto dell’articolo di Maddalena Loy per “la Verità” il 17 luglio 2023.

Cocaina e cannabis, ma anche antidepressivi (Fluoxetina), calmanti (Quetiapina), sonniferi (Stilnox) e benzodiazepine (Xanax): sono questi gli psicofarmaci assunti dalla ragazza che ha accusato Leonardo La Russa di violenza sessuale. Caso isolato? Affatto: gli ultimi dati disponibili sul consumo di psicofarmaci tra i ragazzi sono sempre più allarmanti.

Nell’ultimo anno quasi 300.000 adolescenti ne hanno fatto uso senza prescrizione medica. Secondo uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), il 10,8% della popolazione tra i 15 e i 19 anni, un giovane su dieci, ricorre a psicofarmaci per «uso ricreativo». 

Non sono, dunque, medicine prescritte dal medico per curare patologie specifiche o disturbi emotivi, ma «psicofarmaci dello sballo» dedicati ai momenti di evasione e spesso consumati insieme con alcool o cannabis per amplificarne gli effetti. I giovani li consumano anche per aumentare le performance scolastiche e la soglia di attenzione, migliorare l’aspetto fisico e l’autostima, sentirsi in forma e ottimizzare sonno e umore.

[…] È quasi raddoppiato anche il numero di adolescenti che ne fanno un uso abituale: dall’1,1% del 2021 all’1,9% dello scorso anno. Una vera dipendenza, associata anche ad altre sostanze psicoattive (tabacco, energy drink, benzodiazepine e sostanze stupefacenti) che favoriscono lo sviluppo di comportamenti pericolosi. La tipologia di psicofarmaci senza prescrizione medica maggiormente utilizzata è quella dei farmaci per dormire (5%), seguita da quelli per l’umore e le diete (1,7%) e dalle medicine per l’aumento dell’attenzione (1,2%). Ma dove e come si riforniscono i ragazzi?

Secondo lo studio, il 42% di loro dichiara di rifornirsi dall’armadietto dei medicinali di casa. Un problema tutto italiano, poiché in molti Paesi europei i medicinali sono venduti esattamente secondo ricetta medica: su prescrizione di 10 compresse, il farmacista vende blister da 10. In Italia, invece, anche se il medico prescrive 10 compresse, le farmacie vendono di default scatole da 20 o 40 compresse. Risultato, le confezioni spesso restano nell’armadietto quasi piene, fino a scadenza.

Il 28% dei giovani le cerca anche su Internet: i ragazzi comprano online psicofarmaci e sciroppi a base di codeina o antistaminici e li mischiano con bevande energetiche come la taurina per preparare «cocktail da sballo» come il purple syrup. Il 22%, infine, li trova «per strada», dove si è sviluppato una sorta di mercato nero che sfugge al controllo di adulti e medici.

Una conferma alle dinamiche di approvvigionamento degli psicofarmaci da parte degli adolescenti era già emersa nel corso del processo per lo stupro di Capodanno 2020 a Roma, nel quartiere di Primavalle. Nelle chat diffuse in aula, una delle ragazzine, prima di recarsi alla festa, comunicava alle amiche di non trovare il Rivotril (farmaco benzodiazepinico). 

L’amica quattordicenne la rassicurava: «Le pasticche di Xanax e Rivotril ve le regalo, tanto è Capodanno. Le ho portate da casa, senza dire altro».  […]

(ANSA il 18 luglio 2023) – E' stato identificato ieri sera da investigatori e inquirenti l'amico di Leonardo Apache La Russa, anche dj della serata del 18 maggio scorso, che sarebbe stato in casa La Russa la mattina successiva in cui la 22enne, come ha denunciato, avrebbe subito abusi dal figlio del presidente del Senato Ignazio e anche dall'altro giovane, sempre stando alla sua denuncia.

Stando a quanto anticipato da 'La Verità', si tratta di un ragazzo di 24 anni. Fonti giudiziarie hanno confermato che ieri sera si è arrivati alla nuova identificazione. A quanto si è saputo, il giovane potrebbe essere presto iscritto nel registro degli indagati. 

La 22enne nella denuncia ha scritto di avere "ricordi della notte vaghi in quanto drogata. L'unico dato certo che posso riferire - ha messo nero su bianco - è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che io fossi nelle condizioni tali da poter scegliere" e poi "ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali, lui e l'amico, sempre a mia insaputa". 

Nell'anticipazione de 'La Verità' di oggi è stato anche indicato il nome del dj. Da fonti giudiziarie sono arrivate conferme sul punto, anche se allo stato non risulta indagato. La ragazza aveva fatto riferimento a tale "Nico" e anche per questo negli ultimi giorni investigatori e inquirenti hanno avuto problemi ad identificare l'altro giovane che avrebbe passato La notte, dopo La serata in discoteca, nella casa della famiglia La Russa.

Nelle scorse ore, nelle indagini condotte dalla Squadra mobile e coordinate dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro, si è arrivati alla precisa identificazione. Anche grazie ad una serie di elementi raccolti nell'inchiesta, tra cui le testimonianze che proseguono da giorni, anche in relazione a quella serata nel locale esclusivo nel cuore di Milano, La discoteca Apophis. 

Da quanto si è appreso, è probabile che gli inquirenti, anche a garanzia per gli accertamenti, nelle prossime ore iscrivano il giovane nel registro degli indagati. Da valutare se contestare anche a lui l'accusa di violenza sessuale o a entrambi quella di violenza sessuale di gruppo, perché le indagini dovranno chiarire, oltre che si ci siano stati o meno gli abusi nei confronti della ragazza in stato di incoscienza, come lei ha sostenuto, anche se siano avvenuti nel caso in fasi diverse.

Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara per “La Verità” il 18 luglio 2023. 

Continua la caccia al «secondo uomo» che ha dormito a casa di Leonardo Apache La Russa e che avrebbe abusato insieme con il figlio del presidente del Senato della ventiduenne conosciuta quella notte. Nei giorni scorsi la seconda carica della Stato aveva spiegato che nell’appartamento «erano ospiti altri due amici» di suo figlio e che il contesto era sereno, trattandosi di «italiani che studiano e lavorano a Londra».

Quanto al ragazzo presente in casa aveva sottolineato che «dormiva in un altro piano» e che «era uno dei due ospiti» che studiano con suo figlio, mentre l’altro non c’era e «non ne sa niente». La presunta vittima, a proposito del secondo ipotetico stupratore, ha riferito che Leonardo gli aveva detto che si chiamava «Nico». […] In realtà dj Nico non esisterebbe. In casa La Russa c’era, invece, uno dei tre dj che hanno animato la serata che si è svolta tra il 18 e il 19 maggio all’ Apophis club di Milano. Verranno presto convocati dagli inquirenti. 

Uno di loro, però, probabilmente si dovrà presentare accompagnato da un legale. Per la serata al quale era stato dato come titolo «Eclipse», eclissi,in consolle c’erano Tommy Gilardoni, Luca Valenti e Roy Ventura, alias di Andrea Picerno.

Quest’ultimo, classe 1996, si presenta come un «giovane dj italiano di base a Firenze». Sui social si mostra con capelli lunghi, foto davanti alle boutique del lusso e con una Vespa rossa vintage. Orologi classici al polso e pantaloni sorretti dalle bretelle. 

Alla consolle, però, è sempre in t-shirt. Valenti, nato nel 2000, milanese, è un giovane bocconiano, anche se, a dispetto dell’età, vanta una lunga esperienza ai piatti: sul suo sito Web afferma di aver cominciato a smanettare con i dischi «all’età di dieci anni».

«Le mie chiavette», sostiene, avrebbero animato «molti dei più esclusivi eventi milanesi, italiani ed esteri» da Zurigo a Saint Moritz, da Forte dei Marmi, alla Costa Smeralda.

Il terzo uomo è Tommy Gilardoni da Como, classe 1999. È l’unico che su Internet risulta lavorare a Londra, in particolare all’Omeara club. È quello su cui si trovano meno notizie, ma, a quanto ci risulta, sarebbe proprio lui l’uomo che ha dormito insieme con La Russa jr e la presunta vittima. 

Ieri abbiamo provato a contattarlo ripetutamente e gli abbiamo chiesto di confermarci o negarci la sua presenza nell’abitazione del presidente del Senato a metà maggio, ma il giovane, dopo aver sentito che eravamo giornalisti ha sempre rifiutato la chiamata. 

Ieri abbiamo contattato anche Picerno, il quale, al contrario del collega, ci ha rinviato al suo avvocato. E la conversazione con il legale, Tommaso Signorini, è risultata molto interessante. Ecco che cosa ha detto alla Verità. Il suo cliente era a casa di La Russa? «No» è stata la prima risposta. Abbiamo insistito: quindi era Tommasoni? «È uno di quelli che erano a Londra» ha tagliato corto l’avvocato.

Ma perché Picerno ha un difensore? «Lo sono per altre cose e mi ha chiesto di gestire questa situazione perché l’hanno subissato di chiamate per questa cosa, perché era uno dei dj della serata. Ma lui di questa storia sa poco e la ragazza non la conosceva...

ha, invece, conosciuto La Russa». 

Quella sera o precedentemente? «Credo quella sera, perché è stato ingaggiato per questa festa che ha organizzato La Russa, credo...». 

Che cos’altro sa? «Per esempio che a Picerno avevano offerto di andare a dormire da La Russa, ma che lui non c’è andato, perché era da un altro suo amico... quindi ha fatto bene, però, forse, per la ragazza è stato un male... se ci fosse stato lui, conoscendo il ragazzo, non sarebbe successo quello che è successo... perché Picerno è molto serio. Fa il dj, ma ha anche una società, una partita Iva, credo come geometra, è una persona per bene».

Picerno ci può aiutare ad avere informazioni sul «secondo uomo»? «Penso che lui non voglia dare dettagli di questa cosa, perché dice che questo di Londra lo conosce...». Adesso il giovane dj d’Oltremanica rischia di essere iscritto sul registro degli indagati per violenza sessuale. Occorrerà vedere se singola o di gruppo.  [….]

Leonardo La Russa e l'inchiesta per violenza sessuale: indagato anche l'amico dj Tommy Gilardoni. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 18 luglio 2023. 

Il ragazzo, 24 anni, avrebbe dormito a casa di La Russa jr e consumato un rapporto con la giovane 22enne che poi ha denunciato solo il figlio del presidente del Senato. Ma la presunta vittima non ha ricordi del dj 

C’è un secondo indagato nell’inchiesta della Procura di Milano partita dopo che una 22enne ha denunciato di essere stata violentata da Leonardo La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa. Si tratta di Tommy Gilardoni, 24 anni, identificato come il dj che avrebbe dormito in casa La Russa la notte tra il 18 e il 19 maggio scorsi e che, secondo la ricostruzione fatta dalla ragazza in base a quanto le ha riferito Leonardo, avrebbe avuto un rapporto sessuale con lei a sua insaputa perché stordita e non presente a sé stessa.  

L’iscrizione nel registro degli indagati è per l’ipotesi di reato di violenza sessuale, segue quella del 21enne Leonardo La Russa e, come la precedente, è stata fatta a garanzia del giovane dal pm Rosaria Stagnaro e dall’aggiunto Letizia Mannella per poter eseguire una serie di accertamenti. Come l’esame dei cellulari sequestrati durante le indagini da fare alla presenza dei difensori e dei tecnici nominati dalle persone indagate. L’obiettivo è di stabilire cosa sia accaduto nel club-discoteca Apophis a qualche centinaio di metri dal Duomo dove la 22enne e La Russa si sono incontrati, quali fossero le condizioni della giovane quando è uscita dal locale e chi si trovava nell’appartamento della famiglia La Russa dopo la serata.  

I pm hanno deciso di circoscrivere l’ipotesi alla violenza sessuale senza aggravare il reato in quello di violenza sessuale di gruppo perché al momento questa vicenda non è ancora definita nei suoi contorni. Quando la ragazza ha presentato la querela con il suo legale, l’avvocato Stefano Benvenuto, ha riferito la ricostruzione dei fatti alla quale era arrivata grazie ai  ricordi dell’amica che l’aveva accompagnata all’Apophis e che poi l’ha lasciata alle 3 di mattina in stato confusionale. È arrivata così alla conclusione di essere stata drogata. L’amica le ha anche detto che era caduta in uno stato confusionale subito dopo che aveva bevuto un drink che le aveva offerto Leonardo La Russa. 

La vittima ha anche dichiarato  che la mattina successiva, quando si è svegliata nel letto con a fianco il 21enne senza ricordare nulla di quello che era accaduto, il ragazzo stesso le aveva confidato che avevano avuto un rapporto sessuale sotto l’effetto di stupefacenti e che la stessa cosa era accaduta tra lei e un altro ragazzo: «Mi confermò che sia lui che il suo amico di nome Nico avevano avuto un rapporto con me a mia insaputa. Leonardo mi dichiarò che Nico si era fermato a dormire in un’altra stanza del medesimo appartamento». Lei però non ha mai visto questo «Nico» nell’appartamento a due piani dei La Russa nei pressi di corso Buenos Aires.

Grazie al lavoro di investigazione della Mobile e ai primi testimoni gli inquirenti hanno identificato formalmente «Nico» in Gilardoni, che al momento si troverebbe all’estero. La presenza del giovane e di un altro ragazzo in casa il 19 maggio è stata confermata, peraltro, da Ignazio La Russa che la mattina del 19 maggio aveva anche visto il figlio e la ragazza in camera da letto intorno alle 11.30. 

 IGNAZIO E LEONARDO APACHE LA RUSSA il 19 luglio 2023.

A Milano non si sparla d’altro. L’accusa di stupro al figlio della seconda carica dello Stato ha sconvolto i salotti del danè sotto la Madunina. Le voci, i commenti, le maldicenze si rincorrono e alimentano il tam-tam su una brutta storia i cui contorni sono ancora da definire.  

Si vocifera che, all’indomani della notte violenta in casa La Russa, la 22enne fanciulla si sia sottoposta a una visita medica, la quale avrebbe rilevato graffi sulle gambe ed ecchimosi su altre parti del corpo. Ma soprattutto sarebbero state rilevati su di lei tracce biologiche appartenenti a due persone.  

Dopodiché, il padre ha impiegato 40 giorni per convincere la figlia, che non ne voleva sapere di finire sbattuta sui giornali, a sporgere denuncia contro La Russa Jr. 

“Oggi - come scrive l’Ansa - è stato iscritto per violenza sessuale anche il dj 24enne Tommy Gilardoni, amico del figlio dell'esponente di Fratelli d'Italia. Anche lui sarebbe rientrato a casa La Russa quel mattino del 19 maggio, dopo aver suonato, tra l'altro, nel corso della serata in discoteca, in cui si alternavano tre dj”. 

Un nome, quello di Gilardoni, che lavora in un club di Londra e che anche al momento si troverebbe all'estero, a cui i pm sono arrivati grazie alle analisi dei telefoni, dal momento che Leonardo Apache, come indagato, si è avvalso della facoltà di non rispondere alla domanda degli inquirenti di rivelare il nome dell’amico che era con lui la notte tra il 18 e il 19 maggio.  

“Gli inquirenti - si legge sempre sull’Ansa - hanno deciso di contestare anche a Gilardoni l'accusa di violenza sessuale e di non optare per un'imputazione di abusi di gruppo a carico suo e di Leonardo Apache, anche perché le indagini dovranno appurare non solo se la ragazza sia stata violentata in stato di incoscienza, come lei ha raccontato, ma anche se quelle violenze siano avvenute in fasi diverse”.

“La 22enne - prosegue l’Ansa - nella denuncia arrivata il 3 luglio sul tavolo dell'aggiunto Letizia Mannella e del pm Rosaria Stagnaro, ha scritto di avere "ricordi della notte vaghi" perché "drogata".  

L'unico "dato certo", ha messo nero su bianco, "è che Leonardo mi ha dato un drink, mi ha portato a casa sua, senza che io fossi nelle condizioni tali da poter scegliere" e, quando lei si è svegliata, lui "ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali, lui e l'amico, sempre a mia insaputa". 

Gli investigatori hanno raccolto altri elementi utili all'inchiesta, tra cui l'analisi di alcuni contatti telefonici e le testimonianze di ragazzi che erano presenti alla festa del 18 maggio all'Apophis. 

Il locale, che è un club a ingressi molto selezionati, sarebbe il punto di ritrovo della gioventù danarosa di quella che fu la Milano-bene. Infatti si insinua che nel giro dei clienti del club ci siano anche figli e nipoti di personaggi molto noti nel mondo dell’imprenditoria…

Estratto dell’articolo di Luigi Guastella per corriere.it il 19 luglio 2023.   

La vittima ha anche dichiarato che (...) non ha mai visto questo «Nico» nell’appartamento a due piani dei La Russa nei pressi di corso Buenos Aires. 

Grazie al lavoro di investigazione della Mobile e ai primi testimoni gli inquirenti hanno identificato formalmente «Nico» in Gilardoni, che al momento si troverebbe all’estero. La presenza del giovane e di un altro ragazzo in casa il 19 maggio è stata confermata, peraltro, da Ignazio La Russa che la mattina del 19 maggio aveva anche visto il figlio e la ragazza in camera da letto  intorno alle 11.30.

Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori per la Verità il 19 luglio 2023.  

(…) Per la Cassazione un abuso commesso da due persone è violenza di gruppo, ma non vi è certezza che, in quel frangente, gli eventuali rapporti sessuali non siano avvenuti separatamente. Infatti in questo caso non è semplice ricostruire la dinamica dei fatti, anche perché la ragazza ha confermato davanti agli inquirenti di non ricordare nulla della notte incriminata. 

Gilardoni al momento si trova a Londra, dove vive e lavora. E allora noi abbiamo contattato il padre Massimo. Il quale, come già Beppe Grillo e Ignazio La Russa, ha difeso con convinzione il figlio, lasciandosi andare a giudizi anche discutibili sulla ragazza. Ma se le sue parole non sono condivisibili, sono certamente dettate dallo stato d’animo di un genitore che si vede crollare il mondo addosso. 

Gilardoni senior, 58 anni, ha gestito per anni un vivaio a San Fedele Intelvi (Como) e anche adesso continua a lavorare. Quando lo raggiungiamo sul telefonino sta guidando il suo furgone. 

Buonasera signor Gilardoni, Tommaso è suo figlio?

«Sì è mio figlio…».

Vorrei sapere qualcosa in più su di lui… perché dovrebbe essere il dj che ha animato la festa a cui ha partecipato Leonardo La Russa…

«Non so niente… non sono al corrente…». 

Ma suo figlio vive a Londra, giusto?

«Sì, mio figlio sta a Londra». 

Lui era il dj dell’Apophis club di Milano la sera del 18 maggio… «Aaaaah, non lo so…». Ma non lo vede suo figlio?

«No, perché sta a Londra, come faccio a vederlo, io vivo in provincia di Como?». 

Ma quando è venuto in Italia a maggio non vi siete incontrati? Non le ha detto che aveva dormito a casa di Ignazio La Russa?

«Non le so rispondere, dico la verità… e poi al telefono, io non la conosco neanche, al cellulare mi potrebbe chiamare chiunque… ha tutte le ragioni di questo mondo, ma mi dispiace… al telefono mi chiamano 50 persone al giorno tra una cosa e l’altra…». 

Allora le faccio una sola domanda: lei ritiene che suo figlio possa avere fatto una cosa come quella di cui è accusato?

«Non so di che cosa lo accusino…».

Violenza sessuale…

«Non penso proprio possa aver fatto una cosa del genere, è un ragazzo con la testa sulle spalle, non penso proprio».

(…) 

Ci sarà una convocazione, un avviso di garanzia, lui adesso è stato appena individuato come partecipante a quella nottata ed è stato iscritto sul registro delle notizie di reato… la ragazza sostiene che Leonardo le avrebbe detto che anche suo figlio avrebbe fatto sesso con lei… non ha seguito la storia?

«Non sono informato dei rapporti sessuali che ha mio figlio. È certamente un piacione, però, non so altro…». 

Da quanti anni è a Londra?

«Sa che non mi ricordo, le dico la verità… forse due…». 

Studia con La Russa jr in Inghilterra?

«Non so i contatti che possa avere con questo ragazzo qua…». 

È iscritto a economia a Londra?

«Studiava economia…». 

Adesso fa solo il dj?

«Il dj e so che ora stanno aprendo delle start-up, cose così…».

Mi sembra di capire che sia un ragazzo in gamba.

«Molto in gamba, con la testa sulle spalle perché noi siamo una famiglia perbene, per questo mi risulta strana questa storia, mi creda…».

Le credo…

«So che mio figlio è sempre circondato da bellissime ragazze, anche io sono uno a cui piacciono le donne, mi sembra strano che lui possa avere fatto una cosa del genere… è un giovane molto preparato, molto avanti, so che non fa uso di sostanze stupefacenti, è un ragazzo cresciuto con i sani principi, perché noi siamo ancora una famiglia con i sani principi. 

Le posso far vedere la lettera che mi ha mandato per il mio compleanno in cui mi ringrazia per il modo in cui l’ho educato, per questo mi sembra strano che lui possa aver fatto una cosa del genere… sa però che al giorno d’oggi le ragazze prima magari fanno sesso e poi si accorgono con chi lo hanno fatto ed è un attimo che vanno a denunciare le persone, però, non lo so…».

È una dichiarazione un po’ forte… comunque la giovane ha raccontato di aver sniffato cocaina…

«Addirittura? Bene… sono contento… aaaaaah, al giorno d’oggi…».

Ha assunto anche psicofarmaci e questa potrebbe essere stata una miscela pericolosa… «Questa poi è andata a casa di La Russa, che non è proprio l’ultimo arrivato, ha fatto sesso e poi si è pentita e lo ha denunciato, può essere andata così».

Dice di essersi svegliata nuda nel letto di Leonardo Apache, di non ricordare nulla se non quello che le ha raccontato il figlio del presidente del Senato… poi lo ha querelato. «Immagino, immagino, va bene…». 

Il suo ragazzo è soprannominato anche Nico?

«No, no». 

(...)

Lei non sapeva che fosse amico di La Russa jr?

«Mi ha nominato questo ragazzo qua che faceva anche lui qualcosa, il dj a Londra…».

Che cosa le ha detto di Leonardo?

«Forse che è andato a dormire da lui una sera ed è finita lì…».

E non le ha raccontato della ragazza?

«No, no, no, mi sembra una cosa strana. Ma di questa storia non ero a conoscenza… mi scusi ma adesso mi stanno venendo un po’ di palpitazioni…».

Estratto dell’articolo di Alessandro Allocca e Sandro De Riccardis per “la Repubblica” giovedì 20 luglio 2023. 

Evocato, immaginato, cercato, confuso con altri. E alla fine identificato come il “secondo uomo” di casa La Russa, la notte in cui Leonardo porta nell’abitazione del padre presidente del Senato la ragazza che lo denuncerà per violenza sessuale. 

Anche Tommaso Gilardoni, uno dei dj della serata all’Apophis di Milano, quel 18 maggio era lì. Da due giorni è entrato formalmente nell’inchiesta della procura di Milano da indagato.

Contro di lui — giova ricordarlo — ci sono al momento le parole della ragazza che ha denunciato Leonardo e che ha raccontato come proprio il giovane La Russa le avesse detto la mattina dopo, quando si era svegliata nuda nel suo letto, che anche un altro amico aveva avuto rapporti con lei. E gli inquirenti, per ora, non lo hanno ancora ascoltato.

Un fantasma a Milano, questo dj Tommy, 24 anni, origini comasche. 

Ma molto più a suo agio nella mondanità internazionale, tra Londra e Parigi, con una rete di contatti […] con quello che un tempo si sarebbe chiamato il “jet set”, oggi forse i “rich kids”. Uno per tutti? L’amico e compagno di avventure in moto Rocco Ritchie, figlio del regista inglese Guy e di Madonna.

Ecco le tracce del dj lombardo nella capitale francese, dove partecipa all’evento di lancio di una nuova collezione di rossetti del brand Isamaya. È il 3 marzo scorso e Tommy è sempre dietro la consolle, sorridente e con la cuffia da dj calata sugli occhi a fianco del creativo Tom Burkitt. 

I due sono amici da tempo: nell’agosto di tre anni fa, l’italiano compare anche sui profili social dell’inglese. Sempre in completo nero, la camicia bianca aperta sul petto e un bicchiere di vino bianco. 

Stesso dress code a Parigi, dove Tommy è il dj dell’evento insieme al collega Wolfram Amadeus, star austriaca dell’elettronica. Gilardoni si accompagna invece alla influencer e modella americana Jordan Grant. Si fanno fotografare in posa, abbracciati.

Se è spesso a Parigi, Gilardoni ha scelto per vivere Londra. Qui sta provando a far diventare la sua passione per la musica un business: il 15 novembre scorso ha costituto una piccola società, domiciliata tra le strade chic del quartiere di Marylebone. 

Una sfida che non gli sta andando male […]. A Londra sembra ben inserito in un circuito che si muove tra arte, musica e mondanità. 

Compare anche tra i testimonial di Onda, una “comunità globale che si riunisce sotto un insieme di valori condivisi, per amplificare il nostro impatto sul mondo, promuovere connessioni significative e contribuire al bene superiore”.

Qualsiasi cosa voglia dire. «Amo Onda per la sua incredibile capacità di farmi sentire a casa ovunque io vada. Questa straordinaria comunità mi mette in contatto con persone affascinanti in luoghi unici in tutto il mondo», racconta il dj sul sito della società fondata dall’imprenditore Luca Del Bono. Un businessman italo-britannico che, afferma un profilo su Vogue Italia, è amico di Re Carlo. 

Ironia della sorte, Tommy partecipa all’ultimo Onda’s summer celebration proprio nei giorni in cui la presunta vittima delle violenze sta decidendo di denunciare Leonardo, avviando così l’indagine che ora vede coinvolto il dj. L’evento è del 28 giugno, sono trascorsi un mese e dieci giorni dalla notte a casa La Russa. 

Lui, intanto, è dietro la consolle, come il 20 maggio al club londinese Omeara, o in pista con gli amici, ospite di feste in locali e club, tra i quali l’esclusivo Annabel’s. Su Instagram scorrono le sue immagini anche con il ben più celebre Rocco Ritchie. […]

Il tutto documentato con una serie di foto e video, datati 26 giugno, in cui Tommy incita in un italianissimo «Dai, dai» il figlio della popstar. 

Sul medesimo profilo, Gilardoni è tra i protagonisti di uno scatto del fotografo Robin Hunter Blake. La sua macchina fotografica aveva già immortalato il dj italiano nell’ottobre 2021 in giacca, cravatta, pochette e occhiali scuri, e poi a bordo di uno yacht nelle acque di Ibiza ad agosto dello scorso anno. Una storia in apparenza dorata che adesso sbatte duramente contro l’indagine della procura di Milano. 

Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara per “La Verità” il 21 luglio 2023.

Ieri i magistrati della Procura di Milano che indagano sulla presunta violenza sessuale denunciata dalla ex compagna di scuola di Leonardo Apache La Russa, il più piccolo dei figli di Ignazio, hanno convocato due dj che, il 18 maggio scorso, con Tommaso «Tommy» Gilardoni (il ragazzo che lavora a Londra e che ha dormito a casa del presidente del Senato, ritrovandosi accusato pure lui per il presunto abuso) hanno animato la serata all’Apophis.

Luca Valenti, nato nel 2000, milanese bocconiano, e Roy Ventura, alias di Andrea Picerno, dj fiorentino che quella notte era stato invitato a dormire a casa di La Russa, ma preferì andare da un suo amico, sono stati sentiti negli uffici della Squadra mobile dal pm Rosaria Stagnaro e dal procuratore aggiunto Maria Letizia Mannella come testimoni per riferire i dettagli di quella serata. I due avrebbero ricostruito ciò che ricordano degli avvenimenti nell’esclusivo locale milanese di via Merlo dove, secondo la lista ingressi, erano invitate circa 180-200 persone. 

Le domande hanno cercato di fare luce sugli orari e gli spostamenti dei due indagati, così come sulle condizioni psicofisiche della presunta vittima che nel club ha incontrato casualmente il suo ex compagno di liceo che non vedeva da tempo.

Dopo aver bevuto un drink, è il racconto della ragazza, perde la memoria, per svegliarsi il giorno seguente accanto a Leonardo Apache nell’appartamento dei La Russa.

I due dj e un terzo testimone, amico del rampollo dei La Russa e tra gli organizzatori e promotori della serata, avrebbero riferito di aver animato la serata e di non aver visto nulla di strano: niente ragazze sballate né abusi. I testimoni hanno dovuto prima illustrare agli inquirenti i rapporti intercorrenti con i due indagati.

Valenti è un amico di La Russa (come anche il terzo testimone), mentre Picerno è un conoscente di Gilardoni. Ai tre non sono stati chiesti video o foto della serata (che gli inquirenti probabilmente hanno già recuperato diversamente) e i loro verbali sono stati secretati. Nessun contributo utile sarebbe stato fornito dai testimoni anche sul momento in cui La Russa avrebbe portato un drink alla ragazza. Pertanto le testimonianze risultano favorevoli ai due indagati. […]

Ignazio.

(ANSA il 31 marzo 2023) - 'Via Rasella è stata una pagina tutt'altro che nobile della resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS, sapendo benissimo il rischio di rappresaglia su cittadini romani, antifascisti e non', ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa a Terraverso, podcast di Libero, rispondendo sulle critiche alla premier Meloni circa l'eccidio delle Fosse Ardeatine riferito a 'morti italiani': 'Un attacco pretestuoso - ha detto - Tutti sanno che i nazisti hanno assassinato detenuti, anche politici, ebrei, antifascisti e persone rastrellate a caso, certo non gente che collaborava con loro'.

(ANSA il 31 marzo 2023) - "Non sarà il primo 25 aprile che celebro, sono andato da ministro della Difesa a rendere omaggio al monumento dei partigiani, ho portato un mazzo di fiori a tutti i partigiani, anche a quelli rossi che come è noto non volevano un'Italia libera e democratica ma volevano un'Italia comunista. Chi muore per un'idea e per una scelta ideale, non può mai essere oggetto di avversione". Lo ha detto il presidente del Senato Ignazio La Russa ospite di Terraverso, il podcast di Libero Quotidiano.

(ANSA il 31 marzo 2023) - "Le ho date una volta sola: due schiaffi ad un ragazzo che mi diede del fascista e mi cacciò dall'università a pedate. Venni allontanato con qualche pedata, poi incontrai di nuovo questo ragazzo, gli ho dato due sberle.

Posso giurare che durante la mia militanza politica è stata l'unica volta che ho usato le mani. Le ho prese invece una volta, la mia fidanzata, poi moglie, mi salvò da un colpo di chiave inglese in testa. Loro erano 2mila, noi 100. Partì una sassaiola e poi ci aggredirono. Ci salvammo perchè un carabiniere sparò in aria, poi ebbe anche dei guai, la Digos invece di fermare quelli che ci aggredirono fermò lui". È un passaggio dell'intervista del presidente del Senato Ignazio La Russa a Terraverso, il podcast di Libero Quotidiano.

(ANSA il 31 marzo 2023) - "Non possono dire che opporsi alla maternità surrogata sia una cosa di destra: gente di sinistra, movimenti femministi, amici gay dicono che è un obbrobrio e somiglia al razzismo. Parlano di figli come se fosse la copertura del divano di casa, che stoffa volete? Uguale con il figlio, chissà se si può avere un occhio verde e uno nero?". Lo ha dichiarato Ignazio La Russa, Presidente del Senato ospite del podcast Terraverso il podcast di Libero Quotidiano, condotto da Emanuele Ranucci e Pietro Senaldi.

(ANSA il 31 marzo 2023) - "Io capisco molto il desiderio di una coppia di famiglia non naturale di avere un figlio. Si può dire famiglia non naturale? Capisco questo desiderio, come si può non comprendere? Ma al bambino glielo abbiamo chiesto? Quando si tratta di decidere che una famiglia di persone dello stesso sesso possa avere un figlio sono combattuto, non so se questo possa essere vantaggioso per il bambino, non dico che sia sbagliata, ma non lo so".

Lo ha dichiarato Ignazio La Russa, Presidente del Senato, ospite del podcast Terraverso il podcast di Libero Quotidiano. "Per adottare - aggiunge - ci vogliono tanti step, vengono privilegiate le coppie giovani, quelle con redditi più alti, io dico, meglio le coppie di genitori di sesso diverso. Esiste una graduatoria, credo si possano inserire, non so in quale posizione, anche le coppie gay a patto che non sia un modo per poi chiedere e per ottenere sempre altro.

 Piuttosto che all'orfanotrofio un bambino ad una coppia gay non ho difficoltà a immaginarlo meglio che senza genitori. La cosa sbagliata però è dire che è la stessa cosa per un bambino avere due papà o due mamma e una mamma ed un papà. Non è vero che è la stessa cosa, poi se mi dite che un bambino può stare bene anche con genitori dello stesso sesso, per me è possibile ma non è vero che è esattamente uguale. Si può dire questo o è un offesa?"

(ANSA il 31 marzo 2023) - "Non possono dire che opporsi alla maternità surrogata sia una cosa di destra: gente di sinistra, movimenti femministi, amici gay dicono che è un obbrobrio e somiglia al razzismo. Parlano di figli come se fosse la copertura del divano di casa, che stoffa volete? Uguale con il figlio, chissà se si può avere un occhio verde e uno nero?". Lo ha dichiarato Ignazio La Russa, Presidente del Senato ospite del podcast Terraverso il podcast di Libero Quotidiano, condotto da Emanuele Ranucci e Pietro Senaldi.

Estratto da liberoquotidiano.it il 31 marzo 2023.

Ignazio La Russa, presidente del Senato, è ospite del podcast di Libero Terraverso. Iniziamo con […] il no definitivo all'estradizione dei terroristi italiani in Francia: "Non mi ha sorpreso", risponde La Russa, "la Francia ci ha abituato a queste decisioni, anche se non sono ovviamente d'accordo. La motivazione che ormai hanno famiglia è ridicola".

[…] Come è cambiata Giorgia Meloni in questi mesi? "Non è cambiata. Non fa un giorno di vacanza da due e tre anni, da quando è Presidente del Consiglio ha solo dovuto riempire di più le sue giornate".

 […] “Il flusso migratorio non è più quello di anni fa, è diventato un'arma che qualcuno sta puntando contro Italia e Europa in concomitanza della guerra in Ucraina. Che il discrimine tra immigrazione legale e illegale sia labile, poi, è un dato ideologico e culturale: abbiamo avuto per anni il Partito Comunista maggiore d'Europa", prosegue il presidente, "e abbiamo ancora questa eredità, che considera i confini una cosa obsoleta".

 E sulla maternità surrogata appunta: "Non è certamente una cosa di destra. […] Capisco il desiderio di una coppia omosessuale di avere un figlio ma sono combattuto tra riconoscere la bontà del desiderio e pensare che sia il bene di un bambino.

Sono certo che l'utero in affitto non vada bene, sulle adozioni piuttosto che a un orfanotrofio sono d'accordo. Ma non si può dire che per un bambino sia la stessa cosa avere due madri o due padri". Secondo regalo, è il busto di Lenin: "Mi hanno già regalato il busto di Mao, ce li ho tutti".

Guerra, gay, milanisti. Signori Berlusconi e La Russa, non basta non essere ipocriti. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

Ignazio La Russa e Silvio Berlusconi: sono i due signori ritratti nella foto. Due signori che agiscono e parlano ritenendo o fingendo che il passato e il resto del mondo non esistano. Eppure hanno ricoperto e ricoprono tuttora incarichi di enorme importanza

Un’immagine di Ignazio La Russa (75 anni), attuale presidente del Senato, con Silvio Berlusconi (86) presidente di Forza Italia e senatore. In questi giorni si discute delle affermazioni di entrambi rispettivamente sull’ipotesi di un figlio gay e su Zelensky (foto Franco Origlia/ Getty images)

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 3 marzo. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Quanti di voi sanno che il delitto d’onore, in Italia, è stato abrogato solo nel 1981? Sapete cos’è il delitto d’onore e cosa ha comportato la sua presenza nel codice penale italiano? Che un delitto commesso per «salvaguardare la propria onorabilità» poteva essere sanzionato con pene attenuate. Sembra assurdo, lo so, ma tutto questo accadeva in Italia, in tempi recentissimi. Perché ho citato il delitto d’onore? Perché spesso viviamo credendo che tutto ciò che accade attorno a noi, o che è accaduto quando eravamo bambini o ancora non nati o 2 secoli fa, sia qualcosa di trascurabile. Perché siamo sempre più portati a pensare che in fondo si stava meglio quando si stava peggio, che il passato sia pieno di valori da recuperare e non ci rendiamo conto di quanto tutto questo sia pura e inutile retorica, buona solo ad darci l’illusione che il nostro qui e ora sia l’unica dimensione reale, l’unica possibile. Ma non è così, siamo quel che siamo, oggi, individualmente e soprattutto come comunità, in funzione di ciò che è accaduto ieri; e allo stesso tempo, ciò che accade altrove ha conseguenze sulla nostra quotidianità.

La guerra in Ucraina e i flussi migratori stanno condizionando il nostro presente, ecco dunque che dobbiamo iniziare a pensarci in continuità con la storia e in connessione col resto del mondo. I due signori ritratti nella foto che ho scelto agiscono e parlano ritenendo o fingendo che il passato e il resto del mondo non esistano. Non necessitano di presentazioni: sono due volti arcinoti della politica italiana. Due uomini che hanno ricoperto e ricoprono tuttora incarichi di enorme importanza e prestigio. Eppure, questi due signori - non so come facciano con tutta l’esperienza che hanno - riescono ancora a esprimere opinioni e giudizi che mettono a rischio, nell’ordine: la tenuta del governo, i rapporti dell’Italia con il resto del mondo, la quotidianità di persone che vengono additate come svantaggiate. C’è da dire che il presidente del Senato, in un’intervista al Corriere della Sera, coglie nel segno quando dice di non essere ipocrita perché, in un mondo in cui tutti sembrano nascondere qualcosa, la mancanza di ipocrisia viene premiata.

Se la mettiamo così, di certo ogni esternazione del proprio pensiero, anche la più orrenda, quando viene spacciata per mancanza di ipocrisia, finisce per acquistare una sua dignità. Ma tra Berlusconi che continua a trattare Zelensky come un “mascalzone”, incassando l’appoggio della Russia e La Russa (perdonate il gioco di parole) che paragona l’orientamento sessuale al tifo calcistico, dobbiamo capire che la mancanza di ipocrisia non c’entra nulla. Siamo dinanzi a due politici di primo piano che non paiono aver realizzato l’importanza del loro mandato e ritengono di poter sempre risolvere tutto alla italiana maniera, con un sorriso, una pacca sulla spalla, un «che esagerazione!». E mentre, sostengono i sondaggisti, «in Italia l’empatia per la resistenza ucraina inizia a scemare» (e Berlusconi, a suo modo, oltre a far indispettire Meloni, è quel sentimento che vuole intercettare), c’è chi sostiene che alla fine tra un figlio gay e un figlio milanista non vi sia molta differenza.

Provo un ragionamento e spero di essere compreso. Capisco chi dice: «Ma in fondo che ho fatto? Ho espresso solo la mia opinione... Sono solo parole». Invece di rispondere astrattamente che non lo sono, che le parole pesano, le parole sono pietre e viviamo in un mondo in cui i diritti vanno difesi anche con le parole, farò l’elenco dei Paesi in cui l’omosessualità è punita; dei Paesi (sono 70!) in cui vige l’omofobia di Stato. Algeria e Singapore 2 anni di carcere, Maldive 8 anni di carcere. In Nigeria, Mauritania, Somalia, Sudan, Afghanistan, Iran, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Yemen pena di morte. In ben 41 Paesi sono vietate attività per le associazioni che tutelano o promuovono i diritti della comunità Lgbtq+.

Ora forse è più chiaro il riferimento iniziale al delitto d’onore. La violenza sulle donne, oggi, è un retaggio, difficile da sradicare, di un tempo in cui uccidere una adultera era un reato che meritava attenuanti. Oggi, augurarsi di non avere un figlio gay o paragonarlo a un figlio che tifa per la squadra avversaria (e spacciare tutto questo per mancanza di ipocrisia) è grave. Se poi a dirlo è niente di meno che il presidente del Senato, va da sé che chiunque si sentirà legittimato a farlo. Se va bene per la seconda carica dello Stato...

Estratto dell’articolo di Pietro De Leo per “Libero quotidiano” il 23 Febbraio 2023.

 «Se qualcuno mi chiede: ma Ignazio La Russa è omofobo? Io dico di no. Altrimenti, non potrei nemmeno più guardarmi allo specchio». A parlare è nientemeno che Vladimir Luxuria, attivista transgender, figura nota nel mondo dello spettacolo, con un’esperienza da parlamentare, alla Camera, nella legislatura 2006-2008 tra le fila di Rifondazione Comunista.

 E proprio in quegli anni si colloca l’aneddoto che Luxuria racconta a Libero. «Lo faccio di fronte a tutte le polemiche su La Russa dopo la trasmissione Belve», spiega. […]

Luxuria, lei però non condivide queste accuse, perché?

«Ora le racconto una storia, risale al 2007. Non dirò nomi né luoghi, per non violare la privacy di nessuno, ma il fatto è importante».

 Sentiamo.

«Era il 2007. Da deputata ricevevo molte lettere, molte mail con richieste d’aiuto, soprattutto da persone trans. Si rivolgevano a me perché sapevano che potevo capire le loro problematiche».

 Cosa le scrivevano?

«Episodi di discriminazione, tipo sul posto del lavoro o magari in famiglia. Tra queste lettere ce ne fu una che mi colpì molto, di una ragazza trans. Si era trasferita dalla Sicilia ad una città del Nord, perché il papà e il fratello avevano preso molto male la sua intenzione di iniziare la transizione. […]».

E come si ambientò, al Nord, questa persona?

«Bene, aveva un lavoro e un fidanzato. C’era solo il cruccio di non poter tornare a casa, magari a Natale o a Pasqua, per stare un po’ con la madre. Alla quale, un brutto giorno, viene diagnosticato un brutto male.

 Lo tiene nascosto finché può al figlio, diventato figlia, ma quando ormai non le restava molto da vivere, le dice tutto. Lei, ovviamente, vuole tornare a casa. Ma il padre e il fratello sono inflessibili, le intimano di non provarci nemmeno. E sto usando un eufemismo».

E in tutto questo, però, La Russa che c’entra?

«Io feci una piccola indagine sul paese siciliano da cui proveniva la ragazza e scoprii che il sindaco era un amico, quasi un allievo politico, di La Russa. Perciò gli chiesi un appuntamento e gli dissi: “Ignazio, mi devi aiutare”. Gli raccontai tutta la storia e lo vidi sinceramente scosso dalla vicenda. Chiamò il sindaco.

 Quest’ultimo fece in modo che quella ragazza potesse tornare a casa in sicurezza, il tutto monitorato dalle Forze dell’Ordine. Ma fece anche un’altra cosa, il sindaco: parlò con il padre e con il fratello, e fu talmente incisivo che quel ritorno a casa si trasformò, per quella ragazza trans, anche nell’occasione per riconciliarsi con i due. La accettarono». […]

Estratto dell’articolo di Franco Stefanoni per il “Corriere della Sera” il 21 Febbraio 2023.

«Se mio figlio mi dicesse di essere omosessuale? Accetterei con dispiacere la notizia. Perché credo che una persona come me, eterosessuale, voglia che il figlio gli assomigli». Ignazio La Russa, intervistato da Francesca Fagnani per Belve , il programma in onda in prima serata oggi su Rai2, aggiunge però: «Ma se non succede, pazienza. Sarebbe come se fosse milanista».

Il presidente del Senato […] parla a tutto campo e affronta anche il tema del centrodestra e delle donne. «Il loro livello estetico è diminuito — argomenta — è aumentata però la qualità, la capacità. Quelle di sinistra non le guardo. La parità in politica non si ottiene con le quote rosa, si otterrà quando una donna grassa, brutta e scema rivestirà una carica importante. Perché ci sono uomini grassi, brutti e scemi che ricoprono ruoli importanti».

 Sul busto di Benito Mussolini sistemato a casa sua, costante fonte di polemiche, racconta: «Lo vuole mia sorella. Ha detto che si è rotta le scatole di sentirne parlare. Dice, chi l’ha detto che papà l’ha lasciato a te? L’ha lasciato a noi. Quindi gliel’ho dato. Non ce l’ho più».

Sempre a proposito di genitori, La Russa svela di riconoscersi tuttavia più nella madre che nel padre: «Lui era coerente con la sua storia. Amava la libertà, perché aveva un passato sicuramente vicino al trascorso regime. Tutti dicono che assomiglio moltissimo a mio padre, ma in realtà mi ritrovo in tanti aspetti in mia mamma».

 […] E sul fascismo? «Qui a volte sarebbe bello fare battute, odio questo politically correct . Ma ci devo stare attento».

Estratto da “il Messaggero” il 21 Febbraio 2023.

C'è una "belva" anche dentro Ignazio La Russa. E il presidente del Senato l'ha liberata ieri nell'omonimo programma su Rai 2 di Francesca Fagnani. «Una belvata che ho fatto? Quando la mia amica Ronzulli aveva preso il posto di Meloni, e l'ho cacciata», spiega il co-fondatore di FdI.

 Donzelli su Cospito? «Non è stato utile, ma nessun problema etico». Il forzista Mulè? «Non è mio nemico, ma non mi sta simpatico». Berlusconi? «Sta capendo che Giorgia è una leader». Il busto del Duce a casa? «Scoop: l'ho dato via, a mia sorella». […] E sul suo carattere fumantino: «A volte conviene far finta di essere arrabbiati».

Estratto da “il Giornale” il 21 Febbraio 2023.

«Quel vaffa di Berlusconi il giorno della mia elezione non era per me, era per Giorgia che aveva posto dei paletti sui ministri, Ronzulli in particolare, ma più che per Giorgia era per FdI. È la prima volta che lo dico». Lo afferma il presidente del Senato, Ignazio La Russa, intervistato da Francesca Fagnani, per il programma «Belve» […].

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 21 Febbraio 2023.

[…]  La Russa è una belva furba della comunicazione politica. Un tempo i politici parlavano una lingua incomprensibile agli umani, dicevano «non un monocolore democristiano bensì dei democristiani nel monocolore», dai tempi di Bossi e Berlusconi basta infilare una monetina nel jukebox per ottenere un po’ di taglio e cuci su Twitter.

 Dopodiché La Russa è il presidente del Senato, la seconda carica dello Stato, e qui salta fuori la difficoltà. Ma conta ancora qualcosa? «Non amo piacere a tutti», dice La Russa a Fagnani. «Ma nemmeno mi prendo troppo sul serio. A volte sono superficiale». E meno male che con l’età «ho attenuato un po il carattere: meglio essere né La Rissa né pompiere».

Naturalmente si diverte a dare scandalo: «Odio questo politically correct!» A farsi beffa dei capisaldi culturali della sinistra : «Una giornata particolare è un brutto film perché colloca l’omofobia in una parte sola e in un periodo solo».

E il fascismo? «Ah, ecco, devo stare attento, perché il mondo non separa le cose importanti dal contesto in cui si dicono le cose. A volte sarebbe bello fare battute...Il busto l’ho dato a mia sorella, mi ha detto che papà l’aveva regalato alla famiglia, non a me».

 […] Mutismo sullo squadrismo di Firenze. […] La Russa parla della violenza politica degli anni Settanta: «Non credo di avere fatto qualcosa per cui devo chiedere perdono». E infina una spruzzatina di merlo maschio: «Il livello estetico delle donne a destra è calato, è aumentato quello della capacità. Quelle di sinistra non le guardo. Un figlio gay? Una persona come me, eterosessuale, vuole che il figlio gli assomigli ».

«Caro Ignazio La Russa, ti spieghiamo qual è il vero “dispiacere” di avere un figlio gay». Simone Alliva su L’Espresso il 21 Febbraio 2023.

La frase del presidente del Senato durante l’intervista a Belve ha scatenato le polemiche. Ma dai genitori di figli Lgbt arriva la lezione migliore: «Il coming out può essere un lutto in famiglia. Ma poi c’è la rinascita. E ora le nostre vite sono più ricche. Ma una certa parte politica disinforma e parla di indottrinamento»

Parla Ignazio La Russa e la polemica è servita. «Se mio figlio mi dicesse di essere omosessuale? Accetterei con dispiacere la notizia. Perché credo che una persona come me, eterosessuale, voglia che il figlio gli assomigli». Il presidente del Senato, intervistato da Francesca Fagnani per Belve su Rai2, aggiunge però: «Ma se non succede, pazienza. Sarebbe come se fosse milanista». La controversia che innesca in pochissime ore hashtag, comunicati stampa, accuse di omofobia e difese è interessante e dovrebbe aprire una riflessione che vada oltre il suono dell’indignazione sulla fugace polemica del giorno.

A raccontare cosa succede davvero in Italia del 2023, quando una persona Lgbt fa coming out con i propri genitori lo racconta Antonia a L’Espresso: «Non condivido la politica del Presidente La Russa, non ho niente in comune con chi si dichiara fascista, ma sullo sgomento di un genitore di fronte al coming out di un figlio forse bisogna riflettere invece di giudicare perché no, non è una prerogativa di chi è di destra». Antonia oggi ha un figlio di 20 anni, appena compiuti 18 anni decide di dire di sé in famiglia, cioè fare coming out.

Così va in scena il momento clou: il passaggio dal non-detto al colloquio aperto: «Da persona che credeva di essere di vedute larghissime, sono ammutolita. Per qualche giorno mi è caduto il mondo addosso, oppressa dalla paura di quello che sarà il suo futuro in un mondo che non è per lui più libero. A lungo mi sono chiesta: dove ho sbagliato. Oggi quel pensiero mi inorridisce, eppure c'è stato, forte e costante nella mia mente. Ma è davvero l'elaborazione di un lutto». Un lutto con successiva rinascita. Dopo il coming out di un figlio niente è più come prima. Le relazioni cambiano. I genitori sono chiamati a «ridefinirsi», a riflettere su ciò che hanno dato per scontato, i figli a cercare la forza per pensarsi fuori dalla cornice delle aspettative che fino a quel momento padri e madri hanno nutrito. Il trauma iniziale si conclude nel bene che libera i rapporti da una buona dose di finzione «È durato poco perché la consapevolezza che tutto questo era assolutamente normale è arrivata in fretta». Antonia oggi si sente destinataria e custode di ciò che suo figlio ha capito di se stesso. Ma resta una nota stonata di fronte a una realtà dura, soprattutto per il contesto italiano. «Mi fa paura questa Italia che sta diventando un paese sempre più intollerante. Vivo sperando che possa sentirsi sempre amato, ogni giorno. Un amore che gli permetta di superare l'ignoranza che incontra anche se sono consapevole che semmai un giorno mio figlio volesse costruirsi una famiglia sarebbe costretto ad andare altrove».

Paola Corneli, presidente Agedo Roma (Associazione genitori e amici degli omosessuali) non si sorprende nell’ascoltare la storia di Antonia che ricalca, per reazione e lieto fine, quella di moltissimi genitori che ogni giorno si rivolgono ad Agedo per chiedere sostegno: «Quando i genitori arrivano da noi sono sofferenti. C’è tanta ignoranza perché si è sempre poco preparati sulla questione. Nessuno ci prepara all’eventualità che si possa avere un figlio gay, lesbica, trans. Anzi, questi termini sono sempre ricoperti da un alone di inconsapevolezza. Siamo andati di recente in una scuola ed è frequente tra i genitori l’idea è che sia una scelta e non un evento naturale. “Dove ho sbagliato”, chiedono sempre madri e padri. Il loro ruolo sembra andare in frantumi dinanzi all’improvvisa estraneità di un figlio che per il proprio orientamento sessuale o identità di genere appare lontano dal loro progetto di vita, ad esempio l’idea di avere nipotini si allontana, anche se oggi giorno è meno complicato resta difficile. Tutto l’immaginario che un genitore si fa salta».

Servirebbe conoscenza, ripete più volte Paola Corneli, informazione e formazione. Una giusta rappresentazione sui media. Tutto più difficile soprattutto negli ultimi tempi con un governo come quello Meloni che fa le barricate ai corsi di affettività nelle scuole e di sessualità: «I genitori non vogliono che si parli di certe questioni, una certa parte politica disinforma e parla di indottrinamento, senza capire quello che dovrebbe essere assodato: l’omosessualità è una variante dell’orientamento sessuale. Un evento naturale come nascere con gli occhi verdi o i capelli neri. Ci sono genitori che dicono: parlo io a mio figlio di certe questioni, ma poi non lo fanno e la sensazione di solitudine aumenta».

Sulle parole del Presidente del Senato, Paola Corneli non si scompone: «Il termine accettare è brutto, bisogna dire accogliere. Nel termine accettare c’è una resistenza. Accogliere invece vuol dire includere. Certo poteva andare peggio, non dimentico quando qualcuno disse: meglio fascista che frocio. Ma La Russa dovrebbe cercare di ascoltare un po’ di più. Conoscere. Potrebbe incontrare la comunità Lgbt, noi genitori. Noi siamo riconoscenti ai nostri figli. Grazie a loro oggi viviamo una vita più ricca»

Estratto dell'articolo di Paolo Guzzanti per "il Giornale" il 22 febbraio 2023.

Al presidente del Senato Ignazio La Russa piace - come dicono a Roma - «parlare come magna». Cioè con qualche fuoruscita impropria. É una caratteristica umorale. Ma poiché il Presidente del Senato ha permesso che si anticipassero per agenzia alcuni contenuti di un'intervista andata in onda ieri sera, ci troviamo di fronte un florilegio di frasi leggiadre come un eczema. Il catalogo è generoso e va dalla dichiarazione secondo cui avere un figlio gay costituirebbe un dolore, al giudizio secondo cui le attuali donne del centrodestra in questa legislatura sono meno belle ma con più cervello di quelle precedenti.

(..)

A questo punto il lettore si chiederà: e che cosa diciamo al Presidente del Senato? Che abbiamo riso di buon gusto? No, non abbiamo riso affatto. Chi scrive, oltre ad essere stato undici anni in Parlamento ricoprendo anche una carica istituzionale come Presidente di una commissione bicamerale d’inchiesta, ha fatto - ho fatto - per quarant'anni il cronista e posso dire di averne viste di tutti colori. Mi capitò anche di diventare per caso l'intervistatore prediletto di un presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che tutti davano per matto e che matto non era affatto benché eccedesse in esuberanze.

Anzi, ricordo che quando rifiutai di pubblicare una sua intervista in cui lui dava all’onorevole Achille Occhetto dello «zombie coi baffi» trovando l’espressione non all’altezza di un capo dello Stato, Cossiga se ne infischiò e pubblicò la sua intervista su un altro giornale. Ma ogni volta che quel presidente «si toglieva un sasso dalla scarpa», tutto il perbenismo istituzionale dei palazzi e dei politici fingeva di fremere di sdegno.

Toccò ad un pugno di valorosi giornalisti impedire che quel presidente fosse dichiarato matto con certificato medico e rimosso: ma le sue battute eccessive che lui stesso battezzò come «picconate» riguardavano questioni serie che il senatore La Russa ricorda, che anticipavano il cataclisma in arrivo sull’Italia a causa del crollo dell’impero sovietico. Non ricordiamo alcun altro politico che abbia incarnato le istituzioni usando pubblicamente un linguaggio sguaiato, neanche per spacciarlo come ardita provocazione.

La Russa dopo Belve: «Sui figli gay avrei dovuto dire "non lo so". L’importante è rispettare l’identità altrui». Virginia Piccolillo su il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023

Il presidente del Senato: in quella trasmissione non puoi fare l’istituzionale

Ignazio La Russa, 75 anni, FdI, presidente del Senato

«Omofobo? Credevo che avrebbe colpito la notizia che non ho più il busto del Duce. Ma qui ogni giorno ce n’è una nuova». Ignazio La Russa, presidente del Senato, scuote la testa alle accuse ricevute dopo la registrazione della trasmissione Belve: «Sessista», «fascio» e, appunto, «omofobo».

Non è così?

«Avessero aspettato la messa in onda avrebbero capito il contesto in cui le mie parole sono state dette».

Per l’opposizione sono parole «inadeguate» alla seconda carica dello Stato...

«Io ho solo risposto alle domande: non ho introdotto alcun tema. Si può discutere se fossero adeguate. Ma è chiaro che se vai in un programma così rispondi secondo lo spirito della trasmissione».

Cioè?

«A titolo del tutto personale e con sincerità. Non puoi fare l’istituzionale. O, peggio, l’ipocrita».

Era il caso di andarci? Perché ha accettato?

«Per gentilezza nei confronti della conduttrice che insisteva e che io stimo».

Non ha detto che le dispiacerebbe avere un figlio gay?

«Avrei dovuto dire: non ce l’ho, non lo so. Dovendo ipotizzare che sentimenti avrei avuto in quella situazione ho detto che da eterosessuale avrei provato un "leggero dispiacere" se non fosse stato simile a me. Come è stato per uno dei miei figli quando era del Milan e io dell’Inter. Ma certo non per questo gli avrei voluto meno bene. Avrei rispettato la sua identità».

Che paragone è?

«È comune per un padre volere un figlio che gli assomigli. I sentimenti non sono sindacabili. È un mio problema. Intimo. L’importante è che si sia rispettosi dell’identità altrui. E chi mi conosce sa che lo sono sempre stato».

Per la comunità Lgbt ha colpevolizzato i figli gay.

«Come mi ha detto Anna Paola Concia, che non è una pericolosa omofoba ma un’esponente di punta della comunità Lgbt, che casualmente ho appena incontrato in Senato per parlare di Didacta Italia, non era sbagliata la risposta ma la domanda».

Perché?

«Non si va a indagare su qualcosa che ormai non dovrebbe più essere sindacato. Dovrebbe essere scontato il rispetto di tutti».

Normale anche a destra?

«Nel Fronte della gioventù c’erano due dirigenti che stavano insieme. Fondarono il primo cinema gay di Milano in via Padova. Restarono dirigenti. Uno di loro (S. F.) poverino subì un’aggressione da estremisti di sinistra e rimase a lungo tra la vita e la morte».

Calenda le dà del «fascio».

«Credo che Calenda abbia il suo da fare a ricontare i voti. In realtà nel mio partito sanno che sono sempre stato, sin da ragazzo, il meno nostalgico. Prima si appigliavano al busto del Duce. Adesso che l’ho dato a mio sorella cosa rimane?».

Non ha offeso le donne?

«L’unica accusa che non mi si può fare è di essere poco gentile con le donne. Lo sono sempre stato. Con tutte. Chiedete a Luxuria ad esempio».

Perché?

«Credo mi stimi perché al suo primo giorno di legislatura, intimidita e spaventata, me la presi con un assistente parlamentare che non le aveva dato una rosa distribuita a tutte le altre donne. E gliela diedi. In realtà, io le donne nel programma le ho difese».

Come?

«Dire che ci sarà la parità solo quando ci saranno al vertice donne brutte, grasse e stupide così come ora ci sono uomini brutti, grassi e stupidi è attaccarle o difenderle?».

Tornasse indietro riandrebbe in quel programma?

«Forse sì. Non mi interessa l’opinione di chi mi attacca a prescindere ma di chi mi conosce. E sa una cosa? Credo che la stragrande maggioranza di chi ha visto il programma non mi criticherebbe».

Equivoco in prima serata. La Russa femminista e l’ingenuità dei giornali alimentata dalla Fagnani. Guia Soncini su l’Inkiesta il 23 Febbraio 2023.

A "Belve", il presidente del Senato ha detto cose che possono essere interpretate come nefandezze oppure no. Il problema, come al solito, è che alcuni ragionano come in una curva di stadio

Vediamo se possiamo imparare qualcosa, dal colossale equivoco che occupa i giornali italiani e i social dei politici italiani da un paio di giorni, un equivoco che Francesca Fagnani ha alimentato con una certa qual maestria.

Tanto per cominciare, partiamo da un dettaglio ovvio ma spesso frainteso: non esiste il giornalismo televisivo. La televisione è televisione: il suo scopo è fare spettacolo, non informare. Potrei citare un certo ospite televisivo e il suo «Formigli ha fatto fortuna, ne vorrebbe tutte le settimane di calci come i miei», per rendere l’idea di cosa sia la televisione. Mi limiterò a dire che pensare d’informarsi con la televisione è come pensare di friggere senz’olio.

Quindi, Francesca Fagnani fa televisione. Il suo pubblico è quello di Porta Venezia: perlopiù maschi gay, perlopiù col passatempo di fare gif e metterle sui social (ogni popolo ha l’oppio che si merita). Se così non fosse, non le verrebbe mai in mente d’invitare, alla prima puntata delle sue prime serate, Naike Rivelli, una che nessuno spettatore medio sa chi sia (è la figlia di Ornella Muti).

Qui dovremmo attardarci a fare considerazioni sulle prime serate, ma ridurrò al minimo questa divagazione facendo solo due domande: si può fare una prima serata che è un allungamento di brodo della seconda, in cui le interviste diventano lunghe come "Heimat", e le gif te le fai da sola aggiungendo una ragazza che rifà un passaggio dell’intervista appena trasmessa? E: ti conviene metterti il pubblico in studio, dovendo di conseguenza ridurre al minimo il montaggio, quando la forza del tuo programma erano i tagli che facevano degli ospiti dei mezzi imbecilli e di te una con la battuta prontissima? Rispondetevi da soli, io ho l’equivoco di cui occuparmi.

Dunque Francesca Fagnani, che facendo televisione ha tra i suoi scopi essere ripresa dai giornali (giornali che ormai esistono perlopiù per appagare l’ego di chi fa televisione, e anche di questa codipendenza malata bisognerebbe parlare, ma non ora e non qui), lunedì manda ai giornalisti l’intervista di La Russa che martedì sarà nella prima puntata di "Belve" in prima serata.

Ottiene il risultato che cercava: martedì mattina i giornali hanno tutti la loro brava paginetta pubblicitaria gratuita di "Belve", con il lancio delle dichiarazioni di La Russa.

Che cos’ha detto La Russa di epocale? Ci sono due risposte possibili. Per chi vede la vita come un posizionamento da curva di stadio, un ampio settore di pubblico che va dalla militanza arcobaleno su Twitter agli articoli su Linkiesta, nefandezze (accipicchia, nientemeno, acciderbolina).

Per chi si è preso il disturbo di guardare il programma, invece di rimirare il proprio posizionamento ideologico e quello di La Russa, poco e niente. Tra questo poco e questo niente, anche la cosa più femminista che abbia sentito da molti anni – ma poi ci arriviamo, prima restiamo alla questione del figlio gay.

Quando si arriva lì, Fagnani girava attorno al tema già da un po’, e aveva chiesto a La Russa se fosse fan di Mastroianni sempre, anche del Mastroianni di "Una giornata particolare". La Russa ha già risposto che non gli piace quel film perché riduce l’omofobia a roba da fascisti (sintesi mia), mentre «purtroppo l’omofobia è un problema che hanno dovuto affrontare» in diversi tempi e contesti. Se non fossero a quel punto già dodici ore che l’Italia polemizza su La Russa omofobo, penserei: che bravo, «purtroppo l’omofobia», mica «purtroppo l’aborto», sa come non farsi tagliare i cinque secondi sbagliati nell’epoca delle gif. E invece.

La domanda sul figlio gay è quella che fai se sei Francesca Fagnani e vuoi far abboccare i giornali, e alla quale abbocchi se sei un commentatore di sinistra italiano. «Se suo figlio venisse da lei a dire che ha capito di essere omosessuale, non le chiedo come reagirebbe, ma cosa proverebbe?» (Fagnani legittima erede di quelli che vanno dai parenti dell’ammazzato a chiedere «cosa prova?»).

«Accetterei con dispiacere la notizia – ma la accetterei – perché credo che una persona come me, eterosessuale, voglia che il figlio le assomigli, però se poi non mi assomiglia pazienza. È come se mio figlio fosse milanista». È una risposta talmente impeccabile che Fagnani teme i giornali non abbiano il titolo, quindi insiste – ma il dispiacere è perché non le assomiglia o… – e La Russa ribadisce: «Le ho fatto un paragone preciso».

Il paragone è la tifoseria calcistica. Cioè: un gusto. Voglio che mio figlio abbia i miei stessi gusti. La Russa pensa che i milanisti siano contronatura? Se lo pensa, questa frase lo nasconde benissimo. Se lo pensa, ha un autore testi che consiglierei di ingaggiare alle Elly Schlein che dichiarano che bisogna ridurre il nostro consumo di elettricità (era l’intervista di Schlein che girava per social l’altroieri, e noi a scandalizzarci per la busonaggine milanista).

Qualcuno ha mai dato dei nefandi ai postmoderni che nelle bio su Twitter si dichiarano orgogliosi ed entusiasti dell’avere figli trans, dichiarandosi a loro volta trans? O a chi si dispera perché il figlio in effetti tifa una squadra di calcio diversa rispetto ai genitori? O a tutti quelli che i figli li fanno, con l’incubo che è un parto, invece di adottare i molti orfani che ci sono? Crediamo forse che non c’entri il volere figli che somiglino ai genitori?

Martedì, mentre lo sport nazionale era scandalizzarsi per La Russa, e tutti, da Schlein e Bonaccini in su, postavano il loro bravo penzierino indignato, io pensavo all’unico tratto bonacciniano di cui tutti parlano, le sopracciglia tatuate, e mi mettevo a guardare La Russa e Fagnani pensando che dovevamo emancipare le donne dal giogo estetico e invece abbiamo reso gli uomini altrettanto vanesi e insicuri.

Quando La Russa dice, delle donne della sua parte politica, «il livello estetico nel centrodestra è diminuito», non è questa forse una poderosa critica al berlusconismo, all’impiegare le donne per criteri estetici e non per le potenzialità di statiste? Non è più di sinistra che la presa per il culo, da sinistra, della Meloni che – come tutte in foto non elettorali – usava il fotoritocco sui manifesti elettorali?

Poiché abitiamo curve di stadio che c’impediscono ogni oggettività, non solidarizziamo con Meloni vittima d’un sistema che t’impone d’essere gnocca pure in ruoli in cui servirebbero altre qualità; allo stesso modo, non capiamo quant’è dirompente La Russa che dice la frase definitiva su tutto, sulla politica e su Sanremo e su quell’unicorno che è il giornalismo televisivo: «Quando una donna grassa, brutta e scema rivestirà un ruolo importante, a quel punto ci sarà la parità».

È l’affermazione più sovversiva che abbia sentito fare da anni, e la miglior critica culturale a un Sanremo in cui – se n’è già parlato in questa paginetta – c’erano la bianca e la nera e la madre e la nullipara, ma erano tutte rigorosamente gnocche, Fagnani compresa.

Fagnani, quando La Russa dice che gli uomini grassi e brutti e scemi hanno posti di potere e le donne no, si sta chiaramente chiedendo se il suo ospite non sia troppo idealista, e se verrà un giorno in cui lei potrà (o vorrà) andare in onda senza essersi fatta la messinpiega. Non apre questa divagazione solo perché la prima serata è già lunghissima, e non c’è tempo per l’autocoscienza.

Paolo Armaroli per “il Giornale” - ESTRATTO il 23 gennaio 2023.

 Nella seduta inaugurale della XIX legislatura, il 13 ottobre, Ignazio La Russa è stato eletto al primo scrutinio presidente del Senato. Non era scontato. Perché solo Silvio Berlusconi e Maria Elisabetta Alberti Casellati per amicizia votarono per lui.

 Mentre il restante gruppo di Forza Italia depositò polemicamente scheda bianca. Ma non avevano fatto i conti senza l’oste, il predetto La Russa. Che, come mi è già capitato di dire, non sarà l’uomo della Provvidenza. Ma si è rivelato astuto uomo della previdenza.

Difatti si è procurato altrettanti voti dell’opposizione e l’ha avuta vinta.

 Fatto sta che La Russa non concepisce Palazzo Madama come una gabbia dorata. E spesso e volentieri esce dalla tana istituzionale. Ovviamente non si limita a farsi una salutare passeggiata a Roma o a Milano. Ma intende dire la sua un po’ su tutte le questioni all’ordine del giorno.

Ecco che all’incontro tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni a via della Scrofa allo scopo di appianare le divergenze, La Russa sale le scale del Palazzo. Per andare dove? Lui appaga la legittima curiosità dei giornalisti: «Vado alla Fondazione Alleanza nazionale», sita nello stesso edificio. Ma, vedi caso, sceglie proprio quel giorno per recarvisi. Un’altra volta si presenta bel bello (si fa per dire...) a Palazzo Chigi, vedi caso in occasione di una riunione nello studio del presidente del Consiglio. 

E anche in questo caso, pronta la risposta: «Ricambio la visita fattami da Giorgia Meloni dopo la mia elezione alla presidenza del Senato». E via di questo passo, fino alla sua presenza ingombrante alla presentazione a Milano dei candidati di Fratelli d’Italia alle prossime regionali.

 Così fan tutti, si giustifica. Ma Cesare Merzagora dovette dimettersi per alcune critiche alla partitocrazia. Amintore Fanfani si dimise da presidente del Senato prima di accettare la segreteria della Dc. E qualche predecessore di La Russa restituì la tessera di partito. Se non casti, furono almeno cauti…. Dalla seconda carica dello Stato non si pretende l’ipocrisia. Ma la cautela, sì.

Estratto dell’articolo di T.L. per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2023.

[…] Ignazio La Russa […] «[…] sono rimasto me stesso senza mai rinnegare nulla e senza rinunciare a nulla».

 […] «[…] Fanfani, Fini, Bertinotti, Grasso, Spadolini, Casini: tutte alte cariche dello Stato che, nel corso della loro presidenza della Camera o del Senato, hanno continuato a fare attività politica senza che nessuno sollevasse un mignolo. Fini e Grasso hanno addirittura fondato due partiti, Futuro e libertà e Leu. L’amica che mi ha preceduto alla guida del Senato, Alberti Casellati, ha partecipato a tutte le convention di Forza Italia […] durante il suo mandato. Potrei andare avanti per un bel po’, anche con foto alla mano».

[…] Che cosa risponde a chi le rimprovera scarsa terzietà?

«[…] A differenza di alcuni miei predecessori non sono a capo di un partito e non sto per fondarne uno. Di mia spontanea volontà non ho fatto né faccio interventi a particolare commento dell’operato del governo, dei suoi singoli provvedimenti, della legge di bilancio. Ho le mie idee sui temi di carattere generale, come per esempio la giustizia o l’immigrazione, ma cerco di tenermi a debita distanza dal commentare le scelte specifiche della maggioranza».

 È intervenuto sullo stadio di San Siro, smentendo il vincolo annunciato dal sottosegretario Sgarbi.

«Ma quella è una vicenda che non riguarda il governo ma il comune di Milano, a cui spetta la decisione finale sullo stadio! Ho parlato da milanese […] Comunque sia, per come sta procedendo la vicenda, glielo posso dare per certo: San Siro non sarà mai abbattuto […]».

 A un giornalista che le chiedeva con quale sottopancia presentarla a un evento di FdI, lei ha risposto «Metti quel c... che vuoi».

«Ammetto di avere uno stile, come dire, poco paludato. E ammetto anche che questo stile è tra le cose che non sono cambiate con la presidenza del Senato. Quel giornalista, ma è un’opinione personale, mi ha tampinato in un modo poco elegante […] ha inseguito anche qualche componente della mia famiglia. Detto questo, più che pentito, posso dire di essere dispiaciuto per aver usato quell’espressione».

Avrà uno stile più sobrio?

«[…] io accetto critiche sul mio operato, sulle mie idee, pure su come presiedo l’Aula, anche se su questo nessuno ha mai messo in dubbio la mia imparzialità. Non accetto alcun tipo di critica, invece, su dove vado. E non mi arrendo davanti alle falsità».

 L’altro punto?

«Perché su di me il mirino è sempre puntato mentre in passato nessuno sollevava obiezioni? […] penso che la faccenda abbia anche un’altra ragione».

 E cioè?

«Io ho un obiettivo vero che […] si riduca la contrapposizione ideologica tra destra e sinistra, e che si avvicini una reale pacificazione […] Evidentemente a qualcuno della sinistra questa cosa non va giù».

[…] Ha risposto a Liliana Segre che non toglierebbe la fiamma dal simbolo di FdI. Conferma?

«Abbiamo tolto il rimando al Movimento sociale e lasciato solo la fiamma. Non c’è una sola ragione per togliere del tutto un simbolo che non ha rimandi al fascismo […]...».

 […] Il 25 aprile dove sarà?

«Tranquilli, celebrerò la Festa della Liberazione dove decido io. […] Non so ancora dove sarò questo 25 aprile ma so dove non sarò, in uno di quei cortei di piazza spesso teatro di contestazioni. E dove se pure andassi, tra le altre cose, qualcuno mi accuserebbe di essere un provocatore».

Dagonews il 26 gennaio 2023.

Giorgia Meloni è sempre più oltre la crisi di nervi: oltre ai Gabbiani di Rampelli, si sente “tradita” anche da ‘Gnazio La Russa. La “Ducetta” lo ha premiato con la presidenza del Senato, pensando che con la seconda carica dello Stato si quietasse, e in cambio ha ricevuto solo rogne.

 L’ex colonnello di An non si tiene un cecio in bocca: monita, fa politica, dichiara sull’universo mondo (anche sullo stadio di San Siro) e snocciola persino ricette di cucina. Insomma, è ingestibile.

 È forte la tentazione della premier di imbavagliare la seconda carica dello Stato. Ma, se nella Capitale Giorgia Meloni ha messo la mordacchia al mentore Rampelli e ai suoi gabbiani attraverso il commissariamento della federazione romana di Fratelli d’Italia, non può fare lo stesso con ‘Gnazio.

Non può commissariare Milano, feudo dei La Russa - il fratello di 'Gnazio, Romano è il plenipotenziario di Fratelli d'Italia in Lombardia.

 Per avere un quadro più chiaro del risiko di potere interno al partito in Lombardia, Donna Giorgia ha spedito sotto il Pirellone il suo responsabile organizzativo “Minnie” Donzelli: l’obiettivo è censire le truppe a lei fedeli.

 Le ultimissime esternazioni del “non paludato” La Russa, che non sono state apprezzate (eufemismo) in primis dal Quirinale, hanno spinto la Meloni a prendere carta e penna e a scrivere una cortesissima missiva di fuoco a ‘Gnazio. Con linguaggio tipico delle interlocuzioni istituzionali, “Io so’ Giorgia” ha recapitato un messaggio chiarissimo a La Russa: devi ricordarti che ricopri la seconda carica istituzionale, quella di presidente del Senato. L’ex ministro della Difesa, che non ha neanche risposto alla lettera, ha opposto il suo “me ne frego!”.

Il senso di onnipotenza dei La Russa Brothers ha creato allarme rosso nei salotti buoni della Milano da sorseggiare.

 L’intellighenzia Sala&pepe inizialmente schierata a sostegno della candidatura di Letizia Moratti ha cambiato cavallo: è passata in blocco con quel broccolo lesso di Pierfrancesco Majorino.

 Il candidato Pd-M5S è considerato l’unico vero avversario del circuito di potere dei fratelli La Russa. Un sondaggio riservato di domenica scorsa dava il centrodestra di Attilio Fontana al 43%, Majorino al 38,5% e Letizia Moratti a un impietoso 14,8%.

 Un’altra grana per la Meloni arriva da Roma e dall’attivismo di Fabio Rampelli che, sospingendo i candidati a lui vicini alle Regionali nel Lazio, punta a “controllare” almeno 5-6 consiglieri per avere la golden share sulla prossima, molto possibile, amministrazione di centrodestra.

 Ps: Nei circoli bene sotto la Madonnina si ciancia molto sul possibile sbarco della famiglia Angelucci a Milano attraverso l’acquisizione de “Il Giornale” (in ballo c’è anche “La Verità”). Gli imprenditori romani scioglieranno la riserva solo dopo le elezioni regionali, con i risultati in mano.

Estratto dell’articolo di Lorenzo Giarelli per “il Fatto quotidiano” il 24 gennaio 2023.

 L’attivismo di Ignazio La Russa, per nulla imbrigliato dalla nomina istituzionale a presidente del Senato, è nota: partecipa alle trattative sul Csm, presenzia agli eventi elettorali di Fratelli d’Italia, interviene nel dibattito pubblico.

 E ora si scopre, per bocca di Letizia Moratti, che fu lui a offrirle la possibilità di diventare presidente della Fondazione Milano-Cortina, prima che l’ex sindaca di Milano decidesse di candidarsi alle Regionali lombarde sfidando Attilio Fontana.

Intervistata su ilfattoquotidiano.it da Peter Gomez e Alberto Marzocchi, Moratti racconta i giorni in cui il centrodestra le aveva offerto poltrone di vario genere nel tentativo di indurla a rinunciare alla candidatura (all’epoca, era lo scorso autunno, Moratti ambiva ancora a correre al posto di Fontana e non contro di lui).

 Ed ecco che si arriva a La Russa: “Ci sono state mezze promesse di ministeri, c’è stata una telefonata in cui mi si preannunciava la presidenza della Fondazione Milano-Cortina senza neanche chiedermelo.

 Una telefonata da un’alta carica dello Stato”. “La seconda?”, incalza Gomez. “Esatto, l’ha detto lei”. “E poi altre promesse su partecipate, scelte che per me sarebbero state molto più facili”.

Dal racconto di Moratti si capisce che le offerte sono arrivate soprattutto tra settembre e ottobre, ovvero a cavallo tra le elezioni politiche e la formazione del governo Meloni.

 La Russa diventa presidente del Senato il 13 ottobre, mentre dieci giorni più tardi Repubblica, a sorpresa, dà per fatta la nomina di Moratti alla Fondazione.

 In realtà, Letizia ha in testa tutt’altro, infatti smentisce e, poco dopo, annuncia la candidatura con una lista civica appoggiata da Azione e Italia Viva.  Adesso però si scopre che quella proposta era arrivata dal presidente del Senato (il quale, al momento, non smentisce).  […]

Dagospia il 26 gennaio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro D’Agostino,

non è mia abitudine rivolgermi all’autorità giudiziaria neanche di fronte (come negli anni è capitato più volte) alle più inverosimili e offensive baggianate di quotidiani e riviste sempre politicamente orientate.

 Questo abituale mio comportamento vacilla però di fronte a quanto scrive oggi Dagospia che inventando del tutto e senza la traccia di una qualsiasi fonte (nemmeno quelle prive di ogni credibilità) accredita nell’ordine:

1)        un dissenso tra me e la Meloni che, addirittura, testualmente si sentirebbe “tradita”;

2)        una lettera (“missiva di fuoco”) assolutamente inesistente che la stessa Meloni mi avrebbe spedito. Del tutto falso è inoltre che Donzelli sia andato o debba andare a Milano per questa irreale e fantasiosa vicenda;

 3)        il fatto che io abbia un ruolo di “onnipotenza” nella “Milano da sorseggiare”, oltretutto assieme a mio fratello definito chissà perchè “plenipotenziario” quando è noto l’organigramma reale di FDI.

Il tentativo di accreditare, inventandolo di sana pianta, un dissidio interno a FDI a Milano proprio durante la campagna elettorale regionale (di fatti subito dopo si parla della Moratti e dei sondaggi) oltretutto a seguito di pretesi miei comportamenti asseritamente non graditi dal presidente Meloni (con la quale sottolineo i miei rapporti sono idilliaci), costituisce un ingiusto danno arbitrariamente cagionato ancor più che a me al partito FDI.

Riservandomi comunque ogni opportuna azione mi aspetto l’integrale pubblicazione di questa lettera e le scuse di Dagospia.

Ignazio La Russa

Estratto dell’articolo di T.L. per il “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2023.

[…] Ignazio La Russa […] «[…] sono rimasto me stesso senza mai rinnegare nulla e senza rinunciare a nulla».

 […] «[…] Fanfani, Fini, Bertinotti, Grasso, Spadolini, Casini: tutte alte cariche dello Stato che, nel corso della loro presidenza della Camera o del Senato, hanno continuato a fare attività politica senza che nessuno sollevasse un mignolo. Fini e Grasso hanno addirittura fondato due partiti, Futuro e libertà e Leu. L’amica che mi ha preceduto alla guida del Senato, Alberti Casellati, ha partecipato a tutte le convention di Forza Italia […] durante il suo mandato. Potrei andare avanti per un bel po’, anche con foto alla mano».

[…] Che cosa risponde a chi le rimprovera scarsa terzietà?

«[…] A differenza di alcuni miei predecessori non sono a capo di un partito e non sto per fondarne uno. Di mia spontanea volontà non ho fatto né faccio interventi a particolare commento dell’operato del governo, dei suoi singoli provvedimenti, della legge di bilancio. Ho le mie idee sui temi di carattere generale, come per esempio la giustizia o l’immigrazione, ma cerco di tenermi a debita distanza dal commentare le scelte specifiche della maggioranza».

È intervenuto sullo stadio di San Siro, smentendo il vincolo annunciato dal sottosegretario Sgarbi.

«Ma quella è una vicenda che non riguarda il governo ma il comune di Milano, a cui spetta la decisione finale sullo stadio! Ho parlato da milanese […] Comunque sia, per come sta procedendo la vicenda, glielo posso dare per certo: San Siro non sarà mai abbattuto […]».

 A un giornalista che le chiedeva con quale sottopancia presentarla a un evento di FdI, lei ha risposto «Metti quel c... che vuoi».

«Ammetto di avere uno stile, come dire, poco paludato. E ammetto anche che questo stile è tra le cose che non sono cambiate con la presidenza del Senato. Quel giornalista, ma è un’opinione personale, mi ha tampinato in un modo poco elegante […] ha inseguito anche qualche componente della mia famiglia. Detto questo, più che pentito, posso dire di essere dispiaciuto per aver usato quell’espressione».

Avrà uno stile più sobrio?

«[…] io accetto critiche sul mio operato, sulle mie idee, pure su come presiedo l’Aula, anche se su questo nessuno ha mai messo in dubbio la mia imparzialità. Non accetto alcun tipo di critica, invece, su dove vado. E non mi arrendo davanti alle falsità».

 L’altro punto?

«Perché su di me il mirino è sempre puntato mentre in passato nessuno sollevava obiezioni? […] penso che la faccenda abbia anche un’altra ragione».

 E cioè?

«Io ho un obiettivo vero che […] si riduca la contrapposizione ideologica tra destra e sinistra, e che si avvicini una reale pacificazione […] Evidentemente a qualcuno della sinistra questa cosa non va giù».

[…] Ha risposto a Liliana Segre che non toglierebbe la fiamma dal simbolo di FdI. Conferma?

«Abbiamo tolto il rimando al Movimento sociale e lasciato solo la fiamma. Non c’è una sola ragione per togliere del tutto un simbolo che non ha rimandi al fascismo […]...».

 […] Il 25 aprile dove sarà?

«Tranquilli, celebrerò la Festa della Liberazione dove decido io. […] Non so ancora dove sarò questo 25 aprile ma so dove non sarò, in uno di quei cortei di piazza spesso teatro di contestazioni. E dove se pure andassi, tra le altre cose, qualcuno mi accuserebbe di essere un provocatore».

Presidente La Russa: l’attività politica è un conto, quella di partito un altro. Per i costituenti la carica del presidente del Senato presentava «aspetti di maggiore omogeneità o minore eterogeneità» rispetto a quella del Colle. E testimonia «visione imparziale o per lo meno non rigidamente partitica, degli interessi nazionali da tutelare». Antonella Rampino su Il Dubbio il 19 gennaio 2023

Il politico italiano - scriveva già ai suoi tempi Luigi Barzini jr - si è formato nella tradizione barocca; sa recitare benissimo, ha imparato a stare in scena e, di volta in volta, i suoi maestri sono Masaniello, Vittorio Emanuele Orlando, Mussolini, Gronchi e Pertini. La classe dei D’Azeglio, dei Cavour, dei Giolitti - era la conclusione, alla quale di nostro aggiungiamo i Ciampi - è un’eccezione.

L’amara constatazione ci è tornata in mente riflettendo sullo strano caso dell’attuale presidente del Senato, che assurge all’onore delle cronache nei pezzi di colore, e quasi sempre solo perché, contraddicendo quella che per tutta la storia repubblicana è stata la postura d’imparzialità dell’alto incarico, risponde con battute color vetriolo a chi gli chiede cosa ci faccia la seconda carica dello Stato a questa o quella riunione di partito. Corroborando così, a forza di spintoni verbali, la popolarità che a Ignazio La Russa regalò, facendone un’azzeccata caricatura, il celebratissimo Fiorello.

Eppure, il tema non sembra da facezie. E il primo a rendersene conto potrebbe essere lo stesso La Russa, che non a caso nel suo discorso d’insediamento a Palazzo Madama pronunciò parole di perfetta garanzia di imparzialità. Parole inevitabili.

Quel che è accaduto in seguito, e che ha provocato le colorite repliche e i pizzicotti canzonatori dei cronisti, è che il presidente del Senato intende - e lo ha anche esplicitato - continuare a fare quella che comunemente si chiama “attività politica”. Il suo ex presidente di partito, e pure ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha di recente sostenuto che da un presidente d’assemblea parlamentare si deve esigere imparzialità quando guida l’Aula, ma non si può pretendere che non faccia politica fuori dall’emiciclo.

E però fare attività di partito è cosa ben diversa, come ognuno può facilmente comprendere. Occorre ricordare che vi è stato un tempo, e un tempo abbastanza lungo nella storia repubblicana, in cui perfino i gruppi parlamentari erano disgiunti e autonomi dai partiti e dalle loro segreterie, un tempo in cui, quando il Capo dello Stato doveva aprire le consultazioni per individuare la personalità alla quale conferire l’incarico di formare il governo, riceveva i capi dei gruppi parlamentari e lasciava fuori della porta i segretari dei partiti. Non che questi ultimi non avessero un ruolo: certo che l’avevano, ma in sottofondo. Con la cornetta in mano.

Certo, acqua sotto i ponti ne è passata. E infatti, oggi, i segretari di partito accompagnano i capigruppo dal Presidente alle consultazioni. Ma, si noterà, quella forma è rimasta. Come mai? E come mai - ci avete fatto caso? - i presidenti della Repubblica per trascorrere quelle quasi-ferie estive se ne vanno sempre in qualche tenuta quirinalizia, in qualche caserma sulle Alpi o in Sardegna, o al massimo, come faceva Giorgio Napolitano, per qualche giorno su un’amata isola eolica? Come mai nessuno di loro fa mai quel che fanno molti italiani, vanno in vacanza all’estero? Il presidente della Repubblica è un organo costituzionale, le sue funzioni non possono andare in vacanza, e alla Costituente ci fu un bello scervellarsi su come dove quando perché e quanto delle sue funzioni potessero trasferirsi a qualcun altro in casi estremi di necessità. Ma soprattutto a chi potessero essere temporaneamente trasferite.

Si decise che la carica vicaria dovesse essere quella del presidente del Senato perché - per dirla con le parole del Costituente liberale Aldo Bozzi - «presenta aspetti di maggiore omogeneità o minore eterogeneità» rispetto a quella «dell’organo presidente della Repubblica». Fermo restando che in caso di supplenza temporanea si tratta di supplenza della persona e non delle funzioni, perché trasferirle al presidente del Senato e non a quello della Camera? Perché - spiegava sempre Bozzi- «il Senato, pur avendo funzioni pari a quelle della Camera, presenta talune note di differenziazione che lo pongono in certa misura al riparo dalle manifestazioni più acute della lotta politica e di partito; ragion per cui il Presidente del Senato, come primus inter pares dell'organo, ha caratteristiche di maggiore omogeneità con il Capo dello Stato, soprattuto sotto il profilo della visione imparziale, o per lo meno non rigidamente partitica, degli interessi nazionali da tutelare».

Ecco fatto: il presidente del Senato è la Seconda Carica dello Stato perché testimonia «visione imparziale o per lo meno non rigidamente partitica, degli interessi nazionali da tutelare». È ovvio che possa “fare politica” come un qualunque cittadino italiano: ma non può essere e nemmeno tantomeno sembrare che faccia attività partitica. Se non fosse chiaro, basta la parola: partitico vuol dire di una precisa parte.

Infatti, non han forse fatto - per stare a tempi relativamente recenti - politica Bertinotti, Casini e Fini, pure tenendo in sostanza sulla corda i rispettivi governi, e Fini sino al «E che fai, mi cacci?» col quale abbandonò il Pdl e il governo Berlusconi al proprio destino? Ma mai nessuno di loro ha partecipato a riunioni di partito, e tantomeno vantandosene. E non erano - comunque - cariche vicarie del Capo dello Stato: non erano sottoposti a quel rigido criterio di imparzialità. E non osiamo immaginare a quali deflagrazioni avrebbe portato se un Bertinotti, un Finì o un Casini si fossero presentanti a una riunione a Palazzo Chigi, come è invece capitato che abbia fatto Ignazio La Russa. In termini istituzionali, un abbassamento nel rapporto tra organi costituzionali e molto più che partecipare a una riunione di partito. Per capirlo fino in fondo, basta chiedersi come mai sia il presidente del Consiglio incaricato ad andare in visita a Montecitorio e a Palazzo Madama, e non il contrario. La sede di governo è la sede di un organo politico che, per entrare in funzione, ha bisogno della fiducia delle assemblee: così è nella democrazia parlamentare.

Se è consentito anche a noi scherzare per un momento, non al presidente del Senato ma a ‘Gnazio vorremmo dire: «Esiste il telefono! E pure Skype!»

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

Caro Merlo, alcuni comportamenti che la correttezza istituzionale, pur senza norme precise, aveva reso prassi consolidata, vengono disattesi. Mi riferisco a La Russa che fa campagna elettorale per Fontana e partecipa alle riunioni di partito pur essendo la seconda carica dello Stato, e si giustifica affermando che nessuna legge glielo vieta.

Calogero Barranco - Gravedona (Como)

Risposta di Francesco Merlo:

La Russa, fazioso e sanguigno, si annoia: "non mi piace fare il semaforo" ha detto. E adatta la funzione di presidente del Senato al suo carattere spericolato. Ci sono stati diversi presidenti della Camera, non solo a destra, che si comportavano così. Ma lui, che riassume e perfettamente incarna l'irrefrenabile revanscismo che anima questa destra al potere, è il primo presidente del Senato eversivo.

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 19 gennaio 2023.

 “Sarò super partes, ma continuerò a fare politica”. Lo aveva detto Ignazio La Russa quando a ottobre scorso era stato eletto ventunesimo Presidente del Senato della Repubblica. […] Partecipa a eventi di campagna elettorale, come quello organizzato dal suo partito a Milano per lanciare i candidati di FdI e stringere le fila della maggioranza per la corsa alle regionali lombarde. Ma in quale veste si presenta all’appuntamento?

In quella del dirigente di partito o della seconda carica dello Stato? Dopo aver detto la sua sulle sorti dello stadio di San Siro, a domanda risponde: “Parlo da Ignazio La Russa, milanese“. Chiediamo ai familiari. Il figlio Geronimo dice di non sapere. Il fratello Romano, assessore lombardo alla Sicurezza, è più loquace: “E’ qui da persona che da sessant’anni fa politica”. Il mistero s’infittisce, alla faccia della terzietà dell’incarico.

 Ma c’è anche un problema tecnico: trattandosi di un evento elettorale, cosa scrivere nel sottopancia al momento di montare il servizio? Tocca tornare dal diretto interessato. “Metti quel che cazzo vuoi”, risponde La Russa. Il tono escluderebbe la seconda carica dello Stato, e invece no: “Qui sono come presidente del Senato”, precisa. […]. “Non mi sono arrabbiato, ma devi dirmi se è un’intervista o se stiamo chiacchierando… e allora spegni subito”.

Estratto dell’articolo di Andrea Malaguti per “la Stampa” il 19 gennaio 2023.

L'elegante Ventunesimo Presidente del Senato della Repubblica, Ignazio Benito La Russa, ha liquidato un audace giornalista del Fatto Quotidiano che gli domandava a quale titolo partecipasse alla campagna elettorale lombarda di Fratelli d'Italia, con l'immortale replica: «Metti quel cazzo che vuoi». […] L'episodio risale in effetti a quattro giorni fa, ma l'imprescindibile testimonianza filmata è diventata virale solo ieri grazie a "Dagospia", rilanciando un dibattito […]: fino a che punto saremo costretti a sopportare il "cazzovuoismo" della seconda carica dello Stato?

Anche a questa domanda […]si è già premurato di rispondere il medesimo 'Gnazio […]: «Così sono e così resto, fatevene una ragione». […] Per il Presidente è stata una scelta naturale, espressa con chiarezza nel giorno dell'insediamento a Palazzo Madama […]: «Mi sono emozionato di più per il triplete dell'Inter».

 […] l'Uomo Nerazzurro non ha mai avuto incertezze […]: «Celebrare il 25 aprile? Dipende. Di certo non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi, perché lì non si celebra una festa della libertà e della democrazia, ma qualcosa di completamente diverso, appannaggio di una certa sinistra».

[…] Al compleanno del Msi […] il 26 dicembre scorso […] l'Inarrivabile Ardimentoso scrisse […]: «Nel ricordo di mio padre, che fu tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano in Sicilia. E che scelse, con il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione». Si potrebbe aprire una larga discussione sulla compatibilità sostanziale tra la Fiamma e la Carta fondativa, ma qui rileva […] sottolineare quel "per tutta la vita" che deve essere  una sorta di giuramento fatto col sangue […] Dio, Inter, Patria e Famiglia. […]

Sorge il sospetto che nel mondo rovesciato del […] Presidente la buona educazione sia un disonore e la villania un blasone. Ma, in fondo, per sintetizzare lo sgraziato larussismo che ci accompagna da oltre 40 anni (il Duce che 'Gnazio ostenta in casa durò appena la metà) è più utile ricorrere alla genialità di William Faulkner, «il passato non muore mai. Non è nemmeno passato».

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” l'8 ottobre 2023.

Una rete sull’asse Paternò-Milano tra clientele politiche, strani soci e affari in call center ma non solo. Una rete che ha al centro il presidente del Senato Ignazio La Russa. A ricostruirla una inchiesta di Report, che andrà in onda oggi alle 21 su Rai Tre e che inizia con le “promozioni” di professionisti e politici amici di La Russa, e tutti originari di Paternò, nelle istituzioni: dal Csm al Senato. 

Alla Camera è stato eletto Francesco Cincitto che dice: «Sono il dentista di La Russa, milito in FdI da 30 anni». Poi, sempre dal cerchio magico di Paternò targato La Russa, Giuseppe Failla, ex sindaco, è stato scelto come componente della commissione paritetica della Conferenza Stato-Regione e fa parte anche della Commissione contenzioso del Senato. La collega di studio di Failla, l’avvocata Rosanna Natoli, candidata alla Camera non è stata eletta: adesso il Parlamento l’ha eletta membro laico del Csm. […]

Report ricostruisce anche le «fortune» politiche e societarie del padre del presidente del Senato, Nino La Russa, prima con il discusso finanziere che amava giocare in Borsa Michelangelo Virgillito e le sue aziende, dove investì anche Michele Sindona, e poi con l’ingegner Salvatore Ligresti. 

Report intervista l’ex colonnello dei carabinieri Michele Riccio che ha raccolto le ultime confessioni di Luigi Ilardo, un collaboratore di giustizia ucciso dalla mafia, secondo il quale nel 1994 Cosa nostra in Sicilia orientale avrebbe sostenuto Nino La Russa: il presidente del Senato ha già annunciato querela per diffamazione per queste affermazioni in un video che andrà in onda durante la puntata.

Ma Report solleva soprattutto il caso delle avventure societarie di La Russa e dei suoi familiari. A partire dell’apertura a Paternò di un call center che lavora per la sanità lombarda da diversi anni. Report intervista una ex assessora della Regione Lombardia ai tempi del governatore Roberto Formigoni: Monica Rizzi. Secondo quest’ultima sarebbe stato Romano La Russa, fratello di Ignazio, che «in prima persona avrebbe spinto per l’apertura del call center».

Dice Report: «L’operazione viene gestita da Giovanni Catanzaro, che sedeva accanto a Nino La Russa nei cda di Sai e Richard Ginori ed è entrato in società con Ignazio, Vincenzo e Romano nella Idrosan». Catanzaro apre a Paternò anche un altro call center: si chiama Midica e in questa società ha una partecipazione anche Gaetano Raspagliesi, cognato di Ignazio La Russa. Oltre 300 le assunzioni. 

Il call center però entra in crisi e allora arriva un imprenditore a investire: Patrizio Argenterio, che intervistato da Report sostiene di aver ricevuto un invito ad investire da Ligresti e avrebbe incontrato anche La Russa allora ministro della Difesa (siamo nel 2008). Argenterio, che finirà col patteggiare un anno per bancarotta per questa avventura, aggiunge: «Quel giorno mi dice “ah guarda noi stiamo facendo un progetto che si chiamerà “Difesa”, perché vogliamo informatizzare polizia, carabinieri, finanza equindi ve ne faremo fare un bel pezzo”».

La Russa non fa riferimento all’investimento nel call center del cognato, ma avrebbe parlato di cento milioni di investimenti della Difesa. Del progetto ministeriale non se ne farà nulla. Il giornalista Giorgio Mottola chiede all’imprenditore se questo colloquio ha avuto un ruolo nella scelta di investire 3 milioni in una azienda decotta. La risposta di Argenterio è netta: «Certo». 

C’è infine un socio attuale di La Russa in una srl immobiliare con delle ombre di non poco conto. Si chiama Sergio Conti. Un imprenditore che ad un certo punto si sarebbe rivolto ad esponenti della cosca di ‘ndrangheta di Pepè Onorato per recuperare un credito. Da questa vicenda nasce un processo che dopo due condanne finisce con l’assoluzione di Conti in Cassazione: perché il reato viene riqualificato da estorsione in esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza. […]

 Davanti ai microfoni di Report Conti, che ancora oggi è socio e amministratore dell’azienda di La Russa, conferma di essersi rivolto agli ‘ndranghetisti per avere i soldi indietro. Conclude Report: «È opportuno che il presidente del Senato abbia come socio un imprenditore che si è rivolto alla ndrangheta?».

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per repubblica.it il 9 ottobre 2023. 

Il presidente del Senato annuncia querela per diffamazione dopo le anticipazioni della puntata di Report in onda ieri sera su Rai Tre. Il programma di inchieste ha messo nel mirino da un lato fortune e relazioni del padre di La Russa, Antonino detto Nino, ma anche alcuni operazioni imprenditoriali sponsorizzate da familiari del presidente del Senato a Paternò. Inoltre mette nel mirino il passato con alcune ombre di un socio attuale in una srl immobiliare di La Russa. Anticipazioni pubblicate da Repubblica e dal Fatto Quotidiano. 

"Va subito affermato che dopo quasi due mesi di costose ricerche e di troupe sguinzagliate in varie regioni d'Italia, non avendo potuto trovare nemmeno un briciolo di attività non solo illegali ma anche solo inopportune del presidente La Russa, Ranucci e i suoi compagni hanno optato, per cercare disperatamente di infangare suo padre e la sua famiglia, ed e' questo l'aspetto che più fa infuriare il presidente del Senato, con ricostruzioni del tutto difformi dalla verità e gravemente lesive dell'onore di chi, a cominciare dal defunto Antonino La Russa che oggi avrebbe 110 anni, e in vita sua mai è stato oggetto neanche di un avviso di garanzia per qualsivoglia ragione", si legge in una dichiarazione del portavoce del presidente del Senato. "In particolare - si precisa ancora – 

Report “accusa” quest'ultimo di essere stato dopo il 1956 vicepresidente della Liquigas, società di quel finanziere Michelangelo Virgillito, tuttora osannato come benefattore della Chiesa e che mai ha avuto problemi giudiziari, che la trasmissione di Ranucci falsamente accusa per un episodio risalente al 1938. Ben 18 anni prima che il padre del presidente La Russa lo conoscesse. Ripetiamo: 18 anni prima di conoscerlo".

(...) 

"Sulle altre accuse, dai call center agli eletti di Paternò, fino ai rapporti con un socio di un piccolo bar comprato per aiutare il barista, ancora più facilmente si potrà far rendere conto in sede penale a tutti i divulgatori e ai calunniatori seriali. A cominciare - è sempre il portavoce del presidente del Senato ad anticiparlo - da Report stessa. Vedremo la trasmissione di questa sera per poi affrontare fake news e vergognose ricostruzioni nei modi che la legge consente pur consci della convinzione di impunità che accompagna questo tipo di pseudo inchieste giornalistiche".

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 10 ottobre 2023.

«Sapevo che utilizzavano metodi poco ortodossi, non che erano proprio della ‘ndrangheta. Ma le dico una cosa: con gli avvocati e la giustizia italiana non avevo ottenuto il mio credito da questi altri delinquenti ». 

E il presidente Ignazio la Russa?

«Lo conosco, certo, siamo soci. Ma ci avrò parlato due o tre volte e quando ero sotto processo per questa presunta “estorsione” lui mi ha detto di restare suo socio: poi sono stato assolto e quindi aveva ragione ». 

Sergio Conti, 79 anni, imprenditore, è oggi socio nella sas immobiliare “Gibson” insieme alla seconda carica dello Stato. Una società che ha come proprietà dei locali affittati a una enoteca.

Report su Rai 3 ha raccontato la storia di Conti, chiedendosi se sia «opportuno che un imprenditore che si era rivolto a uomini di ‘ndrangheta possa essere socio del presidente del Senato». Conti per questa vicenda era stato condannato in appello, poi la Cassazione ha annullato la sentenza. Il reato è stato riqualificato da estorsione a esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza, fattispecie che richiede una querela di parte. Ma la vittima non ha voluto presentare denuncia e Conti è stato assolto. 

Signor Conti ha visto la puntata di Report […]?

«No, non l’ho vista. Sono stato processato per questa vicenda e assolto. Ho cercato in tutti i modi di recuperare i miei soldi con avvocati e agenzie e non ci sono riuscito. Poi mi sono rivolto ad altri». 

Questi “altri” erano uomini legati alla ‘ndrangheta e per la precisione al clan che ha come riferimento Pepè Onorato.

«Non sapevo che erano legati alla criminalità. Sono uno onesto». 

Ha sentito il presidente del Senato La Russa?

«Guardi, non l’ho sentito e ci avrò parlato tre volte nella mia vita. Io ho contatti soprattutto con l’altro socio nella Gibson, il dottor Corsaro. Mi sono trovato in questa Gibson per scommessa: è una enoteca dove forse adesso con gli affitti e vendendo le quote riuscirò a recuperare qualche soldino, perché con La Russa e Corsaro abbiamo comprato l’immobile. Vorrei comunque mollare perché ho una età e sono stanco.  In questa storia comunque i veri delinquenti sono quelli ancora in giro con i miei soldi».

 Ma ha chiarito la sua posizione con La Russa? Il presidente del Senato, saputo quanto era accaduto, le ha mai chiesto lumi su questa storia?

«Ma cosa devo chiarire? Quando è successo tutto avevo detto subito a La Russa e Corsaro che ero pronto a uscire dalla società. Invece loro mi hanno detto “no, no, aspetta”. Alla fine sono arrivato in Cassazione e poi sono stato assolto del tutto. […]».

Si è pentito comunque di esseri rivolto a personaggi, come dice lei, dai “metodi più convincenti” ?

«All’inizio nella società con La Russa c’erano anche i ladri che mi hanno fregato i soldi, poi proprio il politico ha capito che non erano persone buone e abbiamo rilevato le quote. Per il resto mettiamola così: con la giustizia che c’è in Italia, con gli avvocati che ho pagato e con le buone maniere non ho ottenuto nulla di nulla. Questa è la verità. E sappia una cosa. Ho 79 anni e poco da perdere e sono una persona onesta: ma se mi dovessero dire che ho tre mesi di vita, comprerei una pistola e andrei a sparargli […]».

LA RUSSA DINASTY Report Rai domenica 8 ottobre 2023 di Giorgio Mottola Collaborazione: Greta Orsi Consulenza: Marco Bova Immagini: Carlos Dias, Dario D’India, Fabio Martinelli Montaggio e grafica: Giorgio Vallati

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Santa Barbara è la protettrice di Paternò, comune siciliano alle pendici dell’Etna di 45mila anime. La più illustre delle quali è la seconda carica dello Stato Ignazio La Russa, che qui è nato e vissuto fino all’adolescenza. E come ogni paternese che si rispetti è anche lui devotissimo alla patrona, al punto da fare una delle sue prime apparizioni pubbliche, appena eletto presidente del Senato, proprio alla processione della Santa.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO 4/12/2022 IMMAGINI CONCESSE DA VIDEO STAR Io sono Ignazio, la seconda carica o terza o prima non conta. Sono amico del sindaco e mi auguro di rimanere sempre un buon cittadino di Paternò con la benedizione di Santa Barbara

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Santa Barbara i paternesi attribuiscono molti miracoli. Il più importante sarebbe avvenuto durante l’eruzione dell’Etna del 1780. Quando la lava si fermò a pochi metri dalle case di Paternò, secondo la credenza locale, solo grazie all’intervento della Santa.

ANTONINO NASO - SINDACO DI PATERNÒ (CT) È una santa miracolosa, tanto ha fatto per la nostra comunità e noi ci affidiamo sempre a Santa Barbara.

GIORGIO MOTTOLA Santa Barbara ha fatto tanti miracoli ma anche La Russa qualche miracolo l’ha fatto. Ha mandato Paternesi al Csm, alla presidenza dell’Assemblea regionale siciliana, in Parlamento.

ANTONINO NASO - SINDACO DI PATERNÒ (CT) I santi sono santi, i politici sono politici.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dei miracoli politici di La Russa finora ha beneficiato solo un gruppo ristretto di fedelissimi paternesi a partire dal più rampante di tutti: Gaetano Galvagno, paternese doc, lambito da una indagine per corruzione archiviata in tempo record. Lo scorso novembre è stato eletto presidente dell’Assemblea regionale siciliana, il più giovane della storia, sotto i buoni auspici del presidente del Senato in persona

19/09/2022 - IGNAZIO LA RUSSA - PRESIDENTE DEL SENATO Perché tu, caro Gaetano, dovrai non solo rappresentare Fratelli d’Italia all’Ars. Dovrai rappresentare anche quelli che ti conoscono come me. Quelli che ti hanno visto crescere. Quelli che ti vogliono bene. E non è che ti puoi accontentare di fare solo il deputato regionale. Noi vogliamo che tu non ti ponga limiti

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in attesa che Galvagno arrivi in Parlamento, c’è un altro paternese a tenergli il posto: Francesco Ciancitto, eletto nel collegio blindato Sicilia 2. In paese c’è chi maligna che a far ricadere la scelta su di lui non siano state solo le qualità politiche.

GIORGIO MOTTOLA Buona sera, sono Giorgio Mottola

FRANCESCO CIANCITTO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Non ho niente da dire, non ho niente da dire

GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle… Ma, è vero che lei è il dentista di La Russa?

FRANCESCO CIANCITTO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Sono anche il dentista di La Russa

GIORGIO MOTTOLA Ah… E quindi è questa una delle ragioni per cui è diventato parlamentare?

FRANCESCO CIANCITTO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Guardi non le rispondo perché la sua domanda non merita una risposta

GIORGIO MOTTOLA Per quali meriti lei è diventato parlamentare? Perché è stato inserito nella lista di Fratelli d’Italia?

FRANCESCO CIANCITTO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Perché milito in questo partito da 30 anni

GIORGIO MOTTOLA E quanto c’entra il fatto che è il dentista di La Russa?

FRANCESCO CIANCITTO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Basta ma ripete sempre la stessa cosa… non dica sciocchezze

GIORGIO MOTTOLA Eh glielo chiedo… Anche perché c’è una concentrazione di potere qui a Paternò… avete anche un consigliere del Csm, il presidente dell’Ars. Come mai questa città sforna tutta questa classe dirigente? Ma dove scappa così su?

FRANCESCO CIANCITTO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Lei mi segue

GIORGIO MOTTOLA Che fa anche caldo! Lei non ha neanche la giacca…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il dentista di La Russa ha soffiato il posto in lista a Giuseppe Failla, avvocato e sindaco di Paternò per due mandati. Vulcanico e protagonista di pittoresche proteste, è un militante storico del Movimento sociale, negli anni sempre fedele, ha seguito l’attuale presidente del Senato prima in Alleanza Nazionale, poi nel Pdl e infine in Fratelli d’Italia.

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Siamo tutti amici di La Russa

GIORGIO MOTTOLA Io pensavo che sarebbe stato lei poi il deputato a un certo punto visto il percorso GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 C’è stato un ringiovanimento del partito e hanno scelto una persona eccezionale Francesco Ciancitto

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la mancata candidatura di Failla è stata compensata con una doppia nomina nella commissione paritetica della Conferenza stato regione e nella commissione contenzioso del Senato presieduto da La Russa.

GIORGIO MOTTOLA E l’ha messa lì Ignazio?

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 La Russa quando fa una segnalazione non è che dice così deve essere, la sottopone a tutti gli altri

GIORGIO MOTTOLA Perfetto, quindi l’ha proposta La Russa?

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Ma non è che sono l’ultimo arrivato all’interno del partito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alle ultime elezioni la collega di studio di Pippo Failla, l’avvocata Rosanna Natoli è stata candidata alla Camera con Fratelli d’Italia e ha mancato per poco l’elezione. Ma anche lei, paternese doc e vicina al presidente La Russa, ha potuto consolarsi con un prestigioso incarico. Il Parlamento l’ha eletta infatti membro laico del Consiglio superiore della magistratura. E così da avvocato di provincia, spesso alle prese con sinistri stradali e liti familiari, si ritrova oggi a decidere le carriere dei magistrati italiani.

GIORGIO MOTTOLA Se non ci fosse stato La Russa sarebbe diventata membro del Csm la Natoli?

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Può essere di sì

GIORGIO MOTTOLA Però con tutto il rispetto, un avvocato che faceva l’avvocato a Paternò comunque

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Ma che importanza ha? L’avvocato a Paternò è superiore di un avvocato di Milano. La Natoli è un avvocato con i controcoglioni… scusandomi.

GIORGIO MOTTOLA Quindi che si occupata di cause importanti?

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Certo

GIORGIO MOTTOLA Ma qual è il caso più importante che ha seguito la Natoli?

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Guardi… mmmm…. Ripeto nel settore penalistico ce ne sono tanti… non mi ricordo il nome…

GIORGIO MOTTOLA Un caso se lo ricorda?

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Allora… eheh

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, ride… Non ricorda. Però appartiene alle cose umane che in un paesino di piccole dimensioni un po' tutti si conoscano. Come appartiene alle cose umane anche il fatto che se c’è una famiglia di potere si trascini dietro le persone di cui si fida. Ora lo zio di Ignazio La Russa, Rosario, è stato nominato podestà dal regime fascista e il padre è stato per tanto tempo segretario locale del partito e per decenni è stato anche parlamentare del movimento sociale italiano. Paternò nella nostra storia sembra un po' l’ombelico d’Italia: ha espresso la seconda carica più importante dello Stato, il presidente dell’Assemblea regionale siciliana e poi un membro del Csm e tanti politici e imprenditori importanti per il nostro paese. È Paternò dove ci sono le radici del potere, l’origine del potere della famiglia La Russa. Anche se settant’anni fa hanno abbandonato la cittadina per seguire il padre, Antonino, che era stato chiamato a Milano da un altro paternese Michelangelo Virgillito, un imprenditore controverso che è stato santificato come benefattore a Paternò ma considerato un vero diavolo dagli economisti per la sua finanza spregiudicata, per le scalate a Liquigas a Sai Fondiaria, a Richard Ginori. E quando poi c’era un mistero sostanzialmente sulla figura di questo imprenditore perché era partito con le scarpe bucate da Paternò e improvvisamente era diventato milionario. Da dove viene il suo patrimonio? Nel dopoguerra chiama a gestirlo proprio Antonino La Russa, il padre di Ignazio che rimarrà lì anche quando Virgillito entrerà in disgrazia, rimarrà lì anche dopo gli anni ’70, quando si scoprirà che a finanziare alcune di quelle scalate spregiudicate c’era stata la mano di Michele Sindona, il banchiere siciliano della mafia e della P2, accusato dell’omicidio Ambrosoli. Sindona morirà poi in carcere a Voghera, avvelenato da un caffè al cianuro. Una straordinaria inchiesta del nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla metà degli anni ’50, quando era solo un ragazzino Ignazio La Russa lascia Paternò insieme alla famiglia per trasferirsi a Milano, di tempo ne è passato ma il paese di origine è rimasto centrale nella mappa del potere dell’attuale presidente del senato. Non a caso all’ingresso della cittadina siciliana campeggia da decenni questa scritta oramai scolorita. Paternò è un feudo della dinastia La Russa da quasi un secolo. Da quando lo zio Rosario La Russa fu nominato dal regime fascista podestà di Paternò. Un’eredità politica di cui Ignazio La Russa fa orgogliosamente mostra nella sua casa di Milano.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Vedi però sotto la stella del Duce, ci ho messo la stella rossa. C’è anche un simbolo comunista però gliel’ho messo sotto i piedi.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO 8/02/2023 – SENATO DELLA REPUBBLICA Io sono sempre dipinto come quello che ha i busti del duce. Ce l’ho uno, è alto così, è di mio padre, me lo ha lasciato mio padre. Non capisco perché dovrei buttarlo, non lo butterò mai

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il padre di Ignazio, Antonino La Russa, detto Nino, è il vero capostipite della dinastia La Russa. Ex segretario del partito fascista locale e per anni parlamentare del Movimento sociale italiano, la giunta comunale, a maggioranza Fratelli D’Italia, gli ha intitolato una delle piazze più grandi di Paternò

GIORGIO MOTTOLA Nino La Russa che ruolo ha avuto?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Un ruolo di primo livello.

GIORGIO MOTTOLA È stato segretario del partito nazionale fascista?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) È stata la prima sezione a nascere a Paternò

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Filippo Condorelli è un medico in pensione ed ex dirigente del Movimento Sociale Italiano, poi passato ad Alleanza Nazionale. Non nasconde una certa nostalgia per il ventennio al punto da intitolare un’intera ala della sua villa a Benito Mussolini

GIORGIO MOTTOLA E questa che cos’è?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) E questa è una targa che ho voluto mettere proprio in onore…

GIORGIO MOTTOLA Ma come le è venuto? Ma non si può fare una cosa del genere

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Perché, è casa mia

GIORGIO MOTTOLA Si ho capito ma è sempre apologia, che sarebbe un reato.

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Ma quale apologia

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Paternò e negli altri comuni della cintura etnea non è raro trovare nei locali pubblici busti del duce o imbattersi nelle bacheche di Fratelli d’Italia inneggianti a Benito Mussolini. Da quasi 50 anni l’area etnea è il feudo elettorale dei La Russa. Grazie ai voti di Paternò e dei comuni limitrofi il padre di Ignazio, Nino La Russa, è stato senatore del Movimento sociale ininterrottamente dal 1972 al 1992, riuscendo a scalzare persino i potentissimi candidati della Democrazia Cristiana

GIORGIO MOTTOLA E come riuscì un missino a imporsi su un democristiano?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Beh, era cresciuto tanto, era cresciuto a livello commerciale, a livello economico oltre che professionale. Gestiva veramente il potere e aiutava la città di Paternò, Nino La Russa.

GIORGIO MOTTOLA In altre parole, mi sta dicendo che ha favorito assunzioni qui in zona?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) E certo

GIORGIO MOTTOLA Si era creato una rete clientelare?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Questo lo dice lei, io non l’ho detto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oltre che parlamentare del Movimento sociale, nel dopo guerra Nino La Russa si ritrova a ricoprire anche il ruolo di manager di alcune tra le più importanti società della finanza italiana. L’origine della fortuna e del potere della famiglia La Russa è legata indissolubilmente a un controverso e misterioso uomo d’affari, anche lui originario di Paternò, Michelangelo Virgillito. I paternesi ne onorano ogni anno la memoria con una messa.

MIGUEL SANCHEZ PEDRAJAS - RETTORE SANTUARIO SANTA MARIA DELLA CONSOLAZIONE DI PATERNÒ (CT) Forse Michelangelo Virgillito è stato un grande lavoratore, un grande finanziere. Forse è stato un personaggio, ecco non lo so, nel suo tempo discusso. Però quello che non si può non dire è che è un personaggio che ha creduto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Michelangelo Virgillito è stato il più grande filantropo della storia di Paternò. Ha eretto istituti per i giovani bisognosi del paese e pagato a sue spese la ricostruzione del santuario della Madonna della Consolazione, distrutto dalle bombe alleate durante la Seconda guerra mondiale

ALFIO CARTALEMI - BIOGRAFO DI MICHELANGELO VIRGILLITO Michelangelo Virgillito è quel signore ben vestito con la porpora rossa e il plastico del santuario in mano.

GIORGIO MOTTOLA Chi sono le altre persone accanto a Virgillito?

ALFIO CARTALEMI - BIOGRAFO DI MICHELANGELO VIRGILLITO Sulla sinistra possiamo vedere l’ingegnere Rosario La Russa

GIORGIO MOTTOLA La Russa?

ALFIO CARTALEMI - BIOGRAFO DI MICHELANGELO VIRGILLITO Rosario La Russa.

GIORGIO MOTTOLA Parente del presidente del Senato?

ALFIO CARTALEMI - BIOGRAFO DI MICHELANGELO VIRGILLITO Cugino… Si

GIORGIO MOTTOLA Qui a Paternò Virgillito è una sorta di santo laico?

ALFIO CARTALEMI - BIOGRAFO DI MICHELANGELO VIRGILLITO Mah, lo è stato fin quando lui apriva quasi facilmente il portafoglio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Virgillito diventa misteriosamente molto ricco dopo essere emigrato a Milano negli anni ’20. Se a Paternò lo veneravano come un santo, nel resto d’Italia era considerato un diavolo della finanza. Il grande intellettuale ed economista Ernesto Rossi definiva Virgillito: “la parte più cancrenosa del nostro sistema economico, tra i più pericolosi gangster dell’economia nazionale, che facendo opere di bene ottiene l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche”

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Soprannominato il Corsaro, è stato uno dei primi finanzieri d’assalto della Borsa italiana negli anni ‘60

GIORGIO MOTTOLA Che cosa vuol dire d’assalto?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 D’assalto perché con tecniche spregiudicate basate sul ricatto, determinavano l’andamento della borsa in quegli anni con forti accelerazioni e altrettanto forti ribassi

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con le sue spregiudicate speculazioni di Borsa, Virgillito riesce a scalare la Liquigas, il colosso che possedeva il quasi monopolio delle bombole del gas in Italia e partecipazioni nelle più importanti aziende italiane. Tuttavia, resterà sempre un mistero l’origine dei soldi di Michelangelo Virgillito, che nel 1926 era arrivato a Milano senza neanche le scarpe

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Pare fosse analfabeta però testa fina

GIORGIO MOTTOLA Dove trova i soldi Virgillito per iniziare la sua impresa?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Qui mi riferisco a quello che raccontavano anche fonti di Borsa, cioè che lui avesse conosciuto un ricco finanziere ebreo e a un certo punto gli facesse da frontman

GIORGIO MOTTOLA Da prestanome?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Da prestanome.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’introduzione delle leggi razziali nel 1938 vietava agli ebrei di intestarsi immobili e aziende. Molti di loro furono deportati poco dopo nei campi di sterminio. E tra loro, secondo la ricostruzione di Ernesto Rossi, anche l’uomo d’affari che aveva affidato le sue ricchezze a Virgillito

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Dopo le leggi razziali il finanziere ebreo dovette scappare assieme ai suoi amici e non tornò più. Per cui Virgillito si ritrovò per grazia di dio a gestire questa ricchezza non sua

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così grazie alle sciagure dell’imprenditore ebreo scomparso per mano nazista, Virgillito si ritrova a capo di un impero. Tempo dopo, negli anni ’50, chiede aiuto a un compaesano paternese per gestirlo, Nino La Russa, che si trasferisce a Milano insieme ai figli Ignazio, Vincenzo e Romano. Di Virgillito Nino La Russa diventa il manager di fiducia, ricoprendo il ruolo di vicepresidente della Liquigas, la cassaforte dell’impero paternese a Milano.

GIORGIO MOTTOLA La Russa nel ‘56 quando si trasferisce a Milano su chiamata di Virgillito non aveva fino a quel punto mai gestito un’azienda?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Era un signor nessuno, non parlava mai.

GIORGIO MOTTOLA Come mai Virgillito sceglie proprio Antonino La Russa?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Secondo me è che l’analfabeta, avesse bisogno di un consulente che gli gestisse la parte legale delle sue operazioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla metà degli anni ’60, Michelangelo Virgillito è costretto a ritirarsi travolto dai debiti. La sua cassaforte, la Liquigas, passa nelle mani di un altro finanziere controverso Raffaele Ursini. Ai vertici dell’impero, tuttavia, resta Antonino La Russa. Oltre che nel cda di Liquigas viene posto nei consigli di amministrazione delle nuove società acquisite dal successore di Virgillito: la compagnia assicurativa Sai, sfilata alla famiglia Agnelli, e le Ceramiche Pozzi Richard Ginori. L’espansione del gruppo si arresta solo alla metà degli anni ’70 quando su Liquigas si allunga l’ombra di Michele Sindona, il banchiere della mafia.

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Si scopre che i soldi che furono utilizzati per comprare la Ceramiche Pozzi uscivano dalle banche di Sindona.

GIORGIO MOTTOLA Sindona era l’amministratore occulto finanziario delle società dell’impero Liquigas?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Gli gestiva l’operazione finanziaria, gli gestiva la scalata, gli gestiva i meccanismi di raccolta dei fondi. Tra Liquigas, Ursini e Sindona c’era un legame molto forte, sia su base finanziaria che su base operativa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Queste informazioni vengono rivelate dalla Sec, l’agenzia di controllo della borsa statunitense. In un rapporto riservato ricostruisce il ruolo occulto di Sindona all’interno della galassia fondata da Virgillito, accostandolo alla Liquigas e alle Ceramiche Pozzi Richard Ginori nel cui cda sedeva Nino La Russa. A far esplodere lo scandalo fu Gianfranco Modolo sull’Espresso nel 1976.

GIORGIO MOTTOLA Chi le passa queste carte?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Non ho nessuna remora nel dire che è stato l’allora liquidatore della Banca privata italiana Giorgio Ambrosoli che era in contatto con la Sec perché evidentemente la Sec aveva fatto uno studio sulla Liquigas e la Sec passava documenti ad Ambrosoli e Ambrosoli lo passò a me.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per le sue indagini su Sindona e i rapporti del banchiere con la mafia e la massoneria, Giorgio Ambrosoli viene ucciso la sera dell’11 luglio 1979 mentre rientra a casa. L’unico mandante individuato è Sindona, che viene condannato all’ergastolo.

MICHELE SINDONA 26/01/1983 MIXER Quando Ambrosoli è stato ucciso e questa è stata una tragedia per me, Ambrosoli aveva già finito la sua inchiesta e non c’è mai stato qualcosa che venisse fuori dai conti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo lo scandalo Sindona, la Liquigas viene travolta anche da accuse di truffa e bancarotta, che fanno colare a picco l’impero fondato di Virgillito. Ma Nino La Russa resta saldo al timone della Sai, uno dei pochi gioielli sopravvissuti del vecchio impero, in cui favorisce l’entrata nel cda anche del figlio Vincenzo La Russa. E poco dopo aiuta a conquistare l’azionariato della Sai un altro esponente dell’ambasciata paternese a Milano: l’ingegner Salvatore Ligresti. Nino La Russa, infatti, nelle assemblee di Sai rappresentava Interbaros, un misterioso fondo olandese facente ufficialmente riferimento alla famiglia Rothschild. Interbaros costituisce insieme a Ligresti il patto di sindacato che fino agli anni ’90 controllerà la Sai.

GIORGIO MOTTOLA Come mai è proprio Ligresti poi a ottenere il controllo di Sai?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Beh, perché l’ingegnere Ligresti è di Paternò. Sempre assistito dall’avvocato Nino La Russa viene chiamato a rilevare alcune partecipazioni dell’impero Ursini che stava scricchiolando. Tra queste la Sai

GIORGIO MOTTOLA È la Russa che quindi passa di mano l’impero di Virgillito a Ligresti praticamente?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO 1974-1976 Lo abbiamo trovato con Virgillito, lo abbiamo trovato con Ursini e troviamo con Ligresti. Mi pare che il filo sia sempre quello.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E il filo del potere tirato dal senatore dell’ Msi Antonino La Russa, detto Nino, resta invisibile fino al 1994, quando un importante capomafia di Caltanissetta, Luigi Ilardo, fa il suo nome a un colonnello dei Carabinieri.

GIORGIO MOTTOLA Cosa le dice Ilardo sul ’94?

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Che avevano avuto quelli di Caltanissetta indicazioni per la Sicilia Orientale di votare il senatore La Russa Antonino e Vincenzo La Russa

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 1994 Michele Riccio era colonnello alla Direzione Investigativa Antimafia, alle dirette dipendenze di Gianni De Gennaro. È a questo carabiniere, allievo del generale Dalla Chiesa che Luigi Ilardo si propone come infiltrato all’interno della famiglia mafiosa di Piddu Madonia, dopo essere uscito dal carcere.

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Ilardo appena esce incontra la famiglia e Piddu Madonia gli dà formalmente l’incarico di assumere la gestione della famiglia. E Ilardo svolgeva un ruolo di primo piano perché la famiglia di Caltanissetta aveva influenza su Enna, su Messina e aveva voce anche a Catania dove per altro Santapaola era molto legato a lui.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E le informazioni che Ilardo consegna a Riccio sono sconvolgenti. Riguardano i nuovi equilibri che stanno nascendo tra Cosa nostra e la politica dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio. La mafia si organizzando per le elezioni del 1994 e le decisioni finali su chi appoggiare nella Sicilia Orientale vengono prese durante una riunione svoltasi tra i vertici dei clan all’inizio di febbraio a Caltanissetta. Per la prima volta il colonnello Riccio svela davanti a una telecamera cosa gli aveva confidato Ilardo su quella riunione.

GIORGIO MOTTOLA Cosa emerge da questa riunione?

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Che è nata diciamo questo supporto che bisogna dare a Forza Italia.

GIORGIO MOTTOLA Vengono fatti dei nomi di politici da appoggiare in quella riunione?

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Per la Sicilia orientale dovevano appoggiare Vincenzo La Russa e Antonino La Russa però che non si presenta.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa c’entrano Vincenzo La Russa e Nino La Russa?

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Perché avevano già contatti con loro da tempo.

GIORGIO MOTTOLA La famiglia La Russa aveva rapporti con Cosa nostra, le dice Ilardo?

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Certo, l’ho scritto anche nel rapporto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel rapporto grande Oriente, consegnato all’allora capo del Ros Mario Mori, Riccio riporta le confidenze di Ilardo. I La Russa vengono menzionati nell’elenco dei politici a cui Cosa nostra ha promesso di dare appoggio alle elezioni del ’94. E dei rapporti instaurati tra i La Russa e la mafia siciliana, Ilardo sarebbe stato testimone diretto nel corso di un incontro avvenuto dopo l’inizio della collaborazione con Michele Riccio.

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Io incontro Ilardo e lui mi dice che ci sono stati nuovi contatti con La Russa.

GIORGIO MOTTOLA La Russa chi?

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Con Vincenzo La Russa e Antonino che avevano dato rassicurazioni che se avessero ricevuto un sostegno diciamo elettorale avrebbero mantenuto le promesse nei confronti di Cosa nostra.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Antonino La Russa non si presenterà alle elezioni, Vincenzo invece era stato già deputato della Democrazia Cristiana, eletto nel 1983 a Milano, alle elezioni del ‘94 decide di cambiare collegio e con il Ccd si candida nella Sicilia Orientale, a Paternò, dove verrà eletto con 15 punti di scarto sull’avversario di sinistra. Né Vincenzo, né Nino La Russa saranno mai indagati per le dichiarazioni di Luigi Ilardo. Entrambi sono nel frattempo defunti e per questo abbiamo inviato a Ignazio La Russa una richiesta di intervista con una serie di domande sull’argomento. Ma invece di sedersi davanti alle nostre telecamera, il presidente del Senato ci ha inviato un video autoprodotto in cui il suo addetto stampa legge le nostre domande e La Russa risponde senza concederci alcun contraddittorio

VIDEO AUTOPRODOTTO DI IGNAZIO LA RUSSA ADDETTO STAMPA Nel ‘94 il pentito Ilardo ha riferito al colonnello della Dia Riccio di rapporti avuti da suo padre Antonino La Russa e suo fratello Vincenzo con Cosa nostra. Tali informazioni sono state riportate anche nel rapporto Grande Oriente, ne era al corrente?

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Sono state riportate in qualche attività giudiziaria? Dovreste vergognarvi per questa volgare fake news e per questa falsità, mai ripresa da alcuno, della quale risponderete in sede penale. Sappiate che sulla mia onestà posso mettere la mano sul fuoco, su quella dei miei familiari, padre e fratelli, ne posso mettere due di mani sul fuoco come vi possono confermare tutti, dico tutti, quelli che li hanno conosciuti. È per questa ragione che su di loro non accetterò vostre illazioni per le quali ne rispondereste in sede penale. Spero che manderete per intero questa mia registrazione in risposta alle vostre domande, a tutte le domande che mi avete fatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo essere finite nel rapporto Grande Oriente di Michele Riccio, la magistratura avrebbe dovuto passare al vaglio le rivelazioni del capomafia infiltrato ma nessun pm ha ritenuto di aprire un’indagine su Antonino e Vincenzo La Russa. Luigi Ilardo non avrà mai la possibilità di ripetere quelle dichiarazioni in aula di tribunale

GIORGIO MOTTOLA Come finisce la storia con Ilardo?

MICHELE RICCIO - EX COLONNELLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA E ROS Viene assassinato il 10 maggio del ‘96, sotto casa sua.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si tratta di informative del ‘94, cioè spunti investigativi. Che nessun magistrato però ha ritenuto opportuno dover o necessario dover approfondire. Sono delle fake news secondo il presidente del Senato che ha inaugurato questo nuovo modo di comunicare: risponde a delle domande nostre lette dal suo portavoce ma senza contraddittorio. Insomma, Luigi Ilardo, è stato il primo boss della storia a essere infiltrato nella sua stessa organizzazione. E secondo alcuni magistrati, sarebbe stato il collaboratore più importante della storia dopo Tommaso Buscetta. Ilardo aveva cominciato a raccontare a Riccio i contatti tra Cosa Nostra e quei referenti di quel soggetto politico che stava nascendo dopo le stragi. Aveva indentificato in Marcello Dell’Utri l’interlocutore principale tra Cosa Nostra e il nuovo soggetto politico, aveva cominciato a raccontare che dietro le stragi, dietro gli omicidi eccellenti da Pio La Torre a Piersanti Mattarella non c’era solo la mano della mafia ma anche quella della massoneria, dei servizi segreti, della destra eversiva. Aveva annunciato la sua volontà di collaborare ufficialmente ai magistrati Tinebra, Caselli, Principato ma non fece in tempo perché il 10 maggio del ‘96 fu ucciso sotto la sua abitazione. Luigi Ilardo lo ricordiamo ha lavorato, era un dipendente di una società collegata alla Liquigas, cioè di quella società ai cui vertici c’era proprio Antonino La Russa a Milano. Era stato chiamato lì da un altro paternese Michelangelo Virgillito, l’imprenditore che era partito negli anni Venti senza una lira e a Milano ha accumulato improvvisamente un impero economico. Parte delle risorse sarebbero arrivate da ebrei che erano stati costretti a fuggire per delle leggi raziali poi trucidati dai nazisti. Nel dopoguerra a gestire questo impero societario e finanziario Virgillito chiama Antonino La Russa che rimarrà lì ai vertici di Liquigas, Sai e Richard Ginori anche quando Virgillito cadrà in disgrazia, quando subentrerà un altro imprenditore controverso Ursini. E anche quando, a metà degli anni 70, emergerà da un rapporto segreto della Sec, l’ente che controlla la borsa americana, che a contribuire a quelle scalate finanziarie c’era la mano di Michele Sindona, il banchiere messinese della mafia, in contatto con il clan Gambino e della P2, tessera 501. Il presidente del Senato dice che il padre non ha mai avuto rapporti con Michele Sindona e noi, fino a prova contraria, ovviamente gli crediamo. Tuttavia, Antonino la Russa è rimasto a capo, ai vertici delle società, anche quella della Sai e ha favorito l’entrata del figlio, Vincenzo La Russa. E poi anche l’acquisto in qualche modo ha ispirato di Salvatore Ligresti, altro imprenditore paternese. Questo sta a significare che il centro del potere dei La Russa si è spostato a Milano pur mantenendo le radici però a Paternò. Ed è per questo motivo che se un cittadino lombardo chiama per prenotare una visita medica o delle analisi è facile che dall’altra parte del call center risponda un operatore di Paternò che magari è probabilmente un elettore simpatizzante dei la Russa e dei politici della loro cordata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel cuore della Sicilia orientale c’è un pezzo di territorio lombardo. In questi uffici all’ingresso di Paternò quasi vent’anni fa la regione Lombardia ha deciso di aprire un proprio call center. Che sin dal nome tradisce le origini padane: Lombardia Call.

MAURO MANGANO -SINDACO PATERNÒ (CT) 2012-2017 Paternò ha vissuto una stagione d’oro dei call center, è diventato proprio un epicentro dei call center fra il 2005 e il 2015. La miccia fu l’apertura del call center di Lombardia Call. Cioè sanità lombarda che viene a Paternò a offrire servizi decentrati per la regione Lombardia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ancora oggi un cittadino lombardo che voglia prenotare al telefono una visita in ospedale o chiedere gli orari di un ambulatorio si sentirà rispondere, con molta probabilità, da un operatore siciliano che alza la cornetta da Paternò. La scelta di spostare in Sicilia una parte importante dei servizi legati alla sanità lombarda è stata presa nel 2004, quando presidente della giunta era Roberto Formigoni. Non tutti però all’epoca hanno digerito bene la decisione.

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA La prima volta che io ho sentito parlare di questo paese, ho chiesto dov’era Paternò. Chiedemmo spiegazioni al nostro capogruppo. Ci fu risposto che non erano cose che dovevano interessare i consiglieri, che il call center di Regione Lombardia doveva andare a Paternò.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sul call center a Paternò la maggioranza di centro destra in Regione si è più volte spaccata. Ma il provvedimento viene approvato nonostante il voto contrario di vari consiglieri regionali della Lega Nord e l’inizio di una crisi nella giunta Formigoni.

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA S’aveva da fare e fu fatto. Mi dissero questo è un accordo politico, così dev’essere e il call center andava a Paternò. Ovviamente io ho votato contro.

GIORGIO MOTTOLA Un accordo politico fatto con chi?

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Sul tavolo delle scelte politiche della maggioranza di regione Lombardia in quel momento, quella era una partita che stava ad Alleanza nazionale che aveva chiesto di poter portare il call center a Paternò.

GIORGIO MOTTOLA Chi aveva fatto le trattative per Alleanza nazionale…

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Chi aveva fatto l’accordo… Tutte le trattative di questo tipo, non solo del call center, ma tutte le trattative che comportavano nomine o incarichi venivano sempre e solo fatte dai capigruppo.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca chi era il capogruppo di Alleanza nazionale in consiglio regionale?

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Il signor La Russa. Fratello di Ignazio

GIORGIO MOTTOLA Romano La Russa?

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Romano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Romano La Russa è stato capogruppo di Alleanza Nazionale in regione Lombardia dal 1995 al 2004 e poi promosso assessore regionale, incarico che ricopre tuttora. Secondo la ricostruzione della sua collega di giunta Monica Rizzi, sarebbe stato Romano La Russa in prima persona a spingere per l’apertura del call center a Paternò.

GIORGIO MOTTOLA Buongiorno, sono Giorgio Mottola di Report Rai3, volevo farle qualche domanda sul call center Lombardia call a Paternò.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA No, ma oggi no, non è giornata.

GIORGIO MOTTOLA Ma è vero che è merito suo se è stato aperto il call center giù a Paternò? Scusi assessore.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Prego.

GIORGIO MOTTOLA Le ho fatto una domanda. Le volevo chiedere se per caso…

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Non me ne frega niente, su. GIORGIO MOTTOLA Frega a noi però e frega anche ai contribuenti lombardi e italiani. Un ex membro della giunta Formigoni ci ha detto che è stato lei che ha insistito molto, sull’apertura di questo call center, è così?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA No, assolutamente no. Ha detto una cazzata se qualcuno ha detto una cosa del genere.

GIORGIO MOTTOLA Però Paternò è il suo paese di origine.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA No, è stato il più vantaggioso in assoluto di tutte le proposte che sono state ricevute. E rimane ancora la più vantaggiosa.

GIORGIO MOTTOLA Quindi la rivendica visto che è stata una cosa positiva. Rivendica l’apertura di questo call center? Si? Bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma ad opinione di molti, il vantaggio sarebbe arrivato soprattutto a chi ha gestito le modalità di assunzione in Lombardia call.

GRAZIA MARIA LIGRESTI - SINDACA PATERNÒ (CT) 1994-2002 Per quello che io sentivo dalle persone assunte ai call center il tramite erano i La Russa.

GIORGIO MOTTOLA I call center erano sostanzialmente la rete clientelare dei La Russa qui a Paternò?

GRAZIA MARIA LIGRESTI - SINDACA PATERNÒ (CT) 1994-2002 La città di Paternò dai La Russa ha avuto questo

GIORGIO MOTTOLA C’era una gestione molto clientelare dei call center?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA Che vuol dire, che la gente veniva assunta su sponsorizzazione…

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Bravo.

GIORGIO MOTTOLA … dei La Russa?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Bravo.

GIORGIO MOTTOLA Sono stati quindi un’arma elettorale?

FILIPPO CONDORELLI - EX DIRIGENTE ALLEANZA NAZIONALE DI PATERNÒ (CT) Certo, un’arma elettorale di grande rilievo. Il ragazzo che va a lavorare, chiaramente gli si dà il mensile, è chiaro si sente in obbligo di aiutare il candidato segnalato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’operazione del call center lombardo a Paternò viene gestita in prima persona da Giovanni Catanzaro, allora amministratore delegato di Lombardia Informatica, la società tecnologica di proprietà di Regione Lombardia. Sin dagli inizi degli anni ’80 Catanzaro sedeva accanto a Nino La Russa nei cda di Sai e Richard Ginori ed è diventato amico della famiglia al punto da entrare in società con Ignazio, Vincenzo e Romano La Russa nella società Idrosan.

GIORGIO MOTTOLA Ma lei conosce Giovanni Catanzaro che era l’allora ad di Lombardia informatica?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Un minimo di dignità non ce l’hai, vero?

GIORGIO MOTTOLA Sto facendo delle domande. La dignità di un giornalista sarebbe nel fare le domande solitamente.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA La domanda la faccio a te: un minimo di dignità non ce l’hai proprio?

GIORGIO MOTTOLA Ce l’ho perché faccio il giornalista e sono pagato per fare domande.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Sei un poveraccio.

GIORGIO MOTTOLA La ringrazio ma lei conosceva Giovanni Catanzaro mi risulta che era un amico di famiglia, è così?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Signor prefetto…

GIORGIO MOTTOLA Era un amico di famiglia no?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Devi andare fuori dalle scatole su, adesso non dobbiamo parlare di…

GIORGIO MOTTOLA Che fa? Mi ruba il microfono?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Ne ho un altro, è fortunato perché ne ho un altro, facciamo con quest’altro…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La figura di Giovanni Catanzaro è fondamentale in questa storia. Nello stesso anno di Lombardia Call, apre a Paternò anche un altro call center: si chiama Midica e, sebbene sia un’azienda del tutto privata, è anch’essa intrecciata alla Regione Lombardia. Gli introiti di Midica dipendono infatti innanzitutto dalla collaborazione al progetto Siss, il portale della sanità lombarda seguito da Giovanni Catanzaro. Nel suo primo anno di vita, il call center privato incassa 1 milione e 700mila euro. All’epoca però in Regione Lombardia pochi sapevano che dietro Midica ci fosse Gaetano Raspagliesi, cognato di Romano e Ignazio La Russa. Nei primi anni della società, infatti, Raspagliesi nasconde la sua quota dietro una fiduciaria.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Si accomodi fuori per favore perché qui abbiamo cose più importanti.

GIORGIO MOTTOLA Perché suo cognato Gaetano Raspagliesi ha aperto un altro call center Midica proprio nello stesso periodo.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Devo toglierle anche questo?

GIORGIO MOTTOLA Me lo sta strappando.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Non è che può venire qui a fare…

GIORGIO MOTTOLA Non può fare così, le sto facendo delle domande in modo molto cortese…

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fermati dal prefetto di Lecco in persona, aspettiamo che il convegno finisca e proviamo a porre le nostre domande all’assessore La Russa.

GIORGIO MOTTOLA Ma perché è così infastidito dalle domande su suo cognato Raspagliesi?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Ti voglio bene, ti voglio bene. Ti voglio bene, ti voglio bene.

GIORGIO MOTTOLA Non ricambio perché non la conosco abbastanza.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Sei un grande. Sei un grande.

GIORGIO MOTTOLA La ringrazio ma perché invece di prendermi in giro non mi risponde su suo cognato anche perché ha lavorato con la regione Lombardia. Ha lavorato al portale…

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Non lo conosco.

GIORGIO MOTTOLA Non conosce Gaetano Raspagliesi?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA No, non ho mai saputo che lavorasse con la Regione Lombardia.

GIORGIO MOTTOLA E si, al portale della sanità, del Siss.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA E io non lo so, se le è così informato, voi siete sempre molto informati. GIORGIO MOTTOLA È scritto nel bilancio… certo, certo…

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Potrò non sapere o no con chi lavora una persona?

GIORGIO MOTTOLA Però dei rapporti con Catanzaro questo lo sa. È amico di famiglia?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Amico mio, quanto ti voglio bene, andiamo a bere dai. Hai sempre offerto tu questa stavolta offro io.

GIORGIO MOTTOLA Non faccia così, non mi metta la mano qui per favore.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Hai sempre offerto tu.

GIORGIO MOTTOLA Per favore non mi metta la mano così, io non le sto mettendo le mani addosso.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA E nemmeno io, andiamo a bere qualcosa questa volta offro io.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie al contratto con la regione Lombardia il call center del cognato dei La Russa in poco tempo riesce a espandersi. Midica ottiene appalti con altre società pubbliche, come Inps e Poste Italiane e arriva a superare i 4 milioni di euro di fatturato in un anno. Con 371 dipendenti è una delle realtà lavorative più importanti della provincia di Catania.

MAURO MANGANO - SINDACO PATERNÒ (CT) 2012-2017 Le assunzioni erano come dire filtrate da determinate persone che a loro volta erano vicine, molto vicine al presidente La Russa. Queste assunzioni diventavano persino a volte una piccola diciamo merce di scambio politico. Noi eravamo 3 consiglieri di opposizione nella seconda sindacatura di Failla e ci capitava di vedere il consiglio comunale bloccato perché alcuni consiglieri dicevano chiaramente al sindaco siccome mi hai promesso che chiamavano tizio al call center, ancora non l’hanno chiamato. Finché non si mantiene la promessa, noi non entriamo, non votiamo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I call center di Lombardia call e del cognato di La Russa vengono aperti poco dopo la vittoria al comune del fedelissimo dell’attuale presidente del Senato che abbiamo già conosciuto, Pippo Failla. E a lui che in quegli anni si rivolgono centinaia di giovani paternesi con la speranza di ottenere un modesto stipendio da operatore telefonico che oscillava tra i 500 e i 700 euro al mese.

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Tutti quelli che sono stati assunti e che poi sono stati stabilizzati, si chiede perché sono stati stabilizzati? Perché erano bravi.

GIORGIO MOTTOLA Molti li ha mandati lei però, era il sindaco.

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Io ho detto avete bisogno…andate… Dice ho bisogno di lavoro, non ho granché. Ti suggerisco di andare.

GIORGIO MOTTOLA Non c’è nessuno che poi è andato a chiedere il voto a queste persone, anche per conto suo?

GIUSEPPE FAILLA - SINDACO DI PATERNÒ (CT) 2002-2012 Quando io mi candido, chiedo il voto urbi et orbi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante i lavori assegnati da Regione Lombardia, dall’Inps e dalle Poste, nel giro di tre anni il call center del cognato di Ignazio La Russa comincia ad avere gravi difficoltà economiche. Nel 2008 il bilancio di Midica chiude con una perdita di oltre 900 mila euro, ma quello che spaventa di più sono i debiti con lo Stato: quasi 3 milioni di euro tra iva non versata e contributi e stipendi non pagati ai dipendenti.

GIORGIO MOTTOLA Come erano messi i conti di Midica?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Da subito male. Il fatturato cresceva ma i costi crescevano pari o più del fatturato. È una società che è sempre stata faticosa.

GIORGIO MOTTOLA Leggendo i bilanci di questa società l’avrebbe comprata?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Ma ha sempre perso, l’ultimo anno ha perso tantissimo, si vede che proprio non ce la poteva fare. Quindi, comprare questa no, casomai ne faccio una nuova

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In altre parole, i La Russa alimentano il loro potere e quello dei loro rappresentanti sul territorio alimentando un bacino elettorale con i soldi dei cittadini della Lombardia. La Lombardia ha deciso per motivi politici di indirizzare soldi a Paternò piuttosto che in qualche area interna della bergamasca. Però a valle degli accordi politici a gestire tutta la vicenda call center è Giovanni Catanzaro, vecchia conoscenza dei La Russa, seduto negli anni ’80 nei cda insieme ad Antonino La Russa di Sai e Richard Ginori, e poi è stato socio di Ignazio, Vincenzo e Romano La Russa in una società che vendeva sanitari. Ed ha un ruolo anche importante nell’altro call center, Midica, quello gestito dal cognato di La Russa schermato però da una società fiduciaria. Un call center privato che, sopravvissuto grazie ai soldi pubblici, perché grazie alla collaborazione con Sanità Lombardia, il portale informatico gestito proprio da Giovanni Catanzaro, e poi dai soldi che provenivano da Inps e Poste. Tuttavia, nel giro di 3 anni ha accumulato un milione di euro di perdite e tre milioni di debiti nei confronti dello Stato, per Iva, Tfr, contributi non versati. Fino a quel momento nessuno sapeva che quel call center fosse gestito dal cognato di La Russa. E proprio per evitare che scoppiasse il patatrac hanno mollato il cerino bollente in mano a un altro imprenditore. Come hanno fatto?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante i conti negativi del call center il cognato di La Russa riesce a trovare un salvatore, una cordata di imprenditori bresciani capeggiata da Patrizio Argenterio

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Io ho visto che l’azienda non valeva uno, valeva -80. Invece questi qua poi, i consulenti di Raspagliesi, hanno fatto una perizia giurata, dando un valore a quell’azienda di 3 milioni, 4 e 50 che noi abbiamo pagato.

GIORGIO MOTTOLA E l’azienda però non valeva niente?

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Niente. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Che un imprenditore decida di investire tre milioni e mezzo di euro in una società, pur ritenendola di nessun valore, è un fatto piuttosto curioso. Ma è ancora più curioso che di questa circostanza benefici proprio il cognato dell’allora ministro della difesa Ignazio La Russa, Gaetano Raspagliesi.

GIORGIO MOTTOLA Signor Raspagliesi salve, sono Giorgio Mottola, sono un giornalista di Report, la trasmissione di Rai3.

GAETANO RASPAGLIESI - IMPRENDITORE Si. GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda su Midica.

GAETANO RASPAGLIESI - IMPRENDITORE Non rispondo a nessuna domanda.

GIORGIO MOTTOLA Sul call center.

GAETANO RASPAGLIESI - IMPRENDITORE Non c’entro nulla, non ho mai sentito parlare, non rispondo.

GIORGIO MOTTOLA Era il suo call center, però.

GAETANO RASPAGLIESI - IMPRENDITORE Non era mio.

GIORGIO MOTTOLA Volevo capire come ha fatto a venderlo se era messo così male.

GAETANO RASPAGLIESI - IMPRENDITORE La saluto, non sono io.

GIORGIO MOTTOLA Come non è lei?

GAETANO RASPAGLIESI - IMPRENDITORE Sbaglia lei persona.

GIORGIO MOTTOLA Lei non è Gaetano Raspagliesi?

GAETANO RASPAGLIESI - IMPRENDITORE No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sorge però una domanda. Come ha fatto Raspagliesi a passare il cerino accesso nelle mani di Argenterio e dei suoi soci bresciani?

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Io avevo un’azienda che si chiamava Wave ed eravamo il fornitore, unico ed esclusivo del gruppo fondiaria Sai quando era di Ligresti. Uno dei miei tre soci era il genero di Ligresti. E quindi a un certo punto il Ligresti dice al mio socio: guarda che a Paternò c’è un’azienda da comperare perché le cose non vanno bene e perché il cognato di Ignazio potrebbe rischiare l’arresto e se arrestano il cognato del Ministro della difesa, perché lui in quel momento era Ministro della difesa, succede un patatrac.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da tempo ormai immemorabile Salvatore Ligresti è legato alla famiglia La Russa. Negli anni 2000 ha cooptato il figlio del presidente del Senato Geronimo La Russa, nella sua cassaforte finanziaria, la Premafin. Nel 2008, per salvare il cognato di La Russa, avrebbe chiesto di rilevare Midica alla Wave, l’azienda informatica che dipendeva da Fondiaria Sai, di proprietà di Patrizio Argenterio e Omar Bonomelli, all’epoca marito della figlia di Don Salvatore, Jonella Ligresti.

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Se un cliente con il quale fai 40 milioni di euro di fatturato ti dice sta cosa s’ha da fare.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei compra quest’azienda che non valeva niente e la paga tre milioni e mezzo di euro?

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Perché tre milioni e mezzo? Perché doveva pagare tre milioni e mezzo di iva e di tasse.

GIORGIO MOTTOLA Che non aveva mai pagato?

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Che non aveva mai pagato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante la richiesta provenisse da Ligresti in persona, per mesi l’imprenditore bresciano Argenterio esprime dubbi sull’operazione. E così, sempre nel 2008, il suo socio Omar Bonomelli lo avrebbe portato a parlare direttamente con l’allora ministro Ignazio La Russa.

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Bonomelli disse: “dai allora andiamo a parlare col ministro” e allora il ministro ti dice “ma si guarda Patrizio abbiamo in ballo…” tra l’altro quel giorno lì mi ha dato del leghista perché avevo una cravatta verde… mi dice “ah guarda noi stiamo facendo un progetto che si chiamerà “Difesa”, perché vogliamo informatizzare, polizia, carabinieri, finanza per mettere tutto assieme e quindi ve ne faremo fare un bel pezzo.

GIORGIO MOTTOLA Si fanno anche delle cifre?

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Diceva che era un progetto da cento milioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’incontro con Ignazio La Russa sarebbe avvenuto nel 2008, presso la sede del Ministero della Difesa. Durante il colloquio, ci tiene a precisare Argenterio, non si sarebbe fatto direttamente riferimento all’acquisto del call center del cognato. Ma il Ministro si sarebbe limitato a illustrare le grandi opportunità economiche del progetto di informatizzazione della difesa da cento milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Questo colloquio con La Russa è stato decisivo per farti decidere di comprare l’azienda?

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Certo, certo. È stato un tassello. Certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Del progetto di informatizzazione poi non se n’è fatto più niente anche perché il governo Berlusconi cade nel 2011 sotto i colpi dello spread.

GIORGIO MOTTOLA Io vorrei chiederle se negli anni 2000 ha provato a salvare suo cognato Raspagliesi dal fallimento di Midica?

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO No, guardi stiamo facendo un’inaugurazione, stiamo facendo un’inaugurazione. Sia cortese, sia cortese. È maleducazione, stiamo facendo l’inaugurazione, cosa c’entra lei…dopo se vuole le faccio un’intervista ma non qui.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando però l’inaugurazione finisce, la scorta e gli agenti della questura di Catania fanno muro e ci tengono a debita distanza dal presidente del Senato. Anche se nel frattempo La Russa inizia a rilasciare dichiarazioni agli altri giornalisti

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Vi ringrazio per l’accoglienza ancora una volta che mi inorgoglisce. Vedo che c’è un giornalista che sta, lo dico a voi non a lui, mi dicono da giorni, da giorni, non so quanti soldi stanno spendendo per scoprire cosa fa La Russa a Paternò. Spiegateglielo voi.

GIORGIO MOTTOLA Vorremmo sapere se…

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Che ha sempre dato senza prendere.

GIORGIO MOTTOLA Vorremmo sapere se ha provato a salvare suo cognato Raspagliesi dal fallimento di Midica.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Non è mai fallita Midica, si sbaglia

GIORGIO MOTTOLA È vero che lei ha offerto 100 milioni in appalti… ma questo è un placcaggio personale… è vero che ha offerto 100 milioni di euro in appalti a Patrizio Argenterio e Omar Bonomelli?

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Non lo so, non mi riguarda, ma non è vero. Non mi riguarda, ma non credo sia vero.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Qualche mese dopo il presidente del Senato ha elaborato meglio i suoi ricordi e nel suo videomessaggio autoprodotto ci ha fornito la sua versione sui rapporti con Bonomelli e Argenterio

VIDEO AUTOPRODOTTO DI IGNAZIO LA RUSSA IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Conosco bene la famiglia Bonomelli, non ricordo nulla dell’altro nome che mi fate. Escludo categoricamente di avere anche solo parlato con chiunque di questo asserito progetto “Difesa” che non so nemmeno se sia effettivamente esistente

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sarebbe dunque la parola di Argenterio contro quella del presidente del Senato. Ma siamo riusciti a trovare un altro testimone, che non ha interessi diretti in gioco. All’epoca era socio di Argenterio e Bonomelli in Wave. Insieme a loro nel 2008 partecipa alla cordata che acquista il call center del cognato di La Russa.

GIORGIO MOTTOLA Questa richiesta di investire lì a Paternò viene addirittura da Salvatore Ligresti, all’epoca?

EX SOCIO DI ARGENTERIO E BONOMELLI Alla fine, è arrivata dalla famiglia Ligresti

GIORGIO MOTTOLA Vi ha chiesto di investire lì

EX SOCIO DI ARGENTERIO E BONOMELLI Ci ha detto: bisogna comprare questo call center.

GIORGIO MOTTOLA In quell’epoca hai sentito da Patrizio o da Omar che La Russa avrebbe dato diciamo qualcosa in cambio rispetto a questa operazione?

EX SOCIO DI ARGENTERIO E BONOMELLI Qualcosa in cambio sì, però, non era un argomento da consiglio di amministrazione. Era magari nei corridoi che dicevano abbiam fatto l’incontro, ci darà…

GIORGIO MOTTOLA Da La Russa verrebbero anche diciamo delle promesse di possibili appalti in quel periodo?

EX SOCIO DI ARGENTERIO E BONOMELLI Era un do ut des

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La cordata bresciana acquista il call center del cognato di La Russa, ribattezzandolo Qè, che in siciliano significhi “chi è”. L’esperienza si rivela presto un fallimento completo.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO È continuata l’agonia: è aumentato di molto il fatturato, ma sono aumentati di molto anche i costi. Quindi per tenerli in piedi hanno taroccato i bilanci come da loro stessi dichiarato.

GIORGIO MOTTOLA Quindi questo call-center non è stato mai veramente in piedi?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO Non è mai stato realmente redditizio: ha sempre perso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2019 Patrizio Argenterio viene arrestato per bancarotta e falso in bilancio con tanto di foto segnaletica in conferenza stampa.

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Io tutto ho perso. Guarda che a me han pignorato anche un quinto della pensione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la bancarotta e il falso in bilancio Argenterio patteggia una pena di 1 anno mezzo e si vede confiscare case e aziende. Mentre invece i 300 lavoratori del call-center vengono licenziati in blocco con mesi di stipendi arretrati non saldati e una triste scoperta sulla loro liquidazione

CARLO MARIA PARATORE - AVVOCATO EX LAVORATORI QÈ Scopriamo che le quote di trattamento di fine rapporto non ci sono.

GIORGIO MOTTOLA Cioè non era stata pagata la liquidazione?

CARLO MARIA PARATORE - AVVOCATO EX LAVORATORI QÈ Non era stata pagata la liquidazione ed è, come dire, lapalissiano, ma soprattutto non era stato versato al fondo di tesoreria dell’Inps niente. Ai fondi complementari, in particolare ce n’è uno contrattuale che si chiama Telemaco; noi scriviamo a Telemaco e questi ci rispondono noi non li conosciamo.

GIORGIO MOTTOLA E chi ha pagato?

CARLO MARIA PARATORE - AVVOCATO EX LAVORATORI QÈ Ha pagato solo lo Stato, ha pagato solo l’Inps.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Per evitare che si scoprisse il patatrac causato dal cognato di La Russa Raspagliesi, scende in campo Salvatore Ligresti che chiama uno dei fornitori di Sai Fondiaria più importanti, Argenterio, gli dice guarda per evitare brutte figure al ministro bisognerebbe che tu acquistassi il call Center con in pancia i tre milioni di debiti. Argenterio, secondo la sua versione, fiuta la sola, è titubante, e allora a quel punto interverrebbe anche il genero di Ligresti, che porta sostanzialmente Argenterio dal ministro La Russa. Il quale senza far cenno alla vicenda del call center gli prospetta la possibilità di partecipare ad una commessa di cento milioni di euro per l’informatizzazione delle forze armate. Ecco La Russa lo diciamo chiaramente nega questa circostanza, quest’incontro in questi termini. Tuttavia, comunque poi la commessa non si farà, il progetto cadrà, però Argenterio acquisterà il call center del cognato di La Russa. Che però è ingestibile, tant’è vero che nel giro di pochi anni Argenterio viene arrestato per bancarotta e falso in bilancio. Mentre Raspagliesi è là. Ecco siamo in un Paese dove un cognato di un politico può gestire schermato da una fiduciaria un call center alimentato da denaro pubblico, senza avere neppure il rischio di impresa. Uno dirà: vabbè il cognato non te lo puoi scegliere. I soci invece sì. E ce n’è uno ingombrante in una società di La Russa. Vedremo qual è. Tra un minuto. Golden minute.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con il presidente del Senato, Massimo Corsaro ha un rapporto molto stretto che ha radici nel vecchio Movimento Sociale. Corsaro è anche socio di Ignazio La Russa in Gibson, una società che per qualche anno ha gestito un’enoteca qui dove oggi c’è un bar che porta quasi lo stesso nome. La storia della Gibson è stata piuttosto controversa. All’interno dell’azienda, infatti, i soci di La Russa e Corsaro si sono portati dietro storie di usura, di truffe e persino di ‘ndrangheta. Ma partiamo dal 2002, anno in cui La Russa e Corsaro decidono di investire in un’enoteca.

MASSIMO CORSARO - DEPUTATO ALLEANZA NAZIONALE - FRATELLI D’ITALIA 2008-2018 Sotto il mio studio c’era un locale in cui spesso ci recavamo per fare la pausa pranzo. Capitava di vederci abbastanza spesso anche con gli amici, tra cui l’onorevole La Russa. Capita che ci venga segnalata la presenza di un immobile adiacente a questo bar che era in vendita. E ci e devo dire mi piacque molto; io ero e sono appassionato di vini e dissi “caspita ma qui si può fare una bella enoteca”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma invece di comprare direttamente l’immobile La Russa e Corsaro decidono di entrare nella società che lo aveva opzionato: la Gibson Vini. Acquistano le quote da un certo Luigi Ciriello, un imprenditore che viveva di espedienti e assegni scoperti, e diventano così soci di Sergio Conti, fino a quel momento gestore di carrozzerie, e Angela Di Clemente, che in quel periodo aveva una lista lunghissima di protesti e assegni scoperti.

VIDEO AUTOPRODOTTO DI IGNAZIO LA RUSSA IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Ciriello era il titolare del bar che frequentavo e mi chiese di compare la piccola enoteca che era intestata alla sua compagna Angela perché aveva assoluta necessità di vendere la sua quota, ne aveva proprio bisogno. Il 25 per cento era già di un altro socio, tale Sergio Conti, che rimase socio. Il valore dell’investimento a cui partecipò anche il mio amico, onorevole Corsaro, era modestissimo.

GIORGIO MOTTOLA Mi sembra un po’ strano che persone come voi si infilino in un gruppo di soggetti che sono o mezzi truffatori o protestati o usurai.

MASSIMO CORSARO - DEPUTATO ALLEANZA NAZIONALE - FRATELLI D’ITALIA 2008-2018 Io non so chi sono. Io non so chi sono. Si immagini che cosa ne so io dei problemi che esistono tra di loro quando io rilevo una società. GIORGIO MOTTOLA Bastava un controllo sui protesti all’epoca e avrebbe capito che erano persone che facevano assegni scoperti

MASSIMO CORSARO - DEPUTATO ALLEANZA NAZIONALE - FRATELLI D’ITALIA 2008-2018 Ma io non ero… Non dovevo essere io a prendere soldi da loro, ok?

GIORGIO MOTTOLA Ma se so che il mio socio però fa assegni a vuoto ed è protestato, non lo sceglierei come socio io personalmente. Poi…

MASSIMO CORSARO - DEPUTATO ALLEANZA NAZIONALE - FRATELLI D’ITALIA 2008-2018 Non lo so, un socio in una società di capitali, che non è amministratore non mette mano alla gestione finanziaria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’esperienza dell’enoteca si rivela presto fallimentare e dopo un paio d’anni cedono l’attività. Ma La Russa e Corsaro decidono di continuare l’avventura con l’ex carrozziere Sergio Conti. Insieme a lui aprono la Gibson immobiliare e lo nominano amministratore.

MASSIMO CORSARO - DEPUTATO ALLEANZA NAZIONALE - FRATELLI D’ITALIA 2008-2018 Lasciando nella parte di acquisto operativa questo signor Sergio Conti che noi conoscemmo in quell’occasione.

GIORGIO MOTTOLA Voi prima non lo conoscevate lui?

MASSIMO CORSARO - DEPUTATO ALLEANZA NAZIONALE - FRATELLI D’ITALIA 2008-2018 No

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Sergio Conti ci racconta un ‘altra versione.

GIORGIO MOTTOLA Sono un giornalista di Report, la trasmissione di Rai 3.

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Oh bestia, come siamo importanti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ancora prima di diventare socio dei due politici, Conti aveva messo in piedi un piccolo business. Secondo quanto ci racconta, grazie alla sponsorizzazione di La Russa e Corsaro, alcune aziende lombarde a ridosso delle festività acquistavano da lui i regali natalizi che poi distribuivano a dirigenti e dipendenti.

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE A nome di Corsaro e La Russa andavamo nelle aziende amiche di queste due persone e facevamo gli ordini, cioè facevamo gli ordini per la regalistica di Natale. Andavamo da Lombardia informatica, Autoguidovie italiane che era tutta roba, probabilmente loro amici. E va bene.

GIORGIO MOTTOLA Successivamente La Russa e Corsaro scelgono come socio Sergio Conti prima in Gibson Vini e poi in Gibson Immobiliare, la società costituita ad hoc per comprare l’immobile in cui ha sede l’enoteca, che i due politici affidano in gestione a Sergio Conti

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Ho diretto un po’ quest’enoteca anche se non capivo niente. Però sono stato lì qualche anno e abbiamo fatto un mutuo…

GIORGIO MOTTOLA Avete comprato l’immobile insieme a La Russa e Corsaro?

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE L’immobile adesso è 50 per cento di La Russa, il 25 mio e 25 di Corsaro.

GIORGIO MOTTOLA E di trovare la banca che vi ha dato il mutuo chi se n’è occupato?

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Eh, la banca di Sicilia era la banca di La Russa, sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma solo quattro anni dopo l’acquisto dell’immobile con La Russa e Corsaro, Sergio Conti viene coinvolto in una brutta storia di ‘ndrangheta. Un’indagine della Procura di Milano scopre che Conti aveva avuto rapporti con gli uomini della cosca di Pepè Onorato.

GIUSEPPE GENNARI - GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Era un po’ un esponente della vecchia mafia, era uomo rispettato e come tale riusciva a svolgere quell’attività di mediazione di interessi che, appunto, è tipica delle organizzazioni criminali di tipo mafioso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Giuseppe Onorato, conosciuto a Milano, come zio Pepè, era un capo ‘ndrangheta, formatosi nelle cosche del reggino negli anni ‘70, che coltivava stretti rapporti con la mafia siciliana dei Santapaola di Catania. All’inizio degli anni 2000 Pepé Onorato era uno dei più autorevoli Mammasantissima di Milano. Tanto rispettato da operare alla luce del sole, seduto al tavolo di un bar.

GIUSEPPE GENNARI - GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Era la base, era il luogo in cui Onorato si recava al mattino, in cui riceva quegli imprenditori, quei soggetti che avevano bisogno di rivolgersi ai suoi servizi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E tra questi c’era anche Sergio Conti. Si era rivolto a Emilio Capone, luogotenente del gruppo ‘ndranghetista, per farsi restituire alcune somme di denaro che aveva prestato a Daniele Salton, il marito della socia di Ignazio La Russa e Massimo Corsaro.

GIORGIO MOTTOLA Lei però quel gruppo di ‘ndranghetisti li frequentava? Questi Capone, questi Trovato…

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE No

GIORGIO MOTTOLA Beh, a lui si rivolgeva per provare a rientrare dei soldi che aveva prestato a Salton…

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Ma io è per questo che sono stato… mi hanno rotto i coglioni perché questi qui i miei soldi non me li davano. Io sono andato anche da un recupero crediti ufficiale e quello mi ha dato tutte le mie cose e mi ha detto…

GIORGIO MOTTOLA Non c’è niente da fare

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE E allora sono andato da queste persone

GIORGIO MOTTOLA Però lei quando va da questo Capone sa che è una situazione un po’ borderline?

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Questo Capone mi ha detto “guarda io ho delle persone che forse riusciamo a portare a casa qualcosa. Facciamo il 50 per cento”. Io lo avrei fatto anche gratis, solo per fare del male a quella gente lì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pur di ottenere indietro i soldi, Sergio Conti si affida alla ‘ndrangheta e per questo viene condannato a sei anni per estorsione con l’aggravante mafiosa. La sentenza di primo grado risale al 2010, quando il socio di Conti, Ignazio La Russa, era ministro della Difesa.

GIORGIO MOTTOLA Quando poi è stato condannato La Russa le ha detto qualcosa?

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Io gli ho detto signori, “se volete, io visto che sono in questa situazione, mi tolgo di mezzo” perché io capisco la loro… mi han detto “va bene insomma Conti noi la conosciamo non ci sembra che ci siano… aspettiamo di vedere poi alla fine quello che succede”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Conti viene condannato anche in appello, ma poi la Cassazione annulla la sentenza e dispone un nuovo processo. Il reato viene riqualificato da estorsione in esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone. Fatti specie che richiede una querela di parte. Ma la vittima nonostante le sia stato riconosciuto un diritto al risarcimento, nel primo e nel secondo grado, non presenta alcuna denuncia e così Conti viene assolto per improcedibilità.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Sergio Conti è quel socio che ci siamo già trovati nella piccola enoteca e che successivamente è stato processato per gravi reati. Questo fatto però io l’ho saputo solo dopo l’assoluzione completa che è avvenuta nel merito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche se assolto, davanti alle nostre telecamere, Sergio Conti, che è ancora socio e amministratore dell’azienda di La Russa, conferma di essersi rivolto agli ‘ndranghetisti per riavere i soldi indietro.

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Questi qui mi avrebbero fatto prendere tutto fino all’ultimo centesimo.

GIORGIO MOTTOLA Erano uomini della ‘ndrangheta.

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE E vabbè io sono un povero cristo che ha fatto la terza media.

GIORGIO MOTTOLA Anche con la terza media si capisce che loro andavano lì e li minacciavano di morte, di fargli male…

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Beh, certo. No, magari di morte no, però…

GIORGIO MOTTOLA Lei sapeva che i soldi li avrebbero presi con la minaccia e anche diciamo facendo del male comunque a…?

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Avrei dovuto farlo io, andare lì con una pistola e sparargli… finito.

GIORGIO MOTTOLA Perciò ha cercato qualcuno che nel caso fosse anche disposto a menarli per ritrovare i soldi, no?

SERGIO CONTI - IMPRENDITORE Beh, dargli due schiaffi, se lo meritavano è, cioè adesso onestamente.

GIORGIO MOTTOLA Se lei avesse una società socio e scoprisse che il suo socio si è rivolto a dei riscossori violenti di questo tipo…

GIUSEPPE GENNARI - GIUDICE TRIBUNALE DI MILANO Ma, prima di tutto avrei paura perché si entra in una rete dalla quale non si esce più. Uno degli imprenditori coinvolto in quell’indagine si rivolge per ottenere la riscossione di crediti e poi quando a lui l’organizzazione dice “guarda, però adesso vogliamo entrare in società con te”, lui non è più nelle condizioni di dire “no io fino a qui ci sto, adesso però amici come prima, voi ve ne andate”. Questo tipo di relazione è una relazione che quando comincia, non sei più tu a decidere quando interromperla.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora Ignazio La Russa ha un socio nella Gibson, una società immobiliare, si chiama Sergio Conti, il quale ha utilizzato uomini della ‘ndrangheta per recuperare un credito dovuto. Per questo era stato condannato in primo e secondo grado con l’accusa di usura ed estorsione aggravata dal metodo mafioso. Poi la Cassazione invece rinvia tutto quanto in appello, il reato viene riqualificato, Conti abbiamo visto è stato assolto. Ora però che cosa succede, che Conti di fronte al nostro Giorgio Mottola ammette candidatamene di essersi rivolto consapevolmente a degli ‘ndranghetisti per recuperare il denaro, anche sapendo che erano persone violente. E Ignazio La Russa nell’ultima versione della dichiarazione patrimoniale al Senato indica la Gibson come società di reddito, che produce reddito e implicitamente ammette la presenza ancora oggi di Conti come socio. La domanda è questa. È opportuno che la seconda carica dello Stato abbia nella sua società una persona che si sia rivolto consapevolmente e che rivendica pure, alla ‘ndrangheta per recuperare un credito?

La ragnatela dei La Russa. Report Rai PUNTATA DEL 12/11/2023

di Giorgio Mottola

Collaborazione di Greta Orsi, Andrea Sceresini e Maria Elena Scandaliato

Report torna sull'argomento con un’intervista inedita a un ex parlamentare e dirigente nazionale dell’Msi.

Dopo le dure polemiche del presidente del Senato contro l’inchiesta andata in onda un mese fa, Report ritorna sull’argomento con un’intervista inedita a un ex parlamentare e dirigente nazionale dell’Msi che conferma i rapporti della famiglia La Russa con alcuni finanzieri opachi, uno dei quali ha fatto fortuna grazie alle leggi razziali contro gli ebrei, e con il banchiere della mafia e della P2 Michele Sindona. Nel corso della puntata sarà trasmessa anche l’intervista esclusiva a uno degli ex militanti neofascisti condannati per l’omicidio del poliziotto Antonio Marino che rivelerà particolari inediti legati agli scontri e ai risarcimenti di quel 12 aprile 1973, noto come il giovedì nero di Milano.

Report ricostruirà inoltre la genesi delle relazioni tra il presidente del Senato e Silvio Berlusconi, attraverso la testimonianza di un ex parlamentare di Alleanza Nazionale e del Popolo della libertà, e l’origine della frattura tra Fini e Berlusconi. Infine, Report rivelerà le dinamiche riguardanti il cognato di Ignazio La Russa, Gaetano Raspagliesi, per l’acquisto di un altro call center, questa volta in Lombardia.

LA RAGNATELA DEI LA RUSSA Di Giorgio Mottola Collaborazione: Greta Orsi, Andrea Sceresini, Maria Elena Scandaliato Immagini: Alfredo Farina, Cristiano Forti, Fabio Martinelli Ricerca immagini: Alessia Pelagaggi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Oggi torniamo sui nostri passi. Gli affari della famiglia La Russa. Il potere economico, politico e finanziario. Si sono trasferiti negli anni ’50 a Milano ma hanno saldamente mantenuto le radici ben radicate a Paternò dove sono nati. Ecco e però è successo, che tra il 2005 e il 2011, epoca della giunta Formigoni in Lombardia, ecco a Paternò sono proliferati dei call center. Ecco uno dice, ma che c’entra Formigoni con Paternò? C’entra eccome, il nostro Giorgio Mottola.

DA REPORT PUNTATA DEL 8 OTTOBRE 2023 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel cuore della Sicilia orientale c’è un pezzo di territorio lombardo. In questi uffici all’ingresso di Paternò, quasi vent’anni fa la regione Lombardia ha deciso di aprire un proprio call center. Che sin dal nome tradisce le origini padane: Lombardia Call. La scelta di spostare in Sicilia una parte importante dei servizi legati alla sanità lombarda è stata presa nel 2004, quando presidente della giunta era Roberto Formigoni. Non tutti però all’epoca hanno digerito bene la decisione.

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Ho chiesto dov’era Paternò. Chiedemmo spiegazioni al nostro capogruppo. Ci fu risposto che non erano cose che dovevano interessare i consiglieri, che il call center di Regione Lombardia doveva andare a Paternò.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sul call center a Paternò la maggioranza di centro destra in Regione si è più volte spaccata. Ma il provvedimento viene approvato nonostante il voto contrario di vari consiglieri regionali della Lega Nord e l’inizio di una crisi nella giunta Formigoni.

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA S’aveva da fare e fu fatto. Mi dissero questo è un accordo politico, così dev’essere e il call center andava a Paternò. Ovviamente io ho votato contro.

GIORGIO MOTTOLA Un accordo politico fatto con chi?

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Sul tavolo delle scelte politiche della maggioranza di Regione Lombardia in quel momento, quella era una partita che stava ad Alleanza Nazionale che aveva chiesto di poter portare il call center a Paternò.

GIORGIO MOTTOLA Chi aveva fatto le trattative per Alleanza Nazionale…

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Chi aveva fatto l’accordo… Tutte le trattative che comportavano nomine o incarichi venivano sempre e solo fatte dai capigruppo.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca chi era il capogruppo di Alleanza Nazionale in Consiglio Regionale?

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Il signor La Russa. Fratello di Ignazio.

GIORGIO MOTTOLA Romano La Russa?

MONICA RIZZI - EX CONSIGLIERE ED EX ASSESSORA REGIONE LOMBARDIA Romano. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Romano La Russa è stato capogruppo di Alleanza Nazionale in Regione Lombardia dal 1995 al 2004 e poi promosso assessore regionale, incarico che ricopre tutt’ora. Secondo la ricostruzione della sua collega di giunta Monica Rizzi, sarebbe stato Romano La Russa in prima persona a spingere per l’apertura del call center a Paternò.

GIORGIO MOTTOLA Buongiorno, sono Giorgio Mottola di Report Rai3, volevo farle qualche domanda sul call center Lombardia Call a Paternò.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA No, ma oggi no, non è giornata.

GIORGIO MOTTOLA Ma è vero che è merito suo se è stato aperto il call center giù a Paternò? Scusi assessore.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Prego.

GIORGIO MOTTOLA Le ho fatto una domanda. Le volevo chiedere se per caso…

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Non me ne frega niente, su.

GIORGIO MOTTOLA Frega a noi però e frega anche ai contribuenti lombardi e italiani. Un ex membro della giunta Formigoni ci ha detto che è stato lei che ha insistito molto, sull’apertura di questo call center, è così?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA No, assolutamente no. Ha detto una cazzata, se qualcuno ha detto una cosa del genere.

GIORGIO MOTTOLA Però Paternò è il suo paese di origine.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA No, è stato il più vantaggioso in assoluto di tutte le proposte che sono state ricevute. E rimane ancora la più vantaggiosa.

GIORGIO MOTTOLA Quindi la rivendica, visto che è stata una cosa positiva. Rivendica l’apertura di questo call center? Si? Bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’operazione del call center lombardo a Paternò viene gestita in prima persona da Giovanni Catanzaro, allora amministratore delegato di Lombardia Informatica, la società tecnologica di proprietà di Regione Lombardia. Sin dagli inizi degli anni ottanta, Catanzaro sedeva accanto a Nino La Russa nei cda di Sai e Richard Ginori ed è diventato amico della famiglia al punto da entrare in società con Ignazio, Vincenzo e Romano La Russa nella società Idrosan.

GIORGIO MOTTOLA Ma lei conosce Giovanni Catanzaro che era l’allora ad di Lombardia Informatica?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Un minimo di dignità non ce l’hai, vero?

GIORGIO MOTTOLA Sto facendo delle domande. La dignità di un giornalista sarebbe nel fare le domande solitamente.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA La domanda la faccio a te: un minimo di dignità non ce l’hai proprio?

GIORGIO MOTTOLA Ce l’ho perché faccio il giornalista e sono pagato per fare domande.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Sei un poveraccio.

GIORGIO MOTTOLA La ringrazio ma lei conosceva Giovanni Catanzaro mi risulta che era un amico di famiglia, è così?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Signor prefetto…

GIORGIO MOTTOLA Era un amico di famiglia no?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Devi andare fuori dalle scatole su, adesso non dobbiamo parlare di…

GIORGIO MOTTOLA Che fa? Mi ruba il microfono?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Ne ho un altro, è fortunato perché ne ho un altro, facciamo con quest’altro…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La figura di Giovanni Catanzaro è fondamentale in questa storia. Nello stesso anno di Lombardia Call, apre a Paternò anche un altro call center: si chiama Midica e, sebbene sia un’azienda del tutto privata, è anch’essa intrecciata alla Regione Lombardia. Gli introiti di Midica dipendono infatti innanzitutto dalla collaborazione al progetto Siss, il portale della sanità lombarda seguito da Giovanni Catanzaro. Nel suo primo anno di vita, il call center privato incassa 1 milione e 700mila euro. All’epoca però in Regione Lombardia pochi sapevano che dietro Midica ci fosse Gaetano Raspagliesi, cognato di Romano e Ignazio La Russa. Nei primi anni della società, infatti, Raspagliesi nasconde la sua quota dietro una fiduciaria.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Si accomodi fuori, per favore, perché qui abbiamo cose più importanti.

GIORGIO MOTTOLA Perché suo cognato Gaetano Raspagliesi ha aperto un altro call center Midica proprio nello stesso periodo.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Devo toglierle anche questo?

GIORGIO MOTTOLA Me lo sta strappando.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Non è che può venire qui a fare…

GIORGIO MOTTOLA Non può fare così, le sto facendo delle domande in modo molto cortese…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fermati dal prefetto di Lecco in persona, aspettiamo che il convegno finisca e proviamo a porre le nostre domande all’assessore La Russa.

GIORGIO MOTTOLA Ma perché è così infastidito dalle domande su suo cognato Raspagliesi?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Ti voglio bene, ti voglio bene. Ti voglio bene, ti voglio bene.

GIORGIO MOTTOLA Non ricambio perché non la conosco abbastanza.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Sei un grande. Sei un grande.

GIORGIO MOTTOLA La ringrazio ma perché invece di prendermi in giro non mi risponde su suo cognato anche perché ha lavorato con la Regione Lombardia. Ha lavorato al portale…

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Non lo conosco.

GIORGIO MOTTOLA Non conosce Gaetano Raspagliesi?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA No, non ho mai saputo che lavorasse con la Regione Lombardia.

GIORGIO MOTTOLA E si, al portale della sanità, del Siss.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA E io non lo so, se le è così informato, voi siete sempre molto informati.

GIORGIO MOTTOLA È scritto nel bilancio… certo, certo…

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Potrò non sapere o no con chi lavora una persona?

GIORGIO MOTTOLA Però dei rapporti con Catanzaro questo lo sa. È amico di famiglia?

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Amico mio, quanto ti voglio bene, andiamo a bere dai. Hai sempre offerto tu questa stavolta offro io.

GIORGIO MOTTOLA Non faccia così, non mi metta la mano qui per favore.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA Hai sempre offerto tu.

GIORGIO MOTTOLA Per favore non mi metta la mano così, io non le sto mettendo le mani addosso.

ROMANO LA RUSSA - ASSESSORE ALLA SICUREZZA REGIONE LOMBARDIA E nemmeno io, le sto dicendo… andiamo a bere qualcosa questa volta offro io.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora a Paternò il cognato di La Russa, Gaetano Raspagliesi apre un call center si chiama Midica, è il 2004, solo che è schermato da una fiduciaria e quindi nessuno lo sa. E nel giro di poco tempo riesce a fatturare fino a cinque milioni di euro, questo grazie a delle commesse pubbliche dalla Regione Lombardia, dall’Inps, dalle Poste. Insomma, con 371 dipendenti Midica è una delle realtà lavorative più importanti della provincia di Catania, e servirebbe anche a raccogliere consensi per i politici vicini a La Russa. Questo almeno secondo testimonianze che abbiamo raccolto sul territorio. Tuttavia, nonostante questa pioggia di denaro pubblico, dopo pochi anni Midica rischia di saltare. Ha accumulato perdite per 900 mila euro, debiti nei confronti dello Stato per tre milioni di euro per l’Iva non pagata e i contributi non pagati ai dipendenti e allora che cosa si fa? Arriva la ciambella di salvataggio. Nel 2008 si presenta una cordata di bresciani, a capo ha Argenterio che è il fornitore principale per Ligresti, l’imprenditore che è di Paternò come i La Russa. E proprio Ligresti avrebbe ispirato questo acquisto. Salvato Raspagliesi dal fallimento, beh insomma, riesce ad infilarsi in un nuovo guaio e questa volta c’è l’ndrangheta di mezzo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Paternò il cognato di Ignazio La Russa, Gaetano Raspagliesi apre nel 2004 Midica, un call center che in poco tempo arriva a fatturare quasi cinque milioni di euro all’anno grazie alle commesse con la Regione Lombardia e con società pubbliche come Poste Italiane e Inps. Nonostante ciò, in meno di tre anni, i conti della società virano sul rosso e Midica rischia di andare a gambe all’aria. Nel 2008 per salvare il cognato dell’allora ministro della difesa si fa avanti una cordata di imprenditori bresciani capeggiati da Patrizio Argenterio, fornitore di servizi informatici per il gruppo Fondiaria Sai di Salvatore Ligresti, che lo avrebbe spinto a rilevare il call center del cognato del ministro in difficoltà.

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Io ho visto che l’azienda non valeva uno, valeva -80. Invece questi qua poi, i consulenti di Raspagliesi, hanno fatto una perizia giurata, dando un valore a quell’azienda di 3 milioni e 450 che noi abbiamo pagato.

GIORGIO MOTTOLA E l’azienda però non valeva niente?

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Niente, niente, niente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Non potendo vendere ai bresciani direttamente Midica, gravata da oltre 3 milioni di euro di debiti, il cognato di La Russa costituisce una nuova società, Qè, che in siciliano significa Chi è, in cui sposta la proprietà del call center di Paterò. Tra i soci fondatori della nuova azienda, c’è anche l’attuale presidente della commissione finanze della Camera dei Deputati, il parlamentare di Fratelli d’Italia, Marco Osnato.

GIORGIO MOTTOLA Osnato buongiorno sono Giorgio Mottola di Report, volevo chiederle qualcosa su Qè

MARCO OSNATO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Quando ho tempo.

GIORGIO MOTTOLA E quando ha tempo però per noi?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Marco Osnato fa parte della famiglia La Russa, ha infatti sposato la figlia di Romano La Russa, ex consigliere e assessore di quella Regione Lombardia che negli anni ha affidato commesse per milioni di euro alla società di Raspagliesi. Nel marzo del 2009, Osnato partecipa alla costituzione della Qè e appena un mese dopo cede le sue quote allo zio acquisito, Gaetano Raspagliesi.

GIORGIO MOTTOLA Ci siamo visti ieri, mi aveva detto che non aveva tempo, adesso forse…

MARCO OSNATO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Guardi lei può venire tutti i giorni a cercarmi, non ho intenzione di rispondere a domande che non hanno attinenza con la mia attività politica.

GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle qual è stato il suo ruolo rispetto al call center Qè.

MARCO OSNATO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Appunto, non ha attinenza con la mia attività politica.

GIORGIO MOTTOLA È una questione anche politica, non è una questione solo personale, mi permetta di dissentire rispetto alla sua obiezione.

MARCO OSNATO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Si figuri se io devo occupare il mio tempo per rispondere alle domande che non ritengo plausibili, faccia quello che vuole.

GIORGIO MOTTOLA Ha un ruolo politico e ce lo aveva anche nel 2009, quando ha costituito questa società.

MARCO OSNATO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA No, nel 2009 no.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In realtà Osnato era all’epoca già un importante dirigente prima di Alleanza Nazionale e poi del Popolo della Libertà in Lombardia, eletto proprio in quel periodo consigliere comunale a Milano. Quando partecipa alla costituzione di Qè, c’è già l’accordo per la vendita del call center alla cordata bresciana di Patrizio Argenterio che, secondo la sua testimonianza, durante le trattative avrebbe ricevuto promesse di appalti dal ministro La Russa.

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Allora il ministro mi dice ma si guarda… mi dice noi stiamo facendo un progetto che si chiama, chiamerà Difesa perché vogliamo informatizzare Polizia, Carabinieri, Finanza per mettere tutto assieme e quindi ve ne faremo fare un bel pezzo.

GIORGIO MOTTOLA Si fanno anche delle cifre?

PATRIZIO ARGENTERIO - IMPRENDITORE Diceva che era un progetto da cento milioni.

GIORGIO MOTTOLA C’è un’accusa da parte di un imprenditore che sarebbe intervenuto Ignazio la Russa per salvare…

MARCO OSNATO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA Si figuri se io sto a rispondere a un imprenditore. Già non rispondo a lei si figuri se rispondo a uno pseudo imprenditore fallito.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei è al di sopra di tutto per questo mi scusi?

MARCO OSNATO - DEPUTATO FRATELLI D’ITALIA No, non c’è un motivo per cui io debba rispondere. Come diceva un suo collega più autorevole: si fa una domanda e si dà una risposta.

GIORGIO MOTTOLA Sono contento di sapere che Marzullo sia più autorevole di noi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel videomessaggio che ci ha inviato, il presidente La Russa ha smentito qualsiasi suo coinvolgimento nella vicenda.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA Escludo categoricamente di avere anche solo parlato con chiunque di questo asserito progetto Difesa che non so nemmeno se sia effettivamente esistente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma il cognato di La Russa, dopo l’esperienza fallimentare di Midica, da cui si è salvato solo grazie alla cordata bresciana, costituisce una nuova società che si chiama Melodica e prova ad acquisire un altro call center, stavolta in Lombardia, che fa capo a un importante azienda del settore, la Blue Call.

GIAN GAETANO BELLAVIA – EX CONSULENTE DELLA PROCURA DI MILANO Eh, la Blue Call… è un pilastro della storia della ‘ndrangheta lombarda. È una società i cui amministratori chiesero l’intervento della ‘ndrangheta per favorire determinate situazioni e la ‘ndrangheta se ne impossessò con le sue tecniche.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Blue Call, attraverso la sua partecipata Future srl, fatturava con i call center oltre dieci milioni di euro all’anno e sulla carta era un’azienda perfettamente in salute. Faceva riferimento a un imprenditore brianzolo, Andrea Ruffino. È lui a far entrare in azienda una delle più pericolose e potenti cosche di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, la famiglia Bellocco.

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Ruffino ha avuto il torto di mettersi con della gente che non andava bene. Erano tutti dei mafiosi, degli ‘ndraghetisti. La cosa insomma diventava pericolosa da un lato e dal punto di vista economico un disastro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La cosca Bellocco, infatti, svuotava sistematicamente le casse della Future srl, attraverso un proprio uomo di fiducia messo all’interno della società, Carlo Longo. Quando Ruffino capisce che rischia di perdere l’azienda, prova a mettersi di traverso.

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Ruffino arriva un giorno e viene fermato da due tipi con un coltello alla gola: sappiamo che hai dei figli, stai attento a quello che fai.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questo episodio avviene nel giugno del 2011. Già da mesi, il cognato di La Russa, Gaetano Raspagliesi ha messo gli occhi sulla Future srl e avvia una trattativa per entrare in affari con Andrea Ruffino.

GIORGIO MOTTOLA Raspagliesi, da dove spunta fuori?

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL L’ha beccato Ruffino. A un certo punto mi dice: sai stasera andiamo a cena in un ristorante di Milano, ti faccio conoscere Raspagliesi. E chi è? È un signore che può darci una mano

GIORGIO MOTTOLA Che impressione le fece?

 LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Non era uno che dice io porto delle competenze per cui ti risollevo l’azienda. GIORGIO MOTTOLA E quindi qual era la funzione sua?

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE Non si è mai capito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La sua funzione la spiega Andra Ruffino nelle telefonate intercettate dalla Procura di Milano. In più occasioni spiega infatti che Raspagliesi è il cognato di Ignazio La Russa, parentela che secondo Ruffino gli avrebbe consentito di avere maggiore potere negoziale con la ‘ndrangheta dei Bellocco e così liberarsi della loro presenza .

GIORGIO MOTTOLA Sono un giornalista.

ANDREA RUFFINO No, non mi interessa.

 GIORGIO MOTTOLA Volevo fare due chiacchiere con lei se è possibile.

ANDREA RUFFINO Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Per ricostruire una vicenda che l’ha riguardata la Future.

ANDREA RUFFINO No, no no, assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA C’è un’altra persona di cui mi sto occupando di cui però avrei bisogno di chiederle qualche informazione.

ANDREA RUFFINO E chi sarebbe questa persona?

GIORGIO MOTTOLA Raspagliesi.

ANDREA RUFFINO Non mi metta in mezzo a questo casino perché c’è di mezzo il presidente del Senato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mentre Raspagliesi è in trattativa con Ruffino, comincia a frequentare molto spesso la Future, dove la situazione è molto tesa. Il cognato del ministro della difesa partecipa alle riunioni con gli uomini della cosca Bellocco e assiste alle loro intimidazioni.

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Era forse il luglio…

GIORGIO MOTTOLA Del 2011.

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Vedo il Longo che continua a venire lì, in una riunione prende a schiaffi Ruffino, di fronte a dieci persone. Mi pare che ci fosse anche Raspagliesi.

GIORGIO MOTTOLA Non ha mai denunciato però la presenza della ndrangheta in quell’azienda Raspagliesi.

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Sono stato io ad andare dai carabinieri, un giorno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Raspagliesi non solo non denuncia, ma inizialmente entra nell’affare. Nel luglio del 2011, con Melodica, acquista per 2 milioni 800mila euro, l’80 per cento del Future srl, l’azienda controllata dalla ‘ndrangheta, e tre mesi dopo cede quelle stesse quote a 700.000 euro, quindi a un valore inferiore di 2 milioni e 100mila euro. L’acquirente e l’Alveberg, l’azienda che, secondo le sentenze definitive, faceva riferimento all’uomo dell’’ndrangheta dei Bellocco, Carlo Longo.

GIORGIO MOTTOLA In questa Alveberg c’era la ‘ndrangheta, c’era Longo?

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Assolutamente sì.

GIORGIO MOTTOLA C’è questa operazione veramente molto strana, perché Raspagliesi con Melodica acquista l’80 per cento della Future.

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Si, ma probabilmente è un acquisto fasullo, è una cosa combinata con Ruffino.

GIORGIO MOTTOLA Poi a ottobre rivende le quote…

LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Ecco… ecco…

GIORGIO MOTTOLA Per 700mila euro. LUIGI SEGÙ - EX AMMINISTRATORE DELEGATO FUTURE SRL Questo qui era il modus operandi della ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA Che le sembra questa operazione?

GIAN GAETANO BELLAVIA – EX CONSULENTE DELLA PROCURA DI MILANO Mi sembra un casino, cioè mi sembra un’operazione molto problematica. Nel senso che logicamente uno non compra a 2 milioni e 8 quello che poco dopo vende a 700, ecco. Ci saranno dei motivi per cui si è messo in carico a quel prezzo e ha rivenduto a quel prezzo più basso. Dei motivi diversi da quelli puramente economici. Qui entriamo in tema di criminalità organizzata quindi può succedere di tutto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ed è successo di tutto. Raspagliesi, non può vendere direttamente il call center Midica per via dei debiti ai bresciani, costituisce una società veicolo Qé, chi è in siciliano, ci infila la good company, il portafoglio clienti di Midica, con gli appalti conseguiti, mentre i debiti, secondo quello che ci racconta Argenterio, sarebbero stati pagati sopravvalutando la quotazione di Qè. Solo che Qè non è stata costituita da Raspagliesi direttamente ma dai figli e da Marco Osnato, attuale presidente della commissione finanze della Camera, all’epoca consigliere comunale in quota PDL, genero di Romano La Russa. Osnato però, dopo pochi mesi, cede le quote al cognato di La Russa, il quale le vende poi agli imprenditori bresciani. Insomma, scampato il fallimento comincia una nuova avventura. Costituisce una nuova società che si chiama Melodica e punta ad acquistare un call center Future, in Lombardia che fa parte del gruppo Blu Call, va molto bene, fattura 10 milioni di euro all’anno e fa capo ad un imprenditore, Andrea Ruffino il quale ha commesso un errore. Ha aperto le porte della sua società agli uomini della cosca, di riferimento della cosca Bellocco, ‘ndranghetisti, i quali cominciano a svuotare le casse dell’azienda e quando Ruffino comincia ad opporsi a questa strategia ecco, l’uomo che avevano infiltrato i Bellocco, Carlo Longo, lo prende a schiaffi davanti a tutti, davanti anche a Raspagliesi, il quale però non denuncia queste minacce. È da tempo in trattativa per acquistare Future, nel 2011 acquista un pacchetto, l’80% di azioni proprio da Ruffino. Le paga sulla carta due milioni e 800mila euro e, dopo tre mesi, le rivende all’uomo che risulterà poi il rappresentante della cosca Bellocco, Carlo Longo, a 700mila euro cioè a due milioni e 100mila euro in meno. Emergerà poi dalle carte che effettivamente Raspagliesi ha pagato Ruffino 100mila euro, quelle quote quindi non due milioni e otto ma dichiarerà poi ai magistrati di aver incassato realmente i 700mila euro dall’uomo rappresentante dei Bellocco. Ecco, alla fine Ruffino è stato condannato per aver favorito l’’ndrangheta, Carlo Longo, l’uomo dei Bellocco è stato condannato a dieci anni, Raspagliesi non è stato indagato. Tuttavia, i giudici scriveranno nella sentenza di primo grado che la sua testimonianza è stata contraddittoria, tesa soprattutto a minimizzare, allo scopo di chiamarsi fuori come testimone oculare di alcune vicende a cui aveva assistito. Ecco, su questo né Raspagliesi, né il presidente del Senato, hanno ritenuto di darci il loro punto di vista.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo aver rifiutato la nostra intervista, il presidente del Senato ha commentato i contenuti della nostra inchiesta in altre trasmissioni.

CINQUE MINUTI 09/10/2023 BRUNO VESPA Presidente, ieri sera, la trasmissione Report su Rai3 ha fatto pesanti allusioni sulla famiglia e alla fine un pochino anche su lei.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA Siccome si tratta di calunnie da parte di calunniatori seriali, non mi voglio esprimere io, credo più corretto che si esprima la magistratura.

È SEMPRE CARTABIANCA 10/10/2023 IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA Vergogna! Calunniatori schifosi!

BIANCA BERLINGUER Stiamo parlando… vabbè, presidente questa poi se la vedrà…

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA Quando parlano di mio padre mi arrabbio, è la persona più onesta che sia mai stata.

BIANCA BERLINGUER Se la vedrà poi lei con la trasmissione…

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA Calunniatori schifosi!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dopo averci definiti calunniatori schifosi, pur non avendo mai ricevuto una condanna per calunnia, la seconda carica dello Stato conclude il suo intervento con questa frase.

È SEMPRE CARTABIANCA 10/10/2023 IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA Si informino, troveranno una persona che ha conosciuto mio padre che dica qualcosa sulla sua onestà e allora poi parlerò.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ebbene, una persona che conferma la nostra versione dei fatti, l’abbiamo trovata. Tommaso Staiti di Cuddia, cuore nero sempre a destra ed ex parlamentare dell’Msi, lo stesso da cui proviene Ignazio la Russa.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 Ho contrastato La Russa fin dall’inizio, scatenando quindi le reazioni della famiglia La Russa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quella che vi mostriamo è una sua intervista, finora inedita, rilasciata ai giornalisti Andrea Sceresini e Maria Elena Scandaliato nel 2011, sei anni prima di morire.

GIORGIO MOTTOLA Chi era Tommaso Staiti di Cuddia?

DAVIDE CONTI - STORICO - UNIVERSITÀ LA SAPIENZA Era un esponente di primo piano del movimento sociale italiano, non perfettamente organico alla linea del Movimento Sociale dell’epoca e dunque memoria storica rilevante dal punto di vista, così, dell’individuazione dei punti di contraddizione interni a quel mondo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli anni ’80 Staiti di Cuddia è uno dei principali esponenti del Movimento Sociale di Milano, ricoprendo per qualche anno anche il ruolo di segretario provinciale. Il conflitto con i La Russa nasce intorno alla vicenda di un immobile situato nella Galleria del Corso. Il vecchio proprietario l’aveva donato in punto di morte a un Ospedale ma poi era finito nelle mani della fondazione che faceva capo al finanziere di Paternò, Michelangelo Virgillito. Ne nasce una contesa legale a cui si interessa anche Staiti di Cuddia che sulla questione presenta un’interpellanza in consiglio comunale.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 E da quel momento naturalmente sentii l’ostilità della famiglia La Russa in maniera molto evidente. Incontrai a un comitato centrale del Movimento Sociale a Roma Antonino La Russa il quale mi vide e dice: “Staiti che bella giacca che teniamo, sarebbe un peccato rovinarla con dei buchi”. Perché avevo toccato Michelangelo Virgillito, cioè il nervo scoperto della famiglia La Russa è questo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Michelangelo Virgillito, di Paternò anche lui. Santificato come benefattore in patria, secondo gli economisti invece il diavolo per i suoi raid finanziari spregiudicati: le scalate per Liquigas, Lanerossi, Sai, Pozzi Ginori. Insomma, era partito da Paternò con le scarpe praticamente bucate, a Milano diventa milionario. Grazie al possesso dei beni degli ebrei colpiti dalle leggi razziali del 1938. Immobiliarista e finanziere, poi nel dopoguerra, negli anni ‘50 chiama a gestire la sua galassia societaria il papà di Ignazio La Russa, Antonino La Russa che rimarrà ai vertici di quelle società anche quando Virgillito morirà. Lascerà un patrimonio di dieci miliardi di vecchie lire, chiederà di essere seppellito alla fonte di Avellana, l’eremo della fonte di Avellana. Insomma, l’unico laico in mezzo a tanti frati camaldolesi. Secondo ambienti ecclesiastici è stato considerato il commendatore più pio d'Italia. Questo nonostante un anno prima della sua morte fosse emerso che il passaggio della Liquigas nelle mani di Ursini, altro controverso imprenditore, dietro quelle scalate finanziarie di quel gruppo societario c’era la mano di Michele Sindona, il banchiere della P2, accusato e condannato per essere, per l’omicidio del banchiere Ambrosoli commesso nel luglio del 1979. Si chiude così un periodo degli anni di piombo in Lombardia, cominciato con la strage di piazza Fontana e poi con quello della Loggia nel 1974. Però in mezzo c’è stato il giovedì nero di Milano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come abbiamo già raccontato. Michelangelo Virgillito, originario di Paternò, il paese dei La Russa, è stato uno spregiudicato uomo d’affari che, tra gli anni cinquanta e sessanta, costruì un piccolo impero di società quotate in Borsa. Sull’origine della sua fortuna c’è sempre stato un fitto e inquietante mistero. Secondo varie inchieste giornalistiche dell’epoca, Michelangelo Virgillito divenne improvvisamente ricco dopo l’introduzione delle leggi razziali nel 1938, quando un imprenditore ebreo gli affidò le sue ricchezze e poco dopo scomparve per mano dei nazisti.

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO DAL 1974 AL 1976 Mi riferisco a quello che raccontavano anche fonti di Borsa, cioè che lui avesse conosciuto un ricco finanziere ebreo e a un certo punto gli facesse da frontman.

GIORGIO MOTTOLA Da prestanome?

GIANFRANCO MODOLO - GIORNALISTA DE L’ESPRESSO DAL 1974 AL 1976 Da prestanome. Dopo le leggi razziali, il finanziere ebreo dovette scappare assieme ai suoi amici e non tornò più. Per cui Virgillito si ritrovò per grazia di Dio a gestire questa ricchezza non sua e che egli cominciò a far fruttare con speculazioni di borsa.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCI ALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 Virgillito era finito anche in galera, eh. Era considerato un rider come dicono ora ma con il pelo sullo stomaco lungo tre metri. Uno che si era arricchito pagando un tozzo di pane gli immobili che appartenevano a famiglie ebraiche a Milano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tredici anni dopo le tristi vicende legate agli ebrei che avrebbero dato origine alla sua fortuna, Virgillito chiamò a Milano il padre del Presidente del Senato, Antonino La Russa, nominandolo vicepresidente del suo gioiello della corona, la Liquigas, l’azienda che allora dominava il mercato delle bombole del gas in Italia.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 Quando Michelangelo Virgillito muore, il controllo di tutta la sua fortuna passa sostanzialmente nelle mani della famiglia La Russa, nella persona di Antonino.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la morte di Virgillito, la Liquigas passa nelle mani del controverso finanziere Raffaele Ursini e Antonino La Russa rimane al vertice dell’azienda come vicepresidente. In questo periodo, come abbiamo già raccontato, si allunga sull’impero fondato da Virgillito l’ombra del banchiere della mafia Michele Sindona. Secondo un rapporto riservato della Sec americana, Sindona sarebbe stato l’amministratore occulto della Liquigas e deus ex machina di alcune operazioni finanziarie del gruppo, come l’acquisizione di Richard Ginori - Ceramiche Pozzi nel cui cda sedeva proprio Antonino La Russa. Tuttavia, i rapporti diretti tra il padre e il banchiere della P2 della mafia, ci sono stati smentiti dal presidente del Senato.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA 1976. Sono certo che allora e nemmeno dopo con Michele Sindona mio padre abbia mai intrattenuto alcun rapporto di lavoro e men che meno personale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Staiti di Cuddia racconta per la prima volta un retroscena sulle elezioni politiche del 1976 che vede al centro una possibile candidatura di Michele Sindona proprio con l’Msi.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 Nel 1976, elezioni politiche anticipate, era stata ventilata, su suggerimento di Antonino La Russa, la candidatura di Michele Sindona in un collegio senatoriale sicuro della Sicilia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alle elezioni del ‘76 alla fine Sindona non viene candidato, ma l’Msi porta in Parlamento, candidandolo nelle sue liste, un altro iscritto alla loggia P2, il generale Vito Miceli, ex direttore del Servizio Segreto Militare Italiano, che all’epoca della candidatura era accusato di aver partecipato al tentativo di golpe denominato al Rosa dei venti, finanziato, secondo la ricostruzione dei pm, proprio dal banchiere della mafia Michele Sindona.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 Poi viene fuori la candidatura di Vito Miceli, che Almirante non mette in votazione assumendosene tutta la responsabilità politica e morale. Io allora mi alzai, andai al microfono e dissi che ero assolutamente contro questa candidatura.

DAVIDE CONTI - STORICO – UNIVERSITÀ LA SAPIENZA Gli uomini che erano stati compromessi dalle inchieste relative alle vicende della strategia della tensione venivano molto spesso candidati nelle liste del movimento sociale grazie, diciamo così, al patrocinio politico della Democrazia Cristiana.

GIORGIO MOTTOLA Quindi il movimento sociale come ricettacolo degli impresentabili della Democrazia Cristiana?

DAVIDE CONTI - STORICO – UNIVERSITÀ LA SAPIENZA L’ex deputato missino Giulio Caradonna definisce in quella fase il Partito del Movimento Sociale la sputacchiera della Democrazia Cristiana.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’inizio degli anni ’70 il Movimento Sociale Italiano da un lato prova a dare copertura ai generali golpisti in odore di massoneria deviata e dall’altro tenta di riavvicinarsi alle frange più estreme della destra movimentista ed eversiva.

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Io ero fuori dal Movimento Sociale Italiano. Orami facevo parte di quei ragazzi che si ritrovavano in San Babila, che è un calderone incredibile perché lì c’erano giovani borghesi, malavita, organizzazioni radicali della destra quindi Ordine Nuovo, la Fenice e Avanguardia Nazionale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Maurizio Murelli del suo passato non ha rinnegato nulla. Oggi fa l’editore e pubblica in Italia i libri di Alexandr Dugin e di altri autori neofascisti. Esattamente cinquant’anni fa è stato uno dei tragici protagonisti del così detto giovedì nero di Milano, la manifestazione organizzata dal Msi il 12 aprile del 1973 culminata nell’uccisione del poliziotto Antonio Marin

GIORGIO MOTTOLA Qual era l’obiettivo di quella manifestazione?

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Era una riscossa, cioè il tentativo di riportare a casa la diaspora della militanza.

GIORGIO MOTTOLA Quindi riportare la destra radicale dentro l’Msi?

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Riportare i fuoriusciti che poi erano diventati anche destra radicale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante si conoscessero già in anticipo i gravi rischi di ordine pubblico, una parte importante del gruppo dirigente dell’Msi di Milano spinge per fare a tutti i costi la manifestazione del 12 aprile, che era stata ufficialmente vietata dalla questura il giorno prima.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 Spinsero tanto Ignazio La Russa, Romano La Russa per indire una grande manifestazione a Milano il 12 aprile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ignazio La Russa era all’epoca uno dei dirigenti più in ascesa nazionale dell’Msi a Milano nonché responsabile nazionale del fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del partito.

DA SBATTI IL MONDO IN PRIMA PAGINA – 1972 – DI MARCO BELLOCCHIO IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA Questa dimostrazione, questa manifestazione vuole dimostrare che è possibile battere il comunismo, che è possibile battere i nemici dell’Italia e insieme lo faremo. Viva l’Italia.

GIORGIO MOTTOLA Ignazio la Russa ebbe un ruolo centrale nell’organizzazione di quella manifestazione?

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE La Russa era sicuramente un pezzo grosso della cosa. Di certo erano persone a lui vicine che vennero per tastare il terreno. se c’era o non c’era questa disponibilità a…

GIORGIO MOTTOLA Reclutare insomma gente per il corteo.

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Quelli che tu chiameresti estremisti radicali. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come prevedibile, il giovedì nero di Milano comincia subito malissimo, fin dall’inizio militanti dell’Msi e delle altre frange neofasciste avviano scontri violenti con i poliziotti schierati nelle strade. È una situazione esplosiva, anche perché in tanti si sono presentati in piazza armati. E tra di loro c’è Maurizio Murelli che arriva in piazza tricolore a Milano con tre bombe srcm.

GIORGIO MOTTOLA Avevate anche pistole?

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Nella mia macchina c’era le tre srcm, c’erala mia rivoltella e quella di altri due a cui avevo dato il passaggio e sono rimaste lì.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lasciate le pistole però prendete le…

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Prendo le srcm sì. E casualmente una viene data a Loi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il militante neofascista Vittorio Loi, figlio del famoso pugile Duilio Loi, è insieme a Murelli l’altro tragico protagonista del giovedì nero di Milano. Tutto accade mentre per strada i neofascisti danno vita a una vera e propria guerriglia urbana che, i reparti di polizia, non riescono a contenere.

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE E la polizia carica. Carica e io lì lancio la prima srcm che va a impattare su un’edicola e non…

GIORGIO MOTTOLA Non ferisce nessuno.

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE A quel punto io lancio la seconda che non esplode, per un difetto. Poi dopo un po’ si sente un altro botto ed era quella di Loi. Volava di tutto. Volavano porfidi, bottiglie. La bomba di Loi assieme a questa pioggia di roba che arrivava verso il reparto a parabola arriva, l’agente Marino se la preme al petto e chiaramente lo squarta, cioè lo ammazza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A terra rimane il corpo dilaniato di Antonio Marino, poliziotto di appena 22 anni. Per il Movimento Sociale, che si presentava come partito d’ordine, l’omicidio dell’agente è un danno d’immagine incalcolabile. Giorgio Almirante, segretario dell’Msi, è costretto a intervenire in prima persona.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 Fece una riunione in federazione qua a Milano nella quale praticamente sciolse la federazione e uno dei bersagli era Ignazio La Russa. Non gli piaceva assolutamente questo mondo giovanile governato così. Tanto è vero che la federazione fu sciolta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’Msi condanna pubblicamente le violenze scoppiate durante il giovedì nero e Ignazio La Russa, stando al racconto di Staiti, viene commissariato. E, quando vengono arrestati i due responsabili della morte del poliziotto Marino, Vittorio Loi e Maurizio Murelli, il partito di Almirante ne prende le distanze. Almeno ufficialmente.

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Ma devo anche dire una cosa che forse non si sa. Credo che sia uno scoop. I soldi che sono stati dati alla famiglia, che è stata data alla famiglia Marino, la parte mia è stato un intervento del padre di La Russa.

GIORGIO MOTTOLA Lei viene condannato a risarcire la famiglia del poliziotto…

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Mi pare di ricordare che fossero allora 20 milioni, io non ce li avevo e quei soldi sono stati messi dalla famiglia La Russa, specificatamente dal padre.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi Antonino La Russa si fa carico del risarcimento alla famiglia del poliziotto ucciso che ammontava a 20 milioni di lire, che oggi corrisponderebbero a circa 200mila euro. E in questo modo Murelli, che era stato condannato a 18 anni, può vedersi accorciata la pena a 11 anni.

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Se quella parte civile non fosse stata risarcita. Io probabilmente dopo undici anni di carcere non avrei potuto uscire in semilibertà prima.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è difficile dire se la causa fu l’intervento finanziario, tenuto finora sempre nascosto, di Antonino La Russa nel processo per l’omicidio Marino, ma poco dopo l’atteggiamento di Almirante nei confronti di Ignazio La Russa muta e la sua carriera riparte, come se non ci fosse mai stato il giovedì nero.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 Poco per volta ha riacquisito quel potere che stava costruendo e che l’episodio del 12 aprile aveva messo in forse.

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE La famiglia La Russa all’interno è sempre stata una famiglia potente e quindi lo scotto che ha pagato è stato relativo.

GIORGIO MOTTOLA Non ha bloccato la sua carriera?

MAURIZIO MURELLI - EDITORE AGA EDITRICE Assolutamente no, non potevi bloccare la carriera, come fai a bloccare la carriera di La Russa, è impossibile.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Maurizio Murelli, oggi editore, all’epoca militante dei gruppi dell’estrema destra, insomma, ci racconta che nell’organizzazione di quella manifestazione dell’aprile del 1973, insomma i fratelli La Russa, Romano e Ignazio, che era il rappresentante nazionale del Fronte della Gioventù, avevano avuto un ruolo. Murelli in particolare dice di essere stato contattato da personaggi a loro vicini e che cercavano di raccogliere i più radicali dell’estrema destra per coinvolgerli nella manifestazione. Murelli insomma partecipa a questa manifestazione insieme a Vittorio Loi, armato di tre bombe e una pistola. Loi è l’uomo che poi tirerà la bomba che provocherà la morte del poliziotto Antonio Marino. Ecco, una volta arrestati Murelli e Loi, Almirante prende le distanze. Qualcuno fece trovare sul luogo degli scontri delle tessere della Cgil per cercare di scaricare le responsabilità sulla sinistra, ma il danno d’immagine per il Movimento Sociale era enorme. E Almirante commissaria il ramo politico di Milano, secondo Staiti di Cuddia, identifica nel responsabile Ignazio La Russa, responsabile di quelle politiche. Tuttavia, Murelli ci racconta, ci dà una notizia: che a pagare il risarcimento ai familiari di Antonio Marino, il poliziotto ucciso, per suo conto, è stato proprio il padre di Ignazio La Russa, Antonino. Ha versato 20 milioni delle vecchie lire, l’equivalente di 200mila euro di oggi. Ecco, Ignazio La Russa ha preso sempre le distanze da questo fatto e ha dipinto quegli incidenti e quella morte come uno spiacevole e imprevedibile incidente. Insomma, va ricordato però che nel 2007 Ignazio La Russa partecipa al funerale di Nico Azzi, esponente di Ordine Nuovo e, nel 1973, Nico Azzi, il 7 aprile, va ricordato, sale su treno, vestito da estremista di sinistra, con eschimo e giornale Lotta Continua in tasca, con una bomba, che non fa danni perché esplode in parte e lo colpisce in faccia. Nico Azzi è lo stesso uomo che, poche settimane prima, poco tempo prima, aveva consegnato le bombe a Murelli e Loi, quella bomba che poi ha ucciso il poliziotto Marino. Ecco, archiviato lo scontro, l’omicidio del giovedì nero di Milano, la carriera di La Russa è continuata fino agli anni ’90 e ha abbracciato anche la svolta di Fiuggi, insieme a Fini, a fianco del quale è rimasto fino al 2010. Quando si è consumato un dilaniante divorzio, anche perché La Russa era attratto dalle sirene di Berlusconi.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO MILANO 11/11/2023 Oggi siamo qui perché volevamo ricordare la ricorrenza della caduta del muro di Berlino che ci ha dato l’occasione con forza di quanto è ancora importante combattere per la nostra Libertà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ieri Daniela Santanché e Ignazio La Russa sono stati i promotori e i mattatori assoluti della manifestazione di Fratelli d’Italia che ha celebrato l’anniversario della caduta del muro di Berlino e la sconfitta del comunismo.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA MILANO 11/11/2023 Ragazzi della Gioventù Nazionale. Tre, due, uno, giù il muro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In piazza con loro, però, non sembra essersi presentata la folla delle grandi occasioni.

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA MILANO 11/11/2023 Ma avete freddo? Siete tutti appiccicati, allargatevi, allargatevi. Avete freddo. Una volta c’era Marco Valle che riusciva a far apparire una piazza il doppio grande tenendo larghe le persone.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quello tra Daniela Santanché e Ignazio La Russa è un sodalizio politico che dura da quasi trent’anni e che, secondo la testimonianza inedita dell’ex parlamentare missino Tommaso Staiti di Cuddia, si fonda su un patto di reciproca utilità.

TOMMASO STAITI DI CUDDIA - DEPUTATO MOVIMENTO SOCIALE ITALIANO DAL 1979 AL 1992 E allora lì nasce un rapporto e un accordo politico commerciale. L’accordo prevede che lui favorisce la carriera politica della Santanché e lui viene introdotto a Cortina, in Sardegna. Lei attraverso le sue conoscenze nel mondo della televisione lo fa apparire come un personaggio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è una versione che ci viene confermata anche da Paolo Cirino Pomicino. Alla fine degli anni ’90 infatti Daniela Santanché introdusse l’ex ministro democristiano e Ignazio La Russa, nelle feste e nei salotti più esclusivi dello Stivale.

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Tanto che fu una cosa molto divertente. Perché fummo invitati alla festa di un russo in Sardegna. E dove però durante la festa del russo mentre io però dicevo non lo so chi è perché sono stato portato qui dalla Santanchè. Ignazio La Russa invece diceva io lo conosco, caro amico, grande imprenditore. Questo russo che poi fu arrestato.

GIORGIO MOTTOLA La Russa frequentava Daniela Santanché prima che Daniela Santanché entrasse in politica?

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Era il grande amico di Daniela Santanché sin dall’inizio. Per cui anche la candidatura del 2001 della Santanchè fu sostenuta da Ignazio la Russa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In quegli anni il rapporto tra Daniela Santanché e Ignazio La Russa si cementa all’ombra di Silvio Berlusconi.

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 A villa Certosa in Sardegna la presentai e le feci una presentazione come è giusto che sia, cioè una presentazione di qualità diciamo.

GIORGIO MOTTOLA E come la presentò a Berlusconi?

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Cioè una donna piena di passione politica che era molto rapida, tra l’altro era molto sveglia. Poi Berlusconi insomma ha sempre l’occhio lungo nel caso delle giovani donne però, nel caso specifico, insomma, ebbe lo sguardo lungo ma lì si fermò.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2008 Silvio Berlusconi nomina Ignazio La Russa Ministro della Difesa e due anni dopo Daniela Santanché sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio. Dopo una breve separazione nel 2010 La Russa e Santanchè si ritrovano nello stesso partito, il Popolo della Libertà che, tuttavia, non ha una vita molto lunga.

SILVIO BERLUSCONI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DAL 2008 AL 2011 Allora Gianfranco, allora paliamoci chiaro, sono venuto da te martedì e davanti a Gianni Letta mi hai detto: punto primo, mi sono pentito di avere collaborato a fondare il Popolo della Libertà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 22 aprile del 2010 si consuma in diretta televisiva lo scontro tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi che porterà alla fine del matrimonio politico tra Forza Italia e Alleanza Nazionale.

SILVIO BERLUSCONI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DAL 2008 AL 2011 Vuoi avere la possibilità di fare queste dichiarazioni? Ti accogliamo a braccia aperte, le fai da uomo politico nel partito e non da presidente della Camera.

GIANFRANCO FINI – PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI DAL 2008 AL 2013 Che fai, mi cacci?

GIORGIO MOTTOLA Nel momento in cui Gianfranco Fini si alza e urla a Berlusconi: “che fai, mi cacci?”, voi capite in quel momento che la scissione è consumata o c’erano ancora margini?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 No, non c’erano più margini.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fabio Granata, all’epoca parlamentare del Popolo della libertà. Dopo lo scontro in direzione 2010, è stato tra i pochi ex di Alleanza nazionale a rimanere fedele a Gianfranco Fini e dunque a pagarne anche le conseguenze.

 FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Subito dopo abbiamo una serie di sospensioni e richieste di espulsioni che colpiscono lo stesso Fini, quindi cosa gravissima. Oltre a me per avere osato dire che Spatuzza era credibile e per avere cercato la verità e la giustizia sulla morte di Paolo Borsellino.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo quanto vi stiamo per raccontare, la vicenda del pentito Gaspare Spatuzza potrebbe aver avuto un ruolo centrale nella spaccatura creatasi all’interno del Popolo della Libertà tra il 2009 e il 2010. Pochi mesi prima, l’ex braccio destro dei fratelli Graviano aveva iniziato a parlare con i magistrati di Palermo. Le sue dichiarazioni avrebbero avuto un impatto epocale, consentendo di riscrivere la storia dell’attentato di via D’Amelio, in cui venne ucciso il magistrato Paolo Borsellino.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE CORTE DI APPELLO CALTANISSETTA DAL 2010 AL 2013 Spatuzza dà una svolta perché si riesce finalmente a ricostruire la verità, almeno sugli esecutori della strage di via D’Amelio. Aggiunge dei dettagli importanti come il fatto che all’operazione di caricamento dell’esplosivo vi era un soggetto che non apparteneva a Cosa Nostra.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gaspare Spatuzza non si limita a parlare della strage di via d’Amelio. In un’aula del tribunale di Palermo, quel 4 dicembre del 2009, rivela dettagli inediti sulla strategia di cosa nostra che chiamano direttamente in causa l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

GASPARE SPATUZZA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi vengono fatti i nomi di due soggetti. Di Berlusconi. Graviano mi disse che era quello del Canale 5. Aggiungendo che tra cui c’è di mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri Grazie alla serietà di queste persone ci avevamo messo noi praticamente il paese nelle mani.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le dichiarazioni di Spatuzza sono sconvolgenti e il governo Berlusconi in carica reagisce in modo violentissimo. L’esecutivo, infatti, prende una decisione senza precedenti: non rinnova il programma di protezione al pentito che ha parlato.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE CORTE DI APPELLO CALTANISSETTA DAL 2010 AL 2013 Io avevo appena preso possesso come procuratore generale a Caltanissetta e ricordo che si temette che Gaspare Spatuzza potesse vacillare e non andare avanti più nella sua collaborazione.

GIORGIO MOTTOLA E vacillò un po' in quel periodo?

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE CORTE DI APPELLO CALTANISSETTA DAL 2010 AL 2013 Questa decisione della Commissione fu percepita da Spatuzza come un segnale intimidatorio perché aveva parlato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mentre i vertici del Popolo della Libertà si affrettano a delegittimare subito Spatuzza, Fabio Granata, allora vicepresidente della Commissione Antimafia, è l’unico parlamentare del partito che pubblicamente prende le difese del pentito.

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Questo mio riconoscimento pieno della credibilità di Spatuzza, per altro era confortato non soltanto dai riscontri che avevamo in Commissione antimafia, ma dal parere di tutte e tre le procure, compresa la Procura Nazionale Antimafia, che erano interessate al tema. Il Governo e il mio partito, allora PdL, avevano idee diverse e su questo si accese uno scontro molto significativo.

GIORGIO MOTTOLA Lei nel 2010 diventa una delle micce dello scontro tra finiani e berlusconiani dentro al PdL.

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Direi con il senno del poi, sì. Lo scontro di quegli anni da lei citati nel 2010 si consuma soprattutto su questo argomento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La questione Spatuzza costituisce la prima vera frattura nel PdL tra il fronte berlusconiano e quello finiano. Una frattura che diventa ancor più netta quando viene diffuso un fuorionda di Gianfranco Fini, ripreso a sua insaputa, durante un convegno.

06/11/2009 GIANFRANCO FINI – PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI DAL 2008 AL 2013 Il riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza, l’ultimo pentito, speriamo che lo facciano con uno scrupolo tale da essere inattaccabile perché è una bomba atomica"

NICOLA TRUFUGGI – EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI PESCARA Però comunque si devono fare queste indagini.

GIANFRANCO FINI – PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI DAL 2008 AL 2013 No, ma ci mancherebbe altro. Lui, l'uomo confonde il consenso popolare che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di... Qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo... Magistratura.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo questo fuorionda è ufficialmente guerra aperta dentro al PdL. E gli esponenti finiani a partire da Fabio Granata non fanno nulla per abbassare il livello dello scontro. Anzi, dopo la decisione del governo di revocare la scorta a Spatuzza, l’allora vicepresidente dell’antimafia lancia un’accusa molto grave.

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Ho detto che boicottavano la ricerca della verità sulla morte di Paolo Borsellino sì e lo confermo.

GIORGIO MOTTOLA Perché a un certo punto gli attacchi contro di lei diventano così violenti sulla questione Spatuzza?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Dare credibilità a Spatuzza significava dare una chiave di lettura di quella strage e del rapporto tra mafia e politica, che andava dritto quantomeno nella direzione di Dell’Utri.

GIORGIO MOTTOLA E chi l’attaccò più duramente?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 In maniera aperta fu proprio La Russa ad attaccarmi.

GIORGIO MOTTOLA E lei se l’aspettava che La Russa l’attaccasse in modo così forte?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Onestamente no, perché con La Russa avevo un rapporto di antica conoscenza e amicizia. IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO DELLA REPUBBLICA Mi ha colpito in modo negativa le frasi di un ragazzo, io lo continuo a ritenere tale, l’amico Fabio Granata. Ha detto in una dichiarazione improvvida: pezzi del Governo stanno impedendo o rallentando l’azione contro la mafia. E allora chiedo all’amico Fabio, o dopo questa pesante accusa tu mi dici nomi, cognomi, almeno circostanze, non dico prove, indizi di quello che hai detto, e io mi dimetto dal Governo oppure tu chiedi scusa o lasci il partito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque, l’attacco più pesante a Granata, che ha il sapore di una scomunica ufficiale, non arriva dagli ex di Forza Italia, ma da Ignazio La Russa, suo vecchio collega di partito in alleanza nazionale e prima ancora nel Movimento Sociale.

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 La Russa mi chiamò anche quaquaraquà in quell’occasione.

GIORGIO MOTTOLA La Russa perché si espone così tanto contro di lei su una questione come quella di Spatuzza?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Credo che si volesse disegnare il ruolo dell’uomo politico che rimaneva fedele a Berlusconi anche di fronte a questi temi.

GIORGIO MOTTOLA La Russa era molto vicino a Berlusconi?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 La Russa ovviamente facendo politica a Milano, come faceva a non essere vicino a Berlusconi?

SILVIO BERLUSCONI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DAL 2008 AL 2011 Queste cose ultime che lui ha richiesto a me non erano mai arrivate. Non erano mai arrivate dagli uomini che vengono da AN, non erano mai arrivate dal coordinatore nazionale Ignazio La Russa, che è sempre stato l’uomo di collegamento tra noi e il Presidente della Camera.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quando i parlamentari vicini a Fini decidono di uscire dal PdL e dare vita a Futuro e libertà, Ignazio La Russa resta a fianco di Berlusconi. Nel suo libro che ricostruisce la scissione, Gianfranco Fini racconta che in quella fase la delusione peggiore l’ha avuta proprio dall’attuale Presidente del Senato.

 GIANFRANCO FINI – PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI DAL 2008 AL 2013 Onorevole La Russa la prego di avere un atteggiamento rispettoso. Onorevole ministro la prego di avere un atteggiamento rispettoso.

SILVANO MOFFA – DEPUTATO DEL POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Con Ignazio La Russa c’era un rapporto che risale addirittura alle prime esperienze giovanili. Nel Movimento Sociale, nella componente che faceva capo a Giorgio Almirante, sono cresciuti poi La Russa e Gianfranco Fini.

GIORGIO MOTTOLA Ma La Russa a un certo punto è più vicino a Berlusconi che a Fini?

SILVANO MOFFA – DEPUTATO DEL POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 La Russa ha fatto una scelta, mi sembra evidente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il rapporto tra Berlusconi e La Russa resta stretto anche dopo lo scioglimento del Popolo della Libertà e la rifondazione di Forza Italia. Quando Ignazio La Russa, insieme a Crosetto e Giorgia Meloni, dà vita a Fratelli d’Italia, l’ex Cavaliere gioca un ruolo dietro le quinte, fondamentale,

GIORGIO MOTTOLA Quando nasce Fratelli d’Italia da chi viene finanziato inizialmente?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Nella parte iniziale Berlusconi diede una spinta anche economica per la nascita di questo partito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel bilancio di Forza Italia del 2013 il comitato nazionale presieduto da Denis Verdini approva un finanziamento di 750mila euro a Fratelli d’Italia, che era stato costituito nel dicembre del 2012 e si apprestava ad affrontare la sua prima campagna elettorale con le casse vuote.

GIORGIO MOTTOLA Ministro buonasera, sono Giorgio Mottola di Report.

ANTONIO TAJANI – MINISTRO DEGLI ESTRI - SEGRETARIO NAZIONALE DI FORZA ITALIA Oh, bravo, ciao.

GIORGIO MOTTOLA Posso chiederle a che titolo nel 2013, Forza Italia ha finanziato Fratelli d’Italia per 750mila euro?

ANTONIO TAJANI – MINISTRO DEGLI ESTRI - SEGRETARIO NAZIONALE DI FORZA ITALIA Allora…ne parliamo… fate una bella inchiesta…

GIORGIO MOTTOLA Ministro, chiedo scusa, la domanda è facile facile…

ANTONIO TAJANI – MINISTRO DEGLI ESTRI - SEGRETARIO NAZIONALE DI FORZA ITALIA Già ti ho risposto, fai una bella inchiesta giornalistica così leggendo le carte ne saprai tutto.

GIORGIO MOTTOLA La decisione è stata di Berlusconi mi scusi?

ANTONIO TAJANI – MINISTRO DEGLI ESTRI - SEGRETARIO NAZIONALE DI FORZA ITALIA Grazie.

GIORGIO MOTTOLA Quindi Fratelli d’Italia è una costola quasi biblica, come quella di Adamo, di Berlusconi?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 In una strategia di fondo pensava che far nascere un partito che avesse una sua identità legata alla destra italiana togliesse ulteriore spazio a Fini e al nostro gruppo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da Fratelli d’Italia fanno sapere che i 750mila euro costituirebbero una restituzione dei rimborsi elettorali e dei contributi versati alo Pdl durante la legislatura in cui militavano nello stesso partito. Ma tale privilegio non è stato accordato a nessuno degli altri ex di Alleanza Nazionale fuoriuscito dal Popolo delle Libertà, compreso Silvano Moffa che prima passa con Fini e poi ci ripensa ma resta comunque fuori dal PdL fondando il gruppo di Popolo e Territorio.

SILVANO MOFFA – DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTA’ 2008-2010 Ho gestito il gruppo di Popolo e Territorio per un certo periodo, erano trenta deputati, non erano pochi.

GIORGIO MOTTOLA Finanziato da berlusconi anche lei?

SILVANO MOFFA – DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTA’ 2008-2010 No, no assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA Visto che anche voi avevate versato le quote al PdL, anche voi avete avuto dei soldi dal PdL indietro?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 No, non abbiamo avuto nessuna cifra indietro.

GIORGIO MOTTOLA In questa strategia di Berlusconi di finanziare direttamente la nascita di Fratelli d’Italia, secondo lei ha avuto un ruolo anche Ignazio La Russa?

FABIO GRANATA - DEPUTATO POPOLO DELLA LIBERTÀ DAL 2008 AL 2010 Io credo di sì perché credo comunque che i rapporti tra La Russa e Berlusconi andassero oltre alla politica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Un anno dopo il finanziamento di Forza Italia a Fratelli D’Italia, il figlio di Ignazio La Russa, Geronimo, tifosissimo dell’Inter come il padre, entra a far parte del consiglio di amministrazione di tre società collegate alla squadra di calcio del Milan, quando ancora era di proprietà di Berlusconi. Milan Real Estate, Milan Entertainment e MiStadio, la società costituita per la costruzione del nuovo stadio di San Siro. Geronimo La Russa ne esce solo nel 2017, quando Berlusconi cede il Milan alla cordata cinese capeggiata da Mister Li. Ma il figlio del presidente del Senato riesce a rimanere nel cuore della famiglia Berlusconi e soprattutto dei suoi consigli di amministrazione.

GIORGIO MOTTOLA Di quali società della famiglia Berlusconi, Geronimo La Russa è consigliere di amministrazione?

GIAN GAETANO BELLAVIA – EX CONSULENTE DELLA PROCURA DI MILANO Di due holding fondamentali. La Holding quattordicesima, la vecchia holding dei figli di Berlusconi anche quando lui era ancora in vita e la H14, che sembra abbia lo stesso nome, ma in realtà è una struttura completamente diversa.

GIORGIO MOTTOLA Queste due società che cosa rappresentano nella geografia dell’impero finanziario dei figli di Berlusconi?

GIAN GAETANO BELLAVIA – EX CONSULENTE DELLA PROCURA DI MILANO Rappresentano tutto, è la cassaforte dei figli di Berlusconi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Holding Quattordicesima è la società attraverso la quale Luigi, Eleonora e Barbara Berlusconi detengono il 22 per cento di Fininvest. L’H14 è invece lo strumento societario principale con cui i tre figli dell’ex Presidente del Consiglio fanno i loro investimenti finanziari in fondi e aziende. Si tratta dunque letteralmente della cassaforte di famiglia. E infatti nel cda delle due holding, oltre ai figli di Berlusconi siede un alto dirigente di Mediolanum, Furio Pietribiasi. E accanto a lui Geronimo La Russa.

GIAN GAETANO BELLAVIA – EX CONSULENTE DELLA PROCURA DI MILANO Chi è entrato in quelle due casseforti certamente è una persona di grande rilievo per i figli di Berlusconi. Consideri anche che nel consiglio di queste due holding ci sono solo due estranei dalla famiglia chiamiamoli così, lui e un grande manager di Mediolanum, quello che si occupa degli investimenti esteri.

GIORGIO MOTTOLA Che comunque è interno al mondo Fininvest?

GIAN GAETANO BELLAVIA – EX CONSULENTE DELLA PROCURA DI MILANO Si.

GIORGIO MOTTOLA Quindi Geronimo La Russa è l’unico vero estraneo?

GIAN GAETANO BELLAVIA – EX CONSULENTE DELLA PROCURA DI MILANO Sì, l’unico vero estraneo effettivamente è lui.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Granata, avvocato siciliano, all’epoca vicepresidente della Commissione Antimafia, insomma, secondo lui, la vicenda Spatuzza ha avuto un ruolo fondamentale nella spaccatura tra Silvio Berlusconi e Fini. Spatuzza aveva come collaboratore di giustizia riscritto la storia dell’attentato di via D’Amelio, aveva aggiunto particolari fondamentali nel rilevare la presenza di personaggi esterni a Cosa Nostra nella preparazione dell’attentato e poi in un’udienza storica del dicembre del 2009, nell’ambito dei rapporti tra politica e mafia, aveva fatto i nomi, per la prima volta, di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. La reazione del governo fu senza precedenti: non rinnova il programma di protezione nei confronti del collaboratore di giustizia. Il Pdl comincia un’opera di delegittimazione di questo pentito e invece Granata ne prende le difese. È vicepresidente della Commissione Antimafia, ha dei riscontri e poi aveva ascoltato il parere di tre procure e della Procura Nazionale Antimafia secondo le quali Gaspare Spatuzza era un testimone attendibile, era un collaboratore attendibile. A quel punto Granata lancia un’accusa pesantissima. All’interno di quel Governo - dice- c’era gente che stava boicottando la lotta alla mafia, e la ricerca della verità sulla morte di Paolo Borsellino. Un concetto che Granata conferma ancora oggi. E a quel punto, in quegli anni ricevette un attacco violentissimo da parte di Ignazio La Russa, collega di partito e anche amico che sostanzialmente lo invita a portare le prove o a dimettersi. Ecco, a quel punto si consuma la rottura Fini, Granata e altri colleghi escono dal partito, fondano un nuovo partito, Futuro e Libertà, mentre invece La Russa, Crosetto e Meloni, dopo poco fonderanno Fratelli d’Italia. A quel punto il nascente partito è stato finanziato da Silvio Berlusconi per 750mila euro e insomma però per Fratelli D’Italia sono il giusto riconoscimento dei contributi elettorali, dei rimborsi elettorali, che però Silvio Berlusconi non ha riconosciuto agli altri fuoriusciti, a Fini, Granata e Company. Insomma, quei soldi sono stati sicuramente una manna dal cielo per chi doveva cominciare una campagna elettorale e non aveva un euro nelle proprie casse. Insomma, su tutto questo abbiamo chiesto il punto di vista al Presidente del Senato, Ignazio La Russa, che però ha preferito non parlare con noi. Il perché lo potete leggere nella lettera che abbiamo pubblicato sul nostro sito.

Guido Crosetto.

Estratto dell’articolo di Gianluca Roselli per “il Fatto Quotidiano” il 7 Settembre 2023 

Non l’ha presa affatto bene, Guido Crosetto, che forse per la prima volta s’è trovato “paparazzato” su un giornale di gossip. La testata in questione è Novella 2000, settimanale del gruppo Visibilia (quello guidato da Daniela Santanchè, prima che ne cedesse le quote). Il ministro della Difesa e la Pitonessa militano nello stesso partito (FdI) e sono concittadini (entrambi di Cuneo). 

Nel servizio, […] si vede il ministro a mollo nelle acque di Santa Margherita di Pula, nota località turistica a sud ovest di Cagliari. Foto in cui il ministro bacia con passione sua moglie, Gaia Saponaro, e gioca in acqua con i due figli piccoli Carole e Leon. Nelle immagini c’è anche Alessandro, figlio più grande avuto da un precedente matrimonio.

“Girano sui social le pagine di un settimanale con foto strappate alla mia privacy. È successo ad altri e tengo per me la rabbia. Non posso tenerla per commenti che riguardano mia moglie. Stiamo insieme da 20 anni. Siamo sposati, con due figli. È molto più bella di me? Sì è vero!”, ha twittato Crosetto, in riferimento ai commenti apparsi sui social. 

Insomma, quelle foto al ministro non sono affatto piaciute. Anche perché lui tiene moltissimo alla sua privacy. Sono da considerare un colpo basso da parte del gruppo editoriale che apparteneva a Santanchè?

Dallo staff giurano di no: i due, pur non essendo migliori amici, possono vantare un buon rapporto. Tanto più che Crosetto si è pure speso in sua difesa sullo scandalo Visibilia.

Insomma, si tratterebbe solo di uno “scoop giornalistico” […]

Estratto dell’articolo di Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” venerdì 8 settembre 2023.

Un settimanale pubblica le foto rubate del ministro Crosetto, avvinghiato alla moglie Gaia Saponaro tra le onde del mar. Senza dubbio nella coppia chi ruba più gli occhi non è lui, ma la vera notizia è che, dopo vent’anni di matrimonio, i due si baciano ancora come fidanzatini. 

Invece sui social, specchio fedele dei tinelli d’Italia, parte la fiera della maldicenza, alimentata dall’eterno pregiudizio patriarcale: se una donna così bella ha sposato il cugino pallido di Shrek, scrivono, significa che è un’arrivista senza scrupoli, per non dir di peggio […] 

Pensare ancora certe cose nel 2023 è imbarazzante, e lo è altrettanto essere costretti a rimarcare che la signora Saponaro ha due lauree, una storia e una carriera autonome, e che ha sposato Crosetto quando lui non era ancora un politico di primo piano.

Lo stesso ministro si sente in obbligo di intervenire […], soffocando la rabbia dietro un sorriso per ammettere che sì, sua moglie effettivamente è più bella di lui. In altra occasione aveva dovuto precisare che la donna della sua vita proviene da una famiglia benestante, quasi a voler rassicurare i malevoli che non si era unita in matrimonio per acchiappare un patrimonio. 

[…] Crosetto aggiunse che la moglie era un’amante dell’horror, ma dubito che il tribunale dei social abbia colto l’ironia: avrà piuttosto pensato che la signora avesse un flirt con Dario Argento. 

Estratto dell'articolo di Simone Golia per corriere.it venerdì 8 settembre 2023.

Una famiglia benestante alle spalle, poi le lauree, lo studio, il lavoro all’estero e a Roma. In molti, dopo lo sfogo su Twitter del marito Guido Crosetto per la diffusione delle loro foto in vacanza insieme in Sardegna, si saranno chiesti chi sia Gaia Saponaro, la donna che da 20 anni è accanto all’attuale ministro della Difesa e che insieme a lui cresce due figli. 

Il primo scatto che li ritrae insieme viene postato sui social il 24 luglio 2020, quando Guido Crosetto […] pubblica una foto in bianco e nero con la moglie Gaia Saponaro: «Buon compleanno alla mia compagna di vita e di strada, da 16 lunghissimi e straordinari anni» […] 

Numerosi i commenti sotto quella foto. Tant’è che il futuro ministro della Difesa non resta in silenzio: «Dieci giorni fa ho pubblicato una foto con mia moglie che ha suscitato in molti commenti sorpresi e sarcastici — posta sui social — quindi ne condivido una senza di me con alcune informazioni: stiamo insieme da 15 anni, sposati, due figli (Carole e Leon), è pugliese e benestante. Ha molto humor ed ama l’horror».

[…]  Cresciuta con la passione per la ginnastica artistica e per gli scacchi, ha nel curriculum due lauree (una in economia aziendale e una in International management) e un Master in Business Administration. Ha studiato a Londra e vanta una lunga esperienza lavorativa ad Hong Kong e Sydney. Fra le sue passioni c’è anche quella del vino, tanto da conseguire il secondo livello WSET award in wines, un prestigioso riconoscimento nel settore. 

Saponaro nel quotidiano è impegnata nella direzione del Food & Beverage del ristorante Don Pasquale Restaurant & Bar a Roma — uno dei diversi incarichi che ha ricoperto per importanti catene alberghiere tra cui Marriott e Jk.

 Chi è Gaia Saponaro, la moglie di Crosetto e il gossip che ha fatto infuriare il ministro. Insieme dal 2005, la coppia paparazzata in Sardegna. La copertina di "Novella 2000" e i commenti social che hanno fatto arrabbiare il ministro. Redazione Web su L'Unità il 7 Settembre 2023 

Novella 2000 dedica la copertina della settimana al ministro della Difesa e alla moglie. E Guido Crosetto si è infuriato, ha commentato con un post su Twitter il gossip, soprattutto per i commenti su di lui e sulla moglie Gaia Saponaro. “Girano sui social le pagine di un settimanale con foto strappate alla mia privacy. È successo ad altri e tengo per me la mia rabbia. Non posso tenerla per commenti che riguardano mia moglie. Stiamo insieme da 20 anni. Siamo sposati, con 2 figli. È molto più bella di me? Si, vero!”

Crosetto e la moglie, ha scritto Novella 2000, erano in vacanza in Sardegna, a Pula, in provincia di Cagliari. “Amore senza difesa”, il titolo del servizio. Il ministro ha criticato soprattutto i commenti sulle fotografie pubblicate dalla rivista. E certo che il ministro è un personaggio pubblico, che dalla moglie si è fatto anche accompagnare in occasioni ufficiali – si trovano anche infatti le foto a Palazzo Chigi, ad esempio, al giuramento del governo di Giorgia Meloni -, vero è anche che a volte il gossip, certi titoli, commenti onestamente non richiesti, supera i limiti del buon gusto.

Saponaro ha origini pugliesi. È un’ex pallavolista, ha due lauree, un master e parla quattro lingue. La coppia sta insieme dal 2005, i due hanno avuto due figli. L’ex atleta è apparsa soltanto raramente in televisione, resta lontana dai riflettori. Non si tratta del primo matrimonio per il ministro della Difesa. Il leader di Fratelli d’Italia prima di Saponaro era stato sposato con una pallavolista della Repubblica Ceca con cui aveva avuto un figlio nel 1997. DI Redazione Web 7 Settembre 2023

Francesco Lollobrigida.

Estratto dell’articolo di Pino Corrias per “il Fatto Quotidiano” mercoledì 29 novembre 2023.

Ma queste due formidabili sorelle della Nazione, Giorgia e Arianna, cresciute con la fiamma del matriarcato tricolore nel cuore, come se li sono scelti i loro due capolavori di compagni/camerati/mariti? Li hanno presi in sconto al Black Friday o li hanno vinti ai punti? Giorgia, la minore diventata maggiore, si orientò sul simpatico Giambruno Andrea che sembra la caricatura di Lando Buzzanca, nel celebre fumetto Lando, con il ciuffo al posto del baffo, e il testosterone al posto del cervello. […]

L’altra, Arianna, detta Ary, si è scelta questo Lollobrigida Francesco, di anni 51, che lei chiama Lollo, qualche volta per scherzo Gina, attuale ministro dell’Agricoltura, direttamente da uno sgangherato scaffale, con busto Dux, della Sezione del Movimento Sociale di Colle Oppio, un sergentone dal piglio di colonnello, che raramente saluta, veste in grigio, pensa in grigio e dopo una cert’ora ha lo sguardo da sonnolenta digestione. Nel dormiveglia, straparla. E quando lo correggono, fa il muso, estraendo sempre la solita minaccia: “No, non mi dimetto”.

Ai tempi del Covid disse che sotto i 40 anni era meglio non vaccinarsi. Gli chiesero da chi l’avesse saputo. Non rispose. Poi disse che in Italia, anzi in Occidente, è in corso “la sostituzione etnica”. Gli chiesero se sapeva cosa voleva dire. Non rispose al primo giro. Al secondo, informato sul significato del misfatto, disse “non sono razzista, sono ignorante”.

La scorsa settimana, beccato dal Fatto Quotidiano a dissigillare le porte del Frecciarossa 9519 alla stazione non prevista di Ciampino, per infilarsi su una Audi Q5 e correre a Caivano a tagliare il nastro di un’aiuola, disse: “Nessun privilegio. Ho fermato il treno e sono sceso come avrebbe fatto un qualunque altro cittadino”.

[…]

Fa più notizia e fa più ridere del rimpianto Danilo Toninelli, che ai tempi suoi si autocelebrò come Toni Nulla. Il nostro ministro di Agricoltura, Sovranità Alimentare e Foreste, ha una storia di esemplare riscatto sociale. Viene dalle pendici dei monti Tiburtini, comune di Tivoli. Missino fin da ragazzo, ha fatto scuole a singhiozzo, mentre la politica l’ha masticata a tempo pieno, cominciando dai funerali di Giorgio Almirante, visti nel pieno dei suoi 16 anni, che sono il suo personale fatal flaw, la “ferita fatale”, il corrispettivo narrativo dei funerali di Paolo Borsellino, per la cognata Giorgia.

Invece di studiare si è laureato in Giurisprudenza alla bella età di 42 anni, presso l’Università Telematica Unicusano, fondata da Stefano Bandecchi, il colosso di Terni, quello che in sintonia coi tempi di femminicidi ha detto: “Devi tradire la fidanzata se no non sei un uomo normale e prima o poi la ammazzi”.

Lollobrigida di fidanzata ne ha una sola, Arianna, come una sola è la fede politica. Che pratica con disciplina militare, un Vannacci ante litteram, con il fez al vento. Lo ha temprato la gavetta. Dal 1996 al 2000 consigliere comunale a Subiaco. Poi assessore allo Sport nel Comune di Ardea. Qualche elezione persa, qualche altra vinta nelle rurali province del Lazio, dove indossava persino un nome di battaglia, “Beautiful”, per via del viso da attore americano: “Lo usavo per sfuggire alle rappresaglie dei compagni che ti aspettavano sotto casa”.

Nel 2010 la sua personale marcia su Roma, fino alla poltrona di assessore allo Sport nella giunta della Regione Lazio di Renata Polverini, la sindacalista Ugl nata e scomparsa nei talk show. Il colpo di fortuna arriva nel 2012, quando in dissenso da Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini inciampato per sempre dentro un appartamento di Montecarlo, nasce Fratelli d’Italia, che fonda con la cognata Giorgia Meloni, l’esperto di armi Guido Crosetto, il veterano Ignazio La Russa. I soldi, dice una recente inchiesta di Report, ce li mette Silvio B. – 750 mila euro: cifra equivalente a un anno di Olgettine – in odio al suddetto Fini, colpevole di avergli puntato il dito direttamente sul fondotinta con il suo celebre “Cheffai? Mi cacci?”.

Al terzo tentativo, Lollo vince il jackpot elettorale, anno 2018, entra trionfante alla Camera dei deputati, direttamente capogruppo con predisposizione per le nomine in tutto il parastato che conta, enti, aziende partecipate, fino allo sfinimento per i troppi questuanti: “Non faccio in tempo a entrare in Rai che mi circondano”.

A nome di Giorgia e Arianna fa e disfa nel partito, dispensa, promette, incassa: all’ultima manovra finanziaria si fa aggiungere 2 milioni di euro per le casse dei suoi uffici, senza che nessuno fiati. Ha le chiavi del nuovo potere che tracima, afferra, annette in estasi da indigestione. Per tre generazioni quelli come lui, come Giorgia, si sono nutriti di avanzi, masticando odio per i nababbi della sinistra che ai loro occhi avevano tutto, il potere dei soldi e quello della propaganda, la piazza e i salotti.

[…] guai a definire l’Italia una repubblica nata antifascista: “La libertà non è di destra e non è di sinistra, è unificante”, dice il Lollo pensiero. La sicumera è la sua ginnastica preferita, in politica e nella logica, a cominciare dal celebre: “I poveri mangiano meglio dei ricchi, perché cercano dal produttore l’acquisto a basso costo e comprano qualità”.

Passando per certi magnifici sillogismi: “Le donne non si dovrebbero nemmeno toccare con un fiore e invece tratterò un argomento che è quello della produzione dei fiori”. Per arrivare finalmente al capolavoro ferroviario: “Ero in ritardo, mi aspettavano nell’aiuola di Caivano a rappresentare lo Stato”. Dove lo scandalo – lui ancora non l’ha capito – non è il ministro che scende, ma è il Lollo Beautiful che a forza di salire è diventato Stato.

Il treno (e non solo): Lollobrigida, il potere e le scivolate. «Sono nel mirino». Fabrizio Roncone sul Il Corriere della Sera il 26 novembre 2023.

Il ministro di FdI: non è vero che Giorgia è arrabbiata

L’incarico: raccontare il caso Lollobrigida. Prima mossa: cercarlo, parlarci (il cellulare staccato, un WhatsApp, la voce gentile della portavoce: «Il ministro è in volo» — e d’altra parte si capisce, sempre meglio l’aereo del treno, anche se l’aereo non puoi certo farlo atterrare dove vuoi, in teoria).

Allora, nell’attesa, proviamo a entrare dentro questa sua clamorosa storia umana e politica, perché — va detto senza ipocrisia — ormai tutti gli stanno addosso, tutti scrivono del cognato di Giorgia Meloni, il ministro protagonista di gaffe su improbabili sostituzioni etniche e altre ruvide polemiche, con dichiarazioni azzardate e l’altro giorno pure un Frecciarossa fermato — dicono — su sua precisa richiesta, quindi una stazione ad personam alla faccia dei pendolari, un inciampo capace di evocare il ritorno, da destra, della casta. Poi, chiaro: non sfugge che le stagioni di grazia, in politica, vanno e vengono.

Appunto: facciamo come in un film, flashback.

Dodici mesi fa.

A Roma, in piazza del Popolo, con giochi di luce tricolore e Mariah Carey che canta, a palla, All I want for Christmas is you, zampognari e militanti in festa per celebrare i primi dieci anni lunghi e faticosi, incerti, testardi e visionari di Fratelli d’Italia, il partito che in un pomeriggio di efferato shopping natalizio romano celebra sé stesso e la sua fondatrice, a sorpresa premier, e ormai irraggiungibile.

Così, tra occhiate languide e mani sudate — Lollo caro, Lollo sei un grande, Lollo ricordati dei vecchi camerati — stanno tutti in fila davanti a lui, a Francesco Lollobrigida, parente alla lontana della mitica «Bersagliera» di Pane, amore e fantasia (il bisnonno era il fratello della nonna di lei), ma parente stretto, strettissimo di Giorgia: è infatti il compagno della sorella Arianna (due figlie con due nomi non casuali: Rachele e Vittoria), un amore giovanile e militante per questo cinquantenne palestrato chiamato Lollo e soprannominato «Beautiful», il nodo della cravatta da elegantone e la mascella sporgente, cresciuto tifando Lazio e nel mito di Giorgio Almirante e Rodolfo Graziani (generale fascista firmatario del manifesto della razza), tutta la trafila classica partendo dal Fronte della Gioventù per arrivare in Parlamento, prima capogruppo dei Fratelli e poi, di botto, addirittura ministro.

Esserlo dell’Agricoltura e Foreste non gli basta. Appesantisce la qualifica con due paroline meravigliosamente destrorse: «Sovranità alimentare» (una dichiarazione di guerra al kebab e agli involtini primavera, anche se — a tutt’oggi — sembra che nessuno abbia ancora avuto il coraggio di dirgli che gli spaghetti arrivano da un territorio dell’Asia occidentale, dalla Valle dell’Indo).

Lollo è riverito, blandito, temuto. Lollo, soprattutto, adora il potere. Gestirlo, lo eccita. Per il suo ministero è riuscito a ottenere dal Mef risorse ingentissime e ha pure mezzo commissariato il ministero del Mare (che sarebbe di Nello Musumeci) e quello del Lavoro (presunta responsabile Marina Calderone). Due ministri li ha addirittura scelti e imposti lui: Andrea Abodi per lo Sport e l’ex rettore di Tor Vergata, Orazio Schillaci, per la Sanità. Ha preteso che Francesco Acquaroli diventasse governatore delle Marche e Francesco Rocca del Lazio. Non solo: piazza consulenti e dirigenti, ha rapporti stretti con imprenditori e manager, giornalisti Rai gli scrivono messaggi seducenti e si dichiarano meloniani di stretta osservanza.

Lollo è l’uomo più forte del partito?

Sì. Un anno fa era lui.

Poi sono successe molte cose. Nel giorno in cui il presidente Mattarella va a visitare il campo di concentramento di Auschwitz denunciando i crimini nazisti, lui se ne esce ripetendo la teoria del filosofo austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, adorato su Telegram tra i complottisti di estrema destra: «Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro». Poche ore dopo, ecco Lollo penitente alla buvette di Montecitorio: «Sono ignorante, non razzista. Fino a ieri non sapevo chi fosse il signor Kalergi». Da qui in poi, non ne azzecca più una. «Da noi, spesso, i poveri mangiano meglio dei ricchi». Web in fiamme. Tirano fuori una sua dichiarazione del periodo Covid, quando si disse contrario alla vaccinazione degli under 40. Intervistato dal Foglio afferma: «La sinistra dice che la Costituzione nasce dall’antifascismo. Ma non va bene».

Cominciano a girare voci: Giorgia non ne può più e — per liberarsene — vuole candidarlo a Bruxelles. Giorgia ha dato le redini del partito ad Arianna, per Lollo è un brutto colpo.

Poi, ecco Il Fatto: Lollobrigida ha chiesto e ottenuto una fermata straordinaria a Ciampino del suo Frecciarossa diretto a Napoli: il convoglio aveva accumulato più di un’ora di ritardo e lui non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo all’inaugurazione del parco urbano di Caivano — sottratto alla camorra — per poi tornare a Roma e registrare, come ospite, una puntata del programma di Nunzia De Girolamo su Rai 3.

«Ho solo chiesto di scendere. Una richiesta lecita, cui ha diritto qualsiasi cittadino» (sono le 16.40: ha chiamato lui. È estremamente cortese).

Ha telefonato lei a un numero speciale?

«No. Ho parlato con il capotreno. Che, immagino, abbia poi inoltrato a chi di dovere la mia richiesta».

Le sembra un comportamento normale, ministro?

«Francamente, sì. Il treno era in grave ritardo e mi aspettavano, sotto la pioggia, a Caivano, per una cerimonia importante. Avessi fatto ritardo io, avrebbe fatto ritardo lo Stato».

Le hanno chiesto di dimettersi.

«Io mi dimetterò quando il mondo dell’agricoltura dirà di essere insoddisfatto del mio lavoro. Per ora, invece, sono tutti entusiasti».

La Lega è stata critica.

«Solo una battuta di Romeo. Che, però, mi ha già cercato due volte al telefono... Appena trovo un minuto, lo richiamo».

Poi c’è il silenzio pneumatico di Salvini.

«È il ministro dei Trasporti. Quando, e se lo riterrà opportuno, credo esprimerà il suo giudizio nelle sedi opportune».

Sua cognata, comunque, è arrabbiata.

«No, assolutamente».

Insisto: è arrabbiata.

«La presidente sa che certe notizie vengono esasperate non per colpire me, ma lei, a Palazzo Chigi».

Continui.

«È un anno che mi tengono nel mirino. Ho cominciato con l’apprendere di essere padre a mia insaputa, hanno aggredito una collega che era rimasta incinta e che ha dovuto dimostrare chi fosse il vero padre con un esame del Dna...».

L’ha letto il risultato?

«Non ho mai voluto leggerlo... poi, scusi: la polemica sulla sostituzione etnica? La si può pensare come si vuole, ma i toni erano sproporzionati, direi».

Dicono che lei sia ormai un ex potente.

«Non lo sono mai stato. E non m’interessa esserlo» (la voce, qui, gli si è un filo incrinata).

L’errore di Lollobrigida? Rinunciare all’auto blu cedendo al grillismo. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 23 novembre 2023

Il Frecciarossa del ministro Lollobrigida mi evoca un ricordo di me bambina. Ero su un treno a scompartimenti, in piedi nel corridoio della prima classe con mamma e sorellina. Il treno era pieno, ma noi guardavamo quello scompartimento in cui sedeva da solo un signore che a me pareva molto grasso e piuttosto vecchio. Poi lui ci aveva visto e con un gesto ci aveva fatto accomodare. «Bambine, ringraziate l’onorevole», ci aveva detto la mamma accettando l’invito. Altri tempi, quelli in cui si rispettava il ruolo istituzionale, pur sapendo che in quel caso si trattava di un privilegio, quello di poter disporre di un discreto spazio mentre altri non avevano neppure un sedile, pur avendo pagato il prezzo del viaggio. Oggi l’ onorevole su quel treno sarebbe sbeffeggiato e preso a sputi e insulti.

E lui stesso farebbe bene, qualora il suo ruolo lo prevedesse, a preferire l’autoblu d’ordinanza (che ormai da tempo è grigia) piuttosto che il treno, cioè il mezzo di trasporto a disposizione di tutti, anche se con lo scompartimento riservato.

Per questo penso che il ministro Lollobrigida, che non è un grillino, avrebbe fatto bene a non ripetere l’errore, voluto, che fece Roberto Fico nel suo primo giorno di scuola, dopo l’elezione a Presidente della Camera dei deputati. Prese l’autobus, ricorderete. Ma lui era contro la casta, fino a quel giorno, poi più, poi andavano bene non solo l’autoblu ma anche sei auto di scorta con sirene e lampeggianti. Quel che spiace dunque, è questa società ormai grillizzata, e grazie ancora, cari Stella e Rizzo, per aver aperto la strada, con il vostro libro così scadente e così fortunato, non a superare la società dei privilegi, ma a farci precipitare nella società della violenza e della stupidità. È violento e stupido mettere in croce il ministro Lollobrigida, che ha solo sbagliato a infilarsi su quel treno per andare a mostrare a Caivano la presenza dello Stato a protezione dell’emarginazione di un pezzo di Italia, per quella fermata di un minuto del Frecciarossa a Roma Ciampino. Le ferrovie dello Stato hanno spiegato con molta chiarezza come sia prassi che, in caso di forte ritardo, la sensibilità nei confronti delle istituzioni induca a fermate supplementari per far scendere autorità o personalità istituzionali il cui tempo è “prezioso”. Sì, prezioso, non per la persona privilegiata, ma per tutti noi. Perché chi mette la propria esistenza, per un certo periodo di vita, come per esempio un membro del governo, a disposizione della collettività, ha un tempo e uno spazio diversi dal mio e da quelli degli altri cittadini. Se quel giorno il ministro Lollobrigida fosse stato costretto a saltare l’appuntamento con i cittadini e le scolaresche di Caivano avrebbe arrecato un danno a un’importante fetta di società. Avrebbe indotto quella parte di popolo che già aveva subito storicamente emarginazione e sopraffazione alla triste conferma dello storico abbandono dello Stato nei confronti dei propri figli più sfortunati. Bene quindi ha fatto il ministro a fare di tutto per esserci, quel giorno a Caivano. La prossima volta però, volti le spalle alla “Casta”, al grillismo e ai suoi seguaci, prenda autoblu, elicotteroblu, aereoblu. Scelga il blu e lasci perdere il rosso della Freccia.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” mercoledì 22 novembre 2023.

Girano brutte voci su Francesco Lollobrigida, in arte Marchese del Lollo. […] quelle sull’intenzione della cognata premier di candidarlo alle Europee per paracadutarlo a Bruxelles e levarselo dai piedi. A parte il fatto che l’Europa […] non merita tanto, a noi chi ci pensa? Già ci hanno privati di Giambruno […], a tradimento, senza preavviso né un sostituto all’altezza. 

E ora vogliono portarci via pure l’altro caratterista che allietava le nostre giornate, l’ultima ragione che rendeva sopportabile questo governo. […] Armiamoci di carta, penna e calamaio (o calamaro, come direbbe lui, noto studioso di granchi blu): “Nessuno tocchi Lollo”.

Sì, ci resterebbero Mezzolitro Nordio e Maria Elisabetta Casellati Alberti Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, ma da un po’ di tempo appaiono dimessi, senza verve, fuori forma e senza il Marchese Cognato potrebbero perdere vieppiù ispirazione. 

[…] la sua prematura dipartita sarebbe un brutto colpo anche per noi. Quando le notizie dal Palazzo scarseggiano, basta mettergli un microfono sotto il naso e lui dà la svolta alla giornata. Nel pieno delle polemiche sul cognatismo […], se la prende coi giovani disoccupati che poltriscono “sul divano anziché coltivare i campi” (o, in subordine, sposare la sorella della premier e diventare ministri).

Il governo anti-migranti riesce a raddoppiare gli sbarchi di migranti? Lui grida alla “sostituzione etnica” […]. Il governo abolisce il Reddito di cittadinanza levando di bocca ai poveri anche l’ultimo tozzo di pane? Lui spiega: “Da noi i poveri mangiano meglio dei ricchi: cercando dal produttore l’acquisto a basso costo, spesso comprano qualità” […]. 

Girano voci sulle scappatelle di un big di FdI con la deputata neomamma che ha fatto il test di gravidanza? Lui avverte subito i cronisti, come la prima gallina che ha fatto l’uovo: “Vi siete chiesti perché il nome non l’ha ancora fatto nessuno? Voglio vedere chi è il primo che lo scrive!”. 

Quando serve una minchiata, lui c’è sempre e non tradisce mai. Un altro così dove lo troviamo? Fatelo pure scendere da tutti i treni che vuole, ma dal governo mai. Resti a bordo, cazzo.

(Adnkronos mercoledì 22 novembre 2023) - ''Per quanto è di mia competenza farò tutto quello che è necessario. Non sono mai fuggito al confronto. Sono convinto di aver agito non solo nell'ambito della legalità e della norma ma nell'interesse dello Stato e per rappresentarlo a Caivano.

Quella discesa dal treno non era per andare in vacanza o andare a trovare la mia famiglia, ma per andare a fare il lavoro''. Lo ha detto il ministro dell'Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida a margine del Forum Coldiretti, organizzato con The European House - Ambrosetti, in corso a Roma, rispondendo a una domanda sulla vicenda del treno e di un'eventuale richiesta del Parlamento a riferire in Aula. 

''No'', risponde il ministro alla domanda se si dimetterà come chiesto dalle opposizioni, e aggiunge che ''per me il vero privilegio è stato quello di stare tra i cittadini di Caivano, a cominciare dai bambini, che sono il nostro futuro e che oggi sono nelle condizioni di tornare a frequentare il parco, grazie al lavoro delle forze dell'ordine e dell'esercito che in tempi velocissimi hanno ripulito quella che era una piazza di spaccio. Lo Stato c'è, c'è in tempi celeri e non solo quando i riflettori erano accesi ma anche nei giorni successivi''.

Jena per “la Stampa” mercoledì 22 novembre 2023.

Quando ha saputo la notizia del treno a Giorgia è venuto un cognato di vomito.

Estratto dell’articolo di Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it mercoledì 22 novembre 2023. 

L’hanno chiamato ironicamente l’affare “Freccianera”, ma i risvolti creano qualche imbarazzo al governo. L’ipotesi che allarma il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida è che adesso si muovano le procure, e possa piovere su di lui l’accusa di interruzione di servizio pubblico, visto che due giorni fa il treno Frecciarossa Torino-Salerno ha fatto una fermata straordinaria alla stazione di Ciampino, vicino alla capitale, per permettere al ministro di arrivare puntuale ai suoi impegni istituzionali, come ha confermato lui stesso. 

Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde, fa sapere a Domani che oggi presenterà un esposto alla procura di Roma. Già nel pomeriggio aveva esortato l’intervento dei pm paventando l’ipotesi dell’abuso d’ufficio: «È gravissimo». E ancora: «Per quali ragioni si è consentito di bloccare un treno per le esigenze di un ministro e a scapito degli altri viaggiatori?». 

[…] La legge prevede che ogni condotta che determini una qualunque temporanea alterazione, oggettivamente apprezzabile, della regolarità dell'ufficio o del servizio, anche se coinvolgente un settore e non la totalità delle attività, può essere punito con la pena fino a un anno. In attesa che lo specifico caso si chiarisca, su Lollobrigida sono piovute le richieste di dimissioni delle opposizioni. […]

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” mercoledì 22 novembre 2023. 

Passerà alla storia come il cognato che faceva fermare i treni. […] Nessuno storico potrà riprodurre mai l’incedere del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida nel Transatlantico, a Montecitorio. Alto. Rigido. Militare. Capello corto. Aria da potente. Non saluta nessuno. Ma quest’alta considerazione di sé, di cui la fermata ad personam del Frecciarossa è l’effetto, stride con la perdita di potere nel reale.

Troppe gaffe in un solo anno. Troppi inciampi. Troppi pettegolezzi. Diciamola tutta: Lollo, come lo chiamano nel partito, è una manna per i titolisti. Ha annunciato di voler fermare la sostituzione etnica. Ha dichiarato l’etnia italiana a rischio. Ha spiegato che i poveri mangiano meglio dei ricchi. È finito dentro una storia di gossip. Si è legato mani e piedi a Coldiretti, facendo approvare una legge su una cosa – la carne coltivata – che ancora non esiste.

Ha inventato il concetto di sovranità alimentare, con cui ha ribattezzato il suo ministero. Ha spiegato che non va bene che la Costituzione nasca dall’antifascismo. Durante il Covid si disse contrario alla vaccinazione per gli under 40. Perché proprio loro? Boh! Ogni volta si stupisce del clamore che le sue frasi suscitano. Pure ieri.  A Ciampino potevano scendere tutti, ha detto. Tutti a Ciampino! Solo perché non voleva arrivare tardi per la puntata di Avanti popolo! Insomma, «io so io e voi...».

Un anno fa era ritenuto l’uomo più importante del governo. Lo chiamavano Beautiful. Il marito della sorella della premier, Arianna Meloni, detta Ary, che aveva chiamato le figlie con nomi evocativi: Vittoria e Rachele. «Parlate con Lollo», ordinava Giorgia. E c’era la fila. […] 

Era un amore soffocante. «Non posso entrare in Rai che subito vengo circondato da gente che si dichiara meloniana». Beautiful spostava capi di gabinetto come birilli. Nominava fedelissimi. Imponeva ministri, come Schillaci e Abodi. O governatori, come Rocca nel Lazio.

[…] Potente. Potentissimo. Poi le cose cambiano in fretta. E di inciampo in inciampo il ministro sovranista è calato nella considerazione. Sono cominciate a sorgere strane voci, che lo davano candidato alle Europee: «Giorgia vuole liberarsene ». D’improvviso le chiavi del partito sono state affidate alla sorella. Che ora risponde sui social, polemizza, difende quell’affare di famiglia che è il partito. 

E Lollo? Ha 51 anni. In fondo aveva fatto tutto giusto, la gavetta, consigliere comunale a Subiaco, assessore ad Ardea, il ministero più acconcio, infatti gli piace andare in giro a promuovere il carciofo romanesco. Probabilmente alla premier gli ha fatto velo la parentela, il tengo famiglia. Bisognava capire tutto quando Lollobrigida, da capogruppo, disse che il governo intimidiva l’opposizione, citando come esempio il delitto Matteotti. Matteotti! E per spiegarlo scrisse un comunicato in cui usò il maiuscolo per la parola fascismo: Fascismo. Quando poi Meloni lo portò da Draghi, lui volle informarlo di essere laziale. L’ex banchiere strabuzzò gli occhi. «È di Tivoli», disse la cognata.

Giacomo Salvini, Carlo Di Foggia e Vincenzo Bisbiglia per il Fatto Quotidiano - Estratti mercoledì 22 novembre 2023. 

“Che cosa possiamo fare per poter scendere?”. È la frase con cui Francesco Lollobrigida, martedì scorso, si è rivolto al capotreno del Frecciarossa 9519, in ritardo siderale e fermo poco fuori dalla Capitale.

Si tratta di uno dei dettagli che, dopo la notizia pubblicata dal Fatto, emergono sulla vicenda della fermata ad personam alla stazione di Ciampino, richiesta e ottenuta dal ministro dell’Agricoltura, atteso a Caivano (Napoli) per l’inaugurazione del parco urbano e poi di nuovo a Roma per la registrazione dell’intervista alla trasmissione Rai Avanti Popolo, con Nunzia De Girolamo. 

È andata così. Lollobrigida e almeno una persona del suo staff sono saliti a Roma Termini sul Frecciarossa proveniente da Torino e diretto a Salerno. La destinazione era Napoli Afragola. Il treno, già in ritardo di un’ora, ne ha accumulato ulteriore perché è stato dirottato dalla linea Tav – dove c’erano problemi tecnici – su quella ordinaria, dove ha dovuto dare la precedenza a un treno merci.

Un delay che è arrivato a toccare i 100 minuti. Ecco che giunti all’altezza del Gra, il ministro si è alzato e si è rivolto al capotreno: “Salve, sono il ministro Lollobrigida, mi aspettano alle 14:40 a Caivano, ho bisogno di scendere”. È lì che si è attivata la filiera autorizzativa. 

Come conferma Trenitalia, il capotreno ha contattato la sala operativa facendo presente da chi arrivasse la richiesta. “La centrale – ha confermato Trenitalia – ha richiesto al Centro di Coordinamento della Circolazione di Rfi la fermata straordinaria presso la stazione di Ciampino, all’altezza della quale il treno si trovava”. Nella sua ricostruzione dei fatti, Lollobrigida ieri ha voluto spiegare che “la fermata straordinaria era disponibile alla discesa di tutti, come da annuncio diffuso sul treno, e non solo per me”.

Ma il punto è proprio questo. Alla fermata straordinaria poteva scendere chiunque. Vero. O meglio, sarebbe potuto scendere, perché fonti informali del Fatto vicine al personale di Stazione – le stesse che hanno confermato la notizia martedì – dicono che dal Frecciarossa sono andati via solo il ministro e i suoi collaboratori, saliti poi sull’auto di servizio. La domanda, a cui né il ministro né Trenitalia rispondono, è un’altra: la fermata straordinaria sarebbe stata accordata di fronte alla richiesta di chiunque? O solo davanti a “istituzioni alle prese con impegni istituzionali”, come affermato dalla società dei trasporti?

(...)

La sensazione, dunque, è che la spinta “istituzionale” abbia permesso alla centrale operativa di Trenitalia di utilizzare la discrezionalità – che le è concessa – per interpretare a maglie allargate il regolamento Ue. Di certo, della vicenda se ne occuperà anche la magistratura, visto che ieri il deputato di Avs, Angelo Bonelli, ha annunciato un esposto in Procura a Roma, denuncia che probabilmente verrà poi girata per competenza ai pm di Velletri, area dove ricade il comune di Ciampino.

Estratto da open.online mercoledì 22 novembre 2023.

Come ha fatto Francesco Lollobrigida a fermare un Frecciarossa in ritardo per scendere prima? Il giorno dopo la storia del treno 9519 Torino-Salerno in sosta straordinaria a Ciampino causa ministro in ritardo diventa più chiara. Comincia con il cognato di Giorgia Meloni che chiede: «Che cosa possiamo fare per poter scendere?». 

Prosegue con qualcuno del suo staff che chiama l’amministratore delegato delle Ferrovie di Stato Luigi Corradi: «Siamo qui a Ciampino, vorremmo scendere qui che qualcuno ci viene a prendere in stazione». E si conclude con il capotreno che confessa ai colleghi: «Mi hanno chiamato dalla centrale». Con le Fs che si difendono: «Abbiamo fatto l’annuncio per tutti, chiunque poteva scendere». Ma l’auto blu fuori dalla stazione della cittadina c’era solo per Lollobrigida. 

La fermata a chiamata

Nel protocollo di Fs esiste infatti la «fermata straordinaria». Si effettua, per esempio, in caso di gravi motivi di salute dei passeggeri. Repubblica fa sapere oggi che secondo i vertici ce ne sono state 207 quest’anno. Ma nessuna prevede uno stop and go in una stazione non prevista dal percorso. Nel 2023 sono avvenute per rotture dei treni o per stop dovuti a lavori sulla linea. Mentre l’unica ragione per fermare il treno e poi farlo ripartire sono i motivi di ordine pubblico. (...)

«Salve, sono il ministro Lollobrigida»

Quando il convoglio arriva all’altezza del Grande Raccordo Anulare entra in scena Lollobrigida e si rivolge al capotreno: «Salve, sono il ministro Lollobrigida, mi aspettano alle 14.40 a Caivano. Ho bisogno di scendere». Lì si attiva la filiera autorizzativa. La centrale chiede al Centro Coordinamento della Circolazione di Rfi la fermata straordinaria a Ciampino. Il quotidiano spiega che sì, la fermata era disponibile per tutti ma dal treno è sceso solo il ministro. Trenitalia rimanda al regolamento europeo 782 del 2021, che all’articolo 18 (Rimborsi e itinerari alternativi) dice che, di fronte a ritardi superiori a 60 minuti «offre immediatamente al passeggero la scelta tra le seguenti opzioni».

Il regolamento di Trenitalia

Ovvero: «Ottenere il rimborso integrale del biglietto, ritornare al punto di partenza iniziale e proseguire il viaggio o seguire un itinerario alternativo, a condizioni di trasporto simili (…) appena possibile (…) o a una data successiva a discrezione del passeggero». Si parla di «fermate straordinarie per coincidenza/riprotezione dei clienti derivanti da gestione anomala o circolazione perturbata». Intanto il deputato di Alleanza Verdi Sinistra Angelo Bonelli annuncia un esposto in procura a Roma. La denuncia verrà girata per competenza a Velletri.

Estratto dell'articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 20 aprile 2023.

Dalle stanze della sezione del Movimento sociale di Colle Oppio - a sedici anni presente al funerale di Giorgio Almirante - passando per una piccola scrivania nella sede Azione giovani in via della Scrofa 39, è arrivato a toccare il cielo con un dito. Godendo della piena e totale fiducia della cognata: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

Francesco Lollobrigida, per chi lo conosce da ragazzo “Lollo beautiful”, ne ha fatta di strada dai tempi della rottura con la destra sociale di Gianni Alemanno, per diventare un “gabbiano” nella corrente di Fabio Rampelli insieme alla gabbianella Giorgia Meloni: della quale lui è braccio destro e filtro da venti anni a questa parte, da quando ha iniziato la relazione sentimentale con la sorella Arianna. 

[…] Lollobrigida in questi anni è diventato il cognato più famoso d’Italia. È lui che ha chiuso le liste per Camera e Senato nel voto più importante per FdI. Lui ha avuto in mano i dossier sulle nomine nelle aziende di Stato. Lui ha piazzato consulenti e dirigenti del suo cerchio magico, e abbastanza nero, in giro nei vari ministeri. 

Lollobrigida in questi mesi di potere non ha dimenticato certo gli amici, anche se in piena euforia del potere ha avuto l’ardire, e la forza, di mettere da parte suoi maestri come Rampelli e di fare la voce grossa anche con volti di peso in casa FdI, da Ignazio La Russa a Guido Crosetto (non a caso tra i pochi a non difenderlo dopo la sparata sulla sostituzione etnica).

La prima nomina che ha piazzato al governo è stata quella di Claudio Anastasio alla guida della 3-I spa: incarico che quest’ultimo ha dovuto lasciare dopo che Repubblica ha reso nota una sua mail al cda nella quale citava il discorso di Benito Mussolini in Parlamento all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Qui il tramite era stata Rachele Mussolini, la nipote del Duce e grande amica del ministro. 

[…] 

L’ultima nomina l’ha messa a segno fuori dal governo: quella dell’assessore regionale nel Lazio Giancarlo Righini, con deleghe pesanti al Bilancio e all’Agricoltura. Un camerata ex missino, che un 25 Aprile di qualche anno fa scrisse sui social: «Onore ai tanti giovani che difesero la Patria sacrificando la vita...a loro va il mio pensiero e la mia preghiera ogni anno. Io non festeggio, l’odio è rosso». 

[…]

Ha voluto con forza la candidatura a governatore delle Marche di Francesco Acquaroli, finito al centro delle polemiche perché partecipò a una cena in ricordo della Marcia su Roma insieme ad alcuni sindaci locali, e poi nel suo staff al ministero ha voluto tanti esponenti di Fratelli d’Italia che in questi anni lo hanno sostenuto e seguito: da Sergio Marchi ex assessore comunale a Roma in quota Fratelli d’Italia a Giuseppe Calendino, storico consigliere del Municipio XV fin dal 2006. 

In pieno stile da plenipotenziario ha piazzato un suo fedelissimo, il deputato Gianluca Caramanna, come consulente al ministero del Turismo di Daniela Santanché e in tutte le amministrazioni regionali dove esponenti di FdI hanno la delega al turismo, e ha imposto anche il capo di gabinetto al ministro Nello Musumeci.

Lui può mettere bocca su tutto e tutti e di fatto governa anche i gruppi alla Camera e al Senato, pieni di suoi fedelissimi. La sua baldanza, tenuta a freno spesso con determinazione dalle sorelle Meloni, ultimamente è plateale: mentre imperversavano i gossip sulla deputata di FdI Rachele Silvestri, che ha scritto una lettera al Corriere parlando di un test del dna del figlio che avrebbe fatto per smentire voci su una paternità di un esponente di FdI, Lollobrigida passeggiava sicuro in Transatlantico sfidando i giornalisti a fare il nome.

Ma qualcuno pensa che dopo quest’ultima gaffe dalle venature suprematiste potrebbe essere ridimensionato: «Avete notato che Meloni nemmeno si avvicina a lui quando viene alla Camera», sussurrano in casa Fratelli d’Italia. […]

Estratto dell’articolo di Emanuele Lauria per “il Venerdì di Repubblica” il 17 febbraio 2023.

A voler essere cattivi, si potrebbe fare leva su altre celebri e non fortunate "cognatanze": Paolo Pillitteri con Bettino Craxi, Gabriele Cimadoro con Antonio Di Pietro e, a destra, la parabola disgraziata di Giancarlo Tulliani, fratello della compagna di Gianfranco Fini e co-protagonista della non commendevole vicenda della casa di Montecarlo. Ma la storia di Francesco Lollobrigida detto Lollo, 50 anni, cognato di Giorgia Meloni, ha ormai assunto uno spessore diverso.

 Perché Lollobrigida non è, o non è più o non è solo, un beneficiario della parentela con la premier Giorgia Meloni. È diventato un uomo-chiave di Fratelli d'Italia, abile tessitore di una rete di potere e clientele, oltre che fidato consigliere dell'inquilina di Palazzo Chigi. Se proprio un paragone va fatto, giusto accostare la sua traiettoria a quella di storici bracci destri, come lo fu Martelli per Craxi, Gianni Letta per Berlusconi, Guerini per Matteo Renzi.

Titolare di un ministero che già nel titolo vuole raffigurare l'identità della Destra (la Sovranità alimentare), l'ex rappresentante del Fronte della Gioventù è la cinghia di trasmissione fra il partito e il governo: in realtà lui doveva continuare a fare il capogruppo alla Camera ma Meloni, con la logica del capotribù, alla fine ha deciso di infarcire il suo esecutivo di fedelissimi. […]

 Però non solo: Lollobrigida è il capodelegazione, insomma il portavoce, dei ministri di Fdi in Consiglio dei ministri. E in questa qualità, per fare un esempio, a dicembre era pronto a guidare la cabina di regia sulla Finanziaria quando tempi stretti e richieste degli alleati rischiavano di far saltare tutto. Nei fatti, era già stato individuato come commissario per la manovra.

La sua longa manus si estende anche al Turismo, delega assegnata a Daniela Santanché (altra esponente di FdI), ma soprattutto agli enti e alle poltrone pesanti degli assessorati di mezz'Italia. […]

 […] dal papà ex dc ha preso la capacità di stringere rapporti a tutto campo: «Io un uomo-chiave? In realtà mi sento un po' una chiavica», scherza lui. «E poi questa capacità di relazione ce l'hanno, più di me, colleghi come Guido Crosetto».

Ma anche la tendenza a minimizzare fa parte del personaggio, che ha smesso di impermalosirsi quando si parla della "cognatanza" (termine da lui stesso usato con disinvoltura): «Devo sempre ripetere che ho cominciato a far politica diversi anni prima di Giorgia?», puntualizza. «Gli ambienti giovanili della destra erano chiusi ed emarginati, era naturale che lì nascessero rapporti sentimentali come quello fra me e Arianna Meloni. Però, dico, perché nessuno si scandalizza se il Pd schiera i coniugi Franceschini fra Senato e Camera o se, nel gruppo di Avs che conta appena 13 deputati, due scranni sono di Fratoianni e sua moglie?».

Moto d'orgoglio che anima un'attività che vede Lollo sovrintendere anche ad altri settori cruciali del governo. Che è nei fatti il coordinatore dei ministri tecnici: Salute e Lavoro. Orazio Schillaci, non è un mistero, è un nome indicato da lui. E la moglie Arianna, presenza assidua negli uffici del ministero della Salute, funge da cerniera.[…]

 Tirar su questa rete, per un uomo come Lollobrigida, non è stato semplice. L'ha aiutato anche l'esperienza sul territorio, maturata sin dai tempi dell'attività da rappresentante d'istituto al liceo Braschi di Subiaco e nelle sue esperienze negli enti locali, culminate con il ruolo di consigliere regionale e poi assessore della giunta Polverini.

È riuscito a tenersi alla larga da estremismi e nostalgie («L'Msi? Il 50 per cento dei nostri tesserati non ne ha neppure memoria») seppure con qualche eccezione: rimbalza ancora sul web la polemica per un sacrario dedicato al gerarca fascista Rodolfo Graziani finanziato dalla Regione Lazio, su sua iniziativa, e fatto costruire dieci anni fa ad Affile. Lollobrigida era lì, in prima fila all'inaugurazione.

 Ma è ormai a suo agio nelle istituzioni, punto di riferimento del nuovo corso meloniano per grand commis e potenti portatori di voti. Nella burocrazia non usa il machete di Crosetto ma il bisturi. Poche rimozioni, qualche innesto mirato: nell'Agea, la potente agenzia per le erogazioni in agricoltura, ha spedito Fabio Vitale, l'ex dirigente Inps che nelle Marche aveva scoperchiato la pentola dei "furbetti" del reddito di cittadinanza, con inchiesta giudiziaria annessa. Vitale con Giorgetti era finito al Mise, Lollobrigida l'ha sottratto al collega Adolfo Urso assieme a Sergio Marchi, già al Copasir e oggi responsabile della segreteria tecnica del ministero dell'Agricoltura. [..]

Per qualcuno è ingombrante: in cima ai rivali interni c'è Fabio Rampelli, candidato ma mai fino in fondo a tutte le elezioni possibili e messo da parte anche per le Regionali nel Lazio a favore di Francesco Rocca, naturalmente uomo di Lollobrigida. «Sono come la sora Camilla, tutti la vonno e nissuno la pija», commentò memorabilmente Rampelli, per giunta commissariato nella guida del partito a Roma.

La corsa del biondo luogotenente di Giorgia con il vezzo del look (è solito entrare nella sala da barba della Camera per farsi pettinare prima delle sedute) prosegue lontano dagli ardori giovanili delle sezioni romane («Le botte all'Università? Succedeva. E se me le davano, reagivo») e vicino ai granai elettorali della Penisola: strategico il rapporto con Coldiretti […]

 La "cognatanza" paga, e Lollo tenta la scalata anche per diventare il numero due negli indici di popolarità degli esponenti di Fdi: nei social ha l'engagement più alto, grazie anche al profluvio di post (427) prodotti nei primi due mesi di governo: il segreto si chiama Matteo Caracciolo, un giovane che si occupa del web e che lavorava con Stefano Patuanelli, il predecessore di Lollobrigida all'Agricoltura: proviene – udite udite – dall'associazione Rousseau di Davide Casaleggio.

Ma il cognato più famoso d'Italia ha deciso di tenere con sé anche chi voleva aprire il Palazzo come una scatoletta di tonno: pure questo, in fondo, è esercizio di sovranità alimentare.

Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “il Foglio” il 7 febbraio 2023.

Si sono ribaltati i ruoli: non è più lui il “cognato” di lei, ma lei la “cognata” di lui. L’uomo che “governa il governo” è Francesco Lollobrigida e Giorgia Meloni la sorella di sua moglie.

 E’ il tutore di tre ministri (Lavoro, Sanità, Mare), fa il corazziere della Repubblica, costruisce relazioni con magistrati, funzionari dello stato, manager e anche con la stampa estera. […] In Italia chi ha oggi un’ambizione si rivolge al ministro dell’Agricoltura. Alla Camera, cammina con il fascicolo delle società partecipate sottobraccio. C’è un faldone ufficiale e poi c’è il suo. […] E’ il semipremier. […]

 Fino a oggi si è parlato di “rete Lollobrigida”. […] Siamo di fronte alla selezione di nuova classe dirigente, alla placenta di un nuovo partito. Si fa sempre più necessario per Meloni separare la destra “scervellata”, dalla destra con le bretelle, quella che pensa prima di parlare. […] Se non è possibile cambiare la natura di FdI non resta che fare di FdI un fondaco identitario e favorire la nascita di un partito nuovo, che si affianchi a FdI.

[…] Lollobrigida era destinato a restare capogruppo. Accade qualcosa. Giovanbattista Fazzolari, indicato come naturale sottosegretario alla presidenza, si eclissa. Cancella il suo profilo social dopo un articolo di Susanna Turco dell’Espresso che seleziona alcuni suoi vecchi tweet contro il presidente Sergio Mattarella. Nel ruolo che in passato è stato di Roberto Garofoli viene scelto Alfredo Mantovano. Meloni si accorge di non avere in Cdm uomini di cui si può fidare.

Crosetto, Urso sono della “famiglia” ma indomabili. Fitto è il più preparato ma non conosce le bizzarrie di FdI. L’unico capace di dosare gli elementi, l’appartenenza e la calma, è Lollobrigida. E’ lui ad accompagnarla al Meeting di Rimini, alla Coldiretti, nella prima uscita da vincitrice. Mentre Crosetto invoca il machete, Lollobrigida conferma dirigenti e ridimensiona il ruolo di ex aennini.

 Al ministero sceglie come capo di gabinetto Giacomo Aiello, già alle Infrastrutture con Maurizio Lupi e nell’ultimo governo con Mara Carfagna. Nel Cdm che sancisce l’uscita di Alessandro Rivera, come direttore generale del Tesoro, Lollobrigida nomina Stefano Scalera (uno dei nomi che era circolato come sostituto di Rivera) a capo del dipartimento per le Politiche competitive, pesca e ippica. […]

Lollobrigida lascia al suo posto due direttori come Felice Assenza (Repressione frodi) e Giuseppe Blasi (alle Politiche europee). Conferma anche Stefano Vaccari, direttore del Crea (Consiglio per la ricerca in Agricoltura). Non sostituisce ma “innesta”. Un innesto che nel mondo delle politiche agricole è stato salutato con apprezzamento è quello di Fabio Vitale ad Agea. […]

Al governo svolge un ulteriore ruolo che non è codificato. E’ quello di “coordinatore dei ministri tecnici” di Sanità e Lavoro. Orazio Schillaci è stato suggerito da lui, mentre con la ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone c’è un antico rapporto di amicizia e coinvolge anche il marito, Rosario De Luca (presiede il cda della Fondazione studi del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro).

C’è un po’ di Lollobrigida anche al ministero del Mare. La scorsa settimana ha “distaccato” un suo dirigente di prima fascia come Riccardo Rigillo nominato capo di gabinetto di Nello Musumeci. La vera forza di Lollobrigida si chiama Coldiretti, l’associazione presieduta da Ettore Prandini (uno dei candidati a fare il ministro al suo posto) e dal potentissimo segretario generale Vincenzo Gesmundo. Non è solo una associazione ma la porta d’ingresso verso il mondo della magistratura.

Il vanto della Coldiretti è infatti il suo Osservatorio sulle agromafie e il comitato scientifico è presieduto da Gian Carlo Caselli. […] nell’osservatorio […] siedono, solo per citare alcuni, Maurizio De Lucia (il pm che ha arrestato Messina Denaro) Giuseppe Chiné (già capo di gabinetto del Mef) Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Cafiero De Raho (oggi deputato del M5s) Bernardo Mattarella, Giovanni Melillo, procuratore nazionale Antimafia. […]

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 13 Gennaio 2023.

[…] Oggi è l'uomo forte del governo di Giorgia Meloni: e non solo perché ne è il cognato, ma perché da anni pezzo per pezzo si è preso il partito e adesso detta la linea grazie a relazioni che in questi tempi dorati per Fratelli d'Italia diventano fondamentali per occupare le poltrone che contano.

 Il neo ministro Francesco Lollobrigida non ha occhi e volti fidatissimi solo nei rami pubblici del turismo, come raccontato ieri da Repubblica facendo scattare la sua reazione piccata: «Per noi la politica è passione e ci occupiamo con grande cura di tutto ciò che riteniamo utile alla nostra Patria. E continueremo a lavorare così nel mondo del turismo, dell'agricoltura, della scuola, della sanità, del sociale, della cultura, dei trasporti, dello sport, dell'ambiente, delle infrastrutture, della difesa». Proprio prendendolo in parola, anche in questi rami si ritrovano spesso uomini che fanno riferimento all'ex capogruppo FdI.

[…] Un suo uomo fidatissimo è Gianluca Caramanna, deputato alla seconda legislatura piazzato al ministero e nelle Regioni governate dal centrodestra come consulente al Turismo. Ma Lollobrigida è stato fondamentale anche per la nomina dell'ex rettore di Tor Vergata Orazio Schillaci a ministro della Sanità: un settore sul quale il cerchio magico meloniano, composto anche dalla sorella Arianna, moglie di Lollobrigida, sta ponendo molta attenzione.

 Poi c'è lo sport, un suo pallino come il turismo: e lì il "cognato d'Italia" ha piazzato un altro suo amico, Andrea Abodi, proveniente dal Credito sportivo. È sempre Lollobrigida a volere la nomina a commissario per il post sisma del 2016 del senatore, fedelissimo anche di Meloni, Guido Castelli: piazzato in una poltrona che conta in un feudo di FdI, le Marche del governatore Francesco Acquaroli.

Il cognato ha scelto anche il candidato presidente del Lazio, giù parte della sua rete: l'ex presidente della Croce rossa italiana Francesco Rocca. Una mossa […] suggerita alla premier da Lollobrigida anche per mettere nell'angolo il suo vecchio maestro politico, Fabio Rampelli, con il quale militava tra i giovani di Azione nella corrente "gabbiani": «La rottura non è stata tra Meloni e Rampelli, ma tra quest' ultimo e Lollobrigida», ripetono tutti i dirigenti di Fratelli d'Italia, però a microfoni spenti perché oggi far alzare il sopracciglio al ministro dell'Agricoltura significa essere tagliati fuori da tutto.

A proposito di Agricoltura […] in casa Fratelli d'Italia si sussurra […] che molto vicino a Lollobrigida sia diventato già prima delle elezioni Ettore Prandini, presidente della influente associazione degli agricoltori Coldiretti: tanto da partecipare il 22 settembre a un evento elettorale organizzato da Lollobrigida a Potenza e targato Fratelli d'Italia.

 […] Ma la rete del ministro guarda anche fuori dai palazzi della politica in senso stretto. All'Inps dicono sia stato lui a suggerire la nomina di Claudio Anastasio alla guida di 3-I Spa, la società che gestisce i software dell'Istituto nazionale di previdenza. E mentre altri manager di aziende parastatali si sono avvicinati a lui, come l'ex finiano ed ex amministratore delegato di Poste Massimo Sarmi, attraverso i suoi riferimenti nei territori il ministro ha piazzato altre nomine: come quella dell'avvocato Giuseppe Arena al Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, solitamente trampolino di lancio per il gran salto al Consiglio di Stato. […]

Giovan Battista Fazzolari.

Estratto dell’articolo di Maristella Iervasi per “l’Unità” – 19 marzo 1992

Doveva essere una festa di laurea e si è invece conclusa con una “lite» tra alcuni studenti di Fare fronte e un gruppo di giovani che militano nell'area dell'autonomia. Palcoscenico dell'aggressione l'atrio della facoltà di Giurisprudenza dell'università «La Sapienza», davanti l'aula «Calasso». Quattro ragazzi di destra sono stati medicati al Policlinico Umberto I.

 Il più grave, Peppino Mariano di 21 anni, romano, guarirà in 30 giorni. Sull'episodio indaga la Digos. Ore 16 di ieri: Valera V. sale trafelata i gradini della facoltà. Deve discutere la tesi di laurea. Il relatore e il professore Rescino, la ragazza è la prima della lista. È il suo giorno di gloria, insomma, e per l'occasione è stata accompagnata all'università dai suoi amici del movimento politico «Fare fronte».

 Oltre Mariano la sua «scorta» comprende anche Giuseppe Louner, 21 anni (Lettere), Roberto Mele, 22 anni (Economia e Commercio) e Giovan Battista Fazzolari, 20 anni (Economia e Commercio).

 Mezz'ora dopo l'aria di festa finisce bruscamente. Secondo quanto ha reso noto la polizia quattro studenti di destra sono stati aggrediti da una ventina di autonomi nell'atrio e sulla scalinata della facoltà. Il motivo dell'incidente è ancora sconosciuto. Peppino Mariano ha rifiutato il ricovero in ospedale. Ha portato una lussazione a un braccio e una contusione cranica.  «Sono arrivati all’improvviso – racconta – Erano una ventina, ma non li saprei riconoscere, di sicuro erano autonomi. Non ho ricevuto nessun insulto, ma un calcio in faccia. Sono stato il primo ad essere colpito. Erano armati di catene, bastoni e pugni di ferro. È stata una cosa spiacevole, non me l’aspettavo. Doveva essere una festa di laurea» […]

 […] L'intervento della polizia ha poi riportato la calma nell'Ateneo. Le botte sembra che le abbian prese soltanto gli studenti di destra, mentre alcuni autonomi sembra siano stati identificati e portati in questura per l'interrogatorio.

I quattro ragazzi di Fare fronte rimasti contusi sono stati accompagnati al pronto soccorso del Policlinico, dove sono stati tutti dimessi: Peppino Mariano guarirà in 30 giorni, Giovan Battista Fazzolari di Messina ha riportato una frattura a un dito della mano sinistra, Giuseppe Lourier, romano, e Roberto Mele di Terracina (provincia di Latina) sono stati dimessi con una prognosi di una settimana per contusione cranica. […] Il movimento politico «Fare fronte» intende ora fare una denuncia. […]

Francesco Rocca.

Francesco Rocca, il governatore immobile, amico della sanità privata. STEFANO IANNACCONE E LINDA DI BENEDETTO su Il Domani l'08 agosto 2023 • 19:50

A sei mesi dall’insediamento da presidente della Regione Lazio, il bilancio è magro. Nessuna riforma è stata messa in cantiere tra quelle annunciate. L’attività legislativa regionale è impantanata. Ma tante pedine sono state piazzate secondo i propri desiderata in ruoli chiave, spesso combacianti con quelle della destra regionale

Ci voleva il portavoce Marcello De Angelis per farci ricordare chi fosse il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca. Certo, qualche settimana fa, l’ex presidente della Croce rossa ci ha messo del suo, ritirando il patrocinio assegnato al Roma Pride.

È stato l’unico momento in cui ha accantonato il basso profilo, la cifra dell’uomo in grado di riportare la destra al potere nel Lazio. Fin dalla campagna elettorale, Rocca è stato quasi invisibile, lasciando la platea agli altri, caratteristica che inizialmente è molto piaciuta alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Nella sua terra d’elezione, la premier non voleva uno di quei candidati iperattivi e smaniosi di visibilità. Rocca ha accettato il ruolo di buon grado, con la consapevolezza di avere la vittoria in tasca, grazie anche alle divisioni degli avversari, centrosinistra e Movimento 5 stelle.

Solo che, a sei mesi dal suo insediamento, il bilancio è magro: nessuna riforma messa in cantiere tra quelle annunciate, l’attività legislativa regionale impantanata. Ma tante pedine sono state piazzate secondo i propri desiderata, combacianti spesso con quelle della destra regionale.

Nonostante le movenze da uomo mite, infatti, Rocca non è stato con le mani in mano. Ha subito valorizzato il legame con l’imprenditore delle cliniche private e deputato della Lega, Antonio Angelucci, anche editore de Il Tempo, storico giornale di Roma.

La prima delibera di giunta ha garantito un finanziamento di 23 milioni di euro alla sanità privata e oltre 10 sono stati destinati alle strutture di Angelucci. La motivazione dell’investimento? Far fronte all’intasamento dei pronto soccorso, a conferma del progetto di privatizzazione in cantiere per la sanità.

Del resto il rapporto tra i due è di vecchia data. Rocca era, fino al 2022, nel cda della fondazione San Raffaele, creata dalla famiglia Angelucci, ed era alla presidenza di Confapi Sanità proprio insieme a Giampaolo Angelucci, figlio di Antonio Angelucci.

SALUTE PRIVATA

La salute, prima di tutto insomma. E su questo tema, l’ex presidente della Croce rossa italiana ha detto di volersi giocare tutto. Solo che le prime promesse vacillano. Aveva garantito un accorciamento delle liste di attesa e il potenziamento delle reti ospedaliere locali, perché il sistema era troppo romanocentrico.

Per quanto è ovvio che non abbia la bacchetta magica, non si scorge nulla all’orizzonte. Ci sono state alcune iniziative fantasiose. Tra gli atti della giunta di centrodestra, c'è la delibera che impone la richiesta di una «preventiva autorizzazione regionale» prima di decretare nuove assunzioni o scorrimenti in graduatoria.

Una decisione assunta quando la sanità laziale era sotto commissariamento e che ha rallentato, se non bloccato, assunzioni e concorsi nel periodo estivo, il più critico. Così come il potenziamento delle reti ospedaliere locali resta alla voce buoni propositi.

Tanto che la Asl di Frosinone ha provveduto, con risorse proprie, a effettuare dei lavori in emergenza. Ci sarebbe poi il piano di edilizia sanitaria, che prevede la realizzazione di nuove strutture ospedaliere: era già avviato, in parte, dalla giunta Zingaretti.

La restante quota è stata finanziata con una somma derivante da fondi Inail, regionali e del Pnrr. La rendicontazione sarà complicata. E, sempre nel settore sanitario, c’è la querelle dell’ex ospedale Forlanini: doveva tornare alla sanità pubblica, oggi prende quota l’ipotesi di cessione all’Inail per poi affidarlo alla fondazione Bambino Gesù.

RITORNO A DESTRA

Rocca ha poi condotto un’operazione di restaurazione del vecchio sistema di potere della destra, con il ritorno in auge di figure legate alla presidenza di Francesco Storace e della giunta dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno.

Un nome su tutti rende chiaro la sua strategia: Alessandro Ridolfi, nominato direttore generale della Regione Lazio. La sua carriera è legata a doppio filo alla destra laziale.

È stato coordinatore della segreteria di Francesco Epurator Storace, ai tempi della presidenza. Un rapporto che si è consolidato in quegli anni. E infatti, quando nel 2005 Storace diventò ministro della Salute, lo volle con sé nei panni di direttore dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali.

A sua volta, già durante la presidenza alla Croce Rossa, Rocca piazzò Ridolfi alla guida della Sise, una società della Cri siciliana. Dal mondo di Storace proviene pure Marco Buttarelli, per cui era capo di gabinetto.

Con Rocca è balzato alla presidenza di Lazio Crea, la società che tra le varie cose «lavora alla realizzazione del sistema informativo regionale, contribuendo alla semplificazione e digitalizzazione dei processi interni della Regione Lazio».

Il direttore amministrativo dell’ospedale Sant’Andrea, Angelo Scozzafava, conduce all’epoca di Alemanno al Campidoglio: dal dicembre 2008 al giugno 2013 ha ricoperto l’incarico di direttore del dipartimento per la promozione dei servizi sociali.

Sempre vicino all’ex sindaco di Roma è Orazio Campo con cui era stato avviato un tavolo di lavoro urbanistico tra Comune di Roma e ordini professionali; con Rocca è diventato commissario dell’Ater di Roma.

Ed è tornato pure Giorgio Ciardi, già consigliere comunale e delegato alla sicurezza con la maggioranza di Alemanno, indicato come il nuovo commissario straordinario di Lazio Disco.

Oltre alle nomine di estrazione politica, c'è un altro profilo contestato dalle opposizioni, quello di Serafino Liberati, messo a capo dell’Osservatorio della legalità, nonostante l’ex generale dei carabinieri avesse in tasca la tessera della Loggia P2 di Licio Gelli.

Tra Rocca e Liberati la conoscenza è di vecchia data: è stato consigliere militare della Croce rossa per 15 anni. Oltre alla restaurazione, il felpato Rocca ha adottato una linea improntata allo scarso rispetto per le opposizioni. Le minoranze in consiglio regionale non ricevono informazioni sulle riunioni della giunta, nemmeno l’ordine del giorno, e apprendono tutto dai comunicati del giorno dopo.

STEFANO IANNACCONE E LINDA DI BENEDETTO

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” lunedì 7 agosto 2023.

Si arrampica sugli specchi. Si lancia in sottili distinzioni tra il ruolo di portavoce e quello di responsabile della comunicazione istituzionale. Resiste alle pressioni di un’ampia parte del centrodestra e pure di Fratelli d’Italia. 

Esploso il caso, Francesco Rocca ieri pomeriggio ha difeso per l’ennesima volta il suo collaboratore Marcello De Angelis e ha preso tempo. Il presidente non vuole rompere con l’amico che […] ha voluto al suo fianco anche in Regione. Il motivo? « È una vecchia amicizia, nata quando entrambi erano giovanissimi militanti di destra » , assicura chi conosce bene entrambi.

Sono due storie che prendono presto strade diverse quelle del governatore del Lazio e dell’ex terrorista, ma che a più riprese si incrociano e infine si stringono. Quando De Angelis aveva appena 14 anni e frequentava il liceo entrò a far parte del Fronte della Gioventù, la formazione giovanile del Movimento sociale, la stessa a cui Rocca, cinque anni più giovane, aderì raggiunta la maggiore età. Il primo era di casa in centro e il secondo a Ostia. De Angelis passò quindi a Lotta Studentesca e poi a Terza Posizione. 

Scelse la strada del terrorismo nero e Rocca invece, come altri giovani di destra, cadde nel tunnel della droga, diventando l’anello di congiunzione tra i narcotrafficanti nigeriani e gli spaccatori di eroina romani. Il tempo di conoscersi, a quanto pare, e mentre l’ex terrorista si dava alla latitanza in Gran Bretagna, l’attuale presidente della Regione Lazio doveva fare i conti con la pesante accusa di essere coinvolto nel narcotraffico. Entrambi sono finiti condannati, il primo per banda armata e il secondo per droga. Da quell’esperienza però i due, con un percorso sempre a destra, sono stati entrambi capaci di ripartire.

Saldato il conto con la giustizia De Angelis è riuscito per due volte anche a farsi eleggere in Parlamento e Rocca a diventare prima manager della sanità, ai tempi della legislatura di Francesco Storace, e poi presidente della Croce Rossa. 

Siamo a metà degli anni duemila e sono lontani i periodi in cui il governatore era inseguito dai carabinieri e il suo collaboratore da una richiesta di estradizione per associazione sovversiva e banda armata. Si ritrovano entrambi nella destra sociale di Storace e Gianni Alemanno. Non a caso Rocca lavorerà anche in Campidoglio durante la consiliatura dell’ex esponente di An e a dare ieri solidarietà a De Angelis è stato proprio lo stesso ex primo cittadino. 

Il rapporto ormai è ben saldo e, incurante dell’ingombrante passato e delle prese di posizione dell’amico, nel 2020 il governatore ha voluto l’ex esponente di Terza Posizione con sé nella Croce Rossa. Con buona pace del principio di neutralità della Cri, al vertice della comunicazione dell’organizzazione di volontariato Rocca ha portato De Angelis.

[…] vi rimasto fino a quando l’amico, eletto presidente della Regione Lazio, lo ha chiamato a rivestire il ruolo di capo della comunicazione istituzionale, con uno stipendio da 110mila euro l’anno e la garanzia che, se qualcosa dovesse andare storto, può tornare nella Cri da cui è in aspettativa. […]

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” lunedì 7 agosto 2023. 

[…]  De Angelis non è […] l’unica scelta particolare fatta dal presidente della Regione Lazio. Forse è solo quella che ha fatto più rumore. Dopo aver a lungo temporeggiato sull’attivazione dell’Osservatorio per la sicurezza e la legalità della Regione Lazio, Rocca ha scelto come presidente del delicato organismo impegnato nel monitoraggio dei clan Serafino Liberati, generale di corpo d’armata dei Carabinieri in congedo e tessera numero 1729 della loggia massonica P2.

L’alto ufficiale era nell’elenco sequestrato al venerabile maestro Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, ma l’appartenenza alla loggia massonica non gli ha creato problemi nella carriera nell’Arma e neppure nel rivestire per ben quindici anni l’incarico di consigliere militare della Croce rossa italiana. Nulla dunque, come nel caso di De Angelis, che abbia creato qualche imbarazzo al governatore nel portare l’ex piduista con sé in Regione. 

Durante la campagna elettorale il presidente non ha ritenuto inopportuno neppure prendere parte a eventi organizzati dall’ex dirigente dell’Msi, Domenico Gramazio, non indagato ma uscito malconcio dall’inchiesta sul « Mondo di Mezzo » che ha portato invece alla condanna di suo figlio Luca, all’epoca dei fatti consigliere regionale del Pdl. Gli investigatori hanno monitorato i contatti tra l’ex esponente del Movimento sociale e il pregiudicato ed ex terrorista Massimo Carminati. […] quegli atti non hanno impensierito Rocca, che ha goduto così degli assist fatti da «Er Pinguino». Ma c’è di più.

Assessore durante la legislatura di Francesco Storace, prima all’ambiente e poi alla sanità, Marco Verzaschi è stato uno dei potenti di Forza Italia. Era sparito dopo il suo arresto, con l’accusa di corruzione e concussione nell’ambito dell’inchiesta denominata « Lady Asl » , il grande scandalo nella sanità del Lazio. 

L’ex uomo forte del centrodestra si è però tornato a far vedere durante la campagna elettorale a sostegno di Rocca e chi ha cercato un posto nella lista civica del governatore ha dovuto trattare con lui, notato anche quando c’era da andare a firmare le candidature dal notaio. […]

La condanna per spaccio, a capo della Croce Rossa per 10 anni. Chi è Francesco Rocca, il nuovo Presidente della Regione Lazio: l'”outsider” voluto da Meloni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Febbraio 2023.

Francesco Rocca sarà il prossimo Presidente della Regione Lazio. A indicare il suo nome alla coalizione di centrodestra dopo il trionfo alle politiche, a insistere con convinzione era stata la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, un’“eccellenza italiana nel mondo”, un modello secondo la premier per via dei suoi traguardi con la Croce Rossa e della sua biografia anche travagliata, caratterizzata anche da seri trascorsi con la legge in gioventù. 57 anni, Rocca è stato per quasi dieci anni a capo della Croce Rossa, già nel totonomi per il ministero della Sanità del governo Meloni, è grande appassionato di musica soprattutto di jazz e classica napoletana, grande amante degli animali.

È cresciuto a Ostia. Il Corriere della Sera scrive che quando era ragazzo era soprannominato “Ketchup”, non si sa bene per quale motivo. Da giovane ha militato nel Fronte della Gioventù. Ha studiato al Liceo Classico, si è laureato in Legge. Laurea conseguita anche sotto custodia: aveva 19 anni quando venne arrestato, poi condannato a tre anni e due mesi di reclusione e a sette milioni di euro di multa, per spaccio eroina. Condanna scontata anche agli arresti domiciliari. “Bisogna imparare dagli errori e migliorarsi ogni giorno che passa. L’umanità è fragile e ogni individuo può sbagliare”, avrebbe dichiarato in seguito di quella condanna. Dal 1990 al 2003 ha esercitato la professione forense. Ha cominciato difendendo alcuni collaboratori di giustizia e per alcune minacce ricevute gli è stata assegnata la scorta per cinque anni.

Rocca è entrato in contatto con il mondo del terzo settore, grazie anche all’incontro con don Luigi di Liegro, cominciando a collaborare con la Caritas. Si è occupato di assistenza ai migranti e di disagio giovanile. 2002: nomina a commissario dell’ospedale Sant’Andrea, di cui nel 2007 sarebbe diventato direttore generale. Tra il 2005 e il  2009 è stato membro del nucleo di valutazione dell’Istituto Fondazione Pascale di Napoli, mentre dal 2007 al 2010 è diventato membro del consiglio d’indirizzo dello Spallanzani. È stato anche commissario straordinario della Asl Napoli 2 e direttore generale dell’Idi.

Del 2013 la prima elezione a Presidente Nazionale della Croce Rossa Italiana, nello stesso anno l’elezione a presidente della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (FICR). Per annunciare la sua candidatura alla Presidenza della Regione Lazio, aveva scelto proprio il sito dell’associazione: “Senza rimpianti, perché sapete da tempo quanto sia convinto del fatto che la nostra associazione abbia bisogno di un ricambio, di nuove forze e nuove idee che la traghettino verso impensabili successi e traguardi futuri. So che alcuni non saranno felici di questa decisione. prosegue Rocca – ma la vita è fatta di bivi e nel momento in cui un indimenticabile percorso sarebbe volto comunque al termine, ho voluto percorrere una strada nuova dove, tuttavia, le mie capacità possano ancora essere al servizio della comunità”.

Per Rocca è la prima avventura politica da candidato. Sposato due volte, ha due figli, Matteo e Giorgio, è diventato nonno. “Alle persone che hanno bisogno si deve dire ‘oggi’ e mai ‘domani’”, una sorta di mantra che lo ha accompagnato nella sua carriera. Così come sempre anticipato dai sondaggi sulle elezioni, Rocca è stato nettamente in vantaggio sul candidato della coalizione di centrosinistra Alessio D’Amato – che si presentava però separato dal Movimento 5 Stelle – fin dalla chiusura delle urne alle 15:00. La sua elezione è storica: da dieci anni il Lazio era governato dal centrosinistra. L’affluenza nella Regione Lazio è stata molto bassa, si è fermata al 37,2%.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

(askanews il 6 febbraio 2023) – "Meglio Sarri di Mourinho? Decisamente. Sarri è più simpatico, concreto, meno saccente, è anche un po' populista, ha questo atteggiamento ruffiano con la curva...". Così Francesco Rocca, candidato del centrodestra alla presidenza della regione Lazio, che a "Un giorno da pecora" scherza e, rivendicando la sua fede di tifoso biancoceleste ("sono tifoso laziale da sempre"), si lascia andare nell'ipotizzare che Mou potrebbe esser un potenziale elettore di Donatella Bianchi in questo turno elettorale, quindi un grillino, "sì potrebbe essere tranquillamente un seguace di Conte".

 Al contrario Maurizio Sarri, allenatore della Lazio, pur essendo conosciuto come un uomo di sinistra, secondo Rocca "è un uomo pragmatico, è concreto, in quel senso sono sicuro potrebbe anche prendere in considerazione la mia candidatura", ha aggiunto

"Si si, mi voterò, anche mia moglie mi voterà, siamo affettuosamente separati, ma non legalmente, c'è un affetto imperituro. E' rimasta una grandissima amicizia tra noi". Così Francesco Rocca, candidato del centrodestra alla presidenza della regione Lazio, ospite di Rai Radio1, a "Un giorno da Pecora " si lascia andare e scherza sulla sua vita privata e svela qualche particolare in più spiegando di essersi sposato due volte ma di non pensare a farlo una terza.

 "Non c'è due senza tre? No no non ci penso, grazie per l'incoraggiamento ma ho dato. E' bello stare a casa e soffrire e pensare con una malinconia di fondo che accompagna le serate..." ha detto considerando che un eventuale matrimonio con la regione Lazio sarebbe a tempo ma non per 5, magari 10 anni. Rocca si è prestato al "gioco" e ha anche raccontato di quando, da piccolo, qualcuno lo scambiava per via del nome con l'amatissimo calciatore della As Roma, Francesco Rocca "Kawasaki".

 "Sono laziale, sono tifoso laziale da sempre" ha gelato gli ascoltatori il candidato che ha scherzato su questa omonimia ricordando che la nonna ci giocava molto. E poi il periodo dell'adolescenza quando il suo soprannome era "fulmine" perchè correva nel portar su e giù sdraio e ombrelloni lungo la spiaggia ad Ostia. "Gli altri soprannomi che mi attribuiscono? non sono corretti".

"Sono contrario alla liberalizzazione delle droghe leggere". Così Francesco Rocca, candidato alla presidenza della regione Lazio per il centrodestra ospite degli studi di Radio Rai1 a "Un giorno da Pecora" e anche qui ha affrontato il tema del suo passato legato alla droga ed è tornato a spiegare quanto accaduto 40 anni fa. Quanto accaduto "è un aspetto che fa parte di me stesso e ci devo fare i conti tutti i giorni e, quando ti accade una cosa del genere, resta una ferita che ogni giorno devi curare.

 E' stato un errore importante il mio. Detto questo quel che io ho notato da parte di certa stampa è stato trattarmi come se avessi ancora 19 anni. Ora ho 57 anni" ha aggiunto ricordando che il suo percorso di vita è andato avanti e che quanto fatto successivamente "meritava pari dignità" rispetto a quanto accaduto quando ne aveva 19 di anni.

 Comunicato stampa da “Un Giorno da Pecora – Rai Radio 1” il 6 febbraio 2023.

"Se divento presidente della Regione Lazio il 13 febbraio, lunedì 20 vengo in studio da voi e mi taglio il pizzetto, affare fatto”. Questa la promessa, ai microfoni della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, di Francesco Rocca, candidato governatore alla Regione Lazio per il c.destra, che ai conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Perché se lo taglia dopo una settimana? “Datemi almeno una settimana per festeggiare…”, ha scherzato Rocca a Radio1.

 I cinghiali a Roma? “Bisogna intervenire, ci deve pensare la forestale ma è un argomento da prendere di petto. C’è un tema di sicurezza, stradale, sui rifiuti, sicurezza sanitaria e agricola, e per risolvere questo tema urgente farò tutto quello che potrò. Sono molto laico: se si devono abbattere si abbatteranno, lo dico a rischio di perdere qualche voto, ovvio che l’abbattimento deve essere l’extrema ratio, si troveranno poi modi per fare ripopolamento altrove”. Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il candidato per il c.destra alla Regione Lazio Francesco Rocca.

Zelensky a Sanremo? “Trovo sconveniente che in un momento di svago, entrino temi così drammatici, chiunque li porti. In Ucraina sono stato e conosco molto bene la situazione, magari avrebbero potuto scegliere un testimonial diverso, il tono guerrafondaio non fa mai bene, c’è un tema che non riguarda ragione e torto ma i civili e coloro che stanno pagando il prezzo più alto. Si potevano trovare altre voci”. Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il candidato per il c.destra alla Regione Lazio Francesco Rocca. Dice ‘guerrafondaio’ perché teme che le parole di Zelensky vadano in quella direzione? “Non lo so, ascoltiamole con attenzione”.

Estratto dell'articolo di Marco Carta e Clemente Pistilli per "la Repubblica - Edizione Roma" il 3 Febbraio 2023.

Era il 14 dicembre scorso quando Francesco Rocca ha acquistato un lussuoso appartamento da circa 190 metri quadrati alla Camilluccia al vantaggioso prezzo di 570mila euro. Appena cinque giorni prima della sua investitura da parte di Giorgia Meloni come candidato governatore del Lazio con il centrodestra.

 Un immobile dell’Enpaia, l’ente di previdenza per gli impiegati in agricoltura, dove era in affitto dal mese di maggio 2019 e che gli è stato ceduto proprio per quel contratto di locazione vecchio di tre anni con uno sconto del 30%. […]

Le nuove linee guida per le alienazioni delle case dell’ente presieduto dal veneziano Giorgio Piazza e per gli acquisti sono state però scritte dall’avvocato Francesco Scacchi, legale dello stesso ex presidente della Croce Rossa e in passato anche di Renata Polverini e Raffaele Marra. Tanto che un appartamento a due passi da quello di Rocca è stato acquistato sempre con lo sconto proprio dall’avvocato. […]

 Una scelta, quella di Scacchi, fatta dal direttore generale dell’ente, Roberto Diacetti, nel 2010 nominato amministratore delegato di Risorse per Roma da Gianni Alemanno, che nel 2012 lo ha poi scelto come ad di Atac. L’avvocato Scacchi ha acquistato l’appartamento per le due figlie, mantenendo per sé l’usufrutto, il 24 novembre scorso. Un mese dopo ad andare dal notaio è stato Rocca, che l’anno prima è stato difeso con successo sempre da Scacchi nel contenzioso civile, davanti al Tribunale di Roma, in cui era stata contestata la sua rielezione a numero uno della Cri.

«Avevo conosciuto Diacetti quando era in Atac — specifica l’avvocato Scacchi — ma qui non c’è stato alcun favoritismo. Ero affittuario Enpaia dal 2007 e se avessi potuto sapere prima delle vendite non avrei pagato per quindici anni un affitto da circa 2.500 euro al mese con gli oneri». « Noi vendiamo e non svendiamo — assicura Roberto Diacetti ho conosciuto Rocca solo dopo il rogito». Eppure tante sono le richieste di spiegazioni nei confronti del candidato alla presidenza della Regione Lazio. […]

Anche Alessio D’Amato, candidato del centrosinistra alla Regione, chiede maggiore trasparenza. «Se fosse vero sarebbe uno scandalo, è un insulto alle famiglie che non possono permettersi una casa. Io vivo in borgata. Basta privilegi, serve trasparenza». Alle critiche, però, Francesco Rocca risponde attaccando il suo avversario D’Amato: « Ho comprato la mia casa regolarmente e senza nessun favoritismo […]».

Estratto dell'articolo di Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 3 Febbraio 2023.

[…] il quotidiano Domani, diretto da Stefano Feltri, ha stabilito che Francesco Rocca, candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Lazio, ha fatto il furbetto comprando casa con lo sconto dall’Enpaia, ente previdenziale degli agricoltori. E come lui il sottosegretario leghista al Lavoro Claudio Durigon.

 […] Rocca, anche lei è scivolato sulla casa “a sua insaputa”?

«No, qui siamo proprio fuori strada. Non c’è nessuna casa a mia insaputa. Casomai il contrario: è tutto alla luce del sole e ci sono le carte che dimostrano i miei pagamenti regolari».

Il Domani scrive che lei ha acquistato un appartamento di lusso di 200 metri quadrati in via Cortina d’Ampezzo, a Roma nord, pagandolo molto meno del prezzo di mercato. È così?

«No. Sul lusso invito i suoi colleghi a venire a dare un’occhiata: ci sono lavori importanti da fare, cade l’intonaco, bisogna ristrutturare all’esterno, non parlerei certo di una dimora lussuosa. Infatti nella mia palazzina ci sono nove appartamenti di cui quattro vuoti, segno che evidentemente non è così vantaggioso...».

La zona, però, è ambita.

«Ma io abito a Roma nord dal 2004! Ed ero già in affitto, pagavo un canone di circa 2.400 euro. Ho scelto quella via e quell’appartamento perché affaccia sul verde, sono al terzo piano, mi ricorda un po’ la pineta di Ostia dove sono cresciuto».

 La polemica, però, è sullo sconto del 30% che l’Enpaia ha praticato agli inquilini residenti da almeno 36 mesi che hanno deciso di comprare. Trenta per cento, lo ammetterà, non è male...

«Sì, ma è tutto in regola e chiunque ne avrebbe potuto beneficiare. Non c’è stato alcun favoritismo nei miei confronti. Non conoscevo nessuno all’Enpaia e mi sono limitato a cercare casa leggendo gli annunci sul sito, come capita anche a voi giornalisti con le case dell’Inpgi. Io poi sono entrato nella primavera-estate del 2019 e lo sconto è stato deliberato dall’Enpaia due anni dopo, quindi di cosa parliamo?».

Del pagamento. I suoi avversari le contestano la cifra troppo bassa: 600mila euro. Il Pd D’Amato dice che lui abita in borgata, lei nei quartieri vip.

«Ma guardi, tutto questo moralismo per una vicenda che è assolutamente trasparente non l’ho visto, invece, per la condanna di Alessio D’Amato da parte della Corte dei Conti. È stato condannato per distrazione di fondi regionali e viene a fare la morale a me? Oltretutto, questa distrazione di soldi pubblici è grave due volte vista la destinazione di quei fondi e lui non ha nemmeno rinunciato alla prescrizione» […]

Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 16 gennaio 2023.

Spacciava eroina, in quei tempi ormai lontani, perché non voleva più fare il bagnino se non da miliardario, come nel vecchio film di Elvis Presley che amava e che per lui, nato nel 1965, era già un cult.

 Ma il giovane Francesco Rocca si avvelenava, in dosi massicce, soltanto di fascismo che, in quegli anni, tra i '70 e gli '80, di sprezzava i drogati: "conigli da erba" e "zecche da siringa".

 (...)

Quando lo arrestarono, cambiò il suo rapporto col tempo che più passa e più leviga il ricordo come l'onda di risacca sui ciotoli di Ostia. Rocca ora dice che noi giornalisti lo inchiodiamo alla macchina del fango, ma è lui che non riesce a non parlarne, nelle interviste, nei convegni, dovunque: «Per fatto personale" comincia. La condanna definitiva è dell'87, tre anni e due mesi: i primi sei li passò a Rebibbia, nella cella di fronte c'era Ali Agca.

 Poi lo mandarono ai domiciliari perché collaborava: Clement Chukwrak e Patrick Okafor erano gli studenti nigeriani che fornivano la droga e Okafor aveva un rapporto speciale con un funzionario dell'ambasciata. Rocca si legò a uno spacciatore che si chiamava Alessandro Vettese e divenne il "ponte" fra i nigeriani e Ostia, già allora divisa in famiglie.

 Con il pentimento comincia l'epopea della resurrezione, da carcerato a candidato. C'era già Fabio Rampelli che lo riportò dentro il Fronte della gioventù che lo aveva espulso

 (...)

 Di sicuro in Croce Rossa, dove fu mandato da Gianni Letta e Gianfranco Fini come commissario straordinario ed è rimasto per 15 anni, in tanti adesso dicono di aver subito «il carattere bipolare del presidente», dolente e allegro, autoritario ma generoso, tipico della sua Ostia dove «niente è come sembra».

(...)

E Rocca non è solo Croce Rossa. È un amministratore della Sanità romana, «quel gran giro de quatrini» che sono le cliniche degli Angelucci di cui, sino alla settimana scorsa, ha pure presieduto una fondazione. Se chiedi di Rocca ti mandano dossier, ti raccontano storie a mezza bocca Respingo le offerte, dico che non mi interessa. Ma Rocca ha amministrato e presieduto tutto: le Asl, l'Idi, la Confapi e pure l'ospedale sant' Andrea, dove lo mandò come commissario straordinario Francesco Storace quand'era presidente della Regione e dove conobbe la sua seconda moglie, la nutrizionista e oncologa Debora Rasio che sposò in Campidoglio

Anticipazione da tpi.it il 19 gennaio 2023.

Non accuso nessuno, chiedo solo verità. Ho chiesto a mio fratello Francesco di dire pubblicamente la verità sulla sua storia di spaccio. E di non addebitare a nostra madre, morta di cancro, - come invece ha fatto! - la responsabilità dei suoi errori di gioventù. Se ti candidi a governare la cosa pubblica devi essere onesto, prima di tutto con te stesso. Secondo me non lo è stato.

 Io sono destra! Non solo sono di destra, ma sono un elettore convinto di Giorgia Meloni. Lei mi piace, è in gamba, non ho nessuna ostilità verso il centrodestra. Casomai voglio aiutare lei, e tutti, a fare chiarezza su fatti di cui sono testimone. Non ho nessuno ostilità politica, in questo caso la politica non c’entra nulla.

Mio fratello ha già vinto. La sinistra è divisa, alle regionali si vota a turno unico, chi conosce la politica sa come funziona, il resto è solo campagna elettorale e propaganda. La candidatura di qualcuno che ha espiato un errore è legittima e giusta, a patto che non si fondi su una menzogna.

 Francesco non si è mai drogato. E quindi non è vero che è finito a spacciare perché si trovava in un momento di debolezza. Faceva il bagnino, guadagnava già dei soldi, era carismatico, militava in una organizzazione politica… era allora, come oggi, una persona strutturata e perfettamente consapevole di quel che faceva. So bene come è entrato nel giro della droga: gli è accaduto un giorno, parlando con dei ragazzi in piscina. Loro glielo hanno proposto lui ha accettato. La malattia di mia madre non c’entra a nulla. Era una sua fragilità, ma di altro tipo: per debolezza e per avidità.

Il giorno in cui è morta nostra madre per me è un ricordo traumatico. Una ferita che mi sono tenuto dentro per una vita. Il cadavere di mamma era ancora caldo. Francesco mi disse: “Vieni con me?”.

 Volevo stare con lui, condividere quei momenti con l’unica persona che soffriva come me per quel lutto. Andammo davanti ad un locale, il Gp - oggi non esiste più - dove c’erano gli spacciatori. Perché lui doveva organizzarsi con loro, per decidere il giro dell’eroina. Erano in contatto con dei nigeriani, che avevo visto in altre occasioni.  Quelli che ho visto io quel giorno erano tutti italianissimi, anzi romani. Ricordo che persino lo spacciatore ci rimase. E disse: “Ma come, t’è morta tua madre e tu stai qui? Ma potevi pure veni’ domani!”.

 Scoprirò, solo più tardi, e in modo drammatico, che eravamo sorvegliati. Mi sveglio con qualcuno che bussa alla porta: apro. C’è l’inferno davanti casa: carabinieri, servizi segreti… entrano, prendono Francesco, lui non fa nessuna resistenza. Chiedo, urlo: “Dove lo portate? Dove?” Mi rispondono: “A via in Selci”.

 Ne abbiamo parlato molto tempo dopo, e mai bene: ci sono cose che restano come macigni in mezzo alle persone.

Mio fratello è tornato sul caso per dire una cosa folle: e cioè che la sua condanna giovanile per spaccio è come la militanza giovanile di Eugenio Scalfari nel partito fascista e nel Guf durante il Ventennio. Si può paragonare la biografia di Scalfari a quella di uno spacciatore? Oppure il fascismo alla droga? O entrambe le cose? Come la prendi è una frase senza senso. Una follia. Mi viene da pensare che non sia lucido”.

Così Alessandro Rocca, fratello di Francesco, candidato del centrodestra alla Presidenza della Regione Lazio, racconta le vicende giudiziarie che hanno visto protagonista l’ex Presidente della Croce Rossa, in una intervista al settimanale “The Post Internazionale – TPI” (diretto da Giulio Gambino)

Salvatore Giuffrida per repubblica.it il 7 gennaio 2023.

I trascorsi con la droga, le ombre del passato e vicende anche strettamente personali e dolorose come la morte della madre: Francesco Rocca, candidato del centrodestra alla Regione Lazio voluto fortemente da Giorgia Meloni, è contestato e sconfessato dal fratello Alessandro sui social con un post. 

Il caso è scatenato da un'intervista del 21 dicembre in cui Francesco Rocca, a proposito della sua condanna a due anni per spaccio di droga, spiega: "mia madre da lì a poco sarebbe morta per un cancro, ero molto sofferente e iniziai a usare gli stupefacenti. Vivevo a Ostia e sono finito in un giro di amicizie sbagliate". Francesco Rocca fa riferimento ai primi anni '80, quando aveva 19 anni, viveva sul litorale romano e fu coinvolto in un giro di spaccio di eroina con un clan di nigeriani: nel 1985 su condannato dal tribunale di Roma a tre anni e due mesi di reclusione. 

Il fratello Alessandro, che vive ancora a Ostia, ha contestato che lo sbaglio dell'attuale candidato fosse dovuto alla malattia della madre. "Non ti vergogni a dare la colpa delle tue debolezze alla malattia di nostra madre: ti ricordi dove mi hai portato il giorno che è morta?", scrive Alessandro sul suo profilo social, e alla fine aggiunge: "Ti ricordi con chi stavi in affari? E poi non ti sei mai drogato. Cosa hai dichiarato?". 

Raggiunto da Repubblica, Francesco Rocca risponde al fratello: "Né io né la mia famiglia abbiamo rapporti con lui da moltissimi anni, non capisco a cosa faccia riferimento: sono vicende private ma certe esternazioni pubbliche dimostrano una fragilità che mi addolora. Per tentare di offendermi e umiliarmi devono tornare indietro di oltre 35 anni". L'allora 19enne Francesco Rocca fu arrestato dai carabinieri che stavano indagando sullo spaccio a Casal Palocco, tra Roma e il litorale. Con i militari ammise di avere un acquirente e di aver già consegnato eroina. Dopo la condanna iniziò il suo riscatto con il volontariato, poi come avvocato e una carriera da manager sanitario, iniziata quando a capo della Regione c'era Francesco Storace e proseguita come presidente della Croce Rossa.

Estratto dell'articolo di Marina de Ghantuz Cubbe per repubblica.it il 10 gennaio 2023.

Fine della conferenza convocata da Alternativa popolare, una delle forze che sosterrà Francesco Rocca alle prossime Regionali. I cronisti si avvicinano al candidato del centrodestra e gli chiedono degli attacchi del fratello, che negli ultimi giorni ha contestato la narrazione del passato (inclusa la condanna per spaccio) proposta dall'ex presidente della Croce Rossa alla stampa. La risposta? Un paragone spericolato: "Alla sinistra che utilizza questo strumento della macchina del fango mi permetto di ricordare solo una cosa: nel 1942 Eugenio Scalfari militava nel partito nazionale fascista e rispetto a quando ha fondato Repubblica è passato un periodo più breve rispetto a quello che è passato dal mio errore di gioventù".

Parola di Rocca, le vecchie beghe giudiziarie sono "un errore grave ma un errore di gioventù e credo fosse grave anche quello del '42 (di Scalfari, ndr). Nessuno però si è sognato di non riconoscere a Scalfari il cammino che aveva fatto e le differenze che in quel cammino si erano create".

 Quindi la puntualizzazione. Rocca, a fronte degli ultimi articoli di Repubblica sulle uscite del fratello Alessandro, spiega che il suo paragone con Scalfari è "senza polemica, perché ritengo che Scalfari sia stata una delle figure morali più importanti nella nostra storia recente".

Il fondatore di Repubblica nel '42 e durante gli studi in Giurisprudenza divenne caporedattore di Roma Fascista, giornale ufficiale del Guf. Nel '43, per alcuni articoli scritti sulle speculazioni dei gerarchi fascisti sull'Esposizione universale dell'Eur, venne cacciato e tacciato di essere un imboscato. Nel passato di Francesco Rocca, come detto, c'è una condanna per spaccio di eroina per fatti avvenuti quando il candidato scelto da Giorgia Meloni per il Lazio aveva 19 anni.(...)

Peter Gomez per il Fatto Quotidiano il 28 dicembre 2022.

Non conosciamo Francesco Rocca e non sappiamo se, in caso di elezione, sarà un buon presidente della Regione Lazio. Quello che invece sappiamo è che la sua candidatura da parte del centrodestra è un fatto positivo per la nostra politica. La scelta del suo nome fa per la prima volta cadere lo stigma dei partiti nei confronti di chi ha usato o abusato di sostanze stupefacenti. Uno stigma sociale fino a ieri fortissimo che non si cancellava nemmeno quando chi ne era rimasto vittima riusciva a uscire dalla droga. 

Per questo la candidatura di Rocca è una buona notizia. L'aspirante successore di Nicola Zingaretti, prima di diventare un avvocato penalista specializzato nella difesa dei collaboratori di giustizia e poi numero uno della Croce Rossa italiana e mondiale, è stato un tossicodipendente. Da giovanissimo si è bucato e per finanziare i suoi acquisti di eroina, come spesso accade a chi ha la scimmia sulla spalla, ha pure spacciato. Nel 1985, quando aveva 19 anni, è stato arrestato dai carabinieri durante un'indagine su un giro di droga pesante a Casal Palocco gestito da una banda di pusher nigeriani.

Dopo essere finito in manette, Rocca ha confessato ammettendo di aver consegnato per conto degli spacciatori quasi un etto e mezzo di brown sugar a un ragazzo di Roma che lui stesso aveva individuato come acquirente. L'arresto, a cui è seguita una condanna a tre anni di reclusione, è stato una fortuna per il futuro candidato presidente della Regione. È stato il momento che gli ha permesso di trovare la forza prima per disintossicarsi e poi per laurearsi in Giurisprudenza. Il resto è storia nota. 

Con Rocca che per cinque anni gira con la scorta perché assiste i pentiti della criminalità organizzata e poi entra nel mondo della sanità pubblica fino a essere eletto nel 2013 numero uno della Croce Rossa. Su quanto Rocca ha fatto in carriera la valutazione è libera (non mancano le polemiche e le critiche per i suoi rapporti con gli Angelucci, la potente famiglia proprietaria di cliniche private). Come libere sono pure le valutazioni degli elettori sulle sue simpatie di destra estrema che lo hanno portato a scegliere come portavoce della Croce Rossa l'ex parlamentare di An, Marcello De Angelis, condannato negli anni Ottanta per associazione sovversiva e banda armata. 

Nelle prossime settimane cercheremo di ricostruire in maniera approfondita la sua storia in modo che ciascuno, prima delle Regionali, possa farsi un'opinione completa del candidato Rocca (e lo stesso faremo con le altre candidature). Per oggi, invece, ci limitiamo a dire che non è sulle sue vecchie vicende di droga che gli avversari dovranno attaccarlo. 

Perché quella di Rocca e l'eroina è una storia di riscatto. E perché la tossicodipendenza, come la malattia, non è una colpa. Il fatto che si cominci a rendersene conto anche il Parlamento è un bene. Anche se, proprio pensando alla destra, ci chiediamo cosa intenderanno fare le forze politiche di quello schieramento dopo aver candidato Rocca. Nel loro programma, quando si parla di sostanze stupefacenti, si trovano le consuete promesse di lotta allo spaccio, ma si fa pure esplicito riferimento alle "campagne di informazione e prevenzione". 

Ovvero all'unico sistema per governare un fenomeno che coinvolge milioni di persone (basti pensare che il 20 per cento circa degli studenti dichiara di aver utilizzato sostanze illegali) e che finisce per riempire inutilmente le carceri. Ecco, magari Rocca potrà ricordare ai suoi amici che è ora di passare dalle parole ai fatti: dallo stigma all'informazione.

Marina de Ghantuz Cubbe per la Repubblica il 28 dicembre 2022.

La candidatura di Francesco Rocca continua a scuotere i nervi del centrodestra e di Fratelli d'Italia. Ieri ha iniziato a girare la voce dell'esistenza di un sondaggio interno, riservato, sulle regionali nel Lazio. Un motivo come un altro per continuare ad accusarsi reciprocamente, sospettare sabotaggi e dare sfogo alla discussione sulla scelta dell'ex presidente della Croce Rossa come candidato. 

A dare notizia del sondaggio - « FdI lo ha chiesto per capire se il nome di Rocca sia stato intaccato dopo le notizie sul suo passato, tra spaccio e rapporti ingombranti » - è Dagospia. A sentire lo stato maggiore di FdI però la rilevazione non esisterebbe. Mistero di Natale. 

Ormai, però, il danno è fatto. Riecco la spaccatura interna. C'è chi accusa gli esponenti di FdI vicini al vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, di aver messo in giro la voce del sondaggio per screditare Rocca. Altri alimentano il sospetto: il partito ha mai sondato l'ex presidente della Cri? E se una rilevazione c'è stata perché non è stata diffusa neanche all'interno del partito? Il timore è che i risultati non siano allettanti, non al punto da farli girare. 

Quelli pubblicati dalla stampa davano Rocca vincente ( di poco) con il 40%. Rampelli? Al 50%.

Intanto si cerca di allargare la coalizione creando una lista civica per attrarre « società civile, mondo produttivo e delle professioni » , ha detto ieri Rocca dopo l'incontro con i coordinatori regionali Paolo Trancassini (FdI), Claudio Durigon (Lega) e Claudio Fazzone (Forza Italia). Della civica presto parlerà con Vittorio Sgarbi di Rinascimento e Maurizio Lupi di Noi Moderati. Chi invece deve ancora sciogliere la riserva è il M5S che sta continuando a sondare diversi profili ma sarebbe ormai pronto all'annuncio. Il nome, o almeno quello più papabile tra le varie opzioni, è nelle mani di Conte e pochi fedelissimi. Il terzo (o la terza) aspirante presidente del Lazio dovrebbe uscire allo scoperto prima della fine dell'anno.

Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 23 dicembre 2022. 

Tanto all'estero quanto in Italia da sempre la Croce Rossa è impegnata a distribuire farmaci a chi ne ha più bisogno, chiedendo a tutti un gesto di generosità donando medicinali. 

Per tre anni, però, il presidente della Cri italiana e internazionale, Francesco Rocca, è stato anche nel board di un'azienda farmaceutica, con poteri su « tutte le tematiche attinenti propriamente l'attività industriale » , partendo dalla stipula dei contratti per l'acquisto, la vendita e la distribuzione dei farmaci. Si tratta di un altro aspetto singolare nella carriera del candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Lazio, che non emerge dai curricula ufficiali dell'ex numero uno dell'organizzazione benefica e dalle sue biografie.

Nel 2015 Rocca è stato nominato consigliere di amministrazione della Idi Farmaceutici di Pomezia, nata all'inizio del 1900 come laboratorio annesso all'Istituto dermopatico dell'Immacolata di Roma, di cui nel 2015 sempre l'aspirante governatore è stato direttore generale. Mentre di quest' ultimo ruolo l'ormai ex presidente della Cri ha parlato spesso, la poltrona nel board dell'azienda farmaceutica è rimasta nell'ombra. Il 2015 per la Provincia Italiana della Congregazione dei Figli dell'Immacolata Concezione, proprietaria sia dell'ospedale che dell'azienda di Pomezia, è stato un anno particolare.

Alla fine si arrivò, tra mille polemiche e un debito spaventoso, al salvataggio dell'Idi e alla vendita di un secondo ospedale, il San Carlo di Nancy, andando avanti con la farmaceutica. E Rocca, mentre dirigeva l'Istituto dermopatico dell'Immacolata, è entrato nel board della società produttrice di medicinali, ottenendo dei poteri ampi. Insieme a lui, nel consiglio di amministrazione, il commercialista Gianluca Piredda, con ruoli di primo piano in Vaticano e impegnato nell'operazione sull'ospedale dermatologico più grande d'Europa sommerso dai debiti. 

Di recente, mentre era presidente della Croce Rossa, del resto Rocca è stato anche presidente del CdA della Fondazione San Raffaele, messa su dalla famiglia Angelucci, mantenendo l'incarico fino a un mese fa, e ha acquistato e mantenuto le quote di una società di ricerca pubblicitaria e marketing fondata da Francesco Storace, oltre a operare in società ritenute riconducibili al broker Gianluigi Torzi, poi coinvolto nello scandalo sulla compravendita di un palazzo a Londra, imputato davanti al Tribunale di Roma e a quello del Vaticano.  

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Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 22 dicembre 2022.

«Repubblica ossessiona Rocca, comincia il solito linciaggio » . Con queste parole ieri Francesco Storace ha difeso su 7 Colli online, «nuova avventura editoriale dedicata alla città capitale», il candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Lazio. Tra l'ex governatore e Francesco Rocca c'è stima e amicizia. 

La carriera dell'ex presidente della Croce Rossa come manager della sanità è iniziata proprio durante la legislatura di Storace, quando gli venne affidata la direzione dell'ospedale Sant' Andrea. 

E sempre l'ex esponente di Alleanza Nazionale ha rivendicato: «Ancora oggi sono orgoglioso di quella nomina. Si tratta di un tecnico di straordinario valore». Tra i due però i rapporti, oltre che politici, sembrano essere stati anche d'affari. 

Il 15 novembre 2018 a Roma è stata costituita la società «Blog dell'Alba », con un capitale di appena 100 euro e la mission di occuparsi di pubblicità, « sia per conto proprio che per conto di terzi, in Italia come all'estero». 

Una società di proprietà proprio di Storace, che l'anno dopo ha però ceduto le quote all'amico Rocca. Quest' ultimo si è trovato così titolare di un'azienda di comunicazione, marketing e pubblicità mentre era alla presidenza sia della Cri italiana che internazionale, e lo è ancora da candidato alla guida del Lazio.

Un affare che, sempre a destra, non è l'unico che riguarda l'aspirante governatore. Nel ricco curriculum di Francesco Rocca, tra attività benefiche, incarichi prestigiosi nella sanità e il lavoro da avvocato antimafia, oltre a non comparire gli interessi nella società fondata dall'ex leader della destra sociale, non c'è infatti traccia neppure della poltrona da presidente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione San Raffaele, costituita dalla famiglia Angelucci e impegnata nella gestione del centro riabilitativo di Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, che conta 174 dipendenti. 

 Il civico scelto da Giorgia Meloni per strappare il Lazio al centrosinistra ha ottenuto quel ruolo lo scorso anno, mentre era saldamente alla guida della Croce rossa italiana e internazionale, e lo ha mantenuto fino al 14 novembre scorso, cinque giorni prima dell'ufficializzazione della candidatura. 

Con gli Angelucci, tra l'altro, Rocca si è trovato insieme anche in Confapi sanità, la confederazione che rappresenta le aziende del settore sanitario, di cui sempre lo scorso anno l'allora numero uno della Cri è stato eletto presidente e nel cui consiglio c'era pure Giampaolo Angelucci, figlio del deputato leghista Antonio.

Dalla destra sociale, l'aspirante presidente della Regione Lazio, quando Gianni Alemanno era sindaco di Roma, ha ottenuto anche il ruolo di capo dipartimento politiche sociali del Campidoglio. 

Senza contare che, andando ancor più a destra, in quella extraparlamentare, in Croce Rossa sempre Rocca ha accolto l'ex terrorista dei Nar, Paolo Pizzonia, e ha scelto come suo portavoce Marcello De Angelis, ex esponente di Terza Posizione, che due mesi fa ha scritto sul suo profilo Facebook: «Chi è morto per l'Italia, ovunque e in ogni epoca, viene ammazzato quotidianamente e il suo cadavere gettato in pasto ai cani ogni giorno che uno dei nostri bambini va a scuola e apre un libro di testo imposto dalle lobby ». Con buona pace, sostengono i detrattori dell'ormai ex presidente della Cri, di quei principi di imparzialità, neutralità e indipendenza su cui si fonda la Croce Rossa. 

Rocca non dà peso alle contestazioni e nega anche che vi sia una fronda nel centrodestra: « Nessun malumore nel partito e nella coalizione per la mia candidatura, sento un sostegno solido da parte di tutti » . « Io sono un candidato della cosiddetta società civile», giura.

Grazia Longo per lastampa.it il 21 dicembre 2022.

Francesco Rocca, 57 anni, avvocato, separato, padre di due figli di 15 e 29 anni, ex Fronte della Gioventù, negli ultimi dieci anni è stato a capo della Croce rossa dalla quale si è appena dimesso per candidarsi alla presidenza della Regione Lazio per conto del centrodestra. E proprio mentre sta preparando la squadra di assessori da presentare agli elettori, dal suo passato riemerge una brutta pagina giudiziaria che lo ha visto condannato a tre anni per spaccio di droga. 

Inevitabile che se ne parli durante la campagna elettorale.

«Non posso e non voglio nascondere il mio passato. Ma sono trascorsi 38 anni, all’epoca ne avevo solo 19 ed ero pieno di problemi e fragilità».

Al punto da essere coinvolto nello spaccio di eroina da parte di un clan di nigeriani?

«Mi creda, fatico a parlarne ancora oggi. Ma mia madre da lì a poco sarebbe morta per un cancro, ero molto sofferente e iniziai a usare gli stupefacenti. Vivevo ad Ostia, che non è proprio un ambiente tranquillo, e sono finito in un giro di amicizie sbagliate. Ma ho pagato il conto con la giustizia: mi sono fatto un anno agli arresti domiciliari e ho iniziato un proficuo percorso di recupero».

In che modo?

«Mentre ero rinchiuso in casa ho iniziato a studiare Legge e mi sono poi laureato in soli tre anni e mezzo. Appena tornato libero ho cominciato a impegnarmi nel volontariato con la Caritas, devo molto a Don Luigi Di Liegro. E da allora non ho mai smesso di essere in prima linea sul sociale». 

Il passato però torna sempre a galla.

«Non ho mai taciuto una virgola di quello che mi è accaduto, ma è evidente che oggi sono un’altra persona. L’ho dimostrato negli anni anche con la mia professione».

Prima di diventare manager della Sanità e occupare il posto più alto della Croce Rossa ha svolto anche la professione di avvocato penalista?

«Sì, ho anche difeso importanti collaboratori di giustizia tanto da finire nel mirino della mafia. Per cinque anni ho vissuto sotto scorta». 

Poi c’è stato l’impegno come commissario all’ospedale Sant’Andrea e infine alla Croce Rossa. Perché ora ha deciso di scendere in politica?

«Per mettermi al servizio della collettività. Il mio obiettivo è quello di migliorare la vita dei cittadini laziali, soprattutto sul fronte della mobilità e della sanità, che negli ultimi dieci anni è rimasta congelata». 

Quali sono le sue priorità sul fronte sanitario?

«Eliminare le lunghe liste d’attesa nel settore pubblico, perché non ha senso che solo chi ha soldi possa curarsi più celermente nel privato, diminuire gli intasamenti dei pronto soccorso e migliorare l’umanizzazione dei servizi». 

Il suo concorrente è l’assessore regionale uscente alla Sanità Alessio D’Amato. Secondo lei ha lavorato bene durante il periodo clou del Covid?

«Sì, ma è anche vero che disponeva di sovvenzioni infinite. E poi anche noi come Croce Rossa abbiamo offerto un grande contributo: pensiamo anche solo alle vaccinazioni con i nostri quattro grandi hub a Termini, Fiumicino, Porta di Roma e Tor Vergata». 

Purtroppo nelle amministrazioni pubbliche la corruzione è sempre dietro l’angolo. Come pensa di arginarne il pericolo?

«L’asticella della lotta alla corruzione con me sarà altissima».

Lei è sostenuto da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega. Si sente espressione del partito della premier Meloni?

«Da studente militavo nel Fronte della gioventù, come molti esponenti di Fratelli d’Italia, ma sono lusingato d’essere stato indicato da tutta la coalizione». 

Perché alla fine hanno scelto lei e non Fabio Rampelli, che partiva favorito?

«Lui è uno dei migliori politici che conosca. Non spetta a me dirlo, ma alla coalizione».

Pensa di vincere le elezioni?

«Credo di sì. I cittadini capiranno che il metro per valutare D’Amato non sono i due anni di Covid, ma gli altri otto in cui non ha ottenuto granché».

Clemente Pistilli per “la Repubblica” il 28 dicembre 2022.

Avvocato finito sotto scorta per il suo impegno contro le mafie, manager della sanità di lunga esperienza, presidente della Croce Rossa Italiana e poi anche di quella internazionale. Una carriera con tante luci, tutta a destra, quella di Francesco Rocca, 57 anni, romano, «orgogliosamente padre di Matteo e Giorgio - come lui stesso ama ripetere - e nonno di Marie», che ieri ha dato le dimissioni dalla Cri per accettare la candidatura a presidente della Regione Lazio per il centrodestra. 

Ma non mancano le ombre, dalla vecchia condanna per spaccio di eroina ai rapporti con il broker Gianluigi Torzi, dalla gestione del personale e degli immobili della stessa Croce Rossa ai rapporti con una delegazione cinese nel periodo più duro del Covid, passando per la sua testimonianza nel processo Mafia Capitale.

Vicende su cui scorrono veleni proprio tra quelli che dovrebbero essere gli alleati, che ieri hanno intasato le chat dei sovranisti e che, rigorosamente a microfoni spenti, hanno portato più di qualche esponente del centrodestra a sostenere: «Ci faranno a pezzi e colpire lui significa ora colpire Giorgia Meloni». Era il 1985 quando l'allora 19enne Francesco Rocca venne fermato e arrestato dai carabinieri, impegnati a monitorare lo spaccio di droga a Casal Palocco, alle porte della capitale.

Il futuro presidente della Cri e, secondo i sondaggisti, prossimo governatore del Lazio confessò. Non aveva in tasca un pezzetto di hashish o una dose di cocaina: era il tramite tra un gruppo criminale nigeriano che importava eroina, mentre i giovani a Roma morivano come mosche sui marciapiedi con una siringa infilata nel braccio, e un 23enne impegnato a distribuire in maniera capillare quella droga a Roma. 

«Veniva fermato il giovane Francesco Rocca e questi, sottoposto a interrogatorio, ammetteva di aver conosciuto nel giugno 1985 alcuni giovani nigeriani e di essersi interessato su loro richiesta per reperire un acquirente per quantitativi consistenti di eroina», scrissero il 10 giugno dell'anno successivo i giudici del Tribunale di Roma nella sentenza con cui quello che diventerà avvocato e manager venne condannato a 3 anni e 2 mesi di carcere, confermata, con un piccolo sconto, nel 1987 dalla Corte d'Appello. Un uomo che, secondo i magistrati, aveva una «elevata pericolosità sociale» e una «proclività a delinquere».

«Bisogna imparare dagli errori e migliorarsi ogni giorno che passa», ha sostenuto anni dopo Rocca, assicurando che per lui quella vicenda è stata occasione di riscatto. Nella sua nuova vita sono arrivati così il volontariato, la laurea in Giurisprudenza, la lotta alle mafie come avvocato, e la carriera nella sanità, decollata quando Francesco Storace era governatore del Lazio. 

Prima la direzione dell'azienda ospedaliera Sant' Andrea di Roma, poi un posto nel consiglio d'indirizzo dello Spallanzani, uno nel nucleo di valutazione dell'Istituto nazionale tumori-Fondazione Pascale di Napoli, e infine quello da commissario straordinario all'Asl Napoli 2, scelto da un altro governatore di centrodestra, Stefano Caldoro, e quello da direttore generale all'Idi.

Ma a far diventare Rocca uno degli uomini più potenti è stata soprattutto la presidenza della Croce Rossa Italiana 2013, a cui ha poi aggiunto quella della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. Incarichi che ora i detrattori sostengono siano stati caratterizzati, nell'arco di oltre dieci anni, anche da una gestione in cui non mancano zone d'ombra e rapporti particolari, come quello con Trozzi, indagato dalla magistratura vaticana per manovre sulla compravendita del palazzo di Sloane Avenue a Londra e proprio ieri rinviato a giudizio per autoriciclaggio.

Rocca respinge da tempo tutte le accuse. Non ha avuto difficoltà neppure a nominare come suo portavoce Marcello De Angelis, vicino sia a Storace che a Gianni Alemanno, ex esponente di Terza Posizione, cognato dello stragista Luigi Ciavardini e condannato per banda armata. Rocca tira dritto e per completare il riscatto vuole essere il numero uno anche nella sua regione, riuscendo nell'impresa di mettere alla porta la sinistra dopo due legislature di Zingaretti.

Fabio Rampelli.

Estratto dell’articolo di Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 gennaio 2023.

A portare la leader allo scontro definitivo con quella che è l’unica corrente all’interno di FdI, quella appunto di Rampelli, è stato l’evento al teatro Brancaccio con i candidati Ghera e Rotondi, a cui hanno preso parte oltre mille persone. Un appuntamento iniziato male per i due aspiranti consiglieri, rampelliani di ferro, e finito peggio. […] A far andare la premier su tutte le furie è stato però il particolare che l’invito alla manifestazione è stato inviato dalla federazione romana a tutti gli iscritti, come se si trattasse di un evento di partito, mentre era un appuntamento a sostegno di Ghera e Rotondi e dunque della corrente di Rampelli.

[…] Le parole utilizzate da Giorgia Meloni […] sono dure. Specifica di aver sentito il coordinatore regionale Paolo Trancassini e di aver scelto come commissario Donzelli «considerata la campagna elettorale per le regionali e anche la necessità di gestire con terzietà la corsa alle preferenze». Una terzietà dunque che, secondo l’inquilina di palazzo Chigi, non avrebbero avuto i componenti della corrente dei Gabbiani. […]

 Occorrerà vedere ora come reagirà Fabio Rampelli, che viene da una fase non felicissima. Nel giro di pochi mesi, il vicepresidente della Camera ha dovuto già ingoiare la sua esclusione da qualsiasi incarico di Governo e la decisione della Meloni di non candidarlo a presidente della Regione, scegliendo al suo posto Francesco Rocca. Il bis dopo la mancata corsa per il Campidoglio, quando alla fine al suo posto venne scelto per candidato sindaco il tribuno radiofonico Enrico Michetti. […] il presidente provinciale del partito, Marco Silvestroni […]: «Ricordo a tutti che sostenere i propri candidati non significa parlar male dei colleghi di partito né […] avere atteggiamenti faziosi e correntismi». […]

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 25 gennaio 2023.

Fratelli d’Italia, a Roma, è una pentola a pressione. […] un partito considerato fino a qualche settimana fa una falange. L’ultima grana per la premier è il commissariamento della federazione di Roma, la più importante dello Stivale per iscritti […] Lo scontro contrappone Giorgia Meloni al suo vecchio mentore, Fabio Rampelli […] Rampelli - di questo lo accusano i colleghi di scranno […] - è rimasto ancorato alle vecchie logiche correntizie aennine. Continuando a “spingere” i suoi, a danno di chi fa capo ad altre cordate. Per questo non è stato promosso ministro, nonostante ne avesse i titoli più di altri. Per questo ora perde la guida del partito a Roma.

[…] la premier ha silurato il capo della federazione romana di FdI, il deputato rampelliano Massimo Milani. L’ultima goccia è stata una manifestazione a sostegno di due candidati al consiglio regionale del Lazio, Fabrizio Ghera e Marika Rotondi, organizzata al teatro Brancaccio.

 A tutti gli effetti un evento elettorale per due esponenti della corrente Rampelli, ma […] spacciato per appuntamento di partito, con tanto di inviti spediti dall’indirizzario di Fratelli d’Italia-Roma e un volantino che reclamizzava la presenza di due ministri, Guido Crosetto e Adolfo Urso (entrambi poi assenti). […]

[…] la premier alla fine si è decisa: partito commissariato. Via Milani, arriva […] Giovanni Donzelli. Rampelli però non è tipo da mollare la presa. Dentro FdI raccontano di uno scambio di messaggini acceso con Meloni. […] il capo dei Gabbiani ha chiesto […] alla leader di fare retromarcia e di ri-nominare Milani, vittima di «un equivoco generato dalle false notizie diffuse». Diffuse dalle altre correnti. È la prima volta che qualcuno dentro il partito dice alla leader, pubblicamente: hai sbagliato. […] La sensazione è che […] dentro FdI sia nata la prima, vera, corrente che non risponde alla premier.

Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 21 dicembre 2022.

Il navigato capo di una Destra d'antan si mette ancora una volta sull'attenti: «Sono un soldato e faccio quel che mi dicono». Chi pensava che Fabio Rampelli prorompesse in una plateale protesta contro il suo partito, o contro la sua ex pupilla Giorgia Meloni, non conosce evidentemente il personaggio. Ruvido ma abituato alla disciplina. Con l'unica arma del sarcasmo: a Montecitorio, in una fugace apparizione, si concede qualche battuta per l'esclusione dalla candidatura a governatore del Lazio. Rigorosamente in romanesco: «Sono come la sora Camilla, tutti la vonno e nissuno la pija». 

Rampelli prova a scherzarci su, ricorda tutte le volte che è stato a un passo dalla nomination per il Campidoglio o per la Regione: «Sono stato candidato per tre ore nel 2013, per tre ore nel 2016 e un po' di più nel 2018. Poi nel 2021, quando fu scelto Michetti, beh il mio nome l'avete fatto voi...». 

Sintesi mirabile: «Sono un incandidabile permanente». E via, senza più una parola. Qualche dubbio, molto probabilmente più di uno, gli è rimasto. Ma non potremo mai sentirgli dire che c'è un fatto personale con Giorgia Meloni, la giovane militante che Rampelli accolse e allevò alla sezione di Colle Oppio. 

Sponsorizzandola nelle prime avventure elettorali. E che oggi lo "tradisce" di nuovo. Al massimo, per comprendere il sentimento dell'ex capo dei Gabbiani, si può tentare di interpretare un post della moglie Gloria Sabatini dopo che è stato ufficializzato il nome di Rocca: «La facevo più intelligente». Post subito cancellato. 

Quel che resta sono borbottii, dissapori, rancori silenziosi. Un vociare che alimenta il dibattito soprattutto fra "fedelissimi": Massimo Milani (coordinatore di Fdi a Roma), Lavinia Mennuni, Maria Teresa Bellucci, Federico Mollicone, Andrea De Priamo, Marco Scurria. Che ciò si traduca nella nascita di una corrente critica dentro il partito, è da escludere.

Ma si è comunque aperto il primo caso da quando Fratelli d'Italia è al suo apogeo, con Meloni premier. Francesco Lollobrigida, uomo forte del partito, minimizza ma lancia un segnale preciso: «Io non so se Rampelli ci sia rimasto male. Sono certo che lui, come tutti nel partito, ha a cuore il bene comune prima delle aspirazioni personali. Così siamo diventati quel che siamo». 

Che qualcosa stesse andando storto, Rampelli lo aveva capito già nello scorso week-end, alla festa per il decennale del partito, quando Meloni invece di annunciare il nome del candidato aveva preso tempo e lanciato la "terna". Alle otto di sabato, il vicepresidente della Camera non sapeva neppure se facesse parte di quella rosa. E l'idea di finirci dentro, in realtà, neppure lo esaltava. Comprendendo che la consultazione degli alleati, da parte della premier, avrebbe portato alla scelta di un "tecnico" quale Francesco Rocca. 

Rampelli ha comunque dato la sua disponibilità, confidando nei sondaggi a favore e nel consenso della classe dirigente romana di Lega e Forza Italia. Ma alla fine, almeno ufficialmente, ha pesato il gradimento espresso da Salvini e Berlusconi nei confronti di Rocca. Di certo, Meloni con questa scelta ha evitato di spaccare il partito e ha anche risparmiato l'umiliazione della convergenza su un altro candidato di FdI, Procaccini, Trancassini (legato a Lollobrigida) o Chiara Colosimo. 

Ma gioca una nuova rischiosa scommessa puntando su un civico, dopo il fallimento di Enrico Michetti. Se Rocca dovesse perdere, si riaprirebbe l'eterno dibattito sulla qualità della classe dirigente di FdI. E chissà se, a questo punto, come rivelano fonti di Fdi, Meloni troverà un ruolo diverso per Fabio Rampelli. Qualcosa che non sia un semplice premio di consolazione, che il capo dei Gabbiani ha già fatto sapere di non gradire. Qualcuno ipotizza un'authority, una società pubblica. O la promessa di una nuova candidatura a Roma. Purché duri più di tre ore.

Marina de Ghantuz Cubbe per repubblica.it il 21 dicembre 2022.

Quando il post è stato avvistato ha fatto strabuzzare gli occhi al centrodestra e anche se è stato rimosso lo screenshot continua a fare il giro delle chat: "La facevo più intelligente", ha scritto Gloria Sabatini, moglie del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli e giornalista del Secolo d'Italia quando era ormai chiaro che il candidato nel Lazio sarebbe stato Francesco Rocca e non Rampelli.

Il riferimento alla premier e leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni non è esplicito, ma chiaro al punto che continua a far discutere. È stato scritto poco dopo le dimissioni da presidente della Croce Rossa italiana da parte di Rocca che si è messo "a disposizione del territorio", pronto "per una nuova avventura". Mancava solo l'ufficialità della notizia da parte dei leader di centrodestra e intanto la delusione, forse addirittura lo sdegno per la mancata candidatura di Rampelli montava. 

Così, dicono le malelingue, anche Sabatini si è lasciata andare a una frase che ancora adesso suona come "incredibile e grave" a chi è stato raggiunto dallo screenshot del post su Facebook. Già perché la giornalista poco dopo averlo pubblicato ha deciso di rimuoverlo e quel che resta è uno scatto rubato. Qualcuno, che ha subito colto il riferimento a Meloni, ha deciso di immortalare le sue parole prima che sparissero.

Italo Bocchino.

Estratto dell'articolo di Carmelo Caruso per “Il Foglio” il 12 giugno 2023.

Ronciglione (Viterbo). Il Royal wedding è stato una patacca. Il matrimonio dei Ferragnez una robetta. L’unico vero grande matrimonio è l’Italo Bocchino wedding, 10 giugno 2023, Villa Lina, Ronciglione. In nome della legge vi dichiariamo che Italo ci ha detto sì: “Vi invito al mio matrimonio con Giusi”. 

Giusi è Giuseppina Ricci ed è bella come Grace Kelly. Gli toglie pure le rughette sul viso ogni tre settimane. E’ chirurga estetica. Lui è il principe della destra, l’allievo di Pinuccio Tatarella, il fratellino di Gianfranco Fini, il solo che tiene testa ad Andrea Scanzi a Otto e mezzo. Lo tritura. 

Giorgia Meloni ogni volta che lo vede in video sbarluccica: “Con dieci Italo, io mi prendo pure l’Europa”. La storia della repubblica è solo una lancetta del suo amore. 

[…] Le sue prime nozze sigillavano la stagione politica di Silvio Berlusconi. Era il 1995. Le sue seconde, oggi, sono chiaramente la promessa dell’età Meloni. Il giornale: “Ci dobbiamo essere”. Non si può. Come annunciato nei più importanti siti di gossip: “Il matrimonio di Italo e Giusi è a porte chiuse nella graziosa Ronciglione, in provincia di Viterbo”. Carabinieri, servizio d’ordine. Assicurata anche la presenza di uomini di governo, oltre alla partecipazione garantita di Fini, celebrante del matrimonio civile.

[…]  Telefoniamo a Italo, che è anche direttore editoriale del Secolo d’Italia. “Direttore, portiamo il pranzo da casa. Italo, facci entrare. Italo, per noi il tuo matrimonio vale più di dieci feste al Quirinale, quelle del 2 giugno. Urbano Cairo rilegge, ogni mezz’ora, l’intervista che tu e Giuseppina avete rilasciato, e che gli ha fatto fare il botto di clic”. 

[…] Tra gli invitati veniamo a sapere che ci sarà pure il ministro Genny Sangiuliano, ma Genny Sangiuliano, per un favore del genere, chiederebbe come minimo il monografico del lunedì del Foglio, a sua firma. Oltre ventottomila battute su Benedetto Croce. Non si può fare. La resa non esiste. Il vicedirettore non vuole saperne.

[…]  La destra di Italo è inclusiva: “Un tavolo lo troviamo”. Italo è cuore napoletano. Italo, sei il nostro futuro e la libertà. Italo, grazie. Italo ci gira il prezioso link che vale più di un Btp valore. E’ il link con tutte le comunicazioni per accedere all’Italo wedding. Non lo possiamo comunicare a nessuno. 

[…]  Finiamo in coda sulla Cassia, dietro una Lancia Musa del 2004 che fa tanto destra. Ci ferma pure la polizia a cui diciamo che siamo diretti a un matrimonio. L’agente fa notare che non abbiamo messo il fiocco. Come invitati siamo una cippa. Per strada, tra la Roma-Viterbo, numerosi annunci sulle patate novelle a buon prezzo. Questo racconto sta diventando un purè. E’ l’emozione. Il navigatore, che è stato chiaramente sabotato da Andrea Scanzi, impazzisce. Non si sa come, ma prendiamo un tragitto che ci fa allungare di trenta minuti.

Il count down adesso ci fa paura. Entriamo a Ronciglione e ci perdiamo in pieno centro. Il vigile urbano capisce subito: “Siete per il matrimonio di Italo. L’Italo wedding. E’ festa nazionale. Siete quasi arrivati. Si trova a pochi metri da qui”. Italo e Giuseppina non sposatevi, intendiamo dire, attendeteci. Ecco la villa, le automobili dei carabinieri. Siamo a un passo dall’Italo wedding. Ci fermano perché non somigliamo per nulla a Lucia Annunziata. Il carabiniere guarda un giovane riccioluto con una lista gold. Si guardano a loro volta. Butta male. “Signore, lei non c’è”. Italo, vieni a salvarci! “Si accosti”. 

Il carabiniere, cortesissimo: “Sa, ci sono quelli che cercano di entrare all’ultimo minuto. Chiamano gli sposi e ovviamente gli sposi, che sono felici, non riescono a dire di no. Finisce sempre che si trovano a dover aggiungere posti per persone che neppure conoscono. Questi invitati dell’ultimo minuto, mi creda, sono i peggiori”.

[…] Vediamo entrare Carmelo Briguglio, ex deputato di An e oggi al fianco del ministro Nello Musumeci, con papillon e gli occhialini rotondetti. Ricorda il grandissimo Philippe Daverio. Sfreccia una Porsche Cayenne. Sarà forse dell’Annunziata? Vai a sapere. 

A seguire le auto di Maurizio Gasparri e di Gianni Alemanno. Sembra Fiuggi, trent’anni dopo. C’è pure l’avvocato Peppino Valentino, che è il più amato dagli ex missini. Il carabiniere ci dice che quello, sì, quello, a cui ha fatto gli onori, è addirittura il generale della Gdf, Francesco Greco, un giorno sicuramente futuro comandante generale della Gdf. Hai capito. Restiamo sempre accostati. Il count down scorre. Il giovane riccioluto si scioglie in un sorriso: “Italo ha detto sì. Entrate”. 

Italo tu sei meglio del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, che, per il sito Dagospia, sarebbe addirittura presente, invitato. Siamo finalmente dentro Villa Lina. Parcheggio, a destra. Come non detto. Villa Lina è la villa dove ha pernottato D’Annunzio, il Vate. Ma si sa che il Vate è come Garibaldi, l’eroe che ha dormito in una casa in ogni angolo d’Italia.

Una dolcissima signora ci avvisa che Villa Lina è però davvero speciale perché è la prima villa italiana con piscina olimpionica e che qui vengono a sposarsi perfino dal Libano. “Prosegua, avanti. Gli invitati sono già dentro”. Ci sono statue, ruscelletti, e c’è pure il fieno. E’ bucolico, da sogno. Italico, Italo. All’ingresso vengono consegnati gli ombrellini di carta per proteggersi dal sole e il bigliettino fatato, la mappa per il tavolo. Ovviamente del tavolo se ne parla dopo. Pochi metri e poi lui. Lo sposo. Italo. C’è Italo! E’ vestito meglio del Windsor. E sapete perché? La scuola. Italo non si nasce, ma si diventa. 

[…] 

Dicevamo della fortuna di Italo. Quando si cresce con Tatarella, si combatte politicamente con Gianfranco Fini, si ragiona con Pietrangelo Buttafuoco (hanno vissuto a Roma nella stessa casa i loro anni più belli) è naturale che si diventa Italo. Il presidente come avrebbe potuto mancare? Il presidente è solo un presidente. In realtà, alle nozze di Italo, doveva esserci pure quello del Senato, Ignazio La Russa, ma, purtroppo, un inderogabile impegno istituzionale, un passaggio storico, la finale di Champions League dell’Inter, ha impedito a La Russa di unirsi.

[…] Che comunità, quella degli ex An. Ma, come dicevamo, per questa comunità c’è solo un presidente. Il rosa, in Italia, lo ha sdoganato lui. Chi, prima del presidente, aveva il coraggio di indossare le cravatte color rosa? Chi? Chi, prima del presidente, portava gli abiti a quadrettoni, sartoria ischitana? Lo vediamo seduto su una piccola sedia a dondolo mentre studia il codice civile che reciterà con il suo italiano superbo. E’ il presidentissimo Fini, l’ex presidente della Camera, il segretario di An, lo zio della destra italiana, lo zio di Meloni, di Galeazzo Bignami, di Giovanni Donzelli (che poi vedremo arrivare in compagnia delle loro mogli).

La svolta di Fiuggi l’ha voluta lui. “Che fai? Mi cacci” è la frase che l’italiano offeso dalla vita, e dal capo, sogna tutte le notti di urlare a squarciagola, così come Fini la urlò a Silvio Berlusconi. Eroe. Furono i migliori anni della loro vita. E’ Fini che ha tolto il grasso della destra e infatti, Fini, è sempre magro e profumato come un albero di limone. Ci avviciniamo pure noi come l’urologo Mirone, invitato a nozze: “Presidente si ricorda? Ero militante di Futuro e Libertà”. Sentite che risposta: “Non si preoccupi, caro professore, un reato prescritto”. 

Ci presentiamo. Italo è troppo preso, comprensibilmente. Ha pensieri solo per la sua Giusi che, dopo la preziosa intervista di Candida Morvillo, sul Corriere, sappiamo essere la luna di Italo.

[…]

Chiediamo aneddoti sugli sposi, sui matrimoni aennini. Lo zio: “Ho perso il conto dei matrimoni che ho celebrato. A Roma, durante la sindacatura Rutelli, tutti i romani di destra, che mi volevano sindaco, mi chiedevano di celebrare i loro matrimoni. Ma sono stato consigliere comunale anche ad Aprilia, Reggio Calabria, Marino e Brescia. E quindi anche quelli. Quanti chicchi di riso nella mia vita. Non ha idea. Ma parliamo d’altro. Devo dire la verità. Ho rimproverato Italo. Sono quasi le 11,50 e non è stato versato neppure un goccio di spumante. Così non va bene”. 

Concordiamo con il presidente. Ora capite perché Fini era davvero “il compagno Fini”? Insieme allo zio seguiamo con gli occhi lo sposo. Italo ha appena salutato il nuovo direttore delle Dogane, Roberto Alesse, corteggiatissimo, già capo di gabinetto di Fini e tante altre cariche che servirebbe un paragrafo per elencarle. Indossa un abito modello Fini, perché la classe è sempre classe.

Quello che fa marameo con la barba, alla Russel Crowe, è invece Mario Orfeo, il direttore del Tg3, l’ultima casa in collina del Pd in Rai, ma anche “fratello di Italo, non d’Italia”, e con la calza da vero Gallo. Lo zio Fini ha capito che abbiamo bisogno della sua guida. Ci indica un invitato che dice corrispondere al triestino Roberto Menia, mentre, a destra, quello è il super editore Pippo Marra dell’Adnkronos. 

Era invitato pure l’editore del Riformista e Unità, Alfredo Romeo, ma non ce l’ha fatta, così come non ce l’ha fatta Piero Sansonetti. Ma qui l’editoria fa da testimone in ogni senso. Quello di Italo (il testimone) è il supermanager Francesco Dini, vent’anni a Mediaset e altri venti nel gruppo Espresso di Carlo De Benedetti.

La testimone di Giuseppina è invece la sorella. Non lasciamo Fini, almeno fino a quando non ci caccia. Tutti vogliono il selfie con lo zio e chiunque si avvicini gli chiede: “Presidente, lei ci manca. Presidente, torni”. Lui: “Vivo sereno. La vita è cambiata. E’ più lenta. Ho giocato la Champions, il resto mi sembra campionato”. I Ray Ban, che erano gli occhiali dello zio, sono gli occhiali da sole più esibiti all’Italo wedding. Mentre lo zio Fini accende il toscanello, con il nostro accendino, si presenta una damigella. Sembra la sposa. Ed è come se lo fosse. Tiene per mano un ragazzo e lo presenta con tenerezza allo zio Fini.

Dice al fidanzatino: “Lo sai che lui mi ha cresciuto, mi teneva in braccio?”. Lo zio sta quasi per commuoversi: “Sei uguale a tua madre”. E’ Antonia, la figlia di Italo, avuta dal suo primo matrimonio. L’altra, vestita come la sorella, è Eugenia. Ma ci sono anche le due figlie di Giuseppina. 

La famiglia Ricci-Bocchino è allegra, come Allegra è la moglie di Luca Josi, l’ultimo dei socialisti, presente pure lui per Italo. Quanti ricordi, ma anche quanti affetti sacrificati. Lo testimonia ancora lo zio: “Alla fine resta solo l’amore, e chi meglio di me lo può dire?”. […]

 Lo zio: “Dovete sapere che Italo si è formato con Luciano Laffranco, uomo di intelligenza unica. Era il capo dei Grifoni. Si tratta del movimento goliardico degli studenti perugini. A quel tempo, la goliardia era sul serio qualcosa di intelligente. Laffranco era titolare di una libreria. Italo ha avuto come maestri Tatarella e Laffranco. E’ stato Laffranco a teorizzare la svolta di Fiuggi”. Lo zio e Italo hanno almeno cinque librerie nella loro testa. Quanto leggevano. Lo zio, anticipa, ha preparato una serie di aforismi sul matrimonio che intende declamare. E noi ci allontaniamo perché è venuto a salutarlo forse l’ospite simbolo dell’Italo wedding. E’ un italiano, un chirurgo, che ha il record di trapianti riusciti. 

Militante del partito Fratelli di Italo. Si chiama Cataldo Doria. Ha preso un volo dall’America, insieme a tutta la famiglia, perché non voleva mancare alle nozze. Dirige la divisione trapianti della Jefferson University. Ci sono fratelli di Italo nel mondo e ci sono pure già cinquanta sedie allestite che attendono. Cerchiamo un amico della sposa e lo troviamo. Dice di chiamarsi Giovanni e, come Briguglio, porta il papillon. Che chic.

Chiediamo a Giovanni se sarebbe disposto a cedere il codice del telefono alla sua compagna, così come hanno fatto Italo e Giusi. Sarà il vero tormentone del matrimonio. Giusi e Italo hanno dichiarato di possedere entrambi il codice segreto del loro rispettivo telefono perché il loro amore non ha opacità. 

Fini garantisce dopo: “Sono due piccioncini. Si amano, si vede”. L’amico di Giuseppina dice che lui “non ce la fa a dare il codice” e che non vuole avere il codice della sua compagna, fedele al motto “occhio che non vede, cuore che non duole”. Il cuore quanto bene e male può fare. Giovanni Donzelli, vicino a sua moglie, dovreste vederlo. Non le lascia mai la mano. Si è tagliato pure i capelli e sorride anche a noi che gliene abbiamo combinate. 

Vicino a lui c’è Galeazzo Bignami, figlio di Marcello, colonna della destra bolognese. E’ ritenuto da tutti gli invitati il più preparato Fratello d’Italia. Italo chiede alla figlia Antonia: “Ma quando arriva Giusi. Quando, quando?”. Da Napoli (anche la bomboniera è campana, del maestro Ferrigno, un cornetto) è intanto sbarcato Stefano Caldoro, ex governatore socialista, e sempre dalla Campania, con moglie, è arrivato anche Maurizio Pietrantonio, direttore generale del Festival di Ravello, già sovrintendente al Teatro Lirico di Cagliari.

Segnatevi questo nome. I napoletani, Vincenzo De Luca, gli orchestrali, lo vogliono alla guida del San Carlo di Napoli, teatro dove il fantasma dell’Opera è sempre Carlo Fuortes. Genny Sangiuliano cosa farà a questo punto? La Rai è l’ovunque nazionale. Partecipa all’Italo wedding pure il parlamentare di FdI Luca Sbardella, membro della Vigilanza Rai, che, giustamente, fa notare agli amici: “Ma perché fare una commissione di Vigilanza alle 8 di mattina, sempre alle 8 di mattina? Ma che modo è?”. 

[…] Parlando di Rai, non si può che fare menzione di Gasparri, che in Rai è sempre il leader del partito Gasparri. Racconta che lui è sposato da quarant’anni. Urge un documentario sulla coppia Gasparri. Se troviamo la moglie, vi spergiuriamo che le faremo l’intervista del secolo. Mancano davvero pochi minuti, ma qualcuno ha già procurato dello spumante Franciacorta Mille dei Fratelli Muratori che si accompagnerà, come leggiamo sull’invito (acquerello su carta, a firma di Eugenia Bocchino) al “vino Grecante di Arnaldo Caprai, al Merlot Lapone e al Florus Banfi”.

Caffè quanti ne volete. Sul prato di Villa Lina, di fronte a manufatti di roccia antica, e quasi esoterica, una donna si interroga: “Ma io quello lo ricordo. Il nome ce l’ho sulla lingua”. E’ una figura celebre degli anni berlusconiani. Sulla lingua, sulla lingua. E’ un uomo dal fisico asciutto, uno straordinario ottantottenne e sbalordisce tutti perché, sotto la giacca, come fa Armani, porta una t-shirt di colore bianco. Magnifica. 

Ma chi è? Non c’è dubbio è proprio Cesare Previti, l’ex ministro della Difesa, berlusconiano, ed è accompagnato dalla moglie, attrice teatrale, capello corto biondo. Donna di gusto. E’ lei a rivelarci che la t-shirt di Cesare è della casa di moda Kiton. Cesare si diverte un mondo. Ottantotto anni e non sentirli. Ci consente di dargli del tu e ci annuncia che questa estate se ne va in barca a vela, alla faccia di tutti i magistrati che nella sua vita ha combattuto, con la freccia e con il manoscritto. Anm, birignao!

Ma chiediamo lumi. Ci siamo dimenticati di dire che, dopo il primo calice Mille, che abbiamo visto, anche noi Mille e ancora Mille, come la canzone di Orietta Berti. Parliamo con Previti, come se fossimo al bar di piazza di Pietra a Roma. Domandiamo a Cesare se ha votato Meloni e lui: “Me piace. Certo, l’ho votata. Giorgia è gajarda. Ha dieci anni di governo garantito. La sua squadra di governo deve solo compiere il salto di qualità. Meloni era finora un mistero. Io dico un mistero necessario. Oramai è la certezza. Evviva”.

Gianni Alemanno cerca le polpette con la paprika e il piattino con la cozza spumantosa. Orfeo che è direttore, se leggesse questo pezzo, ci farebbe notare che non abbiamo ancora detto nulla sull’abito della sposa. Ma, per fortuna, noi gli stiamo lontano. Servono indiscrezioni sull’abbigliamento. Giuseppina dove ha comprato l’abito che toglierà il fiato? Aiutati dalla moglie di Previti andiamo a chiedere a Susette, l’amica di Giusi che lavora con lei. “Non ricordo, ma vedrete. Rimarrete a bocca aperta”. 

La band Baraonna ci avvisa. La sposa, la sposa. La sposa arriva. Italo è già con le mani sull’anello. Lo zio Fini afferra i documenti, aiutato dal delegato comunale. Andiamo. Vediamo Giuseppina incedere e ora si capisce perché Italo tritura Scanzi ogni sera, in televisione. Il paragone con Grace Kelly lo fa un’amica. Diadema, capelli, portati dietro. Il velo è lunghissimo. Viene voglia di sposarsi, salvo pensare che, se come Italo dovessimo dare il codice a nostra moglie, finiremmo all’ergastolo. Facciamo sposare Italo e Giuseppina.

Lo zio meglio di un prete recita la formula delle formule: “Lei è il signor Italo Bocchino? Lo dica forte e chiaro. Lei è la signora Giuseppina Ricci? Lo dica forte e chiaro. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà…”. Non ci crederete, ma mentre lo zio è impegnato nella sua funzione civile, si alzano in cielo dei droni per catturare questi momenti di felicità. Sono paparazzi tecnologici. […] 

Premette lo zio Fini: “Ero indeciso se dirlo, ma confido nella vostra generosità e nella loro (rivolto a Giuseppina e Italo) ironica intelligenza”. Ecco l’ultimo aforisma: “L’amore disinteressato della sposa toglie le rughe dal cuore del suo uomo. Auguri!”. 

Orfeo, che vuole sempre arrivare primo sulle notizie, è pure il primo a lanciare il riso. Giuseppina prende la parola e piange dalla gioia. Ringrazia gli amici che sono stati vicino. Sangiuliano, che ogni giorno si fa comunicare le vendite dei libri dell’ex ministro della Cultura, Dario Franceschini e che li confronta ai suoi per dire: “Io ho venduto più di Franceschini”, ha l’occhialetto lucido. Ripone infatti l’occhiale da vista nel taschino e mette quelli da sole. Sono color argento. Li avrà rubati ai Depeche Mode?

Lo raggiungiamo e ci spiega che con Italo l’amicizia è lunga, dai tempi del Fuan  […] Ma Sangiuliano dice che lui non è uomo d’interviste e che lui fa solo editoriali in prima pagina. E’ un metodo: “I direttori mi chiedono l’intervista e io rilancio sempre. Ti faccio un editoriale. Funziona”. 

[…] Il maestro Vissani, che è amico di Italo, scarpe di pelle rossa, concorda che i matrimoni di Italo sono il solo cronometro della politica italiana. Ma gli invitati replicano che l’unica vera leadership è quella di Vissani che ha sbancato l’uninominale Ronciglione-Viterbo, con il suo riso carnaroli, cucinato con “uva e olio di rosmarino, pallotte cacio e ova”. 

Sangiuliano, che ormai ci teme, chiede al cameriere di tenerci a debita distanza, ma noi siamo ormai amici di Italo che ci chiama direttamente al telefono per assicurarsi che siamo ben alimentati. Ve la vedete una come Elly Schlein che telefona solo per chiedere all’invitato elettore: “Stai mangiando?”. Il cameriere non fa altro che ripianare il calice sotto il pergolato del tavolo Gerusalemme.

[…]  Ci indicano che al tavolo c’è un campione della comunicazione come Luca Ferlaino, figlio di Corrado, e che la donna, che si è appena alzata, con il cappello più scintillante della festa, è Donna Tatarella, la professoressa Tatarella. Sulle note di “Malafemmena”, che Italo e Giuseppina cantano in coro con Luigi Carbone, presidente di sezione del Consiglio di stato, ed ex capo di gabinetto di Roberto Gualtieri al Mef, decidiamo di inseguire Donna Tatarella per afferrare i suoi pensieri. Previti ci schiaccia l’occhio. Andate. Raggiungiamo la professoressa Tatarella Filipponio che è una fan di Giorgia Meloni. 

C’era chi ha perfino ipotizzato la presenza della premier. Ma la nostra premier, dicono qui a Villa Lina, da Palazzo Chigi avrebbe benedetto Giuseppina e Italo. Ed è naturale. Non può che benedire questa bella comunità che, alla fine, l’ha fatta crescere patriota e forte. E’ vero che lei ha ricominciato da sola, con l’altro zio Ignazio, e che si è inventata FdI, ma Bocchino e Fini sono l’eleganza della destra: gemelli d’oro, libri antiquari, quotidiani di carta, galanteria. Cercano ancora le cose belle, le poesie, come fa Donna Tatarella.

A Italo consegna questo foglio. E’ una poesia di Erich Fried: “E’ assurdo dice la ragione / e quel che è, dice l’amore. E’ ridicolo dice l’orgoglio / E’ avventato dice la prudenza / E’ impossibile dice l’esperienza / E’ quel che è dice l’amore”. Dopo tutto questo sapere confessiamo alla professoressa Tatarella che ci sentiamo travolti d’amore. E lei: “E’ la condizione più felice. Il resto cosa volete che sia?”. 

[…] E’ questo il vero inno della comunità. Giuseppina dirige, Italo accompagna: “Staje luntana da stu core / a te volo cu ‘o penziero, ca tenerte sempre a fianco a me!”. Donzelli, Bignami, anche loro: “Si’ sicura ‘e chist’ammore / comm’i’, so’sicuro ‘e te…”. Lo zio Fini si allontana proprio quando arriva la strofa, o forse siamo noi che non lo troviamo più. 

Diceva prima: “Si amano, si amano. Guardi. Guardi come è bello vederli. Io lo so cosa significa amore. Se c’è qualcuno che lo ha conosciuto, e sofferto per amore, quello sono io”. E’ la strofa che lui mastica di nascosto, quando nessuno lo vede, è quella la strofa dell’amore, la strofa che Giuseppina si scambia con Italo: “Oje vita, oje vita mia / Oje core ‘e chistu core / si’ stata ‘o primmo ammore/ e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ me”.

Colazione da Candida. I banali consumi di Bocchino, la non rifattona e l’arte di ingannare i mitomani. Guia Soncini su L'Inkiesta l'8 Giugno 2023

La Morvillo è la più strepitosa intervistatrice italiana perché sa far dire cose a chi non penseremmo mai ne avesse da dire, ma ha anche la fortuna di trovarsi davanti a soggetti disposti a sputtanarsi con estrema facilità 

«Paul ha un modo di dire: la fortuna è un’arte». Lo diceva qualcuno, forse proprio Joanne Woodward, nel documentario che Ethan Hawke ha diretto su Paul Newman e sua moglie (è su Sky). Me lo sono appuntato un anno fa, e ieri ho capito che sì, Candida Morvillo è fortunata, ma la fortuna è un’arte.

Ogni volta che esce una meraviglia come quella di ieri, le mie conversazioni di giornata sono monopolizzate dal dibattito: diventi la più strepitosa intervistatrice italiana perché sai far dire cose a chi non penseremmo mai ne avesse da dire, o è la fortuna che ti capitino in braccio soggetti incredibili, di quelli che una volta avrebbero alimentato la commedia all’italiana e ora le pagine di giornale?

«Due giorni dopo, lei andava a Bologna per un convegno e l’accompagno in stazione. Quand’è partita, mi sono detto che, alla mia età, non si può perdere tempo. Sono andato a Bologna e mi sono fatto trovare nella sua stanza d’hotel. Il difficile è stato scoprire l’albergo. Poi, è bastato dire alla reception che ero suo marito e chiedere la chiave della camera. Mi sono fatto trovare mentre leggevo un libro e ascoltavo Tchaikovsky».

Italo Bocchino sta raccontando, in un’intervista assieme alla sua imminente moglie, come si siano innamorati. Un’altra, una che non avesse l’arte della Morvillo, gli riderebbe in faccia, gli chiederebbe che razza di albergo sia quello che ti fa entrare in camera mia così, mi dica il nome così non ci vado mai, gli chiederebbe se il libro fosse a rovescio. Candida non fa un plissé, e sappiamo tutti come funziona con la commedia all’italiana: più gli dai corda, più quelli sono temibilmente sé stessi.

Il maschio italiano, sia egli Zanza il bagnino o un ex deputato, ama dipingersi come esigente. Quindi, in quest’intervista con cui informa il paese che sta per sposarsi con una dottoressa di medicina estetica, Italo Bocchino ricostruisce così il loro primo incontro: «Ci siamo conosciuti a una cena a casa mia. Un’amica mi chiede se può portare la sua dottoressa specialista in medicina estetica e io: sì, se non è una rifattona». L’amica, inspiegabilmente, non gli risponde: ma ti sei visto? Ti pare di poter essere esigente?

Bocchino era separato dalla moglie, quando gli portarono a cena la non rifattona. Della crisi con la moglie forse vi ricordate perché, con grandissimo fiuto per gli interlocutori, decise di parlarne a Fabio Fazio, il quale era più ansioso di cambiar discorso di quanto lo sia io quando mi parlano di gioco del calcio. Dopo la separazione, dice alla Morvillo, «avevo avuto delle relazioni di banale consumo, ma desideravo una coppia stabile». Di banale consumo. Saranno lusingate le signore.

Morvillo, che il dio dell’assenza di complessi culturali ce la conservi nei secoli, non teme niente: non di chiedergli chi farà da mangiare al matrimonio (Vissani: la prima repubblica non si scorda mai; la prima repubblica, tu cosa ne sai); non se ora anche lui si faccia rifare dalla moglie; non se l’abbia chiesta in sposa inginocchiandosi (come sa chiunque abbia visto “Stregata dalla luna”, non inginocchiarsi non è di buon auspicio, ma a volte neanche inginocchiarsi basta).

«Ho fatto tutto per bene. Ho scelto l’anello con la figlia maggiore di Giusi, da Eleuteri: una veretta Tiffany anni ’60, con brillanti brown. Gliel’ho data a una festa di Natale, davanti al camino acceso, con le quattro figlie presenti, che già sapevano». Italo Bocchino tra un mese compie 56 anni, la moglie ne ha 44: non vorrei ripetermi, ma questa mistica dei rituali nuziali da ventenni analfabete della provincia americana è ormai pericolosamente diffusa tra adulti che si spererebbe avessero impegni più pregnanti che la scelta degli anelli e dei canapé.

Tuttavia, il contagio è appunto diffuso e Candida conosce i suoi lettori: gente che vuole sapere del brillante brown (che io ignoro cosa sia), gente su cui Tiffany fa ancora la presa della prima volta che videro il film con Audrey Hepburn (il racconto non l’hanno letto, ora non esageriamo con le aspettative), gente che annuisce forte all’idea degli adulti che ricominciano con l’approvazione delle figlie grandi. È così che si fanno i capolavori: arrivando a noialtri che ci diamo un tono ma pure a chi ha un immaginario elementare.

Arrivando a chi somiglia al secolo in cui vive, un secolo in cui la principale ambizione è non dimostrare gli anni che si hanno: non vincere un Nobel, non inventare qualcosa di fondamentale, ma essere quello o quella di fronte a cui gli ex compagni di scuola esclamano «ma sei sempre uguale!».

«Ogni tre settimane, sono costretto a stendermi sul suo lettino per un’ora e mi fa trattamenti che non capisco e di cui non chiedo. Medicina rigenerativa, comunque. Soprattutto, il suo lavoro è difendere i miei capelli. Andrea Scanzi mi accusa di averli tinti. Invece, faccio il Prp: punture di plasma ricco di piastrine ottenuto centrifugando un prelievo di sangue. Giusi me lo inietta su testa, viso, collo, ovunque. Ne fa una questione di marketing familiare: io vado in tv e, se la gente mi vede invecchiato, ci fa lei una brutta figura. Avevo un pregiudizio perché in giro si notano solo gli eccessi della medicina estetica. Ma Giusi dice che quella fatta bene non si deve vedere: la gente deve pensare che hai il viso riposato o che sei innamorato».

Sono ormai molti anni che nessuno si aspetta che dalla classe politica esca uno statista, al massimo un concorrente non noioso di reality. Sono ormai molti anni che non c’è bisogno di nessun carro da far sfilare per affermare il diritto dei maschi a essere le nuove femmine: il maschio di destra parla di trattamenti estetici coi quali risultare piacente con una disinvoltura che mio padre, cresciuto in anni di feticismo della mascolinità, piuttosto si sarebbe fatto mettere in galera.

Sono ormai molti anni che Candida Morvillo, artista dell’inganno, si siede davanti agli intervistati, sorride come una signora di provincia che abbia preso i pasticcini sul corso principale, e quelli si coprono di ridicolo senza farsi pregare, e del tutto inconsapevoli di costituire il Grande Romanzo Italiano, cadenzato in risposte brevi che non spaventino un pubblico ormai completamente analfabetizzato. La fortuna aiuta i Paul Newman, le Candida Morvillo, e pochi altri.

Estratto dell'articolo di Candida Morvillo per il Corriere della Sera il 7 giugno 2023. 

Italo Bocchino, ha conosciuto la chirurga estetica che sposa il 10 giugno mentre faceva un ritocco, una punturina?

«I ritocchi sono arrivati dopo. Ci siamo conosciuti a una cena a casa mia. Un’amica mi chiede se può portare la sua dottoressa specialista in medicina estetica e io: sì, se non è una rifattona. Appena l’ho vista, ho dato ragione ai neuroscienziati: per innamorarsi, bastano sei millisecondi». 

Italo Bocchino, 56 anni, pareva sparito dal 2013. Fu tra i potenti di una stagione ruggente del centrodestra, ammiraglio di Gianfranco Fini, la cui disfatta consegnò anche lui all’oblio. Da nove anni è direttore editoriale del Secolo d’Italia e, da quando è al governo Giorgia Meloni, è riemerso dal passato a battagliare nei talk show in forma smagliante, la faccia intatta e riposata (chiedo: quanto le è mancato il potere? Lui: «Il potere è un animale strano: se ce l’hai, lo maledici per il tempo che ti toglie. Se lo perdi, è come stare a San Patrignano: i primi mesi, batti la testa contro il muro»).

Bocchino aveva furoreggiato anche in cronaca rosa per il divorzio dalla produttrice Gabriella Buontempo, i pettegolezzi sul presunto tradimento con una ministra e, prima che tutto precipitasse, la moglie che diceva a Novella 2000 «ha scelto me» e lui da Fabio Fazio che rispondeva «come marito e come padre, ho il dovere di chiedere scusa». C’erano poi state la storia con una giovane pianista, il flirt con Sabina Began, detta «l’ape regina di Berlusconi». Da sei anni, Bocchino è fidanzato con la dottoressa Giuseppina Ricci, 44 anni. Questa è la prima volta che raccontano il loro amore. 

Quella sera, il colpo di fulmine è reciproco?

Giuseppina: «Totalmente». 

E dopo che succede?

Italo: «Il giorno dopo, mi apposto sotto il suo studio e la invito per un aperitivo. Due giorni dopo, lei andava a Bologna per un convegno e l’accompagno in stazione. Quand’è partita, mi sono detto che, alla mia età, non si può perdere tempo. Sono andato a Bologna e mi sono fatto trovare nella sua stanza d’hotel». 

Come ci è entrato?

«Il difficile è stato scoprire l’albergo. Poi, è bastato dire alla reception che ero suo marito e chiedere la chiave della camera. Mi sono fatto trovare mentre leggevo un libro e ascoltavo Tchaikovsky».

Non ha temuto che lei si spaventasse o la cacciasse o di trovarla con un altro?

Italo: «Certe cose le senti, le capisci».

Giuseppina: «Si vede che il rischio valeva la pena». 

A che punto della vostra vita sentimentale eravate?

Italo: «Io, dopo la separazione, oltre che a ritrovare un’identità dopo quasi 30 anni di politica, avevo investito il tempo sulle mie due figlie. Avevo avuto delle relazioni di banale consumo, ma desideravo una coppia stabile». 

Giuseppina:

«Io ero separata da due anni e dopo qualche incontro poco convincente, avevo appena deciso di non volere nessuno». 

(...)

Per chi vota Giuseppina?

«Le ultime volte, ho votato 5Stelle, ma ho un legame singolare col Movimento Sociale: il primo voto, nel ‘93, l’ho dato a Gianfranco Fini sindaco di Roma, cosa che incrinò il rapporto con mio padre, che aveva fatto il ’68 con Lotta Comunista. Per due anni, non ci parlammo, dovetti andare a vivere da una zia. Ora, non le dico quanto mi preoccupava dirgli di Italo. Alla fine, le mie tre sorelle hanno organizzato una cena, gliel’ho confessato e lui: almeno è intelligente».

Italo: «Pensi che storia: si fa cacciare di casa per votare Fini e, sabato, Fini ci sposerà con la fascia tricolore». 

Giorgia Meloni ci sarà?

Italo: «No: abbiamo rapporti politici, ma non ci frequentiamo. Siamo generazioni diverse». 

Si è messo in ginocchio per la proposta di nozze?

Italo: «Ho fatto tutto per bene. Ho scelto l’anello con la figlia maggiore di Giusi, da Eleuteri: una veretta Tiffany anni ’60, con brillanti brown. Gliel’ho data a una festa di Natale, davanti al camino acceso, con le quattro figlie presenti, che già sapevano».

Dove vi sposate?

Italo: «A Ronciglione, nel Viterbese, chef quel pazzo di Gianfranco Vissani. Lì passiamo sempre i weekend in un casale bucolico in un parco di noccioli, castagni...». 

Giuseppina non teme l’indole da seduttore di Italo?

«All’inizio, ero un po’ gelosa, sapevo che aveva avuto donne bellissime. Ora, so che la gelosia non ha senso, ma nel famoso periodo di crisi, ero arrivata a farlo seguire da un investigatore privato». Italo: «Ha buttato via i soldi. C’è uno che, per un mese, per seguirmi, ha mangiato nei migliori ristoranti a spese di Giusi». 

Giuseppina:

«Un giorno, l’ha beccato a pranzo con una sua ex dello spettacolo. Lei, appena ha visto Italo, se l’è sbaciucchiato tutto, ma poi hanno parlato da semplici amici. L’investigatore, al tavolo accanto, sentiva tutto. Dopo, Italo viene da me con segni di rossetto dalle orecchie alla camicia. Forse, senza detective, non avrei creduto che non era successo niente».

Italo:

«Ormai, abbiamo i codici dei telefoni dell’altro ed è una libertà pazzesca».

 Italo, quali ritocchi le fa la sua futura moglie?

«Ogni tre settimane, sono costretto a stendermi sul suo lettino per un’ora e mi fa trattamenti che non capisco e di cui non chiedo. Medicina rigenerativa, comunque. Soprattutto, il suo lavoro è difendere i miei capelli». 

«Invidiabile capigliatura d’incontaminata tonalità» ha detto Antonio Padellaro. «Pure Andrea Scanzi mi accusa di averli tinti. Invece, faccio il Prp: punture di plasma ricco di piastrine ottenuto centrifugando un prelievo di sangue. Giusi me lo inietta su testa, viso, collo, ovunque. Ne fa una questione di marketing familiare: io vado in tv e, se la gente mi vede invecchiato, ci fa lei una brutta figura».

 In principio, si è prestato volentieri o era scettico?

«Avevo un pregiudizio perché in giro si notano solo gli eccessi della medicina estetica. Ma Giusi dice che quella fatta bene non si deve vedere: la gente deve pensare che hai il viso riposato o che sei innamorato».

Estratto dell'articolo di Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 28 aprile 2023.

All’allora fidanzato Italo Bocchino, poi diventato marito, fece fare una comparsata nel ruolo di un cameriere nel suo secondo film da produttrice, «La bruttina stagionata». Racconta divertita Gabriella Buontempo: «Era il 1992, ci eravamo appena conosciuti. A quel tempo Italo non era ancora deputato, ma lavorava come assistente di Pinuccio (Giuseppe) Tatarella nell’Msi. La cosa curiosa fu che, quando nel 1995 ci sposammo, la cosa fece scalpore!». 

Perché?

«Nel partito della Destra Nazionale, gli adepti si sposavano tra loro, mentre io, che appartengo a una famiglia napoletana notoriamente socialista, non ne facevo parte: insomma, era la prima volta di una coppia, diciamo così, “anomala” per il partito di Italo, e addirittura Lucia Annunziata scrisse un articolo su di noi. Col senno di poi, è davvero divertente...». 

Col senno di poi, perché molti anni dopo, il matrimonio è finito...

«Sì. All’inizio per me è stata un’esperienza devastante, un processo dolorosissimo prima di arrivare alla separazione, ma per fortuna lo scorrere del tempo fa sciogliere tutti i nodi. Siamo due persone dotate di buon senso, e soprattutto abbiamo due figlie, Antonia di 21 anni e Eugenia di 20, quindi condividiamo la genitorialità: non andavamo bene come marito e moglie, ma andiamo bene come genitori, un compito che continuiamo a svolgere scrupolosamente e su cui siamo molto uniti. Abbiamo trovato un nostro equilibrio, un rapporto civile anche di affetto». 

Riavvolgiamo il nastro: come e perché ha iniziato a fare la produttrice cinematografica e televisiva?

«Sin da adolescente ero appassionata del mondo del cinema, ma non sapevo esattamente cosa volevo fare. Essendo molto timida di carattere, non ero portata per niente alla recitazione, non mi immaginavo assolutamente attrice, semmai regista: lo stare dietro la macchina da presa non mi esponeva, però mi consentiva di esprimermi.

GABRIELLA BUONTEMPO

Ho frequentato una scuola di regia a New York, ma sono figlia di un imprenditore visionario: mio padre, oggi novantenne, non solo si occupava di costruzioni, ma ha fatto l’editore, fondando due quotidiani, a Napoli e in Puglia, e poi ha creato la prima linea aerea privata alternativa all’Alitalia, Airblu. Quindi ho nel Dna lo spirito, l’imprinting da imprenditore ed è quello che faccio, anche perché, nel mio percorso formativo, ho avuto la fortuna di incontrare Lina Wertmüller». 

Come la conobbe?

«Era amica di famiglia e, in uno degli incontri con i miei, le raccontai che stavo frequentando una scuola di regia e che parlavo bene l’inglese. Lina mi propose: perché non vieni da me a farmi da assistente? Avevo solo ventidue anni e mio padre disse: vai pure, Lina può essere la tua nave-scuola. E infatti è stata la mia grande maestra, di lavoro e di vita, perché proprio standole a fianco ho capito che il mio vero interesse non era per la regia, bensì per la produzione, cioè la costruzione, il dietro le quinte che ti porta a realizzare un progetto cinematografico. Ho iniziato assistendola nella produzione del suo film Il decimo clandestino , poi in quella che è stata la prima pellicola sull’Aids, In una notte di chiaro di luna , girato tra Londra, Parigi, Venezia... E poi ho accompagnato Lina in numerosi viaggi spettacolari nel mondo. A volte sapeva essere molto dura, addirittura violenta, per ottenere il risultato che voleva da un attore».

Aggressiva?

«Più che aggressiva, violentemente apprensiva. Una volta, stavamo girando una scena dove un attore non faceva quello che lei gli stava indicando. Io le ero seduta a fianco, come sempre, e inizia a darmi pizzicotti sul braccio.

(...)

Un altro punto di riferimento molto importante: sua zia Graziella Lonardi Buontempo, collezionista d’arte e mecenate.

«Fondamentale nella mia crescita professionale, precedente a Lina. Avevo 12-13 anni, i miei genitori si stavano separando, ero afflitta dallo sfascio della mia famiglia e la zia, per distrarmi, mi portò con lei a Parigi, dove stava allestendo una mostra al Beaubourg: il mio primo viaggio all’estero!».

(..) 

Perché?

«Eravamo quattro discoli, ne combinavamo di tutti i colori e, quando veniva a farci visita a casa, trovava i nostri giocattoli buttati dappertutto, i cani che impazzavano ovunque, un disordine pazzesco che lei — signora elegante, bellissima, altezzosa — non poteva accettare. Non avendo figli, lei non era abituata a quel casino. Ci urlava di mettere in ordine, io correvo a nascondermi. Poi però sono diventata la sua mascotte preferita. Dopo la sua morte, ho ritrovato per casa una dedica che mi aveva scritto, non ricordo in quale occasione: “A Gabriella, augurandoti di superarmi”».

Daniela Santanchè.

Estratto dell'articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 19 luglio 2023.

Solo a pensarci mi vengono i brividi, ma insomma Daniela Garnero fino ad ora è stata ministro del Turismo (che non vuole assolutamente mollare) dall’ottobre 2022, e poi, in passato, da tutto un girovagare mai abbastanza di destra, da An (Alleanza Nazionale) a Misto-destra, da Forza Italia a Fratelli D’Italia: iniziando a occuparsi di politica, sino a oggi, dal 2000, sembra impossibile, da ben 23 anni! 

(...) Basta essere di destra per essere tutti con lei, tutti pronti a difendere vuoi il Turismo e vuoi Visibilia, che era sua, poi e stata non più sua, infine è passata al Kunz, che poi se ne è liberato. Di chi sarà Visibilia? Visto, Novella, Ciak si presentano come “accertamento diffusionale” di Visibilia, quindi con qualcuno che ne è responsabile? 

Oppure no? Non lei? Non il Kunz, non chissà chi? Adesso il Kunz a lei devoto, Dimitri Kunz, che appare molto servizievole sino a lasciar perdere gli Asburgo Lorena con suoi incazzati titolari e a chiamarsi solo Kunz, sussurra di essere nato nel ‘69 a San Marino, certo meno asburgo-lorenese e di nascita principesca.

Si sa che prima di incontrare la sua fata, stava con una graziosa signorina che per quanto nata come Patrizia Groppelli, si faceva chiamare Patrizia D’Asburgo, ed è finita con lo sposare a giugno l’abbandonato Sallusti, proprio come nei brutti film. 

Intanto la sua vita viaggiava sempre a destra, con nuovi metodi persecutori, si metteva con l’ingegner Canio Giovanni Mazzaro con cui ha avuto un figlio, Lorenzo Mazzaro, bel ragazzo ricciolino, che studia e lavora a Londra, e avrebbe una fidanzata marocchina: quando mamma gli regalò tanto per cambiare una Porsche, lui, si dice, si arrabbiò. 

Nella sua autobiografia, Sono una donna sono la Santa uscito nel 2016 da Mondadori e fuori commercio, pochi mesi dopo la Santanchè, dopo aver espresso il grande amore per sempre al povero Sallusti, finalmente incontra il suo finto principe, un bell’uomo più giovane di lei, proprietario di un ristorante a Firenze e disponibile a darle una mano nei suoi veloci casini, vendo qua e rivendo là, visibilia su e visibilia giù. “Vivo convinta che sarà l’ultimo e definitivo l’amore che oggi mi lega ad Alessandro Sallusti”... 

“A volte capita mentre sono in riunione in un consiglio di amministrazione che mi telefoni furibondo perché (Sallusti) manca un bottone. .. Non che questo mi dispiaccia”... “Cosa c’è di più bello di essere geisha del proprio uomo?”. 

Alla fine di quell’anno, dopo aver dichiarato il suo amore eterno di geisha sempre in ginocchio e con mandolino, scoppia il caso Kunz-Santanchè: il Kunz arriva, piuttosto carino e in più simpaticamente portato a fare pasticci. 

Scoppia la guerra Santanchè-Sallusti all’improvviso abbandonato, guerra con insulti tra i i due, e malgrado i nove anni di geisha e neppure un bottone mancante, “l’ultimo e definitivo amore” con quell’uomo bruttino finisce ridicolmente. Oggi, il Kunz tuttora pasticcione, ne ha fatta una forse eccessiva, in compagnia della signora De Cicco in La Russa, mamma del giovane sciocco che porta in casa di babbo le sue conquiste senza che lui ci faccia caso.

Insieme, hanno venduto la bella casa del sociologo Francesco Alberoni (1929, però di Fratelli d’Italia!) guadagnandoci, pare, un milione netto nella vendita, a 3,6 milioni, un milione in più del suo valore, ma l’acquirente, uno di quei tipi che non badano a spese, per far piacere a una amico (Kunz-Santanché) e questa cosa non è piaciuta per niente a Bankitalia perché, l’acquirente, Antonio Rapisarda se l’è comprata in 55 minuti senza neppure tentare di averne uno sconto. Ma si sa, e non si vorrebbe essere banali, mentre 9 euro risultano un’enormità come salario minimo, cosa vuol che sia per il simpatico Rapisarda?

Sempre indaffarata a tenere a cuore il bene del nostro Turismo, e diciamolo pure, nel più bel paese del mondo, uno pensa, ma questa Ministra che tanto ha a cuore la vendita in cinquanta minuti di una casa di amici (Kunz-De Cicco) a prezzi stratosferici, come fa anche a trovare il tempo da dedicare a cose di pura amicizia, che nulla hanno a che fare con il suo mandato, e neppure con il turismo? 

Certo la signora sa come mettere tutti a posto, terrorizzando chi osa contraddirla, e intanto tutto la sua amabile destra le dà perfettamente ragione, senza contare che il 26 di luglio ci sarà in Senato una mozione di sfiducia richiesta dal M5s. Un bell’incontro ma come si fa a pensare cattive cose di lei?

Naturalmente c’è chi insinua che la signora, quando comprò Novella 2000, Visto e il bel mensile Ciak, seguì una vecchia pratica, quella di togliere un peso (Visibilia!) all’amico imprenditore accettando con un sospiro anche il danaro e le spese per i giornalisti, per almeno due anni, promettendo poi trovare il modo di render loro la vita così orribile da suggerire la fuga, cosa di cui lei, dicono, sia maestra. “Sono imprenditrice, anzi la Santanchè rappresenta un gruppo con 500 persone, ed è diventata più grande e più forte…” dice l’autobiografia. 

Su, forza signora, non molli, con tutti i cattivi pensieri di chi non le vuole bene, e mentre i suoi fedeli giurano lei essere la Santa (della Santanchè), conosciamo tipi crudeli che organizzano messe cattive per vederla, almeno una volta, cadere.

La ministra Daniela Santanchè e i suoi legali nello studio La Russa dopo l’avvio dell’indagine. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.

Il presidente del Senato Ignazio La Russa: non ricordo. Lei smentisce

La ministra del Turismo, Daniela Santanchè, e il presidente del Senato, Ignazio La Russa

Domenica mattina 5 novembre 2022, tre giorni dopo l’emergere dell’indagine per falso in bilancio e della richiesta della Procura di Milano di fallimento di quattro società amministrate in passato dall’imprenditrice Daniela Santanchè, nello studio legale milanese dell’avvocato Ignazio La Russa la situazione è al centro di una riunione tra il presidente del Senato (eletto il 13 ottobre), la neoindagata senatrice ministro del Turismo, il suo compagno Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena pure indagato, alcuni loro professionisti legali, un avvocato dello studio La Russa, un socio delle aziende, un legale di questo socio. 

«Di questa riunione non ho ricordo, ma non posso escluderla, del resto non ci sarebbe stato niente di male: se Daniela mi avesse chiesto un consiglio, glielo avrei certamente dato, ci vediamo e parliamo ogni giorno, abbiamo fatto anche le vacanze di Natale assieme…», risponde il presidente del Senato, che con la vicenda (dove non è difensore del ministro) non ha poi avuto più alcun contatto: «Allo studio (che non è più mio, ma di mio figlio e dei miei collaboratori) si appoggia per altre questioni sue, non abbiamo mai seguito le società, ed escludo di essermene occupato anche perché non faccio più l’avvocato da quando sono presidente». 

Ancora più sicura la ministra: «Escludo di aver fatto riunioni con avvocati in presenza di La Russa. Che poi agli avvocati dello studio (dove vado spesso) io possa aver chiesto pareri su questioni mie, come ad esempio i risarcimenti danni... Ma non sull’indagine». Verifiche e testimoni, tuttavia, confermano come quella mattina (dopo una sosta al «bar Boston» all’angolo con il Tribunale, davanti al chiosco del fiorista) la riunione ci sia stata e abbia avuto due temi. Il primo è il desiderio di Santanchè di denunciare i due soci di minoranza (dall’operatività a loro volta controversa) che con il loro esposto in giugno avevano innescato il fascicolo: qui le perplessità dei professionisti legali sull’utilità dell’iniziativa meravigliano Santanchè, visto che La Russa in precedenza aveva invece ravvisato gli estremi per una denuncia: alla fine, però, anche il presidente del Senato concorda non sia il caso. L’altro tema caldo non è tanto l’ipotesi di falso in bilancio — l’unica per la quale Santanchè è indagata, ma che ai presenti sembra mediaticamente meno sensibile o comunque più gestibile — quanto invece il debito con il Fisco contestato a una delle società per 900 mila euro. Qui i vari consulenti legali spiegano quanto in teoria possano rivelarsi pesanti per l’ex amministratrice le conseguenze di un futuribile concorso in bancarotta derivante da imposte non pagate dalla società. Sicché anche La Russa rafforza il suggerimento che, qualunque torto o ragione Santanchè ritenga di avere nel contenzioso, difficilmente un ministro possa restare in carica con quel genere di pendenza societaria, e che quindi le giovi comunque mettere mano al portafoglio in fretta. Proprio ciò che Santanchè farà poi nell’udienza fallimentare del 30 novembre, iniettando (tra cash e aumenti di capitale annunciati) 4,5 milioni di euro che permettono a Visibilia Editore di saldare 1,4 milioni al Fisco, e di fare respirare le altre tre società di cui si discuterà a marzo, ma già con il sospiro di sollievo del vedere i pm desistere dall’istanza di fallimento.

Fabrizio Roncone per "Sette – Corriere della Sera” il 9 gennaio 2023.

A una cena, sere fa, ho detto che Daniela Santanchè mi sta molto simpatica. È sceso il gelo. Poi, la più spiritosa della compagnia (architetta con studio a Barcellona, buddista, campionessa di bridge, padre americano: ma non ha alcuna intenzione di candidarsi alla segreteria del Pd) ha detto: «Questa è pura perversione politica».

Può darsi, però lo penso. E comunque non ho detto che la Santanchè ricorda Nilde Jotti. O Tina Anselmi. Ho detto che mi sta simpatica. Poi possiamo ovviamente aggiungere che l’attuale ministra del Turismo è anche una donna spregiudicata, cinica, dotata di astuzia efferata, frequentatrice del lusso più kitsch.

 Una volta mi chiama sul cellulare: «Salve: posso dirle una cosa?». Si, certo. «Ecco: io penso che lei non sia un incapace, ma un incapace al cubo». Non le garbava un articolo che avevo scritto su di lei. La faccenda, però, si chiuse lì. Incassatrice leggendaria, strepitosa nella gestione del suo personaggio: cinque volte in Parlamento come deputata e senatrice tra An, Pdl, FI, FdI, con deviazioni nella Destra e nel Movimento per l’Italia; e poi pure sottosegretario alla Presidenza nel quarto governo Berlusconi.

Perché lei, prima di diventare una colonna meloniana, al punto di meritarsi un ministero, è stata protagonista assoluta (capolavoro, no?) delle ultime giornate di Palazzo Grazioli: Santanchè, Denis Verdini, Daniele Capezzone (erano i tempi in cui Danielone veniva aggredito da Dudù, il barboncino della Pascale, all’epoca fidanzata e promessa sposa del capo).

 Giuliano Ferrara la soprannominò Pitonessa”. Molti capirono fischio per fiasco. «Guardate che la pitonessa» spiegò allora Santanché «non è la moglie del pitone, ma Pizia, detta appunto la Pitonessa, la sacerdotessa che, nel mondo greco, pronunciava gli oracoli in nome di Apollo. Da intendersi, qui, come Silvio».

Carriera politica funambolica, quella imprenditoriale complessa. Per evitare conflitti d’’interesse, costretta pure a cedere quote del Twiga, lo stabilimento per ricchi che possiede in società con Flavio Briatore. Poi però ha detto che le spiagge libere, «piene di rifiuti e tossicodipendenti», devono essere assegnate ai privati. L’ha detto con quel suo sorriso non più perfido ma porcellanato, ormai d’una trentenne (però dalla voce si capiva che era proprio lei).

Open to fallimento. Report Rai PUNTATA DEL 19/06/2023

di Giorgio Mottola

Collaborazione di Greta Orsi e Norma Ferrara

Da oltre 20 anni Daniela Santanché è uno dei volti femminili più noti della destra italiana, simbolo televisivo per almeno un decennio del potere berlusconiano.

Prima di essere un politico, come rivendica in ogni intervento pubblico, l’attuale ministro del turismo è innanzitutto una imprenditrice. Le sue aziende però finora sono andate tutte molto male. Per la prima volta, Report manderà in onda le testimonianze dei dipendenti e dei fornitori storici delle aziende di Daniela Santanché. Il quadro che ne esce è disastroso: bilanci in rosso, lavoratori mandati a casa senza liquidazione e ditte del tanto celebrato Made In Italy messe in difficoltà, o addirittura strozzate, dal mancato saldo delle forniture. Mentre le sue imprese crollavano, Daniela Santanché e il suo socio, l’ex compagno Canio Mazzaro, si assegnavano compensi e benefit sproporzionati. Dall’inchiesta emergono anche rapporti tra alcune società del gruppo che si è visto assegnare, senza gara, l’appalto per la campagna promozionale del ministero del turismo “Open to Meraviglia” e una delle aziende di Daniela Santanché, Visibilia. L’impresa, attiva nel campo dell’editoria e della pubblicità, è stata a lungo gestita dal suo attuale compagno Dimitri Kunz Asburgo Lorena, un sedicente principe i cui titoli nobiliari sembrano avere origini oscure.

OPEN TO FALLIMENTO di Giorgio Mottola collaborazione Greta Orsi e Norma Ferrara immagini Carlos Dias, Fabio Martinelli, Andrea Lilli montaggio e grafiche Giorgio Vallati

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Agorà – Rai3 - 17/10/2020) Io nella vita faccio l’imprenditore

FORNITORE KI GROUP Quando mi ha detto, guarda è un’azienda di famiglia, per me è il lavoro di mio figlio e non ho intenzione di farlo fallire. Mi sono fidata. E probabilmente penso che sia la persona peggiore di cui fidarsi sulla faccia della terra.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Agorà – Rai3 - 14/06/2019) Nella vita faccio l’imprenditore, abbiamo un gruppo con circa 300 dipendenti

RAFFAELLA CAPUTO – EX DIPENDENTE KI GROUP Quando sono subentrati la Santanchè, i Mazzaro, noi pensavamo che bello, un senatore della Repubblica. E invece è iniziato proprio il declino

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Omnibus – La 7- 17/09/2020) Moltissimi lavoratori non hanno ancora ricevuto la cassa integrazione e solo grazie agli imprenditori hanno potuto mantenere i loro figli e andare a far la spesa perché come me, ma come tanti altri, abbiamo anticipato la cassa integrazione.

MILENA RAISE - EX DIPENDENTE KI GROUP Assolutamente non vero.

MILENA RAISE - EX DIPENDENTE KI GROUP E lei si andava a vantare che invece lo faceva con tutti i dipendenti di tutte le sue aziende

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Daniela Santanché dopo Giorgia Meloni, rappresenta sicuramente da 20 anni il volto femminile della destra italiana. Ha esordito come consigliera provinciale a Milano, nel 1999, con An, nel 2001 entra in parlamento, nel quarto governo Berlusconi viene nominata sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio con delega all’attuazione del programma e poi, nell’ottobre del 2022, viene nominata ministro del turismo. Ecco, in questa sua ascesa ha avuto un ruolo la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, con il quale la Santanchè vanta un rapporto trentennale, da quando cioè era una sua collaboratrice agli esordi. Ma la svolta politica, immaginiamo anche imprenditoriale, avviene quando incontra Silvio Berlusconi. Ora la Santanchè calpesta da decenni il palcoscenico della politica; tuttavia, ha sempre rivendicato pubblicamente l’orgoglio di essere un’imprenditrice. Un orgoglio però che maschera dei pessimi risultati. Almeno a leggere i bilanci. La Santanchè è proprietaria del gruppo Ki Group e Verde Bio, campo imprenditoriale dell’alimentare biologico ma è anche proprietaria di alcune aziende che sono nel campo della comunicazione e della editoria. E sono in pancia, quella galassia di società, che vanno tutte col nome Visibilia, dentro ci sono anche Novella 2000, Ciak e Visto, le riviste. E però anche queste, a giudicare dai bilanci, non è che le cose vadano così bene. Si tratta anche qui di società quotate in borsa, che hanno presentato dei bilanci negativi negli ultimi anni e ci sono una schiera di fornitori non pagati, in alcuni casi anche fagocitati, e una nutrita schiera di dipendenti ecco che oggi hanno trovato il coraggio, messo da parte il timore di coinvolgere una potente senatrice e ministra della Repubblica italiana e hanno raccontato a Report come effettivamente ha gestito le sue società. A partire da quella che era un gioiellino, un’azienda, la Ki Group che ha rivoluzionato le abitudini alimentari degli italiani e la Santanchè e il suo ex fidanzato Mazzaro l’hanno rilevata nel 2011 salvandola da un possibile naufragio finanziario che aveva coinvolto un gruppo imprenditoriale emiliano. Ecco ma con quali soldi l’hanno salvata? E poi, come l’hanno gestita? Il nostro Giorgio Mottola

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando l’agricoltura biologica non era ancora di moda, alla fine degli anni ‘70, in uno di questi capannoni alle porte di Torino, un gruppo di imprenditori temerari decise di dar vita a una delle prime aziende italiane di distribuzione di prodotti biologici, La Ki Group. Una società che contribuirà a rivoluzionare le abitudini alimentari degli italiani.

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP E ad esempio, il primo chicco di Kamut venduto in Italia era stato venduto dalla nostra azienda, il primo litro di latte di riso è stato venduto da Ki Group, la prima produzione di proteine vegetali italiane, quindi tofu e seitan, era stata venduta da Ki Group.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino a una decina di anni fa quella di Ki Group era la storia di un’azienda modello, un’eccellenza del cosiddetto made in Italy, capace di esportare anche all’estero la produzione biologica italiana e di creare un vero e proprio orgoglio aziendale tra i propri dipendenti

GIORGIO MOTTOLA Com’era Ki Group quando è entrata?

MILENA RAISE - EX DIPENDENTE KI GROUP Si stava benissimo, si lavorava, perché si lavorava duramente ma era un’azienda… un gioiello. Poi a un certo punto è decaduto tutto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2006 i fondatori avevano venduto Ki Group a Bioera, una holding di proprietà della famiglia Burani che però quattro anni dopo viene travolta dallo scandalo di una bancarotta fraudolenta. A salvare Ki Group dalla tempesta che si profilava all’orizzonte si presenta una cordata di cui fanno parte Daniela Santanché e il suo ex compagno Canio Mazzaro.

RAFFAELLA CAPUTO – EX DIPENDENTE KI GROUP Quando sono subentrati la Santanchè, i Mazzaro, noi pensavamo che bello, un senatore della Repubblica. Pensavamo di riuscire a crescere ancora di più, anche perché abbiamo sempre avuto un buon fatturato.

GIORGIO MOTTOLA E lei pensava, siamo un’azienda sana, con la Santanchè non possiamo che migliorare.

RAFFAELLA CAPUTO – EX DIPENDENTE KI GROUP Esatto, e invece è iniziato proprio il declino della Ki Group

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’epoca dell’acquisizione di Ki Group, Daniela Santanché era senatrice e sottosegretaria del governo Berlusconi. L’ex fidanzato Canio Mazzaro, che era a capo della cordata, riesce a ottenere il controllo della società con un minimo esborso, grazie a un accordo molto favorevole concesso dal Monte dei Paschi di Siena. Come dimostra questo documento, rimasto finora inedito, Mazzaro si fa carico del debito di sei milioni di euro che la famiglia Burani aveva contratto con la banca toscana. Il Monte dei Paschi però si mostra con lui molto comprensivo e rimanda il rimborso completo del prestito a dieci anni dopo.

GIORGIO MOTTOLA Alla fine dei conti Canio Mazzaro e Daniela Santanchè quanti soldi ci mettono per rilevare Ki Group e Bioera.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Probabilmente non ci mettono un euro perché il gruppo era talmente disastrato che aveva un patrimonio netto negativo di dieci milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Però Mazzaro si fa carico con Monte dei Paschi di un debito di oltre sei milioni di euro.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Monte Paschi gli consente di pagarli in dieci anni, con i primi due anni senza pagare niente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei primi anni Daniela Santanchè e il suo ex fidanzato lasciano alla guida della Ki Group il vecchio amministratore delegato, Dino Poggio, che mantiene dritta la barra dell’azienda e garantisce fatturati altissimi. È infatti l’età d’oro del biologico e nel 2015 i ricavi arrivano alla cifra record di 55 milioni di euro.

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Per tantissimi anni l’azienda è stata gestita dall’amministratore delegato che è stato con noi molti anni ed è stata gestita in maniera brillante per cui la proprietà non entrava.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Santanché e Mazzaro sono assenti nella gestione dell’azienda, ma ben presenti quando si tratta di riscuotere. I due si avvicendano più volte alla presidenza del cda di Ki Group e della controllante Bioera, assegnandosi compensi che nel tempo sono arrivati a superare i 600mila euro all’anno. In meno di nove anni, solo come stipendi per le cariche sociali, Daniela Santanchè si è portata a casa due milioni e mezzo di euro e Canio Mazzaro sei. Non solo, per anni Ki Group ha pagato a Mazzaro l’affitto di un’automobile di lusso e di una casa in centro a Milano, indicato in bilancio come ufficio di rappresentanza.

GIORGIO MOTTOLA Questi lauti compensi che Santanchè e Canio Mazzaro si auto attribuivano erano proporzionati ai risultati che otteneva la società in quel periodo?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Assolutamente no. Addirittura, nel 2016 perde 2 milioni e 7, consolidato di gruppo, e loro prendono compensi per un milione e 663 mila euro. Cioè…

GIORGIO MOTTOLA Contribuiscono alla perdita finale della società in modo consistente.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh beh, certo. Più di metà della perdita deriva dai loro compensi. E poi c’erano anche gli altri benefit, oltre ai compensi. C’erano le case, le macchine, no? Un appartamento a Milano che si legge dai bilanci costava cento mila euro di affitto. Questo appartamento…

GIORGIO MOTTOLA All’anno?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO All’anno, sì. Sarà 8mila euro al mese. Beh, ma Milano è cara.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il cda di Ki Group si autoassegna un compenso complessivo di 500mila euro all’anno, quando l’intero ammontare degli stipendi dei 70 dipendenti non superava i due milioni di euro. Nei consigli di amministrazione di Ki group e della controllante Bioera vengono cooptati la sorella della Santanché, Fiorella Garnero, la nipote Silvia Garnero e il figlio maggiore di Canio Mazzaro, Michele. Nel cda di Ki Group trova posto anche una vecchia conoscenza di Daniela Santanché, l’immarcescibile Paolo Cirino Pomicino.

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Io ho conosciuto Daniela Santanché e Paolo Santanché, il marito, nel 1988.

GIORGIO MOTTOLA È vero che è lei ad aver presentato Daniela Santanché a Silvio Berlusconi?

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 È vero, perché andammo a villa Certosa in Sardegna, le feci una presentazione come è giusto che sia cioè una presentazione di qualità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo l’incontro con Berlusconi, la carriera politica di Daniela Santanché sembra decollare. Viene eletta prima consigliera provinciale a Milano e nel 2001 fa il suo ingresso alla Camera di Deputati con Alleanza Nazionale.

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Lì incominciò la mia alfabetizzazione politica nei riguardi di Daniela.

GIORGIO MOTTOLA È vero che all’epoca lei scriveva i discorsi alla Santanché?

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Sulla finanziaria sì. Lei andò in commissione bilancio e mi disse: ma io non capisco niente. Ho capito, ma uno studia. Lei invece non studiò. Per cui alla fine della giostra facevo io il…

GIORGIO MOTTOLA Il ghost writer come si suol dire…

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Esatto

GIORGIO MOTTOLA Lei è stato un po’ il pigmalione di Daniela Santanché

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Io devo dire… quello è stato il mio fallimento

GIORGIO MOTTOLA Addirittura, è stato il suo fallimento?

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 E ma sì, perché quello che io pensavo fosse la sua grande passione politica, lei non è una donna appassionata di politica, lei è una donna appassionata di potere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come si intuisce dalle parole dell’ex ministro, in quegli anni i rapporti con la sua protetta si deteriorano. Ciononostante, nel 2012, ritroviamo Cirino Pomicino nel cda dell’azienda della Santanché e di Canio Mazzaro addirittura con la carica di vicepresidente di Ki group

GIORGIO MOTTOLA Che cosa ci fa il famigerato Paolo Cirino Pomicino nel cda della Ki Group?

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Mentre mi ero consumato nel rapporto con Daniela, ero diventato molto amico del compagno dell’epoca, Canio Mazzaro. Canio aveva appunto la Ki Group, mi chiese di fare il vicepresidente. Devo aggiungere che io avevo bisogno di lavorare, e quindi devo dire fu un atto di cortesia nei miei confronti.

GIORGIO MOTTOLA Perché lei di biologico che cosa ne sa?

PAOLO CIRINO POMICINO –MINISTRO DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA 1989-1992 Io non capivo niente però poi insomma ho fatto il ministro della Repubblica, quindi…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ai tempi di Pomicino, Ki Group era ancora la gallina dalle uova d’oro dell’impero imprenditoriale di Daniela Santanché. Ogni anno sfornava utili a sei cifre, ma invece di reinvestire i profitti nell’azienda, venivano dirottati nelle tasche della proprietà e degli azionisti come dividendi.

GIORGIO MOTTOLA La proprietà faceva investimenti nell’azienda?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP No. C’era la possibilità di investire o nella produzione. E questo tipo di investimento non è mai stato fatto. Per quanto riguarda il personale interno, essendo noi un’azienda di distribuzione, quello che potevi fare era avere un parco clienti importanti e avere nuove distribuzioni piuttosto che persone con un certo spessore che magari ti indicassero quali erano i segmenti da sviluppare, no? Questa roba non c’è stata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2017, per divergenze con la proprietà, il vecchio amministratore Dino Poggio abbandona la Ki Group e Daniela Santanché decide di prendere in mano le redini dell’azienda.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Facebook: FIERA SANA 06/09/2019)) Siamo qui nell’azienda Ki, che è un’azienda riconosciuta come distribuzione e produzione e oggi lanciamo dei prodotti nuovi perché noi crediamo nei prodotti italiani, fatti da artigiani italiani, prendendo il meglio di ogni regione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed effettivamente Ki Kroup prendeva il meglio dalle aziende italiane, il problema però è che lo pagava con grandissimo ritardo o non lo pagava affatto. Dal 2018, quando Santanché e Mazzaro subentrano nella gestione diretta dell’azienda, la Ki Group ha enormi difficoltà nel saldare la merce ai propri fornitori. E così centina di aziende italiane iniziano a bloccare gli ordini.

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Da lì arrivavano delle promesse di pagamento che anche io delle volte ho fatto. Mi sono ritrovata a chiamare fornitori storici dicendo: non ti preoccupare, stai tranquillo, guarda che poi il mese prossimo ti pagheremo. E questi hanno rimandato la merce e poi noi non li abbiamo pagati.

GIORGIO MOTTOLA Ma chi è che suggeriva questa strategia, chi è che diceva: dì che pagheremo e poi però non accadeva?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Eh, la proprietà.

GIORGIO MOTTOLA Qual era il ruolo di Daniela Santanchè rispetto ai fornitori?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Il suo impegno era soprattutto dal punto di vista delle forniture.

GIORGIO MOTTOLA E lei ci metteva la faccia?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Esattamente

GIORGIO MOTTOLA Il risultato è che i fornitori continuavano a crederci?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Sì, assolutamente, i fornitori e anche noi dipendenti

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Molte aziende si fidano e mal gliene incoglie. Nel 2018, i debiti di Ki Group verso i fornitori arrivano a oltre 8 milioni di euro, quasi un quarto del fatturato. Non vengono pagati grandi marchi del biologico come Alcenero e Provamel, del gruppo Danone, e in tanti emettono ingiunzioni di pagamento e pignoramenti a carico delle aziende della Santanché e dell’ex fidanzato. Ma a subire il danno maggiore sono decine di piccole e medie imprese del made in Italy biologico che consegnano i prodotti alla Ki Group senza essere mai saldati.

GIORGIO MOTTOLA Ministro buongiorno, sono Giorgio Mottola di Report Rai3

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Sì buongiorno, attenzione

GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle se in quanto ministro del turismo, quindi rappresentate dell’immagine dell’Italia all’estero si sente un po’ a disagio per il fatto che alcune delle sue aziende, come Ki Group, hanno messo in difficoltà molte società del settore del biologico che sono l’eccellenza del vostro così decantato made in Italy?

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Non mi risulta

GIORGIO MOTTOLA Non le risulta? DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO No, dovete poi parlare con chi se n’è occupato, con l’amministratore delegato e gli organi predisposti.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha avuto degli incarichi apicali all’interno di Ki Group?

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO No, da molti anni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, anche altre testimonianze che abbiamo raccolto confermano un coinvolgimento diretto del ministro nelle promesse non mantenute ai fornitori di Ki Group. Tra le risaie della provincia di Vercelli abbiamo trovato una piccola azienda che per anni ha venduto alla società della Santanché riso e gallette biologiche. Da un certo momento in poi anche loro hanno avuto enormi difficoltà ad essere pagati da Ki Group

FORNITORE DI KI GROUP Ho ricevuto diverse chiamate dalla signora Santanché diretta, perché a un certo punto io gli ho sospeso le consegne. Gli ho detto se non mi paghi io ti sospendo le consegne e ti faccio un’ingiunzione di pagamento. Mi chiama la signora e quando mi ha detto, guarda è un’azienda di famiglia, per me è il lavoro di mio figlio e non ho intenzione di farlo fallire, mi sono fidata. E probabilmente penso che sia la persona peggiore di cui fidarsi sulla faccia della terra.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, Daniela Santanchè avrebbe fornito una rappresentazione diversa dalla realtà. Con l’ex fidanzato Mazzaro avevano rilevato la società Ki Group grazie anche a un prestito benevolo, almeno a leggere le condizioni di Monte dei Paschi di Siena. Dopo un po' di tempo, comunque, l’azienda ha cominciato a zoppicare, hanno accumulato 8 milioni di euro di debiti nei confronti dei fornitori. Cosa è successo? Visto che quello bio comunque è molto apprezzato come mercato. Insomma,iIntanto cedendo alla GDO, la grande distribuzione, non si è fatta trovare pronta. Necessitavano investimenti che non sono stati fatti. Poi critica è stata l’interruzione del rapporto con il vecchio e abile manager Dino Poggio che è l’uomo che ha gestito il marchio fino al 2017 poi, una volta preso il controllo, la Santanchè e Mazzaro, hanno messo nel cda di Ki Group e nella sua controllante Bioera, parte dei propri familiari: la sorella di Santanché, Fiorella, la nipote Silvia, e poi il figlio maggiore di Mazzaro, Michele. Complessivamente il cda, quindi con altre persone, insomma incassava 500 mila euro l’anno. C’era anche seduto, all’interno del cda quello che era il ghost writer della Santanchè politica, l’ex ministro Cirino Pomicino che però non era soddisfatto della sua allieva. Non studia dice e quando doveva presentarsi nelle commissioni di bilancio, l’ex ministro del bilancio dei governi Andreotti era costretto a fare il ghost writer e scrivere lui le relazioni. Ora, a dirla tutta, non è che la Santanchè fosse competente in materia di alimentare e bio, tuttavia ha usato la sua influenza, il suo appeal di senatrice per convincere i fornitori a continuare a fornire i prodotti, anche quando non erano pagati. E poi per evitare le ingiunzioni, i controlli che si devono alle società quotate in borsa, ha anche creato una società quasi omonima della Ki Group, la Ki group srl invece della spa. Ecco, questa operazione di maquillage poi ha anche fagocitato qualcuno di questi fornitori che lei stessa aveva messo in difficoltà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ai fornitori Daniela Santanché promette puntualità nei pagamenti, ma specifica che a comprare gli ordini non sarà più Ki Group spa, ma una società appena costituita che fa sempre capo a lei e che ha quasi lo stesso nome: Ki Group srl

FORNITORE DI KI GROUP Nel frattempo, fanno giri strani tra spa e srl, così dall’oggi al domani ti spostano il saldo che tu avevi con il cliente Ki Group spa lo spostano su srl.

GIORGIO MOTTOLA Come mai a un certo punto Ki Group spa cede il ramo d’azienda principale, quindi la parte viva dell’azienda, in un’altra società appena costituita che si chiama Ki Group srl?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Il fatto di essere quotati in borsa era diventato un problema, nel senso che bisognava produrre molti documenti, c’era la necessità di avere i bilanci certificati e quant’altro e quindi la creazione della Ki Group srl ha dato la possibilità nuovamente di manovre molto più veloci.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A partire dal 2019 i numeri di Ki Group spa sono sempre più foschi e i debiti sempre più preoccupanti. I bilanci dell’azienda vengono sistematicamente bocciati dalla società che li revisiona. Ma invece di dichiarare fallimento, Daniela Santanché e Canio Mazzaro, preferiscono tenere in vita Ki Group Spa, trasformandola in una scatola vuota. Tutte le attività che producono profitti vengono trasferite nella neonata Ki Group srl, in cui assume un ruolo operativo anche il figlio della senatrice, Lorenzo Mazzaro. Cambia il nome ma la sostanza e i problemi rimangono invariati.

FORNITORE DI KI GROUP A ottobre 2021 smettono di pagare e io inizio con diverse mail a dirgli, guarda che hai questo saldo non pagato, questo non pagato. Questi mandano avanti il figlio.

GIORGIO MOTTOLA Lorenzo o Michele?

FORNITORE DI KI GROUP Lorenzo

GIORGIO MOTTOLA Quindi il figlio proprio della Santanché

FORNITORE DI KI GROUP Mazzaro, sì. Io a un certo punto decido basta, gli chiudo le serrande, non gli consegno più niente.

GIORGIO MOTTOLA Di quanto eravate esposti in quel momento?

FORNITORE DI KI GROUP Siamo esposti ad oggi di 13mila euro. Creano una specie di concordato e di 13 mila euro arriva questa pec dove loro ti dicono te ne do due mila. E io gli ho risposto: ma mi state prendendo in giro?! Io i miei fornitori li ho già pagati, questa per me è perdita netta. Non mi rispondono più al telefono. Non mi risponde più né il figlio né lei.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha provato a chiamare anche la Santanché?

FORNITORE DI KI GROUP Certo, scomparsi, volatilizzati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E nella sua stessa situazione si trovano decine di altri imprese del made in Italy biologico. Alla chiusura del bilancio del 2021, dopo due anni di attività, il debito verso i fornitori da parte di Ki Group srl ammontava già a oltre 3 milioni e mezzo di euro. E una delle aziende più danneggiate si trova qui, in provincia Biella. Si tratta di un’altra eccellenza del made in Italy biologico, l’At&B, che produceva il marchio Verde Bio, specializzato in biscotti e prodotti di panificazione. Verso questa piccola azienda tra il 2018 e il 2020, Ki Group è arrivata a maturare un debito, per mancato pagamento delle forniture, pari a circa 1 milione di euro.

GIORGIO MOTTOLA Quando chiudevate i bilanci, quanto pesavano i soldi che non vi dava Ki Group?

ALBERTO GAMBA – EX AMMINISTRATORE DELEGATO AT&B E beh sa, avendolo come distributore prima unico poi come distributore principale, era dal 40 al 60 per cento. Cioè difficoltà finanziarie a manetta.

GIORGIO MOTTOLA Cioè, quella roba vi ha azzoppato?

ALBERTO GAMBA – EX AMMINISTRATORE DELEGATO AT&B Eh sì, sostanzialmente sì ma infatti abbiam dovuto mettere l’azienda in liquidazione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma dalle difficoltà causate all’azienda che produce il marchio Verde Bio, Santanchè e l’ex fidanzato Canio Mazzaro riescono a ricavarne una grande opportunità. Approfittano della crisi provocata all’azienda e l’acquisiscono nel loro gruppo.

GIORGIO MOTTOLA In qualche modo siete stati un po’ strozzati da questa dinamica e quasi costretti a cedere a loro il marchio?

ALBERTO GAMBA – EX AMMINISTRATORE DELEGATO AT&B Ma sì, diciamo che adesso il ramo d’azienda è affittato a Ki Group

GIORGIO MOTTOLA Questo affitto a loro più o meno quanto costa all’anno?

ALBERTO GAMBA – EX AMMINISTRATORE DELEGATO AT&B Gli costa 50mila euro

GIORGIO MOTTOLA Niente?!

ALBERTO GAMBA – EX AMMINISTRATORE DELEGATO AT&B Ma sì

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così con 50mila euro all’anno, Daniela Santanché e Canio Mazzaro hanno acquisito di fatto il controllo di un’azienda, che grazie al marchio Verde Bio arrivava a fatturare tra i 2 e i 3 milioni di euro all’anno. Un’operazione provvidenziale per la famiglia allargata del ministro del turismo. Anche Ki Group srl si è infatti schiantata. E di nuovo, invece di dichiarare fallimento, tutte le attività vengono spostate in una nuova società che si chiama, udite udite, Verde Bio. L’intera operazione viene condotta in prima persona da Daniela Santanché. GIORGIO MOTTOLA Avete contrattato l’acquisizione da parte di Ki Group proprio con la Santanché?

ALBERTO GAMBA – EX AMMINISTRATORE DELEGATO AT&B Si

GIORGIO MOTTOLA Come è stato l’incontro?

ALBERTO GAMBA – EX AMMINISTRATORE DELEGATO AT&B Ma sa, lei è una public relation woman per cui in quell’incontro è stata molto disponibile, gentile. Poi quando ha capito che l’affare era portato in porto, lì è rivenuta fuori Grimilde.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la Grimilde delle fiabe almeno era esperta di magia e ne sarebbe servita davvero tanta per mettere a posto i conti di Ki Group che, durante la gestione Santanchè, andavano malissimo e non per colpa della congiuntura internazionale o della crisi economica visto che l’alimentare è stato uno dei pochi settori che ha retto in Italia negli ultimi anni. Quali siano state le cause della crisi del gruppo ce lo spiega un consulente che, per conto della società della Santanchè e di Mazzaro, ha seguito la quotazione in borsa.

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO Quando l’abbiamo quotata noi, aveva un valore di borsa di 35 milioni, adesso, a febbraio, la società aveva valore di borsa di 469 mila euro. Quindi da 35 milioni a 469 mila euro.

GIORGIO MOTTOLA E come è potuto succedere?

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO Eh, errori gestionali. Questi sono stati errori gestionali pesanti fatti dalla società nel corso degli anni.

GIORGIO MOTTOLA Non è la crisi economica?

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO No, no, no… qui perché i prodotti bio sono sempre prodotti che hanno avuto anzi, oggi li troviamo sulle tavole di tutti, li troviamo nei supermercati, loro hanno fatto una serie di errori, han perso un certo tipo di management tale per cui la società si è pian piano distrutta da sé, è morta, sta morendo per consunzione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E a pagare gli errori gestionali della Santanché e di Canio Mazzaro, oltre ai fornitori sono stati in prima persona i dipendenti della Ki Group

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Alla fine, tutti gli agenti non hanno più ricevuto il loro compenso ma poi l’azienda si è completamente svuotata. Credo che oggi ci sia ancora un dipendente.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Twitter 27/12/2021) Eccoci qua! È arrivato anche il Natale 2021. Che bello il Natale! Vi piace il centrotavola? Qualcuno dirà che è troppo, chi se ne frega. Lo faccio da sempre! Eccoci qua: Dimitri! Auguri! Lorenzo, la nonna Rosetta, Canio! Insomma, che bello, però pensiamo anche a quelli che tutto questo non ce l’hanno. E adesso vi saluto anch’io: Buon Natale!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mentre la senatrice festeggiava con il villaggio natalizio animato al centrotavola, la maggior parte dei dipendenti di Ki Group era stata da poco licenziata. Messa alla porta senza neanche la liquidazione.

RAFFAELLA CAPUTO – EX DIPENDENTE KI GROUP Io devo prendere il tfr che è pari a 40mila euro circa

MILENA RAISE - EX DIPENDENTE KI GROUP Netti 28 mila euro, di tfr

MARIA TEODOSIO - EX DIPENDENTE KI GROUP 31mila euro, è tutta la mia liquidazione sì

GIORGIO MOTTOLA A lei che era il direttore commerciale quanti soldi deve ancora la Santanché?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP 44mila euro, sì

GIORGIO MOTTOLA E glieli sta facendo penare questi 44mila euro?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Sì, decisamente

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E sono decine i dipendenti che ancora non hanno ricevuto il tfr. L’ammontare complessivo delle liquidazioni che Ki Group deve ancora pagare è di circa 800mila euro

GIORGIO MOTTOLA E ci sono anche molti dipendenti di Ki Group che aspettano il tfr

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Sì, ha ragione, è perfetto

GIORGIO MOTTOLA Che cosa dice ai dipendenti che aspettano?

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Che non me ne occupo, non lo so.

GIORGIO MOTTOLA Ki Group spa è diventata Ki Group srl, Ki Group srl è diventata Verde bio, un gioco quasi di scatole cinesi

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Glielo dico, risponderei volentieri però siccome non lo so perché non me ne occupo non posso darle delle risposte.

GIORGIO MOTTOLA Fino al 2022…

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Quindi andate a parlare con chi se ne occupa, non con me. Andate a parlare con gli organi predisposti, vi risponderanno.

GIORGIO MOTTOLA Però fino al 2022 lei è stata operativa all’interno dell’azienda?

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Grazie, è stato molto cortese.

GIORGIO MOTTOLA Fino a quando Daniela Santanché è stato operativa all’interno dell’azienda?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Fino alla fine. Fino al 2022, giugno del 2022 lei comunque ha continuato ad interessarsi dell’azienda.

GIORGIO MOTTOLA Ma con un ruolo dirigenziale?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Collaborava con Canio nel dare le direttive

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E la versione del ministro Santanché sulla sua estraneità all’azienda nel momento dei licenziamenti e dei mancati versamenti del tfr è smentita anche da queste chat, risalenti al 2022, con uno dei pochi dipendenti rimasti, a cui impartiva istruzioni precise sulla gestione delle attività quotidiane dell’azienda

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Molto bene, mi usi tutte le volte che servo, che abbiamo tanti bisogni. Quante ne abbiamo di pedane di latte?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il latte inacidisce. Insomma, la Santanchè, contrariamente a quanto affermato al nostro Giorgio Mottola, seguiva di persona le sorti dell’azienda, un po' meno, secondo la fondazione OpenPolis, i lavori parlamentari. Avrebbe accumulato nel corso dell’ultimo mandato come senatrice, fino al 2018, il 70 % delle assenze. Ecco per rimanere invece alle performance imprenditoriali delle sue aziende, aveva detto che Ki group era stata valutata, quotata in borsa per 35 milioni di euro, a febbraio scorso il suo valore era sceso a 469 mila euro. Ecco, sulle perdite hanno impattato anche gli emolumenti che negli anni hanno incassato la Santanché e il suo ex nel ricoprire le cariche sociali, sia di Ki Group che della controllante Bioera. Negli ultimi nove anni la Santanchè avrebbe incassato oltre due milioni e mezzo di euro, mentre Mazzaro sei. Inoltre, la Ki Group avrebbe pagato l’affitto per una macchina lussuosa nella sua disponibilità e anche quello di un appartamento a Milano, presentato come ufficio di rappresentanza e anche un appartamento a Londra. Poi ci sono gli spostamenti di denaro da Ki Group, quelli infragruppo, verso il gruppo Visibilia che si occupa di comunicazione e editoria formalmente per prestazioni rese, l’affitto di uffici, per la raccolta pubblicitaria e anche per delle consulenze tra queste c’è Visibilia Editore. Era nata sulle ceneri di una società che nel 2014 Santanchè aveva acquistato la Pms che faceva riferimento a un imprenditore vicino a Luigi Bisignani, quel Luigi Bisignani che durante le indagini sulla P4 risulta essere il consigliere preferito della Santanché, la guidava e la consigliava in quasi tutte le operazioni più importanti. Ora Visibilia editore ha in pancia le riviste Novella 2000, Ciak, Visto, Pc Professionale, Ville e Giardini, che a loro volta pagano a Visibilia srl l’affitto di computer e uffici e la pubblicità su queste riviste la raccoglie invece Visibilia Concessionaria, che è sempre di proprietà della Santanché. Raccoglie anche la pubblicità per Il Giornale, e anche alcuni quotidiani che escono a distribuzione gratuita, fino al 2010 l’aveva raccolta per Libero e per Il Riformista. L’ha raccolta anche per l’Ordine di Como, quando c’era come direttore il suo ex compagno Sallusti. Ora, al di là di tutte queste sinergie, insomma non è che le cose funzionino così bene a vedere i bilanci di Visibilia. Soprattutto quando era stata gestita dal suo attuale compagno: il principe Dimitri Kunz D’Asburgo Lorena Piast Bielitz Bielice Belluno Spalia Rasponi Spinelli Romano. Così si chiama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante l’emergenza Covid, Daniela Santanché è stata tra i politici più agguerriti nel denunciare le difficoltà create agli imprenditori dalle chiusure dovute alla pandemia

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Agorà – Rai3 - 20/08/2020) Il sottosegretario mi deve spiegare perché questo governo dice a me imprenditore indebitati perché sei stato chiuso! Ma io non ho chiuso per andare al mare!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In tutti i suoi interventi la senatrice ha sempre rivendicato di non parlare solo da politico ma innanzitutto da imprenditore.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Agorà – Rai3 – 17/10/2020) Io nella vita faccio l’imprenditore e ricordo alla De Petris che se gli imprenditori non avessero anticipato la cassa integrazione che prenderemo poi… avremo qualche milione di lavoratori senza lo stipendio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su questo aspetto in particolare dell’anticipo della cassa integrazione la senatrice ha insistito in più occasioni, dichiarando pubblicamente di aver rimediato di tasca sua ai ritardi dello Stato

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Omnibus - La7 – 17/09/2020) Voi siete consapevoli che moltissimi lavoratori non hanno ancora ricevuto la cassa integrazione? E solo grazie agli imprenditori hanno potuto mantenere i loro figli e andare a far la spesa perché come me, ma come tanti altri abbiamo anticipato la cassa integrazione.

MILENA RAISE – EX DIPENDENTE KI GROUP Assolutamente non vero. Noi aspettavamo che l’Inps ci pagasse dopo tre, quattro mesi

GIORGIO MOTTOLA Non ha mai anticipato lei i soldi?

MILENA RAISE – EX DIPENDENTE KI GROUP Mai. E lei si andava a vantare del fatto che invece lo faceva con tutti i suoi dipendenti di tutte le sue aziende

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante la pandemia, qualche problema con i dipendenti sembra esserci stato anche nell’altra società di Daniela Santanché, Visibilia, l’azienda con sede a Milano proprietaria delle riviste Novella 2000, Visto e Ciak.

EX DIPENDENTE VISIBILIA C’è un dipendente che ha scoperto di essere stato messo in cassa integrazione a zero ore

GIORGIO MOTTOLA Quindi non doveva lavorare

EX DIPENDENTE VISIBILIA Nessuno gli ha detto di smettere di lavorare e ha continuato la sua attività consueta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con la cassa integrazione a zero ore, lo Stato si impegna a pagare la quasi totalità dello stipendio di un lavoratore, a patto però che l’attività del dipendente venga sospesa. E invece la dirigenza di Visibilia avrebbe approfittato del lavoro di una propria dipendente imponendole il solito orario, sebbene a pagarla fosse l’Inps.

GIORGIO MOTTOLA È vietato dalla legge che un lavoratore presti servizio nonostante sia a zero ore? EX DIPENDENTE VISIBILIA È un reato penale. Truffa aggravata ai danni dello stato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La lavoratrice scopre di essere stata posta in cassaintegrazione a zero ore solo a distanza di sei mesi, quando riceve con ritardo le buste paga. Considerato che il suo ruolo era piuttosto rilevante all’interno dell’azienda, chiede spiegazioni direttamente all’amministratore delegato dell’epoca, Dimitri Kunz, fidanzato di Daniela Santanché

GIORGIO MOTTOLA Nel periodo del Covid con la cassa integrazione a zero ore, c’era gente che lavorava?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA No assolutamente no. Assolutamente no

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dimitri Kunz sostiene di non saperne nulla. Ma ecco come reagisce al telefono quando viene a scoprire che la dipendente ha presentato una denuncia in Procura.

 AL TELEFONO - DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Per carità, te ti sei messa in regola. Però magari hai messo in difficoltà l’azienda

EX DIPENDENTE VISIBILIA Ma questo è un reato penale

AL TELEFONO - DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Io ero sicuramente certo che tu fossi al corrente di tutto, era una cosa tacita…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Proprio come Ki Group, anche Visibilia spa è quotata in borsa ed è in gravi difficoltà economiche. Da anni non chiude un bilancio in positivo e la situazione si è fatta talmente grave che nel 2017 l’azienda ha licenziato tutti i dipendenti dei propri giornali.

GIORGIO MOTTOLA Visibilia li ha licenziati tutti a un certo punto

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Ma perché nessuno compra più i giornali. Quindi la necessità è che le testate siano estremamente leggere dal punto di vista dei costi: grande flessibilità e costi ridotti al massimo.

GIORGIO MOTTOLA Però lì oltre al problema del costo del lavoro c’era anche la questione che molti soldi andavano ad altre società del gruppo, ad esempio…

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Leggendo i bilanci si scopre infatti che grosse quantità di soldi sono usciti dalle casse della società capofila Visibila Editore verso altre aziende che fanno sempre riferimento a Daniela Santanché. Affitto degli uffici e dei computer e consulenze tecniche da anni vengono pagati a Visibilia srl. Mentre la pubblicità delle riviste viene affidata a un’alta società del ministro, Visibilia Concessionaria, che incassa i soldi degli sponsor ma non sembra averli restituirli prontamente alla capogruppo negli anni. Queste e altre operazioni sono state denunciate come opache da un azionista di minoranza di Visibilia, Giuseppe Zeno, residente alle Bahamas.

GIORGIO MOTTOLA La concessionaria continua a raccogliere la pubblicità e non paga la Visibilia editrice.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA In realtà c’è questo enorme, lunghissimo debito che si porta via da anni tra la Visibilia concessionaria e la Visibilia editore. Questo è assolutamente impensabile.

GIORGIO MOTTOLA Molti soldi andavano ad altre società del gruppo, ad esempio…?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA No

GIORGIO MOTTOLA Eh beh ci sono molti crediti, da parte di Visibilia spa verso le altre parti correlate

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Attenzione, no. Le prestazioni che venivano svolte venivano pagate con un certo ritardo perché quello era l’andamento. Però se lei vede tutti i debiti sono stati chiusi

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nell’ultimo bilancio pubblico di Visibilia Concessionaria del 2021 risulta in realtà un debito di 2,1 milioni di euro verso la capogruppo per la pubblicità raccolta e non versata poi nella cassa dei giornali. Negli ultimi anni Visibilia concessionaria ha venduto spazi pubblicitari per circa 120mila euro a Media Italia, società del Gruppo Armando Testa. L’azienda di comunicazione che si è aggiudicata la campagna di promozione del ministero del turismo guidato da Daniela Santanché, Open To Meraviglia

SPOT OPEN TO MERAVIGLIA Eccomi qua, salve a tutti. Probabilmente di vista già mi conoscete, mi chiamo Venere e sono una virtual influencer GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La realizzazione di questo spot è stata assegnata da Palazzo Chigi in modo diretto ad Armando Testa per 138 mila euro, appena 2mila euro sotto la soglia necessaria per indire una gara di appalto. Ma l’intera campagna costerà nove milioni euro, stanziati dall’Enit, l’ente per il turismo controllato dal ministro Santanché che negli anni ha mantenuto stretti rapporti personali con i vertici di Armando Testa. A partire da uno dei consiglieri d’amministrazione della società, Nicola Belli, che spesso d’estate è in compagnia della Santanché a Forte dei Marmi, dove ha una villa. Nel 2014 ha anche partecipato, in veste di motivatore, al programma The Apprentice di Flavio Briatore, all’epoca socio del ministro nella proprietà del Twiga. GIORGIO MOTTOLA Conosce Nicola Belli?

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Sì, lo conosco benissimo. Assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA Quindi ha avuto rapporti con Armando Testa societari, no?

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO No, con Armando Testa non ho mai lavorato nella mia vita prima di adesso.

GIORGIO MOTTOLA Però ci risulta in Media Italia comprava gli spazi pubblicitari per Visibilia.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO No, non mi risulta questo, non lo so sinceramente.

GIORGIO MOTTOLA Visto che avete dato un appalto importante ad Armando Testa senza nemmeno fare gara d’appalto tra l’altro.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Per altro non lo ha dato il ministero. C’è un problema preferite lavorare con le multinazionali?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La speranza è che la campagna Open to meraviglia possa avere più successo delle sue aziende. La situazione di Visibilia, infatti, è così critica che lo scorso novembre il tribunale di Milano ne ha chiesto il fallimento, revocato lo scorso aprile dopo il pagamento in extremis di una parte dei debiti. Nel 2019, per far fronte a una grave crisi di liquidità dell’azienda, Visibilia ha chiesto un prestito a una misteriosa società di investimento di Dubai, Negma.

GIORGIO MOTTOLA Ma perché non si è rivolta a una banca?

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Ah, forse perché la banca non glieli dava? Cosa c’è anche di assurdo in questo rivolgersi alla Negma? Che hanno fatto un contratto che prevede questo: che la Negma non ti presta soldi con gli interessi, ma ti presta i soldi acquistando delle tue obbligazioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In varie tranche Negma versa nelle casse di Visibilia circa tre milioni di euro, ottenendo in cambio obbligazioni, vale a dire pezzi di carta che possono essere convertiti in azioni di Visibilia. All’inizio sembra piovere manna dal cielo ma presto si rivela una piaga biblica.

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO Quindi io che sono azionista penso che l’arrivo di un fondo che mi sottoscrive delle obbligazioni mi farà andar bene la società, nella realtà mi provoca un crollo del titolo e io mi ritrovo ad avere della carta straccia

GIORGIO MOTTOLA Tu pensi che vengano per spegnere l’incendio…

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO E invece lo creano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Infatti, dopo averle convertite, Negma inizia a vendere le azioni di Visibilia e il titolo dell’azienda sprofonda sempre più in basso

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO Visibilia ha perso il 98 per cento praticamente del valore dell’azione, quindi da 3 euro e 68 a 20 centesimi.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO È una roba bruttissima questa… tecnicamente è geniale. Non so chi se l’ha inventata.

GIORGIO MOTTOLA Perché è un’operazione bruttissima?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Sostanzialmente è come se fosse una partita truccata dove vince sempre il banco. E il banco è Negma o chi per essa che fa questa operazione, ma è anche la società che comunque prende i soldi. Chi perde sono sempre gli azionisti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questo dalle Bahamas, l’azionista di Visibilia Giuseppe Zeno presenta un esposto in procura seocndo cui i profitti ottenuti da Negma con le operazioni di convenzione sarebbro stati la conseguenza di una manipolazione criminale del mercato azionario.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Quando doveva fare la conversione vendeva le azioni sul mercato in modo da far scendere il prezzo, poi dopo facevano l’operazione inversa: facevano salire il titolo, drogando il mercato. In Italia è un reato, si chiama manipolazione del mercato o anche turbativa d’asta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come dimostra lo studio realizzato da Ambromobiliare, Negma riusciva a convertire le azioni quando il titolo era molto basso e le vendeva poco dopo, quando il valore dell’azione di Visibilia improvvisamente risaliva. Con queste sistematiche plusvalenze, il fondo di Dubai è riuscito a guadagnare quasi seicentomila euro su un prestito di tre milioni.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA La domanda è: chi se le compra queste azioni se la società è attaccata dalla Procura della Repubblica, ha un’ispezione della guardia della finanza, perde regolarmente ogni anno da sempre, cioè non ha mai guadagnato

GIORGIO MOTTOLA Eh, chi se le compra queste azioni? GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Eh, questo è un mistero che noi vorremmo che la guardia di finanza, che la Banca d’Italia e la Borsa valori ci svelasse.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Spiegherebbe molte cose. Ora, Visibilia è una società quotata in borsa. Da anni chiude i bilanci in rosso. Nel 2017 aveva licenziato tutti i dipendenti delle riviste. Nel novembre scorso il tribunale di Milano aveva chiesto il fallimento, la proprietà, ancora Daniela Santanchè, aveva pagato in parte i debiti. Ha evitato in extremis il fallimento, poi ha ceduto le sue quote a Luca Reale Ruffino, ex Pdl lombardo, coinvolto in una storia di finanziamento illecito, poi assolto, che riguardava Romano La Russa, fratello di Ignazio. Già nel 2018, di fronte a una crisi di liquidità Santanchè e il suo compagno Kunz, chiedono un prestito a un fondo di Dubai, misterioso. Che interviene con tre milioni di euro. Ma si tratta di un prestito un po' anomalo, perché si tratta di un prestito obbligazionario convertibile. Intanto il fondo di Dubai incassa il 5% di commissioni e poi l’anomalia sta nel fatto che gli è concesso di poter convertire le obbligazioni in azioni quando decidono e vogliono e decidono sempre quando è il momento giusto. Cioè quando le azioni sono al prezzo più basso, poi le rivendono e ottengono delle ricche plusvalenze: 600 mila euro a fronte di 3 milioni di euro prestati. È un’operazione tecnicamente geniale- dice il nostro consulente Bellavia- però è bruttissima. È come se uno si siede ad un tavolo dove sa per certo già che vince solo ed esclusivamente il banco. Il banco in questa occasione è il fondo arabo Negma. Vince anche Visibilia che riesce ad ottenere una liquidità che altrimenti non avrebbe ottenuto, probabilmente se si fosse rivolta alle banche. Chi perde sempre sono gli azionisti. Infatti, le azioni sono crollate del 98 %. E solo quando Negma ha coinvolto anche altre società è intervenuta la Consob a dire basta! Stop. Queste operazioni non si fanno più. E’ rimasto però in piedi un azionista, quello delle Bahamas, l’irriducibile Giuseppe Zeno, che ora chiede di sapere dalla procura della repubblica, da banca d’Italia, dalla guardia di finanza, chi è il regista di queste operazioni, chi è che compra le azioni? Questo lo vedremo subito dopo il golden minute, rimanete qui.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tutto potrebbe essere più chiaro se solo si riuscisse a sapere chi c’è dietro il misterioso fondo di Negma di Dubai, che ha prestato 3 milioni di euro a Visibilia di Santanchè e del compagno Dimitri Kunz, ottenendo puntuali plusvalenze. Mentre i piccoli azionisti sistematicamente perdevano soldi

GIORGIO MOTTOLA Ma chi c’è dietro il fondo Negma?

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO Francamente non saprei. È una società con sede a Dubai quindi e probabilmente c’è dietro qualcuno che comunque non vuol pagar le tasse e non vuole farsi vedere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sul sito internet di Negma, si indica come fondatore un arabo un certo Elaf Gassam, ma nulla viene specificato sulla provenienza dei soldi usati per i prestiti fatti in Italia a Visibilia e le altre due società legate a Daniela Santanché, Ki Group e Bioera.

GIORGIO MOTTOLA Posso chiederle chi c’è dietro il fondo Negma a cui vi siete rivolti per ricapitalizzare…

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Non mi occupo di queste cose, gliel’ho già detto. Le risponderei molto volentieri ma non le so perché non me ne occupo.

GIORGIO MOTTOLA E a chi dobbiamo chiederle?

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Eh, agli amministratori delegati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quindi su consiglio del ministro, torniamo a parlare con l’amministratore delegato che ha fatto l’operazione Negma, il suo attuale fidanzato Dimitri Kunz.

GIORGIO MOTTOLA Lei mi ha detto di venire da lei a chiedere

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA A chiedere cosa? GIORGIO MOTTOLA Mi ha detto che le responsabilità non sono sue ma solo di chi gestiva Visibilia all’epoca. Perché eh vabbè lei era amministratore delegato? giusto

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Sì

GIORGIO MOTTOLA Chi c’è dietro questo fondo Negma? Prima domanda

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Ma non c’è nessuno, è un fondo che fa questo di lavoro. Perché voi pensate che ci debba essere per forza dietro qualcuno? Non è così

GIORGIO MOTTOLA Perché è un’operazione disastrosa, sia con Ki Group, sia con Visibilia, le aziende ne escono distrutte, guadagna soltanto Negma.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Quale sarebbe l’interesse dell’azienda di fare operazioni del genere no, visto che le aziende ne escono fuori distrutte?

GIORGIO MOTTOLA Eh, questa è la grande domanda!

GIORGIO MOTTOLA Chi c’è dietro o chi c’è davanti non cambia nulla. Il fatto sicuramente è che sono due interlocutori diversi, azienda e il fondo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dimitri Kunz tiene a precisarci che non c’è Visibilia dietro Negma, eppure non gli avevamo ancora posto la domanda. Dato il chiarimento non richiesto, qualche dubbio ci viene. Controllando nei bilanci, un nome attira la nostra attenzione: di Ignazio La Russa, che il 15 febbraio 2021 partecipa telefonicamente a una riunione del collegio sindacale di Visibilia.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Si riunisce il collegio sindacale, chiamano al telefono Ignazio La Russa

GIORGIO MOTTOLA Ma perché chiamano Ignazio La Russa?

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Perché è l’avvocato della società

GIORGIO MOTTOLA Lo studio La Russa è consulente di Visibilia?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Lo studio La Russa è consulente di Visibilia… no!

GIORGIO MOTTOLA Come no! E perché chiamate lui? E non chiamate qualcun altro? Voi chiamate durante una riunione, credo del collegio sindacale, proprio Ignazio La Russa, lo scrivete nel bilancio, la nota integrativa.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA No, non mi ricordo, questo evento qua non…

GIORGIO MOTTOLA Sì, sì questo glielo assicuro

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA No, io sinceramente questa cosa qui non me la ricordo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma eccolo il verbale, nero su bianco viene segnalata la partecipazione via telefono dell’avvocato Ignazio La Russa alla presenza di tutto il collegio sindacale, di Daniela Santanché e del nostro Dimitri Kunz. Nello stesso periodo La Russa non svolgeva attività legale in prima persona solo per Visibilia, ma anche per Negma. Per conto della società di Dubai, l’attuale presidente del Senato invia al quotidiano online Milano Today una diffida con in calce la sua firma Ignazio Benito Maria La Russa

ALFREDO FAIETA – GIORNALISTA MILANO TODAY L’avvocato La Russa ci aveva già scritto prima di questa diffida di Negma in qualità di avvocato difensore di Visibilia editore e quindi a un certo punto noi ci troviamo con l’avvocato La Russa difensore sia di Visibilia Editore che è la società che acquisisce il denaro di Negma, che come avvocato della società che invece finanzia…

GIORGIO MOTTOLA Presidente scusi, come mai lei è avvocato sia delle società di Santanché

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Senti adesso, levati, levati!

GIORGIO MOTTOLA Sia delle società di Santanché che del fondo Negma, chi c’è dietro il fondo Negma?

GIORGIO MOTTOLA C’è una circostanza un po’ strana, cioè avete lo stesso avvocato. La Russa, Ignazio La Russa fa l’avvocato per Visibilia e fa anche l’avvocato però per fondo Negma.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA E allora?

GIORGIO MOTTOLA E allora è una circostanza un po’ curiosa.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Non è l’avvocato del fondo Negma

GIORGIO MOTTOLA Si, il fondo Negma ha mandato delle smentite ai giornali e la firma era di Ignazio La Russa

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Ha mandato delle smentite, non è l’avvocato… non lo so esattamente, però voglio dire… non vedo comunque…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi tempi Dimitri Kunz è diventato l’uomo di fiducia delle attività imprenditoriali di Daniela Santanché. Dopo la nomina a ministro del turismo, per evitare conflitti di interesse, ha ceduto la maggior parte delle sue quote del Twiga, lo stabilimento balneare di cui era proprietaria insieme a Flavio Briatore, proprio a Dimitri Kunz, che nei documenti ufficiali si presenta con l’intestazione di una corona stilizzata e la chilometrica firma Principe Dimitri Kunz D’Asburgo Lorena Piast Bielitz Bielice Belluno Spalia Rasponi Spinelli Romano.

GIORGIO MOTTOLA Ma come le viene questo titolo nobiliare?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Allora il titolo non lo so come mi viene

GIORGIO MOTTOLA Come non lo sa come le viene? Perché suo padre si chiamava Alberto Kunz quindi non nasce Lorena, Asburgo Lorena

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Allora, allora le dico una cosa. Se è venuto qui semplicemente per fare queste piccole cose io non sono interessato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quello degli Asburgo Lorena è una delle famiglie nobiliari più importanti della storia italiana, discendenti dall’imperatore d’Austria, hanno regnato nel Granducato di Toscana fino all’Unità d’Italia

GIORGIO MOTTOLA Oggi chi è l’erede di questo glorioso casato?

ALESSIO VARISCO – BIOGRAFO DEL CASATO ASBURGO LORENA L’erede unico è sua altezza imperiale e reale Sigismondo d’Asburgo di Lorena

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma sua Altezza Reale e Imperiale Sigismondo, in un’intervista al fatto quotidiano di qualche anno fa, aveva dichiarato di non avere idea di chi fosse Dimitri Kunz, diffidandolo a non usare il nome degli Asburgo Lorena.

GIORGIO MOTTOLA Ma dove le viene però visto che anche il principe Sigismondo dice che non la conosce e non sa lei chi sia.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Ma ha ragione assolutamente, noi non abbiamo nessuna pretesa di far parte di quel mondo lì. L’estratto di nascita è quello che comanda.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per ritrovare il suo estratto di nascita siamo dovuti arrivare nella Repubblica di San Marino, dove suo Padre, Alberto Kunz, di professione agricoltore e privo di titoli nobiliari, lo ha registrato così: Altezza Reale e Imperiale Kunz D’asburgo Lorena, principe reale e imperiale Dimitri Miesko Leopoldo. Che è il titolo di cui può fregiarsi solo l’erede ufficiale del casato Asburgo Lorena insieme ai suoi figli e ai suoi fratelli. Quindi, che ramo occupa Dimitri Kunz nell’albero genealogico della nobile famiglia?

ALESSIO VARISCO – BIOGRAFO DEL CASATO ASBURGO LORENA Io ho la genealogia, in questo testo ci sono non solo i granduchi ma c’è anche l’elenco nominativo di tutte le persone che appartengono

GIORGIO MOTTOLA Al casato

ALESSIO VARISCO – BIOGRAFO DEL CASATO ASBURGO LORENA Non mi compare nessun… qui…

GIORGIO MOTTOLA Dimitri Kunz

ALESSIO VARISCO – BIOGRAFO DEL CASATO ASBURGO LORENA Io questo proprio non… è la prima volta che sento

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma visto che il suo nome non compare nell’albero genealogico degli Asburgo Lorena, in base a quali presupposti, al momento della nascita a San Marino, è stato registrato come sua altezza reale imperiale?

GIORGIO MOTTOLA Quanto erano rigorosi i controlli sui titoli nobiliari dichiarati al momento della nascita negli anni 60 qui a San Marino.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO INTERNI - REPUBBLICA SAN MARINO No, non c’era nessun controllo, era la persona, il soggetto che si presentava all’ufficio di stato civile per dichiarare la nascita di un soggetto, il quale dichiarava che la persona era titolare di questi…

GIORGIO MOTTOLA Principe, conte, duca.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO INTERNI - REPUBBLICA SAN MARINO Quello che era insomma. È nato mio figlio, lui è barone, questo era il semplice…

GIORGIO MOTTOLA Quindi anche io se mio padre mi avesse registrato qui a San Marino potevo essere il principe Giorgio Mottola?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Eh, esatto!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sui documenti italiani di Dimitri, il nome principe non compariva fino agli anni 2000. Poi nel 2007 invece il predicato principe lo ritroviamo davanti al nome Dimitri. Circostanza piuttosto strana non solo per l’aggiunta successiva fatta all’anagrafe ma anche per il fatto che la Costituzione Italiana non riconosce i titoli nobiliari Ed è proprio la Costituzione a sancire che i titoli nobiliari non sono riconosciuti. E infatti, negli atti notarili anteriori agli anni 2000, il nome completo di Dimitri Kunz non riporta mai il predicato Principe. Che ritroviamo però nella sua carta di identità del 2007. Quindi probabilmente il nome Principe è stato aggiunto all’anagrafe.

GIORGIO MOTTOLA Ma è vero o no che lei ha cambiato il suo nome e ha aggiunto principe nel nome all’anagrafe?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA No, io non l’ho cambiato l’anagrafica, lo stato italiano il principe come titolo non lo riconosce quindi non lo aveva messo per questo motivo qua.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei ha il titolo di principe a livello di estratto di nascita?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Perché vuole insistere su una cosa se le dico che mi chiamo Dimitri?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Totò in Miseria e nobiltà, la commedia scritta da Eduardo Scarpetta, metafora della vita umana, della condizione umana concludeva dicendo, la vera miseria è la falsa nobiltà. Ora questo non è un concetto applicabile alla storia, alla vicenda del principe Dimitri perché lui stesso ci scrive che non è un discendente della famiglia del Granduca Sigismondo. Non si tratta dunque di una falsa nobiltà, non sono proprio titoli nobiliari i suoi. Sono semplicemente dei nomi con i quali è stato iscritto all’anagrafe di San Marino dal padre al momento della sua nascita e quindi dice, ha il diritto di utilizzarlo. Quello che invece è sicuramente miseria è la condizione in cui sono stati lasciati tanti dipendenti di Ki Group, Bioera, di Visibila. E sono in tanti. Come misere sono le quotazioni delle azioni delle società quotate in borsa che fanno riferimento alla Santanchè, e ai suoi ex o attuali compagni. Hanno puntato ad acquisire società quotate in Borsa, anche se andavano male, perché poi quando avevano bisogno di liquidità potevano ricorrere al mercato, ai piccoli azionisti. Insomma, in nove anni dagli azionisti di Ki group, Bioera hanno raccolto la bellezza di 23 milioni di euro. Nove sono finiti in emolumenti per la Santanché e l’ex compagno Mazzaro. Caso diverso invece quello di Visibilia, che in un momento di difficoltà di liquidità ha chiesto aiuto ad un fondo di Dubai, Negma, che ha concesso un prestito obbligazionario convertibile di tre milioni e poi gli è stato concesso di convertire le azioni quando voleva, al momento giusto, quando il prezzo era più basso e le ha rivendute realizzando delle ricche plusvalenze. L’unico punto in comune che abbiamo riscontrato è la consulenza legale dello studio dell’attuale presidente del Senato Ignazio La Russa fatta sia a Visibilia che al fondo arabo di Dubai. Su questa vicenda La Russa non ha voluto rilasciare nessuna risposta al nostro Giorgio Mottola. Mentre è rimasto all’oscuro il regista dell’intera operazione del fondo arabo. Mentre un sospetto su chi è invece il regista della cessione di Ita a Lufthansa ce l’abbiamo. Ecco ma questa è una spy story. 

(Nova il 22 giugno 2023) - "In merito al servizio andato in onda lunedì 19 giugno 2023 durante la trasmissione 'Report', ed alle conseguenti notizie di stampa riportate su alcune testate giornalistiche, il ministro senatrice Daniela Garnero Santanche' precisa che le suddette notizie risultano prive di corrispondenza con la verità' storica. 

Sono state rappresentate in forma del tutto suggestiva ed unilaterale per fornire una ricostruzione dei fatti che risulta radicalmente non corrispondente al vero, ispirata esclusivamente dalla finalità di screditare l'immagine e la reputazione della sottoscritta presso l'opinione pubblica. I responsabili della trasmissione televisiva erano stati preventivamente invitati ad evitare di diffondere notizie non veritiere, purtroppo invano. Per questi motivi ho dato mandato ai legali di fiducia per le necessarie iniziative nelle opportune sedi giudiziarie".

Lo dichiara in una nota il ministro del Turismo, Daniela Santanchè.

(ANSA il 22 giugno 2023) - "Le accuse contro la ministra Daniela Santanchè sono gravi. Lo scoop di Report impone a Meloni di ripensare a quella casella". È quanto si legge in un articolo pubblicato in prima pagina da Il Foglio a seguito dell'inchiesta trasmessa lunedì dal programma di Rai3. Secondo il giornale, nella puntata di Report "sono state indicate e documentate" a carico della ministra e del suo compagno "una serie di condotte societarie semplicemente non accettabile per un ministro in carica".

"Questa volta - scrive il Foglio - non c'erano accenni a servizi deviati, strane coincidenze fotografiche, testimonianze dal valore discutibile. No, questa volta a Report sono state indicate e documentate a carico di Daniela Santanchè e del suo compagno dal nome asburgico/aspirazionale una serie di condotte societarie semplicemente non accettabile per un ministro in carica". 

"Non serve essere moralisti, basta guardare i fatti. Ci sono attestazioni da cui si vede che le società prima guidate direttamente da Santanchè e poi affidate ad altre mani sono state condotte a vantaggio dei soci con trasferimenti di liquidità e a danno dei dipendenti, pagati in ritardo o non pagati, con versamenti previdenziali non pervenuti, e poi licenziati.

E con fornitori - scrive ancora Il Foglio - trattati alla stessa stregua. Mentre i risultati economici aziendali sono sempre stati non soddisfacenti, una costante, questa, dell'attività imprenditoriale di Santanchè da diversi anni a questa parte". Il giornale sottolinea che quello del ministro del Turismo è un ruolo importante e che siamo anche nei giorni più impegnativi nella preparazione della stagione estiva, ma il ministro può essere sostituito senza che le varie strutture che gestiscono il turismo in Italia ne vengano compromesse. 

"La stagione, con ogni probabilità - aggiunge il giornale - toccherà numeri da record anche senza la spinta del ministro da cui è stata promossa la campagna Open to Meraviglia". Secondo il Foglio, dovrebbe essere la stessa maggioranza a chiedere il passo indietro di un ministro dal quale "viene un indiscutibile danno per la credibilità del suo ruolo e poi dell'intero governo". 

"In passato - rileva il giornale - ci sono state dimissioni ministeriali per il mancato pagamento dei contributi a una sola lavoratrice, non è accettabile che si blindino gli occhi davanti a decine di mancati pagamenti e a modi di operare che non hanno niente a che fare con l'etica imprenditoriale e con la stessa capacità di guidare un'azienda". 

"Ci auguriamo - conclude il Foglio - che Santanchè possa chiarire la sua posizione. Ma non averlo ancora fatto è un segnale negativo. E non occorre essere moralisti per capire quando un ministro non è adatto a occupare un ruolo".

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per repubblica.it il 22 giugno 2023.

Fornitori non pagati, dipendenti che attendono ancora il tfr dopo essere stati licenziati e compensi d’oro per gli amministratori sempre garantiti. E, ancora, aziende floride ridotte sul lastrico e strane operazioni finanziarie con fondi stranieri che hanno contribuito a creare un danno ai piccoli azionisti delle stesse società. 

Protagonista di queste avventure la ministra del Turismo Daniela Santanchè, “imprenditrice”, come ama ripetere, finita al centro di una inchiesta della trasmissione televisiva Report che ha svelato la gestione di Visibilia e Ki gruop spa quando ad averne le redini era proprio l’esponente del governo Meloni e volto di Fratelli d’Italia. Aziende che non sono fallite, ma che hanno visto crollare il loro valore in borsa e ridurre al lumicino l’attività con decine di dipendenti che hanno perso il lavoro e soci di minoranza che si sono trovati azioni che non valgono praticamente nulla.

E mentre la futura ministra in epoca Covid da “imprenditrice” rivendicava i suoi sacrifici tanto da “aver anticipato come tanti colleghi la cassa integrazione” ai dipendenti delle sue aziende, proprio quest’ultimi hanno denunciato a Report di non aver ricevuto alcuna anticipazione e in alcuni casi di essere stati messi in cig a zero ore a loro insaputa continuando a lavorare. 

Ma andiamo per ordine. Report con una inchiesta di Giorgio Mottola ha raccontato la gestione di Visibilia e Ki gruop quando è arrivata la gestione Santanchè. Partendo proprio dal caso Ki gruop: azienda di commercializzazione di prodotti biologici rilevata da Santanchè e dal suo ex compagno Canio Mazzaro intorno al 2011.

“I due si avvicendano più volte alla presidenza del cda di Ki Group e della controllante Bioera, assegnandosi compensi che nel tempo sono arrivati a superare i 600mila euro all’anno – sostiene Report - In meno di nove anni, solo come stipendi per le cariche sociali, Daniela Santanchè si è portata a casa due milioni e mezzo di euro e Canio Mazzaro sei. 

Non solo, per anni Ki Group ha pagato a Mazzaro l’affitto di un’automobile di lusso e di una casa in centro a Milano, indicato in bilancio come ufficio di rappresentanza”. Ma c’è di più: “Nei consigli di amministrazione di Ki group e della controllante Bioera vengono cooptati la sorella della Santanchè, Fiorella Garnero, la nipote Silvia Garnero e il figlio maggiore di Canio Mazzaro, Michele. Nel cda di Ki Group trova posto anche una vecchia conoscenza di Daniela Santanchè, l’immarcescibile Paolo Cirino Pomicino”.

[…] Dal 2018, quando Santanchè e Mazzaro subentrano nella gestione diretta dell’azienda, la Ki Group ha enormi difficoltà nel saldare la merce ai propri fornitori e inizia a promettere pagamenti che non arrivano a decine di aziende. Nel 2018, i debiti di Ki Group verso i fornitori arrivano a oltre 8 milioni di euro, quasi un quarto del fatturato. 

A partire dal 2019 i numeri di Ki Group spa sono sempre più preoccupanti. I bilanci dell’azienda vengono sistematicamente bocciati dalla società che li revisiona e viene creata una seconda società con lo stesso nome (ma srl) che si prende i rami di azienda che fatturano e la Ki group spa diventa “una scatola vuota”. […]

Poi c’è il caso Visibilia, altra società fino a ottobre scorso della Santanchè insieme all’attuale compagno, Dimitri Kurz. “Proprio come Ki Group, anche Visibilia spa è quotata in borsa ed è in gravi difficoltà economiche. Da anni non chiude un bilancio in positivo e la situazione si è fatta talmente grave che nel 2017 l’azienda ha licenziato tutti i dipendenti dei propri giornali”, dice Report, che aggiunge: “Nell’ultimo bilancio pubblico di Visibilia Concessionaria (una controllata della capogruppo) risulta in realtà un debito di 2,1 milioni di euro verso la capogruppo per la pubblicità raccolta e non versata poi nella cassa dei giornali Novella 2000, Ciak, Visto, Pc Professionale, Ville e Giardini. 

[…] Ma nel 2019, per far fronte a una grave crisi di liquidità dell’azienda, Visibilia aveva chiesto però un prestito a una misteriosa società di investimento di Dubai, Negma. E qui compare il nome del presidente del Senato, Ignazio la Russa.

Report riporta che in una diffida inviata al giornale online Milanotoday da parte del fondo di Dubai, che ha prestato 3 milioni a Visibilia in cambio di azioni, la firma in calce è dell’avvocato Ignazio La Russa. Che qualche settimana prima aveva inviato allo stesso giornale un’altra diffida per conto di Visibilia. La Russa, insomma, è consulente di entrambi? Di chi chiede soldi e di chi li presta facendo poi operazioni spregiudicate?

Sì, perché il fondo Negma di cui nessuno conosce gli investitori, con Visibilia fa delle operazioni di vendita delle azioni che nel corso del tempo svalutano la società e creano un danno ai piccoli azionisti. Tanto che un piccolo azionista Giuseppe Zeno, ha presentato un esposto in procura a Milano e alla Consob. Negma da queste operazioni guadagna 600 mila euro. Stesso meccanismo si era verificato con Ki gruop. Conclude Report: “In nove anni il valore di Ki group in borsa è passato da 35 milioni a 465 mila euro, gli azionisti hanno versato 23 milioni e 9 milioni di euro sono andato solo a emolumenti di Santanchè e dell’ex compagno”. […]

Dopo l’inchiesta di Report sulle società del ministro Santanchè, per le opposizioni: “Deve dimettersi”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Giugno 2023 

In base alle ricostruzioni di Report, la Santanchè ‘imprenditrice’ ha guidato aziende che si sono distinte per non aver reiteratamente pagato le imprese fornitrici e per aver messo in cassa integrazione a zero ore i dipendenti senza avvisarli durante il lockdown.

Daniela Santanchè nella bufera dopo l’ultima puntata del programma tv “Report” relativa ad aziende,  e più in particolare sul fallimento delle sue aziende Ki Group e Visibilia, ritenute riconducibili alla ministra del Turismo. Puntuali arrivano le reazioni dell’opposizione : Pd e M5S ne chiedono le dimissioni e sollecitano una presa di posizione da parte della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. “Abbiamo una ministra imprenditrice spericolata, accusata di collezionare fallimenti e di non pagare dipendenti e fornitori. Santanchè intanto glissa e non risponde. In passato abbiamo visto membri del Governo dimettersi per molto meno. Come può Meloni far finta di niente?“, commenta Enzo Amendola, capogruppo del Pd in commissione Esteri della Camera su Twitter.

Daniela Santanchè come è noto, e come lei ama sbandierare ai quattro venti, è anche un’imprenditrice, e ha posseduto la società editoriale Visibilia ed il gruppo dell’alimentazione biologica Ki Grop, che gestiva insieme all’ex compagno Canio Mazzaro. Il programma Report ha indagato sulle società, facendo emergere le operazioni finanziarie – apparentemente illecite – che si nascondono dietro il fallimento di entrambe le aziende, in un servizio intitolato “Open to fallimento“, con riferimento alla tanto discussa campagna “Open to meraviglia” sul turismo in Italia  ideata dalla stessa Ministra. Innanzitutto, il programma di Sigfrido Ranucci ha approfondito quanto accaduto con Ki Group. Secondo ai dati raccolti da Report, la gestione di Santanchè e Mazzaro ha fatto crollare il valore di borsa dell’azienda, portandolo da 35 milioni di euro ad appena 469mila euro. Inoltre, è stato mostrato un documento che incastrerebbe Mazzaro: quest’ultimo aveva deciso di pagare il debito di sei milioni di euro che gli azionisti e proprietari di Ki Group avevano contratto, facendosi prestare il denaro da Monte dei Paschi di Siena. Un finanziamento che, però, non è mai stato restituito alla banca.

Secondo l’inchiesta andata in onda lunedì scorso, ci sarebbero prove di lavoratori pagati in ritardo o ancora in attesa dei versamenti, trasferimenti di liquidità ai vertici societari quasi concomitanti ai licenziamenti e altri comportamenti poco corretti, come l’utilizzo fraudolento della cassa integrazione. Sebbene sia passato qualche giorno dal 19 giugno, data della messa in onda del servizio televisivo, la discussione non accenna a fermarsi. 

Ma anche le vicende della società Visibilia hanno suscitato non poche polemiche, soprattutto perché da quanto rilevato da Report è emerso un imbarazzante coinvolgimento del Presidente del Senato Ignazio La Russa. Nel 2021 Daniela Santanchè avrebbe venduto obbligazioni della società per tre milioni di euro a Negma, un fondo con sede a Dubai. Quest’ultimo sarebbe riuscito a guadagnare ben 1,5 milioni di euro, portando però Visibilia a vedere crollare di circa il 97% del suo valore in borsa. All’epoca dell’operazione Ignazio La Russa era avvocato delle società di Daniela Santanchè e non poteva non conoscere quelle operazioni finanziarie. Quel che è sicuro è che l’attuale Ministra sia arrivata al fallimento delle sue aziende facendo ricadere il peso sulle spalle dei suoi lavoratori: Santanchè ha licenziato decine di dipendenti, senza mai pagare loro la liquidazione né gli stipendi che spettavano loro.

Non serve quindi essere moralisti, basta limitarsi a guardare ed analizzare i fatti: non è possibile che si chiudano gli occhi davanti a decine di mancati pagamenti da parte della ministra del Turismo. Nel 2020, con il Paese fermo per il Covid-19, Santanchè dai salotti televisivi tuonava contro il Governo Conte per i ritardi. Da Report però scopriamo che le sue aziende approfittavano di quella circostanza.  L ‘ inchiesta di Report impone adesso al Governo Meloni di ripensare a quella nomina e trovare un nuovo ministro del Turismo.

“Alla luce di quanto sta emergendo la ministra Santanchè dovrebbe fare un passo indietro e dimettersi – dice Debora Serracchiani, deputata e responsabile Giustizia del Pd – Invece tace e resta al suo posto. Dalla presidente del Consiglio ci aspettiamo una decisione rapida nell’interesse della credibilità del suo stesso governo“. 

Come giustamente scrivono gli amici e colleghi del Foglio “Non serve essere moralisti, basta guardare i fatti. Ci sono attestazioni da cui si vede che le società prima guidate direttamente da Santanchè e poi affidate ad altre mani sono state condotte a vantaggio dei soci con trasferimenti di liquidità e a danno dei dipendenti, pagati in ritardo o non pagati, con versamenti previdenziali non pervenuti, e poi licenziati. E con fornitori trattati alla stessa stregua. Mentre i risultati economici aziendali sono sempre stati non soddisfacenti, una costante, questa, dell’attività imprenditoriale di Santanchè da diversi anni a questa parte”.

Per Giuseppe Provenzano della segreteria Pd, “quello che sta emergendo su Daniela Santanchè è incompatibile con un solo minuto in più nel ruolo di Ministra della Repubblica. Non ci sono alternative: dimissioni. Giorgia Meloni non taccia, assicuri la credibilità delle istituzioni. Altrimenti è complice del loro discredito“. Gli fa eco Antonio Misiani componente della segreteria del Nazareno: “Il governo Meloni ha un problema di opportunità grosso come una casa che investe la ministra Santanchè. Dopo quello che è emerso dall’inchiesta di Report, l’unica cosa che può fare è presentare immediate dimissioni”. 

“In base alle ricostruzioni di Report, la Santanchè ‘imprenditrice’ ha guidato aziende che si sono distinte per non aver reiteratamente pagato le imprese fornitrici e per aver messo in cassa integrazione a zero ore i dipendenti senza avvisarli durante il lockdown. Da due giorni il M5S chiede alla ministra di spiegare e di chiarire, concedendole il beneficio del dubbio. Però nulla, solo silenzio – afferma in una nota la deputata M5S Chiara Appendino – Un silenzio che rispetto a un quadro così grave come quello tratteggiato da Report diventa assenso. A questo punto le dimissioni da ministra del Turismo sono l’unico epilogo possibile, anche Giorgia Meloni dovrebbe prenderne atto”.

Per il leader di Azione, Carlo Calenda, “le questioni sollevate necessitano di una risposta puntuale della Ministra Santanchè. Dipendenti non pagati, Tfr non erogati e cassa integrazione usata in modo fraudolento non sono accuse che possono essere lasciate cadere nel vuoto da parte di un Ministro. Aspettiamo chiarimenti“. Redazione CdG 1947

(ANSA il 23 giugno 2023) "Dopo quattro giorni dalla messa in onda dell'inchiesta di Report a firma di Giorgio Mottola, la ministra Santanchè ha ritenuto opportuno smentire i fatti denunciati, senza però entrare nei particolari. La ministra ha anche annunciato querela. Nell'inchiesta alcuni dipendenti avevano testimoniato di essere rimasti senza stipendi, senza tfr. Un'altra dipendente invece ha denunciato di aver lavorato durante il periodo di cassa integrazione, pagata dallo stato, per le aziende che facevano riferimento alla Santanchè. Report da parte sua conferma la veridicità di tutti i contenuti trasmessi".

Lo scrive su Facebook il conduttore della trasmissione, Sigfrido Ranucci. "Si tratta di fatti documentati, riscontrati e oggetto di indagine della magistratura - prosegue -. Per il mancato pagamento del tfr ai dipendenti della Ki Group è in corso un procedimento davanti al Tribunale fallimentare di Milano. Un altro procedimento riguarda la dipendente di Visibilia costretta a lavorare nel periodo di cassa integrazione a zero ore in carico allo Stato, ed è in corso preso il Tribunale di Roma.

La stessa dipendente è stata audita dalla Consob. Un ulteriore procedimento penale su Visibilia è in corso invece presso la Procura di Milano. Su questi aspetti è stata inviata una richiesta ufficiale di intervista alla ministra, alla quale non abbiamo ricevuto risposta. Un'altra richiesta è stata inviata agli attuali amministratori di Ki Group, completa di un elenco specifico e dettagliato di domande. Ma anche ki Group ha preferito non rilasciare la sua versione dei fatti. La puntata di Report andrà in replica sabato alle 17.20 su Rai3".

Estratto dell’articolo di Franco Bechis per open.online il 24 giugno 2023.

Al fisco si propone di pagare il 66,41% di quanto preteso fra imposte non saldate, irregolarità, interessi e sanzioni, saldando il dovuto però in dieci anni attraverso rate semestrali. Al principale creditore – Prelios Credit servicing spa che aveva rilevato il credito da Banca Intesa San Paolo – si offrono 1,2 milioni di euro al posto dei 4,5 milioni di euro dovuti. È la proposta avanzata alla seconda sezione civile del tribunale di Milano dai consulenti e dai legali di Daniela Santanché per evitare il fallimento di Visibilia srl con tutte le conseguenze anche penali che si porterebbe dietro.

Dieci anni di rate

Nel piano di risanamento scritto da Talea e allegato al ricorso degli avvocati dell’attuale ministro del Turismo si spiega di avere già raggiunto un accordo con Prelios il 25 maggio scorso e di avere avanzato alla Agenzia delle Entrate-Riscossione una proposta per estinguere un debito di 791.889,16 euro comprensivo si sanzioni e interessi di mora attraverso la compensazione di un credito Iva di 18.292 euro e il versamento di una somma di 535.441,02 euro. Il restante debito di 1.156.773,77 euro verrebbe estinto pagando 741.125,98 euro, calcolando alcune cartelle come se la società avesse aderito alla rottamazione quater. Le somme però verrebbero pagate – scrivono i consulenti della Santanché- «in un periodo di 10 anni, mediante 20 rate semestrali di pari importo da corrispondere entro il 30 giugno e il 31 dicembre di ciascun anno, con versamento della prima rata entro 10 giorni dalla data di definitività dell’omologazione».

L’imbarazzo di Giorgetti

Evitare il fallimento di fatto passa quindi solo dal sì della Agenzia delle Entrate pronunciato davanti al tribunale civile di Milano. E certo non si può nascondere come l’amministrazione finanziaria-di cui è titolare il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – si trovi in grande imbarazzo, perché dal suo sì o dal suo no passa il destino di un ministro importante del governo in carica. 

(...)

A me m’ha rovinato Berlusconi

I consulenti citano anche una serie di eventi che vorrebbero spiegare perché Visibilia si è trovata in questa situazione. E puntano il dito quasi sempre contro la famiglia Berlusconi e le sue aziende. 

Estratto dell'articolo di Stefano Cappellini per repubblica.it il 24 giugno 2023.

Paolo Cirino Pomicino, la sua ex allieva politica Daniela Santanchè è nei guai. Le aziende di cui è proprietaria hanno combinato pasticci gravi con azionisti, dipendenti e fornitori.

“Anche se non siamo più amici da molti anni, mi dispiace sinceramente per la situazione in cui si trova”. 

Dovrebbe dimettersi da ministra?

“Ogni epoca ha i suoi criteri. Nella Prima Repubblica ci si dimetteva anche per responsabilità oggettive e non personali. Quando fuggì Herbert Kappler, il ministro della Difesa Vito Lattanzio si dimise, sebbene non ci fosse certo lui di guardia all’ospedale del Celio”.

Qui le responsabilità sembrano decisamente personali.

“Io stento a credere a quello che ho visto e sentito, anche se testimoniato e documentato. Se posso dare un ultimo consiglio non richiesto, e sempre con spirito amichevole, Daniela si indigni e si dimetta mettendo così nelle sue mani la propria dignità e quella del suo partito”. 

(…)

Come nacque il suo rapporto con Santanchè?

“La conobbi a fine anni Ottanta, quando ero ancora ministro. Mi rivolsi all’allora suo marito Paolo Santanchè, che era un noto chirurgo, per un problema di mia figlia. Da lì cominciammo a frequentarci, soprattutto d’estate a Porto Cervo, in Sardegna”.

Santanché aveva già interesse per la politica?

“Si dichiarava fascista, raccontava di aver militato nelle organizzazioni universitarie”. 

Non le faceva impressione che si dicesse fascista?

“No di certo, io avevo un fratello comunista e un altro fascista, per come si può esserlo a 18 anni, e pensavo, sbagliando, che avesse passione sincera per la politica. Invece lei è una specialista del marketing”.

E l’amicizia con Pomicino che mercato le apriva?

“La frequentazione del potere. Le feci conoscere anche Andreotti, a Capri”.

Però dopo Tangentopoli lei il potere l’aveva perso.

“Sì ma restavo molto noto e a Daniela era sufficiente. In realtà la notorietà purchessia era diventata negli anni Novanta un valore politico ed economico e io ero una specie di suo soprammobile: mi invitava a tutte le feste e io ci andavo con piacere. Una sera in Sardegna andammo alla festa di un signore russo molto alla moda in quel periodo. C’era anche Ignazio La Russa. Una tv ci intervistò all’ingresso. La Russa elogiò l’anfitrione, io dissi che non sapevo nemmeno chi fosse il padrone di casa. La mia prudenza democristiana fu utile, un mese dopo lo arrestarono”. 

Poi nel 1999 Santanchè si presentò alle provinciali di Milano e fu eletta in Consiglio.

“Io la consigliavo, la aiutavo con i discorsi. Gliene scrissi uno anche per un congresso di Alleanza nazionale, contro le quote rosa”.

Ma perché lo faceva? Devo chiederglielo: aveva una relazione con Santanchè?

“Assolutamente no. Erano gli anni in cui ero impegnato solo con i tribunali e mi mancava la politica. Ero felice di pensare, di scrivere e di darle una mano”. 

Tanto che le presentò anche Silvio Berlusconi.

“Andammo in barca a villa Certosa. Dissi a Silvio che Daniela aveva molta passione e avrebbe potuto essere utile alla sua causa”.

E Santanchè?

“Stava in An ma parlò a Berlusconi come una perfetta forzista. In questo ha capacità straordinarie”. 

Poi nel 2001 fu eletta alla Camera nelle liste di An.

“La Russa era riuscito a metterla seconda in lista, non il massimo, perché all’epoca non aveva grande potere nel partito. Ma la prima degli eletti si dimise per fare altro e Daniela entrò in Parlamento”.

E lei le consigliò di andare in commissione Bilancio.

“Era la mia materia, spesso le preparavo gli interventi sulla legge finanziaria. Daniela invece ingaggiò un professore che le dava lezioni di storia nazionale mentre lei faceva manicure o pedicure. Una scena alla Sorrentino. Io le dissi che era inutile farsi raccontare la storia da qualcuno. O leggi o non serve a niente”. 

Santanchè passò ai libri?

“Non credo, né si mise a studiare la finanza pubblica. E il prof fu licenziato dopo poco”.

Quali erano le ambizioni di Santanchè? Diventare ministra? Premier?

“Ha sempre avuto enormi ambizioni, che di per sé non sono un peccato. Ma senza la voglia di migliorarsi e conoscere, però, resta solo voglia di potere. L’episodio che meglio le racconta non c’entra con la politica. Negli anni Novanta organizzò un concorso di cucina e mi invitò a far parte della giuria, di cui lei era presidente. Mi trovai ad assaggiare un piatto e d’istinto dissi: che schifezza. 

Santanchè mi diede un cazzotto dietro la schiena e disse: stai zitto che è il mio piatto. Sa chi vinse quel concorso? Lei. Siccome era presidente di giuria fece consegnare il premio al compagno Mazzaro, il quale dopo la cerimonia mi disse: la tua amica non conosce vergogna. Ecco, mi pare la frase che meglio la descrive”. 

Alle Politiche del 2008 Santanchè era candidata premier della Destra, il partito di Francesco Storace che aveva rotto con Fini.

“Daniela ha ballato il tango con tutti i partiti di destra. Da An a Forza Italia poi con la Destra di Storace, per tornare a Forza Italia e quindi a Fratelli d’Italia”.

Ma in quelle elezioni attaccò duramente Berlusconi. Disse che vedeva le donne solo in posizione orizzontale e aggiunse: “Tanto io non gliela do”.

“I latini dicevano: excusatio non petita, accusatio manifesta”. 

Come finì la vostra amicizia?

“La prima frattura fu quando Mastella nel 2004 mi candidò alle elezioni europee. Lei, invece di tifare per me, cominciò a dire in giro che non ce l’avrei mai fatta a essere eletto. Invece andai a Strasburgo. Poi nel 2006 tornai nel Parlamento nazionale e lei non voleva che andassi in commissione Bilancio. Io ero in lista per un trapianto di cuore e lei mi disse: le riunioni sono alle otto del mattino, non puoi farcela. Le risposi che avremmo spostato l’orario”.

A quel punto non le scriveva più i discorsi.

“Da tantissimo tempo. Forse aveva trovato altri ghost writer. Ma la cosa che mi ferì di più fu che prima del mio trapianto di cuore a Pavia lei disse a Mazzaro: spero che il tuo amico non si svegli domattina”. 

Parla per risentimento, dunque?

“Fai bene e scordati, fai male e pensaci, dice una canzone napoletana, e io così ho fatto”.

Secondo lei Santanchè si dimetterà?

“Non lo so. Il mio consiglio l’ho dato, ma Daniela è capace con grande convinzione di dire cose in cui non crede o di difendere l’indifendibile”. 

Marco Zonetti per Dagospia il 25 giugno 2023.

Sul caso del ministro Santanchè e delle sue società Visibilia e Ki Group, sollevato dalla trasmissione Report condotta da Sigfrido Ranucci su Rai3, hanno eccepito praticamente tutti i partiti. Chi ne ha chiesto le dimissioni come i Verdi e Sinistra Italiana, chi ha invitato la ministra del Turismo in quota Fratelli d'Italia a chiarire in Parlamento, ovvero M5s, Pd, e finanche gli alleati Lega e Forza Italia. La stessa Giorgia Meloni ritiene giusto che Santanchè riferisca nelle aule parlamentari.

Solo un partito e il suo leader, che peraltro dovrebbero essere di "opposizione" al Governo, non hanno proferito parola sul caso. Parliamo di Italia Viva e di Matteo Renzi, il cui quotidiano Il Riformista ha riservato al caso un piccolissimo spazio nel finale di un articolo di Claudia Fusani, che tuttavia non cita le società in questione né tantomeno specifica quali siano le accuse mosse dai dipendenti e dagli azionisti indicate nel servizio di Report e in alcuni articoli pregressi del “Fatto Quotidiano”.

Addirittura il consigliere regionale renziano Luciano Nobili, in un tweet, parla di perdita di tempo riguardo al caso Santanchè. Come mai questa linea? Forse perché la società Visibilia è la concessionaria esclusiva di pubblicità del Riformista? Chissà. Senz'altro il silenzio sul caso Santanchè da parte di Renzi - dopo quasi una settimana di infuocate polemiche istituzionali che mettono in serie difficoltà il Governo - resta piuttosto peculiare.

Il caso Visibilia: la crisi ed i debiti della Santanchè. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Giugno 2023

L’inchiesta della Procura di Milano avviata a novembre del 2022 sul ministro del Turismo, la senatrice Daniela Santanché: «La presentazione di bilanci inattendibili ha ritardato l’emersione di un dissesto patrimoniale significativo, ancora evidente in capo a Visibilia Editrice srl»

Daniela Garnero Santanchè sognava di creare un impero editoriale, che invece sta creando grossi problemi alla ministra del Turismo e senatrice di FdI, a partire dalla Visibilia Editore, un doppione dalla diversa ragione sociale ed attività, della società “madre” Visibilia Pubblicità, che la Santanchè aveva fondato nel 2007, concessionaria pubblicitaria del quotidiano Il Giornale (editore Berlusconi), e dei quotidiani Libero e Il Riformista (gruppo Angelucci) attività successivamente interrotta a cauda degli ingenti debiti milionari maturati dei confronti degli editori.

La società Visibilia Editore avvia le sue attività 6 anni più tardi nel luglio 2013, rilevando dalla Mondadori la rivista Ville e Giardini. L’ anno dopo nel marzo 2014, le acquisizioni di Ciak e  Pc Professionale. Società questa che viene quotata in Borsa sull’Aim Italia, oggi Euronewxt Growth Milan, con l’acquisizione della Pms avvenuta nell’agosto 2014, prendendo il nome dell’acquirente e rilevando con un conferimento aziendale le sue attività. Non contente la Santanchè rileva nel 2015 altri due settimanali storici, Novella 2000 e Visto che fino al 2013 veniva editato dalla Rcs Periodici, entrambi liquidati nel giro di un paio d’anni con il licenziamento dei giornalisti, insieme alla società editrice Visibilia Magazine che li pubblicava. 

Il «dissesto patrimoniale» del gruppo, al quale sono collegate attualmente cinque società dal nome Visibilia che comprende Visibilia Concessionaria, Visibilia Srl e Visibilia Editrice, che hanno origine da una cessione di ramo di azienda e collegato accollamento di debiti, per non far emergere il crac, avrebbe origine in realtà sin dall’inizio delle rispettive attività . La Visibilia Editore Spa secondo il commercialista Nicola Pecchiari, commercialista e docente della Bocconi, e consulente della Procura di Milano nell’ambito dell’indagine avviata nel novembre 2022 nei confronti della senatrice Santanchè e altre persone, per “falso in bilancio” e “bancarotta”, a seguito della denuncia degli azionisti di minoranza avrebbe messo a bilancio fin dal 2014 “perdite significative, evidenziando risultati negativi già a livello di reddito operativo” .

Dalle attività societarie della Visibilia Srl, emerge che, oltre a “irregolarità estremamente significative”, nell’”ultimo esercizio prima del conferimento nel 2019 a favore della neocostituita Visibilia Concessionaria Srl, il patrimonio netto fosse già negativo di oltre 8,2 milioni“ e nei 4 anni precedenti per 5,4 milioni. Ma nonostante tutto ciò quel trasferimento consente “una plusvalenza di 2,971 milioni”. 

Daniela Santanchè dopo la nomina nel governo Meloni a ministro, ha ceduto le quote di maggioranza , restando presidente di tutte le società fino al gennaio 2022, adesso vorrebbe respingere l’ipotesi di accusa a suo carico del reato di bancarotta, con la proposta all’Agenzia delle Entrate di versare 1,2 milioni in 10 anni (cioè 120 milioni l’anno) per definire e chiudere il contenzioso con il Fisco. 

Soltanto qualora la proposta dovesse essere accolta, con non poco imbarazzo per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti (Lega) , il tribunale revocherà l’istanza di fallimento per Visibilia Srl, come si è già verificato per Visibilia Editore e Visibilia Holding, che hanno ripianato i rispettivi debiti, e come ha chiesto Visibilia Concessionaria.

Basterebbe leggere le considerazioni appena depositate dai pm Laura Pedio e Maria Gravina in alcune delle udienze civili, depositale il 25 gennaio e il 3 maggio scorso dal professor Pecchiari in relazione all’incarico di consulenza affidatogli dalla Procura di Milano : “I presupposti per una svalutazione integrale dell’avviamento di 3,8 milioni erano già manifesti al 31 dicembre 2016», e “tale svalutazione è stata evitata dalla società sulla base di una perizia di “impairment test” basata su un piano industriale irrealistico, senza tenere in considerazione che già dall’esercizio 2014 i dati previsionali non erano mai rispettati a consuntivo, e che i consuntivi del triennio manifestavano palesemente la presenza di una evidente crisi strutturale di redditività operativa“. 

Ma la procura di Milano ha acceso i propri riflettori anche su Ki Group, società alimentare bio, comprata dalla Santanchè insieme all’ex compagno Canio Mazzaro, finiti al centro dell’inchiesta del programma televisivo “Report” condotto da Sigfrido Ranucci, che ha documentato di dipendenti licenziati senza il pagamento del Tfr (trattamento fine rapporto) , di fornitori non pagati e del crollo azionario che ha ridotto la capitalizzazione in Borsa crollata dai 35 milioni iniziali ad appena 469 mila euro. A questo dissesto societario avrebbe partecipato la Negma, un fondo di Dubai presieduto da Elag Gassman, che ha concesso un prestito convertibile in azioni alla Ki Group per ovviare temporaneamente alla necessità di liquidità, ma che di fatto ha poi causato il crollo del titolo azionario. Gli investigatori vogliono scoprire chi si celi in realtà dietro il fondo fondato nel 2013 da Elaf Gasman, attuale presidente del Cda e che nella sua compagine vede anche due italiani. A rimetterci sono sempre stati i soci di minoranza. Dalle indagini è emerso che sono 16 le aziende italiane sono finite sul lastrico dopo l’arrivo di Negma.

Non sarebbe fuori luogo ipotizzare un “avviso di conclusione delle indagini” per Daniela Santanchè per il falso in bilancio, mentre diversa appare l’analisi sui ricorsi con cui la Procura aveva chiesto alla sezione Fallimentare del Tribunale la “liquidazione giudiziale” di alcune società del gruppo per le quali, in una serie di udienze civili in corso la Santanchè ha reperito delle robuste iniezioni di capitali che, insieme a piani di rientro proposti al Fisco, posso fare ipotizzare che le società riescano ad evitare il fallimento, e conseguentemente facciano decadere alla ministra l’addebito di bancarotta.

Nelle stanze di Palazzo Chigi l’inchiesta giornalistica del programma Rai ” Report”viene pesata con la massima attenzione e serietà. Secondo i parlamentari di Fratelli d’ Italia la premier sta seguendo la polemica con evidente disagio e timore per l’immagine del governo. Non è sufficiente la la consueta arrogante soddisfazione con la quale Santanchè spiega ai colleghi di governo che “in Tribunale finora ho sempre vinto“. Il premier Giorgia Meloni tiene moltissimo al Turismo ed è a dir poco irritata per la tempesta mediatica che ha riguardato la ministra del Turismo. Mentre è determinata a sostenerla, come ha fatto per Delmastro e Donzell, una cosa è certa: se la Santanchè venisse rinviata a giudizio, la Meloni le chiederebbe di lasciare il governo... Redazione CdG 1947

Dal profilo Facebook di Sigfrido Ranucci lunedì 3 luglio 2023.

Gli archivi di Report sono come l’alta marea, restituiscono un relitto con in pancia un piccolo tesoro: la prova che già a ottobre del 2011 Visibilia era esposta con il sistema bancario per circa 15 milioni di euro, 2,8 milioni solo con la Banca popolare di Milano. 

La Santanchè, era stata sottosegretaria alla presidenza del consiglio del governo berlusconi, poi candidata alle primarie del pdl. Aveva chiesto un fido di 2 milioni di euro. I dirigenti dell’Ufficio crediti della Banca Popolare avevano detto no proprio per l’esposizione del gruppo.

La Santanchè si rivolge ad Antonio Cannalire, braccio destro di Massimo Ponzellini, capo di BPM che da lì a poco verrà coinvolta in uno scandalo. La Banca che avrebbe dovuto finanziare le piccole e medie imprese, si era trasformata in un bancomat per i politici. L’inchiesta finì con l’assoluzione di Ponzellini e Cannalire per l’accusa dei finanziamenti illeciti.

Ma dalle carte emerge che Santanchè riesce tuttavia a ottenere 320 mila euro di pubblicità BPM. Circostanza anche allora negata, quando ci accusa di aver detto delle "balle e delle cazzate" non sapendo che avevamo già allora l'evidenza delle carte. Stasera a Report in onda su Rai3 alle 21.15

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” lunedì 3 luglio 2023.  

La sua società era indebitata per milioni di euro già nel 2011, quando era sottosegretaria del governo Berlusconi. Ma grazie anche a questo ruolo aveva accesso ai manager di banche per chiedere altri prestiti, proponendo magari di farli incontrare con lo stesso presidente Silvio Berlusconi o con l’allora governatore di Bankitalia Mario Draghi. Ma c’è di più. Nonostante la società fosse indebitata, si garantiva finanziamenti ad aziende terze sempre sue.

Il metodo della imprenditrice e oggi ministra del Turismo Daniela Santanchè, oggi come dieci anni fa, non sembra essere cambiato poi molto e i ruoli politici forse l’hanno aiutata nella sua attività privata della quale lei ha sempre fatto un vanto: come si chiede oggi Report che, dopo aver sollevato la gestione anomala delle società Visibilia e Ki Group due settimane fa, questa sera torna sul caso delle aziende Santanché (alle 21 su Rai Tre).

Report presenterà dei documenti con «la prova che Visibilia era esposta con il sistema bancario già a partire dal 2011 per 15 milioni». E di questa cifra ben 2,8 milioni di esposizione riguardavano un prestito con la Banca popolare di Milano. La Santanchè allora era sottosegretaria alla presidenza del consiglio del governo Berlusconi e sarebbe tornata a bussare alla porta della Bpm per una estensione del fido per altri 2 milioni di euro. L’ufficio crediti della banca però si oppone proprio per lo stato patrimoniale e l’esposizione bancaria di Visibilia. Allora che cosa accade? «Santanchè chiama il braccio destro dell’allora capo della banca Massimo Ponzellini». E cioè Antonio Cannalire. Secondo quanto ricostruisce Report «Santanchè si sarebbe offerta anche di organizzare incontri di Ponzellini con Draghi e Berlusconi». 

Intervistata l’allora sottosegretaria smentisce «categoricamente» queste circostanze. Ma Report mostrerà dei documenti che smentirebbero la versione della ministra. Di certo c’è che Bpm non concederà l’estensione del fido. Ma Visibilia comunque otterrà «l’acquisto di spazi pubblicitari per la Banca popolare di Milano per 320 mila euro»: pubblicità in parte per II Giornale e Libero , ma anche per l’Ordine di Como , quotidiano locale che era di proprietà di Alessandro Sallusti, suo ex compagno.

Resta comunque il fatto che Visibilia srl nel 2011 era già indebitata per 15 milioni e Santanchè, da sottosegretaria, cercava altre fonti di liquidità  […]. I conti comunque erano quelli ma nel 2013, come raccontato da Repubblica, Visibilia srl concede un finanziamento di 680 mila euro con contratto firmato il 17 maggio 2013 alla D1 Partecipazioni. 

Questa società era sempre di proprietà di Santanchè e vedeva come usufruttuario Sallusti. D1 Partecipazioni era nata pochi giorni prima, il 10 maggio 2013, ed è stata messa in liquidazione nel 2019: Visibilia srl ha nel frattempo cancellato il credito nel 2020. 

Secondo una perizia di parte chiesta della procura di Milano, in Visibilia però sono state non iscritte a bilancio dal 2014 diverse perdite patrimoniali. Senza questi “errori” secondo la perizia «il patrimonio netto rettificato assume un valore negativo per oltre 5,4 milioni di euro già al 31 dicembre 2014 e tale aggregato peggiora nel periodo fino ad assumere al 31 dicembre 2018 un valore negativo per oltre 8,2 milioni».

Ma nonostante in quegli anni Santanchè avesse già grane per debiti e poca liquidità di Visibilia, riesce inoltre a rilevare nel 2011 con un altro ex compagno, Caio Mazzaro, il gioiellino del biologico Ki group. Secondo Report, che oggi tornerà anche su questo caso, «grazie anche a un benevolo prestito da parte di Monte dei Paschi di Siena». «Alla fine tra Bioera e Ki Group, Santanchè e Canio Mazzaro raccolgono dai piccoli azionisti, in nove anni, 23 milioni e 9 milioni si trasformeranno in emolumenti per le loro cariche sociali ricoperte in quegli anni». Mentre alcuni dipendenti di Ki Group rimangono senza stipendi e tfr.  […]

Che Visibilia! Report Rai PUNTATA DEL 03/07/2023 di Giorgio Mottola

Nel 2012 avevamo intervistato l'onorevole Santanchè sulle attività di Visibilia

di Giorgio Mottola

Collaborazione di Greta Orsi e Norma Ferrara 

Già 12 anni fa avevamo intervistato l’onorevole Santanchè rispetto al fatto che Visibilia fosse esposta con il sistema bancario 

Un esposizione da 15 milioni di euro circa, già a partire dal 2011: 2,8 milioni solamente con la Banca Popolare di Milano, oggetto della nstra inchiesta del 2012. Proprio a BPM Visibilia aveva chiesto un fido. Alla fine la banca non glielo aveva concesso, ma Visibilia era stata premiata con concessioni per la pubblicità da 320 mila euro.

CHE VISIBILIA Di Giorgio Mottola

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante l’emergenza Covid, Daniela Santanché è stata tra i politici più agguerriti nel denunciare le difficoltà create agli imprenditori dalle chiusure dovute alla pandemia

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Agorà – Rai3 – 17/10/2020) Io nella vita faccio l’imprenditore e ricordo alla De Petris che se gli imprenditori non avessero anticipato la cassa integrazione che prenderemo poi… avremo qualche milione di lavoratori senza lo stipendio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su questo aspetto in particolare dell’anticipo della cassa integrazione la senatrice ha insistito in più occasioni, dichiarando pubblicamente di aver rimediato di tasca sua ai ritardi dello Stato

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Omnibus - La7 – 17/09/2020) Voi siete consapevoli che moltissimi lavoratori non hanno ancora ricevuto la cassa integrazione? E solo grazie agli imprenditori hanno potuto mantenere i loro figli e andare a far la spesa perché, come me, ma come tanti altri abbiamo anticipato la cassa integrazione.

MILENA RAISE – EX DIPENDENTE KI GROUP Assolutamente non vero. Noi aspettavamo che l’Inps ci pagasse dopo tre, quattro mesi

GIORGIO MOTTOLA Non ha mai anticipato lei i soldi?

MILENA RAISE – EX DIPENDENTE KI GROUP Mai. E lei si andava a vantare del fatto che invece lo faceva con tutti i suoi dipendenti di tutte le sue aziende

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante la pandemia, qualche problema con i dipendenti sembra esserci stato anche nell’altra società di Daniela Santanché, Visibilia, l’azienda con sede a Milano proprietaria delle riviste Novella 2000, Visto e Ciak.

EX DIPENDENTE VISIBILIA C’è un dipendente che ha scoperto di essere stato messo in cassa integrazione a zero ore GIORGIO MOTTOLA Quindi non doveva lavorare

EX DIPENDENTE VISIBILIA Nessuno gli ha detto di smettere di lavorare e ha continuato la sua attività consueta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con la cassa integrazione a zero ore, lo Stato si impegna a pagare la quasi totalità dello stipendio di un lavoratore, a patto però che l’attività del dipendente venga sospesa. E invece la dirigenza di Visibilia avrebbe approfittato del lavoro di una propria dipendente imponendole il solito orario, sebbene a pagarla fosse l’Inps.

GIORGIO MOTTOLA È vietato dalla legge che un lavoratore presti servizio nonostante sia a zero ore?

EX DIPENDENTE VISIBILIA È un reato penale. Truffa aggravata ai danni dello stato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La lavoratrice scopre di essere stata posta in cassaintegrazione a zero ore solo a distanza di sei mesi, quando riceve con ritardo le buste paga. Considerato che il suo ruolo era piuttosto rilevante all’interno dell’azienda, chiede spiegazioni direttamente all’amministratore delegato dell’epoca, Dimitri Kunz, fidanzato di Daniela Santanché

GIORGIO MOTTOLA Nel periodo del Covid con la cassa integrazione a zero ore, c’era gente che lavorava?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA No, assolutamente no. Assolutamente no

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dimitri Kunz sostiene di non saperne nulla. Ma ecco come reagisce al telefono quando viene a scoprire che la dipendente ha presentato una denuncia in Procura.

AL TELEFONO - DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Per carità, te ti sei messa in regola. Però magari hai messo in difficoltà l’azienda

EX DIPENDENTE VISIBILIA Ma questo è un reato penale

AL TELEFONO - DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Io ero sicuramente certo che tu fossi al corrente di tutto, era una cosa tacita…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Proprio come Ki Group, anche Visibilia Spa è quotata in Borsa ed è in gravi difficoltà economiche. Leggendo i bilanci si scopre infatti che grosse quantità di soldi sono uscite dalle casse della società capofila, Visibilia editore, verso altre aziende che fanno sempre riferimento a Daniela Santanché. Affitto degli uffici e dei computer e consulenze tecniche da anni vengono pagati a Visibilia srl. Mentre la pubblicità delle riviste viene affidata a un’alta società del ministro, Visibilia Concessionaria, che incassa i soldi degli sponsor ma non sembra averli restituirli prontamente alla capogruppo negli anni. Queste e altre operazioni sono state denunciate come opache da un azionista di minoranza di Visibilia, Giuseppe Zeno, residente alle Bahamas.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA La concessionaria continua a raccogliere la pubblicità e non paga la Visibilia editrice. In realtà c’è questo enorme, lunghissimo debito che si porta via da anni tra la Visibilia concessionaria e la Visibilia editore. Questo è assolutamente impensabile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nell’ultimo bilancio pubblico di Visibilia Concessionaria del 2021 risulta in realtà un debito di 2,1 milioni di euro verso la capogruppo per la pubblicità raccolta e non versata poi nella cassa dei giornali.

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma che cosa è emerso dall’inchiesta? Intanto, che la ministra Santanchè, all’epoca senatrice, aveva dichiarato pubblicamente di aver anticipato i soldi della cassa integrazione covid ai dipendenti, ma i dipendenti di Ki Group che sono rimasti senza stipendio e senza Tfr, l’hanno smentita. Poi è accaduto che una dipendente di Visibilia, il gruppo che ha fatto riferimento alla Santanchè fino a gennaio 2022 ha dichiarato di aver lavorato mentre era in cassa integrazione a zero ore, e dunque a carico dello Stato, per il gruppo Visibilia. Incalzato dalle domande del nostro Giorgio Mottola, il compagno della Santanchè, Kunz ha smentito, ha negato. Però poi abbiamo scoperto che in una memoria che è stata depositata al tribunale di Milano si dice che hanno sanato il danno allo stato. Quindi hanno ammesso implicitamente il fatto. Visibilia è una società quotata in borsa. Da anni chiude i bilanci in rosso. Nel 2017 aveva licenziato tutti i dipendenti delle riviste e, a novembre scorso, il tribunale aveva chiesto il fallimento, che è stato evitato in extremis grazie all’ intervento di Luca Reale Ruffino, Pdl lombardia, era stato coinvolto, in un procedimento per un finanziamento a Romano La Russa fratello di Ignazio. Procedimento poi dal quale è stato assolto. Ora il gruppo Visibilia però nel 2018, proprio per affrontare una crisi di liquidità, aveva chiesto aiuto a un misterioso fondo arabo, che ha sede a Dubai.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2019, per far fronte a una grave crisi di liquidità dell’azienda, Visibilia ha chiesto un prestito a una misteriosa società di investimento di Dubai, Negma.

GIORGIO MOTTOLA Ma perché non si è rivolta a una banca?

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Ah, forse perché la banca non glieli dava? Cosa c’è anche di assurdo in questo rivolgersi alla Negma? Che hanno fatto un contratto che prevede questo: che la Negma non ti presta soldi con gli interessi, ma ti presta i soldi acquistando delle tue obbligazioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In varie tranche Negma versa nelle casse di Visibilia circa tre milioni di euro, ottenendo in cambio obbligazioni, vale a dire pezzi di carta che possono essere convertiti in azioni di Visibilia. All’inizio sembra piovere manna dal cielo ma presto si rivela una piaga biblica.

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO le azioni da quando viene emessa la prima obbligazione perdono valore in una maniera mostruosa. Mi provoca un crollo del titolo e io mi ritrovo ad avere della carta straccia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Infatti, dopo averle convertite, Negma inizia a vendere le azioni di Visibilia e il titolo dell’azienda sprofonda sempre più in basso

ALBERTO GUSTAVO FRANCESCHINI WEISS – ADVISOR FINANZIARIO Visibilia ha perso il 98 per cento praticamente del valore dell’azione, quindi da 3 euro e 68 a 20 centesimi.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO È una roba bruttissima questa… tecnicamente è geniale. Non so chi se l’è inventata.

GIORGIO MOTTOLA Perché è un’operazione bruttissima?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Sostanzialmente è come se fosse una partita truccata dove vince sempre il banco. E il banco è Negma o chi per essa che fa questa operazione, ma è anche la società che comunque prende i soldi. Chi perde sono sempre gli azionisti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questo dalle Bahamas, l’azionista di Visibilia Giuseppe Zeno presenta un esposto in Procura secondo cui i profitti ottenuti da Negma con le operazioni di convenzione sarebbero stati la conseguenza di una manipolazione criminale del mercato azionario.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Quando doveva fare la conversione vendeva le azioni sul mercato in modo da far scendere il prezzo, poi dopo facevano l’operazione inversa: facevano salire il titolo, drogando il mercato. In Italia è un reato, si chiama manipolazione del mercato o anche turbativa d’asta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come dimostra lo studio realizzato da Ambromobiliare, Negma riusciva a convertire le azioni quando il titolo era molto basso e le vendeva poco dopo, quando il valore dell’azione di Visibilia improvvisamente risaliva. Con queste sistematiche plusvalenze, il fondo di Dubai è riuscito a guadagnare quasi seicentomila euro su un prestito di tre milioni.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA La domanda è: chi se le compra queste azioni se la società è attaccata dalla Procura della Repubblica, ha un’ispezione della Guardia della Finanza, perde regolarmente ogni anno da sempre, cioè non ha mai guadagnato

GIORGIO MOTTOLA Eh, chi se le compra queste azioni?

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Eh, questo è un mistero che noi vorremmo che la Guardia di Finanza, che la Banca d’Italia e la Borsa valori ci svelasse.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tutto potrebbe essere più chiaro se solo si riuscisse a sapere chi c’è dietro il misterioso fondo di Negma di Dubai. Sul sito internet di Negma, si indica come fondatore un arabo un certo Elaf Gassam, ma nulla viene specificato sulla provenienza dei soldi usati per i prestiti fatti in Italia a Visibilia e le altre due società legate a Daniela Santanché, Ki Group e Bioera.

GIORGIO MOTTOLA Chi c’è dietro questo fondo Negma? Prima domanda

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Ma non c’è nessuno, è un fondo che fa questo di lavoro. Perché voi pensate che ci debba essere per forza dietro qualcuno? Non è così

GIORGIO MOTTOLA Perché è un’operazione disastrosa, sia con Ki Group, sia con Visibilia, le aziende ne escono distrutte, guadagna soltanto Negma.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Quale sarebbe l’interesse dell’azienda di fare operazioni del genere no, visto che le aziende ne escono fuori distrutte?

GIORGIO MOTTOLA Eh, questa è la grande domanda!

GIORGIO MOTTOLA Chi c’è dietro o chi c’è davanti non cambia nulla. Il fatto sicuramente è che sono due interlocutori diversi, azienda e il fondo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dimitri Kunz tiene a precisarci che non c’è Visibilia dietro Negma, eppure non gli avevamo ancora posto la domanda. Dato il chiarimento non richiesto, qualche dubbio ci viene. Controllando nei bilanci, un nome attira la nostra attenzione: quello di Ignazio La Russa, che il 15 febbraio 2021 partecipa telefonicamente a una riunione del collegio sindacale di Visibilia.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Si riunisce il collegio sindacale, chiamano al telefono Ignazio La Russa

GIORGIO MOTTOLA Ma perché chiamano Ignazio La Russa?

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Perché è l’avvocato della società

GIORGIO MOTTOLA Lo studio La Russa è consulente di Visibilia?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Lo studio La Russa è consulente di Visibilia… no!

GIORGIO MOTTOLA Come no! E perché chiamate lui? E non chiamate qualcun altro? Voi chiamate durante una riunione, credo del collegio sindacale, proprio Ignazio La Russa, lo scrivete nel bilancio, la nota integrativa.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA No, io sinceramente questa cosa qui non me la ricordo. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma eccolo il verbale, nero su bianco viene segnalata la partecipazione via telefono dell’avvocato Ignazio La Russa alla presenza di tutto il collegio sindacale, di Daniela Santanché e del nostro Dimitri Kunz. Nello stesso periodo La Russa non svolgeva attività legale in prima persona solo per Visibilia, ma anche per Negma. Per conto della società di Dubai, l’attuale presidente del Senato invia al quotidiano online Milano Today una diffida con in calce la sua firma Ignazio Benito Maria La Russa

ALFREDO FAIETA – GIORNALISTA MILANO TODAY L’avvocato La Russa ci aveva già scritto prima di questa diffida di Negma in qualità di avvocato difensore di Visibilia editore e quindi a un certo punto noi ci troviamo con l’avvocato La Russa difensore sia di Visibilia Editore che è la società che acquisisce il denaro di Negma, che come avvocato della società che invece finanzia…

GIORGIO MOTTOLA Presidente scusi, come mai lei è avvocato sia delle società di Santanché

IGNAZIO LA RUSSA – PRESIDENTE DEL SENATO Senti adesso, levati, levati!

GIORGIO MOTTOLA Sia delle società di Santanché che del fondo Negma, chi c’è dietro il fondo Negma?

GIORGIO MOTTOLA C’è una circostanza un po’ strana, cioè avete lo stesso avvocato. La Russa, Ignazio La Russa fa l’avvocato per Visibilia e fa anche l’avvocato però per fondo Negma.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA E allora?

GIORGIO MOTTOLA E allora è una circostanza un po’ curiosa.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Non è l’avvocato del fondo Negma

GIORGIO MOTTOLA Si, il fondo Negma ha mandato delle smentite ai giornali e la firma era di Ignazio La Russa DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Ha mandato delle smentite, non è l’avvocato… non lo so esattamente, però voglio dire… non vedo comunque…

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Non lo sa esattamente. Però bisognerebbe capire poi alla fine chi è stato il regista di questa operazione. Su come sono stati gestiti invece i bilanci di Visibilia di cui ricordiamo la Santanchè è stata presidente fino a gennaio del 2022 è stata depositata una perizia da parte dei consulenti dei Pm milanesi. L’ipotesi è falso in bilancio. Nella consulenza c’è scritto che "La presentazione di bilanci inattendibili, a partire quantomeno dal 2016, ha ritardato l'emersione di un dissesto patrimoniale significativo", insomma. già a partire almeno dal 2016. Ora però c’è un colpo di scena perché dall’archivio di Report che è un po' come l’alta marea, che restituisce dei relitti con in pancia un piccolo tesoro: c’è la prova che Visibilia era esposta con il sistema bancario già a partire dal 2011 per 15 milioni di euro, 2,8 milioni solamente con la Banca popolare di Milano. La Santanchè era stata in quegli anni sottosegretaria alla presidenza del consiglio del governo Berlusconi e anche poi successivamente candidata alle primarie del Pdl. Aveva chiesto un fido di 2 milioni di euro alla Banca popolare di Milano. Ma l’Ufficio crediti si oppone fermamente proprio per il suo stato patrimoniale, per l’esposizione bancaria. Allora che cosa accade: la Santanchè chiama il braccio destro del capo della banca, Antonio Cannalire, era il braccio destro di Massimo Ponzellini, che era a capo della BPM. Un istituto finanziario che da lì a poco verrà coinvolto in uno scandalo perché i magistrati ipotizzavano che invece di finanziare la piccola e media impresa, il tessuto vitale del paese, di quella regione, fosse diventata poi una sorta di bancomat per i politici. Ponzellini e Cannalire, lo diciamo chiaramente, furono assolti dall’ accusa di finanziamento illecito; tuttavia, dalle carte di quell’inchiesta è emerso che un aiutino poi alla fine per l’onorevole Santanchè c’è scappato. È scappato anche il fatto che alla fine anche allora ci aveva dato una falsa rappresentazione della realtà.

DIRIGENTI BANCA POPOLARE DI MILANO C’era un andirivieni in banca di ogni genere, al femminile e al maschile, e quello che stupiva poi era questo tono smaccato con cui la banca si allineava a soggetti dalla chiara identità politica.

SIGFRIDO RANUCCI La Lega in particolare?

DIRIGENTI BANCA POPOLARE DI MILANO La Lega, il Pdl…

SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO All’interno della banca avrebbe agito una struttura parallela a quella ufficiale, che ha finanziato politici e amici. Il “dominus” per i magistrati è il Presidente Ponzellini, affiancato dal suo direttore generale Enzo Chiesa e dal suo braccio destro, Antonio Cannalire.

SIGFRIDO RANUCCI Chi ha visto? DIRIGENTE BANCA POPOLARE DI MILANO Beh, l’onorevole Santanché… ma si vedeva, no? Ho visto Giorgetti, cioè, della Lega, si vedeva… Ho incrociato anche Bossi, anche, che pur a tardo orario, è venuto in banca.

SIGFRIDO RANUCCI Lei non è un’imprenditrice qualsiasi, rivestendo anche un ruolo politico…

DANIELA SANTANCHÉ - PDL Qualsiasi…

SIGFRIDO RANUCCI …diciamo che in qualche modo era agevolata nell’erogazione del credito…

DANIELA SANTANCHÉ - PDL No, le dirò di più che invece siamo… io sono penalizzata, perché anche quando decide il comitato di dare credito, ho ancora un passaggio superiore.

SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO La Santanché è anche a capo di Visibilia, la concessionaria che raccoglie pubblicità, tra gli altri, per Libero e Il Giornale. Aveva chiesto un fido di 2 milioni, ma i dirigenti dell’ufficio crediti avevano posto resistenza perché Visibilia era esposta con le banche per circa 15 milioni di euro e aveva difficoltà a farsi pagare dai clienti. La Santanché allora, ovviamente preoccupata, chiama Cannalire, che le avrebbe fatto avere anche pubblicità BPM.

SIGFRIDO RANUCCI Però Cannalire le ha dato una mano per… in questa vicenda.

DANIELA SANTANCHÉ - PDL No, assolutamente no, perché l’estensione di quello che era il credito poi non è stato dato. SIGFRIDO RANUCCI No, perché, dicevo, risultavano numerose telefonate che lei ha fatto a Cannalire.

DANIELA SANTANCHÉ - PDL No…numerose proprio per niente.

SIGFRIDO RANUCCI Non si è offerta di realizzare un incontro per esempio tra Ponzellini, il premier Silvio Berlusconi e Draghi, per sanare i contrasti tra Bpm e Banca d’Italia…

DANIELA SANTANCHÉ - PDL No, no, non so lei da dove l’ha presa questa notizia, ma lo escludo categoricamente, nella maniera più totale. No.

SIGFRIDO RANUCCI Esclude anche il fatto che Cannalire le ha dato una mano a raccogliere pubblicità per 320 mila euro per il Gruppo Visibilia?

DANIELA SANTANCHÉ - PDL Sì, lo escludo totalmente, magari trovassi qualcuno…

SIGFRIDO RANUCCI Non le ha dato una mano neanche a raccogliere 60 mila euro di pubblicità per il giornale l’Ordine di Como, che è edito dal suo compagno Sallusti?

DANIELA SANTANCHÉ - PDL Assolutamente.

SIGFRIDO RANUCCI No?

DANIELA SANTANCHÉ – PDL No. Scusi, ma lei dove le ha avute ‘ste notizie? Non ho mai letto una cosa del genere, almeno per quello che scrivono i giornali. Facciamo così: siccome lei dice delle balle.

SIGFRIDO RANUCCI Sì?

DANIELA SANTANCHÉ - PDL … e racconta anche delle cazzate, oltretutto infanganti nei miei confronti, sa che cosa c’è? Che mi intervisterà quando mi porterà dei documenti a supporto di quello che lei sta dicendo.

SIGFRIDO RANUCCI Ma io le sto dicendo...

DANIELA SANTANCHÉ - PDL Per me l’intervista è finita.

SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO Quando però le abbiamo chiesto di continuare l’intervista con documenti alla mano, ha declinato l’invito. Avrebbe visto le fatture che proprio la sua azienda ha inviato a BPM per farsi pagare la pubblicità piazzata sul Giornale, su Libero e quella da 60 mila euro sull’Ordine di Como, il giornale edito da Sallusti, che nonostante l’aiutino, è finito in liquidazione. Avrebbe letto anche quando si proponeva di organizzare l’incontro tra Ponzellini, Berlusconi e Draghi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Già 12 anni fa l’onorevole Santanchè negava con disarmante anche incredibile naturalezza, non sapendo che avevamo l’evidenza delle carte. Dalle quali emerge il fatto che Visibilia era esposta con il sistema bancario per circa 15 milioni di euro circa, già a partire dal 2011. Per 2,8 milioni solamente con BPM alla quale aveva chiesto un fido. Però insomma, alla fine, non glielo concede ma insomma viene premiata la Santanchè con la concessione della pubblicità per 320 mila euro che poi lei piazzerà sui giornali. Sono gli anni in cui la Santanchè con il suo ex compagno Mazzaro acquista anche la Ki group, grazie anche, a leggere le condizioni, a un benevolo prestito da parte di Monte dei Paschi di Siena. E poi, insomma, tra Bioera e Ki Group, la Santanchè e Canio Mazzaro raccolgono dai piccoli azionisti, in 9 anni, la bellezza di 23 milioni di euro. Nove si trasformeranno in emolumenti per le loro cariche sociali che hanno ricoperto negli anni. Mentre alla fine poi i dipendenti di Ki Group rimangono senza stipendi e Tfr. Ora, la ministra Santanchè mercoledì riferirà in parlamento, darà la sua versione dei fatti in merito alla denuncia di Report. Speriamo lo faccia in maniera più esaustiva rispetto a quanto ha fatto con noi in questi 12 anni. Però, una cosa ci piacerebbe sapere: se lei non fosse stata una parlamentare, la sua attività da imprenditrice sarebbe stata valutata in maniera diversa rispetto a come viene valutata quella di semplici imprenditori?

Daniela e Aboubakar. Il caso Santanchè e quello Soumahoro e il garantismo etnico-razziale. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 5 Luglio 2023

C’è da aspettarsi che l’informativa della ministra al Senato sulle disavventure delle sue società e le posizioni della maggioranza contro le accuse sia una versione molto edulcorata del linciaggio che ha dovuto subire a suo tempo il deputato scaricato da Verdi e Sinistra. E lui rispondeva delle accuse solo indirettamente

Ho una spiccata preferenza per i politici che non volgono le spalle al collega, che sia compagno o camerata, finito nel mirino o nelle grinfie di qualche Procura per un’accusa più o meno infamante e che, prima di scaricarlo, aspettano non dico una sentenza definitiva, ma una verità un po’ meno provvisoria di una velina giudiziaria o di uno di quei dossieraggi, utili solo a confermare quanto avesse ragione Massimo Bordin a chiedere la separazione delle carriere tra magistrati e giornalisti, prima di quella tra inquirenti e giudicanti.

Non si può quindi dire che, in linea generale, non apprezzi l’idea che una maggioranza e un esecutivo, prima di liquidare un ministro per una inchiesta giornalistica (a maggior ragione se di Report e de Il Fatto) o per una indagine giudiziaria, aspetti che si posi la polvere dello scandalo e delle indignazioni a comando. L’apprezzerei invero di più se questa cautela non valesse unicamente per gli amici.

Non mi sfugge neppure che, in un Paese avvezzo a ritenere “illecito” sinonimo di “male”, lo scrupolo garantista sia spesso risolto – come è ovvio, a beneficio degli amici – in una paradossale condizione di immunità da qualunque giudizio e censura, anche per fatti e comportamenti il cui rilievo politico sia del tutto indipendente dalla loro eventualissima rilevanza penale.

Tutto ciò detto, c’è da aspettarsi che quel che accadrà oggi al Senato – l’informativa della ministra Daniela Santanchè sulle disavventure delle sue società e le posizioni della maggioranza contro le accuse e le richieste di dimissioni dell’opposizione – suonerà come una grottesca palinodia del linciaggio preventivo riservato qualche tempo fa a Aboubakar Soumahoro, per una inchiesta che riguardava la suocera e lambiva la moglie, ma in cui il deputato di origini ivoriane non era allora, né sarebbe stato in seguito coinvolto.

Lasciamo da parte – senza dimenticarlo – il modo in cui i partiti che l’avevano candidato l’hanno abbandonato in balia dei picchiatori politico-mediatici (di destra e di sinistra) che finalmente si vendicavano dell’ex bracciante, accusandolo, nella sostanza, di non vivere più in una baracca, dove tutti gli ex braccianti neri devono vivere se vogliono essere presi sul serio e non vogliono passare per venduti e traditori.

Consideriamo invece le ragioni del «Soumahoro si dimetta!» minacciosamente agitate ai tempi dalla attuale maggioranza parlamentare: un insieme di presunte malversazioni compiute da moglie e suocera nell’esercizio dell’attività imprenditoriale e un agio economico palesemente esibito, malgrado la spilorceria ricattatoria riservata ai dipendenti. Soldi spesi in vestiti di lusso e stipendi da fame, in ritardo o non pagati. Bella vita sbattuta in faccia a collaboratori dalla vita grama. Cosa manca per chiedere le dimissioni di Santanchè?

Si dirà: c’è una bella differenza con il caso Soumahoro! Certo che c’è, a tutto vantaggio del deputato scaricato da Verdi e Sinistra. Tutte le accuse transitavano su di lui indirettamente, per via familiare. Aboubakar doveva rispondere della suocera, Daniela non deve rispondere nemmeno di se stessa.

Perché? Perché la ministra editrice e balneare ha dalla sua la posizione (sta evidentemente dalla parte giusta, quella di chi comanda) e anche il colore (come direbbe il suo collega Francesco Lollobrigida, appartiene al ceppo autoctono italiano), e quindi non rischia né la poltrona, né l’oltraggio di quei fischi razzisti, che allo stadio fanno interrompere le partite, ma alla Camera, a quanto pare, non interrompono neppure l’emozione della caccia al deputato nero.

 Centinaia di multe non pagate: il buco nei conti di Daniela Santanchè. Più di quattrocentocinquanta accertamenti per la Maserati intestata a Visibilia che usava la ministra Santanchè: multe non pagate e pass personali usati illecitamente. Marianna Piacente su Notizie.it il 4 Luglio 2023

Multe pagate: una su 462. Rimborsata, poi. L’accusato? La ministra del Turismo Daniela Santanchè. Autore della scoperta è il Fatto quotidiano, che in questo modo mette il dito nella piaga aperta dalle accuse che riguardano Visibilia e Ki Group, le società della politica piemontese.

Il pass personale su un’auto aziendale

Stando a quanto riportato dal quotidiano di via Sant’Erasmo, dovrebbe trattarsi per lo più di sanzioni legate a Ztl e divieti di sosta su Milano. Gli accertamenti sarebbero stati archiviati in automatico perché la targa dell’auto in questione – una Maserati da trecento cavalli – era collegata all’ecopass personale di Santanchè, che permette di accedere anche all’Area C, anche se si guida un auto a gasolio che normalmente non potrebbe assolutamente passare. Il pass personale dell’attuale ministra (allora parlamentare) veniva dunque usato su un’auto formalmente aziendale (pagata in leasing da Visibilia). Il Comune di Milano ha affidate le multe non pagate a una società di recupero crediti.

Un aneddoto del 2017

Sempre il Fatto racconta che nel 2017 l’auto di Daniela Santanchè fu fermata per essere passata con il semaforo rosso: alla guida c’era il suo autista, la parlamentare non era a bordo. L’infrazione arrivò anche perché l’auto aveva sirena e lampeggiante, come accade per i mezzi degli esponenti di governo (Santanchè non lo era dal 2011). La sua risposta in quell’occasione fu che «sirena e lampeggiante sono di proprietà della polizia di Stato, deve essere la stessa polizia a ritirarli. Fino a quando questo non avverrà, non dovrò essere certo io a toglierli. Comunque l’auto non era intestata a me, non ero presente al momento del fatto e non ho alcuna responsabilità di alcun tipo». Ponzio Pilato farebbe un inchino.

Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian per “il Domani” il 5 Luglio 2023.

Più che del Turismo, Daniela Santanché, è la ministra dei debiti. A tal punto che per garantire i creditori ha dovuto vincolare la lussuosa villa in centro a Milano valutata 6 milioni di euro, come raccontato da Domani. Debiti enormi tutti rendicontati nei documenti che hanno portato alla sottoscrizione di un vincolo sull’abitazione come garanzia al piano di ristrutturazione dei debiti presentato al tribunale di Milano, una soluzione tempestiva per dribblare il decreto di ingiunzione notificato dallo stesso tribunale di Milano il 3 maggio 2023. 

La ministra del Turismo è indagata da tempo nell’inchiesta per bancarotta condotta dalla procura di Milano sulle società della galassia Visibilia. Non è la sola, assieme a lei c’è un gruppo di persone che hanno avuto ruoli diversi nella gestione delle aziende. «È falso che io sia indagata. Il fascicolo è aperto a modello 45, quindi senza indagati». Ecco la difesa di Santanchè a novembre 2022 quando alcuni giornali avevano dato la notizia. In realtà a Domani risulta che il pool che si occupa di reati societari (pm Maria Gravina e Roberto Fontana) aveva solo segretato l’iscrizione.

È una modalità comune prevista dal codice di procedura penale nel caso in cui «sussistano specifiche esigenze attinenti all'attività di indagine». Per questo agli avvocati non risultava alcun procedimento penale sulla loro assistita. All’epoca l’iscrizione riguardava solo il reato di bancarotta. Nel corso del tempo però è emerso anche un secondo filone, il falso in bilancio, che secondo il Corriere, nell’articolo di novembre scorso, è tra i reati contestati alla ministra. 

[…] Non è certo se Pd e 5 Stelle presenteranno una mozione di sfiducia. Certo valuteranno il da farsi dopo l’intervento della ministra: se non sarà convincente cercheranno una soluzione condivisa per chiederne le dimissioni. Tra i documenti più rilevanti per capire lo stato di insolvenza della ministra del governo Meloni ci sono i cosiddetti «contratti di accollo» stipulati tra Santanchè e alcuni creditori.

La data è il 30 giugno scorso, la ministra era in carica da otto mesi. Con l’atto l’imprenditrice e politica si assume il debito della società Visibilia Srl per garantire le società che chiedono la restituzione dei soldi. Nel primo di questi accordi Santanchè si «accolla» il debito di Visibilia srl ( «in quanto detiene il 95 per cento delle quote») nei confronti di Visibilia editrice, in cui la ministra non ha mai avuto cariche. «Visiblia srl è priva di risorse», è scritto nell’atto, «sicché le risorse necessarie saranno messe a disposizione da Santanchè». 

Anche ponendo il vincolo sulla villa milionaria, legato al rispetto del piano di rientro stabilito tra le due Visibilia: 1,9 milioni di euro, da restituire a rate fino al 2025. Mentre Visibilia editrice non ha tentato l’ingiunzione, al contrario lo hanno fatto le società che hanno acquisito i crediti vantati da Intesa San Paolo nei confronti di Visibilia Srl.

Il decreto del giudice del tribunale civile di Milano è del 3 maggio 2023: impone alla società il pagamento «di 4,56 milioni di euro» e alla «garante», cioè la ministra, «il pagamento di 2,24 milioni di euro». Alla fine l’accordo di saldo e stralcio con la società Kerdos (aveva acquisito i crediti vantati da Intesa) prevede un pagamento totale di 1,2 milioni da versare entro 90 giorni. Debiti che Visibilia aveva contratto con Intesa San Paolo a cavallo del 2015 e il 2019: linee di credito concesse e non del tutto compensate da Santanchè e un «mutuo chirografo» di 3,5 milioni di euro. […]

La Santanchè in Senato sul caso Visibilia: “Su di me campagna d’odio, mai ricevuto avvisi di garanzia”. In realtà è indagata. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Luglio 2023

L’informativa della ministra del Turismo: “Sono qui a difendere l’onore mio e di mio figlio. Nulla da nascondere, sono una persona felice. Non ho nessuna multa da pagare. Critiche più feroci da chi prenota nei miei locali”.

“Non sono stata raggiunta da alcun avviso di garanzia”. Così si è difesa il ministro per il Turismo, Daniela Santanchè, nella sua informativa al Senato, dopo le indiscrezioni di stampa – in seguito ad una puntata del programma televisivo “Report” – su presunte irregolarità nelle sue aziende Visibilia e Ki Group. Dopo quasi cinque minuti non ha ancora parlato dei Tfr non pagati, delle società in situazioni economiche complicate e dei misteriosi affari del Fondo Negma di Dubai. .

La ministra ha detto di parlare vestendo i panni “dell’imprenditore“, affermando di essere orgogliosa delle sue attività. Per prima cosa ha ricordato il suo ingresso nel settore editoriale: “Credo che tutti quelli che oggi fanno impresa possono capire bene quello che sto dicendo», coloro che «stanno lottando per tenere in vita le loro imprese“. Le inchieste, secondo la Santanchè, sono un modo per mettere a rischio “la ristrutturazione in corso delle sue imprese”. La ministra è quindi passata a rispondere al suo grande accusatore, Giuseppe Zeno: “Ci saranno indagini grazie alle quali con registrazioni vocali saranno chiare le finalità che lo hanno ispirato“.

Non è più secretata l’iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Milano della ministra del Turismo Daniela Santanchè, nei cui confronti e in quelli di altre persone è aperta un’indagine per bancarotta e falso in bilancio su Visibilia, il gruppo da lei fondato e nel quale è rimasta fino al 2022. Lo si apprende da fonti della Procura. La normativa, infatti, prevede che il segreto sulle iscrizioni si possa mantenere soltanto “per un periodo non superiore a tre mesi e non” è “rinnovabile” 

Per quanto riguarda le società attive nel biologico, la ministra ha sostenuto che riguardano “il padre di mio figlio” – cioè il lucano Canio Mazzaro – “Non ho mai avuto il controllo nelle imprese dell’alimentare e biologico. Ho svolto attività di impresa nel mondo della pubblicità, dell’intrattenimento e dell’editoria. La mia partecipazione a Ki group non ha mai superato il 5 per cento. Nel 2010 il gruppo del settore biologico è stata presa non da me ma dal padre di mio figlio con cui non avevo più alcun legame“, ha detto la ministra del Turismo.

Sulla dipendente con la cassa integrazione a zero ore, ma che ha dichiarato di aver comunque lavorato, Santanchè ha detto che non ha mai prestato servizio in quel periodo. La società Visibilia ha deciso comunque di sanare la questione. “Non sono raggiunta da alcun atto, né da alcun rinvio a giudizio“. Ed ancora: “Mi fa sorridere che le critiche più feroci vengono da molti che in privato hanno tutto un altro atteggiamento nei miei confronti. A volte fa anche piacere prenotare nei locali di intrattenimento che io ho fondato. Ma io sono felice di farlo. E mi fermo qui per carità di patria…”.

“Un quotidiano stamattina snocciola informazioni senza indicare alcuna fonte – ricorda con riferimento al ‘Domani‘ – O questo giornale mente, in una classica imboscata per colpire un ministro del governo, oppure prendo in considerazione questa ipotesi, che ripete vicende passate nella storia, oppure il ‘Domani‘ ha avuto notizia che io non ho, e che nessuno potrebbe avere“. Siamo di fronte a “sporche schifose pratiche, che oggi toccano me e domani potrebbero toccare anche a comuni cittadini“, dice, sostenendo di essere stata “oggetto di una campagna di vero e proprio odio nei miei confronti“.

Il Domani ha pubblicato la notizia che “La ministra del Turismo è indagata da tempo nell’inchiesta per bancarotta condotta dalla procura di Milano sulle società della galassia Visibilia. Non è la sola, assieme a lei c’è un gruppo di persone che hanno avuto ruoli diversi nella gestione delle aziende“, scrivendo che “più che del Turismo, Daniela Santanché, è la ministra dei debiti. A tal punto che per garantire i creditori ha dovuto vincolare la lussuosa villa in centro a Milano valutata 6 milioni di euro, come raccontato da Domani. Debiti enormi tutti rendicontati nei documenti che hanno portato alla sottoscrizione di un vincolo sull’abitazione come garanzia al piano di ristrutturazione dei debiti presentato al tribunale di Milano, una soluzione tempestiva per dribblare il decreto di ingiunzione notificato dal tribunale di Milano il 3 maggio 2023“, aggiungendo che “Tra i documenti più rilevanti per capire lo stato di insolvenza della ministra del governo Meloni ci sono i cosiddetti «contratti di accollo» stipulati tra Santanché e alcuni creditori. La data è il 30 giugno scorso, la ministra era in carica da otto mesi”.

“Se avessi ricevuto un mai arrivato avviso di garanzia ve lo avrei detto, perché per me non sarebbe cambiato nulla di una virgola: né la mia fiducia nella magistratura né le mie convinzioni sulla mia vicenda. Come diceva mio padre, ottavo figlio di contadini, solo chi ruba nasconde: e io non ho nulla da nascondere“, aggiunge il ministro, ricordando che “ho impegnato tutto il mio patrimonio per salvare le aziende, sfido a trovare qualcuno che faccia lo stesso”. “Gli appunti mossi a Ki Group negli anni 20-22, esulano dal mio impegno. Su Visibilia non sono stata raggiunta a ora da alcun avviso di reato, men che meno da alcun rinvio a giudizio, che potrebbe muovere critiche al mio operato politico“.

“Ringrazio per la solidarietà i ministri e la presidente del Consiglio”, dice ancora in Aula il ministro. “Oggi più che darvi risposte – continua – sono io che dovrei chiedervi con forza delle risposte. Qualcuno dovrebbe dare a me delle risposte. E vi chiedo: è normale che un ministro della Repubblica legga che, secondo un giornale, sarebbe indagato?” e prosegue “Sono qui per bloccare la strumentalizzazione politica che è stata fatta su questa vicenda, voglio difendere l’onore mio e di mio figlio. Sono qui per rispondere a qualsiasi domanda, non siate nervosi…”, dice, rivolgendosi ai banchi delle opposizioni. 

Santanchè poi ribadisce che “non ho mai avuto partecipazione nel settore dell’alimentare biologico, come molti media hanno raccontato, la mia partecipazione in Ki Group non ha mai superato il 5%“. “Non mi sono mai appropriata di nulla che non mi appartenesse e non ho mai abusato delle posizione apicali nelle aziende. Sfido chiunque a dimostrare il contrario”, puntualizza. “A fronte delle notizie di compensi stratosferici da Ki Group, nel triennio 19-20-21 ho incassato una media di 9mila euro l’anno, 27mila lordi in totale”. “I lavoratori dipendenti verranno soddisfatti in tutti i diritti di credito, come previsto dal concordato”, dice ancora.

C’è stato un “unico intervento professionale da parte dello studio La Russa”, puntualizza la Santanchè, ricordando che “non ho più alcuna partecipazione azionaria”. “All’interno di Visibilia Spa vi era un dipendente part time, per il quale sono accusata di avere ricevuto la cassa integrazione, io sono certa che quella dipendente non ha mai messo piede in Visibilia da quando è finita in cassa integrazione“. “Nessuna questione relativa alla cassa integrazione è mai stata sollevata da alcun dipendente di Visibilia“.

“Sono fiera di aver dato lavoro a tante persone”. Dopo la crisi del Covid “molti imprenditori – sottolinea – hanno lottato per tenere in piedi le loro aziende, così come ho fatto io. Io credo nelle cose che faccio: non mi sono mai nascosta e ho messo in gioco l’intero mio patrimonio personale”, rivendica l’esponente di Fdi che poi chiede: “E’ normale che un giornalista scriva cose secretate e ignote a me e ai miei avvocati? Ci scandalizziamo per come mi vesto, per dove abito, e chiudiamo gli occhi davanti a questa sporca pratica?” e conclude: “La mattina mi guardo allo specchio e mi piace quello che vedo riflesso. Se ho commesso errori ho già pagato, gli organi fallimentari italiani funzionano bene, magari con un po’ di lentezza“. 

Diversi ministri sono andati a salutare la Santanchè al termine della sua informativa in Aula, dopo che il presidente La Russa ha dichiarato conclusa la seduta. Uscendo dai banchi del governo Santanchè ha incrociato Schillaci che l’ha baciata. Subito dopo la ministra del turismo è finita tra le braccia di Annamaria Bernini che l’ha stretta a se per diversi secondi, parlandole all’orecchio. Santanchè è stata poi baciata dalla ministra del Lavoro Calderone e da quello per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, così come da tre altri senatori del gruppo di Fdi, con i quali ha lasciato sorridendo l’Aula.

Le reazioni della politica

Il primo intervento è stato quello di Antonio De Poli, dell’Udc. Il caso Santanché per lui ricorda quello di Silvio Berlusconi. Gli interventi andranno in ordine inverso rispetto al peso in parlamento, segue Tino Magni, del gruppo Misto, Luigi Spagnolli, delle Autonomie,  Enrico Borghi ex dem passato a Italia viva, Pierantonio Zanettin di Forza Italia. Seguiranno Stefano Patuanelli del Movimento 5 stelle, Massimiliano Romeo della Lega, poi Antonio Misiani del Pd e infine Italo Balboni di Fratelli d’Italia.

Calenda: “Santanchè valuti passo indietro. C’è una profonda differenza tra essere garantisti e sostenere che comportamenti gravemente inappropriati di un membro di governo debbano essere considerati irrilevanti fino a eventuale sentenza passata in giudicato. In tutte le democrazie liberali i membri di governo rispondono politicamente dei loro comportamenti, indipendentemente dalle vicende giudiziarie”. A scriverlo su Twitter è il leader di Azione, Carlo Calenda. “Non abbiamo chiesto le dimissioni della Santanchè fino ad oggi. Abbiamo chiesto spiegazioni. Le spiegazioni date sono parziali, inesistenti o omissive. Ricordo che in questo caso si parla di mancato pagamento del Tfr, uso fraudolento della cassa integrazione, mancato pagamento di stipendi, mancata restituzione di fondi pubblici etc. Alla luce di quanto accaduto oggi in Senato – conclude – la ministra dovrebbe seriamente valutare di fare un passo indietro”.

Zanettin di Forza Italia, ribadendo che il suo partito è garantista, se l’è presa con la procura di Milano e con il quotidiano Il Domani: “Se anche fosse indagata cosa cambierebbe? Qui è venuta a parlare non della sua attività di ministro, ma di imprenditrice“. Per la Lega è un caso mediatico, ha detto il presidente del gruppo al Senato Massimiliano Romeo, che lo associa al “caso Metropol”, la trattativa del partito di Matteo Salvini con i russi finita con un’archiviazione, ma non perché non ci sia stata: “Noi della Lega ne sappiamo qualcosa: vi ricordate il caso Metropol?“. Balboni di Fratelli d’Italia ha detto: “Lei ha la nostra piena fiducia. Il caso del Domani è emblematico”.

Il senatore Patuanelli, capogruppo M5s, ha criticato per primo la ministra. Ha portato in aula i dipendenti lesi dalle società della ministra: “Lei riesce a guardarli negli occhi?“. Ed ha annunciato che i pentastellati hanno presentato una mozione di sfiducia. Il Movimento 5 stelle ha riportato le dichiarazioni economiche della ministra in parlamento, e Balboni ha provato a smentirlo, ma ha trovato le critiche degli altri parlamentari.  

Conte: “Altre opposizioni nervose? Per noi mozione cristallina. Abbiamo parlato e avuto scambi con le altre oppsizioni e preventivi scambi di valutazione. Abbiamo detto che sulla mozione di sfiducia ci saremmo riservati di decidere dopo l’informativa. Per noi il ministro non ha affrontato gli aspetti critici e abbiamo depositato la mozione di sfiducia”. Così il presidente M5S Giuseppe Conte, in conferenza al Senato dopo la mozione di sfiducia al ministro del Turismo Daniela Santanchè presentata dai Cinquestelle. “C’è nervosismo nelle altre forze politiche? Mi sembrerebbe strano, a noi questo punto appare cristallino”, conclude.

Il Pd invece le chiede di “dimettersi“. Il Pd voterà la sfiducia alla ministra del Turismo Daniela Santanchè proposta dal M5S? “Certamente sì”. ha sottolineato ai giornalisti Elly Schlein, una volta raggiunta Fiesole (Firenze) dove la segretaria “dem” partecipa alla Festa dell’Unità. “Alla ministra non resta che dimettersi e vogliamo sapere da Giorgia Meloni, qualora non lo facesse, cosa intenda fare: se si assuma, cioè, la responsabilità di mantenere al governo una ministra la cui posizione imbarazza il governo e tutto Paese”. Oggi in Senato, prosegue la Schlein , “abbiamo sentito le unghie di Santanchè sui vetri mentre cercava di arrampicarsi difendendo l’indifendibile. Le sue dipendenti la smentiscono e rimane il fatto denunciato dal Pd: una ministra non può avere un debito con lo Stato di 2,7 milioni, cosa che non è stata smentita dalla ministra durante il suo intervento. Un intervento, peraltro, servito solamente per attaccare frontalmente la libertà di stampa, che è un fatto grave. E per attaccare le opposizioni con la solita dose di vittimismo. Nel merito delle gravi contestazioni che le vengono fatte, però, non abbiamo sentito risposte. Chiediamo quindi ai ministri Giorgetti, Calderone e Urso di venire a riferire in aula per chiarire i contorni di questa gravissima vicenda”. Redazione CdG 1947

Santanchè: “Indagata? Appreso da media”. Mozione di sfiducia da M5S, sì da Pd. By adnkronos su L'Identità il 6 Luglio 2023 

(Adnkronos) – "Sono stata oggetto di una campagna di vero e proprio odio nei miei confronti", ha detto la ministra per il Turismo, Daniela Santanchè nella sua informativa al Senato, dopo le indiscrezioni – in una puntata di Report – su presunte irregolarità delle aziende Visibilia e Ki Group. "Non sono stata raggiunta da alcun avviso di garanzia", ha voluto subito chiarire.  Poi una nota, nel tardo pomeriggio: "Il Ministro Daniela Garnero Santanchè apprende, da comunicati stampa diffusi in data odierna che farebbero riferimento ad informazioni ricevute da fonti interne dalla Procura della Repubblica di Milano, che risulterebbe iscritta nel registro degli indagati (sebbene ciò non risultasse dal certificato a suo tempo estratto nel mese di dicembre 2022)".  "Dai comunicati risulterebbe che tale informazione sarebbe stata resa disponibile ai mezzi di informazione, a seguito della de-secretazione del relativo fascicolo, de-secretazione avvenuta trascorso il periodo di legge di tre mesi dall’inizio delle indagini. In altre parole, la de-secretazione sarebbe stata disposta intorno al mese di gennaio/febbraio 2023, mentre la stessa notizia – mai ricevuta dall’interessata – sarebbe stata fornita ai mezzi di informazione, in concomitanza proprio con l’audizione resa oggi in Senato dal Ministro" conclude la nota.

 "Oggi più che darvi risposte sono io che dovrei chiedervi con forza delle risposte. Qualcuno dovrebbe dare a me delle risposte. E vi chiedo: è normale che un ministro della Repubblica legga che, secondo un giornale, sarebbe indagato?", ha aggiunto dopo aver ringraziato "per la solidarietà i ministri e la presidente del Consiglio". "Sono qui per bloccare la strumentalizzazione politica" che è stata fatta su questa vicenda, "voglio difendere l'onore mio e di mio figlio", ha quindi detto in Aula. "Non ho mai avuto partecipazione nel settore dell'alimentare biologico, come molti media hanno raccontato, la mia partecipazione in Ki Group non ha mai superato il 5%", ha detto ancora. "A fronte delle notizie di compensi stratosferici da Ki Group, nel triennio 19-20-21 ho incassato una media di 9mila euro l'anno, 27mila lordi in totale", ha aggiunto. "I lavoratori dipendenti verranno soddisfatti in tutti i diritti di credito, come previsto dal concordato", ha poi affermato. E "non mi sono mai appropriata di nulla che non mi appartenesse e non ho mai abusato delle posizione apicali nelle aziende. Sfido chiunque a dimostrare il contrario". "Ho impegnato tutto il mio patrimonio per salvare le aziende, sfido a trovare qualcuno che faccia lo stesso", ha affermato aggiungendo: "Gli appunti mossi a Ki Group negli anni 20-22, esulano dal mio impegno. Su Visibilia non sono raggiunta a ora da alcun avviso di reato, men che meno da alcun rinvio a giudizio, che potrebbe muovere critiche al mio operato politico". "Sono fiera di aver dato lavoro a tante persone", ha quindi detto in Aula. Dopo la crisi del Covid "molti imprenditori – ha sottolineato – hanno lottato per tenere in piedi le loro aziende, così come ho fatto io. Io credo nelle cose che faccio: non mi sono mai nascosta e ho messo in gioco l'intero mio patrimonio personale". La mattina mi guardo allo specchio e mi piace quello che vedo riflesso", ha affermato. "Se ho commesso errori ho già pagato, gli organi fallimentari italiani funzionano bene, magari con un po' di lentezza", ha rivendicato. "Come diceva mio padre, ottavo figlio di contadini, solo chi ruba nasconde: e io non ho nulla da nascondere", ha detto quindi. "Mi fa sorridere che le critiche più feroci vengono da molti che in privato hanno tutto un altro atteggiamento nei miei confronti. A volte fa anche piacere prenotare nei locali di intrattenimento che io ho fondato. Ma io sono felice di farlo. E mi fermo qui per carità di patria…", ha affermato. "In merito all'informativa tenuta dalla ministra occorre rilevare che i chiarimenti resi non forniscono spiegazioni sufficienti a fugare le forti perplessità sull'opportunità della sua permanenza al Governo", si legge nella mozione di sfiducia che il M5S ha depositato in Senato nei confronti della ministra per il Turismo Per il M5S "circa la paventata estraneità ai fatti contestati, appare utile sottolineare che nella dichiarazione patrimoniale depositata dalla ministra presso gli uffici del Senato nel 2022, la stessa risulta proprietaria del 95% delle azioni di Visibilia S.r.l. e di Immobiliare Dani S.r.l.". Il Movimento 5 Stelle quindi "esprime la propria sfiducia al Ministro del turismo, senatrice Daniela Garnero Santanchè, e lo impegna a rassegnare le proprie dimissioni". "La situazione soggettiva del Ministro del turismo, alla luce dei fatti emersi, risulterebbe sempre più incompatibile con la delicatezza degli incarichi ricoperti, non potendo l'Italia proseguire ad avere un Governo i cui membri espongano il sistema Paese a situazioni perniciose derivanti dalla commistione di interessi pubblici e privati".  "E' imprescindibile che il nostro Paese e le sue istituzioni siano salvaguardate, nel loro prestigio e nella loro dignità, anche attraverso il doveroso principio di 'onorabilità' per coloro a cui sono affidate funzioni pubbliche. Ne consegue la responsabilità politica anche del Presidente del Consiglio dei ministri, che, ai sensi dell'articolo 95 della Costituzione, dirige la politica generale del Governo".  Il Pd voterà la mozione M5S sul ministro Daniela Santanchè? "Certamente sì", ha risposto Elly Schlein parlando con i giornalisti a margine della Festa dell'Unità di Fiesole (Firenze). "Abbiamo sentito le unghie di Santanchè sui vetri, mentre cercava di arrampicarsi difendendo l'indifendibile – ha detto la segretaria del Pd – Le sue dipendenti la smentiscono e rimane il fatto, denunciato da giorni dal Pd, che una ministra della Repubblica non possa avere un debito con lo Stato di 2,7 milioni, cosa che non è stata peraltro smentita durante l'intervento della ministra. L'intervento è servito solamente per attaccare frontalmente la libertà di stampa, fatto grave, e per attaccare le opposizioni con la solita dose di vittimismo, ma nel merito delle gravi contestazioni che le vengono fatte non abbiamo sentito risposte". "Noi distinguiamo bene quella che è la responsabilità giuridica dalla responsabilità politica. Oggi nell'Aula del Senato non c'è stato un processo giudiziario, le verifiche giudiziarie sono in corso ma c'è un aspetto di responsabilità politica ed è quello che ci riguarda e ci ha spinto a formalizzare la mozione di sfiducia nei confronti della ministra Santanché, e secondo noi la responsabilità politica c'è tutta", ha detto il presidente del M5S Giuseppe Conte.

 "Non ci siamo spaccati ma Paita ha detto a Calenda: se vuoi fare il giustizialista fallo pure. Ma non lo farai a nome del gruppo. Se vuoi parli in dissenso a fine seduta. Noi saremo garantisti con Fdi come Fdi non lo è stata con noi". Così fonti di Italia Viva a proposito del caso Santanchè. Su Twitter, il leader di Azione Calenda – dopo l'informativa della ministra – ha scritto: "C'è una profonda differenza tra essere garantisti e sostenere che comportamenti gravemente inappropriati di un membro di governo debbano essere considerati irrilevanti fino a eventuale sentenza passata in giudicato". E ha concluso: "Alla luce di quanto accaduto oggi in Senato, la Ministra dovrebbe seriamente valutare di fare un passo indietro". "Qui siamo a fare politica, non chiediamo le sue dimissioni come voi avete fatto con noi. Noi diciamo che ogni valutazione sul prosieguo della sua esperienza di ministra è nelle mani sue e del presidente del Consiglio, che si assume la responsabilità politica. Se c'è dell'altro tragga le necessarie conclusioni. La decisione è tutta nelle sue mani", ha detto Enrico Borghi di Italia Viva, in Senato dopo l'informativa della ministra.

Daniela Santanchè è indagata da oltre 8 mesi: ecco perché ha detto di non saperlo. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 6 Luglio 2023 

La ministra del Turismo Daniela Santanché, come rivelato dal «Corriere» nel novembre scorso, risulta indagata da mesi per falso in bilancio. Ma la notifica dell’inchiesta, che risale a marzo, a tutt'oggi non le è ancora arrivata 

Galeotto o benedetto, a seconda dei punti di vista, è il piccione viaggiatore togato. Perché soltanto la casualità di una procedura «al ralenti» di proroga delle indagini sta consentendo al ministro Daniela Santanchè e ai parlamentari intervenuti nell’informativa in Senato di mercoledì 5 luglio il surreale confronto fra chi fa finta di non sapere che il ministro sia indagata da mesi per falso in bilancio , chi (a cominciare da lei) fa quindi finta di scandalizzarsene nel leggerlo qua e là adesso, e chi si accapiglia o nel denunciare la «stampa a orologeria» o nel cavalcare l’addebito giudiziario. 

Che Santanché sia indagata per falso in bilancio nelle comunicazioni 2016-2020 di Visibilia Editore spa è infatti noto da quando lo si scrisse (qui il 2 e 3 novembre 2022) non in forza di chissà quale riuscito scoop, ma banalmente perché — tra gli atti della richiesta della Procura al Tribunale Fallimentare di staccare la spina e mettere in liquidazione quattro società del gruppo Visibilia dell’imprenditrice, indebitate per lo più con il Fisco – una annotazione del 30 settembre 2022 del Gruppo Tutela Mercati della Guardia di Finanza di Milano già era palese nell’additare ai pm «la sussistenza del reato di false comunicazioni sociali». 

E quando in quell’inizio novembre per provare a smentire la notizia Santanchè sbandierò la certificazione di routine della Procura all’istanza dei suoi legali contemplata dall’articolo 335 del codice di procedura («non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione»), si capì subito che era un possibile caso di ricorso dei pm al 3 bis di quell’art.335, cioè alla facoltà in caso di indagini complesse di ritardare (per un massimo di 3 mesi) la comunicazione dell’iscrizione. Del resto, anche se Santanchè non lo ammetterà mai, i suoi avvocati in quei giorni, e poi a lungo nello svolgersi delle udienze fallimentari, avevano avuto con la Procura interlocuzioni esplicite nelle quali era un dato pacifico che Santanchè fosse indagata sia per falso in bilancio sia per concorso in bancarotta: ragione per cui il ministro si è ben guardata dal mandarli a chiedere di nuovo la certificazione, proprio per poter continuare a dire di non aver notizia formale di indagini a proprio carico. 

Ma dopo sei mesi dall’iscrizione c’è sempre un altro passaggio procedurale: i pm, qualora abbiano bisogno di altro tempo per indagare, devono per forza chiedere (a pena di inutilizzabilità delle successive acquisizioni) la proroga delle indagini al giudice delle indagini preliminari, il quale deve notificare la richiesta di proroga all’indagato e dunque così informarlo delle indagini a suo carico. Se questi ha già un difensore, la notifica avviene in breve con una «pec» al legale. 

Ma Santanchè, che pure ha avuto in passato altri procedimenti penali a Milano, in questo sul falso in bilancio di Visibilia non ha appunto mai conferito un formale mandato a un avvocato penalista, mentre il civilista che la segue nelle udienze fallimentari delle società non ha titolo. 

In questi casi la richiesta della proroga delle indagini viene notificata al domicilio dell’indagato, e se ne ha prova quando al gip torna la «cartolina» dell’Ufficiale Giudiziario (Ufficio Unep) attestante la riuscita consegna. 

Il punto è che nel caso di Santanchè, la quale da quel rapporto Gdf era intuibile fosse stata indagata a fine settembre 2022, i sei mesi sono scaduti il 30 marzo, quando la Procura ha dunque chiesto la proroga delle indagini, la cui notifica però non è stata completata ed è ancora in corso lungo l’asse Ufficio Gip-Ufficiali giudiziari. 

Nulla di più facile, dunque, che la «cartolina», tempisticamente beffarda, completi il proprio viaggio e arrivi magari solo e proprio nei prossimi giorni.

"E' normale che un ministro della Repubblica legga che, secondo un giornale, sarebbe indagato". Santanchè: “Nessun avviso di garanzia, lo scrive solo Il Domani: reagite a questa pratica schifosa”. “Attacchi vergognosi, calibrati nel tempo e nei modi per rendere impossibile una risposta puntuale”. Redazione su Il Riformista il 5 Luglio 2023 

“Stamattina è accaduto qualcosa che va veramente oltre la mia vicenda e che credo debba allarmare tutti voi, senza distinzione di appartenenza partitica o politica”. E’ l’inizio del discorso in Senato della ministra del Turismo Daniela Santanchè, nel corso della usa informativa a Palazzo Madama sui fatti rilevati dalla trasmissione Report e relativi ad alcune presunte irregolarità delle aziende Visibilia e Ki Group.

“Una campagna di vero e proprio odio nei miei confronti” spiega la ministra che nel precisare “innanzitutto sul mio onore che non sono stata raggiunta da nessun avviso di garanzia e ho chiesto per scrupolo ai miei avvocati di verificare e non è emerso nulla, ho anche estratto il certificato dei carichi pendenti in cui risulta che non ci sono annotazioni per qualsivoglia procedimento nei mie confronti”, rende noto quanto pubblicato nell’edizione del 5 luglio da quotidiano Il Domani che “afferma con dovizia di particolare che sarei indagata, sia pure ‘segretamente’, e snocciola informazioni mescolando dati noti e altri oscuri senza indicare alcuna fonte”.

“Delle due l’una: o questo giornale mente sapendo di mentire e sceglie questo giorno, quello del mio  intervento in aula, per colpire un ministro del governo contro cui giornalmente si scaglia. Oppure prendo anche in considerazione questa ipotesi: Il Domani ha avuto notizia che io, sottolineo, non ho e che nessuno potrebbe lecitamente avere. Sarebbe questa una ipotesi ancora più grave della prima tale da mettere in subordine quanto ho in animo di illustravi e di rendere invece necessaria una comune azione del Senato contro queste sporche, schifose pratiche. Quelli che si definiscono attacchi vergognosi, calibrati nel tempo e nei modi per rendere impossibile una risposta puntuale”.

“Il Domani – aggiunge – vuole alzare l’asticella quando stanno invece per cadere le incredibili accuse dei giorni precedenti. Vi chiedo accoratamente di reagire a questa pratica che oggi tocca a me e domani potrebbe colpire qualsiasi cittadino, politico e non politico. Esporrò comunque tutte le informazioni che mi avete richieste specificando che vi avrei detto se avessi ricevuto un avviso di garanzia”.

“Oggi più che dare risposte sono io che dovrei chiederne. Ma è normale che un ministro della Repubblica legga che, secondo un giornale, sarebbe indagato. E’ un Paese normale quello in cui un giornalista può scrivere cose secretate e ignote alla diretta interessata? Chiuderemo entrambi gli occhi su questa pratica? Se non fosse per il rispetto che porto per quest’aula chiuderei io qui il mio intervento”.

“Ringrazio per la solidarietà i ministri e la presidente del Consiglio”, dice in Aula al Senato il ministro per il Turismo, Daniela Santanchè, nel corso della sua informativa. Mentre parla in Senato ha alla sua destra l’ex presidente del Senato, attuale ministro per le Riforme istituzionali e la Semplificazione normativa Elisabetta Casellati, poco dopo il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi. A sinistra della Santanchè siede il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini, che ascolta a braccia conserte l’informativa.

Riguardo alla presunte accuse, spiega: “Non ho mai avuto partecipazione nel settore dell’alimentare biologico, come molti media hanno raccontato, la mia partecipazione in Ki Group non ha mai superato il 5%. Sono qui per bloccare la strumentalizzazione politica” che è stata fatta su questa vicenda, “voglio difendere l’onore mio e di mio figlio”.

Poi aggiunge: “Non mi sono mai appropriata di nulla che non mi appartenesse e non ho mai abusato delle posizione apicali nelle aziende. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. A fronte delle notizie di compensi stratosferici da Ki Group, nel triennio 19-20-21 ho incassato una media di 9mila euro l’anno, 27mila lordi in totale”. Santachè si dice “fiera di aver dato lavoro a tante persone” perché dopo la crisi del Covid “molti imprenditori – sottolinea – hanno lottato per tenere in piedi le loro aziende, così come ho fatto io. Io credo nelle cose che faccio: non mi sono mai nascosta e ho messo in gioco l’intero mio patrimonio personale”.

Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 6 luglio 2023.

«Mi sarei aspettata un plauso per aver impiegato il mio patrimonio per salvare le mie aziende». La standing ovation non c’è stata per la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, anche ribattezzata ministra dei debiti. Sulle esposizioni debitorie ha però dimenticato di dire alcune cose, che Domani è in grado di rivelare. 

Contenute in un documento finora inedito, presentato dai legali di Santanchè al tribunale fallimentare di Milano: si tratta della domanda di ristrutturazione del debito presentata per salvare Visibilia dal fallimento. In queste pagine è citato il Twiga, il noto locale di cui è stata socia Santanchè insieme all’amico di una vita, Flavio Briatore. 

La ministra a novembre 2022 ha venduto le quote, ufficialmente per evitare conflitti di interesse vista la sua nuova veste governativa di titolare del Turismo. Dall’atto del 29 maggio 2023 firmato dagli avvocati e diretto alla sezione fallimentare di Milano emerge che per “tranquillizzare” il fisco e i giudici, Santanchè sostiene che l’impegno sarà «soddisfatto» anche grazie alle «disponibilità» che «deriveranno» da una percentuale sugli incassi del locale dei vip di Briatore, tramite una società di cui la ministra è azionista (tramite Immobiliare Dani) insieme al suo compagno Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena.

Quel che riportano i legali della ministra rischia di mettere in serio imbarazzo non solo Santanchè ma l’interno governo, Meloni su tutti: il meccanismo messo a punto per pagare il fisco rimette infatti al centro dell’affaire il Twiga e il conflitto di interesse della ministra. 

Ufficialmente risolto, secondo gli amici della senatrice, nel momento in cui Santanchè ha venduto le quote incassando 2,7 milioni di euro, poco dopo aver ricevuto l’incarico. Una parte le ha cedute al suo compagno, le altre a Briatore. 

Ora però scopriamo che quel filo finanziario tra la ministra e il Twiga non è stato del tutto reciso: tanto più lo stabilimento fattura, tanto più lei riesce a saldare i debiti con l’agenzia delle entrate. Peccato che il suo ministero ha mantenuto le deleghe alle concessioni balneari.

Alla prima riunione del tavolo tecnico-consultivo sulle concessioni, convocato nei giorni scorsi, alla riunione con le associazioni balneari per discutere della messa al bando o delle proroghe, c’erano i due più stretti collaboratori di Santanchè: il vice capo di gabinetto e il consigliere per i rapporti istituzionali della ministra. 

Santanchè ha riferito al Senato sulle indagini della procura di Milano inerenti la galassia aziendale di cui è o è stata amministratrice, azionista, gestore. Di cose da dire ce ne sarebbero state tante. A partire dai debiti milionari con banche e fisco.

(...)

Una delle maggiori esposizioni debitorie di Visibilia è con il fisco. Inizialmente era pari a 1,9 milioni. I legali di Santanchè hanno presentato una proposta di accordo del valore di 1,2 milioni. «Con riguardo al debito fiscale, che, si ricorda, è oggetto di proposta di transazione fiscale, esso (in caso di adesione), verrà pagato nella misura del 70 per cento del totale, e dunque per una somma pari ad € 1.294.859 da corrispondersi in 120 mesi». 

La richiesta in pratica è di abbattere il debito e rateizzarlo in dieci anni. Poi nella relazione dello studio che assiste Santanchè gli avvocati spiegano come verrà pagata la somma. L’impegno sarà soddisfatto dalla società Immobiliare Dani, «partecipata al 95 per cento» da Santanchè.

Non solo, aggiungono che «in particolare le disponibilità economiche deriveranno» anche «dalla partecipazione che Immobiliare Dani S.r.l. detiene in Ldd sas di Kunz Dimitri d’Asburgo Lorena (compagno della ministra, ndr), società partecipata al 50 per cento da Immobiliare Dani s.r.l. e al 50 per cento da Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena». Inoltre, sottolineano, che da Ldd «Immobiliare Dani (cioè Santanchè, ndr) percepisce il 90 per cento degli utili». 

Ecco però il nocciolo della questione che può essere controproducente per la ministra: «Per completezza, si precisa che Ldd sas di Kunz Dimitri d’Asburgo Lorena è una società di management che si occupa della gestione della Twiga S.r.l. e che per l’anno 2023 fatturerà alla Twiga S.r.l. stessa una fee pari al 3,5 per cento del fatturato di quest’ultima».

Quindi: grazie alla partecipazione nella società condivisa con il compagno incasserà una percentuale dalla gestione del Twiga di Briatore. Denaro che potrà essere usato per saldare il debito con il Fisco. 

«Considerato che nel 2022 il valore di produzione della Twiga s.r.l. è stato pari a 8,4 milioni di euro e che è preventivabile un risultato analogo per l’anno 2023, è ragionevole ritenere che LDD sas di Kunz Dimitri d’Asburgo Lorena fatturerà alla Twiga S.r.l. il 3,5 per cento della somma di 8,4 milioni, ovverosia 295.279 euro di cui il 90 per cento» spetterà alla «Immobiliare Dani S.r.l. (precisamente € 265.751,14 oltre iva)». 

E se non dovesse bastare questa contorta ma notevole garanzia con il brand Twiga, «ad estrema tutela del Creditore-Fisco, anche tale debito è oggetto del Vincolo di destinazione di cui infra». Quest’ultimo riferimento è al vincolo, rivelato da Domani, sulla villa in centro a Milano fatta valutare da un perito 6 milioni di euro e messa a garanzia delle esposizioni con banche e Agenzia delle Entrate. 

La ministra ha detto di parlare vestendo i panni «dell’imprenditore», di essere orgogliosa delle sue attività. Per prima cosa ha ricordato il suo ingresso nel settore editoriale: «Credo che tutti quelli che oggi fanno impresa possono capire bene quello che sto dicendo», coloro che «stanno lottando per tenere in vita le loro imprese». 

Avrà pure indossato gli abiti dell’imprenditrice un tempo di successo, ma avrebbe dovuto anche ricordare ai suoi colleghi parlamentari che nel ricorso dei suoi avvocati per la ristrutturazione dei debiti è esaltato il ruolo di senatrice che ricopre.

Anche in questo caso come garanzia per evitare il fallimento. Non tutti gli imprenditori possono giocarsi questa carta: «Si rileva, peraltro, che la socia di maggioranza, dott.ssa Daniela Garnero Santanchè, oltre ad essere socio di riferimento delle diverse società menzionate nel presente ricorso, riveste anche la carica di Senatrice della Repubblica, in funzione della quale percepisce un’indennità pari a 95mila euro netti annui: tale ammontare costituisce ulteriore risorsa a disposizione del Socio di maggioranza in funzione del sostegno finanziario da prestare in favore della Società per il pagamento dei debiti e, dunque, del buon esito degli Accordi».

Una politica, dunque, che sta tentando il tutto per tutto per salvare le aziende dal fallimento e dall’inchiesta per bancarotta.

Santanché resiste. Ministri e Governo non li decide Report. Il miracolo della Santa: Fratelli d’Italia diventa garantista. A Palazzo Madama due ore di dichiarazioni, interventi e repliche. Lei: “Non sono indagata, non mi nascondo mai”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Luglio 2023 

Daniela Santanchè fa il miracolo. I giustizialisti che per anni hanno alzato le picche, stretto le mascelle e incitato con rabbia alle dimissioni di chiunque fosse sfiorato da un sospetto, o peggio ancora da un avviso di garanzia, sono diventati garantisti. La ministra del Turismo ha esaminato passo per passo tutte le accuse mossegli e le ha respinte al mittente. Facendo balenare anche qualche retroscena interessante su chi avrebbe armato la campagna contro di lei: ci sarebbe “qualche vocale” che maldestramente è stato lasciato circolare. Chi ha preparato la trappola? Sappiamo solo chi l’ha raccolta e amplificata: Report. Che strano. Eppure stavolta la ministra non si dimetterà: la politica non la può fare e disfare questa o quell’inchiesta. Anche perché dalla ricostruzione offerta in aula dalla Santanchè si tratta di tesi artificiose e distanti dalla verità.

Ecco le sue parole: “Sono qui a riferire perché ho preferito non far pesare al Governo le conseguenze di una campagna di vero e proprio odio nei miei confronti. Affermo sul mio onore che non sono stata raggiunta da alcun avviso di garanzia, per scrupolo ho chiesto ai miei avvocati di verificare. Ho anche estratto il certificato dei carichi pendenti, risulta non ci siano annotazioni nei miei confronti”. E lo mostra. Lo sbandiera. Andatela a smentire. Daniela Santanché respinge al mittente con vigore le accuse piovute nelle ultime settimane e nell’attesa informativa al Senato, il ministro del Turismo riferisce circa il servizio lanciato da Sigfrido Ranucci con tanta foga e rivelatosi un grande bluff. Le accuse di Report sulle presunte irregolarità nella gestione imprenditoriale delle sue aziende, in particolare Ki Group e Visibilia, e sugli articoli che si sono susseguiti sulla stampa in merito a questa vicenda, per la quale le opposizioni hanno chiesto le sue dimissioni, finiscono al microscopio in un intervento appassionato. Venticinque minuti di disamina puntuale. Introdotta da uno sfogo. “Vi dico la verità: stamattina è accaduto qualcosa che va oltre la mia vicenda e che dovrebbe allarmare tutti voi senza distinzione di appartenenza partitica o politica – ha esordito la ministra, citando un articolo de il Domani che parla di indagini nei suoi confronti – Questa mattina il Domani afferma che invece sarei indagata, sia pure segretamente”.

E a quel punto ha iniziato a snocciolare informazioni, mescolando dati noti e altri oscuri, senza minimamente indicare alcuna fonte. Ebbene, delle due l’una – ha aggiunto – O il giornale mente sapendo di mentire e sceglie proprio questo giorno, quello del mio intervento in aula per una classica imboscata per colpire proditoriamente un ministro del governo contro cui giornalmente si scaglia, oppure prendo anche in considerazione l’ipotesi secondo la quale Domani ha avuto notizie che io non ho e che nessuno potrebbe lecitamente avere, ma questa sarebbe un’ipotesi ancora più grave. Il Senato dovrebbe agire contro queste sporche e schifose pratiche”.

Santanchè, che ha parlato di una “strumentalizzazione politica” e di una “mistificazione della realtà”, ha anche spiegato come si sia presentata in aula principalmente per difendere il proprio onore e quello di suo figlio. Le sue risposte nel merito, come ha precisato, sono in qualità di imprenditrice: “Per trent’anni dal mio gruppo nessuno mi ha mai accusato di nulla. Mai ho avuto favoritismi, mai li ho cercati – ha rivendicato – Non mi sono mai appropriata di nulla che non mi appartenesse, né mai ho abusato delle mie posizioni apicali delle aziende e sfido chiunque a dimostrare il contrario”. Segue un dibattito in gran parte previsto, con il Pd che ribadisce la richiesta di dimissioni, il M5S che alza i toni e propone una mozione individuale di sfiducia e una dichiarazione “in dissenso dal gruppo” di Carlo Calenda, che si schiera dalla parte dei giustizialisti. Schlein si accoda, anche stavolta. Voterà come Conte. Eccolo, un altro merito di Santanchè, al termine della resa dei conti di ieri: ha tirato quella riga forse dolorosa ma necessaria che demarca la distinzione tra due culture politiche. Da una parte i giustizialisti del Campo largo che hanno ceduto al populismo giudiziario (M5S, Pd, Verdi, Avs, Calenda) e dall’altra i garantisti di sempre e quelli convertiti all’ultimo: a Italia Viva, Forza Italia, Noi Moderati si uniscono Lega e Fratelli d’Italia.

“Ogni valutazione sulla sua esperienza al governo è nelle sue mani e nelle mani della presidente del Consiglio’”, ha dichiarato il senatore del gruppo Azione-Italia viva Enrico Borghi in Senato, al termine dell’audizione della ministra Daniele Santanchè, non chiedendone le dimissioni. Borghi ha ricordato ‘il campionario delle dichiarazioni e delle casistiche’ sulle richieste di dimissioni di ministri, da Guidi a Lamorgese, dell’ex presidente della Regione Lazio Zingaretti e di quella della regione Umbria Catiuscia Marini, del sindaco di Milano Giuseppe Sala. ‘Una presunzione di innocenza a targhe alterne. Dovremmo utilizzare quel metro? Vogliamo sottrarci dal ruolo intercambiabile dal gioco delle parti?’, ha detto Borghi rivolto all’Assemblea del Senato.

Replica Calenda: “Non ho condiviso l’intervento di Borghi nelle sue conclusioni. Credo questo argomento stia loro particolarmente a cuore”. Mariastella Gelmini, vicesegretaria di Azione, si smarca: “Ad oggi, a mio avviso, non ci sono mozioni di sfiducia che tengano. Sono e sarò garantista, anche in questo caso’’.

Aldo Torchiaro

Tutte le volte in cui Fratelli d'Italia non è stato garantista. Caso Santanché, la storia del (non) garantismo di Giorgia Meloni: quando la presunzione d’innocenza è politica. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 5 Luglio 2023

Oggi Fratelli d’Italia è sotto i riflettori: la ministra del Turismo, Daniela Santanchè riferirà alle 15 in Senato sulla vicenda che riguarda le sue attività di imprenditrice, proprio quando il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, riferirà alla Camera sulla vicenda Sgarbi-Maxxi. Sincronia perfetta per depistare l’attenzione o casuale incastro di agende?

Le due vicende non si equivalgono, la protagonista del momento è senz’altro lei, la ministra di Fratelli d’Italia. Santanchè riferirà quanto di sua conoscenza per la gestione delle società Ki Group (acquistata nel 2006 insieme all’ex compagno Canio Mazzaro) e sulla concessionaria Visibilia, per i cui creditori la ministra ha dovuto vincolare la sua villa di Milano. I sospetti sono gravi, le accuse sfiorerebbero la truffa e il falso in bilancio: nella sua inchiesta Report accusava in sostanza Santanchè di aver gestito male due sue aziende in particolare, di cui non è più proprietaria: la stessa Visibilia, che negli anni era cresciuta ed era diventata anche una casa editrice, e la società di investimenti Ki Group. Report documentava l’accumulo di molti debiti da parte di entrambe le aziende, gestiti perlopiù con passaggi societari poco trasparenti.

Le opposizioni si preparano ad alzare i toni. Il M5S non vede l’ora. Ma non succederà molto. Il Pd lo sa: “Non siamo contenti anche perché l’informativa in Senato prevede il suo intervento, un intervento per gruppo, nessun contraddittorio e nessun voto. Peraltro la maggioranza ha negato la possibilità di discuterne anche alla Camera”, protesta l’ex capogruppo dem alla Camera, Debora Serracchiani. “Mai e poi mai le inchieste giornalistiche possono determinare l’azione politica di un governo eletto dagli italiani”, rassicura Maurizio Lupi di Noi Moderati. Per Matteo Salvini “Sei innocente fino a prova contraria”. Giorgia Meloni, già in tensione per le fibrillazioni tra Matteo Salvini e Antonio Tajani, ha blindato la sua ministra: “Di dimissioni non se ne parla neanche”.

D’altronde risponde a un sacrosanto principio garantista: non ci si può dimettere per assecondare la richiesta di questa o quella trasmissione televisiva. E il “giornalismo a tesi”, sappiamo bene come funziona. Santanchè non farà nessun passo indietro senza una sentenza definitiva passata in giudicato. Persino nel suo discorso di insediamento, Meloni aveva fatto riferimento al garantismo: “Saremo garantisti sempre, finché si è solo indagati c’è la presunzione di innocenza”. Il ministro Carlo Nordio, che Meloni ha fortemente voluto alla Giustizia, ne è il massimo garante. Peccato non abbia sempre tenuto la stessa postura.

La storia del garantismo meloniano è infarcita di eccezioni. Ad ogni apertura di inchiesta giudiziaria, anche nelle città di provincia, quando l’indagato è di centrosinistra, segue quasi puntualmente la richiesta di dimissioni perentoria e immediata di Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni è sempre il primo a chiedere il passo indietro dell’indagato. A fine marzo del 2015 il capo di Gabinetto di Nicola Zingaretti, governatore della Regione Lazio, venne raggiunto da un avviso di garanzia. Fdi chiese subito le dimissioni di Zingaretti. Nel giugno 2015 arrivarono gli avvisi di garanzia per Mafia Capitale, una inchiesta poi ampliamente ridimensionata. Prima ancora di capirne gli intrecci o di leggere gli atti, Giorgia Meloni chiese le dimissioni di Ignazio Marino.

Nel dicembre del 2017 fu la Procura di Milano a iscrivere il sindaco del capoluogo lombardo nel registro degli indagati per due reati amministrativi connessi ad Expo. Non passarono che poche ore ed ecco la richiesta di dimissioni immediate di Fratelli d’Italia. Nel 2019 sarà la volta della Procura di Perugia, con una operazione tanto spettacolosa quanto esagerata, a far volteggiare gli elicotteri sopra al palazzo della Regione Umbra. Appena consegnato un avviso di garanzia all’allora Presidente, Catiuscia Marini, ecco planare le scandalizzate richieste di dimissioni firmate Meloni.

E come non ricordare il caso di Bibbiano? Quando venne resa nota la notizia dei 26 indagati, la leader di Fratelli d’Italia arrivò per prima e chiese il passo indietro di tutti gli amministratori locali interessati. Sindaci del Pd, inutile dirlo. Quando nel maggio 2020 Fulvio Baldi, capo di gabinetto del Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è intercettato in relazione al caso Palamara, Fdi chiede le dimissioni di Bonafede, non indagato. E che dire di quel che avvenne nel dicembre 2021 intorno al Viminale? Arrivò un avviso di garanzia alla moglie del capo dipartimento dell’immigrazione del Ministero dell’Interno. Non a lui, alla moglie. E la sera stessa Giorgia Meloni chiese a gran voce le dimissioni della ministra Lamorgese. Gli esempi sarebbero tanti, la lista è lunga. Il garantismo a doppio senso è una costante della politica italiana, della destra contro la sinistra e viceversa. La strada verso la presunzione di innocenza è irta di tentazioni. Prima o poi diventerà davvero un principio condiviso, un basamento universale della civiltà.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

L'esempio Qatargate. Il garantismo è una cultura che Fratelli d’Italia non ha mai avuto: il puritanesimo, per fortuna, non è nel nostro Dna. Benedetta Frucci su Il Riformista il 7 Luglio 2023 

Negli ultimi 30 anni il dibattito politico italiano è stato concentrato spesso sulla dicotomia garantismo-giustizialismo. Mentre nessuno ammette – eccetto Piercamillo Davigo, che titola così un suo libro – di essere giustizialista, molti si sono fregiati di essere garantisti. Con scarsi risultati alla prova dei fatti. Il garantismo infatti non è soltanto il rispetto della presunzione d’innocenza, sancito dalla Costituzione.

Che un cittadino sia innocente fino a sentenza passata in giudicato è un aspetto che riguarda il diritto e dovrebbe essere un dato acquisito in politica. Dovrebbe. Il punto però è che il garantismo è una cultura, che hai o non hai: per cui si dovrebbe essere garantisti non solo quando si parla di indagini ma anche quando a passare sotto giudizio sono inchieste giornalistiche.

Oggi Fdi, che garantista non è mai stato, si trova a subire i colpi che ha sempre inferto in passato. E tuttavia, occorre dire che chiedere le dimissioni di un Ministro- si chiami Daniela Santanchè o in altro modo- sulla base di un’inchiesta giornalistica è ancor peggio che chiederlo sulla base di una condanna in primo grado. A maggior ragione, nel caso di specie, lo è se fosse confermato che la stampa avrebbe ricevuto la notizia che il Ministro del Turismo sarebbe indagata prima ancora che lei stessa, per giunta nel giorno dell’informativa in Senato.

Tanto più perché sarebbe l’ennesimo caso di cortocircuito mediatico-giudiziario, fatto di veline che passano dalle procure ai giornali, con un tempismo ad orologeria che dovrebbe scandalizzare. Chi sostiene che aspetto giudiziario e politico andrebbero tenuti separati, non solo è il peggiore dei giustizialisti ma dimostra anche una profonda ignoranza della storia di questo Paese. Perché le inchieste – giornalistiche e/o giudiziarie che siano- in Italia sono state usate troppe volte come mannaia contro politici sgraditi. Per cui, nulla vale appigliarsi alla cultura liberale di Paesi nordici, dove ci si dimette perfino per una tesi copiata. Prima di tutto perché quei Paesi non hanno il nostro sistema giudiziario- giornalistico così profondamente malato. E in secondo luogo perché il puritanesimo, da cui deriva questo approccio alle dimissioni facili, non è nel nostro Dna. E direi per fortuna. Soprattutto se pensiamo al civile Belgio e a come ha condotto le indagini sul Qatargate.

Benedetta Frucci

Estratto dell’articolo di M. Gu. per il “Corriere della Sera” venerdì 7 luglio 2023.

«Ancora nulla». Daniela Santanchè non ha ricevuto l’avviso di garanzia e si mostra persino ansiosa di trovare nella cassetta delle lettere la busta della Procura di Milano.

«Ad ora, alle 15, non ho ricevuto nulla», assicurava ieri pomeriggio lasciando l’evento dell’Anci sul Pnrr. E in serata: «Anche se non cambia nulla io spero che arrivi presto. Sarebbe un atto dovuto, giusto? Io sono proprio bella tranquilla. Nessuno può accusarmi di niente per la mia condotta da ministro». 

Come anticipato a novembre dal Corriere , Santanchè è indagata dallo scorso 5 ottobre per bancarotta e falso in bilancio nell’inchiesta sul gruppo editoriale da lei fondato, Visibilia. A risultare indagate sono altre cinque persone che hanno ricoperto ruoli societari, tra cui la sorella dell’esponente di Fratelli d’Italia, Fiorella Garnero, che è stata consigliera nel cda dell’azienda e il compagno della ministra Dimitri Kuntz D’Asburgo, già presidente di Visibilia editore. 

Il giorno dopo l’iscrizione il nome della ministra era stato secretato, ma tre mesi dopo […] il segreto è caduto. E adesso, dopo aver affermato nella sua informativa al Senato di non aver ricevuto alcun avviso di garanzia, la senatrice aspetta di riceverlo formalmente.

[…] I Cinque Stelle guidati da Giuseppe Conte hanno presentato la mozione di sfiducia individuale, che sarà votata anche dal Pd e dalla sinistra ambientalista. La maggioranza […] non ha alcuna fretta di metterla nel calendario […], non certo per un problema di numeri, ma perché nei gruppi di Lega, Forza Italia e anche in quello di Fratelli d’Italia c’è freddezza e imbarazzo riguardo alle accuse che Santanchè si trova a fronteggiare e che ha provato a smentire nell’aula di Palazzo Madama, denunciando una «campagna d’odio» contro di lei. 

[…] Che gli italiani siano stufi della «gogna» lo pensano in tanti, nel partito della premier. «La stagione dei processi mediatici ha spostato la maggioranza sul fronte garantista — riflette Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera —. La gente non ci crede più e solidarizza con Santanchè».

Ma il popolo del Pd non solidarizza affatto e i parlamentari guidati da Elly Schlein voteranno la sfiducia alla ministra. […] Resta da capire se davvero, il giorno della mozione di sfiducia, la maggioranza di governo resterà compatta come la presidente Giorgia Meloni sembra intenzionata a chiedere ai partiti. Il capogruppo della Lega a Montecitorio, Riccardo Molinari, assicura che «ovviamente» la maggioranza difenderà la ministra e non voterà la sfiducia, eppure nel miele c’è una goccia di fiele. I Cinque Stelle gridano ai quattro venti che lei nell’informativa ha mentito e il presidente dei deputati non spazza via tutti i dubbi: «Che la Santanchè abbia mentito è tutto da verificare...».

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo e Monica Serra per “la Stampa” venerdì 7 luglio 2023.

«Make your summer a dream», recita il menù del ristorante («Dine 'n dance», per gli intenditori) del Twiga. […] Non solo gli scampi imperiali a 180 euro al chilo. Il sashimi a 10 euro il pezzo. Il Daiquiri Premium a 25. La capanna berbera più grande e più cara di un monolocale a Brera, su cui l'anno scorso si rilassò la premier Meloni. […] Tutto nello stabilimento balneare più famoso e glamour d'Italia «is a dream». 

A cominciare dalla dicitura «Forte dei Marmi» che compare nel logo e fa imbestialire la concorrenza. Un falso: il Twiga è per pochi metri nel territorio del Comune di Pietrasanta, frazione Marina. Che però faceva troppo Anni Sessanta. A differenza del Forte che invece è un brand internazionale. Così Daniela Santanchè e Flavio Briatore, vent'anni fa, se ne appropriarono. Almeno nelle insegne, nei gadget e nelle tovagliette. 

La Twiga Srl è dunque bifronte: sede legale a Forte dei Marmi, sede operativa a Marina di Pietrasanta. Ora questa società, oltre 8 milioni di fatturato annuo a fronte di un canone demaniale per la spiaggia di meno di 18 mila euro (circa 9 euro a metro quadro al giorno), rischia di diventare un incubo per la ministra del Turismo.

La Stampa ha ricostruito le convulse manovre societarie con cui nei mesi scorsi Santanchè prima si è liberata delle sue azioni del Twiga, annunciando la cessione di quote come gesto per risolvere il conflitto di interessi (ministra del turismo/imprenditrice turistica), ma senza dire che vendeva al socio e amico Flavio Briatore e al compagno Dimitri, sedicente principe Kunz d'Asburgo Lorena.

Poi ha utilizzato i proventi della vendita per evitare il fallimento di alcune sue società decotte. Infine, per impegnarsi a saldare un altro debito con il Fisco, è tornata in possesso di una parte dei ricavi del Twiga, attraverso una scatola societaria costituita ad hoc con lo stesso Dimitri e a una triangolazione contrattuale con lo stesso Briatore. 

Eppure la ministra sembra non interessarsi dell'accusa di conflitto di interessi che le viene mossa sin dalla nomina. […] Per Santanchè, evitare il crac significa salvarsi dall'accusa di bancarotta. Poco importa se per farlo lei, ministra del Turismo in carica, usa i soldi del Twiga e dell'amico di sempre Briatore.

Così, ufficialmente per allontanare da sé l'accusa di conflitto, a fine novembre annuncia la vendita delle sue quote pari al 22,05% della Twiga Srl. Metà alle società della famiglia del compagno Dimitri (tra cui una scatola vuota con ricavi zero e bilancio in perdita); metà alla Majestas, società lussemburghese di Briatore che così arriva a detenere il 57% del Twiga. 

L'operazione ha due obiettivi. I 2,7 milioni di euro incassati servono ad appianare i debiti col fisco di Visibilia Editore Spa, la società quotata del suo gruppo, ed evitarne il fallimento. L'uscita dal Twiga le permette di mantenere le deleghe ministeriali sui balneari.

Ma ora che a rischio crac rimane un'altra società della galassia Visibilia – con un passivo di circa 8 milioni e un debito di 1,9 con lo Stato – e il cash a disposizione della ministra non è più sufficiente, rispuntano i soldi del Twiga e di Briatore. 

Elencati dai legali di Santanchè tra le garanzie a supporto della «Domanda di omologa dell'accordo di ristrutturazione dei debiti» depositata il 29 maggio e su cui deve decidere l'Agenzia delle Entrate. Che (se accolta) permetterà di chiudere i conti spalmando in 10 anni il pagamento del 70% dei debiti. 

Ma non aveva venduto le quote del Twiga? Sì, ma giusto un mese prima della proposta di transazione fiscale, il 21 aprile, è nata a Firenze la Ldd Sas, una piccola società senza dipendenti che ufficialmente si occupa di «attività di consulenza tecnica». I soci sono lo stesso compagno Dimitri e la Immobiliare Dani Srl, la società di Daniela. Soci paritari, utili no: Daniela ne percepisce il 90%.

Ma cosa fa davvero la Ldd Sas? È scritto nella domanda di omologa presentata al Tribunale di Milano: «Per completezza, si precisa che è una società di management che si occupa della gestione della Twiga Srl», in cambio di una commissione pari al 3,5% del fatturato. 

Ipotizzando «un risultato analogo al 2022, è ragionevole ritenere» che quest'anno la Ldd Sas incasserà dal Twiga quasi 300 mila euro, di cui 265 mila saranno distribuiti a Santanchè e usati per la transazione fiscale. Dunque la gestione del Twiga […], uscita dalla porta con la vendita di quote a Briatore e Kunz, rientra dalla finestra con il contratto di gestione manageriale grazie agli stessi amico e compagno. Il tutto mentre la ministra del Turismo detiene le deleghe alle concessioni balneari. E davanti al Senato assicura di non sapere nulla delle indagini su di lei, raccontate a partire dal 2 novembre e non più segretate almeno dal 6 gennaio.

Ecco perché Daniela Santanchè indagata da oltre 8 mesi ha dichiarato di non saperlo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Luglio 2023 

La ministra del Turismo Daniela Santanché, come rivelato dal «Corriere della Sera » nel novembre 2022, risulta indagata da mesi per falso in bilancio. Ma la notifica dell’inchiesta, che risale a marzo 2023, ad oggi non le è ancora stata notificata dall' ufficiale giudiziario

La circostanza imbarazzante che Santanché sia indagata per falso in bilancio nelle comunicazioni 2016-2020 di Visibilia Editore spa è infatti noto sin da quando lo scrisse il CORRIERE DELLA SERA il 2 e 3 novembre 2022) non in virtù di un eventuale riuscito scoop, ma semplicemente perché tra gli atti della richiesta trasmessi dalla Procura di Milano al Tribunale Fallimentare di staccare la spina e mettere in liquidazione ben quattro società del gruppo Visibilia dell’imprenditrice, indebitate principalmente con il Fisco, sulla base di una relazione di servizio del 30 settembre 2022 del Gruppo Tutela Mercati della Guardia di Finanza di Milano che indicava ai pm milanesi “la sussistenza del reato di false comunicazioni sociali“. Quindi nessuno scoop del quotidiano Il Domani.

La ministra del Turismo nel negare l’evidenza dei fatti si è aggrappata nella sua audizione parlamentare dinnanzi ai parlamentari intervenuti nell’informativa in Senato di mercoledì 5 luglio, alle note lungaggini burocratiche-giudiziare di proroga delle indagini che è stata utilizzata dal ministro Daniela Santanchè nella sua esposizione di chi finge di non sapere che il ministro sia indagata da mesi per falso in bilancio , a partire da lei che fingendo di scandalizzarsene nel leggerlo qua e là adesso, e chi vuole denunciare la “stampa a orologeria” che in questo caso non esiste minimamente. 

All’inizio di novembre 2022 Santanchè sbandierò una certificazione di routine della Procura all’istanza dei suoi legali contemplata dall’articolo 335 del codice di procedura, attestante che “non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione” per provare a smentire la notizia , chiunque conosca un pò la procedura penale capì immediatamente che si trattava di una possibile applicazione dei pm all’articolo 3 bis di quell’art.335, cioè alla facoltà in caso di indagini complesse di ritardare (per un massimo di 3 mesi) la comunicazione dell’iscrizione.

Gli avvocati della Santanchè, la quale non lo ammetterà mai, proprio in quei giorni, e poi più volte durante lo svolgimento delle udienze fallimentari, avevano avuto con la Procura interlocuzioni esplicite nelle quali era un dato noto ed assodato che la Santanchè risultasse indagata sia per falso in bilancio che per concorso in bancarotta, motivo per il quale la ministra si è ben guardata dal richiedere di nuovo la certificazione del 335, in maniera tale da poter proseguire ad affermare di non aver notizia formale di indagini giudiziarie nei suoi confronti a proprio carico.

Un qualsiasi avvocato di diritto penale sa molto bene che dopo sei mesi dall’iscrizione nel registro degli indagati è previsto un altro passaggio procedurale, cioè quello che consente ai pm, qualora abbiano bisogno di altro tempo per indagare, di chiedere al giudice delle indagini preliminari a pena di inutilizzabilità delle successive acquisizioni, una proroga delle indagini , che il Gip deve notificare la proroga all’indagato il quale quindi così viene informato delle indagini a suo carico. Se l’indagato ha già nominato un difensore, quella notifica avviene in breve con una comunicazione di posta elettronica certificata (Pec) al legale. 

La Santanchè che ha avuto in passato altri procedimenti penali a Milano, in relazione all’indagine sul falso in bilancio della società Visibilia, in realtà non aveva mai conferito un formale mandato a un avvocato penalista, ed il difensore il civilista che la assiste e patrocina nelle udienze fallimentari delle società non aveva quindi alcun titolo ad essere informato. In casi come questi la richiesta della proroga delle indagini va notificata al domicilio dell’indagato, e se ne ha prova documentale soltanto quando al Gip torna la «cartolina» attestante la riuscita consegna della notifica dall’Ufficiale Giudiziario (Ufficio Unep) .

Nel caso della Santanchè, da quel rapporto della Guardia di Finanza chiunque avrebbe potuto dedurre che fosse stata indagata sin dalla fine di settembre 2022, i cui sei mesi sono scaduti lo scorso 30 marzo, cioè quando la Procura di Milano ha richiesto al Gip la proroga delle indagini, la cui notifica però non è stata completata ed è ancora in corso a mezzo ufficiali giudiziari. Probabile quindi che a questo punto la “cartolina” di notifica , completi il proprio viaggio e arrivi per ironia della sorte soltanto nei prossimi giorni.

Quindi nessuno “scoop” del quotidiano Il Domani e tantomeno nessuna “persecuzione” come asserisce la ministra del Turismo. 

Oltre al ministro del Turismo Daniela Garnero Santanchè risultano indagati sua sorella Fiorella Garnero, il suo compagno-convivente Dimitri Kuntz (unico a depositare già la nomina degli avvocati Salvatore Sanzo e Nicolò Pelanda) il quale è stato presidente di Visibilia Editore, gli ex consiglieri di amministrazione di Visibilia Massimo Cipriani e Davide Mantegazza,  Massimo Cipriani, Davide Mantegazza e l’ex sindaco del collegio sindacale Massimo Gabelli.

Il consulente della Procura di Milano Nicola Pecchiari, nelle sue relazioni del 25 gennaio e 3 maggio 2023 inviate ai pm Laura Pedio e Maria Giuseppina Gravina (subentrata dopo che l’iniziale pm Roberto Fontana era stato eletto al Csm), ha evidenziato che “indubbiamente la presentazione di bilanci inattendibili, a partire quantomeno dal 2016, abbia ritardato l’emersione di un dissesto patrimoniale significativo, ancora evidente in capo a Visibilia al 30 giugno 2022″.

Leggendo i resoconti dei media Giorgia Meloni – che durante l’informativa era infatti in viaggio da Varsavia -non avrebbe apprezzato la difesa della ministra. Con l’occasione, si potrebbero, non subito, aprire le porte per un mini-rimpasto ed i rumors iniziano già a ipotizzare come neo-ministro del Turismo Valentino Valentini: berlusconiano doc, attuale vice-ministro alle Imprese, con grande esperienza nelle relazioni internazionali il cui nome circola già da giorni . Redazione CdG 1947

Santanché, Pietro Senaldi: "Gioco di sponda tra pm e giornali: è il sistema Palamara". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 06 luglio 2023

Se non sono indagata ma un giornale (Il Domani di De benedetti) scrive che lo sono e nessuno smentisce, è grave. Se invece sono indagata e lo vengo a sapere dalla stampa, che le procure informano prima di me, è ancora più grave. Questo il ragionamento della Pitonessa in Senato, che si è difesa attaccando.

Ma certo che la fratella d’Italia era indagata: falso in bilancio e bancarotta fraudolenta, da febbraio scorso. Solo che la Procura di Milano lo ha reso ufficiale, guarda caso, un pugno di ore dopo che Daniela Santanchè aveva terminato la propria arringa. Un colpo basso che ha avuto il clamore di un pugno sul naso. Giorgia Meloni aveva già messo le mani avanti: si comincerà a ragionare di dimissioni casomai arrivasse il rinvio a giudizio. A prescindere dal merito della questione e dalle eventuali colpe del ministro del Turismo, per come si è messa la vicenda è facile che non si dovrà attendere molto. Non contano i dettagli della storia, è che ci sono tutti, e in bella evidenza, i segnali che attorno alla pitonessa si è attivata, e la stringe come un boa, quella tenaglia mediatico-politico-giudiziaria, vituperatissima ma immanente, che ha già stritolato tanti politici prima della Santanchè; molti dei quali poi sono risultati innocenti.

Abbiamo assistito a un’indignazione collettiva contro ilmarcio della magistratura, ilcosiddetto sistema Palamara, aperto come una scatoletta di tonno, delegittimato e ripudiato per poi rimanere uguale a se stesso, un po’ come il Parlamento dopo la cura grillina. Il sistema che ha brevettato il metodo del “Salvini è innocente ma dobbiamo processarlo perché è un nemico politico”, tanto per intendersi; queste furono le parole segrete e intercettate dell’allora capo dei magistrati per giustificare a colleghi esterrefatti l’accusa al capo leghista di essere un sequestratore di bambini. Oggi quella frase è pubblica ma l’ex ministro dell’Interno è ancora alla sbarra.

La pitonessa è protagonista di un film visto troppe volte. A un certo punto una persona che non piace a certa magistratura e ai suoi danti causa arriva a una posizione di potere che per i suddetti non è opportuno o giusto che essa occupi. Ecco allora che, grazie all’obbligatorietà dell’azione penale, la quale altro non è che la piena discrezionalità dei pm su cosa indagare e cosa no, parte un’inchiesta, che viene tenuta nascosa per un po’. Quando si è messo insieme un quantitativo sufficiente di robaccia, accuse, pretesti, teoremi, fumo di reati, tutto quello che può far brodo, in tvo nei giornali si muovono gli inchiestisti, tutti progressisti e con fidate fonti, ma per qualcuno sono committenti, nelle procure. Nel caso della Santanché, sospettata di falso in bilancio e bancarotta fraudolenta per mancati versamenti al Fisco, nel frullatore finiscono particolari succosi della sua vita di lusso come la sua Maserati ma anche multe che non ha preso lei e contratti pubblicitari ottenuti dalla sua agenzia per terzi che vengono presentati quasi fossero fondi neri.

È qui che entra in campo la politica di parte avversa, che chiede la testa della vittima, opera un processo preventivo, grida allo scandalo, preme sul Quirinale perché induca al passo indietro, sostiene che la frittata è fatta a prescindere dalle reali responsabilità penali, apre la questione morale. È la fase della pressione mediatica, che mira a far perdere lucidità alla vittima e crearle il vuoto intorno, giocando anche sulle rivalità e le invide dello schieramento a cui appartiene. A quel punto, qualcuno sbaglia una frase o una mossa. Magari si difende sostenendo una cosa che viene contraddetta a stretto giro di posta, come quel «nessuno mi ha detto che sono indagata» pronunciato dal ministro in Senato. E poi, quando il malcapitato traballa, arriva il rinvio a giudizio, la pedata. A quel punto, chi si è visto si è visto, il risultato è raggiunto e la questione sparisce dal dibattito pubblico. Normalmente ricompare due o tre anni dopo, in venti righe a fondo pagina che informano che il presunto colpevole è stato assolto. Il sistema non fa neppure finta di costernarsi, tanto è impegnato a far la pelle dei nuovi che nel frattempo ha messo nel mirino. Santanché, non sappiamo se sei innocente o colpevole, ma abbiamo contezza che c’è già chi è più colpevole di te.

Estratto dell’articolo di Ilario Lombardo per lastampa.it il 6 luglio 2023.

Tutto quello che non voleva che succedesse. Tutto quello che si era ripromessa non si sarebbe ripetuto. Aveva giurato che avrebbe chiuso la lunga stagione dello scontro con la magistratura. 

Quell’infinito e sfinente corpo a corpo tra poteri dello stato che è stato il fuoco dei governi di Silvio Berlusconi. Giorgia Meloni, proprio lei, con la fama di una che difende le toghe, ha scagliato l’attacco più duro contro i giudici.

Netto, esplicito, in una nota che porta la firma di “fonti di Palazzo Chigi”, ma che nel suo ruolo è obbligata a intestarsi: «E’ lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee». 

Durissimo, perché la premier è scottata da quello che è successo in meno di 48 ore. Il caso che investe la ministra del Turismo Daniela Santanché, e quello del sottosegretario della Giustizia Andrea Delmastro. E lo scrive chiaramente nel comunicato, partendo da quello che ha più a cuore.

E cioè Delmastro, sotto indagine per aver denunciato pubblicamente atti riferiti alla vicenda della carcerazione dell’anarchico Alfredo Cospito che erano coperti da segreto e di cui il gip ha chiesto l’imputazione coatta: «In un processo di parti non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione e il giudice dell’udienza preliminare imponga che si avvii il giudizio». 

Discorso simile per Santanché […]: «In un procedimento in cui gli atti di indagine sono secretati è fuori legge che si apprenda di essere indagati dai giornali, curiosamente nel giorno in cui si è chiamati a riferire in Parlamento, dopo aver chiesto informazioni all’autorità giudiziaria». 

In realtà la richiesta sarebbe avvenuta a inizi novembre, nei tre mesi iniziali di indagine in cui l’autorità giudiziaria non è tenuta a svelare alcunché. […]

La tregua è finita: così i casi Santanchè e Delmastro riaccendono il conflitto tra toghe e politica. La premier Meloni infuriata con la sua ministra ma anche con i pm per la fuga di notizie pilotata che ha reso un calvario l'informativa della titolare del Turismo. Paolo Delgado su Il Dubbio il 6 luglio 2023

Il caso non è chiuso e lo sanno tutti, probabilmente lo sa anche la diretta interessata, Daniela Santanchè. A conti fatti il passaggio in aula si è rivelato un autogol. L'accorata invettiva della ministra contro gli agguati della magistratura e della stampa non hanno fatto presa. La sensazione generale è che se Daniela Santanchè non sapeva di essere indagata era perché non voleva saperlo. Impossibile essere tenuti all'oscuro di un'indagine in corso da 8 mesi. Certo, l'indagata può sostenere di non essere stata raggiunta da avvisi di garanzia, ma in questi casi è la norma. Può denunciare l'agguato e in effetti la pubblicazione della notizia dell'indagine a ridosso del dibattito in aula è un colpo basso, ma nulla più di questo.

Peggio: l'autodifesa è stata in larghissima parte incomprensibile per il colto, al secolo i parlamentari, e tanto più per l'inclita, i comuni spettatori. Ma i punti in cui gli interrogativi erano invece chiari e semplici sono proprio quelli nei quali lo scudo della “imprenditrice” si è dimostrato più fragile: i lavoratori in azienda nonostante fossero formalmente in cassa integrazione, i debiti con le aziende non saldati, i 2 milioni e passa non restituiti allo Stato. Sia chiaro, è probabile che dopo la tempesta Covid molte aziende si siano trovate in situazioni simili e abbiano fatto salti mortali di dubbia correttezza, ma in questi casi essere o non essere parlamentare e addirittura ministro fa una certa differenza.

Dunque la faccenda resta aperta e rimarrà tale sino a quando, in un modo o nell'altro, Daniela Santanchè non deporrà la veste di ministro. Ma questo è solo uno dei fronti tuttora aperti: non l'unico. Già mercoledì sera, con la premier di ritorno da Varsavia, si moltiplicavano le voci che raccontavano un'irritazione multipla. Sulla questione Santanchè in sé perché Giorgia Meloni non ha alcuna intenzione di permettere che sul suo governo e sulla sua nuova destra si addensino le stesse ombre che hanno gravato per anni su Berlusconi: lo spettro del conflitto di interessi, di un uso personale del ruolo politico, di adoperare a man bassa la menzogna, di comportamenti nella migliore delle ipotesi di dubbia correttezza. Per ora Santanchè è intoccabile perché non la si può dare vinta a quella che l'oratore Balboni, in aula definisce «stampa scandalistica» e all'offensiva soprattutto del M5S. Dopo le vacanze, nel contesto di un rimpasto più vasto che non concentri l'attenzione solo sul caso Santanchè, le cose probabilmente cambieranno e Meloni si sbarazzerà di quella che per lei è ormai solo zavorra.

Ma la premier, dicono, è altrettanto furibonda per la fuga di notizie pilotata che ha reso l'informativa della ministra un calvario e ha modificato all'ultimo momento il quadro costringendo l'indagata, che si era preparata per giorni alla prova, a dover improvvisare. Il conto con la magistratura (e con la stampa) più prima che poi intende saldarlo. È lecito dunque attendersi un nuovo intervento di Nordio, probabilmente molto più drastico dei precedenti e del resto già spesso ventilato. Se la premier, che in fondo non ha mai cavalcato la battaglia sedicente “garantista” quanto gli alleati, è stata tentata dal cercare una tregua con il potere togato, quella tentazione si è in buona parte dissipata ieri. E Palazzo Chigi ha fatto sapere senza utilizzare perifrasi ha fatto circolare una nota di disappunto, anche per l’imputazione coatta disposta dal Gip di Roma per il sottosegretario Delmastro.

C'è però un'altra ferita che il caso della ministra del Turismo, in questo caso tutto interno all'opposizione. La battaglia poteva essere comune e, dopo il primo passo del salario minimo, in vista della strenua resistenza contro l'autonomia differenziata, sarebbe stato un tassello piccolo ma importante. Conte, che in quanto ha spregiudicatezza non è secondo a nessuno, ha scelto invece di forzare da tutti i punti di vista. La trovata della conferenza stampa con le dipendenti rimaste senza Tfr è stato un colpo di teatro ma di quelli riusciti: ha permesso ai 5S di intestarsi più di ogni altro la battaglia per le dimissioni di Santanchè e la forzatura sulla mozione di sfiducia, presentata dal solo Movimento nonostante il parere contrario del Pd, di Avs e di Calenda è stato uno sgambetto in piena regola. Elly Schlein è stata costretta a un inseguimento trafelato, con la decisione di sottoscrivere e votare la mozione dei 5S senza presentarne una propria. Costretta a seguire, come l'intendenza. Il caso mette in chiaro qual è oggi il problema del Pd sul fronte delle alleanze: dei 5S non può fare a meno, ma sapendo che il Movimento non perderà occasione per usare le battaglie comuni contro il Pd stesso.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per repubblica.it venerdì 7 luglio 2023.

Ovviamente nel piccolo mondo romano tutti parlano di quelli che telefonavano a Daniela Santanchè per chiederle di prenotare un posto al Twiga di Forte dei Marmi, e ora invece sono in prima fila nell’attaccarla. «Non faccio i nomi per carità di patria», ha detto la ministra, con un colpo di teatro, mercoledì in Senato. 

Vero o falso? Non importa. Le chat ribollono. Le indagini interne impazzano. «Anche noi ne abbiamo fatto una», ammette un importante dirigente del Partito democratico. Telefoniamo al capogruppo del Pd, Francesco Boccia. «Lei frequenta il Twiga?» «Non scherziamo. Mai stato. Querelo chi l’ha scritto». Boccia è sposato con Nunzia De Girolamo, ex Pdl, ora star della televisione meloniana. Perciò ha attirato su di sé i sospetti. «Se permette, da pugliese, posso godermi un mare più bello. Però non è nel nostro campo che deve cercare: escludo che uno di noi ci sia mai andato».

Tra i banchi del Senato, lato democratico, girava il nome di Carlo Calenda. Lo chiamiamo subito. «Mai messo piede lì. Per pura taccagneria. Mi ripugna spendere 300 euro per un lettino», dice il segretario di Azione. Una tenda araba con dentro sofà, due letti king size, due lettini standard, una sedia regista e un tavolino, cabina doccia, costa 600 euro al giorno. Il tutto in uno spazio quattro metri per quattro. 

Per fortuna «il servizio d’acqua è gratuito ». L’intera stagione in prima fila viene 16 mila euro, 12 mila le seconde file. Calenda è di buon umore: «Ho madre valdese, figuriamoci se vado al Twiga. Le mie vacanze le trascorro a casa mia, a Capalbio. Santanchè era chiaramente girata verso il Pd».

Ci viene voglia di telefonare al direttore del Twiga, Raffaele Boischio. Lui sicuramente può aiutarci a capire chi sono questi di sinistra che scroccano l’ingresso.

«Non ho titolo io» risponde. Viriamo allora sull’ad, Mario Cambiaggio: «Non ho autorità io». 

Alba Parietti è la persona giusta.

È di sinistra, lei al Twiga ci va. «Veramente ci sono andata tre volte. Invitata da Briatore, due volte per lavorare, una volta con gli amici. Conosco Daniela da 40 anni. Se ho incontrato bagnanti di sinistra?

Immagino di sì, ma chi può dirlo?

È un posto dove la gente si diverte». 

Umberto Smaila vi ha tenuto molte serate. «Eh, appunto, solo lavoro, mai in spiaggia», fa sapere. Che sia Paolo Cirino Pomicino la persona a cui si riferiva Santanchè? Proprio a Repubblica “O’ ministro” ha rilasciato un’intervista al vetriolo sull’ex allieva. «Non ho rapporti con lei dal 2004, e se consente io vado dove il mare è più bello», dice. Pomicino tiene casa a Capri. I veleni corrono. C’è una corrente di pensiero che ritiene che la ministra si riferisse in realtà a qualche penna del giornalismo. «Daniela » è sempre stata di vasta e trasversali relazioni.

Comunque un piatto di spaghetti alle vongole costa 30 euro. L’insalata granchio e avocado 35. La pizza Margherita 18. Sul sito la prima scritta che incontrate è: «Sei pronto per un’ experience indimenticabile? ». Potrebbe averla scritta Briatore. Un genio, comunque. 

Fattura 4 milioni all’anno, ne paga 17 mila di concessione. Rende 227 volte l’affitto. Ah, la questione balneare. Si mangia e si danza, palestre, centro estetico, piscina, functional training, pilates, acquagym. «Cento per cento pet friendly , anche perché i nostri piccoli amici si meritano un’estate da sogno ». 

(…) 

Twiga, la terza Camera. Si possono incontrare La Russa e Salvini.

C’è stato Renzi. Giorgia Meloni è stata ospite l’anno scorso. Più assiduo, pare, il suo compagno, «il dottor Giambruno». Secondo una scuola di pensiero più sofisticata Santanchè alludeva in realtà al campo suo, alla destra. La maggioranza è stata freddina con lei. Appena due applausi. Una volta Gasparri l’attaccò: «Morire per Berlusconi sì, ma per il Twiga no». E Santanchè: «Una cosa è certa, Gasparri non morirà mai di troppo lavoro ». Affare di Stato, ’sto Twiga. Per non sbagliare ieri in Transatlantico i parlamentari giuravano tutti di fare vacanze discrete, familiari, francescane.

Estratto dell'articolo di Lucia Annunziata per la Stampa il 9  Luglio 2023

«Giorgia Meloni deve ragionare sulla Santanchè». Attenzione, è il titolo della rubrica delle lettere di Mario Giordano su La Verità di ieri, pagina 22. La lettera cui risponde è contro Il Domani e il suo editore De Benedetti, e in difesa della Santanchè. Il giornalista non si fa pregare in merito all’attacco al quotidiano, ma, esaurito questo compito, cambia tono: «Detto questo, però, per onestà, le confesso che mi sto interrogando su quanto sia stata davvero efficace la difesa in aula di Daniela Santanchè. 

E penso che Giorgia Meloni debba seriamente pensare al futuro del governo e del centrodestra, non a quello di una singola persona, chiunque essa sia. In passato abbiamo chiesto (e ottenuto) dimissioni di ministri per il mancato pagamento di un’Imu (do you remember Josefa Idem?). Sarebbe autolesionista, ora, inchiodare l’azione dell’intero esecutivo in un estenuante tiramolla sul caso Visibilia. Se nei prossimi giorni, le nubi saranno spazzate e si potrà tornare a navigare spediti, come il Paese necessita, bene. Altrimenti…». Altrimenti, cosa?

Un giornalista usualmente tagliente, anche questa volta a dispetto del tono calmo, arriva chirurgicamente all’osso. C’è aria di freddezza nel governo sul caso Visibilia. Palpabile nella seduta in cui la titolare del dicastero del Turismo si è difesa in Aula. Volti dei ministri glaciali, un solo debole applauso, muto il garantismo dell’ala centrista. Poche ore dopo, il raddoppio del disagio con l’apertura di un nuovo caso, l’imputazione coatta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. 

Chigi risponde con la tattica che abbiamo imparato a conoscere molto bene, ribaltare ogni accusa su supposte scorrettezze di una opposizione aperta o occulta: in questo caso quella, che sarebbe altamente discutibile come ruolo, dei giudici. E che porta direttamente il pensiero alla figura che in queste ore domina le emozioni del centrodestra. Silvio Berlusconi.

Ma l’uscita del premier suona vuota, forse perché troppo usata. Questa è una donna che ha girato a suo favore la sua primissima crisi, nata proprio da Silvio, che aveva provato a scalfire la sua forza ancora prima che arrivasse nell’ufficio dalle tappezzerie gialle di Chigi. Allora lei rispose: «Io non sono ricattabile». Frase culto. Che divenne subito un programma: Meloni Presidente del Consiglio era dalla parte della legalità, erede di quell’area di destra, di cui l’Msi aveva fatto da orgoglioso battistrada, che si è sempre posto a difesa dei giudici e che semmai – come ricordava ieri su questa stessa testata Marcello Sorgi – poteva essere accusata di essere “manettara” più che garantista. 

L’attacco ai giudici non regge proprio perché molti di coloro che oggi dovrebbero garantire la difesa del ministro sono i primi a ricordare tutte le volte che sono stati in piedi in quell’aula a chiedere dimissioni per altri politici, inclusi alcuni della Lega e anche di Forza Italia – ricordate anche l’opposizione di Giorgia Meloni all’entrata nel governo del leghista Siri?

Insomma, la donna del «io non sono ricattabile» può oggi sostenere con serenità l’idea del «io non lo sono ma qualcuno del mio governo può esserlo»? Proprio perché qui si parla di giustizia, di giudici, della partita per eccellenza della politica italiana da qualche decennio, si può portare avanti l’idea di tollerare, poi, un mezzo pasticcio? 

La verità è che mettendo in dubbio la buona fede dei giudici, il significato dello scontro si è alzato, e l’uscita dall’affair Santanchè è diventata più pesante – un rimpasto di governo. E non un rimpastino, considerando i ruoli di due personaggi coinvolti. Un ministro di primissimo incarico e un sottosegretario proprio alla Giustizia. Sarebbe una mossa giusta, vincente. 

Ma anche il segnale di una fase finita, quella del monolitismo, della difesa a testuggine che finora è stato il principale e unico metodo di difesa di FdI. E qualcosa di più: il concetto che l’asse del governo sta slittando verso un nuovo posizionamento, sempre più verso il centro. 

(…)

Luca Palamara: "La pm che indaga Santanchè..." Paolo Ferrari su Libero Quotidiano l'08 luglio 2023

«Mi pare chiaro il tentativo di unire vicende diverse tra loro con l’unico obiettivo di indebolire il governo», afferma Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati durante gli anni ruggenti dello scontro toghe-politica.

Dottor Palamara, si ricomincia? Siamo tornati ai tempi dei governi Berlusconi?

«In questo caso non partirei dalla magistratura ma dal corto circuito che in Italia ciclicamente si verifica quando tutto ciò che “non è sinistra” va al governo. In Italia funziona così da 30 anni. Ora che il centrodestra è di nuovo al potere l’anomalia del rapporto tra politica e magistratura si accentua. Ecco, allora, il disperato tentativo di una parte della informazione, saldata con la parte più politicizzata della magistratura, di strumentalizzare singole vicende del processo di turno per trasformarle in un casus belli di rilevanza politica. Si tratta di un film già visto e ampiamente raccontato nel libro Il Sistema. È illusorio tentare di risolvere il problema con un approccio “soft” sul tema delle riforme o, ancor peggio, cercando un lascia passare da parte della intera magistratura. Per fortuna ci sono tanti magistrati, la maggioranza, che sono estranei a queste dinamiche».

I maligni hanno notato che le magistrate che hanno in carico i due fascicoli sono toghe di sinistra: la procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio per il procedimento Santanchè, e la gip romana Emanuela Attura, segretaria distrettuale dell’Anm, per la vicenda Delmastro. Coincidenza?

«Faccio una banale riflessione. Se il “metodo Santanchè” fosse stato applicato alla dottoressa Pedio, sarebbe stata costretta a dimettersi quando venne indagata dalla Procura di Brescia a seguito della accuse del collega Paolo Storari nella vicenda delle mancate iscrizioni nel registro degli indagati dopo le dichiarazioni di Pietro Amara sulla Loggia Ungheria. Nessuno in quel momento gli chiese di chiarire pubblicamente quelle gravi accuse. Per quanto riguarda Attura ho avuto modo di conoscerla come una giudice preparata e corretta. Sulla vicenda Delmastro, però, penso che alcune deposizioni rese da autorevoli dirigenti del Ministero della giustizia, che ho letto in quanto arbitrariamente pubblicate da alcuni giornali, abbiano finitoper complicare il quadro di valutazione della giudice. In ogni caso, fuori da ogni ipocrisia, si tratta di notizie che normalmente circolano e che ben poco hanno di riservato, come aveva ritenuto la Procura».

Il centro destra è “attrezzato” per gestire i rapporti con la magistratura?

«Storicamente il partito che ha investito di più nei rapporti con la magistratura è stato il Pci-Pds-Ds-P d e le correnti più ideologizzate dalla magistratura hanno da sempre “flirtato” con quel mondo, con inevitabili riflessi nello svolgimento dei processi. La magistratura non è immune dai vizi e dalle virtù di altri contesti. Quanti dirigenti pubblici sono stati nominati dal Pd ed ancora oggi rivestono ruoli di potere? Rispetto a questo schema è chiaro che un governo di centrodestra deve inevitabilmente comprendere i meccanismi che presiedono un sistema oramai consolidato di potere che si tramanda da anni e che i racconti fatti al direttore Alessandro Sallusti nel libro Il Sistema hanno contribuito a far comprendere».

Con un comunicato stampa i magistrati progressisti hanno paragonato il voto questa settimana del vice presidente del Csm Fabio Pinelli per il procuratore di Firenze ad una “ingerenza”, come accaduto la sera dello Champagne. Pinelli come Luca Lotti?

«Il diritto di critica è riconosciuto a chiunque, come insegna la Costituzione. Quando però si trasforma in accuse così gravi bisogna andare fino in fondo perché altrimenti rimane un pesante sospetto sul numero due del capo dello Stato. Se chi ha scritto queste cose non ha le prove e non le fornisce è giusto che nelle sedi opportune vengano presi provvedimenti disciplinari come già accaduto in vicende analoghe negli anni passati».

Ha sbagliato la ministra a riferire in Parlamento?

«Bisogna finirla con il doppiopesismo ed in particolare con il garantismo a corrente alternata, altrimenti si finisce per fare un processo in pubblico su fatti e vi- cende che debbono essere verificate solo nelle sedi giudizia- rie. Basta con la strumentalizzazione del processo penale per risolvere i problemi della vita politica».

I “giornaloni” sono scesi subito in campo dando grande visibilità a queste inchieste, con le solite fughe di notizie. Un classico?

«Ovvio. È davvero singolare leggere che Repubblica contesta a Delmastro di essersi impossessato di un brogliaccio di conversazioni e di averle consegnate clandestinamente al suo coinquilino. Fino a quando gli italiani debbono essere presi in giro in questa maniera da chi pratica da sempre questo genere di comportamenti?»

A proposito di fughe di notizie, che fine ha fatto la sua denuncia alla Procura di Firenze riguardo le intercettazioni segrete nell’ambito dell’indagine che l’ha coinvolta e che furono pubblicate a maggio del 2019?

«Ad oggi nessuna risposta. Si tratta di vicende sulle quali i miei avvocati andranno fino in fondo anche per chiarire le ragioni di questi ritardi». 

Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian per editorialedomani.it sabato 8 luglio 2023.

Ha mentito Daniela Santanché. Davanti ai senatori e agli italiani ha negato l’esistenza dell’indagine a suo carico. Ma soprattutto ha omesso di spiegare un fatto rilevante: il metodo usato per saldare il debito di Visibilia con l’Agenzia delle Entrate, ossia con i soldi del Twiga dell’amico Flavio Briatore, dal quale era ufficialmente uscita con la vendita delle quote. Una notizia svelata da Domani alcuni giorni fa e che ora è possibile approfondire ulteriormente grazie a nuovi documenti ottenuti. 

Alla fine di novembre 2022 aveva rassicurato chi la accusava di essere in conflitto di interessi. Un ministro del Turismo che si occupa anche di concessioni balneari allo stesso tempo socia di uno degli stabilimenti più chic e grandi d’Italia non è esattamente il massimo della trasparenza. Così alla fine, a metà di quel mese, aveva ceduto le quote del Twiga, il locale dei vip in Versilia di Briatore. «Non dirò a chi», aveva però aggiunto. Il segreto di pulcinella, visto che sarebbe stato sufficiente verificarlo negli atti depositati alla camera di commercio: ha venduto a Briatore e al suo compagno Dimitri Kunz D'Asburgo.

Il passaggio di azioni le aveva permesso di incassare una cifra di 2,7 milioni. I suoi ammiratori, fan, amici e colleghi di partito e governo avevano tirato un sospiro di sollievo. «Vedete, ora non c’è più alcuna ombra, il conflitto di interessi è svanito», ripetevano. Si fidavano della ministra, eppure Santanché ha ingannato anche loro con una mossa davvero tanto inaspettata quanto azzardata. L’indagine sulla galassia Visibilia della procura di Milano incrocia così il conflitto di interessi. 

Due ombre che accompagneranno il regno della ministra in questa legislatura. Santanché è indagata dalla procura di Milano per bancarotta e falso in bilancio, insieme a lei sono sotto inchiesta il fidanzato, la sorella e un gruppo di amministratori e dirigenti che hanno avuto ruoli nell’affaire Visibilia.

CON L’INGANNO

Come rivelato da Domani alcuni giorni fa, nel procedimento per evitare il fallimento delle sue aziende Visibilia sono stati depositati alcuni atti dai legali della ministra. Nel ricorso per la ristrutturazione dei debiti è scritto in maniera molto chiara che il debito da 1,9 milioni con il fisco ( con l’accordo diventeranno 1,2 milioni) verrà pagato anche con gli introiti di una società fino ad allora sconosciuta. Si tratta della Ldd Sas. Di cosa si occupa lo spiegano gli avvocati di Santanchè: ha in mano la gestione del Twiga, cioè lo stabilimento dal quale ufficialmente la ministra era uscita con la vendita delle quote. 

Peccato che Ldd è di Santanché e del suo compagno. In pratica la ministra continua ad avere interessi economici nello stabilimento di Briatore. Non solo: Ldd, è scritto negli atti del ricorso depositato presso la sezione fallimentare, incassa una percentuale sul fatturato del Twiga, il cui ultimo bilancio lo attesta oltre gli 8 milioni. Questa fee verrà usata da Santanché per pagare le rate del debito con l’Agenzia delle Entrate.

(...)

Ora, però, dagli atti notarili depositati alla camera di commercio scopriamo anche un altro fatto rilevante: la società è stata creata ad aprile 2023, alcuni mesi dopo la vendita delle quote del Twiga da parte della ministra. Un’azienda, dunque, creata ad hoc, non preesistente. Il che amplifica la questione dell’inopportunità, perché la manovra studiata a tavolino è stata attuata nel pieno delle sue funzioni di rappresentante del governo Meloni. 

(...) La ministra, insomma, non ha abbandonato il settore che ama di più da imprenditrice, quello balneare. Grazie al quale riuscirà a saldare i debiti con il fisco. Se dovesse andare in porto l’accordo proposto dai legali di Visibilia-Santanché, dovrà versare non più 1,9 milioni ma 1,2 in 120 mesi. In pratica 129 mila euro all’anno: una piccola parte rispetto ai quasi 300mila euro che incasserà dal Twiga tramite la società Ldd, creata ad hoc per questa operazione. C’è anche un altro documento però che non gioca a favore della ministra.

È del 9 giugno scorso, appena qualche giorno dopo la proposta di ristrutturazione dei debiti, presentata al tribunale di Milano, in cui gli avvocati danno conto dell’esistenza della Ldd e dell’”operazione Twiga” che permetterà alla ministra di pagare i debiti d Visibilia. «Cessione di quote e modifica patti», è il titolo dell’atto che stabilisce la ripartizione delle azioni e degli utili aziendali. Davanti al notaio il compagno della ministra cede una parte di quote alla società di quest’ultima, l’Immobiliare Dani. 

Inoltre rimodulano la ripartizione degli utili: il 99 per cento all’immobiliare Dani della ministra, l’1 per cento al fidanzato. In questo modo le percentuali dovute dal Twiga incassate da Ldd confluiranno totalmente, salvo una microscopica parte, nelle casse dell’impresa di Santanché. Così la ministra potrà salvare Visibilia dai debiti con il fisco, cioè lo stato, che lei stessa rappresenta. 

(ANSA il 10 luglio 2023) Report torna sul caso giudiziario che coinvolge la ministra del Turismo Daniela Santanché: il programma di inchiesta giornalistica di Rai3 mette in fila i punti, grazie a documenti interni della società che fa capo alla ministra, da cui emergerebbero 'false rappresentazioni della realtà pronunciate da Santanché durante il suo intervento in Senato' della scorsa settimana, si legge in una nota sui contenuti della trasmissione di stasera diffusa da Report. 

La ministra del Turismo 'ha sostenuto che la sua partecipazione non abbia mai superato il 5% di Ki Group. Ma dai documenti in nostro possesso - prosegue la nota - dimostreremo che fin dal 2013, Santanché possedeva il 14,9% di controllo della società ed aveva sottoscritto un patto parasociale che la poneva direttamente nella governance'. Per Report, 'la ministra ha dichiarato di essere entrata nella società solo per aiutare il figlio. Ma all'epoca in cui è stata nominata presidente, il figlio aveva appena 16 anni. Che ci fosse un suo tornaconto personale lo dimostrano documenti interni che rivelano la partecipazione della società all'aumento di capitale di Visibilia sin dal 2013'.

E ancora: la ministra 'ha giurato di non aver avuto alcun ruolo operativo in Ki Group, ma foto e documenti inediti di cui Report è entrato in possesso rivelano l'esatto opposto'. Secondo quanto sostiene Report, Santanchè 'ha sostenuto che i suoi compensi non abbiano mai superato i 100mila euro lordi. Documenti interni della società dimostrano - si legge nella nota - che i suoi compensi superano i 400mila euro lordi all'anno anche quando la società perdeva milioni di euro all'anno'. Il programma aggiunge inoltre che 'Santanchè ha negato di essere ancora in azienda quando i dipendenti di Ki Group sono stati licenziati senza liquidazione, ma documenti interni la smentiscono'.

La ministra, sostiene inoltre la trasmissione, 'ha negato che la dipendente di Visibilia, che ha lavorato mentre era in cassa integrazione a zero ore, fosse all'oscuro della sua condizione contrattuale e che abbia lavorato in cassa integrazione. Per la prima volta la dipendente di Visibilia parla a volto scoperto davanti alla telecamera e racconta, con prove documentali, la sua versione che smentisce in toto quella della Santanchè, afferma di essere stata pagata con un rimborso chilometrico, e di aver lavorato nel periodo di cassa integrazione anche in Senato'. 

Infine, la ministra a palazzo Madama 'ha dichiarato che Negma ha portato solo vantaggi, ma Report la smentirà con i numeri interni e una nuova intervista a Giuseppe Zeno, l'azionista di minoranza di Visibilia da cui parte l'inchiesta e che parla per la prima dopo l'intervento in Senato della ministra'. 'Santanché - conclude la nota - ha promesso che si farà carico dei debiti di Visibilia, ma un documento della Procura della Milano mette seriamente in dubbio questa sua proposta'. 

Ex dipendente Ki Group, 'Santanchè aveva un ruolo attivo'

(ANSA il 10 luglio 2023) "In realtà noi tutte sappiamo che lei con Ki Group c'entrava. Più volte" dava "ordini o compiti ad ognuna di noi. Per quanto mi riguarda, dal punto di vista commerciale lei si è occupata molto, faceva con me riunioni quindicinali con la forza vendita e ci teneva a verificare gli obiettivi, ci teneva a verificare i fatturati". 

Lo ha spiegato Monica Lasagna, ex direttrice commerciale di Ki Group ai microfoni di Report - che stasera ritorna a parlare del caso Santanchè alla luce di quanto la scorsa settimana la ministra del turismo ha riferito in Senato - sostenendo che l'allora imprenditrice aveva un ruolo "attivo" nella Srl. 

La Ki srl, viene sottolineato dalla trasmissione, "è di proprietà di Ki Group spa che a sua volta è controllata da Bioera, una società finanziaria che, fino al momento in cui l'azienda biologica è stata in salute, guadagnava quasi esclusivamente grazie ai ricavi di Ki Group. Come mostra il bilancio 2013, - si sottolinea - Daniela Santanché possedeva il 14,9 per cento di Bioera attraverso la D1 Partecipazioni, un'altra holding in cui Daniela Santanché è socia insieme al suo ex fidanzato Alessandro Sallusti" Report evidenzia anche che "l'attivismo della ministra è stato generosamente ricompensato dall'azienda.

In meno di nove anni, solo come indennità per le cariche sociali, Daniela Santanché si è portata a casa 2 milioni e mezzo di euro" e il suo ex fidanzato e amministratore "Canio Mazzaro 7 milioni". Nel programma si mette in luce anche che "le perdite causate anche dagli stipendi di Daniela Santanchè e Canio Mazzaro hanno determinato il tracollo della Ki Group, che ne 2021 ha licenziato la quasi totalità dei suoi 77 dipendenti". (ANSA).

Palazzo Chigi: i forfait dei ministri dal 2001 al 2023. Chi sono i ministri che hanno lasciato Palazzo Chigi prima del tempo? Il primato del secondo governo Berlusconi nel quadro delle dimissioni degli ultimi ventidue anni. Marianna Piacente su Notizie.it il 6 Luglio 2023

ARGOMENTI TRATTATI

Più di tre ministri ogni due anni

Il primato del governo Berlusconi

Il resto dei forfait

Come funzionano le dimissioni di un ministro?

Daniela Santanchè, di cosa è accusata?

Daniela Santanchè al rogo mediatico. Da circa una settimana la ministra del Turismo è bersagliata dalle pesanti critiche dei partiti di opposizione, che ne chiedono le dimissioni. Rai 3 rivela condotte giudicate ai limiti della legalità nei confronti e dei fornitori e dei dipendenti delle società di sua proprietà Visibilia e Ki Group. Ma chi c’è insieme a lei nei gironi infernali di Palazzo Chigi? Ecco l’elenco di tutti i ministri dimessisi dal 2001 a oggi.

Più di tre ministri ogni due anni

Sono trentadue. Quasi il 12% dei ministri (278 in totale). In media, ogni due anni hanno lasciato il loro incarico più di tre ministri. Una media che tuttavia non rispecchia la realtà dei fatti. Le dimissioni di un ministro non hanno interessato ugualmente tutti e dodici i governi che si sono succeduti in Italia negli ultimi ventidue anni: se alcuni governi non hanno registrato alcuna defezione, portando a compimento il mandato con gli stessi ministri con cui lo hanno preso, ce ne sono altri che hanno visto riaggiornare (anche più volte) il proprio organico, sia per questioni personali che politiche e giudiziarie.

Il primato del governo Berlusconi

Il governo che ha registrato più ministri dimissionari nel range temporale considerato è stato il secondo governo guidato da Silvio Berlusconi (dal 2001 al 2006): otto i ministri che hanno lasciato l’incarico. Al secondo posto c’è il quarto e ultimo governo Berlusconi (dal 2008 al 2011): sei. L’ultimo gradino del podio nero va al governo Renzi: quattro i ministri dimissionari. A onor del vero, il record del secondo governo Berlusconi è figlio anche della sua stessa durata: con 1.412 giorni in carica, si tratta del governo più longevo della storia repubblicana. Di seguito, alcuni “meriti” del primato:

Luglio 2002: il ministro dell’Interno Claudio Scajola si dimette in seguito alle polemiche riguardo le sue dichiarazioni sul giurista Marco Biagi (lo definì «un rompicoglioni»), ucciso a marzo dello stesso anno dalle Nuove Brigate Rosse;

Agosto 2005: il ministro dell’Economia Domenico Siniscalco si dimette dopo quattro mesi dall’incarico per divergenze con la maggioranza;

Febbraio 2006: il ministro per le Riforme istituzionali e la semplificazione normativa Roberto Calderoli è costretto a dimettersi per essersi mostrato in televisione con addosso una maglietta raffigurante delle vignette satiriche contro Maometto, causando violente proteste attorno al consolato italiano a Bengasi (Libia);

Marzo 2006: il ministro della Salute Francesco Storace si dimette per il suo coinvolgimento nell’inchiesta Laziogate della procura di Roma. Era indagato per associazione a delinquere insieme ad alcuni suoi ex collaboratori, accusato di aver spiato a livello informatico alcuni avversari politici mentre era presidente del Consiglio regionale della Regione Lazio. Dopo una condanna in primo grado, fu assolto in appello nel 2012.

Il resto dei forfait

A gennaio 2008 (secondo governo Prodi), il ministro della Giustizia Clemente Mastella lascia l’incarico perché accusato di concorso esterno in associazione a delinquere dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. Le sue dimissioni provocano l’uscita dalla maggioranza dell’Udeur e collaborano alla caduta del governo della coalizione di centrosinistra (nel 2017 Mastella sarà assolto). Più recentemente, a marzo 2016 la ministra dello Sviluppo economico (governo Renzi) Federica Guida si dimette – pur non essendo indagata – per il coinvolgimento in un’inchiesta sul traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti legati all’Eni in provincia di Potenza. Le ultime ministre a dimettersi appartengono entrambe al governo Conte: si tratta della ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti e della ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova. Il motivo stavolta non ha a che fare con indagini e/o accuse: le due scelgono semplicemente di ritirare l’appoggio al governo (come aveva fatto a dicembre 2019 il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti).

Come funzionano le dimissioni di un ministro?

Dipende. Se le dimissioni partono da una volontà del ministro non è la stessa cosa che se sono richieste dal Parlamento. La mozione di sfiducia è un atto previsto dalla Costituzione con cui il Parlamento, o una parte di esso, manifesta il venire meno del rapporto di fiducia con il governo o con un suo esponente. In base ai regolamenti della Camera e del Senato, le mozioni di sfiducia devono essere motivate e sottoscritte da almeno un decimo dei componenti dell’aula (quaranta deputati e ventuno senatori), non possono essere discusse prima di tre giorni dalla presentazione e sono votate per appello nominale. Se la maggioranza assoluta dell’aula (50% o più) esprime un voto favorevole, la mozione è approvata e il suo destinatario deve dimettersi. Tuttavia, dal momento che i ministri di un governo sono espressione della maggioranza parlamentare, è difficile che il Parlamento voti a favore della sfiducia.

Daniela Santanchè, di cosa è accusata?

Tornando al caso Santanchè, nelle aziende a suo nome sarebbero stati registrati comportamenti poco trasparenti nei confronti del fisco e scorretti nei confronti dei dipendenti (trattamenti di fine rapporto non pagati a chi è stato licenziato oppure lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore a loro insaputa, facendoli comunque lavorare).

Grazia Longo per la Stampa l'11 luglio 2023.

 Daniela Santanchè con le spalle al muro dopo l'inchiesta di Report. La sua posizione all'interno del governo è appesa un filo, anche se Meloni, seppur non apertamente, continua apparentemente a sostenerla. Ma fino a quando? Indagata dalla Procura di Milano per falso in bilancio e bancarotta fraudolenta, Santanchè smentisce se stessa. O meglio, l'imprenditrice smentisce la ministra. 

In un impietoso fact checking, alla lettera «verifica dei fatti», la trasmissione d'inchiesta Report, condotta da Sigfrido Ranucci, ieri sera su Rai 3, ha messo a confronto le azioni concrete di Santanchè a Visibilia e dintorni e le sue dichiarazioni in Senato.

Emergono numerose ed evidenti contraddizioni. A partire dalla sua affermazione a Palazzo Madama, il 5 luglio scorso: «La mia partecipazione in Ki Group srl non ha mai, ripeto mai, superato il 5 per cento». 

Peccato che la società sia di proprietà di Ki Group spa, che a sua volta è controllata da Bioera. E il bilancio 2013 rivela che Daniela Santanchè possedeva il 14,9 per cento di Bioera tramite la D1 Partecipazioni, un'altra holding in cui lei è socia con l'ex fidanzato Alessandro Sallusti. 

Sempre in Senato la ministra del Turismo ha dichiarato di essere entrata in Ki Group esclusivamente per supportare il figlio Lorenzo Mazzaro.

Ma nel 2013 il ragazzo aveva solo 17 anni e non lavorava. E invece in quell'anno le aziende della Santanchè del gruppo Visibilia, che già non navigavano in acque tranquille, venivano finanziate da Bioera, e quindi con i soldi di Ki Group, per 1 milione e 300 mila euro finalizzato a un aumento di capitale. 

La ministra, poi, nega di aver avuto un ruolo in Ki Group srl. Ma viene tradita dal bilancio 2014 che dimostra che già allora era la presidente della Ki Group spa, la controllante. Dai bilanci si evince inoltre che ha spalleggiato l'ex fidanzato Canio Mazzaro fin dall'inizio dell'impresa del biologico, assumendo nel 2012 la presidenza di Bioera, carica che conserverà anche negli anni successivi. 

E ancora: Santanchè ha ribadito che i suoi compensi non sono mai stati superiori a 100 mila euro lordi all'anno, tra il 2014 e il 2018, mentre documenti interni attestano che ha incassato oltre 400 mila euro lordi all'anno anche quando la società perdeva 7 milioni di euro. Viene inoltre smentita anche a proposito dei dipendenti licenziati senza liquidazioni: lei nega di essere stata operativa in azienda all'epoca dei fatti, ma come si legge nel bilancio 2021 di Ki Group srl il licenziamento della quasi totalità dei dipendenti risale al 2021-2022, quando Daniela Santanchè era perfettamente operativa all'interno dell'azienda.

La ministra ha respinto l'accusa relativa al fatto che la dipendente Federica Bottiglione, che lavorava mentre era in cassa integrazione a zero ore, fosse all'oscuro della sua situazione contrattuale e ha negato che abbia lavorato in cassa integrazione. Ma la verità raccontata da Bottiglione di fronte alle telecamere è completamente opposta. «Non sapevo di essere in cassa integrazione a zero ore. Durante il Covid ho sempre lavorato. Soprattutto perché il mio ruolo di responsabile affari societari e investor relator è obbligatorio in Borsa, è quella persona che dà comunicazioni al mercato, e non si può smettere di darle se si è quotati».

(...) 

Un autentico mistero è anche il fondo arabo Negma.

Secondo la ministra ha portato benefici agli azionisti di Visibilia, ma nei fatti nel giro di tre anni, dopo il finanziamento Negma, il valore delle azioni è crollato da 90 euro a 10 centesimi nel 2022. Eppure Santanchè insiste che dal gennaio 2023 il titolo di Visibilia è cresciuto del 500 per cento. Ma viene contraddetta dall'azionista di minoranza di Visibilia, Giuseppe Zeno, che a Report dichiara: «È una cosa ridicola questa, perché il titolo viene giù da 40 euro, è arrivato a 0,20. Quindi adesso da 0,20 a 0,60 è ridicolo dire che abbia avuto una ripresa del 200% perché siamo sempre sotto del 90%». Come affronterà i debiti di Visibilia? 

In Senato la ministra ha assicurato: «Ho messo a disposizione il mio patrimonio». Parole al vento per il perito della Procura di Milano che nella sua relazione boccia la considerazione perché «troppo generica». Insufficienti paiono infatti, come garanzie, l'immobile di lusso di Milano e il Twiga, lo stabilimento per vip a Marina di Pietrasanta, di cui ha ceduto le quote al fidanzato Dimitri Kunz (anche lui indagato) e a Flavio Briatore. Per non parlare del rischio di un possibile conflitto di interessi, considerato che il governo dovrà mettere all'asta le concessioni balneari.

Estratto dell’articolo di Vittorio Malagutti e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 12 luglio 2023.

Comprare una casa e rivenderla meno di un’ora dopo. Guadagnando un milione di euro. È questo l’affare segreto, una speculazione da record, che lega la famiglia di Ignazio La Russa e Dimitri Kunz, il compagno di Daniela Santanchè. Il cerchio si è chiuso il 12 gennaio scorso. 

Quel giorno, come ha scoperto Domani, Kunz si presenta da un notaio a Milano accompagnato da Laura Di Cicco, moglie del presidente del Senato, e insieme firmano l’atto di vendita di una villa a Forte dei Marmi, una residenza di lusso immersa nel verde del Parco della Versiliana: 350 metri quadrati su tre livelli, con giardino e piscina. L’acquirente, si legge nei documenti, è l’imprenditore Antonio Rapisarda, che sborsa 3,45 milioni.

Kunz e Di Cicco incassano una lauta plusvalenza, un milione tondo tondo, perché avevano comprato quello stesso immobile per 2,45 milioni. Ma la sorpresa più grande è un’altra. Il contratto d’acquisto della villa era stato siglato alle 9.20 del 12 gennaio, solo 58 minuti prima di cedere quello stesso immobile a Rapisarda con un rogito firmato alle 10 e 18 minuti, come si legge nell’atto notarile consultato da Domani. 

Meno di un’ora, quindi, per guadagnare un milione di euro. Un colpo grosso da fare invidia a uno speculatore di Borsa. Un’operazione lampo realizzata dalla moglie della seconda carica dello Stato in tandem col fidanzato, nonché partner d’affari, della ministra del Turismo.

La Russa e Santanchè si conoscono da decenni: il presidente del Senato guida la corrente milanese del partito di Giorgia Meloni, la stessa corrente a cui fa riferimento anche la ministra, un’imprenditrice con la passione della politica che in queste settimane è finita al centro di un vortice di accuse e sospetti per via del tracollo del suo gruppo di aziende col marchio Visibilia.

E proprio La Russa, questa volta in veste di avvocato, nei mesi scorsi ha più volte offerto la sua consulenza all’amica Daniela, che da novembre scorso, insieme tra gli altri a Kunz, è indagata dalla procura di Milano. Di certo però nessuno poteva finora immaginare che il compagno di Santanché e la moglie del presidente del Senato fossero impegnati insieme in un business milionario che ruota attorno a un immobile di gran pregio.

La vicenda che Domani è in grado di ricostruire, un affare di famiglia e insieme anche di governo, prende forma molti mesi prima di quel memorabile 12 gennaio. I documenti ufficiali rivelano infatti che la villa al centro di questa sorprendente operazione apparteneva al sociologo Francesco Alberoni, […]. Il primo atto va in scena il 22 luglio dell’anno scorso, quando Kunz e Di Cicco firmano un preliminare con l’avvocato Elisabetta Nati, procuratrice speciale di Alberoni, che ha 93 anni. C’è un antefatto, però: al momento del preliminare i due compratori potevano disporre della casa già da un paio di settimane. Nell’atto depositato al catasto si legge infatti che a partire dal 5 luglio «alla parte acquirente è stato concesso il possesso dell’immobile anche al fine di curare la manutenzione del giardino e quant’altro fino al rogito».

La coppia Kunz-Di Cicco va di fretta. Neppure il tempo di metter mano al nuovo acquisto e all’orizzonte si profila già un altro compratore. Il 7 ottobre la moglie di La Russa e il fidanzato di Santanché firmano un nuovo contratto preliminare, ma questa volta per vendere quella stessa villa che meno di tre mesi prima avevano promesso di acquistare. Entra in scena a questo punto Antonio Rapisarda, che si presenta per conto della Springstar, una sua società personale, e s’impegna a rilevare la villa di Forte dei Marmi versando un milione di caparra come anticipo su un prezzo finale di 3 milioni e 550 mila euro.

Strada facendo, però, il compratore, ottiene uno sconto di 100 mila euro, «in dipendenza – si legge nel rogito – di alcune irregolarità edilizie riscontrate e ad oggi risolte». Si arriva così alla data fatidica del 12 gennaio, quando Kunz e Di Cicco firmano in rapida successione il primo atto, con controparte Alberoni, e poi quello con Rapisarda. Una compravendita a dir poco fortunata, anche considerando che dal milione di plusvalenza va detratta l’imposta di 247 mila euro versata al Fisco. 

C’è un altro fatto curioso nella prodigiosa speculazione immobiliare: la firma dei due rogiti è avvenuta non solo lo stesso giorno, a meno di un’ora l’uno dall’altro, ma anche in due studi notarili diversi, a Milano, distanti tra loro quattro chilometri circa, 15 minuti d’auto.

Tutto legale, certo, tutto regolare. Di sicuro, però, sembra quantomeno sorprendente che lo stesso immobile venga acquistato poi rivenduto nell’arco della stessa giornata, anzi della stessa mattina, con un guadagno del 40 per cento. Tanto che, a questo punto, è lecito chiedersi qual era il prezzo giusto della villa di Forte. Quello a cui Alberoni ha ceduto l’immobile oppure quello, molto più elevato, pagato da Rapisarda, l’acquirente finale.

Interpellato da Domani, Rapisarda ha […] spiegato che in quel periodo era alla ricerca di una casa più grande in Versilia: «E Dimitri (Kunz, ndr) mi aveva detto che stava trattando questo immobile, per il quale avevano già fissato il prezzo. […] aggiunse che non era stato semplice chiudere con Alberoni perché c’erano questioni di eredità non facili da risolvere. Alla fine mi comunicò il buon esito, “Antonio io la prendo a prezzo favorevole”». 

Rapisarda sostiene che Kunz non voleva venderla, ha accettato «perché io ho insistito». Rapisarda, inoltre, ammette che sapeva «benissimo che Kunz l’aveva presa a 1 milione in meno, ma il mercato di Forte è quella roba lì», spiega. Ma come è possibile che nel giro di così poco tempo il valore lieviti di un milione?, chiediamo. «Eh, lui l’ha trattata prima con prezzi più bassi, è stato bravo, lui mi ha detto questo è il prezzo...e io ho detto va bene». […] 

Quando gli chiediamo se l’affare possa essere servito a coprire i debiti di Visibilia, risponde: «Sono sincero non conoscevo questa vicenda di Visibilia, se poi loro hanno usato soldi perché utili a sanare la società non credo ci sia nulla di male. […]».

Questa la versione di Rapisarda, che non aiuta granché a capire perché mai il prezzo della villa sia letteralmente esploso tra la prima e la seconda compravendita. Di certo, l’amico di Kunz non è un uomo d’affari alle prime armi. Milanese di nascita, 56 anni, casa nell’elegante quartiere di Brera, spesso presente agli eventi mondani della capitale degli affari, Rapisarda è un manager ben conosciuto negli ambienti finanziari. 

Erede dei Gentilini, la dinastia di industriali che più di un secolo fa crearono a Roma l’omonimo marchio di biscotti, l’acquirente della villa di Forte ha però lasciato da tempo tutti gli incarichi operativi nelle aziende di famiglia. […] L’imprenditore milanese ora tira le fila di alcune iniziative immobiliari e buona parte delle sue attività sono state concentrate sotto l’ombrello della Springstar, una società con base a Milano, controllata dall’imprenditore insieme ai due figli.

[…] Negli atti finora raccolti dai pm non c’è l’operazione immobiliare tra la moglie di La Russa e il fidanzato della ministra. Di certo, però, il grande affare in Versilia si innesta in contesto di estrema fragilità finanziaria per Santanché e il fidanzato, imbrigliati nelle società della galassia Visibilia. Kunz, peraltro, nel momento in cui porta a termine la doppia operazione della villa in Toscana è ancora l’amministratore unico di Visibilia editrice, una delle società finite sotto la lente dei magistrati milanesi. […]

Santa subito.  Report Rai. PUNTATA DEL 10/07/2023

di Giorgio Mottola collaborazione Greta Orsi

Report torna sul caso Santanchè

Dopo l’inchiesta di Giorgio Mottola, Daniela Santanché è stata costretta a riferire in aula al Senato per rispondere ai fatti emersi nel corso della trasmissione Report. Ma tra mezze verità, omissioni e vere e proprie menzogne, il suo intervento si è subito rivelato un autogol. Report mostrerà, con documenti interni alle sue società, tutte le incongruenze, le inesattezze e le falsità pronunciate dal ministro del Turismo durante il suo discorso. Con testimonianze inedite verranno svelate nuove vicende che evidenziano come la cattiva gestione delle aziende di Daniela Santanché abbia danneggiato dipendenti e fornitori.  

SANTA SUBITO di Giorgio Mottola collaborazione Greta Orsi immagini Carlos Dias, Cristiano Forti, Marco Ronca GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo l’inchiesta di Report, Daniela Santanché è stata costretta a dare spiegazioni all’aula del Senato sui fatti denunciati nel corso della nostra trasmissione.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO Ci tengo però a precisare che risponderò vestendo i panni dell'imprenditore. In questi anni ho raccolto importanti successi imprenditoriali di cui vado orgogliosa e sono anche fiera di aver dato lavoro a tante persone.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma come vedremo sarà proprio la Santanché imprenditrice a smentire in tutto la linea difensiva della Santanché ministra. Le carte delle sue stesse società, contraddicono quasi tutto ciò che ha riferito nell’aula del Senato. Ma partiamo dalle sue dichiarazioni su Ki Group, la società di distribuzione di prodotti biologici, che Daniela Santanché gestiva insieme al suo ex compagno Canio Mazzaro.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO Non ho mai avuto il controllo o partecipazione di un qualunque rilievo nelle imprese del settore dell'alimentare biologico e della sua distribuzione, lo ripeto, mai. La mia partecipazione in Ki Group Srl non ha mai - ripeto mai - superato il 5 per cento della mia partecipazione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi Daniela Santanché sostiene di aver avuto sempre solo il 5 per cento di Ki Group Srl. Ma la ministra omette di menzionare un particolare fondamentale. Ki Group Srl è infatti di proprietà di Ki Group spa che a sua volta è controllata da Bioera, una società finanziaria che, fino al momento in cui l’azienda biologica è stata in salute, guadagnava quasi esclusivamente grazie ai ricavi di Ki Group. Come mostra il bilancio 2013, Daniela Santanché possedeva il 14,9 per cento di Bioera attraverso la D1 Partecipazioni, un’altra holding in cui Daniela Santanché è socia insieme al suo ex fidanzato Alessandro Sallusti. Ed era una quota estremamente pesante quella della ministra, dal momento che lo stesso anno veniva reso pubblico un patto parasociale con Canio Mazzaro, anche lui ex fidanzato, che poneva di fatto Daniela Santanché nella governance di Bioera.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Facendo un patto parasociale con il socio di maggioranza, di fatto, associa la sua partecipazione a chi comanda e quindi, anch’essa, comanda in Bioera. Comandano in due.

GIORGIO MOTTOLA E governare Bioera vuol dire al contempo governare Ki Group?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Certo. Tutte le società che ci stanno sotto. Bioera, Ki Group, le altre controllate erano gestite da loro due.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nel corso del suo intervento Daniela Santanché ha raccontato che il suo impegno in Ki Group sia stato determinato esclusivamente da amore materno.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO Questo l'ho fatto perché ha coinciso con l'ingresso di mio figlio, di andare a lavorare col padre. È ovvio che in casa - e non credo sia vietato dalla legge - mi poteva parlare e mi ha parlato delle difficoltà che incontrava.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi Santanché sostiene di essere entrata in Ki Group solo per aiutare il figlio Lorenzo Mazzaro. Ma nel 2013, quando era ufficialmente nella governance di Bioera, Lorenzo aveva appena 17 anni e andava al liceo. Mentre invece, quell’anno, le aziende della Santanché del gruppo Visibilia, che già andavano male, venivano finanziate da Bioera, e quindi con i soldi di Ki Group, per 1 milione e trecentomila euro finalizzato a un aumento di capitale.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO Io non ho avuto nessun ruolo né nella sua fortunata costruzione né nel suo abbattimento, perchè sono estranea. Da gennaio del 2019 e per meno di due anni, ho assunto una carica sociale in Ki Group Srl senza alcun potere operativo. Da allora sono cessata da tutte le cariche sociali in tale gruppo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il ministro giura di non aver mai avuto alcun ruolo operativo in Ki Group s.r.l. ma basta guardare il bilancio del 2014 per scoprire che Daniela Santanché era già allora presidente di Ki Group S.p.a., vale a dire la controllante. Non solo, dai bilanci risulta che ha spalleggiato Canio Mazzaro fin dall’inizio dell’impresa del biologico, assumendo nel 2012 la presidenza di Bioera, carica che conserverà anche negli anni successivi. Che il ruolo di Santanché sia in Ki Group S.r.l. che in Ki Group S.p.a fosse operativo ci viene confermato dalle ex dipendenti che mercoledì scorso da Torino e Milano sono scese a Roma per ascoltare in aula l’intervento della ministra.

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP In realtà noi tutte sappiamo che lei con Ki Group c’entrava, lei più volte ordini o compiti ad ognuna di noi. Faceva con me riunioni quindicinali con la forza vendita e ci teneva a verificare gli obiettivi, ci teneva a verificare i fatturati e quindi…

GIORGIO MOTTOLA Cioè quindi lei aveva un ruolo veramente attivo?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Assolutamente sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E la versione delle dipendenti è confermata da prove documentali. Questo è uno screenshot risalente al settembre 2020, che dimostra che Daniele Santanchè presiedeva le riunioni, online causa Covid, con i principali agenti della sua rete vendite. E come si evince da quest’altra foto scattata all’interno della sede di Torino via Varallo, frequentava di persona l’azienda insieme all’ex fidanzato Canio Mazzaro. Inoltre, che la ministra intervenisse nella gestione di Ki Group direttamente, ve lo avevamo mostrato nell’altra inchiesta con queste chat e con questo messaggio vocale.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO – AUDIO Molto bene, mi usi tutte le volte che servo che abbiamo tanti bisogni. Quanti ne abbiamo di pedane di latte?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma l’attivismo della ministra è stato generosamente ricompensato dall’azienda. In meno di nove anni, solo come indennità per le cariche sociali, Daniela Santanché si è portata a casa 2 milioni e mezzo di euro; Canio Mazzaro 7 milioni.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO – 05/07/2023 – SENATO Da Ki Group Srl negli anni 2019, 2020 e 2021 ho incassato complessivamente 27 mila euro lordi, in tutti e tre gli anni. Per gli anni precedenti, 2014, 2015, 2016, 2017 e 2018, anni in cui la Ki Group Spa ha fatto margini operativi sempre largamente positivi, ho percepito dalla capogruppo mediamente un valore lordo annuo di circa 100 mila euro in maniera fortemente decrescente negli ultimi tre anni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma anche sui compensi Daniela Santanché viene smentita dalle carte delle sue società. In Senato sostiene di aver guadagnato da Ki Group e dalla capogruppo Bioera 100 mila euro all’anno tra il 2014 e il 2018. Ma eccole le vere cifre approvate nei bilanci di Bioera: 2014, 144 mila euro; 2015, 391 mila euro; 414 mila euro all’anno tra il 2016, 2017 e 2018, anno in cui si specifica nei bilanci che 270 mila euro vengono da Ki Group Apa, che quell’anno perdeva 7 milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Questi lauti compensi che Santanchè e Canio Mazzaro si auto attribuivano erano proporzionati ai risultati che otteneva la società in quel periodo?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Assolutamente no, la società ha sempre perso praticamente. Addirittura, nel 2016 perde 2 milioni e 7, consolidato di gruppo, e loro prendono compensi per un milione e 663 mila euro. Cioè…

GIORGIO MOTTOLA Contribuiscono alla perdita finale della società in modo consistente.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh beh, certo. Più di metà della perdita deriva dai loro compensi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E le perdite causate anche dagli stipendi di Daniela Santanchè e Canio Mazzaro hanno determinato il tracollo della Ki Group che ne 2021 ha licenziato la quasi totalità dei suoi 77 dipendenti.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Twitter 27/12/2021) Eccoci qua! È arrivato anche il Natale 20-21. Che bello il Natale! Vi piace il centrotavola? Qualcuno dirà che è troppo, chi se ne frega. Lo faccio da sempre! Eccoci qua: Dimitri!

DIMITRI Auguri! DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO (da Twitter 27/12/2021) Lorenzo, la nonna Rosetta, Canio! Insomma, che bello, però pensiamo anche a quelli che tutto questo non ce l’hanno. E adesso vi saluto anch’io: buon Natale!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mentre la senatrice festeggiava con il villaggio natalizio animato al centrotavola, la maggior parte dei dipendenti di Ki Group era stata da poco licenziata. Messa alla porta senza neanche la liquidazione.

RAFFAELLA CAPUTO – EX DIPENDENTE KI GROUP Io devo prendere il Tfr che è pari a 40mila euro circa.

MILENA RAISE - EX DIPENDENTE KI GROUP Netti 28 mila euro, di Tfr.

MARIA TEODOSIO - EX DIPENDENTE KI GROUP 31mila euro, è tutta la mia liquidazione sì.

GIORGIO MOTTOLA A lei che era il responsabile commerciale, quanti soldi deve ancora la Santanché?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP 44mila euro, sì.

GIORGIO MOTTOLA E glieli sta facendo penare questi 44mila euro?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Sì, decisamente.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO – 05/07/2023 SENATO Era perfettamente noto che gli stipendi e il TFR di Ki Group, ancora da corrispondere ai dipendenti, erano inerenti al personale fuoriuscito dall'azienda nel corso dell'anno 2023, quando io già da tempo non avevo alcun ruolo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La ministra giura di non aver niente a che fare con la liquidazione dei dipendenti licenziati, ma come dimostra chiaramente il bilancio 2021 di Ki Group Srl il licenziamento della quasi totalità dei dipendenti risale al 2021 – 2022, quando Daniela Santanchè era perfettamente operativa all’interno dell’azienda.

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Fino alla fine. Fino al 2022, giugno del 2022 lei comunque ha continuato ad interessarsi dell’azienda.

GIORGIO MOTTOLA Ma con un ruolo dirigenziale?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Collaborava con Canio nel dare le direttive.

GIORGIO MOTTOLA Ministro mi scusi, sono Mottola di Report, però non ha detto cose del tutto vere durante il suo intervento. Ha detto per esempio che lei non aveva ruoli in Ki Group e invece anche le lavoratrici stanno confermando tutte quante, tutte quante che in realtà lei aveva un ruolo operativo. Non mi risponde per niente? Cioè, anche sui suoi compensi, in realtà lei non calcola quelli di Bioera e Bioera è la controllante di Ki Group, ma come si fa?

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Dov’è la macchina?

GIORGIO MOTTOLA No ministro, però non mi ignori così, l’altra volta mi ha risposto, perché non mi risponde anche ora? Visto che lei è appena intervenuta e le sto dicendo che ha detto una serie di cose…

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Buona giornata.

GIORGIO MOTTOLA Ha detto una serie di cose false, però ministro.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO La ringrazio molto.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO Andate avanti, andate avanti voi, la ringrazio…

GIORGIO MOTTOLA Eh, noi proviamo a fare inchiesta giornalistica, ma non pensa di dare delle spiegazioni ai lavoratori? Anche perché ha detto non c’entro niente con Ki Group e poi ha detto che paga lei i debiti, è un po’ un controsenso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma per le lavoratrici che sono scese a Roma per ascoltare le spiegazioni della ministra c’è stata almeno una buona notizia riguardante il loro Tfr.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO – 05/07/2023 SENATO Posso comunicarvi che i lavoratori dipendenti della Ki Group Srl verranno integralmente soddisfatti con riguardo a tutti i loro diritti di credito.

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP E questo ci rallegra, nel senso che se noi alla fine riusciamo ad avere i nostri Tfr di sicuro è grazie a Report, in primis. Il fatto che ci sia stato qualcuno che ci ha ascoltato e che ha portato avanti la nostra istanza e ha dato visibilità alla cosa ci fa ben sperare nel rivedere più in fretta i nostri soldi, che comunque son soldi, ragazzi, che ci siamo guadagnati e meritati con tanto lavoro, insomma.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Siamo noi che ringraziamo voi per averci messo la faccia, per aver denunciato in un contesto in cui i cittadini sono sempre più impauriti a denunciare chi viola i loro diritti. Ecco, se ci fossero più persone coraggiose probabilmente vivremmo in un Paese migliore. Un paese che non merita che nel luogo più alto delle istituzioni venga data una falsa rappresentazione della realtà. Ora, il ministro Santanchè ha sostenuto di non aver mai avuto una quota superiore del 5 per cento di Ki Group. Ma ha omesso di dire che oltre a quel 5% deteneva, già a partire dal 2013, attraverso la D1 partecipazioni il 14,9% di Bioera, cioè della società controllante che viveva degli introiti, degli incassi delle attività proprio di Ki Group. E poi la ministra ha anche omesso di dire che era inserita nel patto parasociale con l’ex fidanzato Canio Mazzaro. Questo vuol dire che aveva un ruolo centrale nella proprietà. E poi non corrisponde neanche a realtà che il suo ingresso in Ki Group sia avvenuto per amore materno, perché il figlio era in difficoltà nel campo del lavoro perché quando è entrata il figlio aveva appena 16 anni, andava a scuola e infatti, la prima a beneficiare dell’ingresso nel gruppo Bioera/Ki Group è lei stessa. Il gruppo Visibilia che viene ricapitalizzato proprio con i soldi, i finanziamenti proveniente da Bioera/Ki Group per 1 milione e 300 mila euro. Probabilmente quello era l’unico modo per finanziare Visibilia perché come avevamo scoperto noi di report, mostrando documenti esclusivi, in quegli anni, 2011-2012 il sistema bancario aveva dei crediti nei confronti di Visibilia di circa 15 milioni di euro. E poi Santanchè ha anche detto anche di aver ricoperto dal 2019 una carica sociale per solo meno di 2 anni. Ha negato anche di avere un ruolo attivo in Ki Group Srl. Ecco qui vi abbiamo mostrato prove documentali, foto, screenshot, chat, riunioni e anche le testimonianze dei dipendenti che provano il contrario. Poi Daniela Santanché aveva anche dichiarato di aver percepito compensi bassi da Ki Group Spa, quella quotata in borsa che da Ki Group Srl. Anche qui omette di dire quanto è scritto nei bilanci consolidati e cioè che in nove anni ha percepito 2,5 milioni di euro. E mentre Ki Group Spa perdeva nel 2018, 7 milioni di euro, lei si autoassegnava 280 mila euro, una cifra alla quale si somma anche 119 mila euro che aveva intascato da Bioera, cioè dalla controllante. Daniela Santanché ha anche detto di non aver avuto alcun ruolo nei mancati pagamenti degli stipendi e del Tfr dei dipendenti, perché sono fuoriusciti nel 2023 quando lei non aveva più alcun ruolo. Ecco, anche questo non è vero, perché la maggior parte di quei dipendenti è stato licenziato nel 2021 e lei è stata lì, l’ha detto lei stessa, fino al 2022. E ora passiamo al fact-checking anche dell’altro gruppo imprenditoriale che le faceva riferimento, Visibilia, Visibilia che meraviglia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante il suo intervento la ministra Santanché ha duramente attaccato la lavoratrice che, come avevamo raccontato nella precedente inchiesta, ha denunciato Visibilia per aver lavorato nonostante fosse in Cassa integrazione a zero ore

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO E sono stata accusata giornalisticamente addirittura di truffa ai danni dello Stato, per aver dichiarato che lei era in cassa integrazione a zero ore, a sua insaputa, mentre la società avrebbe continuato a fruire delle sue prestazioni. In questo caso abbiamo un lavoratore che riceve le buste paga, che indicano la sua collocazione in cassa integrazione, che dice però di non saperlo e nega di essere stato informato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la prima volta l’ex dipendente di Visibilia ha deciso di mostrare il suo volto e parlare davanti alle nostre telecamere

GIORGIO MOTTOLA Lei ha denunciato Visibilia nel 2021. Come mai soltanto oggi ha deciso di parlare davanti a una telecamera?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Non ho parlato perché avevo paura. Questo timore poi all’epoca mi è cresciuto anche perché ho avuto difficoltà a trovare dei difensori che prendessero l’incarico.

GIORGIO MOTTOLA Quanti avvocati le hanno chiuso la porta in faccia?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Potremmo arrivare a dieci.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Al Senato Daniela Santanché oltre a gettare sospetti sul fatto che la sua ex dipendente fosse a conoscenza della cassa integrazione a zero ore, l’ha accusata apertamente di mentire.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO Di fronte alla contestazione tardiva della dipendente sulla cassa integrazione, pur ritenendo le sue affermazioni infondate e pur essendo io certa che quella dipendente non ha mai messo piede in Visibilia dall’entrata della sua cassa integrazione, la società ha preferito sanare la posizione.

GIORGIO MOTTOLA La ministra durante il suo intervento ha sostenuto che lei non abbia mai lavorato durante il periodo del Covid. È così?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA No, non è così. Io non ho mai smesso di lavorare in realtà. Ho sempre proseguito tutte le mie attività. Soprattutto perché il mio ruolo di responsabile affari societari e investor relator è obbligatorio in Borsa, è quella persona che dà comunicazioni al mercato, e non si può smettere di darle se si è quotati, motivo per cui io ho sempre lavorato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque, Federica Bottiglioni, nonostante il Covid e la cassa integrazione a zero ore, non si è fermata neanche per un giorno. Lo dimostrano le decine di comunicati e verbali che ha redatto e firmato nel periodo in cui la ministra ha giurato che la dipendente non lavorasse.

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Non sapevo di essere in cassa integrazione a zero euro, quindi perché dovevo smettere di lavorare.

GIORGIO MOTTOLA Ma com’è possibile che lei non sapesse di essere in cassa integrazione a zero ore?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Non lo sapevo perché non mi è stato comunicato. Né poi ricevevo le buste paghe nei tempi in termini di legge. Il 24 giugno 2020 ho ricevuto le buste paghe del semestre.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed eccola la prova del ritardo. Il 14 ottobre del 2021 il responsabile della contabilità di Visibilia le manda i cedolini degli stipendi del periodo compreso tra maggio e luglio 2021. La busta paga posticipata sembra una prassi in Visibilia: il contabile scrive infatti “i cedolini dei mesi precedenti te li ho mandati a luglio”.

GIORGIO MOTTOLA Essendo in cassa integrazione a zero ore, però, lei poteva accorgersene dal fatto che il suo stipendio era ridotto rispetto alla norma.

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA In realtà loro mi hanno sempre pagata. Però mi sono accorta poi sempre andando al Caf che questi pagamenti risultavano come rimborsi spese.

GIORGIO MOTTOLA Quindi compensavano quello che mancava con la cassa integrazione a zero ore con un semplice rimborso spese.

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Esattamente. Tant’è che in una delle telefonate l’ho contestato, ma questi pagamenti non vanno bene, non c’ho ricevute. E mi hanno detto “sono come per gli altri, facciamo rimborsi spese chilometrici”. E a quel punto ho detto “ma c’è stato il Covid, c’era il lockdown nessuno girava, dove sono andata”

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E bisogna sottolineare che l’ex fidanzato della Santanché Canio Mazzaro oltre a un lauto compenso da centinaia di migliaia di euro si era autoassegnato anche una casa da dieci mila euro al mese a spese di Ki Group per la funzione di Investor relator della società. Ruolo identico rivestiva Federica Bottiglioni all’interno di Visibilia, anche se la paga era molto diversa.

GIORGIO MOTTOLA Quanto guadagnava?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Fino al 31 dicembre 2020 mille euro. GIORGIO MOTTOLA Mille euro al giorno, a settimana?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA No, al mese

GIORGIO MOTTOLA Lo sa che Canio Mazzaro che ricopriva il suo stesso ruolo in Ki Group e BioEra aveva anche una casa pagata a 10mila euro al mese, a Milano?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA È stato più fortunato di me, o più competente, non lo so.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quindi per aggiungere qualche centinaio di euro al suo magro stipendio, Federica Bottiglioni ha iniziato a lavorare part-time anche al Senato come assistente parlamentare sia dell’allora senatrice Santanché che di Ignazio La Russa

GIORGIO MOTTOLA Mentre lei era in cassa integrazione in zero, contemporaneamente lavorava in Senato?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Io avevo un contratto di consulenza per il senatore Ignazio La Russa, ma le ripeto io non sapevo di essere in cassa integrazione a zero ore.

GIORGIO MOTTOLA Ha anche lavorato in Senato per conto della Santanchè?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Mi poteva chiedere delle cose e io gliele facevo.

GIORGIO MOTTOLA Del tipo?

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Andare a prendere la posta nel casellario, controllare la posta elettronica.

GIORGIO MOTTOLA Mentre l’azienda della Santanchè, Visibilia, la teneva in cassa integrazione a zero ore, Daniela Santanchè la vedeva in Senato e la faceva di fatto lavorare per lei.

FEDERICA BOTTIGLIONI - EX RESPONSABILE AFFARI SOCIETARI VISIBILIA Mi capitava di collaborare con lei.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma questo non è l’unico problema che Daniela Santanchè si trova a gestire con Visibilia.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO Affermo, innanzitutto, sul mio onore, che non sono stata raggiunta da alcun avviso di garanzia. Ho anche estratto il certificato dei carichi pendenti, in cui risulta che non ci sono annotazioni per qualsivoglia procedimento nei miei confronti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Daniela Santanché giura solennemente di non essere indagata, ma dalla Procura di Milano, si apprende che insieme a lei sarebbero indagati anche il fidanzato Dimitri Kunz, ex amministratore delegato di Visibilia, e la sorella Fiorella Garnero, ex consigliere di amministrazione. Tutti iscritti nel registro degli indagati per falso in bilancio.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Secondo quanto ha scritto il consulente del pubblico ministero sono state commesse un’enormità di irregolarità, nel senso che hanno fatto operazioni contabili essenzialmente volte a coprire perdite. Contabilizzavano fatture da emettere, cioè ipotesi di futuri ricavi, perché se no se facevano emergere le perdite il patrimonio si azzerava o addirittura diventava negativo, con tutte le conseguenze necessarie, la messa in liquidazione della società, la revoca degli affidamenti, eccetera, eccetera

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra il 2014 e il 2020 le società del gruppo Visbilia hanno accumulato perdite per oltre 20 milioni di euro. Una situazione finanziaria disastrosa che ha portato l’azienda di Daniela Santanché a chiedere soldi in prestito a Negma, il misterioso fondo di investimento di Dubai.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO Che l'intervento del fondo Negma anziché danni abbia portato vantaggi è pacifico. Al termine del processo e con l'ingresso di un nuovo socio di maggioranza, che a sua volta ha provveduto a completare l'operazione, il titolo ha guadagnato in borsa da gennaio oltre il 500 per cento

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La ministra dichiara che Negma ha portato solo vantaggi a Visibilia. Eppure, prima che si avviasse l’operazione con il fondo arabo il valore del titolo era intorno ai 90 euro ad azione, dopo l’ingresso di Negma sprofonda a 10 centesemi. Ma la ministra sostiene che dal gennaio 2023 il titolo di Visibilia è cresciuto del 500 per cento.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA È una cosa ridicola questa, perché il titolo viene giù da 40 euro, è arrivato a 0,20. Quindi adesso da 0,20 a 0,60 è ridicolo dire che abbia avuto una ripresa del 200% perché siamo sempre sotto del 90%.

GIORGIO MOTTOLA Ma come mai a partire proprio da gennaio il titolo di Visibilia ha iniziato ad andare meglio

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA MINORANZA VISIBILIA Probabilmente perché il mercato ha visto che Santanchè ha mollato e quindi Santanchè non esiste più all’interno dell’amministrazione. Anche se poi non è vero alla fine perché i nuovi amministratori, i nuovi soci, sono strettamente connessi alla Santanchè.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla fine dello scorso anno Daniela Santanché ha ceduto le quote di Visibilia editore Spa a Luca Reale Ruffino, ex membro del Pdl in Lombardia e imputato, poi assolto, per finanziamento illecito al fratello di Ignazio La Russa, Romano. La ministra ha però annunciato di volersi far carico di tutti i debiti della precedente gestione.

DANIELA SANTANCHÈ – IMPRENDITRICE - MINISTRA DEL TURISMO 05/07/2023 – SENATO Per questa complessa operazione di risanamento ho messo a disposizione il mio patrimonio. Consentitemi di dire che per tutto ciò mi sarei forse aspettata un plauso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi la ministra ha assicurato che metterà a disposizione il suo patrimonio. Ma il perito della procura di Milano non sembra aver creduto a questa promessa quando Daniela Santanchè l’aveva fatta in sede giudiziaria. La giudica troppo generica e fa notare che non ha né un importo massimale della cifra che intende accollarsi né una scadenza dell’impegno

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma insomma, di cosa vogliamo parlare? Sono tutte società in perdita, una dice all’altra “guarda, interverrò io, mi faccio carico”, sono robe che lasciano il tempo che trovano. È una promessa un po’ da marinaio, che parte, va si muove, chissà dove attracca.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, rimanendo sul fact-checking Visibilia, la ministra ha detto che non ha mai visto la dipendente in cassa integrazione negli uffici di Visibilia. Ecco, la dipendente ha portato le prove del contrario non solo ma ha anche mostrato come veniva compensata nella parte mancante dello stipendio, un rimborso chilometrico. Ecco si tratta anche là di una rappresentazione falsa della realtà che alla fine è servita anche per non pagare i contributi e le tasse sul dipendente. Poi abbiamo anche parlato del Negma, del famoso prestito, la Santanchè ha detto che avevamo detto cose non vere, che poi il fondo aveva portato anche un beneficio agli azionisti. Ora, ricordiamo che nei tre anni di finanziamento, l’azione che valeva 90 euro è scesa al valore di 10 centesimi, questo dopo tre anni nel 2022. Poi è vero che c’è stato un rialzo, come dice la Santanchè, fino a 50 centesimi, ma è stato solo dopo che la Santanchè era uscita da Visibilia e aveva rinunciato alla terza tranche di finanziamento. Come per dire, il mercato ha esultato del fatto che la Santanchè fosse fuoriuscita da Visibilia e anche Negma. Ora sta indagando la procura per falso in bilancio, bancarotta fraudolenta, lei, la sorella e il fidanzato Dimitri. E secondo i periti della procura i conti sarebbero stati alterati per occultare a investitori e fornitori le perdite. Santanchè ha detto metto a garanzia la mia abitazione, un’abitazione lussuosa a Milano, poi mi darà anche una mano il Twiga, lo stabilimento per vip che è a Forte dei marmi, le cui quote però lei ha ceduto all’amico Briatore e al fidanzato Dimitri Kunz. Sono promesse da marinaio, dice il nostro Bellavia, con un conflitto anche di interessi potenziale perché la ministra fa parte di un governo che dovrà decidere se mettere all’asta le concessioni dei balneari. Insomma, se dovesse perdere il Twiga, chi paga i debiti? Quello che invece è certo è che la Santanché ha data una falsa rappresentazione della realtà, nel luogo più alto delle istituzioni, davanti ai colleghi senatori. E a smentirla non è la procura, delle veline, delle fonti anonime, dossier precostituiti ma sono le stesse carte della Santanchè. Basta leggerle. E invece i colleghi senatori hanno addirittura, si sono appellati al garantismo, ma quel garantismo non c’entra nulla, è una questione di opportunità. Dopo quello che abbiamo visto stasera, la ministra Santanchè è ancora degna di ricoprire quella funzione? E qui alcuni senatori ci hanno accusato a noi e ai colleghi di fare addirittura un golpe perché c’è stata un’ingerenza nelle loro questioni. Noi potremmo rispondere che è la stampa bellezze, nella culla della democrazia, un’inchiesta giornalistica, il Watergate, ha portato alle dimissioni del presidente degli Stati Uniti. È l’America dei diritti civili, dei fratelli Kennedy, quella dell’informazione coraggiosa. Noi da parte nostra continueremo ad essere semplici ed umili servitori e operatori del servizio pubblico. Tutto il resto delle discussioni non ci appartiene.

(ANSA il 13 luglio 2023) - "Io fare un passo indietro? Non capisco per quale motivo. Oggi, in questo momento in cui sto parlando, non ho ancora ricevuto alcun avviso di garanzia. Alcuni giornali scrivono delle grandi bugie e per questo faremo la nostra querela e chiederemo il nostro risarcimento danni. Sono assolutamente tranquilla". 

Così la ministra del Turismo Daniela Santanchè risponde sul palco dell'Assemblea annuale di Confagricoltura circa le accuse emerse dalle inchieste di Report. "Mio nonno mi ha insegnato a non aver paura se non fai niente di male - aggiunge la ministra -. Io vado avanti. Nessuno mi ha mai accusato nelle mie funzioni di ministro".

"Sono assolutamente tranquilla. Tante sono le cose da fare. Andremo avanti - prosegue -. Io poi sono un cittadino, non partecipo ai processi mediatici, mi difendo nei tribunali. E peraltro, come anche chi scrive in questi giorni sa benissimo, sui tribunali sto andando molto bene. Ho già portato a casa due desistenze". 

Quanto alle domande rivoltele dai giornalisti su questo tema, aggiunge: "non ho alcun imbarazzo. Anzi io dico ai giornali: bene la libertà di stampa, scrivete quello che volete. Poi anche lì ci sarà qualcuno che dirà se le cose erano vere o se erano false. Mi auguro tra qualche anno di avere un bel gruzzoletto del mio risarcimento danni. Potrò magari aiutare qualcuno che ha più bisogno di me".

Estratto dell’articolo di Nicola Borzi e Thomas Mackinson per “il Fatto quotidiano” il 14 luglio 2023.

La ministra del Turismo e senatrice di Fratelli d'Italia Daniela Santanchè era a conoscenza dell'“informazione di garanzia” per le indagini della Procura di Milano sulle vicende del gruppo Visibilia almeno sin dal 27 marzo. 

Dunque sapeva di mentire quando il 5 luglio in Senato nell'informativa sul crac del suo ex gruppo editoriale-pubblicitario ha affermato “sul mio onore che non sono stato raggiunto da alcun avviso di garanzia e che anzi per escluderlo ho chiesto ai miei avvocati di verificare che non ci fossero dubbi”. A stabilirlo definitivamente non sono deduzioni o argomentazioni logiche, ma un atto pubblico depositato che mette nero su bianco fatti inoppugnabili. Il dato emerge dal verbale dell'assemblea di Visibilia Srl, 

A quell'assemblea, che si è tenuta il 27 marzo alle 18 nella sede della società in via Giovannino De Grassi 12 a Milano, “Dani” ha partecipato di persona e, “dopo lunga ed approfondita discussione”, ha approvato il bilancio 2021. Un bilancio che in tre pagine, la 6 la 20 e la 21, descrive con dovizia di particolari le indagini e le perquisizioni decise dai magistrati milanesi sul collasso delle società gestite da Santanchè e l'esistenza di “informazioni di garanzia” comunicate il 2 marzo .

Il paragrafo  “Ordine di esibizione di atti e documenti e decreto di perquisizione locale, ispezione e sequestro” del bilancio 2021 di Visibilia Srl, discusso e approvato da Santanchè, descrive dettagliatamente i fatti. “In data 9 novembre 2022 il Nucleo di Polizia Economico-finanziaria di Milano ha notificato alla società i seguentiprovvedimenti: Decreto di perquisizione locale, ispezione e sequestro, artt. 247, comma 1-bis, e 250 cod. proc. penna.; Ordine di esibizione di atti e documenti art. 256 cod. proc. pen., e ciò a seguito di un ricorso ex art. 2409 del codice civile presentato in data 10 giugno 2022 da alcuni azionisti di minoranza della Visibilia Editore SpA.

In tale contesto, al fine delle operazioni di verifica sono state acquisite anche le scritture contabili della società a far data dall'esercizio 2014”. Ma non basta: il bilancio scrive anche che “in data 2 marzo 2023 il Nucleo di Polizia Economico-finanziaria di Milano, in esecuzione del 'decreto di sequestro' e 'informazione di garanzia' emesso nell'ambito del procedimento penale sopra richiamato, si è recato presso i locali della società al fine di acquisire dettagli relativi agli stanziamenti per fatture da emettere e note credito da ricevere effettuate dalla società negli esercizi dal 2014 al 2019”.

Sei esercizi durante i quali Daniela Santanchè non solo era azionista di riferimento (95%) di Visibilia Srl, ma ne era anche amministratore unico .In Senato, il 5 luglio “Dani” ha invece sostenuto di non essere mai stata formalmente avvisata della sua iscrizione nel registro degli indagati, decisa il 5 ottobre 2022 per le ipotesi di reato di falso in bilancio e bancarotta dai pm di Milano Roberto Fontana e Maria Gravina anche per il suo compagno Dimitri Kunz, gli amministratori Fiorella Garnero (sorella della ministra), Massimo Cipriani e Davide Mantegazza e l'ex sindaco Massimo Gabelli. 

La notizia informale di quell'iscrizione le arrivò pochissime ore dopo l'informativa in Senato, quello stesso 5 luglio, tramite una nota stampa della Procura di Milano. Il ministro avrebbe potuto comunque desumerla dagli articoli del 2 e 3 novembre del Corriere della Sera, visto che i suoi legali chiesero l'estratto del casellario giudiziale dopo il 2 novembre, quando gli atti erano stati segretati per 90 giorni dai magistrati che in quello stesso giorno avevano chiesto i fallimenti di quattro società del gruppo Visibilia per i debiti col Fisco (due richieste sono poi state ritirate).

Ma da gennaio […] i legali di “Dani” hanno evitato di chiedere con precisione di nuovo l'estratto del casellario giudiziale. Questo le ha permesso di continuare ad affermare di non aver notizia formale di indagini, dati anche i ritardi di notifica della proroga.  […]

Questo gioco delle parti ha permesso dunque a Santanchè di sventolare in Senato un vecchio certificato giudiziale intonso. […]

Estratto dell’articolo di Vittorio Malagutti e Giovanni Tizian per “Domani” il 14 luglio 2023.  

La favolosa plusvalenza ottenuta dai Santanchè - La Russa con la vendita lampo della villa di Forte dei Marmi nasconde un altro segreto, che Domani può rivelare. È noto infatti che il 12 gennaio scorso, quando Dimitri Kunz e la sua partner d’affari Laura De Cicco hanno versato al sociologo Francesco Alberoni i 2,45 milioni di euro pattuiti per l’acquisto dell’immobile, poi rivenduto 58 minuti dopo a un milione in più.

Adesso però risulta dagli atti che la coppia di soci è riuscita a saldare il conto grazie al denaro che aveva già ricevuto da Antonio Rapisarda, acquirente finale dell’immobile. Letto attraverso i documenti ufficiali, il ruolo di Kunz, compagno della ministra del Turismo, e di De Cicco, moglie del presidente del Senato, finisce quindi per assomigliare a quello di semplici intermediari. In sostanza, Kunz e De Cicco hanno intascato a gennaio un profitto di un milione (al lordo delle tasse) anticipando di tasca propria sei mesi prima solo 350 mila euro.

Il dato emerge dalla lettura incrociata degli atti catastali e notarili delle compravendita siglate ufficialmente il 12 gennaio 2023 in due studi notarili diversi e nel giro di un’ora. Le carte confermano che il prezzo di 2,45 milioni di euro pagato da Kunz e De Cicco ad Alberoni proviene per intero da due bonifici versati il 10 gennaio da Rapisarda. inoltre, a ottobre dell’anno scorso, lo stesso Rapisarda aveva già anticipato un milione di euro al momento della firma del preliminare d’acquisto della villa immersa nel verde del parco della Versiliana.

Questo vuol dire che quando Kunz e De Cicco si sono presentati davanti al notaio per comprare la casa di Alberoni avevano già ricevuto quanto pattuito in anticipo per la vendita di quello stesso immobile: a ottobre il milione di caparra e a gennaio il saldo di 2,45 milioni. 

A quel punto il cerchio si chiude velocemente. il 12 gennaio alle 9.20 del mattino, Elisabetta Nati, l’avvocata milanese che rappresenta il sociologo, riceve una serie di assegni circolari per un importo di 2,45 milioni, somma proveniente per intero dai bonifici di Rapisarda. Un’ora dopo, alle 10.18 il medesimo Rapisarda firma il rogito con cui diventa proprietario dell’immobile per 3,45 milioni, prezzo già saldato con i bonifici di due giorni prima.

Nel racconto di Kunz, il doppio rogito di gennaio non è altro che la tappa finale di un’operazione complessa «durata più di un anno», come ha messo nero su bianco il compagno della ministra in una nota diffusa in risposta agli articoli di questi giorni. Tra l’altro, per sbloccare la transazione, è stato necessario appianare alcune questioni legali legate all’eredità della moglie di Alberoni, Rosa Giannetta, scomparsa nel 2021. 

«Ho chiesto a Laura De Cicco di condividere con me il rischio esistente in questa operazione immobiliare», ha dichiarato ancora Kunz, anche se, alla luce dei tempi e dei modi in cui è stata creata la provvista per l’acquisto della villa, il rischio finisce per apparire piuttosto ridotto. 

Vale la pena ribadire un dato di fatto che emerge dalle carte: a ottobre del 2022, tre mesi dopo aver anticipato i 350 mila euro fissati nel preliminare con Alberoni, Kunz e De Cicco avevano già recuperato ampiamente il loro investimento inziale grazie al milione versato da Rapisarda come caparra. 

Difficile negare, quindi, che l’operazione presenta alcuni elementi di anomalia. […] Autorevoli fonti vicine al dossier confermano che esiste una relazione sui movimenti finanziari sospetti relativi alla compravendita. Relazione che è stata acquisita dalla Guardia di Finanza di Milano che insieme alla Procura del capoluogo lombardo sta eseguendo verifiche preliminari sulla compravendita e la plusvalenza di Kunz e De Cicco.

L’affare sul quale indagano i pm coordinati dalla procuratrice aggiunta Laura Pedio lega i destini delle famiglie Santanchè – La Russa all’inchiesta madre sulla galassia societaria Visibilia, le aziende sull’orlo del fallimento della ministra del Turismo.

L’operazione di acquisto e vendita potrebbe infatti aver aiutato Kunz e la ministra del Turismo a mettere da parte un gruzzolo in un momento di grossa difficoltà, con le aziende gonfie di debiti e i creditori, tra cui fisco e banche, che chiedevano di rientrare.

La cronaca di quei giorni è un crescendo di brutte notizie per le aziende della ministra. Da tempo in difficoltà, con i bilanci in perdita cronica e i revisori che si rifiutano di certificare i conti del 2021, a giugno del 2022 Visibilia viene denunciata da un gruppo di piccoli azionisti guidati da Giuseppe Zeno. L’8 luglio il tribunale nomina un curatore speciale per Visibilia Editore. 

Dodici giorni più tardi, il 20 luglio, Kunz e De Cicco firmano il contratto preliminare per l’acquisto della villa di Alberoni, il sociologo 93enne che nel 2019 si era candidato alle elezioni europee (non eletto) nelle liste di Fratelli d’Italia, lo stesso partito di La Russa e Santanchè. Il 7 ottobre successivo ecco che entra in scena Rapisarda, frequentatore di Forte dei Marmi, del Twiga, amico di Kunz e della famiglia La Russa. 

Rapisarda è l’uomo della provvidenza o forse, meglio, del cash. Quel giorno Kunz - De Cicco firmano un nuovo preliminare, questa volta di vendita con l’acquirente generoso Rapisarda, il quale opziona la dimora a due passi dal Twiga di Briatore mettendo sul piatto in anticipo un milione di euro, garantendo il saldo nel momento di stipula del rogito.

Una buona notizia per le famiglie Santanchè – La Russa, soprattutto per la prima che stava navigando in acque burrascose: nemmeno 20 giorno dopo( 24 ottobre) il pm di Milano Roberto Fontana (oggi al Csm) invia al tribunale fallimentare la prima richiesta di liquidazione giudiziale per Visibilia Editore: «Rilevato che dal prospetto analitico delle iscrizioni a ruolo a carico della società debitrice, trasmesso dall'Agenzia delle Entrate, risultano debiti iscritti a ruolo per un importo complessivo pari ad euro 984.667,14, con data di notifica delle prime cartelle a partire dal 2018», è scritto nel documento.

Un milione, come la caparra versata da Rapisarda. L’incrocio di date fa traballare pure la versione fornita a Domani da Rapisarda: «Cercavo una casa a Forte dei Marmi, Dimitri aveva acquistato da tempo l’abitazione e non voleva neppure vendermela». Strano, perché dalle carte catastali sembra quasi che Kunz e De Cicco non aspettassero altro che si materializzasse il compratore ideale, disposto a mettere il denaro anche loro che così hanno potuto pagare Alberoni e poi darla a Rapisarda. 

A ottobre 2022 Kunz era ancora amministratore delegato e presidente del consiglio di amministrazione di Visibila Editore, una delle prime a finire nel mirino della procura e della sezione fallimentare del tribunale di Milano. […] Tra i retroscena emersi in queste settimane merita una menzione il suggerimento dato dal presidente del Senato a Santanchè. […] La Russa avrebbe detto alla ministra di evitare a tutti i costi il fallimento per salvarsi dall’eventuale indagine per bancarotta. […] di certo Santanchè e Kunz si sono dati molto da fare. […]

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per repubblica.it sabato 15 luglio 2023.

Venti milioni di euro di debiti da coprire con accordi con i creditori per evitare il fallimento delle società della galassia della ministra Daniela Santanchè. E tra i creditori non ci sono solo Invitalia e il Fisco, ma diverse banche e anche grandi aziende con le quali i manager di Visibilia e Ki Group stanno cercando di trovare una intesa: mentre lei resta con un piede in entrambe le aziende, seppure senza poteri gestionali ma solo come socio o come “accollante”, cioè garante, di alcuni debiti. 

Ma non c’è un conflitto di interesse costante di una ministra, che siede anche in Consiglio dei ministri, mentre i manager delle sue aziende bussano alla porta di banche e creditori vari per evitare il fallimento? 

A scorrere l’elenco dei creditori delle aziende Visibilia e Ki Group, come compare nelle relazione dei periti del Tribunale di Milano ci sono nomi che contano nel panorama italiano: lo stesso mondo con il quale potrebbe trovare a confrontarsi da ministra del Turismo o comunque per iniziative politiche del governo guidato da Giorgia Meloni. 

La situazione peggiore è quella di Visibilia srl: secondo la perizia in mano alla procura di Milano “la società si trova in stato di liquidazione con un patrimonio netto negativo di 3,2 milioni di euro già alla data del 31 dicembre 2020 e appare evidente come l’incapacità di far fronte ai debiti abbia ripercussioni estremamente gravi sui bilanci delle società creditrici Visibilia Editrice srl e Visibilia concessionaria”. 

Insomma, se cade una carta cade tutto il castello Visibilia. La società in liquidazione ha un debito da 4,5 milioni di euro per un prestito non restituito a Banca Intesa San Paolo: banca che a sua volta ha ceduto questo finanziamento alla società di recupero crediti Kerdos che ha affidato la pratica legale a Prelios credit servicing.

[...] Ma c’è di più: la ministra si è accollata come socia o attraverso la società immobiliare Dani debiti per 3,6 milioni di euro. Tanto che nel discorso al Senato Santanchè ha detto di aver messo a garanzia anche la sua casa: “Meriterei un plauso”, ha aggiunto. 

Ma scrivono i periti del tribunale: “Complessivamente, a causa della diversa posizione sia di socio che di accollante, il socio di riferimento ha un impegno complessivo per versamenti e garanzie di 3,6 milioni: non sono tuttavia disponibili informazioni patrimoniali specifiche per poter verificare la capienza del socio in termini di soddisfazione degli impegni presi”.

Insomma le garanzie non sono chiare, secondo i periti stessi. Ma anche sul fronte Ki Group la situazione non è diversa. Il perito del Tribunale nella relazione sulla procedura negoziata per evitare il concordato su debiti per 12 milioni di euro [...] segnala come a novembre, quando lei era già ministra, siano stati fatti quattordici incontri tra i dirigenti della società e i manager di aziende creditrici. 

E scorrendo l’elenco delle aziende coinvolte nei debiti Ki Group ci sono ad esempio banche e imprese che contano: Popolare di Milano, Banco popolare di Desio, la società Prelios, ma anche il gruppo Danone, il gruppo del biologico Alcenero, il mondo delle coop con Biancoviso e il gruppo International food, I[...]

Estratto dell'articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 12 luglio 2023.

Uno dei due mente: o la trasmissione di Rai3 «Report» o la ministra Daniela Santanchè.

Siccome stiamo parlando di servizio pubblico e di governo della nazione, la questione va presa molto sul serio e chi mente, questa volta, non potrà sfangarla. 

Premessa: non ho mai amato i metodi d’inchiesta di Sigfrido Ranucci e dei suoi collaboratori, trovo aberrante che da un video ricevuto da un automobilista venga imbastita una spy story, detesto i processi paralleli e la gogna mediatica, a volte vivo i racconti di «Report» sulle stragi mafiose come opere di fantasia, tanto sono piene di misteri e di trame segrete. Questione di gusti.

Ma qui carta canta. Per esempio, la ministra del Turismo ha sostenuto che la sua partecipazione non ha mai superato il 5% di Ki Group. Ma «Report» ha mostrato documenti che testimoniano che, fin dal 2013, Santanché possedeva il 14,9% di controllo della società ed aveva sottoscritto un patto parasociale che la poneva direttamente nella governance. Altro esempio tratto dalla trasmissione andata in onda lunedì. 

(...)

L’accertamento della verità spetta alla magistratura, nei suoi gradi di giudizio; quindi, per ora, sia «Report» che Daniela Santanchè fanno il loro lavoro. Ma il giorno in cui verrà accertata la verità scopriremo per forza che uno dei due ha mentito. Se ha mentito «Report», Sigfrido Ranucci non potrà più lavorare per il servizio pubblico; se ha mentito Santanchè, dovrà essere cacciata con ignominia. A loro favore, però, gioca il tempo della giustizia, lungo, interminabile. Il ruolo della riparazione sarà assunto dall’oblio e non cambierà mai nulla.

Estratto dell’articolo di Nicola Borzi e Thomas Mackinson per “il Fatto quotidiano” il 17 luglio 2023.

Daniela Santanché mentiva anche ai suoi soci. I guai di Visibilia, il disastrato gruppo editoriale-pubblicitario quotato che dalla fondazione nel 2008 a fine 2021 ha visto ai vertici la senatrice di Fratelli d’Italia e oggi ministra del Turismo, non si limitano alle indagini per falso in bilancio e bancarotta avviate dai pm milanesi Roberto Fontana e Maria Gravina che dal 5 ottobre vedono iscritti tra gli indagati Santanchè, il compagno Dimitri Kunz, gli amministratori Fiorella Garnero (sorella della ministra), Massimo Cipriani e Davide Mantegazza e l’ex sindaco Massimo Gabelli. 

Le vicende societarie di Visibilia, in fortissima tensione finanziaria e di governance, e quelle personali di Santanchè e di Dimitri Kunz si intrecciarono inestricabilmente già dal 2016.

Proprio in quell’anno fatidico si consumarono due clamorose rotture. La prima fu tra Santanchè e la sua amica nonché socia Paola Ferrari De Benedetti, conduttrice tv e giornalista sportiva. Dopo lunghi dissidi, il 10 febbraio 2016 Ferrari, socia di Alevi Srl che di Visibilia era azionista al 5,6%, si dimise insieme ai consiglieri Giancarlo Sestini e Matteo Gavazzi Borella da presidente di Visibilia Editore, la Spa quotata del gruppo che aveva chiuso il 2015 con una perdita di 1,2 milioni.

Appena due giorni dopo, il 12 febbraio, in sostituzione dei dimissionari l’ad Santanchè (che controllava la Spa con il 69% tramite Visibilia Editore Holding Srl) cooptò come consiglieri “indipendenti” Davide Mantegazza e Dimitri Kunz, posticipandone la ratifica all’assemblea successiva, che il 24 marzo convocò per il 29 aprile, riducendo pure il numero dei consiglieri da 9 a 7. Con i voti di Santanchè, Kunz così fu confermato in cda come “indipendente”. 

Ma nel frattempo, a causa di un’altra rottura, la sua indipendenza era stata messa in discussione dai soci di minoranza e dal sindaco Gian Franco Vitulo. Santanchè aveva infatti confermato di essersi lasciata con il suo compagno Alessandro Sallusti, all’epoca direttore del Giornale […] e dal 17 maggio 2021 direttore di Libero della famiglia Angelucci, per iniziare una relazione con Kunz, suo attuale compagno nonché socio in affari nel Twiga di Flavio Briatore.

In seguito l’ex moglie di Kunz, Patrizia Groppelli, sarebbe diventata compagna e dal 2 giugno scorso moglie di Sallusti. La relazione tra Santanchè e Kunz – che durava da tempo – era stata svelata il 15 aprile 2016 da Dagospia. 

Al di là delle vicende sentimentali della ministra, rilevano quelle di Visibilia. Il 18 marzo 2016 Alevi, la società di Ferrari, aveva presentato un esposto ai sindaci della Editore quotata (presieduti da Massimo Gabelli) su alcune questioni tra le quali l’“indipendenza” di Kunz. 

I sindaci risposero a quell’esposto in un’assemblea […] il 21 luglio. Alevi chiedeva “per quale ragione alla precisa domanda in assemblea sui rapporti il consigliere Lorena (uno dei nomi di Kunz, ndr) e l’amministratore delegato (Santanchè, ndr), è stato risposto che non ve ne era nessuno, peraltro senza che l’ad avesse da ridire, quando risulta il contrario dalle dichiarazoni che l’ad stesso ha rilasciato ai mass media?”, ma la risposta fu “il collegio sindacale non è il destinatario di queste domande”.

Peccato che nel frattempo il sindaco Vitulo avesse preso le distanze da quelle risposte del collegio. In una dissenting opinion messa agli atti il 21 luglio, Vitulo scrisse che “in occasione dell’assemblea del 29 aprile il socio MoDa Gioielli Srl ha domandato ai consiglieri Kunz e Mantegazza di rendere noti i loro rapporti (di natura personale e patrimoniale) con i soci di riferimento di Visibilia Concessionaria. 

In tale occasione Kunz dichiarava di non avere alcun tipo di rapporto con tali soci e a detta dichiarazione nulla aggiungeva il socio di riferimento di Visibilia Concessionaria e ad della Editore Santanchè. Il socio Alevi ha posto in dubbio la sussistenza dei requisiti di indipendenza di Kunz”. Vitulo scriveva “da una semplicissima ricerca sui principali organi di stampa nazionali risulta che il consigliere Kunz frequenti assiduamente la socia di riferimento Santanchè e sia a essa legato da stretti rapporti di natura personale. La circostanza risulta confermata da espresse dichiarazioni della Santanchè.

L’impressione che se ne ricava è che in sede assembleare siano state fornite informazioni non veritiere quanto ai rapporti che intercorrono tra i menzionati soggetti, con le conseguenti ricadute sulla possibilità di valutare compiutamente la sussistenza del requisito di indipendenza in capo a Kunz”. Una indipendenza che oggi torna sotto la lente, visti i legami di affari tra la ministra e il compagno nel Twiga e il “colpo” immobiliare di Kunz in Versilia nella villa del sociologo Alberoni, comprata e rivenduta con una plusvalenza da un milione insieme a Laura Di Cicco, moglie del presidente del Senato Ignazio La Russa, amico mentore e legale di Santanchè.

Estratto dell’articolo di Vittorio Malagutti e Giovanni Tizian per “Domani” il 18 luglio 2023. 

Perché mai Alberto Campagnoli, un geometra di 37 anni senza esperienza specifica di giornali e affini, a metà giugno è entrato nel consiglio di amministrazione di Visibilia editore poco dopo averne comprato in Borsa il 5,8 per cento del capitale? Campagnoli, a quanto pare, non è tipo che si scoraggi facilmente.

Il giovane imprenditore di Corsico, alle porte di Milano, titolare di una ditta di lavori edilizi, ha investito poche decine di migliaia di euro e si è così comprato il biglietto d’ingresso nel board della piccola società editrice fondata da Daniela Santanchè, ora indagata dalla procura di Milano per falso in bilancio. Ad aprirgli le porte è stato Luca Ruffino, che è diventato il principale azionista, nonché presidente, di Visibilia editore dopo che nell’ottobre scorso Santanchè si è fatta da parte. 

Toccherà al nuovo socio forte salvare il salvabile di un piccolo gruppo editoriale che nelle settimane scorse ha evitato in extremis il fallimento. Ruffino, a differenza di Campagnoli, può già vantare un lungo curriculum da imprenditore. La sua Sif Italia è un'azienda specializzata nella gestione di grandi condomini (amministra circa 80 mila appartamenti concentrati nell'area di Milano).

Entrambi gli aspiranti risanatori di Visibilia si occupano quindi di immobili, anche se su fronti diversi. A unirli, però, c’è un altro filo sottile. Un filo nero, per meglio dire, che scorre sottotraccia e che Domani è in grado di rivelare. Ruffino e Campagnoli, che si conoscono bene tra loro, vantano un consolidato rapporto con gli ambienti della destra milanese, un mondo che da decenni ha il suo punto di riferimento nella famiglia La Russa: oltre a Ignazio, il presidente del Senato, anche il fratello Romano, assessore alla Sicurezza in Lombardia.

Insomma, uscita di scena Santanchè, la parabola di Visibilia si è conclusa tra le braccia di due imprenditori che riportano allo stesso partito della ministra del Turismo. Una sorta di soccorso nero, con il marchio di Fratelli d’Italia, che si è fatto carico del salvataggio dell’azienda. È vero che tra debiti e perdite i conti lasciano pochi margini di manovra, ma per il momento sembra scongiurato il fallimento, che avrebbe aggravato la posizione giudiziaria di Santanchè. 

I nuovi azionisti di Visibilia vantano anche un altro rapporto che data molto indietro negli anni ed è quello con Marco Osnato, deputato di Fratelli d’Italia che con i La Russa è imparentato, visto che ha sposato la figlia di Romano. 

Di Ruffino è già stata segnalata sui giornali la disavventura giudiziaria che cinque anni fa lo ha infine visto assolto in Cassazione da un’accusa di finanziamento illecito ai partiti che risaliva al 2011. Nello stesso processo era imputato anche Osnato, prosciolto in appello.

Ora però si scopre […] che anche il nome di Campagnoli è finito nelle carte di un’inchiesta giudiziaria insieme a quello di Osnato. L’inchiesta è quella ribattezzata “Mensa dei poveri”, avviata nel 2019 dalla procura di Milano su una trama di corruzione e denaro nero che travolse i vertici lombardi di Forza Italia. 

Campagnoli non è mai stato indagato, ma il suo nome viene citato più volte dagli investigatori che hanno ricostruito gli affari dell’imprenditore Daniele D’Alfonso  […] . 

Ebbene, secondo quanto si legge negli atti giudiziari, D’Alfonso faceva provvista di denaro nero che poi girava ad alcune aziende. Tra queste c’era anche la Servicehome, di cui Campagnoli è unico azionista e amministratore. […]

«Daniele (cioè D’Alfonso, ndr) passerà (...) a ritirare i contanti che poco dopo dovrà dare a Campagnoli (...) per il solito giro di false fatture», annotano gli investigatori in uno dei numerosi passaggi in cui viene tirato in ballo il nuovo azionista di Visibilia editore. Negli atti d’indagine vengono anche segnalati gli stretti rapporti d’affari tra Campagnoli e Osnato, alla sua seconda legislatura da deputato di Fratelli d’Italia. 

Fino al giugno di due anni fa i due soci si spartivano il capitale della Building solution, un’azienda di servizi immobiliari, e ancora oggi controllano il 45 per cento ciascuno di ABC servizi, un’azienda milanese che si occupa di impianti idrosanitari. Poi, solo poche settimane fa, Campagnoli ha fatto il grande salto nell’editoria. Raccogliendo l’eredità di Daniela Santanchè.

Perché Santanchè non ha ancora ricevuto l'avviso di garanzia? Ferie, ritardi e disguidi: l'incredibile catena dei ritardi. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 19 luglio 2023. 

La notifica, ferma per due mesi all'ufficio del gip, è partita solo il 12 luglio all'indirizzo della ministra. Da qui la giustificazione sul non essere stata raggiunta da avvisi di garanzia. Mozione di sfiducia in Senato il 26 luglio 

Soltanto il 12 luglio, cioè una settimana fa, sette giorni dopo l’informativa del 5 luglio in Parlamento del ministro del Turismo Daniela Santanchè, gli ufficiali giudiziari Unep della Corte d’Appello di Milano hanno fatto partire a un indirizzo milanese della senatrice, a mezzo di raccomandata postale, la notifica della richiesta (formulata il 31 marzo all’Ufficio dei Giudici delle indagini preliminari dalla Procura di Milano) di prorogare dopo i primi sei mesi l’indagine per l’ipotesi di falso nei bilanci 2016-2020 di Visibilia editore. Notifica che l’Ufficio Gip solo il 23 giugno aveva affidato all’Unep-Ufficio notificazioni, esecuzioni e protesti. E che dalla spedizione postale del 5 luglio ancora non è stata ricevuta da Santanchè, visto che la «cartolina» relata di notifica non risulta ancora tornata agli uffici giudiziari.

Non che il crono «giallo» della notifica abbia una particolare importanza a fronte invece dei temi di sostanza, sui quali il Senato voterà mercoledì 26 luglio la mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni. Ma la ricostruzione della catena di disguidi e ritardi verificatisi, peraltro del tutto in linea con quello che molto spesso capita agli indagati non famosi, permette comunque di capire perché il ministro possa continuare a ripararsi dietro il tormentone, un po’ finzione e un po’ verità, per il quale «affermo sul mio onore che non sono stata raggiunta da alcun avviso di garanzia».

Un po’ è finzione: perché Santanchè è consapevole di essere indagata da quando a novembre 2022, tra gli atti della richiesta della Procura al Tribunale fallimentare di staccare la spina e mettere in liquidazione quattro società del gruppo Visibilia indebitate per lo più con il Fisco, aveva letto (esattamente come chi perciò ricavò e diede la notizia del suo essere indagata) una annotazione del 30 settembre 2022 della Guardia di Finanza che già additava «la sussistenza del reato di false comunicazioni sociali» nella Visibilia editore spa di cui era stata presidente fino a pochi mesi prima; inoltre il 2 marzo 2023 la Gdf aveva poi eseguito perquisizioni in Visibilia srl, anch’esse ben poco enigmatiche sull’oggetto dell’inchiesta.

Un po’ è verità, invece: perché «la linea di Maginot» di Santanchè, quella cioè di ripetere di non aver notizia formale di indagini, è puntellata da una curiosa serie di incastri giudiziari. Sinora si era ricostruito che Santanchè era stata iscritta nel registro degli indagati il 5 ottobre 2022; che in vista dello scadere dei primi sei mesi il 31 marzo la pm Maria Giuseppina Gravina e il procuratore aggiunto Laura Pedio (subentrata a Roberto Fontana eletto al Csm) avevano chiesto all’Ufficio Gip la proroga delle indagini; ma che tra Ufficio Gip e Ufficiali giudiziari qualcosa doveva poi essere andato storto.

Ora si può aggiungere che storta è andata almeno una cosa in tutti e tre gli ultimi passaggi. La prima è che l’Ufficio Gip solo il 23 giugno ha consegnato all’Unep per la notifica la proroga chiesta dalla Procura il 31 marzo.

La seconda è che l’Unep, a sua volta, l’ha messa in lavorazione solo il 12 luglio, per un disguido nato dalle ferie dell’ufficiale giudiziario al quale era stata assegnata, senza alcuna accelerazione nemmeno dopo che il 5 luglio il mancato avviso di garanzia era stato il polemico fulcro dell’informativa del ministro in Senato. La terza è che il 12 luglio l’Unep per la notifica ha scelto una raccomandata postale all’indirizzo milanese di Santanchè. La consegna, a giudicare dalla mancata «cartolina» di ritorno, dopo 7 giorni non deve essere ancora stata perfezionata: o perché la raccomandata non è arrivata, o perché il postino non è sinora riuscito a consegnarla a mano alla senatrice o a un custode.

Estratto dell’articolo di N.B. e TH. Mack. per il “Fatto quotidiano” il 19 luglio 2023.  

C’è un’altra omissione che lardella ulteriormente l’informativa tenuta il 5 luglio in Senato dal ministro del Turismo Daniela Santanchè sul suo disastrato gruppo editoriale-pubblicitario Visibilia. 

Dietro la decisione datata 5 ottobre dei pm milanesi Roberto Fontana e Maria Gravina di iscrivere Santanchè, il compagno Dimitri Kunz, gli amministratori Fiorella Garnero (sorella della ministra), Massimo Cipriani e Davide Mantegazza insieme all’ex sindaco Massimo Gabelli nel registro degli indagati per falso in bilancio e bancarotta, ci sono tre anni di richieste di chiarimento inviate da alcuni azionisti di minoranza non solo alla società quotata, che sino a fine 2021 fu controllata e gestita dalla senatrice, ma anche agli organismo di vigilanza: Consob, Borsa Italia, Banca d’Italia e Agenzia delle Entrate.

L’infinito carteggio, rimasto senza esito, è confluito nella denuncia al Tribunale di Milano presentata il 10 giugno 2022 dai soci di minoranza capitanati da Giuseppe Zeno. 

Si scopre cosìche Zeno e altri azionisti non sono spuntati dal nulla nelle vicende di Visibilia, ma che sin dal 2019 avevano inviato “una serie di comunicazioni rimaste totalmente prive di riscontro” agli amministratori e sindaci della società di Santanchè e ai suoi revisori di Bdo Italia per chiedere lumi su una serie di operazioni del gruppo Visibilia, a partire dall’emissione di obbligazioni convertibili a favore dei fondi Bracknor e Negma, il valore degli avviamenti e del conferimento delle testate ad altre società del gruppo sino ai controlli “in merito al rischio di riciclaggio ed autoriciclaggio”.

Per questi motivi Zeno & C. chiedevano l’intervento della Consob il 29 dicembre 2021 e poi il 10 febbraio 2022, inviando le richieste “per conoscenza anche alla Banca d’Italia e all’Agenzia delle Entrate”, ma “tali comunicazioni rimanevano prive di riscontro”. Non basta: l’intervento della Banca d’Italia era richiesto perché “le azioni erano detenute da Visibilia Holding srl in Banca Generali e da Visibilia Concessionaria srl in Banca Popolare di Sondrio filiale di Sondrio. 

Pertanto, si richiedeva di accertare se gli istituti di credito dove erano avvenute le transazioni, relative a tali acquisti, avevano proceduto alle opportune e dovute verifiche, ponendo in essere tutti i controlli prescritti dalla legge, anche in considerazione della circostanza che sia Visibilia Editore Holding che Visibilia Concessionaria sono riconducibili a ‘persone politicamente esposte’”, ovvero a Santanchè.

[…] solo al termine di questa sequenza di comunicazioni, quasi tutte senza risposta di merito, che gli azionisti di minoranza il 10 giugno 2022 hanno presentato […] denuncia al Tribunale di Milano che ha di fatto sancito l’avvio delle indagini. Un silenzio delle autorità di vigilanza che fa ancor più rumore se lo si guarda oggi, a indagini in corso su quelle “persone politicamente esposte”.

Estratto da open.online il 21 luglio 2023.

Un’altra società di Daniela Santanchè finisce sulla graticola. Una trentina di ex dipendenti di Ki Group hanno bussato alla porta dell’Ispettorato del Lavoro e dell’Enasarco. Allo scopo di verificare se siano stati versati i contributi. Oltre a compensi e Tfr. Ki Group doveva versarli dal 2020. L’ultima a presentarsi a Torino, dove ha sede l’azienda, è stata Raffaella Caputo. 

Il Fatto Quotidiano fa sapere che era un’impiegata amministrativa dal 2022. Ha ricevuto una lettera di licenziamento nel 2022. E aspetta 35 mila euro di Tfr. «Abbiamo chiesto alla Guardia di Finanza di verificare se hanno versato almeno la quota dipendente che trattenevano in busta paga. Altrimenti sarebbe appropriazione indebita».

Non è l’unica. Marco Scotto, agente di vendita, ha accumulato crediti per 111.318 euro. « Enasarco vede il versato e non ciò che è da versare, ma dai miei conteggi mancano anche 2.088 euro di contributi per il 2021-22», racconta. 

Claudia Micucci, agente per il Lazio, deve avere 3 mila euro: « Mi costava più un avvocato che venirne a capo. Ricordo le riunioni in cui la Santanchè rampognava gli agenti con quei paragoni azzardati. Ma il problema era che non li pagava, se non dietro sollecito, come i fornitori. La merce non arrivava in magazzino e i clienti non compravano più articoli». 

[…] Altri lamentano cifre più alte. E non possono versarli da sé subito: devono passare due anni dalla dichiarazione di fallimento. Il rischio è che alla fine rimangano a bocca asciutta. Tutti i crediti, compresi quelli esecutivi in forza di decreti ingiuntivi, sono congelati dal 29 luglio 2022. Per dipendenti e creditori si era aperta la strada dell’istanza di liquidazione giudiziale.

In 12, 7 agenti e 5 impiegati, la depositano al tribunale chiedendo 450mila euro di spettanze. Ma pochi giorni prima i legali di Ki avevano inviato alla seconda sezione civile una proposta di concordato semplificato liquidatorio che congela per la seconda volta le spettanze creditizie. «All’Inps ci hanno spiegato che Ki ha ottenuto la moratoria di un anno con pagamento a rate dei debiti previdenziali, per cui eventuali irregolarità non risultano, ma pare che neppure la prima rata sia stata pagata», dice Monica Lasagna, 52 anni, ufficio vendite. 

Nicola Borzi e Thomas Mackinson per il “Fatto quotidiano” il 21 luglio 2023.

“Voi non sapete vendere, questo è il problema. E io lo posso dire, perché vado tutti i giorni in Parlamento e faccio il vostro stesso lavoro”. Gli agenti rumoreggiano: “Certo, se solo la senatrice pagasse le fatture per tempo”. 

Vita da venditori alla Ki Group srl, un tempo florido colosso del biologico, oggi società in crisi sul cui dissesto indaga la Procura di Milano. Un’altra società della galassia d’imprese della ministra Santanchè, che nel caso di Visibilia si gioca l’osso del collo tra accuse di falso in bilancio, bancarotta e in ultimo un’ipotesi da esplorare di truffa ai danni dello Stato per i lavoratori in cassa Covid a zero ore rivelata a novembre dal Fatto.

Più modestamente, gli ex dipendenti di Ki Group si giocano la pensione: una trentina tra impiegati e venditori in questi giorni bussano all’Ispettorato del lavoro e all’Enasarco per verificare se oltre a compensi e Tfr dovranno lottare anche per i contributi che l’azienda doveva versare dal 2020 e prima che fioccassero licenziamenti collettivi e dimissioni. Lo sfogo motivazionale della “signora Ki” ricorre nelle testimonianze che il Fatto ha raccolto. 

L’ultima a presentarsi all’ispettorato di Torino, dove ha sede l’azienda, è stata Raffaella Caputo, impiegata amministrativa dal 2002 licenziata il 9 agosto del 2022 per giustificato motivo essendo l’azienda del bio ormai sul lastrico. “Ma non prima che Santanchè e l’ex compagno Canio Mazzaro trasferissero clienti, magazzino e alcuni di noi alla controllata Verde Bio, che è attiva e lavora mentre l’altra muore”, precisa.

(....)

Altri lavoratori lamentano cifre ben più alte e la beffa è che se anche volessero versare loro i contributi mancanti, in forma volontaria, non potrebbero farlo, non prima che siano passati due anni dalla dichiarazione di fallimento. Averli prima però è ancora più difficile. Tutti i crediti, compresi quelli esecutivi in forza di decreti ingiuntivi, sono congelati dal 29 luglio 2022, giorno in cui la società deposita al Tribunale di Milano una procedura di risoluzione negoziata della crisi che viene accolta e prorogata fino al 22 marzo 2023, quando il giudice Sergio Rossetti appura che “non ci sono margini per superare le condizioni di squilibrio patrimoniale”. Le promesse via Pec di pagamento diventano carta straccia. Per dipendenti e creditori quel giorno si apre però lo spiraglio dell’istanza di liquidazione giudiziale: in 12, 7 agenti e 5 impiegati, la depositano al tribunale chiedendo 450mila euro di spettanze, compresi i contributi degli ultimi due anni mai versati.

L’istanza non va in porto per un soffio: pochi giorni prima i legali di Ki avevano inviato alla seconda sezione civile una proposta di concordato semplificato liquidatorio che congela per la seconda volta le spettanze creditizie. “All’Inps ci hanno spiegato che Ki ha ottenuto la moratoria di un anno con pagamento a rate dei debiti previdenziali, per cui eventuali irregolarità non risultano, ma pare che neppure la prima rata sia stata pagata”, dice Monica Lasagna, 52 anni, metà dei quali passati in Ki fino al gradino più alto dell’ufficio vendite. “Non potendo più accedere alla contabilità aziendale, sarà la Finanza a evidenziare se ci sono ammanchi. Si sta già muovendo dopo le nostre denunce”, dice.

Le direttive in Ki Group, aggiunge, “fino all’ultimo erano impartite da Santanchè”, smentendo così la versione fornita dalla ministra in Senato dove ha giurato di non occuparsi di biologico. “Lo fa ancora oggi, lo dicono i vecchi fornitori. 

Del resto lì è rimasto il figlio Lorenzo che la ministra aveva messo sotto la mia ala perché giovane e inesperto chiedendomi ‘insegnagli tutto sulle vendite’. L’ho fatto con convinzione perché non ho nulla contro Santanchè, ogni imprenditore può fallire. Ma quando ricopri ruoli istituzionali certe cose non le puoi fare”. Che tipo di cose? “Ki era un gioiello da 50 dipendenti e 20 agenti. Io ero la responsabile e ben prima dei contributi c’era il problema dei pagamenti, alcuni erano indietro anche di un anno. Nelle riunioni Santanchè ripeteva ‘Tranquilli che presto sarete pagati tutti, ci metto la faccia!’.

Frase che detta da un senatore dà grande fiducia, chi dubiterebbe? Poi chiudeva la call: ‘Bella figura da cioccolatai, e ora questi come li paghiamo?’”.

Estratto dell'articolo di Grazia Longo per “La Stampa” sabato 22 luglio 2023.

Amareggiata e tradita, Federica Bottiglione, 53 anni, ex dipendente della Visibilia editore Spa, della ministra del Turismo Daniela Santanchè, non riesce ancora a farsi una ragione del torto subito. Pagata per lo più con rimborsi chilometrici in pieno lockdown da Covid, in cassa integrazione a zero ore a sua insaputa, rappresenta uno dei motivi per cui la procura di Milano sta indagando anche per truffa ai danni dello Stato. 

Che cosa la turba più di tutto?

«L'essere stata delusa da un'esponente delle istituzioni e da un'azienda per cui ho lavorato 10 anni con impegno e dedizione. Io mi fidavo della Santanchè, che all'epoca era senatrice, e mai avrei pensato di venire raggirata come invece è accaduto. Io all'inizio neppure guardavo il cedolino dello stipendio e quindi non sapevo di essere truffata».

Che ruolo aveva in Visibilia?

«Ero investor relator officer, ossia delegata di redigere e gestire le comunicazioni al mercato della società quotata sia in Borsa che alla Consob. Il mio incarico quindi mi imponeva di lavorare sempre, anche durante il Covid. Ma ero del tutto ignara di quello che accadeva alle mie spalle».

Ma lei riceveva la busta paga ogni mese?

«No, me la consegnavano ogni 6 mesi. [...] Anche perché ad un certo punto da Visibilia mi hanno detto che dovevo restituire loro circa 7 mila euro per anticipo cassa integrazione. Mi sono insospettita oltre misura». 

E quindi cosa ha deciso di fare?

«Mi sono rivolta al Caf ed è lì che ho scoperto tutto». 

Cioè?

«Ero in cassa integrazione a zero ore senza saperlo e lo stipendio era in realtà spesso una nota spese giustificata come rimborso chilometrico. Tra l'altro in pieno lockdown per la pandemia da Covid. Tant'è vero che l'ho contestato» […] 

Quanto la pagavano?

«Mille euro al mese per un part time. Ma in realtà io lavoravo di continuo ed ero sempre disponibile». 

[…] 

Per quale periodo si è verificata questa circostanza?

«Grosso modo da marzo 2020 a novembre 2021. Appena ho capito che non ero in regola ho interrotto il rapporto di lavoro e mi sono messa in congedo straordinario». 

Lei aspetta ancora del denaro?

«Sì, più che altro sono in attesa che venga regolamentata la mia situazione dei contributi». 

Ed è ottimista?

«Fino a qualche giorno fa no, perché non si muoveva nulla. Ma nelle ultime ore ho appreso dal sito online dell'Inps che la mia situazione dovrebbe essere sistemata».

Come si spiega questa soluzione?

«Non saprei, forse perché c'è una grande attenzione mediatica sul caso. Ma questo, comunque, nonostante la soddisfazione perché qualcosa si muove, in un certo senso mi offende, perché fino a quando chiedevo ciò che mi spettava senza adire alle vie legali non mi veniva concesso nulla. Ora dopo il polverone mediatico forse qualcosa si muove».

Lei è stata sentita in procura in merito alla vicenda.

«Di questo non posso parlare, perché ci sono le indagini in corso». 

Che cosa le ha insegnato questa esperienza?

«Che denunciare è importante. Io all'inizio avevo paura. Temevo ripercussioni, temevo di essere licenziata. E di fatto ancora oggi sono senza lavoro, ma non sono affatto pentita. Anzi consiglio a chiunque si trovi in una situazione analoga alla mia di denunciare». 

Lei peraltro aveva anche svolto attività di consulente per l'allora senatore Ignazio La Russa.

«Sì e mi era capitato anche di lavorare per l'allora senatrice Santanchè. Per questo la delusione è stata ancora più grande: non avrei potuto prevedere che la senatrice, rappresentante importante delle istituzioni, potesse trattarmi come ha fatto».

Estratto dell’articolo di Rosario Di Raimondo e Antonio Fraschilla per “la Repubblica” sabato 22 luglio 2023.

«Ma quale soccorso nero, Daniela Santanchè ci deve 1,5 milioni e per questo ha messo a garanzia anche la sua casa. Non ho nulla da spartire con lei per il resto e stiamo sistemando le cose che abbiamo trovato qui». Luca Ruffino, presidente della holding Visibilia e amministratore unico di Visibilia editrice, non ci sta ad essere definito come un amico della ministra del Turismo e del presidente del Senato Ignazio La Russa.

A Repubblica racconta perché ha investito in Visibilia, società con mille problemi, salvando comunque dal fallimento l’azienda della ministra con un tempismo davvero singolare: nel momento peggiore, ha deciso di puntare su questa società. «È stata una scelta imprenditoriale, guardavo a Visibilia da diversi anni e ne vedevo le potenzialità. 

Quando abbiamo deciso di entrare nella compagine societaria la capitalizzazione di Borsa era di 300 mila euro — dice Ruffino — viene fatta confusione tra la posizione debitoria gigantesca che Santanchè ha nei confronti del mondo intero e la posizione della holding, di cui sono presidente. La holding ha solo un debito verso l’Agenzia delle entrate di 150 mila euro, che stiamo pagando. Santanchè è invece una mia debitrice, siamo creditori verso di lei di una somma importante, 1,5 milioni che lei sta ripianando con rate mensili da 50 mila euro». 

[…]

Molti hanno letto nell’attivismo di Ruffini in Visibilia una sorta di «soccorso nero ». Ruffini, in passato segretario dell’Udc, era finito a processo insieme a Marco Osnato, oggi deputato FdI, e al fratello di Ignazio la Russa, Romano, per una vicenda che riguardava finanziamenti alla campagna elettorale di quest’ultimi e appalti all’istituto che gestisce le case popolari di Milano: tutti sono stati assolti in via definitiva perché «il fatto non sussiste». 

«Ma quale soccorso nero — ribatte Ruffini — sono centrista da sempre e ho lasciato la politica. Santanchè la conosco, chiaramente, ci ho parlato fino a 15 giorni fa. Ma non ho rapporti con lei di nessuna natura. So che quaranta giorni fa è stato fatto un atto dal notaio con il quale Santanchè ha messo a disposizione dei creditori principali — tra cui noi — la sua casa milanese, che ha un valore superiore ai 6 milioni di euro». 

E con i La Russa che rapporti ha Ruffini? «Conosco sia Romano sia Ignazio. La mia vicenda giudiziaria nasce con Romano e credo di non sentirlo dall’epoca del processo. Conosco anche il presidente del Senato, ma non ho grandi frequentazioni». […]

Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per “il Venerdì di Repubblica” il 23 luglio 2023.

E poi ci sarebbe anche Kunz, il bel Dimitri, il bel principe dai 13 cognomi, il Pitonesso.  Nell'ordinaria scandalistica all'italiana […] i personaggi di contorno sono spesso i più gagliardi, ma erano anni che non se ne osservava uno più affascinante, signorile e cortese […] di Sua Altezza Imperiale Dimitri Kunz d'Asburgo Lorena Miesko Piast Bielitz Leopoldo e giù fino a Rasponi e Spinelli, compagno di vita della ministra che in un empito di generosa sollecitudine, per aggirare il conflitto d'interesse gli ha rifilato una tale quantità di azioni, cariche e adesso anche di grane, dal Twiga a Visibilia fino alla villa di Forte dei Marmi, che la metà basta e soverchia, come diceva il Divo.

Fino a quel momento al massimo doveva vedersela con l'illustre casato d'Asburgo che a più riprese, con teutonica insistenza, l'ha diffidato dal presentarsi con quel titolo. Ma lui, dopo tutto, che poteva farci? Nato a San Marino, dove l'anagrafe non è poi cosi rigorosa, […] l'hanno chiamato pur sempre a quel modo; e a parte qualche confusa spiegazione dinastica su una ipotetica linea matrilineare, viveva la sua vita. 

In compenso, […] aveva la facoltà di sposare una donna rendendola, come nelle fiabe, una principessa o quasi; destino toccato anni addietro a Patrizia Groppelli, […] prima che l'universo del gossip fosse deliziato da quel singolare scambio incrociato che ha spinto Patrizia a unirsi con l'ex di Santanchè, Alessandro Sallusti, mentre Kunz finiva tra le braccia di Danielona […].

Primaria è piuttosto la ricorrenza di pseudo-titolati nella più edificante storia d'Italia: dal barone Ugo Montagna di San Bartolomeo del caso Montesi al conte Igor Marini di Telekom Serbia passando per Licio Gelli, insignito di contea nel corso dell'inflazione nobiliare d'epoca repubblicana; per cui oggi è difficilissimo distinguere gli antichi aristocratici da quanti se ne generano nei meandri delle consorterie araldiche e pataccare, in truffaldini ordini cavallereschi o nella tv trash dove presunte e contegnose nobildonne vengono mandate in onda per essere smascherate da altre supposte nobildonne.

Dopo tutto l'Italia rimane pur sempre un favoloso paesone di maschere, e la più celebre di tutte, Totò, spese soldi e sostenne cause per vedersi riconosciuta l'eredità al trono di Bisanzio. «Signori si nasce - declamava nell'omonimo film (1960) -e io modestamente lo nacqui». Motto che il Pitonesso può doppiamente fare suo essendo il suo tredicesimo cognome Spinelli come appunto sul set il principe Zazà Spinelli degli Ulivi.

Estratto dell'articolo di Antonio Fraschilla e Rosario Di Raimondo per “la Repubblica” il 24 luglio 2023.

La loro storia è da sempre un intreccio di politica, salotti e lavoro: quest’ultimo volgarmente definito, in alcuni casi con sottotesto, come «occuparsi di affari reciproci ». E a intuirne l’intreccio oltre dieci anni fa, quindi ben prima delle cronache di questi giorni, è stato il missino e «nobile dandy fascista » Tomaso Staiti di Cuddia. 

Acerrimo avversario della corrente dei siculi sbarcati a Milano «Ligresti-La Russa», cresciuti tra i neri dell’Etna, in una intervista al sito della casa editrice cattolica-evoliana Effedieffe nel 2010 descriveva così l’arrivo di Daniela Garnero in Santanchè nell’area della destra- destra milanese: «Lei e Ignazio la Russa hanno siglato un patto politico-mondano-commerciale. Ignazio le ha aperto le porte della Provincia, lei quelle dei salotti».

Un patto, un legame fatto di vacanze insieme, amici comuni, Milano festaiola e Parlamento. Un legame che stona con la fredda presa di distanza dalle vicende che stanno coinvolgendo la ministra- imprenditrice con indagini sulle sue società, dipendenti che denunciano irregolarità e soldi da raccattare e in fretta per evitare fallimenti e bancarotte: «Mai lavorato per le società di Santanchè», ha detto il presidente del Senato. 

Non proprio così, come ha dovuto ammettere la stessa ministra in Senato nell’arringa difensiva che non le ha evitato la mozione di sfiducia che sarà discussa mercoledì su proposta dei 5 stelle: «Lo studio legale La Russa ha curato una diffida a uno dei miei soci in Visibilia », ha detta la ministra. Non proprio così ancora una volta: La Russa da avvocato ha firmato altre due diffide inviate a Milanotoday per conto di Visibilia e del fondo di Dubai Negma che ha prestato soldi alle società della ministra.E in una assemblea dei revisori di Visibilia a verbale è scritto che per un consulto è stato chiamato «l’avvocato La Russa».

Il presidente del Senato è stato visto in un ristorante con Santanchè prima dell’intervento in Senato e poi ci sono altre vicende che riportano all’intreccio La Russa- Santanchè sul lato degli affari: l’acquisto e la rivendita in un’ora con guadagno da un milione di euro della villa del sociologo Francesco Alberoni da parte della moglie del presidente del Senato, Laura De Cicco, e del compagno e socio in affari della Santanchè, Dimitri Kunz. A proposito di Alberoni, chi lo ha introdotto alla corte di La Russa anni fa? Ma lei, la Garnero Santanchè. 

(...) 

Venti anni fa l’allora assessora di Ragalna sognava comunque già in grande e annunciava un progetto faraonico: quello di costruire alle pendici del vulcano un resort «a metà fra Hollywood e il safari in Kenya». Non se ne farà nulla, per fortuna. Ma pochi anni dopo La Russa spinge per premiarla e farla eleggere vice presidente della Camera: non ci riuscirà, ma grazie ai buoni uffici di Ignazio diventerà sottosegretaria dell’ultimo governo Berlusconi.

A parte una parentesi con La Destra di Francesco Storace, che la separa per un po’ da La Russa, la “Santa” torna nel partito di Giorgia Meloni e grazie all’asse con Mario Mantovani, l’amico di mamma Rosa Berlusconi, si prende il partito a Milano con i buoni uffici proprio di Ignazio, che con lei si fa vedere ovunque, anche in piccoli eventi in provincia. Sull’altra sponda l’ala di Carlo Fidanza, che oggi osserva con un certo sorrisino di piacere le disavventure del tandem.

Ma anche durante la parentesi con La Destra, La Russa e Santanchè sono spesso insieme, dalla Toscana a Cortina, dove vanno a sciare con mogli e compagni. Sempre insieme, legati, fino ai giorni nostri. Lo scorso settembre sui divanetti di A’Riccione Terrazza 12 a Milano Santanchè attende l’esito del voto insieme a Mantovani e al figlio più grande del presidente del Senato, Geronimo La Russa: oggi alla guida dell’Aci, un ente che collabora con il ministero del Turismo per la programmazione dei fondi europei 2023-2030. Per dire i casi della vita e gli intrecci dei “Larussanchè”, come ormai li chiamano a Milano.

Estratto dell'articolo di Rosario Di Raimondo, Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 25 luglio 2023.

Rischia una nuova accusa Daniela Santanché. La Procura di Milano indaga ufficialmente per truffa aggravata ai danni dello Stato: un fascicolo al momento senza indagati, che potrebbe però aprire un altro fronte giudiziario per la ministra del Turismo, mentre domani in Senato si discuterà una mozione di sfiducia del Movimento 5 Stelle nei suoi confronti. 

La vicenda nasce dalla testimonianza di Federica Bottiglione, ex manager di Visibilia – il gruppo fondato dalla senatrice di FdI – che ha raccontato di aver continuato a lavorare durante il periodo Covid nonostante percepisse i contributi dell’Inps perché in cassa integrazione a zero ore. Oltre a cercare riscontri, i pm e la Guardia di finanza dovranno capire se questo sistema riguardava anche gli altri dipendenti, una ventina in tutto.

A giugno l’ex dirigente è stata sentita dagli inquirenti e ha prodotto corposa documentazione a sostegno del suo racconto. E le sue parole hanno spinto la pm Maria Giuseppina Gravina e il procuratore aggiunto Laura Pedio ad aprire un altro fascicolo sulla galassia Visibilia. Intervistata da Report , Bottiglione aveva raccontato: «Non sapevo di essere in cassa integrazione a zero ore, non mi è stato comunicato». L’ex dipendente ha detto di aver continuato a lavorare e il suo stipendio, che teoricamente doveva essere più basso proprio per via della “cassa”, rimaneva uguale grazie a dei rimborsi spese chilometrici versati dall’azienda, che andavano a compensare le minori entrate. La ministra, durante la sua relazione in Parlamento, aveva invece escluso che la dipendente avesse messo piede in azienda durante il periodo incriminato, cioè da marzo 2020 a novembre 2021.

Il fascicolo è collegato all’indagine per falso in bilancio e bancarotta che vede indagate sei persone, tra cui Santanchè, la sorella e il compagno Dimitri Kunz d’Asburgo. Agli atti è finita pure vicenda della villa in Versilia acquistata per 2,45 milioni da Laura De Cicco, moglie di Ignazio La Russa, e dal compagno di Santanché, e rivenduta dopo quasi un’ora all’imprenditore Antonio Rapisarda per un milione in più. In generale, la ministra del Turismo è impegnata a difendersi su più fronti: penale, civile e fallimentare. Per quest’ultimo, le prossime settimane saranno decisive per capire se la senatrice e gli altri indagati riusciranno ad allontanare lo spettro del reato di bancarotta.

Estratto da open.online il 25 luglio 2023.

Truffa ai danni dello Stato. È questa la nuova ipotesi di reato nei confronti delle aziende di Daniela Santanchè da parte della procura di Milano. Che si va ad aggiungere a quelle di falso in bilancio e bancarotta per le quali la ministra del Turismo del governo Meloni a cui dovrà rispondere. 

L’accusa viene dalla testimonianza di una ex manager del gruppo Visibilia. Di cui si era parlato nei giorni scorsi. La manager è Federica Bottiglione. Ovvero la dirigente di Visibilia che teneva i rapporti con la Borsa e con la Consob. Bottiglione è la testimone che ha parlato per prima a Report della sua causa di lavoro con l’azienda a Roma. La donna aveva raccontato di aver continuato a lavorare quando, dal marzo 2020 fino a novembre 2021, era invece ufficialmente in cassa integrazione a zero ore nel periodo Covid.

[…] Contribuendo così a fornire un particolare che ha portato il procuratore aggiunto Laura Pedio e il pm Maria Gravina ad aprire un’indagine autonoma. Collegata alla principale per falso in bilancio e bancarotta, che vede tra i sei indagati Santanchè. La deposizione era stata resa proprio in questo fascicolo. 

Al momento l’inchiesta è a modello 44. Contiene cioè soltanto le ipotesi di reato, senza i nomi degli eventuali indagati. E poggia sulla versione della ex dirigente, che avrebbe percepito i contributi Inps anche se continuava a lavorare. Ma il focus […] è sugli altri lavoratori. Una ventina in tutto. Gli investigatori vogliono capire se sia stato applicato anche con loro lo stesso schema. Mentre un lavoratore di Ciak dice che la redazione ha continuato a lavorare anche durante la solidarietà. 

[…] Intanto vanno avanti altre due inchieste. Quella per aggiotaggio con al centro Negma [...] E un’altra con al centro proprio Ki Group: i pm a settembre dovrebbero dare il loro parere sulla proposta di concordato semplificato avanzata dalla società.

A settembre invece si saprà se la ministra e gli altri ex amministratori riusciranno a far cadere l’accusa di bancarotta. L’udienza su Visibilia Concessionaria e Visibilia SRL in liquidazione vede pendere le istanze dei pubblici ministeri. La seconda società punta a saldare i debiti con il fisco con un milione e 200mila euro spalmati in 10 anni. Sul punto sono in corso verifiche e valutazioni dell’Agenzia delle Entrate. 

[…] Sempre a settembre proseguirà pure la causa intentata dai soci di minoranza di Visibilia Editore. Ma sotto gli occhi degli inquirenti c’è anche la villa comprata e venduta in un mese dal compagno Dimitri Kuntz e dalla moglie di Ignazio La Russa, Laura De Cicco. Kuntz ha già dato la sua versione dei fatti promettendo querele. Mentre la Guardia di Finanza indaga con l’ipotesi di riciclaggio. Il 26 luglio non ci saranno sorprese nel voto di fiducia. Ma intanto la posizione della ministra comincia a scricchiolare. […]

[…] «Nel nostro elettorato, che significa il mondo delle Pmi, quindi imprenditori ma anche dipendenti, quello che sta emergendo non è visto bene», dice al quotidiano un eletto protetto dall’anonimato. «Aggiungiamoci pure che lei non è certo stata fra quelli che ha creduto fin dall’inizio nel progetto di Giorgia; diciamo piuttosto che è salita sulla nave quando il vento già soffiava nelle vele. E che alla prova dei voti, alle Europee del 2019, ha dimostrato di non avere chissà quale consenso personale da trasferire al partito». 

La premier avrebbe posto il rinvio a giudizio come limite ultimo, prima di scaricare politicamente la sua ministra. Ma Santanchè potrebbe perdere anche il ruolo di coordinatrice del partito in Lombardia. Dove comunque «faceva quel che le ordinava La Russa, nulla di più», fanno trapelare da FdI. […]

«Da Santanchè condotte spregiudicate»: ecco la mozione di sfiducia del Movimento 5 Stelle. Storia di Redazione politica Corriere della Sera il 25 luglio 2023.

«Da Santanchè condotte spregiudicate»: ecco la mozione di sfiducia del Movimento 5 Stelle© Fornito da Corriere della Sera

«Condotte spregiudicate». È questo l’atto d’accusa per il quale il Movimento 5 Stelle chiede le dimissioni della ministra del Turismo Daniela Santanché. Il testo della mozione di sfiducia che verrà messa al voto nell’Aula del Senato mercoledì 26 è stato depositato. «Dalle inchieste giornalistiche - si legge nel documento - emerge una tendenza a considerare le regole del mercato e le regole sindacali e previdenziali come orpelli di impaccio alla libertà imprenditoriale, condotte spregiudicate che non possono essere proprie di un ministro». «I fatti esposti - aggiunge il M5S - minano fortemente la credibilità della Ministra e pongono un grave pregiudizio sulle sue capacità di svolgere le delicate funzioni alle quali è chiamata».

«E’ imprescindibile - si legge ancora - che il nostro Paese e le sue istituzioni siano salvaguardate, nel loro prestigio e nella loro dignità, anche attraverso il doveroso principio di `onorabilità´ per coloro cui sono affidate funzioni pubbliche». Il documento cita «la responsabilità politica anche del Presidente del Consiglio dei ministri, che, ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione, dirige la politica generale del Governo». «Esprime la propria sfiducia al Ministro del turismo, senatrice Daniela Garnero Santanchè, e lo impegna a rassegnare le proprie dimissioni».

Santanchè: Senato respinge mozione 5s su sfiducia con 111 no 

(ANSA mercoledì 26 luglio 2023) L'Aula del Senato respinge la mozione di sfiducia individuale al ministro del Turismo Daniela Santanchè presentata dal Movimento 5 stelle. I voti favorevoli sono stati 67, contrari 111 e nessun astenuto. Hanno votato a favore M5s, Pd e Avs, mentre Az-Iv non ha partecipato al voto.

Da  ansa.it mercoledì 26 luglio 2023.

E'iniziata nell'aula del Senato l'appello nominale dei senatori chiamati a esprimersi sulla mozione di sfiducia individuale alla ministra Daniela Santanché. Dieci i ministri presenti (sul totale di 25), tra cui il vicepremier Matteo Salvini, seduto accanto a lei. 

Per FdI, stesso partito della ministra, ci sono Raffaele Fitto, Nello Musumeci, Eugenia Roccella, Luca Ciriani. Presenti anche Giancarlo Giorgetti, Elvira Calderone, Andrea Abodi. 

Urla e cori "Vergogna! Vergogna!' da parte dei senatori del centrodestra contro il senatore del M5s, Ettore Licheri, che ha concluso il suo intervento in Aula dando dei "pagliacci" alla maggioranza, durante la discussione della sfiducia alla ministra Daniela Santanchè, proposta dai 5S. Alle sue parole, i pentastellati hanno applaudito. Dai banchi della destra, invece, molti hanno reagito urlando a Licheri: "Ridicolo. Vergognati!". Oppure "Chiedi scusa". Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, è intervenuto per placare gli animi dicendo che "ciascuno si prende la responsabilità di quel che dice".

"Non intendo entrare nel merito in quanto ho già esposto i fatti con chiarezza e trasparenza. Ribadisco che il 5 luglio non ero stata raggiunta da informazione o avviso di garanzia da parte della procura di Milano". Così il ministro del turismo Daniela Santanché interviene in Aula al Senato dopo la discussione sulla mozione di sfiducia che la riguarda.   "Anche i giornali - ha proseguito - hanno scritto che nella mia residenza è arrivata il 17 luglio l'informazione di garanzia. Quindi in Aula ho detto la verità".

"Negli interventi da parte dei rappresentanti di gruppi di opposizione non ho mai trovato critiche o censure attinenti all'esercizio delle mie funzioni di ministro. Ci possono essere diversità di opinioni, diversità che io rispetto - ha aggiunto -. Ho invece qualche difficoltà a comprendere come si possa promuovere sulla base di elementi di un'inchiesta pseudo-giornalistica una mozione di sfiducia individuale che non ha come oggetto il mio operato da ministro della Repubblica". "Ma che ha per oggetto dei fatti che, se verranno evidenziati, antecedenti al mio giuramento da ministro", ha concluso Santanchè. 

Patuanelli: 'Se avessimo avuto risposte non saremmo qui'

"Se avessimo ricevuto le risposte che chiedevamo nel corso dell'informativa oggi non saremmo qui". Così in Aula al Senato il capogruppo M5s Stefano Patuanelli illustra la mozione di sfiducia alla ministra del turismo Daniela Santanchè, accusandola di "mancanza di risposte" e "opacità". Secondo Patuanelli la mozione è la conseguenza di quello che è accaduto in Aula il 5 luglio scorso durante l'informativa. 

"E' evidente - aggiunge - che la magistratura ha compiuto il suo dovere, ha scelto di secretare da ottobre dello scorso anno l'iscrizione nel registro degli indagati, la secretazione durava tre mesi e non c'è obbligo di avviso dell'iscrizione se non ci sono indagini personali. Bastava che fosse chiesto qualche giorno prima di venire a fare l'informativa". "Mi auguro di cuore - conclude - che la ministra esca pulita da qualsiasi indagine, me lo auguro per il mio paese, ma le condotte hanno una disgrasia rispetto al giuramento che si fa quando si diventa ministro".

"Molte polemiche sono state fatte, anche dalle opposizioni, sulla mozione individuale nei confronti della ministra Santanchè che, secondo le critiche, ricompatterebbe il governo. La mozione è una conseguenza logica di quanto detto e non farla sarebbe stato ipocrita". Così in Aula al Senato il capogruppo M5s Stefano Patuanelli illustra la mozione di sfiducia alla ministra del turismo Daniela Santanchè. Patuanelli ricorda i ministri che sono stati sfiduciati, Toninelli, Bonafede e Speranza e sottolinea che i governi di cui facevano parte sono poi caduti. "Sicuramente - conclude - compatta la maggioranza, ma non porta bene". 

Calenda: 'Usciamo dall'Aula e non partecipiamo al voto. La ministra dovrebbe dimettersi'

"Usciremo dall'Aula e non parteciperemo al voto, Le opposizioni erano unite nel chiedere le dimissioni, il M5s ha fatto però una fuga in avanti e il Pd ha deciso di seguirlo. Noi vogliamo le dimissioni di Santanchè ma è uno strumento sbagliato, un regalo". Lo dice Carlo Calenda a margine dei lavori dell'Aula in Senato che stamattina voterà la mozione di sfiducia alla ministra Santanchè. 

"Santanchè - dice ancora Calenda - si deve dimettere, è una questione di etica pubblica, ma fare una mozione di sfiducia sapendo di perdere può solo aiutare Meloni a tenere Santanchè e quindi diventa solo un fatto di marketing. Iv ritiene debba e possa restare al governo, noi no". 

Mattia Feltri per “la Stampa” giovedì 27 luglio 2023.  

Mentre la Sicilia brucia e la gente muore, il Parlamento ieri si è dedicato al niente. I ministri schieratissimi a far da guardia armata al Senato a Daniela Santanchè, tutti lì, nessuno in Sicilia, erano l'immagine del niente. Il dibattito parlamentare che ne è scaturito è stato il dibattito sul niente. I senatori accigliati e battaglieri erano accigliati e battaglieri sul niente. 

La mozione di sfiducia del singolo ministro era il niente ed è sempre stata il niente. Di ventisei mozioni di sfiducia individuale nella storia repubblicana, una ha ottenuto esito positivo e venticinque non hanno ottenuto niente perché erano il niente. L'unica con esito positivo – ministro guardasigilli Filippo Mancuso, anno 1995 – l'ha avuto perché fu chiesta dalla maggioranza. 

Le altre venticinque, chieste dalla minoranza, siccome la minoranza non diventa maggioranza, erano il niente ridipinto di niente. Il Movimento cinque stelle che da anni inchioda il Parlamento alle mozioni di sfiducia per agghindarsi alla passerella del niente è il Movimento del niente.

Il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, che ieri era in aula e non in Sicilia, è il ministro del niente. Tutto quanto ormai si discuta in Parlamento lo si discute per la bella recita del niente e per far colpo col niente dentro un dibattito pubblico sul niente di modo che ci si possa indignare e accapigliare per il niente. Intanto Palermo è in fiamme, coperta di fumo, col rischio diossina, l'energia elettrica saltata, gli abitanti chiusi in casa, sei morti, in fiamme l'intera Sicilia e mezzo sud ma niente, dalla messinscena non li scuote niente, preferiscono il niente.

Estratto dell'articolo di Gianluca Paolucci per “la Verità” giovedì 27 luglio 2023.

C’è un’altra inchiesta che riguarda le società di Daniela Santanchè. La Procura di Bergamo sta infatti indagando per l’ipotesi di bancarotta fraudolenta della Perugia Renewables, società dichiarata fallita nel 2019 ma che prima del fallimento era parte del gruppo Bioera. 

Perugia Renewables era stata costituita nel 2012, con il conferimento di un ramo d’azienda della Organic Oils srl, anche questa all’epoca del gruppo Bioera. Il fascicolo penale, aperto dalla Procura di Bergamo nel 2020, contesta a Canio Mazzaro, ex compagno della Santanché nonché socio amministratore in varie società dell’attuale ministro, l’ipotesi di bancarotta fraudolenta.

Secondo la ricostruzione dei pm Mazzaro, all’epoca presidente della Organic Oils, avrebbe «cagionato il dissesto» della Perugia Renewables «formando fittiziamente il capitale» tramite il conferimento di un ramo d’azienda della Organic Oils. Inoltre, «ne causava il fallimento» con il conferimento, al momento della costituzione, di un debito da 1,1 milioni di euro verso Gse spa, il Gestore dei servizi energetici controllato al 100% dal ministero dell’Economia. 

All’epoca delle operazioni contestate - il 2012, quando è stata costituita la Perugia Renewables - la Santanchè era presidente del consiglio di amministrazione di Bioera spa. La ministra non risulta indagata nel procedimento penale. 

Lo stesso Mazzaro è imputato anche in un ulteriore procedimento che riguarda le società nelle quali è coinvolta anche la Santanchè, questa volta al tribunale di Milano. La Procura del capoluogo lombardo contesta infatti all’imprenditore due reati fiscali. Il primo riguarda i redditi percepiti da Mazzaro come amministratore di Bioera e Ki Group nel 2013.

Il secondo la vendita di una barca di Mazzaro alla Biofood Italia srl. Una vendita «simulata», secondo i pm, con la barca che è poi stata ceduta a una società maltese. L’operazione è del 2019, quando la Santanchè era amministratore unico della Biofood Italia spa. Il pm, che aveva inizialmente iscritto la Santanchè nel registro degli indagati, ha poi chiesto l’archiviazione della sua posizione. Sulla richiesta di archiviazione deve ancora pronunciarsi il gip.

Il pm di questo procedimento, Paolo Filippini, è anche uno dei pm che sta coordinando le indagini che coinvolgono direttamente la Santanchè. Le indagini riguardano due società in dissesto, Visibilia e Ki Group e alla ministra vengono contestati i reati di falso in bilancio, bancarotta e truffa ai danni dello Stato. Su Ki Group, i pm devono esprimersi per la proposta di concordato avanzata dalla società. 

Un fascicolo separato riguarda invece l’ipotesi di aggiotaggio per le attività di Negma, una società che ha concluso operazioni di finanziamento con una serie di società in crisi, tra cui anche Bioera e Ki Group. […]

Infine, la Procura di Milano sta anche portando avanti una serie di accertamenti sulla compravendita di una villa a Forte dei Marmi, comprata da Dimitri Kunz - attuale compagno della Santanché - e dalla moglie di Ignazio La Russa, Laura De Cicco. Villa comprata e rivenduta a distanza di un’ora con una forte plusvalenza. […]

Suicida Luca Ruffino, presidente di Visibilia Editore

(ANSA domenica 6 agosto 2023.) - Il presidente di Visibilia Editore Luca Giuseppe Reale Ruffino si è suicidato sparandosi nella notte tra sabato e domenica. Il corpo è stato trovato dal figlio in ufficio a Milano. Secondo quanto apprende l'ANSA, il gesto sarebbe legato a questioni personali e si ipotizzano gravi problemi di salute. Giovedì scorso Ruffino avrebbe anche partecipato per l'ultima volta a una riunione del Cda di Visibilia Editore.

L'arma con cui il presidente di Visibilia Editore, Luca Giuseppe Reale Ruffino, si è tolto la vita è una pistola regolarmente detenuta dal manager. Ruffino avrebbe anche lasciato un biglietto con alcune comunicazioni La notizia del suicidio di Ruffino è stata anticipata dal sito 'Dagospia'. Storicamente legato all'amministrazione di condomini, fondatore, presidente e amministratore delegato di Sif Italia societa di amministrazione e gestione di patrimoni immobiliari quotata a Euronext Growth Milano, Ruffino ad ottobre del 2022 era subentrato in Visibilia rilevando le quote della senatrice di Fdi e ministro del Turismo Daniela Santanchè.

Morte Luca Ruffino, la telefonata, poi lo sparo in casa. Il suicidio a Milano del presidente di Visibilia editore. Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 7 agosto 2023.

Rilevò le quote di Santanchè, fondatrice della società, nell'ottobre scorso. La Procura indaga. C'è l'ipotesi di istigazione al suicidio 

È l’ultima chiamata fatta sabato dalla compagna a mettere in apprensione i familiari. A preoccupare non sarebbero state le parole pronunciate al telefono da Luca Giuseppe Reale Ruffino alla donna, in quel momento in vacanza in Sardegna, ma il tono dimesso, abbattuto, che si percepisce. L’allarme rimbalza a Milano: la donna avverte subito il figlio di Ruffino, Mirko, gli chiede di mettersi in contatto con il padre, di provare a sentirlo, e di andarlo a trovare nell’appartamento milanese, domicilio del manager lecchese che dallo scorso ottobre era anche presidente di Visibilia Editore, in cui era subentrato al ministro del Turismo Daniela Santanchè.

Il cellulare squilla a vuoto. Mirko si dirige allora in via Spadolini, non distante dalla sede dell’università Bocconi, che è quasi la mezzanotte. Sale in casa, e trova il cadavere del padre in camera da letto.

Il comunicato

Luca Ruffino si è suicidato con un colpo di pistola. L’arma risulta regolarmente detenuta dal 60enne che, oltre al ruolo in Visibilia, era fondatore, presidente e amministratore delegato di Sif Italia, società di amministrazione e gestione di patrimoni immobiliari. «Visibilia editore Spa annuncia, con cordoglio, la prematura scomparsa del dott. Luca Giuseppe Reale Ruffino», è la nota che ne conferma la morte: «La società si stringe nel dolore alla famiglia».

I bigliettini

Nella stanza, gli investigatori — subito avvisati dal figlio dopo la scoperta del cadavere e arrivati nell’abitazioni poco dopo la mezzanotte — trovano alcuni bigliettini scritti dal manager. In totale sarebbero sei fogli, indirizzati a familiari e collaboratori, a cominciare proprio dai figli Mirko e Andrea, a cui comunicherebbe il suo dispiacere per il dolore che causerà loro il suo gesto. Su uno dei bigliettini, Ruffino spiegherebbe inoltre di aver scelto di togliersi la vita nella sua dimora milanese, invece che nella sede dei suoi uffici, per non turbare colleghi e dipendenti.

Il caso Visibilia

Nei suoi ultimi messaggi scritti poco prima di suicidarsi non ci sarebbe alcun riferimento alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto la società in cui era subentrato dieci mesi fa, rilevando le quote di Daniela Santanchè (FdI), fondatrice di Visibilia, diventandone azionista di maggioranza. Nell’inchiesta, tra l’altro, Ruffino non risulta né indagato, né tantomeno oggetto di indagine degli inquirenti. Giovedì scorso Ruffino aveva partecipato per l’ultima volta a una riunione del consiglio di amministrazione della società. In ambienti politici gira voce che Ruffino, che da pochi giorni aveva compiuto 60 anni, soffrisse di gravi problemi di salute e che in pochi ne fossero a conoscenza.

L’autopsia

Dopo la scoperta del cadavere, nell’appartamento è intervenuta anche la polizia scientifica. La Procura di Milano ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio e ha disposto l’autopsia sul cadavere del manager lecchese, anche se al momento ci sarebbero pochi dubbi sulla volontarietà del suo gesto.

Luca Ruffino, presidente di Visibilia Editore trovato in casa morto suicida. Redazione CdG 1947 su Il Correre del Giorno il 6 Agosto 2023 

L'imprenditore 60enne si è sparato con una pistola regolarmente detenuta nella camera da letto di un appartamento di sua proprietà in via Spadolini a Milano. Accanto al corpo è stato trovato un biglietto con i saluti ai familiari.

Luca Giuseppe Reale Ruffino, presidente di Visibilia Editore, la società fondata da Daniela Santanché, che dallo scorso ottobre era subentrato al ministro del Turismo. Originario di Lecco Aveva 60 anni è stato trovato morto a Milano ieri notte. L’imprenditore si è sparato con una pistola regolarmente detenuta nella camera da letto di un appartamento di sua proprietà in via Spadolini a Milano. Accanto al corpo è stato trovato un biglietto con i saluti ai familiari.

È stata la sua l’ultima chiamata fatta sabato alla compagna che in quel momento si trovava in vacanza in Sardegna, a mettere in apprensione i familiari. Le preoccupazioni non sarebbero sorte dalle parole pronunciate al telefono da Luca Giuseppe Reale Ruffino alla sua compagna, , ma il tono dimesso, abbattuto, che si avvertiva. La donna immediatamente ha contattato Mirko uno dei due figlio di Ruffino, chiedendogli di mettersi in contatto con il padre, di provare a sentirlo, e di andarlo a trovare nell’appartamento milanese dove viveva suo padre Il suo telefono cellulare squillava a vuoto ed allora Mirko è corso in via Spadolini, che è quasi la mezzanotte. Salito in casa, ha trovato il cadavere di suo padre in camera da letto. 

Ruffino secondo quanto di apprende da ambienti giudiziari non era mai stato indagato né sentito dai pm in qualità di testimone in merito all’inchiesta sulla società Visibilia Editore. La procura di Milano, inoltre, ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. Un passaggio necessario anche per compiere eventuali accertamenti a partire dall’autopsia.

Gli investigatori  arrivati nell’abitazione poco dopo la mezzanotte hanno trovano nella stanza dove giaceva il cadavere di Ruffino alcuni bigliettini scritti dal manager. Sarebbero sei fogli in totale, indirizzati a familiari e collaboratori, a partire proprio dai due figli Mirko e Andrea, a cui comunicava il suo dispiacere per il dolore che avrebbe causato loro questo suo gesto estremo. Su uno dei bigliettini, Ruffino spiegherebbe inoltre di aver scelto di togliersi la vita nella sua dimora milanese, invece che nella sede dei suoi uffici, per non turbare colleghi e dipendenti. nell’appartamento è intervenuta anche la polizia scientifica. La Procura di Milano ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio contro ignoti, ed e ha disposto l’autopsia sul cadavere del manager lecchese, anche se al momento ci sarebbero pochissimi dubbi sulla volontarietà del suo gesto. 

Nei suoi ultimi messaggi scritti poco prima di suicidarsi non vi sarebbe alcun riferimento alla vicenda giudiziaria che ha investito la società in cui era subentrato dieci mesi fa, rilevando le quote della fondatrice di Visibilia, Daniela Santanchè (FdI), diventandone azionista di maggioranza salvandola dal dissesto con una cospicua iniezione di liquidità di capitali per circa un milione di euro, nella quale società erano restati soci sia la Santanchè ed il suo compagno Kunz . Nell’inchiesta, tra l’altro, Ruffino non risulta né indagato, né tantomeno oggetto di indagine degli inquirenti. Giovedì scorso Ruffino aveva partecipato per l’ultima volta a una riunione del consiglio di amministrazione della società.

 Visibilia editore “si stringe nel dolore alla famiglia del Dott. Ruffino”

È quanto comunica la società in una nota in cui annuncia “con cordoglio” la morte di Luca Giuseppe Reale Ruffino, che rivestiva il ruolo di presidente e amministratore Delegato, nonché di azionista di maggioranza di Visibilia. “Il Consiglio di amministrazione della società – si legge ancora – si riunirà appena possibile per deliberare, ai sensi di statuto e di legge, in merito alla sostituzione mediante cooptazione di un nuovo amministratore, alla nomina del presidente del Consiglio di amministrazione ai sensi di statuto ed al conferimento delle opportune deleghe. Si ricorda che il consiglio di amministrazione aveva recentemente conferito poteri di gestione operativa della società anche al Consigliere delegato Dott. Alberto Campagnoli”. 

Negli ambienti politici circola la voce che Ruffino, che aveva compiuto 60 anni da pochi giorni  soffrisse di gravi problemi di salute e che soltanto in pochi ne fossero a conoscenza.

Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Pierpaolo Lio per il “Corriere della Sera” lunedì 7 agosto 2023.

È l’ultima chiamata fatta sabato dalla compagna a mettere in apprensione i familiari. A preoccupare non sarebbero state le parole pronunciate al telefono da Luca Giuseppe Reale Ruffino alla donna, in quel momento in vacanza in Sardegna, ma il tono dimesso, abbattuto, che si percepisce. 

L’allarme rimbalza a Milano: la donna avverte subito il figlio di Ruffino, Mirko, gli chiede di mettersi in contatto con il padre, di provare a sentirlo, e di andarlo a trovare nell’appartamento milanese, domicilio del manager lecchese che dallo scorso ottobre era anche presidente di Visibilia Editore, in cui era subentrato al ministro del Turismo Daniela Santanchè.

Il cellulare squilla a vuoto. Mirko si dirige allora in via Spadolini, non distante dalla sede dell’università Bocconi, che è quasi la mezzanotte. Sale in casa, e trova il cadavere del padre in camera da letto. […] Luca Ruffino si è suicidato con un colpo di pistola. L’arma risulta regolarmente detenuta dal 60enne […] 

[…]  Nella stanza, gli investigatori […] trovano alcuni bigliettini scritti dal manager. In totale sarebbero sei fogli, indirizzati a familiari e collaboratori, a cominciare proprio dai figli Mirko e Andrea, a cui comunicherebbe il suo dispiacere per il dolore che causerà loro il suo gesto. 

Su uno dei bigliettini, Ruffino spiegherebbe inoltre di aver scelto di togliersi la vita nella sua dimora milanese, invece che nella sede dei suoi uffici, per non turbare colleghi e dipendenti.

[…] Nei suoi ultimi messaggi scritti poco prima di suicidarsi non ci sarebbe alcun riferimento alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto la società in cui era subentrato dieci mesi fa, rilevando le quote di Daniela Santanchè (FdI), fondatrice di Visibilia, diventandone azionista di maggioranza.  […] In ambienti politici gira voce che Ruffino, che da pochi giorni aveva compiuto 60 anni, soffrisse di gravi problemi di salute e che in pochi ne fossero a conoscenza. […]

Estratto dell’articolo di Chiara Baldi per il “Corriere della Sera” lunedì 7 agosto 2023. 

Nella vita di Luca Giuseppe Reale Ruffino, 60 anni compiuti lo scorso 24 luglio, nato a Lecco ma domiciliato a Milano, c’erano il lavoro da presidente di una delle più grandi agenzie (quotata in Borsa) di amministrazione di condominio, Sif Italia — «tanto, sempre, una passione sfrenata» unita a una cura invidiata da molti di quelli che ieri sera lo ricordavano dall’altro lato del telefono —; i figli — due, Mirko e Andrea —; la Sardegna, dove amava passare «le poche giornate libere», ricorda un amico; la beneficenza.

E poi, nella vita dell’uomo che sabato sera si è sparato nella sua abitazione di via Spadolini, c’era la politica. Fatta in modo attivo fino tanti anni fa, prima come candidato dell’Udc alle Regionali in Lombardia nel 2000 — elezione mancata — e poi come segretario milanese del partito, ruolo per il quale era stato commissariato per aver appoggiato alle elezioni della Provincia di Milano il candidato del Pdl Guido Podestà. 

Del Pdl era stato anche membro del coordinamento regionale lombardo, avvicinandosi, in particolare, ad Alleanza Nazionale. E proprio quell’area politica gli era rimasta dentro. Tanto da mantenere negli anni ottimi rapporti con esponenti di primo piano del centrodestra italiano, in particolare di Fratelli d’Italia. Di Romano La Russa, oggi assessore regionale alla Sicurezza in Lombardia, Ruffino aveva sostenuto la campagna elettorale, sempre per le Regionali, nel 2010. E tra i suoi amici più cari c’era anche l’attuale deputato Marco Osnato, oltre alla ministra del Turismo Daniela Santanchè, da cui lo scorso 18 ottobre aveva rilevato le quote della Visibilia Editore. 

[…]  Una mossa che, a molti, era sembrata come un soccorso agli amici meloniani. Non sono mancate, proprio insieme ad alcuni esponenti politici, anche disavventure giudiziarie. Nel 2012 Ruffino è stato coinvolto in un’inchiesta della procura di Milano insieme a Romano La Russa, che all’epoca ricopriva già il ruolo di assessore lombardo alla Sicurezza, e Marco Osnato, oggi deputato, ma ai tempi consigliere comunale del Pdl a Milano e dirigente di Aler, (Azienda di edilizia pubblica lombarda). 

Al centro del fascicolo erano finiti proprio le gare di appalto di Aler: Ruffino, in particolare, era stato indagato per 10 mila euro di finanziamento per la stampa di manifesti e materiale elettorale per le campagne di Osnato e La Russa. Ma l’indagine finì con l’assoluzione definitiva per tutti e tre. […]

(ANSA l'8 agosto 2023) - È stata una "grave perdita" quella di Luca Ruffino, il presidente di Visibilia che si è ucciso lo scorso 6 agosto. La ministra Daniela Santanchè e il compagno Dimitri Kunz d'Asburgo Lorena lo hanno sottolineato nel necrologio pubblicato oggi sul Corriere della Sera. 

Sono diversi i ricordi di amici e colleghi, abitanti di alcuni dei tantissimi condomini che gestiva Ruffino, pubblicati oggi, inclusi quelli di Visibilia Concessionaria srl e Visibilia Editrice srl, che sottolineano la bontà e la generosità del manager, fondatore di Sif Italia. E proprio collaboratori, dirigenza e dipendenti di Sif gli hanno dedicato un ricordo commosso di un "uomo gentile, sorridente, comprensivo e straordinario... Mancherà a tutti".

Estratto dell'articolo di Francesco Spini per “la Stampa” l'8 agosto 2023. 

Una nave senza più timoniere: Visibilia Editore è travolta dalla tempesta. È tempo di fuggire per i (pochi) cuori impavidi […] che ancora avevano in portafoglio le azioni della società editrice, pianeta quotato in Borsa della turbolenta galassia fondata dall'attuale ministra del Turismo, Daniela Santanchè.

Il misterioso suicidio di Luca Ruffino, l'amministratore di condomini divenuto nuovo azionista di riferimento e da marzo presidente e ad della società, scatena le vendite su un titolo già martoriato. Dal 2017 […] è crollato del 99,9%. Poi una parentesi di recupero, senza un gran perché: dagli 0,06 euro toccati a inizio anno, il 14 luglio aveva rivisto l'euro. 

Già la settimana scorsa però qualcosa s'era inceppato e ieri con la notizia della tragica fine di Ruffino ha perso di botto il 30,55%, planando a 38,20 centesimi, con un valore degli scambi comunque esiguo: 55 mila euro. Ora la società capitalizza appena 3 milioni.

Il destino di Visibilia, rimasta senza guida, è un rebus. Santanchè, che era stata presidente dal 2016 a gennaio 2022, è indagata dalla Procura di Milano per falso in bilancio e bancarotta. Nell'ottobre di un anno fa aveva venduto le sue quote proprio a Ruffino, che aveva comprato parte di tasca sua e contemporaneamente attraverso la sua società Sif Italia, un piccolo impero nella gestione dei condomini.

In Visibilia Ruffino si fa strada, noncurante del guazzabuglio in cui va a infilarsi. Comprereste una società con conti in rosso, il cui bilancio (quello relativo al 2021) non è stato neppure certificato, dove i piccoli soci sono in rivolta e chiamano in causa la magistratura? 

Nonostante tutto sia sulle prime pagine dei giornali, prima con acquisti e poi partecipando agli aumenti di capitale (l'ultimo da 447 mila euro, versando di proprio 332 mila euro) supera il 30% e, ultimo dato disponibile al 21 luglio, si ritrova in tasca, tramite Sif Italia, il 45,81% del capitale: primo azionista. Con l'assemblea del 7 marzo, Dimitri Kunz, il compagno di Santanchè, gli passa il testimone e Ruffino prende le redini della società.

Con il nuovo socio, Visibilia scrive anche un piano industriale integrato che prevede (o prevedeva?) tre nuove linee di business favorite da potenziali asserite «significative sinergie» con Sif. 

Si parla anzitutto del lancio «di una nuova testata mensile di diritto condominiale», quindi di «una partnership con Sif finalizzata allo sviluppo della pubblicità "out of home"», fuori di casa, tra cartellonistica e altro, e infine «nell'acquisto di piccoli studi di gestione immobiliare nel Centro e nel Sud Italia». […]

Nel frattempo Ruffino, fino all'ultimo, resta attivissimo anche dentro la sua, di società, quella Sif Italia che guidava fin dal lontano 1987. Gli acquisti, negli ultimi mesi, sono costanti: il 18 maggio mille azioni, il 23 maggio altre 500. Il 5 giugno altre mille azioni, il 22 giugno duemila, il 28 altre 5 mila, a cui il 30 giugno ne seguono nuove 1.500. Il 24 luglio si riprende con 2 mila azioni, con il botto il 28 luglio, quando acquista altre 13.500 azioni. Di Sif Italia, Ruffino era il primo azionista con il 43,55% e a luglio ha fatto spazio nel cda a due nuovi amministratori, tra cui il figlio Mirko, quello che sabato sera l'ha trovato esanime nell'appartamento di via Spadolini a Milano.

Secondo socio è la Pmh Srl con il 28%, poi Cinzia Tarabella, tra i manager della società, ha il 12,98%, quindi c'è la finanziaria tedesca ShapeQ, col 5,29%. Il resto è flottante di una società che dal 16 dicembre 2021 è quotata a Piazza Affari nello stesso listino di Visibilia: l'Euronext Growth Milan, segmento dedicato alle Pmi, dove capitalizza 20 milioni. Ieri, a sua volta, ha perso il 20,11%, a quota 2,86 euro, dopo che il 2 agosto aveva toccato i massimi a 4 euro per azione. Altro vascello senza capitano. 

Da Sif Italia, dalle decisioni che saranno prese lì, dipenderà il destino di Visibilia, oggi guidata operativamente dal consigliere Alberto Campagnoli. Proprio nell'ultima riunione, il 2 agosto, il cda aveva deciso di anticipare la pubblicazione dei conti dei primi sei mesi, inizialmente prevista per fine settembre, al 31 agosto. […] 

Quel che è certo è che con la scomparsa di Ruffino si eclissano anche i suoi segreti. C'era chi diceva, ad esempio, che il suo fosse un «soccorso nero» alla ministra Santanchè,  […]

[…]  Marco Osnato, deputato di FdI, genero di Romano La Russa, che nel 2017 con Ruffino era stato assolto in una vicenda di presunti appalti pilotati nelle case popolari dell'Aler […] appare scosso: «È stata una notizia terribile – dice –. Ruffino non è mai stato vicino a Fratelli d'Italia. Faceva politica a Milano e quindi, come è naturale che sia, conosceva alcuni di noi, come altri provenienti da diverse forze politiche. Non ha mai partecipato a nessuna manifestazione o iniziativa di FdI e non aveva rapporti con La Russa o con Santanchè. Era un grande professionista, un imprenditore vero e un uomo per bene. L'avevo sentito alcuni mesi fa, ma ci eravamo persi di vista in questi anni, come talvolta accade nella vita».

Estratto dell’articolo di Pierpaolo Lio per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2023.

Si è sparato con una Beretta calibro 9x21, Luca Giuseppe Reale Ruffino, l’uomo del «salvataggio» di Visibilia Editore, società della quale Daniela Santanchè è stata presidente dal 2016 a gennaio 2022 e per il cui dissesto la ministra del Turismo è indagata per falso in bilancio. Lo scorso ottobre Ruffino era subentrato nel capitale sociale diventando azionista di maggioranza e presidente. 

Il 60enne manager lecchese — il «re» dei condomini: 80 mila quelli gestiti in Italia con la sua creatura, il gigante Sif Italia, primo studio di amministrazione condominiale a sbarcare in Borsa — è stato trovato cadavere nel suo appartamento milanese in via Spadolini, vicino all’Università Bocconi, poco prima della mezzanotte tra sabato e domenica. Aveva la pistola ancora in pugno. L’arma […] era regolarmente detenuta da Ruffino, che dal 2016 aveva una licenza per il porto d’armi per motivi di difesa.

Sulla volontarietà del gesto non sembrano esserci dubbi. Restano invece ancora da capire i motivi che possano aver spinto Ruffino a togliersi la vita. Nell’inchiesta che ruota attorno a Visibilia, l’imprenditore non risulta né indagato, né oggetto di indagine degli inquirenti. E nessun riferimento a eventuali preoccupazioni collegate alla vicenda sarebbe presente nei sei bigliettini (indirizzati ai figli, alla compagna, ai dipendenti e ai condomini) ritrovati nella camera da letto […] sembra che Ruffino avesse problemi di salute che lo preoccupavano, ma al momento non sono stati trovati riscontri […]

I familiari […] sconvolti da un gesto «inaspettato», non avrebbero riferito nulla al riguardo, nonostante negli ultimi tempi l’uomo fosse apparso abbattuto. Tra le cartelle mediche presenti in casa non è stata trovata nessuna conferma. E anche uno dei medici che lo seguiva non ha segnalato gravi problematiche. 

Gli investigatori sono però al lavoro per rintracciare e consultare il suo medico di base ed eventuali specialisti consultati dal manager. Entro giovedì dovrebbe comunque essere eseguita l’autopsia sulla salma. Proprio per poter procedere con questo esame, come sempre accade per i suicidi in cui viene usata un’arma da fuoco, in Procura è stato aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio.

L’ultima comunicazione di Ruffino era avvenuta sabato pomeriggio con la compagna.

Una telefonata di routine, durante la quale la donna aveva però percepito, nel tono […] un momento di sconforto dell’uomo […]

Estratto dell’articolo di Chiara Baldi per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2023. 

Tra gli amici e i conoscenti di Luca Giuseppe Reale Ruffino il dolore è grande così come pochi sono i dubbi sui motivi che hanno spinto il manager 60 enne a spararsi […] «Era di nuovo malato: diversi anni fa aveva sconfitto un cancro che però qualche settimana fa si era ripresentato. E lui era molto affranto e abbattuto», racconta al Corriere una fonte che chiede di restare anonima. «Lo avevo visto a metà luglio, gli avevo chiesto “Luca, come va?” e lui mi aveva risposto “male, ho fatto degli accertamenti e non ci sono buone notizie”, spiegandomi poi che il tumore era tornato. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto». […]

Visibilia, il suicidio di Luca Ruffino: cosa ha scritto in tutti e sei i biglietti. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano l'08 agosto 2023

Nessun riferimento a Visibilia o a problemi di salute. Il suicidio di Luca Giuseppe Reale Ruffino, presidente della holding e amministratore unico della società editrice dopo essere subentrato alla ministra del Turismo Daniela Santanchè, si tinge di giallo. «Tutti i messaggi di scuse e perdono lasciati ai familiari», ben sei, contengono frasi «generiche», ha riferito ieri una fonte investigativa. Dalle prime verifiche non ci sarebbero comunque dubbi sul fatto che si sia trattato di un gesto volontario. La Procura di Milano, in attesa dell’autopsia che si terra questa settimana, ha aperto un fascicolo, senza indagati, per istigazione al suicidio. L’inchiesta, affidata alla pm Daniela Bartolucci, cercherà di togliere ogni dubbio sulla traiettoria del colpo di pistola, regolarmente detenuta, che ha tolto la vita al 60enne imprenditore milanese.

ALLERTA TELEFONICA - Che ci fosse qualcosa che non andava lo dimostra anche la reazione della compagna che lo scorso sabato sera era al telefono con lui. La donna, che si trovava in Sardegna, lo aveva sentito «strano e un po’ depresso», e aveva chiesto al figlio di passare a trovare il padre che viveva in via Giovanni Spadolini, alle spalle dell’Università Bocconi. È stato proprio il figlio a ritrovare il corpo in camera da letto, privo di vita, poco prima di mezzanotte di sabato.

L’imprenditore, particolarmente attivo nel ramo dell’amministrazione dei condomini con quasi 80mila appartamenti gestiti tramite la sua società quotata a Piazza Affari (la Sif Italia), non aveva problemi dal punto di vista economico, vantando una liquidità che gli ha permesso di entrare nel capitale sociale di Visibilia, diventando nello scorso ottobre amministratore unico dell’azienda editoriale coinvolta nell’indagine per falso in bilancio della procura milanese. Indagine che non lo coinvolge direttamente e in cui non risultava indagato. «Santanchè ci deve 1,5 milioni e per questo ha messo a garanzia anche la sua casa. Non ho nulla da spartire con lei per il resto e stiamo sistemando le cose che abbiamo trovato qui», aveva detto il mese scorso in una intervista a Repubblica.

A differenza di alcune voci che si erano diffuse domenica, il manager, a parte piccoli problemi salute, non soffriva di malattie gravi conclamate. «L’avevo visto all’assemblea del primo agosto, era la persona di sempre: positivo, combattente. Mi sembra una notizia incredibile che si sia tolto la vita. Sono senza parole», ha dichiarato ieri Mirko Berti, presidente del comitato degli inquilini della Torre del Moro, un grattacielo alle porte di Milano andato completamente distrutto in un incendio il 29 agosto del 2021 e di cui Ruffino era amministratore. «Era una persona perbene, molto professionale», aggiunge -, «ha sempre cercato di aiutare noi inquilini che abbiamo perso la casa. Faceva del bene in silenzio, era molto sensibile. Sempre al nostro fianco, sempre positivo. Per questo non mi capacito».

«È una notizia sconcertante, un fatto tremendo. Non lo vedevo da qualche tempo. È sempre stato un combattente, mi sembra strano», ha dichiarato invece l’avvocato Pierluigi Varischi che aveva difeso Ruffino in alcune vicende giudiziarie passate dalle quali era uscito assolto. «Ruffino ci teneva a seguire da vicino tutto ciò che riguardava il comprensorio di Milano 3, che amministrava fin dal 2008», è stato il commento della sindaca di Basiglio Lidia Reale. «Una persona che abbiamo sempre stimato e che svolgeva i suoi compiti con attenzione, responsabilità e capacità di ascolto. Ogni volta che si doveva affrontare una problematica o confrontarsi su un’iniziativa innovativa non si tirava mai indietro».

TITOLI IN PICCHIATA - Sul fronte azionario, invece, il titolo Visibilia è crollato ieri a Piazza Affari ed è stato a lungo sospeso, perdendo alla fine circa il 30 percento del valore e chiudendo a 0,38 euro. Elevati ma non eccezionali gli scambi: nella seduta sono passate di mano 135mila azioni del gruppo editoriale contro le 73mila della giornata di venerdì. Anche Sif Italia ha accusato una perdita importante nelle quotazione: il titolo, di fatto “congelato” per quasi tutta la seduta, ha chiuso in calo del 20 percento a 2,86 euro.  

Morte Luca Ruffino, l'autopsia conferma: non soffriva di gravi malattie. Storia di Redazione Tgcom24 giovedì 10 agosto 2023.

Luca Ruffino non soffriva di gravi malattie. L'autopsia, eseguita nell'istituto di medicina legale di Milano, ha confermato quanto ricostruito dagli inquirenti che stanno indagando sulla morte del manager. Il presidente di Visibilia Editore si è suicidato sabato sera nella sua abitazione, sparandosi un colpo di pistola.

Nessuna patologia grave  La Procura ha disposto l'autopsia non tanto per accertare la causa della morte, visto che non ci sono dubbi sul gesto volontario di Ruffino, ma per capire il motivo che possa averlo portato al suicidio e verificare la presenza o meno di gravi patologie. Già dai primi accertamenti svolti nell'indagine sulla morte del manager era emerso che, a parte piccoli problemi di salute, non soffriva di gravi malattie conclamate. 

Anni fa un tumore  Anni fa Ruffino aveva avuto un tumore, da cui era guarito e di cui portava i segni nell'aspetto, smagrito e con i capelli, un tempo fluenti e brizzolati, portati cortissimi. L'ultimo medico che lo ha visitato, sentito dalla squadra mobile, ha detto di non essere a conoscenza di patologie particolari e non ci sono conferme di una recidiva.

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “La Stampa” venerdì 11 agosto 2023.  

Nessuna grave malattia. Nessuna ricaduta. Il primo punto fermo nell'inchiesta sul suicidio del manager sessantenne Luca Giuseppe Reale Ruffino arriva dall'autopsia eseguita ieri sul suo corpo. Certo, per escludere anche la più remota ipotesi bisognerà attendere la relazione dell'anatomopatologo, gli esiti di tutte le analisi sui tessuti prelevati, ma l'esame ha confermato quanto già il diabetologo, che aveva in cura l'imprenditore, ha dichiarato nei giorni scorsi agli inquirenti. 

Le indagini della procura, che ha aperto un fascicolo con l'ipotesi tecnica di «istigazione al suicidio», si concentrano sempre di più sul lavoro a cui Ruffino ha dedicato tutta la vita. Quello in Sif Italia, leader nel settore dell'amministrazione degli immobili, e quello nella holding Visibilia, la società editrice di riviste come Novella 2000, in cui Ruffino era subentrato a seguito della gestione della ministra Daniela Santanchè, al centro di un'inchiesta per falso in bilancio e bancarotta fraudolenta e di procedimenti civili e fallimentari.

[…] Quale difficoltà lo abbia fatto sentire schiacciato, si sia sommata alle «tensioni e sofferenze accumulate negli ultimi anni che hanno saturato i miei spazi», come lui stesso ha scritto a penna in uno dei sei biglietti lasciati in casa prima di togliersi la vita. Quello destinato ai condomini a cui, scusandosi per il gesto, ha chiesto di non abbandonare la società, per cui lavorano «uomini e donne onesti».

Nei prossimi giorni, e con tutte le garanzie necessarie, le pm Maria Giuseppina Gravina (la stessa che indaga su Visibilia) e Daniela Bartolucci procederanno con la copia forense di cellulare, chiavette e dispositivi elettronici che gli investigatori della Squadra mobile, diretti da Marco Calì, hanno sequestrato nel trilocale di novanta metri quadrati in via Spadolini, in cui Ruffino viveva da solo, e dove si è ammazzato rivolgendo verso di sé una Beretta che da anni deteneva regolarmente per via di vecchie minacce ricevute da condomini. Riverso sul letto, con un cuscino ad attutire il colpo.

L'ultima chiamata nota, almeno per ora, è quella alla compagna che lo aspettava a San Teodoro, in Sardegna, per le vacanze. Lo aveva sentito molto abbattuto e si era preoccupata, avvisando anche il figlio più giovane, Mirko, che lavorava con lui e che in serata ha scoperto la tragedia. 

Nel primo pomeriggio Ruffino aveva già smesso di rispondere alle chiamate della famiglia. Ha vagato intorno a via Spadolini, al momento non si sa se ha incontrato o parlato con qualcuno. Forse solo qualche ora prima ha spedito le sue «disposizioni testamentarie» cui fa cenno nei biglietti lasciati ai figli.

A loro e alla compagna elenca anche altre istruzioni pratiche, come quelle relative al leasing di una Mercedes, mentre si scusa e chiede di essere dimenticato al più presto. Non c'erano grandi vizi nella vita di Ruffino, qualche piccola passione, come quella per le penne e gli orologi che collezionava, in passato l'impegno politico sempre nel centrodestra, vicino ai fratelli La Russa. Non c'era molto tempo per gli affetti. C'era soprattutto il lavoro […] . Tante attività in ballo. La vendita di un pacchetto importante di azioni, il 28%, di Sif Italia al fondo Oxy conclusa ai primi di maggio, i progetti futuri, la scalata in Visibilia, […]nonostante le indagini e le cause civili sulla precedente gestione. Con Ruffino, il titolo di Visibilia aveva ricominciato a crescere, prima della graduale perdita, a partire dal 14 luglio. E poi il crollo, dopo il suicidio.

Estratto dell'articolo di Rosario Di Raimondo milano.repubblica.it il 18 agosto 2023.

In meno di una settimana, tra il 9 e il 14 giugno, la Sif Italia guidata da Luca Giuseppe Reale Ruffino – l’imprenditore morto suicida il 5 agosto a Milano – ha comprato quasi 1,7 milioni di azioni di Visibilia, la società che lo stesso manager aveva rilevato dopo la gestione della ministra del Turismo Daniela Santanché e che stava cercando di risollevare nonostante i guai che l’hanno travolta negli ultimi anni. 

Vero è che al momento del maxi acquisto le azioni valevano appena 20 centesimi ciascuna (oggi il titolo è a 1,30 euro), e che quindi l’esborso è stato di poco più di 300mila euro, ma è un altro segnale che dimostra come il re delle amministrazioni condominiali continuasse a scommettere su una barca che solo pochi mesi prima stava per affondare.

La lente degli investigatori si concentra anche su questi nuovi documenti nell’ambito della ricerca di un movente che possa spiegare perché il sessantenne si è tolto la vita. 

Le comunicazioni al pubblico (“internal dealing”) pubblicate sul sito di Visibilia Editore solo a cavallo di Ferragosto si riferiscono a operazioni effettuate tra il 9 e il 14 giugno: in quel periodo, la Sif acquista 1 milione e 682 mila azioni. Ruffino e il suo colosso che gestisce condomini continueranno in realtà ad acquistare titoli anche fra il 3 e il 4 agosto, cioè nelle ore precedenti al suicidio del manager.

Il precedente 2 agosto era successa un’altra cosa: durante l’ultimo consiglio di amministrazione di Visibilia erano state affidate deleghe operative a un altro consigliere, Alberto Campagnoli. Una mossa a “sorpresa” secondo alcuni, tenuto conto del carattere decisionista di Ruffino. 

Un fatto sembra ormai chiaro: una parte delle risorse di Sif – il colosso guidato da Ruffino – andava verso Visibilia Editore, di cui lo stesso Ruffino era amministratore unico (nonché presidente della holding). E questo nonostante il core business delle due società fosse decisamente diverso: amministrazioni condominiali da una parte, giornali e riviste dall’altra.

[…] 

L’inchiesta per far luce sulla morte di Ruffino – seguita dalla pm Maria Giuseppina Gravina e dall’aggiunto Laura Pedio, che coordinano il lavoro della squadra Mobile guidata da Marco Calì – va avanti. Anche perché i punti interrogativi non mancano. A giorni è previsto un nuovo sopralluogo nell’appartamento dov’è stato trovato il manager. 

In particolare si analizzeranno le (tante) cicche di sigarette trovate in casa, anche per capire se qualcun altro sia entrato nell’abitazione: dai primi riscontri questa circostanza pare esclusa. L’analisi del cellulare e dei documenti societari – in campo c’è anche la Guardia di Finanza - servirà a scavare tra le ultime comunicazioni del manager. Per provare a rispondere a molte domande ancora senza risposta.

Estratto dell’articolo di Rosario Di Raimondo per repubblica.it martedì 22 agosto 2023.

Neppure il testamento che Luca Giuseppe Reale Ruffino ha firmato di suo pugno il 2 agosto spiega le ragioni del suicidio dell’imprenditore a capo di Sif Italia e Visibilia che si è tolto la vita con un colpo di pistola il 5 agosto nel suo appartamento al quattordicesimo piano di via Spadolini a Milano, tre giorni dopo aver scritto le sue ultime volontà. 

[…] Il testamento olografo è stato depositato ieri, 21 agosto. […] si tratta di poche righe con le sue ultime disposizioni. “Ma nulla aiuta a ricostruire l’evento”, viene spiegato. Il manager ha disposto che il suo patrimonio venga suddiviso tra i famigliari – dai figli all’ex moglie – e ha lasciato disposizioni anche in favore di una nipote e della compagna, la stessa donna che si era allarmata dopo averlo sentito al telefono nelle ore precedenti al suicidio. Nel testo non si parla di cifre: una valutazione patrimoniale dei beni mobili e immobili deve ancora essere fatta.

[…] Colpisce la data del testamento olografo: 2 agosto. Lo stesso giorno in cui Ruffino partecipa all’ultimo consiglio di amministrazione di Visibilia, durante il quale da un lato si anticipa al 31 agosto la “semestrale” sui conti della società scalata dal manager dopo la gestione della ministra del Turismo Daniela Santanché; dall’altro lato, secondo alcuni “a sorpresa”, quel giorno si decide anche di affidare deleghe operative ad altri consiglieri del cda. La scelta ricade sul geometra di 38 anni Alberto Campagnoli, che era entrato nella governance di Visibilia solo a giugno.

[…] Per le stesse fonti vicine alla famiglia, quel testamento scritto tre giorni prima fa pensare a una sorta di “premeditazione” del suicidio. Che rimane dal loro punto di vista ancora “inspiegabile” […]. 

[…] Nell’ambito dell’inchiesta […]  domani, 23 agosto, verrà effettuata la copia forense dei dispositivi elettronici che erano nella disponibilità del manager di 60 anni: il cellulare, il tablet e le chiavette usb. Un passaggio tecnico al quale poi seguirà l’esame del contenuto alla ricerca di possibili indizi che possano spiegare il gesto.

Finora l’autopsia ha escluso tra i fattori scatenanti una grave malattia che possa aver turbato Ruffino. Così come appare poco probabile la strada delle difficoltà economiche. La Sif Italia, colosso delle amministrazioni condominiali, andava bene. E l’imprenditore stava cercando di risollevare Visibilia, pur immersa in un vortice di guai. La sensazione di chi indaga […] è che se Ruffino aveva delle preoccupazioni, queste erano legate alla società dell’ex ministra di cui aveva assunto la guida formalmente dalla scorsa primavera, investendo risorse anche provenienti dal suo gioiello di famiglia, cioè la Sif. 

[…] Secondo indiscrezioni, al momento non è in discussione l’impegno di Sif dentro Visibilia. Lo scorso giugno la società ha comprato 1,7 milioni di azioni, e altre 40 mila sono state acquistate (anche personalmente da Ruffino) persino nei giorni immediatamente precedenti al suicidio del manager. In Borsa il titolo di Visibilia vola e come hanno notato diversi osservatori, questo slancio è diventato un caso: speculazione? Interessi ancora poco chiari? […]

Quelle strane manovre nell'inchiesta su Santanchè. La procura di Milano indaga su un tentativo illegale di un avvocato di acquisire le carte del caso Visibilia. Luca Fazzo il 9 Settembre 2023 su Il Giornale.

Quali manovre sotterranee stanno avvenendo intorno all'inchiesta della Procura di Milano su Daniela Santanchè e su Visibilia, la società fondata dal ministro del Turismo e da lei ceduta al momento di entrare al governo? Con quali obiettivi, nei mesi scorsi, qualcuno ha cercato di impadronirsi di carte segrete dell'indagine?

Sono queste le domande al centro del nuovo fascicolo aperto dalla stessa Procura milanese dopo un episodio dai contorni ancora oscuri ma decisamente inquietanti avvenuto nel luglio scorso, e trasformatosi strada facendo in una sorta di giallo politico-giudiziario. In sintesi, un avvocato milanese avrebbe cercato, falsificando la firma del ministro, di entrare in possesso delle carte che attestavano l'esistenza - in quel momento ancora non ufficiale - dell'indagine per falso in bilancio e concorso in bancarotta a carico della Santanchè. Il tentativo era stato condotto a totale insaputa della diretta interessata, ed è venuto alla luce quasi per caso. Ma da quel momento Marcello Viola, procuratore della Repubblica, la sua vice Laura Pedio e il pm Maria Gravina hanno deciso di vederci chiaro. Perchè dietro ci può essere di tutto: una operazione contro la Procura o contro la Santanchè o contro tutti e due, un tentativo di avvelenare le acque su una vicenda già al centro di roventi polemiche politiche, con le opposizioni intente a reclamare le dimissioni della titolare del Turismo e quest'ultima a protestare per le fughe di notizie a suo carico. Ad appesantire il clima arriva, il 5 agosto scorso, il suicidio per ora misterioso di Luca Ruffino, il manager che aveva rilevato il controllo di Visibilia.

Il nuovo giallo, quello che ha per protagonista l'avvocato milanese, prende forma all'inizio di luglio. Sono giorni convulsi. Il quotidiano Domani ha rilanciato con dovizia di nuovi particolari la notizia dell'inchiesta milanese sul crac Visibilia, la Santanchè risponde sia sui giornali che in Parlamento di non avere ricevuto alcun avviso di garanzia. Il ministro aggiunge di avere chiesto già in novembre alla Procura di Milano, in base all'articolo 335 del codice (che garantisce, salvo casi particolari, la trasparenza delle indagini) se risultava inquisita, e di avere ricevuto risposta negativa. Su questo dettaglio non irrilevante - sapeva o non sapeva, il ministro, di essere sotto inchiesta? - si apre una bagarre mediatica e politica. Ed è nel pieno della bagarre che arriva il fattaccio.

Sul tavolo della pm Gravina approda una nuova richiesta di accesso agli atti firmata dalla Santanchè. É una mossa che la pm segnala subito al procuratore Viola. Viola, vista la delicatezza della vicenda, si fa portare la richiesta. C'è la firma autografa del ministro, o così sembra. Ma il procuratore si insospettisce, si fa portare uno degli atti originali di Visibilia firmati sicuramente dalla Santanchè: la differenza salta agli occhi, inequivocabile, la firma sull'istanza è sicuramente apocrifa. A quel punto si passa a verificare l'indirizzo di posta elettronica da cui è partita l'istanza. É la mail di un avvocato milanese, membro di uno studio associato a pochi passi dal palazzo di Giustizia.

Sono ore delicate, in Procura. La sensazione, il timore che qualcosa di oscuro stia accadendo intorno all'indagine più delicata aperta in questo momento a Milano mette i pm all'erta. Esiste una sola ipotesi che sgonfierebbe il caso: che la firma sia stata scarabocchiata da qualcuno per fare in fretta, ma che il mandato sia davvero della Santanchè. Per verificarlo i pm hanno un solo modo: interrogare il ministro. Ma la sua apparizione in Procura scatenerebbe una ridda di notizie e di voci, alzando ulteriormente la tensione intorno al «caso Visibilia».

Così gli inquirenti decidono di interrogare il ministro a tarda sera, nel tribunale ormai deserto. É una sera della prima decade di luglio. La Santanchè si presenta senza avvocato, come persona informata sui fatti, senza sapere il tema dell'incontro. Quando le spiegano cosa è accaduto e le chiedono se aveva dato incarico al legale di presentare l'istanza, cade letteralmente dalle nuvole. La firma non è la sua, non conosce l'avvocato, non ha dato nessun incarico. Da quel momento per i pm la Santanchè diventa «persona offesa», vittima. E dare una soluzione al giallo diventa per la Procura un imperativo categorico.

Cosa voleva ottenere l'avvocato, e per conto di chi? Cosa lo ha spinto a infilarsi in un pasticcio pericoloso sia penalmente che deontologicamente? E, dettaglio non irrilevante, come aveva fatto a ottenere una copia della carta di identità della Santanchè, quella vera, allegata alla richiesta? Si attendono sviluppi.

Perquisito il legale che tentò di avere le carte di Visibilia. Luca Fazzo il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

Si infittisce il giallo, l'avvocato Guagliani è un tributarista Perché (o per conto di chi) chiese gli atti falsificando le firme?

Perquisito, indagato dalla procura, querelato da Daniela Santanchè: sull'avvocato milanese protagonista del «giallo» che ruota intorno al ministro del Turismo e al tentativo di acquisire illegalmente le carte segrete della inchiesta a suo carico della procura di Milano, si stanno concentrando una serie di guai. E insieme ai guai si concentra anche un grosso interrogativo per ora irrisolto: cosa ha spinto l'avvocato a cercare di impadronirsi degli atti dell'indagine, cosa cercava, per conto di chi? Domande cui sta cercando di dare risposta l'indagine della procura di Milano, coordinata dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal pm Maria Gravina: gli stessi magistrati che indagano sul caso Visibilia e che sono decisi a fare luce anche sul caso nato dalla scoperta - quasi fortuita - del tentativo di incursione del legale.

Venerdì sera, poche ore prima che l'esistenza dell'inchiesta venisse resa nota dal Giornale, la procura è partita all'attacco, mandando la Guardia di finanza a perquisire lo studio del legale. È una mossa che era in agenda da tempo, in attesa della autorizzazione da parte del giudice. Venerdì i pm rompono gli indugi e spediscono le fiamme gialle a fare irruzione nello studio del legale. Vista la delicatezza della vicenda, il pm Gravina assiste direttamente alla perquisizione, insieme - come prevede la legge - a un consigliere dell'Ordine degli avvocati.

E lì, nello studio, anzichè diradarsi il mistero si infittisce. Perché l'avvocato si chiama Danilo Guagliani, ha 48 anni, lo studio è in corso Lodi: non lontano dal tribunale, ma certo non un indirizzo prestigioso. Neanche lo studio lo è, e nemmeno lo è il curriculum di Guagliani, che si presenta come «tributarista», esperto «in ambito di sovraindebitamento». Uno dei tanti avvocati che non se la passano benissimo. Eppure è lui, all'inizio di luglio, nel pieno della bufera giudiziaria e politica scatenata dall'inchiesta su Visibilia, la società fondata dalla Santanchè, a confezionare una richiesta di accesso agli atti, inviata alla Procura accompagnata dalla firma falsa della Santanchè e dalla fotocopia vera della carta d'identità del ministro.

Quella istanza avrebbe messo Guagliani in possesso di documenti che in quel momento neanche la Santanchè aveva a disposizione. Sono i giorni in cui il ministro dichiarava pubblicamente di avere saputo dell'indagine a suo carico solo dalle notizie di stampa. Proprio per quello, come raccontato ieri dal Giornale, il procuratore Marcello Viola e i suoi pm controllano l'istanza con particolare attenzione, si insospettiscono per la firma, la confrontano con le firme autentiche della Santanchè acquisite durante le indagini, e si convincono di essere davanti a un falso tanto clamoroso quanto inquietante. Convocano la Santanchè alle nove di sera, nella Procura deserta. Il ministro trasecola, resta quasi choccata, spiega di non avere mai dato nessun incarico e di non avere mai conosciuto un avvocato di nome Guagliani. Da quel momento, la Procura si rende conto di avere per le mani una rogna potenzialmente esplosiva, un giallo da risolvere assolutamente.

Il nome di Guagliani viene immediatamente iscritto nel registro degli indagati, i reati ipotizzati a suo carico sono falso in atto pubblico e sostituzione di persona. La Santanchè, che dopo averla interrogata la Procura considera «persona offesa» della vicenda, deposita una querela nei confronti dell'avvocato milanese. Non è una mossa insignificante, il ministro parte all'attacco convinta che non può trattarsi di una vicenda di piccolo cabotaggio ma di una manovra politica ai suoi danni, un tentativo - per ora imperscrutabile - di avvelenare ulteriormente il clima intorno alla indagine Visibilia. Durante l'interrogatorio cui viene sottoposta, la reazione più allarmata il ministro la mostra quando apprende che alla istanza di accesso agli atti inviata in Procura da Guagliani c'è la copia della sua carta di identità, quella vera. É un documento che sta sempre nella sua borsetta. O in alcuni atti parlamentari. Da quel momento, la Santanchè si convince che l'operazione ha lei come obiettivo ed ha una matrice tutta politica.

Se così stiano davvero le cose, o se l'incursione illegale negli atti del caso Visibilia abbia una altra spiegazione, questo è quello che dovrà accertare l'indagine della procura milanese. Di certo c'è che il tentativo dell'avvocato Guagliani aveva quasi tutte le carte in regola per andare a buon fine, proprio perché accompagnato dalla fotocopia originale della carta di identità del ministro. Lo scrupolo dei pm ci ha messo lo zampino. E ora in qualche modo la verità verrà a galla.

Estratto dell'articolo di Fabio Pavesi per “Milano Finanza” martedì 12 settembre 2023 

Un altro tassello si aggiunge all’enigma della scalata, tenuta per molti messi occultata al mercato, su Visibilia da parte di Luca Giuseppe Reale Ruffino, suicidatosi nella notte tra il 5 e il 6 agosto scorso. Le cronache finora hanno sempre raccontato che i primi acquisti  di Ruffino delle azioni di Visibilia editore, posseduta e gestita fino a due anni fa dal ministro del Turismo Daniela Santanchè, risalirebbero a ottobre del 2022. 

Poche azioni all’inizio e poi direttamente e indirettamente tramite la sua quotata Sif Italia fino a raggiungere a fine luglio di quest’anno la quota del 71% del capitale.

Invece come ha scoperto Mf/Milano Finanza, consultando a ritroso i verbali delle assemblee annuali di Visibilia editore, Ruffino era già entrato nel capitale in tempi non sospetti.  Nell’assemblea della società del 23 luglio 2020 ecco comparire nel libro soci di Visibilia, Luca Reale Ruffino in persona con quasi 600 mila azioni pari al 10% del capitale. 

[…] figura il secondo socio del gruppo presieduto allora da Daniela Santanchè che tramite la sua Visibilia editore holding possiede il 26% della quotata.  Un socio forte quindi che non solo è dentro il capitale, ma presenta in quella assemblea una sua lista di minoranza per il rinnovo del Cda.

La lista Ruffino ottiene un eletto, Massimo Cipriani, che entra nel Cda, composto da Santanchè e il compagno Dimitri Kunz, come indipendente. Cipriani figura oggi tra i 6 indagati per falso in bilancio nell’inchiesta aperta dalla Procura di Milano nell’ottobre del 2022. 

Quindi Ruffino, al di là dell’affinità politica e della sua rete di relazioni con Fratelli d’Italia in Lombardia, in particolare con Romano La Russa e il deputato Osnato, non sarebbe sceso pesantemente in soccorso della traballante Visibilia, da cui Santanchè stava di fatto fuggendo liberandosi delle sue quote di capitale, nell’autunno dello scorso anno, ma conosceva e bene il ministro e la sua società già da tempo. 

Non si spiega altrimenti il suo investimento effettuato lungo il 2019 e che lo vede comparire come secondo azionista nei libri soci dell’assemblea del luglio 2020.  Assemblea che approva l’ennesimo bilancio in perdita della società. Con una perdita netta di 1,5 milioni e un margine industriale già in rosso per 800mila euro. Segno che i costi si mangiavano, come da canovaccio degli anni passati, tutti i ricavi.

Non solo ma Ruffino sa bene che Visibilia editore si trova nelle condizioni dell’art. 2446 del Codice Civile che impone di ripristinare il patrimonio eroso dalle perdite e che ha intaccato il capitale sociale per oltre un terzo. Situazione non certo semplice, con margini negativi, perdite e necessità di ricapitalizzare. 

Ruffino poi così come è comparso sparisce di nuovo o quanto meno scende sotto la soglia del 5% che va segnalata nel libro soci nelle assemblee. Di lui non c’è più traccia negli anni successivi fino al nuovo assalto di fine 2022. 

Tra l’altro quell’investimento del 10% nel capitale costerà caro all’imprenditore suicidatosi. Il prezzo delle azioni Visibilia crollerà almeno dell’80% nel corso dell’anno successivo al suo primo ingresso […]

L’enigma sull’affaire Ruffino-Visibilia-Santanchè si infittisce ancora di più. Perché un imprenditore avveduto che gestisce con Sif Italia quotata, un business con poco rischio come l’amministrazione di condomini e che fattura 8 milioni con 1,9 milioni di utili nel 2022 entra per ben due volte nel capitale di un gruppo che non ha mai fatto utili non produce margini positivi ed è sempre gravata da debiti? Una domanda che per ora non ha risposte razionali.   

Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" mercoledì 13 settembre 2023.

Delle due l’una. O in luglio non ha detto la verità al Parlamento la senatrice e ministra del Turismo Daniela Santanchè — quando ha giurato che fosse già in corso la regolarizzazione all’Inps della questione sollevata dalla dipendente di Visibilia Editore che denunciava l’indebita percezione della cassa integrazione a zero ore in periodo Covid, a dispetto di prestazioni effettivamente svolte su incarico della società nel medesimo arco temporale —, oppure è l’Inps ad attestare adesso una circostanza inesatta o non aggiornata: e, a occhio, è più probabile la prima eventualità, visto che — come constata ora la Guardia di Finanza — «l’Ufficio Vigilanza Ispettiva dell’Inps ha comunicato che, allo stato, non risultano regolarizzazioni (richieste o approvate) relative al periodo oggetto di indagine (2020/2022) afferenti alla questione Cig né da parte di Visibilia Editore spa né di Visibilia Concessionaria».

E certo non giova alla ministra la viva voce del suo compagno Dimitri Kunz, amministratore non intercettato dai magistrati ma registrato a sua insaputa il 12 novembre 2021 dalla responsabile relazioni istituzionali della società, Federica Bottiglione, che poi ha riversato la perizia giurata delle trascrizioni in un ricorso al Tribunale del Lavoro di Roma, a sua volta adesso confluito negli atti delle Fiamme Gialle allegati al parere con cui la Procura di Milano appoggia l’iniziativa di alcuni piccoli azionisti di Visibilia Editore […]

A proposito del ricorso indebito alla cassa integrazione, nelle registrazioni si sente dire a Kunz che «era una cosa tacita, dove comunque, come dire, c’era una... una... una ottimizzazione che andava bene agli uni agli altri... tutti a zero ore...»: anzi Kunz, pungolato dalla dipendente, evoca almeno altri sei lavoratori nelle stesse condizioni Cig.

Al punto che, in quella fase del 2021, Kunz esclude a Bottiglione la restituzione dei soldi pubblici indebitamente incassati, «è chiaro che non è che possiamo renderli all’Inps perché sarebbe come ammettere...». Bottiglione, che sta registrando, rimarca di volersi mettere a posto, e il compagno di Santanchè si irrita, «non lo puoi fare Federica, sennò metti nei casini tutti e fai un macello. Adesso noi ti tiriamo fuori dalla cosa e fine, finisce lì... L’unico modo per essere a posto è non fare casino, Fede (...) Per carità, te ti sei messa in regola eh... e però magari hai messo in difficoltà l’azienda, cosa che invece bastava ne parlassi con noi e non avremmo avuto problemi...». 

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “la Stampa” domenica 24 settembre 2023.

«Irregolarità nei bilanci», cassa integrazione Covid mentre i dipendenti continuavano a lavorare, mancato pagamento di Tfr e liquidazioni, aziende in «evidente stato di insolvenza». Accusa che la ministra al Turismo Daniela Santanchè, nel corso della sua informativa al Senato dello scorso 5 luglio, ha definito solo «ricostruzioni giornalistiche per creare collegamenti inesistenti, dubbi malevoli e odiosi sospetti», ma da tempo al centro di fascicoli di indagine aperti dalla procura di Milano in base agli accertamenti chiesti a Inps, Gdf e Consob. Sono tante le cose che la senatrice Daniela Santanchè dovrà spiegare ora, almeno alla premier Giorgia Meloni, nel corso di un incontro che - da quanto è trapelato - si terrà al termine del Cdm di lunedì.

Un chiarimento che si sarebbe reso necessario dopo che sul fronte Visibilia, la ministra ha ricevuto la richiesta proroga dell'inchiesta che ufficializza che - come da novembre 2022 scrivono i giornali - è indagata per falso in bilancio e bancarotta fraudolenta. Ma soprattutto dopo che, anche sul fronte Ki Group, i pm Maria Giuseppina Gravina e Luigi Luzi hanno respinto la richiesta di concordato semplificato proponendo invece la liquidazione giudiziale, il vecchio fallimento, di tre società del gruppo: la srl, la holding e Bioera. L'udienza si terrà il 2 novembre.

Partecipazioni nel colosso bio In Parlamento, Santanchè ha sostenuto di non aver «mai avuto il controllo o partecipazione di un qualunque rilievo nelle imprese del settore dell'alimentare biologico. La mia partecipazione in Ki Group srl non ha mai superato il 5 per cento». A smentirla sono i primi accertamenti e gli stessi dipendenti di Ki Group: non solo Santanchè sarebbe stata «ben presente in azienda almeno fino al 2022» ma attraverso Bioera (che ha presieduto fino a febbraio 2022) e «un patto parasociale» con l'ex compagno Canio Mazzaro avrebbe esercitato il controllo della società. Per di più intascando, a differenza di quanto sostiene, centinaia di migliaia di euro all'anno, come anticipato da Report, bilanci alla mano.

Quanto ai lavoratori licenziati o costretti a dimettersi, in Senato la ministra ha sostenuto che «il personale è fuoriuscito dall'azienda nel corso dell'anno 2023, quando io già da tempo non avevo alcun ruolo. Tuttavia ho chiesto informazioni e posso assicurarvi che i dipendenti saranno soddisfatti con riguardo a tutti i loro diritti». A parte il fatto che molte fuoriuscite risalgono invece al 2021, almeno 11 di questi dipendenti si sono rivolti al Tribunale per chiedere la liquidazione giudiziale dell'azienda con l'avvocato Davide Carbone: vantano cifre che vanno dai 30 agli oltre 100 mila euro a testa e non hanno ancora visto un euro.

Nel corso del suo intervento, la ministra - pur senza chiamarla per nome - è stata molto dura con Federica Bottiglione, ex investor relator di Visibilia, in cassa integrazione a zero ore «a sua insaputa» mentre la società continuava a fruire delle sue prestazioni. «Pur ritenendo le sue informazioni infondate e pur essendo certa che quella dipendente non ha messo piede in Visibilia dall'entrata della cassa integrazione, la società ha preferito sanare la sua posizione considerando la lavoratrice in servizio per tutto il periodo». 

A smentire Santanchè sono innanzitutto le registrazioni delle telefonate tra Bottiglione e il compagno e socio della ministra, Dimitri Kunz, trascritte in un'annotazione della Finanza: «Federica so' tutti a zero ore… Tutti… Non è che possiamo rendere i soldi all' dell'Inps, perché sarebbe come ammettere».

Per altro sembrerebbe vero che dei soldi siano stati inviati all'Inps. Denaro che non regolarizzerebbe però alcuna posizione in quanto sarebbe stato versato senza giustificativo - perché «sarebbe come ammettere…» - e dalla srl mentre «sono stata in cassa a zero ore da marzo del 2020 ad ottobre del 2021, mentre ero dipendente di Visibilia Editore spa - sottolinea Bottiglione - . Dopo averlo scoperto, a novembre 2021, mi hanno tolto dalla cassa e trasferito nella srl fino al licenziamento». 

La presunta truffa «Sono stata accusata giornalisticamente addirittura di truffa ai danni dello Stato», sottolinea ancora Santanchè, spiegando che oltre a Bottiglione «nessun altro dipendente si è lamentato». In effetti, nel fascicolo aperto dai pm, i primi nomi nel registro degli indagati saranno iscritti solo dopo un incontro che si terrà a breve con i dirigenti dell'Inps. […], tra Visibilia Editore e Visibilia Concessionaria, erano in tutto tredici i lavoratori in cassa tra il 2020 e il 2021, per un importo complessivo di 126.468,60 euro di fondi pubblici erogati e un totale di 12.019 ore di cassa. Dalle telefonate registrate da Bottiglione emergerebbe che almeno altri due colleghi, oltre a lei, avrebbero lavorato mentre l'azienda usufruiva degli ammortizzatori sociali. […]

Visibilia, il mistero sul suicidio di Ruffino. Spunta l'ipotesi aggiotaggio, ma non spiega il gesto. Ronzulli: "Assoluta fiducia in Santanchè". Luca Fazzo il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Non c'è pace neanche da morto per Luca Ruffino (nel tondo), l'imprenditore milanese trovato suicida nella sua casa il 5 agosto scorso. A spingere la Procura milanese a scavare a fondo sulle cause del tragico gesto è soprattutto l'ipotesi che a spingere l'uomo a farla finita ci fossero elementi legati al dissesto di Visibilia, la società del ministro Daniela Santanchè che Ruffino aveva rilevato al momento dell'ingresso della fondatrice nel governo Meloni. Uno scrupolo investigativo inevitabile, ma che sta portando i pm a scavare nella vita di un uomo non più in grado di difendersi.

Così nel fascicolo di inchiesta per istigazione al suicidio condotto dai pm Laura Pedio e Maria Gravina fa ora ingresso il materiale raccolto da un altro pubblico ministero, Giovanna Cavalleri, che indagava su Ruffino per tutt'altra vicenda. Secondo quanto reso noto dalla Stampa.it, al momento della morte il manager era nel mirino della Guardia di finanza in base a una Sos (Segnalazione di operazione sospetta) partita dalla Banca d'Italia, relativa ad operazioni compiute in Borsa su Sif, la società di amministrazioni immobiliari creata da lui e divenuta un colosso del settore. Secondo la Sos, Ruffino avrebbe acquistato azioni della società che superavano la soglia oltre la quale scatta l'obbligo di segnalazione alla Consob. La segnalazione non avvenne, e gli inquirenti - dopo avere ricevuto il rapporto delle «fiamme gialle» - avevano iscritto Ruffino nel registro degli indagati con l'accusa di aggiotaggio.

Il procedimento ora è destinato all'archiviazione «per morte del reo», ma viene di fatto tenuto aperto attraverso il passaggio degli atti nell'indagine sul suicidio. Ipotizzare che tra i moventi del gesto di Ruffino ci fosse l'indagine per aggiotaggio è reso difficile sia dalla modesta entità del reato che dal fatto che (per quanto se ne sa finora) l'imprenditore neanche sapeva di essere sotto inchiesta. Ma la Procura dovrà scavare anche in questa direzione: anche perchè per il resto la decisione dell'uomo continua a essere in cerca di spiegazioni convincenti.

Motivi sufficienti per una scelta così drastica non vengono neanche dagli accertamenti che la Procura sta compiendo sugli atti compiuti da Visibilia dopo l'entrata in scena di Ruffino. L'attenzione si è concentrata sul bilancio 2022, approvato dal consiglio d'amministrazione il 7 marzo 2023, quando il passaggio di consegne era già avvenuto. Anche quel bilancio, secondo la Procura, era viziato da una sopravvalutazione dei crediti e dei beni della società. Ma anche in questo caso si tratta di ipotesi di reato ancora tutte da dimostrare, e da cui Ruffino avrebbe potuto cercare di scagionarsi anzichè scegliere di uscire di scena. Il mistero continua. Mentre sul destino del ministro Santanchè arrivano le parole del capogruppo di Fi, Licia Ronzulli: «Siamo sempre stati garantisti, quindi fino al terzo grado di giudizio Santanchè è innocente. Tra l'altro, è accusata di cose che nulla hanno a che fare con la sua attività di ministro, quindi da parte di Forza Italia c'è assoluta fiducia».

NON SONO UNA SANTA Report Rai domenica 8 ottobre 2023 Di Giorgio Mottola

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso 5 luglio, mentre interveniva al Senato per rispondere alla nostra inchiesta, la ministra Santanché aveva assunto un impegno solenne di fronte all’aula.

DANIELA SANTANCHÈ – SENATO DELLA REPUBBLICA - 05/07/2023 E posso comunicarvi che i lavoratori dipendenti della Ki Group Srl verranno integralmente soddisfatti con riguardo a tutti i loro diritti di credito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le ex dipendenti della sua azienda, presenti in aula ad ascoltare il suo intervento, avevano accolto la notizia con un certo sollievo pensando di poter finalmente ricevere la liquidazione attesa da più di un anno.

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP E questo ci rallegra, nel senso che se noi alla fine riusciamo ad avere i nostri Tfr di sicuro è grazie a Report, in primis ci fa ben sperare nel rivedere più in fretta i nostri soldi, che comunque son soldi, ragazzi, che ci siamo guadagnati e meritati con tanto lavoro, insomma.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sembrava, insomma, un perfetto finale del tipo “e tutti vissero felici e contenti”. E così a tre mesi dalle promesse della ministra, siamo tornati a trovare una delle sue ex dipendenti sperando di avere buone notizie

GIORGIO MOTTOLA Durante il suo intervento in Senato Daniela Santanchè aveva promesso che la vostra liquidazione sarebbe stata pagata di lì a breve. È successo?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Non è successo. Siamo in attesa della sentenza del giudice fallimentare. Stiamo cercando di capire se l’azienda verrà dichiarata fallita.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bene anzi male. Probabilmente a risarcire poi, nonostante le promesse della Ministra in Senato, sarà lo Stato. I magistrati hanno chiesto il fallimento di Ki Group e Bioera delle quali, ricordiamo, la Ministra aveva importanti quote di controllo ed era stata anche presidente. I magistrati proprio in questi giorni hanno respinto la proposta di concordato semplice perché ritengono non sia fattibile. Hanno anche scritto che Ki Group avrebbe compiuto importanti omissioni nei confronti dei creditori. Per quello che riguarda Visibilia invece, i magistrati di Milano stanno procedendo con l’ipotesi di reato di bancarotta fraudolenta e falso in bilancio. Però, proprio alla fine di luglio, hanno aperto un altro fascicolo contro ignoti, ipotesi di reato, truffa ai danni dello Stato. E nasce proprio in seguito a un’intervista che una dipendente, Federica Bottiglione, ha rilasciato a Report e dove denunciava di aver lavorato per Visibilia mentre era in cassa integrazione a zero ore. Ora, la Ministra in Senato ha detto che questo non le risultava e che comunque la situazione era stata sanata. Però, gli audio inediti che ha recuperato il nostro Giorgio Mottola mostrerebbero una realtà diversa e probabilmente la Bottiglione non era l’unica dipendente a lavorare in quelle condizioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dal 2012 al 2022, Daniela Santanché è stata ai vertici di Ki Group, l’azienda un tempo leader del settore biologico, ricoprendo in diverse fasi il ruolo di presidente all’interno dell’azienda o della sua controllante: Bioera. In questi anni Ki Group ha accumulato debiti nei confronti di dipendenti, fornitori e Stato italiano per oltre 12 milioni di euro. Allo scopo di evitare il fallimento, la società ha presentato un piano di concordato per risarcire tutti i creditori. E pochi giorni fa i magistrati della Procura di Milano hanno fornito il loro parere sulla realizzabilità del piano.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Nel loro parere in merito alla proposta di concordato di Ki Group, dicono che non ha alcun senso nella sostanza perché non ci sono gli elementi che possano far ipotizzare la possibilità da parte di Ki Group di pagare i creditori ancorché in maniera ridottissima.

GIORGIO MOTTOLA E quindi che cosa accade?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO La procura chiede il fallimento di Ki Group.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella proposta presentata da Ki Group al Tribunale fallimentare di Milano, l’azienda assicurava di poter far fronte a tutti i debiti indicando come garanzia la propria controllante Bioera, l’holding che viene rilevata nel 2010 da Canio Mazzaro, ex compagno di Daniela Santanché e che è stata gestita per oltre 10 anni insieme alla Ministra con un patto parasociale.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO La proposta concordataria di Ki Group era basata quasi esclusivamente sull’intervento futuro di Bioera che avrebbe dovuto dare soldi, sostegno, eccetera eccetera. In realtà Bioera è in stato di insolvenza, non ce la può fare a garantire neppure sé stessa. E quindi gli stessi pm, in sede di parere, dicono “no, deve fallire Ki Group e deve fallire anche Bioera”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Siamo dunque a un passo dal fallimento di Ki Group. Lo Stato italiano rischia di rimetterci subito 2,7 milioni di euro, che è la cifra prestata da Invitalia all’azienda durante il Covid. Ma non sono gli unici soldi pubblici che i contribuenti potrebbero essere costretti a sborsare per Ki Group.

GIORGIO MOTTOLA Qualora Ki Group fallisse, ecco, che cosa accadrebbe alla vostra liquidazione?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Esiste questo fondo di garanzia dell’Inps, per cui il nostro Tfr verrà pagato da questi fondi di garanzia.

GIORGIO MOTTOLA Quindi chi paga?

MONICA LASAGNA – EX DIRETTRICE COMMERCIALE KI GROUP Quindi pagano i contribuenti. Cioè sostanzialmente, noi ci pagheremo insieme a tutti gli altri italiani i nostri soldi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Al Senato tre mesi fa la ministra Santanché aveva offerto ampie garanzie anche sull’altra sua società, Visibilia. Assicurando che le difficoltà finanziarie del suo gruppo sarebbero state risolte in modo brillante molto presto.

DANIELA SANTANCHÈ – SENATO DELLA REPUBBLICA ITALIANA - 05/07/2023 Vi assicuro che il mio progetto di ristrutturazione è molto più virtuoso di altre aziende nelle stesse condizioni.

GIORGIO MOTTOLA Al Senato, Daniela Santanchè aveva promesso una ristrutturazione esemplare. Si è verificata?

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA DI MINORANZA VISIBILIA Assolutamente no. La condizione finanziaria della Visibilia si è anche aggravata come è stato poi dichiarato in maniera chiara dall’avvocato del collegio sindacale attuale, che ha dichiarato che per il 2024 la società non ha i fondi per continuare a stare in piedi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’attuale dirigenza di Visibilia la procura di Milano ha suggerito di far fronte alle difficoltà finanziare, chiedendo i soldi alla precedente proprietà, vale a dire Daniela Santanché. La quale ha messo a garanzia dei debiti della società la sua casa di Milano che ha fatto valutare 6 milioni di euro.

GIUSEPPE ZENO – AZIONISTA DI MINORANZA VISIBILIA Sembrerebbe essere stata messa a garanzia di molteplici debiti della signora; quindi, questa casa non si sa a quanti debiti deve fare fronte. Ricorda un po’ come il paltò di Napoleone nel film Miseria e Nobiltà nel quale Totò, dovendo comprare qualcosa da mangiare vorrebbe mettere a garanzia questo paltò per ottenere poi il vino di Gragnano, la mozzarella, le salsicce e il sigaro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su Visibilia pesa anche un’altra accusa molto grave: truffa ai danni dello Stato. Come abbiamo denunciato durante la nostra inchiesta, una dipendente avrebbe lavorato a tempo pieno per l’azienda della Ministra, nonostante fosse in cassa integrazione a zero ore.

DANIELA SANTANCHÈ – SENATO DELLA REPUBBLICA - 05/07/2023 Di fronte alla contestazione tardiva della dipendente sulla cassa integrazione, pur ritenendo le sue affermazioni infondate e pur essendo io certa che quella dipendente non ha mai messo piede in Visibilia dall’entrata della sua cassa integrazione, la società ha preferito sanare la posizione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Al Senato Daniela Santanché aveva garantito che la posizione della dipendente fosse stata regolarizzata. E la Procura di Miano che indaga sulla vicenda ha chiesto un riscontro all’Inps. Questa è la risposta che ha ricevuto. L’abbiamo fatta leggere alla dipendente, Federica Bottiglione

GIORGIO MOTTOLA Allora? FEDERICA BOTTIGLIONE - EX DIPENDENTE VISIBILIA A quanto leggo qui la mia posizione non è stata sanata a differenza di quanto dichiarato in altre sedi. Io ero molto contenta di questa notizia, invece questo documento dice chiaramente che la mia posizione non è stata sanata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’Inps fa sapere che da Visibilia è arrivato un bonifico di 23mila euro per coprire la posizione contributiva della dipendente. Ma tale versamento è stato fatto senza seguire le procedure obbligatorie, che in questi casi prevedono innanzitutto un’ammissione di colpa da parte società. Ma come si legge nella dichiarazione di Visibilia che accompagnava il bonifico, pur pagando il dovuto alla Bottiglione, con ciò non si intendeva riconoscere le proprie responsabilità.

FEDERICA BOTTIGLIONE - EX DIPENDENTE VISIBILIA Questo è anche quanto mi ha detto appunto l’Inps dicendomi “signora la sua posizione si può sanare solo se il datore di lavoro oggi ammette di aver mentito ieri”.

GIORGIO MOTTOLA E questo non lo ha fatto Visibilia…

FEDERICA BOTTIGLIONE - EX DIPENDENTE VISIBILIA Questo documento riporterebbe chiaramente scritto che non l’ha fatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma a questo punto anche l’Inps ha voluto vederci più chiaro. E dai controlli è emerso che Federica Bottiglione non è stata l’unica dipendente di Visibilia ad aver lavorato nonostante fosse in cassa integrazione a zero ore e quindi pagata dalla Stato. Una situazione di illegalità di cui sarebbe stato pienamente a conoscenza anche l’allora amministratore di Visibilia, il sedicente principe Dimitri Kunz, fidanzato di Daniela Santanché. La prova ne sarebbe in questa telefonata tra Kunz e la dipendente che Report è in grado di farvi ascoltare in esclusiva.

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Però non è come scrivi tu nella mail perché son tutti come te, eh.

FEDERICA BOTTIGLIONE - EX DIPENDENTE VISIBILIA No, non è vero, non è vero, ti assicuro. Ti assicuro. Allora, di Visibilia editore…

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Tutti. Sono in cassa integrazione tutti. Tutti a zero ore, mi conferma Paolo che sono tutti a zero ore. Anche Maggioni, è qui davanti a me Maggioni, è a zero ore.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E il dipendente di Visibilia chiamato in causa interviene direttamente nella telefonata e, davanti a Kunz, conferma candidamente di aver lavorato mentre era in cassa integrazione a zero ore.

FRANCESCO MAGGIONI – EX DIPENDENTE VISIBILIA Il problema ce l’ho io, nel senso che se domani mi inizia un controllo, vieni qua e ti fa vedere il computer che hai lavorato da aprile 2020, maggio, giugno, eccetera... evitiamo... se venisse fuori un controllo. Perché́ dobbiamo essere anche sfigati... che cosa ti devo dire?

DIMITRI KUNZ – EX AMMINISTRATORE DELEGATO VISIBILIA Ma se ti autodenunci e poi dopo anche l’azienda, anche noi dobbiamo difenderci... Cioè, poi dopo ci mettiamo l’uno contro l’altro... in maniera sbagliata... tutto lì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Da questo audio inedito abbiamo capito che la Bottiglione probabilmente non è stata l’unica dipendente a lavorare per Visibilia quando era in cassa integrazione a zero ore. Solo che è stata l’unica ad avere il coraggio di denunciare e però poi dopo non ha più lavorato. Quindi se qualcuno dovesse aver bisogno di una dipendente onesta e coraggiosa, lei è là. Mentre gli altri si auguravano che non scaturissero da quella denuncia delle ispezioni. Che ora però ci saranno perché i magistrati hanno accolto la richiesta dei piccoli azionisti che hanno visto nel tempo, erodere il valore delle loro azioni. Soprattutto quando è intervenuto con un finanziamento un misterioso fondo arabo con sede a Dubai: il fondo Negma. Insomma, ha finanziato per tre milioni di euro un prestito obbligazionario convertibile; però gli è stato concesso di poter convertire quando volevano in quote e azioni. Insomma, questo è stato un bene per loro perché hanno potuto incassare una plusvalenza di circa 600 mila euro a fronte di un finanziamento di tre milioni. Mentre gli azionisti hanno visto erodere il valore delle loro azioni del 98%. E in questo caso, proprio del fondo Negma, è emersa la figura di Ignazio La Russa che da una parte, come studio legale, era il consulente di Visibilia, dall’altra era lo studio che tutelava l’immagine e l’onore del fondo Negma. Quel La Russa che è il tutor politico di Daniela Santanchè – ha cominciato proprio con lui proprio come assistente – e poi è stata anche assessore al turismo nel paesino di Ragalna. Ragalna è un paesino che è vicino Paternò, dove La Russa si reca per passare le sue vacanze da oltre cinquant’anni. Nel 2003 vive una crisi politica e viene data la delega al Turismo proprio alla Santanchè che ha un’idea brillante: quella di costruire un centro, un villaggio di lusso proprio alle pendici dell’Etna. Insomma, una sorta di Twiga dell’Etna: insomma, l’ha presentato anche con un plastico, non si è mai realizzato, però è tornato a parlarne proprio in questi giorni in occasione della Giornata Mondiale del Turismo a Palermo. Insomma, e poi è certo che la Santanchè dalle parti di Paternò può vantare delle sponde politiche formidabili. Paternò, che è la città dove ha origine il potere della famiglia La Russa.

Andrea Delmastro Delle Vedove.

Delmastro e Davigo, le differenze tra i politici e i magistrati: due pesi e due misure. Rivelazione del segreto d’ufficio: il sottosegretario alla giustizia Delmastro non poteva non conoscere la legge, i Pm Davigo e Cascini invece sì. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 7 Dicembre 2023

A differenza dei politici, i magistrati possono anche non conoscere le leggi. Questo singolare “doppio binario” ha riguardato da un lato il meloniano sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro e dall’altro gli ex togati del Csm Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra, tutti indagati per rivelazione del segreto d’ufficio. Nel caso di Delmastro, a proposito delle conversazioni in carcere dell’anarchico bombarolo Alfredo Cospito, poi consegnate a Giovanni Donzelli, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, la Procura di Roma ne aveva chiesto l’archiviazione ritenendo che se pur fossero coperte dal segreto il sottosegretario non lo aveva percepito, trattandosi di questione giuridica complessa che poteva essere evidentemente compresa soltanto dagli addetti ai lavori. Il gip Emanuela Attura, rilevando che Delmastro è avvocato penalista, pertanto tenuto a conoscere la legge, ne aveva invece disposto l’imputazione coatta, con il risultato che ora il sottosegretario si trova a dibattimento.

In maniera opposta, ma per fattispecie simile, si è proceduto nei confronti di Marra e Cascini, il primo appartenente alla corrente di Autonomia&indipendenza che si riconosceva in Piercamillo Davigo, ed il secondo leader indiscusso della corrente di sinistra Area, dopo essere anche stato segretario nazionale dell’Anm. I due erano venuti a conoscenza ed in possesso dei verbali degli interrogatori, coperti dal segreto istruttorio, resi a Milano dall’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla Loggia Ungheria, sulla quale proprio in questi giorni il giudice milanese Guido Salvini ha disposto ulteriori indagini. Bene, nel caso di Marra e Cascini ciò che è stato ritenuto per Delmastro non vale. I due illustri magistrati, infatti, sarebbero stati archiviati, secondo quanto riportato ieri da Il Fatto Quotidiano giornale sempre bene informato su questi temi, il primo dalla Procura di Roma e il secondo da quella di Perugia, perché non si sarebbero resi conto, vigendo una “normativa poco chiara” della “sussistenza di un segreto investigativo”, se tale segreto fosse vigente anche per i consiglieri del Csm.

E sempre secondo quanto riportato dal giornale di Marco Travaglio, tale mancata conoscenza della “normativa poco chiara” avrebbe riguardato anche il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Tutte le normative del Paese – purtroppo – sono “poco chiare”, da quelle che disciplinano le costruzioni abusive, a quelle che disciplinano lo smaltimento dei rifiuti o l’inquinamento delle acque o il settore venatorio o la circolazione stradale dei veicoli a motore. Tutte e senza distinzione alcuna, ma mai i giudici pervengono a conclusioni assolutorie perché sono tenuti a conoscere la legge dei settori nei quali operano. Tutti. A meno che non si tratti dei consiglieri del Csm. Paolo Pandolfini

Caso Andrea Delmastro, ecco le carte: da Roma pressavano per avere notizie su Cospito. Redazione Politica  l'1 Dicembre 2023 su Il Corriere della Sera.

Il verbale della Polizia penitenziaria: alla vigilia dell’intervento di Donzelli alla Camera, del 31 gennaio, il capo del Dap «ha telefonato» per chiedere «un appunto su Cospito, con urgenza». Una richiesta cui seguirono «continue sollecitazioni: l’ho fatta partire a mezzo motociclista, poi ci hanno chiesto l’invio via computer»

«In quanto deputato ritenevo che Donzelli avesse diritto a ricevere informazioni che erano contenute in una relazione a divulgazione limitata ma non segreta. Per me la “limitata divulgazione” riguarda la catena del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr ) ma non ha efficacia nei confronti del decisore politico... Non ho detto a Donzelli che c’era la clausola di “limitata divulgazione” perché per me non c’era nessun segreto».

È il cuore della difesa del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, affidata al verbale d’interrogatorio redatto davanti ai pm di Roma il 17 febbraio scorso, quando già era indagato per violazione di segreto a proposito delle notizie fornite al suo collega di partito Giovanni Donzelli sui colloqui con alcuni detenuti di mafia e camorra dell’anarchico Alfredo Cospito (visitato in quei giorni da quattro deputati del Pd durante il suo sciopero della fame). Notizie contenute in un’informativa redatta dagli agenti del Gom che nel penitenziario di Sassari sorvegliano i detenuti al «carcere duro», sulla quale — alla vigilia dell’intervento di Donzelli nell’aula di Montecitorio del 31 gennaio — si registrò un’improvvisa fretta di trasmissione a Roma.

Come ha raccontato ai pm l’allora capo del Gom, Mauro D’Amico: «La sera della domenica 29 gennaio mi ha telefonato il dottor Russo (capo del Dap, ndr ) dicendomi che era necessario redigere un appunto su Cospito poiché avrebbe dovuto inviarlo in via Arenula (sede del ministero della Giustizia, ndr ) con urgenza».

L’indomani dal Dap giunsero altre sollecitazioni: «Continuavano a premere per ottenere la relazione... L’ho fatta partire in “riservato” a mezzo motociclista. Mentre il motociclista partiva, le chiamate della segreteria generale insistevano, sino a che non hanno richiesto la trasmissione in word».

A quel punto D’Amico ha inviato una e-mail al Dap: «Il plico cartaceo è partito con la modalità “riservato” per proteggere il personale che aveva relazionato dai vari istituti, e la nota con e-mail in modalità “limitata divulgazione”».

La fretta con cui il Dap ha acquisito le carte poi trasmesse a Delmastro è uno degli elementi che hanno convinto il giudice a ordinare il processo per il sottosegretario, nonostante la richiesta di proscioglimento dei pm.

Che nell’interrogatorio gli hanno chiesto se avesse mai dato ad altri deputati informazioni «a limitata divulgazione». Risposta: «Non lo posso escludere».

Il parere. Delmastro deve dimettersi perché ha utilizzato carte di limitata divulgazione per colpire parlamentari d’opposizione. Walter Verini su Il Riformista l'1 Dicembre 2023

Nel “Si&No” del Riformista spazio al caso Andrea Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia del governo Meloni rinviato a giudizio per violazione di segreto d’ufficio sul caso Cospito. Deve dimettersi? Favorevole Walter Verini, senatore del Partito Democratico, secondo cui Delmastro deve dimettersi perché “fornì carte di limitata divulgazione per colpire parlamentari d’opposizione“. Contrario Roberto Giachetti, deputato Italia Viva che ribatte: “No alle dimissioni perché si consegnerebbero ancora una volta le sorti della politica nelle mani dei pm”.

Qui il commento di Walter Verini:

La posizione del Sottosegretario Delmastro era grave dalla fine del gennaio scorso ed è diventata insostenibile dopo il rinvio a giudizio per violazione di segreto d’ufficio. Al di là di quello che sarà l’esito del procedimento penale, il “reato” più grave da lui commesso è politico-istituzionale. Un Sottosegretario di Stato ha usato la sua posizione, le sue deleghe per fornire al suo compagno di partito e di abitazione Donzelli (anche membro del Copasir) delle carte o comunque delle informazioni di limitata divulgazione, come ebbe a dire in Parlamento il Ministro Nordio, per coprire lo stesso sottosegretario. E fornì a Donzelli quella documentazione per colpire parlamentari di opposizione. E l’altro ieri la GUP ha attestato che “Delmastro ben sapeva che Donzelli avrebbe utilizzato le notizie per un intervento alla Camera dei Deputati”.

Una cosa gravissima, insomma, che rivela assenza di senso dello Stato e di decoro istituzionale. Oggi Delmastro, con sprezzo del ridicolo, rivendica di avere divulgato il materiale per combattere mafie e terrorismo all’assalto del 41 bis. La verità, invece, è che a questi signori della destra manca il coraggio. O meglio, vorrebbero far passare per coraggio quella che è solo arroganza del potere.

Ero uno dei quattro parlamentari che andarono a verificare le condizioni di salute di Cospito. Lo facemmo dopo un appello di una ventina di personalità che avvertivano il rischio che un detenuto morisse nelle carceri. Vedete, noi quattro parlamentari, come altri, siamo stati decine e decine di volte nelle carceri italiane. Ci siamo occupati – Orlando anche da Guardasigilli – delle condizioni dei detenuti, delle carceri. È un dovere, una prerogativa. Se si viene a sapere che un detenuto rischia di morire è dovere cercare di capire e intervenire. Nessuna persona sotto la custodia dello Stato dovrebbe morire.

E se questa persona era Cospito, c’era un motivo aggiuntivo, legato al fatto che la sua morte avrebbe potuto rappresentare un innesco esplosivo dentro le carceri e dentro il mondo degli anarco-insurrezionalisti. Per questo all’uscita dal carcere di Bancali, quel 12 gennaio, chiedemmo a Nordio di trasferire Cospito in un carcere con 41bis ma dotato di un adeguato centro clinico. Nordio oppose un silenzio poco responsabile, salvo procedere un mese dopo al trasferimento. Un mese di polemiche, di tensione politica e parlamentare, provocata dall’uso cinico e strumentale di questa missione fatto da Delmastro e Donzelli, dai giornali di questa destra. Ci chiamarono amici dei terroristi e dei mafiosi. Diedero una prova di un uso disinvolto e cinico del potere, tipico di quella destra che non riesce purtroppo ad emanciparsi da una mancanza di cultura autenticamente costituzionale. Nordio coprì quelle condotte. Lo stesso fece la Meloni, che per l’ennesima volta non volle allora e non vuole, non può, non sa oggi prendere seriamente le distanze da comportamenti e pratiche che poco hanno a che vedere con quella disciplina e onore che dovrebbe caratterizzare l’esercizio del mandato al servizio dello Stato. Per questo abbiamo chiamato Nordio a rispondere in aula sui motivi di questa copertura e sui nuovi scenari delineati dal rinvio a giudizio.

E lo abbiamo chiamato anche perché, nell’occasione, venga a spiegarci come davvero intende tutelare l’indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri. Messi sotto attacco dai dossieraggi verso Magistrate come la Apostolico, da pesanti attacchi e allusioni da parte di Ministri come Crosetto, da ispezioni annunciate come clave da Nordio nei confronti di atti di uffici giudiziari, sul merito di quegli atti, e non su eventuali disfunzioni, gravi lacune, e così via.

In questa vicenda ci sono infine paradossi. Come quello che ha visto per due volte la Procura chiedere l’archiviazione di Delmastro, negando l’elemento soggettivo del reato. La Procura! E sono state due Magistrate giudicanti a opporsi. La prima con l’imputazione coatta. La seconda con il rinvio a giudizio.

Checché ne dica il sottosegretario Fazzolari, forse “inusuale” poteva essere la richiesta della Procura. E comunque la vicenda spazza via la vulgata di uffici giudicanti succubi delle Procure. E di inusuale potrebbe esserci anche il fatto che alla magistratura Emanuela Attura, che decise per l’imputazione coatta di Delmastro, dopo poco tempo sia stata tolta la scorta. A lei, magistrata più volte minacciata dai Casamonica. Attendiamo ancora chiarimenti dal Ministro Piantedosi. Ecco, questi sono tanti motivi per i quali pensiamo che Delmastro non debba più ricoprire quel delicato incarico, gestire quelle delicate deleghe. Con coraggio, magari senza attendere la giusta ed opportuna mozione di sfiducia annunciata dal PD alla Camera. Avviandosi a firmare le dimissioni dall’incarico, magari pronunciando una frase a lui certamente cara: “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi…”. Walter Verini

Delmastro non deve dimettersi, populismi di destra e di sinistra consegnano politica ai pm. Roberto Giachetti su Il Riformista l'1 Dicembre 2023

Nel “Si&No” del Riformista spazio al caso Andrea Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia del governo Meloni rinviato a giudizio per violazione di segreto d’ufficio sul caso Cospito. Deve dimettersi? Favorevole Walter Verini, senatore del Partito Democratico, secondo cui Delmastro deve dimettersi perché “fornì carte di limitata divulgazione per colpire parlamentari d’opposizione“. Contrario Roberto Giachetti, deputato Italia Viva che ribatte: “No alle dimissioni perché si consegnerebbero ancora una volta le sorti della politica nelle mani dei pm”.

Qui il commento di Roberto Giachetti:

Quando ho sentito il sottosegretario Delmastro Delle Vedove tuonare “io non mi dimetto perché sono innocente” ho pensato tra me e me: ma chi te lo chiede! Mi sono illuso… Pochi minuti e sono arrivate svariate richieste di dimissioni. Ora che i Cinque stelle per un rinvio a giudizio chiedano le dimissioni non mi stupisce, anzi la considero una ovvietà, fatico ad abituarmi all’idea che ormai anche per il Partito democratico la piega giustizialista sia diventata la stella polare.

Dunque ancora una volta si decide di consegnare nelle mani dei magistrati le sorti della politica. Sarebbe fin troppo banale rilevare che un rinvio a giudizio sia solo la fase iniziale di un procedimento giudiziario e che la nostra Costituzione considera non colpevole qualunque persona fino a sentenza definitiva. E non voglio neanche troppo sottolineare che la legittima scelta del gup sia in netto contrasto con le richiese del pm, segno quanto meno di una forte incertezza sul piano giudiziario.

Quello che rileva tristemente in questa richiesta è, ancora una volta, la incapacità di una consistente fetta della classe dirigente di questo paese di scegliere la scorciatoia giudiziaria per la battaglia politica. E quando parlo di classe dirigente mi riferisco solo a cinque stelle, pd e sinistra e verdi che oggi sono in prima linea per chiedere le dimissioni di Delmastro delle Vedove, ma anche agli stessi sodali del sottosegretario (e dei giornali che a lui fanno riferimento) oggi messo sulla graticola che, per fare un esempio, a parti invertite, solo qualche mese fa si sono accaniti contro, fino a quasi il linciaggio pubblico, Aboubakar Soumahoro per una vicenda giudiziaria, anch’essa solo all’inizio, che non lo ha mai investito direttamente. Conterà poco per la pubblicistica e la platea casta dei giustizialisti ma noi siamo diversi. Quanto è semplice per noi, con quale serenità ci troviamo a reagire, difronte a situazioni di questo tipo. Quanto ci aiuta una sorta di automatismo culturale nel ragionare sulla base di una concezione giuridica che prescinde dal caso in specie, e dal soggetto che è investito dalle polemiche, sia esso amico o avversario, nel prendere una posizione tanto serena quanto determinata.

La nostra diversità dai populisti di destra e di sinistra, dai giustizialisti di destra e di sinistra probabilmente non ci rende popolari ma certamente di consente di continuare a lottare a testa alta perché il nostro Paese trovi finalmente il modo e le forme per ritornare a venerare le fondamenta della cultura liberale ed illuminata in tema di giustizia e lo facciamo con la serenità e la determinazione di chi sa che in parti avverse non solo ci siamo trovati aggrediti dagli stessi che oggi difendiamo ma che domai ne potremmo essere nuovamente vittime.

Io sono radicalmente contro le dimissioni di Andrea Delmastro delle Vedove perché voglio cambiare la parte peggiore di questo Paese e di questa classe dirigente. Perché non voglio scivolare nell’oscurantismo di una concezione giuridica giustizialista per ottenere qualche percentuale in più lucrando sul terreno del populismo rinnegando gli ideali sui quali mi sono formato. Il mio obiettivo è riuscire a trasformare il sentimento più retrogrado ed involuto di questo paese, che ancora in molti oggi non combattono ma alimentano per raggranellare un po’ di consenso, in un riscatto di civiltà ed in una riqualificazione della lotta politica.

A me non interessa lottare politicamente contro Delmastro Delle Vedove, contro Fratelli d’Italia e contro questa maggioranza ergendomi a tribunale del popolo pronto a condannare il reo sottosegretario. Io voglio sconfiggere questa destra sul terreno della politica. Io voglio combattere la scelta politica di cui Delmastro Delle Vedove è corresponsabile, se non diretto artefice, nella scelta di nominare Garante dei detenuti dopo lo straordinario lavoro di Mauro Palma (a proposito oggi al Senato ci sarà il congedo suo e del collegio uscente) una persona che probabilmente in un carcere non c’è mai entrato, con la complicità di una maggioranza che non ha neanche consentito che vi fosse una sua audizione in Parlamento affossando la possibilità che a ricoprire quel ruolo ci fosse una persona che ha dedicato la sua vita, insieme a Marco Pannella, per migliorare la qualità della vita e delle condizioni di tutti coloro che interagiscono nell’universo carcerario. Altro che rinvii a giudizio. Roberto Giachetti

Gratteri gela Formigli sul caso Delmastro. Ecco il documento che lo scagiona. Non c'era niente di segreto, nelle carte pervenute ad Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, sugli incontri in carcere tra il terrorista anarchico Alfredo Cospito e due deputati del Partito democratico, riferiti poi da Delmastro al compagno di partito Giovanni Donzelli. Luca Fazzo il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Non c'era niente di segreto, nelle carte pervenute ad Andrea Delmastro (foto), sottosegretario alla Giustizia, sugli incontri in carcere tra il terrorista anarchico Alfredo Cospito e due deputati del Partito democratico, riferiti poi da Delmastro al compagno di partito Giovanni Donzelli. A dirlo non è solo Delmastro. Lo afferma un documento che porta una firma inattaccabile: quella di Giovanni Russo, magistrato, procuratore aggiunto alla procura nazionale antimafia e oggi capo del Dap, il dipartimento delle carceri. É lui, il 22 giugno scorso, a scrivere al difensore di Delmastro, Giueppe Valentino. La chiarezza della risposta di Russo rende ancora più difficile capire come abbia potuto il giudice romano Maddalena Cipriani rinviare a giudizio Delmastro, contro il parere della Procura della Repubblica. E rende invece chiaro perchè Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, abbia sposato senza mezzi termini in televisione, spiazzando il conduttore Corrado Formigli, la linea di Delmastro: «quelle carte non erano segrete».

Scrive il 22 giugno Russo al difensore del sottosegretario: «l'apposizione della clausola di limitata divulgazione" alla documentazione aveva la finalità di contrassegnare detta documentazione come materiale non destinato alla diffusione pubblica e indiscriminata ma utilizzabile - in tutti i suoi contenuti - per l'esercizio delle prerogative costituzionali di chi ne venisse a conoscenza». Se qualcuno volesse obiettare che riferendo il contenuto a Giovanni Donzelli, membro del Copasir, il sottosegretario Delmastro sia fuoriuscito dall'«esercizio delle prerogative istituzionali», la lettera di Russo prosegue ancora più nettamente: «nessuna preclusione ne poteva derivare in capo al sottosegretario sul piano della condivisione con soggetti terzi, individuati dal sottosegretario quali interlocutori idonei a contribuire alla formulazione di valutazioni». E ancora: «le informazioni ben potevano essere oggetto di comunicazione ed interlocuzione con soggetti istituzionali», tra i quali Russo cita espressamente «commissioni parlamentari». Tra cui c'è il Copasir.

La lettera di Russo poggia a sua volta su un documento: la nota che lo stesso Russo riceve l'1 febbraio da parte di Ezio Giacalone, capo del Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria. Due giorni prima, Giacalone aveva trasmesso a Russo un appunto sugli incontri in carcere di Cospito, all'epoca impegnato in uno sciopero della fame ad alto impatto mediatico-politico. Scrive Giacalone: «con riferimento all'appunto informale del 30 gennaio si rappresenta che la natura del documento non rivela o disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati».

La stessa procura di Roma, che ha condotto l'indagine nata dalla denuncia del «verde» Angelo Bonelli, ha dovuto orientarsi in un labirinto di circolari e decreti, studiando la differenza tra due registri (di cui finora poco si sapeva) in cui vengono inseriti i documenti proveniente dalle carceri: la «Riservata Ponente», dove finiscono gli atti segreti e segretissimi, e il «Protocollo Calliope», dove approdano le carte «a limitata divulgazione», come l'appunto sugli incontri di Cospito (in cui, oltre agli incontri con gli esponenti del Pd, vengono citati anche i contatti con due malavitosi). La procura, guidata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, si convince che anche per gli atti di «Calliope» valga una sorta di «segreto amministrativo». Ma, si legge nella richiesta di archiviazione, «la faticosa ricostruzione del sistema normativo extrapenale e la complessa individuazione degli effetti della circolare del Dap» rendevano tutto così confuso da giustificare l'errore di Delmastro.

Eppure lo hanno mandato a processo.

Altro che "complotti immaginari", la macchina dell'opposizione giudiziaria è già in moto. Il rinvio a giudizio (nonostante il pm abbia chiesto di archiviare ben due volte) mette in moto la macchina dell'opposizione. Si concretizzano i timori avanzati da Crosetto. Andrea Indini il 29 Novembre 2023 su Il Giornale.

Ad ascoltare i comizi di Elly Schlein, i timori avanzati dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, andrebbero derubricati a "complotti immaginari". Carta straccia, insomma. Poi, però, c'è la realtà che ti viene a sbattere addosso. E la realtà è un gup di Roma che, per il caso dell'anarchico Alfredo Cospito, si mette a rinviare a giudizio il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. E poco importa se, per ben due volte, il pm aveva chiesto l'archiviazione del procedimento, il magistrato capitolino ha comunque deciso di tirare dritto e andare a processo.

L'accusa mossa contro Delmastro è rivelazione del segreto d'ufficio. Ma poteva benissimo essere anche un'altra. All'opposizione non interessa granché. Ai giallorossi basta lanciare l'assalto alla diligenza al grido "dimissioni subito!". Richiesta di dimissioni per Delmastro ma anche pressing sul Guardasigilli Carlo Nordio nelle cui mani giace la riforma della giustizia. Tutto da copione. E qui monta più di un sospetto: che la sola carta straccia sia l'invettiva della Schlein; che nell'aria giri il "grande pericolo dell'opposizione giudiziaria"; che sotto sotto ci sia, come denunciato da Crosetto, "una corrente della magistratura" che briga per fermare la Meloni.

Per carità, può essere solo una coincidenza. Ma il rinvio a giudizio di Delmastro appare tutt'altro che casuale. Nel mirino le conversazioni in carcere tra Cospito e due malavitosi confidate da Delmastro al deputato di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli e da quest'ultimo lette in Aula. Apriti cielo. Vicenda chiarita da entrambi ma non per l'opposizione. E così ad armare piazzale Clodio ci ha pensato il verde Angelo Bonelli che ha presentato un esposto contro il sottosegretario alla Giustizia. Esposto che per il pm avrebbe dovuto essere tranquillamente archiviato ma che prima il gip Emanuela Attura e poi il gup Maddalena Cipriani hanno deciso di andare avanti. E arriviamo al rinvio a giudizio di oggi.

Il processo si aprirà il prossimo 12 marzo. "Se conosco bene questo Paese mi aspetto che si apra presto questa stagione, prima delle europee", aveva abbozzato Crosetto nei giorni scorsi. I tempi coincidono. Già la sinistra si è mossa per far fuori (almeno mediaticamente) Delmastro. Come da prassi hanno presentato la mozione di sfiducia. Un elemento di disturbo visto che, ovviamente, non hanno i numeri per farla passare. L'obiettivo non è tanto quello di farlo cadere quanto piuttosto indebolire il governo e colpire la Meloni. In attesa che l'opposizione giudiziaria faccia la mossa successiva mettendo nel mirino il prossimo esponente dell'esecutivo.

La decisione del gip. Cos’è l’imputazione coatta: il caso Delmastro e l’attacco del ministero della Giustizia. "È necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio". Redazione Web su L'Unità il 7 Luglio 2023

Il ministero della Giustizia sostiene che il caso dell’imputazione coatta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro “dimostra, come nei confronti di qualsiasi altro indagato, l’irrazionalità del nostro sistema”. Le parole filtrate dal dicastero citate dall’Ansa rappresentano l’ultimo step della tensione sempre più alta tra il governo e la magistratura. Il gip di Roma Emanuela Attura ha disposto ieri l’imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia sostenendo la sussistenza sia dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo del reato.

Il caso è quello di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41bis al centro dell’attenzione mediatica per mesi dopo un lunghissimo sciopero della fame, e delle dichiarazioni in aula di Giovanni Donzelli. La richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura non è stata accolta. Secondo la Procura Delmastro, nel parlare con Donzelli dei colloqui in carcere di Cospito, non aveva commesso reato perché Delmastro non conosceva la natura di quegli atti. Per il gip, al contrario, il sottosegretario non poteva ignorare la segretezza di quel contenuto anche perché avvocato penalista. L’accusa è di rivelazione del segreto d’ufficio.

L’imputazione coatta viene disposta con un’ordinanza del giudice. Non si tratta di un rinvio a giudizio, in senso tecnico. La procura che aveva chiesto l’archiviazione tuttavia chiede il rinvio a giudizio per gli indagati. Il nuovo gup viene nominato a stretto giro di tempo e fissa un’udienza preliminare. L’accusa sostiene le ragioni del rinvio mentre le difese possono chiedere il patteggiamento, il rito abbreviato o l’assoluzione. Decide il nuovo giudice. La prassi fa seguire spesso all’imputazione un processo. La Procura chiedendo l’archiviazione aveva evidenziato ”l’esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo” aggiungendo però come non ci fossero prove sull’elemento soggettivo, ovvero che Delmastro fosse consapevole dell’esistenza del segreto e che quindi sapesse di commettere un reato.

Dal ministero filtrano dichiarazioni durissime. “Nel processo che ne segue l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna non farà altro che contraddire se stesso. Nel processo accusatorio il Pubblico Ministero, che non è né deve essere soggetto al potere esecutivo ed è assolutamente indipendente, è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede. La grandissima parte delle imputazioni coatte si conclude, infatti, con assoluzioni dopo processi lunghi e dolorosi quanto inutili, con grande spreco di risorse umane ed economiche anche per le necessarie attività difensive. Per questo è necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio”.

Palazzo Chigi aveva fatto trapelare ieri in una nota informale un attacco alla decisione del gip e anche all’inchiesta che riguarda la ministra del Turismo Daniela Santanchè che avrebbe appreso dai media di essere iscritta nel registro degli indagati. “Non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione e il gip imponga che si avvii il giudizio. In un procedimento in cui gli atti sono secretati è fuori legge che si apprenda di essere indagati dai giornali. Quando questo interessa due esponenti del governo – si legge nella nota del ministero della Giustizia – è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione e abbia deciso anzitempo di inaugurare la campagna elettorale per le europee“. Dal ministero definiscono “urgente” la riforma dell’iscrizione del registro degli indagati e dell’informazione garanzia, precisano oggi dal ministero fonti interne in relazione al caso Santanchè. Le stesse fonti “manifestano, ancora una volta, lo sconcerto e il disagio per l’ennesima comunicazione a mezzo stampa di un atto che dovrebbe rimanere riservato. La riforma proposta mira ad eliminare questa anomalia tutelando l’onore di ogni cittadino presunto innocente sino a condanna definitiva”.

Il commento di Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali: “L’imputazione coatta disposta dal gip contro la volontà del pubblico ministero è da sempre una delle norme più irrazionali e insensate del nostro codice di procedura penale per le ragioni che sono state ben espresse dal Ministero. Ma è una norma che esiste dalla fine degli Anni Ottanta. Ce ne accorgiamo solo ora? Meglio tardi che mai. Speriamo se ne traggano le conseguenze”. Redazione Web 7 Luglio 2023

Delmastro, il sospetto di Chirico: "Strano doppio standard. Per anni...". Il Tempo il 29 novembre 2023

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove è stato rinviato a giudizio dal Gup di Roma Maddalena Cipriani. Delmastro dovrà rispondere davanti al giudice monocratico del tribunale penale di piazzale Clodio, di rivelazione di segreto d’ufficio per la vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41 bis che per mesi protestò con lo sciopero della fame. Questo è stato il tema che ha acceso il dibattito a Stasera Italia, il programma di cultura e di attualità di Rete 4. Ospite in studio, Annalisa Chirico è intervenuta nel salotto di Nicola Porro e ha avanzato i suoi dubbi sul caso. 

"Noi abbiamo visto per anni stralci di atti, quelli sì, secretati, delle procure, che finivano sui quotidiani italiani. Io mi ricordo che la condanna avvenne per la famosa intercettazione e per anni non abbiamo mai visto una tale sensibilità", ha detto Annalisa Chirico, dopo aver preso la parola. "Che cosa mi vuoi dire?", l'ha incalzata il conduttore del programma. "Questa polemica su Delmastro, Donzelli...mi sembra di non vivere nel Paese in cui ho vissuto negli ultimi quarant'anni, è uno strano doppio standard", ha risposto. "Così come è censurabile il magistrato che dà il colpetto al politico, è censurabile anche il comportamento del politico (inteso come Angelo Bonelli esposto contro Demastro, Salvini, ecc.. n.d.a) che vive d'inchiesta per colpire l'opposizione. Non è normale che un parlamentare viva in Procura, è un malcostume", ha concluso la giornalista. 

STASERA ITALIA, DELMASTRO CHIAMA IN CAUSA BONELLI SUL CASO COSPITO E IL DEPUTATO SI COLLEGA TELEFONICAMENTE CON LO STUDIO. Articolo a cura di Armando Spigno su tuttonotizie.eu giovedì 30 novembre 2023.

Andrea Delmastro, ospite a Stasera Italia, si è difesa dalle accuse di aver divulgato documenti segreti sul caso Cospito e ha chiamato in causa Angelo Bonelli.

Ieri è stata divulgata la notizia del rinvio a giudizio per Andrea Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia del Governo Meloni accusato di aver divulgato documenti coperti da segreti d'ufficio relativamente al caso Cospito, l'anarchico condannato al 41bis. Il rinvio a giudizio è stato un fulmine a ciel sereno del tutto inaspettato per Andrea Delmastro. "Non mi aspettavo il rinvio a giudizio, sono pronto a dimostrare la mia innocenza di fronte al giudice nel merito", ha affermato il sottosegretario ospite di Nicola Porro a Stasera Italia.

Il politico di Fratelli d'Italia, inoltre, ha annunciato che il rinvio a giudizio non se l'aspettavano neanche i pubblici ministeri "che hanno chiesto prima l'archiviazione e, poi, per ben due volte il proscioglimento". Durante la puntata del programma di approfondimento di Rete4, poi, Andrea Delmastro ha chiamato in causa anche il collega di Alleanza Verdi Sinistra Angelo Bonelli. Infatti, secondo Delmastro, anche Bonelli ha ricevuto gli stessi documenti richiesti da lui stesso in riferimento al caso Cospito. "Bonelli ha le medesime carte", ha affermato Andrea Delmastro.

La risposta di Angelo Bonelli alle accuse di Andrea Delmastro sul caso Cospito

In seguito alle affermazioni di Andrea Delmastro, Nicola Porro ha invocato la necessità di far intervenire il deputato di Alleanza Verdi Sinistra Angelo Bonelli per sentire la sua versione dei fatti. Quindi, Bonelli si è collegato telefonicamente con lo studio di Stasera Italia e ha espresso la sua opinione. "Ma ce le ha quelle cose o no?", gli chiede a un certo punto Andrea Delmastro. "Non giri la frittata, il ministro non mi ha dato i verbali, non ne ho possesso, se lei sostiene che io sono in possesso dei verbali, sta dicendo una bugia", ha risposto Angelo Bonelli.

I toni tra i due sono stati particolarmente accesi e Andrea Delmastro ha provato più volte a incalzare Angelo Bonelli per fargli vuotare il sacco. In ogni caso, Angelo Bonelli continua a sostenere la sua linea, ovvero di non essere in possesso dei verbali. Il deputato afferma di possedere solo "le 5-6 pagine" in cui il Ministero ha espresso il rifiuto al rilascio dei verbali "perché classificati in base al regolamento del DAP come segreto". Insomma, al di là delle polemiche e del botta e risposta tra i due politici, ora la giustizia farà il suo corso e stabilirà cosa effettivamente sia successo e chi ha torto e ragione. La prima udienza del processo è fissata al prossimo 12 marzo.

Delmastro-Bonelli, scontro a Stasera Italia: "Ha quelle carte sì o no?". Libero Quotidiano il 30 novembre 2023

Nel giorno del rinvio a giudizio di Andrea Delmastro, va in scena il duello con il suo primo accusatore, Angelo Bonelli dei Verdi. Ma procediamo con ordine. Il sottosegretario alla Giustizia di FdI, come detto, va alla sbarra per rivelazione di segreto d'ufficio nell'ambito del caso-Alfredo Cospito. Una decisione peculiare, poiché anche l'accusa aveva chiesto il proscioglimento. Ma tant'è. La vicenda, come accennato, nasce da una denuncia proprio di Bonelli.

Ed ecco che a Stasera Italia, il programma condotto da Nicola Porro su Rete 4, nella serata di mercoledì 29 novembre va in onda proprio il duello tra Delmastro e Bonelli: il primo ospite in studio, il secondo in collegamento telefonico, dove legge parte degli atti che ha in mano. "Nella parte successiva il ministro riporta espressamente...": Bonelli ad un certo punto interrompe la lettura e ricostruisce il tutto con sue parole. Ecco che dunque interviene Gianluigi Paragone, altrettanto ospite in studio: "Vada nella lettura, fino ad ora ha letto".

Quindi si inserisce Delmastro: "Ma ha quelle cose o no? Quelle che avrei dato a Donzelli?" (la rivelazione del segreto d'ufficio di Delmastro infatti si sarebbe concretizzata con un passaggio di documenti a Donzelli). E Bonelli: "Non giri la frittata: il ministro non mi ha dato i verbali, non ne ho possesso. Se lei sostiene che sono in possesso dei verbali dice una bugia". "Lei le ha quelle cose o no?", alza i toni Delmastro. E Bonelli capitola: "No, non li ho i verbali". "Benissimo, non sarà un problema. Domani porterò tutta l'interrogazione", aggiunge il sottosegretario.

A quel punto Paragone rincara: "Non ho capito perché prima ha letto e poi è andato in interpretazione libera". "Posso leggere quelle cinque-sei pagine...", replica il Verde. Delmastro a cannone: "E cosa c'è? Cosa c'è in quelle cinque-sei pagine?". "O mi fa parlare, o lasciamo perdere. Ho il documento qua davanti: il ministero non mi dà i verbali perché classificati", conclude Bonelli, con Delmastro che si porta le mani sul volto. Già, mister Verdi, lo scopritore di Soumahoro, ha rimediato una solenne figuraccia.

DEL MASTRO-BONELLI, SCONTRO SUGLI ATTI.  9Colonne giovedì 30 novembre 2023.

Il sottosegretario Andrea Delmastro “dice il falso, il ministero della Giustizia non mi ha mai consegnato i verbali del caso Cospito: lo dimostra questo documento del ministero della Giustizia che mi è stato consegnato su mia richiesta, nel quale mi si dice che quei verbali non mi potevano essere dati perché coperti dal segreto. Invito il Sottosegretario ad avere un alto senso dello Stato”. Il portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli, in conferenza stampa alla Camera, mostra insieme a Riccardo Magi di Europa Verde il documento ricevuto dal ministero in risposta alla sua richiesto di accesso agli atti sul caso Cospito, creatosi quando il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, in un’interrogazione parlamentare, aveva citato una relazione della Polizia penitenziaria, che gli era stata fornita da Delmastro, il quale l’aveva letta in un documento finito sul tavolo del Ministero della Giustizia. Ieri sera Delmastro, ospite del programma Stasera Italia, aveva affermato invece che Bonelli era poi entrato in possesso del documento in questione, che gli era stato infine fornito in quanto deputato.  

A confermare la versione di Bonelli anche Riccardo Magi, che all’epoca aveva fatto la stessa richiesta di accesso agli atti, ricevendo la stessa risposta di Bonelli: “Questo è un motivo in più perché Delmastro si debba dimettere – spiega il segretario di PiùEuropa- : ha mentito dicendo che le informazioni in suo possesso, poi passate a Donzelli, erano accessibili per tutti quanti i deputati. E’ falso. Noi le abbiamo chieste e non ce le hanno date, e sono state invece utilizzate dalla destra, politicamente, con le opposizioni”. Bonelli e Magi hanno spiegato che nel documento fornito loro dal ministero, in cui si nega gli accessi agli atti, sono presenti esclusivamente “gli stessi stralci che erano stati utilizzati da Donzelli: una sorta di equilibrismo per non consegnarci il documento ma allo stesso tempo dar ragione all’esecutivo”. Per la vicenda Cospito, Delmastro è stato rinviato a giudizio con l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio: a rivolgersi alla giustizia era stato, con un esposto in Procura, proprio Bonelli.  (Sis)  (© 9Colonne - citare la fonte)

Delmastro: «Non lascerò il mio posto e resto orgoglioso di quanto ho fatto. I pm dalla mia parte». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera giovedì 30 novembre 2023.

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove: «Io non ho passato alcuna carta». E aggiunge: «Non mi dimetto»

E adesso, sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che fa? Si dimette?

«Assolutamente no».

Perché? Non è stato rinviato a giudizio per quelle relazioni del Gom sui colloqui anti 41 bis dell’anarchico Alfredo Cospito con i boss, nei giorni dello sciopero e della visita della delegazione dem, usate in aula dal suo collega e coinquilino Donzelli?

«Sì. Ma intendo continuare ad esercitare il mio ruolo, al meglio, all’interno del ministero della Giustizia. Così come mi è stato chiesto dai tanti che in questo momento mi stanno testimoniando solidarietà per questo inconsueto rinvio a giudizio».

Inconsueto perché?

«Anche questa seconda volta il pubblico ministero Paolo Ielo e altri tre pm hanno ribadito la richiesta di archiviazione della procura nei miei confronti».

E quindi?

« Quindi sarò uno dei pochi sotto il profilo giuridico che in dibattimento sarà dalla stessa parte della barricata del pm. Ai posteri l’ardua sentenza...».

Però la giudice delle indagini preliminari Emanuela Attura ha ritenuto il contrario e formulato un’imputazione coatta. E la gip Maddalena Cipriani, ha concordato sul segreto, visto che l’ha rinviata a giudizio.

«Da cattolico non dispero mai. Ci sarà prima o poi un giudice a Berlino che riconoscerà che non c’è segreto e quindi non c’è reato».

Per la giudice la dicitura a «limitata divulgazione» rendeva coperti dal segreto quei verbali usati da Donzelli per difendere il 41 bis e attaccare la sinistra («Siete con noi o con i terroristi e i mafiosi?)».

«La limitata divulgazione nulla c’entra col segreto di Stato. I segreti li decide la legge. Sono tassativi e tipizzati per questo».

Il verde Angelo Bonelli, che l’ha denunciata, sostiene che gli hanno negato quegli atti. Lei, da Nicola Porro a Stasera Italia, ha detto che non è vero. Chi mente?

«Bonelli ha sbagliato. Ha fatto un accesso generalizzato agli atti. Gli è stata riqualificata la richiesta come sindacato ispettivo. E ha avuto quello che chiedeva perché sono atti ostensibili».

Il ministro Carlo Nordio l’ha difesa in Parlamento. E ora, per questo, viene attaccato dalle opposizioni.

«Il ministro avrà diritto ad esporre le sue ragioni e la sua lettura dei fatti e del diritto? O adesso c’è anche il reato di pensiero e il reato di argomentazione giuridica? Attendo risposte dai preclari giuristi di sinistra».

Dica la verità, si aspettava questo rinvio a giudizio?

«No. Ma resto orgoglioso di quello che ho fatto».

Cosa? Aver passato quelle carte?

«Non ho passato alcuna carta. Ho risposto alla domanda di Donzelli cosa che è mio dovere fare e faccio con qualsiasi parlamentare. Sono orgoglioso di aver fronteggiato l’attacco frontale al 41bis di terroristi e anarchici in combutta con la criminalità organizzata e della mafia».

Il suo rinvio a giudizio arriva dopo giornate in cui si è riacceso lo scontro politica-magistratura. Pensa che questo clima abbia influito?

«Credo e mi auguro di no. Il mio alto senso di giustizia mi fa pensare che un giudice non percepisca il clima e valuti solo gli atti giudiziari».

Il suo alto senso di giustizia non pone ostacoli al suo rimanere a ricoprire lo stesso incarico di sottosegretario con delega alle carceri ?

«Al contrario. Aspetto con serenità il dibattimento che inizia il 12 marzo per poter dimostrare che non ho compiuto alcun reato. E terminerò il mio mandato svolgendo al meglio il mio compito, rimanendo orgoglioso del mio lavoro e fedele alla lezione di centro destra».

Cosa intende?

«Intendo continuare a garantire strumenti di indagine efficaci ai magistrati per accertare i reati più odiosi, ma a confermare e addirittura aumentare le garanzie per i cittadini».

A chiedere l’imputazione coatta di Delmastro è stata giudice del tribunale di Roma Emanuela Attura. Giustizia: toh, chi si rivede David Ermini, l’esperto di verbali. L’ex renziano pentito guiderà l’attacco del Pd a Delmastro sulla violazione del segreto d’ufficio. Proprio lui che con Davigo aveva cestinato il verbale sulla Loggia Ungheria. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 29 Agosto 2023 

In Italia nel 2023 il dibattito politico si trasferisce nelle aule del Tribunale. È passata sostanzialmente inosservata la decisione della segretaria del Pd Elly Schlein, l’altra settimana, di incaricare l’ex vice presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini di verificare se ci siano gli estremi per costituirsi parte civile nel procedimento penale per rivelazione del segreto d’ufficio nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. L’udienza preliminare è prevista per il prossimo 29 novembre.

Ermini, avvocato di Figline Valdarno ed in passato anche vice procuratore onorario prima di essere eletto al Csm, ha ricoperto per molti anni il ruolo di responsabile Giustizia del Pd. Terminata la consiliatura lo scorso febbraio, era stato nominato nella segreteria nazionale dei dem. Nella sua veste di avvocato, Ermini è il legale della deputata Debora Serracchiani e del senatore Walter Verini. Il professor Mitja Gialuz, tra gli esperti che avevano scritto la riforma Cartabia del penale, rappresenta invece i deputati Andrea Orlando e Silvio Lai.

In una nota, Ermini e Gialuz hanno fatto sapere di essere stati autorizzati ad accedere al fascicolo e che all’esito dell’esame degli atti verrà valutata la costituzione di parte civile dei singoli parlamentari al fine di tutelare le prerogative connesse al loro ruolo. Per quanto riguarda la posizione del Pd, invece, si tratterebbe del “pregiudizio di una posizione giuridica collegata”. Per ironia della sorte, Ermini aveva rischiato all’inizio dell’anno di essere iscritto per rivelazione del segreto d’ufficio nella vicenda sulla divulgazione dei verbali degli interrogatori dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara riguardo l’esistenza della loggia Ungheria.

I verbali, consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Piercamillo Davigo, erano stati poi portati da quest’ultimo nella primavera del 2020 allo stesso Ermini nel suo ufficio a Palazzo dei Marescialli. Sentito come testimone nel processo a Brescia a carico di Davigo, in una deposizione a tratti drammatica, Ermini aveva affermato sotto giuramento, più volte incalzato presidente del collegio Roberto Spanò, di non averli letti e di averli immediatamente “strappati”. Spanò, infatti, lo aveva avvisato che se per caso avesse letto i verbali sarebbe incorso anch’egli nel reato. “Perché lì ha distrutti? – chiese Spanò – È come se volesse sbarazzarsi di una cosa imbarazzante”. Erano “copie da una chiavetta”, “non firmati”, “non volevo fare il megafono di Amara”, “era informato il procuratore Salvi (Giovanni, ex pg della Cassazione, ndr)”, “e se fossero usciti dalla mia stanza?”, “erano irricevibili”, “dovevo tutelare il Csm”, “l’autorità giudiziaria era stata informata”, le giustificazioni di Ermini allo strappo dei verbali.

Tornando, invece a Delmastro, a chiederne l’imputazione coatta è stata giudice del tribunale di Roma Emanuela Attura, toga progressista e segretaria distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati. La magistrata aveva respinto la richiesta di archiviazione motivata dalla Procura con l’assenza dell’elemento soggettivo del reato, ritenendo che Delmastro, consegnando i verbali avuti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al collega di partito Giovanni Donzelli, capogruppo alla Camera, non fosse stato consapevole della loro ‘segretezza’. Il caso era esploso lo scorso 31 gennaio quando Donzelli, intervenendo alla Camera, aveva rivelato il contenuto dei dialoghi tra l’anarchico Alfredo Cospito e due detenuti ristretti con lui nel carcere di massima sicurezza di Sassari riguardo la visita ricevuta dai quattro parlamentari del Pd. Donzelli aveva letto le frasi pronunciate da Cospito a Francesco Di Maio, camorrista, e a Francesco Presta, ‘ndranghetista, a proposito dello sciopero della fame che stava conducendo per protestare contro il 41 bis e che doveva diventare una battaglia “di tutti”, compresi quindi i detenuti della criminalità organizzata. Le conversazioni erano contenute in una relazione che la polizia penitenziaria aveva successivamente trasmesso al Dap e quindi a Delmastro.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, appresa la notizia, aveva incaricato gli uffici di far luce sull’accaduto. Dopo aver premesso che tali colloqui non erano stati oggetto di un’attività di intercettazione ma solo di normale attività di vigilanza amministrativa, via Arenula aveva precisato che la natura del documento non rilevava contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati. Circa l’apposizione della dicitura “limitata divulgazione”, presente sulla nota di trasmissione della scheda e che aveva sollevato polemiche, rappresentava una formulazione che esula dalla materia del segreto di Stato e dalle classifiche di segretezza, trattandosi di una mera prassi amministrativa interna in uso al Dap e non disciplinata a livello di normazione primaria.

Il procuratore di Roma Franco Lo Voi e l’aggiunto Paolo Ielo, titolari del fascicolo, avevano inizialmente ritenuto che le carte inviate al Dap dovessero rimanere nel ristretto ambito ministeriale senza essere destinate all’esterno ed avevano ascoltato anche il direttore del Dap, il magistrato antimafia Giovanni Russo, il quale aveva spiegato che la relazione della polizia penitenziaria non fu inviata a Delmastro per ragioni d’ufficio, ma perché lo stesso sottosegretario l’avrebbe chiesta a più riprese, e con una certa “insistenza”, aggravando, dunque, la posizione del sottosegretario. Paolo Pandolfini

Delmastro, il perché dell’imputazione coatta: «È un avvocato, non può aver fatto un errore». Storia di Giulio De Santis su Corriere della Sera il 12 luglio 2023.

Andrea Delmastro Delle Vedove, deputato di Fratelli d’Italia, è un avvocato specializzato in Diritto penale con l’incarico di sottosegretario alla Giustizia. Un profilo che impedisce di «ipotizzare un errore scusabile» nell’aver riferito a Giovanni Donzelli, anche lui deputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir, i colloqui dell’ anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41 bis presso il carcere di Bancali a Sassari, intrattenuti con Francesco Di Maio e Francesco Presta, boss della criminalità organizzata. È il motivo principale che ha convinto la giudice per le indagini preliminari Emanuela Attura a disporre l’imputazione coatta nei confronti del rappresentante di governo —respingendo la richiesta di archiviazione della Procura — con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio per quanto detto a Donzelli il 30 gennaio. Il giorno dopo Donzelli li utilizzò infatti nell’aula della Camera per attaccare quattro parlamentari del Pd che avevano visitato Cospito in carcere.

La gip chiarisce che Donzelli non avrebbe dovuto conoscere quei colloqui «perché contenuti in due relazioni inviate, tramite la rete Calliope, dal direttore del Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) Giovanni Russo, a Delmastro, su sollecitazione del deputato, con la dicitura “limitata divulgazione”». Dicitura dal significato inequivocabile, secondo Russo: «Il destinatario, che riceve una relazione tramite queste modalità, deve mantenere segreta la notizia», ha specificato il capo del Dap in un interrogatorio, davanti agli inquirenti, citato dalla gip nel provvedimento con cui ha disposto l’imputazione coatta e ritenuto un tassello determinante nella vicenda.

Spiega la gip che «un eventuale errore nella sua interpretazione della norma extra penale, presupposto necessario a determinare l’esclusione della punibilità, deve essere originata da un errore scusabile». Ma un errore scusabile «è difficilmente ipotizzabile — rimarca — per chi, come Delmastro, è un legale, specializzato in Diritto penale, nonché sottosegretario». Le conclusioni della gip smontano, almeno in questa fase, la tesi della Procura secondo cui la complessa individuazione degli effetti della circolare del Dap e la faticosa ricostruzione del sistema normativo extra penale «inducono a non escludere l’esistenza di un errore del deputato». Che interrogato dagli inquirenti ha detto di essere certo che la dicitura «a limitata divulgazione» riguardasse la catena del Dap, ma non del decisore politico, che «ha la piena titolarità del dato, se non segreto».

Durante l’interrogatorio davanti ai pubblici ministeri Delmastro ha assicurato di aver «solo riferito a Donzelli a voce, grazie alla mia ottima memoria, quei passaggi delle intercettazioni in due interlocuzioni» e «durante le conversazioni Donzelli ha preso appunti». Ora sarà un gup a stabilire se l’indagine debba essere archiviata o se invece il sottosegretario dovrà essere processato.

(Public Policy il 6 luglio 2023. - "In un processo di parti non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione e il giudice dell’udienza preliminare imponga che si avvii il giudizio. In un procedimento in cui gli atti di indagine sono secretati è fuori legge che si apprenda di essere indagati dai giornali, curiosamente nel giorno in cui si è chiamati a riferire in Parlamento, dopo aver chiesto informazioni all’autorità giudiziaria. 

Quando questo interessa due esponenti del Governo in carica è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee". Così fonti di Palazzo CHIGI

Delmastro, "imputazione coatta per il caso Cospito": cosa accadrà. Libero Quotidiano il 06 luglio 2023

Il giudice per le indagini preliminari di Roma si è pronunciato e ha disposto l'imputazione coatta per Andrea Delmastro. Il sottosegretario alla Giustizia è indagato per rivelazione di segreto d'ufficio in relazione al caso Cospito, l'anarchico detenuto al 41 bis. Il gip non ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura che ora dovrà formulare una richiesta di rinvio a giudizio. 

Nel chiedere l'archiviazione la Procura "riconosce l'esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo - si affermava in una nota del maggio scorso - ed è fondata sull'assenza dell'elemento soggettivo del reato, determinata da errore su legge extrapenale". Secondo il giudice, invece, sussiste sia l'elemento oggettivo che quello soggettivo del reato. L'eventuale rinvio a giudizio sarà deciso in una nuova udienza gup. La vicenda riguarda i colloqui dell’anarchico Alfredo Cospito che furono rivelati dal deputato di Fratelli d’Italia a Giovanni Donzelli. E che quest'ultimo ha citato nell’Aula della Camera. Eppure secondo i pm quei colloqui erano contenuti in un atto segreto, ma Delmastro, nel parlarne con Donzelli, non aveva commesso reati. Il motivo è chiaro: il parlamentare, che è anche avvocato penalista, secondo i magistrati capitolini non conosceva la natura di quegli atti. Questa la ragione dietro la richiesta di archiviazione dei pm.

Intanto Delmastro si dice fiducioso: "Prendo atto della scelta del Gip di Roma che, contrariamente alla Procura, ha ritenuto necessario un approfondimento della vicenda giuridica che mi riguarda. Avrò modo, davanti al Giudice per l'Udienza Preliminare di insistere per il non luogo a procedere per insussistenza dell'elemento oggettivo, oltre che di quello soggettivo. Sono fiducioso che la vicenda si concluderà positivamente, convinto che alcun segreto sia stato violato, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo". 

Il sottosegretario esclude le dimissioni. Chi è Andrea Delmastro Delle Vedove, il sottosegretario e avvocato di Meloni e il caso Cospito-Donzelli. Antonio Lamorte su Il Riformista l’1 Febbraio 2023

Andrea Delmastro Delle Vedove non pensa alle dimissioni. “Né io né Donzelli pensiamo alle dimissioni”, ha detto il sottosegretario alla Giustizia con delega al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, esponente di Fratelli d’Italia, coinvolto proprio dal collega di partito nella vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito, ristretto al 41-bis e in sciopero della fame dallo scorso 19 ottobre. Delmastro ieri aveva ammesso quanto detto da Giovanni Donzelli: ovvero di aver fornito lui all’amico e collega di partito le informazioni sui colloqui tra Cospito ed esponenti della ‘Ndrangheta e della Camorra al 41-bis. “Allora, voglio sapere se questa sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi con la mafia?”, aveva urlato in aula Donzelli riferendosi ai parlamentari del Partito Democratico che hanno visitato l’anarchico in carcere e scatenando il caso.

“Oggi c’è stata un’ulteriore alzata di livello da parte delle anime belle del terrorismo, hanno detto che moriranno quelli che non cedono sul 41 bis. Secondo voi, il giorno che sono minacciato di morte dai terroristi posso anche solo pensare di dimettermi?”, ha detto il sottosegretario intercettato dai cronisti nei pressi del palazzo di Montecitorio a pochi minuti dall’informativa del ministro della Giustizia Carlo Nordio. “È inopportuno che resti sottosegretario con delega sul Dap? E perché? L’opposizione vuole che il sottosegretario, se ha un documento non secretato, dica ‘non vi dico niente’? Se vogliono quello … Si chiama democrazia, trasparenza, leale rapporto istituzionale”.

Il padre era Sandro Delmastro Delle Vedove, ex deputato di Alleanza Nazionale. Lui è nato Gattinara, in provincia di Vercelli, nel 1976. Avvocato, ha cominciato nel Fronte della Gioventù prima di essere eletto in comune a Biella e in parlamento nella legislatura del 2018. È responsabile della Giustizia di Fratelli d’Italia. La sua delega alla polizia penitenziaria contempla anche quella al reparto Gom, quello che si occupa di raccogliere le intercettazioni e di stendere le relazioni di servizio sui detenuti anche al 41 bis.

All’interno di Fratelli d’Italia è considerato molto vicino alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, della quale è stato avvocato di fiducia prima della cancellazione dall’albo degli avvocati di Biella. È legato da un’amicizia profonda proprio con Donzelli con il quale a Roma condivide un appartamento, in Rione Monti, per appoggiarsi nelle trasferte romane. Delmastro ha ammesso di aver fornito all’amico e collega di partito quelle informazioni su Cospito ma ha precisato che non si trattava di informazioni riservate.

Delmastro il 15 giugno 2020 presentava alla Camera un’interpellanza parlamentare per chiedere l’encomio solenne – “per l’alta professionalità dimostrata nel contenimento della rivolta carceraria del 5 aprile” – agli agenti coinvolti nei disordini nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. “Se il ministro interpellato intenda sollecitare da parte del direttore generale dell’amministrazione penitenziaria il conferimento dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che, in operazione di particolare rischio, ha dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa”. Da precisare che all’epoca non erano emersi i video di quei fatti, passati alla storia come il “pestaggio” di SMCV, che avrebbero portato agli avvisi di garanzia nei confronti di 44 agenti.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Giovanni Donzelli.

L’ascesa del "Pipistrello" Donzelli, dalla Toscana rossa al cerchio magico di FdI. Lorenzo De Cicco su La Repubblica il 31 gennaio 2023.

Il deputato che snobba i salotti romani e sussurra alla premier. Quando aderì al Fuan la mamma pianse. In facoltà lo appesero a testa in giù. Allievo di Gasparri, che oggi dice: “Militante vero, deve imparare a dosare un po’ i toni”

I colleghi di Roma, ora che è diventato potente, gli hanno affibbiato un soprannome poco lusinghiero, come quasi tutti i soprannomi romani. "Il Pipistrello", lo chiamano così, Giovanni Donzelli. Forse perché una volta raccontò che da bellicoso militante del Fuan finì appeso a testa in giù dal terzo piano della facoltà di Scienze politiche a Firenze. Gli studenti di sinistra lo tenevano per le caviglie. O forse perché è riuscito a volare lì dove altri compagni di scranno non sono riusciti: giusto un gradino sotto Giorgia Meloni, a tenere le redini del primo partito d'Italia, 30% e passa nei sondaggi. Per tutti gli altri è semplicemente "Donze", o, nomignolo bonario, "il monaco", perché lasciata via della Scrofa rincasa presto, nel bilocale a Monti che divide col sottosegretario Delmastro. Senza farsi risucchiare dai salotti. "Per rimanere lucido", dice lui. Dieta, dolcevita e scarpe a punta, lucide.

Come in tutte le scalate, adesso il Donze dà fastidio. A 47 anni ha rinunciato a un posto da ministro (nel toto-governo era dato quantomeno ai Rapporti col Parlamento, dov'è finito Luca Ciriani), ma nel frattempo ha infilato 5 incarichi, tra partito e Parlamento. Un record: deputato, segretario dell'Aula di Montecitorio, vicepresidente del Copasir. E poi responsabile dell'organizzazione di FdI, quasi un vice-Meloni appunto, e adesso anche commissario del partito a Roma, chiamato a domare la fronda dei rampelliani, missione da Mr Wolf di via della Scrofa.

Sta più lì, nella sede storica dei missini, ora quartier generale dei meloniani, che alla Camera. Ha una stanza dove passò Giorgio Almirante. Scrivania in radica che fu di Gianfranco Fini, di cui era "innamoratissimo", prima di restarne deluso. A Montecitorio si vede di rado, quando c'è da pigiare il bottone per un provvedimento chiave o per qualche intervento a gamba tesa, come ieri.

L'arte della politica l'ha imparata da Maurizio Gasparri, è cresciuto sotto la sua ala ai tempi di An. E forse da lì deriva anche la passione per certe uscite beffarde, le battute ciniche, aggressive ma a effetto. E quell'aria da toscanaccio fa il resto. "Quanti migranti ospiti nella tua villa?", chiese a Oliviero Toscani, anni fa, durante un talk di cui ormai è diventato presenza fissa, promosso al rango di ospite di Porta a Porta (ma continua a non disdegnare Rete4). Nelle teche, è pieno di uscite così. La sbornia elettorale del 25 settembre non l'ha cambiato, nel senso della prudenza, dei toni sottili. "Spiace per i rosiconi", dichiarava un mesetto fa. C'è sempre il rischio che poi ti parta la frizione però, come quando per difendere il collega di partito Galeazzo Bignami, noto al grande pubblico per la foto in mise da nazista a un addio al celibato, azzardò: "Una volta a carnevale mi sono travestito da Minnie, sono forse Minnie?". Minnie, altro soprannome, il più recente. "È stato un ottimo allievo - dice di lui Gasparri - militante vero, lavora h24, si sposta. Certo dovrebbe imparare a dosare un po' le espressioni, ma capita anche a me, dopo tanti anni....".

L'ascesa politica parte da lontano e in un territorio ostico, la Toscana, terra rossa. Famiglia di sinistra, quando da ragazzino si iscrive al Fuan la mamma pianse. Il primo incontro con Meloni è nel '99, durante un volantinaggio davanti al liceo Michelangelo. C'era pure Francesco Lollobrigida. Ma il rapporto con la premier si cementa nel 2004. Congresso di Viterbo, l'attuale premier è in lizza per la guida di Azione Giovani: Donzelli è uno dei capi della mozione pro-Meloni, appoggiata da Gasparri, mentre Fini e Alemanno tifavano per Carlo Fidanza. La mossa riesce. La leader di FdI, nella famosa biografia "Io sono Giorgia", sembra riconoscente e spende parole al miele: "Giovanni è una delle persone su cui ho potuto, e posso tutt'ora, contare di più". L'unico sgarbo, nel 2012, poco prima della nascita di FdI. Alle primarie del Pdl, poi abortite, Donzelli è quasi costretto a sostenere Alfano, a discapito di Meloni. Ma lo strappo dura un attimo.

Mentre la carriera universitaria è un buco nell'acqua (si iscrive prima a Lettere, poi passa ad Agraria, ma niente tesi), quella politica decolla. Risponde a tutti, il suo cellulare è pubblico, ancora oggi sul suo sito internet, con chiosa pop-populista: "Inutile cercarmi per chiedere raccomandazioni". La trafila istituzionale parte dal Comune di Firenze, anche se adesso vive a Prato. Consigliere dal 2004 al 2010, fa da contraltare al Renzi in ascesa. A modo suo, a colpi di esposti in procura (per un caso, si scoprirà poi, ha lavorato anche come strillone nella società di Renzi padre). Nel 2010 passa in Regione: listino bloccato a Pisa, "il colmo per un fiorentino", ghignano i colleghi. Ma si fa notare. Anche qui, esposti contro "il potere rosso" e proposte di legge contro gli immigrati. Nel 2018 Meloni lo premia col seggio alla Camera. Sembrava un traguardo, ma era solo l'inizio. 

Giovanni Donzelli rinnega il fratello dopo l’arresto: tanto “vota per il centrosinistra”. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2023

Il capo dei deputati di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, l’altro giorno ha avuto in Tv uno scontro con Maria Elena Boschi, di Italia Viva. Si discuteva di garantismo, e la Boschi ha fatto notare che il partito di Donzelli usò politicamente le inchieste che la magistratura toscana realizzò contro suo padre e su suo fratello (che poi finirono tutte con ampie assoluzioni), mentre da parte di Italia Viva non ci fu neanche l’ombra di una polemica quando fu arrestato – accusato di bancarotta – il fratello di Donzelli. Anzi – ha detto la Boschi – noi ci siamo augurati e ci auguriamo che le indagini possano al più presto scagionare il fratello di Donzelli.

Beh, sapete come ha replicato Donzelli? Non negando, o viceversa scusandosi, ma semplicemente rinnegando suo fratello. Ha detto che suo fratello vota per il centrosinistra. E che quindi non ha niente a che fare con lui. Come abbiamo riassunto nel titolo di prima pagina, citando il titolo di un vecchio libro di Antonio Pennacchi, “mio fratello è figlio unico”. Naturalmente nessuno vieta all’onorevole Donzelli di usare gli argomenti che vuole per le sue polemiche in Tv. Certo, l’immagine che ne esce non è proprio quella di un combattente coraggioso. Rinnegare il proprio fratello nel momento nel quale si trova ad attraversare il periodo più difficile della sua vita, non è proprio il massimo che ci si può aspettare da una persona.

In genere le persone di una certa statura morale difendono i fratelli e i parenti e gli amici. Uno dei padri della destra di questo secolo, Gianfranco Fini, quando si trovò nei guai non per colpa sua ma per colpa del fratello della sua compagna (la nota vicenda della casa di Montecarlo), non fu neanche sfiorato dall’idea di poterlo scaricare. Tantomeno di accusarli di essere di sinistra. Diciamo la verità: un’altra stoffa, un’altra moralità politica.

Donzelli, braccio destro di Meloni: «La sera mangio a casa, l’unico modo per non farsi risucchiare da Roma». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 10 Dicembre 2022.

Nato in una famiglia di sinistra, il capo della macchina di FdI ha conosciuto la premier nel 1999: «Quando dissi a mia madre che mi ero iscritto al Fuan si mise a piangere. A mio nonno, anche lui socialista e antifascista, a pranzo andò il boccone di traverso...»

Faccia da ragazzino, Giovanni Donzelli ha però soffiato 47 candeline. Oggi si ritrova in mano le chiavi della «macchina» del primo partito italiano. È il braccio operativo di Giorgia Meloni , che di lui pare fidarsi ciecamente. Al civico 39 di Via della Scrofa, storico crocevia della destra italiana, il responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia siede nella stanza in cui è passato Giorgio Almirante, davanti a una scrivania in radica che fu di Gianfranco Fini. Ritrovarsi catapultati al governo dell’Italia, dopo lunghi anni di opposizione intransigente, costringe a fare i conti con una enorme responsabilità. E così ha cambiato marcia anche lui, il fu «guastafeste», nato e cresciuto in una famiglia tutta di sinistra.

Onorevole, ci racconta il primo incontro con la futura premier?

«Era il ‘99, fuori dal liceo Michelangiolo, nella mia Firenze, durante un volantinaggio contro le falsità nei libri di testo. Giorgia e Francesco (Lollobrigida, attuale ministro che ancora non era suo cognato, ndr) vennero da Roma. Poi, nel 2001, Fini avvia la rifondazione del movimento giovanile di An, che era in una fase di stanca. Dopo una lunga impasse, io, che avevo come riferimento Gasparri e La Russa, da leader degli universitari dissi a una riunione dei giovani dell’allora corrente di Destra Protagonista: “Meloni è la più brava, sarà la nostra candidata”».

E a livello umano cosa vi lega?

«Beh, la cosa più importante: l’11 maggio 2003 Meloni mi chiese all’ultimo momento di sostituirla a un dibattito in Abruzzo. Sotto quel palco ho conosciuto Alessia, una militante, poi ci siamo sposati e sono nati i nostri due figli».

Nato in una famiglia di sinistra, nella (fu) rossa Toscana, lei scelse di andare a destra, a volte anche molto a destra. Com’è andata?

«I miei erano di sinistra, ma aperti e tolleranti. Mio padre, che ho perso quando avevo 18 anni, aveva la tessera del Psi. Iniziai a interessarmi di politica dopo le stragi di mafia e Tangentopoli, con il Msi che fu l’unico partito a non essere coinvolto. E rimasi colpito dai ragazzi del Fronte della gioventù ai funerali e di Borsellino. Nell’immaginario di casa, la destra erano “quelli sbagliati”. A mia madre dissi che mi ero iscritto al Fuan e si mise a piangere. A mio nonno, anche lui socialista e antifascista, a pranzo andò il boccone di traverso...».

Da ragazzo si era prima iscritto a Lettere, poi ad Agraria. Tanta politica, ma mai discussa la tesi. I collettivi di sinistra la canzonavano con scritte: «Donzelli laureati!».

Più d’una volta siete arrivati alle mani... «Erano quelli di sinistra che mi picchiavano, io mi difendevo. Una volta, a Scienze politiche, mi misero a testa in giù dal terzo piano, tenendomi per le caviglie. Ho subìto di tutto, ma ho sempre difeso le mie idee».

In tanti, visto il suo legame Meloni, la davano per ministro certo. Lei, però, rispondeva che in un ministero no, non ci voleva andare. Accontentato?

«Abbiamo un capo, Giorgia, che conosce pregi e difetti di tutti noi. Però, quando mi ha consultato, le ho detto che mi sarebbe piaciuto continuare a occuparmi dell’organizzazione del partito, una soddisfazione dopo anni passati sulla soglia della sopravvivenza. Il partito deve continuare a essere la base di tutto, specie ora che siamo al governo e che dovremo prendere decisioni che non sempre porteranno consenso “ora e subito”. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad ascese politiche irresistibili e a cadute rovinose. Un esempio su tutti? Il 40% di Renzi con il Pd, e non solo. Il partito non può essere trascurato».

Cos’è successo il 25 settembre 2022: l’Italia ha sdoganato la destra-destra, compreso qualche nostalgico, o cos’altro?

«Una parte del Paese ha votato con convinzione la coerenza e la credibilità del nostro progetto politico. Non c’è nessuno sdoganamento. Gli italiani, nonostante la delegittimazione della sinistra, hanno confermato che non siamo impresentabili».

Il pregio di Meloni?

«L’umanità».

Il difetto?

«La severità. Con tutti noi, che siamo cresciuti insieme, ma ciò viene attenuato dal fatto che Giorgia è severa soprattutto verso sé stessa. E ciò è un grande stimolo».

L’avrà anche fatta arrabbiare...

«Beh, tante volte! (ride, ndr) Ma una volta l’ho delusa. Nel 2012, quando si sarebbero dovute tenere le primarie per eleggere il leader del Pdl, La Russa e Gasparri mi chiesero di sostenere Alfano. Dissi loro che, però, era l’ultimo debito di riconoscenza. Giorgia, che era la candidata outsider, ci rimase giustamente male. Ma poi fu l’inizio di tutto, perché quelle primarie non si fecero e il 16 dicembre del 2012 fondammo il nostro nuovo partito».

Alcuni la definiscono un «monaco di destra». Niente abiti sartoriali come tanti suoi colleghi, quasi mai al ristorante, niente feste e locali...

«La sera mangio a casa. Con l’amico e collega Andrea Delmastro condivido un doppio monolocale, con cucina in comune. È autodifesa, sopravvivenza. È l’unico modo per non farsi risucchiare dal vortice di Roma. Perché altrimenti ti ritrovi a letto alle 3 di notte senza aver compicciato nulla, e la mattina non sei lucido».

Cinque personalità nel suo pantheon?

«Giorgio Almirante e Giuseppe Tatarella, i primi a teorizzare l’allargamento della destra. Paolo Borsellino, perché pur essendo uomo di destra da magistrato non ha mai servito la destra, ma l’Italia. Adriano Olivetti, un imprenditore illuminato. E Stefano Bertacco, nostro capogruppo al Senato, morto nella scorsa legislatura: ha avuto una vita difficile, ma la sua esperienza dimostra che bisogna sempre crederci».

Di Fini cosa dice? Senza la svolta di Fiuggi difficilmente sareste a Palazzo Chigi, oggi...

«Sono emozioni forti. Io ho iniziato a fare politica anche perché innamorato di Fini, poi la delusione che ci ha provocato è stata forte. Di sicuro dobbiamo dire che se FdI ha la classe dirigente di oggi è anche grazie a lui, che ci ha lasciati sempre liberi in Alleanza nazionale, anche quando la pensavamo all’opposto».

Cos’è stato il fascismo?

«Una fase della storia d’Italia con cui ancora purtroppo non abbiamo la serenità di fare i conti. Ancora oggi il fascismo viene usato come un’arma nell’attualità. Come popolo italiano potremo prenderne davvero le distanze, come necessario, nel momento in cui avremo la capacità di non rievocarlo appunto nell’attualità».

Oggi esiste ancora?

«Se qualcuno in Italia pensa di restaurare il fascismo è un pericolo, anche di sanità mentale. È gravissimo anche solo ipotizzare di riportare in Italia razzismo, limitazione delle libertà, repressione degli oppositori».

Quindi CasaPound non dovrebbe esistere?

«Intanto mi risulta che CasaPound abbia interrotto la propria attività politica come partito. Nella nostra Costituzione esiste un perfetto equilibrio tra i poteri. I nostri padri costituenti l’hanno potuta scrivere proprio perché non c’era più il fascismo. È stato previsto che non può essere la politica a decidere quale partito può esistere o meno. Perché altrimenti si rischierebbe appunto un ritorno al passato. Tocca alla magistratura, e al ministero dell’Interno nei casi più gravi, intervenire quando si ravvisa pericolo per la stabilità democratica».

Fini affermò che «il fascismo fu il male assoluto». È d’accordo?

«Nel contesto delle leggi razziali, come affermò lui, assolutamente sì».

Suo fratello Niccolò, a ottobre, è stato arrestato per bancarotta. Ha ricevuto più attacchi o solidarietà?

«Umanamente questa vicenda mi ha fatto molto soffrire, per l’amore fraterno che ci lega. Ho fiducia nei magistrati e nella possibilità di Niccolò di dimostrare la sua innocenza. Al di là del lato affettivo, ho affrontato questo episodio con serenità politica, perché non ho mai avuto nessun legame tra l’attività imprenditoriale di mio fratello e la mia politica. Non ci sono stati né attacchi né solidarietà, perché non ce n’era bisogno».

FdI sta per soffiare 10 candeline. Cosa farete per questo compleanno?

«Una grande festa in piazza del Popolo: 15, 16 e 17 dicembre, chiuderà Giorgia Meloni. Invitiamo tutti a passarci, anche chi non la pensa come noi».