Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Vintage.
Le prevendite.
I Televenditori.
I Balli.
Il Jazz.
La trap.
Il musical è nato a Napoli.
Morti di Fame.
I Laureati.
Poppe al vento.
Il lato eccentrico (folle) dei Vip.
La Tecno ed i Rave.
Alias: i veri nomi.
Woodstock.
Hollywood.
Spettacolo mafioso.
Il menù dei vip.
Il Duo è meglio di Uno.
Non è la Rai.
Abel Ferrara.
Achille Lauro.
Adria Arjona.
Adriano Celentano.
Afef Jnifen.
Aida Yespica.
Alan Sorrenti.
Alba Parietti.
Al Bano Carrisi.
Al Pacino.
Alberto Radius.
Aldo, Giovanni e Giacomo.
Alec Baldwin.
Alessandra Amoroso.
Alessandra Celentano.
Alessandra Ferri.
Alessandra Mastronardi.
Alessandro Bergonzoni.
Alessandro Borghese.
Alessandro Cattelan.
Alessandro Gassman.
Alessandro Greco.
Alessandro Meluzzi.
Alessandro Preziosi.
Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.
Alessio Boni.
Alessia Marcuzzi.
Alessia Merz.
Alessio Giannone: Pinuccio.
Alessandro Haber.
Alex Britti.
Alexia.
Alice.
Alfonso Signorini.
Alyson Borromeo.
Alyx Star.
Alvaro Vitali.
Amadeus.
Amanda Lear.
Ambra Angiolini.
Anastacia.
Andrea Bocelli.
Andrea Delogu.
Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.
Andrea Sartoretti.
Andrea Zalone.
Andrée Ruth Shammah.
Angela Finocchiaro.
Angelina Jolie.
Angelina Mango.
Angelo Branduardi.
Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.
Anna Falchi.
Anna Galiena.
Anna Maria Barbera.
Anna Mazzamauro.
Ana Mena.
Anna Netrebko.
Anne Hathaway.
Annibale Giannarelli.
Antonella Clerici.
Antonella Elia.
Antonella Ruggiero.
Antonello Venditti e Francesco De Gregori.
Antonino Cannavacciuolo.
Antonio Banderas.
Antonio Capuano.
Antonio Cornacchione.
Antonio Vaglica.
Après La Classe.
Arisa.
Arnold Schwarzenegger.
Asia e Dario Argento.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Barbara Bouchet.
Barbara D'urso.
Barbra Streisand.
Beatrice Quinta.
Beatrice Rana.
Beatrice Segreti.
Beatrice Venezi.
Belen Rodriguez.
Bella Lexi.
Benedetta D'Anna.
Benedetta Porcaroli.
Benny Benassi.
Peppe Barra.
Beppe Caschetto.
Beppe Vessicchio.
Bianca Guaccero.
BigTittyGothEgg o GothEgg.
Billie Eilish.
Blanco.
Blake Blossom.
Bob Dylan.
Bono Vox.
Boomdabash.
Brad Pitt.
Brigitta Bulgari.
Britney Spears.
Bruce Springsteen.
Bruce Willis.
Bruno Barbieri.
Bruno Voglino.
Cameron Diaz.
Caparezza.
Carla Signoris.
Carlo Conti.
Carlo Freccero.
Carlo Verdone.
Carlos Santana.
Carmen Di Pietro.
Carmen Russo.
Carol Alt.
Carola Moccia, alias La Niña.
Carolina Crescentini.
Carolina Marconi.
Cate Blanchett.
Catherine Deneuve.
Catherine Zeta Jones.
Caterina Caselli.
Céline Dion.
Cesare Cremonini.
Cesare e Mia Bocci.
Chiara Francini.
Chloe Cherry.
Christian De Sica.
Christiane Filangieri.
Claudia Cardinale.
Claudia Gerini.
Claudia Pandolfi.
Claudio Amendola.
Claudio Baglioni.
Claudio Cecchetto.
Claudio Lippi.
Claudio Santamaria.
Claudio Simonetti.
Coez.
Coma Cose.
Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.
Corrado Tedeschi.
Costantino Della Gherardesca.
Cristiana Capotondi.
Cristiano De André.
Cristiano Donzelli.
Cristiano Malgioglio.
Cristina D'Avena.
Cristina Quaranta.
Dado.
Damion Dayski.
Dan Aykroyd.
Daniel Craig.
Daniela Ferolla.
Daniela Martani.
Daniele Bossari.
Daniele Quartapelle.
Daniele Silvestri.
Dargen D'Amico.
Dario Ballantini.
Dario Salvatori.
Dario Vergassola.
Davide Di Porto.
Davide Sanclimenti.
Diana Del Bufalo.
Dick Van Dyke.
Diego Abatantuono.
Diego Dalla Palma.
Diletta Leotta.
Diodato.
Dita von Teese.
Ditonellapiaga.
Dominique Sanda.
Don Backy.
Donatella Rettore.
Drusilla Foer.
Dua Lipa.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Eden Ivy.
Edoardo Bennato.
Edoardo Leo.
Edoardo Vianello.
Eduardo De Crescenzo.
Edwige Fenech.
El Simba (Alex Simbala).
Elena Lietti.
Elena Sofia Ricci.
Elenoire Casalegno.
Elenoire Ferruzzi.
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Giorgi.
Eleonora Pedron.
Elettra Lamborghini.
Elio e le Storie Tese.
Elio Germano.
Elisa Esposito.
Elisabetta Canalis.
Elisabetta Gregoraci.
Elodie.
Elton John.
Ema Stokholma.
Emanuela Fanelli.
Emanuela Folliero.
Emanuele Fasano.
Eminem.
Emma Marrone.
Emma Rose.
Emma Stone.
Emma Thompson.
Enrico Bertolino.
Enrica Bonaccorti.
Enrico Lucci.
Enrico Montesano.
Enrico Papi.
Enrico Ruggeri.
Enrico Vanzina.
Enzo Avitabile.
Enzo Braschi.
Enzo Garinei.
Enzo Ghinazzi in arte Pupo.
Enzo Iacchetti.
Erika Lust.
Ermal Meta.
Eros Ramazzotti.
Eugenio Finardi.
Eva Grimaldi.
Eva Henger.
Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.
Fabio Concato.
Fabio Rovazzi.
Fabio Testi.
Fabri Fibra.
Fabrizio Corona.
Fabrizio Moro.
Fanny Ardant.
Fausto Brizzi.
Fausto Leali.
Federica Nargi e Alessandro Matri.
Federica Panicucci.
Ficarra e Picone.
Filippo Neviani: Nek.
Filippo Timi.
Filomena Mastromarino, in arte Malena.
Fiorella Mannoia.
Flavio Briatore.
Flavio Insinna.
Forest Whitaker.
Francesca Cipriani.
Francesca Dellera.
Francesca Fagnani.
Francesca Michielin.
Francesca Manzini.
Francesca Reggiani.
Francesco Facchinetti.
Francesco Gabbani.
Francesco Guccini.
Francesco Sarcina e le Vibrazioni.
Franco Maresco.
Franco Nero.
Franco Trentalance.
Francis Ford Coppola.
Frank Matano.
Frida Bollani.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gabriel Garko.
Gabriele Lavia.
Gabriele Salvatores.
Gabriele Sbattella.
Gabriele e Silvio Muccino.
Geena Davis.
Gegia.
Gene e Charlie Gnocchi.
Geppi Cucciari.
Gérard Depardieu.
Gerry Scotti.
Ghali.
Giancarlo Giannini.
Gianluca Cofone.
Gianluca Grignani.
Gianna Nannini.
Gianni Amelio.
Gianni Mazza.
Gianni Morandi.
Gianni Togni.
Gigi D’Agostino.
Gigi D’Alessio.
Gigi Marzullo.
Gigliola Cinquetti.
Gina Lollobrigida.
Gino Paoli.
Giorgia Palmas.
Giorgio Assumma.
Giorgio Lauro.
Giorgio Panariello.
Giovanna Mezzogiorno.
Giovanni Allevi.
Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.
Giovanni Lindo Ferretti.
Giovanni Scialpi.
Giovanni Truppi.
Giovanni Veronesi.
Giulia Greco.
Giuliana De Sio.
Giulio Rapetti: Mogol.
Giuseppe Gibboni.
Giuseppe Tornatore.
Giusy Ferreri.
Gli Extraliscio.
Gli Stadio.
Guendalina Tavassi.
Guillermo Del Toro.
Guillermo Mariotto.
Guns N' Roses.
Gwen Adora.
Harrison Ford.
Hu.
I Baustelle.
I Cugini di Campagna.
I Depeche Mode.
I Ferragnez.
I Maneskin.
I Negramaro.
I Nomadi.
I Parodi.
I Pooh.
I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.
Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.
Il Volo.
Ilary Blasi.
Ilona Staller: Cicciolina.
Irama.
Irene Grandi.
Irina Sanpiter.
Isabella Ferrari.
Isabella Ragonese.
Isabella Rossellini.
Iva Zanicchi.
Ivan Cattaneo.
Ivano Fossati.
Ivano Marescotti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
J-Ax.
Jacopo Tissi.
Jamie Lee Curtis.
Janet Jackson.
Jeff Goldblum.
Jenna Starr.
Jennifer Aniston.
Jennifer Lopez.
Jerry Calà.
Jessica Rizzo.
Jim Carrey.
Jo Squillo.
Joe Bastianich.
Jodie Foster.
Jon Bon Jovi.
John Landis.
John Travolta.
Johnny Depp.
Johnny Dorelli e Gloria Guida.
José Carreras.
Julia Ann.
Julia Roberts.
Julianne Moore.
Justin Bieber.
Kabir Bedi.
Kathy Valentine.
Katia Ricciarelli.
Kasia Smutniak.
Kate Moss.
Katia Noventa.
Kazumi.
Khadija Jaafari.
Kim Basinger.
Kim Rossi Stuart.
Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.
Klaus Davi.
La Rappresentante di Lista.
Laetitia Casta.
Lando Buzzanca.
Laura Chiatti.
Laura Freddi.
Laura Morante.
Laura Pausini.
Le Donatella.
Lello Analfino.
Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.
Levante.
Liberato è Gennaro Nocerino.
Ligabue.
Liya Silver.
Lila Love.
Liliana Fiorelli.
Liliana Cavani.
Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.
Linda Evangelista.
Lino Banfi.
Linus.
Lizzo.
Lo Stato Sociale.
Loredana Bertè.
Lorella Cuccarini.
Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Lorenzo Zurzolo.
Loretta Goggi.
Lory Del Santo.
Luca Abete.
Luca Argentero.
Luca Barbareschi.
Luca Carboni.
Luca e Paolo.
Luca Guadagnino.
Luca Imprudente detto Luchè.
Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.
Luca Tommassini.
Luca Zingaretti.
Luce Caponegro in arte Selen.
Lucia Mascino.
Lucrezia Lante della Rovere.
Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.
Luigi Strangis.
Luisa Ranieri.
Maccio Capatonda.
Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.
Mago Forest: Michele Foresta.
Mahmood.
Madame.
Mal.
Malcolm McDowell.
Malena…Milena Mastromarino.
Malika Ayane.
Manuel Agnelli.
Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.
Mara Maionchi.
Mara Sattei.
Mara Venier.
Marcella Bella.
Marco Baldini.
Marco Bellavia.
Marco Castoldi: Morgan.
Marco Columbro.
Marco Giallini.
Marco Leonardi.
Marco Masini.
Marco Marzocca.
Marco Mengoni.
Marco Sasso è Lucrezia Borkia.
Margherita Buy e Caterina De Angelis.
Margherita Vicario.
Maria De Filippi.
Maria Giovanna Elmi.
Maria Grazia Cucinotta.
Marika Milani.
Marina La Rosa.
Marina Marfoglia.
Mario Luttazzo Fegiz.
Marilyn Manson.
Mary Jane.
Marracash.
Martina Colombari.
Massimo Bottura.
Massimo Ceccherini.
Massimo Lopez.
Massimo Ranieri.
Matilda De Angelis.
Matilde Gioli.
Maurizio Lastrico.
Maurizio Pisciottu: Salmo.
Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.
Mauro Pagani.
Max Felicitas.
Max Gazzè.
Max Giusti.
Max Pezzali.
Max Tortora.
Melanie Griffith.
Melissa Satta.
Memo Remigi.
Michael Bublé.
Michael J. Fox.
Michael Radford.
Michela Giraud.
Michelangelo Vood.
Michele Bravi.
Michele Placido.
Michelle Hunziker.
Mickey Rourke.
Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.
Miguel Bosè.
Milena Vukotic.
Miley Cyrus.
Mimmo Locasciulli.
Mira Sorvino.
Miriam Dalmazio.
Monica Bellucci.
Monica Guerritore.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nada.
Nancy Brilli.
Naomi De Crescenzo.
Natalia Estrada.
Natalie Portman.
Natasha Stefanenko.
Natassia Dreams.
Nathaly Caldonazzo.
Neri Parenti.
Nia Nacci.
Nicola Savino.
Nicola Vaporidis.
Nicolas Cage.
Nicole Kidman.
Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.
Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.
Niccolò Fabi.
Nina Moric.
Nino D'Angelo.
Nino Frassica.
Noemi.
Oasis.
Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.
Oliver Stone.
Olivia Rodrigo.
Olivia Wilde e Harry Styles.
Omar Pedrini.
Orietta Berti.
Orlando Bloom.
Ornella Muti.
Ornella Vanoni.
Pamela Anderson.
Pamela Prati.
Paola Barale.
Paola Cortellesi.
Paola e Chiara.
Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Quattrini.
Paola Turci.
Paolo Belli.
Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.
Paolo Calabresi.
Paolo Conte.
Paolo Crepet.
Paolo Rossi.
Paolo Ruffini.
Paolo Sorrentino.
Patrizia Rossetti.
Patti Smith.
Penélope Cruz.
Peppino Di Capri.
Peter Dinklage.
Phil Collins.
Pier Luigi Pizzi.
Pierfrancesco Diliberto: Pif.
Pietro Diomede.
Pietro Valsecchi.
Pierfrancesco Favino.
Pierluigi Diaco.
Piero Chiambretti.
Pierò Pelù.
Pinguini Tattici Nucleari.
Pino Donaggio.
Pino Insegno.
Pio e Amedeo.
Pippo (Santonastaso).
Peter Gabriel.
Placido Domingo.
Priscilla Salerno.
Pupi Avati.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quentin Tarantino.
Raffaele Riefoli: Raf.
Ramona Chorleau.
Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.
Raul Cremona.
Raphael Gualazzi.
Red Canzian.
Red Ronnie.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.
Renato Zero.
Renzo Arbore.
Riccardo Chailly.
Riccardo Cocciante.
Riccardo Manera.
Riccardo Milani.
Riccardo Scamarcio.
Ricky Gianco.
Ricky Johnson.
Ricky Martin.
Ricky Portera.
Rihanna.
Ringo.
Rita Dalla Chiesa.
Rita Rusic.
Roberta Beta.
Roberto Bolle.
Roberto Da Crema.
Roberto De Simone.
Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.
Roberto Satti: Bobby Solo.
Roberto Vecchioni.
Robbie Williams.
Rocco Papaleo.
Rocco Siffredi.
Roman Polanski.
Romina Power.
Romy Indy.
Ron: Rosalino Cellamare.
Ron Moss.
Rosanna Lambertucci.
Rosanna Vaudetti.
Rosario Fiorello.
Giuseppe Beppe Fiorello.
Rowan Atkinson.
Russel Crowe.
Rkomi.
Sabina Ciuffini.
Sabrina Ferilli.
Sabrina Impacciatore.
Sabrina Salerno.
Sally D’Angelo.
Salvatore (Totò) Cascio.
Sandra Bullock.
Santi Francesi.
Sara Ricci.
Sara Tommasi.
Scarlett Johansson.
Sebastiano Vitale: Revman.
Selena Gomez.
Serena Dandini.
Serena Grandi.
Serena Rossi.
Sergio e Pietro Castellitto.
Sex Pistols.
Sfera Ebbasta.
Sharon Stone.
Shel Shapiro.
Silvia Salemi.
Silvio Orlando.
Silvio Soldini.
Simona Izzo.
Simona Ventura.
Sinead O’Connor.
Sonia Bergamasco.
Sonia Faccio: Lea di Leo.
Sonia Grey.
Sophia Loren.
Sophie Marceau.
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Stefania Rocca.
Stefania Sandrelli.
Stefano Accorsi e Fabio Volo.
Stefano Bollani.
Stefano De Martino.
Steve Copeland.
Steven Spielberg.
Stormy Daniels.
Sylvester Stallone.
Sylvie Renée Lubamba.
Tamara Baroni.
Tananai.
Teo Teocoli.
Teresa Saponangelo.
Tiberio Timperi.
Tim Burton.
Tina Cipollari.
Tina Turner.
Tinto Brass.
Tiziano Ferro.
Tom Cruise.
Tom Hanks.
Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.
Tommaso Zanello alias Piotta.
Tommy Lee.
Toni Servillo.
Totò Cascio.
U2.
Umberto Smaila.
Umberto Tozzi.
Ultimo.
Uto Ughi.
Valentina Bellucci.
Valentina Cervi.
Valeria Bruni Tedeschi.
Valeria Graci.
Valeria Marini.
Valerio Mastandrea.
Valerio Scanu.
Vanessa Scalera.
Vasco Rossi.
Vera Gemma.
Veronica Pivetti.
Victoria Cabello.
Vincenzo Salemme.
Vinicio Marchioni.
Viola Davis.
Violet Myers.
Virginia Raffaele.
Vittoria Puccini.
Vittorio Brumotti.
Vittorio Cecchi Gori.
Vladimir Luxuria.
Woody Allen.
Yvonne Scio.
Zucchero.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Solito pre Sanremo.
Terza Serata.
Quarta Serata.
Quinta Serata.
Chi ha vinto?
Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)
INDICE NONA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Superman.
Il Body Building.
Quelli che...lo Yoga.
Wags e Fads.
Il Coni.
Gli Arbitri.
Quelli che …il Calcio I Parte.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che …il Calcio II Parte.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Mondiali 2022.
I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I personal trainer.
Quelli che …La Pallacanestro.
Quelli che …La Pallavolo.
Quelli che..la Palla Ovale.
Quelli che...la Pallina da Golf.
Quelli che …il Subbuteo.
Quelli che…ti picchiano.
Quelli che…i Motori.
La Danza.
Quelli che …l’Atletica.
Quelli che…la bicicletta.
Quelli che …il Tennis.
Quelli che …la Scherma.
I Giochi olimpici invernali.
Quelli che …gli Sci.
Quelli che si danno …Dama e Scacchi.
Quelli che si danno …all’Ippica.
Il Doping.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Alessio Lana per corriere.it il 3 ottobre 2022.
Ognuno ha il suo film preferito, la sua personale classifica di classici e nuove proposte ma quali sono i titoli che accomunano tutti noi, quelle pellicole imprescindibili, che si deve aver visto almeno una volta nella vita? La risposta la offre Imdb, la più importante piattaforma cinematografica online (nata dai fan e oggi di proprietà di Amazon) che raccoglie ogni giorno i giudizi di milioni di utenti (I registrati sono oltre 80 milioni).
Ecco quindi i dieci titoli più votati dal pubblico, tra cui compare qualche sorpresa (E una certa influenza del pubblico Usa) ma lo annunciamo subito: di italiano ce n’è uno solo eppure il nostro Paese appare in tralice anche in altre posizioni. Partiamo quindi dal numero 10 dove incontriamo Fight Club, il capolavoro di David Fincher tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk con Brad Pitt ed Edward Norton che fanno a gara di bravura. E vincono entrambi.
Il buono, il brutto, il cattivo (1966)
Nono piazzamento per l’unico film italiano in classifica, Il buono, il brutto, il cattivo, capolavoro firmato Sergio Leone che miscela western all’americana e aplomb latino. Terza pellicola della cosiddetta Trilogia del dollaro, segue Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più battendoli di misura.
Al centro ci sono il Biondo (il buono), un Clint Eastwood più tenebroso e impenetrabile che mai, Tuco (il brutto), un Eli Wallach perfetto doppiogiochista, e infine il cattivo, il sicario Sentenza interpretato da un infido Lee Van Cleef. Tutti e tre vanno a caccia di un tesoro mentre nei nascenti Stati Uniti si combatte la Guerra di secessione. Indimenticabile la scena finale del «triello», una pietra miliare del cinema.
Pulp Fiction (1994)
Difficile parlare di Sergio Leone senza citare Tarantino ed ecco che il regista di lontane origine italiane batte di una sola posizione il suo maestro: Pulp Fiction è all’ottavo piazzamento. Film cult per intere generazioni, i dialoghi paradossali, le situazioni al limite e l’umorismo macabro hanno contagiato molta della cinematografia successiva ma anche la letteratura, i videogames e l’arte. In più ha rilanciato John Travolta e consacrato Uma Thurman tra le grandi attrici.
Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003)
Atmosfere fantasy per il settimo classificato, Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re. Curiosamente non si tratta del primo capitolo della trilogia tolkieniana firmata Peter Jackson ma dell’ultimo. Gli altri due sono, rispettivamente, all’undicesimo e quindicesimo posto.
Schindler’s List (1993)
Sesto posto per il dramma firmato Steven Spielberg sulla vera storia di Oscar Schindler (che si può rivedere in streaming su Netflix), un industriale tedesco che, mettendo a rischio la propria vita e la propria carriera, riuscì a salvare migliaia di ebrei dalla Shoah. Girato in bianco e nero, è interpretato da Liam Neeson, Ben Kingsley e Ralph Fiennes.
La parola ai giurati (1957)
Film più vecchio della classifica, la prima cinematografica di Sidney Lumet è al quinto piazzamento. Film appassionante, ci porta all’interno di una giuria che si sta occupando di un ragazzo accusato di parricidio. La storia è incentrata su un giurato che, sulla base di un «ragionevole dubbio», tenta di persuadere gli altri undici membri ad assolvere il ragazzo. Un classico da non perdere, profondo e appassionante.
Il cavaliere oscuro (2008)
Il Batman di Tim Burton non compare neanche tra i primi 250 film del sito mentre quello di Christofer Nolan è addirittura quarto. Merito di una regia spettacolare ma anche di un cast d’eccezione. Christian Bale è un Uomo Pipistrello duro e credibile ma meglio di lui fa Heath Ledger, un Joker che molti considerano migliore di quello di Jack Nicholson del 1989.
Il padrino (1972) e Il padrino - Parte II (1974)
Ed eccoci al podio con una doppietta in qualche modo italiana. Il capolavoro di Francis Ford Coppola tratto dal romanzo omonimo di Mario Puzo, che ha curato anche la sceneggiatura, è secondo mentre il successivo Il padrino - Parte II è terzo . Perfetti in ogni loro aspetto, dalla scenografia alla recitazione passando per la sceneggiatura e ovviamente la regia, la saga di Don Vito Corleone e della sua famiglia mafiosa sono un classico che ancora oggi stupisce per attualità ( tra l’altro la villa in cui è stato girato è stata messa in vendita per ben 89 milioni di dollari). Difficile che qualcuno non l’abbia visto, in caso rimedi subito.
Le ali della libertà (1994)
Il primo piazzamento è una vera sorpresa. Ci si sarebbe potuto aspettare Forrest Gump (che è 12esimo), Quei bravi ragazzi (18esimo) , Qualcuno volò sul nido del cuculo (17esimo) e decine di altre pellicole e invece il film più gradito dagli utenti è Le ali della libertà (andato in onda su Sky Cinema 2 alle 18.50) . Al centro troviamo Tim Robbins nei panni di Andy Dufresne, un bancario un po’ impacciato che si trova rinchiuso in un carcere di massima sicurezza per aver ucciso sua moglie e l’amante. Qui conosce Red, interpretato da un Morgan Freeman in ottima forma, e insieme stringeranno una forte amicizia che permetterà a Andy di tornare a vivere. Insomma, una storia che colpisce il cuore e la mente, candidata a ben sette Oscar senza averne vinto nessuno.
Le venti canzoni italiane più belle del 2022. Dai Maneskin a Fabri Fibra, passando per Cesare Cremonini, Elisa, Blanco e Dargen D'Amico, i brani italiani che ci sono piaciuti di più nei primi nove mesi dell'anno. Gabriele Antonucci il 02 Ottobre 2022 su Panorama.
A inizio ottobre si può iniziare a tracciare un primo bilancio nella musica italiana del 2022. L'estate ha decretato il successo del pop retro che strizza l'occhio agli anni Sessanta, della dance in tutte le sue declinazioni e della funky-disco, mentre perdono terreno, dopo un quinquennio trionfale, la trap e il reggaeton. Di Sanremo 2022 ricordiamo, a distanza di sette mesi, soprattutto tre canzoni, che sono presenti nella nostra classifica: Brividi di Mahmood e Blanco, Ciao Ciao de La Rappresentante di Lista e Dove si balla di Dargen D'Amico. I Maneskin, che continuano a macinare sold out e premi in giro per il mondo, sono sul gradino più alto del podio con l'adrenalinica Supermodel.
Molto bene anche i cantautori nella fascia tra i 40 e i 50 anni: Cesare Cremonini, Elisa, Niccolò Fabi, Ermal Meta, Giuliano Sangiorgi e Francesco Gabbani. Il rap di qualità è rappresentato in classifica da Fabri Fibra e Rancore, autori di due album riusciti come Caos e Xenoverso. Enrico Ruggeri e i Ministri tengono alte le insegne del rock, mentre Simona Molinari, Ditonellapiaga ed Elodie sono tre delle nostre artiste più interessanti (le prime due premiate pochi mesi fa anche con una Targa Tenco). 1) Maneskin - Supermodel 2) Cesare Cremonini - La ragazza del futuro 3) Elisa - Litoranea 4) Niccolò Fabi - Andare oltre 5) Francesco Gabbani - Peace & Love 6) Ermal Meta e Giuliano Sangiorgi - Una cosa più grande 7) La Rappresentante di Lista - Ciao Ciao 8) Enrico Ruggeri - La fine del mondo 9) Mahmood Blanco - Brividi 10) Nu Genea - Tienatè 11) Fabri Fibra feat Colapesce Dimartino - Propaganda 12) Rancore - Freccia 13) Simona Molinari - Come un film 14) Ministri - Scatolette 15) Dargen D'Amico - Dove si balla 16) Alan Sorrenti - Giovani per sempre 17) Ditonellapiaga - Disco (I love it) 18) Jovanotti -
Simona Marchetti per corriere.it il 29 settembre 2022.
Le sonorità innovative, che richiamavano la psichedelia, e il testo che trattata un argomento fino a quel momento tabu (ovvero, l’adulterio) hanno fatto di «29 Settembre» una delle canzoni simbolo della musica italiana. Considerato ancora oggi il battesimo del beat in Italia - non a caso venne soprannominato il «Sergeant Pepper’s» tricolore - il brano è stato scritto e composto da Giulio Rapetti (in arte Mogol) e Lucio Battisti nel 1966 e in un primo momento venne proposto a Gianni Pettenati, che però non era convinto delle sue potenzialità e così rifiuto di interpretarlo.
Quando Maurizio Vandelli, leader dell’Equipe 84, sentì per la prima volta «29 Settembre», capì subito che sarebbe stata un successo e fece subito pressione su Mogol e Battisti perché gliela cedessero. A marzo del 1967 l’Equipe 84 - che in quel momento era all’apice della popolarità, forte anche dell’investitura di John Lennon che l’aveva definita «la band italiana più in linea con i tempi» - pubblicò la sua interpretazione del brano che conquistò il primo posto della classifica italiana, dove rimase cinque settimane. «29 Settembre» è stata la prima canzone di Battisti a essere interpretata dalla band, seguiranno poi «Nel cuore, nell’anima», «Ladro» ed «Hey ragazzo».
La versione inglese
Sempre nel 1967 l’Equipe 84 realizzò anche una versione inglese del brano di Mogol-Battisti, dal titolo «29th September» (il testo venne tradotto da Tommy Scott). Uscita come 45 giri nel Regno Unito e negli Usa, la canzone è stata reinterpretata dai britannici The Bevis Frond nel 1993 ed è stata poi ripubblicata nel 2008 per la compilation «Let’s Ride» dedicata alla psichedelia europea.
Il testo
Come detto, il testo di «29 Settembre» racconta di un tradimento, consumato con leggerezza e senza pentimento o senso di colpa da parte del protagonista. La storia si volge in due giornate consecutive: nella prima, il 29 settembre appunto, il protagonista conosce una ragazza in un bar e i due passano la serata insieme; il giorno dopo, il 30 settembre, lui si sveglia, pensa alla compagna e si precipita a telefonarle per dichiararle il suo amore, come se la notte prima non fosse successo niente. Negli anni sessanta l’adulterio era considerato una sorta di tabu e difficilmente sarebbe potuto diventare il tema centrale di una canzone, ma Mogol e Battisti sovvertirono i canoni dell’epoca, anticipando di fatto la rivoluzione sessuale del Sessantotto
Il titolo
Mogol ha sempre sostenuto che il titolo del brano si riferisce a un giorno qualunque e che quindi è stato scelto senza una motivazione particolare. In realtà il 29 settembre è il compleanno della prima moglie, Serenella De Pedrini, cosa che ha spinto molti critici a ritenere che il testo possa essere autobiografico.
La versione di Battisti
A marzo del 1969 Battisti decise di incidere una sua interpretazione di «29 Settembre», che venne poi inclusa nell’album di debutto «Lucio Battisti». Rispetto alla versione dell’Equipe 84, quella del cantautore è decisamente più classica e meno sperimentale: oltre ad aver eliminato l’annunciatore del giornale orario, non più ritenuto necessario, Battisti sceglie anche una strumentazione più tradizionale, con chitarre, basso e flauti, ma senza batteria. Nel corso degli anni «29 Settembre» è stata reinterpretata da moltissimi artisti, fra cui Mina (1975), i Dik Dik (1989), Ornella Vanoni (2001) e i Pooh (2008).
Karaoke, 30 anni fa la prima puntata: Elisa, Tiziano Ferro e gli altri artisti lanciati dallo show cult. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022.
Il 28 settembre 1992 Fiorello debuttava al timone del programma tv che ha fatto cantare tutta Italia
La prima puntata
Il 28 settembre 1992 andava in onda la prima puntata del Karaoke, programma condotto da Fiorello destinato a diventare un fenomeno di costume. Il meccanismo della trasmissione, ideata da Fatma Ruffini, era molto semplice: su un palco, allestito ogni sera in una diversa piazza italiana, erano chiamati ad esibirsi - cantando canzoni molto famose e leggendo le parole sullo schermo - i concorrenti, successivamente votati dal pubblico. Inizialmente il Karaoke non ebbe un grande successo. Così Fiorello, che all’epoca sfoggiava il celebre codino (che avrebbe fatto moda), tornò a dedicarsi alla radio. Improvvisamente però gli ascolti iniziarono a crescere e scoppiò una vera e propria Karaoke-mania. Tra i tanti concorrenti che si sono avvicendati sui palchi dello show ci sono alcuni personaggi che avrebbero in seguito sfondato nella musica e nel mondo dello spettacolo, quanti ne ricordate?
Silvia Salemi
Era molto giovane anche Silvia Salemi quando salì sul palco del programma. La cantautrice, che si è fatta notare a Sanremo 1997 con «A casa di Luca», ha nel suo curriculum la musica ma anche programmi televisivi (come Music Farm, Tale e quale show, Ora o mai più, Star in the Star).
Tiziano Ferro
Oggi riempie gli stadi (lo farà anche nel 2023) ma nel 1992 Tiziano Ferro era solo un ragazzo di Latina di 12 anni con tanta passione per la musica. Attualmente è in radio il suo ultimo singolo, «La vita splendida», che anticipa il suo nuovo album in arrivo l’11 novembre («Il mondo è nostro»).
Annalisa Minetti
Annalisa Minetti, 18enne, nel 1994 canta «Notti magiche». Tre anni dopo è a Miss Italia (si classifica settima) e nel 1998 conquista Sanremo con «Senza te o con te». Parallelamente alla musica (il suo ultimo singolo, uscito nel 2022, è «Déjà vu») oggi porta avanti la sua carriera nel mondo dello spettacolo (ha partecipato a numerosi programmi tv tra cui Music Farm, Tale e quale show, Ora o mai più e All Together Now - La musica è cambiata), è atleta paralimpica e Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana.
Laura Chiatti
Forse non tutti sanno che…anche Laura Chiatti, nel 1994, ha partecipato al Karaoke. L’attrice all’epoca frequentava la seconda media e si esibì - con basco rosso e gonnellina scozzese - in piazza a Marsciano cantando «Sognare sognare» di Gerardina Trovato. «Sembri Candy Candy» le disse Beppe Fiorello, conduttore di quella edizione.
Camila Raznovich
Non è diventata cantante dopo essersi esibita al Karaoke con «We are the world» ma la musica ha fatto parte della sua vita per diversi anni, in qualità di vj di Mtv. Parliamo di Camila Raznovich, oggi volto del popolare programma di viaggi di Rai 3 «Kilimangiaro».
Da ilnapolista.it il 3 ottobre 2022.
Mercoledì saranno 100 anni dalla nascita di Ciccio Ingrassia, che per anni ha duettato accanto a Franco Franchi. Il Fatto intervista suo figlio Giampiero. Racconta di quando era bambino e della fama che circondava Ciccio e Franco.
«Intuivo che non era una persona comune e ne ero un po’ geloso: privacy zero e negli anni Sessanta lui e Franco venivano trattati da Beatles. Uscire con papà era impossibile…».
Uno dei personaggi dello spettacolo che frequentavano di più casa Ingrassia era Lino Banfi. A lui Ciccio era legato da una profonda amicizia. Mentre erano molto freddi i rapporti con Modugno.
«Non avevano alcun rapporto, Modugno non gli aveva perdonato l’addio alla sua compagnia; papà e Franco erano riservati, il glamour non era per loro».
Si sentivano messi da parte dal cinema cosiddetto colto?
«No, pensavano al pubblico; eppure i critici li hanno massacrati – ho ritrovato recensioni terribili –, gli stessi che anni dopo li hanno esaltati. Loro due già al tempo ripetevano: “Da morti verremo rivalutati”».
Le umili origini
Ciccio Ingrassia aveva origini molto umili. Il figlio racconta: «Sono anche andato a vedere dov’è nato, in uno dei quartieri più popolari di Palermo; mi ha raccontato di suo padre ciabattino, di lui che sapeva lavorare la tomaia, poi delle sue fughe per frequentare il bar degli artisti, delle difficoltà iniziali».
Erano entrambi poveri, anche Franco Franchi. Di una povertà assoluta.
«Anche per questo li amo. Io da quando sono nato ho le spalle coperte e ho potuto scegliere grazie a questa libertà. Loro no. Loro realmente si dipingevano le caviglie di nero perché non avevano i soldi per i calzini; loro realmente per anni hanno dormito insieme dentro a pensioncine infime».
Di quella fase quale aspetto gli era rimasto addosso?
«In parte lo sublimava con la generosità: a Palermo ha comprato casa a nonna e zii; sul set, con una scusa, rinunciava al cestino e lo regalava alle comparse: per loro era l’unico pasto vero della giornata; lo so perché me lo hanno raccontato le comparse e se il cestino non bastava con una scusa gli allungava dei soldi».
Il dolore per la morte di Franco. Ad un certo punto, Ingrassia disse addio allo spettacolo.
«Scelta sua. L’ultimo lavoro in coppia è stato Avanspettacolo su Rai3 (1992); Franchi dopo poche settimane venne ricoverato per poi presentarsi all’ultima puntata. Stava male. E dopo la sua morte papà disse: “Non mi va più”.
La morte di Franchi fu una bella botta e improvvisa: il giorno prima della morte andammo a trovarlo in clinica; ho l’immagine di Franco sul letto, con la porta aperta, noi che lo salutiamo da lontano e papà che entra. Si sono parlati, nessuno di noi ha ascoltato e neanche chiesto cosa si fossero detti. Sembrava un momento sacro. Dopo la morte i figli di Franco lo chiamavano: “Ciccio ti veniamo a trovare”. “Per favore no, mi ricordate troppo vostro padre e non ci sto bene”».
Lo vedeva anziano?
«A 80 anni aveva ancora i capelli neri; si tingeva solo i baffi; solo gli ultimi due anni di vita non è più uscito di casa perché si vergognava della sua condizione».
Franco e Ciccio, due antieroi (inimitabili) dello spettacolo. Quant'è bella giovinezza dei nativi digitali, con la fortuna di avere una vita davanti, però che peccato che la più parte di essi viva in un eterno presente ignorando le cose belle del passato. Francesco Mattana il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.
Quant'è bella giovinezza dei nativi digitali, con la fortuna di avere una vita davanti, però che peccato che la più parte di essi viva in un eterno presente ignorando le cose belle del passato, come ad esempio le maschere senza tempo di Franco e Ciccio - Franco Franchi (Francesco Benenato, 1928-92) e Francesco Ingrassia (1922-2003) - cantrici di una comicità che entrava dritta nel cuore della gente. Il centenario della nascita di Ingrassia, il 5 ottobre, è una scusa ghiotta per rimeditare sui due «inguaiatori» del cinema italiano. Andrea Pergolari e Alberto Pallotta, autori di Franco e Ciccio. Storia di due antieroi (Ed. Sagoma), raccontano i due palermitani doviziosamente. Per quanto concerne Ciccio, dopo una licenza elementare conquistata occupandosi delle faccende domestiche del maestro, e un ginnasio cui si iscrisse solo perché il regime regalava una bella divisa a chi investiva sulla formazione, dovendo poi scegliere fra l'umile (ma sicuro) mestiere di tagliatore di tomaie e l'ambiziosa (ma insicura) febbre da palcoscenico, optò per la seconda, con l'annessa precarietà della gavetta. Franco, da par suo, nacque in vicolo delle Api per poi spostarsi, coi genitori e un numero abnorme di fratelli e sorelle, a via Terra delle Mosche. «Mancava solo Piazza Zanzara», ironizzò una volta Franchi, con Ciccio che puntualizzava «sì, all'angolo con via Scarafaggi».
Male in arnese entrambi, un bel dì i loro percorsi si incrociarono. Funzionarono subito, dapprima nell'avanspettacolo e poi, in un crescendo, venne l'incontro con Modugno che li valorizzò a teatro e l'ascesa incontrollata nel cinema, in quei film che erano tutto un programma fin dal titolo (Per un pugno nell'occhio, I barbieri di Sicilia, Farfallon e via parodiando).
Ritmi di lavoro che avrebbero accoppato un elefante e difatti, dopo un decennio forsennato, la coppia scoppiò: Franco, dopo la rottura, spostò a Zagarolo il tango parigino di Bertolucci e Ciccio, non meno giocherellone, seppellì con la risata de L'esorciccio il cinema del terrore.
Paolo Giordano per “il Giornale” il 18 settembre 2022.
Basterebbero già le foto all'ingresso. Mina, Celentano, Ray Charles, Tom Jones. Una di fianco all'altra. Una più simbolica dell'altra. Quando entri nella Bussola di Marina di Pietrasanta, passeggiando fino ad arrivare in riva al mare, entri in un mondo senza tempo. Perché quel tempo, ossia gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, è ormai depositato nella banca dei nostri ricordi e da lì mica se ne va, anzi.
Oggi la Bussola è rinata e germoglia un'altra volta per una generazione di ragazzini che naturalmente non c'erano quando tutto questo è nato, ossia il 4 giugno 1955. Dice la leggenda che il celebre Sergio Bernardini avesse avuto come regalo di Natale l'affitto di questo locale dal proprietario Alpo Benelli e da allora iniziò a costruire un mito. Quella sera fu Renato Carosone a inaugurare con la sua orchestra (cachet, si dice, di 1 milione e 600mila lire) quello che alla velocità della luce sarebbe diventato un tempio della musica, del costume e pure del gossip italiano. Se eri un cantante, puntavi a esibirti alla Bussola per diventare una vera star.
Se eri un aspirante famoso (oggi si dice influencer), la Bussola era il tuo crocevia. Se poi di mestiere facevi il paparazzo, beh, come si faceva a non avere una postazione fissa alla Bussola, dove passava chiunque «facesse titolo», gli aristocratici, le dive, gli attori, gli imprenditori rampanti e i rampolli di buona famiglia che trasformavano l'estate in un set di amori, amorazzi, eccessi, intrighi e passerelle di abiti nuovi.
Per capirci, d'estate le pagine dei rotocalchi grondavano di storie uscite dalla Bussola. Quando finì l'anno di militare, Adriano Celentano scelse la Bussola per tornare dal vivo con la sua band I Ribelli. Era l'agosto del 1961, gli italiani si erano ripresi dalla crisi del Dopoguerra e iniziavano ad andare davvero in vacanza. C'era il «boom», che non era soltanto un dato economico ma si dimostrava soprattutto uno stato d'animo. Si respirava la voglia di ripartire, di divertirsi, di rimediare alle angosce degli ultimi decenni con quella salutare dose di leggerezza che adesso, nel nostro tempo, abbiamo purtroppo dimenticato un'altra volta.
Allora la Bussola diventa un riflettore dell'italianità che dappertutto rinasce. Nella Roma della Dolce Vita (non quella di oggi cantata da Fedez) arrivano divi hollywoodiani e paparazzi, a Palazzo Chigi c'è Amintore Fanfani con quello che sarà il «governo delle convergenze parallele», a Palazzo Pitti sfila per la prima volta una collezione di Valentino. Si torna a respirare. Ad agosto i Beatles fanno il loro primo concerto al Cavern di Liverpool e qui da noi, in Italia, arriva il primo tormentone, ossia Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco. Il bello è che tutto sembra inedito.
Proprio in quell'estate del 1961, alla Bussola nasce l'amore tra Stefania Sandrelli e Gino Paoli, che era sposato con Anna Fabbri: «Mi innamorai di lui per una canzone» ha detto poco tempo fa questa attrice superba. In ogni caso, «l'affaire Paoli Sandrelli» diventò di dominio nazionale, con diluvio di foto e di chiacchiere, di indignazione perché lei era minorenne e di illazioni sul loro futuro (si lasciarono definitivamente nel 1968). Di quell'epoca si sente ancora il «profumo» entrando alla Bussola passando di fianco al bar che precede di pochi passi la spiaggia. A destra c'è la piscina. Più avanti le tende e le sdraio.
L'atmosfera è cambiata ma il filo conduttore resta lo stesso di allora, quando «ci si vestiva bene» per andare alla Bussola e godersi qualcosa di totalmente unico. Qualche settimana fa, Mario Lavezzi parlando proprio alla Bussola ha ricordato che, dopo un concerto in questo locale, Mogol consigliò a Lucio Battisti di rinunciare alle esibizioni dal vivo perché non era abbastanza empatico con il pubblico. Una decisione che ha cambiato la musica d'autore italiana.
Anno dopo anno, alla Bussola arrivano tutti, ma proprio tutti. I cantanti, da Louis Armstrong a Neil Sedaka, dai Platters a Peppino Di Capri, Don Marino Barreto jr, Milva, Ella Fitzgerald, Domenico Modugno, Gilbert Bécaud, Marlene Dietrich, Juliette Greco, Josephine Baker, Wilson Pickett, Edoardo Vianello, Lola Falana, Miles Davis, Walter Chiari, Lelio Luttazzi eccetera. E si vedono anche i volti noti, quelli che oggi si chiamano vip e che facevano a gara per trascorrere una serata davanti ai fotografi.
Non c'erano i social, c'era la Bussola di Sergio Bernardini.
Pochi chilometri più avanti, verso Forte dei Marmi, c'era la Capannina, altro epicentro di vita notturna visto che già nel 1939 ci transitò un giovanissimo John Fitzgerald Kennedy. Ora, a poche centinaia di metri dalla Bussola c'è il Twiga, simbolo di una mondanità lontana anni luce da quella che ha reso celebre (e immortale) la Bussola. E il Bussolotto? Era un locale collegato alla Bussola, ma dedicato alla musica jazz, dove, fra gli altri, si esibì diverse volte Romano Mussolini. In sostanza era un «privè» nel quale si ritrovavano anche personaggi famosi in cerca di riservatezza.
In poche parole, la Bussola dettava il tempo dello spettacolo e del costume d'estate. Per capirci, era l'epoca delle vere dive, il momento nel quale Mina e Ornella Vanoni si contendevano i riflettori. Una rivalità che Sergio Bernardini, autentico scopritore di Mina ma amico leale anche della Vanoni, racconta così nel suo libro Non ho mai perso la bussola, pubblicato da Garzanti nel 1987: «C'è Mina e c'è la Vanoni. Se Mina è in un modo, Ornella è il suo opposto».
Alla Bussola, se c'è una, non c'è l'altra. Una volta, Mina ha la febbre alta e Ornella Vanoni, che è in vacanza a Forte dei Marmi, accetta di sostituirla. Quasi a fine concerto, tra il pubblico si ritrova proprio Mina avvolta da una coperta che la applaude persino più degli altri. Un'altra volta, Ornella Vanoni stupisce davvero tutti. Sergio Bernardini lo racconta così: «Non capisco davvero perché, al pomeriggio durante le prove, (lei) si rivolga in continuazione al tecnico delle luci ricordandogli che, quella sera, ad un certo punto di una canzone il cui titolo ora mi sfugge (ritengo possa trattarsi di Senza fine) vuole che lo spot solare la illumini dal basso verso l'alto. Non mi pare una cosa così importante.
Sbaglio, naturalmente. Lei ha già preparato il suo grande colpo di teatro. Questo: vestito bianco aderentissimo, espressione del viso da civetta come mai. S' accende il famoso e richiestissimo riflettore e per la gente (i maschietti in particolare) c'è Ornella che sotto il vestito non porta proprio nulla, come direbbero i Vanzina». Immaginatevi che cosa accadrebbe oggi con gli smartphone e i social a moltiplicare all'infinito quelle foto galeotte: se ne parlerebbe per giorni.
Della Bussola si parlò molto anche il primo gennaio del 1969 perché nella notte di Capodanno, quando avrebbero dovuto esibirsi Fred Bongusto e Shirley Bassey, una violenta contestazione portò anche in questo locale della Versilia il clima del tempo. Il «Potere Operaio di Pisa» aveva organizzato una manifestazione contro la sfilata di lusso che si sarebbe vista alla Bussola dove, tanto per capire, il cenone sarebbe costato 36mila lire, ossia lo stipendio mensile di un operaio.
Per convocare la protesta fu lanciato un manifesto preparato da due futuri dirigenti di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani e Paolo Brogi. L'obiettivo era chiaro: «Il 31 dicembre faremo la festa ai padroni». Uno slogan talmente truce che, ha rivelato tanti anni dopo Pietrostefani, Adriano Sofri lo giudicò «una caduta di stile». Arrivarono migliaia di persone (tra loro anche Massimo D'Alema), molte con sacchi di vernice rossa, qualcuno con buste piene di escrementi. Come spesso accadeva, si unirono i cosiddetti «facinorosi» e qualche gruppetto di neofascisti. La polizia intervenne. I ragazzi costruirono barricate e poi scapparono in spiaggia e tra le ville lì intorno. Su di una barricata rimase Soriano Ceccanti che aveva 16 anni e da allora vive sulla sedia a rotelle (paradosso burocratico: nel 2013 l'Inps gli ha revocato la pensione d'invalidità).
«Lotta Continua cominciò lì» ha riassunto Pietrostefani. La Bussola rimase uno dei centri nevralgici dell'Italia popolare per tanto tempo pagando, com' è naturale, un calo di popolarità, qualche cambio di gestione e persino una chiusura per «rumore molesto».
Adesso c'è la Bussola 2.0, che è gestita dalla famiglia Angeli e interpreta lo spirito del tempo ospitando i concerti (straesauriti) di Lazza, Tedua, Rhove e altri eroi della nuova scena musicale. Ma non solo. Ci sono i pomeriggi con protagonisti come Mara Venier o Rita Dalla Chiesa e Matteo Bassetti. E c'è comunque un ritorno a quella riservatezza elegante che è stata il marchio di fabbrica della Bussola fin da quella prima serata nel 1955 con Renato Carosone. I tempi sono cambiati. Ma, passando all'ingresso davanti alle foto di Mina, Celentano e Ray Charles, l'atmosfera rimane indiscutibilmente la stessa.
Paolo Giordano per il Giornale il 18 settembre 2022.
Finora non era mai accaduto, anzi. Il pop è sempre stato il passepartout per capire meglio il presente o per individuare le tendenze per il futuro. Ora no. Ora le canzoni di successo si abbuffano di così tante citazioni, riferimenti, scopiazzature e riesumazioni da diventare un manuale per comprendere meglio il passato, storia o costume che siano. Prima si inventava qualcosa di nuovo. Adesso si riscopre qualcosa di vecchio. E funziona.
La catena di montaggio di web e soprattutto social, che ferocemente obbliga la Generazione Z a vivere nel presentissimo, nell'hic et nunc altrimenti perde il ritmo come Charlot nella fabbrica di Tempi Moderni, sta costruendo un pubblico che non conosce la storia, tantomeno quella della musica, e che ha poco interesse per il futuro, che oltretutto non vale né clic né like.
Perciò il nuovo pop di grande consumo diventa più fascinoso quando si guarda indietro. E diventa, magari forse si spera, un pretesto per conoscere meglio, o quantomeno intercettare, frammenti di storia, di costume o anche di musica dei decenni scorsi.
Prendete l'hula hop, quell'attrezzo di «giocoleria» usatissimo e celebre negli anni Sessanta e poi sempre meno al punto che il record di durata (la rotazione intorno al bacino) è del 1987 e quindi non lo usa più quasi nessuno. E invece, grazie al brano omonimo di Noemi e Carl Brave, è tornato popolare anche tra chi manco sapeva cosa fosse. Oltretutto quello è un brano ispirato a Non succederà più, un pezzo di Claudia Mori ripescato da un'altra epoca, l'inizio anni Ottanta.
Per capirci, tante novità musicali possono diventare un pretesto per capire meglio il passato e, quando merita, ad assorbirne la forza. Ad esempio il brano Finimondo di Myss Keta musicalmente è piuttosto povero ma gode di una melodia fortissima. Se è diventato un minitormentone dell'estate 2022 gran parte del merito è senza dubbio del campionamento di Il capello, brano del 1961 di Edoardo Vianello, autentico campione del tormentone ma anche di quello che oggi è il politicamente scorretto (dai «negri» dei Watussi a Cicciona cha cha cha). In questi mesi i ragazzi, e pure i bambini, hanno cantato «Che finimondo per un capello biondo, che stava sul gilè, sarà volato, ma come è strano il fato, proprio su di me» e forse a qualcuno è venuto in mente di chiedersi da dove venissero quelle parole.
Dopotutto, la drammatica mancanza di nuove idee (capita) obbliga la musica a riesumare ciò che è rimasto sepolto del passato. Finita la riscoperta degli anni Ottanta, superato pure il reggaeton, non rimane che tornare ancora più indietro, come ha fatto Cristiano Malgioglio rielaborando Sucu sucu cantato nel 1959 dal boliviano Tarateño Rojas e poi ripreso anche da Caterina Valente. Tutt'altra roba rispetto alla trap. Altri mondi, altre atmosfere. E pure altri stimoli, che tra l'altro ricevono dagli ascoltatori un grande «up», come si dice, ossia molto apprezzamento.
La elegante Madame de L'eccezione fa scoprire gli anni Sessanta di Caterina Caselli (ora tra l'altro sua discografica) nella quale si accendevano le stesse tensioni che oggi, rivedute e corrette, agitano il suo pubblico.
Tutto torna.
In poche parole, da una parte c'è un magma monotematico e autoreferenziale di trap e urban spesso di desolante povertà creativa e, peggio ancora, interpretativa. Dall'altra c'è qualche ripescaggio che per il nuovo pubblico equivale a una scoperta. Non a caso i Maneskin sono percepiti come deja-vu dagli over 40 ma innovativi e sorprendenti da chi è più giovane. Succede che loro ripropongono, neanche tanto riveduta e corretta, un'iconografia e un insieme di simboli e provocazioni che tornano indietro di quasi mezzo secolo. Ma a chi non conosce i Led Zeppelin o i T Rex o Iggy Pop, a chi non sa che cosa sia successo negli anni Settanta e Ottanta nella musica, nella politica e anche nella lotta per diritti e le uguaglianze, risultano totalmente nuovi e inediti.
Da sempre si parla del ruolo sociale delle popstar. In passato spesso è stato un ruolo che si è preteso politico e chi non lo voleva (ad esempio Lucio Battisti o, adesso, Laura Pausini e il suo mancato Bella ciao alla tv spagnola) veniva considerato «nemico».
Invece oggi il ruolo della popstar è molto più conservatore, quasi didattico. Perciò funziona il «repêchage», il ripescaggio di temi e suoni del passato che conferma la mancanza di nuove idee e di passione innovativa tra chi «fa» musica. Perciò piacciono così tanto i richiami alle epoche trascorse. Da una parte compensano un vuoto. Però dall'altra confermano che, come tutte le altre, anche le nuove generazioni hanno fame di idee e di passione. Il problema è di chi non gliele sa dare e le obbliga a girarsi indietro per trovarle.
DAGONEWS l'11 settembre 2022.
Il co-fondatore della rivista “Rolling Stone” Jann Wenner racconta alcuni succosi aneddoti sulle celebrità che ha incontrato durante la carriera nel suo prossimo libro di memorie, "Like a Rolling Stone", in uscita il 13 settembre.
Ecco alcuni dei migliori:
Arnold Schwarzenegger
Wenner ricorda una cena organizzata da Tom Hanks e Rita Wilson che aveva tra gli ospiti Bruce e Patti Springsteen e Arnold Schwarzenegger e la moglie Maria Shriver.
Durante il pasto, il cantante ha raccontato una lunga storia che si è conclusa con la morale: "Una volta che ti sposi, c'è un'altra persona che devi tenere in considerazione e con cui condividere la tua vita come tuo pari».
Il tavolo rimase in silenzio alla fine del sermone, finché la star di "Terminator" non ruppe l'atmosfera con uno schiocco perfettamente sincronizzato. Schwarzenegger si alzò, si voltò verso sua moglie e urlò: «È ora di andare, Maria!».
Angelina Jolie
Oltre a “Rolling Stone”, Wenner aveva anche “Us Weekly” per un certo periodo. Nel libro rivela come, nel 2005, un fotografo con cui Us lavorava ha ricevuto una soffiata secondo la quale Angelina Jolie si trovava in un resort sulla costa africana con Brad Pitt, che all'epoca era ancora sposato con Jennifer Aniston.
I due, che aveva lavorato insieme al film “Mr. and Mrs. Smith", avevano scatenato molti rumor sul fatto che fossero una coppia anche fuori dal set, ma non c’era alcuna conferma.
Al fotografo venne detto non solo dove si trovavano i due, ma gli vennero anche fornite le tempistiche della loro passeggiata quotidiana e dove potevano essere paparazzati.
«Abbiamo avuto la foto e quindi la prova - scrive Wenner - Abbiamo fatto uno scoop mondiale, il debutto dei Brangelina. L'informatore? Era Angelina».
Tom Cruise
Wenner dice di essere stato amico di Tom Cruise per un po', ma ammette che la star di "Top Gun" è molto criptico sulla sua vita e su Scientology.
«Sembrava si stesse aprendo, ma alla fine non ha detto nulla; deviava completamente dal discorso - scrive Wenner - Te ne vai pensando di conoscerlo, ma tutto ciò che sai è che è un uomo sicuro di sé ed estremamente educato. Non ha nemmeno rivelato se era a favore o contro il presidente Bush.
Che cazzo sta proteggendo? Perché fa parte di una setta super segreta? È un grande talento. Lui è Super Tom. Tutta la sua segretezza ha fatto nascere il sospetto che fosse gay. Ma io non ho mai avuto segnali sul mio gaydar».
Bob Dylan
Wenner, che conosce Bob Dylan da decenni e lo ha intervistato per “Rolling Stone”, dice di aver imparato a non stringere mai la mano all'iconico musicista: «Se l'hai fatto sai che la sua mano resta immobile nel tuo palmo. È come se avessi in mano un pesce morto. È snervante e ti rendere ancora più imbarazzante stare con lui».
Da Orsomando alla Elmi, ecco le annunciatrici tv. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Agosto 2022
Per oltre mezzo secolo hanno annunciato i programmi della televisione italiana con un sorriso. Fulvia Colombo, Nicoletta Orsomando, Rosanna Vaudetti, Maria Giovanna Elmi, Mariolina Cannuli sono solo alcune delle annunciatrici che hanno fatto la storia della tv. Dal mistero intorno al primo annuncio agli aneddoti dietro i celebri soprannomi, «Storie della Tv» - il programma di Rai Cultura con la consulenza e la partecipazione di Aldo Grasso, in onda questa sera alle 21.10 su Rai Storia - propone il ritratto di queste donne e racconta un ruolo che oramai non esiste più. Le «signorine buonasera» come le battezzò la stampa dell’epoca, hanno rappresentato per anni il volto Rai.
Oltre agli annunci, alle previsioni del meteo e ai riassunti delle puntate precedenti, molte di loro legano il proprio nome alla conduzione di programmi entrati nella storia della televisione italiana: Giochi senza Frontiere, il Concerto di Capodanno, l’Almanacco del giorno dopo e persino alcune edizioni del Festival di Sanremo, diventando presenze fisse e molto amate del piccolo schermo.
Signorine buonasera è un’espressione utilizzata in Italia per indicare le annunciatrici televisive, figure presenti nella televisione italiana dall’inizio delle trasmissioni fino al 2018 inizialmente riferita solo alle annunciatrici della Rai, l’espressione, in seguito, per estensione, è passata ad indicare tutte le annunciatrici, anche quelle delle televisioni private, sia nazionali che locali. Il ruolo principale delle annunciatrici era quello di raccordare tra loro i programmi trasmessi dal canale televisivo, annunciando il palinsesto della giornata, segnalare eventuali cambi di programmazione, dare annunci istituzionali per conto della Rai ed essere pronte ad intervenire in diretta in caso di interruzioni delle trasmissioni per motivi tecnici.
Nicoletta Orsomando, i sapienti sorrisi (malandrini) della Signorina Buonasera. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.
Del suo debutto, nell’ottobre del ‘53, ricordava: «I miei genitori andarono a vedermi in un negozio di elettrodomestici». L’essenza di quella tv degli esordi ? Nicoletta seppe diventare una parente mediatica
Era il 22 ottobre 1953, e una signorina dai capelli impeccabili annunciava con voce ferma e suadente una trasmissione sugli animali. Nasceva la tv e nascevano con lei, Nicoletta Orsomando, le signorine buonasera, le annunciatrici tv che di quella magica scatola sarebbero stati i pilastri affettuosi di un’Italia che cresceva con loro. Erano appuntamenti della sera imprescindibili e rassicuranti, per grandi e piccini, quasi come Carosello. «L’ho fatto con la massima tranquillità. I miei genitori andarono a vedermi in un negozio di elettrodomestici. Certamente papà avrà detto: quella è mia figlia» ha poi raccontato Nicoletta in un’intervista a Paolo di Stefano per il Corriere della Sera, nel 2011. Anche se allora la tv non creava miti da un secondo all’altro come oggi e soprattutto non era tappa agognata da chi voleva diventare famoso o famosa.
NEL 1979 DICEVA: «QUANDO VEDO O PRESENTO TUTTI QUEI GRUPPI DI UOMINI, CHE MAGARI PARLANO DELLE DONNE, PENSO CHE NON VADA BENE. MI AUGURO CHE LA PARITÀ DI GENERE, CHE SANCISCE LA COSTITUZIONE, DIVENTI QUANTO PRIMA UN FATTO REALE».
«Non ho mai dovuto sgomitare e non ho neppure avuto avance dai capi. Vede, bisogna pensare che all’inizio degli Anni 50 non c’era così grande voglia di fare della televisione come ora perché della tv si sapeva poco, la si vedeva attraverso le vetrine dei negozi o al bar, in casa non c’era» ha raccontato Nicoletta in un Sottovoce a Gigi Marzullo. «All’inizio era come parlare fra amici, poi sempre più mi accorgevo che quando camminavo per strada la gente si girava a guardarmi e ho cominciato a capire che cos’è la televisione». E l’essenza di quella tv degli esordi Nicoletta l’ha non solo capita ma incarnata, diventando - ha scritto uno che se ne intende come Maurizio Costanzo - una parente mediatica: «Era facile, col vantaggio della luce bassa, dell’intimità del proprio appartamento, di immaginare che Nicoletta Orsomando, fatto l’annuncio, ti sorridesse con un ammiccamento».
Sorrisi tanti, sapienti e un pizzico malandrini, ma nulla di più, nessuno sgarro neppure di un capello per lei che proveniva da una famiglia larga e con grande educazione civile: originaria di Casapulla, in provincia di Caserta, un padre noto compositore e direttore di banda, che ha girato l’Italia, con moglie e sette figli. Nella sua lunga vita televisiva ci sono stati anche L’amico degli animali con Angelo Lombardi al Festival di Sanremo nel 1957 con Nunzio Filogamo, fino a Viva Radio2 Minuti con Fiorello. Quando le chiedevano se le sue preferenze andassero alla tv di allora o a quella di oggi rispondeva: «La tv di ieri aveva più contenuti, anche lo spettacolo leggero aveva qualcosa di vero, profondo, intelligente. Ora c’è più volgarità che spirito e intelligenza». Forse non sarebbe stata, anche per motivi generazionali, una militante del metoo, ma aveva grande consapevolezza della condizione femminile.
Dalle teche Rai emerge una sua potente dichiarazione sulla parità di genere, datata 1979: «Quando vedo o presento tutti quei gruppi di uomini, che magari parlano delle donne, penso che non vada bene. Mi auguro che la parità di genere, che sancisce la Costituzione, diventi quanto prima un fatto reale». Sempre composto il suo saluto agli studi Rai, nel 1993, dopo 40 anni di servizio: « Potrà sembrare strano ma è anche una liberazione, passare dagli studi di via Asiago a Saxa Rubra è stata una fatica». Qualche comparsata tv a ricordare, non a fare amarcord, e il saluto al mondo, il 21 agosto 2021, a 92 anni.
Seba Pezzani per “il Giornale” il 26 agosto 2022.
«Il pezzo che sto per suonarvi si intitola Masters of war. Appartiene alla mia cosiddetta fase di protesta. Sono tuttora in quella fase». A dichiararlo, dai solchi di un bootleg degli anni Ottanta, è Bob Dylan, il cantante impegnato per eccellenza per lo meno nell'iconografia ufficiale del rock che ha abbracciato la canzone politica, figlia della tradizione popolare, diventando un'icona incontrastata dei due mondi contrapposti del pop e del folk, per poi discostarsene.
E dire che le canzoni che per prime gli hanno guadagnato stima e fama planetarie sono di contenuto apertamente politico, come A hard rain's a-gonna fall, With God on our side, It' s alright ma, I' m only bleeding e la stessa Blowin'in the wind.
Facciamo avanzare velocemente il nastro del tempo e approdiamo sul palco del festival di Coachella, in California, nello scorso aprile, con il cantante dei Måneskin che urla a un pubblico delirante e non particolarmente articolato, «Free Ukraine, fuck Putin!». Uno slogan degno dell'epoca d'oro del rock barricadero, proprio quello da cui Dylan, il vate della canzone di protesta, ha progressivamente preso le distanze.
Di motti piacioni e di maniera davvero non si sentiva la mancanza. Ma perché, allora, la storia del rock è costellata di slanci contestatari e, soprattutto, di aneliti filantropici? Perché l'uomo è libero di dire ciò che vuole. Perché una presa di posizione su tematiche scottanti da parte di artisti maturi è considerata doverosa. Perché va di moda e piace. Tutte spiegazioni accettabili. Ma c'è pure qualcosa di più profondo, qualcosa che attiene alla missione stessa della canzone e affonda le radici nella tradizione del racconto orale, prima, e della denuncia sociale, dopo, con la forza iconoclasta del teatro antico e l'avvento dei primi trovatori.
In fondo, lo stesso Bob Dylan si è fatto conoscere travestendosi da folksinger: abbigliamento casual, acquistato presumibilmente in un emporio di abiti di seconda mano, una chitarra rigorosamente acustica, la propensione a cantare brani dalla melodia semplicissima spesso entrati nel bagaglio culturale collettivo degli USA e dal testo che ricostruisce un fatto di cronaca o affronta una materia spinosa, schierandosi dalla parte dei più deboli.
Ma, è risaputo, ogni ostentazione e riproposizione rischia di sapere di stantio e per attenuare la forza di una creazione. Bob Dylan lo ha capito benissimo e ha abbracciato chitarra elettrica, giacca di pelle e atteggiamento da rocker nel corso del Newport Folk Festival del 1965, finendo per stizzire il suo patrigno musicale nonché direttore del festival, Pete Seeger, e pure quel pubblico di beatnik già fuori tempo massimo: solo una chitarra acustica e una canzone di denuncia erano ritenuti degni di quel palcoscenico.
Presto, quella gente si sarebbe resa conto, suo malgrado, che così non era e che una splendida canzone d'amore, impegnata emotivamente più che politicamente, poteva avere la stessa forza dirompente di una filippica in musica.
Facciamo nuovamente un salto in avanti e veniamo alla polemica di pochi giorni fa, sull'onda delle accuse mosse a Jovanotti dal mondo ambientalista. Il cantante toscano sarebbe reo di ipocrisia e comportamenti contrari al decoro ecologico.
Il suo Jova Beach Party, promosso come una sorta di primo grande evento musicale a impatto zero (o quasi) sull'ecosistema e sull'ambiente, in realtà non sarebbe stato virtuoso quanto l'entourage del cantante vorrebbe far credere. Inutile tornare sulla montagna di rifiuti abbandonati sulla spiaggia, sul muro assordante di decibel o sulle presunte offese irreparabili a qualche specie animale.
Se certi atteggiamenti del movimento ambientalista rischiano di risultare sconnessi dalla modernità, la sensazione è che aver ammantato quei concerti di una patina di irreprensibilità etica per renderli ancor più appetibili sia stato un perfetto autogol. Davvero le associazioni animaliste e ambientaliste sarebbero insorte con la stessa veemenza se Jovanotti non si fosse spacciato per paladino della loro causa, arrivando persino a minimizzare il fatto che tra gli sponsor primari del tour estivo ci fosse un produttore di carni?
Carni, sì, ma rigorosamente biologiche, la difesa d'ufficio. Attivismo politico e filantropia affascinano il mondo del rock da tanto tempo, quasi che esserne protagonisti possa sdoganarne la grandezza artistica più della stessa musica.
Il primo vero anelito di generosità pop lo si deve a George Harrison, organizzatore dei due concerti, finanziariamente fallimentari, per il Bangladesh, precursore del Live Aid (voluto da Bob Geldof) e del Farm Aid (suggerito da Dylan per dare una mano ai contadini del Midwest, strangolati dalle ipoteche, e tradotto in realtà da John Mellencamp, Willie Nelson e Neil Young). Stendiamo un velo pietoso sui backstage debosciati.
In mezzo c'è stata la levata di scudi del brano Sun City di Little Steven, con la partecipazione di uno stuolo di nomi altisonanti, contro le band che si esibivano in Sudafrica (tra cui i Queen).
C'è chi rivendica ogni volta il suo ostracismo o la sua militanza. L'ex Pink Floyd Roger Waters è sempre in prima fila: antimilitarista convinto, si rifiuta di suonare in Israele, dice di comprendere le ragioni della Russia e, giusto pochi giorni fa, ha fatto proiettare lo slogan «Free Julian Assange» sul maxischermo, durante un suo concerto. Nel frattempo gli altri Pink Floyd hanno inciso un brano per l'Ucraina...
Francesco Destri per afdigitale.it il 9 agosto 2022.
Sapevate che per un vinile si possono spendere anche due milioni di dollari o che la prima registrazione di Elvis Presley è oggi nelle mani di Jack White? Chi ha frequentato almeno una volta un mercatino di dischi usati avrà certamente visto cifre folli per portarsi a casa un vinile a 33 o un 45 giri che, a prima vista, non aveva nulla di speciale.
Dopotutto, quando si entra nell’antro dei collezionisti di vinili, bisogna considerare aspetti e fattori ben più profondi di una semplice occhiata alla copertina o alle condizioni del vinile stesso. E siamo certi che vi sarete chiesti spesso quale sia stato, nella storia, il vinile più costoso di sempre.
Non è facile dare una risposta così su due piedi, anche perché le valutazioni variano di mese in mese (fatevi un giretto su Discogs.com per rendervene conto) e perché, come sempre quando si parla di collezionismo, entrano in gioco anche le aste con tutti i loro meccanismi al rialzo che inevitabilmente sfalsano un po’ il valore reale di un prodotto. In ogni caso questi sono i dieci vinili più costosi di cui si abbia notizia.
Frank Wilson – Do I Love You (Indeed I Do) – 25.742 sterline
Di questo vinile del 1965 del cantante soul americano Frank Wilson sono state prodotte solo 250 copie demo e pare che ne siano sopravvissute solo 5 dopo che tutte le altre furono distrutte dal capo della Motown Berry Gordy, infuriatosi dopo aver scoperto che Wilson (uno dei suoi migliori produttori) stava cominciando una carriera da cantante. Storia o finzione? Non lo sappiamo con esattezza, ma la cosa certa è che questo 45 giri è stato venduto nel 2009 da un commerciante del Leicestershire per 25.742 sterline, circa 30.100 euro.
Tommy Johnson – Alcol e Jake Blues – 37.100 dollari
Un 78 giri del 1930 traspira valore già di per sé, ma questo particolare esemplare è stato acquistato all’equivalente di quasi 33.000 euro dal collezionista americano John Tefteller, già in possesso di una copia che però era in condizioni peggiori. Visto che il nastro master originale è andato distrutto, non sappiamo quanti esemplari di questo quasi centenario 78 giri ci siano oggi in circolazione.
Richard D. James – Caustic Widow (stampa test) – 46.300 dollari
Chi avrà speso secondo voi una tale cifra a un’asta online per portarsi a casa nel 2014 questa rarissima copia dell’album di Richard D. James (Aphex Twin) composto tra il 1992 e il 1994? Niente poco di meno che Markus Persson, il creatore Minecraft.
The Beatles – Til There Was You – 77.500 sterline
Ecco un rarissimo vinile da 10″ dei Fab Four con i brani Til There Was You sul lato A e Hello Little Girl (scritto erroneamente come Hullo Little Girl) sul lato B. Si tratta di una demo registrata nel 1963 per la EMI e riporta delle scritte a mano del manager dei Beatles Brian Epstein. È stato venduto a Warrington (Imghilterra) a un acquirente anonimo nel marzo 2016 per 77.500 sterline (circa 91.000 euro).
The Beatles – Yesterday & Today – 125.000 dollari
Ancora Beatles, anche se in questo caso si tratta di una compilation del 1966 pubblicata inizialmente solo in Nord America e poi in Giappone, ma non nel Regno Unito o in altri Paesi europei. La ragione della rarità di questa edizione è la controversa copertina, su cui i membri della band sono coperti di carne e tengono in mano pezzi di bambolotti. Una scelta decisamente bizzarra, tanto che questa versione fu rapidamente ritirata dal mercato e sostituita con una copertina molto più tradizionale. L’originale è ancora molto ricercato dai collezionisti dei Beatles e una copia ancora sigillata è stata venduta nel febbraio 2016 all’equivalente di 111.000 euro.
John Lennon e Yoko Ono – Double Fantasy – 150.000 dollari
Un caso un po’ “macabro”, visto che questa copia è stata firmata da Lennon poche ore prima della sua morte nel dicembre del 1980 e quindi potrebbe essere l’ultima in assoluto (il condizionale è d’obbligo) a riportare la scrittura a mano dell’ex Beatle. Il disco è stato venduto per l’incredibile cifra di 150.000 dollari (circa 133.000 euro) a un acquirente sconosciuto.
The Beatles – Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band (firmata da tutti e quattro i Beatles) – 290.000 dollari
Il leggendario album del 1967 vale già molto se si tratta di una prima stampa, ma non sarebbe mai costato così tanto se non avesse riportato gli autografi di tutti e quattro i membri della band. Nel 2013 è stato venduto a un’asta negli USA per 290.000 dollari partendo da una base dieci volte inferiore (30.000 dollari). E chissà quanto può valere adesso!
Elvis Presley – My Happiness – 300.000 dollari
La stampa test di My Happiness è un 45 giri con i brani My Happiness e That’s When Your Heartaches Begin. Si tratta della prima registrazione di Elvis ed è stata venduta a un’asta online nel 2015 al leader dei White Stripes, Jack White, ben noto per la sua ossessione per il vinile e per tutto ciò che è vintage.
The Beatles – The Beatles (The White Album) – 790.000 dollari
Era noto da tempo che Ringo Starr possedesse la primissima copia del doppio album omonimo della band del 1968. Il numero di serie riporta infatti 0000001, un sogno per qualsiasi collezionista di vinili. Questo esemplare stato venduto a un’asta negli Stati Uniti per 790.000 dollari nel dicembre 2015 a un acquirente anonimo. Alla stessa asta c’era anche la famosa batteria Ludwig di Ringo, acquistata dal proprietario degli Indianapolis Colts, Jim Irsay, per ben 2,2 milioni di dollari.
Wu-Tang Clan – Once Upon a Time in Shaolin – 2 milioni di dollari
Il disco più costoso mai venduto è questo album del 2015 del Wu-Tang Clan (il loro settimo). Ciò che lo rende così prezioso è il fatto che ne è stata stampata solo una copia. Il disco è stato conservato in un caveau del Royal Mansour Hotel di Marrakech, in Marocco, e messo all’asta da Paddle8 nel 2015. L’ex manager di una grande compagnia farmaceutica (Martin Shkreli) ha acquistato l’album per il prezzo richiesto di 2 milioni di dollari. Il disco è stato venduto con una clausola secondo cui non può essere sfruttato commercialmente fino al 2103, ma può essere pubblicato gratuitamente.
La follia delle prevendite: per vedere un concerto devi comprare il biglietto un anno prima. Gino Castaldo su L’Espresso il 12 dicembre 2022.
Sta diventando una specie di barzelletta: da caso eccezionale ormai è una norma
Cosa avete da fare il 23 luglio del 2023? Non lo sapete? Male, dovreste saperlo perché ormai se volete vedere un concerto dovete deciderlo svariati mesi prima, a volte anche un anno prima, non importa se tra un anno in quei giorni vorreste poter decidere di fare altro, una vacanza, un imprevisto, oppure quel gruppo non vi piace più così tanto, o magari avrete voglia di andare a fare un weekend romantico, perché oggi siete single e tra tre mesi invece felicemente innamorati, e quindi il 23 luglio invece di andare a vedere il concerto che avete dovuto prenotare con tanto anticipo, vi andrebbe di fare qualcos’altro.
Questa delle vendite in anticipo sta diventando una specie di barzelletta o, se preferite, di follia, nel senso che se prima capitava in casi del tutto eccezionali, eventi imperdibili, unici, ora sta diventando una norma, come se fosse normale decidere oggi il concerto che vorrò vedere tra un anno. E non è un’esagerazione.
Se volete assistere al concerto di Tananai al Forum di Assago l’8 maggio del 2023, praticamente domani, potete già comprare il biglietto. Volete festeggiare, ammesso che ci sia da festeggiare, il ritorno dei Kiss il 29 giugno al Lucca Summer festival? I biglietti sono già in vendita. Poi però non inventatevi che all’ultimo momento cambiate idea, che si rompe la caldaia, che c’è un’invasione di cavallette, che nella vita com’è normale a distanza di mesi, succedono cose. I concerti di Springsteen di maggio e luglio 2023 sono andati a ruba, non ci sono più, ma in vendita troviamo anche quelli di Lazza, Diodato, Tiziano Ferro (giugno) Black keys (luglio), Red Hot Chili Pepper (luglio), Marco Mengoni (giugno-luglio), Arctic Monkeys (luglio), Imagine Dragons (agosto). Ce n’è per tutti i gusti: Vasco, Pet Shop Boys, Marracash, perfino Al Bano, tutto quello che volete, a patto di ipotecare la vostra agenda con mesi di anticipo. A stupire è la normalità, Volete essere certi di andare all’Arena di Verona per i Music Awards di settembre anche se non c’è ancora il cast? Ovviamente potete già acquistare il vostro posto, e perfino un pacchetto speciale a 299 euro che ti assicura alcuni privilegi, che possono essere anche molto divertenti, ma senza conoscere i nomi degli artisti in cartellone il piacere diventa una questione di suspense.
Pensate che bello, il biglietto lo compriamo subito, e per scoprire chi andremo a vedere c’è tutto il tempo. Bisogna anche saper rischiare nella vita, e allora osiamo, mettiamo in vendita un concerto del 2024, senza neanche specificare il nome dell’artista, come un “blind date”, col brivido della sorpresa. Il nome dell’artista è un puro dettaglio, quello che conta è che io oggi ho assolutamente bisogno di sapere con certezza cosa farò, il 6 giugno del 2024 e per questo sono disposto a tutto, anche a comprare un biglietto.
Televenditori, da Cesare Ragazzi a Mastrota: «Tra pentole e cyclette noi abbiamo capito l’Italia». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 15 Settembre 2022
I pionieri delle televendite: i prodotti diventati di culto. L’intuizione di Raffaele Pisu
Sepolto dalla fine del secolo scorso nel garage di qualche centinaio di italiani, o magari nascosto nel cruscotto di qualche vecchia automobile miracolosamente sopravvissuta alla rottamazione, giace l’unico modello di anti-autovelox mai venduto «legalmente» sul mercato italiano. Distribuito dalla società Valking Market con sede a Padova, ma ordinabile al telefono dopo aver composto un prefisso della provincia di Pesaro, l’anti-autovelox veniva presentato al pubblico col nome industriale, «LVX 500»; e costava praticamente meno di due multe per eccesso di velocità, 699 mila lire più Iva, prezzo al pubblico 838 mila e 800 lire, arrotondate per difetto a 838 mila. Distribuito in Veneto, ordinabile al telefono nelle Marche, «LVX 500» veniva pubblicizzato — tra le altre — anche dall’abruzzese Rete 8.
I nottambuli
Nel 1999, quindi, i nottambuli della provincia di Pescara o di Chieti, di Teramo o dell’Aquila, potevano facilmente imbattersi nella televendita che reclamizzava il miracoloso marchingegno di fabbricazione americana; che, se posizionato sul cruscotto dell’automobile, avrebbe segnalato con un «bip» l’imminente materializzarsi di uno di quegli autovelox moltiplicati a dismisura per volere dell’allora capo della Polizia Ferdinando Masone, impegnato nella drastica riduzione del numero di morti e feriti per incidenti stradali. Forte del suo raggio d’azione di ottocento metri dichiarati, «LVX 500» avrebbe avvertito l’incauto guidatore della necessità impellente di frenare per evitare la multa. Pochi o tanti che fossero, tutti i potenziali acquirenti traditi da una botta di senso civico, o sorpresi da un’insopprimibile crisi di coscienza, venivano immediatamente tranquillizzati dalla televendita. Era tutto non in regola, di più: «LVX 500» vantava nientemeno che «un’autorizzazione della Corte di Cassazione». E chissà quanto sarebbe andata avanti la storia dell’anti-autovelox «legale» se l’allora deputato dei Verdi Athos De Luca, in overdose da zapping da notte insonne, non si fosse imbattuto nella televendita e non avesse telefonato al numero in sovraimpressione per chiedere lumi, sentendosi rispondere da una centralinista col sillogismo «una sentenza della Corte di Cassazione ha autorizzato la pubblicità sulle tv private, la vendita dell’anti-autovelox avviene solo tramite pubblicità sulle tv private, la Corte di Cassazione ha autorizzato l’anti-autovelox».
Il boom
La distribuzione sul mercato dell’anti-autovelox finì lì, nel 1999. Proprio mentre il boom di televendite e telepromozioni , iniziato una decina di anni prima, raggiungeva in Italia il punto massimo della sua parabola ascendente. Perché c’è stata un’epoca in cui un formulario magico composto da locuzioni mai usate in precedenza — «telefonata senza impegno», «pacco anonimo», «prime dieci telefonate», «soddisfatti o rimborsati», «numero in sovraimpressione», «riceverete la visita di un nostro addetto», «comode rate» — ha accompagnato gli italiani verso la soddisfazione di bisogni che prima non c’erano, alla ricerca di oggetti che non si pensava potessero esistere, dentro il sogno di aggirare ostacoli della vita piccoli e grandissimi come l’autovelox sulla strada e la calvizie sulla testa.
La cellulite
Un’epoca nata con la tv commerciale ed entrata in crisi con l’avvento di internet, che ha portato nelle case degli italiani «la serie perfetta di coltelli Miracle Blade» (l’americano Chef Tony), «l’autentico originale tappeto Keishon, manifattura nata nel 1740 per ordine di un sultano» (l’inarrivabile Alessandro Orlando, già Telemarket), le decine di versioni del vibromassaggiatore a due e tre velocità con quattro fasce «brevetto Revital», del quale il volto televisivo dell’azienda Amerika Star, Fabrizia Fabbri, garantiva sul suo onore gli stessi benefici dell’andare in palestra, anche se comprandolo potevi startene tranquillamente a casa: «È un istituto di bellezza in forma mignon, come una piccola palestra. Perché qui avete la ginnastica attiva e la ginnastica passiva ma per tutto il corpo! Perché grazie a queste fasce voi avrete il meglio del drenaggio e del dimagrimento! Che cosa vuol dire drenaggio? Facciamolo vedere ora, Marzia (l’inquadratura passava sulla modella Marzia, alle prese con una seduta di vibromassaggiatore dedicata ai glutei, ndr)... Drenaggio vuol dire sanare un corpo dai liquidi in eccesso, drenaggio vuol dire sanare la circolazione, una situazione diciamo “non normale” che vi crea cellulite, vi crea anestetismi. Parliamo quindi non solo di situazioni estetiche ma parliamo sicuramente anche di ne-ga-ti-vi-tà fisicaaaaa!». E dire che senza Amerika Star, Monika Sport e tutte le altre aziende della galassia del fitness uscite dal cilindro del patron Alcide Golinelli, modenese di San Felice sul Panaro, nulla di quello che è successo dopo con televendite (l’acquisto avveniva direttamente con la telefonata) e telepromozioni (un addetto avrebbe perfezionato la vendita a casa dell’acquirente) sarebbe successo nei tempi e nei modi in cui è successo, compresa l’incoronazione di Mike Bongiorno a divinità nazionale incontrastata e inarrivabile del genere.
La scintilla
Nel 1974 Golinelli, scomparso nel 2011 a 67 anni, aveva incontrato per caso in aeroporto a Bologna il presentatore Raffaele Pisu, appena rientrato da un viaggio negli Stati Uniti. Del soggiorno in America, a Pisu era rimasto impresso un fatto che aveva dell’incredibile e l’aveva raccontato all’amico: guardando la televisione, si era imbattuto nella televendita di una cravatta, gli era piaciuta, aveva composto il numero di telefono visto sullo schermo, l’aveva ordinata e soprattutto gli era stata consegnata a domicilio in un’ora. È la scintilla. Da lì in poi, sfruttando Pisu come testimonial e il sistema delle videocassette distribuite nei circuiti delle tv locali di tutta Italia, Golinelli, che prima vendeva materassi, si sarebbe lanciato nel commercio di bici da camera prima e di vibromassaggiatori dopo. Delle prime vendette 80 mila pezzi; dei secondi, lanciati dal racconto di Fabrizia Fabbri e dalle dimostrazioni televisive di modelle come Marzia, quattro milioni.
Indiani a cowboy
«La formula “salve, sono Cesare Ragazzi”, con cui iniziava la pubblicità, è mia. Semplice e indimenticabile. Com’era stata mia anche l’idea di tuffarmi a mare per lo spot e mostrare i capelli sott’acqua. Lo slogan no, l’aveva fatto un’agenzia di Milano. A ripensarci oggi, a quaranta e passa anni di distanza, mi sembra geniale», racconta Cesare Ragazzi citando a memoria quella frase — «Tutto può succedere a un calvo che si è messo in testa un’idea meravigliosa» — che ha cambiato la storia delle telepromozioni e smentito l’assunto secondo cui la brevità dello slogan è la chiave del successo di uno spot. Cultore dell’innesto di capelli e nemico giurato della tecnica del trapianto, Ragazzi deve tutto «al fatto che lavoravo già a nove anni, vendendo le caramelle al cinema durante l’intervallo. Visto che in quel periodo davano soprattutto western, e che rimanevo in sala a vedere i film, davanti ai miei occhi passavano le scene degli indiani che si prendevano lo scalpo del cowboy. Dieci anni dopo, quando ho iniziato ad avere problemi di calvizie, ho ripensato a quei film: ma se lo facevano gli indiani togliendo i capelli a un morto, perché la stessa cosa non posso farla io per mettere i capelli a uno vivo?».
Addio calvizie
La telepromozione, con tanto di numero di telefono per contattare i suoi centri e fissare un appuntamento, è la chiave del successo. «E lo sa perché? — dice lui —. Perché solo davanti alla tv un uomo avrebbe ammesso di avere un problema tricologico e preso il coraggio di telefonare. Ai tempi d’oro, un passaggio nazionale della telepromozione sulle reti Fininvest poteva valere anche centotrenta telefonate. Dei centotrenta, all’appuntamento preso, venivano quasi tutti. Poi un dieci/quindici per cento si convinceva a procedere dopo il colloquio. Nessuno, e dico nessuno, avrebbe mai ammesso di essere venuto da me. Ho visto persone che avrebbero confessato rapine a mano armata, omicidi, le peggiori nefandezze; ma non questo. Eppure, guardi la stranezza, che io sappia nessuno si è mai pentito di avermi incontrato sul suo cammino», spiega adesso che lavora in proprio, con tecniche di innesto a suo dire sempre più performanti e innovative, anche se l’azienda col suo nome l’ha venduta anni fa a un fondo d’investimento. «A Mediaset, quando capitavo da quelle parti, molti presentatori si dileguavano. Evitavano di incrociarmi perché io, se guardo una testa, so già tutto quello che c’è da sapere».
I fan quarantenni
«Io sono sempre stato soprattutto l’uomo di pentole e materassi», dice Giorgio Mastrota , il televenditore più longevo della tv italiana. Conduceva programmi tv di cui la televendita era una specie di intermezzo; di intermezzo in intermezzo, da un certo punto in poi è rimasto a fare solo televendite. «Eppure ho campato bene e sono ancora felice così. Lei conosce un bambino che compra pentole o materassi? Io no. Eppure, mi creda, il mese scorso ho fatto una riunione a Milano con dei quarantenni molto fichi e molto smart, gente che si occupa di comunicazione e pubblicità, che erano adolescenti negli anni ’90. Mi hanno detto “Mastrota tu sei il nostro mito perché siamo cresciuti con te, guardando le tue televendite tra un telefilm e l’altro”».
Soddisfatti o rimborsati
Un pezzo d’Italia cresciuto così, tra mountain bike con cambio Shimano, televisori 14 pollici e ferri da stiro con caldaia separata, che poi erano gli omaggi compresi nel prezzo per gli acquirenti più rapidi nell’aggiudicarsi una batteria di pentole o un materasso. «Per non dire dei bisogni, di come sono cambiati, di una sorte di evoluzione della specie determinata dalle televendite. Le prime poltrone che promuovevo erano fatte per sedersi e basta; poi sono arrivate quelle che ti tiravano su le gambe; poi quelle col poggiaschiena reclinabile; quindi quelle che fanno anche un massaggio. La stessa cosa vale per i letti o per i cuscini. Anche le leggi sono arrivate dopo le televendite. La formula “soddisfatti o rimborsati”, credo un’invenzione di Mike Bongiorno, tranquillizzava il telespettatore perché gli garantiva la possibilità di cambiare idea sull’acquisto. La legge sul diritto di recesso è arrivata dopo...». Un giorno Mastrota, guardando una televendita, ha telefonato al numero in sovraimpressione: «Era un set di coltelli del mitico Chef Tony. Mi piacevano, il prezzo era buono, ho alzato il telefono per fare l’ordine. Arrivato al momento di fornire i dati per la fatturazione, quando ho detto “cognome Mastrota nome Giorgio” il centralinista ha messo giù pensando fosse uno scherzo».
I quadri all’asta
Che è la stessa cosa successa decine di volte anche a Silvio Berlusconi, forse il teleacquirente compulsivo più celebre sul suolo nazionale. «Adesso avrei bisogno dei suoi dati, iniziamo da nome e cognome. Lei è il signor...?». «Silvio Berlusconi». A questo punto della storia, l’operatore del servizio clienti trattiene il fiato, c’è l’immancabile pausa telefonica che copre gli istanti in cui deglutisce la saliva. Poi riparte. «L’indirizzo di fatturazione è lo stesso dell’indirizzo di consegna?». E l’altro, di rimando: «Certo. Presso villa San Martino, viale San Martino, Arcore, provincia di Monza e Brianza». Solo i più assidui frequentatori della villa di Arcore sono in grado di riconoscere la scenetta e di recitarla alla perfezione. C’è stato un tempo in cui chiunque andasse a trovarlo a casa sua poteva sorprendere Berlusconi intento a guardare le televendite dei quadri. Che non sono delle televendite in senso stretto ma delle vere e proprie aste, trasmesse da quelle emittenti locali in cui ci si imbatte solo avventurandosi col telecomando nelle numerazioni del digitale terrestre più lontane dal perimetro dei primi nove numeri. Per l’ex premier erano e sono ancora uno show imperdibile. In grado di inchiodarlo al divano come pochi altri programmi tv. Tra l’altro, come testimoniano le numerose chiamate al servizio clienti, Berlusconi non si limita a guardare da telespettatore passivo. Al contrario, se viene rapito da un quadro, alza il telefono, fa un’offerta e prova ad aggiudicarselo. Tutto da solo, senza l’intercessione della segreteria, hai visto mai che quei pochi secondi in cui si cerca un collaboratore qualcun’altro ha già superato l’offerta.
Show in salotto
Trasferiti a Villa Gernetto per motivi di spazio, oggi ci sono centinaia di quadri che nel corso degli ultimi anni il padrone di casa si è aggiudicato partecipando in tempo reale a un’asta in tv. D’altronde, come gli ha ripetuto tante volte il suo amico Vittorio Sgarbi, «il vero collezionista non è quello che spende un sacco di soldi per un quadro, altrimenti l’arte sarebbe una cosa solo da miliardari. Il vero collezionista è quello che sa riconoscere un’opera di valore e la paga il meno possibile». Una parte consistente del tempo che l’inventore della tv commerciale italiana riesce a passare davanti alla tv è dedicata alle televendite. E non di rado gli ospiti della casa – siano essi collaboratori, politici di Forza Italia, uomini Mediaset – vengono trascinati da Berlusconi nella visione del particolarissimo show, spesso elevati al rango di consulenti improvvisati. «Non trovi che questo quadro sia bellissimo? Guarda che cornice definita. Che faccio, chiamo?».
La strana storia del Lipsi, il ballo dimenticato della Ddr inventato per combattere il rock and roll. Nel 1959 nella Germania orientale il partito comunista provò a combattere la deriva occidentale imponendo anche uno stile di danza da Guerra fredda. Durò poco: al di là della cortina di ferro c’era Elvis Presley in divisa. Maurizio Di Fazio su L'Espresso il 13 giugno 2022.
Una donna vestita in modo quasi moderno si accosta alla telecamera ed esclama: «i venditori di dischi stanno ricevendo ultimamente strane richieste dai clienti. Chiedono il Lipsi. È un’epidemia». Le fa eco una coppia che sembra posseduta da una tarantola soft, stile music-hall: «Lipsi è la cosa più semplice che c’è. La danza è in 6/4, prendi la dama col braccio sinistro, così. Be’, è facile, guardate». E parte il primo immemorabile slogan: «Se davvero vuoi saperlo devi solo cominciare, ogni giovane oggigiorno il Lipsi vuole danzare». Gran finale con mantra pop alla bolscevica: «Oggi tutti i giovani danzano il Lipsi, solo il Lipsi. Oggi tutti i giovani vogliono imparare il Lipsi: è moderno! Rumba, boogie e cha cha cha sono danze sorpassate; ora dal nulla, da un giorno all’altro, è spuntato e resterà». Una classica parodia involontaria, una profezia autodistruggentesi. Il video continua a circolare su YouTube ma fa ormai tenerezza. Siamo nel 1959, tra i 45 giri più venduti figurano “Smoke gets in your eyes” dei The Platters e “Lonely Boy” di Paul Anka. Il rock and roll sta infiammando i cuori e i sensi dei ragazzi americani ed europei dell’ovest. Anzi, possiamo affermare che nascano proprio in quegli anni come generazione a sé sulle ali di un sound perturbante e catartico.
Nell’universo parallelo della Repubblica democratica tedesca, varato un grande piano settennale, la nomenklatura ritiene che la Guerra fredda vada combattuta anche sul piano dell’immaginario, della sfera subliminale del desiderio. Uno degli imperativi più urgenti è di trattenere in patria mentalmente, e nello spirito, i ventenni irretiti dalle sirene di un Occidente respirato in casa. La «controrivoluzione peccaminosa» di Elvis è già filtrata e rischia di dilagare nel paradiso del socialismo melodico in salsa puritana. Quale scandalo insostenibile per la dottrina ufficiale, tutti quei sussulti del bacino, la sessualità mimata. Occorre staccare in qualche modo la spina ai Chuck Berry e Little Richard, Gene Vincent e Jerry Lee Lewis, Johnny Cash e Buddy Holly. I mezzi domestici sono raccogliticci, certo, in ritardo istantaneo sul presente. Ma non si può più stare alla finestra.
Bisogna aggirare e anestetizzare il pericolo. E così inventano un genere ex novo, una casta moda per le masse acconcia al proletariato dell’altra Germania. L’ordine arriva dall’altissimo, il lìder maximo Walter Ulbricht in persona: «Non basta condannare a parole la decadenza capitalista e le abitudini borghesi, i suoi caldi suoni e i canti estatici di un Presley. Dobbiamo offrire qualcosa di meglio». E quell’evoluzione della specie secondo il Sed, il partito-Stato, era il Lipsi, dal nome in latino di Lipsia. Un allegro e innocente motivetto contro i tentacolari e sulfurei messaggi pan-erotici e imperialistici propagandati con la scusa della chitarra elettrica. Giustizia sociale e musicale sarebbe stata fatta.
In fondo la post-verità l’ha architettata la Stasi. Un po’ come se dalle nostre parti Fanfani e Togliatti avessero fatto quadrato contro l’avanzata dei pruriginosi urlatori, occupando “Il musichiere” di Mario Riva con Gino Latilla travestito da Adriano Celentano. Ma torniamo alle immagini d’epoca, a quel passato quotidiano travolto dalla Cortina di ferro. Racconta Anna Funder nel libro “C’era una volta la Ddr”: «Ecco una coppia in sala da ballo: lui in giacca e cravatta, lei in abito lungo e scarpe con tacchi. Tutto molto strano. All’inizio donna e uomo sono rivolti nella stessa direzione, come in una danza greca. Si spostano da un lato all’altro, poi sollevano l’avambraccio e si allontanano inclinandosi, in maniera allarmante, come due teiere». Poi la macchina da presa «stacca sui loro piedi che, di punto in bianco, partono in una complessa figurazione da giga irlandese. Quindi i due si voltano uno verso l’altro e si uniscono in una presa di valzer prima di separarsi di nuovo con un saltello». A questo fa seguito «una mossa alla russa con le mani sui fianchi. Tutto ciò con un gran sorriso stampato sulle labbra». Contestualmente, una voce alla Doris Day canta sopra una sorta di bossa nova. Alla ballerina manca un incisivo. Bizzarrie in stereofonia. Fuga da “Rock around the clock”: molto meglio al limite, per amor di patria, “L’orologio matto”, la versione italiana del Quartetto Cetra. Vade retro movimenti pelvici: nel pittoresco Lipsi, il bacino sfida le leggi della gravità e resta statico, granitico, a distanza di sicurezza. Solo il busto slitta impercettibilmente. Non ci si tocca né ci si sfiora mai. Ballare insieme ma separati, uniti ma distantissimi, contemporanei ma con un contegno da satelliti sovietici. Lasciate i vostri ormoni fuori dalla stanza oh voi che lipsiate. Una tortura da inquisizione laica a bassa intensità. Si giunse persino a brevettarlo, troppo forte il rischio che lo clonassero le barbe finte del controspionaggio nemico.
Il Lipsi fu creato, musicalmente parlando, dal compositore René Dubianski; gli ingegnosi e angelicati passi erano invece farina del sacco degli insegnanti di danza Christa e Helmut Seifert. La sua interprete più conosciuta, Helga Brauer, ex odontotecnico divenuta una stella sfolgorante della canzone popolare all’ombra del Patto di Varsavia, morì a 55 anni, il tempo di firmare centinaia di hit per il mercato interno. Insieme a lei incisero manifesti promozionali tematici su puntina, tra gli altri, The Flamingos (“All Dance Lipsi”), Martin Möhle Combo (“Willibalds Lipsi”) e la Leipzig Radio Dance Orchestra di Kurt Henkels. Uscirono tutti per Amiga, la sezione “leggera” della Veb Deutsche Schallplatten, l’etichetta discografica statale fondata nel 1947. L’inaugurazione della gloriosa alternativa comunista al R’n’r era stata celebrata in pompa magna nel gennaio del 1959, alla conferenza sulla musica da ballo a Lauchhammer. Tutte le balere del Regno Rosso avrebbero dovuto adottarla a strettissimo giro: era questa la convinzione degli infallibili commissari del popolo.
La Rdt avrebbe salvato un’altra volta il mondo con questa coreografia inedita imbottita di strofa e ritornello, educata e pedagogica e «lontana da quelle contorsioni insipide e sfrenate delle importazioni d’oltremare che, come tutti i tipi di assordanti falsificazioni jazz, appannano i cervelli dei giovani occidentali», scrisse la stampa autarchica. La campagna mediatica fu invasiva e martellante. Gli esiti subito disastrosi. Il Lipsi si dissolse in poco più di una stagione. Sul finire dello stesso anno del suo misterioso concepimento per vie ministeriali, ad Halle e in altre città gli under 30 insorsero. Il 2 novembre del 1959 quaranta intrepidi manifestarono nel centro di Lipsia, intonando «Non balliamo Lipsi e non per Alo Koll, siamo per Bill Haley e balliamo rock’n’roll». E quando si sparse la notizia che Elvis stava prestando il servizio militare nella Repubblica federale tedesca, tra i vicini e segregati coetanei di pianerottolo montò una frustrazione palpabile.
Nei decenni a seguire chi era cresciuto dalla parte sbagliata del Muro non rinunciò tuttavia a sognare il twist, il boogie-woogie, il beat. A divorare le audiocassette dei Beatles e dei Rolling Stones, degli U2 e dei Pink Floyd. Con buona pace delle prescrizioni del Politburo e del Plenum. Esisteva Dt64, la radio di facciata per le ultime generazioni, e il regime ogni tanto chiudeva un occhio; ma per suonare musica dal vivo serviva un permesso speciale, i testi erano controllati e la libertà degli ascolti risultava perniciosa al grande fratello marxista-leninista.
Dall’autodeterminazione estetica a quella politica il passo è breve. Così pensava nel 1965 Erich Honecker, non ancora segretario e padrone feudale della scena, quando durante l’undicesimo congresso del comitato centrale sferzò l’acquiescente neutralità nei confronti della Gitarrenmusik. Non si dovevano lasciare spazi franchi fuori dalla scuola e dal posto di lavoro. La mobilitazione interiore del bravo compagno in erba doveva essere permanente. Un altro buco nell’acqua: tra mainstream e underground, l’Ostrock gettò radici rigogliose. Al netto di censura e perifrasi, e d’una perenne ostilità dell’apparato, spiccarono comunque il volo nel cielo sopra Berlino Est i Die Puhdys, i Karat, i City, i Silly, gli Stern-Combo-Meißen, i Pankow, i Sandow. Un pugno di eretiche leggende nazionali devote al dio del riff e delle distorsioni.
Tutt’altra accoglienza fu riservata negli anni Ottanta all’hip-hop, secondo le autorità quintessenza della «cultura internazionalista proletaria dell’Altra America». Qualche mese dopo crollò e si uniformò tutto. La chiamarono globalizzazione. Il Lipsi non lo ricordano nemmeno i nostalgici. Ma forse in qualche anfratto della galassia un dj lo sta suonando proprio in questo momento. E urla al microfono: «Passo a sinistra con il piede sinistro. Tocca a sinistra con il piede destro. Fai un passo con il piede destro a destra. Tocca il piede sinistro a destra». I ragazzi lo preferiscono alla trap. Almeno ci si muove. È il ballo dell’estate.
Quando il jazz fu messo al bando dal regime. Da «Tiger Rag» a «Il ruggito della tigre»: l’esperienza di Mike Ortuso, originario di Monte Sant’Angelo. Ugo Sbisà su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Giugno 2022.
L’amico Giuseppe Petruzzelli, instancabile animatore della pagina Facebook «Bari in foto e cartolina», ha pubblicato qualche tempo fa una cartolina datata 30 giugno 1931 con la quale il sassofonista e polistrumentista barese Giovanni Delle Foglie, residente in via Ragusa 44, richiedeva la partitura di «Ah, quel Far West!» alla Casa Musicale Mauro di Roma. La cartolina – realizzata con evidenti fini autopromozionali - riproduceva a margine una immagine dello stesso Delle Foglie con un sassofono contralto, ma a destare la mia curiosità è stata l’intestazione «Delle Foglie – Concert Jazz, Bari». In tutta sincerità, qualche ricerca – nella quale ho coinvolto anche il pianista Livio Minafra, attento riscopritore di musicisti del passato – non ha prodotto grandi risultati, sebbene sia interessante notare come anche a Bari, all’inizio degli Anni ‘30, vi fossero musicisti che, a vario titolo, si muovessero nell’orbita del jazz o almeno di quello che come tale veniva presentato, prima che la becera censura fascista obbligasse tutti a ribattezzarlo come «sincopato».
E tuttavia, la cosa non è così sorprendente se si considera che, già prima di quell’epoca, la Puglia aveva dato i natali a dei musicisti entrati di buon diritto negli annali del jazz italiano. Il caso forse più eclatante è quello di Michele «Mike» Ortuso (1908-1981), un banjoista originario di Monte Sant’Angelo che aveva conosciuto il jazz direttamente negli Stati Uniti, dove la sua famiglia era emigrata in cerca di fortuna. Cresciuto negli States, Ortuso aveva ascoltato dal vivo persino la leggendaria Original Dixieland Jazz Band e successivamente aveva suonato anche in una delle formazioni di Paul Witheman, detto «the King of Jazz», e di Isham Jones, stringendo amicizia con numerosi jazzisti italoamericani quali ad esempio Mike Pingitore, Frank Signorelli e poi anche Phil Napoleon.
Tutto ciò, per inciso, accadeva quando Ortuso era poco più che adolescente – come del resto la maggior parte dei protagonisti del jazz degli albori – dal momento che nel 1923, appena quindicenne, lo ritroviamo nella natìa Monte Sant’Angelo e un anno più tardi a Roma, dove esordì alla Casina delle Rose di Villa Borghese. A quanto pare, per riuscire a lavorare, Ortuso era stato costretto a spacciarsi per americano, facendo tesoro anche di quanto aveva imparato negli States. E a indirizzarlo alla Casina della Rose era stato un commerciante romano di strumenti musicali che, vedendolo per strada con un raro, fiammante banjo Paramount sotto braccio, lo aveva fermato per chiedergli dove mai lo avesse… rubato! Gli Anni ‘20 furono per Ortuso un decennio intenso che lo vide affermarsi con un proprio quartetto persino a Berlino e a Monaco di Baviera, prima di trasferirsi a Milano per suonare jazz con l’Orchestra Columbia.
Successivamente, in seguito a personali vicissitudini, Ortuso fece ritorno in Germania per suonare con l’Orchestra Shackmeister, ma alla promulgazione delle leggi razziali la formazione – che annoverava numerosi musicisti ebrei – si dissolse. Fu così che Ortuso fece ritorno in Italia dove nel 1937 venne assunto nell’orchestra dell’Eiar, diretta dal leggendario Cinico Angelini. E un anno più tardi incise una apprezzatissima versione del celeberrimo Tiger Rag – cavallo di battaglia di Nick La Rocca e della sua Original Dixieland Jazz Band – titolandolo però Il ruggito della tigre, dal momento che il fascismo aveva messo al bando il jazz e le canzoni americane.
La sua attività proseguì anche quando, dopo la guerra, l’Eiar si trasformò in Rai: con l’orchestra dell’emittente radiotelevisiva pubblica Ortuso prese parte a diverse edizioni del Festival di Sanremo, fino a quando, nel 1968, decise di ritirarsi dalle scene. Peraltro Mike – cui il comune di Monte Sant’Angelo ha dedicato una via - non fu l’unico Ortuso a dedicarsi al jazz, dal momento che anche suo fratello Matteo, di cinque anni più giovane e nato negli States a Worcester, nel Massachussets, fu un apprezzato sassofonista e clarinettista molto attivo in Italia e nel resto d’Europa persino al fianco di personaggi quali Coleman Hawkins e Josephine Baker, prima di concludere la propria carriera nell’orchestra dell’Eiar.
Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 6 novembre 2022.
Oh mamma mia! Che senza distinzione si parli di artisti rapper, trapper oppure del sottogenere dei «gangsta» i quali benedicono un'esistenza criminale di botte e pallottole sovente praticandola, ecco, le madri occupano (in parole) le canzoni e (in fotografie) le copertine dei brani. Dal testo di «Dettaglio» di Simba La Rue, che sempre lì torna («Compro borse di marca solo per mia mamma, non smetterò mai di ringraziarla... La miseria non mi manca, mi manca casa e il profumo di mia mamma...»), alla cover di «Ninna nanna» di Ghali, lui figlio e lei madre ritratti insieme, c'è un mondo lontano assai, per dire, da quello marcio e degenerato dei genitori-padroni che angosciano i figli sportivi.
O forse saremo noi di parte qui ricordando, e usandolo come incipit, un aneddoto narrato dallo stesso Ghali; un aneddoto potente sintesi di vita fra i bassi e gli alti della quotidianità, le storie di famiglia, i momenti di sentimento che si depositano nel ricordo, e nello specifico i percorsi di mamma e figlio verso il carcere. Disse dunque Ghali, pubblicamente rivolto alla madre battezzando l'uscita della canzone «Ninna nanna», che «Ti ho messo sulla copertina del mio singolo più importante perché me lo ero promesso da quando ero piccolo, da quando andavamo a trovare papà ai colloqui e vi baciavate mentre io disegnavo».
Ingannare il tempo. Anzi no, investirci. Se nei trasferimenti sui mezzi pubblici da casa alla galera, Ghali e la mamma condividevano le cuffiette come innamorati per ascoltare musica, Rondodasosa era già da piccolo appassionato «di rap e hip hop», e ogni volta che se ne stava in macchina con la madre lei alzava il volume dei pezzi. Erano «brani di Fabri Fibra ed Emis Killa»; quel Killa, già che ci siamo, ideatore della seguente frase: «Mamma è un nome troppo comune per ciò che sei. Accomunerei le stelle ai tuoi occhi in comune ai miei».
Un attimo, un attimo: ma non si starà forse esagerando con lo zucchero? No, in quanto sono origini (e a volte sviluppi) difficili, sono in prevalenza venute al mondo nelle periferie di Milano che al netto della solita propaganda richiedono vera fatica fisica di resistenza giacendo esse dimenticate e piene di malanni; sono gli ostici circuiti della migrazione, i genitori smarriti tra altri continenti e le nuove culture, e i loro figli dentro il vortice vasto e variegato delle seconde generazioni; son mamme sole, toste e tenaci. E sono temi ai quali si aggiunge il resto.
Da ragazzino Emis Killa ha avuto problemi di salute e ha perso il papà. Come, di fatto, Alessandro Mahmoud, il cui padre abbandonò tutti quando aveva 6 anni; la madre Anna portava il bimbo alle lezioni di canto e nuoto, in una felice scelta che al diretto interessato pare piacesse (parentesi obbligatoria in relazione alla tracimante abitudine dei genitori di riempire i pomeriggi dei figli di discipline che affascinano unicamente a loro, gli adulti).
Per raggiungere il maestro di canto, Alessandro e Anna attraversavano la città tra l'hinterland e le abituali periferie, nelle fasce orarie di traffico e di orizzonti grigi; «ogni giorno», ha ricordato Mahmoud, «era un viaggio».
Ma s' andava, perché alla fine va così. Vero Gué? Niente laurea Gué Pequeno è il padre musicale di giovani rapper; è un anticipatore alla pari di Marracash. La cronaca familiare di Gué ha differenze profonde non attingendo ai casermoni popolari, alle zone-ghetto, alle insidie predatorie della strada. Ma poco se non nulla cambia. Ha detto di sé Gué che, nell'apprendere che non avrebbe proseguito l'università, sua mamma ci rimase male anche ripensando al personale tragitto (studi ugualmente mollati prima della laurea). Da allora Gué si è macerato «ragionando» sulla madre e cercando di esplorarne i pensieri, domandandosi se fosse stato giusto seguire l'istinto, oppure...
Oppure tirare dritto sulla propria strada, aver fiducia nella famiglia, nel supporto che verrà. Metabolizzare, sorreggere, darsi il cambio. Ancora Gué, nel ricordare malattia e morte del papà: «Quando ha avuto problemi, poterlo aiutare pagando le sue cure è stata quasi l'unica cosa bella che potessi fare nella vita».
Dopodiché, attenzione: l'immediato futuro che ci aspetta, specie da giovani, è un ingorgo di coincidenze, fatalità, geografie a noi esterne. Lo sappiamo. Quel Marracash fra gli innovatori del panorama musicale con Pequeno, non ha mai scelto un «altro» resoconto familiare pur possedendo fertili proprietà letterarie, innamorato di romanzi fin da bimbo quando si chinava sui libri di Verne per combattere l'insonnia; passato coi genitori ad abitare da Chinatown alla non semplice Barona in seguito alla perdita del posto di lavoro del padre, nel nuovo quartiere «ti sentivi figo se avevi i genitori criminali». Marracash non li aveva.
«Nei miei, vedevo tutto quello che non volevo diventare: un essere umano schiacciato dal lavoro... Mamma e papà ribadivano con insistenza che erano stupidate che mi entravano in testa per colpa dei libri, che a furia di passarci sopra le ore mi andava in confusione il cervello...».
Rapido controllo ai nomi degli artisti finora comparsi. Manca qualcuno? Sicuro: mancano i protagonisti della faida dei trapper, quelli delle inchieste di luglio e ottobre, quelli capeggiati da Simba La Rue (e da Baby Gang) nel caso di una banda, e nel caso della banda rivale da Baby Touché; quelli delle coltellate, dei sequestri di persona, delle sparatorie; quelli dei nove più undici arresti, quelli che hanno genitori perbene che sgobbano in silenzio, quelli che...
Quelli che «compro villa a mamma», canta Baby Gang, per gli esperti il musicista più talentuoso, per carabinieri e poliziotti il giovane delinquente più carismatico, per gli operatori sociali che l'hanno via via intercettato il figlio più bisognoso d'aiuto, per i follower il migliore in assoluto senza che segua dibattito: la mattina dell'ultimo arresto di Baby Gang, nell'apprendere la notizia, in molteplici appartamenti milanesi dentro la cerchia dei Navigli gli adolescenti hanno cominciato la mattinata discutendo coi genitori non tanto dell'azione in sé, la cattura del musicista, quanto della reiterata azione di disturbo di magistrati e forze dell'ordine nei confronti di un divo anti-sistema, forte di centinaia di migliaia di seguaci sui social.
E però: se Baby Gang in cella sembra non rinunciare all'atteggiamento da sprezzante galeotto, quel Simba La Rue suo alleato, nella lunga estate di ferimenti (fu accoltellato al nervo femorale), di un San Vittore incompatibile con le condizioni di salute, di operazioni, ebbene Simba La Rue ha mollato le arie da duro nell'apprendere commosso e sollevato la decisione del gip di dargli i domiciliari. Da mamma (e papà). Ai domiciliari proprio o quasi come Sara Ben Salha.
Ammaliata dai trapper «gangsta», circuita, convinta a far da esca con un avversario, presto scoperta dai carabinieri, svegliata all'alba per le manette, uscendo di casa destinata al carcere Sara aveva ceduto alle lacrime incrociando lo sguardo severo e deluso della nonna materna nel cui appartamento ora sconta i domiciliari.
Anche per l'impossibilità di farlo dalla madre, gran lavoratrice sposata con un pregiudicato. Ossia il padre di Sara. Problemi suoi (del papà). Tanto l'importante, come ribadito da Baby Touché nel commentare sui social la faida, è che «nessuno di noi vuole una madre che piange».
Simona Marchetti per corriere.it il 28 ottobre 2022.
Un’ammirazione smisurata per Hitler, al punto da volergli intitolare un suo album del 2018. Poi il disco in questione è uscito con il titolo di «Ye», che è il soprannome con cui Kanye West ha deciso di farsi chiamare da un po’ di tempo a questa parte, ma la sua considerazione per il leader nazista è rimasta sempre ai massimi livelli. A raccontare l’ennesimo, inquietante particolare della tribolatissima vita recente del rapper ex marito di Kim Kardashian sono stati alcuni suoi ex collaboratori, che hanno chiesto alla CNN di restare anonimi, per il timore di possibili rappresaglie.
«Elogiava Hitler, dicendo come fosse incredibile che avesse accumulato così tanto potere - ha detto una delle fonti - e poi andava avanti a parlare delle grandi cose che lui e il partito nazista avevano fatto per il popolo tedesco».
Stando a quanto è emerso, tutte le persone che facevano parte della cerchia ristretta di West erano pienamente consapevoli del suo interesse per Hitler, anche perché lui non faceva mistero di aver letto il «Mein Kampf» e di averlo molto apprezzato. Ecco perché non si è sorpreso praticamente nessuno quando il rapper aveva inizialmente suggerito il titolo «Hitler» per il disco del 2018, salvo poi cambiarlo, senza però dare spiegazioni.
Appresa la notizia, la Universal Music Group, la multinazionale proprietaria della Def Jam che distribuiva la musica di West, ha subito preso le distanze dal rapper, confermando che il contratto con la sua etichetta GOOD Music è terminato lo scorso anno. «Non c'è posto per l'antisemitismo nella nostra società - hanno fatto sapere in una nota sempre alla CNN - . Siamo profondamente impegnati a combatterlo, così come ogni altra forma di pregiudizio».
Giovanni Berruti per lastampa.it il 28 ottobre 2022.
No, Quentin Tarantino non avrebbe rubato l’idea a Kanye West per “Django Unchained”. Intervistato durante il “Jimmy Kimmel Live”, il regista ha avuto modo di controbattere alle accuse fatte dal rapper, in questi giorni in piena bufera mediatica per i suoi commenti antisemiti. Secondo West, dal 2021 noto come “Ye”, Tarantino e Jamie Foxx avrebbero utilizzato una sua proposta per il video musicale della sua canzone del 2005, “Gold Digger” per dar vita alla loro pellicola del 2012 con Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Kerry Washington e Samuel L. Jackson.
«Non c'è niente di vero sul fatto che Kanye West abbia avuto l'idea di 'Django' per poi riportarmela, e farmi così dire: Ehi, è davvero un'ottima idea. Lasciamela usare per fare Django Unchained'. Non è successo” – ha dichiarato il cineasta durante la trasmissione. Anche perché l’idea del film era nella sua testa da diverso tempo: Avevo l'idea di 'Django' da prima di incontrare Kanye.
Lui voleva fare una versione cinematografica di "The College Dropout" (il suo album di debutto), quindi era intenzionato a convincere dei grandi registi a girare i diversi brani per poi pubblicarli come un grande film – non video, niente di grossolano come i video, sarebbe stato un vero e proprio film basato sulle diverse tracce».
È stato infatti questo il pretesto per cui la strada dei due è finita per incrociarsi: «Per me e Kanye è stata una scusa per incontrarci, ci siamo divertiti davvero. E ha avuto un'idea per un video, penso per il video di "Gold Digger", in cui avrebbe interpretato uno schiavo. L'intera faccenda riguardava la storia di questo schiavo, con lui che cantava "Gold Digger". Ed è stato molto divertente. È stata un'idea davvero, davvero divertente» – ha aggiunto il regista e scrittore, tra poco in libreria con il saggio “Cinema Speculation”.
Tarantino conclude: «Doveva essere ironico (il film). Vorrei che l'avesse fatto. Sembrava davvero fantastico. Comunque, è a questo che si riferisce quando dice di aver parlato con me».
Barbara Visentin per corriere.it il 28 ottobre 2022.
Nuova intervista, nuove dichiarazioni incendiarie (e false) su temi come l’aborto, l’olocausto, gli ebrei. Il rapper Kanye West, che ora si fa chiamare Ye, non smette di far parlare di sé per le sparate controverse e antisemite, farneticazioni che già gli sono costate l’interruzione di contratti importanti con marchi del fashion come Balenciaga, mentre la sua collaborazione con Adidas è fortemente in bilico.
In una nuova intervista di oltre due ore, nel podcast dello scienziato Lex Fridman (russo-americano di famiglia ebrea), West ha affermato che «stiamo ancora vivendo l’olocausto. Un mio amico ebreo mi ha detto di andare a visitare il museo dell’olocausto e la mia risposta è stata “andiamo a visitare il nostro museo dell’olocausto: Planned Parenthood”» (dove Planned Parenthood è l’organizzazione di cliniche americane no profit che si occupano di educazione e salute sessuale, praticando tra le altre cose le interruzioni di gravidanza): «Sei milioni di persone sono morte durane l’olocausto, 20 milioni sono morte a causa dell’aborto», ha detto.
Il rapper ha proseguito le sue dichiarazioni anti-abortiste sostenendo che «il cinquanta per cento delle morti di persone nere oggi è dovuta all’aborto. Il posto più pericoloso per una persona nera in America è il ventre della propria madre».
Kanye ha ribadito, come ha già detto in passato, che secondo lui i media sono in mano agli ebrei e alle obiezioni di Fridman ha esclamato: «Non è vero! È una bugia. I media sono controllati dagli ebrei e l’hanno dimostrato bullizzandomi».
Nel corso dell’intervista, West ha poi ammesso che le sue idee di estrema destra gli sono costate famiglia e carriera: «Ho perso la mia famiglia. Ho perso i miei figli. Ho perso i miei migliori amici nel mondo della moda. Ho perso la comunità nera - ha detto -. La gente dice che ho perso la testa... Ho perso la mia reputazione, ma io dico, voglio solo la mia famiglia. Ma non voglio che la mia famiglia debba dire quel che la sinistra fa dire loro, quel che la Cina vuole che si dica. Voglio essere un americano, proteggere i miei figli e mia moglie, crescere i miei figli cristiani e far sì che mia moglie sia cristiana».
Il rapper ha inoltre dichiarato che una cospirazione da parte degli ebrei avrebbe portato a una diagnosi di malattia mentale nei suoi confronti: «Un medico ebreo mi ha diagnosticato un disturbo bipolare e mi ha iniettato delle medicine. Poi l’ha detto ai giornali», ha sostenuto West, pur avendo raccontato lui stesso nel 2019 di soffrire di un disturbo bipolare.
Le sue esternazioni al podcast di Fridman sono solo le ultime in ordine di tempo, dopo che appena la settimana scorsa si era lasciato andare ad altre dichiarazioni false, sostenendo che George Floyd fosse morto «per un’overdose di fentanyl» e spingendo la famiglia di Floyd a denunciarlo.
Anche Adidas "scarica" l'antisemita Kanye West. Redazione il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Dalla moda a Hollywood il rapper Kanye West è alle corde: seguendo l'esempio di Gap e Balenciaga, il colosso tedesco Adidas (Rpt Adidas) dell'abbigliamento sportivo ieri ha rotto i ponti con l'ex marito di Kim Kardashian mentre lunedì era stata l'agenzia di talenti Caa a prendere le distanze. «Non è più loro cliente», ha detto una fonte dell'agenzia citando la recente tirata antisemita del cantante, stilista e imprenditore fino a poco tempo fa sulla cresta dell'onda. Dalle stelle alla polvere: considerato uno dei più influenti artisti hip hop del nostro tempo - 24 Grammy e 160 milioni di dischi venduti - Kanye si è autodistrutto nell'arco di pochi anni mentre l'attenzione dei media si concentrava, anziché sul suo talento creativo, sulle controverse esternazioni in politica (amico di Donald Trump e di commentatori di estrema destra come Tucker Carlson e Candace Owens) e i problemi mentali: soffre di disordine bipolare. Il divorzio dal clan Kardashian (Kim e la vasta famiglia di cui era stato un tempo una delle «K» eccellenti) aveva accelerato la parabola in discesa. Adidas aveva messo Kanye (che adesso si fa chiamare Ye) sotto processo all'inizio di ottobre: lo stesso avevano fatto Twitter, Facebook e Instagram inducendo il rapper a buttarsi nell'acquisto di Parler, il social «rifugio» di frange estremiste perché non frena la libertà di parola. «Le recenti affermazioni e azioni di Ye sono inaccettabili, piene di odio e pericolose», si legge nel comunicato di Adidas che annuncia la fine di una partnership valutata in miliardi di dollari: la linea Yeezy, immediatamente archiviata, rappresentava l'8% delle vendite del gruppo.
Erika Chilelli per “il Messaggero” il 18 ottobre 2022.
Era ad un solo chilometro da casa, per fare la spesa nel centro commerciale Parco Da Vinci, a Fiumicino, dove si è recato a bordo della sua Jaguar. Una scelta che è costata cara al rapper 26enne Algero Corretini, conosciuto con l'alias di Fratellì: ha violato l'ordine del giudice, visto che era sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di dimora nel comune di Roma, disposta dopo la sua uscita dal carcere di Rieti - nel novembre 2021 - dove era finito per aver picchiato la ex compagna, Giorgia Roma, ex pornostar conosciuta con il nome di Simona Vergaro.
Ieri Fratellì si è presentato a piazzale Clodio elegantissimo, in giacca e cravatta: ha partecipato all'udienza di fronte al giudice per le misure di prevenzione. Per il pm, Corretini ha sconfinato, violando la misura, nonostante lo svincolo per raggiungere il centro commerciale si trovi prima del cartello di benvenuto a Fiumicino. Ora, il rapper romano, che ha scontato solo un anno dei due previsti dalla misura, rischia un aggravamento che, su richiesta del pubblico ministero, potrebbe allungare l'obbligo di altri 6 mesi.
I FATTI Il supermercato di fiducia lo ha tradito: ai carabinieri della stazione di Ponte Galeria è bastato visionare le telecamere di sorveglianza dell'esercizio commerciale per accorgersi della presenza di Corretini, che si è recato a fare spesa a Fiumicino tre volte nel solo mese di giugno insieme alla nuova compagna.
D'altronde, Fratellì non passa inosservato per via degli inconfondibili tatuaggi che gli riempiono il viso e, così, i militari lo hanno visto recarsi al banco dei salumi, dirigersi alla cassa e pagare. Si tratta di azioni normali e quotidiane che, però, il 26enne avrebbe dovuto compiere in un altro esercizio commerciale per via della misura da rispettare, disposta per due anni a partire dal 2021. Così, nella giornata di ieri, il rapper è ritrovato davanti al giudice.
La difesa, però, sostiene che dalla parte di Corretini ci siano le indicazioni stradali: visto che lo svincolo per il centro commerciale si trova prima del cartello di benvenuto a Fiumicino, Fratellì non avrebbe mai lasciato Roma. «La contestazione risulta particolare - afferma l'avvocato penalista Salvatore Sciullo, che difende Algero Corretini - al fine di dimostrare che è stata coscientemente commessa nessuna violazione, abbiamo documentato e chiarito che il mio assistito si è recato, ad un solo chilometro da casa, per adempiere ad esigenze vitali primarie».
I PRECEDENTI Della storia del rapper prima del 2020 si sa ben poco. A renderlo celebre, due anni fa, il video che Algero Corretini pubblicò sul suo account social 1727 wrldstar: sfrecciando a bordo della sua auto cercava di impartire lezioni di guida ad un fratellì, non identificato. «Ho preso il muro fratellì», diceva mentre la macchina si schiantava contro un muretto. La sua ascesa dopo quel video è stata rapida: il 26enne viene invitato in televisione, i follower aumentano notevolmente e le Iene gli dedicano un servizio recandosi nella sua casa di Piana del Sole.
Con la fama, però, sono iniziati i problemi con la legge: a gennaio del 2021 è stato arrestato e condannato a 4 anni di reclusione con l'accusa di maltrattamenti e lesioni per aver picchiato con una mazza di ferro la sua compagna per via del suo passato da pornostar. L'ex rapper a novembre dello stesso anno è tornato in libertà e per lui è stato disposto l'obbligo di dimora a Roma.
Massimo Pisa per “la Repubblica” il 13 ottobre 2022.
Politica poca, e con idee assai confuse. Religione e impegno sociale anche meno. Il vero collante resta l'ideologia dei soldi, delle griffe esibite, della violenza ostentata al pari della sfida a chi indossa le divise.
Spremendo dall'analisi elaborata dalla Questura milanese - la prima del suo genere sui trapper e le loro gesta criminali - il succo è assai meno dolce e glamour di quanto ostentato su Instagram e Youtube. Nei video e nelle stories di Baby Gang e Neima Ezza, nelle rime di Simba La Rue e di Rondo da Sosa, i soldi e i catenoni si accompagnano agli spari mimati, le fuoriserie alle dosi tagliate e spacciate, lo champagne agli arresti che diventano medaglie guadagnate sul campo. [...]
[...] Ci sono le rare prese di posizione pubbliche "impegnate", passate al setaccio alla ricerca di un messaggio, di un sentire comune. Ecco "Sacky" (Sami Abou El Hassan) che boccia come «vergognoso» un post di sostegno di Matteo Salvini a Israele, ecco ancora Neima Ezza con gli hashtag in favore della Palestina [...]
E poi eccolo, Baby Gang, a un corteo No Green Pass di due anni fa, ma più per far casino («Attacchiamo quella volante») in diretta Instagram, o per provocare e basta («Andiamo a rubare!»). E l'Islam? Per un video di Rondo da Sosa che beve acqua durante il Ramadan, ecco una canzone di Keta (Mohamed Aziz Khemiri) che lo dileggia: «Non ho mai bevuto, sto fatturando pure, fra', stando anche seduto ». Cosa rimane sotto la patina?
Violenza. Vendette filmate, Simba La Rue e Baby Touché - o Mohamed Lamine Saida e Mohamed Amine Amangour, se preferite - che se le promettono e se le danno, pubblicizzandole per «umiliare » il rivale.
La fidanzata del secondo (Barbara Boscali) che si filma i lividi sul volto, mentre metà dei suoi follower solidarizza e l'altra metà le scrive che se l'è cercata. Ma prima di arrivare a questi abissi, a queste imitazioni della fiction di Scarface e delle vite bruciate di Tupac Shakur e Notorius Big, l'escalation ha percorso altre tappe. Video di Neima Ezza con battaglia contro trecento agenti, 10 aprile 2011. Uscita di gruppo alla discoteca Old Fashion e sassaiola contro i buttafuori intransigenti, 12 luglio. Sparatoria tra Kappa 24 - il 33enne Islam Abd El Karim - e l'ex amico Carlo Testa, 8 gennaio 2022. La sparatoria di corso Como del 3 luglio, che ha lasciato due gambizzati a terra e ha portato alle recentissime undici ordinanze eseguite da polizia e carabinieri.
E in mezzo, un rosario di piccole rapine, di episodi di spaccio, di video turbolenti, fino al tentativo di noleggiare un pullman scoperto per andare in Duomo a far casino.
Ognuno dei diciassette rapper tracciati dalla Questura ha ormai la sua foto segnaletica, la sua scheda, il suo archivio di precedenti.
Il conto dei reati ha superato ormai le tre cifre. Quello delle misure di prevenzione emessi in questi mesi dal questore Giuseppe Petronzi è arrivato a quarantadue, e quattro di questi sono stati bocciati dal tribunale: «Li considero sconfitte - spiega - perché sono indicatori del fatto che non si è capito il fenomeno criminale, e gli arresti arrivati dopo non sono rivincite.
Ci vuole una presa di coscienza di tutte le istituzioni, non è più un fenomeno metamusicale». Si interroga preoccupato, Petronzi («Forse abbiamo iniziato a intervenire tardi?»), davanti a una spirale che, come ha sottolineato l'ultimo provvedimento del gip Guido Salvini, mette a rischio l'incolumità di tanti, e in pieno centro. Ancora il questore: «Perché questo fenomeno si è sviluppato a Milano? Qui, questi ragazzi hanno trovato terreno di espansione, in altre realtà criminali sarebbero stati ricondotti ad altre logiche».
(ANSA il 7 ottobre 2022) - Sarebbe stata la fidanzata di Simba La Rue, il trapper finito nuovamente in carcere oggi in un blitz di polizia e carabinieri, a tradire il compagno fornendo "l'indirizzo ai suoi aggressori" quando il 20enne fu accoltellato il 16 giugno scorso a Treviolo (Bergamo).
L'ha "confessato" lei stessa in una telefonata qualche giorno dopo parlando proprio col rapper. "Doveva venire da solo a farti questa cosa, umiliarti ...", dice la giovane intercettata il 10 luglio e il fidanzato risponde: "Mi hai venduto e basta".
Emerge dagli atti dell'inchiesta milanese che oggi ha portato ad 11 arresti, con ordinanza per i 9 maggiorenni firmata dal gip Guido Salvini, su richiesta del pm Francesca Crupi. Dalle carte si vede che comunque i due, poi, si sono riappacificati. Simba, già arrestato a fine luglio anche per il sequestro del 9 giugno ai danni del capo della "gang" antagonista, Mohamed Amine Amagour, ossia Baby Touché, era passato ai domiciliari in una comunità per motivi di salute ed è stato operato per la ferita alla gamba subita (oggi anche i 4 arresti per il tentato omicidio).
E a settembre il trapper "utilizzando il cellulare di una suora operatrice della Comunità" è riuscito a mettersi "in contatto 2 volte" proprio con la fidanzata, "soggetto tra l'altro centrale - scrive il gip - nella genesi e nel meccanismo dell'aggressione che lo stesso Saida ha subito in provincia di Bergamo". Il gip parla di "continuità" nelle violazioni del regime dei domiciliari da parte del trapper e delle persone a lui vicine. Risulta che pure Zaccaria Mouhib, ossia Baby Gang, oggi finito in carcere, si sarebbe recato "stabilmente in comunità" a trovare l'amico.
Dalle intercettazioni, si legge negli atti, emerge "una corresponsabilità" della fidanzata "per quanto concerne l'accoltellamento ai danni di Saida Mohamed Lamine". In più di una telefonata, infatti, la donna "confessa di aver favorito detta aggressione, fornendo il proprio indirizzo di domicilio a terzi soggetti e comunicandogli che avrebbe passato la serata insieme al Saida".
Parlando proprio con Simba lei gli spiega che avrebbe "dato indicazioni" a tale "Samir" affinché "potesse incontrare il Saida da solo, con la finalità di 'umiliarlo'". "Doveva venire da solo a farti questa cosa, umiliarti - dice la giovane al fidanzato - perché aveva paura dei tuoi amici, e da solo sarebbe riuscito a parlarti e al massimo tirarti qualche schiaffo, lui non è neanche venuto, ha mandato i suoi amici, ma non so perché ti giuro che quando io ho visto questa cosa, quando io tenevo la porta aperta è perché ti vedevo così (...) ho urlato e mi son spaventata perché io, non era lui il tipo, perché doveva venire lui! Non so chi ha mandato, cosa, poi dopo quando io l'ho chiamato ho urlato e gli ho detto 'mi hai ammazzato il tipo, ma che cazzo hai fatto!'". E Simba: "Che fine di mer.., che fine di mer... ho fatto!".
Tra l'altro, il 21 giugno la donna avrebbe raccontato le stesse cose a Baby Gang, già arrestato a gennaio scorso in un'inchiesta milanese per rapine e poi scarcerato per prove lacunose. E lo stesso giorno lei aveva già reso la sua 'confessione' al trapper e compagno, il quale le aveva risposto "ripetendole 'sei un'infame bastarda'".
(ANSA il 7 ottobre 2022) - "Sono volate di brutto Malippa! C'ho sangue suo fra, l'ho ammazzato fra quel negro di merda fra". Parla così il 21enne albanese Andrea Rusta, detto "Asap", salito in auto subito dopo la rissa dello scorso luglio a Milano in cui due giovani senegalesi sono stati gambizzati.
La conversazione prosegue tra Mounir "Malippa" e Rusta "Asap", in evidente stato di esaltazione a pochi minuti dall'aggressione. "Il figlio di p... che ha sparato, eh eh, sistemato. L'ho sistemato, adesso ti faccio vedere la foto se vuoi", rivolgendosi all'amico incredulo del fatto che abbia trovato anche il tempo di scattare una foto. Si scoprirà poi che Rusta ha anche girato un filmato che ha successivamente inviato a un'amica.
"L'ho ammazzato, guardami il ginocchio! - continua Rusta - Gli ho tirato troppe ginocchiate mi sa. Guarda il suo sangue dov'è. Mi fa piacere, mi fa tantissimo piacere (...) Tipo punchball per i piedi. (...) Gli ho dato due calci di numero e poi due ginocchiate, solo col gesso l'ho picchiato fra".
A quel punto gli sale il dolore al braccio e l'amico gli dice: "Ma tu c'hai il braccio distrutto frate e picchi la gente col braccio distrutto?". Dopo un po' Malippa cambio tono: "Sia cosa mi faceva ridere? Speedy (soprannome di Simba La Rue, ndr) che picchiava il negro con la stampella. Lo voleva prendere". E Rusta: "Minchia non è che gliela tirava e basta eh, no. Cerca proprio di prenderlo solo in testa (ride, ndr). Così 'negro di merda! Negro di merda! Si mordeva le labbra fra, lo picchiava solo in testa. Il negro si copriva la testa, capito? Appena faceva di qua e di là, lo colpiva nel momento giusto Speedy fra! Giuro (ride, ndr)".
(ANSA il 7 ottobre 2022) - "Mi sono diretto verso questo gruppo per interrompere il pestaggio, e ad un tratto mi si è messo di fronte un ragazzo sempre magrebino con jeans chiari strappati, maglia bianca e capelli media lunghezza con riga in mezzo a caschetto, che impugnava una pistola di colore nero tipo semiautomatica. Costui mi ha puntato l'arma ed io ho fatto la stessa cosa con lui".
Così, sentita come teste, una guardia privata, che quella notte svolgeva servizio nella zona della movida milanese vicino Corso Como, ha raccontato i drammatici istanti della rissa anche a colpi di pistola scatenata dal gruppo dei trapper guidato da Baby Gang e Simba la Rue, tra il 2 e il 3 luglio.
Dagospia l'8 ottobre 2022.
IL TESTO DI CAGOULE, DI SIMBA LA RUE
Simba
La rue, la vraie
Eh, eh, eh-eh
Cagoule, cagoule
Volto coperto, entro a mano armata
Oh, cazzo, oh, cazzo
Nuovo definitivo, nuova condanna
Fucile d'assalto su quella tua testolina da cazzo
Fai il matto, fai il matto?
Finisci scomparso o come quell'altro
Ho visto la morte, ho visto la fam
Ho visto cose, meglio non raccontare
Ho visto mamma per mesi in ospedale
Vendevo la morte, mi piaceva il rischio
Giravo di notte, rubavo le Twingo
Con la droga ci ho riempito il frigo
Con la droga ci ho pagato l'affitto
Ah, ah, che bello il rischio
Lavoravo bamba, era tutto bello
Mannite, mannite, il taglio è perfetto
Ti saltan due dita se non paghi i p?zzi
Ho pezzi sparsi per la mia Kalenji
Salda i d?biti o salti per aria
Salda i debiti o li salda tua mamma
Ho un piede nel rap, un piede per strada
Figlio di puttana (figlio di puttana)
Spostavo chili su una sport GT
Parigi-Nantes con due miei amici
Due gambe all'ora, semino sbirri
V8 biturbo, quanto strilla
Autrostrada, qua-quanto tira
Nantes Ovest, frate', fino a Marsiglia
E se avessi avuto una tipa
Era solo per tenergli i pezzi in figa
Cagoule, cagoule
Volto coperto, entro a mano armata
Oh, cazzo, oh, cazzo
Nuovo definitivo, nuova condanna
Fucile d'assalto su quella tua testolina da cazzo
Fai il matto, fai il matto?
Finisci scomparso o come quell'altro
Sacoche, sacoche
Giornata di paga, ho riempito la sacoche
Casquette, col Moncler in giro
TN abbinate alla tuta coi love del chilo
Asics, no Air Force, completo del Milan
Scendo dal palazzo in tuta sportiva
Tutto in comfort, in culo alla polizia
Non vince il più forte, ma vince il più furbo
Qua i piccolini, giuro, ti fanno brutto
Ovuli nel culo, soldi imboscati nei buchi
Non dirlo a nessuno
Cagoule, cagoule
Volto coperto, entro a mano armata
Oh, cazzo, oh, cazzo
Nuovo definitivo, nuova condanna
Fucile d'assalto su quella tua testolina da cazzo
Fai il matto, fai il matto?
Finisci scomparso o come quell'altro
Cagoule, cagoule
Volto coperto, entro a mano armata
Oh, cazzo, oh, cazzo
Nuovo definitivo, nuova condanna
Carlo Antonelli per Dagospia il 12 ottobre 2022.
‘La vita è una merda ma io sono il primo che caga’ (Baby Gang)
Stavolta è veramente complesso dare un pelo di ordine a questo casino.
Rapidamente i fatti (premessa: per facilità chiameremo ‘rapper’ i musicisti coinvolti), raccontati in due parti separate.
Anzitutto i protagonisti centrali come sapete sono tre.
Baby Gang – rapper, eccellente tra l’altro, nativo di Lecco da famiglia marocchina – era in carcere per carichi pregressi, ma questo era stato un fatto normale nella sua vita tra comunità, case-famiglia e gabbio vero e proprio (come racconta in modo impeccabilmente chiaro nell'intervista a Noisey che trovate su Youtube e che ha due milioni di views, tanto per iniziare a capire i volumi del fenomeno).
I preti sono quelli che lo hanno aiutato di più, tra questi quel sant’uomo di Don Burgio, citato e intervistato da tutti durante questi giorni di cronaca isterica.
Zaccaria, così si chiama all'anagrafe, ha video straordinari su pezzi incisi in studio dove -in qualche caso- arrivava scortato dalle volanti della polizia e poi riportato dentro in giornata.
Su tutti spicca il toccante "Mentalite’", girato con una delle sue crew visive di coetanei, una miniatura sull'infanzia vissuta dentro gli slum popolari, tra le persone che ci abitano e ci sono arrivati dalle provenienze più svariate, e tutto quello che si può immaginare.
Di grandissima classe è la sua performance in “Marocchino”, pura dinamica nello spazio del quartiere girato in piano sequenza, bianco e nero.
Poi c'è Simba la Rue - Mohamed Lamine Saida sulla sua carta d'identità - con un solo album su etichetta Atlantic (quella di Aretha Franklyn, per dire) per Warner Music Italia. Anche in questo caso - al di là dei contenuti testuali- la visualità è completamente lontana dalle quattro minestrine in croce del resto dei colleghi.
Neonlight e maschere, uso del greenback per messa in abisso molto sciolta, passaggi su gite al lago o in montagna oppure a palla dentro i tunnel in centro, ma soprattutto dronate su casermoni casermoni casermoni e un sacco di gente, di amici per lo più di seconda generazione - la sua gang, chiamatela come volete - che poi sono tutti quelli che hanno abitato lì fin dall'infanzia: albanesi, senegalesi, romeni, marocchini e tunisini ovviamente, nigeriani e ghanesi, altre provenienze balcaniche, rom inclusi. La comunità sudamericana sembra stare un passo indietro, in altri luoghi.
Per controllare quanti sono, basta dare un occhio al Rapporto Statistico sull'Immigrazione aggiornato ogni anno, voce "seconde generazioni". Una sola anticipazione: sono tanti.
E stanno tutti concentrati là dove vedete immagini che sembrano esotiche chessò al corriere.it: a 20 minuti dal centro di Milano, a San Siro. Sono le case popolari della Regione, dove c'è l'incredibile torre graffittata di Via Selinunte in mezzo, non a caso citata dentro il mixtape 2022 della Seven 7oo, chiamiamolo il collettivo centrale del movimento, che nella intro vede un featuring di Neima Ezza: nativo marocchino emigrato in Italia, anche lui coi clip fa cinema con tanto di bambini (inutile sottolineare perché) e androni di scale e arresti e albe viste dai tetti, quando si torna a casa dalla merda. Comunque -per rientrare nel centro della faccenda- pure Simba sta sempre a far casini, con gruppone multi attorno.
Poi c'è Touchè, di fuori Padova, sempre seconda generazione, che nulla meglio pennella di un candido servizio del TG1 (sempre su youtube). Ma pure di un bellissimo ritratto/clip di pendolarismo sulla Trenord che arricchisce il bouquet visuale di un nuovo cinema che solo così possiamo vedere, ignorato dalle produzioni degli ‘autori’ che tirano a campare con pappette insipide che da sempre stanno in piedi a stento coi contributi ministeriali, ma anche dalle produzioni firmate dagli showrunner Netflix e Sky -vedi "Blocco 181" prodotto con Salmo - con risultati semplicemente abissali.
Da questa parte ci sono invece registi e d.o.p. ventenni (a volte meno, 18, 17 anni) che semplicemente maneggiano i mezzi di produzioni contemporanei con la normale fantastica agilità generazionale, non spendono nulla o quasi (se non negli episodi di viaggi nel paese d'origine, ogni tanto, bellissimi), sfondano gli occhi coi colori fluo da “Euphoria” o “I may destroy you” viste con le password tarocche, ma soprattutto sanno raccontare- e sono gli unici- la vita in particolare di una Milano che, yes, non vorrebbe proprio che tutto questo esistesse, che non ci fosse periferia, perché rovina ogni piano europeo e gli scali ferroviari fichissimi e le riforestazioni, che si vorrebbero fare anche qui, dove persino degli idioti capirebbero che serve ben altro.
Il d.o.p. Alessandro Girbino e altri -vedi Redcoos di origine egiziane - sono operatori dell’immagine che, come nei casi inglesi e americani fin dagli anni sessanta- accompagnano i rapper fin dai loro inizi, uno sta in fissa con la musica e l’altro con la visione smartphonica. Perché si vive e si cresce insieme, e poi chissà dove si va a finire.
L'onda- in assoluto-è iniziata a Genova, nel 2016 e poi ha travolto il panorama musicale al completo, come racconta il diligente doc in quattro puntate "2016" in onda in queste settimane su "Discovery +". Con Tedua e Izi.
E lì il coetaneo Federico Merlo abbraccia il genere, e la fratellanza tra ragazzi maschi, il bromance, su certi tetti che sembravano davvero Rabat e il migliore cinema nordafricano, e che hanno commosso sul serio.
E poi l'uso dei progetti edilizi popolari più incredibili - Le Lavatrici, per esempio- iniziando una lunga serie di rimandi a folli o incompresi capolavori dell'architettura 60/80 utilizzati come set per i video della scena che la raffinatissima compagine di "Forgotten Architecture" guidata da da Bianca Felicori ha saputo raccontare come nessuno.
E con cultura da parte dei rapper non casuale: Felicori racconta di una recente conversazione con Tedua che paragonava il progetto del ‘’Biscione" a Genova firmato Daneri alle Unitè d'Abitation di Le Corbusier a Marsiglia. Gente che sa quello che fa, insomma.
La coscienza esatta di vivere dentro certe geometrie è stata estremamente alta come non mai in questi 7 anni e nelle evoluzioni della scena che dalla trap iniziale portano-con qualche buco normalissimo- alla drill attuale, quella per esempio praticata dai nostri tre ragazzi.
E che incrocia sonorità uk (più forti in alcuni, come in RondoDaSosa, forse il migliore musicalmente) e costruisce collegamenti con la scena francese sonora e visiva seguendo la scuola dei cari vecchi PNL (nonchè dell'Afrotrap crescente anche in Italia). Poi ci sono anche le ragazze, musiciste, ma davvero sarebbe troppo lunga. Belle toste, comunque.
Del resto si tratta dell'unica scena (diciamo) hiphop mai riuscita a pensarsi come parte di un network internazionale complesso: quella di seconda generazione marocchina dialoga con il mondo arabo intero e da qui con quello francese o viceversa (con ospitate reciproche). E realtà inglesi importanti come Central Cee vengono qui - come in altri territori europei- a girare video imponenti, convocando tutti quelli che sono stati nominati fin qui, o quasi.
Morale? Trattasi di gente, spesso firmata da major o sotto contratto con etichette licenziate a label multinazionali, o parte di società di management note, di cui moltissimi avevano sentito parlare poco e niente fino al bordello dell’altro ieri. Un mondo parallelo solo apparentemente alieno al resto del mondo. Tutt’altro, in realtà.
Per una volta è stata invece la sociologia più attenta a rizzare le antenne. Basta dare un occhio al numero intero di "Terre Urbane" non a caso chiamato ‘Della coca, della piazza e degli spari’
Sebastiano Benasso, ricercatore di sociologia dell’Università di Genova, parla giustamente di ‘produzione di panico morale che va avanti da un po’ di mesi’.
Infatti - per dare la seconda parte del racconto della faccenda di cronaca- tutto è a metà tra la verità, la farsa e la normale vita di merda, social inclusi.
Touche’ fa provocazioni continue su IG contro Simba la Rue, e viceversa. Simba alcuni mesi fa sequestra Touchè e con un video girato in macchina (veramente incredibile) lo umilia pubblicamente.
Attraverso un meccanismo più volte raccontato in questi giorni e che ruota intorno ad una signor(in)a chiamata Bibi Santi, Simba becca delle gran coltellate quest'estate e se va all’ospedale.
Per un caso assoluto esce nello stesso momento dal carcere Baby Gang (che al volo invita a votare Berlusconi), fa subito una cazzata, s’azzuffa con due senegalesi a botte di stampelle e revolverate, ecc. Fatte le indagini e una fraccata di intercettazioni -che, parlando di cinema, non potranno che essere state strabilianti per gli inquirenti, vedi anche le stories degli avvocati degli imputati- li han messi dentro tutti e tre (nda: curioso che in parallelo sta succedendo una cosa analoga a tutti i membri dell'etichetta YSL del rapper Young Thugs, praticamente identica).
Ma la questione è un'altra. E ancora la sociologia sul pezzo entra in campo. Benasso: "Per la prima volta si vede questa vita e a parlarne in ogni caso sono le voci non bianche" (forse Ghali, che non a caso racconta sempre a Noisey delle visite da piccolo al padre in carcere).
Sta non a caso per uscire da Nova Logos un libro collettivo su tutto questo universo da lui curato insieme a Luca Benvenga (Università di Lecce), per dire quanto intensa è l’osservazione del fenomeno.
C'è una chiave di spiegazione finale estremamente utile. ‘Tutto questo ci parla delle conseguenze del lock down’, commenta Agnese Maccari, antropologa dell’Università di Torino.
‘Chiusi e bloccati, i quartieri di periferia hanno perso il contatto con il centro e questo fenomeno ha accelerato il rigetto dello stesso. Si è persa la relazione classica tra i due poli, che ora diventa “non siamo più noi a dover venire lì, ma siete voi che volete venire qui e volete diventare come noi” (questo conferma anche il dato per cui tantissimi pischelli di buona famiglia che vengono dai centri urbani fanno di tutto per essere considerati come boys from the hood, usando pistole giocattolo e quant’altro).
Insomma, si è optato per l’ostentazione della propria bolla, il quartiere, mostrato dalle riprese dall’alto dei droni, come una teca in un museo. Tutto esprime l’idea di ‘chiuso’ e non a caso non vi è alcun impegno di questi artisti nei live; tutto si concentra su video e social, dove vestono come nella drill inglese o come nella trap francese (passamontagna e guanti, borsello, tute anonime, maglie da calcio, oppure vestiario brandizzato non dissimile alla merce fake), moda che risulta lontana anni luce lontana dall’esibizione bling precedente.
Non c’è cura o ricercatezza del personaggio, se non la presenza ingombrante del mito del mafioso. Sicuramente la rivendicazione di riscatto - a cui ci aveva abituato l’hip hop delle periferie romane di vent’anni fa- non ha nulla a che spartire con questa nuova realtà, se non la rabbia, unico fil rouge davvero interessante. Ed è proprio su questa rabbia che i riflettori dovrebbero essere puntati, poiché le banlieue francesi insegnano, non solo in termini stilistici”.
Tocca pure allora ricordare in tal senso i riot durante la fine del lockdown del 2021 durante il tentativo di stoppare le riprese di un video di Neima Ezza. In quel caso comparvero sui muri di San Siro scritte in francese identiche a quelle fatte durante analoghi moti a Parigi.
E, botta finale -e colpo al cuore al panico morale nostrano- ecco comparire sulle nostre strade -direttamente dalle rues di periferia francesi ma anche da Philadelphia- persino l’ultima fissa, già intravista in un paio di video sopra citati, e in crescente ascesa su IG: la superimpennata con la megamoto, unico segno reale di possesso di denaro: il nuovo idolo, sempre di seconda generazione marocchina- è Momo. Siamo solo all’inizio di tutto.
Baby Gang-Simba La Rue, trapper in manette. Il ruolo della suora e il commento di Salvini. Il Tempo il 07 ottobre 2022
La faida tra rapper finisce di nuovo con le manette. Sono stati entrambi arrestati Simba La Rue (Lamine Mohamed Saida il vero nome) e il collega Baby Gang (Zaccaria Mouhib), nell'ambito di un'operazione congiunta di carabinieri e polizia in relazione a un'aggressione a colpi di arma da fuoco avvenuta a Milano nella notte tra il 2 e il 3 luglio scorso. In manette finiscono in tutto nove persone, compresi quattro giovani accusati di aver quasi ucciso Simba La Rue a colpi di coltello un paio di settimane prima a Treviolo.
Carabinieri e polizia, coordinati dalle procure di Milano e Bergamo, hanno tirato le somme con due indagini distinte ma parallele sulle violenze delle bande di trapper. Era in stampelle, Simba, lo scorso 3 luglio in via Alessio De Tocqueville, una delle strade della movida, quando con altri dieci amici del suo entourage ha attuato una «caccia armata» per punire un ragazzo senegalese colpevole di presunti vecchi torti. Come ripreso dalle telecamere di sorveglianza costretto a camminare con le stampelle, usate poi come armi improprie nella rissa, per le conseguenze dell’aggressione subita in provincia di Bergamo il 16 giugno. E per la quale a distanza di pochi mesi sono stati individuati e arrestati quattro giovani ritenuti far parte di un altro schieramento, quello di «Baby Touchè». Anche lui giovane trapper, protagonista con Simba, di un rivalità degenerata in una serie di aggressioni e ritorsioni.
Faida che a Simba, ventenne italo-tunisino di Lecco, è costata, oltre al rischio di perdere l’uso della gamba, un arresto lo scorso fine luglio per aver a sua volta sequestrato e picchiato il rivale Touchè a inizio del mese precedente. Un periodo in carcere come disposto dal gip Guido Salvini tramutato dal tribunale del Riesame negli arresti domiciliari nella comunità giovanile Kayros di Vimodrone. È qui che i poliziotti della Squadra mobile e i militari della compagnia Duomo lo hanno prelevato per riportarlo in carcere con le accuse di rissa, lesioni, rapina aggravata e porto abusivo di arma da sparo.
Sarebbe nata dalla spinta a una giovane ragazza la rissa con successiva sparatoria nella notte del 3-4 luglio scorso in zona corso Como a Milano. La giovane - G.F. - avrebbe confermato alla squadra mobile di Milano il 13 luglio 2022 le genesi e la dinamica dell’aggressione. Ha infatti riferito di essersi recata assieme ai suoi amici senegalesi - poi vittime dell’aggressione - e ad alcune ragazze in una discoteca e nelle prime ore del mattino avrebbero iniziato ad uscire. Il giovane africano è uscito pochi istanti prima di lei che lo avrebbe notato sul marciapiede opposto intento a discutere con alcuni ragazzi chiedendo che si scusassero per aver urtato la ragazza. Da quell’istante è partita l’aggressione di massa con tanto di furto di una collana di oro giallo, 400 euro in contanti, documenti di identità e vari effetti personali.
Nella casa nella disponibilità di Baby Gang a Sesto San Giovanni, perquisita questa notte dai carabinieri di Milano, sono state trovate armi illegali e simulacri di mitragliatori e kalashnikov. In particolare una pistola Beretta calibro 7,65 trovato sotto un cuscino con la matricola ma di provenienza non chiara. I carabinieri della Compagnia di Milano Duomo ritengono di aver "decapitato" dopo oltre sei mesi di attività investigativa la banda e parlano di una disponibilità inusuale di armi e capacità di approvvigionarsi da parte della banda anche rispetto al passato. Non più solo armi da taglio ma da fuoco. Sono le stesse che vengono poi utilizzate per girare i videoclip musicali con l’obiettivo di accrescere il "potere" sui social e il numero di follower.
Nell'ambito dell'inchiesta, emergono altri particolari sulla vicenda. Simba La Rue, e la fidanzata "Bibi" parlavano attraverso il telefono di una suora operatrice della Comunità Kairos di Vimodrone gestita da Don Claudio Burgio. È quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip. Nel fascicolo si legge che il 9 settembre 2022 nel pomeriggio Simba la Rue ha utilizzato il cellulare di una suora operatrice della Comunita si é messo in contatto 2 volte con la ragazza, e più tardi nel corso della stessa giornata, "Bibì" ha richiamato direttamente la suora che l’ha rassicurata in merito al fatto che le avrebbe consentito di avere contatti con il fidanzato.
Simba era tornato nella comunità Kairos dal Centro clinico del carcere di San Vittore, su decisione del tribunale del Riesame, proprio l’8 settembre a causa della situazione della sua gamba accoltellata il 16 giugno scorso in continuo peggioramento e con l’operazione chirurgica presso l’ospedale San Gerardo di Monza programmata per il successivo lunedì 12 settembre per limitare i danni al nervo femorale della gamba destra causati dalle coltellate, danni che probabilmente solo in parte possono essere recuperati.
Le stesse contestate a Baby Gang. Anche lui come Simba quest’anno era già stato arrestato e finito in carcere. Esattamente lo scorso 19 gennaio quando è stata eseguita l’ordinanza in cui gli venivano contestate due rapine commesse nell’estate del 2021. Era stato poi rimesso in libertà dai giudici del Riesame un mese dopo con l’annullamento del provvedimento restrittivo.
Sulla vicenda si è espresso anche Matteo Salvini. «Così avranno tanto tempo per comporre e cantare» ha scritto il leader della Lega su Facebook.
Baby Gang, il trapper "maledetto" arrestato per la sparatoria a Milano: il primo furto a 11 anni, la musica, le sfide alla polizia. Luca De Vito su La Repubblica il 7 Ottobre 2022.
Baby Gang nel carcere di San Vittore: le immagini usate per un video musicale
Zaccaria Mouhib, 21 anni, è diventato più famoso per i reati che per le canzoni. Dall’infanzia di povertà a San Vittore. Nessuno è riuscito a 'salvarlo', neanche l’incontro con don Burgio, prete dei ragazzi difficili: "Solo lui ha creduto in me"
"Ora faccio musica e mi sto comportando bene. Ma di quello che ho fatto io, qua in Italia, gli altri rapper non hanno fatto manco un quarto". Zaccaria Mouhib, in arte Baby Gang, raccontava in un'intervista a Vice i suoi esordi nella microcriminalità: un lungo elenco di furti, rapine, resistenze a pubblico ufficiale, lesioni di cui ha sempre fatto vanto e che hanno alimentato la sua fama di trapper "maledetto", più noto per i reati che per la musica.
Estratto dall'articolo di Luca De Vito per repubblica.it il 7 ottobre 2022.
"Ora faccio musica e mi sto comportando bene. Ma di quello che ho fatto io, qua in Italia, gli altri rapper non hanno fatto manco un quarto". Zaccaria Mouhib, in arte Baby Gang, raccontava in un'intervista a Vice i suoi esordi nella microcriminalità: un lungo elenco di furti, rapine, resistenze a pubblico ufficiale, lesioni di cui ha sempre fatto vanto e che hanno alimentato la sua fama di trapper "maledetto", più noto per i reati che per la musica.
Elenco a cui aggiunge adesso l'ultimo episodio, la rissa con sparatoria di Corso Como. Nato a Lecco nel 2001 da famiglia marocchina, Zaccaria vive un'infanzia di povertà. Nel 2012 per la prima volta va in una comunità per minori a Torino: era stato colto in flagrante a rubare vestiti da un negozio. È l'anno in cui per lui finiscono le estati spensierate del bambino e cominciano quelle dei guai con la giustizia. Entra ed esce dalle comunità di mezza Italia: Rimini, Bologna, Brescia.
Da qui il suo soprannome: le cronache dei giornali locali riportavano fatti di cronaca che sembravano opera di una baby gang, senza sapere che in realtà c'era dietro soltanto lui.
La prima volta in carcere Zaccaria ci va a 15 anni: finisce dentro per aver picchiato un poliziotto, anche se sostiene di essere stato aggredito per primo. Due mesi al minorile di Bologna e poi il trasferimento al Beccaria di Milano. Comincia a fare avanti e dietro tra carcere e comunità, scappa e viene riacciuffato, finché la pena si esaurisce. […]
Il nome di Baby Gang torna alla ribalta nell'aprile del 2021. Stavolta per un video girato in strada a San Siro insieme all'altro rapper Neima Ezza. Per quelle riprese nessuno ha chiesto i permessi e non si possono fare assembramenti per le restrizioni per il Covid, ma nonostante questo in piazza Selinunte arrivano centinaia di ragazzini radunati dal tam tam social. L'intervento delle forze dell'ordine genera un caos che finisce con guerriglia in strada e una sassaiola, per fortuna senza feriti gravi. […]
Poco dopo arrivano le perquisizioni: Baby Gang si fa fare un video in cui si vede lui che gioca con i videogame mentre gli agenti cercano nel suo appartamento. E lo pubblica su Instagram, l'ennesima sfida. […]
Nel frattempo colleziona Daspo come se fossero medaglie: a settembre del 2021 ne arrivano tre nel giro di poche settimane, con il divieto di avvicinamento a Milano, Lecco e Riccione.
E cresce anche la sua fama come trapper: le serate nei locali si moltiplicano, i concerti sono sold out e mezza Italia lo chiama per esibirsi (anche se alcune date vengono cancellate prima dell'esibizione e dopo le segnalazioni della Polizia ai gestori delle location).
A gennaio di quest'anno viene arrestato insieme ad altri rapper, sono accusati di aver avvicinato dei giovani alle Colonne di San Lorenzo e averli bloccati e colpiti per farsi consegnare denaro e gioielli. Baby Gang finisce a San Vittore, ma le accuse non reggono: il tribunale del Riesame dà ragione al suo avvocato Nicolò Vecchioni il quale sostiene che né i riconoscimenti fatti dalle vittime né l'analisi delle celle telefoniche fossero sufficienti a giustificare una misura così forte, anche perché il volto di Zaccaria era ormai noto e le testimonianze potevano essere condizionate.
Esce dopo neanche un mese in cella e il giorno dopo fa esplodere fuochi d'artificio davanti a San Vittore. Non solo. Dopo poco annuncia sui social di aver girato un video dentro al carcere: sono le immagini che userà per la sua clip "Paranoia", girate con un telefonino fatto entrare di nascosto. Motivo per cui sarà indagato per il reato 391 ter che punisce sia "chi indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico" sia il detenuto che lo riceve e lo usa.
Ad aprile un altro colpo di testa: è in giro con un amico in scooter, non si ferma all'alt di due poliziotti in via Costa, aggredisce gli agenti a calci e scappa. E si arriva così alla notte di luglio in Corso Como. Molto probabilmente lo stile di Baby Gang è una strategia puramente mediatica: una continua sfida alle regole e alle autorità, anche a costo di pagarne un prezzo con la giustizia, pur di alimentare l'immagine da ribelle che porta fan e follower. "Fa parte del gioco", dice Zaccaria. Solo che stavolta ci sono di mezzo le pistole.
Luca De Vito per repubblica.it il 7 ottobre 2022.
Sono stati arrestati quattro presunti autori di un tentato omicidio ai danni del rapper Simba La Rue, accoltellato lo scorso 16 giugno nel comune di Treviolo, a Bergamo. Tra questi c'è anche la fidanzata del giovane, Barbara Boscali, 31 anni, in arte "Bibi Santi 91", accusata di aver aiutato i rivali per consentire loro di mettere in atto la vendetta di un altro rapper, Baby Touché, nell'ambito della faida tra i due gruppi di rapper. Lo stesso Simba è stato (nuovamente) arrestato oggi, insieme a Baby Gang e ad altri nove della loro banda, per la rissa con sparatoria avvenuta a luglio in corso Como, nel cuore della movida milanese.
Faida dei trapper, l'accoltellamento di Simba come 'risposta' al sequestro di Baby Touché
L'accoltellamento era infatti la risposta all'aggressione con rapimento del rapper padovano Baby Touché di inizio giugno: un blitz che era avvenuto anche grazie a una trappola in cui aveva avuto un ruolo un'altra ragazza, Sara Ben Salah. Anche per i fatti che hanno portato al ferimento di Simba in un parcheggio a Treviolo in provincia di Bergamo pochi giorni dopo, un ruolo chiave lo ha avuto una donna. In questo caso a tradire sarebbe stata appunto Boscali, la fidanzata di Simba La Rue. La giovane, attrice hard, avrebbe fornito ai rivali del compagno l'indirizzo in cui abitava, come emerge da una serie di intercettazioni agli atti.
Simba attirato in trappola, la fidanzata: "Doveva venire solo a umiliarti". E Lui: "Mi hai venduto"
Dopo l'aggressione, è la stessa Boscali a contattare telefonicamente il trapper e a spiegargli di averlo tradito: "Sei un'infame bastarda" è la risposta che arriva dal compagno. Due settimane dopo i due si sentono ancora: "Doveva venire da solo a farti questa cosa - dice la ragazza ricostruendo le sue conversazioni con Samir, uno della banda di Baby Touché - umiliarti avanti perché... aveva paura dei tuoi amici, e da solo sarebbe riuscito a parlarti e al massimo tirarti qualche schiaffo, lui non è neanche venuto, ha mandato i suoi amici". "Ma mi hai venduto o no?", le chiede il trapper. "Ma a me nessuno mi ha pagato", è la risposta. A cui Simba però non crede: "Basta, basta, basta non c'è più da dirmi, l'ho fatto con una persona, l'ho fatto con due, mi hai venduto e basta".
Simba la Rue e le intercettazioni con la fidanzata dopo l'accoltellamento
Durante la conversazione poi la ragazza si accalora. "Quando io ho visto questa cosa - dice Boscali per cercare di giustificare il proprio comportamento - per quello che ho urlato e mi son spaventata perché io, non era lui il tipo, perché doveva venire lui! Non so chi ha mandato, cosa, poi dopo quando io l'ho chiamato ho urlato e gli ho detto "mi hai ammazzato il tipo, ma che cazzo hai fatto!", ho iniziato a fare casino, che lui ha detto che ha mangiato la scheda l'ha buttata e si è messo a piangere pure lui".
Elementi, questi, raccolti nell'inchiesta milanese che vede protagonista Simba La Rue, il cui telefonino era intercettato. Confluiti nel fascicolo della procura di Bergamo hanno consentito di effettuare gli arresti di oggi, tra cui anche Boscali. Non sono chiari i motivi per cui la giovane avrebbe tradito il fidanzato. Lei stessa, però, in passato aveva denunciato sui social di essere stata picchiata da Simba La Rue.
Luca De Vito per “la Repubblica” l'8 ottobre 2022.
Due storie sovrapposte e collegate, con protagonisti simili ma intrecci diversi. E che ieri hanno avuto lo stesso finale: ovvero arresti, perquisizioni e l'azzeramento delle due bande di rapper più agitate (e pericolose) della Lombardia. Quelle che fanno riferimento a Baby Gang e Simba La Rue da una parte e Baby Touché dall'altra. Rivali tra loro, violente, con facile disponibilità di armi e pronte a tutto. Anche a sfidare le forze dell'ordine: «Faccio più soldi di voi, il vostro stipendio me lo mangio a pranzo » aveva esternato tempo fa Baby Gang sui social.
La prima di queste storie è ambientata a Milano, in corso Como, fra il 3 e il 4 luglio. È la cronaca di un'alba di follia, in cui la banda di Simba La Rue e Baby Gang affronta due senegalesi in una rissa in cui questi ultimi hanno la peggio, riempiti di botte entrambi dai rapper e uno dei due raggiunto anche da una pistolettata alla gamba.
Alla base dello scontro, screzi e piccole questioni di soldi probabilmente legate alla droga. Ma più che i rancori ad accendere gli animi è l'alcol. I due senegalesi per primi sparano con una scacciacani, gli altri urlano: «Noi vi ammazziamo» e «guardate che noi siamo la Gang». E cominciano a menare.
«Baby Gang ha tirato fuori il ferro perché anche il tipo ha iniziato a sparare - dice intercettato nell'auto Chakib Mounir detto "Malippa", uno dei giovani coinvolti nella rissa - Mentre Mario lo teneva, lui ha tirato fuori il ferro e ha iniziato a sparare, bam bam!». E si lamenta per il suo comportamento: «Però quando Zaccaria (Baby Gang, ndr ) si ubriaca è un casino. Zaccaria non deve bere proprio. Infatti lui lo sa. Però quando vuole bere è un casino, e non puoi dirgli di no».
Tutti vengono identificati grazie alle telecamere all'esterno di un Club (undici gli arresti, tra cui due minorenni). Immagini analizzate dagli specialisti della sezione Omicidi della Mobile guidati da Marco Calì in cui si vede il passaggio di una pistola tra Baby Gang e Simba La Rue, tra i più scatenati nell'assalto nonostante le stampelle per il recente accoltellamento alla gamba.
«Sai cosa mi faceva ridere? Speedy (soprannome di Simba La Rue, ndr ) che picchiava il negro con la stampella», dice ancora Malippa. Una faida tra social e armi: nella casa dove si appoggia Baby Gang a Sesto San Giovanni è stata trovata una Beretta calibro 7,65 sotto al cuscino ma anche una decina di riproduzioni di mitra e mitragliette Uzi appese ai muri, usate nei video della gang per accrescere il numero dei follower.
Ed è lo stesso Simba La Rue il collegamento con un'altra operazione che ieri ha portato ad altri arresti dei carabinieri di Bergamo. Quelle stampelle erano infatti la conseguenza delle coltellate subite in un agguato da parte dei rivali «di Padova », la banda di Baby Touché. Per riannodare il filo della seconda storia, bisogna tornare al parcheggio di Treviolo, Bergamo. È il 16 giugno scorso quando Simba viene accoltellato alla gamba per vendetta per il rapimento del rapper avversario Baby Touché, umiliato con un video sui social (fatti per cui Simba si era fatto un giro in carcere). A tradirlo, Barbara Boscali, la ex, attrice hard, un figlio, in arte "Bibi Santi 91".
Dall'ordinanza che ha portato in carcere quattro persone per tentato omicidio in concorso, tra i quali il fratello di Baby Touché - una è ancora ricercata - emerge il ruolo chiave dell'allora "donna" del rapper. Che ha «venduto» la posizione del suo uomo al gruppo rivale. Così "Babi Santi" ha contattato un certo S. (ancora ricercato), del gruppo di Touché: «Ho tutto quello che può servirti ». Cioè la posizione di Simba "Speedy", quella sera, per la vendetta. Dieci coltellate, 40 giorni di prognosi.
Il 6 agosto è la ragazza stessa che va dai carabinieri e ammette che «volevo vendicarmi per le umiliazioni subite» nella storia con Simba La Rue. «Pensavo lo avrebbero solo bullizzato con un paio di schiaffi», confessa. E invece è stata una spedizione punitiva con i coltelli. «Concorrente morale», nell'agguato. «A Samir (la persona contattata del gruppo rivale, ndr ) dicevo "vediamo se anche con gli uomini fa il figo come fa con me"». E il fratello di Touché il 23 giugno diceva: «Ha fatto quello che ha fatto, noi abbiamo fatto quello che abbiamo fatto, così finisce di rompere il ca...».
Zita Dazzi per “la Repubblica” l'8 ottobre 2022.
Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, lei conosce molto bene due degli arrestati, Baby Gang e Simba. Il primo l'hanno arrestato nella sua comunità ieri all'alba.
«Li conosco entrambi molto bene. In questo momento bisogna solo attendere che vengano accertati i fatti che vengono contestati. Già in passato Zaccaria, (Baby Gang, ndr ) dopo 20 giorni è stato scarcerato perché è risultato non colpevole. Quindi per il momento posso solo esprimere il mio dispiacere, dato che l'arresto interrompe per l'ennesima volta un percorso».
Quale percorso?
«Questi ragazzi vengono da un'infanzia traumatica, che li ha portati a vivere in contesti di fortissimo disagio, di povertà educativa oltre che economica. Zaccaria è stato più volte allontanato dai suoi affetti. A 8 anni era già in comunità. Ne ha girate dieci prima di finire al Beccaria a 15 anni, dove l'ho conosciuto io».
Lo sta giustificando?
«No, lungi da me l'idea. Aspettiamo che la giustizia faccia il suo lavoro. Ma nella storia di questi due ragazzi l'intervento dello Stato e dei servizi sociali non c'è stato, e se c'è stato non ha sortito gli effetti attesi».
Non sono stati seguiti quando erano piccoli?
«Zaccaria e Mohamed (Simba, ndr ) raccontano la rabbia che è esplosa nelle loro canzoni, c'è il tema spietato della loro infanzia e di tutto quel che secondo loro hanno subito».
Cioè?
«Andavano a scuola in ciabatte e venivano derisi, si sono sentiti sempre discriminati. Nel confronto con i coetanei a scuola è emersa la differenza sociale.
E da lì sono arrivate le offese. Questi ricordi in carcere sono sedimentati e hanno prodotto una reazione rabbiosa contro il mondo degli adulti e delle istituzioni, avvertito come mondo che li giudica, li esclude».
Quale futuro li aspetta?
«Finire in carcere per vecchie denunce rallenterà il loro percorso di cambiamento. Non conosco i capi di imputazione, ma se una rissa diventa motivo di carcerazione a San Vittore, penso che le conseguenze si vedranno per altri anni a seguire. Loro lo vivono come un accanimento delle istituzioni, io continuerò ad accompagnarli nel loro cammino di rinascita, senza aspettarmi cambiamenti improvvisi e redenzioni miracolose».
Milano, faida fra trapper: sparatoria in corso Como, arrestato Baby Gang. Le intercettazioni: «Facciamo fuoco addosso alla gente». Andrea Galli Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022.
Decapitata la banda di Simba la Rue, già agli arresti. Gli attacchi del 19enne a giornalisti e agenti: «Io il vostro stipendio lo mangio a pranzo». Due mesi prima i giudici avevano rigettato la richiesta di sorveglianza speciale
La sparatoria del 3 luglio in corso Como e, nel riquadro, il trapper Baby Gang, alias Zaccaria Mouhib, 19 anni
«Abbiamo rischiato troppo… Io sono già dentro… Tra un anno e mezzo arriverà tutto, un anno e mezzo, due». E no: era lo scorso 4 luglio quando alcuni «soldati» della gang dei musicisti trapper capeggiata dai noti «Simba la Rue» e «Baby Gang», intercettati senza saperlo parlavano dell’aggressione, il giorno prima, domenica 3 luglio, all’alba, nella zona milanese dei locali di corso Como: due senegalesi gambizzati, da «punire» per antichi presunti torti. Poche ore dopo, per uno scambio di persona, era stato fermato Tiémoué Bakayoko, giocatore del Milan. E adesso siamo qui, «appena» a inizio ottobre, dunque in larghissimo anticipo rispetto alle loro previsioni, a raccontare che le indagini sono terminate, e che quei ragazzi, insieme ad altri, avranno da duellare contro la giustizia. L’operazione all’alba di polizia e carabinieri ha innescato due ordinanze cautelari contro 11 persone, tra cui lo stesso rapper Baby Gang, mentre Simba la Rue era già stato arrestato a fine luglio.
Le due gang decapitate
Lo sfondo è sempre quello: la faida tra le gang, già generatrice di 9 arresti dei carabinieri a fine luglio. E se contiamo l’odierna e contestuale ordinanza di Bergamo contro 5 «soldati» dello schieramento opposto, quello di «Baby Touché», non è sbagliato ipotizzare una consistente decapitazione delle bande. Dopodiché, siccome a volte il tempo qualcosa regala, non possiamo non iniziare da due storie personali. Le storie proprio di loro due: «Simba la Rue» e «Baby Gang». Amati, venerati, omaggiati dal popolo dei social che segue, esulta, imita. Contro le regole, contro il sistema, contro gli adulti. Contro tutti e nessuno.
Le stampelle come armi
Ebbene, di «Simba la Rue» s’era sinceramente trascorsa mezza estate a resocontare le gravi condizioni di salute, conseguenza dell’accoltellamento subìto in provincia di Bergamo il 16 giugno del quale la locale Procura parrebbe intenzionata a diradare le informazioni degli avvenuti arresti. Al solito, se ne ignora il motivo. Proseguiamo. Un perito aveva giudicato il quadro clinico di «Simba la Rue», al secolo Mohamed Lamine Saida, nato in Tunisia 20 anni fa e residente nel Lecchese, non idoneo al regime detentivo. Del resto a lui, infine operato, era stato suturato e ricollegato il nervo femorale tranciato da quella lama in due monconi. Eppure, tutto ciò premesso, lo stesso Saida che protestava contro la permanenza in cella, dov’era e che cosa faceva quel 3 luglio? Ma ovviamente stava lì, in corso Como, munito anzi armato di stampelle, per reggersi in piedi, poveretto, stampelle che invece sferrava come armi contro i due senegalesi. E ancora, poi trasferito dal carcere a una comunità nonostante il gip Guido Salvini avesse manifestato i propri dubbi sull’ipotesi paventando il rischio di una convivenza con membri del sodalizio, fin da subito Saida entrava, giustappunto, in contatto proprio con affiliati, vedeva, incontrava, telefonava, brigava, insomma superando, si legge in un dirimente e forse definitivo passaggio dell’ordinanza del gip, «anche le più pessimistiche previsioni». Può bastare, in attesa certo della versione del diretto interessato e della difesa del suo avvocato. Passiamo all’altro.
«Cambio vita»
Evitando la scontata riflessione sul nomen omen, discutendo di «Baby Gang», cioè Zaccaria Mouhib, 19enne con abitazione a Sondrio, spiccano annunci come il seguente, sventolati sui benedetti/maledetti social, strumento per i trapper di arruolamento dei discepoli: «Giornalisti pezzi di merda, sbirri infami, polizia associazione mafiosa, faccio più soldi di voi, il vostro stipendio lo mangio a pranzo». Di Mouhib, cui la squadra del questore Giuseppe Petronzi ha dedicato un ampio e strutturato lavoro non investendo unicamente sulla mera attività di contrasto ma ragionando d’insieme, dentro la realtà, non si può non menzionare la precoce carriera criminale, il vano pellegrinaggio, lui pure, per comunità, le risse, i furti, le lesioni personali, le istigazioni a delinquere, la diffamazione, e via elencando – l’elenco è davvero disgraziatamente corposo –; parimenti, a fronte di una «grave, attuale e concreta pericolosità sociale», non si può non menzionare la precedente decisione del Tribunale di rigettare la proposta di una sorveglianza speciale contando sulle garanzie di «Baby Gang» di, testuale, «aver cambiato vita e non avere più necessità di delinquere». Infatti. Per la cronaca, seppur sembri un desolante passaggio scontato, la decisione dei giudici, i quali avevano bocciato l’obbligo di soggiorno a Sondrio, era antecedente (di 60 giorni) l’agguato di corso Como. In linea non unicamente teorica forse l’offensiva poteva essere evitata, avendo comunque avuto «Baby Gang» un ruolo centrale.
Le certosine indagini
«Non fu rissa banale ed estemporanea ma un episodio di grave violenza e sopraffazione, originato da una logica di banda e da una volontà di controllo del territorio». Così il gip Salvini per inquadrare l’episodio del 3 luglio, che aveva avuto, in prima battuta, la caccia delle «volanti» della polizia, impegnate nella ricostruzione dei fatti, e poi affiancate negli sviluppi dalle ricognizioni della squadra Mobile, e insieme il proseguo delle indagini della Compagnia Duomo dei carabinieri già sul pezzo, in quanto concentrati su due pregressi avvenimenti: un altro pestaggio, nella zona di Porta Venezia, condotto dal gruppo di Saida, e il rapimento del rivale «Baby Touché». Fatto salvo che i carabinieri di Milano del generale Iacopo Mannucci Benincasa, sul complesso tema delle gang giovanili hanno già prodotto un’articolata e avanguardistica mappa milanese, unendo incursioni di analisi sociale alla mera arte d’investigare, i due percorsi di ricerca sono confluiti nella collocazione sulla scena del crimine di ogni personaggio. Volti, nomi, ruoli di chi, quella notte di luglio, quando erano le 5.20, stava in corso Como. Fatti seguiti, i giorni successivi, dalle parole. Sempre intercettate. Eccone alcune. «Noi non spariamo in aria, è quella la verità! I nostri ragazzi, se sparano, sparano addosso alla gente… Baby c’aveva il ferro in mano…». «Se parla troppo, scassalo!». «Gli ho tirato troppe ginocchiate, mi sa… Guarda il suo sangue! Mi fa piacere… Tantissimo mi fa piacere».
La fratellanza
A sociologi e quanti altri le ricche e intense analisi sulla catena di violenze, sui singoli comportamenti, su questa fratellanza di sangue, sulle responsabilità dei genitori e degli educatori, sulle banalizzazioni mediatiche, su certi anacronistici annunci che non tengono conto dei cammini individuali, senza che questi fungano s’intende da giustificazione, sul demandare alle forze dell’ordine e alle comunità, ma sì, se la sbrighino loro e amen. Però, unitamente alle indagini, rimangono i messaggi da esse diffusi: risulta un peccato capitale battezzare la faida quale conseguenza di affari tra delinquenti «periferici» che, in sostanza, non ci riguardano. Fissarsi infatti sulle terre di nascita di alcuni dei ragazzi, sovente ventenni, è una scappatoia per non percorrere il loro successivo cammino, col grosso dell’esistenza trascorsa in Italia. E non a Milano, bensì nella ormai ex serena e illesa provincia padana, in comunità dove amministratori e cittadini si bullano di non avere grossi sostanziali problemi di criminalità. Certe dinamiche di questi ragazzi, aveva da subito ammonito il gip, rimandano alle azioni delle banlieue francesi: la professione della violenza come appartenenza al gruppo, la connivenza, la reciproca protezione, i silenzi, il culto dei capi, la facilità – spaventosa facilità – con la quale un incensurato si rovina la vita partecipando a un agguato e quasi uccidendo un coetaneo.
Gli altri arrestati
Fra i destinatari delle ordinanze, anche Paulo Marilson Da Silva, principale manager di «Baby Gang», figura apicale per le pubbliche relazioni; Eliado Tuci detto «Lupo», altro servitore di Mouhib; Andrea Rusta, uno che segue come un ultrà o un adolescente innamorato d’un calciatore sia «Simba la Rue» sia «Baby Gang». Di questo Rusta, le intercettazioni riportano l’inesauribile goduria nel ricordare l’accanimento contro i due senegalesi ricordando, com’è prevedibile, che i balordi aveva approfittato di una considerevole sproporzione numerica; da branco; erano sicuri che avrebbero avuto la meglio rischiando zero. Facile, no?
Andrea Galli per corriere.it l'8 ottobre 2022.
In una precedente occasione, d’estate, colloquiando con il questore di Milano Giuseppe Petronzi, era emerso il tema dell’assenza di inneschi ideologici, di richiami politici nei presunti «manifesti» dei trapper.
E del resto, scorrendo la breve — ha soltanto 21 anni — e intensa esistenza di Zaccaria Mouhib alias «Baby Gang», esploriamo canali di violenza e rabbia, di insulti, di nemici «banali» da individuare — dai «giornalisti pezzi di m…» alla «polizia associazione mafiosa» —, con poche e poco fantasiose variazioni («Sbirri infami»).
E insieme esploriamo una catena di azioni che un esperto potrebbe inquadrare nella casistica dei disturbi della condotta: atteggiamenti fin da ragazzino di prepotenza e minacce, danni fisici, la «volontà» di affrontare direttamente la vittima, faccia a faccia; insomma manifestazioni precoci rispetto alle quali, col trascorrere del tempo, risulta difficile recuperare.
Di suo, «Baby Gang», figura apicale (anche) in quest’ultima inchiesta centrata sulla gambizzazione, lo scorso 3 luglio nella zona di corso Como, di due senegalesi autori di presunti torti contro la banda del musicista trapper, ha spesso lamentato la situazione di «bersaglio», per esempio spiegando, nei canali social, che «da quando sono piccolo, di ogni cosa che succede intorno a me la colpa è sempre mia».
Del 25 maggio 2013, a 11 anni, il primo incontro con le forze dell’ordine: «Imbrattava con una bomboletta spray il muro di un’abitazione».
Del 2014 il furto di un cellulare; del 2016 lo spaccio di droga e l’aggressione — le mani strette intorno al collo — di un commerciante cui aveva rubato una maglietta; del 2017 l’irruzione in un centro sportivo per arraffare negli spogliatoi magliette e palloni, mentre nel 2021 aveva capeggiato la marcia di trenta coetanei verso la discoteca «Old Fashion» sostenendo che lì avessero impedito a un suo amico di entrare; ne seguivano lanci di pietre contro il personale di sicurezza e la caccia indiscriminata a clienti del locale per picchiarli.
Una catena densa e inquietante, culminata nell’agguato del 3 luglio, che pare segnerà quantomeno una pausa nella degenerazione di «Baby Gang»; degenerazione che però, forse non soltanto in linea teorica, magari poteva essere evitata. Due mesi prima di quell’episodio, il Tribunale di Milano aveva rigettato la proposta della polizia di una sorveglianza speciale, in base alla quale il ragazzo non avrebbe potuto uscire da Sondrio, la città di residenza.
I giudici avevano sottolineato le dichiarazioni di «Baby Gang» di aver «cambiato vita non avendo più la necessità di delinquere», e avevano riportato la relazione della comunità che lo aveva ospitato: «Si trova in bilico tra intenti contrapposti e non ha ancora trovato un punto di equilibrio tra la personalità di rapper antisistema, con cui si è affermato a un livello artistico, e la necessità di rispetto, sul piano personale, del precetti del vivere civile».
Per l’intera giornata di ieri, un numero sproporzionato di adolescenti ha commentato, beninteso sui social network, la caduta di «Baby Gang». Ammesso che venga considerata una caduta e non, come al contrario accade, una medaglia. Nel nome, nel segno, di lui, solo lui, idolo e capo, e dei suoi «post», come quello rivolto a una pattuglia di carabinieri: «Ecco a voi ragazzi, cioè io devo svegliarmi e trovarmi ste facce di m… qui sotto casa mia… Fuck you».
In questa faida esplorata negli ultimi mesi dagli investigatori, si è evidenziata la contrapposizione tra quelli di «Baby Gang», e del socio, l’altro musicista trapper «Simba la Rue», che nonostante fosse in stampelle a causa di un precedente accoltellamento inferto dai rivali di «Baby Touché» — ed ecco la seconda formazione che completa lo schieramento — era lì, alle 5.20 del 3 luglio.
Pronto a inseguire e utilizzare quelle stampelle come armi. Laddove a sintesi delle precedenti indagini di luglio il gip Guido Salvini aveva sottolineato le analogie con dinamiche da banlieue francesi, adesso il giudice ha rimarcato, scrivendo a proposito degli indagati, la «totale astrazione dalla realtà in cui agiscono, con l’ego totalmente incluso in quello della banda che impedisce anche solo di percepire il disvalore e il peso delle azioni criminose, con un grave rischio imitativo nei confronti di altri soggetti molti giovani».
Quando l’hanno fermato in strada, «Baby Gang» indossava unicamente abiti Gucci; nel preparare la borsa per la prigione, ha tenuto a cambiarsi per mettere una tuta del Milan, nel mentre manifestando un atteggiamento di fastidio per il disturbo che i carabinieri gli stavano arrecando. Sbuffi, sbuffi, sbuffi. Una colossale noia.
Bibi Santi, chi è la pornostar che ha fatto da esca per l’agguato al suo fidanzato Simba La Rue. Andrea Galli su Il Corriere della Sera l'8 Ottobre 2022.
La ragazza avrebbe aiutato i rivali ad aggredire il suo fidanzato. Il movente: si era filmata sui social con i lividi che «Simba» le aveva lasciato sul volto. E poi con l’emoticon triste e il simbolino dell’ospedale aveva aggiunto una sorta di invito: «Giocate a fare i gang star tra di voi, le donne lasciatele fuori»
Barbara Boscali, in arte Bibi Santi 91, in una foto su Facebook
Un mese fa. Il 9 settembre. Per due volte «Simba la Rue», violando le disposizioni del gip, s’era messo al telefono. Voleva farlo, continuava a farlo, doveva farlo, grazie al cellulare prestatogli da una suora, impiegata nella comunità di recupero in cui il 20enne era finito su decisione dei giudici del Riesame per l’incompatibilità del suo quadro clinico con la prigione. «Simba la Rue», che si chiama Mohamed Lamine Saida, è nato a Tunisi e ha residenza in provincia di Como, aveva necessità di parlare con Barbara Boscali, 31 anni, appartamento a Treviolo, 10 mila abitanti in provincia di Bergamo. Era la sua fidanzata. Era perché la donna, di professione artista hard con il nome d’arte di «Bibi Santi 91», lo ha tradito. L’ha consegnato ai rivali della banda di «Baby Touché»; e ha rischiato di farlo uccidere. Questioni di uno spazio infinitesimale, e una delle dieci coltellate gli avrebbe provocato ferite letali.
I fendenti nella notte
Saida aveva già dei dubbi su Barbara, fra le 4 persone arrestate nell’indagine (non conclusa) di Bergamo per ricostruire le responsabilità dell’aggressione. Già da subito, dinanzi agli investigatori, aveva recitato la sua parte. Choc, disperazione in conseguenza di un «agguato improvviso»: lei e «Simba la Rue» stavano sulla macchina di quest’ultimo, una Mercedes nera; avevano trascorso la serata proprio su insistenza di Boscali, della quale si dice sia stata legata sentimentalmente ad altri «soldati» delle gang; Saida guidava verso l’abitazione della fidanzata, che intanto aveva fornito agli aggressori in attesa l’esatta collocazione degli spostamenti. Dopo quella telefonata con il cellulare della suora, la donna aveva chiamato la medesima religiosa la quale, a sua volta, aveva fornito ampie garanzie sul fatto che i due si sarebbero ancora potuti sentire. Avrebbe fatto da tramite.
«Io ti compro tutto»
Ora, nella complessa gestione del fenomeno, che rimanda alle dinamiche delle banlieue francesi, e sollecita plurime domande riguardo al ruolo dei social network che riflettono, senza spesso ricevere nessun accenno critico, il divismo di ragazzini contro le regole — ogni regola — fin dalle elementari, il questore Giuseppe Petronzi e il generale dei carabinieri Iacopo Mannucci Benincasa hanno avviato percorsi sì di sofisticata investigazione ma insieme di vera comprensione della realtà. Delle dinamiche. Degli spazi nei quali si muovono i trapper. Dei contesti geografici (sempre più paesi della provincia). Delle possibilità per colpire ma anche gestire in prevenzione. E va da sé che le comunità, al netto dello sforzo in solitaria per offrire alternative alla galera, sono una voce — e parimenti lo sono le pur parziali misure in possesso della magistratura — dell’articolato scenario. Che interseca anime perse, bugie, pose da diabolici giocatori di poker, abissi umani che s’incrociano senza che quell’incontro divenga un salvifico abbraccio di naufraghi. Tra le telefonate intercettate Saida-Boscali, eccone una. Risale al 10 luglio. Già era rivelatrice. Saida: «Mi sono rotto il c… delle tue tarantelle». Boscali: «Vieni qua, ti prego». «Mi chiami e dici che ti stai drogando, che ti stai facendo...». «Tu Simba vedi tutto negativo». «Io ti compro tutte le cose...». «Senti, quel figlio di p… voleva umiliarti, aveva paura a venire da solo e ha mandato gli amici…». Saida: «Ma mi hai venduto o no?». Boscali: «A me nessuno mi ha pagato».
La vita da fuorilegge di Baby Gang: simulacri di armi appesi alle pareti, risse, droga e insulti alla polizia. Estratto dell'articolo di Alice Castagneri per lastampa.it l'8 ottobre 2022.
[...] Spaccio, rissa, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, istigazioni a delinquere, diffamazione. Una fedina penale, che negli anni, diventa sempre più sporca. Nell’aprile del 2021 si ritrova coinvolto in una guerriglia con le forze dell’ordine per un video girato in strada a San Siro insieme al rapper Neima Ezza. Nessuno ha i permessi per le riprese e gli assembramenti in quel periodo sono vietati, ma infrangere le regole e sfidare il sistema per Zaccaria non è certo un problema.
Centinaia di ragazzi si radunano nelle strade dopo il tam tam sui social, e a quale punto i tafferugli sono inevitabili. A gennaio finisce di nuovo in manette – stavolta a San Vittore – con l’accusa di aver fermato e intimidito dei ragazzi alle Colonne di San Lorenzo per farsi consegnare soldi, gioielli e cellulari. Esce dopo neanche un mese e il giorno dopo fa esplodere fuochi d'artificio davanti al carcere. Poco dopo esce un nuovo brano: Paranoia. Il videoclip contiene immagini girate con un telefonino fatto entrare di nascosto in carcere. E anche per questo Baby Gang viene indagato.
I social sono il mezzo con cui diffonde la violenza. Gli insulti contro la polizia sono all’ordine del giorno. Soprattutto quelli contro gli agenti: «Giornalisti pezzi di merda, sbirri infami, polizia associazione mafiosa, faccio più soldi di voi, il vostro stipendio me lo mangio a pranzo». Anche i giornalisti finiscono spesso nel suo mirino: «Allora sentite, grandissime teste di c…, è da un bel po’ che vi sto facendo parlare a tutti senza dire nulla, ma adesso mi state veramente rompendo il c…, è da quando sono piccolo che ogni cosa che succede intorno a me la colpa è sempre di Baby Gang…».
Quando è stato fermato per strada dai carabinieri, nelle prime ore di venerdì, era vestito Gucci da testa a piedi. Durante l'indagine per la rissa con sparatoria avvenuta in corso Como a Milano, la notte tra il 2 e il 3 luglio scorsi, gli viene sequestrata una pistola Beretta 7,65, che era nascosta nella casa di Sesto San Giovanni. L’arma è intestata a una società riconducibile alla madre dell'artista e utilizzata dalla sua gang come base. Nella casa, da tempo monitorata dai carabinieri, gli investigatori trovano anche simulacri di armi e di mitra appesi alle pareti, utilizzati nei video musicali. La Beretta sequestrata, di cui Baby Gang ha riconosciuto di essere il proprietario (è stato infatti arrestato anche per detenzione di arma comune da sparo, reato contestato solo a lui), ha una matricola non censita, quindi potrebbe essere di provenienza illecita o estera.
Da lastampa.it l'8 ottobre 2022.
Non poteva rimanere senza conseguenze, nella logica dei trapper, il rapimento, con tanto di umiliazione sul web di Baby Touché, cantante padovano. E così il 16 giugno, a Treviolo (Bergamo), finì accoltellato seriamente Simba la Rue, trapper violento - tant'è vero che è stato nuovamente arrestato per una sparatoria a Milano -, ritenuto l'ispiratore del sequestro.
Dopo un’estate di furti, rapimenti, aggressioni e sparatorie, quello che hanno scoperto i carabinieri di Bergamo, che hanno arrestato quattro persone per tentato omicidio, è che è stata la sua fidanzata, Barbara Boscali, 31 enne bergamasca con un profilo su onlyfans, ad attirarlo nella trappola quella sera.
«Volevo solo che anche Simba venisse umiliato un po' visto che mi continuava ad umiliare, ma non avrei mai pensato che lo avrebbero accoltellato», ha raccontato la donna davanti ai carabinieri di Bergamo, allora come testimone e oggi arrestata con gli altri tre. Dalle intercettazioni risulta che aveva attirato Simba nella trappola perché stanca delle violenze fisiche ma anche che l'aggressione fu una «vendetta» per il rapimento di Touché.
Il fratello del sequestrato, ora anche lui in carcere, al telefono diceva: «Ha fatto quello che ha fatto, noi abbiamo fatto quello che abbiamo fatto, così finisce di rompere il ca...». Arrestato un altro del gruppo del trapper padovano, un suo collega milanese di 24 anni, Baby Gang, e un altro ancora: un marocchino 30enne che si trova da qualche tempo nel centro di detenzione della polizia di Vordernberg.
Il mandante, però, potrebbe non essere la sola fidanzata di Simba tanto che sul web era stata postata una rivendicazione di un'altra persona. I militari avevano cominciato a indagare sulle immagini delle due auto a bordo delle quali se n'era andato il commando dopo aver lasciato Simba con delle gravi ferite, soprattutto alle gambe, tanto da dover essere operato per svariate ore.
Dopo aver individuato il gruppo, però, c'era stata la confessione "in diretta” della fidanzata del trapper, al telefono con lui: «Doveva venire da solo a farti questa cosa, umiliarti...», dice la giovane e La Rue risponde: «Mi hai venduto e basta». La Boscali pensava a qualche schiaffo e lascia intendere che l'altro ideatore della spedizione punitiva non faceva parte del gruppo: «Non so chi ha mandato, cosa, poi dopo quando io l'ho chiamato ho urlato e gli ho detto: “Mi hai ammazzato il tipo, ma che cazzo hai fatto!”». E Simba: «Che fine di merda, che fine di merda ho fatto!».
"Attirato in trappola". Chi è l'attrice hard che ha "tradito" Simba la Rue. L'attrice a luci rosse, nota come "Bibi Santi 91", secondo l'accusa avrebbe tradito il fidanzato Simba la Rue fornendo informazioni ai suoi aggressori. Il motivo? Forse una vendetta. Marco Leardi il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.
La sera dell'agguato era appartata in auto con il suo fidanzato Simba la Rue. Era lì accanto a lui, prima che il rapper venisse accoltellato dai componenti di una banda vicina al suo rivale Baby Touché. Nell'ambito delle odierne operazioni eseguite dai carabinieri, Barbara Boscali è stata arrestata assieme ad altre tre persone con l'accusa di concorso in tentato omicidio in qualità "mandante" dell'aggressione avvenuta a Treviolo (Bergamo) lo scorso 16 giugno. La 31enne, attrice hard nota come "Bibi Santi 91", avrebbe infatti tradito il proprio compagno fornendo ai rivali le informazioni a loro utili per far scattare la vendetta.
Chi è Barbara Boscali, fidanzata di Simba la Rue
Oltre a mostrare se stessa, anche in versione "senza censure" sul proprio profilo di OnlyFans, sui social la ragazza aveva raccontato i dettagli della sua travagliata relazione con Simba la Rue. Sempre in rete, "Bibi Santi 91" aveva in passato accusato il fidanzato di averla picchiata. Secondo gli inquirenti, anche quell'episodio potrebbe aver innescato intenzioni di vendetta da parte della 31enne.
"Bibi Santi 91", secondo l'accusa, avrebbe quindi attirato Mohamed Lamine Saida, alias Simba la Rue, in una sorta di "trappola". All'improvviso, mentre i due si trovavano in un parcheggio in via Aldo Moro, il blitz punitivo contro il rapper, compiuto - secondo quanto ricostruito - da sette persone datesi poi alla fuga. In quel violento scontro Barbara Boscali non aveva riportato alcun graffio e già questo elemento aveva insospettito gli inquirenti. Stando a quanto riferiscono alcune fonti, la giovane attrice a luci rosse avrebbe poi fornito un racconto vago alle forze dell'ordine, soprattutto in merito a quell'accoltellamento avvenuto davanti ai suoi occhi. I carabinieri si erano poi domandati come mai l'agguato fosse avvenuto proprio vicino all'abitazione della ragazza, in quel paesino della bergamasca e non nella zona milanese solitamente frequentata dal trapper.
Le intercettazioni dell'attrice hard
Secondo quanto ricostruito dai militari "Bibi Santi 91" avrebbe fatto il doppio gioco, consentendo agli esecutori materiali dell'agguato di mettere in atto il loro regolamento di conti. L'accoltellamento, infatti, sarebbe stato una vendetta presunto sequestro del trapper rivale, Baby Touché, circostanza che Simba La Rue aveva negato nell'interrogatorio di garanzia, sostenendo che il "collega" fosse entrato in auto spontaneamente. "Soffro nel pensare di aver tradito in questo modo la persona che amo, capisci?", avrebbe affermato Barbara Boscali in una delle intercettazioni acquisite dalle forze dell'ordine. "Io volevo dirti questa cosa, che quel figlio di p... che sai chi è, mi ha detto che veniva da solo a parlarti e ti avrebbe umiliato", aveva aggiunto. "Ma mi hai venduto o no?", le aveva chiesto a quel punto il trapper fidanzato. E lei: "Ma a me nessuno mi ha pagato...". Parole alle quali il musicista però non crede.
L'inchiesta e gli arresti
Elementi finiti poi nell'inchiesta milanese che vede protagonista Simba La Rue, il cui telefonino era intercettato. I dettagli emersi sono poi confluiti nel fascicolo della procura di Bergamo hanno consentito di effettuare gli arresti di oggi, tra i quali - per l'appunto - anche quello della Boscali.
Maddalena Berbenni per corriere.it il 12 novembre 2022.
La camicina bianca sotto il blazer nero, i jeans attillati, la tracolla di Luis Vuitton, Mcqueen ai piedi, occhialoni scuri. È Bibi Santi versione Procura. Con la madre al fianco e l’avvocato Benedetto Maria Bonomo ad assisterla, Barbara Boscali, 33 anni, si è fatta interrogare ieri mattina dal pm Emma Vittorio e dai carabinieri della sezione operativa della compagnia di Bergamo.
Hanno condotto loro l’indagine sul capitolo bergamasco della faida fra bande di trapper, con al centro il tentato omicidio del protagonista indiscusso Mohamed Lamine Said, l’italo-tunisino Simba La Rue, 20 anni, della provincia di Como, ai tempi fidanzato di Boscali.
È crollato nel parcheggio sotto casa della ragazza, a Treviolo, il 16 giugno, per le coltellate inferte da chi voleva vendicare il sequestro del leader rivale, il padovano Baby Touché. Boscali, 33 anni, un figlio, una vita all’insegna della trasgressione, ha sostanzialmente confermato la versione dell’interrogatorio di garanzia e prima ancora di quello in caserma a indagine in corso.
Ammette cioè di avere preso contatti con il gruppo dei padovani per vendicarsi di Simba che la maltrattava. Voleva umiliarlo, fargliela pagare. Ma è tornata a ribadire che nessuno con lei aveva mai parlato di coltelli, non immaginava conseguenze così gravi.
L’avvocato Bonomo parla di «atteggiamento collaborativo» e per ora non accenna a nuove richieste di misure meno restrittive. Dopo un breve periodo in carcere, Boscali è ai domiciliari senza la possibilità, lei che pubblicava tutto sui social, lividi compresi, di utilizzare il telefonino.
Proprio sui social aveva ricevuto minacce da parte di entrambe le fazioni e per questo i carabinieri hanno organizzato servizi di pattugliamento sotto casa sua. Anche gli altri quattro arrestati saranno convocati, a parte, per il momento, colui che avrebbe pugnalato il trapper, il marocchino trentenne Youness Foudad, bloccato in Austria.
Il milanese Francesco Menghetti, 24 anni, in carcere a Bergamo, ha già parlato, ammettendo di avere alzato le mani contro Simba. Sostiene, però, di non aver saputo che Foudad avesse un coltello. Moaad Amagour, 24 anni, fratello di Baby Touchè, e Samir Benskar, 19, preso di ritorno da Ibiza, entrambi padovani, saranno ascoltati prossimamente.
Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.
Non è solo scena. Non sono solo pose da gangster. Sono risse, coltellate vere, rapine, reati gravi, minacce e frasi razziste. Fatti autentici come i guai in cui finiscono tanti giovani trapper nostrani, anche se forse l'unico motore che li spinge, molto spesso, è l'effimera ricerca di notorietà. Far parlare di sé. Ma appunto non per dischi, tracce, rime, produzioni, che non sembrano dare loro le soddisfazioni sperate. Bensì per azioni scellerate da pubblicare, puntando sulla sete insaziabile del popolo social.
Le ultime cronache arrivano dalla Sardegna, dove il romano Elia Di Genova, noto nella scena capitolina come Elia 17 Baby (già arrestato per droga) è accusato di tentato omicidio per una coltellata inferta a un 34enne che rischia la paralisi. E dalla Brianza, dove due 25enni, il trapper monzese Jordan Jeffrey Baby (Jordan Tinti) e il romano Gianmarco Fagà, alias Traffik (entrambi con una serie di denunce e processi alle spalle) sono stati arrestati perché avrebbero rapinato un immigrato africano al grido di «ti ammazziamo perché sei nero» alla stazione dei treni: il tutto documentato da un video finito su Youtube.
Ma questa è anche l'estate della rivalità tra le bande al seguito di Simba La Rue e Baby Touché, che per ora è sfociata in nove arresti (tra cui Simba e alcuni suoi seguaci) con accuse di sequestro di persona.
A Porto Rotondo I fatti che coinvolgono Di Genova avvengono a Porto Rotondo, e nascono da una lite fra due gruppi di giovani che si erano radunati sulla spiaggia di Marinella fra sabato e domenica, dopo una serata a vagare nelle discoteche della costa. Di Genova, che si trovava in vacanza in Costa Smeralda da una settimana, e altri tre romani sarebbero stati rimproverati da un giovane sassarese di 34 anni, e da un suo amico, perché importunavano alcuni clienti da poco usciti da un vicino locale. Spintoni, pugni e calci.
Sembra finita lì ma pochi minuti dopo la zuffa riprende. Qualcuno tira fuori un coltello e il sassarese, colpito alla schiena in un punto molto delicato, si accascia. Di Genova viene arrestato, mentre gli amici sono stati denunciati per lesioni e rissa.
Per avere notizie di Jeffrey Baby e Traffik bisogna spostarsi nel sottopassaggio della stazione di Carnate, in provincia di Monza. L'accusa è di aver preso di mira un nigeriano 41enne, in pieno pomeriggio, mentre percorreva il sottopassaggio spingendo la propria bici. I due, a torso nudo con una maglia sulle spalle, si sarebbero impossessati della bici e dello zaino che portava in spalla minacciandolo con insulti razzisti. La vittima, una volta a distanza, ha fotografato con il cellulare i due giovani, che sono saliti sul treno per Monza.
Poco prima li aveva invitati a restituirgli le sue cose, ma i due trapper, per tutta risposta, avevano buttato la refurtiva sui binari, filmandosi durante questa azione (il video è stato pubblicato in una «storia» sui profili social di Traffik). Grazie alla descrizione della vittima e alle foto scattate con il telefonino, i carabinieri della compagnia di Vimercate li hanno identificati e portati in carcere, in virtù di un fermo del pm Flaminio Forieri.
I profili Jordan Tinti fa parte della generazione cresciuta sotto il nome di Gang 20900, come il codice postale di Monza, o di Sacra Corona Ferrea. Il 25enne non è nuovo ai guai giudiziari. Nel 2021 la procura di aveva chiuso nei suoi confronti le indagini per il reato di istigazione a delinquere contro il personaggio tv di «Striscia la Notizia» Vittorio Brumotti, al quale era stato augurato un «bagno d'acido» dopo un'incursione di quest' ultimo alla stazione di Monza per documentare le attività di spaccio.
Sempre Jordan Tinti, a dicembre 2019, si era distinto per aver vandalizzato un'auto dei carabinieri davanti al comando provinciale di Napoli. Il romano Traffik è si è distinto per molti guai giudiziari, ed esperienze in carcere. È stato accusato di razzismo da altri rapper per l'uso indiscriminato dell'espressione «negro» nel testo di un brano.
Nel 2021, è stato condannato a tre anni e due mesi in primo grado dal tribunale di Novara con l'accusa di maltrattamenti verso la sua ex fidanzata (una influencer piemontese), violazione di domicilio e resistenza a pubblico ufficiale. Il giovane aveva affittato un'auto con conducente per farsi portare nel novarese dalla sua ex, che era in ospedale, ma era finito in caserma, tra insulti ai militari e un tentativo di entrare in casa della giovane, che al processo aveva riferito di minacce di morte.
(ANSA il 16 agosto 2022) - Un trapper romano di 26 anni, Elia Di Genova, conosciuto come "Elia 17 Baby", è stato fermato dai carabinieri della compagnia di Olbia per la rissa con accoltellamento avvenuta nella notte tra sabato e domenica nella spiaggia di Marinella. Il giovane è accusato di tentato omicidio. In ospedale a Sassari è finito un 35enne di Sassari ferito alla schiena con un fendente: rischia la paralisi.
Il noto trapper, che annovera migliaia di follower, è stato identificato, a quanto pare, grazie alle testimonianze raccolte dai militari dell'Arma che hanno ricostruito tutta la vicenda. I legali che rappresentano il trapper, Pietro e Gian Maria Nicotera di Roma, hanno sentito il loro assistito al telefono e attendono l'udienza di convalida del fermo per conoscere i dettagli della vicenda. Il giovane trapper era assurto agli onori della cronaca già nel 2021 quando era stato arrestato per spaccio ed era finito nei guai per una rissa con alcuni turisti a Villa Borghese.
(ANSA il 16 agosto 2022) - Due trapper molto noti, Jordan e Traffik, sono stati arrestati dai militari della stazione di Bernareggio (Monza e Brianza) per aver rapinato un operaio 41enne nigeriano della sua bicicletta e dello zaino, armati di coltello e al grido di "vogliamo ammazzarti perché sei nero" alla stazione di Carnate. Jordan, brianzolo di 25 anni è noto alla cronaca nazionale per la sua insofferenza nei confronti delle forze dell'ordine e noti personaggi televisivi. L'altro, Traffik, 26enne romano, è gravato da precedenti per rapina e altro. Sono stati arrestati per rapina aggravata dall'uso di armi e dalla discriminazione razziale.
Dicono che sono trapper, ma sono criminali: da Traffic a Simba La Rue, un'estate di attentati, intimidazioni e arresti
Spingendo con forza sui social network e su YouTube per ottenere follower, ma non il successo radiofonico o del tour.
Francis Aliu Yaogeh aggredito dai trapper Traffik e Jordan Jeffrey Baby: «Mi inseguivano con i coltelli, li ho fotografati». Federico Berni su Il Corriere della Sera il 17 agosto 2022.
«Sei nero, ti ammazziamo». Le minacce risuonano ancora forti nella testa di Francis Aliu Yaogeh, nigeriano 41enne, vittima di rapina da parte di due 25enni dediti alla musica trap (una sorta di sottogenere dell’hip-hop), ma che trovano maggiore notorietà attraverso reati di vario genere.
L’immigrato ha famiglia e lavora regolarmente in una azienda di Lesmo, nel monzese, che produce tendaggi. «Sono qui in Italia per lavorare» sottolinea. Sabato si trovava alla stazione ferroviaria di Carnate, altro piccolo centro brianzolo, quando, nel sottopassaggio pedonale, ha incrociato i due malintenzionati, successivamente identificati in Jordan Tinti (Jordan Jeffrey Baby), residente nel vicino comune di Bernareggio, e Gianmarco Fagà, romano con una discreta notorietà sotto il nome di Traffik.
Yaogeh ha avuto paura, ma anche la prontezza di immortalare i due rapinatori, che gli hanno portato via bicicletta e zaino, scattando loro due foto con il cellulare, prima che se ne andassero, successivamente consegnate ai carabinieri della compagnia di Vimercate, comandati dal maggiore Mario Amengoni. «Ho visto due ragazzi senza maglietta venirmi incontro — ha raccontato il cittadino nigeriano — stavano scendendo dalle scalinate del binario 1. Uno alto un metro e novanta circa, l’altro di poco più basso. Tutti e due avevano molti tatuaggi sul volto e sul corpo. Uno aveva il numero 23 tatuato».
Il fatto avviene nel sottopassaggio pedonale della stazione, alle quattro e mezza del pomeriggio, pieno giorno: «Quando mi hanno visto hanno iniziato a urlarmi contro dicendomi “parla con me...parla con me”. Io gli ho risposto chiedendo perché avrei dovuto parlare con loro». Ma non c’è stata risposta: «All’improvviso hanno tirato fuori dai pantaloni un coltello, e mi hanno minacciato di morte perché avevo la pelle nera. Mi hanno detto... vogliamo ammazzarti perché hai la pelle nera».
Circostanza che lo ha turbato molto: «Ce l’avevano con me per il colore della pelle», assicura Francis Aliu Yaogeh. «Mentre urlavano si avvicinavano tenendo in mano i coltelli come fossero dei pugnali. Mi sono spaventato, ho lasciato la mia bicicletta e lo zaino che era nel cestino del manubrio e sono scappato correndo». La vittima esce dal sottopasso pedonale: «I due ragazzi hanno cominciato a seguirmi con il coltello in mano dicendo ancora di fermarmi perché volevano ammazzarmi. Continuavano a dirmi che ero nero. Io ho continuato a correre fino a quando li ho visti fermarsi. Hanno preso le mie cose e mi sono avvicinato a loro. Erano sul binario 2».
Tenendosi a distanza, Francis chiede loro («Li ho pregati» specifica in realtà agli inquirenti) di ridargli la bici e lo zaino. «Mi hanno risposto di no e hanno preso la bici e lo zaino, e li hanno buttati sui binari. Uno con il coltello ha tagliato le gomme mentre l’altro ragazzo filmava con il cellulare». Video poi pubblicato su Youtube e sui profili social di Traffik: «Alla fine li ho visti salire sul treno per Monza dal binario 3. Sono riuscito a fotografarli due volte con il mio telefonino, e dopo, prima di andare dai carabinieri, ho recuperato le mie cose sui binari».
Trapper e violenza, attenti al soffio del razzismo. Karima MouaL su La Stampa il 16 agosto 2022.
«Ti ammazziamo perché sei nero». Queste poche parole non sono scritte sui social, sapendo di essere magari ben tutelati da un falso profilo e uno schermo che segna una distanza netta, ma quelle pronunciate da Jordan e Traffik - nomi d’arte di due giovanissimi italiani abbastanza conosciuti nel mondo della musica trap - contro un operaio di origine nigeriana. Parole che si sono accompagnate ad una violenza inaudita contro un uomo di 41 anni che ancora oggi ha la sola colpa di avere la pelle nera. Tanto basta per essere preso di mira dai due trapper, armati di coltello per inveire contro di lui, con minacce di morte, riuscendo infine a rapinarlo di zaino e bicicletta. Questa brutta storia - grazie anche alla vittima che riesce a scattare, seppur da lontano, alcune foto ai suoi aggressori - finisce con l’arresto dei due per rapina aggravata dall’uso di armi e dalla discriminazione razziale. Potrebbe finire qui se non fosse l’ennesimo caso di violenza a sfondo razziale che si aggiunge ai troppi altri casi che si sono susseguiti in questi anni, ma che purtroppo continuano a non essere presi in considerazione come allarme di qualcosa che sta covando da troppo tempo, e che oggi purtroppo intacca trasversalmente anche i più giovani. Ecco, con tutti i conflitti che si trova a vivere il nostro Paese, quello etnico, razziale, che consiste nella discriminazione, criminalizzazione e nell’odio per gli stranieri, immigrati, rispolverando il più becero e vecchio sentimento di ostilità verso gli africani, che se sono neri va ancora peggio, è quello che più dovremmo temere per il futuro della nostra società. State attenti al soffio del razzismo. Anche a rischio di diventare afoni a forza di ripeterlo, mi è d’obbligo evidenziare come il razzismo in Italia stia scorrendo sempre più velocemente e indisturbato un po’ ovunque. Da ultimo, quando si perde la vita come quella di Alika Ogorchukwu, ammazzato tra la cittadinanza. Ah, tra l’altro i suoi funerali sono stati rimandati ancora una volta perché non si riesce ancora a concedere il visto ai parenti. Poi si dovrà un giorno scrivere del perché ancora una parte del mondo è destinata a rimanere imprigionata tra le proprie frontiere, e se questo non sia anche razzismo istituzionalizzato. Poi il 6 agosto sulla statale 16, fra Foggia e San Severo, è avvenuto l’ennesimo incidente mortale che ha visto come vittima Koffi, un altro lavoratore immigrato morto mentre andava in bicicletta al suo lavoro nei campi. Ma la lista dei lavoratori sfruttati che muoiono di fatica, incidenti, sfruttamento e ignavia di uno Stato che continua ad ignorarli è lunga e non fa altro che infestare l’aria di un sentimento di cui bisognerebbe vergognarsi: che la dignità di vivere tutelati come essere umani non è per tutti. Infatti, questo fatto di cronaca che ha visto come vittima un cittadino nigeriano, operaio, per mano di due balordi italianissimi e giovanissimi, non ha trovato spazio tra i tweet di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, mentre sappiamo molto bene come sarebbe stato utile alla loro campagna di odio contro gli immigrati e gli stranieri se quanto accaduto fosse capitato a parti inverse. Basti scorrere i loro profili social per intuire come setaccino la cronaca quotidiana alla ricerca del nigeriano o dell’africano criminale da dare in pasto ai loro elettori. Etnicizzare ogni fatto di criminalità è la loro cifra utile a disegnare un immaginario tra un noi italiani e un loro: tutti gli altri, immigrati stranieri, neri, la minaccia esterna. Il mostro e nemico utile, dietro al quale in realtà si nasconde il più grande e più pericoloso fallimento della destra italiana. Quello di essere incapaci di immaginare, tradurre e far credere di poter riuscire a costruire una società inclusiva, dove almeno cittadini si diventa, una conquista dopo l’altra, provenendo da ovunque nel mondo. Che dovrebbe essere un ideale da raggiungere proprio da un partito con dei valori sani di destra. E invece niente. Siamo ai neri da ammazzare perché neri. Ma cosa si pretende dopo tanta propaganda che punta il dito sugli africani come fonte di tutti i disordini e criminalità? Siamo ancora la culla dove meglio gli immigrati vengono sfruttati nell’illegalità, quella dei campi, del terzo settore, o della criminalità organizzata fingendo che esistano solo questi ultimi e sbandierando porti chiusi e blocchi navali. La bruttezza di questa campagna elettorale dove il tema immigrazione viene trascinato anche con i fatti di cronaca è che ci evidenzia che purtroppo in questi 30 anni siamo tornati maledettamente indoietro senza fare alcun passo avanti; e la parola «nero» è lì a ricordarcelo.
Con l'aumento di imboscate, accoltellamenti e indagini. TheWorldNews il 16 agosto 2022.
Si definiscono artisti e trapper, noti soprattutto per la loro attività criminale in prima linea nella musica devono tutti dimostrare che di loro non c'è molta traccia alla radio o nelle classifiche. questa escalation armata tra gli ultimi rappresentanti dell'autoproclamato hip-hop sembra grottesca. C'era una volta, Notorious B. Storie di fronte in alcuni casi sembrano evidenziare cali di carriera che non erano nati. Questa volta Jordan Tinty25 anni dalla Brianza, Jordan Meglio conosciuto come Jeffrey Baby, Traffic, nato Gianmarco Faga, 26,in coppia con Gallagher, Gallagher era un altro trapper della capitale, un suo ex amico, che sosteneva di essere l'autore della prima canzone di genere musicale nel nostro paese: Cavallini
Rapine, Minacce e Arresti
Jordan e Traffic sono stati arrestati per furto per 41 anni da parte di militari alla Stazione Bernaleggio (Monza e Brianza). Un vecchio lavoratore nigeriano con una bicicletta e uno zaino, armato di coltello, grida "Voglio ucciderti perché sei nero" alla stazione di Karnate. Jordan, che ha tatuaggi integrali, ha già fatto notizia tra i Carabinieri per aver postato un video di lui che saltava sul tetto di una gazzella e insultava gravemente Vittorio Brumotti durante la sua campagna antidroga. Vive in Brianza ed è stato aggravato dall'uso delle armi per motivi di razzismo, e nel convalidare l'arresto per rapina il giudice non ha mai rispettato la sorveglianza speciale ricevuta, quindi non c'era dubbio che i Carabinieri avrebbero riconosciuto lui nella fotografia scattata dalla vittima della rapina Ha una fedina penale di: due anni e mezzo per aver rapinato un tifoso che gli aveva chiesto l'autografo a Roma e per aver picchiato un cittadino del Bangladesh. È stato anche processato per aver abusato della sua ex ragazza, e tra i motivi per cui il giudice lo ha condannato al carcere c'era il fatto che praticamente non aveva residenza, oltre alla sua fedina penale, sono stati affrontati da lavoratori nigeriani appena scesi un treno di ritorno dal lavoro: Sono comparsi all'improvviso dalla scala di accesso al marciapiede, a torso nudo e con le magliette che gli coprivano le spalle. Lui tirò fuori un coltello: "Sei nero, e noi voglio ucciderti."
Un uomo lasciò la bicicletta e lo zaino in un sottopassaggio, e i cacciatori dissero che l'avrebbe ucciso per il colore della sua pelle. Continuavano a minacciare.
Escalation preoccupata
I due entrarono nella piattaforma con biciclette e zaini. In risposta all'invito del nigeriano a restituire la refurtiva dall'altra parte della stazione, hanno gettato la refurtiva tra i binari e hanno tagliato le gomme delle loro biciclette con i coltelli. Tutti finirono i loro video e li pubblicarono sui social network. La mattina dopo stavano passeggiando a Bernaleggio quando li presero i Carabinieri Jordan and Traffic Elia di Genova, in realtà un L'artista romano di 26 anni noto come Area 17 Baby, è stato arrestato per tentato omicidio. pugnalato e rissa su una spiaggia della costa di Olbia la notte del 14 agosto. È stato rintracciato in un albergo di Porto Cervo nella stanza di un amico. Quella notte ferì gravemente un 35enne di Sassari, ora a rischio paralisi e ricoverato in ospedale
Faida tra Simba La Rue e Baby Touche
È stato il peggiore degli attacchi col coltello dello scorso giugno Mohamed Lamine Saidaalias Trap Simba La Ruee la Francia Cresciuto tra l'Italia e vive in Francia e Italia, Lombardia in Lecco. Il primo mini-album dell'etichetta Warner e già più conosciuto di Jeffrey Baby e Traffic. Il rivale di andata e ritorno di Baby Touché, il cui vero nome è Amine Amagour nato in Marocco residente a Padova. Dopo che la loro "banda" si è scontrata, costretta a salire su un'auto e picchiata da diverse persone, è stato Touché a mostrare la sua faccia insanguinata sui suoi social network. L'uscita del video ha portato visibilità a Baby Touché,mi è piaciuto e le visualizzazioni sono aumentate alle stelle, ma c'era anche la minaccia di ritorsioni per il famigerato atto.ha poi pugnalato il rivale Simba, e la banda ha subito nove arresti nel frattempo. Negato l'ingresso a "senza apparentemente alcun effetto positivo". da superare). Questi sono i numeri virali dei video e dell'esposizione sociale di cui poche persone vivono e pagano le bollette. Nessun grande successo record. Non ci sono premi o tour al sacco (come in Fedez, Sfera Evasta e Maracache). Non fermarti, come vogliono i loro seguaci. E questo non è morale. è un'estate di faide e attività criminali tra coloro che vivono nell'ombra del genere musicale.
(ANSA il 5 ottobre 2022) – Il gip di Milano Guido Salvini ha disposto il processo con rito immediato per Simba La Rue, all'anagrafe Mohamed Lamine Saida, rapper di 20 anni con centinaia di migliaia di follower su Instagram, e per altri 8 giovani della sua ' crew', arrestati lo scorso luglio nell'ambito di una indagine della Procura di Milano su una "faida" tra due gruppi di 'trapper', iniziata a parole a fine 2021 e che si è tirata dietro una scia di sangue fino a qualche mese fa.
Il giudice, che ha accolto la richiesta del pm Francesca Crupi, ha fissato il processo davanti al Tribunale per il prossimo 24 novembre. Gli imputati ora possono scegliere se chiedere riti alternativi o affrontare il dibattimento. Tra gli episodi contestati il sequestro del suo 'rivale', il rapper Baby Touche', avvenuto il 16 giugno.
Simba, poco prima aveva subito un agguato ed era stato ferito gravemente a coltellate ad una gamba a Treviolo, provincia di Bergamo. E poiché necessita di cure ai primi di settembre, su richiesta della difesa, è stato scarcerato dal Tribunale del Riesame.
Simba La Rue-Baby Touché, aggressioni e sequestri nella faida tra i due gruppi di trapper: 9 arresti. Manuela Messina su La Repubblica il 29 luglio 2022.
Operazione dei carabinieri di Milano tra Bergamo, Como e Lecco: "Nelle bande regole di omertà". Coinvolta anche una ragazza: doveva "sedurre" i rivali per farli cadere negli agguati. Il gip: "spirale di violenza inarrestabile"
Dovevano vedere tutti che cosa erano capaci di fare. Ecco perché il sequestro di Mohamed Amine Amagour, alias Baby Touché, avvenuto lo scorso giugno, è stato ripreso e pubblicato su Instagram. Senza nessun ripensamento, senza alcuna valutazione delle conseguenze di quel gesto. Ancora più importante era il riconoscimento pubblico della pericolosità di un gruppo rispetto ai rivali, la certificazione social della propria capacità di prevaricazione.
Lo scrive anche il gip di Milano Guido Salvini, che ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare in carcere per 9 persone tra cui il rapper Simba La Rue. "Un tratto essenziale delle azioni di questi gruppi è contraddistinta dalla 'spettacolarizzazione' delle stesse, prima esaltate nei brani musicali e poi, quando concretamente avvengono sono riprese, girando dei veri e propri film mediante i cellulari, da chi vi partecipa e diffuse con commenti entusiastici sui social network". Da qui si deve partire per comprendere le vicende che hanno portato ai nove arresti di stamattina avvenuti tra Bergamo, Como e Lecco. Erano stati richiesti dalla pm Francesca Crupi, titolare dell'indagine condotta dai carabinieri della compagnia Duomo.
Nelle perquisizioni di stamani a casa di Simba, che vive nel comasco insieme ai genitori, è stata trovata anche una pistola calibro 6.35 modificata, con matricola abrasa e con in canna quattro proiettili. L’arma si trovava nella sua camera. A casa di un altro membro della crew di Simba, Ndiaga Faye, sono stati trovati anche 200 grammi di hashish.
"Era tutto uno scherzo, una finzione", ha detto il trapper ai carabinieri dal letto di ospedale a Lecco dove si trovava dopo l’agguato del giugno scorso. Segno che, come spiegano i carabinieri, non ha "minimamente compreso" il disvalore delle sue azioni. "Non capisco perché state esagerando - ha detto ancora ai militari - nessuno ha mai denunciato". Il trapper è stato dimesso questa mattina e portato in carcere a San Vittore.
Come nasce la rivalità tra i gruppi dei rapper Simba La Rue e Baby Touché
Quella tra i due gruppi guidati dai trapper Simba La Rue e Baby Touché è una rivalità che va avanti da mesi. Due crew governate, scrivono i carabinieri, "da regole di fedeltà reciproca e di omertà" e che si sono rese protagoniste di "reiterati episodi di violenza" che hanno travalicato "l'aspra conflittualità determinata dalle rivalità nella diffusione delle rispettive produzioni musicali". Anche Simba, infatti, a metà giugno subì un agguato e fu ferito a coltellate a Treviolo, nella Bergamasca. Subito dopo quell'episodio, mentre sui social veniva evocato il suo nome, Baby Touché pubblicò un video sul suo profilo Instagram per dissociarsi: "Io faccio musica non la guerra", il messaggio. Su quest'ultimo caso indagano i pm di Bergamo.
Arrestati trapper a Milano, quando Baby Touché si giustificava sui social: "Faccio musica, non la guerra"
Così Baby Touché è stato sequestrato e picchiato. Ma il trapper: "Era solo per farci pubblicità"
L'episodio più significativo riportato nell'ordinanza eseguita oggi avviene a giugno. Per due ore Amagour aka Baby Touché è stato nelle mani del rivale Simba La Rue e di altri tre giovani rapper, e compare in dei video sui social con il volto tumefatto mentre viene preso in giro dai suoi sequestratori. Era stato accerchiato nei pressi di via Boifava a Milano, colpito a calci e pugni e infine caricato su una Mercedes Classe A. Viene liberato in un paese del lecchese, dopo la gogna pubblica.
"Siamo in normali rapporti. Con lo stesso abbiamo inscenato una finta faida fra di noi per fare spettacolo e per farci pubblicità". Così ha messo a verbale Baby Touché, negando davanti agli investigatori di essere stato sequestrato e picchiato. "I video che sono stati pubblicati da me e da quelli che erano in macchina con me su Instagram - ha aggiunto il giovane - sono stati realizzati da me e dagli stessi ragazzi con cui ero in compagnia mentre eravamo a Milano. Preciso di aver incontrato Simba La Rue a Milano poco prima e nello stesso luogo da dove sono partito per venire a Calolziocorte (...) Ribadisco di non essere stato mai in pericolo e di non essere stato costretto da nessuno a fare alcunché contro la mia volontà". Per il gip di Milano Guido Salvini è "evidente che le menzogne riferite da Baby Touché siano finalizzate a non fare emergere l'esistenza di una faida tra le due bande nell'ambito della quale lui stesso è coinvolto per la commissione di gravi fatti di sangue". Una faida basata anche su un "meccanismo pubblicitario costruito intorno ai comportamenti e alle azioni delle bande, attraverso le canzoni, i video e i social network" che "punta all'imitazione e alla glorificazione delle azioni delittuose moltiplicando gli effetti pericolosi".
Milano, guerra fra trapper: il video del rapimento di Baby Touché
Dalla faida in musica alla rissa e alle rapine in strada
Un altro episodio risale allo scorso marzo e riguarda invece la rapina di un portafogli e di un telefono. Un fatto che viene inserito dal gip nei "regolamenti di conti tra bande che negli ultimi mesi si erano contraddistinti per violenza, anche a causa dell'uso delle armi e della spettacolarizzazione dei fatti criminosi che appunto vengono quasi sempre pubblicati - con tanto di video e foto dell'accaduto - sui profili Instagram degli stessi".
Erano le 2.40 di notte e da una prima ricostruzione le due vittime, Akrem Ben Haj Aouina (molto vicino al trapper Baby Touché) e Thomas Calcaterra, insieme ad altre due ragazze, erano appena usciti da un bar in via Panfilo Castaldi, in zona Porta Venezia a Milano. Poco prima di incamminarsi verso via Settala vengono intercettati da un "folto" gruppo di ragazzi travisati e colpiti "con calci, pugni, fendenti di arma da taglio - nella specie un coltello". Aggrediti, vengono loro infine sottratti portafogli e telefono.
Nell'ordinanza milanese vengono riportate le intercettazioni autorizzate nell'ambito di un'altra indagine per droga della Questura di Lecco. "Figa gli ho tirato un pugno che mi sa che l'ho aperto tutto", dice uno degli aggressori all'amico che è con lui in macchina poco dopo l'agguato di via Settala. "Hai fatto bene", gli risponde l'altro.
La faida tra rapper, la ragazza che doveva "sedurre" i rivali e farli cadere negli agguati
Proprio da queste intercettazioni telefoniche si evince il ruolo dell'unica ragazza che compare tra gli arrestati di oggi, di appena 20 anni. E' proprio lei - si legge nel provvedimento - che viene "incaricata di attirare la vittima Aouina con la scusa di un appuntamento galante (...) al fine di rendere possibile l'agguato ai suoi danni". Dalla carta si evince che per comunicare ai suoi amici, che avevano già in programma l'aggressione, la posizione esatta, aveva condiviso la posizione di Whatsapp per 8 ore in modo che si potesse "monitorarla per tutta la durata dell'appuntamento". Dietro i capelli, è un altro dettaglio riportato dal giudice, nascondeva anche una cuffia bluetooth per poter "aggiornare il gruppo di assalitori in diretta senza dovere perdere tempo a mandare messaggi che avrebbero potuto insospettire" la vittima".
All’agguato avrebbe partecipato anche un 17enne ivoriano per il quale si procede separatamente con la Procura dei minorenni e infatti altre perquisizioni sono avvenute stamane all’istituto penitenziario minorile Beccaria. Il ragazzo, infatti, era già in istituto per via di una precedente con condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione per estorsione, atti persecutori e minacce. Proprio questa rapina sarebbe da ricondurre, a sua volta, a una precedente aggressione avvenuta il 14 febbraio ai danni di un membro della banda di Simba La Rue, alla stazione di Padova. Il giovane sarebbe stato accerchiato e malmenato e su questa vicenda indagano gli inquirenti padovani.
Il gip: "Spirale di violenza inarrestabile. I follower pensano che i crimini siano normali e si schierano"
I giovani "che aggrediscono, nel giro di pochi giorni diventano quelli aggrediti, in una spirale di aggressioni-ritorsioni-aggressioni che si autoalimenta e che non appare altrimenti arrestabile e che con il passare del tempo produce crimini sempre più cruenti e pericolosi". Lo scrive il gip di Milano Guido Salvini nell'ordinanza sui 9 arresti per la guerra tra bande di trapper.
Tutto il "meccanismo pubblicitario costruito intorno ai comportamenti e alle azioni delle bande, attraverso le canzoni, i video e i social network", spiega il giudice, "punta all'imitazione e alla glorificazione delle azioni delittuose moltiplicando gli effetti pericolosi delle azioni stesse". La "dimensione sociale" in cui si muovono li ha portati "a una totale astrazione dalla realtà, che impedisce loro di percepire il disvalore ed il peso delle azioni criminose" e questa "continua sfida ad alzare sempre la posta in gioco, le continue ed improvvise ritorsioni, imprevedibili e 'spettacolari', sono ormai fortemente pericolose per la sicurezza pubblica" in una "dinamica di 'giustizia privata', realizzata con armi, minacce sui social, avvertimenti ed aggressioni spettacolari".
Il fatto che "gli autori dei reati, e più in generale, gli appartenenti alle bande rivali, siano molto conosciuti e seguiti sui social network", dove annunciano anche "i prossimi 'obiettivi', rischia di portare numerosi ragazzi anche di giovanissima età a considerare 'normali' le azioni criminose poste in essere dagli esponenti delle gang". I follower hanno "seguito con coinvolgimento le evoluzioni della faida e hanno creato delle vere e proprie 'fazioni' di sostegno all'uno o all'altro gruppo, scontrandosi nei commenti e alzando ancor di più il livello di scontro".
«Mi ha offeso, io l’ho umiliato»: così è cominciata la faida tra i trapper Simba La Rue e Baby Touché. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022.
Simba La Rue nega il sequestro del rivale. «Era una strategia mediatica, Touché è entrato in macchina di sua spontanea volontà». Ammette però di essersi procurato una pistola.
«Un giorno ero in corso Como con la mia ragazza e sono stato umiliato pubblicamente da questi ragazzi, mi hanno lanciato sassi e fatto un video, da lì è iniziato tutto». Così il trapper Simba La Rue, nome d’arte di Mohamed Lamine Saida, finito a San Vittore per l’aggressione e il sequestro di persona di Baby Touché, spiega l’avvio della faida con il rivale. Una guerra iniziata l’inverno scorso. Dopo l’umiliazione «ci sono stati vari dissidi sui social» racconta il 20enne italo-tunisino, l’ultimo ad essere ascoltato tra i nove arrestati. «Poi un mio amico, Gapea, è andato a Padova per cure mediche della madre e ha chiamato questo trapper per chiarire che non aveva intenti bellicosi. Touché non si è presentato ma si è presentata una torma di persone, è stato umiliano anche Gapea, è stato pure accoltellato». Da lì «è tutto degenerato, noi abbiamo fatto questa specie di vendetta contro un ragazzo che c’era durante l’aggressione del mio amico e cioè Akrem. Gli abbiamo fatto questa specie di trappola con l’aiuto anche della ragazza Sara e lo abbiamo aggredito. Ho girato io un video dell’aggressione».
I dissidi sono continuati fino al 9 giugno scorso, quando nel riaccompagnare un amico a casa, in zona Barona a Milano, incrociano per caso Touchè. «Sono andato lì da lui — racconta Simba La Rue — e gli ho detto di fare uno scontro fisico uno contro uno. Ma lui è più esile di me, ci siamo picchiati, io sono più forte e quindi mi sono fermato e gli ho detto che visto che lui mi aveva umiliato ora toccava a lui. Touché è salito in macchina ma il manager Mounir (Chakib Mounir detto Malippa, ndr) non voleva essere coinvolto e voleva che si chiarisse tutto prima di entrare in macchina. Sottolineo che Touché è entrato in macchina di sua spontanea volontà, io non l’ho sequestrato ». Il filmato pubblicato su Instagram dove il trapper padovano si scusa per i dissing contro il rivale e il 20enne lo apostrofa sarebbe dunque frutto di un accordo, non di un sequestro di persona. «Era tutta una cosa mediatica, ci siamo messi d’accordo anche perché Touchè era interessato a sfruttare mediaticamente il video. Abbiamo anche programmato di far uscire una canzone insieme». Una collaborazione musicale mai iniziata: il 15 giugno Simba La Rue viene accoltellato a Treviolo, alle porte di Bergamo. Un’aggressione di cui porta ancora i segni — è arrivato in tribunale con le stampelle —— e che nonostante un prossimo intervento chirurgico potrebbe lasciare un danno permanente alla gamba destra.
«Non so da chi sono stato ferito vicino a Bergamo, erano tutti bardati, erano circa 6 o 7. Molto probabilmente erano amici di Touchè. È successo tutto proprio sotto casa della ragazza con cui ero di notte. Ho cercato di salire in macchina inutilmente» ha raccontato Simba La Rue al gip di Milano Guido Salvini che lo ha interrogato per circa due ore. Assistito dall’avvocato Niccolò Vecchioni, il giovane non nuovo ai guai con la giustizia (risulta ammesso al regime della messa alla prova in un procedimento penale davanti al Tribunale per i minorenni per una rapina ) ha ammesso di essersi procurato una pistola, dopo l’aggressione, trovata e sequestrata il giorno dell’arresto. «La pistola l’ho presa io, con qualche proiettile, dagli zingari quando sono uscito dall’ospedale per paura di nuove aggressioni. Ho fatto una grande cavolata, è stata la prima e ultima pistola che ho preso». Il difensore ha chiesto per lui la revoca della custodia cautelare in carcere.
Le ordinanze tra Como, Lecco e Bergamo. Milano “zona di guerra”, nove arresti nella faida dei trapper Simba la Rue e Baby Touché. Vito Califano su Il Riformista il 29 Luglio 2022.
Guerra tra bande, raid e violenze, perfino un sequestro di persona e una ragazza utilizzata come una sorta di esca per attirare i rivali in trappola. Il gip di Milano Guido Salvini ha firmato un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito delle indagini sullo scontro tra due bande nell’orbita del mondo hip hop e trap nel milanese: una faida senza esclusione di colpi tra il gruppo istituitosi intorno a Simba La Rue e quello di Baby Touché. Le ordinanze hanno raggiunto nove persone, quattro italiani e cinque stranieri tra Bergamo, Como e Lecco. A vario titolo accusati di sequestro di persona, rapina e lesioni aggravate.
Le indagini sono state svolte dalla Compagnia Carabinieri Milano Duomo e coordinate dalla pm Francesca Crupi dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano. Secondo le indagini i gruppi erano governati “da regole di fedeltà reciproca e di omertà”, protagonisti di “reiterati episodi di violenza” che hanno superato più volte e di parecchio i limiti di una “aspra conflittualità determinata dalle rivalità nella diffusione delle rispettive produzioni musicali”. Una spirale di violenza senza senso e senza soluzione di continuità tra ragazzi appena ventenni esplosa lo scorso febbraio (ma le tensioni erano in corso da oltre un anno) dopo un confronto verbale degenerato nei mesi successivi a colpi di ritorsioni e aggressioni.
L’episodio più clamoroso ha interessato lo stesso Baby Touché, nome d’arte di Mohamed Amine Amagour, diciannovenne di origini marocchine, residente a Padova, che lo scorso 9 giugno era stato prelevato, praticamente sequestrato in un’auto per due ore da un gruppo di quattro rivali, con gli smartphone a riprendere due ore di violenze. Il trapper fu picchiato, umiliato nei contenuti caricati sui social, inquadrato con il volto tumefatto mentre veniva sbeffeggiato. Baby Touché sarebbe stato accerchiato nei pressi di via Boifava a Milano, colpito a calci e pugni e caricato su una Mercedes Classe A. Dopo le violenze era stato rilasciato a Calolziocorte, in provincia di Lecco.
Simba La Rue, nome d’arte di Mohamed Amine Amagour, classe ’99, di origini tunisine, cresciuto tra la Francia e l’Italia ma di stanza a Lecco, che è stato raggiunto da un provvedimento, a metà giugno era stato invece vittima di un agguato a Treviolo, ferito a coltellate, episodio sul quale indagano i pm di Bergamo. Subito dopo Baby Touché aveva pubblicato un video per dissociarsi da quell’aggressione: “Io faccio musica non la guerra. Voglio fare la musica non voglio fare la strada. Sono Touché il cantante, non Touché il criminale”. Altro episodio nella spirale di violenza lo scorso marzo in zona Porta Venezia a Milano, quando intorno alle 2:40 Akrem Ben Haj Aouina (molto vicino a Baby Touché) e Thomas Calcaterra, in strada insieme ad altre due ragazze, erano stati raggiunti da un gruppo di ragazzi travisati e colpiti “con calci, pugni, fendenti di arma da taglio – nella specie un coltello”. Le vittime erano state aggredite e derubate dei loro portafogli e telefoni.
Dalle intercettazioni era emerso anche il ruolo di una ragazza di 20 anni, tra gli arrestati di oggi, “incaricata di attirare la vittima Aouina con la scusa di un appuntamento galante”. La giovane tramite un auricolare Bluetooth nascosto tra i capelli aggiornava “il gruppo di assalitori in diretta senza dovere perdere tempo a mandare messaggi che avrebbero potuto insospettire la vittima”. Un ruolo da infiltrata, una spia sotto copertura. “Comunque a Milano, se dobbiamo girare, stiamo attenti perché adesso siamo entrati in una zona di guerra”, si ascoltava in un’altra intercettazione.
La spirale di violenza era in presa diretta diffusa sui social dagli stessi protagonisti di una faida efferata quanto insensata, un atteggiamento che “punta all’imitazione e alla glorificazione delle azioni delittuose moltiplicando gli effetti pericolosi delle azioni stesse”. Secondo quanto scritto dal gip Salvini nell’ordinanza tutti i coinvolti si sarebbero mossi in una “totale astrazione dalla realtà, che impedisce loro di percepire il disvalore ed il peso delle azioni criminose” e questa “continua sfida ad alzare sempre la posta in gioco, le continue ed improvvise ritorsioni, imprevedibili e ‘spettacolari’, sono ormai fortemente pericolose per la sicurezza pubblica” in una “dinamica di ‘giustizia privata’, realizzata con armi, minacce sui social, avvertimenti ed aggressioni spettacolari”.
Spesso le azioni erano perfino annunciate via social, dichiarazioni che rischiavano anche “di portare numerosi ragazzi anche di giovanissima età a considerare ‘normali’ le azioni criminose poste in essere dagli esponenti delle gang”. A provarlo le fazioni che si erano create in rete a sostegno di una parte o dell’altra, e che spesso arrivavano allo scontro diretto nei commenti.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2022.
Vent'anni compiuti a giugno. Studi liceali e da settembre l'iscrizione a Giurisprudenza, zero esami dati ma un'aspirazione: «Vorrei diventare magistrato». Tra i tanti, un tatuaggio sotto l'ombelico, suo grande vanto: scritta «Bijoux». Appartamento senza porte alle camere in una vecchia corte del Lecchese, un fratello maggiore che sgobba, impiegato in un'agenzia immobiliare, la mamma operaia, italiana, che fa altrettanto, il papà, nordafricano, pregiudicato, perditempo, ludopatico. Una nonna vicina di casa, adorata: quando il maresciallo Giada Moschetti, di sette anni maggiore, reduce dall'esperienza a Pioltello, satellite multietnico dell'hinterland di Milano, ha accompagnato l'arrestata Sara Ben Salha verso la macchina dei carabinieri, lei ha visto quell'anziana e ha pianto. Il primo e ultimo attimo di cedimento.
Alle 5.30 l'ora dell'ingresso nell'abitazione del maresciallo, accompagnato da un collega; a mezzogiorno il superamento del cancello del carcere di San Vittore. E in questo lasso temporale Sara, fidanzata di un elemento della gang, accusata d'aver «sedotto» i rivali consentendo ai complici l'organizzazione di agguati (auricolari nascosti per trasmettere in tempo reale le conversazioni), incensurata ma apparsa solida nella sua essenza criminale, ecco Sara mai s' è lamentata, mai ha protestato o manifestato insofferenza. Per tacere delle preoccupazioni di finire, chissà per quanto, in galera: «Vediamo com'è».
Ora, se non è stata casuale la scelta di affidare al maresciallo l'operazione della cattura - una donna peraltro quasi coetanea -, non risulta invece «costruito» il comportamento con l'indagata della stessa Giada Moschetti. Che al Corriere racconta: «Ha letto le imputazioni e ha ammesso le colpe. Si è confidata. Posso raccontare alcuni particolari: ha spiegato le problematiche relative al padre, e l'atteggiamento della mamma che non se la sente di allontanarlo.
Quell'uomo "le fa pena", ha detto Sara, e privato della famiglia precipiterebbe ancora di più. Da parte mia, ho sottolineato quanto questa caduta, dura, durissima, possa essere un'occasione per riprogrammare il futuro. Prendersi cura della propria vita. Compiere delle scelte. Non si scappa dalla realtà, ma la si può utilizzare per tornare a respirare».
Vero, il pentimento. L'accettazione delle conseguenze. Ma è della ragazza la voce intercettata che ricordava, in relazione all'agguato di Porta Venezia: «Il suo sangue, volevo spalmarmelo il suo sangue di m...». Ed è di nuovo Sara che si ingegnava per depistare i carabinieri fornendo una testimonianza errata, alterando i fatti e le descrizioni, e poi, orgogliosa, ne dava conto ai sodali per dimostrare che il suo l'aveva fatto. E bene. Vedremo l'iter giudiziario; vedremo i giorni da detenuta; intanto Sara, che nel viaggio ha dedicato riflessioni a progetti estetici (i capelli, le unghie, le labbra), ha ammesso che non immaginava la «trasformazione» delinquenziale della gang. Impossibile però che ne ignorasse il passato, o che, incaricata di trasformarsi in esca, non abbia pensato alle finalità dell'azione. Ed era lei, recita da attrice e calma da sbirro, che derideva due della banda opposta: lì, in strada, le avevano domandato se stesse bene, preoccupati si fosse ferita nella rissa della quale, invece, la ventenne aveva permesso la genesi.
Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2022.
Una faida permanente. La musica come bandiera, gli agguati da filmare e immettere in tempo reale sui canali social, le ragazze arruolate per sedurre i rivali e agevolare gli agguati dei complici. Educazione criminale di ventenni italiani e stranieri, in maggioranza residenti nell'inquieta provincia lombarda, specie nei paesi del Lecchese.
I nove arresti firmati all'alba di ieri dal Comando provinciale dei carabinieri di Milano non raccontano soltanto lo scontro in atto - rapine, pestaggi, accoltellamenti, sequestri di persona - tra la banda capeggiata da Mohamed Lamine Saida, in arte «Simba La Rue», e quella avente a capo Mohamed Amine Amagour alias «Baby Touché», entrambi noti trapper.
Lame e spade. Come evidenziato nell'ordinanza del gip Guido Salvini, magistrato esperto, dentro la realtà, e dunque non avvalendoci di semplificazioni mediatiche, «le violenze si ispirano in qualche modo ai tumulti delle banlieu francesi».
Un paragone appunto spesso sprecato. Non questa volta.
Che non è la prima - la faida è esplosa nel 2021 - né, forse, sarà l'ultima. Si attendono altri adepti, altri attacchi, anche se le catture hanno di fatto azzerato la banda di Saida, lui per primo in cella, e hanno fornito agli inquirenti materiale per acquisire ulteriori elementi.
Due gli episodi genesi di queste indagini: la rapina di un portafoglio e un cellulare con calci, pugni, fendenti di armi da taglio e una soverchiante superiorità numerica, lo scorso primo marzo a Milano, nella zona dei locali di Porta Venezia; e la prigionia subìta il 9 giugno da Amagour, ovvero «Baby Touchè», catturato dai nemici - muniti perfino di spade - in periferia, sempre a Milano, trasferito su una Mercedes classe A con targa svizzera, lì sopra vittima di minacce, pugni e derisioni, ripreso sanguinante, gonfio di paura, infine «pubblicato» online cosicché il pubblico di «Simba la Rue» godesse dello spettacolo e inviasse a ripetizione dei «like».
Vendette e anti-Stato. «Frate, oggi abbiamo rischiato di brutto, se io portavo la pistola... abbiamo sfiorato l'arresto bro...». Le intercettazioni riportano la disponibilità di armi da parte delle bande, l'abitudine a tenersele addosso nella quotidianità, l'assenza di esitazioni o timori nel manovrarle. Quando, in un'altra intercettazione, si prospetta l'imminenza di una «guerra» contro la gang avversaria, non sembrano affatto parole in libertà di ragazzi che si ritrovano a bere e scherzare. Al contrario, il denso scenario criminale incontra una netta conferma nella diffusa omertà, nella «regola» di non dialogare per nessun motivo con i carabinieri, insomma nel rifiuto d'avere per interlocutori rappresentanti dello Stato.
Ogni episodio della faida, compresi i più sanguinari, sono affari personali, interni alla gang: non si domanda mai aiuto. Dunque, non si collabora mai. Sentite la narrazione di «Baby Touché» in relazione al sequestro: «"Simba La Rue"? Lo conosco da tempo e siamo in normali rapporti. La faida? Una finta faida tra di noi per fare spettacolo e farci pubblicità. I video della prigionia? Realizzati da me e dai ragazzi con cui ero in compagnia. Ribadisco di non essere mai stato in pericolo e di non essere stato costretto a fare alcunché contro la mia volontà...». Il 16 giugno, una settimana dopo l'aggressione a «Baby Touché», l'altro trapper, «Simba La Rue», è stato accoltellato in provincia di Bergamo. Sui social la rivendicazione è stata firmata proprio da un soldato di «Baby Touché».
La 20enne coinvolta in una faida tra trapper. Sara Ben Salha: “Ho incontrato Alessia Pifferi in carcere, non è un mostro ed è sola al mondo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Agosto 2022
Sara Ben Salha, 20 anni, è ai domiciliari da mercoledì 3 agosto dopo essere stata arrestata insieme ad altri otto coetanei nell’ambito dell’indagine sul collettivo del trapper lecchese Simba La Rue, arrestato anche lui, soprattutto in merito alla violenta faida con la crew del padovano Touché, in cui Ben Salha ha avuto il ruolo di “esca”. La giovane, infatti, è stata arrestata per avere attirato con la scusa di un “appuntamento galante” Akrem Ben Haj Aouina, amico di Touché, poi accoltellato.
Una brutta vicenda di faide tra bande rivali in cui è finita anche la 20enne che ammette le sue colpe e chiede scusa: “Ho fatto da esca per quel ragazzo, lo ammetto, gli chiedo scusa nel modo più sincero. Non mi aspettavo che lo avrebbero accoltellato, pensavo che volessero soltanto spaventarlo. Mi sono lasciata trascinare, ammetto le mie colpe, se devo pagare con altro carcere lo accetterò”, ha detto in una lunga intervista a Repubblica.
Sara ha passato alcuni giorni a San Vittore dove ha incontrato Alessia Pifferi, la 36enne in carcere per aver lasciato la sua bambina di 18 mesi da sola per 6 giorni. La piccola è morta di stenti. La cella di Alessia era di fronte a quella di Sara che ha potuto parlarle a lungo in quelle ore di attesa in carcere. “Ognuna ha raccontato la sua storia all’altra – ha detto Sara nell’intervista a Repubblica – Lei si è aperta molto con me, non nega assolutamente le sue colpe, soffre molto. L’ho sentita piangere tutto il giorno, sdraiata in silenzio a guardare il soffitto. Non è un mostro ed è sola al mondo, la famiglia le ha voltato le spalle, il compagno è sparito, le altre detenute la odiano. Ho provato tanto dispiacere quando l’ho salutata, le ho assicurato che le avrei scritto e lo farò. Lei pagherà a vita il prezzo di ciò che ha fatto, quindi anche lei merita una spalla su cui piangere. Il carcere mi ha insegnato a non giudicare le persone solo con l’apparenza”.
La ragazza nella faida tra i giovani trapper avrebbe avuto il ruolo di “esca”, accettato per vendicare l’amico, membro del gruppo di Simba e anche lui arrestato, Fabio Carter Gapea, vittima di un agguato alla stazione di Padova lo scorso febbraio. “Quel giorno lui voleva solo parlare con i ragazzi di Touché ma è stato accerchiato e aggredito, ha rischiato di finire in carrozzina per via delle coltellate, lo ha salvato la giacca che indossava. Da lì è partito tutto. Io volevo molto bene a Gapea e ho deciso di fare questa vendetta insieme agli altri – spiega Ben Salha – Ma io l’avevo detto ai ragazzi la sera dell’agguato ad Akrem di non usare i coltelli, di non fargli del male, ci sono le intercettazioni che lo provano. Non mi hanno ascoltata. Ho le mie colpe, ovviamente potevo anche aspettarmelo che quello non era solo un modo per spaventarlo ma che avevano altre intenzioni, sono stata io una ingenua a fidarmi della loro parola”.
La ragazza ha parlato anche del gruppo di Simba e di Touché: “Sono tutti giovani che vogliono solo vivere la loro vita, qualcuno prova a farsi valere tramite le canzoni, ma nessuno di loro è un vero criminale – ha detto – Sia Simba che Touché sono entrati nei loro personaggi senza pensare alle conseguenze, prendendo spunto dai cantanti americani che certe cose le hanno fatte davvero. Ma se uno di questi ragazzi fosse morto durante la faida, ne avrebbero sofferto tutti”, conclude la 20enne, che già prova a guardare avanti. “Sono iscritta a giurisprudenza, vorrei diventare magistrato, il gip Guido Salvini durante l’interrogatorio mi ha detto di non darmi per vinta, che ci sono magistrati che hanno avuto un passato difficile. Non so quanto sarà possibile realizzare questo sogno, ma io ci proverò”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Sparatoria a San Siro, condannato a 2 anni e 3 mesi il rapper «24K». Otto anni a Carlo Testa. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.
Stando alle indagini, sarebbe stato il 51enne pregiudicato a ferire gravemente un 26enne egiziano che rischiò di morire, ma il vero obiettivo doveva essere il rapper. In precedenza c’era stata un’escalation di violenze.
È stato condannato a 2 anni e 3 mesi Islam Abdel Karim, il rapper 32enne noto come Kappa 24K», arrestato il 4 febbraio e accusato di «detenzione e porto sulla pubblica via di arma da sparo ed esplosione in aria di più colpi» in «luogo pubblico affollato» per aver preso parte alla sparatoria dell’8 gennaio in piazza Monte Falterona, quartiere San Siro a Milano. Lo ha deciso il gup milanese Tiziana Gueli, che nel processo con rito abbreviato ha anche condannato a 8 anni di reclusione il pregiudicato per fatti di droga Carlo Testa, 51 anni e finito in carcere per tentato omicidio. Entrambi gli imputati sono ancora detenuti ed erano presenti in aula.
Sarebbe stato Testa, stando alle indagini della Squadra mobile e del pm Stefano Civardi, a ferire gravemente un 26enne egiziano (il ragazzo rischiò di morire, con due pallottole rimaste nel corpo all’altezza dell’arteria femorale), ma il vero obiettivo doveva essere proprio «24K». Per Testa, difeso dal legale Niccolò Vecchioni, la Procura aveva chiesto 10 anni, ma il giudice ha escluso l’aggravante dei futili motivi. E per «24K», difeso dall’avvocato Robert Ranieli, il pm aveva chiesto 2 anni e 8 mesi. Le difese hanno annunciato che ricorreranno in appello (le motivazioni del verdetto tra 90 giorni). La sparatoria era seguita ad un’escalation di violenze che avevano visto contrapposti due gruppi di rapper, quelli di San Siro e quelli di piazza Prealpi. Tra i motivi della lite gli sfottò tra le due crew sul web, il cosiddetto dissing (gara d’insulti), ma anche, pare, la spartizione dei compensi dalle case discografiche.
Testa, secondo le indagini, avrebbe cambiato fronte passando al gruppo antagonista di piazza Prealpi (diverso da quello di «24K» e altri), di cui farebbero parte anche i rapper Rondo da Sosa, Simba la Rue e Keta, anche loro noti alle cronache. Un testimone aveva messo a verbale che poco prima della sparatoria uno dei rapper in una videochiamata aveva detto: «Venite qui, siamo in piazza Falterona, vi sparo in faccia». Intercettato l’11 gennaio scorso, «24K» diceva: «Se lo becco io prima che lo trovano le forze dell’ordine (riferendosi a Testa, ndr) lo mando in coma (...) a me viene a fare questo (...) mi fai l’agguato con trenta persone, figlio di p..., infame».
La difesa chiedeva che il rapper venisse assolto «per non aver commesso il fatto», perché avrebbe usato una «pistola ad aria compressa, di quelle che usa spesso nei suoi video musicali». Il legale di Testa, dal canto suo, aveva evidenziato che dai filmati acquisiti delle telecamere puntate sulla piazza si vedeva che quella sera Testa scese dalla macchina e fu subito accerchiato da «10-15 persone» del gruppo rivale. Almeno tre di queste, secondo la versione dell’imputato, erano «armate», lui riuscì a disarmarne una e sparò tre colpi «per difendersi» e uno di questi colpì l’egiziano, che «faceva parte degli aggressori».
Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.
Nel 2011 Marracash esce con un pezzo che si chiama rapper/criminale. Il senso: cantanti e malandrini non si devono confondere, ognuno deve coltivare il suo "talento". Er Gitano, rapper (e non solo) di Torbella, sente la canzone, prende la macchina e va a Milano. Cerca Marracash: si è sentito chiamato in causa e vuole spiegazioni.
Fuori a un bar trova Caneda, altro rapper milanese. Che, nonostante le minacce, non sgancia il cellulare del collega della Barona. La missione punitiva finisce negli archivi di Youtube, a scopo pedagogico. Per la cronaca: l'anno dopo Er Gitano si spara un colpo di pistola in testa dopo una lite con la fidanzata.
Erano altri tempi: negli Anni Dieci c'era già la mania per il "gangsta rap" (genere molto americano), ma gli interpreti si limitavano a descrivere episodi di vita di strada, senza doverli necessariamente vivere. Poi è successo qualcosa: è arrivata la trap. Che non è soltanto un sottogenere musicale (diventato dominante), ma uno stile di vita.
C'entra sempre il modello americano. La definizione "trap" deriva dalle "trap house" di Atlanta, topaie dove si smerciava roba e ci si faceva. Un narcos più illuminato di altri decise di ripulire i soldi della droga fondando un'etichetta discografica. Il resto è venuto da sé.
La cifra stilistica della trap? L'utilizzo di una vecchia batteria programmabile della Roland, la 808, l'autotune per correggere le stonature e, ovviamente, i testi. Ripetitivi fino alla noia. Tipo la biografia del boss di quartiere. Che "smazza" la roba e comanda lo spaccio; che gira armato; che scopa le "pussy" dei rivali per umiliarli; che ama la mamma, in una imbarazzante riedizione del complesso di Edipo.
Dopo la trap è arrivata la "drill". La differenza sta nei contenuti: niente più episodi "happy" o intimisti, ma solo violenza e nichilismo. Negli anni sono cambiati anche gli interpreti. L'hip hop italiano è giunto alla terza (o alla quarta) generazione. Adesso è il momento dei figli degli immigrati. E non è un fatto inedito.
In Francia questa evoluzione è successa già vent' anni fa. Il rap come voce delle banlieue.
Non tanto come forma di riscatto sociale. Ma una strada (veloce) per fare soldi. Tanti soldi.
In questo c'entrano le etichette discografiche.
Che, oltre alla musica, devono vendere il personaggio. La Generazione Z ama la drill come i loro genitori impazzivano per Vasco e le loro nonne tiravano reggiseni ai Beatles. La fascinazione per il crimine è una forma di ribellismo. Non c'è pischello a Roma o sbarbato a Milano che non si pompi nella sua macchinina un pezzo trap che parli di grammi di coca tagliati o "bitchis" prese per i capelli e messe a novanta.
Dunque le Major che hanno fatto: hanno cercato gli interpreti più credibili per questo genere e li hanno trovati nelle case di ringhiera dove vivono ammassati gli immigrati. Tunisini, egiziani, marocchini, latinos. Milano in questo è avanguardia. E a Milano c'è il quartiere San Siro.
Torniamo un attimo indietro a Marracash.
Per dire che, undici anni dopo, non c'è più distinzione tra rapper e criminale. Oggi il rapper deve essere criminale. Per vendere. Avere un fascicolo giudiziario e un tot di precedenti fa curriculum. Esibire una pistola nelle storie di Instagram: dieci crediti. Respirare gli effluvi della coca che brucia sulla stagnola: venti crediti. Smerciare una panetta di fumo: trenta crediti. Commettere almeno un paio di reati mentre si gira il videoclip di una canzone: quaranta crediti.
Zaccaria Mouhib è nato a Lecco da genitori marocchini. Ha ventuno anni. E dal 2012 entra ed esce da carceri minorili e comunità educative. È conosciuto come Baby Gang e ha quasi 900mila follower su Instagram. Proprio sui social si è vantato di aver girato una parte del video della sua ultima canzone a San Vittore. Cioè, aveva un cellulare in carcere. Gli è stato sequestrato. La questura di Milano ha chiesto di sottoporre Baby Gang a «sorveglianza speciale di pubblica sicurezza». Richiesta rigettata dal Tribunale.
Sui social succedono cose. Si chiamano "biff". Partono sfottò tra rapper. Alcuni sfottò diventano minacce. Alcune minacce si trasformano in coltelli e pistole. La notte dell'8 gennaio 2022 a Milano fa stranamente caldo. Islam Abdel Karim, rapper 32enne noto come Kappa 24k, deve sistemare una certa questione con i "trap-ragazzini" di San Siro. Per la supremazia del quartiere e per i soldi delle case discografiche. Si presenta armato in piazza Monte Falterona, ma quegli altri hanno chiamato Carlo Testa, un pregiudicato 51enne per fatti di droga. Segue una sparatoria in cui viene ferito gravemente un 26enne egiziano.
Il 15 giugno Mohamed Lamine Saida, 23 anni, origini tunisine, residente nel lecchese, è parcheggiato con la fidanzata in via Aldo Moro a Treviolo. Sono le tre di notte. Dal buio esce un'ombra. Qualcuno lo sta aspettando. Si becca una decina di coltellate e finisce in prognosi riservata all'ospedale di Bergamo. È un regolamento di conti. Saida, noto come Simba La Rue, aveva "scazzato" col collega rapper padovano Amine Amagour, 19 anni, origini marocchine.
Baby Touchè (il suo nome d'arte) giorni prima era stato caricato in auto, riempito di botte e filmato. Le immagini del pestaggio sui social. Ovviamente. Infine c'è un altro caso: Napoli. Dove il fenomeno Gomorra ha ispirato un'intera generazione di trapper. Tutti con il video girato nelle Vele, tutti che si dicono originari di Secondigliano, per vantare un pedigree criminale, pure se non lo sono.
Cosa che non fa Niko Pandetta, techno-neomelodico amatissimo dai quindicenni. Lui è di Catania, canta in napoletano, ma non ha bisogno di inventarsi storie. Lo sanno tutti che è il nipote del boss Turi Cappello, detenuto in regime di 41bis dal 1993.
Grave 20enne accoltellato in un parcheggio nella Bergamasca
(ANSA il 17 giugno 2022) - Un 20enne è stato accoltellato la scorsa notte durante una lite a Treviolo (Bergamo) e ora è ricoverato in gravi condizioni all'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
L'episodio è avvenuto in un parcheggio di via Aldo Moro attorno alle 3 della notte scorsa. Secondo una prima ricostruzione, ad aggredire il giovane, che era in compagnia di una ragazza, sarebbe stato un gruppo di ragazzi con i quali era nata una discussione.
Gli aggressori, dopo aver lasciato a terra il 20enne ferito con diverse coltellate, sono fuggiti e sono ricercati dai carabinieri.
(ANSA il 17 giugno 2022) - È il rapper Simba La Rue, nome d'arte di Mohamed Lamine Saida, il 20enne accoltellato la scorsa notte durante una lite a Treviolo (Bergamo). Secondo i primi accertamenti dei carabinieri, il giovane di origini tunisine, cresciuto tra Francia e Italia e residente a Lecco, stava accompagnando a casa la fidanzata, che abita proprio a Treviolo.
Parcheggiata l'auto in via Aldo Moro, è stato aggredito da un giovane armato di coltello in quello che potrebbe essere stato un vero e proprio agguato. Il rapper, che ha tentato di difendersi, non sarebbe in pericolo di vita.
L'aggressione a Simba La Rue è avvenuta pochi giorni dopo quella a un altro rapper, Baby Touche e sui social c'è chi ipotizza sia stata una vendetta. Tra i due giovani ci sarebbe una accesa rivalità.
Rapper accoltellato: Baby Touche: "Faccio musica, non la guerra"
(ANSA il 17 giugno 2022) - Baby Touche, rapper che è stato picchiato nei giorni scorsi da Simba La Rue, si chiama fuori da quanto accaduto la notte scorsa a Treviolo nel Bergamasco dove Simba è stato accoltellato (è ora in ospedale).
"Io faccio musica, solo musica, tutto il resto lasciatelo lontano da me, che non voglio fare la guerra", sostiene in una story sui social. "Nessuno di noi vuole una madre che piange", aggiunge Baby Touche, che ha detto di non sapere nulla di quanto accaduto la notte scorsa, mentre sui social, dagli appassionati di 'dissing', le sfide a base di insulti e minacce via web tra rapper e trapper, il ferimento di Simba La Rue viene inteso come vendetta conseguente al suo pestaggio.
Agostino Gramigna per il “Corriere della Sera” il 17 giugno 2022.
Un accoltellamento. Un giovane colpito. I fendenti sono diversi, si difende inutilmente, comincia a perdere sangue. Provincia di Bergamo, Treviolo: sono le quattro del mattino di ieri e il giovane si chiama Mohamed Lamine Saida, milanese, origini tunisine, che ha accompagnato a casa la fidanzata, residente in un quartiere residenziale. Saida è stata colpito da un altro giovane, sceso da un'auto.
Quando arrivano i militari e Saida viene trasportato in ospedale si scopre la sua identità. Quella «vera», quella che si è data per scalare la notorietà. Simba La Rue.
Il nome probabilmente non dirà nulla a chi non ha confidenza con il rap/trap. Ma in quel mondo Simba La Rue è un nome. Un mondo abitato da rapper, segnato da gelosie e scontri, narrato dalla violenza delle parole e dai suoi codici. Simba La Rue è cresciuto tra la Francia e l'Italia, ma abita a Lecco (il suo ultimo EP, Crimi, è uscito a maggio per Warner). Chi poteva volergli del male? Un passo indietro.
Baby Touché. Si fa chiamare così un altro rapper/trapper giovanissimo, un artista, con la voglia di sfondare e raccontare la sua vita di strada. Il suo vero nome è Amine Amagour, ha 19 anni, origini marocchine e abita a Padova.
Touché conosce Simba la Rue. I due non si amano. Ma si controllano, come nemici che attendono, dell'altro, il passo falso. Usano i social, armati di parole che danno linfa alla musica e ai testi. Si provocano.
Poi su un profilo Instagram che richiama il nome di Simba La Rue, il cui coinvolgimento non è però stato accertato, compare il video di un episodio di una settimana fa a Milano. Mostra Baby Touché.
Il rapper è accerchiato, aggredito e picchiato da alcune persone che l'hanno fatto salire su un'auto. Ha il volto gonfio.
Dal naso esce sangue. Chi gli siede di fianco ride, lo prende in giro, gli urla frasi nelle sue orecchie. Chi ha colpito Touché? Forse una ritorsione per un suo presunto «dissing» (scambio di insulti tramite canzoni o video) che il rapper padovano avrebbe rivolto a Simba La Rue a gennaio nel suo singolo «Pull up».
Nel video Touché appare spaventato. Si sente una voce fuori campo che dice: «Dov'è il gangster che sei, dov'è la tua sicurezza?». Gli amici di Touché «rispondono» sui social, postando numerose storie, messaggi allusivi: «Ti sei messo in un bel guaio, figlio di p., domani io vado in carcere».
Oppure: «Voi pensate di averla chiusa così, la storia? Per me è iniziata ora, fosse l'ultima cosa che faccio». La faida sembra non avere fine. L'aggressione a Bergamo è stata la risposta della gang di Baby Touché? Sarebbe un epilogo logico.
Su Instagram, un presunto amico del rapper padovano avrebbe rivendicato l'atto: «Volevi Samir e hai avuto Samir... sono venuto da te con le palle quadrate. Ora hai pagato e la storia finisce».
Saranno le indagini a fare luce. Intanto sui social, Baby Touché si è tirato fuori da quanto accaduto a Treviolo. «Io faccio musica, solo musica, tutto il resto lasciatelo lontano da me che non voglio la guerra. Nessuno di noi vuole una madre che piange».
La trappola. Report Rai PUNTATA DEL 23/05/2022 di Chiara De Luca
La trap è un sottogenere della musica rap, molto in voga tra i giovani.
La trap racconta in maniera brutale e compiaciuta la vita di strada. Questo stile, nato nel mondo delle gang americane di Atlanta, in Italia è stata strumentalizzata dalla criminalità organizzata, alcuni tra i più noti cantanti sono vicini a famiglie di mafia. Report ha incontrato alcuni dei più noti interpreti di questo genere.
Marco Gregoretti per “Libero quotidiano” il 20 ottobre 2022.
«Maresciallo non ci prendi, pistole nella fendiiii». E infatti non è stato acciuffato dai Carabinieri: le manette ai polsi gliele hanno messe gli agenti della squadra mobile di Milano agli ordini di Marco Calì, coadiuvato dal funzionario Nicola Lelario. Niko Pandetta, trapper "neomelodico", trentunenne di origine siciliana, che suona brani morbidi per raccontare vite da duri e che ha vinto due dischi d'oro, era latitante da una decina di giorni. Da quando la Cassazione aveva confermato la condanna per spaccio di droga a quattro anni di reclusione. Nonostante i suoi avvocati avessero fatto ricorso.
I poliziotti milanesi, su richiesta dei colleghi di Catania, dove lo stavano cercando in seguito alla sentenza emessa dal Tribunale della città siciliana, sono riusciti a trovarlo nel quartiere periferico di Quarto Oggiaro, all'esterno del B&B in cui alloggiava. In tasca aveva 12mila euro. Gli investigatori stanno vagliando anche la posizione di altre due persone. Il suo manager, un albanese di 33 anni, che, poco prima dell'operazione della squadra mobile, si trovava insieme al trapper e che sarebbe l'affittuario della stanza e l'uomo di 38 anni, con qualche precedente per truffa, seduto alla guida dell'auto, vicino a Pandetta.
Nei confronti dei due potrebbe scattare l'accusa di «procurata inosservanza di pena». Che il cantante fosse ricercato, infatti, lo sapevano tutti: non aveva mai smesso di tenere aggiornati i suoi follower, via social. È stato lui stesso, il sei settembre scorso, a informarli, attraverso l'account di Instagram, della sentenza di condanna a quattro anni. Come fosse un qualsiasi "ganassa", o "maranza" che dir si voglia, aveva commentato: «Sono abituato agli spazi stretti, alla case piccole, alle celle». Poi, però, si era dato alla fuga.
Forse aveva capito che, "bella bomber!", il transitare dell'adrenalina del successo si sarebbe per un pò interrotto. Eh, si perché soltanto due settimane fa in un famoso locale milanese, zeppo di ragazzi e di ragazze in festa, era successo che il dj, scatenatissimo, avesse urlato al microfoni: «Ehi, raga!!! Abbiano un ospite d'onore, E chi se l'aspettava. È arrivato, qui, proprio qui, Niko Pandettaaaa!!!». Il trapper aveva reso omaggio ai fans giovani e giovanissimi cantando uno dei suoi brani.
Pandetta è il terzo trapper che arrestano in una settimana a Milano, a conferma che il combinato disposto tra violenza metropolitana, disagio giovanile e «voglio tutto e subito», oramai sia arrivato a livelli oltre la guardia. Imponendo modelli e riferimenti dove, come sostengono i sociologi «il disvalore la faccia da padrone». Insomma la vita conta poco. Importante è apparire. Nel caso di Niko Pandetta si aggiunge uno step: quello dell'utilizzo dei riti e dei miti della criminalità organizzata per fare musica e spettacolo.
E, magari, alla fine qualcuno ci casca. L'artista arrestato ieri è nipote di Toni Cappello, in carcere al 41 bis da quasi 30 anni, perché ritenuto appartenente alla mafia catanese. E proprio ai boss detenuti in regime di massima sicurezza, nel 2019, davanti a un locale dell'hinterland napoletano, Pandetta aveva dedicato una strofa: «Con la speranza», disse, «che tutti quelli che stanno al 41 bis presto possano tornare alla libertà e alle loro famiglie. Facciamo un applauso forte!».
Ci furono levate di scudi e polemiche dure. Ingenuità? Fatto sta che durante un programma di Rai Due, poco prima, era stato ancora più pesante sostenendo, in sostanza, che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino se l'erano andata a cercare. La tv di Stato, giustamente, chiese scusa. La sua fama di trapper morbido con la criminalità organizzata l'aveva preceduto ad Abbiategrasso, dove in un pub avrebbe dovuto tenere un concerto. Si opposero sia la presidente della Commissione regionale antimafia che il sindaco della cittadina dell'hinterland milanese.
Le ultime foto postate lo ritraggono "virtualmente" dietro le sbarre di una cella del carcere di Opera. Da una settimana, prima dell'arresto, stava cercando di accreditarsi in rete come un giovane uomo alla ricerca della nuova vita: «Sono cambiato, ma pagherò il mio passato finché ci sarà da pagarlo. Non fuggo più né dalla polizia né dalle mie responsabilità». Il tema è che, in realtà, forse ha ragione chi sostiene che Baby Gang e Simba la Rua, i trapper arrestati venerdì sette ottobre, rispetto a lui siano due mammolette.
Ottavio Cappellani per “la Sicilia” il 23 ottobre 2022.
Sull’arresto di Niko Pandetta mi sembra che le parole più logiche, lucide e persino “legittime” (la “legittimità” è una cosa diversa dalla “legalità”, che ancora nessuno ha bene capito cosa sia, anche se una definizione precisa esiste, ed è un “limite” non alla “società civile”, ma al contrario allo Stato: la “legalità” non obbliga – come comunemente credono gli ignoranti e i pazzi – la “società” a comportarsi bene, al contrario “obbliga” lo Stato a esercitare i poteri a esso conferito dalle leggi – in buona sostanza, la “legalità” non è una cosa “più ampia” della “legittimità”, anzi dipende da quest’ultima), dicevo: sull’arresto di Niko Pandetta mi sembra che le parole più lucide, logiche e “legittime” le abbia dette proprio Niko Pandetta (e Andrea Zeta, altro cantante dalle vicende simili a quelle di Pandetta).
In sintesi: “Abbiamo commesso reati, abbiamo pagato, o pagheremo il debito con la giustizia e la società, oggi siamo cambiati e torneremo con le nostre canzoni”. Perché una cosa deve essere chiara: Niko Pandetta non è stato arrestato per il contenuto delle sue canzoni, ma perché ha commesso un reato. Punto. Non ci sarebbe altro da dire. La divisione tra il reato, per così dire commesso nella “realtà”, e il contenuto delle canzoni dovrebbe essere netta. Altrimenti arrestiamo Roberto Saviano o, che ne so, Quentin Tarantino.
E invece si sono spese troppe parole in commenti moralisti e perbenisti, petulanti e anche un po’ rompicoglioni, sui testi di Pandetta. L’esempio più fastidioso: “Niko Pandetta ha dedicato una canzone a suo zio, boss in carcere…” etc. etc. Ma che minchia vuol dire? Uno, una canzone, una poesia o quello che è la può dedicare a chi vuole! Anche a Charles Manson per dire (e infatti non mancano canzoni dedicate a Charles Manson). Che dedicare una canzone a qualcuno possa essere in una qualche connessione con un arresto è un delirio contrario allo stesso concetto di “Stato di Diritto”, una conquista democratica che dovrebbe invece essere difesa strenuamente.
Coolio, dai, prendiamo Coolio. E’ stato in carcere da giovane. Ma io non riesco ad ascoltare Gangsta’s Paradise senza commuovermi di brutto, soprattutto se mi vedo il video tratto dallo stupendo film “Pensieri Pericolosi” con una meravigliosa Michelle Pfeiffer. Volete sentirne parti del testo? Eccole: “Mentre cammino nella valle della morte guardo la mia vita e vedo che non mi è rimasto più niente… Non ho mai ucciso un uomo che non lo meritasse… Faresti meglio a stare attento a come parli e a dove cammini o tu e i tuoi amici potreste essere tracciati col gesso…
Continuiamo a passare la nostra vita nel paradiso dei gangster… Nel ghetto ho capito che non posso vivere una vita normale… Perché siamo così ciechi dal non vedere che quelli a cui facciamo del male siamo io e te… Dicono che devo imparare ma non c’è nessuno a insegnarmi…”. Ascolterei (come faccio) duemila volte Coolio, al posto di sentire ancora il vostro petulante moralismo di chi si sente migliore.
LA TRAPPOLA di Chiara De Luca Immagini di Fabio Martinelli Montaggio di Andrea Masella Grafiche di Michele Ventrone
FABRI FIBRA – RAPPER Il rap è una magia, non è una cosa data per scontato: devi avere la giusta strumentale, devi avere le giuste parole.
CHIARA FUORI CAMPO Fabri Fibra in Italia è l’artista che ha portato il rap in cima a tutte le classifiche: con oltre un milione di copie vendute, è oggi uno dei pilastri del rap nostrano.
FABRI FIBRA – RAPPER Dall’inizio, quando sono arrivato che il rap non era proprio capito, e quindi c’era molta gente che pensava che se io dicevo qualcosa, la pensavo davvero, o l’avrei fatta davvero, quando in realtà era dire qualcosa sopra le righe per attirare attenzione. Oggi è più accettata la cosa, non perché vengono accettati gli artisti per quello che dicono ma perché, comunque, quel disco fa guadagnare.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il rap negli ultimi anni ha avuto un’evoluzione da cui è nata la trap.
ANDRY THE HITMAKER – PRODUTTORE MUSICALE Ogni singolo elemento che vedi qua è un suono diverso. Allora, adesso ho selezionato la traccia di cassa, poi ci sono i clep, poi abbiamo anche degli snerd di risposta, gli ay hat, che è un’altra parte fondamentale della trap.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Immancabile in ogni pezzo trap che si rispetti c’è il famoso autotune.
ANDRY THE HITMAKER – PRODUTTORE MUSICALE Ti fa la correzione vocale: si sente molto l’effetto robotico sulla voce, la rende, la rende trap.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La trap nasce agli inizi del 2000 nelle trap house americane, ad Atlanta.
ANDREA BERTOLUCCI - ESPERTO DI CULTURA TRAP Erano delle case, molto spesso abbandonate, poste nei sobborghi delle città americane dove veniva consumata, venduta ogni tipo di sostanza.
VEGAS JONES - TRAPPER La trap music, la trappola, è una cosa mentale che tutti abbiamo per quanto mi riguarda cioè chiunque ha e che noi artisti facciamo nostro scrivendo sui testi.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E nei testi della trap la distinzione tra realtà e dimensione artistica a volte rischia di essere ambigua. Ostentazione della ricchezza, auto e orologi di lusso, champagne, violenza, spaccio e uso di droga, la donna dipinta come un oggetto, pentiti e forze dell’ordine visti come nemici. Anche perché, spesso, si tratta di artisti nati nelle zone d’ombra della legalità.
PAOLA ZUKAR - MANAGER MUSICALE Secondo me il rap è un po’ come la boxe, nel senso, ha delle regole, ha delle sue regole e per cui non è che non si menino quando boxano, però devi rispettare delle regole: l’arte prima di tutto.
CHIARA DE LUCA Non c’è il rischio che poi passi un cattivo esempio, un messaggio sbagliato?
FABRI FIBRA - RAPPER Il rap è un genere musicale che racconta quello che c’è là fuori e se là fuori c’è questo, c’è una disgregazione dei valori e un consumismo estremo, il rap lo racconta.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E così come il rap, anche la trap racconta quello che c’è là fuori ed è per questo che è più facile strumentalizzarla.
ILARIA MELI - AUTRICE DE IL “CLAN DEI CASAMONICA” Un genere come quello della trap, che è un genere nuovo, che arriva tanto ai giovani, che ha un grande successo, ha attirato l’attenzione delle mafie.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La musica può creare consenso o dissenso. È un po’ come nel caso del rap, che è una musica che è cresciuta tantissimo, il 40 percento. Ha la pretesa, l’ambizione di essere lo specchio della realtà. Ci sono degli artisti veramente bravi che pur cantando e utilizzando parole un po’ sopra le righe non c’è il rischio che vengano fraintesi. Ma poi ci sono altri casi, come nel sottogenere della trap, può accadere che come nella musica neomelodica che invece la musica possa diventare addirittura uno strumento per raccogliere consenso all’interno delle mafie. La nostra Chiara De Luca.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Alla periferia di Roma, a Spinaceto, nel videoclip che ha decretato il successo del trapper Poli Ok, tra i protagonisti ci sono alcuni rampolli della famiglia Di Silvio. Il manager del cantante è Mirko Di Silvio.
POLI OK Non può essere tra di noi, speriamo presto libero.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il Mirko osannato dalla folla durante il concerto è proprio il suo manager, arrestato per droga. Mentre in quest’altro videoclip Samuel Casamonica chiede la liberazione di Manuel Di Silvio, anche lui arrestato per droga.
SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Non scattare foto se no te la sfracello la telecamera, te lo dico subito. No, perché, passa la gente, prendono e mi fanno le foto, così.
CHIARA DE LUCA Sei famoso?
SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Sì, sono famoso perché sono un cantautore.
CHIARA DE LUCA Ah, e scusa dove ti posso cercare, ti voglio ascoltare…
SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Io sono Samuel.
CHIARA DE LUCA Samuel?
SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Casamonica.
CHIARA DE LUCA E sei famoso perché sei un Casamonica?
SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Sono famoso perché mi conoscono tutti, in quel senso lì.
CHIARA DE LUCA Qui, in questa zona, a Spinaceto?
SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE No, in tutto il mondo.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il video viene girato tra le case popolari di Spinaceto perché lì siamo a casa loro. Lo leggiamo anche dai muri: Papù ti vogliamo bene. Papù è Antonio Di Silvio, capo del clan, morto nel 2016. La questura di Roma gli negò il funerale pubblico per non ripetere lo stesso errore del funerale di Vittorio Casamonica.
MARCELLO RAVVEDUTO – PROFESSORE DIGITAL PUBLIC HISTORY – UNIVERSITÀ DI SALERNO Quando tu porti avanti un modello sociale in cui la ricchezza che viene prodotta con la violenza, con l’organizzazione del crimine, sebbene si rischi la galera o la morte, questo elemento sostiene tutto il modello di vita della criminalità organizzata.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Un altro cantante tanto famoso quanto controverso è Niko Pandetta.
NIKO PANDETTA – TRAPPER Mi chiamano tutti i mafiosi, i privati, persone che vendono la droga con pistole addosso. Non te le posso dire certe cose.
GIANPIERO CIOFFREDI – PRESIDENTE OSSERVATORIO LEGALITÀ E SICUREZZA REGIONE LAZIO Anche se negli ultimi tempi tenta di darsi un’aria da bravo ragazzo, ma in questi anni ha condotto, diciamo, i concerti che sembravano concerti di solidarietà verso, verso la mafia.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Niko Pandetta è un artista siciliano. Nasce come cantante neomelodico per poi diventare uno degli artisti trap più seguiti in Italia.
CHIARA DE LUCA Tu eri neomelodico, poi cosa cambia?
NIKO PANDETTA –TRAPPER Poi il neomelodico realmente è la stessa cosa della trap: viene cantata diversamente perché si parla di storia vissuta, diciamo.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Dopo essere stato condannato per spaccio e rapina si dedica alla musica, arrivando al successo grazie a un brano dedicato allo zio Turi, ovvero Salvatore Cappello, uno dei più potenti boss catanesi, in carcere da trent’anni in regime di 41 bis.
NIKO PANDETTA – TRAPPER Alla fine, l’ho fatto perché alla mia famiglia lo voglio bene anche se non dovevo farlo, tra virgolette.
CHIARA DE LUCA Tu prendi le distanze da tuo zio?
NIKO PANDETTA – TRAPPER In che senso le distanze?
CHIARA DE LUCA Condanni quello che ha fatto tuo zio?
NIKO PANDETTA – TRAPPER Ma non sono io a condannare, è il magistrato che condanna, non io. Ha sbagliato e sta pagando.
CHIARA DE LUCA A chi ti accusa di essere un cantore della mafia?
NIKO PANDETTA – TRAPPER Io fino a ieri sono uscito assolto per questa cosa... Apologia... Assolto, caso archiviato
CHIARA DE LUCA Ad oggi quale e il tuo pensiero rispetto alla mafia?
NIKO PANDETTA – TRAPPER Per me la mafia fa schifo: se vuoi detto questo, te lo dico.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Attraversando lo Stretto, in Calabria, a Rosarno, il Comune sciolto tre volte per infiltrazione mafiosa, sta spopolando il cantante Domenico Bellocco, in arte Glock 21.
ENZO CICONTE – PROFESSORE STORIA DELLE MAFIE UNIVERSITÀ DI PAVIA Tu mandi un messaggio in cui fai vedere i mitra, fai vedere i rolex, fai vedere i gioielli. Il messaggio è: con noi sei potente perché il mitra, la pistola è la violenza. L’altro, vieni con noi perché puoi diventare ricco. Il problema è che ci sono giovani che pensano di imitarlo, pensano che questi sono i nuovi padroni del mondo.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La Glock 21 è una delle armi usate dalla ‘ndrangheta, un modello fu trovato nel bunker di Gregorio Bellocco, zio del cantante, quando fu arrestato il 16 febbraio 2005 insieme a dischi di musica calabrese che inneggiavano alla ‘ndrangheta.
ROBERTO DI PALMA - SOSTITUTO PROCURATORE DDA REGGIO CALABRIA 2002-2021 C’è una canzone che è stata fatta esplicitamente per celebrare questo giorno come se fosse un giorno di apocalisse per la piana di Gioia Tauro: si parla di torrenti che si sono inariditi perché quel giorno è stato arrestato questo grandissimo uomo di onore.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E dopo 14 anni, nell’anniversario dell’arresto, proprio il 16 febbraio 2019, il giovane Trapper Bellocco pubblica un videoclip finanziato da alcuni commercianti di Rosarno.
KLAUS DAVI – MASSMEDIOLOGO Questo tipo di finanziamenti sta più a indicare che dietro c’era un consenso.
CHIARA DE LUCA È stato deciso a tavolino il video?
KLAUS DAVI – MASSMEDIOLOGO Certo, nulla accade a caso in quei contesti. È un omaggio a questo personaggio che ha dato identità a Rosarno.
CHIARA DE LUCA Nel video ci sono anche altri ragazzi, chi sono?
KLAUS DAVI – MASSMEDIOLOGO Sono tutti ragazzi collegati a personaggi di primo piano delle famiglie. Questo non fa di loro dei mafiosi, assolutamente. Tutti che attraverso un legame di parentela stanno a testimoniare un messaggio preciso.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il gruppo P38, inneggia agli anni di piombo, alle Brigate Rosse e all’omicidio di Aldo Moro. Durante le tappe del tour, il Nuovo Br Tour, il gruppo ha sfoggiato sul palco la bandiera a cinque punte. Dopo l’esibizione del 25 aprile a Pescara e del I maggio a Reggio Emilia è scattata la denuncia.
BRUNO D’ALFONSO Ho deciso di denunciare perché, essendo io un figlio di una vittima del terrorismo, diciamo, riaffiora un ricordo bruttissimo.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Lui è il figlio di Giovanni d’Alfonso, il carabiniere ucciso dalle Brigate rosse il 5 giugno del 1975. I P38 per pagarsi le spese legali hanno avviato una raccolta fondi, hanno anche una linea di merchandising.
CHIARA DE LUCA Che cos’è che l’ha toccata di più?
BRUNO D’ALFONSO Io mi rendo conto che questi sono dei ragazzini, e che comunque sfruttano un’onda modaiola, mediatica per emergere nel campo musicale. Però quello che mi fa male è che loro hanno adottato una leggerezza tale che fa capire l’ignoranza rispetto alla storia e rispetto a determinati valori.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Dopo aver denunciato, D’Alfonso è stato minacciato
BRUNO D’ALFONSO Eh, ho ricevuto un messaggio tramite Instagram, sul mio profilo, c’era la foto di mio padre con una X sopra, rossa, e con la scritta “sei il prossimo”.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Alla stupidità umana non c’è mai un limite. Ma abbiamo anche capito che il fenomeno sta degenerando, al punto che è dovuta intervenire anche la politica, ma col suo solito passo felpato. È stato presentato un disegno di legge presso la Commissione Giustizia della Camera, però già un anno fa, a febbraio del 2021, e ancora non è stato calendarizzato. Questo perché c’è il rischio che i più giovani, o chi non ha le chiavi, il filtro giusto per decriptare, finisca con l’emulare il messaggio. Il disegno di legge dovrebbe inasprire le pene nei confronti di chi inneggia all’organizzazione mafiosa, o ne esalta addiritura le gesta. L’argomento però è spinoso perché bisogna anche orientarsi e bisogna tenere presente la libertà di espressione. Noi pensiamo che più che in punta di legge, bisogna agire invece dal punto di vista culturale.
Rapper arrestati: pm, a processo Baby Gang e Neima Ezza. Chiesto processo per 4 per una serie di rapine a Milano. (ANSA 19 maggio 2022) La Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per i rapper Baby Gang, nome d'arte del ventenne Zaccaria Mouhib, Neima Ezza, ossia Amine Ez Zaaraoui, anche lui 20 anni, Samy Dhahri, 19 anni conosciuto come Samy Free, e per un 31enne albanese, tutti imputati in un procedimento per una serie di rapine nel capoluogo lombardo.
Nell'inchiesta chiusa ad aprile, condotta dai carabinieri di Pioltello e dagli agenti dell'Ufficio Prevenzione Generale della Questura milanese e coordinata dal pm Leonardo Lesti, sono stati contestati, a vario titolo, quattro episodi: tre casi avvenuti in una zona centrale della movida milanese, tra le Colonne di San Lorenzo e piazza Vetra nel maggio 2021, e l'ultimo a Vignate, nel Milanese, lo scorso luglio.
Baby Gang - già finito al centro di fatti di cronaca negli ultimi anni e poi indagato in altre due inchieste nelle scorse settimane, tra cui un episodio di resistenza agli agenti durante un controllo - era stato scarcerato, dopo l'arresto a fine gennaio, dal Riesame, perché il suo legale, l'avvocato Niccolò Vecchioni, aveva dimostrato che gli elementi probatori a suo carico erano lacunosi. Poi, a fine febbraio il gip Luca Milani ha revocato i domiciliari per Neima Ezza, sostituendoli con l'obbligo di dimora a Milano e di permanenza nella sua abitazione dalle ore 20 alle 7. E dandogli la possibilità di chiedere l'autorizzazione per fare concerti fuori dagli orari fissati.
Revocati i domiciliari anche per Samy Free, anche in questo caso per l'attenuazione delle esigenze cautelari. Il quarto indagato, invece, non era stato arrestato. L'udienza preliminare si aprirà il 18 ottobre davanti al gup Domenico Santoro che dovrà decidere sul rinvio a giudizio o meno. (ANSA).
Nuflex, rapper di Baggio arrestato per spaccio di droga a Milano: aveva 2 mila euro in contanti. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 24 maggio 2022.
Il 24enne è stato notato agi agenti mentre prendeva in consegna un pacco, trovato poi in una cantina dietro un materasso, con 380 grammi di cocaina. Arrestati anche un coetaneo e un 44enne con precedenti
Arrestato per droga il rapper milanese Nuflex. Il giovane, 24 anni, un precedente per droga, è stato arrestato nei giorni scorsi dalla Sesta sezione della squadra Mobile di Milano insieme ad altre due persone per spaccio di 380 grammi di cocaina. Nuflex, rapper emergente del quartiere di Baggio, che ufficialmente lavora come cameriere, era in strada in via Marcantonio Colonna insieme a un 44enne, anche lui con precedenti per droga. I due sono stati notati dagli agenti mentre attendevano l’arrivo di un’auto con a bordo un altro 24enne, con precedenti per reati contro il patrimonio.
Il rapper è salito a bordo della vettura e poco dopo è sceso con un pacco, poi insieme al 44enne è salito in un appartamento (di proprietà dell’uomo). Poco dopo il cantante è sceso e ha consegnato un pacco all’autista 24enne che lo attendeva in strada. A quel punto gli agenti sono intervenuti e hanno bloccato i due e perquisito l’auto. Sotto al sedile è stato recuperato il pacco con all’interno oltre 8 mila euro in contanti.
Nelle tasche del giubbotto del rapper sono stati trovati altri 2 mila euro. Poi gli agenti sono saliti a casa del 44enne e in cantina, dietro a un materasso, hanno trovato il pacco con 380 grammi di cocaina. I tre sono stati arrestati e nell’udienza per direttissima il giudice ha ordinato la custodia cautelare in carcere.
Paolo Ferrari per “la Stampa” il 25 settembre 2022.
Il Vesuvio osserva sornione la sua Napoli sparare lava sonora incandescente sul mondo intorno. Quando alla radio partono Marechià dei Nu Genea oppure Io, tu e l'estate di Napoleone la sensazione è che dietro quell'eleganza e quei groove ci sia qualcosa che viene da lontano. Dalle viscere della città in cui più è riconoscibile un Dna sonoro e attitudinale capace di scorrere con naturalezza di generazione in generazione.
La Nuova Compagnia di Canto Popolare proiettò il folk sui palchi dei grandi raduni alternativi, Napoli Centrale segnò un punto di non ritorno sul fronte funk partenopeo, Pino Daniele rivoluzionò in direzione black il sapore della canzone d'autore nazionale reduce dall'insolente sverniciata rock' n'roll inflittale da Edoardo Bennato, gli Almamegretta hanno portato nel mondo il dub del Golfo. Di tutti loro rimane traccia, a volte evidente, in altri casi custodita nel profondo dell'anima.
Sul primo fronte s' incontrano omaggi espliciti: il misterioso cantautore digitale Liberato ha da poco pubblicato una cover di Cicerenella, un classico del repertorio NCCP, mentre gli stessi Nu Genea, duo di produttori e musicisti di area elettronica, nel loro disco Bar Mediterraneo hanno inserito una calorosa versione di Vesuvio del combo militante Anni Settanta «E' Zezi».
Per quanto concerne Davide Napoleone, trentenne della provincia di Salerno migrato in Piemonte, la lezione di Pino Daniele è indelebile: «Iniziai a esibirmi per strada nel centro storico di Napoli cantando le sue canzoni - racconta - ed è rimasto un faro. In seguito ho approfondito le indagini, rendendomi conto di come lui, Alan Sorrenti, Napoli Centrale e Nino Bonocore siano stati decisivi per trasformare il dialetto campano in linguaggio universale come non accadeva dai tempi di Carosone».
Con una considerazione interessante: «La differenza tra loro e noi - spiega Davide - consiste nel fatto quella generazione era stanziale sul territorio, mentre noi viaggiamo e magari viviamo anche fuori: io a Torino, i Nu Genea a Berlino e Siracusa».
Anche Meg ha visto il mondo, ma sente la forza del legame con Napoli, tant' è che il suo nuovo album, in uscita il 30 settembre, s' intitola Vesuvia. Così recita la narrazione che lo accompagna: «Sono cresciuta alle falde del Vesuvio, la sua sagoma è casa e sento il suo richiamo sempre, anche quando sono dall'altra parte del pianeta. Lo sogno di notte in maniera ricorrente: sin da bambina sono ossessionata da lui, è una presenza imponente nella mia coscienza ed è parte indissolubile di me. Ogni sua zolla, ginestra, sentiero, è come una mia cellula, capello, ruga. È mia madre e mio padre. Da quando ho aperto gli occhi è il mio imprinting».
A sottolineare la natura femminile attribuita al vulcano un parterre di ospiti che comprende Elisa, Emma, Katia Labèque e Nziria. Quest' ultima è capostipite di un nuovo sottogenere, hard neomelodic, in cui il neomelodico popolare poggia su basi techno gabber per raccontare storie di sapore no gender. La sua Hard tarantella si incastra alla perfezione nella trama che lega passato e presente del Golfo.
Si allargano così gli orizzonti, urgenza comune al duo Nu Genea: «Entrambi - spiegano Massimo Di Lena e Lucio Aquilina - abbiamo consumato i dischi del cosiddetto Neapolitan Power, da Pino Daniele a Napoli Centrale e Tony Esposito, possiamo sentirci onorati di essere accostati a loro ma sentiamo ancora di più l'influenza di una città sotterranea, invisibile a livello nazionale».
Con la complicità dei collezionisti Lorenzo Sannino, in arte Famiglia Discocristiana, e Gianpaolo Della Noce, in consolle DNApoli, tra mercatini delle pulci, racconti, incontri con personaggi dimenticati è nato così il progetto Napoli segreta, giunto al secondo volume: «Abbiamo ottimizzato e rimesso in circolazione il filone disco funk Anni Settanta e Ottanta della città, lavorando sodo per rintracciare i cantanti e i detentori dei diritti. Qualcuno era reticente, magari perché il 45 giri in questione era stato finanziato con fondi non proprio leciti, altri hanno risposto con entusiasmo».
Così la Sexy Pummarola di Gibo & Pummarola Band o i potenti singoli di Tonica & Dominante sono finiti nelle cuffie di tanti insospettabili under 30 europei.
Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 22 aprile 2022.
Colpo di scena. Il musical non è nato a Broadway nell'Ottocento ma a Napoli nel Cinquecento. A dirlo è un bellissimo libro appena uscito dall'editore Argo e intitolato Il chiaro e lo scuro (pp. 496, euro 28).
A curare il volume è il noto etnomusicologo Gianfranco Salvatore, grande esperto di tradizioni musicali afroeuropee e professore all'Università del Salento. Insieme a lui, studiosi di fama internazionale come, tra gli altri, l'africanista Norbert Cyffer dell'Università di Vienna, lo storico dell'arte Paul H.D. Kaplan della Purchase University di New York, la storica Kate Lowe del prestigioso Warburg Institute di Londra, Mishele Rak, esperto del patrimonio culturale europeo.
All'origine di tutto ci sono gli schiavi africani che affollano la città e che mescolano la loro lingua, la loro musica e la loro arte a quella dei padroni. E proprio dalla folla di colored che vive all'ombra del Vesuvio prendono vita nuove forme espressive.
Come la "canzone moresca" per lo più considerata un genere musicale autoctono e fino ad ora confusa con altri tipi di canto popolare come le villanelle. La presenza di termini incomprensibili in queste canzoni recitate e ballate è stata per lo più interpretata come un gergo dimenticato.
E invece queste parole e suoni misteriosi appartengono al kanuri, una lingua africana diffusa in Nigeria, Sudan e Camerun. Facendo luce sul mistero delle "moresche", il volume fa affiorare una realtà multiculturale e multilinguistica dove tra bianchi e neri si stabilisce una relazione di simpatia, addirittura di empatia, che non ha confronti in Europa.
E che produce forme artistiche fusion, in cui i neri sono protagonisti, in anticipo sul teatro musicale moderno. Dalle pagine emerge, insomma, un melting-pot in salsa napoletana, dove le culture africane si integrano pacificamente con quella locale. E producono un'arte nera a metà.
Un figlio al padre: papà, perché gli artisti sono spesso comunisti?
Il padre: perché a loro piace essere mantenuti e sono molto libertini e viziosi e con poca voglia di lavorare!
Estratto dell’articolo di Stefano Mannucci per “il Fatto quotidiano” il 20 agosto 2022.
[…] se l'istituto previdenziale di Sua Maestà controllasse le entrate del quasi ottuagenario Sir Mick, scoprirebbe un patrimonio netto da 500 milioni di dollari, metà del quale garantito da rendite immobiliari: un castello in Francia e l'isola antillana di Mustique, che il signor Jagger affitta a cifre non inferiori di 30 mila dollari per brevi residenze.
"Un tirchio patologico", l'aveva fulminato l'ex moglie Jerry Hall, sciura disinteressata ai soldi, come dimostra il matrimonio (purtroppo in crisi) con l'attuale marito Rupert Murdoch. Mick si risentì per le accuse di Jerry: "Dice cazzate. Mi preoccupo delle spese per i miei figli e pure per il tenore di vita della Hall, piuttosto dispendioso".
Perché è brutto essere additati come spilorci. Ne sa qualcosa pure Paul McCartney, in attivo per oltre un miliardo di euro […] Nel 2001, per la festa di compleanno della moglie Linda, niente open bar: costrinse gli invitati a pagarsi le bevande.
[…] guai agli spilorci al ristorante. Chissà se stavolta Madonna, tra i frizzi e i lazzi e i "Bella Ciao" cantati in Sicilia l'altro ieri per festeggiare i suoi 64 anni, ha lasciato qualche banconota sulla tovaglia. La granny doll Ciccone non è nota per la generosità con i camerieri. In America, dove la mancia non dovrebbe essere inferiore al 15 per cento, Madge non supera mai il 10. […] Madonna dovrebbe essere munifica con il personale di sala, visto che in gioventù serviva ai tavoli di Donkin'Donuts. […]
[…] Jennifer Lopez […] puntualmente impedisce al suo Ben Affleck di lasciare mance adeguate alle ragazze delle trattorie. A Las Vegas litigarono di brutto, a fine cena, davanti a tutti. Peggio ancora, giurano i suoi amici, è Britney Spears. Lascia il piatto vuoto, neanche uno spiccio […] Una notte Rod Stewart, già rincasato, si rimise cappotto e scarpe e tornò nel locale tra grida molto isteriche e poco blues: non gli risultava quella bottiglia d'acqua, rivoleva indietro due dollari. […] Uno che di sicuro ha le tasche cucite è Sting: ha annunciato ai figli che non lascerà loro un centesimo di eredità. […]
Il grande business delle film commission italiane. Da vent’anni le regioni foraggiano il cinema con decine di milioni di euro. Ma spesso i finanziamenti sono poco controllati. E mentre si decide se le pellicole sono arte, industria o inviti al turismo, scandali e risse non sono rari. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 16 Maggio 2022.
Risse, poltrone, soldi a pioggia, professionalità incerte. I nemici delle Film Commission italiane, Fc per brevità, hanno materia crescente per denigrare un sistema che in vent’anni di storia o poco più ha funzionato spesso come un’agenzia di promozione turistica, invece di rilanciare l’industria del cinema italiano, un tempo rigogliosa. Il calderone dei finanziamenti, spesso troppo modesti per essere tracciati in modo adeguato, alimenta di tutto dalla piccola produzione indipendente al progetto di animazione fino ai kolossal Usa come “Searching for Italy”, avventura enogastroculturale di Stanley Tucci andata in onda a maggio sulla Cnn e rifocillata con il denaro del contribuente veneto e piemontese.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 5 maggio 2022.
Lunga vita al cinema italiano (stavo per scrivere romano, ma poi mi sono accorto dell'infelice battuta) ma, avendo seguito in tv la serata dei David di Donatello, ho avuto la netta sensazione che qualcosa non tornasse (Rai1). Lasciamo perdere lo scimmiottamento degli Oscar hollywoodiani, lasciamo perdere la conduzione di Carlo Conti (per fortuna c'era Drusilla Foer, anche se non in forma eccezionale) ma si può far iniziare una serata di gala con le parole del ministro che ricorda ai presenti quanto lo Stato stia facendo per il cinema?
Come dire agli spettatori: guardate che i biglietti li pagate due volte, al botteghino e con le tasse (per chi paga le tasse). E il ministro Franceschini non ha un addetto stampa (pardon, alla comunicazione) che gli suggerisca frasi meno banali sulla differenza fra cinema e tv?
Ha detto: la differenza non è più tra grande e piccolo schermo ma tra esperienza individuale ed esperienza collettiva, quando al cinema è meglio andarci nel primo pomeriggio per non avere disturbatori attorno che tossiscono e chiacchierano. Tutti i premiati hanno ripetuto le seguenti frasi: «Sono emozionato Io non lo volevo fare questo film.
Non mi sentivo all'altezza» (vabbè ci sta, ma siete gente dello spettacolo!); «Non me l'aspettavo e quindi per scaramanzia non ho preparato il discorso» (la scaramanzia è un grande segno di professionalità?), «Ringrazio la mia famiglia che» (un esasperato familismo che pareva dicesse: se non ci fossero i miei che mi mantengono non potrei fare questo mestiere).
Persino Sabrina Ferilli ha ringraziato la famiglia che la sopporta e merita tanti David (ma chi, l'imprenditore Flavio Cattaneo?). A mezzanotte il cinema italiano ha detto la sua sull'invasione dell'Ucraina da parte di Putin: Drusilla ha letto il discorso di Charlie Chaplin ne «Il Grande dittatore» contro la guerra. Davvero un gesto coraggioso! Lunga vita al cinema italiano.
Massimo Colaiacomo per “la Repubblica” il 4 maggio 2022.
«Il conte Carandini fermo come Torre in Pietra che non crolla lancia il manifesto della nuova Internazionale: "Agricoltori di tutto il mondo unitevi! La terra ai Carandini!" » . Chi altri se non la penna caustica di Ennio Flaiano ( «mi spezzo ma non m' impiego») poteva condensare in un epigramma la figura del conte Nicolò Carandini, partigiano, liberale e proprietario della tenuta di Torre in Pietra e insieme ironizzare su uno slogan del Pci?
Nella Roma del dopoguerra, l'arte del motteggio e del calembour, della facezia e dell'arguzia, talvolta anche licenziosa, aveva il suo palcoscenico naturale nei tavoli dei caffè. Che fosse il bar Rosati, a piazza del Popolo, o il caffè Aragno, in via del Corso nel palazzo oggi occupato da Apple, o Babington, in piazza di Spagna, o l'Antico Caffè Greco, in via dei Condotti, una carovana di straordinarie intelligenze e di spiriti liberi affrontava una quotidiana transumanza da un caffè a un ristorante.
Giornalisti, scrittori, sceneggiatori, pittori, registi, scultori a una cert' ora del giorno, più spesso al calar del sole, a un segnale mai convenuto, si ritrovavano a occupare gli stessi tavoli, reduci dalla redazione di un giornale, o da un'atelier o da uno studio di Cinecittà.
Federico Fellini e Ugo Pirro, futuri pluripremiati con Oscar e David dì Donatello, Giovanni Russo, Mario Missiroli, Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante, Alberto Moravia (" l'amaro Gambarotta", era il calembour coniato per lui dallo scultore Mazzacurati).
Sui tavoli di quei caffè hanno preso corpo sceneggiature di film, come accadeva per Roberto Rossellini, frequentatore del caffè Strega di via Veneto: lo stesso da un cui tavolo il sulfureo Flaiano vedeva avanzare Vincenzo Cardarelli, intabarrato d'estate come a Natale, per apostrofarlo come " il più grande poeta morente"; o idee per un romanzo o un saggio.
Mario Pannunzio (" il profeta del passato", secondo lo spirito caustico del solito Mazzacurati) aveva nel caffè Rosati una succursale della redazione del Mondo, che era in via della Colonna Antonina, di fronte alla Camera.
Il caffè Aragno era stato, negli anni del regime, la meta prescelta dagli antifascisti che si ritrovavano nella terza sala interna. Dalla fine della guerra fino a tutti gli anni Settanta, in quel triangolo compreso fra piazza del Popolo, via del Corso e via Veneto si ritrovò quella società di intellettuali e di artisti, testimoni dell'effervescenza e della creatività di un Paese uscito materialmente distrutto dalla guerra ma ricco di energie civili e morali che sapevano felicemente esprimersi nelle diverse forme dell'arte.
L'Italia pluripremiata nel cinema a Hollywood, con Fellini, e la nomination per Rossellini, non era più solo il Paese sconfitto, ma si imponeva sempre più come una nazione in grado di risollevarsi faticosamente e non senza contraddizioni fino a ritrovare una propria identità. Roma, con i suoi caffè e i giovani talenti squattrinati che li frequentavano, fu in qualche modo il motore della rinascita civile, aiutata in quegli anni anche dal prestigio e dall'autorevolezza che circondava la politica.
Del fervore di quella stagione, delle speranze come delle inquietudini che accompagnavano quella generazione, Eugenio Scalfari è stato autorevole protagonista e testimone. La sera andavamo a via Veneto, uscito nel 1986, è un po' il regesto degli anni che dal Mondo di Pannunzio rotolarono, sotto la sferza degli eventi, verso la nascita di Repubblica. A via Veneto capitava saltuariamente un altro testimone d'eccezione, Giovanni Russo, "Giovannino" lo chiamavano gli amici, inviato speciale del Corriere della Sera e autore di grandi inchieste sulle condizioni del Mezzogiorno.
«Con Flaiano e Fellini in via Veneto, Dalla Dolce vita alla Roma di oggi» non è solo la sua memoria affettuosa o nostalgica di una stagione irripetibile, o non ripetibile in quegli stessi modi. È piuttosto l'amara delusione di chi ha visto sfiorire fino a spegnersi quella tensione civile e morale grazie alla quale l'Italia poteva riconoscersi nella sua storia. Alla fine degli anni Sessanta, attraversando piazza del Popolo in compagnia di un collega, Ennio Flaiano indicò una comitiva di giovani capelloni attovagliati rumorosamente ai tavoli del caffè Rosati. « Vedi quelli? - disse Flaiano credono di essere noi».
Dario Salvatori per Dagospia il 2 maggio 2022.
Il problema degli artisti italiani che non hanno successo nel mercato anglo-americano è un vecchio adagio. Stantio e irrisolvibile. Nel suo articolo Gino Castaldo cita alcuni dei nostri senatori, Franco Battiato, Francesco De Gregori, Lucio Dalla, Vasco Rossi, Mina, Fabrizio De Andrè, Lucio Battisti e nessuno di loro ha mai sfondato negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. I tentativi di De Gregori e di Battisti sono decisamente da dimenticare.
Il fatto è che in America si vuole qualcuno che si esprima correttamente nella loro lingua. Questo accade sia nel cinema che nella musica. Si dice sempre “abbiamo i migliori doppiatori al mondo”, certo, perché altrove non ci sono. Si preferisce vedere il film in originale.
Un mercato che da noi non è mai partito. In compenso, per esempio nel nord Europa, abbiamo bambini che crescono bilingue perché vedono film originali. Cantanti o attori è lo stesso. Oppure sei destinato ad essere una figura “etnica”. Jennifer Lopez è arrivata a 52 anni e nel 90% dei casi interpreta una donna latina. Difficile che possa rubare un ruolo a Nicole Kidman. Nella musica è quasi peggio. A Domenico Modugno, nell’anno di “Nel blu dipinto di blu”, che divenne “Volare” in America, pur vincendo due Grammy Awards (il riconoscimento nacque proprio quell’anno) lo ospitarono in uno show di prima serata dove interpretava un ruolo da “italiano”, pur avendo tutto, con tanto di pagnotta e fiasco di vino. Era prevista anche Katyna Ranieri, cantante sofisticata, moglie di Riz Ortolani, in quel periodo “resident” al “Ciro’s” di Hollywood dove si radunavano tutti i divi dopo aver girato. Rimase inorridita e cancellò la sua apparizione.
Nel 1960 cercarono di lanciare due artisti italiani di grande valore: Mina e Umberto Bindi. La prima arrivò in hit con “Il cielo in una stanza”, oltre la centesima posizione, l’artista genovese al n.47. Nello stesso 1958 Marino Marini si piazzò al n.2 in Inghilterra con “Come prima” e Renato Carosone nella Top Ten americana con “Torero”. Nel 1962 Emilio Pericoli piazzò “Al di là” (canzone vincitrice al Festival di Sanremo nel 1961 nella doppia versione Luciano Tajoli-Betty Curtis) al n.6 negli Stati Uniti e al 30 nel Regno Unito.
Nel 1964 toccò a Rita Pavone scalare la hit Usa, ci riuscì con “Remember me” toccando il n.10 (nel 1966 confermò il ruolo di artista internazionale con “Heart” n.21 in America e in Inghilterra l’anno dopo con “You only you” al n.10 nel ’67). Nel 1964 Gigliola Cinquetti, dopo aver sbaragliato tutti al Festival di Sanremo e all’Eurovision, si piazzò con il suo cavallo di battaglia (“Non ho l’età”) al n.17 (nel 1971 con “Go” andò meglio , n.8). Incuriosiscono casi sporadici di grande effetto, per esempio “Il silenzio” di Nini Rosso al n.8 nel 1965 in Inghilterra e la versione italiana di “Zorba’s dance” di Marcello Minerbi al n.6 nello stesso anno. Si tenga conto che in quel periodo Minerbi aveva un grande successo in Italia come componente dei Marcellos Ferial, quelli di “Sei diventata nera”, per intenderci.
Arriva anche il turno di Ennio Morricone con “The good, the bad and the ugly”(“Il buono, il brutto e il cattivo”) addirittura al n.1 in Inghilterra, condividendo il primato con l’orchestra di Hugo Montenegro. Morricone si ripeterà tredici anni dopo toccando la vetta nel 1981 con “Chi mai”, tema tratto dalla serie “The life and times of David Lloyd George”.
Nominalmente gli anni Settanta si chiudono con i tour in tutto il mondo di Raffaella Carrà, la quale con “Do it, do it, again” entra nei Top Ten inglesi collocandosi al n.9. Un caso è rappresentato dal successo al di là dell’Atlantico di Eros Ramazzotti e Laura Pausini, beniamini del pubblico latino, ma nei entrati nelle top generaliste. Gli anni Ottanta si aprono all’insegna di Sabrina Salerno, popolarissima in tutta Europa. N.3 in Inghilterra con “Boys”. Sua rivale, ma anche compositrice, Spagna, che con “Call me” (n.2)riesce a scalzare in hit addirittura Michael Jackson.
I Novanta segnano il successo di Zucchero, “Senza una donna” (“Without a woman”) n.4 nel 1991. Il 1995 è l’anno dell’affermazione di due brand italiani: “Miss Sarajevo” dei Passengers al n.6 e “If you wanna party “ di Molella featuring Outhere Brothers al n.9. L’anno dopo è il turno di Luciano Pavarotti che agguanta il n.2 in America con “Nessun dorma” nel 1996, a cui si affianca l’anno dopo “Con te partirò” di Andrea Bocelli sempre al n.2 statunitense.
Come si vede un panorama esteso, complesso, che annovera più stili e più personalità. Non vero che dopo Modugno le classifiche anglo-americane abbiano chiuso le porte agli artisti italiani. Diciamo che gli italiani, stando alle critiche dei d.j, difettano in “groove” e “bounce”. Quest’ultimo è un termine coreutico ed esprime il molleggiamento e la velocità del brano.
Negli anni Cinquanta i 45 giri, sotto al titolo del brano, degli autori e dell’interprete, compariva questo termine, forse per aiutare i ballerini, e dunque un “medium bounce” assicurava seduzione alla coppia ma anche un minimo di foga nell’allaccio. Se tutta questa vasta schiera di interpreti ci ha lasciato innumerevoli compilation e clip di alto valore, ora toccherebbe ai nuovissimi darsi da fare. In tre lustri di dominio (diciamo anche di monarchia) di rapper non c’è stato nessuno in grado di essere in qualche modo competitivo. Guardate i rapper americani, impostano la coreografia, si piazzano davanti ai ballerini, sanno cosa fare. I nostri no. Guardate Frankie Hi-Nrg-mc: voce baritonale e ruolo di Erode nel “Jesus Christ Superstar”. Ma non era lui il primo rapper? E’ il bounce bellezza!
Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 30 aprile 2022.
«Dobbiamo far sì che sia versata agli interpreti una percentuale congrua dei ricavi». «Gli attori dovrebbero avere un compenso adeguato e proporzionato agli incassi». Quelle pronunciate nei giorni scorsi da Neri Marcoré ed Elio Germano non sono frasi dal sen fuggite, ma lo sparo di partenza di una nuova fase nei rapporti tra attori, produzioni e istituzioni in Italia. I motivi dello scontento non sono di semplice comprensione per lo spettatore comune, abituato a considerare gli interpreti una casta di eletti, ricchi e famosi.
A differenza di Hollywood, in Italia i compensi delle star del cinema sono segreti, tutto si muove sul filo del «si dice». Secondo la rivista americana People With Money, nell'ultimo anno Terence Hill e Stefano Accorsi avrebbero fatturato 58 milioni di euro a testa, mentre per Money.it Checco Zalone per il solo Quo vado? avrebbe guadagnato, da attore e sceneggiatore, 6 milioni.
Qualche anno fa il sito di lifestyle snapitaly.it aveva stimato il patrimonio di Roberto Benigni intorno a 245 milioni di dollari, 75 quello di Sofia Loren, Monica Bellucci sui 45. Sempre secondo il sito, i grandi volti del nostro cinema inciderebbero mediamente sul budget del film di circa il 15%, con compensi dai 200 mila euro di Luca Zingaretti per un episodio di Montalbano ai 300 mila a pellicola per star come Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea.
Ma i top player sono pochi e in realtà il settore è in grave sofferenza. Ben oltre il famigerato «zero virgola», la risicatissima quota di diritti connessi spettanti agli attori che ha fatto esplodere la protesta.La madre di tutti i problemi è che in Italia, dal punto di vista fiscale, agli interpreti non viene riconosciuta una specificità propria, rientrando nella categoria generica dei lavoratori della comunicazione.
Un calderone indistinto, dai calciatori ai portalettere. A differenza di questi ultimi, gli attori dell'audiovisivo non hanno mai avuto un contratto collettivo di lavoro. Per questo un paio d'anni fa 1.400 interpreti di cinema, televisione e palcoscenico hanno creato Unita, l'Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.
Uno dei soci fondatori è Francesco Bolo Rossini (a breve a Cannes con la serie di Bellocchio Esterno Notte): «È dai primi anni Duemila - dice - che l'Europa ci chiede un contratto che stabilisca minimi sindacali, garanzie e diritti. Siamo l'unico Paese occidentale a non averlo. In più il Fondo di Previdenza per i Lavoratori dello Spettacolo è la sola cassa Inps in attivo: ha un tesoretto di oltre 5 miliardi di euro e produce un utile di esercizio annuo di circa 300 milioni.
Visto che il nostro è un settore con pochissimo welfare, l'avanzo consentirebbe di aiutare gli attori nei momenti di inattività. Questo ora non è possibile, perché con il sistema dei vasi comunicanti della previdenza italiana quelle somme vanno a coprire i disavanzi delle altre casse».
Poi c'è la proverbiale discontinuità dell'attore: in Italia vengono pagate solo le pose (le giornate effettive di riprese sul set), il resto va per la gloria. Non aiuta la prassi consolidata adottata dalla maggior parte delle produzioni di imporre all'attore la retribuzione a partita Iva anziché l'assunzione a tempo determinato. «Non esiste mestiere più subordinato di questo», spiega ancora Bolo Rossini.
«L'attore deve sottostare a un rigido sistema di regole fissato dal datore di lavoro: presentarsi in un certo luogo in un dato momento, lavorare per un determinato numero di ore, per mesi non può neanche tagliarsi barba e capelli. È a tutti gli effetti un lavoratore dipendente. L'assunzione non è impossibile da ottenere, ma devi avere un potere contrattuale particolarmente forte. Esistono produzioni virtuose sensibili ai diritti, ma in molti casi se non fatturi viene scelto qualcun altro».
Quanti sono gli attori in Italia? Difficile dirlo. Secondo l'Inps 83.390, con una media annua di 15 giornate lavorate e 2.818 euro guadagnati. Ma la cifra include anche i numerosissimi non professionisti, magari in virtù di una sola comparsata.
A fronte di un 3-4% di star e una percentuale analoga di attori cosiddetti «sopra la linea», c'è un 90% che galleggia o addirittura non riesce a camparci. Per contarsi, un collettivo di attori ha dato vita al Raai, Registro Attrici Attori Italiani, il censimento è in corso. «Un albo professionale non lo si può creare, perché la Costituzione Italiana prevede il libero accesso all'arte», spiega la portavoce Karin Proia, nel cast di Boris.
«Ma è fondamentale almeno delimitare il perimetro del professionismo. Vanno definite anche le tutele, al momento praticamente inesistenti o irraggiungibili ai più. Un esempio tra i tanti: per accedere alla maternità, attrici e danzatrici devono lavorare all'ottavo mese. Posto che tu sia in grado di farlo, ma chi ti prende con il pancione? Certo non la produzione di un film, visto che la pancia cresce e creerebbe problemi di continuità nelle scene. E ve la immaginate una ballerina sulle punte a un mese dal parto?».
Via la cuffia e gli occhialini, su il tocco! Da oggi chiamatela dottoressa Federica Pellegrini. Redazione Università su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022.
«La Divina» ha ricevuto oggi la laurea honoris causa all’università San Raffaele di Roma con una lectio magistralis su «La donna e la performance sportiva: come il ciclo mestruale può influenzarne la prestazione»
Federica Pellegrini
Via la cuffia e gli occhialini da nuoto, su il tocco! Non è stato solo Tim Cook questa mattina ad essere insignito della laurea honoris causa in un’affollata cerimonia alla Federico II di Napoli. Anche Federica Pellegrini da oggi è «dottoressa» in Scienze Motorie: la «divina» del nuoto italiano si è laureata «honoris causa» all’Università San Raffaele di Roma con una lectio magistralis dal titolo «La donna e la performance sportiva: come il ciclo mestruale può influenzarne la prestazione». Dalla prima medaglia di bronzo agli assoluti italiani nei 200 stile libero del lontano 2002 alla serie impressionante di vittorie in Italia e sui palcoscenici internazionali, fino ad arrivare ai Giochi di Tokyo, Pellegrini ha lasciato in eredità ai giovani un modello da seguire, abbinando ai comportamenti corretti in vasca e fuori la consapevolezza che nella vita si possono raggiungere risultati impensabili attraverso l’allenamento e il sacrificio. «Abbiamo voluto premiare non solo una campionessa con un palmarès straordinario, ma anche la persona che si distingue per le sue doti di sensibilità, per la sua voglia di sorprendersi, per la sua grande determinazione e per il suo impegno civile e sociale» ha affermato Vilberto Stocchi, Magnifico Rettore dell’Università.
La cantante Annalisa
La cantante Annalisa, di cognome Scarrone, che è stata scoperta da Amici ed è approdata anche a Sanremo, ha in tasca anche una laurea in fisica. Nata nel 1985 a Savona, ha studiato canto dall’età di 13 anni e si è diplomata al liceo scientifico prima di iscriversi all’Università di Torino, corso di laurea in fisica. Una scelta che, come lei stessa ha spiegato, è derivata «dalla piena coscienza dell’importanza di un titolo di studio e di una formazione culturale per la successiva ricerca di un lavoro e realizzazione personale»: «Io mi sono iscritta a fisica semplicemente perché mi piaceva. Ho iniziato fin da bambina a studiare musica e avevo intenzione di portare avanti anche quello. Quindi quando sono arrivata alla fine del liceo scientifico ho scelto una cosa più che altro che mi piacesse e che avrei potuto portare avanti insieme agli studi musicali».
Marco Malvaldi
Un’altra laurea che non ti aspetti è quella di Marco Malvaldi, l’autore dei gialli del BarLume da cui è stata tratta la serie tv con Filippo Timi. Nato nel 1974 a Pisa dove
Via la cuffia e gli occhialini, su il tocco! Da oggi chiamatela dottoressa Federica Pellegrini
di Redazione Università
«La Divina» ha ricevuto oggi la laurea honoris causa all’università San Raffaele di Roma con una lectio magistralis su «La donna e la performance sportiva: come il ciclo mestruale può influenzarne la prestazione»
Mr. Bean
Lo sapevate che Mr. Bean alias Rowan Atkinson ha conseguito una laurea in ingegneria elettrica presso il Queen’s College di Oxford? Ebbene sì: il grandissimo comico inglese ha iniziato a lavorare al suo personaggio più famoso, la quintessenza dell’inglese maldestro, proprio mentre studiava all’università.
Ma non c’è solo lui. Ecco un elenco di laureati famosi che forse non vi aspettate, pescati dal mondo dello spettacolo e dello sport, ma anche da quello delle lettere dove dietro i nomi di famosi scrittori si nascondono laureati in ingegneria, matematica e chimica (dall’ingegnere Carlo Emilio Gadda in giù).
Giorgio Chiellini
Il difensore e vice capitano della Juventus, classe 1984, ha conseguito la maturità scientifica al liceo Federigo Enriques di Livorno con il voto lusinghiero di 92/100 e nel 2010 si è laureato in Economia e commercio a Torino (voto 109). Meno sorprendente il titolo della tesi: «Il bilancio di una società sportiva, il caso di Juventus Football Club».
vive tuttora, Malvaldi non ha studiato Lettere, Storia o Filosofia, ma si è laureato in Chimica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, per poi conseguire un dottorato e fare per diversi anni l’assegnista di ricerca prima di abbracciare la carriera di scrittore. Talento multiforme, ha studiato anche al Conservatorio, tentando pure la carriera di cantante lirico...
Sio
Sio, alias Simone Albrigi (1988), autore della fortunatissima serie di fumetti Scottecs, è laureato in Lingue orientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il suo canale youtube, con i video scientifico-demenziali del dottor Culocane e le ricette assurde della signora Mariangiongiangela, ha 600 mila iscritti e conta 63 milioni di visualizzazioni.
Jodie Foster
L’ex bambina prodigio che a 3 anni già faceva la pubblicità del Coppertone in tv, la baby prostituta di Taxi Driver che diversi anni dopo, nei panni della giovane e tenace recluta di polizia Clarence Starling, riesce a conquistarsi il rispetto e un non scontato salvacondotto da Hannibal the cannibal Lecter nel Silenzio degli innocenti, si è laureata in letteratura inglese a Yale.
Cindy Crawford
La top model Cindy Crawford, icona dell’America rampante anni 80, ha mancato invece la laurea in ingegneria chimica: lasciò la Northwestern University per dedicarsi alla carriera di modella che le ha fruttato un patrimonio attorno ai 100 milioni di dollari. Non per niente vanta un quoziente di intelligenza altissimo: 156.
Hugh Grant
Hugh Grant si è laureato in letteratura inglese al New College di Oxford. Indimenticabili le sue foto in costume leopardato a un party della Piers Gaveston Society, la confraternita della gioventù dorata e debosciata di Oxford di cui ha fatto parte anche l’ex premier britannico David Cameron.
Claudio Baglioni
Il cantautore romano invece aveva lasciato la facoltà di Architettura dopo il successo di Questo piccolo grande amore a metà degli anni 70. E’ tornato alla Sapienza per dare gli ultimi esami ed è stato proclamato dottore discutendo una tesi sul restauro architettonico e la riqualificazione del gasometro di Roma nel 2004.
Emma Watson
Altra laureata in letteratura inglese, questa volta però alla Brown University, è Emma Watson-Hermione. La maghetta di Harry Potter, cresciuta sotto gli occhi degli spettatori nel corso dei vari episodi della saga cinematografica, si è iscritta alla Brown nel 2009, quando era già stata nominata «attrice dal maggior incasso del decennio».
Durante gli studi nella prestigiosa università dell’Ivy League, «nessuno mi ha mai chiesto un autografo», ha raccontato la Watson in un’intervista. Ma il giorno del diploma era accompagnata da una guardia del corpo nascosta sotto tocco e toga.
Elio (e le storie tese)
Stefano Belisari, in arte Elio, autore di canzoni di culto come Cara ti amo, dopo il diploma al Conservatorio di Milano si è iscritto al Politecnico dove si è laureato in ingegneria elettronica nel 2002.
Quentin Tarantino
Meglio di lei, a Hollywood, fa solo Quentin Tarantino. Il regista di film di culto come Le Iene, Pulp Fiction, Kill Bill e Bastardi senza gloria, ha un QI di 160, pari a quello dell’autore della teoria dei buchi neri Stephen Hawking.
The Rock
Il wrestler e attore Dwayne Douglas Johnson, più conosciuto come The Rock (fra i suoi ultimi film, Fast and Furious 5 e 6, G. I. Joe -La vendetta, Hercules il guerriero), si è laureato in criminologia all’università di Miami.
Edoardo Bennato
Nato a Bagnoli nel 1949, Edoardo Bennato si è laureato in Architettura con una tesi intitolata «Ristrutturazione della zona dei Campi Flegrei con particolare riferimento alle reti di trasporto urbano collettivo».
Guglielmo Stendardo
Il difensore dell’Atalanta non solo è laureato in Giurisprudenza ma ha anche superato l’esame di Stato per diventare avvocato due anni fa dopo un primo tentativo fallito.
Il giorno in cui ha passato l’orale presso la Corte d’Appello di Salerno ha dichiarato: «Volevo dimostrare come sia possibile conciliare la professione di calciatore con gli studi». Impresa tutt’altro che facile, visto che quando lo stesso Stendardo, alcuni mesi prima, aveva chiesto un permesso di tre giorni per andare a sostenere gli scritti, l’allenatore non solo glielo aveva negato (si era alla vigilia di una partita importante con la Roma poi finita malissimo: 3-0) ma gli aveva anche comminato una multa salata.
Sara Tommasi
La starlette divenuta tristemente famosa per aver preso parte ai festini erotici nelle residenze dell’ex premier Silvio Berlusconi, quelli finiti sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo come i «bunga bunga parties», vanta una laurea in Economia alla Bocconi. Oggi recita in film porno.
Carlo Verdone
Dopo la maturità classica al liceo Nazareno di Roma e prima di girare il suo primo film, Un sacco bello, Carlo Verdone si è laureato alla Sapienza in Lettere Moderne con una tesi sull’influenza della letteratura italiana nel cinema muto italiano. «Questa tesi è venuta a Carlo Verdone in «Un sacco bello»
fuori un po’ per caso - ha raccontato in un’intervista -. Tutto il mio piano di studi era stato incentrato sulla storia delle religioni dell’Oriente antico».
Renzo Arbore
Il foggiano «naturalizzato» napoletano Renzo Arbore si è laureato in Giurisprudenza alla Federico II. Di quegli anni ha raccontato: «Ero uno studente tutt’altro che eccellente. Uno così così».
Natalie Portman
L’eterea protagonista del Cigno nero, si è laureata in Psicologia ad Harvard nel 2003. Nata a Gerusalemme nel 1981, ha iniziato la sua carriera d’attrice giovanissima, recitando nel film di Luc Besson Léon al fianco di Jean Reno.
Arnold Schwarzenegger
L’ex governatore della California, Arnold «Teminator» Schwarzenegger, ha al suo attivo oltre a un passato come campione di culturismo e una filmografia che va da Conan il barbaro a True Lies, anche una laurea in Economia con specializzazione in marketing dello sport all’università del Wisconsin.
Paolo Giordano
Paolo Giordano, premio Strega nel 2008 con il romanzo La solitudine dei numeri primi, è laureato in Fisica delle interazioni fondamentali presso l’Università degli studi di Torino. Nel 2010 ha conseguito il dottorato di ricerca in fisica teorica.
Checco Zalone
Luca Medici, in arte Checco Zalone, si è laureato in Giurisprudenza a Bari, «l’unica città al mondo - come ha dichiarato lui stesso - in cui ci sono più avvocati che cittadini».
Ida Di Grazia per leggo.it il 24 agosto 2022.
Victoria De Angelis, la bassista dei Maneskin, continua sfidare la censura e l'algoritmo di Instagram postando scatti super sexy in cui mostra orgoliosa il suo corpo coprendo solo il seno con il nastro adesivo. Anche le sue performance sono spesso "nipple free", ma è proprio così originale?
Per Victoria gli scatti senza veli in cui mostra orgogliosa il suo corpo sono una sfida, post dopo post, all’algoritmo di censura di Instagram. Anche sul palco con i Maneskin si mostra spesso con dei copricapezzoli in stile burlesque. Ad esempio sul palco del Lollapalooza 2022, nei giorni scorsi, dopo aver messo solo il nastro adesivo a forma di "x" a coprire il seno, ha concluso il concerto togliendo anche quelli.
Provocatrice e libera dalle convezioni sociali la De Angelis è davvero così all'avanguardia? Tralasciando l'encomiabile messaggio di body positive, che continua a sottolineare sia nelle interviste che con le sue foto, in cui evidenzia l'importanza di accettarsi sempre e che tutti i corpi sono belli, c'è chi davvero provocava e "sconvolgeva" il pubblico italiano quasi cinquant'anni prima.
Stiamo parlando di Amanda Lear: eclettica, raffinata e provocatrice per eccellenza, la musa di Dalì, che oggi ha 82 anni portati divinamente, aveva usato il nastro adesivo sul seno già nel 1974 (anno in cui tra le altre cose, registrò insieme a David Bowie la sua prima canzone intitolata Star, che non venne mai pubblicata), quando la società era decisamente meno "libertina" rispetto ad oggi ed il senso del pudore e la censura, quella vera, poteva mettere fine alle carriere degli artisti del piccolo schermo.
Che gli artisti possano ispirarsi, a quelli del passato, o addirittura citarli, ovviamente non è una novità, nè qualcosa da condannare, anzi. Ne abbiamo un esempio proprio in Italia con Loredana Bertè e Madonna. I look della Bertè - il pancione, l'abito da sposa ecc... - sono stati di ispirazione per lady Ciccone, cosa che Loredana sottolinea anche sui social. Come ad esempio quando su TikTok ha postato uno scatto di Madonna del 1992 che fa l'autostop nuda vs il suo del 1984.
Ma quindi la domanda nasce spontanea: nessuno si inventa più nulla? E' già stato tutto fatto ed è già stato detto tutto? Dov'è la fantasia?
· Il lato eccentrico (folle) dei Vip.
Barbara Costa per Dagospia il 17 dicembre 2022.
50 anni di caz*i famosi, di caz*i dei potenti! Fa 80 anni Anthony Summers, uno dei più grandi… quale definizione metto, quella di saggista, o quella più spregiata di illustre gossipparo? Non v’è saggista di gossip più serio e di successo e invidiato di Anthony Summers, indagatore delle mutande del potere: presidenti, star, capoccia di Hollywood, icone, non c’è famoso smutandato a più riprese da Summers, e sopra tutti c’è lui, J. Edgar Hoover, per 40 anni capo dell’FBI, e crocifisso da Summers in una pruriginosa biografia, hard, e per questo motivo: è Summers che spiattella al mondo che Hoover, l’integerrimo e moralista Hoover, in verità era omosessuale e travestito e non come lo filma Clint Eastwood, dove Hoover era morbosamente attaccato alla mamma, tanto da indossare i di lei vestiti e sottane, no, non solo: J. Edgar a casa si infilava tutù rosa e scarpette da ballo, e… piroettava in salotto.
Una passione pesante pure per il suo amante di una vita, Clyde Tolson, suo vice FBI, relazione clandestina a chiunque tranne a una persona, chi? John F. Kennedy!!! Hoover ha intercettato ogni presidente che ha avuto, ascoltato le loro telefonate, e curiosava sulle amanti di Kennedy. Siccome Kennedy agiva per restringere l’autonomia della CIA e dell’FBI, Hoover, in ambasce per un tale declassamento, un giorno porta i nastri delle sc*pate di JFK a Bob Kennedy, min. della Giustizia (e neo capo str*nzo di Hoover per volere di JFK), sicuro di ricattarli.
Ma i Kennedy non erano stupidi e giocavano d’anticipo, sempre, e mostrarono a Hoover le foto di lui che si baciucchiava Tolson, domandandogli pure come andavano le prove in tutù. C’è voluta Dallas per fermare John F. Kennedy, assassinio che Anthony Summers fissa in "Cospiracy" (c’ha avuto non so quante edizioni, aggiunte, scoop e nuovi titoli), dove sbugiarda il "Rapporto Warren" e scrive che a sparare tra i cecchini ci sono i cubani quindi c’è Castro. Castro!!!
Kennedy non lo voleva fare fuori, no, sono stati i suoi predecessori a volerne la testa con piani paralleli alla "Baia dei Porci" di cui Nixon, 8 anni vicepresidente di Eisenhower, sapeva. E come li sapeva Hoover. Ma come non li sapeva Kennedy, che per questo muove guerra a FBI e CIA e che forse è per questo – è anche per questo – che gli fanno saltare il cervello…
Certo, Hoover sapeva che i Kennedy si sc*pavano Marilyn Monroe: Summers lo scrive nella sua "Dea", biografia di Marilyn Monroe, e porta le prove. Quali? I numeri di telefono. Se la Monroe nel suo appartamento di New York sulla 57esima est, che divideva da sposata con Arthur Miller (lo sapevi che Miller era feticisticamente fissato cogli alluci di Marilyn? E che Marilyn non portava mai gli slip, nemmeno col ciclo?
E che ha avuto fino a 15 aborti accertati da Summers, e forse un figlio, quando aveva 14 anni, dopo una violenza, o no, avuto a 21, ma dato in adozione, le avrebbe intralciato la carriera…), sull’elenco del telefono di New York il numero di casa Miller/Monroe stava sotto intestatario "Marilyn Monroe": Monroe che sta per nome e Marilyn per cognome, ed era il loro numero vero… e nessuno lo sapeva!
Che roba, ma senti: Marilyn, nella sua villa in California aveva due telefoni, uno rosa, ufficiale, e uno bianco, segreto, dove 476-1890 aveva un filo diretto col numero privatissimo di Bobby Kennedy, o altrimenti col “RE7-8200, il centralino principale del ministero della Giustizia”, e questo poco prima di morire, quando Bobby chiude con lei per quella volta che Marilyn s’era azzardata a chiamarlo a casa, e aveva risposto Ethel, la moglie di Bobby…
Ha fatto bene il "Toronto Sun" a dire che Woodward e Bernstein a Anthony Summers gli spicciano casa (traduzione mia) e infatti cambiamo Presidente: Franklin D. Roosevelt. Dovete sapere che i Roosevelt erano un clan dove si sposavano sempre tra cugini, e cugini erano Franklin e Eleanor, 6 figli, e letti separati: FDR ha avuto più amanti di JFK e una per 20 anni, Lucy Mercer, con cui faceva sesso pure alla Casa Bianca, contando sulla complicità di Anna Roosevelt, sua figlia.
E ci sta Lucy e non Eleanor con FDR quando a FDR piglia un colpo, e c’è Lucy e non Eleanor quando Franklin D. Roosevelt muore. Eleanor mica si disperava per le corna del marito: lei ci faceva figli ma in realtà era lesbica e una delle sue amanti più focose era Lorena Hickok, corrispondente dell’AP. Hoover mette sotto intercettazione più Eleanor che suo marito il Presidente, e Hoover dal 1964 al 1968 intercetta Martin Luther King, uomo da cui era ossessionato: è così che sappiamo del pene allegro del reverendo King, che amava le orge, e godeva di più se erano interracial.
Se il Presidente Nixon aveva una sola amante e cinese sicché per Hoover pericolosa nemica comunista, è Nixon che al telefono – intercettato – sa che “quel rompicaz*o di Hoover” è morto. E ci ride forte su. I caz*i di Nixon sono tutti in "Nixon – The Arrogance of Power", libro di Summers, e sono qui i suoi epiteti razzisti e le sue risate sguaiate, è qui il gossip della sua presunta omosessualità. Nixon era gay???
Chissà, fatto sta che da Presidente trascorreva numerosi weekend a Miami in casa di Bebe Rebozo, un lobbista, e uno che aveva finanziato le campagne elettorali di Nixon. Rebozo che era un mafioso. Mai la mafia impera nei libri di Summers quanto nella biografia che lui dedica a Frank Sinatra: sapete che Sinatra era proprietario del Cal-Neva, casinò con resort di Las Vegas, dove i suoi compari mafiosi riciclavano i proventi illeciti.
Questo Cal-Neva era posto al confine tra Nevada e California, e aveva una piscina enorme, metà in uno stato, metà in un altro. Su questa piscina svettava una bella fune rossa. Serviva a segnare il confine. Sul lato della California, quiete assoluta. Sul lato del Nevada, vai a festini, e alcool, e droghe e orge con m*gnotti e m*gnotte. Leggi differenti.
E non vi dico dei libri che Anthony Summers ha riservato allo scandalo Profumo, agli impicci della CIA e famiglia Bush pre l’11 settembre (libro finalista Pulitzer) e alla scomparsa di Madeleine McCann. E solo perché non li ho ancora letti.
Teresa Cioffi per corriere.it il 7 Dicembre 2022
La loro vita non è la solita routine. Dominano i plachi internazionali, colgono l’ispirazione per dare vita a brani cantanti in tutto il mondo, valorizzano il loro lato eccentrico (e a volte un po’ folle) per emozionare i fan. Sono artisti. Ma anche i grandi cantanti hanno le loro abitudini. Strane, in molti casi. A volte si tratta di piccole fissazioni per l’igiene, in altri casi di riti scaramantici o di hobby particolari. Dai grandi del rock alle icone del pop, andiamo a scoprire tutte le stranezze delle star.
The Rolling Stones e la shepherd’s pie
Insieme hanno fatto la storia del rock, ma non senza strane abitudini prima di salire sul palco. Il loro chitarrista, Keith Richards, non rinunciava al suo piatto preferito prima di esibirsi. Ogni volta si faceva portare in camerino la sua shepherd’s pie, un pasticcio di carne ricoperto di purè di patate. Si racconta che un giorno un ragazzo della sicurezza non abbia resistito alla tentazione e ne abbia assaggiato un pezzettino. Nessun perdono: pare che Richards si sia rifiutato di salire sul palco.
Bono Vox e il cappello portafortuna
Pare che Bono avesse l’abitudine di portare con sé in tour un cappello portafortuna. Nel 2003 gli U2 si trovavano in Italia per salire sul palco del concerto di beneficenza di Luciano Pavarotti. Arrivato nel nostro Paese, Bono si accorse di aver dimenticato il suo cappello a Londra. Senza perdere un minuto fece portare il suo accessorio preferito all’aeroporto di Gatwick in taxi e fece in modo che il cappello prendesse il primo volo diretto in Italia. Sembra che avesse chiesto ai piloti della British Airways di tenerlo con loro fino all’arrivo. Le voci dicono che abbia speso 1.700 euro per il viaggio del suo cappello.
Céline Dion e la temperatura in camerino
23 gradi. Non uno in più e non uno in meno. Era questa la temperatura che la cantante di «My Heart Will Go On» e di «It’s All Coming Back To Me Now» pretendeva nel suo camerino ad ogni concerto. Una fissazione più che un’abitudine, ma ognuno ha le sue richieste. E quelle di Céline Dion non sono nulla in confronto a quelle di Madonna.
I water nuovi
La regina del pop non ammette di utilizzare wc già testati da altri. Per questo motivo, quando gira il mondo per i suoi concerti, gli hotel sono costretti ad intervenire con water nuovi di zecca. Una strana abitudine che condivide con Mary J. Blige, ma Madonna chiede anche di più. Ad ogni tappa ci devono essere 30 guardie del corpo, 20 linee telefoniche internazionali e rose lunghe esattamente 15 centimetri.Katy Perry e la fissazione per i denti
Se Madonna si fa scrupoli per l’utilizzo dei water, anche Katy Perry è fissata con l’igiene, in particolar modo con quella dentale. Si lava i denti 6 volte al giorno e lo fa ovunque si trovi. Nella borsa c’è sempre spazio per uno o più spazzolini, senza dimenticare il dentifricio. I suoi incubi peggiori sono le carie, le macchie e l’alito pesante. Una tendenza condivisa con l’ex fidanzato Orlando Bloom, anche se una volta, ad una trasmissione radiofonica inglese, Katy Perry ha raccontato: «Ama il filo interdentale, grazie a Dio, ha dei denti brillanti. Lui però lo lascia ovunque».
Enrique Iglesias e il biliardo
Il mago del reggaeton estivo che ha fatto ballare migliaia di adolescenti a partire dagli anni Duemila ha anche lui qualche abitudine strana, soprattutto ai concerti. Nel backstage deve sempre avere con sé un tavolo da biliardo. Ovviamente non dice mai di no ad una partita insieme ai membri del suo staff, un rituale ormai diventato irrinunciabile.
Robbie Williams nottambulo
La vita di Robbie Williams è decisamente cambiata negli ultimi anni. Ha detto basta alle droghe e all’alcool. Ha anche smesso di fumare, ma ad una cosa non rinuncia: il cioccolato. Oltre all’abitudine di mangiare dolci, l’ex Take That ha raccontato di essere molto più produttivo di notte che di giorno. A quanto pare non va a dormire prima delle 5/6 di mattina: «Sono un nottambulo, è il modo in cui sono programmato – ha raccontato – lavoro molto e mi sveglio a mezzogiorno. Poi mangio verso le cinque di pomeriggio e mi sento pieno».
La dieta dei 7 colori
Sul cibo invece è molto attenta Christina Aguilera. Non solo perché la cantante ama avere uno stile di vita sano, ma anche perché la dieta che segue è un piacere per gli occhi. Si chiama «Dieta dei 7 colori» e prevede menù settimanali basati sui colori degli alimenti. Il primo giorno è bianco, il secondo è rosso, il terzo è verde e così via, seguendo la scala cromatica. Il vantaggio consiste nel consumare molte vitamine, minerali e fibre.
Justin Timberlake e l’aria condizionata
Cantautore, ballerino, attore, produttore discografico e maniaco dell’ordine. Anche Justin Timberlake ha le sue abitudini segrete. Una di queste riguarda l’igiene, soprattutto quando va in hotel. E se Madonna pretende di avere wc completamente nuovi, il cantante di «Can’t stop the feeling!» pare si faccia sostituire i filtri dell’aria condizionata in ogni albergo in cui passa la notte. Un'altra curiosità? A colazione pare immerga i biscotti nel latte per esattamente 7 secondi.
Harry Styles e la pulizia
Anche l’ex cantante dei One Direction pare sia fissato con la pulizia. In un’intervista rilasciata al Daily Mail qualche anno fa, gli altri membri della band inglese Liam Payne, Louis Tomlinson, Zayn Malik e Niall Horan avevano raccontato che «Harry ama che tutto sia pulito e ordinato. È fissato sul fatto di tenere il bus perfettamente a posto. È andato al supermercato e ha comprato una tonnellata di prodotti per la pulizia poiché non gli sembrava che il mezzo fosse abbastanza pulito». Forse iniziava ad esserci un po’ di tensione nella band…
Lady Gaga prima dei concerti
Agli sportivi viene detto di non fare sesso prima di una gara. Una regola adottata anche da Lady Gaga. Eccentrica e disinvolta, maestra di performance sul palco, la cantante non ha mai fatto del sesso un tabù. Ma, nonostante i costumi e le trasgressioni in scena, ha sempre preso la cosa molto sul serio. Tanto che a Vanity Fair ha raccontato: «Se fai sesso con una persona che non ami rischi di compromettere le energie positive». Per questo motivo, se non è coinvolta, preferisce evitare prima di un concerto.
Kim Kardashian e le iniezioni di sangue
Attrice e modella, si è dedicata alla musica con qualche singolo, il più noto dei quali è «Jam (Turn it Up)». La sua è un’abitudine davvero strana e riguarda il trattamento di bellezza che è abituata a fare. Parliamo di maschere per il viso. Sul mercato ce ne sono di tutti i tipi, ma Kim Kardashian ne utilizza una a base di sangue. Il trattamento si chiama vampire facelift e consiste nel prelevare una certa quantità di sangue e isolare le piastrine così da ottenere un plasma ad alta densità di componenti ematici, che vengono poi infiltrati direttamente nella zona che si desidera rigenerare.
Orietta Berti e il collezionismo
Anche Orietta Berti ha le sue particolarità, soprattutto per quanto riguarda il collezionismo. La sua passione, oltre alla musica, sono le acquasantiere e ne possiede di ogni tipo, alcune anche regalate dai fan. Non sono però gli unici oggetti da collezione. Pare che la cantante di «Fin che la barca va» abbia in casa anche numerose bambole, alcune delle quali mostrate in tv. Anche i puffi catturano la sua attenzione e sembra abbia numerose statuette blu.
Arisa al mare vestita
Il suo vero nome è Rosalba Pippa, è nata a Genova nell’82, ama il mare e le piace fare il bagno vestita. Nell’estate del 2020 si è fatta fotografare su bagnasciuga con una maglietta e un sorriso. In didascalia ha scritto: «Una delle cose che adoro è fare il bagno vestita. Voi l’avete mai fatto?».
VICTORIA DEI MANESKIN SUL CESSO
La FOMO di Victoria
Concludiamo con i Maneskin, che sono passati da suonare nelle strade di Roma ai palchi più prestigiosi del mondo. Una stranezza riguarda la bassista del gruppo, Victoria De Angelis, che ha raccontato di soffrire di FOMO, «fear of missing out», ovvero la paura di perdersi sempre qualcosa. Per questo motivo ha raccontato a Radio Deejey di uscire ogni sera: «Anche se sono stanchissima devo uscire per forza».
· La Tecno ed i Rave.
DJ set Così i rave e la musica techno hanno cambiato il mondo del clubbing. Claudio Coccoluto, Pierfrancesco Pacoda su L'Inkiesta il 2 Settembre 2022.
A un anno dalla sua scomparsa prematura, Baldini + Castoldi pubblica le memorie di Claudio Coccoluto. L‘artista fu tra i primi ad animare la scena internazionale con la cultura del suono dance
La filosofia del suono
Quello che deve caratterizzare un club è la qualità del suono.
Null’altro.
Così dev’essere un club.
Un contenitore ideale, concettuale, dice Coccoluto, un cubo
vuoto, nel quale immettere la musica, che è il messaggio. Tutto il resto è una sovrapposizione inutile. Che serve a distrarre dal potere assoluto del suono.
Il Ministry, appunto.
La maniera di intendere la discoteca che domina la scena notturna italiana, oggi come negli anni Novanta, è la filosofia del divanetto e dello specchio (o della cubista, più o meno vestita) e dei superospiti televisivi. Il nome del dj non è così importante. La discoteca è ormai un luogo strutturato con privé, tavoli, elementi che tendono a limitare il concetto «democratico» di annullarsi, perdersi nella musica, immergersi nel ballo facendo scomparire ogni tipo di divisione (sociale, sessuale…)
Un tempo era anche una necessità: non esistevano spazi ricercati e bisognava arrangiarsi. Ma noi la vivevamo come uno stimolo e non come una limitazione.
Coccoluto è un teorico della dance.
A lui non servono le belle strutture, ma una stanza con un impianto sopra la media dei sound system che si ascoltano nei locali. Il ballo deve sempre essere il contenuto centrale della notte in un club.
Con l’avvento della house si compie il ritorno all’essenziale, la riscoperta dei valori alla base di una festa: è la cultura del dopo rave, quando il successo di un evento era legato non solo alla qualità dei dj, ma anche alla scelta accurata di luoghi diversi, di scenografie poco usuali, dai parcheggi ai depositi di alimentari, agli hangar degli aeroporti.
Bisognava portare l’esperienza del rave, difficilmente attuabile per l’incapacità di chi organizzava a fronteggiare emergenze come l’invasione di migliaia di ragazzi, all’interno del club. Era la nostra sfida: consolidare una «politica» basata sui contenuti musicali.
Il rapporto con i rave
Il fenomeno dei rave si affacciò in Italia negli anni Novanta sull’onda dello scandalo dei primi rave inglesi. Lo scoprimmo attraverso i racconti dei viaggiatori, dei travellers della dance, che erano stati in Inghilterra e ce ne parlavano. Ma erano reportage nebulosi. Non capivamo esattamente di cosa si trattasse. Migliaia di ragazzi si muovevano, attraversavano nazioni, solcavano campagne e autostrade non per andare a un concerto rock, ma per ballare. E in quei luoghi non c’era un palco con una band che suonava, semplicemente la cabina di un dj. Era lontano da ogni immaginazione che diecimila adolescenti avvolgessero due giradischi e un mixer. E i racconti degli italiani che a Londra avevano provato l’esperienza del rave ne dilatavano la mitologia.
All’epoca il club aveva una dimensione strettamente limitata al territorio. Non si andava a ballare in un’altra città, il locale era un luogo di incontro, un’estensione della propria casa, un posto da comitiva. L’unica realtà in cui esisteva una vera «scena» era la riviera romagnola, dove la densità delle discoteche rifletteva soprattutto un sistema quasi industriale, dal bagno in spiaggia alla pensione, al ballo.
Poi, le regole del rave furono fissate: una lunga sequenza di dj e una durata infinita, se paragonata a una normale serata in discoteca.
Diventai un dj da rave per pura passione «nomadica» e tecnologica. A differenza dei tanti colleghi italiani che in quegli anni si erano avvicinati alla celebrità, ero l’unico a non avere una discoteca fissa. Cambiavo club con frequenza ed ero più disponibile degli altri. E poi avevo comprato, a rate, il primo vero oggetto del desiderio per chi faceva il mio mestiere: il telefono cellulare. Questo mi rendeva reperibile ovunque, sempre, e mentre gli altri dj erano legati a uno spazio fisico, a me nulla impediva di prendere le mie borse dei dischi, salire in macchina e viaggiare.
Il rave era una realtà caotica, una cultura dove la relazione tra musica e droga era fortissima: due concetti complementari. Una realtà, per i miei gusti, troppo inglese, estranea alla mia visione del club, ma il fascino delle moltitudini di ragazzi in adorazione era irresistibile.
Dovevo provarlo.
L’aspetto più innovativo del rave era la libertà assoluta di espressione, che si traduceva in una ricchezza di scelte musicali impossibili da portare nelle sale di una discoteca. Ma la totale improvvisazione ebbe vita breve: i rave si caratterizzarono subito come territori della techno.
La techno era allora il suono contrapposto a tutti gli altri, un suono da «setta». Chi la faceva e l’ascoltava, per definizione e scelta era in aperta opposizione con le altre sfere musicali. Una sorta di linea ritmica di demarcazione: chi la superava, diventava parte di una comunità separata.
I technomaniaci si consideravano degli eletti, come se dal punto di vista musicale e culturale vivessero in un limbo che permetteva loro di guardare con sufficienza il resto del mondo.
E gli altri generi.
Non ho mai amato i BPM [«beep per minute»] esasperati, velocissimi, frenetici, basati su un’ossessione ripetitiva, chiaramente legata al dilagare delle droghe sintetiche. Così mi invitavano ai rave con una funzione specifica: aprire o chiudere, con il mio set.
Le mie selezioni musicali venivano usate in apertura per anticipare gli eccessi elettronici che sarebbero seguiti, oppure all’alba, per riportare serenità con suoni più vellutati. Potevo perciò mettere la musica che amavo, lontana da quello che sarebbe accaduto nelle due ore successive quando sulla pista si sarebbero scatenati i ritmi più brutali, suono che la mia immaginazione nemmeno considerava. Era davvero un altro mondo.
Con questa scelta conquistai il rispetto della generazione dei raver, la tribù della techno (musicalmente diversa dall’elettronica di oggi) che aveva preferito separarsi dalla scena delle discoteche.
La techno era davvero contrapposta alla house, musica invece più melodica, armonica, con parti cantate in primo piano e strumenti musicali tradizionali che incontravano le batterie elettroniche. Basti pensare ai sensuali pianoforti della house di Chicago, un contrappunto melodico che è il segno di distinzione del genere. Ma house e techno erano due comunità contrapposte anche da un punto di vista ideologico, proprio come era accaduto per la disco e il rock, con la differenza che stavolta il dibattito era interno alla club culture. Uno scontro durato un decennio e azzerato soltanto da poco, avvenuto nell’Italia delle squadre di calcio, dei colori e dell’attaccamento alle proprie piccole certezze.
I rave italiani degli anni Novanta erano in verità molto ingenui. Nessuno aveva esperienze organizzative adeguate, nessuno pensava che potesse essere sviluppato (come era successo in Inghilterra) un rapporto di collaborazione con le istituzioni, e non c’erano garanzie di sicurezza per chi andava lì a ballare. Quando accettavamo di mettere dischi in un rave, noi dj sapevamo che non vi era alcuna certezza che l’evento si svolgesse, perché la polizia poteva chiuderlo prima ancora che fosse iniziato. Ma a un rave arrivavano migliaia di ragazzi, e quando si fa ballare così tanta gente i brividi sulla pelle non ti lasciano, dal primo solco sino a quando cedi la consolle a chi è in scaletta dopo di te.
Per i dj il rave ha avuto una grande importanza anche da un punto di vista etico. È stato forse l’unico evento capace di farti interrogare su cosa significa veramente questo mestiere. E su cosa significa il dj per i ballerini. Di certo il nostro era un punto di vista privilegiato. Trovarsi sul palco come le grandi star del rock permetteva di osservare le facce, i desideri di persone molto differenti da quelle che si vedevano in una discoteca.
C’erano tanti tipi di consumatori di rave. La sfida era trovare un sistema di relazioni che potesse raggiungere tutti, al di là delle diversità comportamentali; possibilità, questa, che il club non offriva, perché la discoteca era più selettiva nella proposta e anche nell’accoglienza. Credo che attualmente succeda soltanto a Ibiza che in un club si trovino a fianco, sulla stessa pista, tipologie umane così varie e interessanti. Hanno in comune una sola aspirazione, un solo desiderio: il divertimento, il puro edonismo.
Il rave era un’avventura nuova per tutti. Per chi organizzava, per chi metteva i dischi, per chi frequentava l’evento. Una scoperta continua. La differenza con Ibiza è tutta qui.
Nelle Baleari esiste, senza paragoni nel mondo, un’ipotesi di «divertimento preventivo». Significa che si arriva sull’isola con uno stato d’animo già predisposto al piacere, come se debba obbligatoriamente succedere. Come si trattasse di un valore, di un optional che si acquista nell’agenzia di viaggi nel momento in cui si prenotano l’aereo e la settimana tutto compreso.
Da “Io, dj. Perché il mondo è una gigantesca pista da ballo”, di Claudio Coccoluto e Pierfrancesco Pacoda, a cura di Gianmaria Coccoluto, Baldini+Castoldi, 176 pagine, 18 euro
· Alias: i veri nomi.
I veri nomi delle rockstar: da David Bowie fino a Bob Dylan (e molti altri ancora). Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022
Alcuni hanno scelto il proprio nome d’arte in autonomia, altri lo devono a qualcuno. C’è chi lo ha ereditato, chi lo ha preso in prestito dalla mitologia e chi lo deve ad un maglione
Sono diventati idoli con un nome diverso
Nella storia della musica in tanti, per un motivo o per l’altro, hanno deciso di farsi chiamare con uno pseudonimo. Alcuni hanno scelto un nome d’arte per creare un personaggio, altri per essere finalmente sé stessi. Due cose che non cadono per forza nella contraddizione. Da David Bowie a Joe Strummer, da Freddie Mercury a Sting, andiamo scoprire come le star del rock si chiamavano in origine e per quale motivo hanno scelto il loro nome d’arte.
David Bowie
Ha rivoluzionato il genere del rock e di pseudonimi ne ha avuti tanti. Così come sono stati tantissimi i personaggi che ha esibito sul palco. Mai però la personalità è venuta a mancare. In origine era David Robert Jones, poi è diventato Ziggy Stardust, The Thin White Duke per non dimenticare Alladin Sane, Halloween Jack e Nathan Adler. Più noto come David Bowie, ha voluto mantenere il nome di battesimo, mentre per il cognome si è ispirato ad un tipo di coltello americano, il «bowie» . Il Duca Bianco ha deciso di utilizzare questo richiamo perché «la sua figura poteva tagliare da entrambi i lati, incidendo un solco nella musica». Ma perché «Il Duca Bianco»? Un nuovo alter ego creato poco dopo la pubblicazione dell’album “Station to Station“, del ‘76. Il Duca Bianco era un personaggio aristocratico, elegante e vestito di bianco. Non è però l’unica interpretazione. Alcuni ritengono che il nome derivi dalla sua dipendenza dalla cocaina.
Gene Simmons
Il suo vero nome è Chaim Witz. Nasce ad Haifa, in Israele, in una famiglia ebrea di origine ungherese . Con la madre si trasferisce all’età di 8 anni negli Usa e qui decide di cambiare nome. Diventa Eugene Klein, anche se non passa troppo tempo da una nuova modifica. Preferisce infatti il diminutivo Gene perché ritiene che sia più americano rispetto al nome di battesimo Chaim. Klein invece è il nome da nubile di sua madre. Il cognome in seguito si trasformerà ancora una volta e negli anni sessanta sceglierà il definitivo «Gene Simmons».
Eddie Vedder
L’esponente più rappresentativo del movimento grunge, in realtà si chiama Edward Louis Severson III. Troppo nobile per il rock? in realtà la voce dei Pearl Jam non ha origini nobili. A parte questo, di fatto il nome era troppo lungo per essere efficace. Così scelse di chiamarsi semplicemente «Eddie», soprannome di Edward. Mentre per il cognome è tutta un’altra storia. Quando il cantante era ancora piccolo, i suoi genitori divorziarono. Sua madre si risposò con Peter Mueller e Eddie Vedder per anni pensò di essere suo figlio biologico, tanto da cambiare il suo cognome in Mueller. Infine scoprì che quell’uomo che mal sopportava non era il suo vero padre. Scelse quindi il cognome della madre, Vedder.
Joe Strummer
Si tratta del nome d’arte di John Graham Mellor, cantante e chitarrista del gruppo punk rock «The Clash». Nato ad Ankara, in Turchia, è il secondo genito di Ronald Mellor, diplomatico inglese. Si trasferisce successivamente nel Regno Unito, e qui inizia la sua passione per la musica. Dopo aver lasciato la scuola e aver imparato a suonare la chitarra sotto consiglio di un musicista di strada, ottiene un buon successo nei pub di Londra con lo pseudonimo di Woody. Il seguito però adotta il soprannome di «Strummer» (strimpellatore, dal verbo to strum) a causa di quel modo «rozzo» di suonare la chitarra. Così erano gli inizi. Ovviamente non poteva ancora sapere cosa sarebbe riuscito a fare con quella chitarra.
Bob Dylan
Robert Allen Zimmerman è il suo vero nome, anche se Bob Dylan nel ‘62 adottò legalmente il nome con il quale è passato alla storia. Nel ‘59 iniziò ad esibirsi sui palchi Minneapolis quando ancora era uno studente universitario. In realtà aveva già cambiato diversi pseudonimi prima di arrivare a quello definitivo. Passò per Elston Gunn, Robert Allyn e Bob Dillon prima del nome d’arte ufficiale, scelta dalla quale nacquero alcune leggende. Alcuni pensarono che il nome fosse ispirato al poeta Dylan Thomas, ipotesi smentita in seguito. La verità? Bob, soprannome di Robert. Il cognome invece nasce da un gioco di parole, ovvero dalla deformazione del nome di suo zio, Dillon.
Elvis Presley
Quando si dice Elvis si dice Presley. E, in realtà, è il suo vero nome. Non è noto invece il secondo nome del cantante, che era Aron. Elvis Aron Presley. Non lo adottò mai nella sua carriera musicale, un secondo nome scelto dai genitori in onore di un caro amico di famiglia. «Elvis» deriverebbe dal padre, Vernon Elvis Presley. «Aron» invece da un amico del padre, Aaron Kennedy, con una «a» in più. Nel secondo nome del mito del rock and roll c’è infatti un errore ortografico. Nonostante ciò, il cantante scelse di mantenere quel nome scritto male nella sua vita, ma non nella carriera musicale. Tutta una questione di semplicità.
Bono
Il cantante degli U2 è nato a Dublino il 10 maggio 1960. Nella capitale irlandese nasce anche il nome d’arte di Paul David Hewson, poi conosciuto come Bono Vox. Un giorno il cantante stava facendo un giro con l’amico Fionan Hanvey (poi membro dei Virgin Prunes, gruppo new wave irlandese). I ragazzi entrarono in un negozio di apparecchi acustici, che esiste ancora e che ancora si chiama Bono Vox. In latino significa «bella voce». Un nome più che appropiato, adottato immediatamente dal cantante. A Bono, invece, pare non essere mai piaciuto il nome della sua band, gli U2: «Non mi piace ancora, non mi piace davvero- ha raccontato - Sono stato in ritardo nel capire, non avevo realizzato che anche Beatles era un cattivo gioco di parole. Avevamo pensato alle implicazioni della lettera e del numero e nella nostra testa ricordavano l’aereo spia, era l’U-boat, era futuristico. Ma poi è diventato una sorta di accettazione implicita. No, non mi piace quel nome, non mi piace tutt’ora»
The Beatles
Il leggendario gruppo di Liverpool, composto da John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, e Ringo Starr deve il suo nome ad un membro del gruppo, che però non riuscì a suonare con loro a lungo. Si tratta di Stuart (detto Stu) Stucliffe, bassista che fu parte della band dal 1960 al 1961. Stuart a 22 anni iniziò a soffrire di fortissimi mal di testa. Fu visitato diverse volte ma non fu riscontrato nessun problema. Le sue condizioni però si aggravarono a tal punto che il 10 aprile 1961 il giovane bassista morì sull’ambulanza che lo stava portando in ospedale. Fu lui a suggerire il nome «Beatals» a John Lennon, che però lo modificò per richiamare la parola «beat», ritmo. Questa è una versione della storia. Una leggenda creata dallo stesso Lennon narra invece che intorno ai 12 anni il cantautore ebbe una visione, in cui un uomo su una torta fiammeggiante gli disse: «Voi sarete Beatles, con una A». Pare che da questa storia nacque «Flaming Pie», titolo dell’album di Paul McCartney.
Freddie Mercury
Il vero nome del grande frontman dei Queen? Farrokh Bulsara. Freddie è il diminutivo di Frederick, primo nome del cantante nella versione inglese. Mercury invece è stato scelto con cura e per spiegarlo bisogna prendere in causa gli dei dell’Olimpo. Nella mitologia Mercurio era il messaggero degli dei, figlio di Zeus e della Pleiade Maia. Fu lui ad inventare la lira, proprio quella di Orfeo, estratta dal guscio di una tartaruga. Mercurio, anche Ermes, è la divinità della parola e della comunicazione. Quale miglior cognome poteva quindi scegliere Freddie? Pare che lo fece scrivere anche sul passaporto.
Slash
Il chitarrista e compositore dei Guns N’ Roses deve il nome d’arte all’attore Seymour Cassel, amico del padre e noto per aver partecipato a numerose serie televisive come «Batman», «E.R» e «Ai confini della realtà». Saul Hudson (nome vero di Slash), in un’intervista rilasciata a Steve Jones ha raccontato: «Ovunque andassi in sua compagnia, lui cominciava a chiamarmi Slash, dal nulla. Fu una di quelle cose che le persone portano con sé nella vita. Le voci cominciarono a girare, così anche i miei amici smisero di chiamarmi Saul ed iniziarono ad attribuirmi quel soprannome». Che dura fino ad oggi: «Nessuno mi chiama più Saul, in realtà. Forse solo la polizia perché è scritto sulla mia patente di guida. Ho rifiutato di cambiare nome all’anagrafe anche se anche mio padre e mia madre mi chiamano Slash».
Sting
Gordon Matthew Thomas Sumner è Sting dei Police. E nel suo caso deve il suo nome d’arte ad un maglione. Aveva 17 anni ed era già in una band. Lui stesso ha raccontato che un amico con il quale suonava gli fece cantare una canzone a parer suo orribile. Così, per ripicca, incominciò a indossare un maglione altrettanto brutto. Era nero e giallo, a strisce. « Lui iniziò a chiamarmi Sting per scherzo» ha raccontato al Daily Star. «Sting» in inglese significa «pungiglione». Ha mantenuto il nome così come la passione per le api, tanto che il roker è proprietario di una tenuta in Toscana, a pochi chilometri da Firenze, dove alleva api e produce miele.
La storia da incubo della riedizione di Woodstock nel 1999. Gino Castaldo su La Repubblica il 5 Settembre 2022.
Negli Stati Uniti ci sono stati vari tentativi di replicare il leggendario festival del 1969. Quello del trentennale è stato un disastro assoluto di violenze e droga andata a male, raccontato in un documentario di Netflix
Il fatto che si sia svolto a Rome, in provincia di New York, non fa che sottolineare la grandiosità del disastro che fu l’improvvido tentativo di ricostruire la leggenda di Woodstock, trent’anni dopo. Un istruttivo e drammatico documentario visibile su Netflix col titolo “Trainwreck: Woodstock ’99”, racconta di questa impresa folle e male organizzata, che in realtà aveva avuto un preludio nel 1994 quando fu immaginata un’edizione del venticinquennale alla quale ho avuto la fortuna, o sfortuna a seconda del punto di vista, di partecipare.
Per motivi anagrafici avevo bucato l’edizione del 1969, quindi pensai che sarebbe stata una buona occasione, ma anche lì le cose non andarono tutte per il verso giusto: arrivarono 250mila persone, ci fu la pioggia di rito, c’era un cast di tutto rispetto e perfino alcuni dei reduci dell’edizione originale. C’era anche Bob Dylan, e insomma ci furono momenti esaltanti, era interessante vedere una nuova generazione di ragazzi che voleva vivere a suo modo lo spirito di Woodstock. Erano i giovani a renderla attuale e non pateticamente revivalistica. Ma eravamo consapevoli che la storia non fosse giusto ripeterla, e infatti al terzo giorno la maledizione si abbatté con feroce puntualità sotto forma di un disastro organizzativo di proporzioni inaudite. Era finito il cibo, i bagni chimici erano esplosi, l’organizzazione era completamente saltata, ci salvammo attraversando guadi di liquami puzzolenti e arrivando agli alberghi, piuttosto distanti, a piedi.
Fu una dura lezione che riguardava soprattutto il falso mito dell’organizzazione americana. Compresi che al confronto in Italia siamo impeccabili, maestri di efficienza e senso di responsabilità. In America al contrario erano irresponsabili e cialtroni, mettevano in moto eventi di proporzioni gigantesche senza averne il controllo. Non successe nulla di grave, per pura fortuna. Senza aver imparato nulla da questo disastro, hanno deciso di riprovarci nel 1999. Per fortuna quella volta ho resistito alla tentazione di andarci e il documentario di Netflix arriva oggi a confortare la scelta di allora.
Le tre puntate sembrano più che altro una serie horror, la prova di come un sogno di pace amore e bella musica possa trasformarsi in un incubo di violenze, droga andata a male, anarchia selvaggia, una sorta di regressione collettiva tipo “Il signore delle mosche”, colpa soprattutto dell’organizzazione che pensò a un’immensa piana di cemento che diventava bollente sotto il sole, con le bottigliette d’acqua a quattro dollari, pochissima sicurezza, nessun servizio di pulizia dell’area, una scaletta musicale poco ragionata e una generale disattenzione che fomentò la progressiva incazzatura del pubblico. Successero cose brutte, ma anche qui solo la buona stella della musica ha impedito che si trasformasse in qualcosa di ancora più tragico. Una lezione su come si può fare a pezzi un mito.
Da rockol.it il 2 agosto 2022.
Netflix ha pubblicato un trailer per il documentario 'Clusterf**k: Woodstock '99', che arriverà sulla piattaforma di streaming il prossimo 3 agosto.
Le prime notizie riguardo un film sulla manifestazione per celebrare i 30 anni dalla prima edizione del 1969 iniziarono a girare nel 2020. Purtroppo il festival fu disastroso e viene oggi ricordato per le violenze, il vandalismo, gli incendi, il pubblico inferociti nei confronti degli organizzatori che diedero l'impressione di avere interesse unicamente per il profitto tralasciando ogni altro aspetto.
Quanti hanno partecipato all'evento hanno raccontato di prezzi gonfiati, mancanza di protezione dalle alte temperature, scorte insufficienti di servizi igienici e acqua, personale sottopagato che ha abbandonato le proprie mansioni. Le autorità hanno successivamente denunciato 44 arresti, 10.000 persone che necessitavano di cure mediche e otto stupri nel corso dei tre giorni dell'evento. Un giornalista ha riportato che "c'erano solo ondate di odio che rimbalzavano dappertutto. Era chiaro che dovevamo andarcene".
In un comunicato Netflix ha dichiarato: "Il nome del festival del 1969 è sinonimo di pace, amore e ottima musica. Venne ripreso per un attesissimo 30° anniversario e commercializzato come una celebrazione del millennio. (…) Che cosa è andato storto? La docuserie 'Clusterf**k: Woodstock '99' si propone di trovare la risposta. Alcuni hanno incolpato la musica aggressiva delle principali band che vi parteciparono come Korn, Limp Bizkit e Rage Against the Machine; altri hanno puntato il dito contro lo sfruttamento commerciale da parte degli organizzatori del festival. Utilizzando rari filmati e interviste a testimoni oculari...".
Il produttore esecutivo Tom Pearson dal suo canto ha detto: "Questa è una storia epica e universale di nostalgia, arroganza, avidità e scisma generazionale, raccontata dal punto di vista di chi sta in prima linea.”
Franco Giubilei per “La Stampa” il 29 agosto 2022.
Non tutte le riedizioni riescono col buco: quando va bene hanno un sapore di nostalgia, ma quando va male finiscono in tumulti e violenze. A Woodstock 99, che intendeva celebrare il raduno rock per eccellenza degli Anni 60, il Love and Peace dei genitori si trasformò nell'Hate and Destroy dei figli, esasperati dalle condizioni del festival: asfalto di un'ex base militare invece dei verdi pascoli di Bethel, caldo allucinante, zero servizi igienici e security inesistente esasperarono i 400 mila ragazzi, che a fine manifestazione distrussero tutto.
L'intervento dei reparti antisommossa è l'ultima cartolina da un megaevento raccontato da un documentario Netflix, Trainwreck: Woodstock 99. Il contrario di quanto era accaduto a Bethel per i tre giorni di Pace e Musica, quando un mix di buona sorte e spirito hippy rese sopportabili i disagi provocati da un'organizzazione avventurosa, che intendeva portare 50mila persone e se ne ritrovò mezzo milione, molte delle quali in acido.
Trent' anni dopo l'aria era diversa: Rage Against the Machine, Red Hot Chili Peppers e i durissimi Korn invece di Jefferson Airplain e Jimi Hendrix, Metallica e Limp Bizkit a urlare la rabbia della generazione X.
A far danni ovviamente non fu la violenza della musica, ma l'impreparazione dei produttori: lasciate migliaia di giovani a cuocere in una spianata priva di bagni, con le bottiglie d'acqua vendute a otto dollari l'una, annullate l'evento conclusivo promesso e avrete la devastazione divampata a Rome, Stato di New York.
Le immagini del documentario sono molto eloquenti nel rendere il clima di quell'evento disgraziato: all'inizio l'illusione Love and Peace parve reggere, ma in breve il testosterone prese il sopravvento, con gruppi di giovani maschi che si assembravano intorno alle ragazze.
Gli slogan e i gadget fricchettoni venduti sul posto diventarono intollerabili quando venne a galla lo spirito speculativo dell'operazione. Le riprese Netflix mostrano mischie spaventose sotto il palco, dove a centinaia si scatenavano nel pogo, presto degenerato in risse vere e proprie.
Alla fine il furore del pubblico si abbatté su torri di strumentazione e palcoscenico, quindi i lacrimogeni della polizia riportarono la calma nel festival riuscito nella non facile impresa di imbrattare un monumento live alla musica rock di tutti i tempi.
Se a Bethel era andata bene in realtà era stata anche fortuna, perché le carenze organizzative erano colossali, ma poi venne Altamont, e fu chiaro che anche il mondo hippy generava i suoi mostri.
La decisione sciagurata di affidare agli Hell's Angels il servizio d'ordine di quel festival determinò scontri e violenze, con la banda di motociclisti che teneva a bada il pubblico a colpi di stecche da biliardo. Quando gli Stones conclusero Simpathy for the Devil un afroamericano 18enne, Meredith Hunter, si avvicinò al palco con una pistola finta e venne ammazzato a coltellate da un Hell's Angel. Il mito di Woodstock in realtà era andato in frantumi molto tempo prima della riedizione del 1999.
Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 25 agosto 2022.
Affitti una ex base militare piena di cemento e asfalto; ci metti 400mila spettatori per tre giorni di fila; fai suonare le band rock più aggressive in circolazione; subappalti la ristorazione ad aziende che fanno pagare otto dollari una bottiglia d'acqua; non hai un vero servizio d'ordine; non hai un numero sufficiente di servizi igienici; continui a scocciare tutti quanti sui fantomatici valori di pace e amore che sarebbero alla base dell'evento. Cosa può andare storto?
Ad esempio, alla fine, il pubblico potrebbe decidere di radere al suolo tutto quanto, palco incluso. Abbattere le torri dei tecnici audio. Incendiare qualche camion. Saccheggiare gli stand. Assediare gli organizzatori.
Abbattere il muro che circonda l'area. Continuare nella devastazione fino all'arrivo delle squadre anti-sommossa della polizia.
Andarono così i tre giorni della nuova Woodstock, organizzata nel 1999 a trent' anni dalla vecchia Woodstock, passata alla storia come un fine settimana di pace, amore, sesso, droga, musica. La Woodstock del '69 fu l'apice della stagione degli hippies. La località prescelta in realtà si chiamava Bethel, contea di Sullivan, una cittadina rurale 69 km a sud-ovest di Woodstock.
Elliot Tiber, il proprietario del motel El Monaco sul White Lake a Bethel, si offrì di ospitare il festival in una sua tenuta di 15 acri. Aveva già ottenuto un permesso dalla città per il White Lake Music and Arts Festival, che sarebbe stato un concerto di musica da camera. Quando si accorse che la sua proprietà era troppo piccola, Tiber presentò gli organizzatori a un allevatore, Max Yasgur, che accettò di affittare loro 600 acri (2,4 km²) per 75.000 dollari. Una miseria. Gli organizzatori, tra i quali spiccava Michael Lang, il vero inventore della manifestazione, dissero di attendere 50mila persone. Ne arrivarono 400mila. Il festival si protrasse dal 15 al 17 agosto 1969 ma la gente rimase un altro giorno, non voleva andarsene. Jimi Hendrix suonò all'alba e incendiò l'inno americano nel cielo mattutino. Si esibirono, tra gli altri Creedence Clearwater Revival, Jefferson Airplane, Santana, Janis Joplin, Sly & The Family Stone...
Il concerto fu un successo ma i promotori non guadagnarono nulla, almeno così dicono nello splendido documentario Trainwreck: Woodstock '99, tre puntate disponibili su Netflix. Fatto sta che Woodstock divenne un marchio e alla fine incassò il dovuto tra film, dischi, gadget. Nel 2019, ad esempio, sono usciti lussuosi e costosi cofanetti con le intere performance musicali della tre giorni. Nel 1994, Lang provò a rivitalizzare il marchio ma il festival non ottenne un grande successo. Nel 1999, l'organizzazione era più combattiva.
Questa volta, nessuno sarebbe entrato gratis. La base militare di statunitense di Rome nello stato di New York era perfetta perché enorme ma circondata da un muro. Il festival si svolse dal 22 al 25 luglio 1999. La lista degli ospiti musicali prevedeva la crema del metal e del cosiddetto nu metal: Limp Bizkit, Rage Against the Machine, Korn, Red Hot Chili Peppers, Megadeth, Metallica. Chitarre ad alto volume, testi rabbiosi, nichilismo. Parrebbe che gli organizzatori, questa volta, non sappiano chi hanno invitato a suonare. Il pubblico comunque risponde bene: arrivano in 400mila anche questa volta.
Progressivamente il festival diventa un delirio sempre più pericoloso.
C'è un caldo da allucinazioni, l'asfalto non aiuta. Mancano acqua, docce, servizi igienici. Nessuno pulisce, si dorme tra la spazzatura. Il servizio d'ordine non ha la minima idea di cosa debba fare. Nell'incertezza, resta immobile. Assistiamo a riunioni grottesche in cui anziani hippie, avidi di denaro, disposti a risparmiare su qualsiasi cosa, predicano la pace e l'amore universale ed esaltano «lo spirito di Woodstock», che non si capisce dove stia di casa. Non a Rome dove si svolge il concerto. Pace e amore è uno slogan per vendere magliette e lo spirito di Woodstock si riassume in: «arrangiatevi, è andata bene la prima volta, andrà bene anche questa». Invece va male.
Durante il concerto dei Limp Bizkit, si teme la prima sommossa. Il pubblico sprigiona elettricità, il gruppo rovescia benzina sul fuoco con l'esecuzione di Break Stuff, brano classico del repertorio, in cui si racconta di una giornata storta, in cui si ha voglia di fare del male a qualcuno. L'ultimo giorno, gli organizzatori hanno promesso un grande evento finale dopo l'esibizione dei Red Hot Chili Peppers. Invece non c'è nulla. Il pubblico si scatena e distrugge tutto. Alla fine si conteranno numerosi feriti e una notevole quantità di denunce per stupro e molestie.
Rimane una domanda nell'aria.
Come mai nel 1969 non successe nulla e nel 1999 successe un disastro?
Prima la pace e l'amore; poi la rabbia e la violenza? La prima Woodstock fu baciata dalla fortuna. Ma le vibrazioni negative erano già presenti anche nella Summer of Love. Infatti pochi mesi dopo, quando i Rolling Stones organizzano la «loro» Woodstock all'autodromo di Altamont, ci scappa addirittura il morto dopo una giornata di violenza cieca tra il pubblico e il servizio d'ordine affidato agli Hell's Angels.
La generazione che si presenta a Woodstock '99 è stata allevata a colpi di consumismo e nichilismo. I ragazzi sanno benissimo che tutto è merce, anche gli slogan patetici che i vecchi hippie ripetono come un mantra. Schiacciare i grilli parlanti (tra cui ci possiamo mettere anche Mtv e il mondo delle celebrità) fa parte del divertimento. Forse il documentario vorrebbe contrapporre la vecchia generazione di idealisti a quella nuova di nichilisti. In questo fallisce completamente. È chiarissimo che in questa storia non esistono i buoni, solo gli affaristi e le loro vittime.
Steve Della Casa per “La Stampa – TuttoLibri” il 31 ottobre 2022.
Hollywood, la grande fabbrica dei sogni, suscita da sempre tanto amore e tanto odio: sentimenti contrastanti ma da sempre conviventi, che si sono manifestati in saggi, romanzi, opere teatrali e film.
David Thomson, come tutti gli europei che si sono trasferiti nella Mecca del cinema (lui è inglese, ma si è presto trasferito in California diventando critico e docente di cinema tra i più famosi e stimati) prova esattamente questi sentimenti, e li utilizza come ossatura di un sorprendente racconto che viaggia sospeso tra grande storia e piccoli ma significativi aneddoti, ritratti al vetriolo e umorismo irriverente.
Lo spunto arriva da un film che, a pensarci bene, può essere davvero letto come una grande metafora della storia di Hollywood e che non a caso è diretto da un altro grande europeo che all'epoca si era trasferito proprio lì. Stiamo parlando di Chinatown, uno dei capolavori che Roman Polanski ha realizzato nel suo (purtroppo) breve periodo americano, prima dei problemi giudiziari che lo hanno spinto su altri lidi.
Chinatown, come sintetizza mirabilmente Thomson, è «una storia di acqua e di incesto»: l'investigatore privato interpretato da Jack Nicholson è (ovviamente) ingaggiato da una donna misteriosa, svolge le sue indagini e capisce che una strana perdita d'acqua è davvero importante e che uno strano legame unisce due belle donne e il padre di una di loro.
La vicenda del film è però raccontata non seguendo Polanski o Nicholson, bensì lo sceneggiatore Robert Towne, tre volte candidato agli Oscar (anche per L'ultima corvée e per Shampoo). Scopriamo così che Towne in precedenza era stato soprattutto un revisore di sceneggiature scritte da altri, a partire da Bonnie and Clyde di Arthur Penn dove era stato chiamato da Warren Beatty; che il finale tragico di Chinatown era fortemente voluto da Polanski; e che Towne aveva pensato di far ritornare l'investigatore in azione, dopo quella vicenda ambientata nel 1937, anche dieci anni dopo (e questo avvenne con il travagliatissimo Il grande inganno, sempre con Nicholson) e nel 1957 (ma questo terzo episodio non vedrà mai la luce).
Il racconto di Thomson va molto oltre gli aneddoti che interessano soprattutto i cinefili. Noah Cross, il padre-padrone dal nome biblico della storia magistralmente interpretato da John Huston, è secondo Thomson ispirato a William Mulholland, l'industriale che ha fornito il nome a una delle più note strade di Hollywood immortalata da David Lynch in un bellissimo film.
Mulholland era un imprenditore senza scrupoli che per primo pensò a Hollywood (anche) come luogo di possibile speculazione edilizia una volta risolto lo storico problema della mancanza d'acqua. Lo risolse, e ci fu il boom delle abitazioni di lusso. Su come fece ci sono molte opacità, e il racconto del film ne svela alcune. E, come Thomson ricorda, la popolazione cresce a dismisura. A Los Angeles nel 1890 abitavano 150.000 persone, nel 1915 già si superò il milione di residenti.
Ma non solo di Chinatown si parla in La formula perfetta - luci e ombre dalla fabbrica dei sogni. Ovviamente quando si parla di Hollywood non si può non citare Francis Scott Fitzgerald e in particolare l'incompiuto Gli ultimi fuochi dove lo scrittore mette in scena soprattutto Irvin Thalberg, il produttore del primo Ben Hur, lo scopritore di von Stroheim e di Greta Garbo.
Ma non aspettatevi una voce di enciclopedia. E lo stesso per Mayer, uno dei fondatori della MGM che Thomson ricorda soprattutto per aver inventato un lucidalabbra molto speciale per le tante attrici che portava a letto. Su Frank Sinatra cita Ava Gardner, che ricordava come ci fosse una parte del corpo del cantante che pesava davvero molto. Di Chaplin ricorda l'impegno sociale dovuto a un'infanzia difficile, ma anche la passione per le minorenni e l'abilità nel giocare in borsa che gli consentì di essere l'unico divo di Hollywood a non perdere soldi durante la crisi del 1929.
Racconta poi perché secondo lui La vita è meravigliosa non ha vinto l'Oscar, e spiega perché Howard Hawks (il regista di successi come Scarface, Susanna, Il fiume rosso) era così benvoluto. E confessa un grande amore per Nicole Kidman, ma per motivi insoliti: quando si è truccata per assomigliare a Virginia Woolf, infatti, non la si riconosceva più, proprio come anni prima aveva fatto Dustin Hoffman per Il piccolo grande uomo.
E c'è spazio anche per gli agenti degli artisti, descritti come una genia di vampiri che ha di fatto ammazzato lo star system. Attori, attrici, registi. Splendori e miserie, slanci umanitari e sesso estremo, arte purissima e intrighi infernali.
Un altro che conosceva molto bene Hollywood, lo scrittore e regista Kenneth Anger, intitolò la sua opera più famosa Hollywood Babilonia. Siamo da quelle parti, ed è probabilmente l'unico modo per raccontare la fabbrica dei sogni. Anche perché in un altro film della Hollywood classica ci si interroga proprio su questo, su quale sia la materia di cui sono fatti i sogni
Luca Monaco e Andrea Ossino per repubblica.it il 29 agosto 2022.
I pusher che girano "con lo zainetto pieno" al Festival del Cinema, i tentativi di riciclaggio con la pubblicità del Borotalco e le riprese del Commissario Rex, le apparizioni del boss de La Rustica vicino a Senese, Daniele Carlomosti detto "Il bestione", nella serie Romanzo Criminale, nei film con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks, oltre che in Gangs of New York, di Martin Scorsese. Anche la "mala" ama il grande schermo.
I ruoli attoriali, certo. Basti pensare alla presenza dei Casamonica, degli Spinelli, dei Di Silvio, nelle serie Suburra o in Vita da Carlo di Verdone. Attrae però soprattutto la produzione. Tanto da indurre la criminalità a mettere in piedi il "sistema cinema": un fenomeno scandagliato dalla magistratura.
La procura di Roma ha coordinato diverse indagini capaci di svelare le modalità attraverso le quali le organizzazioni criminali, specie certi personaggi vicini alla camorra, ripuliscono il denaro sporco infiltrando le loro aziende nelle produzioni degli spot pubblicitari e dei film. Rilevando cosa può avvenire dietro le quinte dei set cinematografici, ai festival o anche davanti alle telecamere, visto che i boss e i loro dipendenti non si sottraggono quando sono chiamati come comparse o attori, anche nelle pellicole da premio Oscar.
Gli affari di Vitagliano
A Roma l'interesse delle grandi consorterie criminali per il cinema è un fatto noto. I carabinieri e i finanzieri lo avevano capito già nel 2018, quando il sostituto procuratore Nadia Plastina aveva disposto l'arresto di Gaetano Vitagliano, un imprenditore napoletano ritenuto vicino al clan degli scissionisti di Secondigliano e altre 22 persone, sequestrando anche 280 milioni di euro tra immobili (261), conti correnti e 54 società.
Secondo le accuse iniziali i personaggi in odore di camorra riciclavano denaro attraverso i locali della movida romana: dal Macao di via del Gazometro, fino alla catena di bar Babylon cafe, passando per il Mizzica e il Dubai Cafe. I seguenti processi non sempre accoglieranno le tesi della procura. Ma le successive indagini dei carabinieri hanno permesso di scoprire l'esistenza di tre società riconducibili a Vitagliano: la Cisco, la Cisco Unipersonale e la Project.
Seguendo le fatture emesse da quelle società gli investigatori hanno bussato alla porta delle più importanti società cinematografiche, costrette a dover "giustificare operazioni di impresa soggettivamente inesistenti, rappresentate da prestazioni in nero fornite da terzi sul set di varie riprese cinematografiche".
Dalla pubblicità del Borotalco fino alla serie televisiva del Commissario Rex: molte produzioni venivano sfruttate dalla criminalità. Gli affari erano stati conclusi anni addietro, quelle indagini quindi sono state archiviate. Agli atti però resta quella che i carabinieri definiscono "una prassi consolidata": l'esistenza nel mondo del cinema, si legge nell'informativa redatta dai militari del Nucleo Investigativo, "di un consolidato e longevo sistema con il quale operai specializzati, quali macchinisti, elettricisti, fotografi, appartenenti a squadre costituite da tempo, si sono muniti di attrezzature e apparecchiature proprie".
Queste squadre, una volta assunte da un produttore cinematografico, "offrono alla produzione - spiegano ancora i carabinieri - il noleggio delle proprie attrezzature e apparecchiature senza che questi ultimi debbano ricorrere a gare di appalto e quant'altro". Da qui l'esigenza di giustificare le operazioni, soprattutto in caso di controlli da parte di chi ha emesso "finanziamenti a supporto delle medesime produzioni".
Le testimonianze dei produttori
Per questo nell'autunno del 2017 molti produttori sono stati ascoltati come persone informate dei fatti dai carabinieri: nessuno di loro è mai stato indagato per alcun tipo di reato. Dal fratello di Massimo Boldi a quello di Pupi Avati. E ancora i legali rappresentanti della Cattleya, la società fondata da Riccardo Tozzi, il produttore nel 2001 ha sposato Cristina Comencini, la madre di Carlo Calenda. Mario Ferdinando Gianani, marito dell'ex ministro Marianna Madia e fondatore della Wildside, ha anche consegnato agli inquirenti cinque fatture siglate con le società lavatrici di Vitagliano.
I militari hanno passato al setaccio i bilanci relativi alla "produzione denominata Luigi Tenco" della Vega's project, a quella del film Tutto tutto niente niente della Fandango, e anche le fatture emesse per realizzare Romanzo di una strage o Matrimonio a Parigi. Le società lavatrici di Vitagliano sarebbero entrate in contatto anche con gli studios di Cinecittà e con alcuni operai che hanno lavorato al film Venuto al mondo, diretto da Sergio Castellitto. "Gaetano Vitagliano o soggetti a lui riconducibili hanno pagato operai in nero con denaro contante, ricevendo da questi gli assegni della Duea Film", aveva invece raccontato Antonio Avati, fratello del regista Pupi e amministratore della Duea Film.
L'indagine sul produttore Muscariello
Vitagliano non è stato il solo a capire le potenzialità che offre il cinema a chi intende riciclare denaro. "Perché un film può costare 200 mila ma può costare pure 50 milioni di euro", diceva il produttore Davide Muscariello, classe 1997, una relazione sentimentale con una "tentatrice" della seconda edizione di Temptation Island e un'indagine a carico in cui si sospetta che l'uomo, coinvolto nell'inchiesta della finanza insieme a un carabiniere, un poliziotto e altre sei persone, avrebbe ripulito i soldi del clan Mazzarella di Napoli.
Muscariello non disponeva di "una realtà aziendale, di strutture, di risorse umane, professionali e strumentali adeguate rispetto alle operazioni fatturate", dicono le indagini del pm Francesco Cascini. E i suoi film non resteranno negli annali del cinema. L'ultima produzione, All'alba perderò, si è trasformata in un presagio: all'alba del 17 marzo scorso i carabinieri lo hanno arrestato, trovando anche collegamenti con l'ultimo boss albanese della Capitale, Elvis Demce.
Il Ghb al Festival del cinema
Non solo riciclaggio. Nel mondo del cinema e nei festival infatti girano molte persone e molti soldi. E il denaro attrae spacciatori di ogni sorta che sperano di fare affari. Lo spiega molto bene Clarissa Capone, la "zarina del Ghb" arrestata il 27 ottobre insieme ad altre 39 persone tra cui Claudia Rivelli, la sorella di Ornella Muti, che recentemente ha scelto di patteggiare la sua pena accordandosi con la procura per una condanna a 1 anno e 5 mesi di reclusione.
Spacciavano nuove droghe, tra qui quella dello stupro. Fentanili consumati nei festini della "Roma bene" o venduti nei festival. "Calcola che quando ci stava il Festival del Cinema io là ci andavo con lo zainetto pieno... cioè ci stavano giornalisti... cioè ci stava di tutto e di più... e da là poi so... sono arrivata ad un politico...da che ti fai il giornalista la voce si espande, la voce è arrivata pure all'assistente del politico...", conferma la ragazza non sapendo di essere intercettata.
La doppia vita del "bestione" Carlomosti dalla stanza delle torture al set
Soldi e fama. Le ambizioni dei criminali spesso coincidono con le opportunità offerte dal piccolo e dal grande schermo. E così capita spesso di trovare comparse o attori che tra estorsioni, furti, torture e crimini di ogni sorta prestano il loro volto al cinema. L'ultimo è Daniele Carlomosti, 43 anni, soprannominato "il bestione".
È il boss di La Rustica, che trascorreva le sue giornate tra i set e la stanza delle torture allestita dentro un appartamento popolare in via Naide 116 per seviziare le sue vittime, i cattivi pagatori. Dalla borgata di Roma Est fino a Cinecittà, Carlomosti ha lavorato con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks.
Ha partecipato anche alle riprese di Gangs of New York, di Martin Scorsese ed è stato fotografato al fianco di Claudio Amendola sul set del film di Antonio Albanese, Come un gatto in tangenziale, la stessa pellicola dove le gemelle Valentina e Alessandra Giudicessa hanno interpretato due ladre seriali, un ruolo che deve essere venuto spontaneo visto che capita diverse volte di imbattersi nelle sorelle tra i corridoi della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio, dove le due sono state accompagnate a più riprese per aver commesso furti.
I Casamonica dalla Romanina a Cinecittà
Altro fenomeno è l'interesse dei Casamonica per il mondo del cinema. Già nel 2015 gli investigatori hanno annotato che Lenka Kviderova, compagna di Antonio Casamonica e indagata insieme al suo ragazzo e altre due persone per un'estorsione ai danni del titolare di un ristorante a Ponte Milvio, aveva redditi che provenivano da alcune produzioni cinematografiche. La donna infatti aveva recitato in diversi film tra cui Fantozzi 2000 - La clonazione e in Zora la vampira.
Tre anni dopo, nel 2018, L'Espresso invece aveva scoperto che Luciano Casamonica, nipote del famoso Vittorio (ricordato per il funerale in stile "Padrino") e una serie di precedenti alle spalle, era stato reclutato nella serie co prodotta da Cattleya e Rai Fiction per scritturare sinti che recitarono nella seconda stagione di Suburra. I primi passi nel mondo del cinema Lucky Luciano, così si fa chiamare Luciano Casamonica, li ha mossi da bambino, recitando in western con Orson Welles e Tomas Milian. I suoi giovani parenti hanno coltivato la passione per il cinema. I Casamonica, gli Spinelli e i Di Silvio sono di casa a Cinecittà, non fosse per altro che la cittadella del cinema si trova a due passi dalle loro abitazioni alla Romanina e costituisce un importante polo economico sul territorio che controllano da decenni.
I nipoti di Nando, uno dei fratelli di Vittorio Casamonica, salutato con il funerale show in piazza don Bosco al Tuscolano nel 2015, hanno preso parte alla serie Vita da Carlo su Amazon prime, oltre che in Suburra, dove i Casamonica, non a caso, interpretano loro stessi. Attoriali durante le perquisizioni e gli arresti, ai funerali con la colonna sonora del Padrino come nei film.
Claudia Casiraghi per “La Verità” il 23 marzo 2022.
Cubetti di ghiaccio come antipasto per dare una scossa al metabolismo, omogenizzati a sostituire le portate, pugni come unità di misura e guai a sgarrare. I regimi alimentari , - «diete» nel termine che tanto fa gola a chi persegua ciecamente standard strampalati di magrezza o bellezza - dovrebbero basarsi, tutti, sull'equilibrio.
Ma, della virtù aristotelica che si trova nel mezzo, il nutrirsi delle star ha ben poco. Jennifer Aniston, Victoria Beckham, Madonna, e poi Chris Pratt, Angelina Jolie, Uma Thurman, Mel B, Reese Witherspoon, Renée Zellweger si sono scoperti adepti fedelissimi di diete assurde, finalizzate - ciascuna a modo proprio - a contenere oltre ogni logica la possibilità di ingrassare.
E poco importa che per farlo, per evitare di mettere su ciccia, ci si debba sottoporre a rituali drastici, ingolfarsi di bibitoni con «effetti secondari», costringersi a fagocitare esclusivamente salmone. Quel che conta, alla fine di giornate in cui il solo sedersi a tavola è sufficiente a provocare malumori, è essere certi di aver fatto il possibile per rimanere entro i ranghi (di canoni aberranti).
Mel B, fu-Spice Girl, per preservare intatta la propria forma fisica ha fatto voto di mangiare solo salmone. Salmone a pranzo, salmone a cena. Salmone a colazione e salmone ogniqualvolta il corpo chieda di essere nutrito. Salmone e poco altro, con una dedizione seconda solo a quella grazie alla quale Victoria Beckham è riuscita a nutrirsi di pesce alla griglia per gli ultimi 25 anni.
«Da quando l'ho incontrata, Victoria ha mangiato solo pesce alla griglia e verdure al vapore. Molto raramente si è discostata e si discosta da quello. L'unica volta in cui ha assaggiato qualcosa dal mio piatto è stato quando era incinta di Harper», quarta figlia della coppia, ha rivelato, non senza mestizia, David Beckham, specificando come la moglie «da allora non l'ha più fatto».
Posh Spice, come la collega, è tornata al suo pesce grigliato, triste forse, ma certo meno bizzarro degli omogenizzati ingurgitati da Reese Witherspoon. L'attrice è una delle entusiaste della «baby food diet», un modello nutritivo inventato da Tracy Anderson, blasonata personal trainer delle star. Questa ha deciso di imporre ai suoi clienti di sostituire i pasti, meglio se colazione e cena, con un omogenizzato a scelta fra quelli che si propongono ai bambini.
Carne, pesce, quale gusto abbiano le pappette frullate è secondario. Ciò che conta, per seguire la dieta così come la Anderson comanda, è assumere fra due e 14 vasetti al giorno, privandosi per conseguenza dei cibi solidi. Cibi che, di riffa o di raffa, sembrano esercitare sugli abitanti di Hollywood una paura ancestrale.
«La gente a Los Angeles è spaventata a morte dal glutine. Giuro su Dio, qualcuno potrebbe derubare un negozio di liquori impugnando un bagel», ha scherzato Ryan Reynolds, che, in un tweet, è riuscito a fotografare con estrema nitidezza un quadro semipsicotico.
Chris Pratt, nell'estrema convinzione di potersi mantenere muscoloso, ha deciso di sottoporsi al cosiddetto «digiuno di Daniele», una dieta che affonda le proprie radici nell'Antico Testamento: impone a chiunque la segua di eliminare per 21 giorni i «cibi del re»: carne, prodotti lattero-caseari, alcolici, dolcificanti, pane lievitato e tutto quel che una pagina dedicata di Wikihow («Come digiunare come Daniele») si premura di enumerare. Pratt, per ragioni di sopravvivenza, pare circoscriva il digiuno a pochi momenti all'anno.
Elle Macpherson, come Jennifer Lopez, cercherebbe invece di farne uno stile di vita. La top model e la cantante si dice abbiano bandito dalla propria tavola zuccheri artificiali, cibi raffinati, bevande alcoliche e caffeina. Rovinerebbero il corpo da dentro, invecchierebbero la pelle. C'è chi mangia a costo di osservare con tanto di calendario alla mano l'evolversi del sistema solare.
Madonna, convinta che la Luna eserciti influenza sul girovita, in nome dello stesso principio che porta il satellite a governare le maree, si sottopone a tre giorni di purificazione mensile, assumendo in corrispondenza della fase di luna nuova solo cibi liquidi. Sostiene che, così facendo, il corpo umano possa eliminare fluidi e tossine in eccesso.
Tesi bizzarra, seconda solo a quella in virtù della quale Renée Zellweger apre ogni suo pasto succhiando cubetti di ghiaccio: Bridget Jones sembra convinta che l'acqua congelata possa aumentare il suo senso di sazietà, portandola a consumare meno cibo una volta seduta a tavola. Perciò, anziché godersi un antipasto tradizionale, l'attrice spilucca ghiacciolini senza sapore.
Li ciuccia e li mastica, certa pure che il freddo aumenti il dispendio calorico. E vada al diavolo la scienza, la marea di dottori pronta a certificare come certe diete rovinino l'organismo. A casa Zellweger, come nelle altre magioni hollywoodiane, ad imperare è la solita e vecchia legge che alla bellezza lega, in un binomio indissolubile, la sofferenza.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 marzo 2022.
Alcune coppie di vip ci fanno arrabbiare, altre ci fanno sognare. Il modo in cui si guardano, le storie che raccontano sulla loro vita sessuale, tutte queste cose ci fanno capire quali coppie stanno facendo sesso bollente e quali no.
Ma è sufficiente guardare una coppia per capire quanto sesso sta facendo? È possibile fidarsi delle loro affermazioni vanagloriose? Quali segnali indicano che una coppia è rovente sotto le lenzuola?
Ecco la mia opinione su quali sono le coppie veramente bollenti e quali invece sono dei bluff.
Will Smith e Jada Pinkett Smith. Le voci sul loro matrimonio aperto sono scoppiate nel 2003 e sono state confermate nel 2021 durante un’intervista a GQ. Will ha confessato che Jada non aveva mai creduto nel matrimonio convenzionale, ed entrambi hanno avuto rapporti sessuali con altre persone al di fuori del matrimonio. Jada ha confermato una relazione con August Alsina.
Forse questo spiega perché una coppia sulla cinquantina, sposata da 24 anni e con figli, mostri un linguaggio del corpo così apertamente sessuale. Jada ha ammesso di dedicarsi al sesso spontaneo (hanno fatto sesso in una limousine mentre andavano agli Academy Awards), sesso frequente (“tanto sesso” era il segreto di bellezza di Jada), sesso soddisfacente («sesso davvero, davvero buono è il segreto per un matrimonio duraturo», ha detto a David Letterman) e sesso in semi-pubblico (in un'altra intervista ha ammesso di aver fatto sesso all'aperto, in macchina, a casa di amici e in costume). Nel suo talk show Red Table Talk, Jada parla spesso della sua vita sessuale con Will, quasi sempre in termini entusiastici.
Le foto di loro due insieme hanno tutti i tratti distintivi di una coppia innamorata e lussuriosa: spesso si baciano appassionatamente in pubblico e i loro busti sono spesso in contatto (un segno che la coppia si collega sia a livello di amore che di lussuria). È interessante notare che Jada mette spesso una mano sul petto di Will quando posa in pubblico: un gesto che solitamente viene usato per mettere in guardia gli altri sul proprio compagno.
È probabile che le loro non siano solo chiacchiere: di solito sono scettica nei confronti delle coppie che gridano "Stiamo facendo sesso fantastico!" ai quattro venti. Ma le loro interviste sembrano estremamente oneste e non sono mai contraddittorie, inoltre si presentano come una delle coppie più felici di Hollywood. Gli credo! 9.5/10
Kim Kardashian e Pete Davidson. Kim l'ha reso ufficiale su Instagram giorni fa, ma esce con Pete Davidson da cinque mesi, suscitando la collera dell'ex Kanye West. Alcuni (me compresa!) Non capiscono bene perché il comico del Saturday Night Live abbia un tale fascino, ma le sue storie d'amore con alcune delle donne più belle di Hollywood sembrano certamente intensamente sessuali.
Se non sta baciando intimamente Ariana Grande sul tappeto rosso, sta baciando con la lingua Kate Beckinsale (20 anni più grande di lui) a una partita o si sta baciando in piscina con la figlia di una top model, Kaia Gerber. Il linguaggio del corpo in tutte le foto invia un messaggio chiaro: stiamo facendo sesso bollente.
E io ci credo, ma non con la sua ultima conquista. Kim – la sex symbol più bancabile del mondo – pubblicizza costantemente la sua sessualità in un'implacabile raffica di pose suggestive nude e seminude.
Secondo quanto riferito, il suo famigerato sex tape con Ray J le ha fatto guadagnare milioni per un motivo: non era solo una celebrità che faceva sesso, era una celebrità che sembrava che si stesse davvero divertendo.
La coppia Pete e Kim in quel periodo sarebbe stata dinamite sessuale. Da allora, ogni mossa di Kim è stata fatta sotto gli occhi del pubblico, al punto che dubito che lei stessa conosca la differenza tra fantasia e realtà.
Le manifestazioni pubbice di affetto apertamente sessuali di Pete fanno pensare che porti un tocco vigoroso e animalesco alla camera da letto. Ma le pose sul tappeto rosso di "Look at me" di Kim, in cui l'ex Kanye era costretto a stare dietro di lei come una guardia del corpo piuttosto che come un partner, suggeriscono che ha perso la connessione con qualsiasi vera passione anni fa.
Probabilità che facciano sesso fantastico: 5/10. Se c'è del sesso bollente, dipenderà da Pete.
Jennifer Lopez e Ben Affleck. Si sono incontrati durante le riprese mentre J-Lo era ancora sposata e si sono presentati al pubblico nel 2002, e altrettanto rapidamente si sono fidanzati.
Quello che era iniziata come una storia romantica, è andata rapidamente in crash a causa dell’«eccessiva attenzione dei media». Entrambi si sono risposati e hanno divorziato, Ben ha combattuto pubblicamente l'alcolismo, prima di ritrovarsi l'anno scorso.
Ora Jennifer proclama: «È una bellissima storia d'amore e abbiamo avuto una seconda possibilità». Le foto della coppia mostrano Ben, in particolare, che mostra un linguaggio del corpo intensamente adorante. Lui inclina la testa per appoggiarsi sulla sua guancia, chiudendo gli occhi e guardando sognante in lontananza e la bacia costantemente sulla fronte. Lei risponde in modo gentile appoggiandosi a lui.
L'amore, chiaramente, non è scarso in questa relazione. Ma che dire del sesso?
Il sesso con l’ex è una cosa curiosa. Le persone spesso si separano con gli ex, anche se ci hanno fatto il miglior sesso della loro vita, quando mancano altre qualità altrettanto importanti. Il motivo per cui molti ex finiscono per diventare “amici con benefici” dopo che la relazione è finita è perché la scintilla sessuale rimane. E poi loro conoscono il tuo corpo e i tuoi stimoli sessuali, tu conosci i loro.
L'abbondanza di foto di Ben e Jen che si baciano appassionatamente in mille luoghi – sia privati che pubblici – suggerisce che non è stata certo una mancanza di passione a far separare questi due la prima volta. Immagino sia l'amore e la lussuria che li terrà uniti.
Probabilità: c'è una gioia così evidente da entrambe le parti e una volontà di mostrare vulnerabilità (necessaria per lasciarsi andare davvero sessualmente), che assegno loro il punteggio perfetto 10/10.
Megan Fox e Machine Gun Kelly. Sposata con Brian Austin Green da dieci anni e tre figli, Megan ha incontrato Kelly durante le riprese di un film. Hanno iniziato come amici, poi lei ha lasciato suo marito e ha recitato nel suo video musicale.
Kelly è tipo completamente diverso dall’ex marito. Brian era pulito e tradizionalmente di bell'aspetto; Kelly è eccentrico, appariscente, pesantemente tatuato.
Lei lo chiama "dolcemente bello" e la sua "fiamma gemella". È stata al suo fianco mentre usciva dalla tossicodipendenza. Indossa una fiala con il suo sangue al collo (alias Angelina e Billy Bob Thornton) e i due, per un evento, si sono incatenati insieme.
Megan si è vantata di aver fatto sesso su un tavolo in una proprietà di Airbnb («Sono davvero felice che non sia più il mio tavolo») e che fanno "il tipo di sesso che convincerebbe Lucifero a stringere il suo rosario».
Ha una "passione" per i piedi (e i suoi sono apparentemente molto belli) e gli piace succhiarli. Eppure, il loro linguaggio del corpo è curiosamente indifferente, sia sessualmente che emotivamente. Ti aspetteresti di vedere un sacco di drappeggi del corpo (letteralmente, dappertutto), intenso contatto visivo e coccole.
Invece, si mettono in posa come le Kardashian. Il braccio sopra la sua spalla, la mano appoggiata sul suo petto servono più a per mostrare le sue lunghe unghie appuntite che a trasmettere affetto (seriamente, quanto sono pratiche quelle unghie durante il sesso, a proposito?). Posano costantemente per la telecamera di fronte, invece che l'uno verso l'altro.
Anche quando vengono colti alla sprovvista, il linguaggio del corpo non è eccezionale. Ci sono poche prove del legame feroce e potente di cui si vantano.
La probabilità che facciano un ottimo sesso: non dubito che il loro sesso sia sperimentale, con entrambi ugualmente desiderosi di provare quante più pratiche sessuali possibili. Dubito che entrambi siano in grado di perdersi nel momento e godere appieno di una connessione intima. È un 4/10 basso da parte mia.
Penepole Cruz e Javier Bardem. Separatamente, entrambi trasudano sex appeal, ma è quando sono insieme che le scintille volano davvero.
I sex symbol Penelope Cruz e Javier Bardem si sono incontrati nel 1992 durante le riprese di "Jamon, Jamon". Hanno continuato a girare film insieme per anni, e i fan che volevano che si incontrassero nella vita reale. Ma non è successo fino a un decennio dopo.
Come star solitarie, le loro immagini erano rare. Ecco perché le loro foto audaci, su una spiaggia in Brasile 12 anni fa, hanno fatto molto scalpore. Lui le stava afferrando la natica, lei ricambiava. Una certa pressione vigorosa sulla parte inferiore del busto suggeriva anche una forte connessione sessuale. Le foto sul tappeto rosso di loro due mostrano molta giocosità e ricerca l’uno dell’alto (si guardano intensamente in viso per controllare le emozioni).
Un matrimonio e due figli dopo, Javier ha concluso una recente intervista con una degna riaffermazione del motivo per cui non espongono la loro relazione agli occhi del pubblico: «Dobbiamo proteggere 'noi'».
Probabilità che facciano sesso fantastico nella vita reale: tutti quegli anni di tensione sullo schermo ribollente non consumata! Hanno due bambini piccoli do loro lo stesso un punteggio di 8/10 come coppia.
Estratto dell’articolo di Gianni Poglio per “Panorama”, pubblicato da “La Verità” il 3 marzo 2022.
Non solo Mahmood e Blanco a Sanremo: duetti e raduni di star della canzone sono una tendenza consolidata in tutto il mondo Da Ed Sheeran e Taylor Swift all'attesissimo concerto in coppia De Gregori-Venditti, l'unione è la nuova chiave del successo.
In estrema sintesi è questo il claim vincente della musica contemporanea. Special guest, featuring e duetti sono le tre parole chiave di una tendenza che ha di fatto abolito l'idea che un album sia un evento artistico esclusivo del cantante che sulla copertina di quel disco ci mette la faccia. Nella musica italiana come in quella internazionale, e senza nessuna distinzione di genere, emerge un'inarrestabile voglia di gioco di squadra, di contaminazione.
E così un duetto non se lo nega nessuno, nemmeno Ed Sheeran e Taylor Swift, che di recente hanno unito le voci nel singolo The Joker and The Queen. Per non parlare di Elton John che alla vigilia dell'ultimo tour della sua carriera ha addirittura pubblicato un album con sedici duetti registrato via Zoom nei mesi del lockdown, o dei Coldplay con Selena Gomez in Let Somebody Go.
O, ancora, Bruno Mars e Anderson Paak con una nomination nella categoria «incisione dell'anno» ai Grammy 2022 per il brano Leave the Door Open. E in Italia? Taxi Driver di Rkomi, al secondo posto nella classifica italiana degli album, a 42 settimane dalla pubblicazione, vede il rapper milanese collaborare con Tommaso Paradiso, Gazzelle, Irama, Sfera Ebbasta, Elodie, Dargen D'Amico, Calibro 35 e molti altri ancora.
Unirsi funziona alla grande, come dimostrano chiaramente i vincitori dell'ultimo Festival di Sanremo, Mahmood e Blanco, che con Brividi hanno già conquistato due dischi di platino e battuto ogni record precedente su Spotify con 3 milioni e 384 mila clic nelle prime 24 ore di streaming. Sono al primo posto nella programmazione radiofonica italiana e al quindicesimo nella Billboard global 200, la classifica dei brani più ascoltati e acquistati al mondo.
Una prova inequivocabile di come la generazione Z abbia completamente ridisegnato la fruizione dei brani in gara all'Ariston. E non solo in chiave nazionale. L'anno scorso i Måneskin, dopo il trionfo sanremese con Zitti e buoni, hanno conquistato il primo posto nelle classifiche streaming di 32 Paesi in meno di un giorno. Un boom sensazionale che nel giro di pochi mesi li ha portati a duettare con l'iguana del rock, Iggy Pop, nel brano I Wanna Be Your Slave.
Erano eventi unici e straordinari gli incontri tra megastar in sala d'incisione, basti pensare all'impatto dell'unione tra i Queen e David Bowie in Under Pressure (1981) o tra gli Aerosmith e i Run Dmc in Walk This Way (1986), il brano che ha spalancato le porte della White America all'hip hop.
Oggi, unire le forze in una canzone o in un disco, oltre a essere abbastanza scontato, non è ovviamente un mero fatto artistico: nell'era della musica liquida mettere insieme due brand è un moltiplicatore di clic, significa rivolgersi con la stessa canzone a due fan base diverse, ovvero alla platea sterminata dei follower sui vari social.
Si chiama marketing e funziona benissimo. A coronare definitivamente il trend della musica «all together» sono poi arrivati i 15 minuti dell'half time show del Superbowl 2022, che nel nome dello show e dell'audience hanno messo insieme i giganti dell'hip hop. Da Eminem a Kendrick Lamar, da Mary J Blige, Snoop Dogg, 50 Cent a Dr. Dre. La celebrazione di un modo di fare musica e di stare sul palco, la consacrazione del rap come genere definitivo di riferimento per i Millennial.
Al proliferare degli artisti che si uniscono nei brani corrisponde poi un'altra singolare tendenza, quella della moltiplicazione degli autori delle canzoni stesse. Lucio Dalla aveva sbancato le classifiche con il disco omonimo del 1979 scrivendo da solo musica e testi di capolavori come L'anno che verrà o Anna e Marco, Lucio Battisti e Mogol si erano divisi rigorosamente musica e parole in una decina di album epocali dove era chiarissimo chi faceva cosa. Ecco, oggi non funziona più così.
Dietro a una hit da classifica ci sono sempre più spesso quattro o cinque autori delle musiche e almeno un paio di addetti ai testi. Come se le canzoni fossero piccoli Frankenstein dove ognuno aggiunge una tessera del puzzle e si prende una fettina dei diritti d'autore. Come dicevamo all'inizio, più si è meglio è Anche sul palco: come faranno Francesco De Gregori e Antonello Venditti, protagonisti di un concerto a due il 18 giugno all'Olimpico di Roma.
La chiusura del cerchio di due carriere iniziate cinquant' anni fa, nel 1972, allo «Studio 38» dell'Apollo di Roma, quando incisero un album insieme come duo, ribattezzandosi Theorius Campus. Non erano famosi e cantarono separatamente le loro canzoni che ancora non erano celebri. Non sarà così all'Olimpico, dove le versioni di Generale e Roma capoccia a due voci risuoneranno ben oltre le mura dello stadio.
Non è la Rai. «Boncompagni è pura genialità». «Ambra parla come fosse viva». Oreste Del Buono e Enzo Biagi su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.
Opinioni opposte di due giornalisti su autori e programmi tv. Per Del Buono «Domenica In è il trionfo della genialità (ma sì, genialità) strategica di uno che di comunicazioni di massa ne capisce davvero». Per Biagi invece in ‘Non è la Rai’ Ambra incanta le platee con i cori pensando forse di «collaborare alla proposta di un nuovo inno nazionale»
Questo doppio intervento dedicato al programma «Non è la Rai» venne pubblicato sul Corriere della Sera in due date diverse: il primo, di Oreste Del Buono, il 4 gennaio 1990; il secondo, di Enzo Biagi, il 15 settembre 1994. Ve li riproponiamo insieme, dall’Archivio del Corriere, come «Pro e contro», due pareri discordanti eppure entrambi interessanti sulla trasmissione di Boncompagni.
ORESTE DEL BUONO - 4 gennaio 1990 - Il Corriere della Sera
4 gennaio 1990 «Un’adunata sediziosa di italiane in fiore. La Tv di Boncompagni è pura genialità» di ORESTE DEL BUONO
Questa volta spero di trovarla d’accordo per quanto riguarda quel gran polpettone che va sotto il nome di Domenica in»: dall’esordio della lettera proveniente da Bresso a firma Massimiliano Daniele si può capire che chi scrive non trova il programma di Gianni Boncompagni di proprio gradimento. «Nel mio ingenuo immaginario di giovane spettatore televisivo, mi auguravo cambiamenti capaci di movimentare e di rendere “più digeribile” un simile programma. E invece? Invece ci siamo ritrovati con un cruciverba il cui tabellone è almeno triplicato, e con un gruppo di sedicenti cantanti che è salito a otto che in succinti abiti di scena storpiano grandi successi musicali nella drammatica convinzione di darne una memorabile interpretazione personale. È giusto? Le domando...».
Il signor Massimiliano Daniele (o Daniele Massimiliano), quando scrisse la prima volta a questa rubrica per protestare contro un giudizio non troppo positivo sulla serie Moonlighting da lui adorata come il non plus ultra del brio, dell’eleganza, dello spirito televisivo americano, era studente liceale, ora si dichiara studente universitario ma non ha certo perduto la sua foga. «È giusto intrattenere gli italiani con urletti, schiamazzi, starnazzi di un esiguo gruppetto di adolescenti alle quali forniamo il pretesto di autodefinirsi “artiste” e “personaggi televisivi”? È giusto tutto questo? No, non credo...».
Caro signor Daniele Massimiliano (o Massimiliano Daniele), la giustizia non c’entra. C’è pur sempre il telecomando che permette di cercar scampo da quanto si aborre in televisione. Ma, secondo il mio modestissimo parere, Domenica in non è un pretesto per esibirsi offerto a un gruppetto di adolescenti, ma una trasmissione di massa. Infatti, non sono in scena solo le cantanti, ma anche le chitarriste e tutto il gruppone delle ragazze del coro. Un’autentica massa su cui la conduttrice Edwige Fenech ha un potere relativo come sempre a un singolo dentro una massa. Si tratta quasi dell’adunata sediziosa di una leva di italiani, anzi d’italiane in fiore. È il trionfo della genialità (ma sì, genialità) strategica di Gianni Boncompagni, uno che di comunicazioni di massa ne capisce davvero.
Domenica in è una creatura collettiva in perenne festa tribale. È una trasmissione più originale e più schietta dell’arrembante Fantastico. È una perla di Rai Uno. Mi scusi di non essere ancora una volta d’accordo con Lei, ma «Lei non è mica italiano», come direbbe la splendida Emma Coriandoli (al secolo Maurizio Ferrini). Comunque, Rai Uno sta lavorando anche per Lei. Il nuovo kolossal s’intitola Michelangelo, ma ha la garanzia della sceneggiatura di Julian Bond, della regia di Jerry London (quello di Shogun), dell’interpretazione di Frank Martel e Raffaello si chiama «Rafael», Firenze «Florence», Roma «Rome» e Milano «Milan». Come va, come va? Tutto okay, tutto okay.
ENZO BIAGI - 15 SETTEMBRE 1994 - IL CORRIERE DELLA SERA
15 settembre 1994 «Ambra, la 16enne che parla come fosse viva davanti a due milioni di fedeli spettatori» di ENZO BIAGI
C’è di tutto: abbiamo nella Marsica gli orsi come nei Carpazi, in Sardegna le foche come sulla banchisa polare e a Siracusa il papiro come in Egitto. E poi i primati. Un concittadino, Leonardo, ha dipinto la Gioconda, il quadro più prezioso che esiste. Il più insigne poliglotta di tutti i tempi è un bolognese, il cardinale Mezzofanti: sapeva tradurre in 4 lingue e ne parlava correttamente 39. Il Palladio ha disegnato l’Olimpico di Vicenza, il più antico teatro coperto.
Avevamo anche il secondo partito comunista, dopo quello russo, ma non c’è più. Però abbiamo Ambra: un fenomeno che non ha eguali sulla Terra. Mentre Clinton vede un aereo che sta tentando di atterrare nella sua stanza da letto, mentre si discute delle pensioni, dei Leoni del cinema e della truffa infinita sulla sanità (mille miliardi solo in Sicilia) da noi c’è polemica su questa adolescente, che, con altre creaturine anche più giovani, incanta le platee dei coetanei intonando un coro che dice: «Merda, merda, merda». Forse la piccina pensa di collaborare alla proposta di un nuovo inno nazionale.
Ha 16 anni la bimba che sgambetta nel programma Non è la Rai, e parla proprio come se fosse viva. Dietro ai suoi discorsi c’è, come è ovvio, un suggeritore: lei è, più che altro, una doppiatrice; e dice di Berlusconi: «È invidiosissimo dime». Come è ridotto il povero presidente del Consiglio, nonché proprietario della Fininvest. È, anche questa ragazzina, un prodigio, ed è circondata da 140 fanciulline, e tra loro c’è anche qualche vispa negretta, perché i nostri giovani non sono affatto razzisti. Il programma ha addirittura degli autori, che percepiranno come meritano dei diritti, e lasciano stare i doveri. «Si fa», scrive la bravissima Alessandra Comazzi sulla Stampa, «ma non è civile». Forse questa esperienza lascerà un segno nelle giovinette che per nove mesi continueranno ad esibirsi, tutti i giorni, in un gioco che, secondo la psicologa Daniela Conzales, mitizza «solo i valori della bellezza e del consumismo».
Ambra ha fatto vedere che sa camminare sulle acque: il problema per lei e per le sue amiche è quando rimetteranno i piedi per terra. Pare che due milioni di fedeli spettatori guardino Non è la Rai, il che dimostra ancora una volta la forza del mezzo televisivo. Dice Ambra, questa volta spontaneamente: «Qualunque cosa io faccia, loro mi seguono». Capita anche coi «grandi». A me fa piacere che non sia proprio la Rai che ha a che fare con questa, e anche con qualche altra trasmissione: ci sono «fenomeni» ai quali non è poi un grave sacrificio dovere rinunciare.
Qualcuno ha detto che la telecamera non è mai innocente, perché amplifica tutto: anche il nulla. D’ora in poi Ambra affronterà argomenti seri, si fa per dire: intervisterà ospiti non di eccezione, ma i consueti intellettuali di servizio. Non avrà problemi: l’affluenza è garantita. Per Ambra, credo, come per l’estroso personaggio di una commedia di André Roussin: «L’intellettuale è uno che entra in una biblioteca anche quando non piove».
GLI AUTORI
ORESTE DEL BUONO - Toscano dell’Isola d’Elba, dove nacque (a Marciana) nel 1923, Oreste Del Buono fu scrittore, giornalista e traduttore. Grande sostenitore della cultura popolare, curò con Umberto Eco un volume su James Bond e diede vita ad un’enciclopedia del fumetto italiano. Sul Corriere scrisse tra il 1963 e il 1989. Fu critico letterario e televisivo del quotidiano e nelle pagine della Cronaca di Milano fondò la fortunata rubrica La Talpa di Città. Morì ottantenne a Roma nel 2003.
ENZO BIAGI - Giornalista, scrittore e conduttore tv in rai, Enzo Biagi nacque nel 1920 a Lizzano Belvedere, nel Bolognese. Cominciò a collaborare con il Corriere nel 1963 e vi restò fino al 1971, quando assunse la direzione del Resto del Carlino che durò appena qualche mese, dopo che la proprietà non lo difese in un violento scontro con il ministro Luigi Preti. Tornò al Corriere, per restarvi fino al 1981. Dopo lo scandalo P2, lo lasciò per Repubblica. Tornò nel 1988 e scrisse fino al 2007, quando, 87enne, morì a Milano.
Che cosa resta di «Non è la Rai»? Tre storie delle ragazze del programma cult anni Novanta. Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 18 giugno 2022.
Ascolti alti, le protagoniste trattate da dive, i fan in delirio. Ma anche strani regali, biglietti minacciosi e bamboline voodoo. I ricordi e le nuove vite di tre ex protagoniste: Angela Di Cosimo, Eleonora Cecere e Ilaria Galassi («Sono sopravvissuta a un aneurisma, ora faccio la badante»).
Un balletto dalla terza edizione di «Non è la Rai», 1994, condotta da Ambra Angiolini. In prima fila, da sinistra: Eleonora Cecere, Cristina Aranci, Pamela Petrarolo, Alessandra Pazzetta, Roberta Carrano, Angela di Cosimo
«All’inizio c’erano le quattro stagioni, io ero autunno. Ma durò poco, quasi subito diventammo tutte estate, e fu estate fino alla fine». A parlare è Angela Di Cosimo, negli Anni 90 tredicenne, nonché una delle ragazze più invidiate e amate d’Italia. Insieme a Miriana, Ambra, Eleonora, Antonella, Ilaria, Pamela, Marzia, Alessia, Roberta, Mary, Emanuela, e altre, per l’esattezza ottanta. Ottanta ragazze tra i dodici e i ventidue anni che dal 9 settembre 1991 su Canale 5 ballano davanti alle telecamere. Torniamo dunque laggiù, allo studio 1 del Centro Palatino, alle palme finte, alla piscina - Non è la Rai , programma di Gianni Boncompagni e Irene Ghergo.
«Quando partiva Please don’t go ci tuffavamo, tuffo libero. Io mi buttavo dallo scivolo» racconta Angela («a seguito delle proteste su costumi e abbigliamento succinto, fu vietato usare la piscina» svela una ragazza che vuole rimanere anonima).
Molte sono giovanissime - per alcuni troppo (note le proteste delle femministe e del Telefono Azzurro: bambine sessualizzate riprese in pose ammiccanti, contestano). Una delle più piccole è Eleonora Cecere, al tempo dodicenne. Papà elettrauto, mamma portiera, Eleonora vive a Pontestorto - Castelnuovo di Porto (Roma) dove passa l’infanzia: «Ci piaceva tagliare i lombrichi in pezzi che rimettevamo insieme per creare il lombrico gigante... Sapevamo che non poteva resuscitare... Eppure ogni volta aspettavamo per vedere se casomai iniziava a muoversi».
Infanzia simile anche per le altre ragazze, in maggioranza provenienti dalla periferia di Roma o della provincia, vedi Ilaria Galassi, papà impiegato di banca, mamma casalinga - Tor Bella Monaca. «Da bambina giocavo a truccarmi, camminare sui tacchi di mamma, fingere di fumare con le penne». Sognare già a sette, otto anni di apparire in tv, e quindi nel momento in cui succede, all’età di tredici anni, l’esplosione: «Urlavo a mia madre di non disturbarmi che dovevo ballare. Mi chiudevo in cameretta a cantare in playback, provavo le mosse, gli sguardi. In realtà non era cambiato niente, scuola, compiti. Era più come mi sentivo, cosa vedevo guardandomi allo specchio». Viceversa Angela - papà impiegato dell’Enel, mamma casalinga - Torrevecchia, non sogna la Tv che fino a lì è Bim Bum Bam- «cartone animato preferito Georgie ».
All’inizio nessuna capisce bene le conseguenze dell’apparire ogni giorno in televisione - per gli stessi autori il programma è un contenitore di intrattenimento con giochi e quiz rivolto alle casalinghe. Condotto da Enrica Bonaccorti, le ragazze - sempre in principio - sono uno sfondo, nel migliore dei casi protagoniste dei giochi quali ruba bandiera. Tra le regole: niente trucco. Chi riesce a mettere il rimmel viene immediatamente individuata dalla Ghergo che la spedisce a lavarsi. «Ci volevano acqua e sapone. Dovevamo essere le ragazze della porta accanto, dicevano». Questo per i primi mesi, insieme alle quattro stagioni. Dopo tutto cambia. S’ingigantisce, va fuori controllo: ressa di ragazzi all’ingresso del Palatino, molti dei quali dormono lì pur di vedere le loro beniamine. Centinaia, migliaia di lettere. E regali: pupazzi, gioielli, persino soldi.
«Spesso ci regalavano anellini. Poi chiamavano le mamme per chiedere se potevamo restituirli, in genere erano delle nonne» ricorda Eleonora. «Un ragazzo mi regala un orso bianco alto quanto me - Angela - solo che non me lo fanno tenere al Palatino, devo portarmelo a casa. Lo carico in motorino, tra le gambe, l’orso davanti, io dietro. Al Circo Massimo prendo in pieno le rotaie del tram. Ecco, grazie all’orso mi salvo: aveva una lunga striscia di asfalto sul muso, senza di lui mi sarei rovinata. La sera, siccome non entrava in lavatrice, lo abbiamo lavato con una pezzetta». «Mio padre ha tenuto tutto - Ilaria -, in cantina esistono ancora pupazzi, lettere, lui non ha buttato niente».
I telefoni di casa squillano. «Dalle sei di sera a mezzanotte ininterrottamente, tipo centralino». I padri cambiano numero. Passa una settimana, una settimana di pace, e il telefono riprende a squillare: hanno trovato il numero nuovo. «Io parlavo con chiunque - Ilaria -, poiché i miei non mi facevano uscire, quelli erano gli unici contatti con l’esterno. I fan chiedevano di incontrarmi, e io li invitavo a casa. Ragazzi e ragazze che facevano due giorni di viaggio solo per vedermi. Alle ragazze regalavo i miei vestiti, tanto a noi arrivavano a pacchi, avevamo gli sponsor». A proposito di vestiti: «Una mattina al mercato di Tor San Lorenzo vedo un banchetto con i vestiti Phard, sopra un grande cartello: I VESTITI DELLE RAGAZZE DI NON È LA RAI, lì mi sono sentita importante», racconta Eleonora. «Col primo stipendio - di nuovo Eleonora - sono andata da Bacillario a via del Corso a farmi fare un chiodo su misura». E ancora: «Per strada mi riconoscevano, tutti volevano essere abbracciati da me».
«C’era un gioco - ricorda Angela - in cui dovevamo tuffarci nella piscina piena di schiuma, toglierci i costumi e scambiarceli, mentre la gente da casa chiamava per indovinare chi avesse il costume con la scritta Bilboa. Una volta dovevo averlo io, ma nella fretta di passarmelo Pamela lo perde... sorridendo, la testa fuori, mi metto a cercarlo coi piedi, niente. Ho fatto il gioco nuda, meno male che con la schiuma non si vedeva niente» («non è assolutamente vero che ci fosse una telecamera sott’acqua visibile solo in regia, come alcuni dicevano» ragazza anonima). Purtroppo quella felicità totale, quel senso di giovinezza eterna, presto s’incrina. «Arriva una bambolina - racconta Eleonora - un’altra, e un’altra. L’ultima con uno spillo in testa e un cappio al collo, insieme a un biglietto che diceva “questa sei tu”. Erano bamboline voodoo». Sempre Eleonora: «Un giorno ricevo un cd, eravamo al Palatino, io, Ilaria, Angela, Pamela scendiamo in sala prove per ascoltarlo. Lo mettiamo e parte la voce di uomo che dice: “Eleonora, ti farò molto male”».
Eleonora Cecere ai tempi di «Non è la Rai»
Anche Angela riceve regali che la spaventano: «Una valigetta ventiquattrore con dentro santini e peli pubici». Minacce di morte, foto sconce, lettere volgari (vorrei farti questo, quello...). E loro tredici, quattordici, quindici anni, loro piccole, bambine. «Solo a casa mi sentivo al sicuro - dice Eleonora -. Sul letto mamma metteva i pupazzi, quelli che mi regalavano i fan. Uno in particolare: l’asinello di Winnie The Pooh, quello con cui adesso dormono le mie figlie. La notte stringevo l’asinello, e passava la paura». Ma gli eventi inquietanti si moltiplicano: le ragazze vengono seguite in motorino. Strattonate per foto e autografi. «Un pomeriggio citofona una tizia che mi chiede di scendere. Io scendo, e lei dice che vuole menarmi, motivo: il fidanzato l’ha lasciata per colpa mia, si è innamorato di me dalla televisione. La verità è che tutti sapevano l’indirizzo di casa nostra, chiunque poteva venire e farci del male».
Impossibile camminare per strada: Eleonora e Angela, passeggiando su via del Corso, vengono riconosciute e accerchiate. Qualcuno grida: «Brutte», «fate schifo» - frattanto la folla aumenta, si stringe intorno - «chi vi credete di essere» - finché loro - per mano, piccole, piccolissime - non riescono a fuggire e a infilarsi in un negozio. Ilaria cita un episodio specifico: un uomo che all’ingresso del Palatino ferma la macchina del padre. «Sono io il vero padre di Ilaria» urla. Sostiene che la mamma della ragazza gli abbia scritto una lettera per rivelargli la verità. E adesso lui è qui per riprendersi la figlia. Avanza per cercare di afferrare Ilaria, senonché il padre esce dalla macchina, lo spintona, per fortuna sopraggiunge la sicurezza. «Dopo abbiamo saputo che era un malato psichiatrico fuggito dall’ospedale», dice Ilaria.
Nel frattempo il merchandising : album, quaderni, diari. I ragazzi fuori dallo studio si scambiano le figurine: tu mi dai Ambra, io ti do Miriana. Le scritte d’amore sulle mura del Palatino e sotto casa. Angela non dimentica le proteste del condominio, e il padre che cerca di pulire con acqua e sapone le scritte «Angela for ever», «Angela sei la mia vita». Qualcuno, come il fratello di Eleonora, s’ingegna: prende accordi coi fan per vendere le foto della sorella. Quindi le serate, già dalla seconda edizione le ragazze sono ingaggiate per fare serate in giro per l’Italia. «Prendevamo l’aereo il pomeriggio, a fine diretta, e ripartivamo la mattina seguente». La maggior parte di loro non ha mai preso un aereo. Come dimenticare il primo volo, occhi chiusi, mano nella mano. Poi volare diventa abitudine. Durante una di queste trasferte, in Calabria, svegliate dai genitori, le ragazze sono costrette a scappare.
«Papà mi disse solo che si era creata una brutta situazione - Ilaria - erano stati minacciati con le pistole, eravamo in pericolo». E loro, tredicenni, quattordicenni, quindicenni, loro piccole, disorientate, nottetempo fuggono senza paura però, quasi che quell’emergenza sia parte del film che stanno vivendo, del meraviglioso film che si augurano duri tantissimo. Perché sì, nessuna immagina che potrebbe finire. Gli ascolti alti, la calca di ragazzi fuori dal Palatino. Le lettere, i regali. Invece: dopo quattro anni, il 30 giugno 1995, finisce. Ambra annuncia «oggi canto piangendo», e in playback canta T’appartengo , mentre le altre, strette l’una all’altra, singhiozzano - tredici, quattordici, quindici anni, piccole, piccolissime. È vero che piangere non è una novità. «Eravamo adolescenti - dice Angela - gli amori, le delusioni. Sulle canzoni struggenti, partiva il pianto. Le ragazze normali piangevano nelle loro camerette? Noi in studio. I motivi erano gli stessi» («a molte, prima della diretta, mettevano il collirio per lacrimare» ragazza anonima).
Sia quel che sia, quell’ultima puntata è indimenticabile (sotto il video in rete, tutt’oggi i commenti: «Avevo 6 anni..., ero in ospedale a combattere con una brutta malattia. Mamma riuscì a procurarsi una piccola televisione per lasciarmi vedere Nonè la Rai . Quello era il momento più lieto di quei brutti giorni, specialmente quando Ambra cantava questa canzone. La gioia era così forte che quando la ascolto mi emoziono ancora ». «Gli anni che vorrei rivivere indimenticabili che ricordi». « Hai ragione Daniel, ogni tanto le riguardo... Ricordo molto bene quella giornata davanti alla TV a piangere»).
Sullo schermo la scritta The end .
Ebbene sì, la fine è arrivata davvero.
E ora? Cosa succede ora? Si domandano in molte
Qualcuna tenta di proseguire la carriera televisiva, poche riescono. Eleonora forma un gruppo musicale su modello delle Spice Girls: Le dolce manie, «sfortunatamente dura poco per questioni di gelosie interne». In seguito si dedica al teatro. Decine di provini, «ogni volta va male, il regista o chi per lui dice sprezzante: tu sei quella di Nonè la Rai . Allora mi faccio mora e alliscio i capelli. Poi dico basta: se mi vogliono, mi prendono per quello che sono. E ridivento bionda». Stessi problemi per le altre, Angela è una delle poche a capire subito che non sarà la televisione il suo futuro. Commessa in un negozio di abbigliamento dove chi la riconosce chiede: come sei finita qui?
Passano gli anni. Da diciotto Angela è parrucchiera nel negozio della sorella a Torrevecchia. Diverso il caso di Ilaria che avrebbe potuto continuare a lavorare in televisione. Lei, quella ragazzina che provava le coreografie in cameretta e che urlava ai genitori di non disturbarla. Lei, la dodicenne che guardandosi nello specchio vedeva una star. Ebbene proprio lei, ingaggiata nel ruolo di velina bionda di Striscia la notizia , è costretta a rinunciare: aneurisma cerebrale, coma. Al risveglio dall’operazione durata dieci ore, Ilaria ha perso la memoria, non sa camminare, né parlare. Tre anni di riabilitazione per riprendere la vita normale. Di quel periodo rammenta la vicinanza della famiglia. «Io pensavo che la mucca fosse il cavallo, allora papà mi spiegava: questo è il cavallo, e questa la mucca, sono diversi, vedi?».
Alla domanda: «Uscita dal coma ricordavi di essere Ilaria Galassi di Non è la Rai ?», risponde no.
Quindici, venti, trent’anni. Passano trent’anni.
Oggi le ragazzine di un tempo sono mamme, alcune si dedicano ai figli, altre lavorano. Eleonora, tornata a vivere a Castelnuovo di Porto, mette in scena spettacoli col marito regista, e gira i teatri del Lazio: «Albano, Palestrina, Latina, Montalto di Castro, Tarquinia, Tolfa. D’estate le piazze: Scandriglia, Trevi nel Lazio, Frascati, Civitella San Paolo». Quando causa Covid il teatro si ferma, lei non si perde d’animo: lavora in un’agenzia di sicurezza, vigilanza non armata, negli hub dei vaccini Covid. Non rinuncia comunque al teatro: «Con mio marito abbiamo messo in scena Eleonora Cecere- words for peace , un’ora e mezzo di canto e di ballo. Debutto a Monterotondo, sold out ».
Ilaria invece, mamma di due bambine, lavora presso una signora anziana. «Se qualcuno per strada mi riconosce e chiede cosa faccio ora, rispondo la verità: mi prendo cura di una signora, loro sgranano gli occhi: fai la badante? Chiedono. Sì, faccio la badante». È un lavoro che le piace, oltre a essersi molto affezionata alla signora. «Ha novant’anni, io la lavo, la porto in bagno, la trucco, la pettino. Le ripeto: se viene qualcuno deve trovarti bella». Eccole dunque le ragazze di allora, le più invidiate, le più desiderate, eccole cresciute. Cosa rimane della loro adolescenza scintillante? Tanti pupazzi e qualche scritta, come quella sotto casa di Angela: «Angela, non rispondi mai». «I ragazzi che oggi ci seguono sono tantissimi, non mollano perché credono ancora in noi» dice Eleonora, tornando forse laggiù, ai giardinetti di Pontestorto, con la speranza che i pezzi di lombrico si uniscano a formare il lombrico gigante che di colpo si anima, riprende vita.
Da fanpage.it il 22 luglio 2022.
Ilaria Galassi si racconta in un'intervista rilasciata a Fanpage.it 27 anni dopo Non è la Rai, il programma che la trasformò in una delle adolescenti più amate d'Italia. Dopo essersi vista costretta a chiudere il salone di parrucchieri, a causa della crisi generata dalla pandemia, da qualche tempo fa la badante presso una signora di 90 anni.
Tra loro si è instaurato un rapporto fatto di premure, cura e tenerezza. Nel corso dell'intervista, la quarantaseienne ha anche raccontato perché non è stata presa all'Isola dei famosi 2022 e, infine, ha risposto a Maccio Capatonda, che nei giorni scorsi ha svelato che da adolescente era perdutamente innamorato di lei.
Due anni fa, mi raccontasti che lavoravi nel salone di parrucchieri del tuo compagno, eri alla cassa e ti occupavi della contabilità. Poi cosa è successo?
Siamo stati costretti a chiudere per via della pandemia. Eravamo in zona Parioli. L'affitto era altissimo e nonostante ci fosse il Covid, noi dovevamo pagarlo. Abbiamo dovuto fare una scelta. Fortunatamente, il mio compagno ha un altro negozio a Fiumicino e ci siamo trasferiti.
Oggi fai la badante. Come ti sei ritrovata a prenderti cura della signora Ausilia?
Una cliente mi disse che aveva bisogno di una donna che stesse con sua madre dalle 09:00 alle 13:00. Non era il mio lavoro, quindi non mi piaceva usarlo come tale. Le ho detto: "Lo faccio perché è quello che facevo sempre con mia nonna, ma non voglio neanche essere pagata". Mi piace farlo. E poi, in questo periodo non sto lavorando. Ho mandato il curriculum ovunque, ma è difficile trovare lavoro. Dato che mi annoio a stare senza far niente, mi sono detta: "Ma che me frega, lo faccio" e ho accettato di occuparmi di Ausilia.
Quindi non vieni pagata per occuparti di lei?
Ogni tanto mi fa qualche regalo e con quei soldi ci faccio la spesa. Però non è che vado lì perché vengo stipendiata. In questo momento, sta lavorando solo il mio compagno. Dobbiamo pagare l'affitto. Arriviamo a fine mese proprio stretti, stretti, stretti (sorride, ndr).
Cosa fai nelle quattro ore in cui tieni compagnia a questa signora?
Innanzitutto, le do le pastiglie la mattina, altrimenti si scorda. Le lavo le gambe, le si aprono spesso delle ferite, la disinfetto, le metto la crema e le bende. Poi, la porto in bagno, la lavo, se vuole le faccio la piega e la ceretta al viso, fa colazione, si mette seduta e chiacchieriamo di tutto e di più. Mi racconta la sua storia. Faccio queste cosine per lei, la coccolo. È bella da morire. Ha 90 anni, ma non li dimostra affatto.
Sapeva del tuo passato a Non è la Rai?
Sì, anche se lei non vedeva Non è la Rai. In realtà, non guardava proprio la televisione, aveva tanto da fare. Era una casalinga, faceva la pasta fatta in casa, la sarta, si occupava dei figli. È una di quelle donne vecchio stampo.
Dal video che hai pubblicato sui social, traspare il bel rapporto che avete instaurato. Ti ha insegnato qualcosa che ha cambiato il tuo approccio alla vita?
Tante. Una cosa fondamentale che mi ha insegnato è risparmiare sul cibo. Non si butta niente. Bisogna sempre reinventare un pasto nuovo, quando ci sono degli avanzi. E poi fare le cose con calma.
Mi dice sempre: "Non ti preoccupare, se non lo fai oggi, lo fai domani, stai tranquilla. Goditi la vita giorno per giorno". Mi trasmette pace. Oggi la vita è frenetica, si pensa spesso ai soldi e lei mi dice: "Guarda che i soldi non c'erano neanche ai miei tempi. C'era solo lo stipendio di mio marito, che non guadagnava tantissimo, ma siamo stati bene lo stesso". Per me è come se fosse una terapia andare da lei.
Dunque, anche lei si sta prendendo cura di te.
Ci aiutiamo a vicenda. Quando vede che sono giù di morale mi chiede: "Che hai?" e io mi sfogo con lei. Vede sempre il lato positivo nelle cose. Se ho delle discussioni con il mio compagno, perché abbiamo caratteri diversi, lei mi dà i consigli giusti e mi invita ad avere pazienza.
In che modo tu hai cambiato le sue giornate?
Da quando ci sono io, si è ripresa. Si era buttata giù tanto, perché ha perso una delle sorelle con cui viveva in simbiosi. Ad agosto non ci sarò, perché andrò a trovare mia madre. Lei è già impanicata, ma io l'ho rassicurata che a settembre tornerò da lei: "Non ti preoccupare, che io non ti mollo".
Hai fatto i provini per l’ultima edizione dell'Isola dei famosi. Come mai non ti hanno preso?
Ho fatto un provino su Zoom e due di persona, con tutti gli autori. Nell'ultimo mi sono un po' ammosciata, perché ho dovuto ricominciare daccapo, pur avendone fatti altri due, in cui mi ero già raccontata bene. Alla fine mi hanno detto: "Hai tante qualità, ma non ti sai vendere".
In che senso?
Credo intendessero dire che non so vendermi nei provini. Forse era piatto, era come se mi fossi bloccata. Mi sono un po' arrabbiata e ho detto che se devo vendermi lo faccio per i miei figli, se non hanno da mangiare o un tetto sulla testa. Per fare l'Isola dei famosi, mi sembra davvero una cosa brutta. Grazie e arrivederci. Non so se il prossimo anno mi permetteranno di farlo di nuovo, li ho un po' trattati male (ride, ndr).
Per la quota Non è la Rai, poi hanno preso Pamela Petrarolo.
Sono contenta per lei. È una mia amica. Ausilia, quando le ho spiegato che il provino era andato male, mi ha detto: "Continua a insistere, a fare provini e vedrai che qualcosa succederà".
Maccio Capatonda ha dichiarato al Corriere che ai tempi di Non è la Rai era innamorato di te: “Cercavo l’amore platonico, cercavo l’anima gemella e l’avevo trovata in Ilaria". Ti aspettò anche fuori dagli studi per dirti che ti amava e tu lo salutasti "carinamente". Cosa gli rispondi?
Non ricordo questo episodio. Che bello, sono molto felice di questa cosa. Spero che un giorno andremo a prenderci un caffè o andremo a cena fuori, così mi racconta le emozioni che ho suscitato in lui. Mi fa piacere. Io l'invito gliel'ho fatto, quindi aspettiamo la risposta.
Giulia Villoresi per “il Venerdì – la Repubblica” il 24 agosto 2022.
Abel Ferrara, 71 anni, regista di culto della scena indipendente americana, in piedi nella sua cucina parla del suo ultimo film, mentre noi, la metà dei suoi anni, ci dimentichiamo di offrirgli la nostra sedia. Ce ne dimentichiamo per un'ora e mezza. Tanto che alla fine sarà costretto a dirci: «Però così mi viene un colpo, bro'». Bro' sta per brother, fratello: ha iniziato a chiamarci così quando l'atmosfera si è scaldata. Il Maestro - qui all'Esquilino lo chiamano tutti così - parla americano con una lieve inflessione italiana, e non perché vive a Roma da vent' anni, ma perché è cresciuto tra gli italo-americani del Bronx.
Per prima cosa ci ha preparato una moka con l'acqua minerale: un rituale quasi religioso, con picchi di violenza inaudita (la forza con cui maneggiava le tazzine faceva temere il peggio), e tanto magnetico da inchiodarci alla sedia. Anche i suoi film sono così. L'ultimo, Padre Pio, sarà presentato il 2 settembre alla Mostra del cinema di Venezia nella selezione ufficiale delle Giornate degli Autori.
Qui l'eterna riflessione di Ferrara sui temi del peccato e della redenzione ha raggiunto la sua forma più esplicita: l'agiografia. Quella di un santo di cui si è detto di tutto (millantatore, fornicatore, iracondo, fascista, affarista), interpretato da un attore che ha combinato di tutto: Shia LaBeouf, 36 anni, arrestato almeno undici volte a partire dai nove, alle spalle un rehab e una conversione al cristianesimo (era ebreo), dopo un «viaggio spirituale» che ha avuto il suo culmine proprio in questo film. E si vede. Come in Pasolini (2014), che racconta le ultime 24 ore di PPP, anche qui Ferrara si è concentrato su un breve segmento storico: sono i fatti sanguinosi, e pressoché sconosciuti, avvenuti a San Giovanni Rotondo nell'ottobre del 1920, proprio mentre Padre Pio, appena fuori dal paese, combatteva (talvolta fisicamente) con Satana, ed elaborava la croce delle stimmate "definitive".
Partiamo dall'eccidio di San Giovanni Rotondo.
«Un fatto storico di portata mondiale. E voi non ne sapete nulla. Nel 1920 in Italia ci sono state le prime elezioni vinte dalla sinistra. I socialisti hanno preso molti comuni. Ma a San Giovanni Rotondo, un paesino dominato da preti e proprietari terrieri, la destra ha negato il risultato delle votazioni. Una quarantina di persone si è radunata sotto il Comune per protestare. La tensione è salita. I carabinieri hanno sparato. Risultato: undici morti. Una fottuta strage. E voi non ne sapete nulla. Perché?».
Non lo so.
«È la nascita del fascismo, cazzo! È la prima battaglia della Seconda guerra mondiale. È l'inizio di tutto. Ed è accaduto lì, a San Giovanni Rotondo, mentre Pio lottava col diavolo».
Nel 1961, ricostruendo l'eccidio, l'Avanti osservava che sarebbe sciocco immaginare Padre Pio come estraneo ai fatti, immerso esclusivamente nelle sue esperienze mistiche.
«Non me la bevo. Il monastero dei cappuccini era fuori dal paese. Neppure ci andavano, in paese. Ovviamente lui aveva un'influenza, ma non politica».
Non politica?
«No, bro'. Era un'influenza spirituale. Perché lui vedeva tutte quelle dinamiche e sapeva a cosa avrebbero portato. Il diavolo gli parlava: "Pensi che gli ultimi cinque anni siano stati brutti? Vedrai i prossimi venti. Guerra. Spagnola. Ebrei gassati. Milioni e milioni di morti. Come pensi di fermarmi? Tornatene da mamma, cazzone!"».
Invece lui è rimasto.
«E ha costruito un ospedale. Un fottuto ospedale, dove non c'era neanche l'acqua! Un monaco tra i poveri che raccoglie 35 milioni di dollari».
Dollari di oscura provenienza, pare.
«Pio sapeva smuovere le montagne».
Le è mai venuto il dubbio che questo carisma fosse un'emanazione dell'ego, più che dello spirito?
«La sua battaglia quotidiana era proprio questa: l'ego. Cos' era il diavolo, sennò? Nelle lettere lo dice. "Perché sto facendo tutto questo? per me o per Gesù Cristo?". Ma lui era soprattutto un grande confessore».
Cosa significa?
«Significa che fuori fanno quaranta gradi, e tu stai in un fottuto bugigattolo tutto il giorno ad ascoltare le sofferenze altrui. "I miei pomodori non crescono. Mia figlia non rimane incinta. Non ho soldi. Non ho fede. Mi scopo la moglie del mio amico". E tu li ascolti. Porti a tutti la parola di Dio. Poi gli porti un ospedale. Cos' è? Compassione? Miracolo?».
Lei crede nei miracoli?
«Credo in quell'ospedale. Credo nella compassione. Ma non credo nei miracoli: sono buddista. Credo che le cose, semplicemente, accadono».
Allora che cos' erano le stimmate di Padre Pio?
«La sua risposta all'apocalisse che stava arrivando. Una risposta così profonda da far uscire il sangue. Le stimmate sono la sofferenza che attendeva tutti, che lui ha preso su di sé. Quante persone hanno detto: "Mi ha toccato, e sono cambiato"? Lui ha portato il miracolo tra la gente».
Di nuovo il miracolo...
«Shia, per esempio, crede nei miracoli».
Ecco, Shia LaBeouf: perché ha scelto lui per interpretare Padre Pio?
«Qualcuno me l'ha presentato, abbiamo parlato e c'è stata una connessione. Al tempo lui stava affrontando un viaggio spirituale. Un viaggio nel quale è immerso ancora oggi. Lo stesso viaggio che sto facendo io».
Come si è preparato per il ruolo?
«Si è chiuso per due mesi in un convento di cappuccini fuori Los Angeles.
I frati lo hanno accettato, dandogli tutte le conoscenze di cui aveva bisogno.
Lui era già molto dentro alla questione della fede, e ci è entrato ancora di più».
Ha pensato di farsi monaco?
«Questo devi chiederlo a lui. Ad ogni modo, i cappuccini del film non sono attori: sono monaci veri».
Hanno visto il film?
«Sì. E hanno detto che è un capolavoro. Tutti i fottuti cappuccini! Ecco la mia più grande felicità!».
La felicità: pensa di conoscerla meglio, da quando vive in Italia?
«Dieci anni fa ho passato quattro mesi in una comunità fuori Caserta e ho chiuso con droghe e alcol. Sono rinato lì. A trenta minuti dal luogo in cui era nato mio nonno, cioè Sarno. Ero molto legato a mio nonno. È grazie a lui che ho scoperto Padre Pio. Erano coetanei e conterranei. Lui emigrò negli Stati Uniti nel 1900 e se la cavò alla grande.
Non come gangster. Col duro lavoro. Però non imparò mai l'inglese».
Come lei che non ha mai imparato l'italiano
«Beh, sai. Mia moglie è moldava. Parla moldavo».
Quindi lei parla moldavo?
«No. In realtà parlo a stento l'inglese. Ecco il problema: non ho mai imparato davvero l'inglese, quindi imparare altre lingue mi viene difficile».
Perché ha scelto l'Italia?
«Perché ero stanco di lottare per la mia libertà creativa. Quello che faccio, che per me è sacro, nel mio Paese non è rispettato. Lì il regista come autore di film ormai non esiste più. L'artista non conta un cazzo, conta il profitto. Qui invece c'è una legge che dice che nessuno può toccare il mio film. E non è solo una legge. È una filosofia di vita».
Cioè?
«La vedi quella maniglia? Il tipo che l'ha fatta, cento anni fa, ci ha messo tempo e cura. A New York te la fanno in cinque minuti e non gliene frega un cazzo. Guarda il pavimento (marmette anni 20, ndr). Questo pavimento è come i miei film. Come il caffè. Il cibo. Non lo so cos' è. Cultura. Rispetto per l'arte. Quando hai una civiltà di tremila anni impari a rispettare certe cose».
Eppure, non tutti pensano che questa civiltà stia producendo arte vitale. Prendiamo il cinema: le piacciono i film italiani?
«Vabbè. C'è stato Berlusconi. I nuovi registi sono cresciuti con la sua tv, non con Rossellini e Antonioni».
La maggior parte di quei registi conosce Rossellini e Antonioni.
«Non lo so. Garrone mi piace, per dire. Ma la verità è che non vedo film. Non li vedo perché li faccio e la sera voglio solo leggere un libro».
A che film lavora, adesso?
«Sto per partire per l'Ucraina: andiamo a girare un documentario».
Cosa ha in mente?
«Niente di preciso. Intanto partiamo da Kiev, il resto dipende».
Da cosa?
«Da quanto sono coraggioso».
Luca Dondoni per “la Stampa” il 6 luglio 2022.
Achille Lauro continua a stupire e ieri all'Ippodromo di San Siro l'artista romano ha aggiunto due nuovi tasselli al puzzle della sua carriera. Insieme agli elementi della band e all'Electric Orchestra che entra ed esce di scena diventando elemento musicale e spettacolare al tempo stesso, Lauro De Marinis ha creato uno show con opere d'arte NFT realizzate interamente a scopo benefico, le «Achille Lauro NFT live Superart». Ma prima del concerto non si può non parlare della sua esperienza non proprio positiva all'Eurovision Song Contest.
Un'eliminazione che scotta ancora.
«Credo che la carriera sia fatta di alti bassi, è un grande puzzle e si aggiungono pezzi di volta in volta. Sinceramente non mi interessa la fiammata iniziale, anche se ce l'ho avuta e bella grossa.
A 30 anni ho già fatto quattro Sanremo, dieci dischi, vinto San Marino, l'Eurovision Song Contest, scritto due libri, la regia di documentari, la produzione video e la supervisione artistica di tutti i miei concerti. Qualcosina no? Sono anche abituato a prendere le facciate e a dover ricominciare. Se non va riparto, non è un problema.
All'estero queste cose sono viste benissimo e poi è ambizioso vivere così. Quanti fallimenti hanno creato grandi imprese, fare carriera vuol dire anche scontrarsi con la critica».
Quindi dall'Eurovision in poi si svolta pagina, c'è un nuovo Achille Lauro.
«Esatto, l'Eurovision è stato un punto fermo della mia storia e da lì sono ripartito. L'aver presentato una canzone come Stripper che per me rappresentava un cowboy pazzo sul toro meccanico e non essere stato capito mi è dispiaciuto.
Dell'estetica non me ne importa più nulla, ma ci sono canzoni che hanno il diritto e dovere di essere accompagnate dallo spettacolo. Altre vivono da sole e la loro anima ti impone rispetto. Un pezzo come Marilù lo posso fare solo con un microfono indossando una maglietta bianca, seduto su uno sgabello e basterebbe così».
Una rivoluzione.
«E se viene interpretata bene o male non è un mio problema; non amo i condizionamenti sennò non avrei registrato 15 dischi totalmente fuori moda. Ho sempre fatto le cose prima degli altri. Quando sono andato a Sanremo, della mia generazione chi ci andava? Nessuno, ma dopo la mia Rolls Royce che era assolutamente rock, a Sanremo sono arrivati i Måneskin e il Festival lo hanno anche vinto. Poi, sul look, Blanco e Mahmood hanno osato un po' di più ed è andata benissimo. Diciamo che anticipo i tempi».
Begli esempi, ma solo lei non ha vinto Sanremo però si è portato a casa il Festival di San Marino e l'Eurovision. Quella volta Blanco disse: «Voglio bene ad Achille Lauro ma per me e Mahmood Sanremo è stata una priorità e non avrei mai cercato di andare a Torino a tutti i costi».
«Tanti mi hanno scritto per dirmi che non l'aveva detta proprio così, ma penso che io non debba chiedere il permesso ai miei colleghi per le scelte che faccio; e poi a un pischelletto può capitare di dire apertamente una cosa che pensa non ritenendola importante, e invece lo è».
Lauro ci spiega cos' è l'NFT Live Superart?
«È la generazione tramite reti neurali di opere d'arte "sound-reactive" che arrivano direttamente agli occhi degli spettatori tramite i ledwall che sono sul palco. Gli studenti della scuola BigRock, partendo dall'ascolto dei cinque brani, Solo noi, Roma, Marilù, Rolls Royce e C'est la vie hanno ideato dei concept creativi che producono quadri digitali unici al mondo e saranno messi all'asta come Non Fungible Token in autunno a supporto dell'Associazione "Comitato Maria Letizia Verga" per lo studio e la cura della leucemia del bambino». Lauro per lei non sarà uno sforzo anticiparci il suo futuro.
Che cosa succederà?
«Voglio fare sei San Siro consecutivi, ampliare la mia società di Management che sta diventando sempre più grande e ha soci come l'Arcobaleno Tre di Lucio Presta, Ferdinando Salzano, l'agenzia Musica e Parole: gente che sa fare il suo mestiere. Vorrei lavorare nella moda, sviluppare il discorso NFT perché la generazione Alpha sviluppa un'identità digitale prima di quella fisica e io starò sempre dalla parte dei ragazzini».
Cosa ne pensa del twist Anni '60, il ritmo che sta imperando questa estate?
«Mi ha già annoiato. Speriamo che ci sia un'evoluzione».
"Ricomincio da capo. Ma all'Eurovision ci ho messo la faccia". Paolo Giordano il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.
L'artista ieri a Milano con uno show che punta sugli "Nft" (a scopo benefico)
Di certo lui non fa una piega. Achille Lauro ha le idee chiare anche quando non hanno l'effetto voluto. «Faccio le cose a modo mio, a prescindere da come vengono accolte». Dopo il chiacchierato passaggio all'Eurovision Song Contest di Torino (era in gara per San Marino, non ha superato la semifinale), è partito con l'Electric Orchestra per concerti che creano in diretta opere d'arte generativa Nft a scopo benefico (Ntf Live Superart). Un'altra scommessa di questa «mina vagante» che tra pochi giorni compirà 32 anni e non smette di sparigliare le carte anche quando non ha assi da giocare. Ieri sera era all'Ippodromo di Milano, poi passerà anche da Brescia, Roma, Firenze, Napoli, Taormina, Lecce e via elencando fino a metà settembre. Un tour di passaggio in quell'inarrestabile e controverso mondo che è Achille Lauro con le sue visioni.
Però adesso possiamo fare un bilancio. L'Eurovision?
«Seguo l'istinto e credo che ogni opportunità vada presa. Sono arrivato all'Eurovision pensando che nessun altro si sarebbe presentato con un brano punk rock cantato su di un toro imbizzarrito».
Non è andata come avrebbe voluto: niente finale.
«Sono abituato a metterci la faccia e poi a ricominciare se non va bene. In America questo è visto come un segnale di ambizione e il fallimento di una iniziativa è considerato un'opportunità per iniziarne un'altra. Certo, sarebbe stato bello arrivare in finale, però...».
Però?
«Tutto ciò non mi impedirà di arrivare a suonare in sei concerti a San Siro».
Consecutivi?
«Ovvio». (sorride - ndr)
Ci sono state polemiche sulle irregolarità di voto che hanno coinvolto alcuni Stati, tra i quali San Marino. In più il bacio sulla bocca del suo chitarrista Boss Doms potrebbe aver alienato tanti voti in alcune aree europee.
«Non conosco il funzionamento delle votazioni né le dinamiche politiche. Però sono soddisfatto perché abbiamo presentato uno spettacolo dirompente. In ogni caso, ho partecipato per quattro volte consecutive al Festival di Sanremo e non ho mai vinto».
L'Italia all'Eurovision era rappresentata da Mahmood e Blanco, che ha criticato la sua scelta di «correre» per San Marino.
«Molti mi hanno mandato messaggi per dire che non si era espresso proprio così. Ma è un giovane pischello e magari non pensava che quella frase sarebbe stata riportata. In ogni caso, io faccio le mie scelte senza chiedere il permesso ai colleghi».
Questo tour è comunque una sfida coraggiosa. Anche perché punta sugli Nft, i «Non-fungible token» che poi saranno messi all'asta per il Comitato Maria Letizia Verga per lo studio e la cura della leucemia del bambino.
«Gli Nft suscitano le stesse reazioni nella gente di quando è arrivata Internet, non mi stupirei se in futuro avessero un ruolo sempre più importante».
La frenesia del giovanilismo a tutti i costi colpisce anche Achille Lauro?
«Ormai io sono un caz.. di boomer, ormai sono come Califano (sorride - ndr) ma non ho paura di perdere il pubblico, non ho paura del futuro. In fondo il mio lavoro me lo sono inventato passo dopo passo».
La giornata tipo di Achille Lauro.
«Lavoro 19 ore al giorno, e non scherzo. Chi è di fianco a me pensa che io sia una persona strana, in realtà ho soltanto una gigantesca passione. Sono curioso, seguo tutto. La mia prima start-up è stata finanziata dalla Sony con centinaia di migliaia di euro ma faccio tante altre cose tranne il manager».
Però potrebbe fare il giudice in un talent show.
«Non mi metto limiti. Ho visto ad esempio che Rkomi sarà in giuria nel prossimo X Factor. Però, se devo proprio dirla tutta, non mi sento portato per stare davanti alla tv. Per capirci, al cinema preferirei fare il regista più che l'attore».
L'estate del pop ha risvegliato le melodie tipo anni Sessanta.
«Posso dirlo. Me so' rotto i cogl...».
Scusi?
«Come sempre arriveremo alla nausea. Ma ci penso io: mi inventerò una cosa che subito tutti diranno che schifo ma poi due anni dopo tutti la imiteranno». (sorride - ndr)
Tanti pensano che la sua attenzione all'allestimento e alla scenografia le abbia tolto attenzione alla musica.
«Questo tour mette un punto sulla mia storia fino all'Eurovision. Ora ci sarà un nuovo inizio».
Ossia?
«Siamo in una fase musicale che va oltre l'urban. E io magari me ne andrò sul palco solo con jeans e maglietta. La propria identità resta sempre più importante della moda».
"Io, girovago nel mondo ora mi sento molto rock". Ferruccio Gattuso il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'artista ritorna dal vivo anche all'Ippodromo «Dai primi dischi a oggi, tour nella mia storia».
È tempo di Milano per Achille Lauro e, finalmente, è anche tempo di Achille Lauro per Milano. I fan aspettavano un tour vero da almeno due anni, perché le date che dovevano essere si sono perdute sulla strada della pandemia. Ora però che la musica live sembra correre con energia da una parte all'altra dei palchi, lo show, come si dice, è in città. Reduce dall'esibizione pirotecnica all'Eurovision Contest 2022 con il brano «Stripper» tratto dall'album «Lauro - Achille Idol Superstar», l'artista romano (nato però a Verona) approda insieme alla Electric Orchestra con il suo cocktail di generi (musicali e non solo, per come gioca con le varie declinazioni sessuali) all'Ippodromo di San Siro il 5 luglio, nella cornice del Milano Summer Festival. E, come racconta, si sente «molto rock».
Achille Lauro, si torna live: come si sente?
«Davvero mi sembra sia passata una vita dall'ultima volta in cui ho fatto un live da tour. L'emozione è totalmente diversa rispetto ad altri contesti. Lo so io e lo sa il pubblico, e difatti si percepisce un'energia e una complicità totalmente diverse».
Che tipo di show sarà?
«Per questo tour abbiamo scelto di creare un percorso attraverso la mia storia, partendo dai primi album e singoli importanti fino ad arrivare ai brani da alta classifica, unendo la mia rock band all'orchestra. Col Direttore Musicale Marco Lanciotti e il Maestro Gregorio Calculli, abbiamo creato un viaggio tra live e musical, senza mai momenti di silenzio. Un lavoro duro».
Il concerto a Milano è attesissimo: recupera tre date perdute tra 2021 e 2022: con quale spirito arrivi in questa città?
«Sono carico, non vedo l'ora di incontrare, dopo due anni di stop, il mio pubblico e sicuramente lo farò con uno spirito del tutto diverso rispetto ai live passati. Cercherò di metterci tutta l'energia che ho risparmiato in questi due anni di lunga attesa».
Pensa di premiare questa attesa con qualche fuori programma particolare?
«La serata prevede sicuramente qualcosa di speciale, ma non voglio svelare nulla per ora. Lascio la sorpresa a chi verrà a vedermi all'Ippodromo».
Che rapporto ha con Milano?
«La considero un po' come la mia città adottiva: è europea, dinamica, il polo della musica in Italia, un luogo ricco di opportunità: è il posto in cui spesso mi trovo a lavorare e dove ho creato il mio team di lavoro. Anche se rimango un girovago».
Dalla pandemia sono tornati alla grande sia il teatro sia i live musicali: la gente, dunque, ha sete di performance live. Siamo alla normalità?
«Il mondo dello spettacolo sembra rinascere, e il contatto col pubblico è il senso della nostra professione. L'ho percepito già nella mia ultima performance One Night Show agli Arcimboldi dello scorso dicembre, sul palco mi sento a casa, è la mia zona di comfort».
Come si prepara per un live? Magari ripassando le critiche ricevute o cullandosi nell'autostima?
«No, non do assolutamente troppo peso a chi mi assale né spendo tempo ad auto-elogiarmi. Cerco di rilassarmi e preparare ogni mio show nei minimi dettagli, ci metto poco a concepire l'idea, ma mesi a realizzarla».
Quattro Sanremo, un San Marino, un «Eurovision» alle spalle: ma la musica deve per forza sempre essere gara?
«Non vivo queste competizioni come gare da affrontare con spirito combattivo. Ho sempre visto questo tipo di manifestazioni come un'occasione per far conoscere la mia musica e un'opportunità per confrontarmi con chi fa lo stesso mestiere. Tutto qui».
Da open.online.it il 20 febbraio 2022.
L’ultimo ad esibirsi è stato Al Bano. Un classicone: Felicità. Poi l’annuncio: al prossimo Eurovision Song Contest sarà Achille Lauro con la sua Stripper a portare i colori di San Marino. Il premio Radio e Tv è stato vinto sempre da Achille Lauro mentre il premio della critica invece è stato vinto da Mate per la sua Dna.
Non chiaro il premio speciale al turismo San Marino: è stato annunciato sul palco per Ivana Spagna ma poi si è scoperto essere uno scherzo della trasmissione tv Le Iene. Nella conferenza stampa dopo la vittoria Lauro ha rivendicato la sua scelta di partecipare a Una voce per San Marino: «Io e i miei collaboratori abbiamo lavorato molto per questo. Ora vogliamo portare all’Eurovision tutta l’esperienza che abbiamo maturato in questi anni».
Una voce per San Marino era un festival partito in sordina. Pochi annunci, poche interazioni sui social e poco interesse da parte del pubblico italiano. Poi la bufera è montata. Prima con i meme, con i cantanti di Sanremo che hanno cominciato a rilanciare sui social la loro partecipazione al concorso con l’obiettivo di staccare un biglietto per l’Eurovision.
Poi è arrivato l’annuncio di Achille Lauro, unico fra gli ex Sanremesi, e infine la valanga di tweet che hanno accompagnato la finale. Mentre scriviamo il numero di tweet pubblicati con l’hashtag #UnaVocePerSanMarino ha superato quota 40 mila: più di tutti gli abitanti di San Marino messi insieme.
Achille Lauro vince l’edizione 2022 del Festival Una Voce per San Marino. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2022.
Superfavorito alla vigilia e in pole anche per i bookmakers, con ha vinto la prima edizione di e parteciperà come rappresentante della Repubblica del Titano all', in programma dal 10 al 14 maggio a Torino. Lo ha scelto una giuria guidata da nella serata finale al Teatro Nuovo di Dogana trasmessa da San Marino Rtv, tra gli organizzatori della manifestazione con Media Evolution e la Segreteria di Stato per il Turismo. All'Esc «sfiderà» tra gli altri il duo composto da Mahmood e Blanco, portacolori dell'Italia e vincitori con «Brividi» dell'ultimo festival di Sanremo, dove Lauro si è piazzato 14° con «Domenica».
Achille Lauro durante la sua esibizione Al secondo posto il dj turco Burak Yeter con Alessandro Coli (tra i big con «More than you»), terzo l'emergente Aaron Sibley dal Regno Unito («Pressure»). Ospiti della finalissima Al Bano e Mirko Casadei per un omaggio al padre Raoul. La partecipazione a «Una Voce per San Marino» era aperta a big ed emergenti «senza limitazioni di cittadinanza e di scelta della lingua nell'interpretazione del brano presentato per il concorso».
Tra i big in lizza — presentati dall'artista italo-eritrea Senhit, che ha rappresentato San Marino lo scorso anno con «Adrenalina», e dal conduttore israeliano Jonathan Kashanian — anche Valerio Scanu, Ivana Spagna, Alberto Fortis con il batterista della Formula 3 Tony Cicco e la band romana Deshedus, l'ex tronista Francesco Monte, Cristina Ramos, vincitrice di «Got Talent Espana» e «La Voz Mexico», Matteo Faustini, vincitore del Premio Lunezia per le «nuove proposte» di Sanremo 2020, e la «wild card» Fabry & Labiuse feat. Miodio, primi partecipanti per San Marino all'Eurovision nel 2008. Ha dato invece forfait per motivi di salute il rapper Blind, fra i protagonisti di «X Factor» 2020. Nove anche i cantanti emergenti in gara: oltre ad Aaron Sibley, Camille Cabaltera, Basti, Vina Rose, Alessia Labate, Mericler (Maria Chiara Leoni), Kurt Cassar, Elena & Francesco Faggi, Mate.
Andrea Giacobino per iltempo.it il 4 febbraio 2022.
Una nuova società di «moda digitale» per il cantante e performer Lauro De Marinis, in arte «Achille Lauro», protagonista della prima serata del Festival di Sanremo. Qualche settimana fa, infatti, è stata costituita a Milano davanti al notaio Claudio Letterio la LG2 Tech di cui Lauro ha il 51% mentre Giambattista De Stefani e Leonardo Vigolo detengono ciascuno il 24,5%.
La newco ha come oggetto “lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di un servizio sartoriale realizzato attraverso lo sviluppo e la produzione di un’applicazione innovativa ad alto valore tecnologico”.
Lo statuto spiega che la società è titolare «di un nuovo sistema di presa misure e messa in prova digitale a favore del cliente» che gli consente «di poter provare, supportato da abiti intelligenti di nostra produzione e distribuzione, abiti adattati alle misure del proprio corpo». Tra i soci del performer c’è De Stefani, che è anche amministratore della De Marinis srl, la «holding» di Lauro che però nel 2020 ha perso 90mila euro su 573mila euro di ricavi.
La società, che controlla fra l’altro l’immobiliare Dmre, De Marinis Mgmt e De Marinis Publishing, è recentemente entrata col 14,2% in Milano K3, agenzia di music management che gestisce tra i molti cantanti anche Lauro, e con lo 0,75% nell’azienda agricola romana TheCircle che vende prodotti sostenibili tramite coltura acquaponica. Cristiana Zambon, madre di Lauro, è amministratore unico della De Marinis e della LG2 Tech.
Luca Dondoni per "la Stampa" il 21 Febbraio 2022.
«Sono molto contento, prima di tutto perché questo è un grande segnale di ripartenza per il teatro Nuovo di Dogana di San Marino, ma anche per lo spettacolo, così come lo è stato l'Ariston per il Festival di Sanremo. San Marino mi ha accolto con calore e aver vinto potendo così andare all'Eurovision Song Contest sarà una grandissima opportunità.
Lo farò con una canzone che si intitola Stripper e, certo, sarò avversario dell'Italia, ma penso che in generale essere su quel palco a Torino sarà una grande opportunità per tutti noi artisti e intendo ovviamente anche Mahmood e Blanco. Sarà bellissimo potersi esibire davanti a una platea così grande regalando alla mia musica e alle mie performance un palcoscenico di livello internazionale. "L'antica terra delle libertà", così è conosciuta San Marino nel mondo, mi ha permesso di partecipare al suo festival e quindi il mio saluto non può essere: ci vediamo a Torino!».
A caldo, appena vinto il festival «Una voce per San Marino» Achille Lauro si è emozionato tanto che nemmeno ha sentito la chiamata sul palco dei presentatori Jonathan Kashanian e Senhit che lo rivolevano ascoltare per chiudere una trasmissione talmente vintage da richiamare i fasti Anni 80 della lombarda Antenna 3. D'altra parte Achille Lauro rappresenterà San Marino all'Eurovision 2022 in programma dal 10 al 14 maggio a Torino e non è cosa da poco.
A riprova di quanto l'Eurovision sia diventato importante, in questi giorni si erano inseguite le voci di Orietta Berti ingaggiata dall'Armenia e Tananai dalla Svizzera: erano bufale. Non lo è invece quella di Emma Muscat (già finalista ad Amici 2018, l'anno che vinse Irama) che essendo di nazionalità maltese correrà per l'Isola Stato del Mediterraneo. Tornando a Lauro, voci ben informate davano il cantante romano iscritto a «Una voce per San Marino» addirittura in anticipo rispetto al festival di Sanremo, una strategia ben precisa per la sua immagine.
La giuria, presieduta anche da Mogol, ha premiato un autentico stratega della comunicazione che sui suoi tatuaggi, i suoi silenzi, la sua estrema gentilezza unita a scelte estetico/stilistiche legate al guru Alessandro Michele (Gucci), sta costruendo una carriera.
Per l'Eurovision la strada sembra in discesa, ma in verità Lauro ha dei paletti da schivare. Il delegato del microstato incastonato tra le colline romagnole dovrà prima superare le semifinali, la prima si svolgerà il 10 maggio e la seconda il 12, poiché San Marino non è tra le cosiddette «big five», ossia le cinque nazioni che hanno per prime sostenuto economicamente l'Ebu, l'Unione europea di radiodiffusione che organizza la kermesse, e che sono finaliste di diritto. Italia, Francia, Spagna, Germania e Regno Unito porteranno i loro cantanti direttamente alla serata del 14 maggio. Per noi sul palco del PalaAlpitour ci saranno Mahmood e Blanco, al momento considerati dagli scommettitori i principali favoriti alla vittoria.
Quindi qual è il paletto più difficile da scansare? Semplice, le «Big 5» possono contribuire a determinare quali Paesi passeranno alla serata finale del 14 maggio ma con diritto di voto in una sola delle due semifinali. In particolare, all'Italia e alla Francia è stato accordato diritto di voto nella prima quindi, visto che Achille Lauro canterà nella seconda semifinale, quella del 12 maggio, questo impedirà agli italiani che seguiranno la diretta su Rai1 di votarlo.
Qualora l'artista romano si qualificasse per la finale, i fan italiani avranno invece la possibilità di spingere per dare a lui i propri 12 punti al televoto. Lauro nella seconda semifinale potrà contare sul voto eventuale di tanti Stati che però non lo conoscono benissimo. In più, come da regolamento, San Marino non può auto-votarsi, così come non potrà farlo nemmeno l'Italia in finale per i propri artisti, Mahmood e Blanco con Brividi. Insomma, se Achille Lauro riuscirà ad arrivare in finale sarà già un successo. Sicuramente avrà ampliato la sua popolarità anche all'estero.
Francesca D'Angelo per "Libero quotidiano" il 22 febbraio 2022.
I ripescaggi sono sempre una cosa tremenda: nello sport come nei concorsi. Fanno molto "ultima spiaggia dei trombati" o "pia elemosina dell'ultima ora". Non a caso, chi ne esce vincitore di solito non si riversa in strada al grido di po-po po, ma guarda il cielo con la stessa gratitudine di un miracolato. Ecco, questo per dire che l'entusiasmo di questi giorni per Achille Lauro, rientrato in corsa per il rotto della cuffia all'Eurovision Song Contest 2022, è un tantino fuori luogo. La sua infatti non è una vittoria ma un ripescaggio, peraltro cercato a tavolino.
Per dire, la cantante Emma Muscat, ex volto di Amici ed ex di Biondo (due credits che la rendono italiana d'adozione seduta stante) si è conquistata un posto gareggiando a Malta, ma lei è maltese di origine. Lauro invece non vanta discendenze in quel di San Marino, il cui concorso era però aperto a tutti. La gara, tra l'altro, era quello che era. Nonostante l'investimento, le buoni intenzioni e lo sforzo generale, la kermesse è stata un incrocio tra il saggio di fine anno e la versione kitsch di Sanremo. Per dire, c'era Valerio Scanu che cantava: «Se il mondo fosse governato dalle mamme non ci sarebbero più figli in guerra». E, no, l'autore della sua canzone non era lo stesso delle frasi di Osho. Insomma, se non avesse vinto qui, Lauro avrebbe dovuto come minimo cambiare mestiere.
ZERO PROVOCAZIONI Lui stesso probabilmente ne era consapevole visto che si è limitato a togliersi la camicetta e niente più: zero provocazioni, nessun battesimo sul palco. Quello che però impressiona di più è l'ostinazione. Voglio dire: sei andato a Sanremo? Hai perso? Pace. Impara da Tananai e vai avanti con la tua carriera. Invece niente. Addirittura Lauro assicura di essersi iscritto a Una voce per San Marino in tempi non sospetti, ossia prima di Sanremo. Il che non migliora la situazione e trasforma Lauro, da giusto riscattato da San Marino, a più grande rosicone d'Italia.
Della serie: ci devo essere, costi quel che costi, perché voglio avere la stessa fama dei Maneskin. Non che il resto dei partecipanti sia stato da meno: in parecchi sono corsi ai ripescaggi, persino gente come Francesco Monte, che era stato scartato da Amadeus, la mitica Ivana Spagna, il già citato Scanu o un'altra vecchia conoscenza di Sanremo, Matteo Faustini. Tutti in cerca di una rivincita e a nessuno che venisse il sospetto che questa corsa ai ripari non facesse poi così onore alla propria immagine. Il rischio infatti è perdere due volte.
FAVORITI E COMPARSE Un conto infatti è vedersi surclassare da Blanco e Mahmood all'Ariston: oh, può succedere. Ci sta. Diverso invece è che tu smuovi mezzo mondo, fai kilometri per scovare uno Statarello che non abbia ancora il suo cantante per l'Eurovision, ottieni il biglietto per Torino, vai all'Eurovision Song Contest e perdi di nuovo, magari senza nemmeno vedere la luce della finale. In tal caso sarebbe una conferma della propria inferiorità artistica.
Noi non vogliamo certo gufare, ci mancherebbe, ma a occhio il destino non è esattamente roseo: per gli scommettitori Mahmood e Blanco sono favoriti a 2,85, mentre la vittoria di Emma Muscat è data 100 a 1, e anche Lauro è messo malino, a 19. In tutta questa faccenda c'è però una nota positiva: a Una voce per San Marino Al Bano, intervenuto come super ospite, ha annunciato che, a 80 anni suonati, vuole andare al festival di Sanremo 2023. Amadeus, se ci sarai, prendi nota...
Dario Salvatori per Dagospia il 20 febbraio 2022.
L’Italia che va. L’Italia del ripescaggio. Nel gas, nei mondiali di calcio, nella pandemia, nel sesso (questo sconosciuto), ovviamente anche nella musica. Achille Lauro, dopo il deludente piazzamento al Festival di Sanremo (14°), ha cercato con tutte le sue forze lo spareggio.
C’è riuscito alla prima edizione del Festival della Canzone di San Marino, con “Stripper” (ancora i Rolling Stones), cantando un testo al femminile e citando, fra gli altri, “Nessuno mi può giudicare”(Sanremo 1966, Caterina Caselli), il testo di Pace-Panzeri che quest’anno è stato ripreso più volte, anche da Rettore e Ditonellapiaga. Una canzone che, forse, gli consentirà di rappresentare il Titano all’Eurovision che si terrà a Torino dal 10 al 14 maggio.
Già, perché per lui i tempi supplementari non sono ancora finiti. Dovrà superare le semifinali, visto che l’accesso diretto spetterà da regolamento alle “Big Five”, ovvero Inghilterra, Spagna, Italia, Germania e Francia.
A Sanremo Achille Lauro è apparso un po’ spompato. Un performer che sembra avere scarsa dimestichezza con il palco, rimanendo sul palco inchiodato alla X che il direttore di palco aveva disegnato a terra. E che dire del coro gospel? Un gruppo di cantanti di quella forza e di quella esperienza avrebbe ben movimentato quel palco, in realtà si sono dovute accontentare di un ruolo alla Paola Orlandi.
Achille Lauro sostiene di essere un brand da 30 milioni di euro, ma la prima cosa che ha fatto è stata quella di agguantare il premio di 7 mila euro destinato al vincitore. Di questi tempi! Anche il budget inizia a farsi sentire. A San Marino, Lauro ha sfoggiato la stessa giacca Sgt.Pepper vista a Sanremo, presumibilmente fresca di lavanderia.
Peccato che abbiano fatto lo stesso sia Alberto Fortis che Ivana Spagna, che era già pepperizzata nei Settanta. In realtà quattro Festival di Sanremo di seguito sono troppi per chiunque. Il vero sogno di Lauro sembra essere quello non tanto di ripetere l’exploit dei Maneskin, partito proprio dall’Eurovision, quanto accedere allo stato mainstream.
Il mondo indie, underground e centro sociale è dietro le spalle, oggi aspira ad un predicatore glam fin troppo prevedibile. Vedrete che ci sarà anche al prossimo Sanremo, quando con cinque presenze consecutive raggiungerà Gino Latilla (1924-2011), che ci riuscì passando da “Vecchio scarpone” a “Tutte le mamme”.
Difficile raggiungere le 34 canzoni in gara di Latilla. Ma nei record del cantante pugliese c’è ben altro. Nel 1953 i fotografi erano piazzati all’Hotel Londra e si era sparsa la voce che la liason fra Latilla e Nilla Pizzi era ripartita. Tutto vero. Già, come fare? I paparazzi tenevano sott’occhio la 1500 del cantante, posteggiata nel garage, ma Latilla li gabbò: e in Lambretta fuggì di nascosto per raggiungere Adionilla alloggiata al Gran Hotel del Mare di Bordighera. Per la serie quando gli ormoni giravano a mille.
Cominciano ad essere troppe le similitudini con il Comandante Achille Lauro (1887-1962), a cui il cantante romano ha preso il nome e il cognome. Quando nel 1952 fondò il Partito Monarchico, decise di regalare una scarpa ai suoi sostenitori. Una sola. La destra, ovviamente. L’altra poteva essere ritirata solo dopo l’esito del voto. Altro che mainstream.
Quando decise di candidarsi a sindaco di Napoli, attrezzò centinaia di camioncini per distribuire il “Pacco Lauro”, ovvero chili di pasta da distribuire e lanciare nei quartieri e nelle periferie. Era nato il “laurismo”. Puro stampo populista, certamente, del resto il comandante aveva come modello Onassis, che però parlava una mezza dozzine di lingue, l’armatore napoletano, invece, si esprimeva solo in dialetto.
Quando volle diventare sindaco, nell’estate del 1952 acquistò dall’Atlanta Hasse Jeppson, centravanti svedese di grande pregio. Prezzo: 105 milioni! La città impazzì, non solo i tifosi. Altro che influencer e visual merchandising, puro istinto e crono centrismo.
Non scherzava nemmeno nella vita privata. Nel 1971, all’età di 84 anni, sposò in seconde nozze la 34enne Eliana Merolla. Tutto questo senza mai apparire in Tv. Chissà, forse in questo periodo Achille (il cantante) si diverte di meno. Del resto, come diceva Mel Brooks: “Non puoi divertirti con ciò che non ami, ammiri o rispetti.”
Massimo Galanto per tvblog.it il 23 febbraio 2022.
“Achille Lauro ha vinto il Festival di San Marino; insomma, pur di partecipare all’Eurovision, Lauro prima si è affidato a Sanremo, poi a San Marino, eppure, visto il personaggio, quello più adatto a lui sarebbe stato San Patrignano“. È questa la battuta di Ezio Greggio pronunciata in apertura della puntata di lunedì 21 febbraio di Striscia la notizia che ha fatto ‘indignare’ i social e i fan di Achille Lauro.
Non è la prima volta che il tg satirico di Canale 5 attacca il cantante e non è neanche la prima volta che lo associa al mondo della tossicodipendenza. I precedenti iniziarono nel 2019, quando Achille Lauro prese parte al Festival di Sanremo allora condotto da Claudio Baglioni (altro bersaglio preferito da Antonio Ricci).
Angelo Calculli, manager di Lauro, su Instagram ha scritto un post (non pubblico) nel quale definisce Striscia la notizia “un programma vecchio e per vecchi e non durerà in eternità” e spiega che “non serve che ci si arrabbi per questo“, né fare denunce, ma “bisogna solo indignarsi per la strumentalizzazione che fanno del luogo di San Patrignano associandola al termine drogato“.
Per il resto, ad oggi, non si registrano commenti ufficiali dalle due parti direttamente interessate. Il caos social che si sta generando in queste ore convincerà la trasmissione di Canale 5 – questa settimana co-condotta da Silvia Toffanin – a tornare sul caso o si deciderà di ignorarlo.
Sanremo 2022, Achille Lauro: «Cerco di distruggere la mia carriera». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2022.
Quarta volta consecutiva al festival. In gara porta «Domenica» e nella serata cover «Sei bellissima».
Gli sono bastati cinque mesi. La pausa, lo stop annunciato che aveva messo in agitazione i fan, non è durata tanto a lungo. Achille Lauro è tornato subito a fare musica. «In pandemia avevo pubblicato tre album perché volevo regalare musica che fosse come un amico per tutti. Dopo “Lauro” mi sono fermato perché avevo bisogno di godermi la vita. Ho fatto viaggi, visto posti nuovi e a settembre sono andato a vivere in una villa sull’isola di Albarella con altre 6-7 persone. C’eravamo solo noi, qualcuno che veniva a trovarci, e i daini... Ci siamo stati fino a poco fa e abbiamo lavorato a 150 canzoni e ad altri progetti per il futuro», racconta alla vigilia della partenza per Sanremo.
Lauro sarà al Festival per la quarta edizione consecutiva: tre volte in gara e nella scorsa edizione il ruolo di ospite fisso. Una carriera che, dopo gli esordi fra i pionieri della trap, ha avuto le sue tappe principali all’Ariston. «Le quattro edizioni sono state come i sacramenti. La prima volta con “Rolls Royce” è stato il battesimo. Con “Me ne frego” l’eucaristia. L’anno scorso la confessione. E questa sarà la confermazione». Il tema del sacro torna con la presenza al suo fianco dell’Harlem Gospel Choir. «Fuori dal palco sono credente, ma qui faranno spettacolo con un ruolo da protagonisti». La canzone si chiama «Domenica», ricorda «Rolls Royce» ma con dei suoni da risveglio domenicale e un racconto che accende la curiosità su quanto possa essere accaduto il sabato sera... «Sembra un brano leggero ma dal vivo è ultra-punk. Il testo è in contrapposizione con il suono. Più che di somiglianze con “Rolls Royce” parlerei di una mia identità che mi piace mantenere anche se sono anni che cerco di distruggere la mia carriera, ma ancora non ci sono riuscito. Sono divisivo e credo che questa sia la mia forza».
Non ha paura di sembrare uno che vive solo all’Ariston: «Non sono “quello di Sanremo”. Per me questa manifestazione è un “di cui”. Ho dei progetti legati al cinema con Amazon, ho appena fatto un concerto in cui ho creato il primo NFT live, presto avrò un progetto legato al Metaverso e al mondo del gaming. Comunque a Sanremo ci tornerei anche l’anno prossimo, magari da direttore artistico: darei un tocco da produzione internazionale».
Nella serata del venerdì, quella dedicata alle cover farà «Sei bellissima» in coppia con Loredana Berté: «Lei è un’icona ultra-rockstar. La forza del pezzo va oltre il ritornello pop che conoscono tutti. Nelle strofe struggenti tocca un tema attuale: da quelle parole emerge lo stato d’animo di una donna sminuita che soffre e a cui tutti dovremmo chiedere scusa».
Non svela nulla su quello che ci sarà attorno alla musica («sarà un bello spettacolo a livello scenico») ma respinge la critica che il personaggio, i costumi e l’immagine siano più forti della sostanza musicale. «Parlare di costumi o travestimento sarebbe una definizione riduttiva. Quello che accade sul palco è una proiezione totale della canzone a livello visivo. Per me il palco è come un videoclip». E se invece la sua musica fosse un’opera d’arte non ha dubbi: «“ L’urlo” di Munch».
Con «Domenica» arriva anche una parte di quelle nuove canzoni cui ha lavorato in ritiro. Uscirà infatti «Achille Idol Superstar», un’espansione di «Lauro», album pubblicato l’anno scorso. C’è una ballad delicata come «Fiori rosa» che nel testo oltre a Battisti cita quell’«aria da bambina» di baglioniana memoria e un «piccolo uomo» che fa tanto Mia Martini: «Sono figlio di quel cantautorato e ho voluto citare pezzi immortali». In «Foxy» le parole sono più suoni che racconto. Anche «Rolling Stones» sta sul mondo rock, mentre «Sexy Boy» riprende il classico giro blues alla Muddy Waters.
Il tour è previsto, Covid permettendo, a maggio. Uno spettacolo con la band e i 50 elementi dell’Orchestra Magna Grecia: «Suoneremo in posti che quando mi esibivo in garage potevo solo sognare. Lo show sarà un crossover fra punk rock e il musical: ci sarà modo di sorprendere anche lì».
Adele compie 34 anni: la storia con «Mr. 21», il matrimonio finito, i segreti dei suoi amori. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2022.
Le tappe della vita sentimentale della cantautrice britannica, che da un anno fa coppia fissa con il procuratore sportivo Rich Paul
«Mr. 21»
«Didn't I give it all? Tried my best/Non ho dato tutto? Ho fatto del mio meglio» canta Adele nella struggente «Take It All», brano che parla di una storia d’amore che sta andando in frantumi. Quella con il cosiddetto «Mr. 21» nello specifico, l’uomo con cui la cantante si frequentava nel 2009/2010, ribattezzato così dai fan perché ha ispirato le tracce del disco «21» (2011), vincitore di un Grammy (la teoria più comune è che si tratti del fotografo Alex Sturrock, ma non sono mai arrivate conferme sulla sua vera identità). «Era la mia anima gemella - ha detto di lui Adele ad Out -, Avevamo tutto, a tutti i livelli. Finivamo le frasi l'uno dell'altro, e lui poteva semplicemente capire come mi sentivo guardandomi negli occhi. Amavamo le stesse cose, e odiavamo le stesse cose». Dalla relazione con «Mr. 21» (di cui parlano anche «Turning Tables», «Someone Like You» e «Rumor Has It») la cantautrice britannica, che oggi compie 34 anni, ha imparato molto: «Mi sembra giusto che la persona che finora ha avuto il maggiore impatto su di me meriti un piccolo riconoscimento - ha raccontato a Vogue nel 2012 -. Posso fare cose che non avrei mai immaginato di poter fare. Se non l'avessi incontrato, penso che sarei ancora quella ragazzina che ero quando avevo diciotto anni. E la cosa migliore è che ora so cosa voglio per me stessa».
L’incontro con Simon Konecki
Grazie a «21» Adele è diventata una acclamata star della musica, e nel 2011 - grazie ad un amico comune, Ed Sheeran, secondo la teoria più accreditata - ha conosciuto l’imprenditore Simon Konecki. La coppia - immortalata per la prima volta in Florida nel 2012 - è sempre stata estremamente riservata sulla relazione fino all’annuncio, nel mese di giugno dello stesso anno, della gravidanza di Adele.
La nascita di Angelo e il matrimonio
Angelo Adkins è nato il 19 ottobre 2012, primo figlio per Adele, secondo per Simon (che aveva già avuto una bambina dal suo precedente matrimonio con la stilista Clary Fisher). In seguito - nel 2018 - la coppia è convolata a nozze, anche se già nel 2017 la cantautrice si era definita «sposata» («Stavo tentando di ricordare come mi sentivo all'inizio della relazione che ha ispirato questa canzone - ha detto dal palco di un concerto in Australia -. Un feeling che quando lo avverti per la prima volta è il miglior feeling che ti possa capitare sulla Terra e da cui sono diventata dipendente. Ma ovviamente si tratta di un feeling che non potrò più provare di nuovo, visto che ora sono sposata»).
Il divorzio
«Sono stata ossessionata dall’idea di una famiglia per tutta la vita perché non ne ho avuta una. Fin da piccola mi ero ripromessa che quando avessi avuto dei bambini, saremmo rimasti insieme. E ci ho provato, davvero a lungo». Nel 2019, ad appena un anno dalle nozze, Adele e Simon hanno deciso di divorziare. La star, intervistata nel 2021 da Oprah Winfrey, ha spiegato di essersi sentita «imbarazzata» dal divorzio: «Prendo il matrimonio molto seriamente e sembra quasi che vi abbia mancato di rispetto sposandomi e poi divorziando così velocemente». La fine del matrimonio ha ispirato alla cantautrice un nuovo disco, «30», uscito nel novembre dello scorso anno.
Un nuovo amore
Oggi Adele ha ritrovato la serenità accanto ad un nuovo amore, il procuratore sportivo Rich Paul, con cui fa coppia da circa un anno. Quando lo scorso febbraio la cantante è stata immortalata con un vistoso anello all’anulare, sul red carpet dei Brit Awards, si è subito parlato di un possibile nuovo matrimonio. Il gossip insomma si è scatenato, ma finora non sono arrivate né conferme né smentite. I fan rimangono in attesa.
La scelta di Adele insegna. L’attivismo non è moda social ma tutela dei più deboli. Lilli Gruber su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.
Lasciamo che l’artista sia fiera di essere donna ma pensiamo ai casi di omotransfobia. Quasi triplicati. Nel mondo davvero inclusivo che chiunque con un po’ di giudizio dovrebbe desiderare, c’è posto per tutti.
Sette e Mezzo è la rubrica di Lilli Gruber sul magazine 7. Ogni sette giorni sette mezze verità. Risposte alle vostre domande sull’attualità, il mondo, la politica. Questa puntata è uscita sul numero di 7 in edicola il 18 febbraio. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it
Cara Lilli, Adele, la pluripremiata cantante con ben tre vittorie ai Brit Awards, al momento di ritirare il premio ha detto di essere orgogliosa di essere donna. Apriti cielo, i correttissimi organizzatori avevano addirittura eliminato le categorie “maschile” e “femminile”. Se è giusto pretendere che venga adottato il principio di reciprocità fra le religioni, che dovrebbe permettere di costruire sinagoghe, moschee e chiese ovunque, perché viene imposto di abolire questo principio quando si parla di sesso biologico ed è permesso solo affermare la neutralità gender?
Roberto Bellia paradosso44@yahoo.com
Caro Roberto, le critiche mosse ad Adele ci raccontano quanto a volte sia delicato e labile il confine tra buon senso e polemica fine a sé stessa, quando si tratta dei temi legati all’identità di genere. L’edizione 2022 dei Brit Awards ha cancellato la categoria di artista maschile e femminile proprio nel rispetto di alcuni cantanti che si definiscono non binari, che cioè non sentono di far parte di nessuno dei due generi. Ritirando il premio come migliore artista dell’anno, Adele ha però detto «capisco perché il nome di questo premio è stato cambiato, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un’artista femmina». Scatenando le polemiche di parte dell’opinione pubblica che l’ha definita una Terf, ovvero una femminista radicale ideologicamente avversa alle persone trans. Ora, Adele ha più volte espresso apertamente il suo sostegno alla comunità e alle istanze del mondo Lgbtqia+, ma allo stesso tempo è felice di essere una donna. E lo ha ribadito ritirando un riconoscimento ambito e prestigioso. Perché, allora, attaccarla? L’attivismo non dovrebbe essere una corsa a intestarsi per primi la polemica del giorno per finire nelle tendenze dei social.
Nel mondo davvero inclusivo che chiunque con un po’ di giudizio dovrebbe desiderare, c’è posto per tutti. E, dunque, non bisognerebbe nemmeno colpire chi rivendica con orgoglio la propria appartenenza, anche a un genere percepito da alcuni come “privilegiato”. Il rischio, altrimenti, è di fare discriminazioni al contrario. Proprio qualche giorno fa l’Unar - l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio - ha denunciato il crescente clima di violenza in Italia: episodi legati all’omotransfobia, al razzismo, all’antisemitismo e ad atteggiamenti discriminatori nei confronti di persone con disabilità. Con l’ampio e acceso dibattito sul ddl Zan le persone Lgbt sono inevitabilmente diventate più visibili, pagando per questo un prezzo molto alto: dai 93 casi denunciati nel 2020, si è passati a 238, pari a un episodio di omotransfobia ogni due giorni. Lasciamo che Adele possa essere fiera di essere una donna, e concentriamoci piuttosto su questi numeri che non ci rendono certo un Paese civile degno di questo nome.
Adele sotto attacco perché ama «essere una donna». Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.
Dominatrice ai Brit Awards dove è eletta miglior artista, ora diventata una categoria senza genere: per il suo discorso di ringraziamento, la cantante è accusata di transfobia.
Raccontare in un disco, dopo sei anni di silenzio e con assoluta sincerità, il proprio divorzio, le insicurezze, le delusioni, la maternità, la solitudine. E riuscire a vendere mezzo milione di copie in tre giorni e un milione in due settimane (record), intasare Apple Music di pre-ordini (record), fare man bassa di premi. Se gli artisti più grandi sono quelli che raccontano il proprio tempo raccontando se stessi, Adele (33 anni), sta facendo proprio questo. Lo dimostra la reazione — quella è immancabile — dei social media al suo discorso sul palco dei Brit Awards, da lei dominati ancora una volta come «artista dell’anno», «album dell’anno» (per 30), e inevitabilmente «canzone britannica dell’anno» per Easy on Me che ha toccato il numero 1 in 27 Paesi.
Perché se sali sul palco tre volte, e devi fare tre discorsi di ringraziamento diversi, la probabilità di dire qualcosa che offenderà qualcuno, da qualche parte sui social media, diventa quasi una certezza. Così è stato. La reazione alla vittoria per l’album dell’anno non ha suscitato reazioni: ha dedicato il premio «a mio figlio... e a Simon, suo padre. Sono molto orgogliosa di me stessa per aver tenuto duro e aver pubblicato un album che parla di temi molto personali ... non capita molto spesso, ultimamente».
Poi però ecco la statuetta da «miglior artista dell’anno» ed ecco i problemi. Per la prima volta, i Brit Awards sono diventati senza genere, cancellando le categorie di artista maschile e artista femminile, unificate in quella vinta da Adele. Una scelta in sintonia con i tempi che ha intristito nel Regno Unito qualche commentatore ma che prende atto di una situazione pratica dalla quale non si scappa: ci sono adesso — Sam Smith è un esempio ovvio — artisti musicali nonbinari, che non si qualificano cioè in una categoria univoca come maschile/femminile.
David Bowie, 50 anni fa, l’aveva già capito e l’aveva spiegato nei fatti, con la sua musica e i suoi look e il suo essere impossibile da ridurre in categorie prefissate, da Ziggy Stardust in avanti. Il problema è che Adele, come ha fatto, dice semplicemente «Che notte! Grazie Brits… grazie a tutti voi del pubblico, congratulazioni a tutti gli altri vincitori e ai candidati, siete fortissimi! Capisco perché hanno cambiato il nome di questo premio, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un’artista donna».
Prima dei social media sarebbe stata accolta come una dichiarazione innocua: ma il carburante di Twitter e Facebook è l’«engagement», cioè l’interazione tra utenti, e l’indignazione (oltre alle bufale sul Covid come abbiamo visto in questi due anni) fa sempre engagement. Ecco così le accuse, più o meno aspre ma riprese con enfasi dalla stampa britannica, di transfobia per Adele, che già ha dovuto subire mesi di critiche social quando dimagrì di 45 chili (scelta considerata offensiva da chi la vede come l’imposizione di un canone estetico).
È un terreno delicato. Di sicuro sarebbe (sarà?) complicatissimo «cancellare» un’artista da oltre 100 milioni di copie vendute in carriera (soprattutto nell’era di Internet si tratta di una cifra mostruosa, nel Novecento per avere la musica senza pagare bisognava svaligiare il negozio, adesso basta una connessione internet), così come appare complicato «cancellare» J.K. Rowling, creatrice della saga di Harry Potter.
Da 105.net l'11 febbraio 2022.
Adele continua a collezionare un successo dietro l'altro, ma le critiche non mancano. Le ultime arrivano dopo i Brit Awards, dove è stata regina indiscussa. Nel discorso di ringraziamento la cantante ha detto che ama "essere una donna". E così sono piovute subito (incomprensibili) accuse di transfobia.
La risposta dell'artista? Si è scatenata in un locale gay di Londra con tanto di pole dance. La "colpa" di Adele è quella di aver pronunciato queste parole: "Capisco perché hanno cambiato il nome di questo premio, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un’artista donna". E sì, perché per la prima volta ai Brit Awards hanno cancellato le categorie di artista maschile e artista femminile e sono state unificate in quella vinta dalla cantante. Bene, sui social gli haters si sono scatenati e sono stati prontamente ripresi dalla stampa britannica che ha accusato l'artista di "transfobia".
Dal canto suo, Adele, da sempre amata dal mondo Lgbt di tutto il mondo, ha preferito replicare con i fatti. E ha trascorso una serata speciale in un locale gay molto in voga nella capitale inglese. L'artista si è davvero scatenata, accennando anche un pole dance.
"Amo essere donna". E i gruppi Lgbt si scatenano contro Adele. Roberto Vivaldelli l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.
"Capisco perché hanno cambiato il nome di questo premio, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un'artista donna". Attivisti transgender contro la popstar Adele.
Viviamo in un'epoca in cui il neomoralismo politicamente corretto "soffoca" tutto: l'arte, la libertà di pensiero e di espressione, le opinioni. Dopo decenni di lotta femminista, oggi persino dichiararsi fieri di "essere donna" diventa un problema, anche per un'artista internazionale come Adele. Come riporta l'agenzia Adnkronos, la celebre popstar ha dominato ieri i Brit Awards, portandosi a casa i tre premi - Miglior artista, Miglior canzone (per Easy On Me) e Miglior album dell'anno (per '30') - collezionando così un totale di 12 trofei nel corso della sua carriera, solo uno in meno del record di 13 di Robbie Williams. Un trionfo macchiato dalle polemiche. Motivo?
Nel ritirare il premio di artista dell'anno, Adele ha criticato fra le righe la decisione dei Brit Awards di eliminare le categorie maschili e femminili per andare incontro alla moda "gender-fluid", affermando: "Capisco perché il nome di questo premio è cambiato, ma amo davvero essere una donna ed essere un'artista donna. Sono davvero, davvero orgogliosa di noi". Dichiarazioni che soltanto qualche anno fa l'avrebbero resa la beniamina dell'opinione pubblica progressista. Oggi, al contrario, le sue affermazioni appaiono quasi reazionarie e sui social gli attivisti transgender ed Lgbtq l'accusano di "transfobia", un po' come era successo a donne coraggiose come la scrittrice JK Rowling e la docente Kathleen Stock.
Adele sotto attacco sui social: "È una Terf"
Gli attivisti Lgbtq l'hanno prontamente etichettata come "Terf" che, come spiega il Financial Times, sta per "femminista radicale trans-escludente", un termine impiegato dalle associazioni transgender come insulto. Probabilmente la popstar, proprio come Rowling e Stock, crede banalmente che il sesso biologico non sia un "dettaglio" ed essere nate donne consenta di godere di determinati diritti che non dovrebbero essere automaticamente estesi a chiunque si svegli una mattina e si identifichi nel genere femminile. Buon senso, no? Non per certi gruppi Lgbtq e per le associazioni transgender, che hanno dichiarato guerra alle donne che credono che il sesso biologico sia predominante sul genere. Nonostante la maggior parte degli utenti difenda Adele, gli attivisti Lgbtq si sono scatenati contro di lei sui social, come riporta il New York Post. "Per favore, no, Adele non può essere una Terf", ha sottolineato un "femminista fedele" di nome Jacob, che conta migliaia di follower su Twitter. "Chi avrebbe mai pensato che Adele fosse una transfoba e avrebbe usato la sua piattaforma per chiedere la distruzione della comunità trans. Soprattutto gli adolescenti confusi", ha scritto un altro utente di Twitter. Altri si sono lamentati di aver "perso molto rispetto per Adele" e di non voler più "spendere un centesimo per la sua musica", ha osservato inoltre il Times di Londra.
"Donne perseguitate per aver difeso la loro identità"
Adele ha semplicemente criticato una tendenza in atto negli ultimi tempi. Per strizzare l'occhio all'ideologia transgender e al politicamente corretto, infatti, i progressisti identitari chiedono di rendere "neutrali" i premi rispetto al genere. I Brit Awards hanno optato per questa scelta, criticata con grande intelligenza da Adele, ma gli attivisti chiedono di cancellare categorie come "miglior attrice" agli Oscar e "miglior voce femminile" ai Grammy Awards. L'ultima follia liberal, dunque, è quella di eliminare ogni possibile riferimento al sesso biologico. In un editoriale pubblicato su Spectator, l'insegnante Debbie Hayton ha affermato che Adele rischia di unirsi al gruppo di "donne di talento" come l'autrice di Harry Potter JK Rowling che "vengono perseguitate senza pietà, semplicemente per aver difeso il loro sesso". Il messaggio di Adele alle donne e alle ragazze, scrive, "è fonte di ispirazione. Ecco una donna - che ha venduto decine di milioni di album - che dice al mondo di essere orgogliosa di essere una donna. È qualcosa da celebrare, non da condannare” spiega. Quella di Adele è la vittoria del talento e della femminilità contro l'ossessione gender neutral.
Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali
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