Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
SETTIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Vintage.
Le prevendite.
I Televenditori.
I Balli.
Il Jazz.
La trap.
Il musical è nato a Napoli.
Morti di Fame.
I Laureati.
Poppe al vento.
Il lato eccentrico (folle) dei Vip.
La Tecno ed i Rave.
Alias: i veri nomi.
Woodstock.
Hollywood.
Spettacolo mafioso.
Il menù dei vip.
Il Duo è meglio di Uno.
Non è la Rai.
Abel Ferrara.
Achille Lauro.
Adria Arjona.
Adriano Celentano.
Afef Jnifen.
Aida Yespica.
Alan Sorrenti.
Alba Parietti.
Al Bano Carrisi.
Al Pacino.
Alberto Radius.
Aldo, Giovanni e Giacomo.
Alec Baldwin.
Alessandra Amoroso.
Alessandra Celentano.
Alessandra Ferri.
Alessandra Mastronardi.
Alessandro Bergonzoni.
Alessandro Borghese.
Alessandro Cattelan.
Alessandro Gassman.
Alessandro Greco.
Alessandro Meluzzi.
Alessandro Preziosi.
Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.
Alessio Boni.
Alessia Marcuzzi.
Alessia Merz.
Alessio Giannone: Pinuccio.
Alessandro Haber.
Alex Britti.
Alexia.
Alice.
Alfonso Signorini.
Alyson Borromeo.
Alyx Star.
Alvaro Vitali.
Amadeus.
Amanda Lear.
Ambra Angiolini.
Anastacia.
Andrea Bocelli.
Andrea Delogu.
Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.
Andrea Sartoretti.
Andrea Zalone.
Andrée Ruth Shammah.
Angela Finocchiaro.
Angelina Jolie.
Angelina Mango.
Angelo Branduardi.
Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.
Anna Falchi.
Anna Galiena.
Anna Maria Barbera.
Anna Mazzamauro.
Ana Mena.
Anna Netrebko.
Anne Hathaway.
Anne Hathaway.
Annibale Giannarelli.
Antonella Clerici.
Antonella Elia.
Antonella Ruggiero.
Antonello Venditti e Francesco De Gregori.
Antonino Cannavacciuolo.
Antonio Banderas.
Antonio Capuano.
Antonio Cornacchione.
Antonio Vaglica.
Après La Classe.
Arisa.
Arnold Schwarzenegger.
Asia e Dario Argento.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Barbara Bouchet.
Barbara D'urso.
Barbra Streisand.
Beatrice Quinta.
Beatrice Rana.
Beatrice Segreti.
Beatrice Venezi.
Belen Rodriguez.
Bella Lexi.
Benedetta D'Anna.
Benedetta Porcaroli.
Benny Benassi.
Peppe Barra.
Beppe Caschetto.
Beppe Vessicchio.
Bianca Guaccero.
BigTittyGothEgg o GothEgg.
Billie Eilish.
Blanco.
Blake Blossom.
Bob Dylan.
Bono Vox.
Boomdabash.
Brad Pitt.
Brigitta Bulgari.
Britney Spears.
Bruce Springsteen.
Bruce Willis.
Bruno Barbieri.
Bruno Voglino.
Cameron Diaz.
Caparezza.
Carla Signoris.
Carlo Conti.
Carlo Freccero.
Carlo Verdone.
Carlos Santana.
Carmen Di Pietro.
Carmen Russo.
Carol Alt.
Carola Moccia, alias La Niña.
Carolina Crescentini.
Carolina Marconi.
Cate Blanchett.
Catherine Deneuve.
Catherine Zeta Jones.
Caterina Caselli.
Céline Dion.
Cesare Cremonini.
Cesare e Mia Bocci.
Chiara Francini.
Chloe Cherry.
Christian De Sica.
Christiane Filangieri.
Claudia Cardinale.
Claudia Gerini.
Claudia Pandolfi.
Claudio Amendola.
Claudio Baglioni.
Claudio Cecchetto.
Claudio Lippi.
Claudio Santamaria.
Claudio Simonetti.
Coez.
Coma Cose.
Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.
Corrado Tedeschi.
Costantino Della Gherardesca.
Cristiana Capotondi.
Cristiano De André.
Cristiano Donzelli.
Cristiano Malgioglio.
Cristina D'Avena.
Cristina Quaranta.
Dado.
Damion Dayski.
Dan Aykroyd.
Daniel Craig.
Daniela Ferolla.
Daniela Martani.
Daniele Bossari.
Daniele Quartapelle.
Daniele Silvestri.
Dargen D'Amico.
Dario Ballantini.
Dario Salvatori.
Dario Vergassola.
Davide Di Porto.
Davide Sanclimenti.
Diana Del Bufalo.
Dick Van Dyke.
Diego Abatantuono.
Diego Dalla Palma.
Diletta Leotta.
Diodato.
Dita von Teese.
Ditonellapiaga.
Dominique Sanda.
Don Backy.
Donatella Rettore.
Drusilla Foer.
Dua Lipa.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Eden Ivy.
Edoardo Bennato.
Edoardo Leo.
Edoardo Vianello.
Eduardo De Crescenzo.
Edwige Fenech.
El Simba (Alex Simbala).
Elena Lietti.
Elena Sofia Ricci.
Elenoire Casalegno.
Elenoire Ferruzzi.
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Giorgi.
Eleonora Pedron.
Elettra Lamborghini.
Elio e le Storie Tese.
Elio Germano.
Elisa Esposito.
Elisabetta Canalis.
Elisabetta Gregoraci.
Elodie.
Elton John.
Ema Stokholma.
Emanuela Fanelli.
Emanuela Folliero.
Emanuele Fasano.
Eminem.
Emma Marrone.
Emma Rose.
Emma Stone.
Emma Thompson.
Enrico Bertolino.
Enrica Bonaccorti.
Enrico Lucci.
Enrico Montesano.
Enrico Papi.
Enrico Ruggeri.
Enrico Vanzina.
Enzo Avitabile.
Enzo Braschi.
Enzo Garinei.
Enzo Ghinazzi in arte Pupo.
Enzo Iacchetti.
Erika Lust.
Ermal Meta.
Eros Ramazzotti.
Eugenio Finardi.
Eva Grimaldi.
Eva Henger.
Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.
Fabio Concato.
Fabio Rovazzi.
Fabio Testi.
Fabri Fibra.
Fabrizio Corona.
Fabrizio Moro.
Fanny Ardant.
Fausto Brizzi.
Fausto Leali.
Federica Nargi e Alessandro Matri.
Federica Panicucci.
Ficarra e Picone.
Filippo Neviani: Nek.
Filippo Timi.
Filomena Mastromarino, in arte Malena.
Fiorella Mannoia.
Flavio Briatore.
Flavio Insinna.
Forest Whitaker.
Francesca Cipriani.
Francesca Dellera.
Francesca Fagnani.
Francesca Michielin.
Francesca Manzini.
Francesca Reggiani.
Francesco Facchinetti.
Francesco Gabbani.
Francesco Guccini.
Francesco Sarcina e le Vibrazioni.
Franco Maresco.
Franco Nero.
Franco Trentalance.
Francis Ford Coppola.
Frank Matano.
Frida Bollani.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gabriel Garko.
Gabriele Lavia.
Gabriele Salvatores.
Gabriele Sbattella.
Gabriele e Silvio Muccino.
Geena Davis.
Gegia.
Gene e Charlie Gnocchi.
Geppi Cucciari.
Gérard Depardieu.
Gerry Scotti.
Ghali.
Giancarlo Giannini.
Gianluca Cofone.
Gianluca Grignani.
Gianna Nannini.
Gianni Amelio.
Gianni Mazza.
Gianni Morandi.
Gianni Togni.
Gigi D’Agostino.
Gigi D’Alessio.
Gigi Marzullo.
Gigliola Cinquetti.
Gina Lollobrigida.
Gino Paoli.
Giorgia Palmas.
Giorgio Assumma.
Giorgio Lauro.
Giorgio Panariello.
Giovanna Mezzogiorno.
Giovanni Allevi.
Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.
Giovanni Lindo Ferretti.
Giovanni Scialpi.
Giovanni Truppi.
Giovanni Veronesi.
Giulia Greco.
Giuliana De Sio.
Giulio Rapetti: Mogol.
Giuseppe Gibboni.
Giuseppe Tornatore.
Giusy Ferreri.
Gli Extraliscio.
Gli Stadio.
Guendalina Tavassi.
Guillermo Del Toro.
Guillermo Mariotto.
Guns N' Roses.
Gwen Adora.
Harrison Ford.
Hu.
I Baustelle.
I Cugini di Campagna.
I Depeche Mode.
I Ferragnez.
I Maneskin.
I Negramaro.
I Nomadi.
I Parodi.
I Pooh.
I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.
Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.
Il Volo.
Ilary Blasi.
Ilona Staller: Cicciolina.
Irama.
Irene Grandi.
Irina Sanpiter.
Isabella Ferrari.
Isabella Ragonese.
Isabella Rossellini.
Iva Zanicchi.
Ivan Cattaneo.
Ivano Fossati.
Ivano Marescotti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
J-Ax.
Jacopo Tissi.
Jamie Lee Curtis.
Janet Jackson.
Jeff Goldblum.
Jenna Starr.
Jennifer Aniston.
Jennifer Lopez.
Jerry Calà.
Jessica Rizzo.
Jim Carrey.
Jo Squillo.
Joe Bastianich.
Jodie Foster.
Jon Bon Jovi.
John Landis.
John Travolta.
Johnny Depp.
Johnny Dorelli e Gloria Guida.
José Carreras.
Julia Ann.
Julia Roberts.
Julianne Moore.
Justin Bieber.
Kabir Bedi.
Kathy Valentine.
Katia Ricciarelli.
Kasia Smutniak.
Kate Moss.
Katia Noventa.
Kazumi.
Khadija Jaafari.
Kim Basinger.
Kim Rossi Stuart.
Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.
Klaus Davi.
La Rappresentante di Lista.
Laetitia Casta.
Lando Buzzanca.
Laura Chiatti.
Laura Freddi.
Laura Morante.
Laura Pausini.
Le Donatella.
Lello Analfino.
Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.
Levante.
Liberato è Gennaro Nocerino.
Ligabue.
Liya Silver.
Lila Love.
Liliana Fiorelli.
Liliana Cavani.
Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.
Linda Evangelista.
Lino Banfi.
Linus.
Lizzo.
Lo Stato Sociale.
Loredana Bertè.
Lorella Cuccarini.
Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Lorenzo Zurzolo.
Loretta Goggi.
Lory Del Santo.
Luca Abete.
Luca Argentero.
Luca Barbareschi.
Luca Carboni.
Luca e Paolo.
Luca Guadagnino.
Luca Imprudente detto Luchè.
Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.
Luca Tommassini.
Luca Zingaretti.
Luce Caponegro in arte Selen.
Lucia Mascino.
Lucrezia Lante della Rovere.
Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.
Luigi Strangis.
Luisa Ranieri.
Maccio Capatonda.
Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.
Mago Forest: Michele Foresta.
Mahmood.
Madame.
Mal.
Malcolm McDowell.
Malena…Milena Mastromarino.
Malika Ayane.
Manuel Agnelli.
Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.
Mara Maionchi.
Mara Sattei.
Mara Venier.
Marcella Bella.
Marco Bellavia.
Marco Castoldi: Morgan.
Marco Columbro.
Marco Giallini.
Marco Leonardi.
Marco Masini.
Marco Marzocca.
Marco Mengoni.
Marco Sasso è Lucrezia Borkia.
Margherita Buy e Caterina De Angelis.
Margherita Vicario.
Maria De Filippi.
Maria Giovanna Elmi.
Maria Grazia Cucinotta.
Marika Milani.
Marina La Rosa.
Marina Marfoglia.
Mario Luttazzo Fegiz.
Marilyn Manson.
Mary Jane.
Marracash.
Martina Colombari.
Massimo Bottura.
Massimo Ceccherini.
Massimo Lopez.
Massimo Ranieri.
Matilda De Angelis.
Matilde Gioli.
Maurizio Lastrico.
Maurizio Pisciottu: Salmo.
Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.
Mauro Pagani.
Max Felicitas.
Max Gazzè.
Max Giusti.
Max Pezzali.
Max Tortora.
Melanie Griffith.
Melissa Satta.
Memo Remigi.
Michael Bublé.
Michael J. Fox.
Michael Radford.
Michela Giraud.
Michelangelo Vood.
Michele Bravi.
Michele Placido.
Michelle Hunziker.
Mickey Rourke.
Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.
Miguel Bosè.
Milena Vukotic.
Miley Cyrus.
Mimmo Locasciulli.
Mira Sorvino.
Miriam Dalmazio.
Monica Bellucci.
Monica Guerritore.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nada.
Nancy Brilli.
Naomi De Crescenzo.
Natalia Estrada.
Natalie Portman.
Natasha Stefanenko.
Natassia Dreams.
Nathaly Caldonazzo.
Neri Parenti.
Nia Nacci.
Nicola Savino.
Nicola Vaporidis.
Nicolas Cage.
Nicole Kidman.
Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.
Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.
Niccolò Fabi.
Nina Moric.
Nino D'Angelo.
Nino Frassica.
Noemi.
Oasis.
Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.
Oliver Stone.
Olivia Rodrigo.
Olivia Wilde e Harry Styles.
Omar Pedrini.
Orietta Berti.
Orlando Bloom.
Ornella Muti.
Ornella Vanoni.
Pamela Anderson.
Pamela Prati.
Paola Barale.
Paola Cortellesi.
Paola e Chiara.
Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Quattrini.
Paola Turci.
Paolo Belli.
Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.
Paolo Calabresi.
Paolo Conte.
Paolo Crepet.
Paolo Rossi.
Paolo Ruffini.
Paolo Sorrentino.
Patrizia Rossetti.
Patti Smith.
Penélope Cruz.
Peppino Di Capri.
Peter Dinklage.
Phil Collins.
Pier Luigi Pizzi.
Pierfrancesco Diliberto: Pif.
Pietro Diomede.
Pietro Valsecchi.
Pierfrancesco Favino.
Pierluigi Diaco.
Piero Chiambretti.
Pierò Pelù.
Pinguini Tattici Nucleari.
Pino Donaggio.
Pino Insegno.
Pio e Amedeo.
Pippo (Santonastaso).
Peter Gabriel.
Placido Domingo.
Priscilla Salerno.
Pupi Avati.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quentin Tarantino.
Raffaele Riefoli: Raf.
Ramona Chorleau.
Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Raul Cremona.
Raphael Gualazzi.
Red Canzian.
Red Ronnie.
Reya Sunshine.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Renato Zero.
Renzo Arbore.
Riccardo Chailly.
Riccardo Cocciante.
Riccardo Manera.
Riccardo Milani.
Riccardo Scamarcio.
Ricky Gianco.
Ricky Johnson.
Ricky Martin.
Ricky Portera.
Rihanna.
Ringo.
Rita Dalla Chiesa.
Rita Rusic.
Roberta Beta.
Roberto Bolle.
Roberto Da Crema.
Roberto De Simone.
Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Roberto Satti: Bobby Solo.
Roberto Vecchioni.
Robbie Williams.
Rocco Papaleo.
Rocco Siffredi.
Roman Polanski.
Romina Power.
Romy Indy.
Ron: Rosalino Cellamare.
Ron Moss.
Rosanna Lambertucci.
Rosanna Vaudetti.
Rosario Fiorello.
Giuseppe Beppe Fiorello.
Rowan Atkinson.
Russel Crowe.
Rkomi.
Sabina Ciuffini.
Sabrina Ferilli.
Sabrina Impacciatore.
Sabrina Salerno.
Sally D’Angelo.
Salvatore (Totò) Cascio.
Sandra Bullock.
Santi Francesi.
Sara Ricci.
Sara Tommasi.
Scarlett Johansson.
Sebastiano Vitale: Revman.
Selena Gomez.
Serena Dandini.
Serena Grandi.
Serena Rossi.
Sergio e Pietro Castellitto.
Sex Pistols.
Sfera Ebbasta.
Sharon Stone.
Shel Shapiro.
Silvia Salemi.
Silvio Orlando.
Silvio Soldini.
Simona Izzo.
Simona Ventura.
Sinead O’Connor.
Sonia Bergamasco.
Sonia Faccio: Lea di Leo.
Sonia Grey.
Sophia Loren.
Sophie Marceau.
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Stefania Rocca.
Stefania Sandrelli.
Stefano Accorsi e Fabio Volo.
Stefano Bollani.
Stefano De Martino.
Steve Copeland.
Steven Spielberg.
Stormy Daniels.
Sylvester Stallone.
Sylvie Renée Lubamba.
Tamara Baroni.
Tananai.
Teo Teocoli.
Teresa Saponangelo.
Tiberio Timperi.
Tim Burton.
Tina Cipollari.
Tina Turner.
Tinto Brass.
Tiziano Ferro.
Tom Cruise.
Tom Hanks.
Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.
Tommaso Zanello alias Piotta.
Tommy Lee.
Toni Servillo.
Totò Cascio.
U2.
Umberto Smaila.
Umberto Tozzi.
Ultimo.
Uto Ughi.
Valentina Bellucci.
Valentina Cervi.
Valeria Bruni Tedeschi.
Valeria Graci.
Valeria Marini.
Valerio Mastandrea.
Valerio Scanu.
Vanessa Scalera.
Vasco Rossi.
Vera Gemma.
Veronica Pivetti.
Victoria Cabello.
Vincenzo Salemme.
Vinicio Marchioni.
Viola Davis.
Violet Myers.
Virginia Raffaele.
Vittoria Puccini.
Vittorio Brumotti.
Vittorio Cecchi Gori.
Vladimir Luxuria.
Woody Allen.
Yvonne Scio.
Zucchero.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Solito pre Sanremo.
Terza Serata.
Quarta Serata.
Quinta Serata.
Chi ha vinto?
Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)
INDICE NONA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Superman.
Il Body Building.
Quelli che...lo Yoga.
Wags e Fads.
Il Coni.
Gli Arbitri.
Quelli che …il Calcio I Parte.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che …il Calcio II Parte.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Mondiali 2022.
I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I personal trainer.
Quelli che …La Pallacanestro.
Quelli che …La Pallavolo.
Quelli che..la Palla Ovale.
Quelli che...la Pallina da Golf.
Quelli che …il Subbuteo.
Quelli che…ti picchiano.
Quelli che…i Motori.
La Danza.
Quelli che …l’Atletica.
Quelli che…la bicicletta.
Quelli che …il Tennis.
Quelli che …la Scherma.
I Giochi olimpici invernali.
Quelli che …gli Sci.
Quelli che si danno …Dama e Scacchi.
Quelli che si danno …all’Ippica.
Il Doping.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SETTIMA PARTE
· Quentin Tarantino.
Tarantino: «Mia madre non mi ha mai sostenuto, promisi a me stesso che non le avrei mai dato neanche un centesimo». Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 9 settembre 2022.
Realizzare i propri sogni costa fatica e duro lavoro. Il supporto della famiglia può essere fondamentale per non lasciarsi abbattere dalle difficoltà. C’è poi chi ce l’ha fatta anche senza il sostegno dei genitori, come il regista di Pulp Fiction, Quentin Tarantino. In un’intervista rilasciata a Brian Koppelman nel podcast «The Moment», Tarantino ha dichiarato di non essere mai stato appoggiato dalla madre e di aver agito di conseguenza: «Non era contenta delle difficoltà scolastiche e si lamentava con me. Mi rimproverava perché detestava che non fossi portato per la scuola. Ricordo che un giorno, con tono sarcastico, nel mezzo di una delle sue filippiche, mi disse “Oh e comunque questa tua carriera da scrittore, con tanto di segno delle virgolette fatto con le dita, finisce qui”. In quell’occasione promisi a me stesso che, una volta raggiunto il successo, non le avrei mai dato un centesimo». Irremovibile. «Un proposito che ho rispettato - ha raccontato il regista - perché bisogna sempre ricordare che le parole hanno delle conseguenze, soprattutto quelle pronunciate a un bambino: il sarcasmo di un genitore può essere davvero pericoloso e difficile da digerire».
L’infanzia di Quentin Tarantino
La madre del regista lo ha avuto da giovanissima, aveva infatti solo 16 anni. Lei ha sempre lavorato come infermiera mentre il padre era un musicista e attore di origini italiane. Prima che Quentin Tarantino nascesse, il padre lasciò sua madre e lei dovette occuparsi di suo figlio prima da sola e poi con l’aiuto del nuovo marito. Quentin e sua madre hanno sempre avuto scontri e visioni opposte su quel futuro che stava cercando di costruirsi. «Invece di seguire le lezioni creavo storie e buttavo giù sceneggiati» ha raccontato il regista , che ha scritto la sua prima sceneggiatura a 12 anni. A 15 anni invece ha lasciato la scuola per lavorare come uscere in un cinema. La sua carriera è iniziata dal basso, ora guadagna milioni con il lavoro che ama. Sua madre ha 75 anni: «L’ho aiutata solo una volta, per una situazione complicata con il fisco, ma non le ho comprato una casa».
Raf: «Al primo appuntamento mia moglie mi diede buca. Le stavo antipatico, credeva fossi un montato». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.
Il cantautore: «Non mi arrabbio quasi mai, ma quando succede mi incavolo sul serio, niente self control. Con Umberto Tozzi tour e vacanze, anche la settimana bianca»
La madre di tutte le figuracce per un timido cronico.
«Finisce il concerto, si spengono le luci, due rapidi passi in avanti e prendo in pieno una grossa cassa speaker di cui mi ero dimenticato. Dopo un triplo salto carpiato con avvitamento, con la chitarra al collo, mi ritrovo a pelle d’orso sul palco proprio mentre qualcuno, sentito il tonfo, riaccende i riflettori. Mi rialzo imbarazzatissimo. Intorno a me ridono tutti, musicisti, tecnici e spettatori. E dalla prima fila, passata l’apprensione, sghignazza pure Fabrizio Frizzi che non mancava mai a una mia data, ma scappava sempre subito via, senza passare dal camerino. E ogni volta che lo invitavo — “Stavolta sei mio ospite però” — mi rispondeva che aveva già comprato i biglietti un mese prima». Cosa resta di quegli anni Ottanta (favolosi, edonisti, chiassosi) glielo chiediamo qui sotto, ma di certo ci è rimasto lui: Raf (Raffaele Riefoli), 63 anni (eh già, non sembra), praticamente inossidabile da quando (nel 1984) faceva ballare l’universo mondo con il suo «Oh oh oh /oh oh oh/ you take my self/you take my self control».
Sempre stato così introverso?
«Sì. E sono migliorato, eh. Da ragazzino invece ero un disastro. Mi vergognavo, con guance e orecchie paonazze, non riuscivo a parlare, farfugliavo, dicevo sempre la cosa sbagliata».
Povera stella, succede.
«Non mi aiutava avere un padre molto severo, però a quei tempi lo erano tutti. Bastava un niente e volava lo scappellotto. A casa, a me e mio fratello, ci faceva filare. Non voleva che giocassi a pallone, se per caso mi beccava in strada in piena partitella erano guai».
Papà Antonio, operaio specializzato, lavorava alle saline di Margherita di Savoia.
«Ricordo le montagne bianche di sale e i tramonti tinti di rosso».
L’accento pugliese non si sente per niente.
«Perché me ne sono andato a Firenze a 17 anni. E poi ho vissuto a Londra, a Milano, ora metà a Roma e metà a Miami. Quando mi arrabbio però riesce fuori, con la e aperta e la o chiusa».
E si arrabbia spesso?
«Quasi mai, ma quando succede mi incavolo sul serio, niente self control».
Cosa o chi le sventola il panno rosso davanti agli occhi?
«Le ingiustizie, le falsità, i tradimenti. Non mi chieda di chi, non glielo dico manco sotto tortura».
A 9 anni restò folgorato dai Beatles.
«Vidi un loro film sulla Rai, c’erano sì e no due canali. Decisi che volevo diventare come loro».
E quindi?
«Presi lezioni di piano dalla vicina, di chitarra da mio cugino. A 13 anni con la prima band suonavamo rock progressivo, i Jethro Tull, I King Crimson, ma anche il liscio a matrimoni e cene danzanti. Portavo i capelli lunghi e mi scambiavano per una ragazzina».
A Firenze ci andò seguendo il primo amore.
«Sabrina. Ma a quei tempi “fidanzata” era una parola da vecchi. Durò meno di sei mesi. Intanto però, con Ghigo Renzulli, futuro Litfiba, fondammo i Cafè Caracas, da una vecchia insegna di un bar appesa nella casa del Quattrocento in cui vivevo».
Mamma Luigia le spediva il famoso «pacco da giù» con salumi, friselle e verdure sott’olio?
«All’inizio no, perché i miei non erano per niente d’accordo con la mia scelta. Mi mandava qualche soldo di nascosto. Con il tempo sono arrivati pure i barattoli».
Si erano rassegnati a un figlio un po’ così.
«Gli arrivavano le voci più assurde, si erano convinti che fossi un matto debosciato dedito all’alcol e alle droghe, capirai, al massimo qualche canna. La prima volta che mi hanno visto in tv, presentato come una star internazionale, sono rimasti esterrefatti: mamma piangeva, papà restò impietrito».
A Londra, per poter suonare, faceva il cameriere.
«Nemmeno quello, perché non parlavo bene l’inglese. Ero fermo a «the cat is on the table» e delle ordinazioni non capivo niente. Perciò mi confinarono in cucina, caricavo e scaricavo la lavapiatti. Poi, diventato più bravino, ho fatto il commesso in un negozio di abbigliamento».
Però «Self Control» la scrisse in inglese.
«E dopo chiesi al mio amico Steve Piccolo di rileggere il testo, onde evitare strafalcioni. Cambiò giusto due cosine e firmò la canzone con me e Giancarlo Bigazzi. Quando compongo un pezzo, anche oggi che canto in italiano, lo butto giù in un inglese maccheronico, giusto per catturare il suono».
Tipo Celentano con Prisencolinensinainciusol.
«Esatto. Mi trovo meglio, poi lo riscrivo».
Fu un singolo che, con la cover di Laura Branigan, vendette 20 milioni di copie. Eppure lei non era contento: «Mi sentivo il fratello povero dei Duran Duran», confessò.
«Non volevo diventare un personaggio della dance più commerciale, andare in tv e cantare in playback, mi metteva ansia».
«Non avevo più amici, tutti mi guardavano in maniera strana», ha raccontato.
«Ero scontroso, scorbutico, perché mi sentivo fuori posto. E mi ritrovai più solo. Quando hai successo, sono gli altri che spesso ti vedono diverso. “Ora che è famoso non è più uno di noi”, pensano. E tu non sai mai se la gentilezza di una persona nei tuoi confronti è reale o falsa».
Con «Si può dare di più» (1987) ha vinto Sanremo per interposta persona: la scrisse lei, ma al Festival, in trio con Gianni Morandi e Umberto Tozzi ci andò Enrico Ruggeri.
«Ero legato da un contratto, non sono riuscito a liberarmi in tempo. E poi ero ancora a disagio a cantare in italiano. Pure quella l’avevo scritta in inglese, si intitolava qualcosa tipo «Celebration of my heart», nel mio solito inglese approssimativo. E no, non mi sono pentito, dopo pochi mesi è cambiato tutto: io e Umberto siamo andati all’Eurofestival con Gente di mare».
Terzi classificati. E amici da sempre e per sempre.
«Ci conoscevamo dai tempi di Firenze, quando lavoravo con Bigazzi come producer. Per dieci anni a Roma siamo stati vicini di casa, facevamo le vacanze insieme. Come quando siamo andati in settimana bianca sulle Dolomiti e, dopo le discese, ci fermavamo a mangiare nei rifugi. Prima di tornare a valle sugli sci un po’ alticci… zigzagando in pista… più che altro rotolando».
D’amore e d’accordo anche in tour.
«Un tour lunghissimo, eppure lo rifarei cento volte, perché con Umberto mi diverto come un pazzo, ogni tanto ha la luna storta, capita, però è simpaticissimo. Con lui poi non scatta nessuna competizione sul palco se uno dei due ha cantato un pezzo in più, zero problemi, solo allegria».
Un difetto lo avrà.
«È ritardatario, perché è lentissimo. Per farsi la doccia ci mette una vita, anche a tavola mangia con somma calma, gli altri hanno finito e Umberto è ancora al primo. Lui, peraltro, mi rimprovera la stessa cosa, dice che il ritardatario sono io. E a volte è vero».
Pio e Amedeo in Emigratis si sono presentati nella sua nuova casa di Miami.
«Non c’ero, hanno corrotto mia figlia Bianca. Li vedevo dalla telecamera mentre frugavano negli armadi, mettevano i miei vestiti, mi aprivano il frigo lamentandosi che c’era poco da mangiare. Tremendi, ma sono amici, foggiani, conterranei».
Il pugliese che c’è in lei ritorna, anche se vive in Florida per gran parte del tempo.
«Le orecchiette con le cime di rapa non mancano mai, nemmeno a Miami».
Cucina lei?
«Solo quello, moglie e figli mi hanno soppiantato a fornelli, ho alzato bandiera bianca».
Gianluca Grignani su Instagram la chiama fratello.
«Non ci vediamo tanto, ma gli voglio bene, ha scritto canzoni bellissime».
Il suo gruppetto di amici-amici.
«Ogni estate a casa mia facciamo grandi cene con Corrado Guzzanti, Marco Marzocca, Lillo, Teo Mammucari, se magna, se beve e si sta insieme».
Sua moglie Gabriella Labate — miss «Sei la più bella del mondo» — l’ha conosciuta nel…
«…nell’87, credo».
Voi uomini con le date, si sa, non andate d’accordo.
«Ero a Saint Vincent, lei faceva parte del corpo di ballo. Aveva i capelli legati, un maglione con la cinta in vita, niente di speciale, eppure l’ho notata subito. Mi sembrava in effetti di averla già vista. Più tardi mi sono messo a provare da solo sul palco davanti alle sedie vuote. A un tratto arriva lei e si siede. Mi fissa. Mi cade la sigaretta. Mi cade lo spartito. Le stavo antipatico, credeva fossi un montato. Lì però ha capito che ero soltanto imbranato e timido, non str…. Dopo l’ho invitata a cena. “Se mi vuoi raggiungere…”».
Le ha dato buca.
«Perché ha finito tardi. Però avevo lasciato un biglietto per lei al proprietario del ristorante. “Ti ho aspettato finora, purtroppo non sei venuta. Questo è il mio numero, se ti va, chiamami”».
Ha funzionato?
«Mi ha telefonato qualche giorno dopo, ci siamo rivisti a Napoli e lì mi è venuto in mente dove l’avevo già vista: durante uno show tv, mentre cantavo, c’erano delle ballerine che scendevano da una scalinata e mi passavano accanto. Mi sorridevano tutte, tranne lei. Però da quella volta non ci siamo più lasciati. Gabriella mi ha insegnato a non avere paura di aprirmi con le persone. Cerco di copiare lei, così diretta e sincera».
Come potrei non chiederle cosa è restato di quegli anni Ottanta?
«La leggerezza, sdoganata dopo la lunga stagione dell’impegno. Si è finalmente capito che non è obbligatorio essere sempre seri e profondi. E che pure la banalità a volte ha il suo dannato perché».
Raf, storia dell’amore ultratrentennale con Gabriella Labate (che all’inizio lo trovava antipatico). Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022.
Il cantautore - Raffaele Riefoli all’anagrafe - oggi compie 63 anni. È sposato dal 1996 con la showgirl, da cui ha avuto due figli
Il primo incontro dietro le quinte
«Ci siamo incontrati in una trasmissione, lui cantava, io ballavo. È stato un incontro vero, fatto di sguardi», ha raccontato in un’intervista a Vanity Fair Gabriella Labate - che in passato ha lavorato in tv come showgirl, tra spettacoli del Bagaglino, Tg delle vacanze e Scherzi a parte - a proposito del primo incontro con Raf. Non è stato quel che si dice un colpo di fulmine: «Mi ha invitato a cena. All’inizio a me stava antipatico perché mi sembrava un altro tipo di persona, poi ho capito com’era davvero. Comunque a quella cena non ci sono andata, ho lavorato fino a tardi e all’epoca non c’era modo di avvisarlo. Quando sono arrivata al ristorante, che stava per chiudere, lui non c’era ma uno dei camerieri mi ha consegnato una sua lettera».
Vera magia
«Abbiamo superato Al Bano e Romina». Lo ha detto scherzando Gabriella Labate a proposito della sua lunga storia d’amore con Raf, che dura da più di 30 anni. Un’impresa rimanere insieme per così tanto tempo? «Non è difficile se c’è la vera magia - ha spiegato il cantautore, che proprio oggi compie 63 anni - . Io e Gabriella non siamo mai arrivati a dirci “ci lasciamo”. Ci sono discussioni sì, ma niente e nessuno può scalfire il nostro rapporto. Lo dico anche in “Come una favola”: “È un amore in cui non crede nessuno”. All’inizio tutti pensavano che fosse solo una delle mie avventure». Ecco come tutto è iniziato.
Il primo incontro dietro le quinte
«Ci siamo incontrati in una trasmissione, lui cantava, io ballavo. È stato un incontro vero, fatto di sguardi», ha raccontato in un’intervista a Vanity Fair Gabriella Labate - che in passato ha lavorato in tv come showgirl, tra spettacoli del Bagaglino, Tg delle vacanze e Scherzi a parte - a proposito del primo incontro con Raf. Non è stato quel che si dice un colpo di fulmine: «Mi ha invitato a cena. All’inizio a me stava antipatico perché mi sembrava un altro tipo di persona, poi ho capito com’era davvero. Comunque a quella cena non ci sono andata, ho lavorato fino a tardi e all’epoca non c’era modo di avvisarlo. Quando sono arrivata al ristorante, che stava per chiudere, lui non c’era ma uno dei camerieri mi ha consegnato una sua lettera».
Le nozze nel 1996
Innamorati da oltre trent’anni quest’anno Raf e Gabriella Labate (che custodiscono il loro amore lontano dai riflettori) festeggiano 26 anni di matrimonio: sono infatti convolati a nozze nel 1996. La proposta è arrivata su una spiaggia, in riva al mare: «Eravamo in Giamaica per il video di “Il battito animale” e una sera mi ha detto: “Vuoi sposarmi? Hai tre secondi per rispondere”».
Due figli
Nel 1996 e nel 2000 Raf e Gabriella Labate hanno dato il benvenuto ai loro due figli, Bianca e Samuele. Per seguire la sua famiglia la showgirl ha deciso di lasciare (senza rimpianti) il mondo dello spettacolo. «Se sposi una donna che fa spettacolo e poi glielo proibisci sei un talebano - ha spiegato Raf -. Piuttosto non la sposi. Gabriella era stanca dell’ambiente e quando abbiamo avuto Bianca e Samuele ha preferito dedicarsi totalmente a loro».
Il segreto di un amore longevo
L’amore per Gabriella ha ispirato il cantautore nella composizione di molte canzoni. Su tutte «Sei la più bella del mondo»: «L’ho scritto per conquistare una ragazza, quella ragazza che da tanti anni è mia moglie, Gabriella», ha spiegato. Ma anche la showgirl si è cimentata come autrice, scrivendo con il suo compagno «Metamorfosi» e «Ogni piccola cosa di te». Il segreto di un amore così longevo? Vivere sempre l'uno accanto all’altra, anche e soprattutto nei momenti difficili (come quando, anni fa, la showgirl ha dovuto affrontare un grave problema di salute legato ad un intervento chirurgico). «Il segreto è non avere segreti - ha detto Gabriella, sempre a Vanity Fair -. Vivere quotidianamente ogni cosa. Sentire di avere il piacere di stare insieme ancora per molto. Se due persone smettono di essere felici, invece, fa male continuare».
Paola Italiano per “la Stampa” il 20 luglio 2022.
C'è stato un tempo in cui per capire quale musica avremmo ascoltato in Italia da lì a poco, bisognava guardare le classifiche inglesi e americane. Per la generazione del giovane Raffaele Riefoli il viaggio a Londra era allora una tappa obbligata dell'educazione underground del giovane alternativo, specie se ambiva a fare musica. In quel tempo, precisamente il 18 agosto 1984 entrava nella top ten inglese Laura Branigan con il pezzo Self Control.
E l'autore era lui, Raffaele Riefoli, nome d'arte Raf, che arrivava da Margherita di Savoia, allora provincia di Foggia si era trasferito a Firenze per studiare all'Istituto d'arte e quindi si era avventurato senza una lira in Inghilterra, al centro del mondo. In Italia Self Control sarebbe stato il terzo singolo più venduto del 1984 dietro Stevie Wonder e gli Wham!. A 62 anni, 63 a settembre, Raf sembra ancora un ragazzo, ma erano 7 anni che non usciva con un singolo, che è finalmente è arrivato e si intitola Cherie.
Che ha fatto in questi 7 anni?
«In realtà 5, quelli della pandemia vanno tolti: non avevo voglia di uscire con un progetto nuovo perché non avrei avuto la possibilità di portarlo dal vivo, cosa che oggi è fondamentale. Sarei dovuto uscire prima con un disco ma ho avuto un diverbio con la mia vecchia casa discografica perché volevano impormi la loro linea».
Cioè?
«Faccio questo mestiere da una vita e arrivare in sala dove tutti hanno fatto già tutto e io devo solo cantare e poi tornare a casa non mi piace».
In Cherie c'è un forte richiamo alle origini: la lingua inglese (in parte) e il groove disco-funky. Non è che quel che resta degli Anni 80 alla fine è proprio la musica? Kate Bush è tornata addirittura in classifica grazie alla serie Stranger Things.
«Miracoli di Netflix. Le canzoni del passato ritornano grazie alla serie tv, ma anche grazie ai social come TikTok. Da un lato è un bene, dall'altro la dice lunga su come oggi sia un problema fare musica: tutto quello che viene proposto attinge inevitabilmente al passato, non c'è nulla di veramente nuovo. E non imperversano solo gli 80, si sentono tantissimo gli anni 60, anche nei tormentoni estivi».
Anche negli Anni 80 però si era già visto e sentito molto.
«Ma io ricordo il giorno in cui vidi il film dei Beatles in bianco e nero sulla Rai, avevo 13 anni: quella fu la scintilla che mi fece dire voglio diventare come loro, perché erano degli extraterrestri, non si era mai visto nulla di simile».
Per questo andò in Inghilterra?
«Tutto partiva da lì, si andava a Londra per scoprire cosa succedeva. Io volevo sentirmi al centro della rivoluzione musicale che in quegli anni era la New Wave, la nuova musica rock».
Cosa era disposto a fare quel ragazzo per realizzare i suoi sogni?
«Ero, e mi sento ancora, un ingenuo ragazzo di provincia. Per giunta della provincia del Sud. In quegli anni senza web e in cui c'erano solo la radio e la tv (e la tv aveva per giunta pochi canali) voleva dire essere distanti dal mondo. Io e i miei amici guardavamo i tramonti e sognavamo l'America. Ma era come dire oggi andiamo su Marte, a differenza dei miei figli (Bianca e Samuele, 26 e 22 anni, ndr) che in America ci sono stati decine di volte. A Londra ero un ragazzo che voleva conquistare il mondo, anche se non me ne rendevo conto: ma se non fosse stato così non avrei mai avuto la forza di andare avanti, era una vita di stenti, facevo il cameriere e altri mille lavori».
I lavori che secondo alcuni i giovani oggi non vogliano più fare: sono bimbi viziati?
«È cambiato il mondo, non si può accusare una generazione. Oggi è tutto diverso. Io vengo da una famiglia di operai e per i miei le vacanze non erano un diritto, se le sono concesse quando noi figli siamo diventati grandi. Erano comunque felici, ma questo non vuol dire che oggi i ragazzi siano viziati: semplicemente chiedono quello che ritengono gli sia dovuto, non si può pensare che rinuncino alla loro gioventù per meno del minimo sindacale, perché poi di questo parliamo».
Si offende se la chiamano boomer?
«No, ma credo che le definizioni lascino il tempo trovano e io cerco di sfuggire alle etichette.La mia carta d'identità mi mette tra i boomer: quali altri specifiche ha il boomer?».
Vediamo: che rapporto ha con i social?
«Sono nato in un'epoca in cui l'ostentazione del superfluo era quasi un sacrilegio, cosa che invece sui social viene fatta con grande naturalezza. A me imbarazza. Non sarei un bravo TikToker. Ho i profili social perché oggi se fai musica sono una parte importante, ma se non fosse per questo forse non li avrei. Questo è boomer?».
Per niente, in realtà. Passiamo al rapporto con le novità: la musica dei i giovani le piace o «voi» eravate meglio?
«Io sono aperto a tutte le novità. Ascolto volentieri la musica che ascoltano i miei figli e non è scontato: quando avevo 20 anni i miei inorridivano a sentire quello che piaceva a me».
E chi le piace?
«Ci sono tanti artisti bravi, anche se nell'offerta illimitata dello streaming è tutto da vedere chi riuscirà a resistere nel tempo. In Italia Tha Supreme è sicuramente un fenomeno, notevoli anche artisti più pop, come Blanco o Madame. Il talento dei Måneskinè evidente a tutti, anche se mi permetto di dire che da loro prima o poi io mi aspetto che facciano qualcosa di diverso da un pezzo rock costruito su un riff di chitarra, ma una canzone, magari anche più pop: come hanno fatto a un certo punto i Rolling Stones».
A proposito di pop. Lei ha firmato molti successi con Umberto Tozzi che ha spesso lamentato un atteggiamento snob da parte della critica, lui che è l'italiano che ha venduto più dischi al mondo. Vale anche per lei?
«Questo atteggiamento c'era soprattutto da parte dei colleghi: negli anni 80 erano veramente terribili, vigeva il luogo comune per cui la musica leggera era sinonimo di povertà, quando in realtà scrivere canzoni pop di successo è complicatissimo, lo hanno ammesso gli stessi cantautori osannati dalla critica. Penso che a Umberto qualcosa sia stato tolto, ma lui veniva dopo il '68, un'epoca in cui si pretendeva l'impegno a ogni costo. Io sono arrivato un po' dopo, quando le cose stavano cambiando».
Come è nata la vostra amicizia?
«A farci conoscere è stato Giancarlo Bigazzi a Firenze, io facevo il lavoro dietro le quinte, quello che oggi si chiama producer. Poi siamo diventati vicini di casa a Roma per un decennio. L'amicizia resiste anche se oggi lui vive a Monaco, io per gran parte del tempo negli Stati Uniti».
Quelli che sognava da ragazzo guardando i tramonti. Ora lo ha scoperto: come si sta in America?
«Vivo in Florida dove la qualità della vita è molto buona, e sono in una condizione di privilegio, non devo alzarmi tutte le mattine per andare a lavorare. Ma sono un grande osservatore e mi pare che gli americani negli Stati Uniti vivano un periodo di grande confusione determinato da una scena politico sociale estremamente complicata. Ora Trump minaccia di presentarsi alle elezioni e questo aumenta il conflitto sociale: e mi mette ansia vedere che oggi l'America è come una polveriera che può esplodere da un momento all'altro».
Mattia Pagliarulo per Dagospia il 2 aprile 2022.
Ve la ricordate Bambola Ramona? Sicuramente si! Giunonica, prosperosa, fiorente, rigogliosa e procace. Queste le principali caratteristiche per cui la maggior parte degli italiani ricordano la biondissima Ramona Chorleau, meglio conosciuta con il nome d’arte di Bambola Ramona, colei che con abiti succinti e movenze sensuali ha incantato il pubblico maschile nelle seconde serate di Italia Uno all’interno del programma “Cronache Marziane” durante la stagione tv 2004/2005.
Dopo il successo improvviso ed inaspettato raggiunto nel programma sono seguite altre partecipazioni sul piccolo schermo come concorrente di reality show, ospite in diversi salotti tv e come protagonista di calendari ad alto tasso erotico. Da circa otto anni a questa parte della bellissima ragazza rumena “colpevole” di aver turbato molte notti insonni del pubblico maschile nei primi anni duemila si sono perse le tracce. Oggi la incontriamo e vi sveliamo che fine ha fatto.
D. Da bomba sexy tra TV e calendari ad un lavoro normale, in quale ruolo ti trovi meglio?
R. Dipende...ho cambiato totalmente e radicalmente vita, ho 39 anni e mi sento ancora una donna sexy e piacente. Qualsiasi lavoro che ho svolto nella mia vita l’ho sempre fatto con passione, amore e tanto cuore. La vita è fatta di tappe, le cose si evolvono e cambiano. Sono stati anni difficili non lo nascondo, il successo è svanito e io mi sono dovuta reinventare e ripartire da zero, imparando ad accontentarmi.
Io non ho sempre fatto la showgirl, il mondo della spettacolo è stata solo una parentesi della mia vita; prima di approdare in televisione ero un’assistente alla poltrona di uno studio dentistico, sono stata scoperta dal mio storico agente Edoardo Artom che ha fatto di tutto per convincermi a lanciarmi.
D. Oggi lavori presso un noto ospedale di Torino e sei mamma di due gemelline. Sei soddisfatta di questa tua seconda vita?
R. Si sono molto soddisfatta di questa mia seconda vita. Lavoro presso l’ospedale Molinette di Torino e gestisco le consegne in tutti gli altri ospedali della città, in poche parole mi occupo di logistica all’interno del ramo sanitario.
D. Da parecchi anni non appari più in televisione, ti piacerebbe tornare a lavorare nel mondo dello spettacolo?
R. Non appaio in tv esattamente da otto anni, l’ultima ospitata televisiva l’ho fatta da Barbara d’Urso pochi mesi dopo essere diventata mamma. Si, devo ammettere che mi piacerebbe molto tornare a lavorare in televisione ma con un altro tipo di percorso professionale rispetto al passato, non ho più ne l’età ne la voglia di fare la valletta...
D. Hai mai ricevuto richieste strane da parte dei tuoi fans?
R. Di richieste ne ho ricevute svariate! Alcuni volevano sposarmi, altri avrebbero voluto fare dei figli con me senza nemmeno conoscermi, altri semplicemente sognavano di fare l’amore con me...sono cose che non mi hanno mai dato fastidio: con eleganza e il giusto tatto, si può dire quasi tutto.
D. Ti riconoscono ancora quando vai alle poste, al supermercato o al ristorante?
R. Molto meno rispetto al mio momento d’oro, ma ancora oggi in tanti mi ricordano e mi riconoscono.
D. Hai stregato i telespettatori di Cronache Marziane una quindicina di anni fa con il tuo sorriso smagliante, i tuoi occhi color ghiaccio e le tue curve pericolose, che ricordi hai degli anni del successo ?
R. Avevo un’altra età e vivevo tutto in maniera veloce, spensierata e senza dare l’importanza giusta alle cose che accadevano, ero svampita. Ma posso dire che quel successo l’ho vissuto a pieno e l’ho assaporato.
D. Qualche anno fa hai deciso di ridurre il seno, come mai?
R. Era un seno veramente enorme, ed era diventato ingombrante! Avevo un seno presidenziale che mi limitava in tutto, nei movimenti, nello sport, e stava iniziando a crearmi problemi alla schiena e di conseguenza alla postura. Quindi ho deciso nel 2007 di sottopormi a quest’operazione di riduzione e passare da una sesta ad una quarta, e posso dire di aver fatto la scelta giusta!
D. La Talpa, Cronache Marziane, Campioni per sempre...quale trasmissione ti è rimasta nel cuore?
R. Tutte le ho nel cuore, ma se devo scegliere ti dico Cronache Marziane, la trasmissione che mi ha consacrato! Ringrazierò sempre Fabio Canino che ha creduto in me e mi ha dato tanta forza: ero molto timida e non abituata alle telecamere.
D. Dopo il parto a seguito di gravi complicazioni hai rischiato di morire. Che ricordi hai di quel momento terribile?
R. La gravidanza era andata benissimo ed il parto anche. Qualche giorno dopo mi sono svegliata in un lago di sangue e per un’ora mi sono trovata ad un passo dalla morte. Ho chiamato l’ambulanza, avevo avuto un’ emorragia molto forte in cui ho perso più di cinque litri di sangue! Per fortuna qualcuno dall’alto mi ha protetta e mi sono salvata…
· Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 2 maggio 2022.
Raoul Bova […]
[…] Sono trent' anni dall'esordio con Mutande pazze.
È stata la mia prima parte parlata, dopo una serie di comparsate.
Ruolo?
Barman, e davanti avevo Eva Grimaldi.
E su quel set ha pensato...
E che pensavo? Ero timido e impacciato, con la Grimaldi che mi seduceva mentre stavo dietro al bancone; (sorride) come impatto è stato abbastanza forte.
[…] Paola Cortellesi ha dichiarato al Fatto: "Non mi sono mai goduta le scene d'amore, neanche quella con Bova".
(Ride, molto) Con Paola è stata una tragedia: siamo talmente amici che ci veniva da ridere; a volte ti ritrovi a girare scene con persone che conosci così bene da non riuscire a mettere il giusto distacco.
[…] Ha mai sentito l'invidia maschile?
No, anzi. Sono un uomo al quale si può presentare la propria fidanzata o moglie.
[…] E com' è Madonna?
Non ho mai raccontato le mie relazioni, neanche agli amici.
Se non parla con gli amici, figuriamoci con i giornalisti.
Ho sempre rispettato la mia parte intima.
Gli altri l'hanno rispettata?
(Sospira) Quando sei un personaggio pubblico resta poca intimità, quella poca ho cercato di salvaguardarla; (pausa) a chi ha provato ad attaccarla ho risposto con il silenzio.
[…] È mai stato scambiato per un collega?
[…] Al massimo si sono confusi per un film; (ride) una volta uno mi ha fermato, riempito di complimenti, io ringraziavo, fino a quando ha concluso: "Nella fiction della Uno bianca sei stato fenomenale". Peccato che fosse Kim (Rossi Stuart, ndr).
[…] Le sue colleghe la paragonano a Gassmann e Argentero, ma su di lei aggiungono che è troppo buono...
Per questo gli uomini mi sono amici: non sono mai stato il bello e dannato, quello che ispira... cose... (attimi di sospensione)
Vuol dire "sesso"?
Eh, esatto. Sono bello e amico.
La Guerritore si è lamentata: sul set de La lupa, nelle scene di sesso, Gabriele Lavia non era geloso.
No, anzi, mi spingeva ad andare oltre, mi tranquillizzava quando io ero terrorizzato.
Stavano insieme...
E da regista urlava: "È una scena, devi farlo!". E io: "Va bene, mi impegnerò".
[…] La Wertmuller urlava sul set?
Diciamo che era focosa. Ma sapeva ottenere il massimo.
Giulio De Santis per roma.corriere.it il 18 gennaio 2022.
«T’ammazzo». Così Raoul Bova si è scagliato contro un automobilista che, durante un parcheggio davanti al mercato di via Amiterno, quartiere San Giovanni, ha quasi investito la fidanzata dell’attore 50enne. Manovra azzardata che ha scatenato la furia di Bova arrivato a picchiare l’autista, Matteo Vincenzo Cartolano, 42 anni.
L’aggressione, come ricostruita dalla procura, risale al 27 aprile del 2019 e ora l’attore è sotto processo con l’accusa di violenza privata, minacce e lesioni. Pure Cartolano - oltre a essere parte offesa per le percosse subite da Bova - è imputato con l’accusa di violenza privata, ma per la manovra che ha scatenato l’ira di Bova, difeso dall’avvocato Alessandro Di Giovanni.
Erano circa le 13 del 27 luglio di due anni fa. Bova è appena uscito dal ristorante «I Vitelloni», dove ha mangiato insieme alla sorella Tiziana Bova, 59 anni, e alla fidanzata Rocio Morales Munoz, 31 anni. Stanno per salire in macchina per andare a L’Aquila. All’improvviso spunta un’auto, una Ford Fiesta, che con una manovra incauta si infila in un parcheggio sfiorando la fidanzata di Bova, costituitasi parte civile nel processo.
L’attore, secondo l’accusa, perde la testa. Prima urla a Cartolano: «Ma hai visto cos’hai fatto?». E poi aggiunge «Ti sistemo», «T’ammazzo». Cartolano non si scusa, anzi replica, gli dice che è un avvocato con un tono arrogante e Bova, secondo l’accusa ormai furente, lo tira fuori dalla macchina. Gli molla un pugno sulla spalla per il quale a Cartolano - difeso dall’avvocato Giuseppe Belcastro - sarà diagnosticata la guarigione in 5 giorni.
Raoul Bova a processo, fece a botte con avvocato che stava per investire la compagna. Andrea Ossino su La Repubblica il 18 Gennaio 2022.
L'attore siede al banco degli imputati con l'accusa di lesioni e minacce. L'automobilista deve rispondere, invece, di violenza privata per aver effettuato “una manovra azzardata che aveva messo in pericolo l’incolumità fisica di Rocio Munoz Morales”. Una questione di viabilità si è trasformata in un’aggressione, con Raoul Bova costretto ad accomodarsi nel banco riservato agli imputati, in un’aula del tribunale romano di piazzale Clodio. In realtà anche la controparte, l’avvocato Matteo Vincenzo Cartolano, è finito a processo, accusato di violenza privata per aver effettuato “una manovra azzardata che aveva messo in pericolo l’incolumità fisica di Rocio Munoz Morales”, la compagna dell’attore.
Rocío Muñoz Morales, ritratto beauty della madrina della Mostra del Cinema di Venezia. Profondi occhi nocciola, capelli castani e fascino mediterraneo. Sarà Rocío Muñoz Morales, con la sua bellezza da diva, a condurre la serata di apertura e chiusura della 79° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della Biennale di Venezia. MALVINA BERTI su Iodonna.it 31 Agosto 2022.
Occhi nocciola profondi, lunghi capelli castani e un’innato fascino naturale: a condurre la 79° Edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia sarà Rocío Muñoz Morales, ex modella, attrice e classe 1988.
L’attenzione è già puntata su di lei: per il quinto anno consecutivo sarà Armani Beauty lo sponsor ufficiale della kermesse, rafforzando inoltre il rapporto con Venezia con il Premio degli Spettatori – Armani beauty, Orizzonti Extra.
Nata a Madrid, fidanzata con Raul Bova dal 2013 e con un passato da modella, Rocío Muñoz Morales porta una ventata di aria fresca sul red carpet della Laguna di Venezia, dove condurrà le serate di apertura e chiusura in veste di madrina.
Tipico esempio di bellezza ispanica, non è insolito vederla con look decisamente acqua e sapone, preferendo durante le occasioni speciali un make up neutro e minimale.
Solitamente i suoi make up puntano su una base viso impeccabili e focus sugli occhi, che possono essere truccati con ombretti nei toni del marrone e del bronzo, perfetti per rendere ancora più profonde le sue iridi quasi nere.
Anche per quanto riguarda le labbra, la futura Madrina del Festival di Venezia non ama esagerare, optando quasi sempre per un elegantissimo nude look con balsami labbra idratanti, rossetti leggermente rosati e gloss brillanti. E indossando solo raramente il rossetto rosso.
Passione skincare, la routine di bellezza con creme e acqua micellare
In svariate interviste Rocío Muñoz Morales ha dichiarato che non può fare a meno dell’acqua micellare, primo step per la detersione e must have indispensabile per rimuovere le tracce di trucco post riprese televisive.
Dopo la pulizia del viso – semplice ma profonda – applica una crema idratante e nutriente, sia sul viso che sul collo. Punto che viene spesso tralasciato ma che può mostrare precoci segni di invecchiamento.
Tra i suoi prodotti preferiti le creme del brand La Mer, perché idratano a lungo senza rendere la pelle appiccicosa, conferiscono un finish leggermente luminoso e fanno apparire immediatamente l’incarnato più giovane e fresco.
Rocío Muñoz Morales: l’haircare routine per capelli a prova di set
Da sempre appassionata di tagli medi, tra long bob e caschetti scalati, solo recentemente ha fatto crescere i capelli che adesso superano leggermente le spalle.
Declinati in una colorazione castano scuro intenso, la sua chioma è spesso soggetta a cambi di colore e acconciature, a causa di esigenze di copione. Per mantenerli luminosi e sani si affida a prodotti ricostituenti, come shampoo, maschere e fiale protettive.
Non solo, dopo lo “stress da set” non possono mancare delle attenzioni extra, fondamentali per nutrire in profondità i capelli, con gocce e spray da applicare sulla chioma umida e prima dello styling, in modo da essere sigillate al loro interno e garantire un’idratazione estrema e a lunga durata. A prova dei vari cambi look in Laguna. iO Donna
Rocío Muñoz Morales: «La passione è la molla potente che userò a Venezia». CRISTINA LACAVA su Iodonna.it il 30 Luglio 2022.
Da madrina della Mostra del Cinema di Venezia farà leva sul «cuore che batte nella direzione giusta» e che aiuta a compiere scelte importanti. Come ha fatto lei, quando ha deciso di vivere in Italia, nove anni fa, lasciando la sua Spagna. Qui, nel Paese che continua «a scegliere ogni giorno», è diventata una donna completa, una madre e un'attrice più matura. Un equilibrio che tiene, grazie a fondamenta solide.
Alla fine di una giornata di shooting in preparazione della 79a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove sarà la madrina, Rocío Muňoz Morales, 34 anni, è ancora piena di energie, perfettamente truccata, e non si risparmia. Inizia l’intervista in macchina in videochiamata, poi continua seduta sui gradini di casa dove l’aspettano le figlie Luna, sei anni, e Alma, tre.
A un certo punto fa capolino il compagno Raoul Bova, 50, in jeans e berretto, che saluta cordialmente e si infila nel portone. Rocío è entusiasta dell’opportunità di Venezia che, dice, arriva al momento giusto, dal punto di vista professionale. Ha appena finito di girare Una gran voglia di vivere, dal romanzo di Fabio Volo, e sta iniziando a scrivere il secondo libro. Vuole vivere i giorni della Mostra pienamente, senza stress, puntando sull’empatia. Amare è un modo di vivere, sostiene, e permette di affrontare più facilmente ogni difficoltà.
Condurrà le cerimonie di apertura e chiusura della 79a Mostra Internazionale del Cinema, che si svolgerà dal 31 agosto al 10 settembre. Felice?
Felicissima! Tutto è cominciato per caso, quando a fine 2021 sono stata chiamata dal Museo Nazionale del Cinema a Torino per leggere una lettera di Monica Vitti, in occasione del 90° compleanno, pochi mesi prima della sua scomparsa. Dopo qualche tempo mi ha chiamato il direttore Alberto Barbera.
Ha creduto in me, gli sono grata. Sul palco cercherò di trasmettere la mia grande passione per il cinema. Merito di mio padre, che ha sempre vissuto attraverso i film le storie che non poteva vivere direttamente; era il suo modo per sognare e superare la realtà quotidiana. Mi ha insegnato a guardare oltre, ad avere una visione aperta del mondo e a interessarmi delle vite degli altri anche attraverso le emozioni del grande schermo. La passione è una molla potente, è un modo di concepire la vita che la rende ricca, piena, e permette di superare i momenti duri.
Lei ne ha avuti?
Sì, ma ero giovane e vulnerabile. La vita poi mi ha portato ad allontanarmi dalla Spagna: sono venuta in Italia nel 2011 per girare Immaturi – Il viaggio e mi sono trasferita nel 2013. Non che non abbia avuto difficoltà anche in Italia, ma nel frattempo sono cresciuta, ho incontrato le persone giuste e le ho riconosciute. Rinnovo la scelta ogni giorno: questo è il mio posto e il cielo che guardo. Quando, nel 2015, ho presentato Sanremo al fianco di Carlo Conti, la mia performance non è stata perfetta. Ma in quel momento andava bene così, l’inconsapevolezza mi ha premiato. Oggi ho raggiunto una maggiore maturità professionale, ed ecco la proposta di Venezia. Mi sento pronta.
Andrà da sola, o con la famiglia?
Ci sto pensando. Ho sempre cercato di mantenere la mia identità e la mia indipendenza, tenendo separate la sfera personale e lavorativa. Anna Foglietta, madrina nel 2020, mi ha dato un consiglio: nei giorni della kermesse è meglio “avere qualcuno che ti tenga ancorata a terra”. Ci penserò. Sento molto la responsabilità, sarò il volto e la voce, il cuore che batte nella direzione giusta.
Julianne Moore sarà presidente della giuria. Che ne pensa?
La stimo tantissimo, è una donna che ha fatto molto per il cinema e io credo nella forza delle donne e nella loro capacità di collaborare. Lo dico per esperienza personale: ho due sorelle, entrambe hanno figlie femmine, come me. Conosco la complicità, non la competitività tra donne.
Ha appena finito di girare Una gran voglia di vivere, il film tratto dal romanzo di Fabio Volo. A lei cosa dà gran voglia di vivere?
Vedere sorridere le persone che amo. So stare da sola: ho imparato a fare pace con la solitudine in tournée, e ogni tanto ho bisogno di ascoltare il mio respiro. Ma per natura sono una persona sociale. Quando sto con gli altri, con chi amo, mi sento completa. Se sono su un set faccio i salti mortali per stare con le bambine, attraverso l’Italia per cenare a casa, dormo quattro ore e riparto.
Un difficile equilibrio. Come fa?
Bisogna essere onesti con se stessi e con i propri sentimenti. Se questi sentimenti – per gli affetti, per il lavoro – sono limpidi e puri, se costituiscono fondamenta solide, nulla li smuove. La purezza è verità, è un valore antico che non passa mai di moda.
Sa guardarsi dentro con lucidità. L’aiuta qualcuno?
Tutte le settimane vado dalla mia meravigliosa psicologa, e tutti i giorni faccio meditazione. Per un attore è indispensabile conoscersi, ma lo consiglierei a tutti. Proprio perché i sentimenti vanno vissuti fino in fondo, a volte bisogna riuscire a guardarli da fuori. Può essere un lavoro doloroso ma è indispensabile.
Su Instagram – dove ha più di 600mila follower – ha messo di recente immagini molto gioiose con la famiglia, al mare. Dov’eravate?
In Calabria, terra di Raoul. Ci è successa una cosa molto divertente: a noi quattro piace ballare insieme, è una passione che ci unisce. Il sabato sera eravamo in albergo e ci siamo imbucati in un matrimonio, con le ciabatte e il cane, a ballare il Tuca Tuca. Finché ci hanno riconosciuti…
Il cane era Petra? Le ha dedicato un post molto affettuoso.
Sì. Ero andata in un canile a fare volontariato, portando a spasso i nostri amici a quattro zampe, insieme a mia figlia Luna.Tra lei e Petra è stato subito amore a prima vista,e non si sono più lasciate.
Che farà ad agosto, in attesa di Venezia?
Raoul sarà su un set, e io vorrei prendermi del tempo per stare con le bambine in campagna, dove abbiamo l’orto, le galline, gli alberi da frutta. Sto lavorando al mio secondo libro, dopo che il primo, Un posto tutto mio, pubblicato da Sonzogno, ha avuto un successo inaspettato. Anche in questo parlerò del trovare se stessi, ma nella coppia.
E lei pensa di aver trovato se stessa nella coppia?
Sì, assolutamente.
IO Donna
Rocio Munoz Morales e Bova: «Soffrivo se mi davano della raccomandata. La lite con l’automobilista? Ha difeso la sua donna». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.
L’attrice si racconta in occasione dell’uscita di «Tre sorelle» di Vanzina.
A Tre sorelle e una massaggiatrice povera, venuta dal niente, interpretata da Rocío Muñoz Morales, la compagna di Raoul Bova. Nel film, Serena Autieri e Giulia Bevilacqua hanno i matrimoni in frantumi, anche la terza sorella, Chiara Francini, non se la passa bene. Vanno in vacanza al Circeo per ritrovare serenità, con massaggiatrice al seguito. E’ il film di Enrico Vanzina, dal 27 gennaio su Prime Video.
La sua massaggiatrice dice: «Gli uomini più sono figli di puta e più ci casco».
«Arriva a Roma dal Venezuela, parla un po’ in romanesco e un po’ in spagnolo, viene da una situazione umile e in questo mi somiglia. Sono del Sud della Spagna, i miei genitori non ebbero la possibilità di studiare ed erano fissati con me. Da loro ho imparato il sacrificio, il valore delle cose. Ho provato a cavarmela facendo di tutto, davo lezioni di matematica e di danza in posti lontanissimi».
La passione per il ballo?
«A una gara mi vide il coreografo di Bailando con estrellas, edizione spagnola del programma con Milly Carlucci, e mi prese come insegnante. Tre anni fa in Spagna quel programma l’ho condotto. Ma non amo concorsi e pagelle. Viviamo tutti troppo nel giudizio di qualunque cosa».
L’arrivo in Italia?
«Paolo Genovese cercava una ragazza spagnola per Immaturi -Il viaggio. Avevo 23 anni. Ci fu un altro film in Spagna che non mi piaceva, così decisi di trasferirmi a Roma. Non parlavo l’italiano, non conoscevo nessuno, presi una casetta su Internet, iniziai a lavorare nelle case famiglia per le suore, le aiutavo nei pranzi per i poveri e facevo provini. Carlo Conti mi vide a Un passo dal cielo 3 e mi propose di fare la valletta a Sanremo con Emma e Arisa. Chiesi consiglio a Raoul con cui avevo cominciato la storia, mi disse: fai quello che vuoi, io ci penserei, sappi che Sanremo ti lancia o ti distrugge per sempre (ora non vedo l’ora di vedere Massimo Ranieri, mio caro amico). La vissi con leggerezza pensando di fare la sagra di paese, non avevo capito la grandezza della situazione, per me fu una svolta ma in quei giorni facevo il conto alla rovescia alla fine. E poi le critiche preventive…».
Per essere la fidanzata di Raoul Bova?
«Sì, cosa ci fa questa, la solita raccomandata che sta con l’uomo separato, famoso e con i soldi, i 17 anni di differenza (io ne ho 33), cose così. Ho condotto Le Iene mi sono tolta qualche sassolino sui pregiudizi: le donne spagnole calienti? Io, per niente. Pensare che mi sono sempre fatta in quattro per essere indipendente. Ma è passato, la gente ha imparato a conoscermi e mi arriva tanto affetto…Con Raoul condivido l’amore per le cose semplici, ci piace starcene a casa a vedere un film».
Dovevate essere prudenti?
«Rispettosi. C’era la sua separazione di mezzo. Era un personaggio pubblico, aveva già due figli. C’è sempre stato riguardo per loro e per i loro bisogni, mai forzato le cose».
Raoul ha un guaio giudiziario per averla difesa con «veemenza» da un automobilista che nel 2019 la stava investendo in auto.
«La questione è in mano agli avvocati, posso solo dire che Raoul ha provato a difendere la sua donna. Se siamo simili? Abbiamo anche i nostri difetti, lui a volte è egoista e un po’ geloso; io troppo esigente, e tendo a ripetere le stesse cose tante volte».
Vi sposerete?
«Le nostre anime lo sono già, abbiamo stravolto le nostre vite, lui ha creato una famiglia da capo, non è una esigenza ma vedremo, non mi piace programmare le cose».
E’ vero che è attratta da ruoli in cui è brutta?
«Sono alta, magra, cerco ruoli lontani da me. Non voglio essere solo bella. Ora nel thriller horror They Talk ho le occhiaie e le ciocche bianche, e l’8 febbraio debutto a teatro a Roma in Fiori d’acciaio (il film con Julia Roberts) dove porto le ballerine».
A 17 anni era corista per Julio Iglesias.
«Riempiva gli stadi, con lui ho visto il mondo. Era protettivo, paterno, ogni giorno chiamava i miei genitori: vostra figlia sta bene».
Paola Pellai per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2022.
Una volta Raul Cremona disse: «Quando i giochi non riescono sono un comico, quando le battute non fanno ridere sono un mago». La verità è che i suoi giochi e le sue battute ci accompagnano dal secolo scorso e continuano a guardare al futuro con stupore e creatività. Milanese doc, Raul ha appreso l'arte di conquistare la gente dal papà e dal nonno, imbonitori sulle piazze della città.
In mezzo a tante apparizioni in tv e in attesa di vederlo protagonista al Masters of Magic World Tour nel maggio 2023 a Torino, Cremona sta lavorando al suo prossimo spettacolo teatrale, Il mago de Milan. «Il titolo - ci racconta - è nato per strada. Stavo passeggiando quando una signora dice al suo bimbo: "Tel chì el mago de Milan". Detto, fatto».
Anche lei ha iniziato da bambino con la classica scatola dei giochi magici?
«Certo, me la regalò nel 1967 per Natale nonna Giuditta. Era una scatola tutta nera, con un cilindro e delle carte riprodotte sulla confezione. Prodotta dall'Arco Falc, non aveva un nome ma tre versioni contraddistinte da un numero. Potevi scegliere la scatola 1, la 2 o la 3, come le buste di Mike Bongiorno. Mi sono subito innamorato del suo contenuto e ho iniziato a fare magie ai miei amici».
Da bambino sognava di fare il mago?
«Da piccolo ho diviso le mie passioni tra ping pong, calcio e illusionismo. Ho persino tentato una baby carriera da portiere, giocando in squadre locali, fino agli juniores. Ma ho abbandonato perché non avevo il fisico per fare il calciatore professionista e la concorrenza non mi avrebbe permesso di sfondare. A 17 anni entrai nel Clam, il circolo di arte magica di Milano, di cui sono ancora presidente, e iniziai a frequentare i congressi nazionali, capendo che la mia passione poteva diventare il mio avvenire».
Lei è stato il pioniere del cabaret magico...
«Ho messo a segno una mutazione genetica. Ho dimostrato che un mago può essere anche un attore comico meglio di chi lo fa per professione. Ho portato un nuovo linguaggio e un nuovo atteggiamento. Ho tolto i luccichini all'abito e ho smesso di far parlare i maghi in maniera laccata. Ho eliminato la distanza tra me e il pubblico, ho invaso il suo territorio. Ci sono entrato con spontaneità ed ironia. Non ho fatto altro che usare i vecchi giochi di prestigio, come gli anelli cinesi o i fazzoletti che cambiano colore, con un approccio diverso».
Anche ai maghi possono capitare magie: a lei successe a Fantastico nel 1990...
«Incontrai il mio idolo Jerry Lewis mentre lavoravo nel varietà condotto da Raffaella Carrà. Da piccolo andavo nel cinema di terza visione vicino a casa a divorarmi i film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Totò e Jerry Lewis. Jerry era speciale, mi colpiva per la capacità con cui si muoveva dinoccolato e così bello che Marilyn Monroe lo inserì tra i 10 uomini più sexy al mondo.
Lui spaccava la regola di chi identificava l'attore comico in una sorta di guitto. A lui mi ero ispirato per uno dei miei personaggi, Jerry Manipolini, ad inizio carriera. Ricordo la mia emozione quel giorno. Tra gli ospiti c'era anche Alberto Sordi che mi negò un autografo. Decisi di rifarmi con Jerry, il cui camerino era accanto al mio.
Aspettai che uscisse per sorprenderlo con un gioco di prestigio e lui ne fece un altro a me. Poi Raffaella, a sorpresa, mi fece il grande regalo di presentarmi a lui in diretta: ci avvolgemmo in un abbraccio indimenticabile. Lo sa?».
Mi dica.
«In questo mestiere, al di là della carriera, del successo e dei soldi, quello che più ti resta dentro sono i ricordi. Nel mio cuore c'è un posto speciale per l'adorabile Raffaella, il geniale Jerry, l'affetto di Ric e Gian, l'emozione di Johnny Dorelli quando cantavo le sue canzoni...».
Ha lasciato il segno in trasmissioni storiche come Zelig e Mai dire gol. Perché è così difficile fare buona televisione?
«Perché il Varietà con la V maiuscola è praticamente morto. Oggi ci sono 6 mila canali televisivi ed altrettanti palinsesti da riempire. Non c'è più il tempo né la voglia di creare varietà di qualità, la programmazione è diventata molto più invasiva e con un desiderio necroforo di smontare ogni volta che si può l'artista: smette di essere il mago, l'attore o il cantante per prestarsi al gioco richiesto, dandosi in pasto a scherzi o a reality capaci di resuscitare stelle cadenti. È la tv del prezzolismo, quella che per tenerti a galla ti fa fare un po' di tutto. Alla larga da me».
Quanti "no" ha detto?
«Praticamente a tutti i reality. A 20 anni chiesi al più grande giocoliere al mondo un consiglio e lui mi disse: "Ricordati che quello che fai all'inizio è quello che farai quando sarai grande". Quindi è inutile che mi contattiate con proposte strane, io voglio fare solo il mago. Il mago e basta. Ecco perché mi sono trovato benissimo a Only Fun-Comico Show, sul Nove, condotto da Elettra Lamborghini e i PanPers. Ho fatto esclusivamente il mago divertente, con piena libertà di azione e ideazione».
Lei ha il volto da angioletto ma al cinema le assegnano sempre ruoli da carogna.
«Forse perché non corrispondo al classico cliché del comico sgraziato, grasso e brutto. E così licenzio Checco Zalone in Cado dalle nubi, urlo "Che tu possa vivere tutti gli anni che dimostri" ad Angela Finocchiaro in Ci vuole un gran fisico, picchio Valerio Mastandrea ne La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati e in Area Paradiso di Diego Abatantuono porto a mangiare fino a farli scoppiare un gruppo di anziani...».
A quale dei suoi personaggi è più legato?
«Il mago Oronzo che nel 1997 grazie a Mai dire gol mi ha fatto compiere il grande salto in fatto di popolarità. Un mago dissacrante con la canottiera sporca. Ma la verità è che il grande amore per quello che faccio non mi fa mai accontentare. Io sono la non voglia di fare sempre le stesse cose. Non mi fermo mai. È stato così anche agli inizi. Negli storici locali milanesi facevo ogni genere di mago: quello gay, l'imbranato, il cafone...».
Raul Cremona (66 anni) si avvicina all'illusionismo grazie al "Clam", un circolo d'arte magica di cui oggi è presidente. Dopo una lunga gavetta come prestigiatore e dopo aver vinto vari premi e riconoscimenti, approda al cabaret nella Milano del Derby degli anni '80. La grande fama arriva grazie a "Mai dire gol" e "Zelig".
Sposato, ha due figli: Giordano Cremona, in arte Kremont, dj producer membro del duo Merk & Kremont, e Leonardo, baritono Quale magia le ha cambiato la vita?
«Incontrare mia moglie che mi ha dato 2 figli straordinari: è la più grande magia che un uomo può mettere a segno. I miei figli non lo ammetteranno mai ma entrambi sono stati contagiati dal mio spirito artistico. Giordano, in arte Kremont (del duo Merk&Kremont, ndr) è un produttore di successo: Rovazzi, Benji e Fede, Sangiovanni, ora Mahmood... Invece Leonardo è un baritono con due lauree da 110 e lode, un diploma al conservatorio e un amore viscerale per Giuseppe Verdi».
Della sua vita privata si sa poco. Mai un gossip, uno scandalo.
«Sono sempre stato un po' timido ed introspettivo. Non mi interessa sollevare clamore o pettegolezzi. Le mie magie devono fare notizia, del resto non me ne frega nulla. Il tempo non lo butto via, ho già troppe cose a cui pensare. Per esempio il pianoforte...».
Silvano, il mago di Milano, utilizza la parola magica Sim Sala Min.... Ogni riferimento al sindaco Sala è puramente casuale? (Risata stratosferica, ndr)
«Sì, è casuale. Non ci avevo mai pensato e una volta sono pure salito sul palco con il sindaco. Avrà pensato che lo prendessi in giro. È una variante della più famosa Sim Sala Bim e si rifà al modo di dire tipicamente milanese di dare del salamino al bambino che aveva commesso un errore o una marachella. Silvan mi ha fatto notare che molto prima di me l'espressione l'utilizzava già Jacovitti nei suoi fumetti».
"Il mio viaggio swing nella musica italiana per riscoprire le radici". Antonio Lodetti l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'artista pubblica un album di cover per raccontare il suo suono "senza genere".
È un viaggiatore di suoni partito dal jazz per poi navigare in mille diversi rivoli musicali che spaziano dalla classica al pop. Ha vinto la sezione Giovani al Festival di Sanremo (dove è tornato più volte da big) e ha suonato alla Scala. Raphael Gualazzi è un pianista jazz che non si lascia etichettare e anche questa volta viaggia verso un sound policromo e universale con Il bar del Sole, il suo primo disco di cover arricchito da ospiti come i Funk Off e Margherita Vicario e con la produzione di Vittorio Cosma, già con la Pfm e con storici artisti internazionali, nonché spalla di uno storico concerto di Miles Davis.
Bar del Sole non è un titolo casuale.
«No, è il Caffè del Sole di Urbino dove ho iniziato la mia attività. Era un bar raccolto, intimo, fuori dal tempo, un luogo famigliare. A 17 anni mi chiesero se volevo suonare il piano nel locale e chiaramente le prime volte non c'era nessuno. Io suonavo stride piano, lo stile di New Orleans degli anni Venti, e pian piano qualcosa si mosse. Ogni volta veniva sempre più gente che si assiepava anche fuori all'aperto. Fu il mio battesimo del fuoco».
Un omaggio alle radici quindi.
«Sì, anche perché il locale ora ha cambiato sede. Lì, tra una colazione e un'altra, ho scritto anche qualcuno dei miei primi brani. Era un posto storico frequentato anche dai professori del Conservatorio e da tanta gente e ciascuno, ogni volta che partiva per un viaggio, portava un sole di ceramica da appendere alle pareti. Ce n'erano da tutto il mondo: dal Nicaragua al Sudafrica».
Quindi questo fu il suo battesimo.
«Sì, a parte le piccole rock band che tutti i ragazzi provavano a mettere in piedi, ma io a 14 anni sono entrato in Conservatorio e poi mi ha preso il demone del jazz».
Chi sono i suoi artisti di riferimento?
«Prima di tutto Fats Waller. Poi Erroll Garner, anche se era più un jazzista che un pianista stride. Ma da ragazzo ascoltavo molto anche la musica italiana: Cocciante, Guccini... Quindi mescolando tutte queste influenze è venuta fuori la mia musica, che non vuole essere un genere».
Ossia?
«C'è una apertura totale verso gli altri generi che però non tradisce l'espressività originale delle canzoni».
Per questo si è dedicato alle cover?
«Ho fatto un percorso di indagine della musica. Volevo imparare dalla tradizione attraverso brani che sono patrimonio culturale della canzone italiana».
Per esempio?
«Il mondo di Jimmy Fontana. Una melodia meravigliosa per una canzone senza tempo. La versione originale è strepitosa».
Tutti brani italiani, con una citazione per Vinícius de Moraes e Toquinho.
«Su testo di Sergio Bardotti, qui c'è la splendida voce di Margherita Vicario in Senza paura, un brano che incita a non avere paura nel fare le proprie scelte e a non chiudersi verso le altre persone. È una canzone che ha una filosofia molto sudamericana sul non avere paura».
Come le sono venuti in mente i Giganti e l'era beat?
«L'ho detto, ho mescolato i generi, così dal beat sono passato allo swing di Sergio Caputo che è un jazzman formidabile».
E poi c'è Battiato.
«Un fenomeno. Cerco un centro di gravità permanente è un brano storico. Purtroppo non ho conosciuto Battiato ma la sua musica mi ha molto segnato».
I suoi pianisti italiani preferiti?
«Stefano Bollani, Dado Moroni e Luca Filastro; è poco conosciuto ma suona lo stride come pochi altri e abbiamo fatto anche parecchie cose insieme».
Progetti?
«Poco tempo fa ho suonato con un violinista un'aria di Mendelssohn alla Scala e a ottobre suonerò ancora classica al Conservatorio di Milano».
Red Canzian: «Ho cure per un altro anno e mezzo, mi hanno aperto di nuovo il torace. Patty Pravo? Era molto bella, forse ero bellino anch’io». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.
Il cantante: «A 16 anni partecipai al Festival di Conegliano che era presentato da Baudo. Quel giorno capii che volevo fare il musicista e che dovevo anche cambiare look»
Il primo ricordo da bambino di Red Canzian?
«Mamma che apriva la finestra e cantava “aprite le finestre ai nuovi sogni, bambine belle, innamorate. E forse il più bel sogno che sognate, sarà domani la felicità”. E quando compravamo il libricino dei testi delle canzoni di Sanremo: le arie erano così facili... “Penso che un giorno così non torni mai più... Volare, oh, oh!”, ti rimanevano in testa, cantavamo come due pazzi».
Dunque i suoi genitori non ostacolarono la vocazione da musicista?
«Papà era un minatore rientrato in Italia da Marcinelle prima del disastro e diventato camionista. Aveva la terza elementare, ma era una grande conoscitore di musica lirica, s’infilava nei loggioni a teatro appena poteva. È stato il mio primo fan, caricava lui gli strumenti nella Fiat 1100 quando facevo le prime serate».
Lei si diplomò geometra, s’iscrisse a Psicologia, quando ha sentito che poteva vivere solo di musica?
«A 16 anni, al Festival Stroppolo d’oro di Conegliano Veneto. Presentava Pippo Baudo. Vinsi. Quella sera, ho capito due cose: la prima, che dal palco mi dovevano tirare giù con le cannonate; la seconda, che dovevo cambiare look, sembravo il figlio segreto di Vittorio Sgarbi, tutto occhiali, un brutto anatroccolo».
Cinque anni dopo, nel 1973, pantaloni a zampa e capelloni, si univa ai Pooh orfani di Riccardo Fogli. Inizia una storia lunga 43 anni, fatta di 80 milioni di dischi venduti. Ricordi memorabili?
«Slegati dalle cose eclatanti. Ricordo di quando a Sofia c’era il comunismo, i supermercati erano vuoti, se bucavi una gomma dovevi comprarla al mercato nero, le spie controllavano cosa ci dicevamo in camera e un ragazzo che mi accompagnò in farmacia fu arrestato perché era vietato parlare con gli stranieri. Lì, un pomeriggio, sotto la neve, in due ore, vendemmo tutti i 24 mila biglietti del concerto. Ricordo di quando vedemmo una casetta nei Balcani che sembrava un quadro naif di Ivan Generalic, ci panificavano e c’era la fila di donne. Scendemmo a prendere il pane, coi capelli lunghi, i vestiti strani: ci guardavano come se fossimo Ufo. Ho ricordi splendidi di Montserrat alle Antille, dove stemmo a casa di George Martin, il produttore dei Beatles, e facemmo amicizia con Sting e la moglie».
Come fu vincere Sanremo 1990?
«Uomini Soli era un pezzo che aveva il Dna da evergreen: dio delle città e dell’immensità, se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi… Cantammo con Dee Dee Bridgewater: una meraviglia. L’ultimo giorno — si votava col Totip — alle tre, avevamo vinto; alle cinque, avevano vinto Mietta e Amedeo Minghi col Trottolino amoroso; alle sei, Toto Cutugno... Non si capiva niente. In hotel, quando ci dissero che avevamo vinto noi, il nostro arrangiatore Emanuele Russinengo fece un salto sul letto e lo sfondò».
Vi siete sciolti nel 2016 con l’addio di Stefano D’Orazio, che due anni fa è morto di Covid. Senza di lui, i Pooh non si riuniranno più?
«Le cose belle devono avere un inizio e una fine. Ma con Dodi e Roby faremo un evento per il decennale della morte del nostro paroliere Valerio Negrini, e resta un’amicizia di quelle che non hai bisogno di appuntamenti per vederti».
Fino a ieri, al Lirico di Milano, è andato in scena il musical «Casanova Operapop», che ha scritto e prodotto. Perché Casanova?
«Iniziai 12 anni fa e mi arenai alla terza canzone perché la trama era ripetitiva: Casanova era raccontato solo come un libertino impenitente, ma io ero convinto che uno non può diventare così famoso solo perché ama le donne. Poi, nel 2018, il libro La sonata dei cuori infranti di Matteo Strukul mi aprì uno squarcio totale: trovai un Casanova filosofo, cabalista, poeta, agente segreto, desiderato in tutte le corti d’Europa. Figlio di un’attricetta, s’intrufolava di nascosto al Teatro Malibran, soffriva di non essere parte dell’aristocrazia. Venezia era in quegli anni la città di Canaletto, Tiepolo, Goldoni e di ebanisti eccezionali. Così, lui partì portando in giro la bellezza italiana. Ho scoperto, e quindi raccontato con Strukul, di fughe, duelli, di un intrigo ordito dall’impero austriaco ai danni di Venezia per annetterla, di Casanova che tenta di sventarlo rapendo una contessa, e che s’innamora di una ragazza di 19 anni e, per amore, cambia».
Lei crebbe in uno splendido palazzo nobiliare veneto. La accomunano a Casanova le origini umili ma a contatto con il bello?
«Villa Borghesan era stata donata al Comune di Quinto di Treviso e messa a disposizione delle famiglie povere. Vivevamo in quattro in una camera e cucina, ma sono cresciuto guardando affreschi meravigliosi con cavalli bianchi e San Giorgio che uccide il drago, e calpestando pavimenti in terrazzo veneziano, circondato da un parco dove ho imparato a riconoscere il tarassaco e il cedro del Libano. Certo, quando penso all’infanzia, vedo le sculture di Canova, non una brutta periferia urbana. Vedo i cancelli con le pigne scolpite nel marmo, i giardini sul fiume Sile, dove poi ho comprato una casa antica... Quella bellezza l’ho sempre cercata e, ora, l’ho messa nel musical. Ho passato la pandemia a filmare Venezia deserta: le immagini, che io stesso ho ripulito da antenne, barche di plastica e fili della luce, sono diventate la cornice immersiva dello spettacolo. Sono stato fra i primi a usare Photoshop, già per copertine e video dei Pooh».
Da ragazzo, molti la consideravano «il bello dei Pooh» e aveva fama di Casanova anche lei.
«Potrei dire che ho scritto un musical sul mio predecessore e mettermi a ridere, ma sono cose che racconti a vent’anni, non a 71. Però, mi sono sempre riconosciuto nel rispetto per le donne di Casanova. Infatti, ho sempre conservato bei rapporti con le mie ex, che le abbia amate per un anno o per un’ora».
Elenco non esaustivo: Marcella Bella, Patty Pravo, Loredana Bertè, Mia Martini, Serena Grandi.
«Non vorrà che parli di loro?».
Solo il necessario.
«Sono stati passaggi di vita ed eravamo ragazzi: avrò avuto l’ultima avventura a 25 anni. E non erano storie droga e rock ‘n roll: sono stato sempre un romanticone».
Converrà che suona diabolico stare con Patty Pravo dopo che Riccardo Fogli se n’era andato dai Pooh per Patty Pravo.
«Fu un caso, lei era molto bella, forse ero bellino anch’io. Ma fu solo il bellissimo e breve incontro di due giovani. Siamo rimasti amici, la chiamo Santa Nicoletta da Venezia, perché portando via Riccardo, mi aprì la via verso i Pooh» .
E come conquistò le sorelle Bertè e Martini?
«…Si frequentavano. Ma furono storie diverse, una più fisica, l’altra più intellettuale».
Negli Anni ’90, nascono le cosiddette «canzoni di Canzian», tutti successi ispirati dalla sua seconda moglie Beatrice Niederwieser: «Stare senza di te», «Tu dove sei», «Cercando di te», «Io ti aspetterò»... Che amore è il vostro?
«Dal primo momento in cui l’ho vista, mi sono sentito come investito da un camion. Ma lei era incinta e sposata, io ero sposato. Per dieci anni, ci siamo frequentati in coppia, coi rispettivi consorti. Per me, sono stati anni di attesa. Io ti aspetterò parla di quella fase, dice: sarai, vedrai, sarai la mia donna prima o poi».
E quando lo diventò?
«Finalmente, il 19 ottobre 1992 arrivò a casa da me, a Treviso, con suo figlio Philipp. Anche lei aveva capito che era impossibile non stare insieme. Lì è nata Stare senza di te. Stefano D’Orazio scrisse in modo esatto quello che succede quando ti separi: gli amici che si dividono, l’impossibilità da parte tua di fare una scelta diversa… La cosa meravigliosa è che il papà di Philipp è rimasto il mio più caro amico e che ho ottimi rapporti con Delia, la mia prima moglie. E Philipp e mia figlia Chiara si considerano fratelli da sempre. Ora, tutta la famiglia è coinvolta nel musical».
Sua moglie è coproduttore e i ragazzi?
«Bea è incredibile, è multitasking, segue tutto, cura l’amministrazione, l’organizzazione… Senza di lei, Casanova non esisterebbe. Philipp, che è un batterista e musicista pazzesco e ha studiato e lavorato coi più grandi, ha fatto tutti gli arrangiamenti. Chiara ha cantato i provini per insegnare agli attori le parti. Gli inglesi che pianificano Casanova in Corea, Giappone, Cina e Taiwan, l’hanno voluta come aiuto regista. È in grado pure di sostituire quattro attrici».
Lei come sta dopo il ricovero di gennaio? Al Corriere, aveva detto di aver temuto di morire.
«Molto bene. In estate, ho fatto 35 concerti, ma ho cure per un altro anno e mezzo. Nel 2015, mi era scoppiata l’aorta; nel 2018, ho avuto un tumore al polmone: quelle erano vere malattie, stavolta è stata sfiga… Mi è entrata una scheggia di legno in una mano e ho preso un’infezione da stafilococco aureo. Sono caduto per terra il giorno che iniziavano le prove di Casanova, non riuscivo a stare in piedi, ci ho messo un’ora per arrivare al divano e chiamare i soccorsi. Intanto, avevo febbre e visioni psichedeliche come se fossi drogato. Mi hanno aperto di nuovo il torace, stavo andando in setticemia. Sono finito in rianimazione e, rispetto alle altre operazioni da cui mi ero svegliato lucido, stavo malissimo, vedevo fiori rossi scendere da pareti bianche. Vedevo il parlottare preoccupato dei medici e mi dicevo: rimango così per tutta la vita».
Come si è infilato la scheggia nella mano?
«Costruivo una cornice per il musical nella falegnameria di casa. Sono patito di bricolage. Ovviamente, non ho fatto tutto io. Alla base del musical, c’è un enorme ricerca storica: le scarpe del ‘700 sono state fatte dai ragazzi del Politecnico calzaturiero del Brenta dopo un lungo studio; i costumi da Stefano Nicolao, che ha lavorato per tanti film da Oscar. Questo spettacolo, con protagonista Gian Marco Schiaretti, è un kolossal: 30 cambi di scena, 120 costumi... Crearlo è stato come fare un viaggio bellissimo, ci ho lavorato 16 anche 18 ore al giorno».
La paura di morire l’ha cambiata?
«Sono solo ancora più concentrato ad apprezzare il bello piuttosto che dissipare il tempo».
La grave infezione cardiaca. Red Canzian, la malattia e il ricovero del bassista dei Pooh: “Per la prima volta da un mese respiro l’aria pulita”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Febbraio 2022.
Red Canzian si è concesso una passeggiata per la prima volta a un mese dal ricovero in Ospedale. L’ha raccontato lo stesso bassista dei Pooh in un video postato sulla sua pagina Facebook. “Ciao a tutti è passato esattamente un mese dal giorno del mio ricovero e oggi per la prima volta sono uscito per respirare l’aria vera, quella buona e pura che mi mancava tanto”, ha detto l’artista.
Il video è stato girato nel giardino dell’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso dove Canzian dovrà restare ancora tre o quattro mesi. Il bassista è visibilmente affaticato dalla lunga degenza e dall’operazione al cuore: è stato ricoverato per una grave infezione cardiaca. “La cura antibiotica è ancora lunga e dovrò restare qui ancora per tre o quattro settimane. Quello che ho avuto è stato molto brutto, per cui ci sentiremo solo ogni tanto. Faccio fatica a fare dei video o mettere dei post sui social. Ma sappiate che a oggi sto bene, respiro, sono venuto qua con le mie gambe e tornerò in camera con le mie gambe. Vi abbraccio tutti, mi mancate”.
Al Corriere della Sera Canzian aveva raccontato in un’intervista di aver avuto tanta paura, di essersi accorto subito che si trattava di qualcosa di grave. “Mi dicono che dovrò stare qui ancora almeno quattro settimane per una cura antibiotica e fisioterapia. Il chirurgo ha fatto pulizia sul cuore e dintorni e sembra che me la caverò. La cosa è esplosa senza alcuna avvisaglia. Una mattina non riuscivo ad alzarmi da letto. Ho provato a camminare e sono caduto. Una cosa orribile“.
L’infezione che ha colpito il bassista a inizio gennaio l’aveva portato a un ricovero urgente. Ha rischiato la setticemia. La situazione adesso sembra stabile ma lo spavento è stato grande anche per i problemi di cui aveva sofferto in passato Canzian: una dissezione all’aorta e un tumore dal quale è guarito.
I Pooh hanno affrontato mesi di grande dolore: prima per la morte dello storico batterista Stefano D’Orazio e poi per la morte di Paola Toeschi, moglie del chitarrista Dodi Battaglia. “Il dolore per alla perdita di Stefano non passa – aveva raccontato Canzian nella stessa intervista – Anche quando litigavamo c’era sempre una forma di rispetto. Mi manca il suo sorriso. Lui era in grado di cambiare in meglio una giornata”.
Il bassista è legato sentimentalmente alla moglie Beatricee Niederwiser, dalla quale ha avuto un figlio. La primogenita Chiara invece era nata dal matrimonio con la prima moglie Delia Gualtiero.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Red Canzian e la malattia: «Nessuna avvisaglia, ma una mattina non riuscivo ad alzarmi dal letto. Ho avuto paura di morire». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2022.
Il bassista dei Pooh racconta la sua malattia e spiega come sta: l’intervista dall’ospedale dopo il malore di qualche giorno fa
La voce di Red Canzian è flebile ma ferma. È all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso, operato per un’infezione cardiaca qualche settimana fa dal professor Giuseppe Minniti. È notte. Red Canzian è ancora sveglio. Aspetta la telefonata dell’amico e sodale Roby Facchinetti che è andato a Bergamo a vedere l’opera pop su Casanova scritta ideata e prodotta dal’ex cantante e bassista di Pooh con la moglie Beatrice Niederwieser. Già, i Pooh. Il loro anno orribile è cominciato con l’improvvisa morte del batterista Stefano D’orazio mancato l’anno scorso. A settembre è morta per un tumore al cervello Paola Toeschi, moglie del chitarrista Dodi Battaglia. Aveva 51 anni.
«Mi dicono che dovrò stare qui ancora almeno quattro settimane per una cura antibiotica e fisioterapia. Il chirurgo ha fatto pulizia sul cuore e dintorni e sembra che me la caverò. La cosa è esplosa senza alcuna avvisaglia. Una mattina non riuscivo ad alzarmi da letto. Ho provato a camminare e sono caduto. Una cosa orribile».
A cosa sta pensando in questi giorni?
«Mi sono chiesto: ma che altro può succedere? E la vita vissuta mi passa davanti. Penso a mio padre Giovanni che dall’aldilà mi sta dando una grossa mano costringendo tutto il paradiso a pregare per me. Fu lui a comperarmi a rate per 5 mila lire la prima chitarra quando avevo 13 anni».
E si è subito trovato bene con quello strumento?
«Sì. A quell’età volevamo imitare Harrison o Lennon. Al mio arrivo per rimpiazzare Riccardo Fogli, Facchinetti, Battaglia e D’Orazio giravano con quattro fari, due seicento multipla ai lati del palco. Io gli feci spendere 27 milioni di lire del 1963 per un impianto luci come si deve. Guadagnavamo 600 mila lire a spettacolo da dividere in quattro. Mi presero per matto. Ma poi capirono e mi ringraziarono».
Nonostante fosse l’ultimo arrivato lei era un po’ il front man della band?
«Sono cose che si decidono sul campo quando si capiscono le attitudini. Io comperai gli studi del Castello di Carimate prima e gli studi Sugar poi».
Lei ha avuto una vita sentimentale intensa.
«Due matrimoni, il primo con la cantante Delia Gualtiero che mi ha dato una figlia meravigliosa, Chiara, e il secondo con Beatrice, che è il mio punto di riferimento, facciamo e condividiamo tutto, compresa la produzione di Casanova. Bea inoltre, ha portato “in dote“ un ragazzo splendido e un musicista sensibile, Phil».
Però è stato molto corteggiato.
«Io non sono il tipo da una botta e via. Ho avuto delle storie anche brevi ma belle. Con tutte le ex c’è stato affetto e poi amicizia. Siamo in ottimi rapporti. Anche per questo ho voluto inventare un musical per riscattare la figura di Casanova».
Cosa le dà conforto in questi tempi difficili?
«La solidarietà e le telefonate dei colleghi, le premure di chi mi cura. L’essere vivo e lucido. Ma il dolore per alla perdita di Stefano non passa. Anche quando litigavamo c’era sempre una forma di rispetto. Mi manca il suo sorriso. Lui era in grado di cambiare in meglio una giornata».
Il momento più bello della storia dei Pooh?
«Quando abbiamo vinto nel ‘90 il Festival di Sanremo. No, anzi: quando nel giro di due anni passammo dalle balere agli stadi».
Come è cambiato il mondo della musica leggera?
«Non si studia più la musica».
Ha avuto paura?
«Tanta. Ho capito subito che avevo un problema grave. Ho capito che potevo anche morire. E adesso faccio già piani per il futuro. Come andare in teatro a vedere il mio Casanova. Costosissimo. Per fortuna sono interventi amici e sponsor. Renzo Rosso ci ha regalato chilometri di stoffa per i costumi. Gli industriali delle cucine e la Federlegno ci hanno regalato il legno per il palco e le scene. Al Politecnico calzaturiero del Brenta gli alunni hanno disegnato e costruito le scarpe dell’epoca».
Seguirà Sanremo?
«Assolutamente si. Questo festival sarà una festa. Amadeus è uno in gamba che la musica l’ascolta».
Prega?
«Si. Tanti mantra a cominciare dal rosario... Siamo troppo perfetti per esser solo carne».
Gianmarco Aimi per mowmag.com il 2 gennaio 2021. “Mi sono preso un virus creato in laboratorio. Questo me l’hanno detto i miei amici medici, quelli giusti”. Non lo nomina mai, anche se i sintomi sembrano proprio quelli del Covid.
Li ha elencati lo stesso Red Ronnie in un vocale diffuso sul suo canale Telegram per tranquillizzare i fan: “Tra tutti i casini che ho avuto, tra abbassamento di difese immunitarie ecc ecc, mi son preso un virus creato in laboratorio. Questo me l’hanno detto i miei amici medici, quelli giusti.
Sono seguitissimo e quindi piano piano mi riprendo. Non ho voglia di fare nulla. Quando riesco ad andare al computer e lavorare un po’, dopo devo andare di nuovo sul letto a fare una pennichellina. Non ho appetito, mangio praticamente solo spremute di arancio e cose del genere. Mi curo con l’omeopatia. Ed è stata parecchio tosta”.
Dall’inizio della pandemia, il giornalista musicale è uno dei personaggi del mondo dello spettacolo che più si è esposto criticamente verso l’interpretazione della scienza sulla pericolosità del Coronavirus e alle misure per contenerne la diffusione: da quando amplificò un video di Cristiano Aresu in Giappone che magnificava le proprietà miracolose di Avigan (un farmaco approvato per il trattamento di nuovi ceppi di influenza, ma non per quello del Covid-19) a quando si rifiutò di mostrare il Green Pass per entrare al Museo di Messina (definito “'Skif-Pass”) fino alle tante perplessità sollevate sui vaccini nelle dirette sui canali social (“Il coronavirus? Un esperimento mediatico per distruggere l’Italia”) e al sostegno a vari gruppi no vax velati o conclamati, tanto che persino l’amico storico Vasco Rossi fu costretto a dissociarsi dalle sue dichiarazioni pubbliche: “Innanzitutto, voglio dire che mi dissocio da tutte le cose che Red Ronnie dice in giro, nelle televisioni varie.
Io mi dissocio completamente, non sono d'accordo su niente”.
Da qualche giorno, il giornalista aveva disdetto ogni impegno relativo alle trasmissioni condotte online e fatto sapere che non si sentiva bene. Quando poi è tornato in video è apparso molto sofferente. Nel messaggio di fine anno che ha pubblicato, nonostante tutto, è tornato ad avanzare dubbi sulle politiche sanitarie: “Quando è iniziato il 2021 eravamo pieni di voglia di riprenderci la vita, non ce l’hanno permesso.
Ciò che è accaduto è ben oltre tutte le nostre più brutte aspettative. Ogni oltre ragionevole pensiero. Siamo ancora qui, acciaccati, destabilizzati, smarriti, questo anno finisce in maniera strana.
Ci hanno addirittura tolto il Natale, l’ultimo dell’anno, hanno cancellato i concerti in piazza, tutto. Le persone debbono vivere nella paura – ha continuato, alludendo a una sorta di complotto -, abbassando le proprie difese immunitarie. E siccome la musica, l’amore, l’abbraccio, l’incontrarsi e sorridersi fanno alzare le difese immunitarie li hanno eliminati. Dobbiamo essere preda dello sconforto”.
Anche in questo caso, nessun accenno al Covid. Ma a chi gli ha chiesto “come ti sei curato Red” lui ha risposto: “Ho ancora i postumi di un virus. Non è un mistero, non mi avete visto per dieci giorni”. E poi ha aggiunto di essere tartassato da chiamate, mail e messaggi di persone in cerca di un medico “di quelli giusti” perché “non si fidano di andare in ospedale e fanno bene”. Una sfiducia nella scienza ribadita anche in seguito: “Ormai per capire se un medico è bravo bisogna vedere tra quelli sospesi.
Se è stato radiato ancora di più”. Un’altra persona è tornata a preoccuparsi per lui, chiedendogli quali medicine abbia utilizzato, ma il giornalista ha precisato: “Mi sono curato con l’omeopatia, la vitamina C e tutti i prodotti naturali”.
A un certo punto, in un altro messaggio, un utente avanza un’ipotesi ardita: “Quando hai fatto l’incidente ho pensato a un tentato omicidio” (riferendosi a un incidente in auto sulla A24) e lui ha rincarato la dose: “Hai pensato bene… non è il caso, ma hai pensato bene”.
Infine, ha lanciato un monito per uscire da quello che considera tutto un inganno dell’informazione mainstream: “Dovete spegnere la televisione, non leggere i giornali, non ascoltare la radio. Mantenete le comunicazioni dirette tra voi con Whatsapp, Telegram e Signal”.
Gian Paolo Serino per Dagospia il 3 gennaio 2021. Red Ronnie il complottista Covid, quello che durante una diretta fa intuire che il proprio recente incidente stradale è “anomalo” visto da quando è iniziata la pandemia la combatte come “un virus mediatico”. Red Ronnie fermamente “no vax” non dimentica, però, di cancellare – più che il virus- la propria storia personale quando incitava a picchiare fascisti e poliziotti.
Dall’inveire contro i fascisti e a gridare in diretta radio contro “la polizia che ha rotto le palle” a opinionista televisivo “Red Ronnie”, nome d’arte di Gabriele Ansaloni, rinnega il proprio passato tanto che nel suo sito ?redronnie.it ha rimosso qualsiasi riferimento alla sua militanza su “Radio Alice” che nel 1977 lanciò moltissimi artisti ma che era anche in prima linea nelle sommosse che contribuirono a diversi morti “caduti” negli anni di piombo.
Il 12 Marzo 1977 i manifestanti - perlopiù del Movimento Studentesco - si scontrarono con le forze dell'ordine, a seguito dell'uccisione dello studente Francesco Lorusso.
A condurre la trasmissione in presa diretta dal balcone della casa del disegnatore Bonvi è Red Ronnie che commenta “Non rispondete alle provocazioni dei soliti fascisti stronzi. La cosa interessantissima è che la gente sta cambiando opinione. Mentre ieri il popolo diceva basta con questi estremisti che sfasciano le vetrine, oggi dice basta con questa polizia che rompe le palle" (come si può leggere, tra gli altri, anche nel saggio “Autori molti compagni, bologna marzo 1977 ...fatti nostri...” edito da Giorgio Bertani Editore, da pagina 73 a pagina 75).
Secondo Red Ronnie “la polizia rompe le palle”. Dopo trasmissioni come “Roxy Bar” su Videomusic - dove comunque aveva il coraggio di ospitare in prima serata musicisti classici, rock band emergenti e vietare le pubblicità di alcolici- è passato fare di tutto pur di avere visibilità.
Lo vediamo sulle televisioni private passare da una arena all’altra alzando sempre il dito, neanche medio come farebbe un rocker ma il dirimi come un compagno delle scuole elementari che non ti vuol far copiare i compiti.
Red Ronnie è passato da un modo di fare televisione rivoluzionario - con apprezzato situazionismo nel riprendere gli artisti con una telecamera come fosse un colloquio privato- a essere triturato dalla tele-visione.
Come ha triturato i suoi “amici” rockstar: più che rispettarlo lo temono perché Red Ronnie ha decine e decine di ore di registrazioni senza “filtri” che riempierebbero la vita di guai anche alla rockstar più seguita di Italia...Ronnie è consapevole del suo “potere” di compagno di merende che filma mentre uno è ubriaco e magari esagera con idee che sotto alcool test non direbbe mai.
Red Ronnie, che ha cercato di diventare il Carlo Massarini del popolo sognando “Mr Fantasy” senza fantasia, non riesce a sfondare le porte della percezione nel mondo digitale dove si e confinato. Le sue dirette Facebook e Twitter - dove parla mediamente per un’ora- hanno poche migliaia di visualizzazioni.
Sarà ancora colpa del manganello fascista o della “Polizia che ha rotto le palle”?
Chiediamo alle stesse associazioni e ai sindacati di polizia, che ogni giorno rischiano la vita per difenderci, di intervenire.
Perché quelle parole, anche se Red Ronnie le ha tolte, compresa ogni collaborazione con “Radio Alice rimangono sempre scolpite contro “La polizia che ha rotto che ha rotto le palle”. Le può cancellare dal suo sito e da internet ma non dai libri e dalle pagine più brutte della radio-televisione italiana.
Barbara Costa per Dagospia il 18 Dicembre 2022.
“Con te, mi tocco e vengo 8 volte di seguito, te lo giuro!”: quale complimento migliore per una spogliarellista? E pole dancer, ma ha iniziato da ballerina esotica, e oggi fa pure porno, e lo sai che “la gente ti giudica in modo diverso dopo che hai preso un caz*o davanti a una telecamera”?!? E sì che lei nei video ne prende, di peni, ma pure di f*ghe, e ci dà da sé con fortunatissimi dildo. Lei è Reya Sunshine, pole dancer in ogni poro della sua pelle sudata e ricoperta, sera dopo sera, dai suoi spettatori, di dollari!
Parliamo di Reya perché la vedremo su un palco, diverso, per lei inedito, la notte del 7 gennaio, alla cerimonia degli Oscar del Porno 2023: lei li presenterà, lei li consegnerà, in tandem con una pornostar (gli Oscar sono finanziati da "MyFreeCams", sito di hot camming che dispone una sua vedette come co-presentatrice), e pornostar che quest’anno è la lato B diva – e laureanda in legge! – Abella Danger.
E se della Danger più d’una volta vi ho parlato, stavolta occhi e sessi dritti su Reya, 32enne di Los Angeles, una laurea in Psicologia, e a casa col papà fino a poco tempo fa. È stato il padre il primo a puntare su curve e doti di Reya, tanto da installarle… un palo da dance in camera da letto! Reya ha scoperto il palo tardi, a 26 anni.
La pole dance non è soltanto tra i suoi lavori il principale (c’è il porno, c’è pure la cam), ma è una scelta di vita, e uno stile di libertà. Ehi, ma… tra le ballerine, si fa sesso? “Sì, perché no? Si fa tra chi si piace e vuole, nelle stanze sul retro!”. E lezioni di vita dall’essere pole dancer? “Mai giudicare dai risultati a breve termine, e… rimbocca bene il filo del tuo tampax!”.
Reya centra la verità quando afferma che ogni cosa che in 6 anni ha fatto e guadagnato, “è frutto del mio c*lo!”. E si riferisce alle sue risonanti natiche ma di più al fatto che è ascesa da sé. Reya ha puntato su di sé e subito al massimo, mai mettendo in dubbio questa ingiusta ma manifesta realtà: le donne che lavorano nel sesso – siano prostitute, o attrici porno, lap dancer… – prendono a pugni le resistenze morali e moralistiche della società. Non si torna più indietro. Sia che il tuo desiderio sia fare la lap dancer, sia che tu voglia scatenarti nel porno.
È in ogni caso una tua scelta, sicché mai lagnarsi dello stigma che si riceve: “Ti penti di non avere fatto, non di averci provato, e magari riuscito!”: così la pensa Reya, che nella lap dance ha trovato la sua realizzazione, e il porno è stato il passo successivo, e ponderato. Ponderato fin troppo, e non per quanto riguarda il sesso lesbico e le scene da solista assai gradite dai fan (che su IG sono 3,1 milioni), bensì nell’alternare ad essi la presenza di un pene vero.
Reya non ha ancora fatto doppie e più penetrazioni, riscontra già impegnativo gestirsi con un uomo, e sono stati i suoi partner di scena a ben istruirla su quadri e pose da performare. I suoi porno sommano ottime views, e più scene sono a rilascio (2 fisse al mese sul suo OnlyFans, e solo quel che concerne il porno home-made. I porno girati sui set sono al momento 15).
Reya è lanciatissima e presa in una rivincita della donna nel sesso, col sesso, in una sfida per lei non abbastanza in progressione. In troppi ostentano aperture mentali di cui Reya strappa i veli ipocriti. Perché una pol dancer, e di più, una attrice porno, sacrifica l’altrui vergogna. Configura fantasie per cui tantissimi morirebbero piuttosto che palesarle. Per queste persone una pol dancer, e più, una attrice porno, è un capo espiatorio per il loro senso di colpa e le loro repressioni: “In molti ci vedono esseri disgustosi e senza valore, e tra questi, in tanti sono bei fruitori di pornografia. Siamo il sacco da boxe per problemi sessuali profondi!”.
Reya n’è consapevole, e lo riproduce mirabilmente e con convinzione. Volteggiando al palo. Sc*pando decisa, e apertamente. Tra chi la vede c’è chi l’ama, la vitupera, la vorrebbe, la schernisce, e alcuni non vorrebbero lei: vorrebbero "essere" lei. Reya cattura con l’audacia dei suoi spettacoli. Nella ribellione implicita in ciò che fa. In ogni suo gesto, studiato, ogni movenza, studiata. In un legante intrico di tempi e schemi.
Reya Sunshine è padrona di fermenti e orgasmi di chi, sotto al palco, o attraverso uno schermo, se la mangia con gli occhi (e poi, nello scudo di casa sua, non sta con le mani in mano…!). Alla fine, è solamente un gioco. Sì, è un gioco, intollerabilmente seduttivo… e le regole le stabilisce Reya. Le redini, le tiene Reya. È lei che ti sferza. Reya è pronta. Ogni volta. È lì per te. Reya si dimena, e per te che la guardi. Chi è il vero oggetto sessuale tra i due?
· Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Cochi Ponzoni: «Quando con Renato Pozzetto ci inventammo l'Ufficio Facce alla pasticceria Gattullo». Paolo Robaudi su Il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2022.
Che fine ha fatto Cochi della mitica coppia «Cochi e Renato»? «Qualcuno credeva che fossi morto, in realtà per vent'anni ho fatto teatro. La nostra comicità nata dalla strada»
Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, o meglio, «Cochi e Renato»: una coppia milanese che negli anni Settanta ha rivoluzionato il modo di intendere la comicità. Con Enzo Jannacci, Felice Andreasi, Walter Valdi e pochi altri hanno dato voce allo spirito della Milano di quegli anni, in bilico fra passato e modernità, l’ultimo istante del grande artigianato che diventava fabbrica, i modi di dire in dialetto dietro i quali si celava un mondo. Come «te set un rusanivul», «sei uno spinginuvole»: quindi «un perditempo», ma al tempo stesso «un sognatore», in senso dispregiativo, perché a Milano «se fan semper andà i man», vietato starsene con le mani in mano. La loro era una comicità prima di tutto intelligente, come le loro canzoni, spiritose e leggere ma sempre con un risvolto profondo e un filo di malinconia.
Cochi e Renato studenti all'Istituto Cattaneo, uno ragioniere, l’altro geometra: com’è andata?
Feci ragioneria per motivi pratici: mio padre non stava bene e mia madre, per questioni pratiche, mi indirizzò verso ragioneria, anche se io non ero assolutamente portato, semmai avrei dovuto fare il classico. Al diploma contrabbandai la traduzione di tedesco, la mia lingua preferita, con il compito di ragioneria, materia per me ignota. Dato che con le lingue mi arrangiavo finii a lavorare a Linate, al check-in, per un paio d’anni, finché il passatempo di recitare divenne un vero lavoro di attore, nel 1964, al Cab 64.
Com’è nata la coppia Cochi e Renato?
I nostri punti di riferimento erano le osterie. Allora a Milano erano gli unici locali: osterie e trani, le frequentavamo già da quando eravamo ragazzini, ancora studenti al Cattaneo. C’era “L’Osteria dell’Oca d’Oro” in via Lentasio, dove Piero Manzoni esponeva i suoi quadri, e poi il mitico “Bar Jamaica” di Brera, frequentato da artisti e scrittori come Lucio Fontana, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi. Un altro bel locale era “Pino la Parete”. E poi la storica pasticceria “Gattullo”, dove con Renato Pozzetto, Enzo Jannacci, Beppe Viola Toffolo e diversi altri ci inventammo il famoso “Ufficio facce”. Funzionava così: piantavamo gli occhi addosso a ogni nuovo avventore del locale e tra noi giocavamo a indovinare chi fosse, cosa facesse, quale squadra tifasse. Molte delle nostre scenette sono nate così, tra quei tavoli. Andavamo alla ricerca dei personaggi strani, gente stralunata, ce n’erano parecchi una volta, gente da bar.
Come avete iniziato a lavorare nei locali?
Tutto è nato dalla casualità e dagli incontri che si facevano in questi locali. Di fianco all’“Oca d’Oro” c’era una galleria d’arte, “La Muffola”, che prendeva il nome dal forno per la ceramica. Era di Tinin e Velia Mantegazza. Noi magari andavamo a cantare in osteria per divertirci e loro si univano, c’erano anche Maria Monti e Dario Fo, noi all’epoca non sapevamo neanche chi fossero, eravamo dei ragazzini. Ad un certo punto il Mantegazza ci chiese di cantare quando c’erano i vernissage, per intrattenere i visitatori. Cantavamo canzoni popolari, canzoni di protesta e canzoni anarchiche. Erano anni magnifici, Milano ribolliva di spazi culturali. A un certo punto Tinin e Velia decisero di prendere il sottoscala di un bar in via Santa Sofia e farci il “Cab 64”: ci siamo messi insieme e da lì è nata tutta la nostra storia.
Insieme con chi?
All’epoca si usava fare le cooperative, oltre a me e Renato c’erano Velia e Tinin Mantegazza, Lino Toffolo, Bruno Lauzi, Felice Andreasi. Spesso venivano Jannacci e Gaber, con la sua fidanzata dell’epoca Ombretta Colli. Lei cantava a io la accompagnavo la chitarra, fu Gaber a insegnarmi a suonare meglio. Jannacci si innamorò di noi, mentre noi di lui eravamo già innamorati. Così nacque la nostra splendida amicizia, eravamo come fratelli. Nel 1965 Jannacci portò anche noi al “Derby”, dove nacque il “Gruppo Motore”. Eravamo sempre noi: io e Renato, Andreasi, Toffolo, Lauzi e Jannacci, il nostro era un lavoro di squadra. Li iniziammo a essere conosciuti, prima a livello cittadino per poi arrivare in televisione. E lì arrivò il successo, soprattutto tra i giovani. Successo grandissimo e per noi completamente inaspettato.
Come nasce la vostra comicità surreale e leggera?
Era il nostro modo congenito di scherzare, la nostra maniera di affrontare la realtà per farla diventare divertente. Eravamo spontanei, non c’era nessuno studio dietro: era il modo con cui si scherzava tra di noi. Quando poi siamo arrivati alla televisione tutta l’Italia ripeteva le nostre battute, la nostra comicità divenne popolare. Noi non ce l’aspettavamo, volevamo solo far ridere la gente, regalare un’ora di divertimento, magari dopo una giornata di duro lavoro.
E l’esperienza nel cinema?
Ho lavorato con Lattuada, Dino Risi, Sordi e Monicelli. Ho fatto tantissime cose, alcune anche con Renato, come “Sturmtruppen”. La mia prima esperienza di cinema fu in “Cuore di Cane” di Alberto Lattuada, accanto a con Max Von Sydow. Io Max andavo a vederlo nei cineforum da ragazzino, nei film di Bergman: incredibile ritrovarmelo di fronte in carne e ossa. Ero un po’ intimorito, invece mi mie subito a mio agio: una persona eccezionale, di una gentilezza e simpatia incredibile.
I vostri famosi tormentoni come sono nati?
Non erano assolutamente pensati per diventare degli slogan, si rifacevano sempre al nostro modo di scherzare. Fortunatamente poi sono rimasti nella memoria collettiva di un’epoca. Per esempio la frase “Bene, bravo, sette più” era una battuta assolutamente surreale, anche se ovviamente sottolineava un disagio. Renato era il maestro povero e io l’allievo ricco. Durante quello sketch, Renato mi faceva delle domande assolutamente improbabili. Alla tredicesima puntata, uno scambio di battute fece arrabbiare addirittura il ministero dell’Istruzione. Il maestro Renato diceva: “Prendete una banconota da cinquantamila lire, dal portafoglio dei vostri genitori, fotocopiatela, mettete la copia nel portafoglio dei genitori e portate al maestro l’originale”. Io, allievo ricco, domandavo: “Come faccio?” e lui rispondeva: “Fatevi aiutare dai vostri genitori”. E qui passammo dei guai. Bisogna tener presente che quando iniziammo a fare televisione era il 1968, c’erano solo due canali e ci guardavano in trenta milioni di italiani. In pratica l’Italia allora si fermava per il comandante Straker della serie “Ufo”, per “Jeux sans frontières” e per noi.
La domanda di Paolo Rossi nel ’92: dove sei sparito per vent’anni?
Non mi vedevano più in tv e c’era addirittura chi pensava che fossi morto. Invece per vent’anni ho fatto tantissimo teatro di prosa, facevo tournée teatrali di sei mesi in giro per l’Italia. Renato faceva cinema e io teatro. Qualche settimana fa abbiamo fatto una rimpatriata al Bar Jamaica con Paolo Rossi, Ricky Gianco e Uliano Lucas, per registrare un servizio televisivo sulla Milano di quegli anni là. Ci conosciamo da sempre: Paolo Rossi era il ragazzino che lavorava con Dario Fo e Franca Rame. Con Ricky Gianco siamo cresciuti insieme, con Pietruccio dei Dik Dik eravamo compagni di giochi. Io abitavo in via Foppa, Ricky in via Stendhal. Pietruccio era il mio compagno di banco a scuola. Anche Lallo, il cantante dei Dik Dik, abitava in via Foppa. Un gruppo di bambini, artisti in erba. Noi abbiamo avuto la fortuna, in quella stagione, di poterci esprimere in tutta libertà. Eravamo figli della strada, niente scuole di recitazione o di musica. La nostra palestra è stato il cabaret, abbiamo imparato rapportandoci con il pubblico direttamente, senza rete.
Cosa pensa della Milano di oggi?
Mi piace moltissimo. Ci sono locali, come lo “Spirit de Milan”, “La balera dell’Ortica” e i circoli Arci, che mi riportano allo spirito del passato. C’è di nuovo un’atmosfera che mi sembra ricca di fermento. Milano la trovo una città rinata, una città in divenire.
Renato Pozzetto: «Con Jannacci in barca ma navigavamo soltanto all’Idroscalo». Michela Proietti su Il Corriere della Sera l'8 Ottobre 2022.
«Io e Cochi? Ci rivogliono in teatro. Il celebre «taac» lo sentii da uno scommettitore di cavalli».
«Al Bar Gattullo, dove passavo i pomeriggi da ragazzo con i miei amici, avevamo creato un ufficio-facce, per decidere chi poteva far parte della comitiva». Molto prima che arrivasse Facebook, Renato Pozzetto, aveva inventato con il suo gruppo una commissione immaginaria, per selezionare i nuovi amici da ammettere al bar di Porta Lodovica, a Milano. Che venivano quasi tutti respinti: «Quando qualcuno non aveva i tempi del nostro umorismo o semplicemente tifava la squadra di calcio sbagliata, la battuta ricorrente era: “Ma questo è passato dall’ufficio facce?». La cultura da bar, della battuta veloce, il riscontro immediato della risata: o scoppiava subito o mai più, nessuno sconto dalla platea implacabile del tavolino. Una palestra che ha fatto di Renato Pozzetto, nato 82 anni fa sotto il segno del Cancro, uno dei più grandi cabarettisti e attori comici italiani, con oltre 70 titoli e solo uno, sul finale, drammatico, insieme a Pupi Avati. «Con Pupi avevamo litigato, quando ha avuto il coraggio di farsi risentire per farmi leggere il copione ero ancora nero... poi ho iniziato a sfogliarlo e mi sono commosso. E ho detto di sì».
E ha fatto bene. Per la sua interpretazione in «Lei mi parla ancora» è stato candidato al David di Donatello.
«Avevo perso mia moglie da poco, non volevo che realtà e finzione si mischiassero. Ci siamo riusciti».
Perché avevate litigato con Pupi Avati?
«Una stupidaggine, aveva preso le difese di una persona che più tardi ha deluso anche lui. Mi offesi perché scrisse un biglietto in cui attaccava anche la mia carriera, alcune mie scelte».
Un ruolo drammatico dopo 70 titoli comici. È stato difficile non fare il mattatore?
«Il mio è stato sempre un umorismo sottile, alla milanese. Non sono nato battutaro, quella del cabaret era una scuola del surreale. Io e Cochi Ponzoni abbiamo passato la vita a ridere come matti dei nostri nonsense».
Con Cochi vi siete conosciuti da piccoli.
«Siamo nati tutti e due a Milano nello stesso quartiere e tutti e due, fatalmente, siamo stati sfollati durante la guerra a Gemonio. Nel 1942 una bomba ha beccato in pieno il palazzo dove abitavo e sono rimasto senza casa. A Cochi sua mamma aveva comperato una chitarra, suonavamo le canzoni che sentivamo alla radio».
Fino alla prima media è stato un laghèe.
«Poi siamo tornati a Milano, in un alloggio del Comune: si chiamavano case minime ed erano abbastanza disumane, piccoli nuclei vitali in mezzo a cortili enormi. Poi ci siamo trasferiti dove c’era il capolinea del tram 3, nel quartiere Baia Del Re. C’era gente che si guadagnava onestamente lo stipendio, come mio padre, ma anche la malavita. Ho giocato con figli di gente complicata».
Il bar.
«Ci trovavi di tutto. Una volta arrivò un pittore che ci presentò Piero Manzoni: iniziammo a frequentarlo, un genio purtroppo sregolato nel bere. Ci incontravamo spesso all’osteria L’Oca d’oro, dove artisti e pittori di Milano erano di casa. Il proprietario amava la nostra ironia e anche i frequentatori apprezzavano: Lucio Fontana ci diceva in milanese “voi due dovreste andare a Sanremo” e poi aggiungeva: “Ghe pensi mi”».
E vi ha davvero aiutati?
«No, però una sera invitò Cochi — che lo aveva riaccompagnato a casa — a salire per bere un ultimo bicchiere e regalargli un quadro. Cochi incredibilmente non ha accettato l’invito e quindi niente quadro. Sono sempre stato invidiosetto di questa proposta fatta a Cochi e non a me. Sarei salito di corsa».
La svolta.
«Agostino-Tinin Mantegazza e sua moglie Velia aprirono una galleria d’arte notturna frequentata da Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Poco dopo Tinin e Velia inaugurarono in un sottoscala il Cab 64: noi lì cantavamo le nostre canzoni milanesi. Cochi aveva pensato di fare un brano intitolato “A me mi piace il mare” e diceva: “A me mi piace il mare, tanto, effettivamente... in occasione dell’estate, nonostante la stagione, ho comperato un canotto e un ombrellone, sono sempre in giro in spiaggia, qui le spese vanno su, ho bisogno di vederti, sì ma torna presto che non vivo più”. E tra una strofa e l’altra io spiegavo al pubblico cosa fosse il mare. Nasceva così la nostra vena surreale, la gente veniva a vederci, la voce girava».
Il Derby.
«Un successo incredibile, la gente prenotava il Capodanno da un anno all’altro, c’era così tanta folla che era stata creata una scala che si alzava e si abbassava dopo la porta d’ingresso, per cui quando la scala saliva l’entrata non esisteva più. Era frequentato dalla gente della televisione: per noi arrivarono le prime trasmissioni».
Enzo Jannacci.
«Il nostro più grande sostenitore, che diventò anche il mio medico di base. Nacque un’amicizia fortissima, nonostante lui fosse notoriamente Schizzo...».
Cosa significava Schizzo?
«Un tipo nervoso, imprevedibile. Grazie al Derby arrivò la Rai, con Canzonissima che faceva 20 milioni di ascolti e poi anche il cinema. Mi ritrovai a firmare tre contratti cinematografici e per festeggiare andai a mangiare l’aragosta. Ebbi una intossicazione e Enzo dopo avermi fatto una puntura se ne andò via ridendo con un matto nel corridoio. Non ho mai capito cosa volessero dire quelle risate».
Altre stranezze?
«Enzo amava le barche e finalmente se ne comperò una di 7 metri. Mi invitò a provarla: credevo mi portasse al mare, invece aveva decisa di tenerla all’Idroscalo. Ci ritrovammo in mezzo all’acqua, soli, con un freddo glaciale».
Un po’ come il freddo implacabile della cascina de «Il Ragazzo di Campagna».
«Il successo cinematografico più grande, nato senza aspettative, quasi preso sottogamba: con Castellano & Pipolo ci siamo messi a scrivere con l’idea di non dover fare un film da botteghino natalizio».
Fotografò con anticipo la bolla immobiliare milanese: monolocali a prezzi stellari.
«C’era anche lì un po’ di biografico: io e Cochi, dopo Canzonissima, avevamo cominciato a lavorare fuori Regione. Quando tornavamo dagli spettacoli e trovavamo nebbia in autostrada ci fermavamo in qualche hotel che aveva stanze del genere “taac”».
Come nacque il famoso «taac»?
«Lo diceva sempre un ragazzo simpaticissimo che frequentava il Derby, grosso scommettitore di cavalli: quando vinceva o le cose andavano per il verso giusto, lui diceva “taac”».
Un milanese a Roma: come si trovava?
«Non ho mai trascorso un giorno di vacanza o un weekend a Roma. Mia moglie non aveva mai accettato di trasferirsi e io facevo il pendolare, sempre con l’incognita della nebbia che non ti faceva atterrare».
Sua moglie non era gelosa di Roma?
«Non ne aveva motivi, si sentiva più a casa a Milano. Mi chiese solo una volta di fare una foto con Adriano Celentano e forse ce l’ho ancora, ma non la guardo perché mi intristisce».
I suoi amici dell’ambiente artistico?
«Paolo Villaggio, che incontravo anche per mare tra la Sardegna e la Corsica. Avevo la casa a La Maddalena, lui a Bonifacio, una casa stretta e lunga affacciata sulla falesia: ci parlavamo dalla barca al balcone, perché la roccia faceva da cassa armonica. Poi Renato Della Valle e Marcello Mastroianni».
Di cosa è fatta la milanesità?
«Puntualità, rigore, un certo attaccamento alla famiglia. Noi fratelli Pozzetto con i primi soldi abbiamo comprato la casa ai genitori».
Oggi come le sembra Milano?
«La frequento poco, mi piace ancora l’idea di viaggiare con Cochi per lavoro, scegliere l’albergo, il ristorante dove mangiare, farci una foto con la gente. Soprattutto quando sono i bambini a chiedermela, perché i miei film continuano ad andare in onda ed è come se fossi uno zio che rompe le palle tutti i giorni».
Con Cochi vi vedete ancora?
«Giovedì prossimo andremo a vedere la prima di Sister Act al Teatro Nazionale. E il Teatro Lirico di Milano ci ha cercati per ricomporre il duo e farci recitare nel suo nobile palco riaperto dopo 20 anni di restauro».
L’umorismo alla milanese.
«Raffinato, ma la nostra è una fabbrica di umorismo che è stata abbandonata. Oggi parlano sempre della morosa, del tradimento, noi discutevamo della gallina...».
Chi sono i comici oggi?
«Non li seguo molto perché hanno un umorismo che faccio fatica a seguire, ma sicuramente è colpa mia. Mi ricordano quel cliente del Derby, con 1.200 dipendenti, che a fine spettacolo mi disse: “Io non ho riso, perché? Eppure non sono un pirla, do lavoro a un sacco di gente”. Ecco, anche io penso di non essere un pirla, ma non li capisco. Un po’ come non capisco i rapper».
Nessuno la fa ridere?
«Checco Zalone: non lo conosco bene, ma è un umorista vero e ha talento, suona e canta».
Qualcuno che l’ha colpita recentemente?
«Stefano Bollani nelle sue purtroppo veloci apparizioni televisive».
La comicità femminile.
«Tra tutte preferisco la Littizzetto, soprattutto fisicamente. Riguardo alle altre... preferisco Totò».
A quali progetti sta lavorando?
«Ho una trattoria a Laveno Mombello, sulla sponda lombarda del lago Maggiore, si chiama Locanda Pozzetto, ha nove camere che guardano tutte l’acqua e un ristorante che vola alto. In più mi sono messo a fare il vino con quattro amici, il Liseiret».
E il surreale dove è finito?
«Sto scrivendo un libro, un volume in episodi, alcuni veri, altri verosimili: mi aiuta Giorgio Terruzzi, che è un giornalista bravo e colto. Io non so usare il computer, battere a macchina e neppure leggere il mio corsivo: lui mi ha preso per mano e insieme stiamo facendo qualcosa di bello e surreale».
Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 6 ottobre 2022.
Peccato per chi non c'era, tra quei fortunati 100 mila: perché, fra il 23 settembre e il 1° ottobre al Circo Massimo di Roma è accaduto qualcosa che chiamare "sei concerti di Renato Zero in nove giorni" è riduttivo.
Questo folle e geniale cantante-performer, uno dei pochi rimasti, ne ha combinate di tutti i colori. E non solo per i sette cambi d'abito: spolverino nero con bavero e bombetta bianchi, cinque abbinamenti giacca-pantalone-bombetta ocra e giallo, verde scuro e chiaro, blu e celeste, arancione e rosso, lilla e cipria (tipo regina Elisabetta II), spolverino bianco con bavero e bombetta neri.
Alla vigilia è inciampato per strada mentre fuggiva da un selfomane che s' è rifatto postando il video, e lui ha inscenato un'altra caduta con quattro amici intitolando il filmato Le cascate del Niagara: storia di un inopportuno selfista in cerca di Gloria (che è già sposata!). Al quinto concerto è ricascato sul palco, per recuperare il microfono scivolato in un ballo sfrenato (72 anni compiuti quel giorno) e, seduto all'indiana, ha intonato gli ultimi acuti di Vivo.
Domenica 25 è rientrato all'una di notte, dopo tre ore e mezza di performance, nell'hotel dove s' era trasferito per concentrarsi. E ha scoperto che era il quartier generale dei Fratelli d'Italia in festa per le elezioni. L'auto è stata presa d'assalto da meloniani urlanti e cronisti, fotografi e cameramen in attesa della leader. Lui, quando è riuscito a scendere dopo un lungo slalom fra la folla, è sbottato: "Ma che è questo, un regime? Votate la merda che siete!". Ed è finito alla gogna sui giornali e i siti di destra, nella lista degli "artisti rosiconi" e ovviamente comunisti.
Eppure quello sfogo aveva ben poco di partitico ("Mi sono ribellato alla volgarità, pareva la vittoria dello scudetto, non delle elezioni"), anche se lui alla fine ne era felice, vedi mai che qualcuno scambiasse il suo look total black per un salto sul carro dei vincitori: "Si devono ricordare che io sono il nipote del filosofo marxista Mario Tronti!".
Al concerto numero cinque, quello interrotto poco dopo la metà dal nubifragio la sera del suo compleanno, le Iene lo attendevano alle tre di notte per stuzzicarlo fuori dalla trattoria, dove aveva bissato lo show con barzellette e stornelli per amici e parenti. Lui s' è coperto il volto, è rientrato nel locale, s'è fatto prestare il nastro adesivo, s' è incerottato le labbra ed è uscito così, suonando i pifferi di montagna che erano partiti per suonarlo. Poi, l'indomani, ha concesso il bis sul palco: lui e i 23 ballerini con le bocche tappate, alle spalle il testo e le note di "Vergognatevi voi" e alla fine via i bavagli e un grido: "Libertà!".
Nei sei concerti, sempre di 210-220 minuti, Zero ha estratto dal repertorio (quasi 600 brani in 55 anni di carriera) una settantina di perle: 40 a sera fra integrali e medley, in parte diverse da una data all'altra. Chicche mai cantate live negli ultimi venti trent' anni, come L'evento, Tu che sei mio fratello, La rete d'oro, Il caos, Chiedi di più, Lei. Bandiere mai ammainate e riarrangiate per l'orchestra di 50 elementi diretta da Adriano Pennino con Danilo Madonia al pianoforte: La favola mia, Vivo, Spiagge, Niente trucco stasera, A braccia aperte, Voyeur, Magari, Cercami, Amico, Più su, I migliori anni, Il cielo.
Il trittico Triangolo-Mi vendo-Madame, affidato a versioni dance remixate e ricantate coi soli ballerini in scena. Standing ovation per la straziante interpretazione di Qualcuno mi renda l'anima, denuncia della pedofilia scritta a 22 anni, e per quelle rockettare di Morire qui, Resisti, Fortuna e Rivoluzione che hanno scatenato le cinque generazioni di sorcini a ballare sotto il palco. E lui sopra, sempre più scatenato via via che scopriva di farcela ancora, dopo tre anni di fermo, con la voce di sempre e le gambe da ballerino.
A volte si è commosso, come la penultima sera, quando ha dovuto interrompere per la pioggia che inondava il palco e gli strumenti, trasformando lui e la sua bombetta verde in un quadro di Magritte, mentre la gente chiedeva di continuare anche senza orchestra ("Ma qui restamo tutti fulminati!").
O l'ultima, quando ha sfondato il record delle quattro ore per recuperare gli ospiti (fra cui Baglioni e Bollani) e i brani saltati il giorno prima. E alla fine ha annunciato che quello non era un punto d'arrivo, ma di partenza: "Ci rivedremo molto presto in giro per l'Italia". Un tour da febbraio nei palasport, dove non lo fermerà più nessuno. Neppure Giove Pluvio.
Da video.corriere.it il 23 Settembre 2022.
Renato Zero è diventato protagonista, suo malgrado, di una scena in stile «Paperissima». Il cantante dapprima viola il codice della strada, posteggiando il suo suv nero sulle strisce pedonali, e un momento dopo ruzzola a terra. La scenetta è stata filmata da un automobilista ed è finita in Rete, grazie al profilo Instagram di Welcome to favelas. Qualche internauta sulle prime ha pure avanzato dei dubbi: sicuri sia lui, non potrebbe essere un sosia? Altro piccolo giallo: in che zona di Roma si trovava?
La presenza di un “pollaio” - il bizzarro modo di delimitare con reti arancioni e penzolanti i cantieri stradali - due metri più in là “certifica” che si tratta della capitale. L’artista - in concerto al Circo Massimo il 23, 24, 25, 28 e 30 settembre e il primo ottobre - nel video indossava un iconico look total black: papalina, occhiali tondi e un paio di scarponcini dalla suola in gomma alta qualche centimetro. Forse è stato proprio il rialzo della calzatura a tradirlo visto che, al momento di salire sul marciapiede, Zero è inciampato, tendendo le braccia in avanti, finendo rovinosamente sull’asfalto. Il cantante si è subito rialzato, togliendosi la polvere da mani e pantaloni, e ha ringraziato il passante accorso a soccorrerlo.
Scatenati i commenti. Un utente di Instagram: «Il marciapiede nooo, non l’avevo consideratooo» parafrasando la celebre «Triangolo» del cantautore. Un secondo: «Ha i sorcini tra i piedi». E ancora: «Zero lividi!». Ed è intervenuta a dire la sua anche Asia Argento: «Ma poverino, c’ha le suole chiodate». (Maria Rosa Pavia)
Renato Zero abbraccia il suo pubblico: "Attraverso la mia musica ha trovato il conforto per rimanere a galla". Carlo Moretti su La Repubblica il 23 Settembre 2022.
Incontro con l'artista a poche ore dall'inizio del primo dei sei concerti al Circo Massimo, che celebrano la sua lunga e straordinaria carriera.
“Fare questo concerto dopo tre anni di stop è come riprendere gli studi dopo averli abbandonati e doversi imbattere in Omero. Il palcoscenico è una realtà molto impegnativa”. Con questa emozione Renato Zero si appresta a tenere il primo di sei concerti al Circo Massimo, l’ultimo la sera del primo ottobre quando il totale degli spettatori (circa 15 mila per sera) sarà arrivato a 98 mila. Molti gli ospiti e una scaletta di 32 brani per la serie di eventi intitolati Zerosettanta, con il quale l’artista romano intende celebrare 55 anni di carriera e, con due anni di ritardo causa covid, anche i suoi 70 anni che la sera del 30 settembre diventeranno, festeggiati sul palco, 72: “Per quelli che verranno solo una sera ho aggiunto brani immancabili e una serie di medley che raccontano meglio la mia carriera, del resto ho scritto per cinque cantautori ma io sono soltanto uno”.
Durante l’estate che si è appena conclusa, il Circo Massimo ha ospitato il carisma di Vasco, l’entusiasmo dei Maneskin, la carica di Ultimo. Ora con Renato Zero accoglie la storia della città, “ma è una città in cui abbiamo perso la piazza e il mercato”, sottolinea Zero, “dove il potere degli artigiani che rendevano il lavoro in bellezza è ormai scomparsi e questo è una grande piaga. Oggi sono a metà strada tra Roma Nord e Roma Sud e questo mi solleva da un razzismo velato ma evidentemente presente e mi dispiace che questa città ne soffra”.
Sa che il suo pubblico accoglie diverse generazioni: “Sono contento che ci siano posti comodi e a sedere, ci sono bambini, donne, anziani. Anche se il Circo Massimo è un po’ dispersivo, a Villa Borghese per i 60 anni ricevetti un bell’abbraccio, qui non si riesce”. Si sente il cantore degli ultimi: “Nei miei brani la solitudine o l’inquietudine fanno parte di un pentagramma necessario, come quello di De Gregori, Guccini, Dylan o Leonard Cohen. Non voglio avvicinarmi a quelle vette però ritengo che un bravo musicista e cantautore abbia il dovere di inserirsi nelle problematiche esistenziali, come ci ha insegnato il melodramma con la Traviata e tante altre opere. Il mio pubblico attraverso la mia musica ha trovato il conforto per rimanere a galla, non solo disimpegno ma canto di guerra, un’oratoria per avvicinarsi alla fede e a Dio, la musica è un companatico”.
Ci sarà un pensiero a Raffaella Carrà durante il concerto, a un anno dalla scomparsa? "No, non ci sarà perché non sono ancora convinto che Raffaella se ne sia andata. Le abito vicino all’Argentario e ad agosto sono stato 4 volte a cena a casa sua con Sergio Japino e Gianluca il suo assistente, abbiamo fatto insieme la pizza con il lievito madre e abbiamo data a quella casa l’assicurazione che Raffaella sa ancora ospitare ed è ancora in grado di ricevere gli amici. Quindi stasera non mi sembrava opportuno, invece ho un debito affettivo per Mimì e Gabriella Ferri e loro nelle prossime serate ci saranno in qualche modo”.
Ci sarà forse un riferimento a Bella Ciao? “Ci sono brani come Vecchio scarpone che li conosco a memoria ma non posso avere una memoria così lunga perché in quegli anni non ero neanche nato, il pappagallo deve essere istruito e poi è meglio non assomigliargli, al pappagallo”.
Che momento attraversa l’Italia? “Mazzini mi ha chiamato e mi ha detto che ha sbagliato tutto. Il fatto è che noi vogliamo la pace, un governo magari fatto di tre partiti com’era prima ma di gente che si rende conto che le loro questioni di simpatia o antipatia devono fare pari con le esigenze degli operai, degli studenti e dei malati. Questi menu ridondanti di promesse, tutte cose che sappiamo già in partenza saranno di là dall’essere attuate, perché non ci sono più soldi e tutto ciò che abbiamo lo abbiamo sacrificato sull’altare delle commissioni e delle tangenti. E le bollette non possono costare queste cifre folli: il problema non è solo della Russia ma di un salvadanaio che non è stato più rimpinguato e non c’è stata una moderazione nel consumo”. “Andiamo a votare come giocando una schedina e non conosciamo i nostri rappresentanti. Abbiamo avuto gli Almirante, i Nenni, i Togliatti, i Saragat, politici che si facevano conoscere nel bene e nel male, e la forza di quell’Italia consisteva nell’approccio che avevano con la gente, che andavano nelle case. Questi, dopo una poltrona e una legislatura e dopo aver disatteso le attese se ne vanno anche con la pensione. Lo trovo offensivo”.
"Al Circo Massimo festeggio (in ritardo) i miei settant'anni". A Roma quasi centomila persone per i suoi sei concerti: "I social spengono il dialogo". Paolo Giordano il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.
Niente, non ce la fa. Anche due ore prima di salire sul palco per il debutto di Zerosettanta, ossia i sei spettacoli al Circo Massimo di Roma, Renato Zero non risparmia energie e parla a ruota libera. Del concerto. Di Roma. Dei social. Di Renato. E degli altri. Insomma, finisce la campagna elettorale e inizia la zerofollia, la celebrazione dei suoi settanta anni fatta alla sua maniera, ossia quando ne ha (quasi) settantadue. Dopotutto Renato Zero spesso è arrivato prima degli altri ma oggi continua anche dopo che molti altri hanno perso baldanza e si godono i successi o la vecchiaia. A modo suo, è unico e lo confermano i quasi centomila che in questi giorni lo festeggeranno al Circo Massimo (replica stasera, domani, il 28, il 30 e il primo ottobre). «Ho voluto strafare», spiega confermando che «cambierò la scaletta per riconoscenza ai molti che vedranno più di un concerto». Insomma, ogni serata sarà a sé stante o quasi perché «aggiungerò altri brani e farò dei medley per tracciare un percorso più ricco anche se ho dovuto lasciarne tanti fuori dalla scaletta». Fosse stato per lui, si sa, non ne avrebbe lasciato fuori nessuno.
Dopo cinquantacinque anni di carriera, quale Renato Zero sale sul palco?
«Un cantautore che spesso ha affondato il coltello nella piaga, cantando di solitudine, di nullatenenza e di altri problemi gravi. Nei secoli anche il melodramma ha lambito zone difficili dell'umano, ma ora è ancora popolare in tutto il mondo».
È stato necessario farlo?
«Per me era un pentagramma necessario, così come hanno fatto altri artisti come Guccini, Dylan, Cohen. Non mi paragono a loro ma credo che ci si debba muovere su questi argomenti».
Risultato?
«Beh la fiducia e la stima che ottengo ancora dal pubblico credo sia la risposta migliore».
Ci saranno omaggi durante i suoi concerti? A Raffaella Carrà, per esempio?
«No, a lei no, per me c'è ancora, è viva. Ad agosto ero all'Argentario a casa sua a cucinare la pizza con il lievito madre con Sergio Japino come se lei ci fosse ancora. Invece faremo omaggi a Mia Martini e a Gabriella Ferri, che sono sempre nel mio cuore».
Cos'ha pensato quando le elezioni sono state fissate proprio in questi giorni? Paura o divertimento?
«Non mi ha toccato assolutamente perché anche io sono stato votato per queste serate al Circo Massimo. Il pubblico ha espresso la propria preferenza».
Però che cosa si aspetta dalle urne?
«Noi vogliamo la pace e mi aspetto un governo magari anche composto da tre partiti diversi ma che sappiano combinare i propri ideali con le esigenze degli operai, dei malati e degli studenti. In ogni caso, forse era meglio che Draghi finisse il proprio mandato, così avremmo potuto prepararci meglio. Invece votiamo come se stessimo giocando la schedina del Totocalcio».
È accaduto altre volte in passato...
«In passato abbiamo avuto politici che si erano fatti conoscere, come Saragat e Nenni, Almirante e Togliatti. Ora ci sono parlamentari che dopo una poltrona (cioè un mandato, ndr) durante il quale magari hanno disatteso le speranze degli elettori, si prendono la pensione, mentre un operaio ci impiega tutta la vita».
Magari è anche un problema culturale.
«La cultura ha nutrito tutti, da Eduardo De Filippo a Tito Schipa, abbiamo un patrimonio enorme. Perché dobbiamo disattenderlo?».
C'è la musica.
«Che non deve essere un'alternativa ma il companatico».
Quale pubblico si ritrova davanti?
«Persone che attraverso me e le mie canzoni hanno trovato conforto per rimanere a galla».
Il 30 settembre compirà 72 anni.
«Nella mia vita forse ho trascurato Renato. Forse Renato aveva bisogno di prati verdi e di mari azzurri. Ma ho avuto sempre la sensazione che la musica mi facesse nuotare nei mari azzurri e correre sui parati verdi».
Com'è cambiato il mondo intorno a lei?
«Mi viene in mente che, quando ho lavorato con Federico Fellini a Cinecittà, intorno a lui c'era una atmosfera che oggi si fatica a ritrovare. Le comparse. Le persone che lo assistevano e magari al mattino gli preparavano la spremuta quando lui si fermava a dormire lì perché faceva tardi. Gente che adorava la vita e ti faceva sentire felice di incontrarla. Oggi non si respira più un'atmosfera del genere».
Allora lei era agli esordi. Oggi riempie il Circo Massimo per sei volte di seguito.
«Io non sono mai stato favorevole a questi gigantismi. Ma qui sono tutti in poltrona, seduti comodi davanti a una orchestra sinfonica diretta da Adriano Pennino, a 24 ballerini e 8 coristi. In certi momenti saremo in cento sul palco».
Un rito collettivo. Il contrario della solitudine social.
«Questi social hanno davvero soppiantato il dialogo umano, e dire che ce ne sarebbe tanto bisogno».
Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 26 agosto 2022.
Al culmine di una discografia sterminata, ogni album anche doppio era un successo sicuro, nell'estate '83 il "re dei Sorcini" si prende una piccola pausa, ma per non lasciare i fan a bocca asciutta pubblica un Qdisc di quattro pezzi (girava a 45 giri) che allora andava piuttosto di moda.
Una curiosità, all'interno della busta Renato "regala" un prendisole, oggetto must degli anni '80 che si metteva sul collo per attrarre i raggi solari sul viso, scopo tinta color mogano.
Un minidisco balneare con inediti pensati per la stagione estiva, di cui Spiagge è la hit destinata alla classifica. E siamo al ritorno dell'amorazzo estivo, «mille avventure che non finiranno se, per questi amori esisteranno nuove spiagge» e via di oggetti e personaggi culto, «di cocco e di granite, di muscoli e bikini, di straniere e di bagnini». Renato non si mette in costume da bagno, eppure è in gran forma, ricciolo nero, veste in stile biker e guida una potente Harley Davidson, insomma un po' Johnny Hallyday stavolta.
Renato Zero: «Da bimbo fui traumatizzato da un uomo che mi molestò». Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.
Il cantautore: a un mio concerto venne un solo spettatore. I pranzi in mensa con Lucio Battisti: «Il suo pensiero l’ho assimilato. La sua volontà di appartenersi l’ho sposata».
C’è un coccodrillo all’ingresso. Il plastico che ritrae Fonopoli, la cittadella della musica immaginata da Renato Zero negli anni 90 è in buona compagnia: cappelli di tutte le forme e colori, foto, quadri, un poster gigante del Monello di Chaplin con la scritta «Ciao nì», un muro di scatoloni. «Sto traslocando», dice il re dei Sorcini che a 72 anni (e 55 di carriera) si prepara a un’altra delle sue imprese. Dopo le provocazioni in boa e paillettes, la preghiera laica della sua Ave Maria, le esternazioni filosofiche di Zerovskij, la musica sacra di Atto di Fede, diventa gladiatore per conquistare a settembre l’antica arena romana del Circo Massimo con sei concerti (cinque già sold out). «Sono fra quelli che si complicano la vita, segno della Bilancia, che non concede prove d’appello, non è mai tollerante soprattutto sugli uomini, mentre con le donne è più accondiscendente. Questo è il treno che sarebbe dovuto passare nel 2020. Il pensiero di festeggiare settant’anni non è lo stesso di 800 giorni fa, bisogna rimescolare i numeri ed estrarre un palinsesto che tenga conto anche di quello che è successo nella mia vita in tutto questo tempo: ho inciso un triplo disco, poi è arrivato Atto di Fede, in compagnia di meravigliosi amici». Pausa. Squilla il telefono, le note sono quelle di Beat It.
Ha Michael Jackson nella suoneria?
«Mi mette un po’ di brio. Mi capita di ripescare belle ugole del passato come Sarah Vaughan, José Feliciano, abbiamo avuto una fortuna sfacciata nel nascere in un’epoca in cui è successa qualunque cosa, nel bene e nel male. Forse è per questo che oggi siamo un po’ rintronati».
In 72 anni ne avrà viste parecchie.
«Alla fine dei Sessanta ho anche aperto il concerto di Jimi Hendrix al Brancaccio. Ballavo insieme ad altri sette. Abbiamo allargato le braccia verso il fondo della scena ed è entrato questo riccioluto che mordeva le corde della chitarra senza prendere la scossa, non capivo come fosse possibile».
Come ricorda quegli anni?
«Più stavi in giro e più accadevano cose. Avevamo questa attitudine all’aggressione del marciapiede, della porta di un impresario, rispondevamo alla chiamata alle armi di musicisti che una volta cercavano un batterista, una volta un bassista. Le idee si mescolavano. Poi sono arrivati i computer e si è stravolto tutto. Qualcuno è convinto che mettersi davanti a un Pro Tools sia una vittoria. Io credo sia una sconfitta perché ti allontani dall’umano, dalla stanchezza fisica, mentale, dall’andare a cercare l’ispirazione».
Però oggi molti di questi artisti riempiono club e palazzetti a colpi di sold out.
«Fa un po’ meno effetto. Quando il sold out arriva gradualmente ti porta a credere che sia il frutto di tutto il tuo lavoro. Adesso la biglietteria si esaurisce perché la gente ha bisogno di incontrarsi, andare fuori. Il merito non è più solo dell’artista. Non sei più tu la pietra dello scandalo».
Ricorda il primo concerto tutto esaurito?
«No, ma ricordo quello con uno spettatore. Vigilia di Natale del ’73 al Folk Rosso. Il proprietario voleva rimborsargli il biglietto e mandarlo a casa. Mi imposi: “Ho lasciato la mia famiglia dicendo che sarei andato a lavorare”. Mi esibii per lui che tornò la sera dopo con 22 persone».
Il primo disco glielo produsse Gianni Boncompagni. Come andò?
«Era un ragazzino impertinente, invadente ma con una carica di vita mostruosa e con una disponibilità rara. Mi portò a fare un provino alla Rca con i pantaloni strappati e la mercanzia in bella mostra, coperta da una felpa, per una spaccata nella trasmissione Bandiera gialla. Dopo due settimane mi chiamò: “Devi venire a cantare”. Sembravo un rospo con la mia vocetta un po’ fastidiosa. Del disco furono vendute una trentina di copie, tanti sono i miei parenti che se le sono comprate».
Nel ’73 «No! Mamma, no!», album d’esordio. Con trucco e lustrini si scagliava contro conformismo e aborto, esaltando la fantasia.
«Quel disco annunciava che sarei stato uno dalle mille facce. La maschera era un elemento di greci e latini, la preferivano alla diplomazia, al falso istituzionale, perché dava vita a un gioco in cui si può mettere alla prova l’intuito. Quando vedo uno che non riesco a decifrare mi viene voglia di guardargli dentro per capirlo. Io dell’apparenza sono stato vittima ogni volta che mi volevano affibbiare un’etichetta solo perché guardavano la confezione. Il bisogno fa l’uomo ladro. Quando hai fame, di qualsiasi cosa, ti fai lucertola, pachiderma, scimmia. Amo i napoletani perché hanno firmato un patto con la vita: non sono gelatinosi, statici. Dovessi presentare un italiano all’estero manderei un napoletano».
L’anno dopo, in «Qualcuno mi renda l’anima» affronta il tema della pedofilia.
«La gente mi diceva: Perché parli dei pedofili se non ci sono? Spesso per scrivere le mie canzoni si accendono le foto della memoria. Un giorno mi trovavo a piazza Augusto Imperatore con la retina per le farfalle e il mio cane. Un signore con la patta sbottonata mi chiese: “perché non vieni qui a prendere le farfalline?” Immagini un bambino che assiste a una cosa del genere… Il Renato adulto porterebbe quel signore al commissariato».
Altre foto della memoria cui è legato?
«Quando ero piccolo abitavamo nel centro storico, via Ripetta. In casa tre zii scapoli, mia nonna Renata, le mie tre sorelle, mio padre, mia madre, io, il nostro pastore tedesco femmina che mi portava a spasso. Non era un appartamento grande ma c’eravamo accampati bene. D’inverno ci si faceva caldo uno con l’altro. Respiravamo Roma nella sua entità più profonda».
Dal centro vi siete trasferiti in periferia?
«Non avevamo il bagno in casa, ma sul ballatoio. E i signori che avevano messo gli occhi su questa Roma dalle grandi prospettive edilizie dissero a tutte le famiglie come la nostra: “Se andate in periferia c’avete pure il servizio dentro casa”. Appena ci siamo mossi hanno ristrutturato gli appartamenti del centro mettendoci otto bagni… a noi ne sarebbe bastato uno. Ma abbiamo lasciato una matrigna e abbiamo trovato una madre, la borgata».
Dopo il successo di «Mi vendo», fonda una sua etichetta. Perché?
«La mia libertà l’ho pretesa. Se sei padrone del tuo lavoro nessuno può pilotare il tuo pensiero e la tua personalità. Lucio Battisti diceva: se vuoi l’opera devi prendere l’opera, non il surrogato. La vedova Grazia Letizia difende questa posizione ed è l’unica che può tutelarlo. Lucio pranzava alla mensa della Rca, da solo, non amava fare comunella con i dirigenti. Ma ogni volta che mi vedeva mi invitava al suo tavolo. Si confidava. Il suo pensiero l’ho assimilato. La sua volontà di appartenersi l’ho sposata. Se prima stavo sulle palle ai discografici, a un certo punto ho smesso di sopportarli io».
Come affronta il palco?
«Fisicamente non seguo regole. Ma per uno come me che gioca a scopone scientifico, scopa, tresette almeno i polpastrelli sono esercitati — ride — La concentrazione è un’altra cosa. Quando stai lì il distacco dall’emozione è sempre complicato. Ogni volta che canti un brano ricordi il vecchio furgone che ti portava in giro, quando da solo caricavi gli strumenti. E poi ti chiedi se sei piaciuto, se il disco vende... ».
Nel suo pubblico bambini e anziani...
«Non hanno filtri, non usano il metro dello sgomento. E su di me ha funzionato perché erano gli anziani che portavano i giovani da me. Raffaella Carrà mi raccontò che un giorno a Bellaria la nonna le disse: “Raffaellina stasera mi devi portare a vedere Renato Zero”. Raffaella non era mai venuta a un mio concerto, mi conobbe grazie alla nonna. Abbiamo pure abitato vicini, sia a Roma che al mare. Per me è stato un bel vantaggio: era amica, collega ispiratrice. Quando facevo le trasmissioni insieme, lei e Japino mi chiedevano: “che vuoi fare?” Sapevano che io avevo già un coniglio fuori dal cilindro».
Con Raffaella e Corrado prese parte a Fantastico 3 in Rai. Come andò?
«Ho sempre avuto forti sospetti sulla Rai perché un’azienda che chiede il canone, si dice pubblica ma non lo dimostra. Volevano far vedere che erano avanti, comprendevano i cambiamenti, li favorivano. Pensarono a me per quel Fantastico come al bel funerale di un artista scomodo. Io, invece, volevo dimostrare che non era solo un gioco di colori, forme e provocazioni, ma c’era forse dell’altro nella mia presenza».
Non ha una grande opinione della tv?
«Ha perso identità, viene schiaffeggiata dall’approssimazione. Nel ’54 ne avevamo una. Marca Admiral. Uno scatolone con le manopole, che friggeva da mattina a sera perché non c’era quasi niente da guardare. Poi si accendeva e vedevi Giancarlo Cobelli che faceva il mimo, Pasolini, il maestro Alberto Manzi, i reportage di Mario Soldati in un Paese che sembrava essere il luogo delle favole, con tutta l’ignoranza di cui l’Italia era padrona ma con la forza di voler crescere perché c’era una nazione da ricostruire».
L’incontro inaspettato?
«Con Sophia Loren. Avevo festeggiato all’Argentario il compleanno di Trovajoli che si presentò a casa mia con una magnum di champagne. Poi a settembre ci ritrovammo a cena da lui per celebrarlo di nuovo. C’erano la moglie Maria Paola, Sophia e sua sorella, Gianni Battistoni e io. Quando sono arrivato ho visto Sophia e Armando in giardino, su una panca che bisbigliavano. Erano due amici che si stavano raccontando la vita. Una serata meravigliosa, abbiamo parlato del rincaro degli spinaci e dell’afa».
Com’è Renato Zero oggi?
«Non ho infilato pantofole e vestaglia, non ho mai accettato che l’altra piazza del letto fosse abitata. Però amo, non sono vedovo. Quando esco di casa sono a casa, parlo con la vecchietta, il ragazzino. Qualcuno adesso mi chiama pure maestro… sono stato promosso».
GIOVANNI DE STEFANO per rollingstone.it il 10 aprile 2022.
Mercoledì Renato Zero ha illustrato a Roma – e dunque, per dirla alla Renato Zero, al mondo – quali saranno le prossime due tappe della sua strada verso l’immortalità; una strada lunga cinquantacinque anni di carriera, quarantaquattro album e cinquecento canzoni. Con voce e piglio narrativo continuamente mutevoli, alternando toni da gladiatore che incita la folla a quelli da sacerdote che la confessa, l’artista ha presentato prima Atto di fede, un cofanetto letterario e musicale, edito da Tattica; poi Zerosettanta, un quadruplo concerto programmato in autunno.
Come luogo dell’appuntamento con i media, con riserbo da pontefice che non necessariamente ha dovuto operare una scelta di campo tra potere spirituale e temporale, Renato I (e unico) ha eletto l’esedra di Marco Aurelio ai Musei Capitolini e ha parlato da un piccolo trono in pelle nera, sovrastato solo dalla statua equestre dell’imperatore titolare della sala e dal cielo della Città Eterna, che trapelava dalla copertura trasparente opera di Carlo Aymonino.
Atto di fede esce oggi nelle librerie, nei negozi di dischi e nei loro corrispettivi online, ma non in formato digitale. È composto da un libro e da un doppio album a tema sacro. Non è un caso che Renato abbia rivolto le parole più dure del suo lungo intervento a due categorie: le piattaforme di streaming musicale e i musicisti qualunquisti. «Lo streaming è come se ti sposassi senza poter andare a letto col tuo coniuge. Solo la fisicità del CD, e prima ancora del vinile, è rappresentazione del possesso del lavoro dei musicisti». Più avanti: «Vorrei lasciare il mio scettro a ragazzi che innovano e che non rifanno sempre le stesse cose. E soprattutto che rompano le palle ai musicisti: fateli suonare, fateli circolare, non fermatevi ai plug-in».
Il tour de force di Atto di fede è un unicum nel panorama musicale contemporaneo, leggero o no. È un kolossal di quasi quaranta tracce, di cui diciannove sono arie o cori di un vero e proprio oratorio neanche tanto pop (hanno titoli come La parola è carità o Grazie Signore), intervallati da altrettanti recitativi, letti da attori come Luca Ward o Giuliana Lojodice e scritti da ospiti che Renato ha definito i suoi Apostoli della Comunicazione: in ordine alfabetico, Alessandro Baricco, Luca Bottura, Pietrangelo Buttafuco, Sergio Castellitto, Aldo Cazzullo, Lella Costa, Domenico De Masi, Oscar Farinetti, Antonio Gnoli, Don Antonio Mazzi, Clemente J. Mimun, Giovanni Soldini, Marco Travaglio, Mario Tronti, Walter Veltroni.
«Sono stato ballerino, attore, ho fatto il cabaret con Fellini, ho vissuto le notti di discoteche con l’Altromondo di Rimini. Ma oggi sono arrivato a un traguardo a cui ambivo da molto tempo: accarezzare Dio e fargli i complimenti per come mi ha gestito e ha mantenuto intatta la mia fede. Parola di Renato. Ci siamo dimenticati di Dio per parecchio tempo. Abbiamo lasciato che l’apatia e la stanchezza intellettuale ci allontanassero da lui».
L’ascolto delle tracce restituisce l’impressione di essere di fronte a una sorta di spettacolo mentale, avvolto da un’aura di forte misticismo a sfondo ecologico: un musical che va in scena nel profondo della coscienza del suo autore anche perché, tra tante comparsate, per quanto illustri, l’unico vero featuring è quello con Dio.
Il secondo progetto, se possibile ancora più ambizioso del primo, è rappresentato dai fasti renatiani programmati, al Circo Massimo, per quattro serate dal 26 al 30 settembre prossimi, che si concluderanno nella notte del suo settantaduesimo compleanno, arrotondato per ovvi motivi di Covid e di amor proprio, in Zerosettanta («Eh, settanta cucuzze non sono poche»).
Renato introduce il nuovo tema con la stessa solennità tributata all’altro: «Vi ringrazio di essere qui a nome della musica italiana e di noi artisti che rimpiangiamo il palcoscenico e la nostra sagrestia, che è il camerino». La voglia di tornare a esibirsi è tanta: «I miei sorci verranno da ogni parte d’Italia con le loro pagnottelle al prosciutto. Perché il 30 settembre veniva al mondo ‘sto capolavoro!». Spiega: «Per fortuna per me il pubblico è una presenza che non si distacca dall’incontro casuale, nelle strade, nel quotidiano. Quando dovrò prepararmi alla liturgia del concerto, però, che è più mistica, sono certo che mi consegnerò comunque vergine alle aspettative del pubblico, con emozioni e sensazioni nuove». Renato è inarrestabile: «Come ogni albero di Natale è diverso da tutti gli altri, il concerto del mio compleanno avrà una scaletta diversa per ciascuna sera, per permettere ai più ostinati di festeggiare con me ogni giorno».
Nel corso dell’incontro Renato riesce a compiere il miracolo di parlare di sé in terza persona ed esprimere emozioni relativamente umili, come quando chiama a sé Giacomo Voli e Lorenzo Licitra, i due giovanissimi ospiti musicali dell’album, che sono visibilmente pazzi di lui e anche un po’ in soggezione: «Allora, questo rapporto con Renato, com’è stato?».
Lo Zero conferenziere è uno Zero diversissimo dallo Zero televisivo, figurarsi da quello canoro. In assenza di musica l’evento è dominato dal puro linguaggio – e sono molte le occasioni per fermarsi a riflettere su come sia ricco di sfumature, nella sua relativa spontaneità, quello di Renato.
Nel contesto museale capitolino le scelte lessicali zeriane si deformano, con virate al limite del giornalistese, che però danno spesso adito a quasi altrettante licenze poetiche. «Vi devo presentare l’arrangiatore mio (Adriano Pennino, nda). Vieni Adrià, dillo con chi hai lavorato: Ornella Vanoni, Sal Da Vinci… Anzi no, fai prima a dire con chi non hai lavorato. Adrià, ci vuoi dire con chi non hai transitato?».
A volte l’intera estensione linguistica di Renato è compresa in un solo scambio coi tecnici. La prima richiesta è più formale: «Possiamo cortesemente attenuare il faro?». La seconda è già più decisa: «Lo potete spengere ‘sto cannone?». Alla terza è il Renato a cui nessuno può dire di no: «Ahò me lo levate sto mostro?».
Verso il finale di questo spettacolo prima dello spettacolo, in occasione delle domande dalla platea, Renato Zero si rilassa e comincia a virare ormai verso il format della stand up comedy, ma rigorosamente da seduto.
Gli chiedono come imposterà i concerti al Circo Massimo, rispetto alla tradizione che vi ha voluto ospitati nomi come i Pink Floyd o Bruce Springsteen. Lui non abbocca alla provocazione: «Mandatemi i link di questi concerti, in modo da evitare il rischio di rifare qualcosa di simile a loro. Se chiedeste di me ad Archimede Pitagorico vi direbbe: a noi inventori Renato Zero ci rompe i coglioni da una vita». La mascherina di Marco Travaglio, seduto in ultima fila, si gonfia come un otre dal ridere.
Alla domanda su quale sia il suo segreto per intercettare un pubblico così ampio dal punto di vista generazionale (per la precisione: «Quando mostriamo un tuo video agli adolescenti ci rispondono: miii, questo è meglio dei Måneskin!»), Renato unico ha una risposta prontissima: «Il giovane deve capire che crescere è un diritto ma anche un dovere».
Ma lo scambio più bello di tutti è questo: «Come ti vestirai Renato?». «L’ideale sarebbe la foglia di fico, perché ormai ho messo tutto».
Renato Zero fa il suo "Atto di Fede". Per la prima volta in concerto al Circo Massimo di Roma. Carlo Antini, Testi e musica le mie ascisse e ordinate, su Il Tempo il 07 aprile 2022.
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«Sarò un gladiatore al Circo Massimo». Seduto sotto la statua del Marco Aurelio in Campidoglio, Renato Zero annuncia i quattro grandi eventi romani in programma il 23, 24, 25 e 30 settembre. Con «ZeroSettanta» il Re dei sorcini festeggerà 70 anni, anche se con un ritardo di due anni a causa della pandemia. «Atto di Fede» è il nuovo lavoro discografico in forma di oratorio in uscita domani, in cui alterna canzoni e lettere affidate a filosofi, attori, giornalisti, sportivi, politici, religiosi e pensatori. Tra loro Castellitto, Veltroni, Buttafuoco, Lella Costa, Giovanni Soldini, don Antonio Mazzi, Mario Tronti, Clemente Mimun, Domenico De Masi, Luca Bottura, Marco Travaglio, Cazzullo, Farinetti e Alessandro Baricco.
Renato Zero, perché ha sentito la necessità di fare questo «Atto di Fede»?
«Sono arrivato a un traguardo al quale ambivo da tempo. Accarezzare Dio da vicino, fargli i complimenti per avermi gestito e aver lasciato intatta la mia Fede che è tanto utile quando ci si avvicina agli altri. La Fede è la chiave che ci permette di osare, andare oltre le nostre capacità e potenzialità. La Fede ci dà il coraggio di saltare per prevaricare il dubbio e il sospetto. Dobbiamo avere il coraggio di sentirci difettosi e inadeguati».
Oggi parlare di Fede suona come un atto di coraggio. Cosa manca alla nostra società?
«Dio non lo frequentiamo più, abbiamo lasciato che la stanchezza intellettuale ci impedisse di raggiungerlo. Eravamo ottimi cristiani anche prima di passare dal confessionale. Buoni dentro e pazienti al punto che, una volta raggiunto un risultato, per gustare tutto il suo effetto potevano trascorrere giorni e settimane. Il prete riusciva a conquistarsi tutta la famiglia senza ricorrere ai santini, alle benedizioni o alle promesse di un percorso immacolato. Oggi, invece, ci siamo ammalati di indifferenza ed è più facile giocare tre numeri al lotto».
Nel nuovo album vengono recitate le lettere scritte da quelli che lei ha definito i suoi «Apostoli della comunicazione». Com’è nata la collaborazione con loro?
«Nelle loro parole ci sono spunti talmente forti ed efficaci che rimettono in gioco la nostra voglia di cambiare. Le eccellenze ci fanno sentire tutelati. Per questo ho fatto un appello agli amici. Non mi sentivo di gestire da solo la filosofia di questo avvicinamento alla Fede. Ciascuno di loro è diverso dall’altro, li accomuna solo la poesia. Hanno tutti una grande sensibilità».
Come ha vissuto gli ultimi due anni tra lockdown e pandemia?
«Sono stato lontano dal palco ma vicino al marciapiede. E questo ha mantenuto il mio equilibrio. Per me è stato meno doloroso che per altri colleghi perché ho la capacità di andare a domicilio. I miei sorci li vado a cercare per strada: al Tuscolano, a Monteverde, alla Garbatella. In tutti i quartieri di Roma. Ho la facoltà di essere ovunque: non ho il dono dell’ubiquità ma ci sto lavorando. Mi piacerebbe essere lo zingaro che molti di voi conoscono. Ho curiosità di incontrarvi al mercato non per fare foto ma per portarvi nel cuore».
Come sta oggi la città di Roma?
«Ci sono stati giorni in cui mi sono sentito straniero nella mia città. La politica è diventata davvero troppo invadente. A volte mi chiedo: perché non spostiamo il governo a Torino? Anche perdendo il titolo di capitale d’Italia, tanto Roma è già la capitale del mondo. Liberiamo la città e riconsegnamola ai romani. A Roma manca la voce dei romani».
Intanto a settembre quattro spettacoli al Circo Massimo per festeggiare il suo compleanno con «ZeroSettanta». Che show dobbiamo aspettarci?
«Sarà un concerto diverso tutte le sere, con alcuni degli ospiti del disco che saranno al mio fianco. Quanto agli abiti di scena, la foglia di fico sarebbe un’idea perché in carriera ho indossato davvero tutto. Quando mi preparo per un concerto è un atto mistico. Mi consegno a quel pubblico che si aspetta da me ogni volta emozioni nuove. Vorrei ritrovare tutti i miei fan con un abbraccio che promette un percorso nuovo. Stare insieme non sconfigge solo la solitudine ma crea anche quell’affiatamento che è tanto caro ai miei sorci. Ben venga questo settembre. Sul palco voglio portare anche gli amici, i personaggi che hanno condiviso il mio percorso artistico. Modificherò la playlist tutte le sere per permettere agli ostinati che hanno comprato quattro biglietti di vedere uno show sempre diverso. Ogni spettacolo avrà un copyright. Di Renato Zero ce n’è solo uno, tutti gli altri son nessuno. Con me ci sarà anche un’orchestra molto nutrita con archi, tamburi e una band con sonorità moderne. Riprendo il dialogo con la vita e con Renato per la stima che ho di me stesso».
In «Atto di Fede» lei ha chiamato a raccolta gli amici. Perché in Italia le collaborazioni artistiche sono così rare?
«Quello che manca è la regia. Oggi chi si alza per primo si veste, come diceva mia madre. Nessuno si prende le proprie responsabilità. Ci siamo addormentati e deleghiamo tutto agli altri».
Cosa pensa del conflitto in corso in Ucraina?
«La guerra vuole annientare le differenze, vuole che siamo tutti vittime o carnefici, non accetta l’individualità, annienta la libertà. Mi aspetto che la possibilità di riprendere il dialogo con il palco coincida con la ripresa della vita. Comunque c’era puzza di polvere da sparo anche prima dell’invasione russa. Perché il nostro pianeta non è mai stato tranquillo».
Non è la prima volta che la sua musica si intreccia alla spiritualità. Cosa ricorda di «Zerolandia»?
«L’esperienza di Zerolandia è sempre nel mio cuore. All’epoca la sua chiusura improvvisa è stata una violenza totale, quasi criminosa direi. Succede quando uno diventa troppo popolare e quindi scomodo. Anche Gigi Proietti è uno di quelli che ha pagato cara la sua voglia di aiutare gli altri. Se ricordate qualcuno gli tolse il Brancaccio. Noi abbiamo pianto un amico ma qualcuno si è tolto un peso».
Alcuni artisti cominciano a pubblicare i loro nuovi album solo in versione digitale. In futuro ha intenzione di farlo anche lei?
«Non concepisco sposarsi e non avere la moglie accanto a sé. Per questo sono uno che crede che la fisicità del cd e prima ancora del vinile sia una ricchezza. La loro presenza dà la sensazione di aver vissuto».
Cosa vuole dire ai giovani che si affacciano alla vita e al mestiere di musicista?
«Li esorto a incontrarsi di più e a non usare solo plug-in. La musica è soprattutto condivisione. Il mio scettro lo lascerò a chi fa arte cercando gli altri. Ci dev’essere più fermento. Fare solo il compitino a casa non va bene. I ragazzi devono avere maggiore consapevolezza che crescere è un loro diritto e dovere. Ai giovani dico soprattutto di fare un atto di fede in loro stessi».
Mattia Marzi per “il Messaggero” il 7 aprile 2022.
Ma come, proprio lui che travestendosi e cantando Mi vendo sconvolgeva l'Italia cattolica degli Anni 70, ora pubblica un oratorio per accarezzare Dio da vicino? Già. È Renato Zero, bellezza. L'ultimo bizzarro progetto del 71enne cantautore romano è Atto di fede, doppio cd accompagnato da un libro che lo vede celebrare la sua fede cattolica.
Esce domani e comprende un totale di 37 tracce per 2 ore di durata, tra brani inediti di musica sacra incisi con la Budapest Art Orchestra e un coro di voci bianche, oltre a testi scritti da Alessandro Baricco, Sergio Castellitto («Quando mi ha chiamato per spiegarmi il progetto ho capito poco», confessa l'attore e regista), Don Antonio Mazzi e Clemente J. Mimun, recitati da Pino Insegno, Giuliana Lojodice e Luca Ward.
Molti dei pezzi che compongono il disco erano stati fatti ascoltare ad Andrea Bocelli, che però non figura tra gli ospiti (c'è invece il tenore Lorenzo Licitra, vincitore di X Factor nel 2017 poi sparito dai radar).
Seduto sotto la statua del Marco Aurelio in Campidoglio, ieri Zero ha annunciato anche il suo ritorno sui palchi dopo più di due anni: il 23, 24, 25 e 30 settembre si esibirà per la prima volta al Circo Massimo (biglietti in vendita dall'11 aprile). «Mi faccio gladiatore per conquistarmi ancora una volta l'applauso», dice il Re dei Sorcini.
Posti in piedi come i Rolling Stones (71.521 spettatori nel 2014) e Bruce Springsteen (57.730 biglietti venduti nel 2016) o a sedere come Laura Pausini (15 mila spettatori a sera per le due date del 2018)?
«Noi faremo una cosa ancora diversa. Di Renato ce n'è uno, tutti gli altri so' nessuno».
Cioè?
«Vorrei evitare commenti del tipo: Quella cosa l'ha fatta già Springsteen. Beato lui».
Però non ha risposto.
«Sarò originale come i miei costumi: porterò con me un'orchestra nutrita di musicisti in carne ed ossa, non macchine».
I Maneskin hanno annunciato di aver venduto 70 mila biglietti per il loro concerto del 9 luglio: nel suo caso saranno attesi 280 mila spettatori?
«Che c'entra? L'ultimo problema per me è il botteghino. Non sono come certi impresari che hanno lasciato per due anni le persone con il biglietto in mano. Il Circo Massimo rappresenta un premio alla mia romanità».
A cosa si riferisce?
«Ci sono stati giorni in cui mi sono sentito straniero nella mia città. Quello che manca a Roma è la voce dei romani: a Trastevere ormai si parla inglese. Perché non spostiamo il governo a Torino? Anche perdendo il titolo di Capitale d'Italia. Che ce frega, Roma è già capitale del mondo. Liberiamo la città e riconsegniamola ai romani».
Quanto ha sofferto la lontananza dai palchi?
«Meno di altri colleghi, perché io ho la capacità di andare a domicilio: non aspetto che le persone vengano da me. Giro per la Garbatella, Monte Sacro, Borgata Gordiani. Al mercato quando i fan mi chiedono i selfie rispondo: Ma che ce fate co' ste foto? Portatemi nel cuore, piuttosto. Non ho il dono dell'ubiquità ma ci sto lavorando».
A proposito di divino. Questo disco come nasce?
«Volevo fare i complimenti a Dio per aver mantenuto la mia fede intatta in tutti questi anni». Che rapporto ha con la fede? «Strettissimo. Papà aveva due fratelli di cui uno, Pietro, faceva il prete: lo mandarono al confino, a Brondoleto di Castelraimondo, provincia di Macerata, accusandolo di aver nascosto dei partigiani.
Nel tendone di Zerolandia facevo concerti anche il giorno di Natale e interrompevo lo show a mezzanotte per far salire sul palco un sacerdote per la messa. Ancora oggi prima di cantare mi faccio il segno della croce: cerco protezione».
A cosa si è ispirato per i brani?
«Ai dolori del mondo. Quello che manca oggi è la regia. Nessuno si prende le proprie responsabilità: è la causa della puzza di polvere da sparo che c'è in tutto il mondo e c'era anche prima della guerra in Ucraina».
Nel disco ci sono quindici tra scrittori, filosofi, giornalisti: non avrà messo troppa carne al fuoco?
«No. Non volevo affrontare un progetto del genere in solitudine: avevo bisogno di apostoli della comunicazione. E poi basta con la settarietà: tutto collima e può essere applicabile».
La lezione di Renzo Arbore: la musica in televisione si tratta così. Gino Castaldo su La Repubblica il 14 Novembre 2022.
Su Rai5 insieme a Gegè Telesforo un esempio in venti puntate sull’amore per le canzoni
In un angolo sperduto e protetto del palinsesto televisivo, alle 19 e 30 su Rai5 a partire da martedì scorso, Renzo Arbore ha deciso di raccontarsi, o meglio di raccontare insieme a Gegé Telesforo, in “Appresso alla musica. In due si racconta meglio”, si chiama proprio così il programma, le sue passate meravigliose malefatte in chiave di musica, che sono tante, tantissime, e ci fanno ripensare ad alcune questioni di non secondaria importanza.
Arbore giustamente lo si esalta per le sue invenzioni radiofoniche e televisive, nemico giurato dell’ossessione degli indici d’ascolto tanto da inventare un titolo che recitava “meno siamo meglio stiamo”, frase che detta oggi in televisione farebbe aprire una voragine sotto l’incauto suggeritore per spedirlo nell’inferno della comunicazione con punizioni pesantissime.
Ma Arbore meriterebbe di essere esaltato anche per i suoi meriti squisitamente musicali. La sua è anche una lezione di come si tratta la musica in televisione. Guardiamoci queste venti puntate in cui Renzo e Gegè faranno rivedere ampi stralci di “D.O.C. – Musica e altro a denominazione d’origine controllata”, che era una striscia quotidiana del pomeriggio, che se ne stava lì tranquilla, senza strepiti e proclami di alcun genere, e dal 1987 al 1989, presentata da Monica Nannini e Gegè Telesforo con la regia di Pino Leoni, ha portato in televisione, dal vivo, e sottolineiamo dal vivo, il mondo della musica nella sua più alta e variegata espressione, per non parlare degli altri programmi arboriani in cui la musica era comunque fondamentale, tanto per ricordare che nei pressi di Arbore sono passati da Lucio Battisti a Solomon Burke, da Lucio Dalla a Pat Metheny, da Chet Baker a Pino Daniele e l’elenco potrebbe essere così lungo da assomigliare a quello del telefono. Tutto questo accadeva non solo per la bravura di Arbore, succedeva perché Arbore partiva dal più semplice degli assiomi: l’amore per la musica.
Gli artisti, italiani o stranieri che fossero, giovani o maturi, esordienti o star, si sono sentiti rispettati, amati, protetti e per lui erano disposti a tutto. È quello che si respirava nei suoi programmi: competenza e passione. Ovvio direte voi, e invece no, non è per niente ovvio, perché mai come in questi ultimi anni la musica è diventata protagonista quasi suo malgrado. Anni fa di canzoni in tv se ne vedevano poche, oggi se ne vedono troppe e soprattutto strumentalizzate e brutalizzate ai fini più disparati: trash, travestimenti, gare e corride di ogni genere, memorie, revival, carrambate. Per godere di un buon trattamento garantito dobbiamo aspettare tipi stravaganti come Fiorello o Bollani, e altre gloriose rarità, quando si decidono a fare programmi.
Approfittiamo allora di queste venti puntate di “Appresso alla musica”. Il professor Arbore è lì, a disposizione, col fido discepolo Gegè Telesforo, a dare elementari lezioni di comportamento, a spiegare come si fa, come si tratta la musica. Non è poi così difficile. Basta imparare a divertirsi.
Marco Castoro per leggo.it il 15 ottobre 2022.
Salve maestro, come sta? «Mi dai solo 5 minuti che sto seguendo il discorso di Ignazio La Russa al Senato, sta facendo un bel discorso». Renzo Arbore è nel pieno della sua seconda giovinezza. Quella che indossa gli abiti della maturità. Che ti fa venire tanta voglia di raccontare la vita vissuta, tra aneddoti, programmi, concerti e le originali collezioni che tutti apprezzano, dalla musica ai cibi provenienti da ogni parte del mondo custoditi nel suo gigantesco congelatore. È la stagione dei grandi ritorni per Arbore, dopo la tv riecco la radio…
«Siamo partiti con un nuovo programma per RaiCultura, in onda su Rai5 alle 22.40 e ora da lunedì 17 siamo anche su RaiRadio1 - in onda sempre dal lunedì al venerdì dall’una e mezzo di notte - grazie a Roberto Sergio e Andrea Vianello che hanno sposato il progetto. È un passaggio molto importante perché mi sono accorto che il disc jockey e il video jockey sono figure interscambiabili. Quello che raccontiamo io e Gegè Telesforo in trasmissione si presta benissimo a essere ascoltato».
Come sta andando “Appresso alla musica. In due si racconta meglio”?
«In parecchi stanno scoprendo questo programmino, un po’ carbonaro, che fa vedere i tesori straordinari delle teche e anche della mia collezione personale».
La radio è sempre giovane, più della tv, è più forte di prima, non la molla nessuno…
«Io ho festeggiato i 60 anni della radio nel 1984 con un programma che faceva 18 milioni di spettatori. Si chiamava “Cari amici e vicini lontani”. Vennero tutti, Sandra e Raimondo, Corrado, Franco e Ciccio, Monica Vitti, Alberto Sordi e tutti i protagonisti della radio. Adesso nel 2024 Radiorai compie 100 anni. Sarà un altro grande evento. Anche perché RadioRai è guidata molto bene».
È più moderna la radio che la tv…
«In questi ultimi anni la radio si è evoluta moltissimo, grazie al digitale, a internet. È modernissima. Oggi con la radiovisione si può anche vedere. La sua modernità è la sua agilità. La radio non disturba, la radio te la porti dietro, puoi ascoltarla, distrarti un attimo e riascoltarla. Insomma, è uno strumento molto molto vivace».
Però sono spariti i disc Jockey dalla radio?
«È l’unica cosa che rimprovero: l’assenza di disc jockey che spiegano e lanciano i dischi da ascoltare, che indirizzano il pubblico con le loro scelte personali. Come facevamo noi negli anni 70-80, quando i dischi venivano lanciati e se ne parlava tanto. Purtroppo, la figura del deejay è stata sostituita dalla playlist. E il pubblico resta senza una guida. In trasmissione io faccio ancora questo mestiere, in pratica scegliendo il repertorio di Doc e altri programmi, faccio il video jockey».
Circa 1600 concerti in giro per il mondo…
«L’orchestra più longeva del mondo. Dal 1991 al 2021 siamo andati in tour mondiali con la media di 70 concerti l’anno».
Anche a Mosca. Che ricordi ha della Piazza Rossa?
«Abbiamo fatto tre concerti a Mosca. Una volta a cantare Il Clarinetto, c’era ancora Gorbaciov. Una seconda di cui ho un ricordo bellissimo perché fu il primo concerto occidentale nella Piazza Rossa. Poi sono tornato nel 2015 per il concerto al Cremlino».
C’era Putin?
«Si, ma c’era aria di grande democrazia. Seimila posti disponibili, tutti occupati, nell’aula dove si faceva il congresso del partito comunista. Mi dispiace davvero molto che oggi non si respiri più quell’area salutare di democrazia».
C’è una ciliegina che vorrebbe mettere sulla torta?
«Spero di collaborare di nuovo con RadioRai. Potrei continuare questo programma, magari saccheggiando la mia collezione infinita di incontri musicali».
Michela Tamburrino per “La Stampa” il 10 ottobre 2022.
Il padre lo rimproverava: «Invece di studiare vai appresso alla musica!». Renzo Arbore, nonostante studi regolari e laurea, appresso alla musica c'è sempre stato. E a furia di starci appresso è diventato uno dei massimi conoscitori di pop, soul e jazz nonché cultore della canzone napoletana.
Passione generosa e lungimirante. Invece di tenere tutto per sé, ha regalato alle Teche Rai l'immenso materiale condiviso con il suo Channel Tv, fatto di concerti, testimonianze preziose. E così Arbore si consegna all'eternità. E da domani per Rai Cultura debutta su Rai 5 in seconda serata con il programma che non a caso si intitola: Appresso alla musica, in due si racconta meglio, secondo comandante il suo sodale Gegé Telesforo. Venti puntate dal lunedì al venerdì con i i materiali di repertorio rimasterizzati, di D.O.C., ideato e condotto con Monica Nannini e Telesforo in onda dall'87 all'89. «Ma regaliamo anche un repertorio inedito, di "memorabilia" irripetibili».
Arbore, di che cosa va più orgoglioso?
«Del lavoro. Sono conosciuto per Quelli della notte e Indietro tutta ma io ho inventato 25 format per la tv e per la radio, ho lanciato tanti talenti con L'altra domenica, ho lavorato con Corrado, Gigli, Luttazzi. Ci abbiamo messo due anni io e Telesforo per riorganizzare tutto il materiale. Orgoglio anche per la mia Orchestra Italiana. Abbiamo lavorato dal 1991 al 2021, sessanta concerti all'anno, in Italia e all'estero, l'orchestra più longeva del mondo».
Con chi ha avuto più feeling?
«Con Lucio Dalla si era stabilito un rapporto di amicizia, anche con Jannacci. Grande simpatia con Dee Dee Bridgewater, James Brown, Dizzy Gillespie, Miles Davis, Solomon Burke, Rufus Thomas, Pat Metheny, Manhattan Transfer, Chet Baker, l'armonicista Toots Thielemans, Joe Cocker, Jimmy Smith...».
Il meglio della musica mondiale. Le manca tutto questo?
«Moltissimo».
Dai suoi programmi cult pare non sia passato un giorno...
«Già dagli inizi della mia carriera ho lavorato perché il mio repertorio sopravvivesse al 2050. Non sono mai andato dietro alla moda. Anche il pubblico presente nelle trasmissioni non ha età: jeans e camicia a quadri gli uomini e anche le donne con vestiti classici. Ho sempre rincorso l'evergreen, le mode non le ho neppure anticipate, non mi interessano».
Cosa vuole fare con questo programma?
«Recuperare ai giovani il repertorio brillante, un'operazione che investa il pop e il jazz che fa parte della nostra cultura. Non per nostalgia ma per andare avanti forti del passato».
Tra i ricordi più belli?
«Le improvvisate. Piero Angela al pianoforte con Dalla al clarinetto, Mina che venne a cantare accompagnata dal più grande flautista italiano, Gino Marinacci. James Brown che non aveva capito d'essere stato invitato per cantare due o tre canzoni ed era partito per un concerto intero e non sapevamo come fermarlo, un timidissimo Romano Mussolini».
È vera quella gaffe con Romano Mussolini?
«Sì, per dire quanto i jazzisti vivano fuori dal mondo. Un collega lo doveva incontrare a Milano e gli diede appuntamento a Piazzale Loreto. Lui si limitò a dire "Non mi sembra il caso"».
Lei era anche molto amico di Gigi Proietti. A casa della comune amica Marisa Laurito si suonava fino all'alba vero?
«Molto amici. Improvvisavamo cantando vecchie canzoni d'epoca, io napoletane, lui romane. Una gara di risate».
Benigni l'ha lanciato lei...
«Lui è sempre molto affettuoso con me, memore di tutto quello che abbiamo combinato per L'altra domenica».
Lo sa che lo sketch con Carlo Verdone garibaldino sopravvissuto e lei lo intervista ai giorni nostri era il preferito di un passato premier e di un passato pontefice?
«Ma pensa, non lo sapevo. Io pensavo fosse più famosa quella, sempre con Verdone, di Padre Severino al conclave».
La sua satira non è mai legata a l presente. Lo fa sempre per arrivare al 2050?
«Non mi piace fare satira del contingente. Forse non lo so fare. Non metto quasi mai richiami all'attualità, i miei personaggi sono inventati. Si fa per non invecchiare, l'ho imparato da Walter Chiari».
Oggi chi le piace?
«Ho visto con piacere quel Claudio Lauretta che mi imita, bravissimo. Mi piacciono Lillo e Greg. Il più vicino a me è certamente Fiorello per le sue improvvisazioni curiose. Ma si ride ancora con Frassica, il ricambio non c'è e lo stand up è un'altra cosa. Ora tengo d'occhio Stefano De Martino, sorridente, capace».
E tra le donne?
«Non vedo un'altra Raffaella Carrà».
Che televisione guarda?
«La fiction quando è buona e la tv della parola. Dunque ahimè, vedo i talk politici perché è televisione pura. E visto che il varietà non esiste più, vedo i talent, X Factor, Tu si que vales, Amici e Mara Venier per la conversazione sorridente. Lei me ne riconosce la paternità. Le ho sempre consigliato di non ingarellarsi con le urlatrici e trovare una formula gentile».
E adesso?
«Adesso sono stato insignito della massima onorificenza della Repubblica, Cavaliere di Gran Croce. Ho chiesto a Mattarella perché l'hanno data a me, lui mi ha risposto che è per tutta la mia attività. Ne sono felice, spero c'entri anche l'impegno per la Lega del filo d'Oro, per le persone sordocieche a cui sono vicino da anni. E poi Casa Arbore a Foggia, a Palazzo Dogana, un museo con tutte le mie collezioni di modernariato, la plastica, i gilet, le radio americane».
Che cosa le manca?
«La famiglia, non ho fatto a tempo. Mi sono distratto».
In compenso tanti amici.
«È tanti ne ho persi, De Crescenzo, Boncompagni, Marenco, Proietti. Mi difendo dalla malinconia lavorando».
Maria Elena Barnabi per Gente l'8 ottobre 2022.
L’uomo che ha portato la musica nera in Italia e la musica italiana all’estero, l’uomo che ha inventato format, scoperto talenti, cambiato la faccia della Tv e della radio, insomma, l’uomo che ha forgiato la cultura popolare del nostro Paese risponde al telefono con voce forte e chiara e la sua inconfondibile erre moscia. Renzo Arbore, 85 anni, ha da poco perso il fratello maggiore Alfonso, di 91 anni, ma di questa perdita non vuole parlarne. «Sono stati giorni dolorosissimi», dice soltanto. E noi rispettiamo il suo volere. E così cominciamo a parlare di musica e del nuovo programma che vede il suo ritorno in Tv dopo tanti anni.
Si chiama Appresso alla Musica (venti puntate dal 10 ottobre su Rai 5 in seconda serata) e Arbore lo conduce con il musicista Gegè Telesforo, suo storico sodale. Sarà un viaggio dentro apparizioni televisive di culto dagli anni Settanta ai Novanta, molte prese dal suo mitico programma Doc, altre provenienti dall’archivio privato di Arbore stesso. «“Stai sempre appresso alla musica anziché studiare”, diceva mio padre», racconta Arbore. «E così con questo titolo l’ho voluto omaggiare. Anche se comunque io la laurea in Legge la presi, ai tempi. Poi però non ne feci più niente».
Raccontaci le chicche che vedremo nel tuo programma.
«Il grande musicista jazz Miles Davis, che dopo vent’anni viene a cantare in uno show televisivo: prima aveva mandato una squadra di tecnici per verificare l’acustica degli studi. James Brown che improvvisa un concerto con Joe Cocker. Enzo Jannacci che canta Ho visto un re con Dario Fo».
Tutta gente che negli anni d’oro passava da casa tua a Roma e veniva alle tue mitiche feste.
«Ci siamo molto divertiti. Una sera, mentre suonavo il clarinetto, mi avvisarono che in giardino c’era Robert De Niro. E fu sempre a casa mia che debuttò Paolo Conte. Che tempi, che artisti».
Renzo, dicci la verità: la musica di oggi rispetto a quella di ieri...
«Quella di ieri aveva più qualità. I musicisti di allora, quelli che abbiamo messo nel programma, sono stati quasi tutti inventori di genere, di musica “sempre verde”, evergreen, che sarebbe sopravvissuta agli anni. Lucio Battisti, Lucio Dalla, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Enzo Jannacci, Dario Fo, Fabrizio De André... Hanno scritto pezzi che hanno rilanciato la canzone italiana nel mondo: basti pensare a Caruso di Lucio Dalla».
Ci sarà pure qualcuno di quelli di oggi che ti piace.
«Francesco Gabbani è bravo. Simone Cristicchi pure. Ma non voglio dire altro, che poi si creano gelosie».
Comprensibile: avere un tuo apprezzamento per un artista è importantissimo. Hai scoperto mille talenti, dal grande Mario Marenco a Nino Frassica. Come hai fatto?
«Scoprire il talento è una particolare qualità che ho. Riconosco le famose candeline negli occhi. Quando uno è in sintonia con te, del resto lo capisci subito. Con Nino Frassica a Quelli della notte andò così: scattò subito qualcosa tra di noi. In un secondo capii tutto. E anche con Mario. Per lui e per i suoi personaggi strampalati poi avevo un debole».
Come tutti del resto. Qual era il segreto delle tue trasmissioni di culto, da Alto gradimento in radio a L’altra Domenica in Tv?
«Io e Gianni Boncompagni facevamo programmi del sorriso, mai volgari. Avevamo deciso di evitare il cattivo gusto, non scherzavamo sulle malattie per esempio. Tenevamo conto del grande pubblico cui ci rivolgevamo».
Hai anche portato in Tv una band di uomini vestiti da donne. La domenica pomeriggio.
«Era il 1978 e Le Sorelle Bandiera furono il primo trio en travesti della televisione italiana. Avrebbero potuto dare scandalo, offendere i benpensanti e invece no: erano talmente graziosi, eleganti e non volgari che furono accettati anche dalle mamme che vestivano i loro figli a carnevale come loro».
Confermo. E tutti noi bambini degli anni Settanta cantavamo la loro Fatti più in là, sigla di L’altra domenica. Sai che hai influenzato ben più di una generazione?
«Mi fermano persone di ogni età, e mi dicono che sono cresciute ascoltandomi. La buona musica va avanti, piace. Il merito è dei genitori, dei nonni che hanno educato i ragazzi».
E tuo. Hai portato la musica italiana all’estero con L’Orchestra Italiana. Quanti concerti hai fatto?
«In trent’anni circa 1.600. Siamo stati in tutta Italia, che è il Paese più bello del mondo. E poi ovunque, dalla Cina al Sudamerica. Ricordo ancora il concerto del 1993 al Radio City Music Hall di New York, il tempio della musica americana. Due giorni prima ci aveva suonato Ray Charles».
Non eri mai a casa e non ti sei mai sposato, neppure con Mariangela Melato, il grande amore della tua vita. Siete stati insieme per anni, poi vi siete lasciati e quindi ritrovati fino alla sua scomparsa (avvenuta nel 2013). Sei uno scapolo convinto?
«Non ho mai deciso di non sposarmi. La vita è così, c’è stato un allontanamento e poi un momento di dolore. E così il matrimonio non c’è stato. Del resto sono stato ripagato con altre soddisfazioni di lavoro che forse, se fossi stato sposato, non avrei potuto ottenere».
E Mariangela?
«Con lei ho avuto questa storia importante, che è finita. E poi è ricominciata: l’ho assistita fino alla fine. Il codice di Mariangela Melato è rimasto nel mio cuore. Però queste sono cose intime».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2022.
Con qualche giorno di ritardo (al primo spazio libero) festeggiamo anche noi i primi 85 anni di Renzo Arbore. L'ha già fatto la Rai con diversi appuntamenti, da Techetechete' a L'altra domenica essential. Cosa si può ancora dire di Arbore, uno dei rarissimi personaggi televisivi di cui tutti hanno tessuto l'elogio?
Forse avremmo dovuto insistere di più sul suo ruolo di talent scout (quando i talent non esistevano e bisognava avere doti non comuni di scout). Forse avremmo dovuto sottolineare con più forza la sua capacità di trarre dalle persone il meglio (dopo di lui solo Fiorello ha questa magica dote): uno dei suoi meriti più grandi, infatti, è stato quello di aver sempre ricreato nei suoi programmi (e nella sua orchestra) un clima amicale, di complicità: si ride, si scherza, ci si abbandona ai giochi di parola, ai doppi sensi, a un repertorio da teatro di varietà.
Il suo intuito e il suo fondamentale buon gusto gli hanno permesso di attraversare indenne ogni eccesso kitsch, producendo effetti ironici, generando maschere e tormentoni che sono dilagati fuori dei confini catodici per entrare nel linguaggio comune.
Lo abbiamo scritto tante volte ma è importante ripeterlo: l'originalità della sua proposta è sempre consistita nella contaminazione tra cliché forti e improvvisazione, fra generi diversi e una vivida tradizione del varietà, fra professionalità e dilettantismo (meglio, una professionalità che si compiace di essere dilettantesca, quasi goliardica).
Arbore ha fatto musica e tv sapendo che esse sono anche radio, cinema, teatro. I suoi programmi e i suoi concerti vivono ancora oggi di schegge che ruotano intorno alla sua garbata e calamitante presenza: giochi, parodie, sketch, personaggi non si assommano per annullarsi, ma si scontrano per accendersi. La jam-session è sempre stata la matrice delle sue trasmissioni, dove preparazione e improvvisazione si intrecciano e si sublimano.
Marianna Aprile per OGGI il 12 giugno 2022.
Se alla tv e allo spettacolo italiano togliete quel che ci ha messo Renzo Arbore diventano più grigi e poveri. E noi con loro. Alla vigilia di un compleanno importante (il 24 giugno saranno 85) e di un annuncio sofferto, abbiamo chiesto al più colorato degli showmen di contare i talenti scovati e lanciati in oltre 50 anni tra tv, cinema, radio e musica. «Circa 100, da Giorgio Bracardi e Mario Marenco di Alto Gradimento, con Gianni Boncompagni, a Ilaria D’Amico, a Rai International. Da un po’ mi sono fermato. Navigo molto cercandone di nuovi in Rete, ma umoristi cui devi solo alzare la palla perché la schiaccino, come Nino Frassica, non ne vedo. Mi spiace solo di non essere stato io a scovare Valerio Lundini».
Arbore e uomo di prime volte: «Pensavo sempre “se non lo ha fatto nessuno, lo faccio io”. Tra le primogeniture di cui vado più fiero c’è l’aver inventato “le donne parlanti” in una tv di vallette mute. All’epoca con Mariangela (Melato, ndr) frequentavo le femministe. Le vedevo protestare contro tutto e non capivo perché non andassero sotto la Rai a pretendere che le donne in tv avessero anche una voce.
All’Altra domenica volli quindi le inviate: Milly Carlucci, Silvia Annichiarico, Fiorella Gentile, Stella Pende, Irene Bignardi e Isabella Rossellini, da New York. Ero colpito dalla sua grazia e dal suo talento di giornalista. E poi c’erano le Sorelle Bandiera, primo gruppo en travesti quando era ancora impensabile un uomo vestito da donna».
Quindi la sua fu un’azione politica?
«Per carità. Ho fatto quel che ho fatto solo perchè sono nato a Foggia. Volevo sprovincializzarmi e, facendolo, ho sprovincializzato il pubblico. Volevo scoprire com’era il mondo e l’ho mostrato agli altri. Raccontavo lo Studio 54 e il CBGB, il locale di New York dove nacque il punk, mostravo i seni nudi del burlesque a Parigi, le gare tra brutti in Romagna. A chi lavorava con me ripetevo che l’obiettivo era razzolare nell’inconsueto. Avendo come molla la noia della provincia e come stile la “chiacchiera disutile” che a Foggia facevamo nei bar».
Che cos’e la chiacchiera disutile?
«Quella che indugia ore chiedendosi se sia meglio il mare o la montagna, che da musicisti si fa per decidere se sia più bella Tutti Frutti o Lucia. E la leggerezza, il superfluo, lo sfotto che nei bar arriva dopo la grappa. Nella mia tv, raggiunse l’apice in Quelli della notte, programma nato da una paura».
1985, giovane e di successo. Che cosa temeva?
«Di essere percepito come vecchio. Dopo il successo dell’Altra Domenica mi chiesero un programma sui 60 anni della radio. Feci le 5 puntate di Cari amici vicini e lontani, con picchi di 18 milioni di spettatori. Ospitai i piu grandi giornalisti e cantanti, feci rifare l’annuncio dell’armistizio da chi lo aveva fatto all’epoca. Pensai: “Ce l’ho fatta”, ma subito dopo iniziai a temere che mi si percepisse come uno con lo sguardo al passato, io che in radio facevo Per voi giovani. Andai da Giovanni Minoli e dissi: “Voglio fare un programma con facce mai viste”. E cosi fu Quelli della notte: 40 sconosciuti tra cui Stefano Palatresi, Antonio e Marcello, Nino Frassica, il Maestro Mazza, Gege Telesforo, Maurizio Ferrini, Riccardo Pazzaglia, Roberto D’Agostino, Dario Salvatori, Simona Marchini, Marisa Laurito. Un botto che mi mise addosso un timore più grande: quello del flop».
Ancora paura. Stavolta come l’ha esorcizzata?
«Facendo qualcosa di ancora diverso, Indietro tutta!, che lancio Francesco Paolantoni, le ragazze coccode col loro cacao Meravigliao, e lo sfotto sull’Auditel. Io con l’Auditel ce l’ho a morte».
Che cos’e che non le piace?
«Non sono mai stato comunista, ho sempre creduto nel mercato, da liberale. Ma i prodotti culturali non sono come gli altri, per la creatività dovrebbero valere altre leggi, non quella dei numeri. L’Auditel valuta la quantità non il valore di un’opera. Penalizza contenuti e creatività. E quello che in fondo ho teorizzato in Speciale per me, meno siamo meglio stiamo, che poi invece fece ascolti altissimi».
Rivendica le donne parlanti, ma in tv ha portato anche donne “decorative”. Una contraddizione?
«La conferma che non c’era niente di politico e che il solo obiettivo erano l’inconsueto e il disutile. Le cose utili le facevano già gli altri. Prenda Lory Del Santo. Io e De Crescenzo la notammo in un ristorante romano frequentato da craxiani e gente dello spettacolo. Ci sembro perfetta per fare la segretaria che distraeva i discorsi di noi due, prototipi di maschi italici, in Tagli, ritagli e Frattaglie, nel 1981. Con lo stesso spirito, pero, nel 1969 avevo messo in piedi il primo talk show, Speciale per voi, con uno studio pieno di ragazzi liberi di chiedere qualsiasi cosa a chiunque, da Luciano Salce a Paolo Poli, che parlava di omosessualità in una Rai per la quale neanche esisteva. Li lanciai Lucio Battisti, Cochi e Renato e Gabriella Ferri, che era stata la mia prima fidanzata romana».
Che coppia siete stati?
«Libera, beat, per 2 anni. Nel 1964 partii da Napoli verso Roma con la mia 500 targata Foggia. Arrivato in Piazza del Popolo, vidi Gassman, Manfredi... Scoprii che gli artisti si incontravano al Caffe Rosati, al pomeriggio. Scesi dalla macchina la Ferri urlo: “E tu chi sei? Annamo a balla”. La seguii in via Margutta, ci fidanzammo quella sera. Una donna straordinaria».
Non possiamo elencarne 100, ma un passaggio su Roberto Benigni e doveroso. Come lo scopri?
«A un festival a Fiuggi. Gli chiesi “che fai la domenica?” e lo convocai a casa mia chiedendogli di improvvisarsi critico cinematografico di film che non aveva visto. Fu perfetto, tutto improvvisato. Ecco, la mia fortuna più grande e stato aver iniziato come musicista jazz, dall’improvvisazione. In tv ho provato a fare il jazz della parola».
E poi c’è la relazione più lunga della sua vita, quella con L’Orchestra Italiana. «L’orchestra stabile più longeva della storia della musica: 30 anni, circa 1.800 concerti, 16 persone che dal 1991 hanno portato la musica napoletana, ai tempi percepita come obsoleta, ovunque. Il primo concerto occidentale nella Piazza Rossa ai tempi dell’Urss, la Cina, il Giappone, l’Australia, il Sud America grazie a quel fantastico pazzo di Adriano Aragozzini.
L’emozione più grande nel 1993 al Radio City Music Hall, il giorno dopo Ray Charles. Ero incredulo e felice. Era da quando ero ragazzino che andavo “appresso alla musica”, come diceva mio padre. Ora pero considero conclusa la mia missione con l’Orchestra, c’è l’età, ci sono stati i due anni fermi per la pandemia. Loro andranno avanti, si chiameranno Noi, la Nuova Orchestra Italiana».
Quindi sta per inventarsi qualcos’altro?
«Ho lanciato l’app Renzo Arbore Channel su cui pubblico video. A fine anno inauguro a Foggia Casa Arbore con tutte le mie collezioni di radio, oggetti in plastica, souvenir presi in giro per il mondo. E a ottobre, su Rai 5, con Gege Telesforo andrò in onda con 20 puntate di un programma nuovo. Che ovviamente si intitola Appresso alla musica. Mica smetto».
Renzo Arbore: «La guerra? Ricordo la fame, a cinque anni. Poi la tv: ho fatto parlare per primo le donne. Melato? Ci capivamo in silenzio». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2022.
Il conduttore si racconta a tutto tondo dopo la nomina a cavaliere di Gran Croce.
Renzo Arbore cavaliere di Gran Croce. Che impressione ti fa?
«Ho sorriso, quando il Quirinale mi ha chiamato, non me lo aspettavo. Poi ho chiesto: “Ma ho fatto qualcosa?”. Mi hanno risposto “No, perché sei Arbore”. Il Presidente mi ha spiegato che è per il mio lavoro e per l’ impegno nella solidarietà. Cavaliere di Gran Croce è una benemerenza che emoziona, è la più alta onorificenza per meriti civili. Io non so quali meriti abbia, ma mi fido del Presidente. Ho razzolato molto nello spettacolo italiano, non solo nella televisione. Ho fatto tutto: musica, radio, cinema, teatro e ora persino i social. Non devo aver fatto danni.»
Che opinione hai di Mattarella, al di là del fatto che ti ha nominato Cavaliere?
«E’ stato un grande presidente, silenzioso quanto equilibrato. All’inizio fu accolto senza grandi emozioni ma in sette anni si è conquistato consenso e simpatia. Un presidente riservatissimo, con una naturale timidezza, oggi amato da tutti. Penso di lui tutto il bene possibile. Ha conquistato anche gli scettici».
Facciamo un passo indietro. Raccontami Renzo bambino e la guerra.
«Della guerra io l’odore l’ho sentito, ricordo la fame di quei giorni. Ero sfollato a Chieti, ci fu un bombardamento nel Circolo degli Amici e nel ristorante Venturini, dove eravamo rifugiati in trentacinque. Avevo cinque anni, però ho capito cosa significava la parola guerra. Significava paura, fame, sangue, distruzione, abbandono della propria casa. L’arrivo degli americani è stato scioccante ma meraviglioso. E’ lì che mi sono innamorato di quel mondo. Un amore che non mi ha mai lasciato. Quando vedi andarsene via i nazisti armati di tutto punto, tutti mimetizzati, con i pugnali nei pantaloni, scuri, cupi, tetri e poi vedi arrivare le jeep degli americani con la musica, i piedi sui parafanghi, la cioccolata, le sigarette e i VDisc ti rendi conto della differenza tra dittatura e libertà».
Quale è la prima volta in cui hai suonato uno strumento musicale?
«La prima volta è stata una chitarra. Poi sono passato alla tromba. Ma quella che avevo comprato io era di seconda mano, per di più storta e non riusciva ad emettere dei suoni. Allora l’ho data ad un mio amico che aveva la passione per la tromba ma suonava il clarinetto, che mi ha prestato in cambio. E’ stato grazie a Franco, un trombettista di Foggia, che ho cominciato a strapazzare il clarinetto».
Cos’era la radio per te in quegli anni?
«Io ascoltavo Radio Bari, tanto che poi ad ‘Alto gradimento’ mi sono anche divertito a fare “Qui Radio Bari, ci avete chiamato?”. Ci si sintonizzava all’ora di pranzo la domenica, si mangiava quello che si poteva perché non c’era tanto e però si sentiva la radio. Poi ho cominciato a costruirmi la mia radio, a galena. Usavo le cuffie che avevano lasciato gli alleati e così ascoltavo stazioni incredibili, lontane nel mondo. I nostri invidiatissimi eroi della radio erano i fratelli Judica Cordiglia. Vivevano a Torino e sostenevano addirittura di aver registrato la voce di un astronauta sovietico che si diceva scomparso nello spazio all’insaputa del mondo. E’ rimasta una leggenda, per noi appassionati della radio».
Quanto di quello spirito c’è nella meravigliosa avventura dell’”Orchestra italiana”?
«Per me una delle ragioni della benemerenza è questa: io per trent’anni, dal ’91 al ’21, ho fatto vivere l’Orchestra italiana, la più longeva orchestra stabile mai esistita al mondo. Neanche Duke Ellington, nessuna orchestra è durata tanto. Abbiamo calcolato che facendo sessanta, settanta concerti all’anno, in tre decenni noi abbiamo fatto più di millecinquecento concerti. Dall’Australia all’Unione Sovietica, fino alla Russia di oggi. E poi il Nord America, Sud America, Cina, Giappone, Francia, Spagna, New York non ne parliamo. Però questa cosa è stata divorata dalla fama televisiva. Si ricorda spesso il primo grandissimo concerto a Radio City Music Hall nel ’93 quando abbiamo fatto sold out per giorni. Poi siamo andati in giro per il mondo, portando Italia, ma non faceva più tanto notizia. Ciò di cui siamo orgogliosi è aver fatto rivivere la grande canzone napoletana rispolverandola, riadattandola. Mai mortificandola nell’inseguimento di mode effimere e spesso volgari.»
Renzo quale è la più bella canzone italiana?
«La sigla dell’orchestra: “Era de maggio”. L’abbiamo proposta quando nessuno la conosceva, adesso tutti la cantano. Da bambino, a casa mia, dalle stanze che affacciavano sul retro ascoltavo i muratori cantare napoletano. Ma dall’altro lato dell’appartamento si sentivano gli americani nel palazzo di fronte, al Circolo ufficiali, che facevano le prove delle loro canzoni. Io ero in mezzo e assorbivo, come una spugna, queste due meravigliose suggestioni. La passione per le canzoni napoletane mi è tornata forte anche perché erano le musiche che cantavano quelli che noi chiamavamo i faticatori, cioè gli operai che stavano ricostruendo Foggia che fu bombardata severamente e che era tutta distrutta. I muratori ritiravano su la città cantando canzoni napoletane. Allora la canzone italiana quasi non c’era, si identificava con quella di Napoli».
Di ‘Alto gradimento’ quale è il personaggio al quale sei più affezionato?
«Il più scombiccherato era Anemo Carlone. Lo ricordo con particolare affetto perché quando Gianni Boncompagni stava poco bene io lo andavo a trovare, gli mettevo sempre Anemo Carlone e lui rideva, facendomi felice. Anemo Carlone era un barone della medicina. Solo l’elenco dei titoli faceva ridere: docente di brufomania, tutte cose così. Era la geniale follia di Mario Marenco, maestro del surreale. Ho un grande rimpianto per tutti gli amici di quella trasmissione che non ci sono più».
Quanto ti divertivi?
«Moltissimo, con Giorgio Bracardi coautore, con Marenco, era una festa andare a lavorare: ci divertivamo proprio. Non abbiamo fatto satira, che non ho mai amato particolarmente. Noi facevamo autentico cazzeggio, quello che adesso langue ovunque. Cazzeggio che io poi ho portato in televisione con “Quelli della notte”».
“Per voi giovani” è stato il ’68 alla radio? E tu come hai vissuto quel periodo?
«Per la verità il ’68 io lo raccontavo, soprattutto sul versante dei nuovi linguaggi e dell’emergere di una generazione. Ma lo guardavo con sospetto. Io ero liberale, ero liberale perché filo americano, allora si diceva a-comunista con l’alfa privativo. Non volevo dire anticomunista perché tutti i miei amici erano comunisti, compresi Gianni e Raffaella».
Di “Speciale per voi” quale è stata la puntata più difficile?
«Una nella quale avevo bevuto un po’ troppo per vincere la timidezza e sono stato sostituito da Villaggio che era lì. Il programma lo facevano i protagonisti e il pubblico che rivolgeva le domande. Interpretava lo spirito del tempo: la voglia di dibattere tutto. Pubblico e personaggi dialogavano o litigavano. Si ricordano gli scontri tra i ragazzi e Claudio Villa, Caterina Caselli, Don Backy. Era tutto vero, tutto sincero. Ma due anni dopo mi chiusero la trasmissione. Forse proprio per questo».
“L’altra domenica” cosa è stata dal punto di vista del linguaggio televisivo? Per me una autentica rottura degli schemi…
«Una vera rivoluzione, devo dire la verità. Il mio obiettivo era sempre quello di fare il contrario della televisione ammiraglia, di quella tradizionale. Quindi laddove c’era la grande orchestra io pigliavo Otto e Barnelli. Laddove c’erano le vallette mute io sceglievo delle ragazze cosiddette parlanti. Ed erano Isabella Rossellini, Stella Pende, Milly Carlucci, Mimma Nocelli, tante. Le ragazze parlanti allora in televisione erano solo due: Bianca Maria Piccinino che faceva la moda sul Tg1 ed Enza Sampò. Le altre erano vallette. Io pensavo: “Ma insomma tutte queste femministe non se la pigliano con la televisione che usa le donne solo come abbellimento?”. Laddove tutto era controllato e rigido io mettevo il telefono a disposizione del pubblico. Era la prima volta. Diciamo che le primogeniture dell’Altra domenica sono state tante: le Sorelle Bandiera, Benigni critico cinematografico, i “Gasad” , gruppi a sinistra dell’Altra domenica, con il Papa che giocava a tennis con Adriano Panatta e vinceva grazie all’aiuto dello Spirito Santo, che realizzavamo con Manuli e Nichetti. Poi il valletto Andy Luotto. Erano tutte primogeniture, erano tutte assolute novità».
Però era anche un programma pieno di informazioni, di stimoli.
«Infatti. Checchè se ne pensi non era cazzeggio puro. Sotto sotto facevo vedere spettacoli di italiani e stranieri attraverso Isabella Rossellini, Françoise Riviere, Michael Pergolani, per sprovincializzare un po’. Soprattutto me stesso, perché io venivo dalla provincia e avevo trascorso intere nottate in conversazioni sui turbamenti della moglie dell’avvocato. Avevo la presunzione di far vedere cose inconsuete. Avevamo uno slogan: “Razzolare nell’inconsueto”. Per la prima volta si vedevano in Rai delle feste gay, oppure le sagre paesane di cui non si parlava mai. Tutto ciò che era inconsueto veniva scelto, in “L’altra domenica”».
E a proposito di primogeniture, come ti è venuta invece l’idea di “Quelli della notte”?
«Nel 1984 Rai Uno mi affidò il compito di festeggiare i sessant’anni della radio e feci “Cari amici vicini e lontani”. Un programma preziosissimo. Bello da conservare perché è un programma di storia. C’è tutto il Gotha dello spettacolo italiano, perché tutti erano passati da Via Asiago. Vennero Ruggero Orlando, Alberto Sordi, Nunzio Filogamo, Silvio Gigli, Nilla Pizzi, il duo Fasano, Titta Arista, Pippo Barzizza. E poi Raimondo e Sandra, Corrado, Baudo, Boncompagni, tutti i protagonisti della radio della domenica mattina di Gran varietà. C’era Monica Vitti che cantava La paloma blanca, c’era Antonioni, c’erano Rame e Fo. Nel 2024 saranno i cento anni di Radio Rai e sarebbe bello rivedere “Cari amici vicini e lontani”. Con questo programma arrivammo a diciotto milioni di ascoltatori. Però era un programma retrò, non per giovani. Si basava sulla nostalgia, sulle vecchie canzoni».
E questo successo ti spaventava?
«Naturalmente! Mi dissi “E mo’, che faccio?”. Mi risposi: “Devo fare una cosa per ragazzi, totalmente diversa”. Sono stato sempre alla ricerca dell’uovo di Colombo, del nuovo, del ribaltamento. L’uovo di Colombo era allora fare un programma totalmente diverso con quaranta facce mai viste prima. Andai da Giovanni Minoli che sposò il progetto. Allora, attingendo alla mia agendina, chiamai a raccolta Gianni Mazza, Riccardo Pazzaglia, Simona Marchini e Maurizio Ferrini, poi il giovanissimo Frassica e tutti gli altri. “Quelli della notte”, che costruii con Ugo Porcelli, è stato un successo incredibile, entrò nel modo di parlare, cambiò anche la comicità in televisione. Ancora oggi, con l’Orchestra, quando canto “Ogni giorno la vita è una grande corrida’ c’è un coro che prosegue ‘Ma la notte no’. E’ un cult, anche per chi non l’ha vissuta. Furono mesi di successo folle. Tutti volevano qualcosa da me e da noi. Avremmo potuto fare chissà che cosa: soldi, imprese, cotillon…. Invece me ne andai in America per due mesi».
Scegliamo due di quella squadra fantastica: Pazzaglia e D’Agostino.
«Pazzaglia era l’umorista più forte che io ho conosciuto, insieme a Mario Marenco. Per me Pazzaglia è un grande maestro, non per niente ha scritto bellissime canzoni. Non soltanto “Meraviglioso” ma anche “Io mammeta e tu” o “Ah che bello o’ cafè, solo a Napoli lo sanno fa”. E’ un po’ dimenticato e mi dispiace. Ma Pazzaglia aveva un umorismo sottilissimo, forse fin troppo in anticipo sui tempi. Era tanto modesto quanto bravo».
E D’Agostino?
«Dago era già uno studioso del costume, faceva dei raid notturni per sapere quello che succedeva in città, nei locali. Ha avuto sempre grandissima curiosità per tutto quello che succedeva, per tutto quello che stava cambiando. “L’edonismo reaganiano” fotografava con nitidezza un passaggio del modo di vivere il proprio tempo».
Per fortuna ora molto del tuo lavoro è reperibile in rete.
«Io bazzico molto la rete. Ho un canale che si chiama RenzoArborechannel.tv. Ora c’è pure l’applicazione. Lì si trovano anche tutte le puntate di ‘Meno siamo meglio stiamo’, che sono bellissime. Guardati le ospitate di Benigni, Proietti, Banfi, di Jannacci che il giorno del mio compleanno mi fece piangere».
Tu ami il varietà, genere negletto dai maestri del sopracciglio alzato. Le tue improvvisazioni con Banfi e Mirabella in “Aspettando Sanremo” erano e sono esilaranti….
«Noi eravamo veramente incoscienti. Il varietà si fonda sempre sulla improvvisazione. Farlo in “Quelli della notte”, in un salotto di amici era già difficile ma improvvisare al Teatro delle Vittorie con un pubblico presente, grande, numeroso che vuole sentire le battute e ridere è da irresponsabili. Abbiamo potuto farlo perché c’era Lino che è un grande professionista e Mirabella, una persona di grande intelligenza che capì subito quello che doveva fare. Quel ruolo l’avevo pensato per Vittorio Gassman che dopo mi rimproverò per non averglielo proposto. Doveva essere il grande solone dell’accusa che si vanta dei titoli accademici e ha come assistenti due che si chiamano Smith Wesson. Mentre Banfi si chiamava Passalacqua. Puoi immaginare. E ci divertivamo tanto con un altro specifico del varietà: il gioco di parole e l’apologia del doppio senso».
Quanto ti dà fastidio il politicamente corretto?
«Obama, in una bellissima intervista da Fazio, ha detto “Tutti fanno quello che a loro conviene e non quello che è giusto”. Questo è ciò che mi dà più fastidio. Anche il politicamente corretto viene usato spesso solo perché conviene, non per convinzione. Ma, diciamoci la verità: tanto più in questi tempi caotici, anche essere politicamente scorretti è conveniente, garantisce visibilità, scambiata per successo. Quello che non si dice è che dietro tutto questo c’è solo l’ascolto, l’Auditel. La mia frase, non ripresa da nessuno, è “Auditel, Auditel quanti delitti si compiono in tuo nome”. E’ una frase irriverente, presa dalla mia cultura cattolica, apostolica, foggiana. Il successo commerciale una volta era addirittura una colpa, se un cantante vendeva troppi dischi veniva guardato con sospetto. Ora è il contrario. E’ la quantità che viene assunta come parametro della qualità. Se un programma fa ascolto vuol dire che è bello. Se magari cerca strade nuove, più difficili e queste non incontrano subito il gusto del pubblico allora è un fallimento. Non si trova mai un equilibrio. La cultura la si fa cercando di dare al pubblico più ampio le cose più belle».
“Quelli della notte” non faceva milioni di ascoltatori ma è rimasto nella storia del linguaggio e della cultura di massa e invece programmi con tredici milioni di ascoltatori non se li ricorda nessuno. Come spiegheresti ad un influencer questo paradosso?
«Vuoi sapere la verità? Io ho sempre pensato programmi, musica, persino film perché rimanessero nel tempo. La verità è che oggi si fanno i programmi per avere il successo del giorno dopo, quando alle dieci arrivano i dati dello share».
Quanto ti è pesata o ti pesa la pandemia?
«Moltissimo. Durante la prima pandemia ho riordinato molto della mia vita e di tutte le cose che ho in casa, raccolte in tanti anni. La Regione Puglia ha deciso di ospitare il mio modernariato e il materiale della mia attività in uno dei palazzi più importanti della mia città. Sarà Casa Arbore a Foggia, nel Palazzo della Dogana».
E invece la seconda pandemia ti ha sdraiato?
«La seconda pandemia mi ha praticamente immobilizzato a casa senza musica, senza orchestra, senza musicisti e quindi sto lottando. Mi pesa molto. Faccio la televisione da casa mia, faccio un programmino con Gegè Telesforo che andrà in onda dopo Sanremo per Rai 5. Si chiama “Appresso alla musica”. E’ la frase che diceva mio padre per rimproverarmi: “Invece di studiare tu vai appresso alla musica”».
Cosa speri per te e per l’Italia di qui in avanti?
«Spero che questa furiosa combattività che c’è, questo clima di odio, questo linguaggio violento, comincino a dissolversi. Spero ci sia il ritorno al volersi bene, all’apprezzare l’arte, la vita e gli altri. Spero in una Italia meno tesa».
Mariangela Melato, il tuo grande amore.
«Mariangela è il mio codice. Tuttora quando faccio delle cose o vedo in televisione cose che mi piacciono mi domando “Che ne avrebbe pensato Mariangela’”. E’ un codice, perché Mariangela oltre ad essere la grande attrice che sappiamo, era una donna divertente, colta, intelligente. Dava, delle cose e delle persone, dei giudizi silenziosi, perché non invidiava né parlava male di nessuno. Però noi due ci capivamo,sapevamo, ci guardavamo e io sapevo se una cosa lei l’approvava o no. In questo senso Mariangela era il mio codice».
Immaginiamo un momento di tristezza, in questi tempi cupi. Scegli un film che ti faccia ridere.
«Un film che mi fa sempre ridere è “I ragazzi irresistibili” con Walter Matthau e George Burns. Uno dei capisaldi del cinema comico perché dentro c’è tutto il mondo del varietà di una volta. I due vecchi attori si amano ma allo stesso tempo sono rivali. Però l’analisi del comico oggi va rivista. Ne parlavamo con Roberto Benigni. Ciò che un tempo non consideravamo abbastanza, come Franco e Ciccio, oggi ci sembra bellissimo. Una coppia così ci vorranno cento anni perché rinasca, comici davvero popolari. Ma non solo loro, anche Ric e Gian. E’ da rivedere il giudizio su alcuni dei protagonisti dello spettacolo degli anni passati. Oggi ce ne sono tanti altri. Lillo e Greg mi piacciono molto, fanno ridere senza fare facile satira. E poi Frassica, che continua la nostra tradizione. Cazzeggio puro, surreale e popolare».
Riccardo Chailly: «Mio padre le ha provate tutte per non farmi fare il direttore». Gian Luca Bauzano su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.
Un fragoroso colpo di piatti. Riccardo Chailly bimbo sussulta, seduto nell’ultima fila dell’Auditorium del Foro Italico in Roma. Il suono lo travolge. Alla fine della prova della Prima sinfonia di Mahler, Riccardo sa che la musica sarà la sua vita. Qualche giorno dopo lo dice al padre, il compositore Luciano Chailly che lo aveva portato con sé in teatro. Cerca di dissuadere il figlio. Riccardo col tempo l’avrà vinta. Chailly oggi è tra i direttori d’orchestra più importanti al mondo. Tra i grandi interpreti mahleriani, di Verdi e Puccini. La sua filosofia di vita l’ha distillata proprio da Mahler: il valore del silenzio.
Possibile. Un direttore d’orchestra di fama mondiale che ai riflettori preferisce il silenzio «Il silenzio è una conquista e la mia è una solitudine costruttiva. Lo tenga presente. In una società così rumorosa il silenzio aiuta a riflettere. Una conquista faticosa, significa opporsi al sistema globale. Mi aiuta a concentrami nello studio. I silenzi sono parte integrante della musica, pensi alle cesure di Mahler. Se le comprendi affronti i grandi capolavori. Gli eventi della vita».
Chailly a Lucerna (Courtesy Marco Borggreve)
Ha dei luoghi dove «coltiva» questo suo silenzio solitario e costruttivo? «In Liguria, appena posso. Vi sono stato a giugno prima di andare a Orange la scorsa settimana con gli organici della Scala, e in vista del Festival di Lucerna che inaugurerò il 12 agosto prossimo. L’altra mia meta, i monti svizzeri».
Come li ha scoperti? «Li ha scovati mia moglie Gabriella. Si godono panorami unici: dalla nostra casa in pietra si vede il Golfo del Tigullio, mentre le vette dell’Engadina circondano il nostro chalet».
Chailly e gli organici scaligeri nel luglio 2022 al Festival di Orange
Solo silenzio e studio? Niente altro? «Se non sono concentrato su una partitura sono diventato bravissimo a godere del far nulla».
Quindi solo partiture? Altri ascolti, no? «Ho sempre cercato di conoscere il più possibile. Da ragazzo amavo i Beatles e il blues americano. Ma anche figure come Paolo Conte e Gaber».
Ma la nomea di grande sportivo, a volte spericolato? Moto, cavallo, sci. Persino paracadute ascensionale trainato da un motoscafo. «Confermo. E col paracadute superavo i 50 metri di altezza. Sotto, il mare della Costa Azzurra. Sa cosa mi esaltava? Il vento nelle orecchie, immerso nel silenzio. Parentesi chiusa, però».
Dai silenzi ai suoni mitici: della Scala e dell’Orchestra del Festival di Lucerna, direttore musicale in carica di entrambe sino al 2025 e al 2026. La Scala, simbolo d’italianità. «Lo è sempre stata. Oggi in maniera imprescindibile. Vi ho debuttato nel 1978 con I Masnadieri di Verdi, avevo 25 anni e da cinque ero assistente di Claudio Abbado. Adesso ne ricopro lo stesso ruolo e porto avanti una tradizione. Il suono dell’orchestra scaligera è unico. Le continue incisioni discografiche confermano. Puccini e Verdi i capisaldi. Un successo i concerti scaligeri di cori verdiani nel giugno scorso, incisi live per Decca e proposti anche la scorsa settimana al Festival di Orange. Pubblico entusiasta».
Il melodramma, la voce del Paese. «La musica operistica italiana è andata oltre il concetto di melodramma. La Scala in tournée rappresenta la voce dell’Italia. Fa conoscere le radici della nostra cultura. Mai dimenticarlo».
Chailly e la Scala (Courtesy Scala/Brescia&Amisano)
A proposito di cori verdiani. Gli stessi del concerto con lo squillo del telefonino durante l’esecuzione alla Scala? Se ne è parlato molto. «È capitato. Il mio non è stato un gesto di stizza. Ho sospeso l’esecuzione per scrupolo, si era messo a rischio un suono ottimale. Fondamentale per la registrazione in corso. Testimoniava le eccellenze del teatro. Ci sono momenti unici da ricordare e lasciare alle generazioni future».
Sport spericolati Con il paracadute trainato dal motoscafo superavo i 50 metri di altezza. Che sensazione splendida il vento nelle orecchie mentre sei immerso nel silenzio
Chailly in Cina a Shanghai
Dal podio prontezza di spirito, ironia... «Quella sera ho voluto sdrammatizzare. Ma se non si ha il totale controllo dei nervi, meglio non salire sul podio. Aiuta nella concentrazione e ti dà la capacità di trasmettere la tua calma interiore all’orchestra che hai davanti».
Quindi, lei è paziente e con gran self control. «L’esatto contrario. Da sempre lotto con me stesso per l’autocontrollo. I miei musicisti lo sanno. Se ne accorgono dallo sguardo. Si immagini con la mascherina. Parlano forse prima le mie pupille del gesto della bacchetta».
Con la Filarmonica della Scala
Scala e Lucerna. Prima il Concertgebouw di Amsterdam e il Gewandhaus di Lipsia. Matrimoni artistici solidi. Come si fa? «Evitando la noia».
Intende quella del pubblico? «Nel rapporto con le orchestre. Mai annoiare i musicisti con il proprio repertorio. Tener vivo il rapporto. Uno scambio reciproco. Rifuggire il prevedibile. Equivarrebbe a burocrazia».
La figura del direttore d’orchestra spesso è vista un po’ come quella di un dittatore. «Curioso, la stessa iniziale. Un legame c’è. Dittatore? Forse un po’, ma democratico. Oggi tra i musicisti si è evoluto il rapporto democratico. Se una volta sul podio prevalesse l’aspetto dittatoriale, per il direttore sarebbe un immediato autogol».
Claudio Abbado e Chailly nel 1978 alla Scala alla prima de I Masnadieri di Verdi
Rapporti profondi, quelli con orchestre e teatri. Nella sua vita lo sono stati quelli con suo padre, con Claudio Abbado. E su tutti lo è quello con Gabriella, sua moglie. «Punto fermo nella mia vita. Imprescindibile. Considero il nostro rapporto un dono. Grazie a lei non mi sono mai sentito solo. Anche nei momenti di quella solitudine artistica legata all’impossibilità di realizzare un progetto».
Qui sotto una foto inedita dagli album privati della famiglia Chailly: un giovanissimo Riccardo Chailly mentre a letto studia una partitura, al suo fianco la moglie Gabriella autrice dello scatto, realizzato con le loro immagini riflesse nello specchio
Archivio Riccardo Chailly
Quello con suo padre Luciano un rapporto complesso, profondo, anche conflittuale. «Mio padre temeva facessi il musicista. Ne conosceva le infinite difficoltà. Compositore e direttore artistico di numerosi enti lirici compresa la Scala. Voleva evitarmi delusioni avute da tanti. Un continuo mettermi alla prova. Ho poi trovato la mia strada, il mio percorso di crescita. A mio padre è legato il mio primo ricordo musicale. Avevo pochi mesi. Di notte lo ascoltavo suonare. Componeva al pianoforte. Le melodie, benché il suo fosse un linguaggio contemporaneo non facile, attraversavano le pareti fino alla mia stanza».
Il self control Io mite e paziente? Sono l’esatto contrario: da sempre lotto con me stesso per l’autocontrollo. I miei musicisti lo sanno bene... ogni direttore è anche un po’ dittatore
Tra i lavori di suo padre la Missa Papae Pauli, scritta nel 1964 e dedicata a Paolo VI «Ero adolescente quando con mia mamma e le mie sorelle accompagnammo papà in Vaticano per essere ricevuti da Paolo VI. Un ricordo potente. Figura carica di magnetismo. La Missa un lavoro a cui mio padre teneva molto. L’ho diretta varie volte anche in Duomo con la Scala».
Partitura profonda. Come le Passioni di Bach. Un confronto con la spiritualità. Lei è credente? Quale significato ha la fede per lei? «La fede? Un atto di fiducia individuale. Dio è dentro di noi. Durante la pandemia mi ha toccato profondamente vedere papa Francesco solo, davanti a lui piazza San Pietro deserta. Un atto forte, simbolico. Se sono credente? Mi definisco un credente in ricerca. Le esperienze personali mi hanno aiutato nella ricerca in me stesso».
Riccardo Chailly (a destra) con il padre Luciano e la famiglia ricevuti da Paolo VI
In quali occasioni? «Diversi anni fa ho avuto un problema al cuore, subito risolto benché ricoverato d’urgenza. Da allora sono cambiato. Ho reagito immediatamente. Non volevo essere vittima di una situazione fuori dal mio controllo».
Come lo può essere la morte... «La musica mi ha sempre dato forza. La fiducia nel futuro. La sofferenza quando tocca l’uomo sul vivo lo costringe a riflettere. I miei problemi di salute mi hanno fatto capire l’importanza di saper scegliere i punti fermi della propria vita. I valori fondamentali della nostra quotidianità. Nulla è eterno. Una lezione che ci offre la natura. Impararla significa sapersi amministrare al meglio. Facendo fruttare ciò che ognuno di noi ha ricevuto. Una consapevolezza che mi aveva aiutato a superare la morte di mio padre».
Sono i 20 anni della sua scomparsa «Si è spento la Vigilia di Natale. Ero ad Amsterdam e non al suo fianco. Il giorno dopo dovevo dirigere in diretta il Concerto di Natale del Concertgebouw. L’ho affrontato. Poi mi sono chiuso in me stesso. A riflettere su vita, dolore, vuoto, perdita. La musica mi ha fatto reagire. Come poi mi è accaduto affrontando la malattia».
Chailly in Cina firma autografi ai fan alla fine di un concerto
Claudio Abbado, un mentore, poi un amico «Affetto e riconoscenza mi legano a Claudio. Lezioni di vita, gli anni passati con lui. Disponibile nei confronti di tutti. Il suo camerino sempre aperto. Pronto a dare consigli. L’esatto contrario della nostra società. Si vive come chiusi in spazi che non comunicano. Autonomi. Claudio invece condivideva cultura ed entusiasmo».
Ne è stato per anni l’assistente. «La mia una presenza quasi ossessiva per lui, sin da quando mi ha chiamato nel 1973. Sempre paziente e generoso. Uomo e artista eccezionale, schivo e riservato. Parlava solo attraverso la musica. E con le sue scelte. La mia stessa linea di pensiero e comportamento.
Nel 20220 con il Presidente della Repubblica Mattarella in Duomo a Milano
La Filarmonica, «creatura» abbadiana. «Sono stato orgoglioso a giugno di dirigere in piazza Duomo il concertone all’aperto della Filarmonica scaligera. Doppio anniversario e doppio traguardo: 40 anni dalla nascita della Filarmonica, voluta da Abbado sfidando preconcetti e provincialismi, della quale oggi sono direttore principale, e 10 anni dal primo concerto all’aperto, oggi simbolo della Milano contemporanea».
Le scelte. Come Abbado nel 1979, il 7 dicembre lei dirigerà di Musorgskij inaugurando la Scala. Un’opera russa oggi. Qualcuno avrebbe preferito un silenzio diplomatico «Opportuno? Boris è in programma da tre anni. Perché il silenzio, allora? Cosa si sarebbe detto se l’avessimo cancellato? Un danno per la cultura. La situazione internazionale è complessa. Le certezze nel futuro crollate. Destabilizzati i rapporti tra nazioni. Sovrapporre l’immagine politica alla conoscenza della grande cultura è impensabile. L’arte può solo creare conoscenza. Il silenzio è per riflettere, la musica per vivere».
Cocciante in Puglia: «I miei 50 anni di musica». Oggi l'artista al Foro Boario di Ostuni con l’Orchestra sinfonica «Saverio Mercadante»: io a metà tra la canzone e la composizione. Nicola Morisco su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Agosto 2022.
L’anno prossimo per lui saranno 50 anni di carriera artistica, gli stessi decenni che hanno fatto delle sue canzoni la colonna sonora delle nostre vite di molti di noi. Anni segnati da Poesia, Bella senz’anima (arrangiamento del premio Oscar Ennio Morricone e Franco Pisano), brano censurato per l’esplicita frase «e quando a letto lui ti chiederà di più» che non nasconde certo il lato hard dell’amore. Oppure Margherita, Quando finisce un amore e quella A mano a mano, canzone che ha vissuto due grandi momenti di successo: il primo dell’autore, l’altro del mai dimenticato Rino Gaetano. Ovviamente parliamo del 76enne cantautore e compositore Riccardo Cocciante che, nella sua lunga carriera, ha saputo districarsi con canzoni raffinate e di qualità per sé e per altri artisti, sperimentando progetti importanti come quello realizzato con il gruppo fusion progressive New Perigeo e il cantautore Rino Gaetano e, soprattutto, come compositore di straordinari musical di successo come Notre Dame de Paris.
In attesa dei festeggiamenti dei suoi 50 anni di carriera, Cocciante ha deciso di regalare ai suoi tanti ammiratori «Cocciante canta Cocciante», un mini tour preparatorio di quello che accadrà con il nuovo anno. Otto date esclusive che Cocciante ha voluto realizzare in altrettanti luoghi più belli della storia e dell’architettura del nostro Paese. Tra le otto tappe c’è anche il Foro Boario di Ostuni che oggi alle 21.30, ospiterà Cocciante con l’Orchestra sinfonica «Saverio Mercadante» diretta dal Maestro Leonardo de Amicis e con un repertorio che toccherà tutti i passaggi importanti della sua carriera.
Riccardo, in questo live è in scena un doppio Cocciante?
«Ormai mi presento con queste due carriere che ho in me: quello del compositore cantante e quello dell’autore impegnato nel raccontare storie come “Notre Dame de Paris” (dall’omonimo romanzo di Victor Hugo), “Il piccolo principe” (best seller di Antoine de Saint-Exupéry), oppure “Giulietta e Romeo”, con i testi in italiano di Pasquale Panella trasposizione del “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare. Questo concerto è anche un modo di vedersi allo specchio dopo qualche anno, ma anche provare a me stesso di essere all’altezza di poter essere sul palco per due ore a mezza di spettacolo. Non nascondo, inoltre, che rappresenta una preparazione ai live dell’anno prossimo, in cui festeggerò i miei 50anni di carriera in maniera più articolata».
Questi otto concerti, che preannunciano gli eventi dei suoi 50 anni di carriera, anno la particolarità di unire la bellezza delle sue composizioni, con quelle di otto delle bellezze del nostro Paese. Cos’è per lei la bellezza?
«In questo momento ci stiamo esibendo in luoghi che non vorrei definire solo storici, ma posti che vivono di un passato che riescono a comunicaci qualcosa, questo è molto importante. Spesso vedo dei concerti in cui è presente molta gente, però manca quella parte umana, quella componente artigianale che noi artisti dobbiamo avere sempre nel nostro mestiere. Invece, tutto diventa un grande business e si dimentica che tutto deve essere costruito con uno spirito da artigiano, non per fare successo. La mia carriera l’ho fatta così: non ho mai pensato di costruire una canzone di successo, ma una composizione composta con amore e onestà. Una di queste canzone, può avere anche la fortuna di essere quella che determina e descrive l’epoca nel quale è stata composta».
Il suo percorso artistico è stato intenso e variegato. Cosa le manca?
«Non so quello che mi aspetta, però sono sempre alla ricerca di qualcosa di interessante e autentico da esprimere. Il prossimo anno faremo uscire un nuovo disco di inediti, che manca da molto tempo, così come il musical “Giulietto e Romeo”. Poi, possono nascere delle nuove idee, sono sempre all’erta per capire se c’è qualcosa che posso dire».
Ritiene che la musica in questo periodo sia meno creativa?
«È un momento di transizione, di ricerca da parte dei giovani. Prima avevamo un’autostrada davanti a noi, oggi sono tutti sparpagliati e non c’è connessione tra un’artista e l’altro. Stare insieme vuol dire dividere delle idee, delle maniere diverse per esistere. Non vedo la musica completamente negativa, bisogna andare avanti e penso che prima o poi, molti giovani troveranno una loro e nuova dimensione».
Riccardo Cocciante: «Margherita? Non ci avrei scommesso. La canzone politica non mi è mai interessata». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 5 luglio 2022.
Il cantautore torna a suonare dal vivo nelle piccole arene dopo 10 anni: «I mega-show? Preferisco un’esibizione ravvicinata»
Il brano su cui non avrebbe scommesso?
«Margherita. Perché è arrivata nel momento in cui la canzone politica era preponderante, il contrasto con la moda corrente era totale e io mi sentivo disarmato. All’epoca partecipavano tutti ai Festival dell’Unità, dove io non andavo; il discorso politico era potente, invadeva l’Italia. Io stesso ero perplesso sull’uscita di Margherita, ma poi si è inserita violentemente in uno spazio che evidentemente c’era».
Era l’epoca dei fascisti di qua e i comunisti di là, la canzone d’impegno non faceva per lei?
«Non ho mai voluto scrivere di politica per due ragioni. Primo perché la reputo passeggera, nei tempi e nei modi; dopo quattro anni tutto invecchia, la si pensa diversamente. E poi perché credo che la politica per noi artisti debba rimanere qualcosa che osserviamo, ma non diventare la bandiera di un’idea, di un partito, anche se tu le tue opinioni le hai. Ho sempre cercato di non essere dentro mode e pensieri, mi piace stare da parte, marginale o fuori, mai in una moda. Piuttosto cerco io diventare io la mia moda, il mio pianeta».
Chi era «Margherita»?
«Le mie canzoni sono al 99% allegorie, raccontano pensieri e stati d’animo. L’unica canzone diretta è quella dedicata a mio figlio David, Vivi la tua vita».
L’ultimo album è del 2005, negli ultimi dieci anni ha preferito dedicarsi al musical «Notre-Dame de Paris», Riccardo Cocciante ora ha deciso di tornare a esibirsi dal vivo con una serie di concerti in giro per l’Italia (il via il 19 luglio da Firenze, chiusura il 6 agosto a Ostuni). Come mai dieci anni di silenzio?
«Io ho due carriere, in questi anni quella di cantautore si è fermata per dare spazio a Notre-Dame che è nato in Francia e poi è stato tradotto in 8 lingue e si è diffuso nel mondo, in Paesi anche improbabili come la Corea, la Cina... Però è venuto il momento di ricreare un contatto con il pubblico in modo particolare, non con uno di quei mega-concerti che si fanno oggi, ma con un’esibizione ravvicinata, umana».
I mega-palchi non le piacciono?
«Ci vogliono anche i megaconcerti ma forse oggi si esagera... Penso ci sia bisogno di ritrovare il lato umano sul palcoscenico, di non essere attorniati da sequenze, programmazioni, videoistallazioni. Piuttosto una bella orchestra come quella diretta da Leonardo De Amicis che mi accompagna in queste tappe. Il contatto con il pubblico diventa intimo, le piccole arene storiche dove ci esibiremo hanno un’essenza, dentro c’è una vibrazione che riverbera sul pubblico».
Padre italiano, madre francese, lei è cresciuto in Vietnam fino a 11 anni.
«Quando sono arrivato a Roma ero spaesato, non conoscevo la lingua e il clima era diverso da Saigon: i tropici sono un’esplosione di odori, di colori e Roma mi sembrava una città grigia. Volevo conoscere la cultura musicale italiana e la tv mi ha aiutato molto: guardavo tutte le trasmissioni musicali, anche le più periferiche; così ho imparato che all’epoca l’italiano era più melodico mentre il francese più letterario. Io sono sempre in bilico tra queste due culture: sono il più francese degli italiani e il più italiano dei francesi. Il mio modo di cantare è impressionista; l’estetica serve ma non è prioritaria».
Una sola presenza a Sanremo nel 1991, la vittoria con «Se stiamo insieme». E poi?
«Non amo ripetere due volte la stessa esperienza. Molti l’hanno presa male, ma non era una scelta “contro” Sanremo. Anche il giudice di The Voice l’ho fatto una sola volta. Perché per il nostro mestiere entrare in un ingranaggio rappresenta la morte della creatività. Diventi parte di un meccanismo dove vuoi piacere più agli altri che a te, invece penso che la composizione sia un fatto di egoismo: prima di tutto devi tu stesso provare amore per quello che fai».
La musica oggi in che direzione va?
«C’è troppo calcolo, per molti è qualcosa di meccanico e robottistico. Io invece ho voglia di genuinità. Il problema è che oggi si arriva troppo presto al successo, la gavetta è importantissima, perché stai male, soffri, ma ti arricchisce e non ti senti dio se diventi popolare. I successi più belli sono sempre quelli improbabili, quelli non calcolati. Nella mia carriera ne ho avuto diverse prove, non solo con Margherita. Bella senz’anima all’inizio ha stentato, poi il pubblico ha deciso che poteva essere un successo. Il tempo è un giudice pazzesco, cancella le cose opportunistiche e fa rimanere quelle vere, autentiche».
Con Mogol avete collaborato per tanti anni...
«In generale io cerco sempre di trovare me stesso nell’autore che mi sta vicino. Per scrivere in due bisogna trovare una comunione speciale, si creano momenti intensi, fortissimi. Mogol mi è profondamente caro, ma non è l’immagine dei suoi testi: ha un aspetto ruvido, del resto tutti gli artisti hanno le loro asperità. L’importante è quello che dice e quello che dice è bellissimo».
Con Mina vi siete incrociati due volte, per «Questione di feeling» e «Amore».
«Ci sentiamo ancora ogni tanto, mi dà i suoi pareri sulla cose che faccio e questo vuol dire che tra noi c’è un contatto vero, sincero».
(ANSA il 14 luglio 2022) - "Stamattina mi han fatto una biopsia, chissà che cos'ho. Mi han detto una lesione di tipo tumorale inside my head, ma non si sa ancora di che tipo e gravità. La prassi vuole che io aspetti una ventina di giorni e li aspetterò". Lo scrive in un post su Instagram dall'ospedale, dove si mostra in una foto con la testa fasciata ma in cui sorride, l'attore Riccardo Manera, protagonista di serie tv come "Il silenzio dell'acqua", "Immaturi" e "Volevo fare la rockstar ", assente da oltre un mese dai social.
"Non scrivo mai nulla, non sono mai stato in grado di farlo o forse ne ho sempre avuto paura. Ecco, quella paura, come tutte le altre (avevo una paura fottuta degli aghi e delle punture, per esempio), è sparita da un momento all'altro. Anche perché i pensieri sono ben altri. È un mese che convivo con questa cosa, non molti lo sapevano, ora forse per alleggerirmi un po' io, lo sto scrivendo qui. Almeno se si sa è perché l'ho detto io. È un mese e passa che son sparito dai social, penso sarà così per un po' e un motivo c'era, c'è. Questo post è per me. Perché nel caso avessi momenti di down so dove andare a guardare" dice Manera.
Nel post Manera mostra coraggio: "La battaglia è da combattere e si combatte!" e aggiunge: "Il karma, il destino o in qualsiasi modo vogliate chiamarlo è una cosa davvero strana: l'anno scorso ho girato il mio primo film da protagonista su questo argomento. Ho vissuto le stesse cose che sto vivendo ora ma per finta, clamoroso. Ho finito di girare un mese fa una serie con questo nemico dentro. Chissà come ho fatto. Non vi preoccupate, o almeno fatelo il giusto, io non mi arrendo, mai".
Riccardo Maria Manera, l'attore di 'Volevo essere una rockstar': "Ho una lesione di tipo tumorale nella testa". Il giovane attore affida a Instagram il messaggio sulle sue condizioni di salute. La Repubblica il 15 Luglio 2022.
Riccardo Maria Manera, protagonista della serie Rai Volevo essere una rockstar, scrive su Instagram: "Ho una lesione di tipo tumorale nella testa" e posta la foto in ospedale dove gli è stato fatta una biopsia. "Non scrivo mai nulla, non sono mai stato in grado di farlo o forse ne ho sempre avuto paura. Ecco, quella paura, come tutte le altre (avevo una paura fottuta degli aghi e delle punture), è sparita da un momento all’altro. Anche perché i pensieri sono ben altri". Inizia così il messaggio con cui Riccardo Maria Manera ha spiegato il motivo di un'assenza social. "È un mese che convivo con questa cosa, non molti lo sapevano, ora forse per alleggerirmi un po’ io, lo sto scrivendo qui. Almeno se si sa è perché l’ho detto io". E aggiunge: "Un motivo c’era, c’è. Stamattina mi han fatto una biopsia, chissà che cos’ho. Mi han detto una lesione di tipo tumorale inside my head, ma non si sa ancora di che tipo e gravità. La prassi vuole che io aspetti una ventina di giorni e li aspetterò".
Ventisette anni, genovese, l'attore nella serie interpreta Eros, il fratello della protagonista Olivia (Valentina Bellè) che nella seconda stagione vive la sua tormentata storia d'amore con il fidanzato (Francesco Di Raimondo). Prima di questa esperienza Manera aveva partecipato ad alcuni film come La vita bella, Arrivano i prof, le fiction Vivi e lascia vivere, Il silenzio dell'acqua, ma è stata la serie Rai a dargli popolarità.
Candida Morvillo per corriere.it il 9 aprile 2022.
Il regista e sceneggiatore si racconta: iniziai reggendo il parasole a Catherine Deneuve. Porto al cinema storie di persone normali che nel quotidiano fanno cose orribili. Il suo ultimo film si intitola «Corro da te», con Pierfrancesco Favino e Miriam Leone
Alla fine, Riccardo Milani mi dirà: «Faccio commedie per disperazione». Da dieci anni, sbanca i botteghini con film di culto, tipo Benvenuto presidente o Come un gatto in tangenziale e ora con Corro da te . Molti, scritti con la moglie Paola Cortellesi. E fa serie tv irriverenti e divertenti, campioni di ascolto come Tutti pazzi per amore. Cominciò da assistente volontario di Mario Monicelli e, come lui, sa far ridere di cose amare.
«Fare commedia per disperazione» non è un controsenso?
«Racconto l’Italia che non mi piace, con passione però, perché amo questo Paese. Al cinema amo sentire la gente ridere e quando si riesce a far ridere e anche a far alzare un po’ la testa si fa un’operazione importante. Da regista non ho mai avuto il piacere di appartenere a una cerchia ristretta di cineasti e intellettuali. Preferisco rivolgermi a un pubblico largo, raccontare a chi non la pensa come me, magari storie di persone normali che nel quotidiano fanno cose orribili».
Cose orribili di che tipo?
«In auto, ti fanno i fari per avvisare che c’è l’autovelox: segno di un Paese che si compatta contro la legge, come se c’è da evadere le tasse, saltare file, non denunciare le prepotenze».
Lei invece denuncia, interviene?
«Cerco di parlare con le persone, se si fermano, se non tirano fuori la spranga. Ho visto uno aprire il portabagagli, prendere una mazza da baseball e frantumare un parabrezza: è una scena vera, messa in Un gatto in tangenziale».
Nella disperazione, è ottimista o pessimista?
«Ho sempre la speranza che il Paese sia migliore di quello che racconto e a volte sono troppo ottimista. Ho avuto scontri con gli sceneggiatori. Per Scusate se esisto!, in cui Paola è un’architetta che si finge uomo per poter lavorare, dissi: non è che raccontiamo un Paese che non c’è più? Furio Andreotti, Giulia Calenda e Paola hanno dovuto convincermi, cifre alla mano, della disparità delle donne nel mondo del lavoro».
Dunque, il macho predatore Pierfrancesco Favino in «Corro da te» esiste ancora?
«Io quelli come lui non li frequento, il dubbio l’avevo. Poi, guardi le violenze subite dalle donne a Capodanno a Milano, vedi il branco fatto da giovani e capisci che il cinquantenne del film non è anacronistico».
Come nel film, è l’amore il motore del cambiamento?
«Favino conosce Miriam Leone, una ragazza in sedia a rotelle, che sa fare bene tante cose pur godendo di metà della sua condizione, e scatta l’ammirazione: per questo s’innamora».
Dentro c’è l’ultima interpretazione di Piera Degli Esposti, mancata l’agosto scorso.
«Insieme abbiamo lavorato tanto. Le feci ballare Beyonce in Tutti pazzi per amore. Ci volevamo bene, veniva sempre a Pescasseroli da Dacia Maraini, anche io ho casa lì. Le portavo le zucchine dell’orto, lei raccontava barzellette meravigliose. Negli ultimi tempi, aveva due tubicini al naso per l’ossigeno e mi fa: secondo te, posso fare l’attrice così? Le risposi: sei Piera degli Esposti, puoi fare quello che vuoi. Scrissi per lei, in Corro da te , il ruolo della nonna cinica che mette al muro Favino».
Si sta commuovendo.
«Le ho visto fare una cosa straordinaria. Poteva recitare solo seduta, coi suoi tubicini, ma c’è una scena in cui tutti ballano e, quando ho dato motore, lei all’improvviso si è alzata e ha ballato. Questo è avere mestiere e amare quel mestiere».
A lei come arriva la passione per il mestiere?
«Sono nato a Roma, in via Segesta, sopra il Cinema Airone. A due anni, mi affacciavo a una grata pericolosissima per sentire le voci dei film. Captavo dialoghi, urla di indiani e cowboy. I miei avevano lavori modesti, ma vicino a casa c’era la Scalera Film. Papà iniziò a fare la comparsa e a bazzicare l’ambiente come autista e tuttofare, poi diventò ispettore di produzione. Conobbe Alberto Sordi, portò a casa i dentoni finti di un suo film e portò me bambino a casa sua».
Il suo primo set?
«Lessi che Carlo Vanzina aveva iniziato come assistente volontario: pur essendo figlio del grande Steno, non era partito come aiuto regista. Allora andai a bussare al camper di Monicelli e mi proposi come assistente volontario. Dopo mesi, mi prese per Speriamo che sia femmina . Andai, lui non dava indicazioni su nulla, dovevi renderti utile in qualunque modo, portando il caffè, fermando il traffico, aiutando macchinisti, elettricisti».
Primo giorno di lavoro non pagato?
«Ressi il parasole sulla testa di Catherine Deneuve, era estate, mi squagliai perché faceva tanto caldo e perché stavo vicino a Deneuve. Avevo una visione del cinema artistica, teorica, invece sul set ho imparato che il cinema è artigianato. Andavo a casa di Suso Cecchi d’Amico a prendere le correzioni della sceneggiatura: per me era una divinità, ma lei, Monicelli, Piero De Bernardi, tutti grandissimi, stavano lì coi foglietti a dire “sta’ cosa funziona? Ma fa ridere? Fa ridere?”. La loro preoccupazione era questa».
Fra i suoi film, ce n’è soltanto uno drammatico, «Piano, solo», perché?
«Perché è la storia vera del tormento di un ragazzo, Luca Varchi, un musicista importante morto suicida. In adolescenza la fragilità è padrona, io me ne portavo dietro un po’. Verso i 16, 17 anni, frequentavo un centro sociale, aiutavamo le periferie. Uno di noi era morto, fu un dolore che faceva pensare anche al suicidio. Il male di vivere ci ha attraversato molto in quegli anni. Un contributo doloroso è stato il terrorismo».
Quanto l’ha vissuto da vicino?
«Ero attivo politicamente, siamo intorno al ‘76 o ’77, anni in cui, a furia di andare a sinistra, il purismo portava distorsioni pesanti. La strada del dialogo era la meno percorsa e forse la più utile. Mi addolorava vedere quanta responsabilità ci si è presi a non combattere la violenza dall’interno, a non dire a chi uccideva che diventava un assassino. È una stagione che ricordo con grande senso di inadeguatezza».
Quando, per esempio, avrebbe dovuto parlare e non l’ha fatto?
«A un corteo, alcuni si staccarono per spaccare le vetrine di un’armeria e prendere i fucili. Ero piccolo ed era tutto più grande di me. Ma una cosa spero di non aver perso: la spinta a capire quali siano le cose giuste e a non girare la testa».
Il suo primo grande successo è «Benvenuto presidente» con Claudio Bisio, dove riesce a far ridere della malapolitica.
«Anche lì, ero incerto sul tema: c’era già il soggetto e mi faceva soffrire che fosse centrato sull’idea che il Parlamento fosse una fogna e che chiunque sarebbe stato meglio di un politico, anche un pescatore eletto presidente della Repubblica perché tutti votano per sfregio Giuseppe Garibaldi e un Giuseppe Garibaldi esiste davvero».
Era il 2013, l’anno in cui i 5 Stelle entrano in Parlamento per aprirlo «come una scatoletta di tonno».
«Era lo stesso Parlamento nato dalla lotta partigiana, per il quale persone avevano combattuto ed erano morte. Ma è importante il discorso finale di Claudio Bisio, quando si rivolge a chi accusa i politici, ma poi evade le tasse, paga in nero...».
Prossimi film?
«Ho finito di girare un remake dal francese Triomphe, protagonista Antonio Albanese, e sto ultimando un docufilm sul gigante Gigi Riva, ci ho messo vent’anni a farmi dire di sì. Mi appassiona la storia di un uomo che ha detto no alle leggi del mercato. Lo volevano la Juve, l’Inter, tutti, e lui ha sempre giocato nel Cagliari».
Il gatto in tangenziale come nasce?
«Il primo fidanzatino di una delle tre mie figlie era proprio di Bastogi e io ho reagito come reagirà Antonio Albanese nel film: ho seguito l’autobus su cui saliva mia figlia, sono andato a conoscere la famiglia. Anche loro si chiedevano che ci facesse lì la figlia di un regista. Poi, ho usata la casa del ragazzo come set del film».
Che le periferie le entrassero in casa doveva capitare proprio a lei che aveva lottato per le periferie?
«Quel film è una confessione di ipocrisia. Come padre, ho messo in campo il peggio di me».
Ha due figlie grandi e una, di nove anni, avuta con Paola Cortellesi. Che padre è?
«Non lo so, uno che cerca di dare l’esempio».
Il primo incontro con Paola?
«Per Il posto dell’anima volevo una protagonista forte, che parte dal paesino per cercare lavoro. Era un film più drammatico di altri e mi serviva uno sguardo anche malinconico. L’avevo vista fare cose divertenti in tv, ma sentivo in lei qualcosa di amaro. L’ho voluta incontrare».
Sua moglie la racconta in modo diverso.
«In effetti, la vidi a casa di Gianni Morandi, faceva le prove di uno spettacolo in giardino. Aveva i sandali, arrivò sudata, coi piedi sporchi di terra. Finge di arrabbiarsi se lo racconto».
Quindi, quando vi guardate con occhi nuovi?
«Mesi dopo il set. Capendo che ci accomunavano lo stesso distacco per le cose, lo stesso amore per la commedia un po’ amara e il fatto di non uscire mai, non essere mondani. Ci siamo trovati su cose semplici».
Quasi vent’anni insieme e sette film. Paola ha detto: «Quando scriviamo una sceneggiatura, siamo a un passo dal divorzio perché litighiamo pure sulle virgole».
«Un po’ è vero. Gli altri due sceneggiatori dicono che sembriamo Casa Vianello».
E la vostra vita di cose semplici com’è fatta?
«Stiamo molto a casa, andiamo molto al cinema e a Pescasseroli. Io sto bene nella natura. Mi piace cercare di avvistare orsi, lupi, cervi».
Scorgere un orso nel bosco è il suo momento perfetto?
«Lo è anche vedere gli esseri umani felici, quando hanno una loro identità e non sono solo schiacciati da quella di consumatori. Questo mi dà un’idea di libertà».
Riccardo Scamarcio compie 43 anni: dalla produzione di olio alle storie d’amore. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2022.
L’attore è tra i più amati nel panorama italiano e internazionale. Ha recitato anche con Bradley Cooper per il quale ha cucinato una cacio e pepe
Gli esordi
Riccardo Scamarcio compie il 13 novembre 43 anni: è uno degli attori italiani, tra i più giovani, che vanta un palma res di film e partecipazioni anche internazionali. Scamarcio ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ma non ha mai conseguire il diploma. Debutta nel mondo dello spettacolo nel 2001 con la miniserie TV “Ama il tuo nemico 2” ma nel 2004 è protagonista del film Tre metri sopra il cielo, tratto dal romanzo omonimo di Federico Moccia e diretto da Luca Lucini. L’interpretazione di Step nel film gli fa guadagnare molta notorietà.
Con Bradley Cooper
Ha cucinato una cacio e pepe per Bradley Cooper: nel film "Il sapore del successo", il giovane attore italiano, che interpretava la parte di un cuoco, ha davvero cucinato per l'attore statunitense,
Vita privata
Riccardo Scamarcio, dopo una lunga storia con Valeria Golino, ha iniziato a frequentare prima Angharad Wood, che nel 2020 ha dato alla luce Emily, la loro figlia. E poi Benedetta Porcaroli, che poi ha lasciato per tornare con Angharad Wood
L’olio
Scamarcio, nato a Trani, ha un forte legame con la sua terra: in Puglia si dedica alla produzione di vini biologici e olio
Doppiatore
È anche un doppiatore: ha dato la voce a Dag, protagonista principale del film di animazione "I primitivi" uscito nel 2018.
Cravatte
Quando è impegnato su un set, Scamarcio ha una passione smodata per i dettagli estetici. La moda è arte e un’eccellenza italiana e, dal suo punto di vista, i costumi fanno l’attore e il personaggio. Un’attenzione smodata per ogni dettaglio, come ad esempio le cravatte, anche se poi ammette di non farne uso nella vita reale.
Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.
«Nessuno nella mia famiglia ha fatto l'agricoltore, per me è una scelta di vita, mi piace definirmi zappattore . Produco vino e olio biologici, ormai la mia è una piccolissima realtà consolidata. È anche un modo per capire dove va il mondo: se vuoi fare la rivoluzione devi partire dalla terra».
Non stupisce che Riccardo Scamarcio abbia accettato di buon grado di interpretare Elio De Angelis, in Alla vita, diretto da Stephane Freiss con Lou De Laage, prodotto da Ba.Be e Indiana, in sala dal 16 giugno con Vision. Un gallerista che inizia a occuparsi dell'azienda agricola dopo la morte del padre. «Ci unisce il legame con la terra. Nel suo caso, un rapporto quotidiano. Ha ereditato la proprietà di famiglia e si trova a mandarla avanti tenendo fede al suo senso dell'onore. Ha questo cliente, il signor Zelnik, capofamiglia di una famiglia ebrea ultra-ortodossa di Aix-Le-Bains che ogni estate passa un periodo da loro e per cui produce cedri kosher».
Elio è andato via e tornato. Anche lei da ragazzo è partito, andò a Roma per studiare al Centro sperimentale.
«Non avevo come lui bisogno di rompere, c'era in me un po' di ribellione da ragazzo ma, se avessi potuto, avrei fatto l'attore già a Andria. Ora sto bene, vivo tra Roma e Puglia».
Cosa la spinge a accettare un ruolo?
«Sono scelte con variabili senza un obiettivo preciso. Mi interessano gli interlocutori, in questo caso i produttori che mi hanno presentato Stephan. Certo, mi è piaciuto il copione. È un film che si muove in punta di piedi su cose delicate: rapporti familiari, l'incomunicabilità e anche impossibilità di Esther, il personaggio di Lou, di scegliere la propria vita».
E il dogmatismo religioso.
«Ne parla in modo intelligente. Sono molto osservanti di regole oggi considerate obsolete. Ma racconta anche il senso di altre, come quelle della cucina kosher che può sembrare follia ma risponde a una logica. Il film si muove su un piano di critica costruttiva a dinamiche punitive ma con attenzione ai valori della cultura di un popolo».
Parla anche di paternità. È cambiato il suo modo di vederla da quando è nata sua figlia?
«Sono diventato padre al cinema già da diversi anni, per esempio nel film bellissimo La prima luce di Vincenzo Marra. Diciamo che mi sono allenato».
Che padre è?
«Un po' instupidito, mi squaglio. La vita ci insegna che il tempo è il bene più prezioso, con il passare degli anni capisci perché tuo padre ti diceva certe cose».
Da produttore come sceglie i progetti?
«Provo a fare dei film che abbiano un imprinting un po' politico, che mettano in luce aspetti culturali della nostra penisola. Che facciano sognare e emozionare e lancino riflessioni. Il cinema per me è luogo di evasione e libertà».
Ha prodotto, oltre che interpretato con Benedetta Porcaroli, «L'ombra del giorno» di Piccioni.
«Un film classico, ne sono orgoglioso come attore e produttore. L'ho preso in corso d'opera. Ambientato tra il 1938 e il 1940, tra leggi razziali e l'escalation verso la Seconda guerra mondiale, mentre con superficialità molti pensavano fossero solo scaramucce. Vedendo la guerra ora, penso alla lungimiranza di Piccioni di riportare l'attenzione su un periodo cruciale».
Attore, sceneggiatore, produttore. E regista?
«No. Ce ne sono tanti, non ne serve un altro. Ho pensato che fosse meglio imparare la lingua della burocrazia per aiutare altri a girare».
Per esempio Mordini. Ora è sul set di «2 win».
«Io e Stefano ci conosciamo bene, c'è sintonia, grande fiducia. Fare film è impresa difficile. Ora si parla di algoritmi, è sbagliato: servono persone che condividono un'avventura e un sogno. Giriamo in inglese, è basato sui Mondiali di rally del 1983, io sono Cesare Florio e nel cast c'è Daniel Brühl, è Roland Gumpert dell'Audi».
Quando vedremo «L'ombra di Caravaggio» di Placido?
«Non si sa ancora. Una grande storia. Hanno cercato di osteggiare un artista con un talento pazzesco, un innovatore per tecniche e capacità di comunicare. Ha fatto diventare santi e madonne le persone normali, straccioni, prostitute. Lo vedo come Elvis Presley, Freddy Mercury: una star che non ha paura di esprimere ciò che pensa. Un talento così assoluto che pure i suoi detrattori se ne innamorano».
Vent' anni fa il suo esordio con «La meglio gioventù».
«Un'esperienza magnifica, molto formativa, a proposito di rapporti umani. Mi ha dato l'imprinting. Ricordo il primo giorno, il mio primo su un set cinematografico, in Toscana con Lo Cascio, Gifuni, io ancora a scuola. Alla fine mi sono trovato a giocare a pallone con Marco Tullio Giordana e gli attori. Poi grigliata. Ho detto: questo è il paradiso».
I due nel film ‘L’ombra del giorno’ sono innamorati, come nella vita reale. Chi è la fidanzata di Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli e l’amore scattato sul set: “È bellissimo, ma sono fatti nostri”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.
Per settimane si è chiacchierato sulle cronache rosa di una loro possibile unione e alla fine era tutto vero. Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli sono fidanzati. I due attori lo hanno dichiarato apertamente in una lunga intervista a D di Repubblica in cui hanno posato per le foto insieme per al prima volta. “Non voglio commentare la legittima curiosità verso qualcosa di bellissimo come l’amore. E il motivo è una questione di principio, cioè che sono fatti nostri”, ha detto Scamarcio che ha sempre preferito mantenere il riserbo sulle sue storie d’amore.
I due attori si sono conosciuti nel 2020, sul set delle riprese di “La scuola cattolica” dove nel cast c’era anche Valeria Golino, l’ex di Riccardo. In realtà da quello che raccontano le cronache la relazione sarebbe cominciata sul set di “L’ombra del giorno”, il film in uscita nelle sale il 24 febbraio. Nel film i due sono innamorati, proprio come nella vita reale.
Per vivere la loro storia d’amore i due hanno dovuto lasciare i rispettivi partner. Scamarcio si è separato da Angharad Wood dalla quale è nata Emily, mentre Benedetta ha dovuto dire addio al regista Michele Alhaiquee. Scamarcio inverte la rotta: dopo le relazioni con due donne più grandi di lui, ora sceglie Benedetta di 18 anni più giovane. E anche per Porcaroli è stato lo stesso: era notoriamente fidanzata con Michele Alhaique, attore romano 18 anni in più di lei, esattamente come Scamarcio.
Scamarcio ha messo fine al matrimonio con Angharad Wood, manager e avvocatessa di origini londinesi, è nata nel 1974 e ha 6 anni in più di Scamarcio. Da lei ha avuto la sua prima figlia, Emily, durante l’estate 2020.
L’attore si è lasciato alle spalle la relazione con Valeria Golino durata 12 anni. Scamarcio e Golino non hanno mai parlato pubblicamente dei motivi della loro storia ma dalle successive interviste è trapelata una certa amarezza. “Una fortissima delusione sentimentale, la più grande della mia vita. D’altra parte più c’è amore e più si soffre. Tutti diamo il peggio di noi stessi in certe circostanze”, aveva detto l’attrice in un’intervista a F.
Classe 1998, Benedetta Porcaroli è un’attrice italiana diventata famosa grazie al ruolo dell’adolescente Chiara nella serie tv Netflix Baby. L’esordio televisivo è però avvenuto nel 2015, nella fiction Rai Tutto può succedere. Da allora la carriera di Benedetta ha spiccato il volo e l’attrice nata e cresciuta a Roma si è data da fare tra cinema e televisione. Ha recitato in numerosi film quali: Perfetti sconosciuti, Sconnessi, Quanto Basta, Una vita spericolata, Tutte le mie notti.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Ricky Gianco: «Mi feci spiegare da Lennon come scriveva le canzoni. Tenco? Il suo non fu suicidio». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2022.
Il cantante e compositore, 79 anni: le barzellette con Jannacci prima che morisse. I rapporti con Mina, Gino Paoli, Gaber e Celentano
«L’errore più grande della mia vita? Aver rifiutato di fare da supporter ai Beatles in Italia». Parola di Ricky Gianco. «Correva l’anno 1964. L’impresario italiano Leo Wachter mi aveva chiamato per suonare durante il loro tour. Così fu organizzato un incontro fra me e i Beatles all’Astoria Theatre. Vidi lo spettacolo e decisi che non avrei fatto il supporter. Decisione molto stupida. Lo spettacolo era troppo bello. Una regia alla Hitchcock. Una tensione espressiva inimitabile. Fra il primo e il secondo tempo a sipario chiuso riapparivano travestiti con abiti medioevali. Si lasciavano desiderare. Poi atterravano da un elicottero di legno, buttavano giù una scaletta. Sbarcavano prima il capitano, poi il pilota, lo steward, le hostess. Alla fine loro, che rientravano vestiti da Beatles... Io piangevo dall’emozione. Sono stato stupido, tremendamente stupido. Durante l’incontro — ricorda Gianco — chiesi a Lennon se lui e Paul componevano assieme o se accadeva che uno scrivesse da solo, salvo confrontarsi in tempi successivi. Lennon, che era arguto, mi disse: “No, sempre assieme. Però può succedere che io scriva un pezzo qui a Abbey Road mentre Paul è in bagno... (pausa)... a Liverpool”. Un modo elegante per dire che creavano non sempre assieme e che erano simbiotici fino a un certo punto».
Gianco, 79 anni, icona del rock italiano.
«No, no. Invecchio e basta, ma non sono un’icona. Ho scritto e collaborato con tanti colleghi ma se mi guardo allo specchio non vedo nessuna icona. Però faccio parte della storia della musica italiana . Non mi sono mai preso troppo sul serio. Mai prigioniero delle luci della ribalta».
A che età ha cominciato a comporre?
«A 17 anni. A 11 anni ho cantato in pubblico. A Varazze vinsi un concorso per dilettanti. Dirigeva Don Marino Barreto, un grande. A 16 anni la prima incisione discografica».
Lei è nato a Lodi.
«Sì, per caso. La mamma era sfollata a Casalpusterlengo da Milano bombardata. Così andò all’ospedale di Lodi. Abito a Milano quasi accanto alla sede del Corriere. Sono sposato dal ‘77 con Gabriella, detta Gabi. Una delle mie fortune. Lavorava da Lorenz in via Monte Napoleone».
Celentano?
«È il terzo evento della mia vita. A 16 anni i primi dischi, a 17 Gianfranco Reverberi scopre il sottoscritto Ricky Sanna grazie alla canzone “Ciao ti dirò”. E mi presenta alla Ricordi. Li conosco artisti chiamati “genovesi” sebbene non tutti fossero di Genova. Bindi, Paoli e Gaber erano i più conosciuti. Poi c’eravamo noi, gli sfigati, ovvero Tenco, Endrigo, Jannacci ed io. Io avevo 17 anni ed ero la mascotte del gruppo. A 18 anni l’incontro con Adriano Celentano. Mi sente cantare all’Alcione (o allo Smeraldo). “Oe tu sei forte mi dice... Come ti chiami? Ricky? Peccato che non hai la erre”. Già, era un grave problema. Non mettevo la lingua correttamente fra i denti. Ne parlai con mia madre che mi mandò a lezione di dizione. E nel giro di qualche mese, mettendoci molto impegno, la erre riapparve. Tempo dopo incontro Celentano che mi dice subito “ma tu sei quello che non aveva la erre, come hai fatto?”. E io mentii. “Ho un papà ricco e me l’ha comprata lui”. A questo punto Celentano mi parlò del Clan e il primo disco fu il mio Vedrai che passerà e Non c’è pietà (cover di Unchain my heart portata al successo da Ray Charles nel ‘61) che inaugurò questa etichetta discografica anomala».
I suoi rapporti con i colleghi?
«Con Paoli grande intesa fin dall’inizio. Era il mio fratello maggiore e lo è ancora. Io ero un fanatico del rock and roll ma anche di tutto il resto, a cominciare dall’opera lirica. La radio non trasmetteva rock e dischi non venivano importati. Così alla sera andavo al Castello Sforzesco con una radiolina portatile e ascoltavo in onde medie Radio Lussemburgo. Io le canzoni le ho imparate così, senza uno straccio di spartito o di testo. Avrei voluto cantare in duetto e con un testo italiano un brano degli Everly Brothers. Chiesi a Gino di scrivermi una versione italiana. Ma lui faceva orecchie da mercante. Finché non scoprì che il brano originale era francese, Je t’appartiens di Gilbert Becaud. A questo punto l’incredulo del rock cedette. Il titolo italiano era “Come un bambino”. E la cantammo insieme ma per ragioni contrattuali Paoli non figurava. Era firmato “Ricky e un altro”. In quel gruppo l’unico che amava il rock oltre a me era Luigi Tenco».
Che rapporti aveva con lui?
«Lui non era quello che appariva. Le descrizioni che lo riguardavano erano spesso fuorvianti. Lui non si vendeva, era simpatico, allegro. Non era un introverso... giocava forse a fare il James Dean».
La sua tragica fine?
«Non credo al suicidio di Tenco... Forse un gioco strano. Che spiegherebbe il messaggio. La calligrafia è sua ma il testo è troppo stupido. E lui non era stupido».
Torniamo all’apprendistato su Radio Luxembourg.
«Quando ascoltai Stand by me rimasi folgorato. Poi scoprii che in un negozio di Lugano si trovavano i dischi originali importati dall’America. Così lo comprai e registrai una versione italiana. Celentano la sentì e disse: “La registro io e venderò almeno un milione di copie”. Già e io? “Tu farai il seguito. Se la gente vuol sapere come va a finire la storia dovrà comprare anche il disco cantato da te”. Insomma Pregherò e Tu vedrai diventano due successi. Primo esempio di disco a puntate. Adriano era machiavellico. Come un film: primo tempo Pregherò, secondo tempo Tu vedrai».
Jannacci?
«I primi dischi per la Ricordi li ho fatti con lui che era un bravissimo pianista. A un certo punto mettemmo su una orchestrina. Firmammo un contratto di un mese alla Villa Romana di Alassio. Io alla chitarra, Enzo al piano e altri fra cui uno zio di Fabio Concato. Jannacci era imprevedibile anche per se stesso. In scena scattavano dei meccanismi incredibili. Lui era formidabile. Poco prima che morisse ci siamo raccontati delle barzellette. Io non capivo le sue perché lui mangiava le parole. Sono contento che gli abbiano dedicato un rifugio per i senzatetto».
E Gaber?
«L’ho frequentato poco, aveva già una sua vita e anche famiglia. Tutti ci trovavamo in Galleria del Corso. Lui no. Mi venne presentato in una sala di registrazione nella zona di Piazza Piola. Gentile. Dopo pochi minuti dalla presentazione duettiamo con Ready Teddy, un classico cantato da Little Richard. Allora Giorgio era ancora un rockettaro. Poi si è spostato al pop con brani come Non arrossire. Non aveva ancora imboccato la strada teatrale con Luporini. A proposito di rock: quando scrissi Sei rimasta sola pensavo a Fats Domino, a un ballabile invece è diventata una specie di coro degli alpini. Niente da fare. Noi abbiamo il melodramma nel sangue. Infatti quando l’ho registrata a Los Angeles con i Toto è diventato uno slow rock».
Bindi?
«L’ho conosciuto che avevo 17 anni. Sempre gentile. Arrivava da Genova su un’auto guidata da un autista che lui presentava come un cugino. Una volta accompagnai Bindi in una gioielleria. Comperò un anello e spese quasi 2 milioni del ‘63. Tempo dopo notai che l’autista aveva quell’anello al dito. Raccontai l’episodio a mia madre. Con freddezza disse: «Non ti interessare della cosa, non sono affari tuoi. Pensa ad altro. La mamma aveva capito. Io no”».
Com’era il Cantagiro?
«Bella esperienza. Celentano nella tappa di Siena finse una caduta e si fece sostituire da me. E io, a sorpresa, vinsi la tappa. Ci fu una specie di rivolta di Teddy Reno, Claudio Villa e Luciano Tajoli. Sconfitti da un pivellino».
È ancora in contatto con Celentano?
«Sono riuscito a sentirlo un paio di anni fa... ma è difficile. Lui e la Mori vivono chiusi anche per gli amici storici».
Come vive il tempo che passa?
«I 100 metri non li fai più. Siamo in mezzo a un cambiamento drammatico, troppo veloce. Dalle candele alla lampadina, dai piccioni viaggiatori al telefono. È mancato il tempo per assimilare. Il mondo ora non mi piace e non mi interessa perché comanda l’economia. Io ho due figli acquisiti e cinque nipoti. Sono contento che, diversamente da loro, non vedrò certe cose».
È mai andato in crisi?
«Alla fine degli anni Sessanta non volevo più scrivere. La storia aveva messo troppa carne al fuoco, c’erano Bob Dylan, le rivolte in California, il Vietnam mentre io componevo canzoni d’amore con Gian Pieretti e mi permettevo di spaziare nel rock jazz col gruppo Albero Motore. Soprattutto, davo la voce alla versione italiana di Braccio di ferro. Poi è nata l’etichetta l’Ultima spiaggia. Ho ritrovato la voglia di scrivere e cantare e ho avuto la fortuna di conoscere Gianfranco Manfredi».
Vi beccaste una denuncia per vilipendio alla religione nello spettacolo «1992: Zombie di tutto il mondo unitevi a Nervi».
«No. Fummo censurati a un festival di Democrazia Proletaria. Da loro non me lo sarei mai aspettato».
Rapporti con Mina?
«Mina è un genio musicale. Non è solo brava di voce. Intuisce subito le possibilità di un brano. Avevo scritto una canzone con Manfredi intitolata Io non ci credo. Nelle sue mani è diventata Un cucchiaino di zucchero nel thè. Senza inciso. Capisce a pelle che le regole ogni tanto vanno violate».
Un consiglio ai giovani?
«Studiarsi bene la storia del secolo scorso. Viviamo una quasi democrazia. Ma questa non ci è stata regalata. I nostri nonni non vivevano liberi come noi oggi. È molto facile perdere la democrazia. E poi consiglio loro di fare quel che desiderano. Anche se non rende, dà piacere».
Ricky Gianco, le chiacchiere al bar di Brera: «Luigi Tenco era fantastico. Celentano un accentratore, ma geniale». Paolo Robaudi su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022
Una vita per la musica: «Ho iniziato a cantare che avevo undici anni, a sedici ho fatto le prime registrazioni». L’incontro con i Beatles: «Paul era estroverso e simpatico, John taciturno e introverso»
Ricky Gianco a Brera è di casa. Seduto al tavolino di un bar di via San Marco, quasi di fronte a dove c’era lo storico locale Macondo, è un pozzo senza fondo di memorie. Salta da un aneddoto all’altro, si confessa amabilmente, e intanto saluta i conoscenti a passeggio con il cane. «La politica non esiste più, una volta questa città era piena di manifesti di comizi pubblici, oggi c’è solo la televisione. Per esempio, qui in via Castelfidardo c’è un barettino frequentato da studenti del Parini, sono ragazzi simpatici, alla sera tutti parlano ma nessuno ascolta».
«Ho iniziato a cantare che avevo undici anni - racconta -. Ascoltavo Radio Luxembourg, così ho conosciuto il rock and roll, quando qui da noi nessuno lo conosceva. Mi arricchivo di suoni ascoltando questa radio. A sedici anni ho fatto le prime registrazioni. Oggi è tutto un altro mondo, non si vendono più dischi. Allora era una ricerca continua per trovare un luogo dove suonare, noi volevamo solo suonare. Milano l’ho conosciuta che ero già un giovanotto. Cantine, scuole, appartamenti, qualsiasi spazio andava bene. All’epoca vivevo in zona via California, largo La Foppa. Suonavo con tre ragazzi che poi sono diventati i Dik Dik. In seguito poi c’è stato il periodo del Clan, con Celentano. Milano cresceva intorno a noi, ma non avevamo il tempo di rendercene conto, presi come eravamo dal fare musica».
Il legame con Milano è fortissimo: «Quando ho iniziato a viaggiare nel mondo, andando in America a registrare con i Toto, oppure viaggiando in India e in Nepal, mi sono reso conto di come le vie di Milano, come via Manzoni, via San Marco o anche una periferia, appartengano alla mia immaginazione. Come vere visioni. Dopo un po’ mi mancano».
L’altra città del cuore per Ricky Gianco è Genova: «Lì ho conosciuto Gaber, Paoli, Endrigo, Tenco, Jannacci. Tutti quanti eravamo prodotti da Nanni Ricordi. Erano i primi anni ‘60, ai tempi la domenica sera suonavo in un locale a Genova dove alcune volte veniva anche Tenco a farmi compagnia, Luigi era fantastico. Poi prendevo il treno delle cinque di mattina, per arrivare a Milano e andare a scuola. Perché i miei, in famiglia, volevano che prendessi il diploma. Tenco, mi ha insegnato a giocare “ai tocchi”, un vecchio gioco genovese, nel quale conta capire la psicologia dell’altro».
Dalla musica all’impegno politico: «A quel punto iniziai a suonare nei locali di Milano, come il “Pipes”, con Jannacci e Tenco e a produrre “I Quelli”, che saranno poi la PFM. Insomma erano begli anni. Ho iniziato scrivendo canzoni d’amore, la più famosa è stata “Pugni Chiusi”, cantata da Demetrio Stratos, quando faceva parte dei “Ribelli”. Erano gli anni ‘60, ad un certo punto iniziai frequentando locali con Endrigo e Tenco, loro erano più grandi e avevano già idee politiche precise: fu così che mi feci una certa cultura politica, in casa mia non se ne parlava. E poi erano gli anni di Bob Dylan, dei movimenti di Berkeley, del Vietnam, dei Beatles e di tante altre cose piene di nuove suggestioni».
La carriera procede: «Sono passato dal registrare i primi dischi su registratori a due piste a quelli a quattro con gli arrangiamenti di Jannacci». Ricky Gianco entra a far parte del Clan di Celentano: «Il primo artista attento a tutto. Anche i suoi vestiti, apparentemente incoerenti, erano studiati già allora nei particolari: un vero genio, accentratore, ma un genio».
Negli anni Sessanta l’incontro con i Beatles: «Paul era estroverso e simpatico, John taciturno e introverso». Poi con i Toto in America nel ’91 «Registrai con loro “È Rock & Roll”, un album che celebra la musica italiana degli anni ’50 e ‘60».
Tanti momenti per un’unica vita. «Mi chiedi perché oggi non ci sono più tutti questi talenti? È il consumo, la velocità, con cui tutto passa e va, non resta nulla. Io so per certo che tra cento anni ascolteranno i Beatles, come oggi si fa con Mozart. Oggi siamo tutti prigionieri in un mondo di password».
Barbara Costa per Dagospia il 28 agosto 2022.
“Ricky ha il caz*o perfetto per l’anale, adoro sentirlo tutto nelle mie viscere!”. E lo dice la pornostar "bianca" Gia Derza, e su un pene "nero", e non l’hanno social crocifissa, sicché… finalmente! Fine delle paturnie razziste!!! A quanto pare nel porno non è più tragedia, torto, sopruso, offesa, infilare un pene nero in un ano scuro all’interno ma non nero all’esterno, e chiamarlo interracial! Ma poi lo è mai stato??? Per caso la sigla IR, Interracial Porn, è stata bannata dai siti? Quando? A me non è parso…
Eppure un anno fa, ve lo ricordate, il casino scoppiato pure nel porno per le proteste di Black Lives Matter! Sarà per la delusione, sarà per il magna magna vergognoso in cui sono stati scoperti certi leader della protesta nera, fatto sta che attori e attrici afro del porno si erano accodati alla ribellione, sfogando – per lo più sui social – la loro ira per le ingiustizie che soffrivano.
Ci hanno guadagnato qualcosa? Nel porno sì. E in soldi. Infatti alcuni neri performer hanno fatto neri i loro agenti, sp*ttanando sui media e sui social, il loro fare paghe diverse – cioè inferiori – in base al colore della pelle. Sp*ttanamento riuscito alla grande, paghe diverse abolite, e allora, e oggi, nel porno, come se la passano, i non bianchi? Facciamocelo dire da Ricky Johnson, sogno proibito delle fruitrici porno e di ogni etnia e nazionalità.
Ricky Johnson, Best Maschio per le utenti Pornhub 2022. Ricky Johnson è, tra le altre cose, sotto contratto Brazzers, contratto a parecchi zeri, quindi Ricky, quando sono divampate le agitazioni nere, con chi sui social se l’è presa per primo? Ma con Brazzers, che postava sostegno al nero George Floyd ammazzato dal bianco poliziotto. Ricky ha twittato Brazzers quale ipocrita, e Brazzers… come ha reagito? Mica si è offeso, no, no, Brazzers vola alto, altissimo, e non ha cacciato via Ricky a pedate: la partnership va avanti, e progredisce.
Perché rinunciare a scene porno che vanno a gonfie vele? Su, amici come prima, scurdammoce 'o passato, in money we trust! Inoltre Ricky da un po’ ha lanciato il suo nuovo sito, si chiama "Ricky’s Room", ed è la stanza in cui le donne lui le dirige e se le sc*pa, davanti, e dietro, e di ogni colore questo c*lo sia. Ovviamente più le prende a 90 e più "Ricky’s Room" acchiappa views di occhi femminei a grappoli. Più Ricky le sbatte e ci gode e la fa urlare di onorevole soddisfazione, più le donne che guardano il porno questo porno se lo salvano tra i preferiti.
Ricky non rende l’atto romantico, lui lo rende cocente. Le donne lo guardano perché si immedesimano subito nella donna "amata" da Ricky. Sognano di essere lei, e si bagnano e si toccano. E vengono. È facile. E mooolto rilassante. I porno della "Ricky’s Room" sono girati "in notturna", a luci non assenti ma soffuse. Ogni spunto è volto a indurre le spettatrici a "spiare" quella stanza, a fantasticare di entrare in quel letto per esser loro le protagoniste di quel che accade. Per le appassionate, nella "Ricky’s Room" non mancano incontri a tre, e a quattro.
Donne fan del porno e di Ricky Johnson, preparate i fazzoletti, e stavolta non per rinfrescarvi tra le gambe: Ricky ha annunciato che tra due anni smetterà di fare il porno attore! Pessima notizia ne convengo, e spero si muovano petizioni online, raccolta firme e appelli e telefonate da governi e cancellerie internazionali e no, per fargli posticipare la penica pensione. Nel porno è solamente uno spreco ritirarsi a 32 anni!
Ricky e il suo pene di 26 cm sono in porno attività dal 2016: lui ha mollato l’università – studiava medicina, voleva diventare cardiochirurgo – per buttarsi anima e pene nel porno, e eguagliare i porno idoli che vedeva sul web, fin da adolescente, quando rubava la carta di credito di nonna per scaricarsi video porno e dare la colpa ai cugini grandi quando gli ammanchi sul conto venivano individuati.
Ma poi, cari genitori, siate fantasiosi sui codici parental control che inserite: il piccolo Ricky ci ha messo niente a capire che quello deciso in famiglia era il classico 1111, e sbloccarlo, e guardare di nascosto i canali XXX… e non vi lascio senza avervi detto questo: Ricky Johnson, agli inizi, nel porno, ha subìto razzismo, ma dai neri! Sissignori: lo "accusavano" di non essere abbastanza nero, di essere troppo chiaro, un "negro-bianco". Il razzismo dei neri contro i neri c’è, esiste, da sempre, in America, dove ha una sua storia che è una gran brutta storia, e non solo in America, e pure nel porno che altro non è che specchio sociale, tanto nel bene, tanto nel male.
Chiara Beretta per vanityfair.it l'8 settembre 2022.
Ricky Martin ha citato in giudizio per 20 milioni il nipote che lo aveva accusato di molestie sessuali e che aveva poi ritrattato completamente la sua versione in Tribunale. Il caso era dunque stato archiviato, ma per il cantante, 50 anni, la questione non è chiusa. Da qui la decisione di intentare la causa milionaria per estorsione, perseguimento doloso, abuso di diritti e danni.
I fatti risalgono all'estate. A fine giugno, il 21enne Dennis Yadiel Sanchez - figlio di Vanessa, sorella del cantante - aveva accusato il celebre zio di molestie e incesto. Nello specifico, Sanchez aveva dichiarato di avere avuto una relazione di 7 mesi con Martin, conclusasi due mesi prima delle pubbliche accuse. Stando alla sua versione, lo zio non avrebbe accettato la decisione di chiudere il rapporto e avrebbe iniziato a tormentarlo chiamandolo ripetutamente e cercando di incontrarlo.
Martin, che aveva ricevuto un ordine restrittivo con il divieto di contattare il nipote, aveva immediatamente respinto le accuse. Il suo avvocato Marty Singer, un nome molto noto a Hollywood e che già in passato sia era occupato di casi di molestie e abusi, aveva dichiarato che Ricky Martin non era mai stato coinvolto in nessuna relazione sessuale o romantica con il nipote e aveva fatto riferimento a «profonde sfide legate alla salute mentale» del 21enne. Pochi giorni dopo, in Tribunale, Sanchez aveva ritirato tutte le accuse e il caso era stato archiviato. «La verità prevale», aveva commentato su Instagram il cantante, che dal 2017 è sposato con Jwan Josef, artista siriano-svedese.
Come riportato da People, Ricky Martin ha intentato la causa contro il nipote mercoledì 7 settembre. Nella denuncia si legge che le accuse di Sanchez sarebbero nate dopo che il cantante non lo aveva seguito sui social media, non aveva risposto ai suoi numerosi messaggi e aveva «ignorato» le sue richieste di creare una pagina social per i figli di Martin. Il nipote, sempre stando a quanto riportato, avrebbe poi pubblicato il numero di telefono dello zio, costringendolo a cambiarlo.
Nella documentazione citata da People e altre fonti si legge che il nipote avrebbe «minacciato» Martin dicendo che, «a meno di non venire risarcito economicamente, continuerà la sua campagna per assassinare la sua reputazione e integrità, attraverso accuse false e maliziose». Ricky Martin a causa di questa vicenda avrebbe perso contratti multimilionari, dal momento che alcuni progetti artistici «presenti e futuri» sono stati ritirati.
Ricky Martin accusato di violenza domestica: rischia 50 anni di carcere. La difesa: «Tutto falso». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.
Il legale della star ha rigettato ogni addebito. A difendere l’artista anche il fratello: «Nostro nipote soffre di disturbi mentali».
«Sono accuse false e anche disgustose»: così Marty Singer, avvocato di Ricky Martin, ha etichettato le accuse mosse nei giorni scorsi dal nipote della star portoricana, Dennis Yadiel Sanchez. Il 21enne, figlio della sorellastra della star Vanessa, ha dichiarato di aver avuto una storia clandestina di sette mesi con Martin, terminata un paio di mesi fa e di aver subito violenze domestiche (perché il cantante, non avendo accettato la fine del legame, avrebbe cominciato ad aggirarsi attorno a casa del nipote e a riempirlo di telefonate e messaggi, portandolo a sporgere denuncia per stalking). «La persona che ha fatto questa affermazione sta attraversando profonde sfide legate alla salute mentale - ha dichiarato Singer a Variety e TMZ -. Ovviamente Ricky Martin non è mai stato coinvolto in alcun tipo di relazione sessuale o romantica con suo nipote. Speriamo tutti che quest’uomo riceva l’aiuto di cui ha urgente bisogno. Ma soprattutto non vediamo l’ora che un giudice possa esaminare i fatti e quindi archiviare il caso».
L’udienza - per il riesame dell’ordinanza restrittiva emessa nei confronti di Martin - si terrà il 21 luglio. Se si andrà a processo in caso di condanna la star rischia fino a 50 anni di reclusione (la pena massima prevista dalla legge portoricana per i reati di cui Martin è accusato). Nel frattempo anche il fratello della popstar, Eric, ha preso le sue difese: «Se qualcuno ha visto il mio caro nipote che manca da tempo dalla famiglia, questo è un messaggio per lui - ha detto in una diretta Facebook -. La sua famiglia lo ama, che abbia problemi mentali è un altro discorso, abbiamo combattuto per tutta la vita con questo problema. Sono stanco di tacere».
Ricky Martin rischia il carcere: "Relazione con il figlio di sua sorella". Novella Toloni il 10 Luglio 2022 su Il Giornale.
Dopo la denuncia per stalking e l'ordine di restrizione, i media sudamericani hanno ipotizzato che l'accusatore sia il nipote del cantante, 21 anni, con il quale Ricky avrebbe avuto una relazione segreta durata sette mesi.
Si complica la posizione di Ricky Martin dopo la denuncia per violenza domestica, che è stata sporta contro di lui da un ex fidanzato. L'identità dell'accusatore era stata tenuta segreta, ma secondo quanto riferito dai media sudamericani, l'ex del cantante portoricano sarebbe Dennis Yaddiel Sánchez Martin, cioè il figlio di Vanessa Martin, sorella della popstar. Se la notizia venisse confermata e la relazione tra zio e nipote anche, Martin rischierebbe fino a 50 anni di carcere per la relazione incestuosa.
A Porto Rico, dove Ricky Martin vive e dove è stata sporta la denuncia contro di lui per stalking e violenza domestica, la legge è molto severa nei casi di incesto e se la frequentazione venisse provata in tribunale - dove il prossimo 21 luglio si terrà la prima udienza - la posizione di Ricky Martin si complicherebbe notevolmente. La vicenda è cominciata una settimana fa quando un uomo si è presentato presso il tribunale di Dorado, cittadina portoricana, per denunciare il cantante. Lo sconosciuto ha dichiarato di avere avuto una relazione segreta - visto che il cantante ufficialmente è sposato - di circa sette mesi. La relazione sarebbe però naufragata, ma secondo l'accusatore l'artista non avrebbe accettato la fine della storia e lo avrebbe seguito, aspettato sotto casa e chiamato in più occasioni. Così l'ex ha deciso di denunciare, convincendo il giudice a emettere un ordine restrittivo nei confronti di Ricky Martin.
Telefonate e appostamenti sotto casa dell'ex. Ricky Martin accusato di violenza domestica
La popstar si è detta certa di potersi difendere davanti ai giudici "con la responsabilità che mi caratterizza", ma intanto i nuovi dettagli emersi sulla vicenda rendono il tutto ancora più delicato. I siti sudamericani si dicono certi che l'ex che lo ha denunciato sia il figlio di sua sorella, Dennis, anche se inizialmente si pensava che a denunciarlo fosse stato un parente del marito, Jwan Yosef. TvAtzeca.com riporta inoltre che il nipote di Martin, che ha 21 anni, avrebbe addirittura dichiarato che lo zio abusa di alcol e droga e avrebbe consumato rapporti sessuali con lui. Poche ore fa il fratello della popstar, Eric Martin, avrebbe involontariamente confermato la notizia, che sia proprio il nipote a avere denunciato Ricky Martin, ma ha difeso con forza il fratello. "Amo mio nipote nell'anima e la sua famiglia lo ama nell'anima, ma Dennis ha problemi mentali. Abbiamo lottato per tutta la vita con questo problema", ha scritto il fratello del cantante su Facebook. E ora c'è chi pensa che potrebbe essere proprio questa la linea difensiva della popstar portoricana.
Elisabetta Murina per fanpage.it il 21 luglio 2022
Il nipote di Ricky Martin, Dennis Yadiel Sanchez, ha ritirato le accuse nei confronti dello zio. A riportarlo il sito americano TMZ, al termine dell'udienza che si è svolta oggi, 21 luglio, presso il tribunale di Puerto Rico.
La star, che è apparsa in collegamento via Zoom, era stata accusata dal 21enne di aver avuto con lui una relazione sessuale durata circa 7 mesi e di averlo poi molestato. Secondo il sito americano, il giudice avrebbe respinto l'ordinanza restrittiva emessa nei confronti della star.
Il team legale del cantante ha fatto sapere a TMZ: "Proprio come avevamo previsto, l'ordine di protezione non è stato esteso dal tribunale".
Il post di Ricky Martin dopo l'udienza
Subito dopo l'udienza, nella quale il 21enne ha ritirato le accuse, Ricky Martin ha pubblicato un post su Instagram spiegando cosa è successo nell'aula del tribunale e scrivendo poi: "La verità ha prevalso".
Martin ha sempre negato di aver molestato Dennis Sanchez. "Come abbiamo anticipato, l'ordine restrittivo temporaneo non è stato esteso dalla Corte. L'accusatore ha confermato in tribunale di aver preso da solo la decisione di ritirare le accuse, senza nessuna influenza esterna o pressione", ha raccontato la star sui social.
Le accuse nei confronti di Rick Martin
La vicenda che ha coinvolto Ricky Martin è iniziata con le accuse mosse nei suoi confronti da Dennis Sanchez, figlio adottivo di Vanessa Martin, sorella dell'artista. Il 21enne sostiene di essere stato vittima di violenza domestica e di aver vissuto con lo zio una relazione (consensuale) durata 7 mesi e conclusasi ormai due anni fa.
Il giovane sostiene che Martin lo avrebbe ripetutamente chiamato, per poi tentare di incontrarlo presentandosi fuori dalla sua abitazione, non accettando la fine della loro relazione. Dennis avrebbe inoltre riferito il presunto consumo di stupefacenti, sostanze che avrebbero alterato l’umore dello zio rendendolo incline a perdere il controllo.
Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 20 maggio 2022.
«Il rock non è avere le chitarre distorte, ma è un modo di vivere». Ricky Portera ha sempre vissuto con questo spirito: un po’ folle e un po’ nomade, un po’ incazzato e un po’ gigione. Da vero romagnolo, il fascino femminile ha segnato le sue scelte, persino quelle politiche. Infatti, ci ha raccontato di aver «preso botte sia a sinistra che a destra» visto che si spostava da uno schieramento all’altro «in base a dove c’era una ragazza che mi piaceva».
Fedele al “partito della gnocca” direbbe Vasco Rossi, che lui conosce da quando era bambino: «Se è tornato a cantare è anche grazie a me, quando ha visto le belle donne che venivano nei nostri camerini».
Nel frattempo è diventato uno dei chitarristi più noti del panorama musicale italiano: a 11 anni accompagnava già una band negli strip club del modenese («vederle nude mi ha mandato all’ospedale») e a 12 era considerato un enfant prodige.
Poi la fondazione degli Stadio e la simbiosi umana e artistica con Lucio Dalla, con il quale ha lavorato 33 anni lasciando il segno nelle sue canzoni più famose, e ha poi continuato un po’ con tutti quelli che volevano impreziosire con un assolo unico i loro brani: da Finardi alla Bertè, da Ron a Venditti, fino a Freak Antoni, Marco Masini, Paola Turci, Alice e Anna Tatangelo. Senza dimenticare quattro album solisti di cui, però, «non si è accorto nessuno per varie sfighe».
Ci incontriamo al matrimonio di un suo amico, dove ha fissato l’appuntamento per questa intervista, e capisco subito che nonostante i 68 anni l’atteggiamento è ancora quello del rocker di razza. Il cameriere ci porta i caffè e lui lo chiede «corretto Jack Daniel’s».
E anche se il cappello da cowboy ha lasciato il posto a un berretto da baseball, gli anelli enormi che indossa e i tatuaggi che dalle mani risalgono sugli avambracci sono la testimonianza di un passato che è difficile da cancellare. In disparte rispetto ai festeggiati, per quasi due ore parlerà di tutto: da quando la mamma gli spaccò in testa una chitarra per fargliela suonare, ai suoi riferimenti musicali: «Steve Vai dal vivo l’ho sopportato per dieci minuti».
Naturalmente del rapporto fortissimo e altrettanto conflittuale con Dalla, al quale non risparmiava niente da vivo e neanche da morto: «Ci sono persone che traducono il potere in denaro, altre in potere sugli uomini. Hanno quella libidine lì e Lucio ce l’aveva».
Ma dopo «essere stato estromesso senza neanche avvisarmi», gli scriverà una mail dolcissima che ancora gli mette la pelle d’oca: «Sarai sempre il mio chitarrista (se non ti chiamano prima gli AC/DC) anche in paradiso».
Ancora: la mancanza di stima per Francesco De Gregori («non è un grande uomo»), i Måneskin e Achille Lauro «cloni del passato», i soldi guadagnati e quasi tutti sperperati («sono uno dei più famosi e uno dei più poveri»).
La conversione al buddismo che lo fa sentire in pace, ma non gli evita qualche incazzatura («sono buddista ma non sono fesso»). Ma il pensiero della fine, nonostante la reincarnazione (o proprio grazie ad essa), non lo spaventa: «Se potessi decidere come morire vorrei fare un frontale con un camion in Lamborghini a 260 all’ora. In alternativa ho la mia pistola Glock, nel caso non sia più in grado di vivere ci vuole un attimo».
Ricky, qual è stato tuo primo approccio con la musica?
A 4 anni. Avevo il desiderio di suonare la batteria, mi ispirava quello strumento. Sono figlio di un maresciallo dei carabinieri, quindi per la Befana chiedevo sempre una batteria in regalo. Allora con i tamburi di carta.
Una sera i miei andarono a ballare a Vignola, regno delle ciliegie, e c’era una band con la batteria vera. Sono impazzito! Ho insistito con mia madre per chiedere al batterista di farmela provare e incredibilmente, dopo averci provato, portai un tempo. Tanto che il batterista chiese a mia madre: “Ma studia?”.
Non avevo mai preso lezioni, così la mamma chiamò un insegnante di sax, che fortunatamente dopo tre lezioni non venne più, e qualche tempo dopo, con i miei cugini, andai a studiare canto. Dopo un anno sempre mia madre mi disse: «Impara anche la chitarra, così quando torniamo a Messina in spiaggia puoi suonarla».
È lì che è scattato qualcosa?
Non ancora, non mi piaceva, mi faceva venire le vesciche alle dita. Poi un giorno che dovevo preparare una lezione, e invece leggevo dei fumetti, la mamma mi passò dietro, prese la chitarra, per fortuna una Eko cartonata, e me la spaccò tra capo e collo. Lì è successo qualcosa. È diventata una fissazione. Sono arrivato a dormirci con la chitarra.
Padre maresciallo, mamma che ti spacca una chitarra in testa. Per reazione non potevi che diventare un rocker.
Lei suonava la fisarmonica e aveva delle reminiscenze musicali, per cui voleva trasferirmele. Fatto sta che mi ritrovai già a 12 anni a essere uno dei chitarristi più famosi di Modena.
Ma già prima hai raccontato che, a 11 anni, accompagnavi gli strip-tease nei locali…
Non ero ancora il chitarrista che diventai in seguito, ma è vero. Quando mi beccavano dovevo andare a casa. È stato uno choc con tutte quelle donne, son finito dal medico. A quei tempi levavano solo il reggiseno, però si giravano verso la band e io, naturalmente, sbagliavo tutti gli stacchi. Ma per fortuna si vedeva solo il seno, sennò sarei già morto. Dopo ho iniziato con le band rock e anche da quelle esperienze è nata la mia versatilità con la chitarra.
Quali sono stati i tuoi riferimenti iniziali?
Ho cominciato a vedere i concerti a Modena dove c’era un locale che si chiamava Bob 2000, che è stato fra i precursori per le esibizioni delle rock band. Ricordo John Mayall o gli Uriah Heep. Il periodo era quello di Woodstock, Who, Jimi Hendrix e Led Zeppelin, che poi mi cambiarono la vita. Ma l’inizio è stato con le canzoni dei Beatles come Girl, Michelle o Strawberry Fields Forever. Poi mi sono catapultato in brani come Good Times Bad Times dei Led Zeppelin e in Foxy Lady di Hendrix.
Hai mai conosciuto qualcuno di questi artisti?
I miei miti di allora no. Ma tempo dopo ho fatto un po’ di serate con Ian Paice dei Deep Purple. Oppure ho conosciuto Bryan Adams, un cantante che amo tutt’ora. Suonare con loro diventa tutta un’altra cosa.
Spesso sei stato associato a Steve Vai.
Non sono mai stato un mitomane della chitarra e nella mia vita ho avuto tre chitarristi importanti: Jeff Beck, Jimi Hendrix e Eddie Van Halen, quest’ultimo l’ho conobbi in Germania e mi regalò un suo body. Forse mi associano a Steve Vai perché un periodo diventai endorser delle sue chitarre. L’ho anche conosciuto, sono andato a due concerti, ma ho retto pochissimo. Non sempre i miti rispecchiano quelle che sono le tue esigenze emotive.
Come mai?
L’ho sentito prima dieci minuti e poi cinque minuti, poi il mito mi è caduto. Non perché non valga la pena di essere ascoltato, ma ci sono gli atleti che vanno alle olimpiadi e quelli che, pur con pari tecnica e bravura, vanno al circo. Uno ti vuole emozionare e uno ti vuole stupire. Siccome ho avuto un grande maestro come Lucio Dalla, lui mi ha insegnato che la musica è emozione, e comunicazione e non solo voler stupire. Così ho abbandonato tutta quella esagerazione tecnica. Però vedo che oggi sta un po’ tornando…
Sui social spopolano i chitarristi, anche giovanissimi, che suonano a velocità mostruose.
Li vedo anch’io, ma non servono a niente. Se ascolto Jeff Beck mi emoziona ancora. Come Jimi Hendrix in certe sue cose. Non in tutto perché, come altri, ha passato periodi di droga infiniti e quindi menate mentali incomprensibili. Ma quando sento i suoi pezzi migliori capisco che Dio esiste. A un concerto dei Pink Floyd a Modena, avevo mia figlia sulle spalle, e quando fecero Shine On You Crazy Diamond al il riff iniziale le ginocchia mi hanno ceduto. Per un periodo anch’io sono stato intrappolato nelle menate tecniche, poi ho abbandonato.
Oggi al matrimonio non ti esibisci per gli sposi?
Nooo, lasciami un po’ essere ospite senza dover ripagare con una suonata.
È un rischio che corri a ogni uscita pubblica…
Sempre… sempre… non va bene, perché anche il musicista ha bisogno di sentirsi normale.
Non ti chiederò cosa ne pensi del chitarrista che sta suonando in questo momento…
Oddio, no no. Io amo tutti, basta che non facciano cazzate. Per cazzate intendo il sapere quali sono i loro limiti e, nonostante questo, voler andare oltre. Io ho imparato cose fantastiche da tutti. Come da un ragazzino che aveva la chitarra in mano da tre mesi, quando facevo lezione. Bisogna avere l’umiltà di apprendere da chiunque. La mente aperta è la vittoria delle emozioni e della nostra professionalità.
Torniamo al tuo passato. Hai vissuto il mitico ‘68.
Quante botte che ho preso…
Come mai?
Perché di volta in volta andavo a simpatie in base a dov’era la ragazzina che mi piaceva. Una volta a sinistra, una a destra… Io avevo 14 anni, non avevo le idee chiare, ma non le avevano neanche i più grandi.
Un po’ presto anche per aver provato l’amore libero.
A 14 anni era una utopia. Però l’ho provato lo stesso, perché lo facevo da solo. Più libero di così.
Hai parlato di Jimi Hendrix e dei suoi eccessi. Per tanto tempo si è creduto che il rock e l’uso di droghe dovessero essere strettamente connessi. È un mondo che hai conosciuto?
Sì, ma è tutta una illusione. Lo posso dire perché anch’io ho avuto esperienze del genere e ho creduto di suonare in maniera eccellente, poi rivedendomi facevo schifo. Hai persino l’illusione di sapere cos’è la verità. Oggi dico abbasso le droghe e viva la mente lucida. Nella musica e nella vita è sempre meglio essere presenti a se stessi e capire come “servire” gli artisti con i quali collabori.
Andiamo passo passo. Sei stato uno dei fondatori degli Stadio. Cosa ricordi di quel periodo?
Quella band è stata il regalo che ci fece Lucio Dalla. Venivamo dal tour di Banana Republic dove noi musicisti fummo un po’ bistrattati. È stato un tour tutto rivolto al loro guadagno, sia dei due artisti principali che degli impresari. A volte aprivo la porta e vedevo tavoloni pieni di soldi, mentre a noi musicisti arrivava poco o niente. Non dico le cifre perché mi vergogno di aver accettato quel compromesso, anche se prima dovrebbero vergognarsi loro.
Ci torneremo. Ma è vero che sei stato tu a consigliare Gaetano Curreri a Lucio Dalla?
È vero, ma ancora prima Gaetano mi aveva fatto passare da Modena a Bologna. Nella band Cinque Lire gli serviva un chitarrista e chiamò me. E quando a Lucio servì un tastierista io gli consigliai lui. Abbiamo formato gli Stadio che era una strana band perché ci gravitava sempre Lucio e quindi non avevamo una grande personalità.
Quando ci proponevano qualcosa era sempre uno scambio con Lucio. Se pensi che Grande figlio di puttana ancora oggi la attribuiscono a Lucio, mentre ha scritto solo il testo, tra l’altro dedicandolo a me. Abbiamo fatto cose bellissime, però non avevamo una identità. Anche in tv doveva esserci sempre Lucio. Una volta al Festivalbar ci sono corsi dietro dei fan e intanto dicevano: «Ma chi sono? Ma chi sono?». Insomma, dopo un po’ ti cadono le braccia…
Nel 2016, tra l’altro c’eri anche tu benché solo per la serata delle cover, la vittoria di Sanremo è stata la vostra consacrazione come Stadio?
Non nascondiamocelo, perché in fondo io sono un falso umile. La figura carismatica degli Stadio ero io. Dopo anni che predicavo di staccarci da Lucio, quando me ne sono andato io, che ero considerato un accentratore, anche loro hanno lasciato Dalla. Non perché avessi qualcosa contro di lui, ma per guadagnare una nostra identità. Era importante. I Toto hanno lavorato con tutti, ma non dicevano il gruppo di Jackson o di altri.
Qual è stato il tuo momento migliore con gli Stadio?
Non l’ho mai avvertito, proprio a causa di quello che ti ho spiegato. Eravamo sempre gregari. Anche a Sanremo ci hanno presentato come il gruppo di Lucio Dalla.
Allora passiamo al tuo sodalizio con Dalla. Il primo incontro?
Venivo dalle sale da ballo. Avevo una band dissacrante che si chiamava Sua Maestà. Il nostro pubblico era composto da papponi, prostitute e ladri… e la canzone più dolce recitava così: “Ehi ehi alza la tua gonna, ehi ehi stuprare la mia donna”. Eravamo i preferiti di Vasco Rossi che faceva ancora il dj. Alle feste di Punto Radio ci invitava sempre. Venivo da quell’ambiente. Per un momento stavamo per diventare il gruppo di Renato Zero, poi non se ne è fatto più nulla.
A questo punto si avvicina un signore in giacca e cravatta che lo saluta e Portera riconosce una somiglianza: «Ma lei è Donald Trump». E lui: «Quando sono pettinato sì, quando mi spettino sono uguale a Boris Johnson…».
Eravamo rimasti al primo incontro con Dalla …
Mi chiamano dall’agenzia perché un certo Lucio Dalla sta cercando un chitarrista. E io: «Ma chi è?». Non lo conoscevo. Mi spiegarono che aveva fatto Sanremo con Bisogna saper perdere. Siccome ero un fan scatenato dei Rokes ed ero talmente in bolletta mi sono detto: ma sì, dai, faccio due-tre mesi e vado a guadagnare qualcosa. Alla fine siamo rimasti insieme 33 anni.
L’ho raggiunto in un locale vicino a Modena, il Due Stelle di Reggiolo. In quel periodo era con due musicisti, lui al piano, un bassista e un batterista. Mi vestii tutto fighetto, poi mi pentii perché mi trovai davanti uno in canottiera, tutto sudato e peloso. Esordii tutto educato: «Buonasera signor Lucio…». Lui rimase due minuti in silenzio, che se li calcoli son lunghi. Mi guardava con un sorriso sornione e intanto io pensavo: avrò fatto qualcosa che non va?
E poi?
Alla fine disse: «Abito in Via delle Fragole a Bologna. Domani alle tre vieni a casa mia che facciamo le prove». Un’ora scarsa e poi mi portò in garage, tirò fuori la sua Ducati Scrambler, mi caricò dietro e, con un freddo che non puoi immaginare perché eravamo sotto Natale, andammo in centro al Pavaglio, vicino a Piazza Maggiore, da Veronesi che è una famosa gioielleria dove ci siamo fatti il primo buco nell’orecchio. Io e lui. Bene, mi sono detto: questo sì che è rock and roll. Era il ’77, avevo 23 anni.
Anche con te era un gran raccontatore di balle, come è stato descritto da molti?
Lui era il più grande bugiardo che abbia mai conosciuto. Poi ho capito che per Lucio la vita era un film e lui ne era il regista. A tutti dava un soprannome e facevamo parte di una delle sue pellicole. Io ero soprannominato Zi perché ho la esse sibilante. Un giorno in macchina verso la Svizzera mi disse: «Ta, mi daresti una sigaretta?». «Sì, ma ta cosa vuol dire?». E lui: «Ta è il femminile di tu». Aveva queste trovate divertentissime, così come poteva essere orribili quando le usava al contrario.
Facci qualche esempio.
Lucio aveva una grande dote. Un giorno ti faceva sentire un Dio e un altro una merda spalmata sulla strada. Io sono sempre stato un ribelle e forse mi ha adorato per questo. Non gliene ho mai fatta passare una e ci siamo sempre scontrati. Ma molti che aveva intorno non erano così. Andavano in cerca solo della sua benevolenza e quindi facevano anche cose che non andavano fatte. È stata la ragione per la quale ho lasciato gli Stadio. Non sopporto il servilismo e il clientelismo.
Tutti i grandi hanno sia luci che ombre.
Ci sono persone che traducono il potere in denaro, altre in potere sugli uomini. Hanno quella libidine lì e Lucio ce l’aveva. Quella di far dire alle persone ciò che non pensano. Lui poteva uscirsene così: «Guardate fuori che piove». Non era vero, ma quelli intorno rispondevano: «Hai ragione Lucio, che brutta pioggia». Dopo qualche minuto gli girava che fuori c’era il sole: «Vado ad abbronzarmi un po’». E loro: «Sì sì Lucio, veniamo anche noi».
È un grande potere manipolatorio. Sui soldi non era particolarmente avido, ma sai com’è, servono sempre. Io sono convinto che chi ha i soldi è perché non li spende. Come mi disse una volta l’impresario di Lucio: «Più ne hai e più ne vuoi». A me non capita la stessa cosa, cioè meno ne ho e meno ne vorrei.
A questo punto torna “Trump” che si rivela essere un musicista. «Ricky, se vuoi dopo ti passo il CD della mia band se hai voglia di ascoltarlo». E Portera: «Moooolto volentieri…». Quando si allontana racconta qualche aneddoto curioso legato ai fan.
Ti capiterà spesso che ti vogliano far ascoltare qualcosa.
Spessissimo e a volte si sbagliano anche. Un giorno mi si avvicina uno e mi dice: «Ricky, meraviglioso l’assolo degli Angeli che hai fatto a San Siro con Vasco…». Ma chi è mai stato a San Siro con Vasco Rossi? Un’altra volta passa un ragazzo e fa alla sua ragazza: «Ti presento due miti della musica. Va da Solieri: “Lui è Ricky Portera”. Viene da me: “Lui è Maurizio Solieri”». O come in stazione a Roma che mi sono corsi dietro chiamandomi «Vascoooo». Sono scappato e forse loro sono ancora convinti che fossi lui…
Come con gli Stadio, anche da Lucio Dalla ti sei staccato per una decina di anni, per poi tornare. Come sono andate le cose in quel periodo?
Mi spiace non avere più le mail che ci siamo scambiati con Lucio. La prima volta me ne andai io, ma solo perché volevo staccarmi dagli Stadio. La seconda volta non era mia intenzione lasciarlo, invece mi hanno lasciato loro. La cosa peggiore è che non mi dissero niente. Lo ricordo come fosse ieri.
Ci siamo esibiti in un ultimo dell’anno a Firenze e dopo a Bologna. Era l’inaugurazione del Frecciarossa. Siccome avevo intuito che qualcosa non andava, quando nel tragitto in treno Lucio è andato in bagno lo aspettai fuori dalla porta. Quando uscì, si mise a guadare la coda del treno fuori dal finestrino e mi disse: «Bello eh?!». Nient’altro… Finii la serata, salutai tutti, poi a casa gli mandai una mail molto cattiva.
E lui come reagì?
Io per Lucio ho preso una molotov al Castello Sforzesco a Milano, è scoppiata di fianco a me. E ancora i sassi, le lattine, le bottiglie d’acqua piene. Sono stato molto cattivo nella mail perché tu accontenti, fra virgolette, il padrone, ma il padrone se vuol fare a meno di me deve almeno venirmelo a dire. Agli operai arriva la lettera di licenziamento, a me nulla. Lui mi rispose con una mail molto dolce, dove si levava la responsabilità dandola ad altri e alla fine aggiunge una frase che mi fa venire ancora la pelle d’oca: «Sarai sempre il mio chitarrista (se non ti chiamano prima gli AC/DC) anche in paradiso».
Poi non c’è più stato il tempo per riavvicinarvi…
Poco prima della morte di Lucio avevo fatto un concerto in Calabria. Ero andato a letto alle 6 e alle 8 mi squilla il telefono. “Dalla” leggo sul display. Anche lì sono stato stronzo, gli ho risposto: «Cosa vuoi?». E lui, con dolcezza: «Volevo ricordati che sei sempre il mio chitarrista». Ero ancora talmente incazzato che ho saputo rispondergli soltanto: «Va bene, me l’hai detto. Ciao».
E ho buttato giù. Da lì non ci siamo più sentiti. Ma prima del suo ultimo tour, avevo una serata in Sicilia. Quando andai a prendere l’aereo a Catania incontrai Gionata Colaprisca, il suo percussionista, che entusiasta mi disse: «Ricky, allora parti con noi?». Non ne sapevo nulla. «Ma come, c’è Lucio che da un mese continua a dire che deve chiamare Ricky per portarlo in tour». Sono partiti senza di me e non è più tornato.
Quando hai capito che Lucio era un genio?
Era un genio, sia nell’inventare sia nel carpire quello che gli potevi dare tu. Mi ha fatto fare delle cose che non sembravano avere un senso. Solo dopo ti rendevi conto che un senso lo avevano. È facile conoscere l’armonia, ma lui invece faceva cose senza logica musicale. Era un autodidatta totale.
E poi si appassionava alle mie follie. Se ascolti Anna e Marco, quando la abbiamo registrata scherzosamente a un certo punto feci A Remark You Made dei Weather Report. Quando canta “ma l’America è lontana…”. E Lucio: «Cazzo Ricky sei un genio». No Lucio, non si può mettere questa cosa, qui andiamo in galera. Ma se riascoltate la frase è quella, solo leggermente cambiata nell’ordine delle note.
Si rivolge al cameriere: «Scusi, qui si può fumare?», e ne riceve un no netto. Sbotta: «Chiedere è lecito, rispondere è… utopia».
Prima hai accennato al tour di Banana Republic, dove però al posto di Francesco De Gregori doveva esserci Lucio Battisti.
Sì, l’idea era Lucio & Lucio. Non so perché Battisti decise di non accettare. E non voleva accettare neanche De Gregori, perché veniva da un periodo complicato dopo il processo proletario che aveva subito, per cui aveva una paura fottuta di salire sul palco. Feci un tour con lui nel 1982 e, non so come mai, a Firenze per tre giorni ho dovuto schivare le lattine piene di sabbia che mi tirava il suo pubblico. Mi davano del fascista. Ed ero al fianco di uno che era l’emblema della sinistra, ma che dopo il processo proletario suonava a 20 milioni di lire a sera. Un po’ un controsenso.
Mi sembra di capire che con De Gregori non sei rimasto in buoni rapporti.
Assolutamente no. Nel libro mio libro Ci sono cose che non posso dire lo chiamo l’oscuro profeta. Spesso e volentieri l’uomo non corrisponde al grande artista. E lui non è un grande uomo. Intanto le persone che maltrattano gli animali per me sono da uccidere, e lui lo faceva. È facile prendere a pugni un bambino, ma non si deve fare. E poi il suo atteggiamento non mi piaceva, aveva sempre la guardia del corpo e diceva cose che non rispecchiavano la sua identità politica.
Ti riferisci a pensieri esposti in privato, non a dichiarazioni pubbliche, giusto?
Sì sì, certo. Quando parlavamo tra noi musicisti. Ma è lì che vedi l’uomo vero, non davanti al pubblico. È una persona che non mi piace e, soprattutto, quando è morto Lucio, Francesco ne parlava bene, ma invece non lo amava per niente. Io che lo conosco, De Gregori, lo vedevo quando parlava ed era tutto tirato in viso e mi è sembrato davvero fuori luogo.
Tanto per essere politicamente corretti…
Ma dai, non è che se uno se ne va bisogna per forza parlarne bene. Lucio era un genio musicale, ma nella vita come uomo aveva dei pregi e dei difetti, come tutti. È chiaro che il difetto da un uomo potente pesa di più che da uno qualsiasi. Se da un giorno all’altro ti diceva «non lavori più» non lavoravi più davvero. È il potere di cui ti parlavo prima. Noi siamo artisti, quindi persone che fanno gli attori ed eseguono un personaggio sul palco.
Ma se nel teatro o al cinema il personaggio può essere completamente diverso dall’uomo, nella musica ci vuole un minimo di coerenza, sennò dici delle bugie al pubblico. Spesso ho riscontrato che nei cantautori non c’è questa sincerità. E poi, soprattutto, sono persone umilissime da poveri e diventano degli stronzi bestiali quando iniziano ad avere i soldi. A me non piace questo atteggiamento, apprezzo la linearità. Io ero stronzo quando avevo i soldi e sono stronzo adesso che sono in bolletta.
In che modo si traduce la tua stronzaggine?
Prova a pensare a un ragazzino che già a 23-24 anni usciva sui giornali come il miglior chitarrista italiano. Ero giovane, bello, ricco. Avevo delle donne stupende, anche famose presentatrici e showgirl. Permetti che possa essere un po’ stronzo? C’è gente che lo è senza valere un cazzo. Poi sono diventato buddista e ho iniziato a capire che quello che fai di male ti torna indietro. Il mio karma addirittura mi anticipa, per cui mi punisce prima che io faccia del male.
Un altro grande artista che conosci bene è Vasco Rossi, vi siete conosciuti quando il successo per entrambi era lontano, cioè quando lui aveva 8 anni e tu 6. Cosa lo rende così speciale?
È un grande comunicatore e la comunicazione è importantissima. Vasco quando smise di cantare e aprì Punto Radio riusciva a parlare per ore e a incantare la gente. Se tu analizzi le sue canzoni sono tutte le storie che vive ognuno di noi. È questa la sua forza. Tutti si identificano nei suoi pezzi.
Tra l’altro è anche merito tuo se Vasco è tornato a cantare, no?
Una sera eravamo al Kiwi di Piumazzo, a Castelfranco Emilia. Io ero in concerto con i Sua Maestà, la band dissacrante con la quale portavamo in giro una storia che passava dal male al bene. E quando facevo il male, vestito da nazista, prendevo le ragazze per i capelli sotto il palco e le baciavo.
Una volta nei camerini Vasco sbottò: «Devo ricominciare a cantare, perché si tromba di più a fare i musicisti che i dj». Lui l’ha detto spesso che anche grazie a me ha ricominciato a fare il musicista, quando ha visto le file di belle ragazze che arrivavano nei camerini.
Oltre a Dalla hai collaborato con tantissimi, da Eugenio Finardi a Loredana Bertè, da Ron ad Antonello Venditti, fino a Freak Antoni, Marco Masini, Paola Turci, Alice e Anna Tatangelo. Chi ricordi con più piacere?
Sicuramente la collaborazione con Finardi. Per via di scene folli, una notte a Lagonegro siamo andati a caccia di un gallo per farlo fuori.
Ma come per farlo fuori?
Sai, noi andavamo a letto tardi, alle 6-7 del mattino, e lui cantava proprio in quegli orari e non ti fa dormire. Ma non lo hanno trovato, per fortuna, anche se non credo lo avrebbero ucciso davvero. Ma con Finardi era una vera rock and roll band. Andavamo negli hotel e si spaccava tutto. Siamo stati diffidati per un anno dal passare a Corigliano Calabro dopo aver fatto un sacco di danni.
Qual è lo stato di salute della scena musicale di oggi?
Perché c’è ancora una scena musicale? Io quando vedo Achille Lauro mi ricordo che già all’inizio degli anni ’70 suonavo in gonna e truccato da donna. Non mi racconta niente di nuovo, l’ho già vissuta appieno quel tipo di provocazione. Come i Måneskin, sono dei cloni del passato. È vero che i giovani non hanno mai visto quelle cose, per cui è giusto che si appassionino, ma vogliamo parlare di David Bowie, Peter Gabriel o Renato Zero? È l’ignoranza, quella buona, cioè la non conoscenza della storia, che gli permette di avere successo. Ma non stanno dicendo niente di nuovo.
Se oggi ti vestissi da nazista per andare sul palco, come facevi con la tua vecchia band, immagini le reazioni?
Scoppierebbe un casino. Ma dal nazista sexy diventato un angelo bianco. C’era una storia da raccontare, una logica dietro. Oggi in Achille Lauro una logica non la vedo.
E neanche nei Måneskin?
A loro direi soltanto alla signorina, Victoria, che fa la dissacrante dicendo parolacce, che non si fa rock così, magari dovrebbe prima migliorare il suono di basso, portarlo a essere un più strong, perché per ora è molto debole. Il rock non è avere le chitarre distorte, ma è un modo di vivere. Lemmy dei Motörhead non avrebbe mai potuto suonare jazz, probabilmente andava a casa e picchiava sua madre.
Una volta a un concerto un paio di ragazzini mi hanno chiesto un autografo e uno di loro mi disse: «Sai, noi facciamo hardcore…». Ed erano vestiti con delle camicine tutte stirate e dei maglioncini scollati a V, dei fighettini. Allora gli ho risposto: «Voi dovete andare a fare in culo, altro che fare hardcore». Pensano che la musica sia prendere uno strumento e interpretare un genere, è questa la vera tragedia. Non hanno capito che bisogna vivere rock. Mi rifiuto di sentire gli artisti di oggi perché ho già sentito di meglio 20-30 anni fa. Se proprio devo fare un nome attuale non posso che citare i Royal Blood, sono solo in due però mi fanno sballare.
Qualche tempo fa hai dichiarato: «Non voglio avere nulla a che fare con gli addetti ai lavori, perché vivono solamente di critiche e considerano la musica come qualcosa di asettico».
A me piace la musica a 360 gradi. C’è quella che ti emoziona e quella che non ti lascia niente. La musica non va vissuta con analisi. Non suono per i musicisti, ma per le sciampiste e le cassiere del supermarket. Non mi interessa nulla di chi calcola soltanto la velocità con cui esegui una scala o un fraseggio. È come per i pistoleri nel West: per quanto tu possa essere veloce, ci sarà sempre qualcuno più veloce di te. Quella non è la gente che mi dà godimento. Il più bel complimento me lo ha fatto un ragazzino che avrà avuto 15 anni: «Mi hai eccitato». È questo ciò che amo.
Chi sono oggi i migliori chitarristi italiani?
Ce ne sono tanti. Posso ricordare Luca Colombo, Ciro Manna, Matteo Mancuso. Ognuno ha le sue belle cose da dire. E poi Alberto Radius. Me lo ricordo quando andavo ad ascoltarlo sotto al palco dell’Altro Mondo di Rimini nel ’74.
C’erano sempre due attrazioni a sera, così potevi trovarti la Formula 3 da una parte e i Pooh dall’altra, i New Trolls da una parte e Ray Charles dall’altra. Ma quando suonava Radius non ho mai capito cosa facesse, ha un modo tutto suo di suonare. Dimeniticavo un altro mio riferimento. Se Nico Di Palo mi ha fatto scoprire la bestialità, Radius mi ha aperto la mente, perché è un intellettuale. Ha un suono soltanto suo, lo riconosci tra un milione. Come Maurizio Solieri, che per me è un grande autore.
Il tuo assolo migliore?
Quello di Ayrton, suonato in “buona la prima”. Ho i testimoni.
Hai pubblicato quattro album solisti. Di quale vai più fiero?
Quattro dischi solisti di cui non si è accorto nessuno. Ognuno ha avuto la sua parte di sfiga. Il primo aveva una produzione di delinquenti, il secondo una produzione che si è ingelosita dell’altra e mi ha bloccato l’album. Il terzo purtroppo non è stato promosso, visto che era con una etichetta piccolina. E il quarto con un ragazzo che, purtroppo, si è poi suicidato. Ma ad ogni disco ci sono assoli che fanno storia a sé.
Qual è il segreto, se esiste, dei tuoi assoli?
Devo ringraziare il mio primo maestro che mi ha insegnato tutti gli strumenti, come si faceva allora. E con la chitarra non mi dava le scale o le pentatoniche, ma i brani da suonare seguendo le melodie. La scala è consequenziale, la melodia no, per cui ti devi muovere di conseguenza. Per questo i miei “solo” sono cantabili, come quello di Anima o di L’ultima luna.
«Sono uno dei più famosi e uno dei più poveri». Sempre parole tue.
È vero, sono ancora in affitto. Quando ho guadagnato davvero tanti soldi li ho sputtanati. Però posso dire di aver provato tutto. A colazione negli hotel spendevo 100 mila lire al giorno negli anni ‘80. Guai se non c’erano la piscina e la lavanderia. Ho avuto tutte le auto più belle dei miei tempi, dalle Porsche alle Maserati. Negli anni d’oro facevo 80 serate l’anno e guadagnavo un milione e 200 mila lire a serata. Le auto me le pagava mio padre… io davo solo l’anticipo… Tutto il resto lo sputtanavo. Non è un motivo di vanto, ma per far capire quanto ero stupido. Avrei potuto investirli meglio. Ho una casetta in Sicilia, quindi so dove andrò a svernare. E il matrimonio…
Un errore?
Ho sempre detto che non mi sarei sposato, invece è successo quando avevo 35 anni. Il giorno stesso in cui ero all’altare volevo fuggire. Infatti, dopo quattro anni abbiamo divorziato.
Hai poi ammesso: «Sono stato un puttaniere».
Senza offendere le donne, ero io la puttana.
Hai fatto delle pazzie per le donne?
Ci vorrebbe una settimana per raccontarle tutte. Non credo mi succederà mai più di innamorarmi, ma quando lo sei puoi fare di tutto. Almeno, a me capitava così. Avevo 18 anni, la mia ragazza mi telefonò per dirmi che andava a ballare, allora salii sul palco di un concerto e dopo due pezzi li lasciai con il locale pieno. Sono arrivato nella sua discoteca come una furia, non l’ho trovata, così sono ripartito però mi si era agganciato il paraurti al cavo del lampione. Il paraurti dev’essere ancora la. O quando ho fatto sei serate di seguito al nord e poi, senza dormire, sono andato in Sicilia direttamente per raggiungere una donna. E la gelosia… mi appostavo sotto casa alle 4 del mattino e controllavo che non arrivasse nessun altro. Ero gelosissimo. Poi ci ripensi e ti senti uno stupido.
Politicamente sei di destra o sinistra?
Ma esistono ancora? Quando ero ragazzino io sì.
Hai detto di aver preso botte da sinistra e da destra.
A me i politici mi fanno incazzare perché quando li senti parlare nessuno può fare qualcosa. Ma chi dovrebbe farlo? C’è un grande menefreghismo da parte loro. Mattarella era da rieleggere a presidente della Repubblica per arrivare a fine mandato e prendere le pensioni, era così chiaro. Ma a noi basta che ci diano le partite di calcio e va tutto bene. Andiamo in piazza per i vaccini, ma non per riaprire i pozzi di gas. Inquinano? Ma lo fanno a cento chilometri da noi e lo andiamo anche a pagare.
La politica è finita quando sono morti Berlinguer e Almirante. Qualcosa è rimasto a galla con Craxi, poi si è chiuso tutto. Mi piacerebbe vedere oggi Luigi Di Maio di fronte a Putin. Non so se sono di sinistra o di destra, io andavo dove c’erano le ragazzine che mi piacevano. Se erano a sinistra andavo a sinistra, se erano a destra andavo a destra.
Il partito della gnocca, direbbe Vasco.
Sicuramente! Anche perché nei politici di oggi non vedo ideologia, una bella idea, un programma sensato. Si criticano l’un l’altro ma nessuno fa niente. Ogni tanto ne spunta fuori uno in tv e ti chiedi: ma chi è questo? Abbiamo come ministro della Sanità Roberto Speranza, quello del libro su “abbiamo sconfitto il virus” ed è ancora al suo posto. Se io vado in un locale e suono male non mi chiamano più, invece loro sono incollati a quelle poltrone e non si capisce perché. Ma spesso le più grandi anticipazioni sulla società del futuro vengono dai film, basta guardare quelli.
Che cosa hanno predetto i film sul futuro?
Hanno visto che ci saranno dei personaggi che prenderanno il potere, controllando alcuni settori chiave come armi, banche, sanità e tecnologia. Sono questi i padroni del mondo. E già lo sono. Chi fa politica oggi lo sa benissimo, per cui accumula adesso perché tra un po’ sarà palese che non conterà più nulla. Quella di oggi non è politica. Io che sono di origine siciliana la chiamo mafia, che quando c’è da prendere prende e quando c’è da dare sparisce. Sai cosa mi è successo durante la pandemia?
Stavo per chiedertelo. Come hai vissuto la pandemia con l’assenza di concerti?
Prima ti dico questa. Nel 2019 l’Inps mi scrive che mi ha dato 360 euro in più, solo che poi doveva valutare i miei redditi. Nel 2020, senza concerti, me li ha chiesti indietro. E nel 2021 ho perso 40 serate, significa 50 mila euro circa. Allora quanti soldi avrebbero dovuto darmi per quello che non ho guadagnato? Un po’ con la Siae e un po’ con l’Imaie mi sono salvato, ma se non avessi avuto questi adesso l’intervista me l’avresti fatta sotto un ponte davanti a una stufetta. Qualche politico si è chiesto «ma tu che non fai il tuo lavoro mangi?». Però le bollette le mandavano comunque.
Perché hai scelto di diventare buddista?
All’inizio per curiosità. Nel 1989 collaboravo con un bassista, meglio non fare nomi. Mi stupiva perché lo chiamavo per chiedergli qualsiasi cosa e mi diceva sempre grazie. Che cazzo avrà da ringraziarmi sempre, mi chiedevo. Un giorno ne abbiamo parlato e mi ha spiegato che si era fatto tutte le droghe possibili, poi ne era uscito, non grazie alla comunità, ma grazie al buddismo. Ho iniziato un po’ alla leggera, dopo qualche anno ho cominciato a percepire un senso di pace. Sono diventato meno stronzo ma, soprattutto, mi ha fatto capire la responsabilità di non fare del male a nessuno perché il male ritorna. Non mi faccio illusioni, ma ora ho una quiete interiore che prima non avevo, scattavo per tutto, sentivo dentro un subbuglio interiore.
L’ultima volta che ti sei incazzato?
L’altro giorno all’Autogrill. Abbiamo preso due panini e due bottigliette d’acqua e ci hanno chiesto 18 euro. «Glielo scaldo?», ha detto la signorina. Sì, ma senza il prosciutto crudo. Solo il pane. Invece ha scaldato tutto insieme. Il prosciutto è diventato bianco, il pane era della settimana prima. Allora sono andato alla cassa e gli ho detto: «Siete dei delinquenti!» e gliel’ho buttato nel cestino.
Allora anche i buddisti si incazzano…
Ci mancherebbe! Sennò sarei una ameba. Non mi incazzo più come prima se mi guardi storto, ma non sono uno che porge l’altra guancia. Sì, te la porgo dopo averti dato quattro manate. Un conto è essere buddisti e un conto è essere fessi. La stessa cosa mi era successa con Lucio Dalla negli anni ’80. Mangiamo in un ristorante, due spaghetti al pomodoro e due Coca Cola e ci chiedono 30 mila lire. E Lucio: «Posso fare una telefonata?». Era l’una di notte. Il ristoratore: «A quest’ora?». E lui: «Sì, perché voglio chiamare i carabinieri». Alla fine ci ha fatto pagare 15 mila lire.
Quindi credi nella reincarnazione.
Assolutamente sì. Anche se io sarò un caprone… presumo.
Ci hai mai pensato a come vorresti morire?
Guarda, a me piace correre in macchina, quindi se potessi decidere vorrei fare un frontale con un camion. Ma in maniera importante, con una Lamborghini a 260 all’ora. Mi devo schiantare e non deve rimanere niente. Perché ho il terrore di soffrire, di passare anni a letto a causa di malattie e operazioni. Voglio schiantarmi, questo sarebbe il mio desiderio.
In alternativa, ho la mia pistola Glock e nel caso non sia più in grado di vivere ci vuole un attimo. Mio padre mi ha insegnato: «Un uomo deve vivere finché riesce a camminare sulle sue gambe e a non rompere i coglioni a nessuno, dopo deve morire». Sono d’accordo con lui. Non vorrei mai pesare sulle mie due figlie.
DAGONEWS il 4 luglio 2022.
La più giovane donna miliardaria (che si è fatta da sola) degli Stati Uniti non è cresciuta in un grattacielo di Manhattan o sulle colline di Hollywood. Lei è Rihanna, la cantante 34enne che ha fatto fortuna grazie alla musica e alle iniziative imprenditoriali finendo, per il terzo anno consecutivo, nella classifica delle “self-made women” di Forbes.
Si è classificata al 21° posto in assoluto ed è l'unica miliardaria della lista sotto i 40 anni. Parte del patrimonio netto di 1,4 miliardi di dollari proviene dalla sua carriera musicale di successo, ma la maggior parte proviene dalle sue tre società: Fenty Beauty, Fenty Skin e Savage X Fenty.
A marzo per Bloomberg la Savage X Fenty, di cui Rihanna possiede il 30%, poteva essere valutata a 3 miliardi di dollari. La cantante possiede anche metà di Fenty Beauty, che ha registrato 550 milioni di dollari di entrate nel 2020. L'altra metà dell'azienda è di proprietà del conglomerato francese di moda di lusso LVMH.
Forbes: Rihanna è la più giovane miliardaria degli Usa. Non grazie alla musica, ma al suo brand beauty. Giulia Mattioli su La Repubblica il 6 luglio 2022.
L’annuale classifica di Forbes che individua le donne self-made più ricche degli USA evidenzia il nuovo primato di Rihanna: è lei la più giovane miliardaria del Paese e l’unica under 40 ad entrare ufficialmente nel circuito delle billionaires, non in veste di cantante ma di imprenditrice, grazie al suo brand di bellezza inclusiva Fenty Beauty
A 34 anni, Rihanna è la più giovane miliardaria degli Stati Uniti, nonché l’unica under 40 a far parte del prestigioso circolo delle billionaires of America. I dati dell’annuale classifica di Forbes dedicata alle self-made women (ovvero donne che si sono ‘fatte da sole’, imprenditrici, CEO, personalità dello spettacolo) parlano chiaro: la pop star e imprenditrice sta scalando la classifica con passi da gigante, spodestando le colleghe non tanto grazie alla musica, quanto al successo della sua linea di cosmetici, Fenty Beauty, una vera miniera d’oro.
Ringo: «I Maneskin? Terrificanti. La mia ex Elenoire Casalegno? Siamo amici, non capisco le separazioni burrascose alla Totti-Blasi». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022.
Dj Ringo si confessa a tutto tondo, tra donne, motori. E gusti musicali
Chi la chiama ancora Rocco?
«L’ultima volta è stata mia nonna, ormai più nessuno mi chiama così, l’altra sera però ero con Rocco Siffredi, chiamavano lui e mi giravo io. Ci siamo divertiti, abbiamo fatto un lavoro insieme».
Un film porno con lui?
«No, quello no. Anche se me l’ha chiesto mille volte, mi ha proposto di fare Rocco e i suoi fratelli versione hard. Mi divertirei molto, ma vedo già tre donne che mi guardano e ho il terrore: mia madre, la mia ragazza Rachele e mia figlia. Non me la sento di affrontarle».
Rocco Maurizio Anaclerio è per tutti Dj Ringo. Dopo la stagione delle discoteche, ha iniziato a fare il conduttore radiofonico. Da tempo è direttore creativo di Virgin Radio dove continua a condurre Revolver, il suo marchio di fabbrica, il suo programma dedicato al rock. Capelli eternamente ossigenati, è figlio degli anni 80 e della Milano da bere: discoteche e modelle, divertimento e serate, tanto lusso e pochi pensieri.
«Ho speso gran parte dei miei soldi per alcool, donne e macchine veloci, il resto l’ho sperperato» diceva George Best. Lei è il George Best della radio?
«I miei amici mi prendono ancora in giro».
È vero che ha buttato via l’equivalente di 10 milioni di euro?
«Sicuramente miliardi e miliardi di lire, guadagnavo tanto e spendevo tanto. Macchine, moto, viaggi: pagavo tutto agli altri perché non volevo andare in giro da solo. Porsche e Ferrari. Moto. Le sfasciavo e le cambiavo. E i soldi volavano via. Ma non mi pento».
La spesa più folle?
«Dieci giorni alle Bahamas, i miei amici non avevano una lira, pagai per 12 persone, fidanzate comprese, hotel, ristoranti, divertimento. Tutto incluso. Oggi potrei avere qualche casa o appartamento in più... Ho sperperato, ma per divertirmi».
La più grande trasgressione?
«Potrei scrivere un’enciclopedia. Però non sono mai stato affascinato dalle droghe e non bevo perché sono allergico all’etanolo. Sono sempre stato attratto dal sesso e dalle donne, da un’orgia, qualcosa di viscerale... poi è arrivato l’Aids a rovinare tutto. Vivevo di notte, era fantastico: amici veri, pochi soldi, divertimento puro, che finiva sempre con qualche ragazza, o nei motel o al parco. Gli anni 80 erano bellissimi, mi sono divertito come un matto: ho conosciuto Keith Haring; Fiorucci mi ha presentato una cantante che doveva vestire: era Madonna; ho chiacchierato con Andy Warhol. Mi avevano anche proposto di comprare un suo quadro per 40 milioni di lire. Non lo presi e mi mangio ancora le mani: varrebbe più di un milione di euro».
Macchina o moto? Cosa preferisce?
«La moto è come una ventenne, la macchina come una milf; sono due modi diversi di approcciare l’altro sesso, entrambi molto interessanti. La moto mi dà più emozioni perché è più rischiosa, la macchina è più sicura e protetta».
Che adolescenza è stata la sua?
«Forte. Negli anni ‘70 vivevo in zona Porta Venezia a Milano, erano gli anni della lotta, turbolenti, destra contro sinistra, fumogeni, sparatorie. Era una zona di manifestazioni e mi trovavo sempre in mezzo, ogni volta era un’avventura, si menavano sempre. Ma ho comunque dei bei ricordi».
Che studente è stato?
«Ho ripetuto la terza media perché feci a botte in classe e fui espulso».
Cosa era successo?
«Un compagno mi aveva rubato il krapfen che mi aveva dato mia madre e se lo stava mangiando, gli ho spaccato la faccia. Sono stato espulso nonostante la classe avesse testimoniato a mio favore».
Beh non si può menare...
«Era grosso tre volte me, ripetente, era il bullo della classe, rubava a tutti. Li ho vendicati. Diciamo che sono stato espulso per fallo di reazione».
Dopo le medie?
«Mi sono fermato lì perché volevo comprarmi il motorino da solo. Lavoravo in un centro di bellezza, facevo il garzone, portavo il caffè alla contessa, passavo i bigodini al mio capo, raccontavo alle clienti di 80 anni tante scemenze e mi facevo dare la mancia. Avevo il Ciao, ci si divertiva con poco, con 1.500 lire a settimana mi pagavo la miscela e offrivo la pizza agli amici. Ho anche iniziato a suonare in una cover band dei Beatles, la batteria come Ringo Starr. Da lì mi hanno dato il soprannome Ringo».
L’ha mai incontrato Ringo Starr?
«È stato un incontro meraviglioso, era un cerchio che si chiudeva e lui è stato molto simpatico, gli ho detto che mi chiamavano così in suo onore e mi ha risposto che gli dovevo un sacco di royalties».
Dopo il parrucchiere?
«Andai a Londra nel 1978, mi feci la cresta e fui chiamato per il militare. Mi sono rasato da solo prima di andarci, era meglio».
I primi concerti?
«Scavalcavamo. Il primo scavalcamento importante fu al concerto di Bennato a San Siro, quando l’ho incontrato gliel’ho raccontato. Poi dopo qualche giorno stessa scena per Bob Marley».
Nel 2003 ha partecipato alla prima edizione dell’«Isola dei Famosi».
«Ci sono stato solo 4 giorni, ero stato operato alla cistifellea e mi fece infezione».
Pagavano bene?
«Macché. Non ho preso una lira perché se abbandonavi non venivi pagato. All’epoca era davvero un programma sperimentale, mi sarebbe piaciuto farlo. Oggi è diventato un programma trash. Mi offrono sempre i reality, ma non posso andare: mi giocherei l’immagine di Virgin, la mia radio».
Cosa rappresenta la radio per lei?
«Virgin è casa. Ero a 105 e il mio sogno era fare il primo network rock. Boom. L’abbiamo fatto davvero e sono passati 15 anni. Non saprei cosa altro fare, è il mio mondo. Oltre non c’è nulla, al massimo potrei tornare indietro come il gambero. Noi siamo un punto di riferimento per chi ama questo tipo di musica. Il panorama attuale pop mainstream invece non fa al caso mio, pieno di trapper, di poser , gente in posa. Posso dirlo? Il panorama attuale mi fa cagare. Ho sentito Viola di Fedez e Salmo, non si offendano, ma è terrificante. Poteva farla Orietta Berti. Se questi sono i giovani che fanno musica...».
E i Maneskin?
«Terrificanti».
Anche loro?
«Sì, sono un surrogato di un prodotto di marketing, non hanno nulla di vero, nemmeno il reggicalze. Mi dispiace e sono pronto a ricredermi... Per fare rock ‘n’ roll c’è una cosa molto importante: non puoi essere un poser . La risposta è Iggy Pop. Mi aspetto un pezzo vero».
Nemmeno «Zitti e Buoni»?
«L’hanno presentata a Sanremo. Capisce dove è l’errore? Un gruppo rock non dovrebbe essere al Festival di Sanremo. Vede quella foto? Ci sono quattro star che sono nell’olimpo: James Dean, Elvis, Humphrey Bogart, uno dei più fighi di tutti, Marilyn Monroe l’icona. Il rock ha leggi ben precise, integraliste, devi rispettarle. Uscire da un talent come X Factor non è rock».
Anche la sua vita privata è molto rock. Un debole per le pallavoliste: prima la campionessa del mondo Francesca Piccinini; ora Rachele Sangiuliano, altra campionessa.
«Mi piacciono le donne atletiche, forse perché da giovane facevo atletica. Sono sempre stato fidanzato con belle donne, facendo il dj era facile; infatti in tanti hanno sfruttato la mia amicizia perché ero quello che portava le belle ragazze».
Come vi siete lasciati con Elenoire Casalegno?
«Siamo amici, è la madre di mia figlia, come potrei parlarne male? Mi spiace quando vedo separazioni burrascose, come ora Totti e Ilary, rimango basito. Non riuscirei a fare questa guerra pubblica».
Vostra figlia si chiama Swami, chi ha scelto il nome?
«Elenoire. A me in caso sarebbe toccato il nome del maschio: William, sia per mio cugino che avevo perso da piccolo e a cui ero molto legato, sia per William Wallace, Braveheart, una gran bella figura, così anarchico e combattivo».
Francesca Piccinini?
«Tra le mie ex non ho mai avuto nemiche, come mi sono messo insieme con il sorriso, da giocherellone, altrettanto ho fatto quando mi sono lasciato. Quando vedo che sta arrivando il momento in cui non ci si capisce più mi fermo prima dello scontro. Preferisco evitare la battaglia, chiamatemi paraculo o fortunato. Trovo assurdo farla finire in guerra, se è stato amore; in questo sono un romantico anni 50».
Sarà anche romantico, ma sembra anche molto volubile. Fedele o traditore?
«Molto fedele. Adesso. Prima mai. È difficile essere fedeli con le donne italiane, ce ne sono di bellissime, ho viaggiato molto, ma come le italiane non ce ne sono: belle, sexy, curate. D’estate al semaforo rischi sempre un incidente. Ma l’età passa e arrivi a un punto della vita che non ti vai a cercare guai. Io ho sempre avuto il diavoletto e l’angioletto sulle spalle, sai che litigate che si sono fatti».
La testa a posto?
«Mai. Rachele mi ha fatto diventare un filo più pragmatico, ma lei stessa dice che le piaccio per come mi ha conosciuto. Adesso ho qualche problema con Equitalia, ho fatto disastri senza metterli a posto ed è arrivato il conto».
Andrà al Paradiso o all’Inferno?
«Sono un tipo da Purgatorio. Per quanto sono buono potrei andare in Paradiso; ma se guardiamo i comandamenti li trasgredisco praticamente tutti, quindi Inferno. Andrò davanti a Lui e farò come con Equitalia, chiederò una rateizzazione dei peccati».
Rita Dalla Chiesa contro le donne di sinistra: "Atteggiamento tribale, perché attaccano la Meloni". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 giugno 2022
Lei, suo malgrado, di insulti se ne intende, avendone subiti di pesanti e ignominiosi relativamente alla figura di suo papà, il generale Carlo Alberto. E così Rita Dalla Chiesa, conduttrice tv e donna libera, può ben giudicare quanti e quante si permettono di offendere la Meloni, "colpevole" di non adeguarsi al pensiero di sinistra.
Dalla Chiesa, i carabinieri hanno eseguito una perquisizione domiciliare a carico di una persona che scriveva commenti pieni di odio nei confronti suoi e di suo padre. Perché tale accanimento contro un uomo simbolo della lotta alla mafia, 40 anni dopo la morte?
«È un accanimento che nasce spesso da frustrazioni. Ma in questo caso si aggiungeva la vigliacchiera di attaccare persone scomparse: l'individuo in questione se l'è presa contro mio padre, mia cognata e mio genero, dicendo frasi terribili come "un terrone di meno", "una terrona in meno". Penso che alla base ci sia idiozia, ma non vorrei che gli odiatori fossero persone vicine al mondo mafioso. E, in ogni caso, quando attaccano i tuoi affetti più intimi, bisogna sempre denunciare».
In questi giorni un'altra donna è stata bersagliata di insulti e accuse false sui social e in tv, cioè la Meloni. Come mai ad attaccarla sono perlopiù donne, dalla Boldrini alla Lucarelli fino alla filosofa Rosi Braidotti?
«Innanzitutto della Meloni la sinistra ha paura. Le cattiverie nei suoi confronti sono gratuite ma hanno anche una motivazione politica: la verità è che temono la sua crescita elettorale. Detto questo, andare sul personale è da vigliacchi.
Quanto alle donne, è l'ennesima dimostrazione che non sono capaci di fare squadra, di avere solidarietà di genere».
Dietro questi attacchi c'è solo odio ideologico o anche antropologico?
«Le donne di sinistra attaccano Giorgia perché vogliono far credere che una donna, se di destra, sia di serie B. Lo fanno sempre: ogni volta che in un talk show parla una donna che non segue il pensiero unico, le altre di sinistra fanno un sorrisetto di denigrazione per delegittimarla a priori. È un atteggiamento tribale che si somma allo snobismo, cioè alla convinzione infondata delle donne di sinistra di essere superiori».
Dietro questo apparente disprezzo non si cela piuttosto l'invidia, visto che la Meloni è oggi la politica più amata dagli italiani?
«Certo, sono ferocemente invidiose perché ora la Meloni riscuote la maggioranza dei consensi. E allora la presentano come un pericolo, dandole della fascista che non è».
Come commenta le parole dell'attrice Kasia Smutniak che definisce la Meloni «stupida, idiota, disumana»?
«Guardi, se io dicessi le stesse cose di una donna di sinistra, magari della Boldrini, smetterei di vivere: mi massacrerebbero sui social, non verrei più invitata ai programmi tv, verrei inondata da tonnellate di spazzatura. Guarda caso, nessuna donna di sinistra ha condannato queste parole: dove sono le donne che difendono le altre donne? In compenso, queste offese possono sortire l'effetto contrario: cioè attirare solidarietà e voti per la Meloni e far perdere credibilità alle donne che la attaccano».
Lei ha fatto un endorsement per la leader di Fdi definendola «una donna forte, coerente». È stata attaccata per queste frasi?
«Certo, anche io per la gente sono diventata omofoba, razzista... Roba ridicola. Hanno detto poi che parlavo a sostegno di Giorgia perché speravo di condurre una trasmissione. Invece è successo il contrario: sicuramente assumere certe po«Sicuramente non avrei potuto fare peggio della Raggi.... Ma non mi sono pentita. Semmai ho sbagliato a non accettare quando Berlusconi mi propose di candidarmi al Senato: lì avrei capito meglio i meccanismi della politica».
Come mai da 15 anni Roma viene amministrata in modo disastroso?
«Guardi, io respiro solo quando vado a Milano. A Roma, quando scendo in stazione, mi sembra di essere a Tunisi: c'è una kasbah, composta anche dagli stessi romani...».
Lei aveva appoggiato i referendum sulla giustizia. Perché hanno fallito?
«Erano quesiti complicati, c'è stata poca informazione, e poi le toghe hanno contribuito a fare in modo che la gente non andasse a votare».
Lei che ha condotto un programma ambientato in un tribunale tv, Forum, cosa farebbe per migliorare la giustizia?
«Vorrei che la politica non entrasse più nelle scelte dei giudici. Ma adotterei anche il modello Forum, coinvolgendo una giuria popolare nelle decisioni: il cittadino così non si sentirebbe escluso dalla giustizia. Magari al prossimo referendum inseriamo questo quesito... (sorride, ndr)».
Rita Rusic: «Capii che Vittorio Cecchi Gori voleva annientarmi. Il mio fidanzato? Ha 32 anni». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2022.
L’ex produttrice oggi vive a Miami: «Da bimba fui profuga, mi cresimò Paolo VI». «Dal divorzio ho preso zero, neanche una casa». «Non ho mai nascosto di essere attratta dal sesso, lo trovo bello, giocoso. Ho portato io in Italia Sex and the city. Il mio fisico? Cerco di non arrendermi agli anni»
Negli anni ’90, era la produttrice cinematografica che rendeva oro tutto ciò che toccava, tipo Leonardo Pieraccioni, tipo Vincenzo Salemme, Giorgio Panariello. Era l’epoca dei tappeti rossi, dei jet privati, della notte degli Oscar con Il Postino di Massimo Troisi. Poi, arrivarono il divorzio da Vittorio Cecchi Gori, breve oblio, foto perenni a Miami Beach, in bikini, accanto a giovani belli e palestrati.
Che vita fa oggi Rita Rusic?
«A Miami, non sono stata solo in spiaggia: ho preso la laurea in regia alla New York Film Academy, tutti i giorni in aula con studenti di vent’anni. La prima lezione era: quali sono gli elementi più importanti di un film? Primo, la storia. Secondo, la storia. Terzo, la storia. Insomma, io che ho prodotto 150 film, tra firmati e non firmati, sono ripartita dalle basi».
Se la sua vita fosse un film, quale sarebbe la prima scena?
«Saremmo sulla collina di Kastellir, piccolissimo paese dell’Istria, il mare in lontananza. Con mia mamma che mi ha appena partorito e mi mostra ai paesani, tenendo me in braccio, mia sorella per mano. Poi, si avvicina la picchiatella del paese e le dice: questa bimba andrà lontano, non starà qua, diventerà famosa».
Cosa facevano i suoi a Kastellir?
«Si erano sposati giovanissimi, mamma si occupava di noi figlie, papà suonava sassofono e clarinetto, insegnava musica, faceva un po’ di teatro e, per sopravvivere, sculture di marmo. Ma chi vuole che comprasse sculture a Kastellir? Per cui, scolpiva lapidi da morto».
Immagino non ricordi di quando, profuga a quattro anni, partiste per l’Italia.
«Ho chiara l’immagine di mamma e papà che ci dicono di non parlarne con nessuno e di tutti noi che partiamo, con due valigie di cartone e le nonne vedove che ci accompagnano alla corriera per Trieste e piangono».
Si ricorda anche del campo profughi?
«San Saba era stato un campo di concentramento, ci misero in una stanza coi materassi per terra ancora sporchi di sangue. Io dissi: non ci dormirò mai. Ma di recente, la figlia dell’uomo che ci accompagnò lì, mi ha raccontato che mia sorella continuava a dire “è tutto brutto” e che io continuavo a risponderle: sì, ma indietro non dobbiamo tornare».
Col senno di poi, perché lo diceva?
«Passando per Trieste, avevo visto per la prima volta una città. A me che venivo da un posto con due alberi e due frasche, parve il futuro. Avevo già il desiderio di andare sempre avanti».
Dopo il campo profughi?
«Otto anni di collegio dalle suore a Roma. Poi la famiglia si è riunita a Busto Arsizio, dove ci hanno assegnato una casetta per rifugiati. Avevo 14 anni, Busto mi andava stretta e m’inventai una scuola che era a Milano: odontotecnico. In quel 1974, a scuola, c’erano quelli di Autonomia Operaia e quelli delle bande armate. La mattina, qualche compagno mi diceva: hai visto il tuo amico? E mimava i polsi con le manette».
E lei non rischiò mai di darsi all’eversione?
«Sono nata troppo povera per non capire che era pericoloso».
Dopo, arrivano la moda, le sfilate. Quando ha capito che la bellezza poteva darle un potere?
«Già in collegio: piacqui così tanto alla moglie del direttore che mi prese sotto la sua ala. Mi fece fare la cresima con Paolo VI, mi portava sacchi in pannolenci pieni di regali».
Il brutto del collegio?
«Fare le scale per andare a letto. Ci facevano cantare “quando è l’ora di fare la nanna, i bravi bambini lasciano i giochi e vanno da mamma”. Come fai a farla cantare a dei bimbi con la mamma lontana?».
La moda, il cinema, sono stati una fuga, un sogno o che altro?
«Un sogno. Lessi che tali Miranda e Nicole cercavano modelle. Essendo donne, pensai non ci fosse pericolo e mi presentai. Mi offrirono un provino per la sigla di Discoring. Fu imbarazzantissimo: c’erano Donna Summer e Renato Zero, un tizio mi disse: mettiti lì e balla. Dico: ma senza musica? E lui: la musica è nella tua testa. Ballai e mi presero».
Arriva prima l’incontro col cinema o con Vittorio Cecchi Gori?
«Facevo la modella, studiavo Medicina, andavo sempre in un ristorante dove andava anche l’assistente di Adriano Celentano. E lì iniziarono a girare Asso , con Celentano e Edwige Fenech, e conobbi Vittorio, che m’invitò subito a un festival a Buenos Aires. Non andai».
Lui le piacque?
«Come bellezza, no, ma era simpatico, mi faceva ridere, ed era un po’ infantile, anche se aveva 18 anni più di me. E mi lusingava che fosse produttore e mi avesse scelta per corteggiarmi».
Quando interpretò Uraia in Attila Flagello di Dio eravate già fidanzati?
«Sì, ma fui presa non perché mi proposi, ma perché Eleonora Giorgi strappò il contratto, Castellano e Pipolo non trovavano un’altra attrice, nel film erano tutti mezzi nudi e dopo settembre non si sarebbe più potuto girare. Dissero a Vittorio “proviniamo Rita”. Lui non voleva, ma l’inverno incalzava. Mi trovai sul set con un bikini di pelo. Ero felice, ma mi sentivo inadeguata. Infatti, dopo, mi misi a studiare recitazione».
Girò una manciata di film, poi lasciò. Perché?
«A Vittorio non piaceva che facessi l’attrice, ma neanche che andassi all’università, in palestra... Ho fatto tre anni di accademia drammatica e studiato inglese, spagnolo, fatto palestra, tutto a casa. Lui era molto possessivo, io molto giovane e abbastanza stupida: mi sentivo gratificata dalla sua gelosia. Molto presto, ho iniziato ad andare in ufficio con lui, non volevo stare a casa e volevo capire cosa fa un produttore. Alcuni interlocutori erano imbarazzati dalla mia presenza, ma Vittorio era fermissimo. Diceva: se parli con me, parli anche con lei».
Vi sposaste in due anni.
«Andando in chiesa, volevo scappare: avevo paura di non trovarlo dentro».
Quand’è che suo suocero dice «quella mio figlio se lo mette in saccoccia»?
«Secondo me, non l’ha mai detto».
Nei 18 anni in cui è stata la signora Cecchi Gori, non ha mai dato un’intervista, eppure, negli anni ’90 esplode una «Rusic Mania», è la scopritrice di talenti, arrivano premi, copertine.
«Forse la crisi con Vittorio inizia quando, ricevendoci, l’ambasciatore francese disse: l’allieva che supera il maestro. Capii subito che era la fine. I litigi cominciarono dopo la cover di Lady Ciclone, su Sette . Lui iniziò a soffrire il mio successo, come se togliesse qualcosa a lui. Era come dire: è brava la moglie, non lui. Non era vero. Forse come produttore ero più brava io, mi piaceva lavorare col regista, gli sceneggiatori... Ma come imprenditore lui aveva più visione. Io non vedevo competizione, ma compensazione. Lui, invece, iniziò a considerarmi una nemica, non più la donna che eravamo partiti con due film all’anno ed eravamo arrivati a farne 60. Ormai avevamo la Fiorentina, Tmc, case ovunque, aerei privati, andavamo su barche da un miliardo di lire al mese. Era una dimensione non normale e anche le tensioni erano fuori dall’ordinario».
Ricordi sfolgoranti da produttrice?
«Il Leone d’argento a Venezia per il mio primo film, Il toro , di Carlo Mazzacurati. Iniziai col cinema d’autore, con film che vincevano premi, ma non facevano soldi. La scuola di Daniele Luchetti, che vinse il David e incassò, fu la soddisfazione maggiore. E poi ci sono i comici che ho fatto esordire come attori, autori e registi: Pieraccioni, Panariello, Salemme, Albanese».
Suo marito quanto credeva nei nomi nuovi?
«Diceva: lascia perdere quei bischeri, occupati di Paolo Villaggio e Alberto Sordi. E io: me ne occupo, ma i nuovi li dobbiamo trovare».
La separazione fu rissosa e con interventi dei carabinieri.
«Fu orribile. Ricordo quando lessi nello sguardo di Vittorio che per lui non contavo più niente. Sentii che mi voleva annientata».
Ricominciare come fu?
«Lui non volle che lavorassimo insieme. E andai via senza un euro. Ero abituata a autista e guardie del corpo. Oggi mi sembra ridicolo, ma avevo paura a uscire di casa da sola. Il mio numero, il più ambito del cinema italiano, per un anno e mezzo, non ha mai squillato».
Perché andò via senza un euro?
«Ho preso zero e neanche una casa ed è stata un’offesa per tutte le donne che hanno passato anni con un uomo, facendo, lavorando, dimostrando. L’altra vergona è che ci ho messo 17 anni e mezzo divorziare, una violenza terribile. E il divorzio è arrivato quando non c’era più niente: Vittorio era stato arrestato e le società erano fallite. I miei figli non hanno neanche un garage che arrivi dal padre».
Com’è potuto crollare un impero?
«Me lo chiedo anch’io. Valeva quattromila miliardi di lire: se lo fai apposta, non ci riesci».
Oggi, come si mantiene?
«Ho aperto a Miami, con una socia, un concept store sofisticato e di successo, si chiama Violet & Grace lavoriamo ad altre aperture, Roma inclusa. E negli ultimi anni ho raccolto storie da produrre per cinema e serie. Presto prevedo di raccogliere i frutti».
Nel 2008, ha pubblicato con Mondadori «Jet Sex», un «diario erotico sentimentale». Quanto c’era di vero fra sesso su voli privati e infedeltà con i calciatori?
«È come per lo scrittore di gialli, che non è un assassino, ma un potenziale assassino. Io non ho mai nascosto di essere attratta dal sesso, lo trovo bello, giocoso. Sono io che portai in Italia Sex and the city , su Tmc».
Quanti fidanzati giovani ha avuto?
«Qualcuno. Ora sto con un ragazzo di 32 anni, trenta meno di me. È un bellissimo viaggio perché è a termine, il che lo rende intenso».
Come fa ad avere ancora un fisico così tonico?
«È un impegno. Mi alleno, mangio sano. Non mi voglio arrendere: è orribile, ma è così. Mi chiedo sempre: quanti anni buoni ancora ho?».
ANDREA SCARPA per il Messaggero il 7 agosto 2022.
«Un road trip», un viaggio in macchina. Rita Rusic le sue vacanze le chiama così. Arrivata oggi a Malaga, in aereo, da domani se ne andrà a spasso per una decina di giorni per il sud della Spagna e il Portogallo. E da settembre la produttrice cinematografica, 62 anni, ex moglie di Vittorio Cecchi Gori, due figli di 32 e 30, è pronta a tornare in pista con nuovi progetti per il cinema e la tv.
Con chi va?
«Con il mio compagno (il modello Cristiano Di Luzio, 32 anni, ndr)».
Lo stesso con cui pochi mesi fa ha partecipato a Pechino Express? Quello delle battute sul toy boy e via dicendo?
«Esatto. Delle chiacchiere, ovviamente, me ne frego. Abbiamo ancora voglia di stare insieme, divertirci, emozionarci. Quando non ci sarà più tutto questo, non ci saremo neanche noi come coppia. Abbiamo noleggiato un'auto per fermarci dove ci pare. Potrebbe anche diventare un'estate da ricordare».
Altre estati memorabili quali sono state?
«Mi viene in mente quella del 1999, in barca in Sardegna, quando da direttore artistico di Telemontecarlo 2 - la tv che avevamo appena acquistato - mi misi a vedere le videocassette di decine di serie. Rimasi fulminata da Sex and the city, che acquistai subito.
Quella del 1997 sul set del film La vita è bella di Benigni, o del 1996 quando decisi di produrre Il ciclone di Pieraccioni. E poi mi ricordo anche la prima estate da separata, nel 2000, a Sabaudia. Fu una scelta dolorosa per tutti, a cominciare dai bambini. Per me fu anche la perdita di tutto il resto».
Che intende dire?
«In pochi giorni fui tagliata fuori da ogni affare del Gruppo Cecchi Gori. In azienda non mi fecero entrare neanche per prendere le mie cose. Il telefono, che prima squillava senza sosta, si ammutolì. Sparirono tutti. Vittorio mi aveva fatto il vuoto intorno».
È vero che lei propose a suo marito di continuare a lavorare insieme?
«Sì. Gli dissi la verità: Insieme valiamo per tre, da soli mezzo.
Siamo troppo fragili e facilmente attaccabili. Non mi ascoltò e mi fece la guerra. Ormai con la testa, e i vizi, era andato».
Quali vizi? La cocaina?
«I vizi».
Lei oggi quanto vale?
«Adesso, dopo tutto quello che è successo in questi anni, il mio valore è uno».
Oggi a che punto si trova?
«Ho tantissima voglia di fare. Sono rientrata in Italia, dopo aver passato dieci anni a Miami, quando è scoppiato il Covid, e per il cinema è iniziata una crisi epocale: la gente non va più nelle sale e si sono imposte le piattaforme. Con loro non c'è confronto».
Nelle sale non ci crede più?
«Spero si rimetta in moto tutto, ma la vedo malissimo».
Per far ripartire il sistema non si potrebbe tagliare il costo del biglietto?
«Forse. Ma si riuscirebbe a guadagnare e a stare in piedi lo stesso?
Queste sono decisioni da prendere con la politica, non da soli».
Lei come si sta organizzando per tornare a produrre?
«Sto cercando nuove storie, due le ho già trovate, e nuovi artisti, anche comici. E poi mi sto concentrando su artisti già noti in Italia che hanno i numeri per sfondare all'estero, un po' come feci con Roberto Benigni. La mia sfida oggi è questa».
Ci mette i suoi soldi o, da ex milionaria, si allea con qualcuno?
«Dipende. Non essendo ricca, visto che ho divorziato a zero lire, più di tanto non potrei».
Non ha guadagnato tantissimo?
«Non io. Oggi a Roma vivo in affitto. Detto questo, per i progetti giusti i soldi si trovano. In finanza, per esempio. Lo Stato, però, deve aiutare il cinema».
Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, presentando la nuova edizione, dal 31 agosto al 10 settembre, ha detto che quest' anno trovare film italiani di qualità, nonostante se ne siano girati tanti con le sovvenzioni statali, è stato difficilissimo. Che ne pensa?
«Che bisogna selezionare meglio i progetti da aiutare».
Il suo segreto per il successo di un film qual è?
«Sempre lo stesso: una buona storia. Originale, coraggiosa, folle. E ci vuole anche la generosità per dare spazio ai giovani. Bisogna rischiare, solo così arriveranno grandi sorprese e il pubblico tornerà nelle sale».
Per scegliere come si regola?
«Leggo i copioni e divento cattivissima. Devo emozionarmi».
La storia della sua vita - dal campo profughi istriani a oggi - ha mai pensato di raccontarla?
«Spesso. Ha tutto per essere un gran film, ma per i miei figli non sarebbe tanto divertente. Questo mi ha frenato».
Oggi che cosa fanno?
«Vittoria vive e lavora a Miami, Mario a Roma. Lui si sta avvicinando al mondo del cinema».
Sta dicendo che una nuova generazione di Cecchi Gori è pronta a tornare in pista?
«Sì. C'è il desiderio di misurarsi. C'è un Cecchi Gori che vuole andare avanti, forse due». Anche sua figlia?
«Fra poco si saprà tutto. Di sicuro hanno i numeri per poter fare tanto e bene. Li ho cresciuti a pane e cinema».
La cazzata della vita qual è stata?
«Non saprei. Non sono il tipo da o la va o la spacca, ho sempre pensato e ripensato a quello che facevo, e raramente mi sono buttata».
Quando l'ha fatto?
«Io non ho vissuto l'adolescenza, così me la sono ripresa più avanti, a 40 anni. A quell'età a Miami ho fatto quello che volevo».
Tipo?
«Ero passata da un fidanzato a un marito, cosa avevo vissuto e capito? Ho fatto i miei esperimenti. Stavo fuori tutte le notti, ballavo sul cubo fino all'alba, rientravo alle sette... Me la sono follemente spassata».
Sul profilo Instagram pubblica suoi video molto sensuali: non teme il ridicolo?
«No. Perché un po' mi ci sento, ridicola, e la cosa mi fa ridere. Sono pur sempre una donna slava e il bon ton non mi appartiene. Non vengo da una famiglia sofisticata, non ho studiato nei grandi collegi... Arrivo da un altro mondo, dove ho dovuto sgomitare e darmi da fare subito. Su Instagram metto cavolate da sfacciata, quale sono oggi, in contrasto con la ragazzina spaventata che ero. Mi piace giocare. Sono una donna libera».
Nel 1995 lei produsse il film di Giuseppe Tornatore L'uomo delle stelle, poi candidato all'Oscar. È vero che riuscì a convincere Carlo Verdone a recitare il ruolo del protagonista, poi interpretato da Sergio Castellitto?
«Sì. Ero convinta che quel ruolo avrebbe dato tanto alla sua carriera. Carlo, però, all'ultimo momento si rifiutò. Succede. Ed è inutile pensarci».
Non ha rimpianti?
«Tanti. Avrei voluto studiare Lettere e filosofia non Medicina, che non ho mai finito. Ho recuperato nel 2017 iscrivendomi a un corso di Cinema all'università di Miami. E poi avrei voluto avere la giusta maturità per parlare in maniera più profonda con i grandi maestri che ho incontrato: Fellini, Scola, Zeffirelli... Oggi quante domande avrei per loro. All'epoca invece ero troppo impegnata a raggiungere risultati».
Vittorio Cecchi Gori, il suo ex marito, come sta?
«È partito per le vacanze con una leggera insufficienza respiratoria, ma sta bene. La notte dorme con l'ossigeno, ma è felice come un bimbo. E anch' io. È una bella sorpresa. Il peggio sembra passato». E per lei, il meglio deve ancora venire?
«Sempre. E ogni volta che mi viene il dubbio, tiro su la testa e guardo avanti».
Dagospia il 22 aprile 2022. COMUNICATO STAMPA.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, il venerdì alle 22.55 su Raidue, con un ciclo di dieci puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziose, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare. Interviste fatte con lo stile diretto, graffiante e senza fronzoli della giornalista che fa emergere luci e ombre delle sue ospiti.
La Fagnani a tu per tu con Rita Rusic. Un ritratto a tutto tondo della produttrice cinematografica, ex moglie di Vittorio Cecchi Gori, dal quale si è separata dopo un tormentato e doloroso divorzio che ha affossato la sua carriera, tanto è vero che alcuni attori e registi con cui lei lavorava si sono dileguati. La Rusic ci tiene a precisare che: “Non è che alcuni sono spariti e altri no, sono spariti tutti”.
La Fagnani chiede allora di Roberto Benigni:” L’ha delusa?” la Rusic senza mezzi termini: “Assolutamente sì! Ho prodotto la vita è bella, ho sempre avuto un bellissimo rapporto con Nicoletta e Roberto, e quando sono andata agli Oscar e ho chiesto un posto in sala e mi è stato detto che non c’era. Ci sono rimasta male”.
Un’intervista a 360 gradi, durante la quale la Rusic ripercorre la sua vita, ricordando l’infanzia difficile, gli inizi come attrice e il famoso matrimonio con Vittorio Cecchi Gori, con il quale ha dato vita anche a un ménage professionale, diventando, infatti, un acclamata produttrice. Matrimonio, tuttavia conclusosi in tribunale con strascichi legali. La Rusic, poi, spiega i motivi che la legano al suo attuale fidanzato, Cristiano Di Luzio, 30 anni più giovane di lei.
E, infine, sollecitata dalle domande della Fagnani, confessa il suo particolare rapporto con il sesso, vitale e curioso fin da quando era ragazzina, dando vita a un divertente botta e risposta con la giornalista. Fagnani:” Lei ha detto: sono slava, mi piace il sesso, ho gusti forti, ma forti in che senso?”. Rusic: “Il sesso è stato per me molto attrattivo, fin da quando ero piccola piccola, una bambina, guardavo le figure...”.
La Fagnani la interrompe per precisare:” Mi scusi, che guardava da ragazzina?” Rusic: “Quando tornavo a casa dal collegio, il figlio del portiere mi dava dei giornalini...” Fagnani:” Porno?” Rusic divertita: “No porno no, però mi dava quei giornalini disegnati e io sentivo tutto un caldo...”.
Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 9 marzo 2022.
Prima di Pechino Express, dice ridendo, «il mio motto era: prima delle 11 non incontro manco il Papa». Dopo aver dormito per terra, sui tappeti, in mezzo agli animali, qualcosa è cambiato anche per Rita Rusic, 61 anni, storica produttrice (una cinquantina di film con l'ex marito Vittorio Cecchi Gori, sette da sola) e concorrente del programma di Sky con il fidanzato Cristiano Di Luzio, modello 32enne di Anzio.
Quella lungo la Rotta dei Sultani tra Turchia, Uzbekistan, Giordania ed Emirati Arabi è stata «un'esperienza positiva», dice, che le ha insegnato molto. Anche a rispondere alle interviste prima delle 11: «Sì, ma non ero sicura che sarei stata viva a quest' ora».
Cosa ha scoperto del Medio Oriente?
«Che cresciamo con convinzioni sbagliate. Abbiamo viaggiato in paesi islamici e abbiamo incontrato una cultura diversa dalla nostra, ma accogliente. Gente anche povera che ci ha aperto la porta di casa. A un certo punto mi sono vergognata di come siamo».
Quando?
«C'era una signora gentilissima, anziana, che la notte si alzava per metterci i legnetti nella stufa, pensando che non fossimo abituati a certe temperature. Quando sono andata via le ho regalato un mio anello e lei si è messa a piangere. Mi ricordava mia nonna».
Ha mai avuto paura?
«Quando abbiamo rischiato di essere travolti da un camion. Ma quello poteva succedere anche a Roma».
Ha indossato il velo?
«Sì, se vado a casa d'altri, mi adeguo. A Roma lo vivo come una cosa orribile, come un simbolo di inferiorità, là mi è sembrato persino comodo. Ti protegge e ti fa sentire libera di non dover essere perfetta».
E con Di Luzio? Siete ancora insieme?
«Sì e siamo più uniti di prima. Certo, delle liti assurde».
Per esempio?
«A un certo punto dovevamo trovarci un posto dove dormire, ma lui si rifiutava. Sosteneva di non essere abituato a chiedere un letto. Allora gli ho fatto notare che con me, invece, non aveva avuto problemi a chiederlo: avevamo cenato una sola volta insieme, e già si offriva di accompagnarmi a Milano. Si è offeso».
La differenza d'età?
«Dicevo a tutti che era mio marito. E gli facevo portare due zaini, pure il mio. Non vorrei che mi perdesse tonicità».
Cosa non rifarebbe del viaggio?
«Il primo giorno volevo cavare gli occhi al mio agente. Dopo mezz' ora ero già su un cavallo che girava su se stesso tipo giostra. Il terrore. Non andavo a cavallo da quando ho fatto Attila, flagello di Dio (nel 1982, ndr)».
Se facessero un remake di Attila?
«Solo col pelliccione addosso, chi ci rientra in quei bikini? Però le commedie mi piacerebbe farle».
Da produttrice?
«Sì, sto cercando storie, anche tra i libri. Spero solo di non essermi rincoglionita».
Ha scoperto Pieraccioni: il suo fiuto che le dice?
«Che sui social ci sono persone geniali, talenti. Non faccio i nomi altrimenti me li fregano. Ma è lì che bisogna cercare: 20, 22, 25 anni al massimo. Giovanissimi».
Vale ancora la pena fare cinema?
«La gente ha perso l'abitudine alla sala, non la voglia di vedere i film».
Ha finito di scontare la separazione da Cecchi Gori?
«Nel 1999 ero nel consiglio dei David di Donatello, tra le 11 persone più importanti del cinema, nel 2000 ero nessuno. Dopo la separazione mi hanno levato pure il voto: Rondi (Gian Luigi, decano della critica, ndr) diceva che non avevo i requisiti. E al David votavano anche gli impiegati di banca. Adesso, dopo 22 anni, la presidente (Piera De Tassis, ndr) mi ha finalmente restituito il voto».
I requisiti li ha?
«Figuriamoci. All'inizio della carriera mi lamentavo perché per tre anni ho fatto solo cinema d'autore, vincevo tutto, anche il David, ma non riuscivo a incassare. Dicevo: devo smetterla, altrimenti faccio fallire la Cecchi Gori. Poi ci ha pensato qualcun altro».
Con Cecchi Gori si sente?
«Sì. Gli voglio bene».
Da allora ha capito come far durare una coppia?
«Il segreto è l'ironia. L'unico problema di Cristiano è che mi fa venire le rughe a forza di ridere. Abbiamo voglia di stare insieme e non ci obbliga nessuno. Un giorno penso che fuggirà. Mi farò un pianterello, poi passa. Io vado avanti. Come una guerriera».
Roberta Beta, il dramma dell'ex Gf: senza lavoro. E suo figlio... cosa le è successo. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 15 luglio 2022.
“Mi sento persa”, un vero grido d'allarme quello di Roberta Beta, ex concorrente del Grande Fratello, che adesso si racconta al settimanale Nuovo di Riccardo Signoretti. A quanto pare la Beta sta vivendo un momento molto difficile. Ma cosa è accaduto? La 56enne racconta di non lavorare da circa un anno. Infatti, è sparita dalla tv. Da tempo non la si vede da Barbara D'Urso. Come mai? Mistero.
Al settimanale Nuovo rivela di essere disoccupata e che deve fare i conti con la lontananza del figlio. Che si chiama Filippo ed ha 20 anni. E' nato da una storia d’amore piuttosto breve, Roberta l'ha cresciuto da sola. Adesso Filippo si è trasferito a Milano per studiare Giurisprudenza. “Lui è sempre stato la mia priorità. Per amor suo ho detto tanti no e per lui ho sacrificato la mia carriera. È arrivato in un momento in cui ero lanciata come un razzo, ma non ho rimpianti e rifarei tutto”, racconta al settimanale.
Il suo Grande Fratello è andato in onda nel 2000. Prima, storica, edizione. Un programma che nessuno sapeva cosa fosse. Poi, dopo quell'esperienza, la Beta è riuscita a trovare spazio in tv come opinionista e inviata. Ma piccole e sporadiche collaborazioni. Nulla di più. “Da sei anni non faccio più radio ma quando la gente mi vede presentare un libro di un amico o un evento benefico chiede perché non mi vengano date nuove opportunità. E questo è davvero frustrante”, svela la Beta. “Se nessuno mi dà un’opportunità vorrà dire che me la creerò da sola. Ho già in mente una trasmissione e poi con il mio agente stiamo portando avanti vari progetti tv. Incrocio le dita”.
Quella foto di Roberto Bolle a 10 anni: unico ballerino fra 6 tutù rosa. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022.
Lo scatto della fotografa Lella Beretta postato su Facebook: la futura étoile insieme alle piccole danzatrici all’Accademia di Vercelli nell’85.
Roberto Bolle sulle mezze punte in posa per una foto di gruppo. Unico ballerino tra tante bimbe in tutù rosa. È un Bolle che muove i suoi primi passi quello immortalato dalla fotografa vercellese Lella Beretta che ha pubblicato l’immagine sui social.
La foto è stata scattata nel 1985 all’Accademia di Vercelli, proprio quella dove Roberto Bolle, ballerino di fama internazionale, ha mosso i suoi primi passi nel mondo della danza. «È stato uno dei primi lavori realizzati per Pilar Sampietro: ho sempre adorato il mondo magico della danza, con i suoi tutù e le movenze aggraziate. Bolle, che era uno dei pochi bambini che danzava, finiva in tutte le mie fotografie. Era un bambino bellissimo, aggraziato, elegante. Si vedeva già il suo talento».
Roberto Bolle è stato allievo di Pilar Sampietro, famosa ballerina di origine spagnola che proprio a Vercelli aveva fondato negli anni settanta l’Accademia di Danza a Vercelli, tra i 9 e gli 11 anni. Originario di Casale Monferrato e cresciuto a Torino Vercellese, il timido ma già portato per la danza fin da bambino, Roberto Bolle ogni giorno studiava con impegno a Vercelli. Tanto che chi lo vedeva ballare, anche per la prima volta, scorgeva in lui un talento naturale. Così, sotto lo scatto, sono in molti a raccontare le emozioni vissute da quelle sei bambine che nella foto lavoravano con lui alla sbarra.
Tra queste anche la mamma di Simona Pomati, piccola ballerina al fianco di Bolle. «Aveva talento e si vedeva già da bambino. Oggi sono ancora orgogliosa che mia figlia abbia frequentato l’ Accademia di Danza con un insegnante come la Signora Pilar Sampietro». Una vera emozione per la fotografa Lella Beretta: «Io iniziavo a fotografare la Danza e lui iniziava a dimostrare il suo Talento - dice orgogliosa-. Vale la pena ricordare questo mio scatto perché lui è Roberto Bolle».
Valeria Morini per fanpage.it il 27 agosto 2022.
Impossibile dimenticare le sue televendite scatenate: Roberto Da Crema, detto il Baffo o Baffo da Crema o Principe della notte, negli anni 80 e 90 è stato un volto popolarissimo della televisione, per l'esuberanza smodata (e caratterizzata dall'inconfondibile respiro affannoso) con cui cercava di vendere prodotti ai telespettatori. Che fine ha fatto, ora che è sostanzialmente lontano dalla televisione (anche se a maggio è apparso sui Rete 4 a Dalla parte degli animali e fino a qualche anno fa era opinionista di Barbara D'Urso)?
Roberto Da Crema fa il pescatore
L'ex imbonitore milanese, 68 anni, si è trasferito a Lampedusa insieme alla moglie Raffaella. Come ha spiegato in un'intervista rilasciata a Nuovo Tv, va a pescare in barca tutte le mattine alle 6 e frequenta il mercato, dove gli isolani lo vedono spesso dietro il banco del pesce, a vendere i prodotti: "Quando i pescatori hanno visto la mia grande passione hanno cominciato a invitarmi sui loro pescherecci. E adesso, ogni tanto, vendo il pesce dietro al banco del mercato. Lo faccio per puro divertimento".
In realtà si tratta infatti di un hobby, più che di un lavoro: Roberto Da Crema regala i pesci alla pescheria, in cambio di alcune informazioni sui posti migliori in cui andare a pesca. I suoi introiti derivano da un'azienda a Milano di stock e cambio merci, gestita dai figli Morris e Valentina: "Adesso anche io sono un loro dipendente per cui mi danno il mio stipendio".
Non è escluso un suo ritorno in televisione: dopo l'esperienza nel reality La fattoria nel 2004 (dove fu espulso per una bestemmia) al Baffo non dispiacerebbe fare l'Isola dei Famosi, anche per mostrare le sue eccellenti doti di pescatore.
3 curiosità su Roberto Da Crema
1 – Ha fatto anche l'attore: il Baffo ha recitato in due film, il comico Chiavi in mano (1996) di Mariano Laurenti e Per caso (1999) di Giuseppe Conti (dedicato alla sua vita, in cui interpreta se stesso), oltre che nella serie Nebbia in Valpadana con Cochi e Renato (2000) e in un episodio di Camera Café (2008). Più di recente, ha offerto un cameo nella serie parodia Romolo + Giuly: La guerra mondiale italiana (2018).
2- Non si è fatto mancare neppure una breve parentesi musicale: nel 1995 ha inciso un EP di musica dance dal titolo "Vendo (Parola di Baffo)".
3- Durante la stagione calcistica 2008/09 ha fatto l'addetto alle pubbliche relazioni per il Sondrio Calcio, squadra che all'epoca era in Eccellenza.
Dagopsia il 19 giugno 2022. Da Off Topic – Radio 24
“Nella mia carriera ho venduto anche delle croste. Mi arriva uno stendino dall’America, una specie di polipo dove mettevi mutande e fazzoletti. Faceva cagare. Il problema è che non stava in piedi”. Roberto Da Crema, il re delle televendite, a ruota libera a Off Topic su Radio 24. “Non sono molto forbito, esterno con gestualità e sentimento.
Sono veemente tutto il giorno e quando mi incazzo divento calmo. Ho fatto la terza media e quando sono ospitato dalla Bocconi e alla Sapienza per parlare di gestualità e opera di convincimento spiego le cose con veemenza. Una volta in Bocconi mi hanno chiesto di promuovere un libro senza però parlare del titolo, della copertina, dei contenuti, del prezzo. E cosa ho fatto? Per istinto ho preso il libro, l’ho buttato a terra, ci sono salito sopra e ho detto “il libro ti fa crescere”. Il pubblico è impazzito”.
“Ho capito che il mio modo di comunicare era efficace perché ho venduto nei mercati, mia mamma vendeva maglieria, e la gente mi diceva che ero un fenomeno, mi dicevano che nelle tv commerciali che stavano nascendo avrei spaccato tutto. Ci credevo, sudavo ed esternavo e la gente mi guardava aspettando che crepassi con quest’asma. Poi non sono crepato e ho girato mezza Europa e l’America. Ho guadagnato un po’ anche perché non bevo e non mi drogo. Invece la gente dice sempre “cazzo, chissà questo qua quanto pippa” e invece non fumo neanche le sigarette”.
Poi Roberto ricorda quando la sua carriera ha incrociato l’universo Mediaset. “Un giorno Mike Bongiorno, di fronte a quelli di Publitalia, mi dice “venga qua a vendere con me” e loro non potevano dire di no a Mike Bongiorno che mi chiamava in video. Figuratevi io, il contadino nazional popolare con trent’anni alle spalle di tv minchia, si trova al fianco di Mike, un maestro. Ho colto la palla al balzo e facevamo una televendita io e una lui. Mike si divertiva ma le televendite con lui prendevano tipo 850 chiamate, lo stesso prodotto con me 1300 chiamate. Vengo chiamato ai piani superiori di Publitalia e mi dicono “Baffo, ci guardi in faccia, lei è un personaggio ma è successo questa cosa ma… non è successo niente. Ci siamo capiti?”. Alla fine mi hanno dato un pacchetto di telepromozioni a parte dicendomi che se usciva questa cosa che vendevo più di Mike erano rovinati”. “Mastrota? Quando mi vede mi ringrazia ma gli dico che è troppo automatico e meccanico, vorrei vedere in lui un po’ di sudore. Gli consiglio di non leggere il gobbo perché i gobbi portano fortuna ma non vanno letti”.
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022.
Il Baffo ti intontisce con un vocione baritonale asmatico che da quarant' anni è il suo marchio di fabbrica. Però è lui a lasciarti in debito di ossigeno, travolgendoti con ricordi, aneddoti, dietro le quinte verosimili o veri, per certo gustosi.
Non a caso Roberto Baffo, al secolo Roberto Da Crema, altrimenti detto il «Maradona delle televendite», è l'uomo che ha venduto (a blocchi di 7 per 99 mila lire) quasi due milioni di «Watch» cinesi, «ispirati Swatch», finiti - giura - anche tra le mani di insospettabili come Ezio Greggio e Loredana Bertè. «Il bello era che ne potevi cambiare uno al giorno», gigioneggia per telefono da Lampedusa, in pausa tra una battuta di pesca mattutina che ha prodotto una cernia e un barracuda, e una pomeridiana per ricciole. In Sicilia trascorre sei mesi l'anno: «Faccio due settimane qui e 10 giorni a Pioltello. Al mare mi vengono a trovare a turno gli amici, i miei 4 nipoti, mia moglie Raffaella».
Quale oggetto ha venduto di più?
«I Watch che scimmiottavano gli Swatch: un milione e 750 mila pezzi. Li comprarono pure Ezio Greggio e Loredana Bertè, che da me ordinava le pentole».
Altri clienti «illustri»?
«Sandra Mondaini e Raimondo Vianello presero i giubbotti in ecopelle con la striscia di lana al centro per i loro filippini».
Quello che toccava diventava sempre oro?
«No. Dopo il caso dei Watch, un'azienda americana mi chiese di vendere gli orologi Beverly Hills: un fiasco. Ma un conto è se vendi l'orologio inventato e lo fai pagare poco, un altro è se utilizzi una griffe; la signora Teresa a casa non capisce».
In America vinse l'Oscar delle televendite.
«Andai al Madison Square Garden con un amico con cui pescavo le carpe sul Ticino.
Dovevo spiegare la differenza tra gli orologi normali e quelli subacquei, in platea c'erano anche gli psicologi. Non sapevo una parola di inglese. Mentre alle mie spalle mandavano un video sul mio stile di vendita, trovai vicino a me un'ampolla di vetro con dei pesciolini rossi. Allora la presi sotto braccio e ci infilai dentro un orologio. Finito il video lo tirai fuori e lo sbattei sul tavolo: " Water resistant !" gridai. Ovazione. Tornai in Italia con un assegno da ventimila dollari in tasca. Era il 1992».
La invitavano negli atenei.
«Raccontavo di quando la Philips mi aveva fatto andare a Eindhoven per liberarsi di una serie di articoli in magazzino: una bistecchiera elettrica, un tritacarne, lo spremiagrumi, cose così. Io noto in un angolino il coltello elettrico, una roba che in Italia ne vendi mille pezzi l'anno se va bene, loro avevano in quantità esagerata.
Rovesciai la promozione: se voi comprate tutti e cinque gli elettrodomestici che potete trovare ovunque, vi arriva a casa questo coltello elettrico che avete sempre sognato! Ho venduto 80 mila confezioni: la Philips non ne aveva abbastanza. All'università un libro spiegava quello che avevo fatto senza saperlo».
A Cielito lindo, su Rai 3, provò a vendere l'Aeroporto di Linate. C'era un numero in sovrimpressione: davvero qualcuno chiamò?
«Era collegato al centralino delle mie televendite: chiamò il mondo, non avevano capito che era uno scherzo».
Cosa diavolo erano i forni ovalizzati con i baffi?
«Un'azienda non riusciva a vendere un forno per la pizza con il cassetto. Ma che roba è quel porta scarpe?, dissi. Chiamai mia sorella con le sue mani da contadina e glielo feci riempire di salamelle, patate, verdure, apriva e chiudeva, toglieva e infornava. Ne vendetti 350 mila. Dopo lo comprò l'Ariete».
L'oggetto più inutile?
«Lo stendino a forma di ombrello: si apriva con questi tentacoli orrendi dove potevi appendere fino a tre lavatrici. La biancheria cadeva da tutte le parti».
Marchi inventati?
«Il sarto Severgnini. Mi avevano dato uno stock di camicie di cotone. Le vendetti dicendo che erano della grande sartoria artigianale Severgnini. Mai esistita. Un successo».
Su «Dagospia» abbiamo riascoltato la sua intervista a Radio24 in cui racconta che televendeva di più di Mike Bongiorno.
«Per non dirlo in giro mi diedero un pacchetto di 12 televendite in una bella fascia, che valeva 400 milioni di vecchie lire».
Televenditore si nasce o si diventa?
«Mia madre vendeva abiti al mercato, mio padre l'Omino bianco. Una volta gli si allagò la cantina con tutte le scatole del detersivo. Io riempii sacchetti di plastica con il prodotto che si poteva salvare e mi inventai il 3 per 2».
Quanti anni aveva?
«Sette-otto».
Oggi ne ha 69: non va in pensione?
«Io? Ora ho cambiato il paradigma. Non dico più: "Guarda che bello, te lo mando a casa". Ma: "Guarda che bello, vieni a trovarmi nei miei magazzini". Si accede solo con la tessera: ritiro i cambi merce e rivendo a prezzi ribassato».
· Roberto De Simone.
Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 12 settembre 2022.
«Roberto De Simone. Un genio ignorato dai più». A dirlo nei giorni scorsi è stato il grande Riccardo Muti, sparando ad alzo zero contro le istituzioni di Napoli e non solo, colpevoli d'ingratitudine e di ignoranza nei confronti di un personaggio che il mondo ci invidia.
«Musicista, compositore, regista immenso, vive in un isolamento che è un atto spregevole», non usa mezze misure il direttore della Chicago Symphony Orchestra.
Non si può che dargli ragione. Visto che De Simone, fondatore della Nuova Compagnia di Canto Popolare, è un artista di fama mondiale.
I suoi spettacoli sono ormai entrati nella mitologia del teatro italiano. Uno per tutti, La gatta cenerentola, che dal debutto, avvenuto il 26 luglio 1976 al Festival dei due mondi di Spoleto, ha girato il mondo per venticinque anni. In un Paese meno sciamannato e volubile del nostro sarebbe sempre in cartellone. Come succede a Broadway con West Side Story, My Fair Lady, Jesus Christ Superstar, A Chorus Line, alcuni dei quali hanno avuto qualcosa come settemila repliche e in certi casi vanno ancora in scena. In questa opera-fiaba gli aspetti più profondamente locali della cultura napoletana venivano resi universalmente comunicabili, tradotti in linguaggi alti e internazionali. Non a caso lo spettacolo è considerato un classico.
Come le commedie di Eduardo. E in certe università americane è materia di studio. Perché metteva a tacere il rumore fastidioso della napoletaneria più ruffiana. Per discendere verso le sorgenti poetiche di Partenope, verso quella profondità che fa della città una regione dell'anima che, come tale, appartiene al mondo.
E adesso il Maestro, alle soglie dei novant' anni, vive in un vergognoso dimenticatoio. E per il suo immenso patrimonio, fatto di libri, testimonianze, oggetti d'arte non si trova nemmeno un posto.
Speriamo che la politica e la cultura provino almeno un po' di vergogna.
· Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Robertino: «Anche Totò si commuoveva con le mie canzoni all’osteria. In Scandinavia superai Elvis». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2022.
Il cantante era uno dei cantanti più famosi e pagati degli anni Sessanta. «All’estero mi trovavo le fan nella stanza dell’hotel».
«A cinque anni già cantavo nelle trattorie per raggranellare qualche spicciolo, perché a casa non c’era una lira, ero il quinto di otto figli — io, Eugenio, Sergio, Anna, Enrico, Lucia, Angela e Sandro, più Armando morto di polmonite, era bellissimo, mamma Cesira ci ha pianto tanto — stretti in due stanze al Quadraro, sulla Tuscolana. Papà Orlando faceva lo stuccatore, decorava colonne e capitelli e guadagnava 30 mila lire alla settimana finché non si è ammalato, però in dieci non bastavano mai, perciò dopo la scuola — quando ci andavo — mi incamminavo verso Cinecittà, più o meno un chilometro, fino all’osteria “Da Giggetto”, ci trovavo sempre un sacco di artisti famosi, Totò, Vittorio Gassman, Tiberio Murgia, Capannelle, Maurizio Arena, Renato Salvatori, Marisa Allasio. E giravo tra i tavolini. “Signore bello, che canzone volete sentire?”».
Robertino, nome d’arte di Roberto Loreti, 75 anni
E ci scappava la mancetta.
«Amedeo Nazzari era innamorato della mia voce d’angelo. Gassman era un po’ atteggione. Totò ogni tanto mi allungava pure cinquantamila lire. “ Guagliò, tengo la gola chiusa e non mi scende giù il boccone”, mi confessò una volta, commosso. Aldo Fabrizi invece restava sempre con la faccia china sul piatto della trippa, gli piaceva ascoltare “Signora Fortuna”, però non mi ha mai dato un soldo. “Mettete a sede, che voi magnà? Giggé, portaje du’ fettuccine” e io mica facevo i complimenti, capirai, a casa il pollo lo vedevo sì e no una volta a settimana, la mattina a colazione c’era l’orzo con una fetta di pane, che se non mi spicciavo me la rubava qualche mio fratello».
E anche dopo, quando Roberto Loreti, 2 mogli, 3 figli — in arte solo e per sempre Robertino pure adesso che ne ha 75 (e non molla, a ottobre «se la gamba offesa mi regge ancora» partirà per gli Usa con Bobby Solo e Iva Zanicchi) — da bimbo prodigio vestito da cherubino che cantava per Papa Giovanni XXIII («Sua Santità mi fece una carezza e io mi chinai a baciargli l’anello, mai vista un’ametista così grossa») e per il presidente francese Charles De Gaulle («Un sellerone alto, sempre con il cappello in testa, sul palco accanto a Claudia Cardinale tremavo, avevo fatto la doccia gelata e mi si era abbassata la voce»,) a 15 anni diventerà uno dei cantanti più famosi e pagati degli anni Sessanta, collezionista di dischi d’oro dall’Italia all’Islanda, dal Belgio all’Australia e alla Siberia («Quando Gronchi andò in visita in Russia, Kruscev, quello che sbatteva la scarpa all’Onu, si complimentò con “la patria di Michelangelo, Raffaello e Robertino”, ha capito, sì?»), acclamato «Golden boy» alla Carnegie Hall di New York, eletto «Señor Simpatia» in Messico, il baby divo che riceveva 10 mila lettere al giorno, era rimasto un ragazzetto semplice: «Tutti i soldi li davo a mamma».
Un bambino così piccolo in giro da solo?
«Ero parecchio sveglio. Al pomeriggio andavo al cinema Folgore a scrocco, perché due miei fratelli più grandi vendevano gelati, mostaccioli e caramelle all’intervallo. Gli portavo le pagnotelle e poi restavo seduto fino all’ultimo spettacolo, mi addormentavo e loro mi riportavano a casa in spalla. La sera, se capitava, facevo qualche serenata, e quando tornavo con cinquemila lire in tasca papà era contentissimo, altro che preoccupato».
E bravo Robertino.
«Poi un giorno per strada, sarà stato il 1953, mi ferma un tizio di Cinecittà, lo chiamavano Camomilla, cercava comparse. Ero caruccio, con due occhi scuri che parlavano. “ A’ regazzì, ndo vai? Hai voglia di fare un film? Ti vanno bene 30 mila lire al giorno per dieci giorni?” Come no, di corsa. Così ho avuto una particina in Anna con Silvana Mangano ed ero il figlio piccolo di Peppone-Gino Cervi ne Il ritorno di don Camillo, ho ancora la foto di me in braccio a Fernandel».
La vera passione però era la musica.
«Presi qualche lezione dal tenore Tito Schipa e da Beniamino Gigli, gratis eh, perché non potevo pagare, anzi, mi davano loro i soldi per comprarmi un cappuccino col maritozzo e il biglietto del tram per la via Flaminia, andata e ritorno, perché quando rientravo a casa era tardi e non era rimasto più niente in tavola. Quando a un concorso alla radio per nuovi talenti — mi ci portò Enzo Tortora, che signore — vinsi una spilletta d’oro, dopo tre giorni mamma se l’andò a impegnare al Monte di Pietà».
A 13 anni fu scoperto da Volmer Sorensen, produttore e pianista danese.
«Mi esibivo al Caffè Grand’Italia di piazza Esedra, il venerdì e il sabato arrivava Totò, elegante come un principe, sempre accompagnato da Odoardo Spadaro, e mi chiedeva di cantargli “Malafemmena”, “Io te vurria vasà” e “Marechiaro”. Mamma veniva a sentirmi con le mie sorelle, però restavano fuori, dietro la siepe, perché lì anche una granita costava ottocento lire, e con quelle ci mangiavamo tre giorni. Quando si presentò questo signore straniero, non sapevo chi fosse, invece suonava con Louis Armstrong, Gilbert Bécaud, Charles Aznavour, Sasha Distel. “Tra due mesi ti porto con me a Copenaghen”. “E dov’è? In America?”».
Alla fine ci andò, accompagnato da papà.
«Mi invitarono alla tv danese, in un programma trasmesso pure in Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Russia e Groenlandia. Un successone. Il primo 45 giri vendette 300 mila copie in due settimane solo in Danimarca, l’ellepì 28 milioni in tutta Europa. In Scandinavia ero primo in classifica, Elvis decimo. Il mio francobollo è al museo di San Pietroburgo, la mia voce andò in orbita con lo Sputnik».
Nel 1964, rientrato in Italia, va al Festival di Sanremo con «Un bacio piccolissimo».
«Con le labbra tue di zucchero… Eh, quasi non mi volevano ammettere in gara perché non avevo nemmeno 17 anni. “Che faccio, torno a casa?”. Arrivai quinto, vinse Gigliola Cinquetti con “Non ho l’età”, pure più piccola di me, ma superai il milione e 700 mila dischi venduti. Ci tornai nel 1965 con “Mia cara” e nel 1969 con “Le belle donne”, in coppia con Rocky Roberts».
Con Claudio Villa (rima baciata: «Te faccio schizzà fori la tonsilla») facevate a gara di stornelli romaneschi.
«Un amicone, giocavamo a carte, una volta gli vinsi nove scope di fila. “Oggi ti mando in bianco”, promisi. Non vide un punto. E perse 900 mila lire, tanto mica puntavamo soldi veri».
A Little Tony soffiò una conquista.
«Eravamo al Cantagiro, vicino Rimini, aveva messo gli occhi su una maestra di una colonia estiva, perciò aveva organizzato un’uscita a sei, lui, io, un altro ragazzo e due amiche di lei. Però finì che la prescelta si prese una cotta per me e Tony beh, rosicò. Era buono, un po’ se la tirava… Mica era colpa mia se piacevo… ero bellino, magro, atletico, facevo pugilato, scherma, judo».
Cantava: «Era la donna mia ed ora non c’è più, io l’ho mandata via, poi l’hai presa tu” e “il suo amore non sarà più mio, penserò a quel bacio prima dell’addio”, ma in amore non le andava poi male...».
«Ah no, in Scandinavia le ragazze me le ritrovavo in camera, alcune mi toccava cacciarle… che glielo dico a fa’. Lì c’era l’usanza di lasciare le scarpe fuori dalla camera, in hotel, per farle lucidare, me le rubavano le ammiratrici. Quante ne avrei da raccontare, purtroppo non ho più tanta memoria, mannaggia all’ictus del 2016, mi è rimasta una gamba più corta, cammino col bastone e ogni tanto mi confondo… Ecco, sì, a Sanremo una cantante americana allora molto famosa, Timi Yuro, mi agguantò e mi buttò in una siepe. Una ballerina francese mi chiuse in camera con lei e lanciò la chiave dalla finestra. Io però ero un romantico, per andarci a letto dovevo provare almeno un po’ di sentimento».
Flirt con qualche collega?
«Beh, al Festival ho conosciuto Orietta Berti che era giovanissima, molto caruccia, voleva che la accompagnassi a cena… mi batteva i pezzi… ma per me era un’amica. Nilla Pizzi mi bussava alla porta e Carla Boni mi sussurrava: “Sai, ho una certa esperienza”, ho finto di non capire».
Ha dato buca pure ad Alberto Sordi.
«Mi mandò a chiamare, voleva che andassi a trovarlo a casa sua, ma avevo un appuntamento con una ragazza… Con Marcello Mastroianni invece passai un pomeriggio a chiacchierare. Mi raccontò che ogni volta che andava a Mosca gli dicevano sempre: “Ah, sei italiano come Robertino!”. Mi regalò una stilografica con il pennino d’oro: “Ti auguro di firmarci centinaia di autografi”».
Era vicino di casa di Sophia Loren.
«Comprai una villa a Marino a duecento metri dalla sua. La incrociavo ogni tanto. Passava in Rolls Royce, la salutavo, non ricambiava. Più simpatica Ursula Andress, abita qui a Zagarolo come me. Ci chiacchiero spesso. “Eh… non mi facevi dormire la notte”, le ho confidato. Mo’ basta invece, per certe cose non ho più fantasia».
Ha avuto più successo all’estero che in Italia.
«Qui per lavorare dovevi accettare dei compromessi… delle proposte… appena sentivo una mano sul ginocchio partivano certe pizze... Oppure qualche produttore mi chiedeva soldi per lanciare un disco, no grazie, addio».
In Russia è un idolo, come Albano, Toto Cutugno e i Ricchi e Poveri.
«Sono arrivato prima io. Ho conosciuto Eltsin, brindava alle mie canzoni con la vodka. Gorbaciov si estasiò per “Santa Lucia”, Putin invece l’ho solo intravisto, impettito, non guarda in faccia nessuno, mi ha dato una botta con la spalla, passando, che quasi mi faceva cascare. Avrei voluto sfidarlo a judo, sono cintura nera».
Meglio di no.
«Eh. Comunque ho fatto concerti anche in Moldavia, Ucraina, Lettonia, Lituania, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, purtroppo mi sono dovuto fermare che la salute se n’è andata. L’anno scorso poi ho perso mio figlio Francesco, aveva due tumori, era tanto bravo, dolce, un tesoro, l’ho portato dai migliori professori, non c’è stato niente da fare, è il mio grande dolore. Ora mi scusi, devo andare, alle sei di ogni pomeriggio recito il Rosario, l’ho giurato a mamma».
Alessandro Penna per “Oggi” il 31 marzo 2022. «Uno dei miei ultimi concerti l’ho fatto a Kharkiv, nell’aprile 2016, in quella piazza grande come dieci piazze nostre. C’erano migliaia di giovani con le fiamme degli accendini. Chissà quanti di quei regazzetti mi avrà fatto fuori, Putin! E quelle ragazze, con 32 perle in bocca… Non ci posso pensare, me piagne er core ».
A Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino, 75 anni, piangono anche gli occhi quando parla dell’Ucraina. A Kiev è una star da più di mezzo secolo. «E anche a Mosca, se è per questo. E in Daghestan, Bielorussia, Kazakistan, Georgia, Armenia, Kirghizistan, Lituania, Estonia, Moldavia», aggiunge in una filastrocca che per lui è nostalgia e per Putin un piano militare.
Una fama insondata – solo il regista e scrittore emiliano Marco Raffaini ci ha scritto sopra un libro (uscito, per ora, in russo) – e insondabile, visto che si stima abbia venduto quasi 60 milioni di album solamente nell’ex Unione Sovietica. In Italia, Loreti ebbe una celebrità istantanea e illusoria. A 17 anni conquistò Sanremo con Un bacio piccolissimo. Poi, il declino, la scomparsa. Colpa di un “no”.
E merito di un “sì”. Il “no” Robertino lo oppose «a un critico influentissimo, che stava in tutte le giurie di tutti i concorsi, da Canzonissima in giù: voleva stare con me e non era il mio sport». Il “sì” lo appoggiò all’offerta di Vilmar Sorensen, pianista e produttore danese. «Mi vide al Caffè Grand’Italia, in piazza Esedra, a Roma.
Avevo 13 anni e una voce che fermava il traffico. Pensi che Totò mi dava una mancia di 50 mila lire, quasi venti volte il mio ingaggio settimanale, perché gli cantassi la sua Malafemmina e Marechiare. Vilmar mi offrì di seguirlo a Copenhagen, ci andai con mio padre». Risultato: show televisivi, tournée lunghe mesi in tutta la Scandinavia, l’ammirazione sconfinata di De Gaulle («Mi chiamava “le nouveau Caruso”»), unmito bambino che si espande ovunque, nei teatri più prestigiosi (anche a New York: Carnegie Hall, Madison Square Garden), tranne che da noi.
In Unione Sovietica come ci arrivò?
«Come in un romanzo di spie. Tramite un baratto, al confine tra Russia e Finlandia, lungo la cortina di ferro: i soldati finlandesi erano rimasti senza sigarette, le chiesero ai colleghi russi e in cambio diedero un disco mio, che poi venne copiato e dilagò dappertutto. In Finlandia, ero un mito: con Mamma, O sole mio e Spazzacamino ero primo, secondo e terzo in classifica. Dietro di me: Nat King Cole e Charles Aznavour. Elvis Presley all’epoca cantava It’s now or never: decimo».
Come scoprì di essere famoso in Urss?
«Molto più tardi, sul letto di una clinica romana dove mi portarono quando, posando sugli sci per una rivista norvegese, caddi e quasi mi ruppi l’osso sacro. Arrivavano centinaia di lettere, e molte erano in cirillico. Ragazze, soldati, professoroni che si offrivano di operarmi a Mosca. Laggiù, mi dicevano, avrò venduto 58 milioni di dischi. Non ho visto una lira, lì non esistevano i diritti».
La storiografia ufficiale vuole che la passione dei russi per i nostri cantanti sia iniziata nel 1984, quando Gorbaciov permise che si trasmettesse Sanremo.
«La verità è che a far da apripista ai vari Toto Cotugno, Ricchi e Poveri e Al Bano è stato Robertino. Li ho ‘mbriacati bene bene di musica italiana, i russi, ma nessuno me l’ha mai riconosciuto. Sa cosa disse Kruscev al nostro presidente Gronchi? “Lei viene dalla patria di Michelangelo, Leonardo, Raffaello e… Robertino”».
E Gronchi?
«Non sapeva chi fossi. Come Mastroianni, che nel 1993 mi volle incontrare e mi disse: “Ogni volta che vado a Mosca, appena sentono che sono italiano, gridano: “Come Robertino!”. Era malato, mi confidò: “A Robbertì, sento il fiato della morte sul collo” ( morì tre anni dopo, ndr)».
E lei quando andò a cantare a Mosca?
«Nel 1989. Il primo politico che conobbi fu Boris Eltsin. Quello era un Presidente! Certo, beveva un po’, chi lo può negare... Però era un uomo dolce, con un sorriso meraviglioso e aperto. Mica come Putin».
L’ha conosciuto, Putin?
«Ci siamo incrociati più volte, stava sempre rigido. Mi veniva da dirgli: “E rilassate, a Vladimir!”. Un giorno mi fecero una intervista alla radio e lo sfidai: “Perché non ci incontriamo su una materassina di judo, io e te? Solo due round”. Sono cintura nera 6° dan. Ero forte, ora mi vede malconcio perché il 21 giugno del 2016, due giorni dopo il mio rientro da una tournée in Russia, Ucraina e Kazakhistan, ho avuto un ictus».
Che ricordi ha dell’Ucraina?
«Dolcissimi. Anche i russi sono bravi, però vivono come suonano: sempre un po’ marziali. Gli ucraini hanno un cuore infinito. Mi ricordo quando cantai Granada all’Opera di Odessa, in smoking, con un’orchestra di 180 elementi: il pubblicomigliore delmondo. Prego tutti i giorni, per loro. Posso fare una promessa?».
Certo.
«Ora sono fuori allenamento, mi muovo a fatica, ma la voce mia non si è spenta. In Russia, finché c’è Putin, non canterò. In Ucraina, appena arriva la pace, ci vado di corsa, pure se ho il bastone. Anche solo per portare dei fiori in quella piazza grande come dieci piazze nostre, come si chiama… Ah sì, Svobody: piazza della Libertà».
Domenico Basso per corriere.it l'11 aprile 2022.
Dopo 59 anni vissuti nell’«onorata società» romana Bobby Solo, (al secolo Roberto Satti) ha deciso tornare sui suoi passi. Oggi si divide tra Pordenone, dove vive con la moglie, e Badia Polesine. Genitori triestini, una nonna di Pola e l’altra di un paesino vicino a Capodistria, da 15 anni ha deciso di riavvicinarsi alle terre dei suoi avi e anche a quel Veneto che lo accoglie sempre a braccia aperte.
Con lui ci sono sempre anche 14 chitarre e 6 amplificatori, quanto basta per vivere bene e suonare rock, blues, country, jazz oltre alle vecchie canzoni che ama rivisitare dando vita ad un repertorio completamente nuovo. «Due anni fa, prima del Covid — racconta il cantante, 77 anni — sono stato in sei locali dove c’erano solo ragazzi di 20-25 anni che hanno apprezzato molto il mio tributo a Johnny Cash e poi mi hanno chiesto di cantare “Una lacrima sul viso” che ho riproposto con accordi più raffinati, tipo musica jazz».
Bobby Solo è vero che il suo nome d’arte è nato per un malinteso?
«Mio padre era del 1906 e amava solo la musica di Wagner, Beethoven, Verdi e Puccini e si vergognava di me. Lui diffidò la casa discografica di allora, la Ricordi, dicendo che io ero minorenne e che non avrebbero dovuto usare il cognome Saffi perché non voleva che all’Alitalia, dove lui lavorava come dirigente, venisse a sapere che io facevo il cantante.
Cosi il direttore artistico ha trasformato Roberto in Bobby. La segretaria ha poi chiesto: “Bobby cosa?” e la risposta fu: “Solo Bobby”. Lei che di nome faceva Stelvia, fraintese e così diventai Bobby Solo».
Ma come ha iniziato a fare il cantante?
«A 14 anni mi innamorai di Betsy Mc Gurn, figlia di un giornalista. Un amore platonico, senza nemmeno un bacio. Abitavamo nello stesso palazzo ed io ero innamorato della sua coda di cavallo biondo platino.
Lei mi parlava di Elvis Presley cosi mi feci mandare dei dischi da mia sorella a cui chiesi informazioni anche su questo cantante. Ho poi iniziato a pettinarmi come lui per fare colpo su Betsy. Mia mamma mi regalò una chitarra e ho cominciato a strimpellare chiedendo aiuto ad un falegname che c’era sotto casa che mi insegnò qualche accordo.
Mia madre era amica di uno sceneggiatore della Rai, Giuseppe Patroni Griffi, e così riuscii ad avere un’audizione un po’ come accade oggi con X Factor. Io ci andai e con molta timidezza cantai un brano di Elvis. Quando terminai, il gruppo di persone che mi aveva ascoltato per giudicarmi mi disse: “Signor Satti continui ad andare a scuola perché lei non farà mai il cantante, lei è negato per farlo”».
Lei come prese questa bocciatura?
«Scoppiai a piangere e il maestro Mario Gangi, leggendario chitarrista che suonava con Fausto Cigliano, mi fece una carezza e mi disse di non badare a quei vecchi tromboni che mi avevano giudicato. Mi rassicurò dicendo che sentiva che io avevo qualcosa che poteva portarmi al successo e quindi non dovevo mollare. E questo mi ha aiutato molto ad andare avanti».
Ma è vero che all’inizio qualcuno le diceva che aveva la voce da eunuco?
«La mia casa discografica non mi amava, mi diceva di non imitare Elvis ma piuttosto Celentano. Dicevano che avevo i bassi di Frankenstein e il falsetto di un eunuco della Cappella sistina. Non volevano mandarmi a Sanremo».
Ma alla fine al Festival ci è andato e più volte, portando a casa anche due vittorie.
«A volere che io andassi a Sanremo è stato il padre di Mogol, Mariano Rapetti. Era l’unico che credeva in me e fu lui a mettermi in contatto con il figlio. La casa discografica invece riteneva che mandarmi a Sanremo fosse una perdita di tempo».
Ma com’è nata «Una lacrima sul viso»?
«Il padre di Mogol mi chiese se avevo una canzone nel cassetto. Ed io ce l’avevo. L’avevo composta in cucina su un tavolino di marmo mentre mia madre preparava il pranzo. Lui ne senti un pezzo e mi disse che il testo era banale ma la musica non era male. Ci avrebbe pensato il figlio a sistemarla.
Incontro Mogol pochi giorni dopo quando dovevamo andare in sala di incisione. Non aveva avuto il tempo di scrivere la canzone ma la compose al volo dettandomi le parole. Una lacrima sul viso è nata in 20 minuti dentro ad una R4 color grigio topo».
Con questa canzone poi lei è andato a Sanremo nel 1964. Emozionato su quel palco?
«Avevo 19 anni ed ero emozionatissimo perché mi trovavo al fianco di mostri sacri come Paul Anka, Frankie Laine e Bobby Rydell che erano grandi uomini di scena. Spaventatissimo non sono riuscito a cantare e sono stato salvato dal direttore artistico che mi ha fatto cantare in playback. Ma per questo sono stato squalificato e non ho partecipato alla gara. Nella notte, però, dopo la mia esibizione arrivarono alla casa discografica Ricordi 300mila ordini per il 45 giri di “Una lacrima sul viso”. E molti cambiarono idea su di me».
Poi nel 1965 arriva la vittoria del Festival con «Se piangi, se ridi». Anche qui Bobby Solo però fini sotto i riflettori per essersi messo il mascara. Cosa successe?
«Io avevo visto Elvis Presley fare come Tony Curtis cioè mettersi del mascara sugli occhi per esaltarli. Cosi anch’io prima di entrare sul palco decisi di farlo e chiesi aiuto a due ragazze che lavoravano nella profumeria di fronte al casinò. Forse esagerarono un po’ e quando ho iniziato a cantare il mascara si è sciolto lungo una guancia. Un regista implacabile ha colto l’attimo e mi ha fatto un primo piano.
Da lì nacquero varie voci sulle mie tendenze sessuali tanto che sul mio pulmino qualcuno arrivo a scrivere col rossetto “Signorina Bobby Solo” Ma tutto questo non mi irritò perché sono sostenitore del fatto che bene o male è importante che se ne parli».
Alla proclamazione del vincitore di quel Festival lei ha rischiato di risultare assente. Ci racconti cosa era successo.
«Dopo aver cantato sono andato a mangiare una grigliata di pesce con l’arrangiatore Gianni Marchetti. Quando siamo al caffè arrivano due uomini della Rai che mi danno del pazzo perché ho vinto il Festival e sono lì a mangiare e non sul palco. Tutti mi stavano aspettando. Sono andato a rimettermi lo smoking e sono tornato in teatro dove c’era Mike Bongiorno ad aspettarmi».
Una vittoria l’ha condivisa con Iva Zanicchi. Con «Zingara» avete conquistato Sanremo. Ma lei ci tornerà all’Ariston?
«Non vado al Festival dal 2003 quando ci andai con Little Tony, un caro amico che mi manca tantissimo. Sanremo è sempre una buona occasione e sarei felice di tornare con una mia canzone. Io non ho fatto nessuna richiesta per andarci ma ho visto che i miei coetanei come Gianni Morandi, Donatella Rettore, Massimo Ranieri e Iva Zanicchi hanno fatto audience.
Quindi forse nei corridoi della Rai potrebbe aleggiare il desiderio di avere ancora dei personaggi di quel periodo. E di quel periodo chi è rimasto: Edoardo Vianello, Fausto Leali, Rita Pavone e Bobby Solo. Quindi se vogliono potrebbero contattarmi e se lo fanno andrò con piacere».
Quindi non sarà lei a proporsi?
«No, sennò sembra che vada a chiedere l’elemosina. Se uno ti vuole ti cerca».
A proposito di canzoni lei è uscito da poco con un nuovo disco. Che brano è?
«Ho fatto una canzone insieme a Carlo Zannetti che parla della pandemia e della guerra e si chiama “All in Better Times”. È un inno alla speranza che tutto vado a finire bene. È una canzone stile Beatles e mi piace molto».
L’attività dei concerti sta per ripartire?
«Ne ho alcuni in programma: il 30 aprile a Viareggio, l’1 maggio a Pescara, il 6 maggio a Milano. Il 27 maggio invece mi ha chiamato il mio caro amico Jerry Calà per andare a cantare sul lago di Garda, in un locale sulla spiaggia che si chiama Sestino Beach».
Ultimamente Bobby Solo è stato anche ospite fisso a Domenica In. È stata una esperienza gratificante?
«Mara per me è una santa. La devo ricoprire di fiori perché mi ha voluto con lei per 5 puntate e da qui mi sono arrivate molte richieste di serate e continuano ad arrivarmene. Da lei ho cantato dal vivo e il pubblico ha gradito».
Lei ha un figlio di 9 anni, farà il cantante da grande o la sua generazione pensa piuttosto a fare l’influencer?
«Rayan adora la pizza e voleva fare il pizzaiolo ma adesso ha cambiato idea anche se non ha grandi pretese. Io però l’ho visto a 5 anni giocare con i Lego ed aveva una grande abilità nel costruire i grattacieli. Mah, forse diventerà un ingegnere».
A proposito di ragazzini. Ma è vero che lei da piccolo era un teppistello?
«Lo ammetto. A 14 anni con gli amici andavamo a rubare le motociclette degli innamorati che andavano a passeggiare a Villa Glori a Roma. Poi le smontavamo e i pezzi li vendevamo a Porta Portese. Per questo siamo stati arrestati ma non siamo stati portati in carcere. Poi con un altro amico durante le Olimpiadi di Roma del 1960 siamo andati a rubare i portafogli nello spogliatoio delle nuotatrici. Ma ci hanno scoperto e ci hanno arrestato e mio padre poi mi ha messo in castigo per un mese».
Se domani qualcuno decidesse di fermare la musica per sempre. Lei oggi che canzone canterebbe per l’ultima volta?
Bobby Solo si mette a cantare «Non c’è più niente da fare, non mi fanno cantare…» e poi aggiunge: «Spero che non accada mai, la musica è la mia vita, la mia corrente vitale».
Roberto Vecchioni story: due matrimoni, quattro figli, 5 segreti su di lui. di Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.
Il cantautore, vincitore di Sanremo nel 2011 con «Chiamami ancora amore», si è sposato due volte ed è nonno di quattro nipoti.
Il primo matrimonio
Nel corso della sua carriera Roberto Vecchioni ha cantato molte volte l’amore, in «Chiamami ancora amore» - brano con cui ha vinto Sanremo nel 2011 - e non solo. Per quanto riguarda la sua vita privata invece si è sposato per la prima volta nel 1973, con la psicoterapeuta Irene Bozzi. A lei ha dedicato la canzone del suo primo Festival, «L’uomo che si giocava il cielo a dadi». Dall’unione nel 1975 è nata la figlia Francesca, ma nel giro di pochi anni qualcosa nel rapporto si è incrinato.
Il tradimento scoperto a Firenze
«Eravamo a Firenze - ha raccontato Vecchioni al Corriere -, e la mia ex moglie mi lasciò da solo per raggiungere il suo amante in albergo. Lo intuii, glielo chiesi. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo, pensai che era stato tutto finto. Con il tempo ho capito che l’amore non finisce mai. È soltanto incarnato da un altro volto». In seguito alla scoperta del tradimento la coppia si è separata, ma l’affetto - nel tempo - è rimasto. «Un amore vero non finisce mai del tutto - diceva nel 2011 Bozzi al settimanale Oggi -. Piuttosto si trasforma in affetto. E per questo, se Roberto adesso è felice, ne sono contenta. È stato l’uomo più importante della mia vita, il padre di mia figlia e voglio solo il suo bene».
L’amore con Daria
Nel 1981, qualche tempo dopo il divorzio, Roberto Vecchioni ha incontrato la donna che sarebbe diventata la sua seconda moglie, Daria Colombo, con cui sta ancora oggi. Nel 2011 le ha fatto un’intensa dichiarazione d’amore dal palco dell’Ariston: «Non mi sono mai sentito solo, perché da trent’anni un filo mi lega a te».
Figli (e nipoti)
Dal matrimonio con Daria sono nati altri tre figli: Carolina, Arrigo ed Edoardo. Francesca nel 2012 ha reso Roberto Vecchioni nonno: «Ho accompagnato Francesca tre volte ad Amsterdam per la fecondazione assistita - ha raccontato il cantautore al Corriere -. Alla fine sono arrivate due gemelline che oggi hanno 9 anni. So che lei l’ha fatto per me, perché voleva farmi diventare nonno». Anche Carolina ha avuto due figlie. Che nonno è Roberto Vecchioni? «Per tutte e quattro, sono un nonno che gioca tanto».
Il coming out di Francesca
Nell’intervista rilasciata al Corriere pochi giorni fa Roberto Vecchioni ha parlato del momento in cui sua figlia Francesca ha fatto coming out: «Francesca aveva 15 anni quando venne da me impaurita sussurrando “Papà ti devo dire una cosa”. Le chiesi: “Che c’è? Sei drogata? Ti sei innamorata di un assassino? No? Allora vaf..., mi hai fatto prendere un colpo”. L’ho sempre saputo, e non ci ho mai badato. Trent’anni fa, sono stato un anticipatore. Credo che l’amore sia universale e ciascuno possa fare le sue scelte». Francesca Vecchioni nel 2012 è apparsa sulla copertina del settimanale Oggi con la sua compagna di allora, Alessandra Brogno, e le loro due gemelline Nina e Cloe nate tramite fecondazione eterologa. In seguito ha fondato l’associazione no profit Diversity e si batte per i diritti delle coppie gay: «Al pronto soccorso, quando mi si sono rotte le acque, non volevano far passare Alessandra - ricordava al Corriere nel 2019 -. Siamo entrate di forza. Poi, erano le quattro del mattino, è arrivato il nostro ginecologo e le ha permesso di rimanere. Funziona così: puoi buttare giù la porta, ma qualcuno ti deve aiutare a restare dentro. È fondamentale che la società ti dia una mano, perciò ogni opera di sensibilizzazione è preziosa».
Estratto dell’articolo di Caterina Ruggi D’Aragona per corriere.it il 27 aprile 2022.
«E se non potrai correre/ e nemmeno camminare/ ti insegnerò a volare». È un inno alla vita, sempre e comunque, anche di fronte alle avversità, la canzone che Roberto Vecchioni e Francesco Guccini dedicano ad Alex Zanardi, con una citazione di Kavafis: «Se partirai per Itaca ti aspetta un lungo viaggio…». In effetti, il viaggio di Odisseo è il riferimento letterario supremo di «Infinito», ultimo album di Roberto Vecchioni, a cui è dedicata la sua tournée «L’Infinito, parole e musica», che giovedì (ore 21.15) si ferma al Politeama Pratese.
È felice di tornare a Prato?
«Tanto! Mi lega a Prato il ricordo di uno dei simposi più belli della mia vita: una baldoria colossale! Avevo tra i 30 e i 40 anni: dopo il concerto in un campo sportivo, mi fermai con gli operai di una laneria in un postaccio (forse una cantina) tutta la notte a cantare, chiacchierare, scherzare... Facemmo l’alba a raccontarci barzellette, sciocchezze e cose della vita. Mi colpì la grande spiritosaggine dei toscani, la capacità di ridicolizzare le cose tragiche, di infierire in modo ironico, a volte sconcio, sempre con grande intelligenza».
A Firenze, invece, ha un ricordo amaro, raccontato nella canzone «Due giornate fiorentine»…
«In verità ero sulle colline intorno a Scandicci con la mia prima moglie, quando ho scoperto il suo tradimento. E il matrimonio è finito. Lo sfondo troppo bello strideva con il mio dolore, perciò scappai via. Ma Firenze non ha colpe; è simbolo dell’umanità, perché da lì inizia l’Italia, e mi ispira solo pensieri positivi».
[…] Come ha vissuto gli ultimi due anni?
«Con un grande magone. La gente non può immaginare cosa sia per un artista la mancanza del palcoscenico. Non è come un operaio senza officina o un avvocato senza studio. Perché solo quando sale sul palco l’artista è pienamente se stesso».
[…] La beffa è che per la canzone «Voglio una donna» fu accusato di anti-femminismo…
«Non fu capita la mia provocazione. Dicevo “Voglio una donna con la gonna” per celebrare la donna nella sua femminilità, invitandola a non rinunciare alla differenza con il maschio. Io non parlerei mai di parità di genere, ma di parità tra i generi».
Come ha vissuto l’omosessualità della sua primogenita?
«Francesca aveva 15 anni quando venne da me impaurita sussurrando “Papà ti devo dire una cosa”. Le chiesi: “Che c’è? Sei drogata? Ti sei innamorata di un assassino? No? Allora vaf..., mi hai fatto prendere un colpo”. L’ho sempre saputo, e non ci ho mai badato. Trent’anni fa, sono stato un anticipatore. Credo che l’amore sia universale e ciascuno possa fare le sue scelte. Ho accompagnato Francesca tre volte ad Amsterdam per la fecondazione assistita; alla fine sono arrivate due gemelline che oggi hanno 9 anni. So che lei l’ha fatto per me, perché voleva farmi diventare nonno. Poi anche Carolina ha avuto due figlie. Per tutte e quattro, sono un nonno che gioca tanto»
Francesca ha subito discriminazioni?
«Sicuramente; ma è un bulldozer. Oltre a occuparsi di pr e scrivere saggi, ha fondato e presiede l’associazione Diversity, che nella kermesse di maggio radunerà pensatori, intellettuali e attori. A 18 anni scelse di venire a vivere a Milano per l’università; siamo rimasti sempre “pappa e ciccia”.
Anche Edoardo (l’ultimo figlio, avuto dopo Carolina e Arrigo dall’attuale moglie, Daria Colombo, mentre Francesca è nata dal primo matrimonio) mi somiglia tanto. L’unico piccolo dramma dei miei figli è il senso imitativo del padre. Si sentono artisti, un po’ fuori dal mondo, con velleità letterarie. Forse è colpa mia: li ho fatti sognare troppo, di realtà ne ho data poca. Ma è di realtà che c’è bisogno per confrontarsi con la vita, con le persone, con il lavoro». […]
Silvia Francia per “La Stampa” il 26 febbraio 2022.
A quasi ottant’anni, un nuovo debutto «fa rumore». Roberto Vecchioni lo ammette senza pudore: «Sono molto più emozionato per questo debutto teatrale che quando uscì il mio primo disco! Mi sento come un ragazzino di quindici anni».
A regalare quest’iniezione di vitalità al cantautore milanese è, appunto, il teatro di prosa, che per la prima volta lo tira in ballo. Complice una delle sue opere di narrativa, «Il mercante di luce», uscito nel 2014 per Einaudi e prossimo a diventare uno spettacolo, nell’allestimento firmato dalla regista Ivana Ferri e interpretato da Ettore Bassi assieme al musicista Massimo Germini, storico collaboratore di Vecchioni. Il debutto è per lunedì al Carignano di Torino.
Ci sarà anche lei, Roberto, per l’occasione?
«Non me lo perderei mai. Non esagero quando dico che il primo disco pubblicato non mi fece così tanta impressione come questa sortita teatrale di un mio romanzo. All’epoca, ero nel mondo della musica già da diversi anni, mentre il teatro, che pure amo molto, l’ho frequentato solo da spettatore.
L’idea che un testo tratto da un mio romanzo vada in scena mi rende felice come un ragazzino, anche se ho 79 anni suonati. Per altro, con il Tangram di Torino che mette in scena questo titolo, ho già lavorato altre volte e considero la regista Ivana Ferri molto in gamba: il mio libro non era facile da ridurre teatralmente, ma lei ha fatto un gran lavoro».
Che genere di storia si racconta? Quanto è autobiografica?
«È la vicenda di un padre, che guarda caso fa l’insegnante di greco e latino. Un uomo, però, per molti versi fallito.
Lui ha un figlio malato di progeria (ovvero di invecchiamento precoce, ndr.) e decide di trascorrere con lui gli ultimi giorni che restano al ragazzo. E si industria per mostrargli quanto la vita, nonostante tutto, sia bella e per fargli conoscere un po’ di quell’esistenza che il giovane purtroppo non potrà mai sperimentare».
Oltre che padre di quattro figli, lei è un professore: ora docente allo Iulm di Venezia, dove insegna Attualità dell’antico mondo classico, ma per anni ha lavorato nei licei. Cosa pensa dei ragazzi che sono recentemente e a più riprese scesi in piazza per protestare contro le morti di loro coetanei che facevano l’alternanza scuola/lavoro, ma pure contro la nuova maturità?
«Nel primo caso credo che gli studenti avessero tutte ragioni per manifestare. Non sono degli sprovveduti ma, al contrario, dimostrano di sapere bene quali sono le condizioni di lavoro nel mondo che li aspetta dopo la scuola.
In merito alla maturità, invece, i giovani sbagliano e i professori dovrebbero far loro capire le ragioni: la maturità è un rito di passaggio che va affrontato, una battaglia che bisogna superare per la propria formazione a livello personale».
Restando in tema, cosa pensa della polemica sulla studentessa che è stata duramente redarguita da un’insegnate perché si è presentata a scuola con la pancia scoperta?
«Io non sono affatto un reazionario, anzi, ma credo che a scuola si debba andare vestiti decorosamente. Come si va in teatro o in chiesa. Sono luoghi che hanno sacralità e andrebbero scritti con l’ iniziale maiuscola.
La scuola è è uno strumento formativo che la società offre ai ragazzi perché possano diventare cittadini più consapevoli e più liberi e quindi va onorato. Non si può andare in aula mezzi nudi. Quanto all’altra polemica di questi giorni, quella sui bagni “neutri”, invece, non vedo il problema di pensare a toilette uniche per maschi e femmine, senza distinzioni di sesso».
Il suo collega Francesco Guccini, intervistato dalla Stampa giorni fa sul festival di Sanremo, se ne è dissociato, dicendo: «Non mi sono mai infilato una piuma di struzzo nel c. per cantare». Lei, che ha vinto il Festival nel 2011 con «Chiamami ancora amore», che ne pensa?
«La battuta è divertente ed è tipica di Guccini. A me, però, il festival è piaciuto tantissimo. Io sono un appassionato di storia della canzone e penso che le canzoni rispecchino l’epoca e il mondo in cui vengono scritte.
Poi, certo, oggi va di moda anche farsi notare, eccedere, ma la cosa non mi scandalizza affatto, se quello che si canta mi piace. Uno può anche cantare con una piuma nel sedere, per dirla con Guccini, ma se canta l’Aida, mi sta bene!».
Dopo il Covid la guerra in Ucraina, cosa pensa di questo travagliato periodo storico?
«Durante la pandemia e i lockdown ho attraversato fasi diverse, culminate con un periodo in cui avevo così tanto tempo libero che non facevo più nulla se non i videogames e me ne vergognavo, specie nei confronti di mia moglie che, in quel frangente almeno, avrei potuto aiutare a sbrigare mille incombenze, dalla banca al commercialista.
Ero come paralizzato, non avevo voglia di fare nulla, specie per quanto riguardava il lavoro. Mi sono dedicato un po’ allo studio della chimica, materia che mi appassiona, e ad approfondire pittura, scultura e architettura.
La sola cosa che sono riuscito a portare a termine, sul fronte lavorativo, è stato un romanzo, “Lezioni di volo e di atterraggio”, uscito da Einaudi e andato molto bene, nonostante il periodo. Ora che la morsa del Covid sembra allentarsi, è scoppiata la guerra in Ucraina.
La guerra è, d’altronde, insita nella storia dell’uomo che, come i classici ci insegnano è figlio di Eros e Caos, è luce e ombra, portato in alto dal cavallo bianco di platonica memoria e scaraventato a terra da quello nero.
In questo frangente, spero e credo che prevalga la ragionevolezza, almeno da una delle parti. Qualcuno perderà un po’ la faccia, ma sarà il male minore».
E sulla situazione politica italiana?
«Non seguo molto la politica perché, a parte la sensibilità personale che mi porta sempre a sinistra, fatico a capirla.
Se guardo a destra, poi, da sempre vedo il baratro. Ma posso dire senza incertezze di essere contento che, in un momento del genere, sia Draghi a pensare all’Italia».
Cos’ha in programma per il prossimo futuro?
«Sto scrivendo un nuovo romanzo per Einaudi, con protagonista il mondo delle donne. Un modo concreto per appoggiare la causa dell’uguaglianza fra esseri umani. Per i miei 80 anni, poi, uscirà un disco con molti pezzi inediti e poco conosciuti, ma anche brani di altri, da Modugno a De Gregori, da Endrigo ai Ricchi e Poveri».
Robbie Williams: «Ho sofferto di malattie mentali e mi sono spesso sentito oppresso dalla fama». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 2 Ottobre 2022.
L‘ex Take That festeggia i 25 anni di carriera solista e il 20 gennaio prossimo dà il via al suo tour proprio dall’Italia: «Posso farmi i complimenti per questo traguardo»
«È stupefacente, pazzo, molto bello, sciocco, sbalorditivo che mi sia successo tutto questo». Robbie Williams scandisce lentamente le parole per raccontare come si senta a celebrare i 25 anni di carriera solista. È difficile capire quando scherza e quando è serio, quando è eccentrico e quando fragile, ma anche via Zoom, disteso in un letto a Parigi, torso nudo coperto in parte da un lenzuolo bianco, l’ex Take That ha uno sguardo magnetico che spesso si apre in una risata: ripercorre il quarto di secolo che l’ha visto assurgere fra i grandi del pop, ma anche combattere con eccessi, depressione e problemi mentali.
Giunto a questo traguardo può farsi i complimenti?
«Direi di sì, più di quanto abbia mai fatto. È bello essere in un momento della mia vita in cui posso prendermi del tempo per respirare e dirmi “beh, che cavolo: ben fatto”».
Il tour europeo del 25ennale partirà dall’Italia, con una data a Bologna il 20 gennaio 2023: che concerto vedremo?
«Sarà come sono stati tutti i miei show in passato, ma mi piace pensare di essere molto più bravo di quando ho iniziato, quindi mi vedrete al mio meglio».
Il suo nuovo album «XXV» è stato il 14esimo a raggiungere il numero uno nel Regno Unito, un record che la avvicina a Elvis o i Beatles: che sensazione prova?
«La sensazione è che in questo momento non mi devo preoccupare di essere irrilevante e quindi è un’ottima cosa. Direi che in questo periodo è bello essere me».
Eppure il singolo «Lost» è negativo, parla di comportamenti al limite, dell’aver perso il proprio posto nella vita.
«Sì, ma si riferisce a un periodo lontano, fra il 1995 e il 2000. Il testo è autobiografico, ma parla di un tempo e di un luogo in cui mi trovavo anni fa».
Si è mai sentito perso in questi 25 anni?
«Mi sono sentito perso per la maggior parte del tempo e i miei pensieri sono stati perlopiù “tutto questo è troppo opprimente. Perché mi sento così? Come faccio a smettere? Dove mi trovo? Madre aiutami”. Direi che mi sono sentito così per 20 di questi 25 anni».
E come se ne viene fuori?
«Non c’è un modo, quindi ho imparato a conviverci. Il problema principale è stato ritrovarsi ad avere una malattia mentale all’interno di un’industria come quella musicale che a sua volta ti provoca problemi mentali (ride). Se avessi fatto il falegname, avrei comunque avuto problemi mentali, ma probabilmente quel settore non è così intenso come passare la vita sotto i riflettori».
Prima che solista, è stato nei Take That, da quando aveva 16 anni. È più dura stare in un gruppo o da soli?
«È più dura far parte di un gruppo perché bisogna tenere in considerazione i sentimenti e i pensieri degli altri. La cosa bella, però, è che si condivide il successo e ciò fa sì che tu non ti senta solo: vai sul palco e sai che la persona accanto a te sa esattamente come ti senti. Essere un artista solista, invece, può portare parecchia solitudine. Però mi piacciono entrambe le possibilità».
Ha un ricordo indelebile degli inizi?
«Il miglior ricordo è il momento in cui ho scoperto che avrei fatto parte dei Take That e mi sono detto “oddio diventerò famoso”. Non c’è mai più stato un momento in cui mi sia sentito meglio. Poi sono diventato famoso ed è stato una grande m... perché il pensiero di essere famosi è molto più liberatorio, affascinante e inebriante dell’esserlo in sé».
Rispetto a 25 anni fa, il pop è preso più seriamente?
«Non so se venga preso più seriamente, ma so che è giudicato in maniera meno negativa. La gente non dice più “questa musica fa schifo”, mentre anni fa spesso diceva “questa roba non dovrebbe esistere, quella band non dovrebbe avere tutto quel successo, quel cantante non vale nulla”. Credo che oggi la gente sia meno cattiva, certo lo è online, lì è proprio feroce, un vero inferno, ma nel mondo della musica, ad esempio nelle radio, nei giornali, in tv o fra i commentatori, sono tutti più gentili che mai».
Qual è stato il miglior momento fin qui?
«Non so dove ero o quando è stato che mi sono sentito alle stelle, ma so che è successo, so che molte persone hanno scelto di dirmi che ho fatto un buon lavoro e ancora scelgono di dirmelo, amandomi quando sono sul palco, e ciò fa sentire molto potenti, è bellissimo. Molte persone hanno scelto invece di dirmi che mi odiano e disprezzano tutto ciò che rappresento, il che non fa sentire particolarmente bene. Ma mi piace pensare che il primo aspetto possa prevalere sull’altro, se io lo voglio».
Cosa desidera per i prossimi 25 anni?
«Riuscire a raggiungere altri obiettivi, sforzarmi per realizzare i miei sogni e impegnarmi per cercare di renderli un successo».
Rocco Papaleo: "A marzo il mio nuovo film. Meloni? Spero faccia bene". L'attore lucano Rocco Papaleo tornerà protagonista in sala a marzo con il suo quarto film da regista: la nostra intervista. Massimo Balsamo il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.
A marzo tornerà al cinema con il suo quarto film da regista - "Scordato" - ma Rocco Papaleo non si ferma mai. L'attore lucano è stato protagonista alla IV edizione del Festival del Cinema di Potenza “Visioni Verticali – Ambiente e Territori” tra masterclass, incontri con il pubblico e il documentario "Sentieri di ferro" di Luca Curto. Di questo e di molto altro ha parlato ai nostri microfoni.
"Sentieri di ferro" è un viaggio emozionante lungo una ex ferrovia del Sud Italia che è stata riconvertita in una greenway dopo essere stata abbandonata negli anni ’80. Una storia che può diventare un punto di riferimento...
"Sicuramente sì, se pensiamo a tutto ciò che è stato costruito in passato e oggi risulta obsoleto. Il documentario vuole dimostrare come grandi opere del passato ormai inutilizzabili possono cambiare destinazione e diventare anzi una sorta di connessione con l'ambiente e con la natura. Ambiente che era stato dolcemente violentato, diciamo così...".
C'è grande entusiasmo per l'apertura a Potenza del CeSAM, il Centro Sperimentale delle Arti Mediterranee. Una bella novità per chi sogna di fare il suo mestiere...
"Secondo la mia percezione, è una cosa a dir poco entusiasmante rispetto al nostro territorio. La nostra regione non aveva un riferimento del genere. Tutti noi anziani ci siamo dovuti spostare per seguire il nostro sogno di recitare. È entusiasmante, eccezionale. Spero che possa mantenere le promesse e che possa agevolare un processo culturale in Basilicata".
Cinema, tv, teatro, anche Sanremo: c'è ancora un sogno da realizzare?
"Ho realizzato anche cose che non avevo sognato, in un certo senso è come se avessi già superato i sogni che avevo da ragazzo. Ma c'è sempre qualcosa che ti spinge a migliorare. Se volessi fare un po' lo snob naturista, direi che sogno di crescere un orto (ride, ndr). Uno dei miei sogni è quello di lavorare nel mio territorio".
Ha invece dei rimpianti?
"Chi non ne ha di rimpianti? Mi sforzo di ignorarli. Analizzando la mia storia, devo dire che sono andato oltre le mie aspettative. Mi sembrerebbe disonesto rimpiangere qualcosa".
Cosa ne pensa di questo clima politicamente corretto? Ha mai avuto dei problemi?
"Stranamente non mi è capitato, nonostante in alcuni film mi sia capitato di oltrepassare il limite. Anzi, quando ho oltrepassato il limite, le battute colorite sono dei diventate dei cult (ride, ndr). I comici dovrebbero avere una licenza per essere scorretti. Ciò che facciamo appartiene ai personaggi che interpretiamo...".
Lei è fortunato allora, molti suoi colleghi devono fare i conti con la gogna social...
"Da questo punto di vista è capitato anche a me. Dopo il Festival di Sanremo, fui testimonial dell'Eni per una campagna sull'abbassamento della benzina. Mi sembrava una cosa etica, si parlava di una facilitazione per la gente, non era sicuramente uno spot per le trivellazioni. Ma nella mia regione, la Basilicata, fui un po' tacciato di insensibilità e attaccato. È vero, c'è sempre il rischio di ricevere critiche - anche pesanti - per qualsiasi cosa".
Interpellato sul tema, lei da uomo di sinistra ha dichiarato che la Meloni le piace "un pochino". Coraggioso per un artista in Italia...
"Io sono un uomo di sinistra che ha avuto piacere a vedere una donna diventare primo ministro. Lei era anche l'unica donna leader al G20. Non posso che apprezzare una cosa del genere. È stata eletta democraticamente e spero che faccia bene. Poi, bene bene non credo che possa fare, perché ha idee che sono contrarie alle mie. La mia è una speranza: io sono di sinistra ma non posso augurarmi che le cose vadano male. Non voglio fare ragionamenti con i paraocchi".
Nessuno la può accusare di simpatie nei confronti della destra, anche perché ha ribadito di sperare in una vittoria della sinistra tra cinque anni...
"Io spero che la sinistra prenda coscienza della sconfitta. Spero che capisca i perché di questa sconfitta. La sinistra è incosistente, per questo motivo ha vinto la destra. Il mio è un invito a impegnarsi e compattarsi".
A marzo uscirà "Scordato", il suo ultimo film. Ha detto che è il suo film migliore...
"Il titolo è un gioco di parole sul protagonista che è un accordatore ed è effettivamente ‘scordato’. Lo confermo, dal mio punto di vista è il mio film migliore. Spero di essere cresciuto come autore, come regista. Poi pubblico e critica valuteranno. Io, come altri, vivo sotto la dolce condanna dell'opera prima riuscita bene. 'Basilicata Coast to Coast' ha avuto grande successo e si rimane sempre ancorati lì".
Normale che sia così...
"Io sono anche un cantautore. Nel '79 scrissi una canzone che se suonata nei miei spettacoli copre tutto il resto. È una cazzata, una canzoncina molto orecchiabile e simpatica, che azzera tutto il resto, anche brani migliori. Lo accetto, va bene così".
Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 20 Novembre 2022.
Rocco Papaleo la sua terra non l'ha mai davvero lasciata. Si è trasferito a Roma per studiare e lavorare, per un quinquennio è vissuto a Torino, ma dalla Basilicata il suo cuore non se n'è mai andato. Quando il festival potentino Visioni Verticali l'ha chiamato come ospite, lui ha detto sì e mentre c'era ha anche inaugurato il Centro Sperimentale delle Arti Mediterranee, la prima scuola di recitazione della Basilicata, diretta da Marcello Foti. «È ciò di cui questa regione aveva bisogno - commenta -. All'epoca me ne andai via perché di occasioni non ce n'erano, ora spero che questa scuola regali ai ragazzi la possibilità di fermarsi qui più a lungo».
Lei ha un figlio di 24 anni. Parla per esperienza?
«Nicola fa lo scenografo e penso spesso al mondo che troverà lui e spero sarà migliore, ecologico, senza guerre. Per me ormai è fatta, non ho più grandissime ambizioni. A marzo ho in uscita il mio nuovo film, Scordato, in cui sarò un accordatore di pianoforti. Ci sarà la musica, senza non ci so stare».
È vero che Veronesi la scoprì mentre cantava?
«Sì, ero a una festa su una terrazza e stavo suonando la mia canzoncina Torna a casa foca quando Giovanni Veronesi mi notò. Mi combinò un appuntamento con lui al residence Prati, dove Leonardo Pieraccioni abitava. Appena entro, mi allunga una sceneggiatura e mi dice: "Vai a casa a leggerla e dammi una risposta". Io replico: "Non è che ho tutti questi copioni che mi aspettano. Questo ho e questo faccio". Era I laureati. Non gli sarò mai abbastanza grato».
Lei era già divertente a scuola?
«Ero un perdigiorno ma simpatico, quello che faceva ridere tutti. All'università, se il professore di Fisica 2 sentiva che l'attenzione generale calava, mi faceva una domanda. Era una sorta di convenzione tra noi. Sapeva che avrei detto una cazzata, alleggerendo la noia ».
Quindi la recitazione era nel suo destino?
«In realtà mai avrei pensato di fare l'attore. Ci sono arrivato grazie a numerosi colpi di fortuna, il primo nell'84. Una mia amica fraterna mi iscrisse a una scuola di recitazione senza dirmelo. La retta mensile costava 100 mila lire, insostenibile per me. Ebbi però la fortuna di essere arruolato dalla direttrice nel suo spettacolo, il che mi dava il diritto di frequentare gratis. Così riuscii a finirla».
Del suo esordio cinematografico, «Il male oscuro» di Monicelli, che cosa ricorda?
«Che lui non lo vidi mai. Venni preso dall'aiuto regista per la parte di uno che gridava nella tromba delle scale, solo che la scena era girata in casa. Dentro c'erano Monicelli e Giancarlo Giannini ma io nemmeno salii. Arrivai sotto, cacciai un urlo e me ne andai».
Cosa rappresenta per lei la Lucania?
«Mia madre, che se n'è andata quattro anni fa. Le ero molto legato. Quand'era viva era l'anello di congiunzione tra me e la mia terra, era le mie origini. Da quando non c'è più tutto qui mi parla di lei, tornarci è come rincontrarla».
Per questo ha scelto di ambientarci la sua prima regia, Basilicata Coast to Coast?
«Sì, ma a quel film ci sono arrivato per vie tortuose. Nel 2000 avevo diretto un corto per Cecchi Gori, che poi mi scritturò per girare la mia opera prima. Purtroppo ebbe l'indelicatezza di fallire. Lo reputai un segno del destino e per dieci anni tornai a fare solo l'attore. Furono le mie amiche Betta Olmi e Giovanna Mezzogiorno a insistere perché ci riprovassi. Scrissi la storia di quattro Don Chisciotte che attraversano la regione a piedi, un soggetto che non interessava a nessuno. Finché la Eagle si impietosì e decise di produrlo, insieme a Ipotesi Cinema e Paco».
Quando si rese conto che era diventato un successo?
«Subito. All'epoca non sapevo che in base al risultato del primo giorno i distributori sono in grado di calcolare l'incasso finale con una precisione del 90%. Quel 9 aprile 2010 pioveva e le sale si riempirono. Il responsabile della Eagle mi chiamò: "Possiamo brindare"».
Ha mai visto il remake sudcoreano del suo film?
«L'hanno fatto? Manco lo sapevo».
Per Si vive una volta sola Verdone disse che aveva scelto lei perché è un poeta. Lusingato?
«Lo ringrazio. Carlo è sempre stato un mio idolo, lo trovo irresistibile. Gli volevo bene prima ancora di conoscerlo. Nelle scene con lui ho dovuto fare sforzi enormi per non ridere. È rarissimo che un mattatore assegni a un altro il ruolo più divertente del film, lui invece l'ha fatto. L'ho trovato un gesto di grande generosità».
Guarda le serie in streaming?
«Sì, ma trovo le piattaforme confusionarie. Finisco per passare le serate a guardare pezzettini di questo e di quello, anziché qualcosa di compiuto».
Che ne pensa del governo?
«L'altra sera alla trasmissione di Maria Latella ho detto che Giorgia Meloni un po' mi piace. E parlo da granitico elettore di sinistra. Su molte cose la pensa diversamente da me, ma mi sembra una persona fondamentalmente onesta. Non credo sia lei il problema, quanto le persone intorno che deve accontentare».