Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Vintage.

Le prevendite.

I Televenditori.

I Balli.

Il Jazz.

La trap.

Il musical è nato a Napoli.

Morti di Fame.

I Laureati.

Poppe al vento.

Il lato eccentrico (folle) dei Vip.

La Tecno ed i Rave.

Alias: i veri nomi.

Woodstock.

Hollywood.

Spettacolo mafioso.

Il menù dei vip.

Il Duo è meglio di Uno.

Non è la Rai.

Abel Ferrara.

Achille Lauro.

Adele.

Adria Arjona.

Adriano Celentano.

Afef Jnifen.

Aida Yespica.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Alberto Radius.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Alec Baldwin.

Alessandra Amoroso.

Alessandra Celentano.

Alessandra Ferri.

Alessandra Mastronardi.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghese.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Gassman.

Alessandro Greco.

Alessandro Meluzzi.

Alessandro Preziosi.

Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.

Alessio Boni.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alessio Giannone: Pinuccio.

Alessandro Haber.

Alex Britti.

Alexia.

Alice.

Alfonso Signorini.

Alyson Borromeo.

Alyx Star.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Anastacia.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.

Andrea Sartoretti.

Andrea Zalone.

Andrée Ruth Shammah.

Angela Finocchiaro.

Angelina Jolie.

Angelina Mango.

Angelo Branduardi.

Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.

Anna Falchi.

Anna Galiena.

Anna Maria Barbera.

Anna Mazzamauro.

Ana Mena.

Anna Netrebko.

Anne Hathaway.

Annibale Giannarelli.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Ruggiero.

Antonello Venditti e Francesco De Gregori.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Capuano.

Antonio Cornacchione.

Antonio Ricci.

Antonio Vaglica.

Après La Classe.

Arisa.

Arnold Schwarzenegger.

Asia e Dario Argento.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Barbara Bouchet.

Barbara D'urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Quinta.

Beatrice Rana.

Beatrice Segreti.

Beatrice Venezi.

Belen Rodriguez.

Bella Lexi.

Benedetta D'Anna.

Benedetta Porcaroli.

Benny Benassi.

Peppe Barra.

Beppe Caschetto.

Beppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Guaccero.

BigTittyGothEgg o GothEgg.

Billie Eilish.

Blanco. 

Blake Blossom.

Bob Dylan.

Bono Vox.

Boomdabash.

Brad Pitt.

Brigitta Bulgari.

Britney Spears.

Bruce Springsteen.

Bruce Willis.

Bruno Barbieri.

Bruno Voglino.

Cameron Diaz.

Caparezza.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlos Santana.

Carmen Di Pietro.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carola Moccia, alias La Niña.

Carolina Crescentini.

Carolina Marconi.

Cate Blanchett.

Catherine Deneuve.

Catherine Zeta Jones.

Caterina Caselli.

Céline Dion.

Cesare Cremonini.

Cesare e Mia Bocci.

Chiara Francini.

Chloe Cherry.

Christian De Sica.

Christiane Filangieri.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Claudio Simonetti.

Coez.

Coma Cose.

Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti.

Corrado Tedeschi.

Costantino Della Gherardesca.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Donzelli.

Cristiano Malgioglio.

Cristina D'Avena.

Cristina Quaranta.

Dado.

Damion Dayski.

Dan Aykroyd.

Daniel Craig.

Daniela Ferolla.

Daniela Martani.

Daniele Bossari.

Daniele Quartapelle.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Ballantini.

Dario Salvatori.

Dario Vergassola.

Davide Di Porto.

Davide Sanclimenti.

Diana Del Bufalo.

Dick Van Dyke.

Diego Abatantuono.

Diego Dalla Palma.

Diletta Leotta.

Diodato.

Dita von Teese.

Ditonellapiaga.

Dominique Sanda.

Don Backy.

Donatella Rettore.

Drusilla Foer.

Dua Lipa.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Eden Ivy.

Edoardo Bennato.

Edoardo Leo.

Edoardo Vianello.

Eduardo De Crescenzo.

Edwige Fenech.

El Simba (Alex Simbala).

Elena Lietti.

Elena Sofia Ricci.

Elenoire Casalegno.

Elenoire Ferruzzi.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Pedron.

Elettra Lamborghini.

Elio e le Storie Tese.

Elio Germano.

Elisa Esposito.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elodie.

Elton John.

Ema Stokholma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuele Fasano.

Eminem.

Emma Marrone.

Emma Rose.

Emma Stone.

Emma Thompson.

Enrico Bertolino.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Lucci.

Enrico Montesano.

Enrico Papi.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enzo Avitabile.

Enzo Braschi.

Enzo Garinei.

Enzo Ghinazzi in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Erika Lust.

Ermal Meta.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Eva Grimaldi.

Eva Henger.

Eva Robin’s, Eva Robins o Eva Robbins.

Fabio Concato.

Fabio Rovazzi.

Fabio Testi.

Fabri Fibra.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fausto Brizzi.

Fausto Leali.

Federica Nargi e Alessandro Matri.

Federica Panicucci.

Ficarra e Picone.

Filippo Neviani: Nek.

Filippo Timi.

Filomena Mastromarino, in arte Malena.

Fiorella Mannoia.

Flavio Briatore.

Flavio Insinna.

Forest Whitaker.

Francesca Cipriani.

Francesca Dellera.

Francesca Fagnani.

Francesca Michielin.

Francesca Manzini.

Francesca Reggiani.

Francesco Facchinetti.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Sarcina e le Vibrazioni.

Franco Maresco.

Franco Nero.

Franco Trentalance.

Francis Ford Coppola.

Frank Matano.

Frida Bollani.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gabriel Garko.

Gabriele Lavia.

Gabriele Salvatores.

Gabriele Sbattella.

Gabriele e Silvio Muccino.

Geena Davis.

Gegia.

Gene e Charlie Gnocchi.

Geppi Cucciari.

Gérard Depardieu.

Gerry Scotti.

Ghali.

Giancarlo Giannini.

Gianluca Cofone.

Gianluca Grignani.

Gianna Nannini.

Gianni Amelio.

Gianni Mazza.

Gianni Morandi.

Gianni Togni.

Gigi D’Agostino.

Gigi D’Alessio.

Gigi Marzullo.

Gigliola Cinquetti.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giorgia Palmas.

Giorgio Assumma.

Giorgio Lauro.

Giorgio Panariello.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Allevi.

Giovanni Damian, in arte Sangiovanni.

Giovanni Lindo Ferretti.

Giovanni Scialpi.

Giovanni Truppi.

Giovanni Veronesi.

Giulia Greco.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti: Mogol.

Giuseppe Gibboni.

Giuseppe Tornatore.

Giusy Ferreri.

Gli Extraliscio.

Gli Stadio.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Del Toro.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwen Adora.

Harrison Ford.

Hu.

I Baustelle.

I Cugini di Campagna.

I Depeche Mode.

I Ferragnez.

I Maneskin.

I Negramaro.

I Nomadi.

I Parodi.

I Pooh.

I Soliti Idioti. Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio.

Il Banco: Il Banco del Mutuo Soccorso.

Il Volo.

Ilary Blasi.

Ilona Staller: Cicciolina.

Irama.

Irene Grandi.

Irina Sanpiter.

Isabella Ferrari.

Isabella Ragonese.

Isabella Rossellini.

Iva Zanicchi.

Ivana Spagna.

Ivan Cattaneo.

Ivano Fossati.

Ivano Marescotti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

J-Ax.

Jacopo Tissi.

Jamie Lee Curtis.

Janet Jackson.

Jeff Goldblum.

Jenna Starr.

Jennifer Aniston.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Rizzo.

Jim Carrey.

Jo Squillo.

Joe Bastianich.

Jodie Foster.

Jon Bon Jovi.

John Landis.

John Travolta.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli e Gloria Guida.

José Carreras.

Julia Ann.

Julia Roberts.

Julianne Moore.

Justin Bieber.

Kabir Bedi.

Kathy Valentine.

Katia Ricciarelli.

Kasia Smutniak.

Kate Moss.

Katia Noventa.

Kazumi.

Khadija Jaafari.

Kim Basinger.

Kim Rossi Stuart.

Kirk, Michael (e gli altri) Douglas.

Klaus Davi.

La Rappresentante di Lista.

Laetitia Casta.

Lando Buzzanca.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Le Donatella.

Lello Analfino.

Leonardo Pieraccioni e Laura Torrisi.

Levante.

Liam Neeson.

Liberato è Gennaro Nocerino.

Ligabue.

Liya Silver.

Lila Love.

Liliana Fiorelli.

Liliana Cavani.

Lillo Pasquale Petrolo e Greg Claudio Gregori.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Lorenzo Zurzolo.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luca Abete.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca Barbarossa.

Luca Carboni.

Luca e Paolo.

Luca Guadagnino.

Luca Imprudente detto Luchè.

Luca Pasquale Medici: Checco Zalone.

Luca Tommassini.

Luca Zingaretti.

Luce Caponegro in arte Selen.

Lucia Mascino.

Lucrezia Lante della Rovere.

Luigi “Gino” De Crescenzo: Pacifico.

Luigi Strangis.

Luisa Ranieri.

Maccio Capatonda.

Madonna Louise Veronica Ciccone: Madonna.

Mago Forest: Michele Foresta.

Mahmood.

Madame.

Mal.

Malcolm McDowell.

Malena…Milena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manuel Agnelli.

Manuela Falorni. Nome d'arte Venere Bianca.

Mara Maionchi.

Mara Sattei.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Baldini.

Marco Bellavia.

Marco Castoldi: Morgan.

Marco Columbro.

Marco Giallini.

Marco Leonardi.

Marco Masini.

Marco Marzocca.

Marco Mengoni.

Marco Sasso è Lucrezia Borkia.

Margherita Buy e Caterina De Angelis.

Margherita Vicario.

Maria De Filippi.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Cucinotta.

Marika Milani.

Marina La Rosa.

Marina Marfoglia.

Mario Luttazzo Fegiz.

Marilyn Manson.

Mary Jane.

Marracash.

Martina Colombari.

Massimo Bottura.

Massimo Ceccherini.

Massimo Lopez.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Maurizio Lastrico.

Maurizio Pisciottu: Salmo. 

Maurizio Umberto Egidio Coruzzi detto Mauro, detto Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Gazzè.

Max Giusti.

Max Pezzali.

Max Tortora.

Melanie Griffith.

Melissa Satta.

Memo Remigi.

Michael Bublé.

Michael J. Fox.

Michael Radford.

Michela Giraud.

Michelangelo Vood.

Michele Bravi.

Michele Placido.

Michelle Hunziker.

Mickey Rourke.

Miku Kojima, anzi Saki Shinkai.

Miguel Bosè.

Milena Vukotic.

Miley Cyrus.

Mimmo Locasciulli.

Mira Sorvino.

Miriam Dalmazio.

Monica Bellucci.

Monica Guerritore.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nada.

Nancy Brilli.

Naomi De Crescenzo.

Natalia Estrada.

Natalie Portman.

Natasha Stefanenko.

Natassia Dreams.

Nathaly Caldonazzo.

Neri Parenti.

Nia Nacci.

Nicola Savino.

Nicola Vaporidis.

Nicolas Cage.

Nicole Kidman.

Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko.

Nicoletta Strambelli: Patty Pravo.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nino D'Angelo.

Nino Frassica.

Noemi.

Oasis.

Oliver Onions: Guido e Maurizio De Angelis.

Oliver Stone.

Olivia Rodrigo.

Olivia Wilde e Harry Styles.

Omar Pedrini.

Orietta Berti.

Orlando Bloom.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Paola Barale.

Paola Cortellesi.

Paola e Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Quattrini.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Crepet.

Paolo Rossi.

Paolo Ruffini.

Paolo Sorrentino.

Patrizia Rossetti.

Patti Smith.

Penélope Cruz.

Peppino Di Capri.

Peter Dinklage.

Phil Collins.

Pier Luigi Pizzi.

Pierfrancesco Diliberto: Pif.

Pietro Diomede.

Pietro Valsecchi.

Pierfrancesco Favino.

Pierluigi Diaco.

Piero Chiambretti.

Pierò Pelù.

Pinguini Tattici Nucleari.

Pino Donaggio.

Pino Insegno.

Pio e Amedeo.

Pippo (Santonastaso).

Peter Gabriel.

Placido Domingo.

Priscilla Salerno.

Pupi Avati.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quentin Tarantino.

Raffaele Riefoli: Raf.

Ramona Chorleau.

Raoul Bova e Rocio Munoz Morales.

Raul Cremona.

Raphael Gualazzi.

Red Canzian.

Red Ronnie.

Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Riccardo Chailly.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Manera.

Riccardo Milani.

Riccardo Scamarcio.

Ricky Gianco.

Ricky Johnson.

Ricky Martin.

Ricky Portera.

Rihanna.

Ringo.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Rusic.

Roberta Beta.

Roberto Bolle.

Roberto Da Crema.

Roberto De Simone.

Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino.

Roberto Satti: Bobby Solo.

Roberto Vecchioni.

Robbie Williams.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rolling Stones.

Roman Polanski.

Romina Power.

Romy Indy.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ron Moss.

Rosanna Lambertucci.

Rosanna Vaudetti.

Rosario Fiorello.

Giuseppe Beppe Fiorello.

Rowan Atkinson.

Russel Crowe.

Rkomi.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Sally D’Angelo.

Salvatore (Totò) Cascio.

Sandra Bullock.

Santi Francesi.

Sara Ricci.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sebastiano Vitale: Revman.

Selena Gomez.

Serena Dandini.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio e Pietro Castellitto.

Sex Pistols.

Sfera Ebbasta.

Sharon Stone.

Shel Shapiro.

Silvia Salemi.

Silvio Orlando.

Silvio Soldini.

Simona Izzo.

Simona Ventura.

Sinead O’Connor.

Sonia Bergamasco.

Sonia Faccio: Lea di Leo. 

Sonia Grey.

Sophia Loren.

Sophie Marceau.

Stefania Nobile e Wanna Marchi.

Stefania Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi e Fabio Volo.

Stefano Bollani.

Stefano De Martino.

Steve Copeland.

Steven Spielberg.

Stormy Daniels.

Sylvester Stallone.

Sylvie Renée Lubamba.

Tamara Baroni.

Tananai.

Teo Teocoli.

Teresa Saponangelo.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tina Cipollari.

Tina Turner.

Tinto Brass.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso e TheGiornalisti.

Tommaso Zanello alias Piotta.

Tommy Lee.

Toni Servillo.

Totò Cascio.

U2.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Ultimo.

Uto Ughi.

Valentina Bellucci.

Valentina Cervi.

Valeria Bruni Tedeschi.

Valeria Graci.

Valeria Marini.

Valerio Mastandrea.

Valerio Scanu.

Vanessa Incontrada.

Vanessa Scalera.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Pivetti.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Vinicio Marchioni.

Viola Davis.

Violet Myers.

Virginia Raffaele.

Vittoria Puccini.

Vittorio Brumotti.

Vittorio Cecchi Gori.

Vladimir Luxuria.

Woody Allen.

Yvonne Scio.

Zucchero.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Solito pre Sanremo.

Prima Serata.

Terza Serata. 

Quarta Serata.

Quinta Serata.

Chi ha vinto?

Simil Sanremo: L’Eurovision Song Contest (ESC)

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Superman.

Il Body Building.

Quelli che...lo Yoga.

Wags e Fads.

Il Coni.

Gli Arbitri.

Quelli che …il Calcio I Parte.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio II Parte.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Mondiali 2022.

I soldati di S-Ventura. Un manipolo di brocchi. Una squadra di Pippe.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I personal trainer.

Quelli che …La Pallacanestro.

Quelli che …La Pallavolo.

Quelli che..la Palla Ovale.

Quelli che...la Pallina da Golf.

Quelli che …il Subbuteo.

Quelli che…ti picchiano.

Quelli che…i Motori.

La Danza.

Quelli che …l’Atletica.

Quelli che…la bicicletta.

Quelli che …il Tennis.

Quelli che …la Scherma.

I Giochi olimpici invernali.

Quelli che …gli Sci.

Quelli che… l’acqua.

Quelli che si danno …Dama e Scacchi.

Quelli che si danno …all’Ippica.

Il Doping.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Vintage.

Alessio Lana per corriere.it il 3 ottobre 2022.

Ognuno ha il suo film preferito, la sua personale classifica di classici e nuove proposte ma quali sono i titoli che accomunano tutti noi, quelle pellicole imprescindibili, che si deve aver visto almeno una volta nella vita? La risposta la offre Imdb, la più importante piattaforma cinematografica online (nata dai fan e oggi di proprietà di Amazon) che raccoglie ogni giorno i giudizi di milioni di utenti (I registrati sono oltre 80 milioni). 

Ecco quindi i dieci titoli più votati dal pubblico, tra cui compare qualche sorpresa (E una certa influenza del pubblico Usa) ma lo annunciamo subito: di italiano ce n’è uno solo eppure il nostro Paese appare in tralice anche in altre posizioni. Partiamo quindi dal numero 10 dove incontriamo Fight Club, il capolavoro di David Fincher tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk con Brad Pitt ed Edward Norton che fanno a gara di bravura. E vincono entrambi. 

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

Nono piazzamento per l’unico film italiano in classifica, Il buono, il brutto, il cattivo, capolavoro firmato Sergio Leone che miscela western all’americana e aplomb latino. Terza pellicola della cosiddetta Trilogia del dollaro, segue Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più battendoli di misura. 

Al centro ci sono il Biondo (il buono), un Clint Eastwood più tenebroso e impenetrabile che mai, Tuco (il brutto), un Eli Wallach perfetto doppiogiochista, e infine il cattivo, il sicario Sentenza interpretato da un infido Lee Van Cleef. Tutti e tre vanno a caccia di un tesoro mentre nei nascenti Stati Uniti si combatte la Guerra di secessione. Indimenticabile la scena finale del «triello», una pietra miliare del cinema.

Pulp Fiction (1994)

Difficile parlare di Sergio Leone senza citare Tarantino ed ecco che il regista di lontane origine italiane batte di una sola posizione il suo maestro: Pulp Fiction è all’ottavo piazzamento. Film cult per intere generazioni, i dialoghi paradossali, le situazioni al limite e l’umorismo macabro hanno contagiato molta della cinematografia successiva ma anche la letteratura, i videogames e l’arte. In più ha rilanciato John Travolta e consacrato Uma Thurman tra le grandi attrici.

Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re (2003)

Atmosfere fantasy per il settimo classificato, Il Signore degli Anelli - Il ritorno del re. Curiosamente non si tratta del primo capitolo della trilogia tolkieniana firmata Peter Jackson ma dell’ultimo. Gli altri due sono, rispettivamente, all’undicesimo e quindicesimo posto. 

Schindler’s List (1993)

Sesto posto per il dramma firmato Steven Spielberg sulla vera storia di Oscar Schindler (che si può rivedere in streaming su Netflix), un industriale tedesco che, mettendo a rischio la propria vita e la propria carriera, riuscì a salvare migliaia di ebrei dalla Shoah. Girato in bianco e nero, è interpretato da Liam Neeson, Ben Kingsley e Ralph Fiennes. 

La parola ai giurati (1957)

Film più vecchio della classifica, la prima cinematografica di Sidney Lumet è al quinto piazzamento. Film appassionante, ci porta all’interno di una giuria che si sta occupando di un ragazzo accusato di parricidio. La storia è incentrata su un giurato che, sulla base di un «ragionevole dubbio», tenta di persuadere gli altri undici membri ad assolvere il ragazzo. Un classico da non perdere, profondo e appassionante. 

Il cavaliere oscuro (2008)

Il Batman di Tim Burton non compare neanche tra i primi 250 film del sito mentre quello di Christofer Nolan è addirittura quarto. Merito di una regia spettacolare ma anche di un cast d’eccezione. Christian Bale è un Uomo Pipistrello duro e credibile ma meglio di lui fa Heath Ledger, un Joker che molti considerano migliore di quello di Jack Nicholson del 1989.

Il padrino (1972) e Il padrino - Parte II (1974)

Ed eccoci al podio con una doppietta in qualche modo italiana. Il capolavoro di Francis Ford Coppola tratto dal romanzo omonimo di Mario Puzo, che ha curato anche la sceneggiatura, è secondo mentre il successivo Il padrino - Parte II è terzo . Perfetti in ogni loro aspetto, dalla scenografia alla recitazione passando per la sceneggiatura e ovviamente la regia, la saga di Don Vito Corleone e della sua famiglia mafiosa sono un classico che ancora oggi stupisce per attualità ( tra l’altro la villa in cui è stato girato è stata messa in vendita per ben 89 milioni di dollari). Difficile che qualcuno non l’abbia visto, in caso rimedi subito.

Le ali della libertà (1994)

Il primo piazzamento è una vera sorpresa. Ci si sarebbe potuto aspettare Forrest Gump (che è 12esimo), Quei bravi ragazzi (18esimo) , Qualcuno volò sul nido del cuculo (17esimo) e decine di altre pellicole e invece il film più gradito dagli utenti è Le ali della libertà (andato in onda su Sky Cinema 2 alle 18.50) . Al centro troviamo Tim Robbins nei panni di Andy Dufresne, un bancario un po’ impacciato che si trova rinchiuso in un carcere di massima sicurezza per aver ucciso sua moglie e l’amante. Qui conosce Red, interpretato da un Morgan Freeman in ottima forma, e insieme stringeranno una forte amicizia che permetterà a Andy di tornare a vivere. Insomma, una storia che colpisce il cuore e la mente, candidata a ben sette Oscar senza averne vinto nessuno.

Le venti canzoni italiane più belle del 2022. Dai Maneskin a Fabri Fibra, passando per Cesare Cremonini, Elisa, Blanco e Dargen D'Amico, i brani italiani che ci sono piaciuti di più nei primi nove mesi dell'anno. Gabriele Antonucci il 02 Ottobre 2022 su Panorama.

A inizio ottobre si può iniziare a tracciare un primo bilancio nella musica italiana del 2022. L'estate ha decretato il successo del pop retro che strizza l'occhio agli anni Sessanta, della dance in tutte le sue declinazioni e della funky-disco, mentre perdono terreno, dopo un quinquennio trionfale, la trap e il reggaeton. Di Sanremo 2022 ricordiamo, a distanza di sette mesi, soprattutto tre canzoni, che sono presenti nella nostra classifica: Brividi di Mahmood e Blanco, Ciao Ciao de La Rappresentante di Lista e Dove si balla di Dargen D'Amico. I Maneskin, che continuano a macinare sold out e premi in giro per il mondo, sono sul gradino più alto del podio con l'adrenalinica Supermodel.

Molto bene anche i cantautori nella fascia tra i 40 e i 50 anni: Cesare Cremonini, Elisa, Niccolò Fabi, Ermal Meta, Giuliano Sangiorgi e Francesco Gabbani. Il rap di qualità è rappresentato in classifica da Fabri Fibra e Rancore, autori di due album riusciti come Caos e Xenoverso. Enrico Ruggeri e i Ministri tengono alte le insegne del rock, mentre Simona Molinari, Ditonellapiaga ed Elodie sono tre delle nostre artiste più interessanti (le prime due premiate pochi mesi fa anche con una Targa Tenco). 1) Maneskin - Supermodel 2) Cesare Cremonini - La ragazza del futuro 3) Elisa - Litoranea 4) Niccolò Fabi - Andare oltre 5) Francesco Gabbani - Peace & Love 6) Ermal Meta e Giuliano Sangiorgi - Una cosa più grande 7) La Rappresentante di Lista - Ciao Ciao 8) Enrico Ruggeri - La fine del mondo 9) Mahmood Blanco - Brividi 10) Nu Genea - Tienatè 11) Fabri Fibra feat Colapesce Dimartino - Propaganda 12) Rancore - Freccia 13) Simona Molinari - Come un film 14) Ministri - Scatolette 15) Dargen D'Amico - Dove si balla 16) Alan Sorrenti - Giovani per sempre 17) Ditonellapiaga - Disco (I love it) 18) Jovanotti -

Simona Marchetti per corriere.it il 29 settembre 2022.

Le sonorità innovative, che richiamavano la psichedelia, e il testo che trattata un argomento fino a quel momento tabu (ovvero, l’adulterio) hanno fatto di «29 Settembre» una delle canzoni simbolo della musica italiana. Considerato ancora oggi il battesimo del beat in Italia - non a caso venne soprannominato il «Sergeant Pepper’s» tricolore - il brano è stato scritto e composto da Giulio Rapetti (in arte Mogol) e Lucio Battisti nel 1966 e in un primo momento venne proposto a Gianni Pettenati, che però non era convinto delle sue potenzialità e così rifiuto di interpretarlo.

Quando Maurizio Vandelli, leader dell’Equipe 84, sentì per la prima volta «29 Settembre», capì subito che sarebbe stata un successo e fece subito pressione su Mogol e Battisti perché gliela cedessero. A marzo del 1967 l’Equipe 84 - che in quel momento era all’apice della popolarità, forte anche dell’investitura di John Lennon che l’aveva definita «la band italiana più in linea con i tempi» - pubblicò la sua interpretazione del brano che conquistò il primo posto della classifica italiana, dove rimase cinque settimane. «29 Settembre» è stata la prima canzone di Battisti a essere interpretata dalla band, seguiranno poi «Nel cuore, nell’anima», «Ladro» ed «Hey ragazzo». 

La versione inglese

Sempre nel 1967 l’Equipe 84 realizzò anche una versione inglese del brano di Mogol-Battisti, dal titolo «29th September» (il testo venne tradotto da Tommy Scott). Uscita come 45 giri nel Regno Unito e negli Usa, la canzone è stata reinterpretata dai britannici The Bevis Frond nel 1993 ed è stata poi ripubblicata nel 2008 per la compilation «Let’s Ride» dedicata alla psichedelia europea.

Il testo

Come detto, il testo di «29 Settembre» racconta di un tradimento, consumato con leggerezza e senza pentimento o senso di colpa da parte del protagonista. La storia si volge in due giornate consecutive: nella prima, il 29 settembre appunto, il protagonista conosce una ragazza in un bar e i due passano la serata insieme; il giorno dopo, il 30 settembre, lui si sveglia, pensa alla compagna e si precipita a telefonarle per dichiararle il suo amore, come se la notte prima non fosse successo niente. Negli anni sessanta l’adulterio era considerato una sorta di tabu e difficilmente sarebbe potuto diventare il tema centrale di una canzone, ma Mogol e Battisti sovvertirono i canoni dell’epoca, anticipando di fatto la rivoluzione sessuale del Sessantotto 

Il titolo

Mogol ha sempre sostenuto che il titolo del brano si riferisce a un giorno qualunque e che quindi è stato scelto senza una motivazione particolare. In realtà il 29 settembre è il compleanno della prima moglie, Serenella De Pedrini, cosa che ha spinto molti critici a ritenere che il testo possa essere autobiografico.

La versione di Battisti

A marzo del 1969 Battisti decise di incidere una sua interpretazione di «29 Settembre», che venne poi inclusa nell’album di debutto «Lucio Battisti». Rispetto alla versione dell’Equipe 84, quella del cantautore è decisamente più classica e meno sperimentale: oltre ad aver eliminato l’annunciatore del giornale orario, non più ritenuto necessario, Battisti sceglie anche una strumentazione più tradizionale, con chitarre, basso e flauti, ma senza batteria. Nel corso degli anni «29 Settembre» è stata reinterpretata da moltissimi artisti, fra cui Mina (1975), i Dik Dik (1989), Ornella Vanoni (2001) e i Pooh (2008).

Karaoke, 30 anni fa la prima puntata: Elisa, Tiziano Ferro e gli altri artisti lanciati dallo show cult. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022.

Il 28 settembre 1992 Fiorello debuttava al timone del programma tv che ha fatto cantare tutta Italia

La prima puntata

Il 28 settembre 1992 andava in onda la prima puntata del Karaoke, programma condotto da Fiorello destinato a diventare un fenomeno di costume. Il meccanismo della trasmissione, ideata da Fatma Ruffini, era molto semplice: su un palco, allestito ogni sera in una diversa piazza italiana, erano chiamati ad esibirsi - cantando canzoni molto famose e leggendo le parole sullo schermo - i concorrenti, successivamente votati dal pubblico. Inizialmente il Karaoke non ebbe un grande successo. Così Fiorello, che all’epoca sfoggiava il celebre codino (che avrebbe fatto moda), tornò a dedicarsi alla radio. Improvvisamente però gli ascolti iniziarono a crescere e scoppiò una vera e propria Karaoke-mania. Tra i tanti concorrenti che si sono avvicendati sui palchi dello show ci sono alcuni personaggi che avrebbero in seguito sfondato nella musica e nel mondo dello spettacolo, quanti ne ricordate?

Silvia Salemi

Era molto giovane anche Silvia Salemi quando salì sul palco del programma. La cantautrice, che si è fatta notare a Sanremo 1997 con «A casa di Luca», ha nel suo curriculum la musica ma anche programmi televisivi (come Music Farm, Tale e quale show, Ora o mai più, Star in the Star).

Tiziano Ferro

Oggi riempie gli stadi (lo farà anche nel 2023) ma nel 1992 Tiziano Ferro era solo un ragazzo di Latina di 12 anni con tanta passione per la musica. Attualmente è in radio il suo ultimo singolo, «La vita splendida», che anticipa il suo nuovo album in arrivo l’11 novembre («Il mondo è nostro»).

Annalisa Minetti

Annalisa Minetti, 18enne, nel 1994 canta «Notti magiche». Tre anni dopo è a Miss Italia (si classifica settima) e nel 1998 conquista Sanremo con «Senza te o con te». Parallelamente alla musica (il suo ultimo singolo, uscito nel 2022, è «Déjà vu») oggi porta avanti la sua carriera nel mondo dello spettacolo (ha partecipato a numerosi programmi tv tra cui Music Farm, Tale e quale show, Ora o mai più e All Together Now - La musica è cambiata), è atleta paralimpica e Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana.

Laura Chiatti

Forse non tutti sanno che…anche Laura Chiatti, nel 1994, ha partecipato al Karaoke. L’attrice all’epoca frequentava la seconda media e si esibì - con basco rosso e gonnellina scozzese - in piazza a Marsciano cantando «Sognare sognare» di Gerardina Trovato. «Sembri Candy Candy» le disse Beppe Fiorello, conduttore di quella edizione.

Camila Raznovich

Non è diventata cantante dopo essersi esibita al Karaoke con «We are the world» ma la musica ha fatto parte della sua vita per diversi anni, in qualità di vj di Mtv. Parliamo di Camila Raznovich, oggi volto del popolare programma di viaggi di Rai 3 «Kilimangiaro».

Da ilnapolista.it il 3 ottobre 2022. 

Mercoledì saranno 100 anni dalla nascita di Ciccio Ingrassia, che per anni ha duettato accanto a Franco Franchi. Il Fatto intervista suo figlio Giampiero. Racconta di quando era bambino e della fama che circondava Ciccio e Franco.

«Intuivo che non era una persona comune e ne ero un po’ geloso: privacy zero e negli anni Sessanta lui e Franco venivano trattati da Beatles. Uscire con papà era impossibile…».

Uno dei personaggi dello spettacolo che frequentavano di più casa Ingrassia era Lino Banfi. A lui Ciccio era legato da una profonda amicizia. Mentre erano molto freddi i rapporti con Modugno.

«Non avevano alcun rapporto, Modugno non gli aveva perdonato l’addio alla sua compagnia; papà e Franco erano riservati, il glamour non era per loro». 

Si sentivano messi da parte dal cinema cosiddetto colto?

«No, pensavano al pubblico; eppure i critici li hanno massacrati – ho ritrovato recensioni terribili –, gli stessi che anni dopo li hanno esaltati. Loro due già al tempo ripetevano: “Da morti verremo rivalutati”». 

Le umili origini

Ciccio Ingrassia aveva origini molto umili. Il figlio racconta: «Sono anche andato a vedere dov’è nato, in uno dei quartieri più popolari di Palermo; mi ha raccontato di suo padre ciabattino, di lui che sapeva lavorare la tomaia, poi delle sue fughe per frequentare il bar degli artisti, delle difficoltà iniziali». 

Erano entrambi poveri, anche Franco Franchi. Di una povertà assoluta.

«Anche per questo li amo. Io da quando sono nato ho le spalle coperte e ho potuto scegliere grazie a questa libertà. Loro no. Loro realmente si dipingevano le caviglie di nero perché non avevano i soldi per i calzini; loro realmente per anni hanno dormito insieme dentro a pensioncine infime».

Di quella fase quale aspetto gli era rimasto addosso?

«In parte lo sublimava con la generosità: a Palermo ha comprato casa a nonna e zii; sul set, con una scusa, rinunciava al cestino e lo regalava alle comparse: per loro era l’unico pasto vero della giornata; lo so perché me lo hanno raccontato le comparse e se il cestino non bastava con una scusa gli allungava dei soldi». 

Il dolore per la morte di Franco. Ad un certo punto, Ingrassia disse addio allo spettacolo.

«Scelta sua. L’ultimo lavoro in coppia è stato Avanspettacolo su Rai3 (1992); Franchi dopo poche settimane venne ricoverato per poi presentarsi all’ultima puntata. Stava male. E dopo la sua morte papà disse: “Non mi va più”.

La morte di Franchi fu una bella botta e improvvisa: il giorno prima della morte andammo a trovarlo in clinica; ho l’immagine di Franco sul letto, con la porta aperta, noi che lo salutiamo da lontano e papà che entra. Si sono parlati, nessuno di noi ha ascoltato e neanche chiesto cosa si fossero detti. Sembrava un momento sacro. Dopo la morte i figli di Franco lo chiamavano: “Ciccio ti veniamo a trovare”. “Per favore no, mi ricordate troppo vostro padre e non ci sto bene”».

Lo vedeva anziano?

«A 80 anni aveva ancora i capelli neri; si tingeva solo i baffi; solo gli ultimi due anni di vita non è più uscito di casa perché si vergognava della sua condizione». 

Franco e Ciccio, due antieroi (inimitabili) dello spettacolo. Quant'è bella giovinezza dei nativi digitali, con la fortuna di avere una vita davanti, però che peccato che la più parte di essi viva in un eterno presente ignorando le cose belle del passato. Francesco Mattana il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.

Quant'è bella giovinezza dei nativi digitali, con la fortuna di avere una vita davanti, però che peccato che la più parte di essi viva in un eterno presente ignorando le cose belle del passato, come ad esempio le maschere senza tempo di Franco e Ciccio - Franco Franchi (Francesco Benenato, 1928-92) e Francesco Ingrassia (1922-2003) - cantrici di una comicità che entrava dritta nel cuore della gente. Il centenario della nascita di Ingrassia, il 5 ottobre, è una scusa ghiotta per rimeditare sui due «inguaiatori» del cinema italiano. Andrea Pergolari e Alberto Pallotta, autori di Franco e Ciccio. Storia di due antieroi (Ed. Sagoma), raccontano i due palermitani doviziosamente. Per quanto concerne Ciccio, dopo una licenza elementare conquistata occupandosi delle faccende domestiche del maestro, e un ginnasio cui si iscrisse solo perché il regime regalava una bella divisa a chi investiva sulla formazione, dovendo poi scegliere fra l'umile (ma sicuro) mestiere di tagliatore di tomaie e l'ambiziosa (ma insicura) febbre da palcoscenico, optò per la seconda, con l'annessa precarietà della gavetta. Franco, da par suo, nacque in vicolo delle Api per poi spostarsi, coi genitori e un numero abnorme di fratelli e sorelle, a via Terra delle Mosche. «Mancava solo Piazza Zanzara», ironizzò una volta Franchi, con Ciccio che puntualizzava «sì, all'angolo con via Scarafaggi».

Male in arnese entrambi, un bel dì i loro percorsi si incrociarono. Funzionarono subito, dapprima nell'avanspettacolo e poi, in un crescendo, venne l'incontro con Modugno che li valorizzò a teatro e l'ascesa incontrollata nel cinema, in quei film che erano tutto un programma fin dal titolo (Per un pugno nell'occhio, I barbieri di Sicilia, Farfallon e via parodiando).

Ritmi di lavoro che avrebbero accoppato un elefante e difatti, dopo un decennio forsennato, la coppia scoppiò: Franco, dopo la rottura, spostò a Zagarolo il tango parigino di Bertolucci e Ciccio, non meno giocherellone, seppellì con la risata de L'esorciccio il cinema del terrore.

Paolo Giordano per “il Giornale” il 18 settembre 2022.

Basterebbero già le foto all'ingresso. Mina, Celentano, Ray Charles, Tom Jones. Una di fianco all'altra. Una più simbolica dell'altra. Quando entri nella Bussola di Marina di Pietrasanta, passeggiando fino ad arrivare in riva al mare, entri in un mondo senza tempo. Perché quel tempo, ossia gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, è ormai depositato nella banca dei nostri ricordi e da lì mica se ne va, anzi. 

Oggi la Bussola è rinata e germoglia un'altra volta per una generazione di ragazzini che naturalmente non c'erano quando tutto questo è nato, ossia il 4 giugno 1955. Dice la leggenda che il celebre Sergio Bernardini avesse avuto come regalo di Natale l'affitto di questo locale dal proprietario Alpo Benelli e da allora iniziò a costruire un mito. Quella sera fu Renato Carosone a inaugurare con la sua orchestra (cachet, si dice, di 1 milione e 600mila lire) quello che alla velocità della luce sarebbe diventato un tempio della musica, del costume e pure del gossip italiano. Se eri un cantante, puntavi a esibirti alla Bussola per diventare una vera star.

Se eri un aspirante famoso (oggi si dice influencer), la Bussola era il tuo crocevia. Se poi di mestiere facevi il paparazzo, beh, come si faceva a non avere una postazione fissa alla Bussola, dove passava chiunque «facesse titolo», gli aristocratici, le dive, gli attori, gli imprenditori rampanti e i rampolli di buona famiglia che trasformavano l'estate in un set di amori, amorazzi, eccessi, intrighi e passerelle di abiti nuovi.

Per capirci, d'estate le pagine dei rotocalchi grondavano di storie uscite dalla Bussola. Quando finì l'anno di militare, Adriano Celentano scelse la Bussola per tornare dal vivo con la sua band I Ribelli. Era l'agosto del 1961, gli italiani si erano ripresi dalla crisi del Dopoguerra e iniziavano ad andare davvero in vacanza. C'era il «boom», che non era soltanto un dato economico ma si dimostrava soprattutto uno stato d'animo. Si respirava la voglia di ripartire, di divertirsi, di rimediare alle angosce degli ultimi decenni con quella salutare dose di leggerezza che adesso, nel nostro tempo, abbiamo purtroppo dimenticato un'altra volta.

Allora la Bussola diventa un riflettore dell'italianità che dappertutto rinasce. Nella Roma della Dolce Vita (non quella di oggi cantata da Fedez) arrivano divi hollywoodiani e paparazzi, a Palazzo Chigi c'è Amintore Fanfani con quello che sarà il «governo delle convergenze parallele», a Palazzo Pitti sfila per la prima volta una collezione di Valentino. Si torna a respirare. Ad agosto i Beatles fanno il loro primo concerto al Cavern di Liverpool e qui da noi, in Italia, arriva il primo tormentone, ossia Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco. Il bello è che tutto sembra inedito.

Proprio in quell'estate del 1961, alla Bussola nasce l'amore tra Stefania Sandrelli e Gino Paoli, che era sposato con Anna Fabbri: «Mi innamorai di lui per una canzone» ha detto poco tempo fa questa attrice superba. In ogni caso, «l'affaire Paoli Sandrelli» diventò di dominio nazionale, con diluvio di foto e di chiacchiere, di indignazione perché lei era minorenne e di illazioni sul loro futuro (si lasciarono definitivamente nel 1968). Di quell'epoca si sente ancora il «profumo» entrando alla Bussola passando di fianco al bar che precede di pochi passi la spiaggia. A destra c'è la piscina. Più avanti le tende e le sdraio. 

L'atmosfera è cambiata ma il filo conduttore resta lo stesso di allora, quando «ci si vestiva bene» per andare alla Bussola e godersi qualcosa di totalmente unico. Qualche settimana fa, Mario Lavezzi parlando proprio alla Bussola ha ricordato che, dopo un concerto in questo locale, Mogol consigliò a Lucio Battisti di rinunciare alle esibizioni dal vivo perché non era abbastanza empatico con il pubblico. Una decisione che ha cambiato la musica d'autore italiana.

Anno dopo anno, alla Bussola arrivano tutti, ma proprio tutti. I cantanti, da Louis Armstrong a Neil Sedaka, dai Platters a Peppino Di Capri, Don Marino Barreto jr, Milva, Ella Fitzgerald, Domenico Modugno, Gilbert Bécaud, Marlene Dietrich, Juliette Greco, Josephine Baker, Wilson Pickett, Edoardo Vianello, Lola Falana, Miles Davis, Walter Chiari, Lelio Luttazzi eccetera. E si vedono anche i volti noti, quelli che oggi si chiamano vip e che facevano a gara per trascorrere una serata davanti ai fotografi. 

Non c'erano i social, c'era la Bussola di Sergio Bernardini.

Pochi chilometri più avanti, verso Forte dei Marmi, c'era la Capannina, altro epicentro di vita notturna visto che già nel 1939 ci transitò un giovanissimo John Fitzgerald Kennedy. Ora, a poche centinaia di metri dalla Bussola c'è il Twiga, simbolo di una mondanità lontana anni luce da quella che ha reso celebre (e immortale) la Bussola. E il Bussolotto? Era un locale collegato alla Bussola, ma dedicato alla musica jazz, dove, fra gli altri, si esibì diverse volte Romano Mussolini. In sostanza era un «privè» nel quale si ritrovavano anche personaggi famosi in cerca di riservatezza.

In poche parole, la Bussola dettava il tempo dello spettacolo e del costume d'estate. Per capirci, era l'epoca delle vere dive, il momento nel quale Mina e Ornella Vanoni si contendevano i riflettori. Una rivalità che Sergio Bernardini, autentico scopritore di Mina ma amico leale anche della Vanoni, racconta così nel suo libro Non ho mai perso la bussola, pubblicato da Garzanti nel 1987: «C'è Mina e c'è la Vanoni. Se Mina è in un modo, Ornella è il suo opposto». 

Alla Bussola, se c'è una, non c'è l'altra. Una volta, Mina ha la febbre alta e Ornella Vanoni, che è in vacanza a Forte dei Marmi, accetta di sostituirla. Quasi a fine concerto, tra il pubblico si ritrova proprio Mina avvolta da una coperta che la applaude persino più degli altri. Un'altra volta, Ornella Vanoni stupisce davvero tutti. Sergio Bernardini lo racconta così: «Non capisco davvero perché, al pomeriggio durante le prove, (lei) si rivolga in continuazione al tecnico delle luci ricordandogli che, quella sera, ad un certo punto di una canzone il cui titolo ora mi sfugge (ritengo possa trattarsi di Senza fine) vuole che lo spot solare la illumini dal basso verso l'alto. Non mi pare una cosa così importante.

Sbaglio, naturalmente. Lei ha già preparato il suo grande colpo di teatro. Questo: vestito bianco aderentissimo, espressione del viso da civetta come mai. S' accende il famoso e richiestissimo riflettore e per la gente (i maschietti in particolare) c'è Ornella che sotto il vestito non porta proprio nulla, come direbbero i Vanzina». Immaginatevi che cosa accadrebbe oggi con gli smartphone e i social a moltiplicare all'infinito quelle foto galeotte: se ne parlerebbe per giorni.

Della Bussola si parlò molto anche il primo gennaio del 1969 perché nella notte di Capodanno, quando avrebbero dovuto esibirsi Fred Bongusto e Shirley Bassey, una violenta contestazione portò anche in questo locale della Versilia il clima del tempo. Il «Potere Operaio di Pisa» aveva organizzato una manifestazione contro la sfilata di lusso che si sarebbe vista alla Bussola dove, tanto per capire, il cenone sarebbe costato 36mila lire, ossia lo stipendio mensile di un operaio.

Per convocare la protesta fu lanciato un manifesto preparato da due futuri dirigenti di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani e Paolo Brogi. L'obiettivo era chiaro: «Il 31 dicembre faremo la festa ai padroni». Uno slogan talmente truce che, ha rivelato tanti anni dopo Pietrostefani, Adriano Sofri lo giudicò «una caduta di stile». Arrivarono migliaia di persone (tra loro anche Massimo D'Alema), molte con sacchi di vernice rossa, qualcuno con buste piene di escrementi. Come spesso accadeva, si unirono i cosiddetti «facinorosi» e qualche gruppetto di neofascisti. La polizia intervenne. I ragazzi costruirono barricate e poi scapparono in spiaggia e tra le ville lì intorno. Su di una barricata rimase Soriano Ceccanti che aveva 16 anni e da allora vive sulla sedia a rotelle (paradosso burocratico: nel 2013 l'Inps gli ha revocato la pensione d'invalidità).

«Lotta Continua cominciò lì» ha riassunto Pietrostefani. La Bussola rimase uno dei centri nevralgici dell'Italia popolare per tanto tempo pagando, com' è naturale, un calo di popolarità, qualche cambio di gestione e persino una chiusura per «rumore molesto». 

Adesso c'è la Bussola 2.0, che è gestita dalla famiglia Angeli e interpreta lo spirito del tempo ospitando i concerti (straesauriti) di Lazza, Tedua, Rhove e altri eroi della nuova scena musicale. Ma non solo. Ci sono i pomeriggi con protagonisti come Mara Venier o Rita Dalla Chiesa e Matteo Bassetti. E c'è comunque un ritorno a quella riservatezza elegante che è stata il marchio di fabbrica della Bussola fin da quella prima serata nel 1955 con Renato Carosone. I tempi sono cambiati. Ma, passando all'ingresso davanti alle foto di Mina, Celentano e Ray Charles, l'atmosfera rimane indiscutibilmente la stessa.

Paolo Giordano per il Giornale il 18 settembre 2022.

Finora non era mai accaduto, anzi. Il pop è sempre stato il passepartout per capire meglio il presente o per individuare le tendenze per il futuro. Ora no. Ora le canzoni di successo si abbuffano di così tante citazioni, riferimenti, scopiazzature e riesumazioni da diventare un manuale per comprendere meglio il passato, storia o costume che siano. Prima si inventava qualcosa di nuovo. Adesso si riscopre qualcosa di vecchio. E funziona. 

La catena di montaggio di web e soprattutto social, che ferocemente obbliga la Generazione Z a vivere nel presentissimo, nell'hic et nunc altrimenti perde il ritmo come Charlot nella fabbrica di Tempi Moderni, sta costruendo un pubblico che non conosce la storia, tantomeno quella della musica, e che ha poco interesse per il futuro, che oltretutto non vale né clic né like. 

Perciò il nuovo pop di grande consumo diventa più fascinoso quando si guarda indietro. E diventa, magari forse si spera, un pretesto per conoscere meglio, o quantomeno intercettare, frammenti di storia, di costume o anche di musica dei decenni scorsi.

Prendete l'hula hop, quell'attrezzo di «giocoleria» usatissimo e celebre negli anni Sessanta e poi sempre meno al punto che il record di durata (la rotazione intorno al bacino) è del 1987 e quindi non lo usa più quasi nessuno. E invece, grazie al brano omonimo di Noemi e Carl Brave, è tornato popolare anche tra chi manco sapeva cosa fosse. Oltretutto quello è un brano ispirato a Non succederà più, un pezzo di Claudia Mori ripescato da un'altra epoca, l'inizio anni Ottanta.

Per capirci, tante novità musicali possono diventare un pretesto per capire meglio il passato e, quando merita, ad assorbirne la forza. Ad esempio il brano Finimondo di Myss Keta musicalmente è piuttosto povero ma gode di una melodia fortissima. Se è diventato un minitormentone dell'estate 2022 gran parte del merito è senza dubbio del campionamento di Il capello, brano del 1961 di Edoardo Vianello, autentico campione del tormentone ma anche di quello che oggi è il politicamente scorretto (dai «negri» dei Watussi a Cicciona cha cha cha). In questi mesi i ragazzi, e pure i bambini, hanno cantato «Che finimondo per un capello biondo, che stava sul gilè, sarà volato, ma come è strano il fato, proprio su di me» e forse a qualcuno è venuto in mente di chiedersi da dove venissero quelle parole. 

Dopotutto, la drammatica mancanza di nuove idee (capita) obbliga la musica a riesumare ciò che è rimasto sepolto del passato. Finita la riscoperta degli anni Ottanta, superato pure il reggaeton, non rimane che tornare ancora più indietro, come ha fatto Cristiano Malgioglio rielaborando Sucu sucu cantato nel 1959 dal boliviano Tarateño Rojas e poi ripreso anche da Caterina Valente. Tutt'altra roba rispetto alla trap. Altri mondi, altre atmosfere. E pure altri stimoli, che tra l'altro ricevono dagli ascoltatori un grande «up», come si dice, ossia molto apprezzamento.

La elegante Madame de L'eccezione fa scoprire gli anni Sessanta di Caterina Caselli (ora tra l'altro sua discografica) nella quale si accendevano le stesse tensioni che oggi, rivedute e corrette, agitano il suo pubblico. 

Tutto torna. 

In poche parole, da una parte c'è un magma monotematico e autoreferenziale di trap e urban spesso di desolante povertà creativa e, peggio ancora, interpretativa. Dall'altra c'è qualche ripescaggio che per il nuovo pubblico equivale a una scoperta. Non a caso i Maneskin sono percepiti come deja-vu dagli over 40 ma innovativi e sorprendenti da chi è più giovane. Succede che loro ripropongono, neanche tanto riveduta e corretta, un'iconografia e un insieme di simboli e provocazioni che tornano indietro di quasi mezzo secolo. Ma a chi non conosce i Led Zeppelin o i T Rex o Iggy Pop, a chi non sa che cosa sia successo negli anni Settanta e Ottanta nella musica, nella politica e anche nella lotta per diritti e le uguaglianze, risultano totalmente nuovi e inediti.

Da sempre si parla del ruolo sociale delle popstar. In passato spesso è stato un ruolo che si è preteso politico e chi non lo voleva (ad esempio Lucio Battisti o, adesso, Laura Pausini e il suo mancato Bella ciao alla tv spagnola) veniva considerato «nemico». 

Invece oggi il ruolo della popstar è molto più conservatore, quasi didattico. Perciò funziona il «repêchage», il ripescaggio di temi e suoni del passato che conferma la mancanza di nuove idee e di passione innovativa tra chi «fa» musica. Perciò piacciono così tanto i richiami alle epoche trascorse. Da una parte compensano un vuoto. Però dall'altra confermano che, come tutte le altre, anche le nuove generazioni hanno fame di idee e di passione. Il problema è di chi non gliele sa dare e le obbliga a girarsi indietro per trovarle.

DAGONEWS l'11 settembre 2022.

Il co-fondatore della rivista “Rolling Stone” Jann Wenner racconta alcuni succosi aneddoti sulle celebrità che ha incontrato durante la carriera nel suo prossimo libro di memorie, "Like a Rolling Stone", in uscita il 13 settembre. 

Ecco alcuni dei migliori: 

Arnold Schwarzenegger

Wenner ricorda una cena organizzata da Tom Hanks e Rita Wilson che aveva tra gli ospiti Bruce e Patti Springsteen e Arnold Schwarzenegger e la moglie Maria Shriver.

Durante il pasto, il cantante ha raccontato una lunga storia che si è conclusa con la morale: "Una volta che ti sposi, c'è un'altra persona che devi tenere in considerazione e con cui condividere la tua vita come tuo pari». 

Il tavolo rimase in silenzio alla fine del sermone, finché la star di "Terminator" non ruppe l'atmosfera con uno schiocco perfettamente sincronizzato. Schwarzenegger si alzò, si voltò verso sua moglie e urlò: «È ora di andare, Maria!». 

Angelina Jolie

Oltre a “Rolling Stone”, Wenner aveva anche “Us Weekly” per un certo periodo. Nel libro rivela come, nel 2005, un fotografo con cui Us lavorava ha ricevuto una soffiata secondo la quale Angelina Jolie si trovava in un resort sulla costa africana con Brad Pitt, che all'epoca era ancora sposato con Jennifer Aniston.

I due, che aveva lavorato insieme al film “Mr. and Mrs. Smith", avevano scatenato molti rumor sul fatto che fossero una coppia anche fuori dal set, ma non c’era alcuna conferma. 

Al fotografo venne detto non solo dove si trovavano i due, ma gli vennero anche fornite le tempistiche della loro passeggiata quotidiana e dove potevano essere paparazzati. 

«Abbiamo avuto la foto e quindi la prova - scrive Wenner - Abbiamo fatto uno scoop mondiale, il debutto dei Brangelina. L'informatore? Era Angelina».

Tom Cruise

Wenner dice di essere stato amico di Tom Cruise per un po', ma ammette che la star di "Top Gun" è molto criptico sulla sua vita e su Scientology. 

«Sembrava si stesse aprendo, ma alla fine non ha detto nulla; deviava completamente dal discorso -  scrive Wenner - Te ne vai pensando di conoscerlo, ma tutto ciò che sai è che è un uomo sicuro di sé ed estremamente educato. Non ha nemmeno rivelato se era a favore o contro il presidente Bush.

Che cazzo sta proteggendo? Perché fa parte di una setta super segreta? È un grande talento. Lui è Super Tom. Tutta la sua segretezza ha fatto nascere il sospetto che fosse gay. Ma io non ho mai avuto segnali sul mio gaydar».

Bob Dylan

Wenner, che conosce Bob Dylan da decenni e lo ha intervistato per “Rolling Stone”, dice di aver imparato a non stringere mai la mano all'iconico musicista: «Se l'hai fatto sai che la sua mano resta immobile nel tuo palmo. È come se avessi in mano un pesce morto. È snervante e ti rendere ancora più imbarazzante stare con lui».

Da Orsomando alla Elmi, ecco le annunciatrici tv. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Agosto 2022

Per oltre mezzo secolo hanno annunciato i programmi della televisione italiana con un sorriso. Fulvia Colombo, Nicoletta Orsomando, Rosanna Vaudetti, Maria Giovanna Elmi, Mariolina Cannuli sono solo alcune delle annunciatrici che hanno fatto la storia della tv. Dal mistero intorno al primo annuncio agli aneddoti dietro i celebri soprannomi, «Storie della Tv» - il programma di Rai Cultura con la consulenza e la partecipazione di Aldo Grasso, in onda questa sera alle 21.10 su Rai Storia - propone il ritratto di queste donne e racconta un ruolo che oramai non esiste più. Le «signorine buonasera» come le battezzò la stampa dell’epoca, hanno rappresentato per anni il volto Rai.

Oltre agli annunci, alle previsioni del meteo e ai riassunti delle puntate precedenti, molte di loro legano il proprio nome alla conduzione di programmi entrati nella storia della televisione italiana: Giochi senza Frontiere, il Concerto di Capodanno, l’Almanacco del giorno dopo e persino alcune edizioni del Festival di Sanremo, diventando presenze fisse e molto amate del piccolo schermo.

Signorine buonasera è un’espressione utilizzata in Italia per indicare le annunciatrici televisive, figure presenti nella televisione italiana dall’inizio delle trasmissioni fino al 2018 inizialmente riferita solo alle annunciatrici della Rai, l’espressione, in seguito, per estensione, è passata ad indicare tutte le annunciatrici, anche quelle delle televisioni private, sia nazionali che locali. Il ruolo principale delle annunciatrici era quello di raccordare tra loro i programmi trasmessi dal canale televisivo, annunciando il palinsesto della giornata, segnalare eventuali cambi di programmazione, dare annunci istituzionali per conto della Rai ed essere pronte ad intervenire in diretta in caso di interruzioni delle trasmissioni per motivi tecnici.

Nicoletta Orsomando, i sapienti sorrisi (malandrini) della Signorina Buonasera. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Del suo debutto, nell’ottobre del ‘53, ricordava: «I miei genitori andarono a vedermi in un negozio di elettrodomestici». L’essenza di quella tv degli esordi ? Nicoletta seppe diventare una parente mediatica

Era il 22 ottobre 1953, e una signorina dai capelli impeccabili annunciava con voce ferma e suadente una trasmissione sugli animali. Nasceva la tv e nascevano con lei, Nicoletta Orsomando, le signorine buonasera, le annunciatrici tv che di quella magica scatola sarebbero stati i pilastri affettuosi di un’Italia che cresceva con loro. Erano appuntamenti della sera imprescindibili e rassicuranti, per grandi e piccini, quasi come Carosello. «L’ho fatto con la massima tranquillità. I miei genitori andarono a vedermi in un negozio di elettrodomestici. Certamente papà avrà detto: quella è mia figlia» ha poi raccontato Nicoletta in un’intervista a Paolo di Stefano per il Corriere della Sera, nel 2011. Anche se allora la tv non creava miti da un secondo all’altro come oggi e soprattutto non era tappa agognata da chi voleva diventare famoso o famosa.

NEL 1979 DICEVA: «QUANDO VEDO O PRESENTO TUTTI QUEI GRUPPI DI UOMINI, CHE MAGARI PARLANO DELLE DONNE, PENSO CHE NON VADA BENE. MI AUGURO CHE LA PARITÀ DI GENERE, CHE SANCISCE LA COSTITUZIONE, DIVENTI QUANTO PRIMA UN FATTO REALE».

«Non ho mai dovuto sgomitare e non ho neppure avuto avance dai capi. Vede, bisogna pensare che all’inizio degli Anni 50 non c’era così grande voglia di fare della televisione come ora perché della tv si sapeva poco, la si vedeva attraverso le vetrine dei negozi o al bar, in casa non c’era» ha raccontato Nicoletta in un Sottovoce a Gigi Marzullo. «All’inizio era come parlare fra amici, poi sempre più mi accorgevo che quando camminavo per strada la gente si girava a guardarmi e ho cominciato a capire che cos’è la televisione». E l’essenza di quella tv degli esordi Nicoletta l’ha non solo capita ma incarnata, diventando - ha scritto uno che se ne intende come Maurizio Costanzo - una parente mediatica: «Era facile, col vantaggio della luce bassa, dell’intimità del proprio appartamento, di immaginare che Nicoletta Orsomando, fatto l’annuncio, ti sorridesse con un ammiccamento».

Sorrisi tanti, sapienti e un pizzico malandrini, ma nulla di più, nessuno sgarro neppure di un capello per lei che proveniva da una famiglia larga e con grande educazione civile: originaria di Casapulla, in provincia di Caserta, un padre noto compositore e direttore di banda, che ha girato l’Italia, con moglie e sette figli. Nella sua lunga vita televisiva ci sono stati anche L’amico degli animali con Angelo Lombardi al Festival di Sanremo nel 1957 con Nunzio Filogamo, fino a Viva Radio2 Minuti con Fiorello. Quando le chiedevano se le sue preferenze andassero alla tv di allora o a quella di oggi rispondeva: «La tv di ieri aveva più contenuti, anche lo spettacolo leggero aveva qualcosa di vero, profondo, intelligente. Ora c’è più volgarità che spirito e intelligenza». Forse non sarebbe stata, anche per motivi generazionali, una militante del metoo, ma aveva grande consapevolezza della condizione femminile.

Dalle teche Rai emerge una sua potente dichiarazione sulla parità di genere, datata 1979: «Quando vedo o presento tutti quei gruppi di uomini, che magari parlano delle donne, penso che non vada bene. Mi auguro che la parità di genere, che sancisce la Costituzione, diventi quanto prima un fatto reale». Sempre composto il suo saluto agli studi Rai, nel 1993, dopo 40 anni di servizio: « Potrà sembrare strano ma è anche una liberazione, passare dagli studi di via Asiago a Saxa Rubra è stata una fatica». Qualche comparsata tv a ricordare, non a fare amarcord, e il saluto al mondo, il 21 agosto 2021, a 92 anni.

Seba Pezzani per “il Giornale” il 26 agosto 2022.

«Il pezzo che sto per suonarvi si intitola Masters of war. Appartiene alla mia cosiddetta fase di protesta. Sono tuttora in quella fase». A dichiararlo, dai solchi di un bootleg degli anni Ottanta, è Bob Dylan, il cantante impegnato per eccellenza per lo meno nell'iconografia ufficiale del rock che ha abbracciato la canzone politica, figlia della tradizione popolare, diventando un'icona incontrastata dei due mondi contrapposti del pop e del folk, per poi discostarsene. 

E dire che le canzoni che per prime gli hanno guadagnato stima e fama planetarie sono di contenuto apertamente politico, come A hard rain's a-gonna fall, With God on our side, It' s alright ma, I' m only bleeding e la stessa Blowin'in the wind.

Facciamo avanzare velocemente il nastro del tempo e approdiamo sul palco del festival di Coachella, in California, nello scorso aprile, con il cantante dei Måneskin che urla a un pubblico delirante e non particolarmente articolato, «Free Ukraine, fuck Putin!». Uno slogan degno dell'epoca d'oro del rock barricadero, proprio quello da cui Dylan, il vate della canzone di protesta, ha progressivamente preso le distanze. 

Di motti piacioni e di maniera davvero non si sentiva la mancanza. Ma perché, allora, la storia del rock è costellata di slanci contestatari e, soprattutto, di aneliti filantropici? Perché l'uomo è libero di dire ciò che vuole. Perché una presa di posizione su tematiche scottanti da parte di artisti maturi è considerata doverosa. Perché va di moda e piace. Tutte spiegazioni accettabili. Ma c'è pure qualcosa di più profondo, qualcosa che attiene alla missione stessa della canzone e affonda le radici nella tradizione del racconto orale, prima, e della denuncia sociale, dopo, con la forza iconoclasta del teatro antico e l'avvento dei primi trovatori.

In fondo, lo stesso Bob Dylan si è fatto conoscere travestendosi da folksinger: abbigliamento casual, acquistato presumibilmente in un emporio di abiti di seconda mano, una chitarra rigorosamente acustica, la propensione a cantare brani dalla melodia semplicissima spesso entrati nel bagaglio culturale collettivo degli USA e dal testo che ricostruisce un fatto di cronaca o affronta una materia spinosa, schierandosi dalla parte dei più deboli.

Ma, è risaputo, ogni ostentazione e riproposizione rischia di sapere di stantio e per attenuare la forza di una creazione. Bob Dylan lo ha capito benissimo e ha abbracciato chitarra elettrica, giacca di pelle e atteggiamento da rocker nel corso del Newport Folk Festival del 1965, finendo per stizzire il suo patrigno musicale nonché direttore del festival, Pete Seeger, e pure quel pubblico di beatnik già fuori tempo massimo: solo una chitarra acustica e una canzone di denuncia erano ritenuti degni di quel palcoscenico. 

Presto, quella gente si sarebbe resa conto, suo malgrado, che così non era e che una splendida canzone d'amore, impegnata emotivamente più che politicamente, poteva avere la stessa forza dirompente di una filippica in musica.

Facciamo nuovamente un salto in avanti e veniamo alla polemica di pochi giorni fa, sull'onda delle accuse mosse a Jovanotti dal mondo ambientalista. Il cantante toscano sarebbe reo di ipocrisia e comportamenti contrari al decoro ecologico. 

Il suo Jova Beach Party, promosso come una sorta di primo grande evento musicale a impatto zero (o quasi) sull'ecosistema e sull'ambiente, in realtà non sarebbe stato virtuoso quanto l'entourage del cantante vorrebbe far credere. Inutile tornare sulla montagna di rifiuti abbandonati sulla spiaggia, sul muro assordante di decibel o sulle presunte offese irreparabili a qualche specie animale.

Se certi atteggiamenti del movimento ambientalista rischiano di risultare sconnessi dalla modernità, la sensazione è che aver ammantato quei concerti di una patina di irreprensibilità etica per renderli ancor più appetibili sia stato un perfetto autogol. Davvero le associazioni animaliste e ambientaliste sarebbero insorte con la stessa veemenza se Jovanotti non si fosse spacciato per paladino della loro causa, arrivando persino a minimizzare il fatto che tra gli sponsor primari del tour estivo ci fosse un produttore di carni?

Carni, sì, ma rigorosamente biologiche, la difesa d'ufficio. Attivismo politico e filantropia affascinano il mondo del rock da tanto tempo, quasi che esserne protagonisti possa sdoganarne la grandezza artistica più della stessa musica. 

Il primo vero anelito di generosità pop lo si deve a George Harrison, organizzatore dei due concerti, finanziariamente fallimentari, per il Bangladesh, precursore del Live Aid (voluto da Bob Geldof) e del Farm Aid (suggerito da Dylan per dare una mano ai contadini del Midwest, strangolati dalle ipoteche, e tradotto in realtà da John Mellencamp, Willie Nelson e Neil Young). Stendiamo un velo pietoso sui backstage debosciati. 

In mezzo c'è stata la levata di scudi del brano Sun City di Little Steven, con la partecipazione di uno stuolo di nomi altisonanti, contro le band che si esibivano in Sudafrica (tra cui i Queen).

C'è chi rivendica ogni volta il suo ostracismo o la sua militanza. L'ex Pink Floyd Roger Waters è sempre in prima fila: antimilitarista convinto, si rifiuta di suonare in Israele, dice di comprendere le ragioni della Russia e, giusto pochi giorni fa, ha fatto proiettare lo slogan «Free Julian Assange» sul maxischermo, durante un suo concerto. Nel frattempo gli altri Pink Floyd hanno inciso un brano per l'Ucraina...

Francesco Destri per afdigitale.it il 9 agosto 2022.  

Sapevate che per un vinile si possono spendere anche due milioni di dollari o che la prima registrazione di Elvis Presley è oggi nelle mani di Jack White? Chi ha frequentato almeno una volta un mercatino di dischi usati avrà certamente visto cifre folli per portarsi a casa un vinile a 33 o un 45 giri che, a prima vista, non aveva nulla di speciale. 

Dopotutto, quando si entra nell’antro dei collezionisti di vinili, bisogna considerare aspetti e fattori ben più profondi di una semplice occhiata alla copertina o alle condizioni del vinile stesso. E siamo certi che vi sarete chiesti spesso quale sia stato, nella storia, il vinile più costoso di sempre. 

Non è facile dare una risposta così su due piedi, anche perché le valutazioni variano di mese in mese (fatevi un giretto su Discogs.com per rendervene conto) e perché, come sempre quando si parla di collezionismo, entrano in gioco anche le aste con tutti i loro meccanismi al rialzo che inevitabilmente sfalsano un po’ il valore reale di un prodotto. In ogni caso questi sono i dieci vinili più costosi di cui si abbia notizia.

Frank Wilson – Do I Love You (Indeed I Do) – 25.742 sterline

Di questo vinile del 1965 del cantante soul americano Frank Wilson sono state prodotte solo 250 copie demo e pare che ne siano sopravvissute solo 5 dopo che tutte le altre furono distrutte dal capo della Motown Berry Gordy, infuriatosi dopo aver scoperto che Wilson (uno dei suoi migliori produttori) stava cominciando una carriera da cantante. Storia o finzione? Non lo sappiamo con esattezza, ma la cosa certa è che questo 45 giri è stato venduto nel 2009 da un commerciante del Leicestershire per 25.742 sterline, circa 30.100 euro.

Tommy Johnson – Alcol e Jake Blues – 37.100 dollari

Un 78 giri del 1930 traspira valore già di per sé, ma questo particolare esemplare è stato acquistato all’equivalente di quasi 33.000 euro dal collezionista americano John Tefteller, già in possesso di una copia che però era in condizioni peggiori. Visto che il nastro master originale è andato distrutto, non sappiamo quanti esemplari di questo quasi centenario 78 giri ci siano oggi in circolazione. 

Richard D. James – Caustic Widow (stampa test) – 46.300 dollari

Chi avrà speso secondo voi una tale cifra a un’asta online per portarsi a casa nel 2014 questa rarissima copia dell’album di Richard D. James (Aphex Twin) composto tra il 1992 e il 1994? Niente poco di meno che Markus Persson, il creatore Minecraft. 

The Beatles – Til There Was You – 77.500 sterline

Ecco un rarissimo vinile da 10″ dei Fab Four con i brani Til There Was You sul lato A e Hello Little Girl (scritto erroneamente come Hullo Little Girl) sul lato B. Si tratta di una demo registrata nel 1963 per la EMI e riporta delle scritte a mano del manager dei Beatles Brian Epstein. È stato venduto a Warrington (Imghilterra) a un acquirente anonimo nel marzo 2016 per 77.500 sterline (circa 91.000 euro).

The Beatles – Yesterday & Today – 125.000 dollari

Ancora Beatles, anche se in questo caso si tratta di una compilation del 1966 pubblicata inizialmente solo in Nord America e poi in Giappone, ma non nel Regno Unito o in altri Paesi europei. La ragione della rarità di questa edizione è la controversa copertina, su cui i membri della band sono coperti di carne e tengono in mano pezzi di bambolotti. Una scelta decisamente bizzarra, tanto che questa versione fu rapidamente ritirata dal mercato e sostituita con una copertina molto più tradizionale. L’originale è ancora molto ricercato dai collezionisti dei Beatles e una copia ancora sigillata è stata venduta nel febbraio 2016 all’equivalente di 111.000 euro. 

John Lennon e Yoko Ono – Double Fantasy – 150.000 dollari

Un caso un po’ “macabro”, visto che questa copia è stata firmata da Lennon poche ore prima della sua morte nel dicembre del 1980 e quindi potrebbe essere l’ultima in assoluto (il condizionale è d’obbligo) a riportare la scrittura a mano dell’ex Beatle. Il disco è stato venduto per l’incredibile cifra di 150.000 dollari (circa 133.000 euro) a un acquirente sconosciuto. 

The Beatles – Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band (firmata da tutti e quattro i Beatles) – 290.000 dollari

Il leggendario album del 1967 vale già molto se si tratta di una prima stampa, ma non sarebbe mai costato così tanto se non avesse riportato gli autografi di tutti e quattro i membri della band. Nel 2013 è stato venduto a un’asta negli USA per 290.000 dollari partendo da una base dieci volte inferiore (30.000 dollari). E chissà quanto può valere adesso!

Elvis Presley – My Happiness – 300.000 dollari

La stampa test di My Happiness è un 45 giri con i brani My Happiness e That’s When Your Heartaches Begin. Si tratta della prima registrazione di Elvis ed è stata venduta a un’asta online nel 2015 al leader dei White Stripes, Jack White, ben noto per la sua ossessione per il vinile e per tutto ciò che è vintage. 

The Beatles – The Beatles (The White Album) – 790.000 dollari

Era noto da tempo che Ringo Starr possedesse la primissima copia del doppio album omonimo della band del 1968. Il numero di serie riporta infatti 0000001, un sogno per qualsiasi collezionista di vinili. Questo esemplare stato venduto a un’asta negli Stati Uniti per 790.000 dollari nel dicembre 2015 a un acquirente anonimo. Alla stessa asta c’era anche la famosa batteria Ludwig di Ringo, acquistata dal proprietario degli Indianapolis Colts, Jim Irsay, per ben 2,2 milioni di dollari.

Wu-Tang Clan – Once Upon a Time in Shaolin – 2 milioni di dollari

Il disco più costoso mai venduto è questo album del 2015 del Wu-Tang Clan (il loro settimo). Ciò che lo rende così prezioso è il fatto che ne è stata stampata solo una copia. Il disco è stato conservato in un caveau del Royal Mansour Hotel di Marrakech, in Marocco, e messo all’asta da Paddle8 nel 2015. L’ex manager di una grande compagnia farmaceutica (Martin Shkreli) ha acquistato l’album per il prezzo richiesto di 2 milioni di dollari. Il disco è stato venduto con una clausola secondo cui non può essere sfruttato commercialmente fino al 2103, ma può essere pubblicato gratuitamente.

·        Le prevendite.

La follia delle prevendite: per vedere un concerto devi comprare il biglietto un anno prima. Gino Castaldo su L’Espresso il 12 dicembre 2022.

Sta diventando una specie di barzelletta: da caso eccezionale ormai è una norma

Cosa avete da fare il 23 luglio del 2023? Non lo sapete? Male, dovreste saperlo perché ormai se volete vedere un concerto dovete deciderlo svariati mesi prima, a volte anche un anno prima, non importa se tra un anno in quei giorni vorreste poter decidere di fare altro, una vacanza, un imprevisto, oppure quel gruppo non vi piace più così tanto, o magari avrete voglia di andare a fare un weekend romantico, perché oggi siete single e tra tre mesi invece felicemente innamorati, e quindi il 23 luglio invece di andare a vedere il concerto che avete dovuto prenotare con tanto anticipo, vi andrebbe di fare qualcos’altro.

Questa delle vendite in anticipo sta diventando una specie di barzelletta o, se preferite, di follia, nel senso che se prima capitava in casi del tutto eccezionali, eventi imperdibili, unici, ora sta diventando una norma, come se fosse normale decidere oggi il concerto che vorrò vedere tra un anno. E non è un’esagerazione.

Se volete assistere al concerto di Tananai al Forum di Assago l’8 maggio del 2023, praticamente domani, potete già comprare il biglietto. Volete festeggiare, ammesso che ci sia da festeggiare, il ritorno dei Kiss il 29 giugno al Lucca Summer festival? I biglietti sono già in vendita. Poi però non inventatevi che all’ultimo momento cambiate idea, che si rompe la caldaia, che c’è un’invasione di cavallette, che nella vita com’è normale a distanza di mesi, succedono cose. I concerti di Springsteen di maggio e luglio 2023 sono andati a ruba, non ci sono più, ma in vendita troviamo anche quelli di Lazza, Diodato, Tiziano Ferro (giugno) Black keys (luglio), Red Hot Chili Pepper (luglio), Marco Mengoni (giugno-luglio), Arctic Monkeys (luglio), Imagine Dragons (agosto). Ce n’è per tutti i gusti: Vasco, Pet Shop Boys, Marracash, perfino Al Bano, tutto quello che volete, a patto di ipotecare la vostra agenda con mesi di anticipo. A stupire è la normalità, Volete essere certi di andare all’Arena di Verona per i Music Awards di settembre anche se non c’è ancora il cast? Ovviamente potete già acquistare il vostro posto, e perfino un pacchetto speciale a 299 euro che ti assicura alcuni privilegi, che possono essere anche molto divertenti, ma senza conoscere i nomi degli artisti in cartellone il piacere diventa una questione di suspense.

Pensate che bello, il biglietto lo compriamo subito, e per scoprire chi andremo a vedere c’è tutto il tempo. Bisogna anche saper rischiare nella vita, e allora osiamo, mettiamo in vendita un concerto del 2024, senza neanche specificare il nome dell’artista, come un “blind date”, col brivido della sorpresa. Il nome dell’artista è un puro dettaglio, quello che conta è che io oggi ho assolutamente bisogno di sapere con certezza cosa farò, il 6 giugno del 2024 e per questo sono disposto a tutto, anche a comprare un biglietto.

·        I Televenditori.

Televenditori, da Cesare Ragazzi a Mastrota: «Tra pentole e cyclette noi abbiamo capito l’Italia». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 15 Settembre 2022

I pionieri delle televendite: i prodotti diventati di culto. L’intuizione di Raffaele Pisu

Sepolto dalla fine del secolo scorso nel garage di qualche centinaio di italiani, o magari nascosto nel cruscotto di qualche vecchia automobile miracolosamente sopravvissuta alla rottamazione, giace l’unico modello di anti-autovelox mai venduto «legalmente» sul mercato italiano. Distribuito dalla società Valking Market con sede a Padova, ma ordinabile al telefono dopo aver composto un prefisso della provincia di Pesaro, l’anti-autovelox veniva presentato al pubblico col nome industriale, «LVX 500»; e costava praticamente meno di due multe per eccesso di velocità, 699 mila lire più Iva, prezzo al pubblico 838 mila e 800 lire, arrotondate per difetto a 838 mila. Distribuito in Veneto, ordinabile al telefono nelle Marche, «LVX 500» veniva pubblicizzato — tra le altre — anche dall’abruzzese Rete 8.

I nottambuli

Nel 1999, quindi, i nottambuli della provincia di Pescara o di Chieti, di Teramo o dell’Aquila, potevano facilmente imbattersi nella televendita che reclamizzava il miracoloso marchingegno di fabbricazione americana; che, se posizionato sul cruscotto dell’automobile, avrebbe segnalato con un «bip» l’imminente materializzarsi di uno di quegli autovelox moltiplicati a dismisura per volere dell’allora capo della Polizia Ferdinando Masone, impegnato nella drastica riduzione del numero di morti e feriti per incidenti stradali. Forte del suo raggio d’azione di ottocento metri dichiarati, «LVX 500» avrebbe avvertito l’incauto guidatore della necessità impellente di frenare per evitare la multa. Pochi o tanti che fossero, tutti i potenziali acquirenti traditi da una botta di senso civico, o sorpresi da un’insopprimibile crisi di coscienza, venivano immediatamente tranquillizzati dalla televendita. Era tutto non in regola, di più: «LVX 500» vantava nientemeno che «un’autorizzazione della Corte di Cassazione». E chissà quanto sarebbe andata avanti la storia dell’anti-autovelox «legale» se l’allora deputato dei Verdi Athos De Luca, in overdose da zapping da notte insonne, non si fosse imbattuto nella televendita e non avesse telefonato al numero in sovraimpressione per chiedere lumi, sentendosi rispondere da una centralinista col sillogismo «una sentenza della Corte di Cassazione ha autorizzato la pubblicità sulle tv private, la vendita dell’anti-autovelox avviene solo tramite pubblicità sulle tv private, la Corte di Cassazione ha autorizzato l’anti-autovelox».

Il boom

La distribuzione sul mercato dell’anti-autovelox finì lì, nel 1999. Proprio mentre il boom di televendite e telepromozioni , iniziato una decina di anni prima, raggiungeva in Italia il punto massimo della sua parabola ascendente. Perché c’è stata un’epoca in cui un formulario magico composto da locuzioni mai usate in precedenza — «telefonata senza impegno», «pacco anonimo», «prime dieci telefonate», «soddisfatti o rimborsati», «numero in sovraimpressione», «riceverete la visita di un nostro addetto», «comode rate» — ha accompagnato gli italiani verso la soddisfazione di bisogni che prima non c’erano, alla ricerca di oggetti che non si pensava potessero esistere, dentro il sogno di aggirare ostacoli della vita piccoli e grandissimi come l’autovelox sulla strada e la calvizie sulla testa.

La cellulite

Un’epoca nata con la tv commerciale ed entrata in crisi con l’avvento di internet, che ha portato nelle case degli italiani «la serie perfetta di coltelli Miracle Blade» (l’americano Chef Tony), «l’autentico originale tappeto Keishon, manifattura nata nel 1740 per ordine di un sultano» (l’inarrivabile Alessandro Orlando, già Telemarket), le decine di versioni del vibromassaggiatore a due e tre velocità con quattro fasce «brevetto Revital», del quale il volto televisivo dell’azienda Amerika Star, Fabrizia Fabbri, garantiva sul suo onore gli stessi benefici dell’andare in palestra, anche se comprandolo potevi startene tranquillamente a casa: «È un istituto di bellezza in forma mignon, come una piccola palestra. Perché qui avete la ginnastica attiva e la ginnastica passiva ma per tutto il corpo! Perché grazie a queste fasce voi avrete il meglio del drenaggio e del dimagrimento! Che cosa vuol dire drenaggio? Facciamolo vedere ora, Marzia (l’inquadratura passava sulla modella Marzia, alle prese con una seduta di vibromassaggiatore dedicata ai glutei, ndr)... Drenaggio vuol dire sanare un corpo dai liquidi in eccesso, drenaggio vuol dire sanare la circolazione, una situazione diciamo “non normale” che vi crea cellulite, vi crea anestetismi. Parliamo quindi non solo di situazioni estetiche ma parliamo sicuramente anche di ne-ga-ti-vi-tà fisicaaaaa!». E dire che senza Amerika Star, Monika Sport e tutte le altre aziende della galassia del fitness uscite dal cilindro del patron Alcide Golinelli, modenese di San Felice sul Panaro, nulla di quello che è successo dopo con televendite (l’acquisto avveniva direttamente con la telefonata) e telepromozioni (un addetto avrebbe perfezionato la vendita a casa dell’acquirente) sarebbe successo nei tempi e nei modi in cui è successo, compresa l’incoronazione di Mike Bongiorno a divinità nazionale incontrastata e inarrivabile del genere.

La scintilla

Nel 1974 Golinelli, scomparso nel 2011 a 67 anni, aveva incontrato per caso in aeroporto a Bologna il presentatore Raffaele Pisu, appena rientrato da un viaggio negli Stati Uniti. Del soggiorno in America, a Pisu era rimasto impresso un fatto che aveva dell’incredibile e l’aveva raccontato all’amico: guardando la televisione, si era imbattuto nella televendita di una cravatta, gli era piaciuta, aveva composto il numero di telefono visto sullo schermo, l’aveva ordinata e soprattutto gli era stata consegnata a domicilio in un’ora. È la scintilla. Da lì in poi, sfruttando Pisu come testimonial e il sistema delle videocassette distribuite nei circuiti delle tv locali di tutta Italia, Golinelli, che prima vendeva materassi, si sarebbe lanciato nel commercio di bici da camera prima e di vibromassaggiatori dopo. Delle prime vendette 80 mila pezzi; dei secondi, lanciati dal racconto di Fabrizia Fabbri e dalle dimostrazioni televisive di modelle come Marzia, quattro milioni.

Indiani a cowboy

«La formula “salve, sono Cesare Ragazzi”, con cui iniziava la pubblicità, è mia. Semplice e indimenticabile. Com’era stata mia anche l’idea di tuffarmi a mare per lo spot e mostrare i capelli sott’acqua. Lo slogan no, l’aveva fatto un’agenzia di Milano. A ripensarci oggi, a quaranta e passa anni di distanza, mi sembra geniale», racconta Cesare Ragazzi citando a memoria quella frase — «Tutto può succedere a un calvo che si è messo in testa un’idea meravigliosa» — che ha cambiato la storia delle telepromozioni e smentito l’assunto secondo cui la brevità dello slogan è la chiave del successo di uno spot. Cultore dell’innesto di capelli e nemico giurato della tecnica del trapianto, Ragazzi deve tutto «al fatto che lavoravo già a nove anni, vendendo le caramelle al cinema durante l’intervallo. Visto che in quel periodo davano soprattutto western, e che rimanevo in sala a vedere i film, davanti ai miei occhi passavano le scene degli indiani che si prendevano lo scalpo del cowboy. Dieci anni dopo, quando ho iniziato ad avere problemi di calvizie, ho ripensato a quei film: ma se lo facevano gli indiani togliendo i capelli a un morto, perché la stessa cosa non posso farla io per mettere i capelli a uno vivo?».

Addio calvizie

La telepromozione, con tanto di numero di telefono per contattare i suoi centri e fissare un appuntamento, è la chiave del successo. «E lo sa perché? — dice lui —. Perché solo davanti alla tv un uomo avrebbe ammesso di avere un problema tricologico e preso il coraggio di telefonare. Ai tempi d’oro, un passaggio nazionale della telepromozione sulle reti Fininvest poteva valere anche centotrenta telefonate. Dei centotrenta, all’appuntamento preso, venivano quasi tutti. Poi un dieci/quindici per cento si convinceva a procedere dopo il colloquio. Nessuno, e dico nessuno, avrebbe mai ammesso di essere venuto da me. Ho visto persone che avrebbero confessato rapine a mano armata, omicidi, le peggiori nefandezze; ma non questo. Eppure, guardi la stranezza, che io sappia nessuno si è mai pentito di avermi incontrato sul suo cammino», spiega adesso che lavora in proprio, con tecniche di innesto a suo dire sempre più performanti e innovative, anche se l’azienda col suo nome l’ha venduta anni fa a un fondo d’investimento. «A Mediaset, quando capitavo da quelle parti, molti presentatori si dileguavano. Evitavano di incrociarmi perché io, se guardo una testa, so già tutto quello che c’è da sapere».

I fan quarantenni

«Io sono sempre stato soprattutto l’uomo di pentole e materassi», dice Giorgio Mastrota , il televenditore più longevo della tv italiana. Conduceva programmi tv di cui la televendita era una specie di intermezzo; di intermezzo in intermezzo, da un certo punto in poi è rimasto a fare solo televendite. «Eppure ho campato bene e sono ancora felice così. Lei conosce un bambino che compra pentole o materassi? Io no. Eppure, mi creda, il mese scorso ho fatto una riunione a Milano con dei quarantenni molto fichi e molto smart, gente che si occupa di comunicazione e pubblicità, che erano adolescenti negli anni ’90. Mi hanno detto “Mastrota tu sei il nostro mito perché siamo cresciuti con te, guardando le tue televendite tra un telefilm e l’altro”».

Soddisfatti o rimborsati

Un pezzo d’Italia cresciuto così, tra mountain bike con cambio Shimano, televisori 14 pollici e ferri da stiro con caldaia separata, che poi erano gli omaggi compresi nel prezzo per gli acquirenti più rapidi nell’aggiudicarsi una batteria di pentole o un materasso. «Per non dire dei bisogni, di come sono cambiati, di una sorte di evoluzione della specie determinata dalle televendite. Le prime poltrone che promuovevo erano fatte per sedersi e basta; poi sono arrivate quelle che ti tiravano su le gambe; poi quelle col poggiaschiena reclinabile; quindi quelle che fanno anche un massaggio. La stessa cosa vale per i letti o per i cuscini. Anche le leggi sono arrivate dopo le televendite. La formula “soddisfatti o rimborsati”, credo un’invenzione di Mike Bongiorno, tranquillizzava il telespettatore perché gli garantiva la possibilità di cambiare idea sull’acquisto. La legge sul diritto di recesso è arrivata dopo...». Un giorno Mastrota, guardando una televendita, ha telefonato al numero in sovraimpressione: «Era un set di coltelli del mitico Chef Tony. Mi piacevano, il prezzo era buono, ho alzato il telefono per fare l’ordine. Arrivato al momento di fornire i dati per la fatturazione, quando ho detto “cognome Mastrota nome Giorgio” il centralinista ha messo giù pensando fosse uno scherzo».

I quadri all’asta

Che è la stessa cosa successa decine di volte anche a Silvio Berlusconi, forse il teleacquirente compulsivo più celebre sul suolo nazionale. «Adesso avrei bisogno dei suoi dati, iniziamo da nome e cognome. Lei è il signor...?». «Silvio Berlusconi». A questo punto della storia, l’operatore del servizio clienti trattiene il fiato, c’è l’immancabile pausa telefonica che copre gli istanti in cui deglutisce la saliva. Poi riparte. «L’indirizzo di fatturazione è lo stesso dell’indirizzo di consegna?». E l’altro, di rimando: «Certo. Presso villa San Martino, viale San Martino, Arcore, provincia di Monza e Brianza». Solo i più assidui frequentatori della villa di Arcore sono in grado di riconoscere la scenetta e di recitarla alla perfezione. C’è stato un tempo in cui chiunque andasse a trovarlo a casa sua poteva sorprendere Berlusconi intento a guardare le televendite dei quadri. Che non sono delle televendite in senso stretto ma delle vere e proprie aste, trasmesse da quelle emittenti locali in cui ci si imbatte solo avventurandosi col telecomando nelle numerazioni del digitale terrestre più lontane dal perimetro dei primi nove numeri. Per l’ex premier erano e sono ancora uno show imperdibile. In grado di inchiodarlo al divano come pochi altri programmi tv. Tra l’altro, come testimoniano le numerose chiamate al servizio clienti, Berlusconi non si limita a guardare da telespettatore passivo. Al contrario, se viene rapito da un quadro, alza il telefono, fa un’offerta e prova ad aggiudicarselo. Tutto da solo, senza l’intercessione della segreteria, hai visto mai che quei pochi secondi in cui si cerca un collaboratore qualcun’altro ha già superato l’offerta.

Show in salotto

Trasferiti a Villa Gernetto per motivi di spazio, oggi ci sono centinaia di quadri che nel corso degli ultimi anni il padrone di casa si è aggiudicato partecipando in tempo reale a un’asta in tv. D’altronde, come gli ha ripetuto tante volte il suo amico Vittorio Sgarbi, «il vero collezionista non è quello che spende un sacco di soldi per un quadro, altrimenti l’arte sarebbe una cosa solo da miliardari. Il vero collezionista è quello che sa riconoscere un’opera di valore e la paga il meno possibile». Una parte consistente del tempo che l’inventore della tv commerciale italiana riesce a passare davanti alla tv è dedicata alle televendite. E non di rado gli ospiti della casa – siano essi collaboratori, politici di Forza Italia, uomini Mediaset – vengono trascinati da Berlusconi nella visione del particolarissimo show, spesso elevati al rango di consulenti improvvisati. «Non trovi che questo quadro sia bellissimo? Guarda che cornice definita. Che faccio, chiamo?».

·        I Balli.

La strana storia del Lipsi, il ballo dimenticato della Ddr inventato per combattere il rock and roll. Nel 1959 nella Germania orientale il partito comunista provò a combattere la deriva occidentale imponendo anche uno stile di danza da Guerra fredda. Durò poco: al di là della cortina di ferro c’era Elvis Presley in divisa. Maurizio Di Fazio su L'Espresso il 13 giugno 2022.

Una donna vestita in modo quasi moderno si accosta alla telecamera ed esclama: «i venditori di dischi stanno ricevendo ultimamente strane richieste dai clienti. Chiedono il Lipsi. È un’epidemia». Le fa eco una coppia che sembra posseduta da una tarantola soft, stile music-hall: «Lipsi è la cosa più semplice che c’è. La danza è in 6/4, prendi la dama col braccio sinistro, così. Be’, è facile, guardate». E parte il primo immemorabile slogan: «Se davvero vuoi saperlo devi solo cominciare, ogni giovane oggigiorno il Lipsi vuole danzare». Gran finale con mantra pop alla bolscevica: «Oggi tutti i giovani danzano il Lipsi, solo il Lipsi. Oggi tutti i giovani vogliono imparare il Lipsi: è moderno! Rumba, boogie e cha cha cha sono danze sorpassate; ora dal nulla, da un giorno all’altro, è spuntato e resterà». Una classica parodia involontaria, una profezia autodistruggentesi. Il video continua a circolare su YouTube ma fa ormai tenerezza. Siamo nel 1959, tra i 45 giri più venduti figurano “Smoke gets in your eyes” dei The Platters e “Lonely Boy” di Paul Anka. Il rock and roll sta infiammando i cuori e i sensi dei ragazzi americani ed europei dell’ovest. Anzi, possiamo affermare che nascano proprio in quegli anni come generazione a sé sulle ali di un sound perturbante e catartico.

Nell’universo parallelo della Repubblica democratica tedesca, varato un grande piano settennale, la nomenklatura ritiene che la Guerra fredda vada combattuta anche sul piano dell’immaginario, della sfera subliminale del desiderio. Uno degli imperativi più urgenti è di trattenere in patria mentalmente, e nello spirito, i ventenni irretiti dalle sirene di un Occidente respirato in casa. La «controrivoluzione peccaminosa» di Elvis è già filtrata e rischia di dilagare nel paradiso del socialismo melodico in salsa puritana. Quale scandalo insostenibile per la dottrina ufficiale, tutti quei sussulti del bacino, la sessualità mimata. Occorre staccare in qualche modo la spina ai Chuck Berry e Little Richard, Gene Vincent e Jerry Lee Lewis, Johnny Cash e Buddy Holly. I mezzi domestici sono raccogliticci, certo, in ritardo istantaneo sul presente. Ma non si può più stare alla finestra.

Bisogna aggirare e anestetizzare il pericolo. E così inventano un genere ex novo, una casta moda per le masse acconcia al proletariato dell’altra Germania. L’ordine arriva dall’altissimo, il lìder maximo Walter Ulbricht in persona: «Non basta condannare a parole la decadenza capitalista e le abitudini borghesi, i suoi caldi suoni e i canti estatici di un Presley. Dobbiamo offrire qualcosa di meglio». E quell’evoluzione della specie secondo il Sed, il partito-Stato, era il Lipsi, dal nome in latino di Lipsia. Un allegro e innocente motivetto contro i tentacolari e sulfurei messaggi pan-erotici e imperialistici propagandati con la scusa della chitarra elettrica. Giustizia sociale e musicale sarebbe stata fatta.

In fondo la post-verità l’ha architettata la Stasi. Un po’ come se dalle nostre parti Fanfani e Togliatti avessero fatto quadrato contro l’avanzata dei pruriginosi urlatori, occupando “Il musichiere” di Mario Riva con Gino Latilla travestito da Adriano Celentano. Ma torniamo alle immagini d’epoca, a quel passato quotidiano travolto dalla Cortina di ferro. Racconta Anna Funder nel libro “C’era una volta la Ddr”: «Ecco una coppia in sala da ballo: lui in giacca e cravatta, lei in abito lungo e scarpe con tacchi. Tutto molto strano. All’inizio donna e uomo sono rivolti nella stessa direzione, come in una danza greca. Si spostano da un lato all’altro, poi sollevano l’avambraccio e si allontanano inclinandosi, in maniera allarmante, come due teiere». Poi la macchina da presa «stacca sui loro piedi che, di punto in bianco, partono in una complessa figurazione da giga irlandese. Quindi i due si voltano uno verso l’altro e si uniscono in una presa di valzer prima di separarsi di nuovo con un saltello». A questo fa seguito «una mossa alla russa con le mani sui fianchi. Tutto ciò con un gran sorriso stampato sulle labbra». Contestualmente, una voce alla Doris Day canta sopra una sorta di bossa nova. Alla ballerina manca un incisivo. Bizzarrie in stereofonia. Fuga da “Rock around the clock”: molto meglio al limite, per amor di patria, “L’orologio matto”, la versione italiana del Quartetto Cetra. Vade retro movimenti pelvici: nel pittoresco Lipsi, il bacino sfida le leggi della gravità e resta statico, granitico, a distanza di sicurezza. Solo il busto slitta impercettibilmente. Non ci si tocca né ci si sfiora mai. Ballare insieme ma separati, uniti ma distantissimi, contemporanei ma con un contegno da satelliti sovietici. Lasciate i vostri ormoni fuori dalla stanza oh voi che lipsiate. Una tortura da inquisizione laica a bassa intensità. Si giunse persino a brevettarlo, troppo forte il rischio che lo clonassero le barbe finte del controspionaggio nemico. 

Il Lipsi fu creato, musicalmente parlando, dal compositore René Dubianski; gli ingegnosi e angelicati passi erano invece farina del sacco degli insegnanti di danza Christa e Helmut Seifert. La sua interprete più conosciuta, Helga Brauer, ex odontotecnico divenuta una stella sfolgorante della canzone popolare all’ombra del Patto di Varsavia, morì a 55 anni, il tempo di firmare centinaia di hit per il mercato interno. Insieme a lei incisero manifesti promozionali tematici su puntina, tra gli altri, The Flamingos (“All Dance Lipsi”), Martin Möhle Combo (“Willibalds Lipsi”) e la Leipzig Radio Dance Orchestra di Kurt Henkels. Uscirono tutti per Amiga, la sezione “leggera” della Veb Deutsche Schallplatten, l’etichetta discografica statale fondata nel 1947. L’inaugurazione della gloriosa alternativa comunista al R’n’r era stata celebrata in pompa magna nel gennaio del 1959, alla conferenza sulla musica da ballo a Lauchhammer. Tutte le balere del Regno Rosso avrebbero dovuto adottarla a strettissimo giro: era questa la convinzione degli infallibili commissari del popolo.

La Rdt avrebbe salvato un’altra volta il mondo con questa coreografia inedita imbottita di strofa e ritornello, educata e pedagogica e «lontana da quelle contorsioni insipide e sfrenate delle importazioni d’oltremare che, come tutti i tipi di assordanti falsificazioni jazz, appannano i cervelli dei giovani occidentali», scrisse la stampa autarchica. La campagna mediatica fu invasiva e martellante. Gli esiti subito disastrosi. Il Lipsi si dissolse in poco più di una stagione. Sul finire dello stesso anno del suo misterioso concepimento per vie ministeriali, ad Halle e in altre città gli under 30 insorsero. Il 2 novembre del 1959 quaranta intrepidi manifestarono nel centro di Lipsia, intonando «Non balliamo Lipsi e non per Alo Koll, siamo per Bill Haley e balliamo rock’n’roll». E quando si sparse la notizia che Elvis stava prestando il servizio militare nella Repubblica federale tedesca, tra i vicini e segregati coetanei di pianerottolo montò una frustrazione palpabile.

Nei decenni a seguire chi era cresciuto dalla parte sbagliata del Muro non rinunciò tuttavia a sognare il twist, il boogie-woogie, il beat. A divorare le audiocassette dei Beatles e dei Rolling Stones, degli U2 e dei Pink Floyd. Con buona pace delle prescrizioni del Politburo e del Plenum. Esisteva Dt64, la radio di facciata per le ultime generazioni, e il regime ogni tanto chiudeva un occhio; ma per suonare musica dal vivo serviva un permesso speciale, i testi erano controllati e la libertà degli ascolti risultava perniciosa al grande fratello marxista-leninista. 

Dall’autodeterminazione estetica a quella politica il passo è breve. Così pensava nel 1965 Erich Honecker, non ancora segretario e padrone feudale della scena, quando durante l’undicesimo congresso del comitato centrale sferzò l’acquiescente neutralità nei confronti della Gitarrenmusik. Non si dovevano lasciare spazi franchi fuori dalla scuola e dal posto di lavoro. La mobilitazione interiore del bravo compagno in erba doveva essere permanente. Un altro buco nell’acqua: tra mainstream e underground, l’Ostrock gettò radici rigogliose. Al netto di censura e perifrasi, e d’una perenne ostilità dell’apparato, spiccarono comunque il volo nel cielo sopra Berlino Est i Die Puhdys, i Karat, i City, i Silly, gli Stern-Combo-Meißen, i Pankow, i Sandow. Un pugno di eretiche leggende nazionali devote al dio del riff e delle distorsioni.

Tutt’altra accoglienza fu riservata negli anni Ottanta all’hip-hop, secondo le autorità quintessenza della «cultura internazionalista proletaria dell’Altra America». Qualche mese dopo crollò e si uniformò tutto. La chiamarono globalizzazione. Il Lipsi non lo ricordano nemmeno i nostalgici. Ma forse in qualche anfratto della galassia un dj lo sta suonando proprio in questo momento. E urla al microfono: «Passo a sinistra con il piede sinistro. Tocca a sinistra con il piede destro. Fai un passo con il piede destro a destra. Tocca il piede sinistro a destra». I ragazzi lo preferiscono alla trap. Almeno ci si muove. È il ballo dell’estate.

·        Il Jazz.

Quando il jazz fu messo al bando dal regime. Da «Tiger Rag» a «Il ruggito della tigre»: l’esperienza di Mike Ortuso, originario di Monte Sant’Angelo. Ugo Sbisà su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Giugno 2022.

L’amico Giuseppe Petruzzelli, instancabile animatore della pagina Facebook «Bari in foto e cartolina», ha pubblicato qualche tempo fa una cartolina datata 30 giugno 1931 con la quale il sassofonista e polistrumentista barese Giovanni Delle Foglie, residente in via Ragusa 44, richiedeva la partitura di «Ah, quel Far West!» alla Casa Musicale Mauro di Roma. La cartolina – realizzata con evidenti fini autopromozionali - riproduceva a margine una immagine dello stesso Delle Foglie con un sassofono contralto, ma a destare la mia curiosità è stata l’intestazione «Delle Foglie – Concert Jazz, Bari». In tutta sincerità, qualche ricerca – nella quale ho coinvolto anche il pianista Livio Minafra, attento riscopritore di musicisti del passato – non ha prodotto grandi risultati, sebbene sia interessante notare come anche a Bari, all’inizio degli Anni ‘30, vi fossero musicisti che, a vario titolo, si muovessero nell’orbita del jazz o almeno di quello che come tale veniva presentato, prima che la becera censura fascista obbligasse tutti a ribattezzarlo come «sincopato».

E tuttavia, la cosa non è così sorprendente se si considera che, già prima di quell’epoca, la Puglia aveva dato i natali a dei musicisti entrati di buon diritto negli annali del jazz italiano. Il caso forse più eclatante è quello di Michele «Mike» Ortuso (1908-1981), un banjoista originario di Monte Sant’Angelo che aveva conosciuto il jazz direttamente negli Stati Uniti, dove la sua famiglia era emigrata in cerca di fortuna. Cresciuto negli States, Ortuso aveva ascoltato dal vivo persino la leggendaria Original Dixieland Jazz Band e successivamente aveva suonato anche in una delle formazioni di Paul Witheman, detto «the King of Jazz», e di Isham Jones, stringendo amicizia con numerosi jazzisti italoamericani quali ad esempio Mike Pingitore, Frank Signorelli e poi anche Phil Napoleon.

Tutto ciò, per inciso, accadeva quando Ortuso era poco più che adolescente – come del resto la maggior parte dei protagonisti del jazz degli albori – dal momento che nel 1923, appena quindicenne, lo ritroviamo nella natìa Monte Sant’Angelo e un anno più tardi a Roma, dove esordì alla Casina delle Rose di Villa Borghese. A quanto pare, per riuscire a lavorare, Ortuso era stato costretto a spacciarsi per americano, facendo tesoro anche di quanto aveva imparato negli States. E a indirizzarlo alla Casina della Rose era stato un commerciante romano di strumenti musicali che, vedendolo per strada con un raro, fiammante banjo Paramount sotto braccio, lo aveva fermato per chiedergli dove mai lo avesse… rubato! Gli Anni ‘20 furono per Ortuso un decennio intenso che lo vide affermarsi con un proprio quartetto persino a Berlino e a Monaco di Baviera, prima di trasferirsi a Milano per suonare jazz con l’Orchestra Columbia.

Successivamente, in seguito a personali vicissitudini, Ortuso fece ritorno in Germania per suonare con l’Orchestra Shackmeister, ma alla promulgazione delle leggi razziali la formazione – che annoverava numerosi musicisti ebrei – si dissolse. Fu così che Ortuso fece ritorno in Italia dove nel 1937 venne assunto nell’orchestra dell’Eiar, diretta dal leggendario Cinico Angelini. E un anno più tardi incise una apprezzatissima versione del celeberrimo Tiger Rag – cavallo di battaglia di Nick La Rocca e della sua Original Dixieland Jazz Band – titolandolo però Il ruggito della tigre, dal momento che il fascismo aveva messo al bando il jazz e le canzoni americane.

La sua attività proseguì anche quando, dopo la guerra, l’Eiar si trasformò in Rai: con l’orchestra dell’emittente radiotelevisiva pubblica Ortuso prese parte a diverse edizioni del Festival di Sanremo, fino a quando, nel 1968, decise di ritirarsi dalle scene. Peraltro Mike – cui il comune di Monte Sant’Angelo ha dedicato una via - non fu l’unico Ortuso a dedicarsi al jazz, dal momento che anche suo fratello Matteo, di cinque anni più giovane e nato negli States a Worcester, nel Massachussets, fu un apprezzato sassofonista e clarinettista molto attivo in Italia e nel resto d’Europa persino al fianco di personaggi quali Coleman Hawkins e Josephine Baker, prima di concludere la propria carriera nell’orchestra dell’Eiar.

·        La trap.

Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 6 novembre 2022.

Oh mamma mia! Che senza distinzione si parli di artisti rapper, trapper oppure del sottogenere dei «gangsta» i quali benedicono un'esistenza criminale di botte e pallottole sovente praticandola, ecco, le madri occupano (in parole) le canzoni e (in fotografie) le copertine dei brani. Dal testo di «Dettaglio» di Simba La Rue, che sempre lì torna («Compro borse di marca solo per mia mamma, non smetterò mai di ringraziarla... La miseria non mi manca, mi manca casa e il profumo di mia mamma...»), alla cover di «Ninna nanna» di Ghali, lui figlio e lei madre ritratti insieme, c'è un mondo lontano assai, per dire, da quello marcio e degenerato dei genitori-padroni che angosciano i figli sportivi. 

O forse saremo noi di parte qui ricordando, e usandolo come incipit, un aneddoto narrato dallo stesso Ghali; un aneddoto potente sintesi di vita fra i bassi e gli alti della quotidianità, le storie di famiglia, i momenti di sentimento che si depositano nel ricordo, e nello specifico i percorsi di mamma e figlio verso il carcere. Disse dunque Ghali, pubblicamente rivolto alla madre battezzando l'uscita della canzone «Ninna nanna», che «Ti ho messo sulla copertina del mio singolo più importante perché me lo ero promesso da quando ero piccolo, da quando andavamo a trovare papà ai colloqui e vi baciavate mentre io disegnavo».

Ingannare il tempo. Anzi no, investirci. Se nei trasferimenti sui mezzi pubblici da casa alla galera, Ghali e la mamma condividevano le cuffiette come innamorati per ascoltare musica, Rondodasosa era già da piccolo appassionato «di rap e hip hop», e ogni volta che se ne stava in macchina con la madre lei alzava il volume dei pezzi. Erano «brani di Fabri Fibra ed Emis Killa»; quel Killa, già che ci siamo, ideatore della seguente frase: «Mamma è un nome troppo comune per ciò che sei. Accomunerei le stelle ai tuoi occhi in comune ai miei». 

Un attimo, un attimo: ma non si starà forse esagerando con lo zucchero? No, in quanto sono origini (e a volte sviluppi) difficili, sono in prevalenza venute al mondo nelle periferie di Milano che al netto della solita propaganda richiedono vera fatica fisica di resistenza giacendo esse dimenticate e piene di malanni; sono gli ostici circuiti della migrazione, i genitori smarriti tra altri continenti e le nuove culture, e i loro figli dentro il vortice vasto e variegato delle seconde generazioni; son mamme sole, toste e tenaci. E sono temi ai quali si aggiunge il resto.

Da ragazzino Emis Killa ha avuto problemi di salute e ha perso il papà. Come, di fatto, Alessandro Mahmoud, il cui padre abbandonò tutti quando aveva 6 anni; la madre Anna portava il bimbo alle lezioni di canto e nuoto, in una felice scelta che al diretto interessato pare piacesse (parentesi obbligatoria in relazione alla tracimante abitudine dei genitori di riempire i pomeriggi dei figli di discipline che affascinano unicamente a loro, gli adulti).

 Per raggiungere il maestro di canto, Alessandro e Anna attraversavano la città tra l'hinterland e le abituali periferie, nelle fasce orarie di traffico e di orizzonti grigi; «ogni giorno», ha ricordato Mahmoud, «era un viaggio».

Ma s' andava, perché alla fine va così. Vero Gué? Niente laurea Gué Pequeno è il padre musicale di giovani rapper; è un anticipatore alla pari di Marracash. La cronaca familiare di Gué ha differenze profonde non attingendo ai casermoni popolari, alle zone-ghetto, alle insidie predatorie della strada. Ma poco se non nulla cambia. Ha detto di sé Gué che, nell'apprendere che non avrebbe proseguito l'università, sua mamma ci rimase male anche ripensando al personale tragitto (studi ugualmente mollati prima della laurea). Da allora Gué si è macerato «ragionando» sulla madre e cercando di esplorarne i pensieri, domandandosi se fosse stato giusto seguire l'istinto, oppure... 

Oppure tirare dritto sulla propria strada, aver fiducia nella famiglia, nel supporto che verrà. Metabolizzare, sorreggere, darsi il cambio. Ancora Gué, nel ricordare malattia e morte del papà: «Quando ha avuto problemi, poterlo aiutare pagando le sue cure è stata quasi l'unica cosa bella che potessi fare nella vita».

Dopodiché, attenzione: l'immediato futuro che ci aspetta, specie da giovani, è un ingorgo di coincidenze, fatalità, geografie a noi esterne. Lo sappiamo. Quel Marracash fra gli innovatori del panorama musicale con Pequeno, non ha mai scelto un «altro» resoconto familiare pur possedendo fertili proprietà letterarie, innamorato di romanzi fin da bimbo quando si chinava sui libri di Verne per combattere l'insonnia; passato coi genitori ad abitare da Chinatown alla non semplice Barona in seguito alla perdita del posto di lavoro del padre, nel nuovo quartiere «ti sentivi figo se avevi i genitori criminali». Marracash non li aveva. 

«Nei miei, vedevo tutto quello che non volevo diventare: un essere umano schiacciato dal lavoro... Mamma e papà ribadivano con insistenza che erano stupidate che mi entravano in testa per colpa dei libri, che a furia di passarci sopra le ore mi andava in confusione il cervello...».

Rapido controllo ai nomi degli artisti finora comparsi. Manca qualcuno? Sicuro: mancano i protagonisti della faida dei trapper, quelli delle inchieste di luglio e ottobre, quelli capeggiati da Simba La Rue (e da Baby Gang) nel caso di una banda, e nel caso della banda rivale da Baby Touché; quelli delle coltellate, dei sequestri di persona, delle sparatorie; quelli dei nove più undici arresti, quelli che hanno genitori perbene che sgobbano in silenzio, quelli che... 

Quelli che «compro villa a mamma», canta Baby Gang, per gli esperti il musicista più talentuoso, per carabinieri e poliziotti il giovane delinquente più carismatico, per gli operatori sociali che l'hanno via via intercettato il figlio più bisognoso d'aiuto, per i follower il migliore in assoluto senza che segua dibattito: la mattina dell'ultimo arresto di Baby Gang, nell'apprendere la notizia, in molteplici appartamenti milanesi dentro la cerchia dei Navigli gli adolescenti hanno cominciato la mattinata discutendo coi genitori non tanto dell'azione in sé, la cattura del musicista, quanto della reiterata azione di disturbo di magistrati e forze dell'ordine nei confronti di un divo anti-sistema, forte di centinaia di migliaia di seguaci sui social.

E però: se Baby Gang in cella sembra non rinunciare all'atteggiamento da sprezzante galeotto, quel Simba La Rue suo alleato, nella lunga estate di ferimenti (fu accoltellato al nervo femorale), di un San Vittore incompatibile con le condizioni di salute, di operazioni, ebbene Simba La Rue ha mollato le arie da duro nell'apprendere commosso e sollevato la decisione del gip di dargli i domiciliari. Da mamma (e papà). Ai domiciliari proprio o quasi come Sara Ben Salha. 

Ammaliata dai trapper «gangsta», circuita, convinta a far da esca con un avversario, presto scoperta dai carabinieri, svegliata all'alba per le manette, uscendo di casa destinata al carcere Sara aveva ceduto alle lacrime incrociando lo sguardo severo e deluso della nonna materna nel cui appartamento ora sconta i domiciliari. 

Anche per l'impossibilità di farlo dalla madre, gran lavoratrice sposata con un pregiudicato. Ossia il padre di Sara. Problemi suoi (del papà). Tanto l'importante, come ribadito da Baby Touché nel commentare sui social la faida, è che «nessuno di noi vuole una madre che piange».

Simona Marchetti per corriere.it il 28 ottobre 2022. 

Un’ammirazione smisurata per Hitler, al punto da volergli intitolare un suo album del 2018. Poi il disco in questione è uscito con il titolo di «Ye», che è il soprannome con cui Kanye West ha deciso di farsi chiamare da un po’ di tempo a questa parte, ma la sua considerazione per il leader nazista è rimasta sempre ai massimi livelli. A raccontare l’ennesimo, inquietante particolare della tribolatissima vita recente del rapper ex marito di Kim Kardashian sono stati alcuni suoi ex collaboratori, che hanno chiesto alla CNN di restare anonimi, per il timore di possibili rappresaglie.

«Elogiava Hitler, dicendo come fosse incredibile che avesse accumulato così tanto potere - ha detto una delle fonti - e poi andava avanti a parlare delle grandi cose che lui e il partito nazista avevano fatto per il popolo tedesco». 

Stando a quanto è emerso, tutte le persone che facevano parte della cerchia ristretta di West erano pienamente consapevoli del suo interesse per Hitler, anche perché lui non faceva mistero di aver letto il «Mein Kampf» e di averlo molto apprezzato. Ecco perché non si è sorpreso praticamente nessuno quando il rapper aveva inizialmente suggerito il titolo «Hitler» per il disco del 2018, salvo poi cambiarlo, senza però dare spiegazioni. 

 Appresa la notizia, la Universal Music Group, la multinazionale proprietaria della Def Jam che distribuiva la musica di West, ha subito preso le distanze dal rapper, confermando che il contratto con la sua etichetta GOOD Music è terminato lo scorso anno. «Non c'è posto per l'antisemitismo nella nostra società - hanno fatto sapere in una nota sempre alla CNN - . Siamo profondamente impegnati a combatterlo, così come ogni altra forma di pregiudizio». 

Giovanni Berruti per lastampa.it il 28 ottobre 2022. 

No, Quentin Tarantino non avrebbe rubato l’idea a Kanye West per “Django Unchained”. Intervistato durante il “Jimmy Kimmel Live”, il regista ha avuto modo di controbattere alle accuse fatte dal rapper, in questi giorni in piena bufera mediatica per i suoi commenti antisemiti. Secondo West, dal 2021 noto come “Ye”, Tarantino e Jamie Foxx avrebbero utilizzato una sua proposta per il video musicale della sua canzone del 2005, “Gold Digger” per dar vita alla loro pellicola del 2012 con Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Kerry Washington e Samuel L. Jackson.

«Non c'è niente di vero sul fatto che Kanye West abbia avuto l'idea di 'Django' per poi riportarmela, e farmi così dire: Ehi, è davvero un'ottima idea. Lasciamela usare per fare Django Unchained'. Non è successo” – ha dichiarato il cineasta durante la trasmissione. Anche perché l’idea del film era nella sua testa da diverso tempo: Avevo l'idea di 'Django' da prima di incontrare Kanye.

Lui voleva fare una versione cinematografica di "The College Dropout" (il suo album di debutto), quindi era intenzionato a convincere dei grandi registi a girare i diversi brani per poi pubblicarli come un grande film – non video, niente di grossolano come i video, sarebbe stato un vero e proprio film basato sulle diverse tracce».

 È stato infatti questo il pretesto per cui la strada dei due è finita per incrociarsi: «Per me e Kanye è stata una scusa per incontrarci, ci siamo divertiti davvero. E ha avuto un'idea per un video, penso per il video di "Gold Digger", in cui avrebbe interpretato uno schiavo. L'intera faccenda riguardava la storia di questo schiavo, con lui che cantava "Gold Digger". Ed è stato molto divertente. È stata un'idea davvero, davvero divertente» – ha aggiunto il regista e scrittore, tra poco in libreria con il saggio “Cinema Speculation”. 

Tarantino conclude: «Doveva essere ironico (il film). Vorrei che l'avesse fatto. Sembrava davvero fantastico. Comunque, è a questo che si riferisce quando dice di aver parlato con me». 

Barbara Visentin per corriere.it il 28 ottobre 2022.

Nuova intervista, nuove dichiarazioni incendiarie (e false) su temi come l’aborto, l’olocausto, gli ebrei. Il rapper Kanye West, che ora si fa chiamare Ye, non smette di far parlare di sé per le sparate controverse e antisemite, farneticazioni che già gli sono costate l’interruzione di contratti importanti con marchi del fashion come Balenciaga, mentre la sua collaborazione con Adidas è fortemente in bilico. 

In una nuova intervista di oltre due ore, nel podcast dello scienziato Lex Fridman (russo-americano di famiglia ebrea), West ha affermato che «stiamo ancora vivendo l’olocausto. Un mio amico ebreo mi ha detto di andare a visitare il museo dell’olocausto e la mia risposta è stata “andiamo a visitare il nostro museo dell’olocausto: Planned Parenthood”» (dove Planned Parenthood è l’organizzazione di cliniche americane no profit che si occupano di educazione e salute sessuale, praticando tra le altre cose le interruzioni di gravidanza): «Sei milioni di persone sono morte durane l’olocausto, 20 milioni sono morte a causa dell’aborto», ha detto.

Il rapper ha proseguito le sue dichiarazioni anti-abortiste sostenendo che «il cinquanta per cento delle morti di persone nere oggi è dovuta all’aborto. Il posto più pericoloso per una persona nera in America è il ventre della propria madre». 

Kanye ha ribadito, come ha già detto in passato, che secondo lui i media sono in mano agli ebrei e alle obiezioni di Fridman ha esclamato: «Non è vero! È una bugia. I media sono controllati dagli ebrei e l’hanno dimostrato bullizzandomi».

Nel corso dell’intervista, West ha poi ammesso che le sue idee di estrema destra gli sono costate famiglia e carriera: «Ho perso la mia famiglia. Ho perso i miei figli. Ho perso i miei migliori amici nel mondo della moda. Ho perso la comunità nera - ha detto -. La gente dice che ho perso la testa... Ho perso la mia reputazione, ma io dico, voglio solo la mia famiglia. Ma non voglio che la mia famiglia debba dire quel che la sinistra fa dire loro, quel che la Cina vuole che si dica. Voglio essere un americano, proteggere i miei figli e mia moglie, crescere i miei figli cristiani e far sì che mia moglie sia cristiana».

Il rapper ha inoltre dichiarato che una cospirazione da parte degli ebrei avrebbe portato a una diagnosi di malattia mentale nei suoi confronti: «Un medico ebreo mi ha diagnosticato un disturbo bipolare e mi ha iniettato delle medicine. Poi l’ha detto ai giornali», ha sostenuto West, pur avendo raccontato lui stesso nel 2019 di soffrire di un disturbo bipolare.

Le sue esternazioni al podcast di Fridman sono solo le ultime in ordine di tempo, dopo che appena la settimana scorsa si era lasciato andare ad altre dichiarazioni false, sostenendo che George Floyd fosse morto «per un’overdose di fentanyl» e spingendo la famiglia di Floyd a denunciarlo.

Anche Adidas "scarica" l'antisemita Kanye West. Redazione il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Dalla moda a Hollywood il rapper Kanye West è alle corde: seguendo l'esempio di Gap e Balenciaga, il colosso tedesco Adidas (Rpt Adidas) dell'abbigliamento sportivo ieri ha rotto i ponti con l'ex marito di Kim Kardashian mentre lunedì era stata l'agenzia di talenti Caa a prendere le distanze. «Non è più loro cliente», ha detto una fonte dell'agenzia citando la recente tirata antisemita del cantante, stilista e imprenditore fino a poco tempo fa sulla cresta dell'onda. Dalle stelle alla polvere: considerato uno dei più influenti artisti hip hop del nostro tempo - 24 Grammy e 160 milioni di dischi venduti - Kanye si è autodistrutto nell'arco di pochi anni mentre l'attenzione dei media si concentrava, anziché sul suo talento creativo, sulle controverse esternazioni in politica (amico di Donald Trump e di commentatori di estrema destra come Tucker Carlson e Candace Owens) e i problemi mentali: soffre di disordine bipolare. Il divorzio dal clan Kardashian (Kim e la vasta famiglia di cui era stato un tempo una delle «K» eccellenti) aveva accelerato la parabola in discesa. Adidas aveva messo Kanye (che adesso si fa chiamare Ye) sotto processo all'inizio di ottobre: lo stesso avevano fatto Twitter, Facebook e Instagram inducendo il rapper a buttarsi nell'acquisto di Parler, il social «rifugio» di frange estremiste perché non frena la libertà di parola. «Le recenti affermazioni e azioni di Ye sono inaccettabili, piene di odio e pericolose», si legge nel comunicato di Adidas che annuncia la fine di una partnership valutata in miliardi di dollari: la linea Yeezy, immediatamente archiviata, rappresentava l'8% delle vendite del gruppo.

Erika Chilelli per “il Messaggero” il 18 ottobre 2022.

Era ad un solo chilometro da casa, per fare la spesa nel centro commerciale Parco Da Vinci, a Fiumicino, dove si è recato a bordo della sua Jaguar. Una scelta che è costata cara al rapper 26enne Algero Corretini, conosciuto con l'alias di Fratellì: ha violato l'ordine del giudice, visto che era sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di dimora nel comune di Roma, disposta dopo la sua uscita dal carcere di Rieti - nel novembre 2021 - dove era finito per aver picchiato la ex compagna, Giorgia Roma, ex pornostar conosciuta con il nome di Simona Vergaro. 

Ieri Fratellì si è presentato a piazzale Clodio elegantissimo, in giacca e cravatta: ha partecipato all'udienza di fronte al giudice per le misure di prevenzione. Per il pm, Corretini ha sconfinato, violando la misura, nonostante lo svincolo per raggiungere il centro commerciale si trovi prima del cartello di benvenuto a Fiumicino. Ora, il rapper romano, che ha scontato solo un anno dei due previsti dalla misura, rischia un aggravamento che, su richiesta del pubblico ministero, potrebbe allungare l'obbligo di altri 6 mesi.

I FATTI Il supermercato di fiducia lo ha tradito: ai carabinieri della stazione di Ponte Galeria è bastato visionare le telecamere di sorveglianza dell'esercizio commerciale per accorgersi della presenza di Corretini, che si è recato a fare spesa a Fiumicino tre volte nel solo mese di giugno insieme alla nuova compagna. 

D'altronde, Fratellì non passa inosservato per via degli inconfondibili tatuaggi che gli riempiono il viso e, così, i militari lo hanno visto recarsi al banco dei salumi, dirigersi alla cassa e pagare. Si tratta di azioni normali e quotidiane che, però, il 26enne avrebbe dovuto compiere in un altro esercizio commerciale per via della misura da rispettare, disposta per due anni a partire dal 2021. Così, nella giornata di ieri, il rapper è ritrovato davanti al giudice.

La difesa, però, sostiene che dalla parte di Corretini ci siano le indicazioni stradali: visto che lo svincolo per il centro commerciale si trova prima del cartello di benvenuto a Fiumicino, Fratellì non avrebbe mai lasciato Roma. «La contestazione risulta particolare - afferma l'avvocato penalista Salvatore Sciullo, che difende Algero Corretini - al fine di dimostrare che è stata coscientemente commessa nessuna violazione, abbiamo documentato e chiarito che il mio assistito si è recato, ad un solo chilometro da casa, per adempiere ad esigenze vitali primarie». 

I PRECEDENTI Della storia del rapper prima del 2020 si sa ben poco. A renderlo celebre, due anni fa, il video che Algero Corretini pubblicò sul suo account social 1727 wrldstar: sfrecciando a bordo della sua auto cercava di impartire lezioni di guida ad un fratellì, non identificato. «Ho preso il muro fratellì», diceva mentre la macchina si schiantava contro un muretto. La sua ascesa dopo quel video è stata rapida: il 26enne viene invitato in televisione, i follower aumentano notevolmente e le Iene gli dedicano un servizio recandosi nella sua casa di Piana del Sole. 

Con la fama, però, sono iniziati i problemi con la legge: a gennaio del 2021 è stato arrestato e condannato a 4 anni di reclusione con l'accusa di maltrattamenti e lesioni per aver picchiato con una mazza di ferro la sua compagna per via del suo passato da pornostar. L'ex rapper a novembre dello stesso anno è tornato in libertà e per lui è stato disposto l'obbligo di dimora a Roma.

Massimo Pisa per “la Repubblica” il 13 ottobre 2022.

Politica poca, e con idee assai confuse. Religione e impegno sociale anche meno. Il vero collante resta l'ideologia dei soldi, delle griffe esibite, della violenza ostentata al pari della sfida a chi indossa le divise. 

Spremendo dall'analisi elaborata dalla Questura milanese - la prima del suo genere sui trapper e le loro gesta criminali - il succo è assai meno dolce e glamour di quanto ostentato su Instagram e Youtube. Nei video e nelle stories di Baby Gang e Neima Ezza, nelle rime di Simba La Rue e di Rondo da Sosa, i soldi e i catenoni si accompagnano agli spari mimati, le fuoriserie alle dosi tagliate e spacciate, lo champagne agli arresti che diventano medaglie guadagnate sul campo. [...]

[...] Ci sono le rare prese di posizione pubbliche "impegnate", passate al setaccio alla ricerca di un messaggio, di un sentire comune. Ecco "Sacky" (Sami Abou El Hassan) che boccia come «vergognoso» un post di sostegno di Matteo Salvini a Israele, ecco ancora Neima Ezza con gli hashtag in favore della Palestina [...] 

E poi eccolo, Baby Gang, a un corteo No Green Pass di due anni fa, ma più per far casino («Attacchiamo quella volante») in diretta Instagram, o per provocare e basta («Andiamo a rubare!»). E l'Islam? Per un video di Rondo da Sosa che beve acqua durante il Ramadan, ecco una canzone di Keta (Mohamed Aziz Khemiri) che lo dileggia: «Non ho mai bevuto, sto fatturando pure, fra', stando anche seduto ». Cosa rimane sotto la patina?

Violenza. Vendette filmate, Simba La Rue e Baby Touché - o Mohamed Lamine Saida e Mohamed Amine Amangour, se preferite - che se le promettono e se le danno, pubblicizzandole per «umiliare » il rivale. 

La fidanzata del secondo (Barbara Boscali) che si filma i lividi sul volto, mentre metà dei suoi follower solidarizza e l'altra metà le scrive che se l'è cercata. Ma prima di arrivare a questi abissi, a queste imitazioni della fiction di Scarface e delle vite bruciate di Tupac Shakur e Notorius Big, l'escalation ha percorso altre tappe. Video di Neima Ezza con battaglia contro trecento agenti, 10 aprile 2011. Uscita di gruppo alla discoteca Old Fashion e sassaiola contro i buttafuori intransigenti, 12 luglio. Sparatoria tra Kappa 24 - il 33enne Islam Abd El Karim - e l'ex amico Carlo Testa, 8 gennaio 2022. La sparatoria di corso Como del 3 luglio, che ha lasciato due gambizzati a terra e ha portato alle recentissime undici ordinanze eseguite da polizia e carabinieri.

E in mezzo, un rosario di piccole rapine, di episodi di spaccio, di video turbolenti, fino al tentativo di noleggiare un pullman scoperto per andare in Duomo a far casino.

Ognuno dei diciassette rapper tracciati dalla Questura ha ormai la sua foto segnaletica, la sua scheda, il suo archivio di precedenti.

Il conto dei reati ha superato ormai le tre cifre. Quello delle misure di prevenzione emessi in questi mesi dal questore Giuseppe Petronzi è arrivato a quarantadue, e quattro di questi sono stati bocciati dal tribunale: «Li considero sconfitte - spiega - perché sono indicatori del fatto che non si è capito il fenomeno criminale, e gli arresti arrivati dopo non sono rivincite.

Ci vuole una presa di coscienza di tutte le istituzioni, non è più un fenomeno metamusicale». Si interroga preoccupato, Petronzi («Forse abbiamo iniziato a intervenire tardi?»), davanti a una spirale che, come ha sottolineato l'ultimo provvedimento del gip Guido Salvini, mette a rischio l'incolumità di tanti, e in pieno centro. Ancora il questore: «Perché questo fenomeno si è sviluppato a Milano? Qui, questi ragazzi hanno trovato terreno di espansione, in altre realtà criminali sarebbero stati ricondotti ad altre logiche».

(ANSA il 7 ottobre 2022) - Sarebbe stata la fidanzata di Simba La Rue, il trapper finito nuovamente in carcere oggi in un blitz di polizia e carabinieri, a tradire il compagno fornendo "l'indirizzo ai suoi aggressori" quando il 20enne fu accoltellato il 16 giugno scorso a Treviolo (Bergamo). 

L'ha "confessato" lei stessa in una telefonata qualche giorno dopo parlando proprio col rapper. "Doveva venire da solo a farti questa cosa, umiliarti ...", dice la giovane intercettata il 10 luglio e il fidanzato risponde: "Mi hai venduto e basta". 

Emerge dagli atti dell'inchiesta milanese che oggi ha portato ad 11 arresti, con ordinanza per i 9 maggiorenni firmata dal gip Guido Salvini, su richiesta del pm Francesca Crupi. Dalle carte si vede che comunque i due, poi, si sono riappacificati. Simba, già arrestato a fine luglio anche per il sequestro del 9 giugno ai danni del capo della "gang" antagonista, Mohamed Amine Amagour, ossia Baby Touché, era passato ai domiciliari in una comunità per motivi di salute ed è stato operato per la ferita alla gamba subita (oggi anche i 4 arresti per il tentato omicidio). 

E a settembre il trapper "utilizzando il cellulare di una suora operatrice della Comunità" è riuscito a mettersi "in contatto 2 volte" proprio con la fidanzata, "soggetto tra l'altro centrale - scrive il gip - nella genesi e nel meccanismo dell'aggressione che lo stesso Saida ha subito in provincia di Bergamo". Il gip parla di "continuità" nelle violazioni del regime dei domiciliari da parte del trapper e delle persone a lui vicine. Risulta che pure Zaccaria Mouhib, ossia Baby Gang, oggi finito in carcere, si sarebbe recato "stabilmente in comunità" a trovare l'amico. 

Dalle intercettazioni, si legge negli atti, emerge "una corresponsabilità" della fidanzata "per quanto concerne l'accoltellamento ai danni di Saida Mohamed Lamine". In più di una telefonata, infatti, la donna "confessa di aver favorito detta aggressione, fornendo il proprio indirizzo di domicilio a terzi soggetti e comunicandogli che avrebbe passato la serata insieme al Saida".

Parlando proprio con Simba lei gli spiega che avrebbe "dato indicazioni" a tale "Samir" affinché "potesse incontrare il Saida da solo, con la finalità di 'umiliarlo'". "Doveva venire da solo a farti questa cosa, umiliarti - dice la giovane al fidanzato - perché aveva paura dei tuoi amici, e da solo sarebbe riuscito a parlarti e al massimo tirarti qualche schiaffo, lui non è neanche venuto, ha mandato i suoi amici, ma non so perché ti giuro che quando io ho visto questa cosa, quando io tenevo la porta aperta è perché ti vedevo così (...) ho urlato e mi son spaventata perché io, non era lui il tipo, perché doveva venire lui! Non so chi ha mandato, cosa, poi dopo quando io l'ho chiamato ho urlato e gli ho detto 'mi hai ammazzato il tipo, ma che cazzo hai fatto!'". E Simba: "Che fine di mer.., che fine di mer... ho fatto!". 

Tra l'altro, il 21 giugno la donna avrebbe raccontato le stesse cose a Baby Gang, già arrestato a gennaio scorso in un'inchiesta milanese per rapine e poi scarcerato per prove lacunose. E lo stesso giorno lei aveva già reso la sua 'confessione' al trapper e compagno, il quale le aveva risposto "ripetendole 'sei un'infame bastarda'".

(ANSA il 7 ottobre 2022) - "Sono volate di brutto Malippa! C'ho sangue suo fra, l'ho ammazzato fra quel negro di merda fra". Parla così il 21enne albanese Andrea Rusta, detto "Asap", salito in auto subito dopo la rissa dello scorso luglio a Milano in cui due giovani senegalesi sono stati gambizzati. 

La conversazione prosegue tra Mounir "Malippa" e Rusta "Asap", in evidente stato di esaltazione a pochi minuti dall'aggressione. "Il figlio di p... che ha sparato, eh eh, sistemato. L'ho sistemato, adesso ti faccio vedere la foto se vuoi", rivolgendosi all'amico incredulo del fatto che abbia trovato anche il tempo di scattare una foto. Si scoprirà poi che Rusta ha anche girato un filmato che ha successivamente inviato a un'amica. 

"L'ho ammazzato, guardami il ginocchio! - continua Rusta - Gli ho tirato troppe ginocchiate mi sa. Guarda il suo sangue dov'è. Mi fa piacere, mi fa tantissimo piacere (...) Tipo punchball per i piedi. (...) Gli ho dato due calci di numero e poi due ginocchiate, solo col gesso l'ho picchiato fra".

A quel punto gli sale il dolore al braccio e l'amico gli dice: "Ma tu c'hai il braccio distrutto frate e picchi la gente col braccio distrutto?". Dopo un po' Malippa cambio tono: "Sia cosa mi faceva ridere? Speedy (soprannome di Simba La Rue, ndr) che picchiava il negro con la stampella. Lo voleva prendere". E Rusta: "Minchia non è che gliela tirava e basta eh, no. Cerca proprio di prenderlo solo in testa (ride, ndr). Così 'negro di merda! Negro di merda! Si mordeva le labbra fra, lo picchiava solo in testa. Il negro si copriva la testa, capito? Appena faceva di qua e di là, lo colpiva nel momento giusto Speedy fra! Giuro (ride, ndr)".

(ANSA il 7 ottobre 2022) - "Mi sono diretto verso questo gruppo per interrompere il pestaggio, e ad un tratto mi si è messo di fronte un ragazzo sempre magrebino con jeans chiari strappati, maglia bianca e capelli media lunghezza con riga in mezzo a caschetto, che impugnava una pistola di colore nero tipo semiautomatica. Costui mi ha puntato l'arma ed io ho fatto la stessa cosa con lui". 

Così, sentita come teste, una guardia privata, che quella notte svolgeva servizio nella zona della movida milanese vicino Corso Como, ha raccontato i drammatici istanti della rissa anche a colpi di pistola scatenata dal gruppo dei trapper guidato da Baby Gang e Simba la Rue, tra il 2 e il 3 luglio.

Dagospia l'8 ottobre 2022.

IL TESTO DI CAGOULE, DI SIMBA LA RUE

Simba

La rue, la vraie

Eh, eh, eh-eh

Cagoule, cagoule

Volto coperto, entro a mano armata

Oh, cazzo, oh, cazzo

Nuovo definitivo, nuova condanna

Fucile d'assalto su quella tua testolina da cazzo

Fai il matto, fai il matto?

Finisci scomparso o come quell'altro

Ho visto la morte, ho visto la fam

Ho visto cose, meglio non raccontare

Ho visto mamma per mesi in ospedale

Vendevo la morte, mi piaceva il rischio

Giravo di notte, rubavo le Twingo

Con la droga ci ho riempito il frigo

Con la droga ci ho pagato l'affitto

Ah, ah, che bello il rischio

Lavoravo bamba, era tutto bello

Mannite, mannite, il taglio è perfetto

Ti saltan due dita se non paghi i p?zzi

Ho pezzi sparsi per la mia Kalenji

Salda i d?biti o salti per aria

Salda i debiti o li salda tua mamma

Ho un piede nel rap, un piede per strada

Figlio di puttana (figlio di puttana)

Spostavo chili su una sport GT

Parigi-Nantes con due miei amici

Due gambe all'ora, semino sbirri

V8 biturbo, quanto strilla

Autrostrada, qua-quanto tira

Nantes Ovest, frate', fino a Marsiglia

E se avessi avuto una tipa

Era solo per tenergli i pezzi in figa

Cagoule, cagoule

Volto coperto, entro a mano armata

Oh, cazzo, oh, cazzo

Nuovo definitivo, nuova condanna

Fucile d'assalto su quella tua testolina da cazzo

Fai il matto, fai il matto?

Finisci scomparso o come quell'altro

Sacoche, sacoche

Giornata di paga, ho riempito la sacoche

Casquette, col Moncler in giro

TN abbinate alla tuta coi love del chilo

Asics, no Air Force, completo del Milan

Scendo dal palazzo in tuta sportiva

Tutto in comfort, in culo alla polizia

Non vince il più forte, ma vince il più furbo

Qua i piccolini, giuro, ti fanno brutto

Ovuli nel culo, soldi imboscati nei buchi

Non dirlo a nessuno

Cagoule, cagoule

Volto coperto, entro a mano armata

Oh, cazzo, oh, cazzo

Nuovo definitivo, nuova condanna

Fucile d'assalto su quella tua testolina da cazzo

Fai il matto, fai il matto?

Finisci scomparso o come quell'altro

Cagoule, cagoule

Volto coperto, entro a mano armata

Oh, cazzo, oh, cazzo

Nuovo definitivo, nuova condanna

Carlo Antonelli per Dagospia il 12 ottobre 2022.

‘La vita è una merda ma io sono il primo che caga’ (Baby Gang) 

Stavolta è veramente complesso dare un pelo di ordine a questo casino.  

Rapidamente i fatti (premessa: per facilità chiameremo ‘rapper’ i musicisti coinvolti), raccontati in due parti separate. 

Anzitutto i protagonisti centrali come sapete sono tre.

Baby Gang – rapper, eccellente tra l’altro, nativo di Lecco da famiglia marocchina – era in carcere per carichi pregressi, ma questo era stato un fatto normale nella sua vita tra comunità, case-famiglia e gabbio vero e proprio (come racconta in modo impeccabilmente chiaro nell'intervista a Noisey che trovate su Youtube e che ha due milioni di views, tanto per iniziare a capire i volumi del fenomeno). 

I preti sono quelli che lo hanno aiutato di più, tra questi quel sant’uomo di Don Burgio, citato e intervistato da tutti durante questi giorni di cronaca isterica. 

Zaccaria, così si chiama all'anagrafe, ha video straordinari su pezzi incisi in studio dove -in qualche caso- arrivava scortato dalle volanti della polizia e poi riportato dentro in giornata.

Su tutti spicca il toccante "Mentalite’", girato con una delle sue crew visive di coetanei, una miniatura sull'infanzia vissuta dentro gli slum popolari, tra le persone che ci abitano e ci sono arrivati dalle provenienze più svariate, e tutto quello che si può immaginare. 

Di grandissima classe è la sua performance in “Marocchino”, pura dinamica nello spazio del quartiere girato in piano sequenza, bianco e nero.

Poi c'è Simba la Rue - Mohamed Lamine Saida sulla sua carta d'identità - con un solo album su etichetta Atlantic (quella di Aretha Franklyn, per dire) per Warner Music Italia. Anche in questo caso - al di là dei contenuti testuali- la visualità è completamente lontana dalle quattro minestrine in croce del resto dei colleghi. 

Neonlight e maschere, uso del greenback per messa in abisso molto sciolta, passaggi su gite al lago o in montagna oppure a palla dentro i tunnel in centro, ma soprattutto dronate su casermoni casermoni casermoni e un sacco di gente, di amici per lo più di seconda generazione - la sua gang, chiamatela come volete - che poi sono tutti quelli che hanno abitato lì fin dall'infanzia: albanesi, senegalesi, romeni, marocchini e tunisini ovviamente, nigeriani e ghanesi, altre provenienze balcaniche, rom inclusi. La comunità sudamericana sembra stare un passo indietro, in altri luoghi.

Per controllare quanti sono, basta dare un occhio al Rapporto Statistico sull'Immigrazione aggiornato ogni anno, voce "seconde generazioni". Una sola anticipazione: sono tanti. 

E stanno tutti concentrati là dove vedete immagini che sembrano esotiche chessò al corriere.it: a 20 minuti dal centro di Milano, a San Siro. Sono le case popolari della Regione, dove c'è l'incredibile torre graffittata di Via Selinunte in mezzo, non a caso citata dentro il mixtape 2022 della Seven 7oo, chiamiamolo il collettivo centrale del movimento, che nella intro vede un featuring di Neima Ezza: nativo marocchino emigrato in Italia, anche lui coi clip fa cinema con tanto di bambini (inutile sottolineare perché) e androni di scale e arresti e albe viste dai tetti, quando si torna a casa dalla merda. Comunque -per rientrare nel centro della faccenda- pure Simba sta sempre a far casini, con gruppone multi attorno.

Poi c'è Touchè, di fuori Padova, sempre seconda generazione, che nulla meglio pennella di un candido servizio del TG1 (sempre su youtube). Ma pure di un bellissimo ritratto/clip di pendolarismo sulla Trenord che arricchisce il bouquet visuale di un nuovo cinema che solo così possiamo vedere, ignorato dalle produzioni degli ‘autori’ che tirano a campare con pappette insipide che da sempre stanno in piedi a stento coi contributi ministeriali, ma anche dalle produzioni firmate dagli showrunner Netflix e Sky -vedi "Blocco 181" prodotto con Salmo - con risultati semplicemente abissali.

Da questa parte ci sono invece registi e d.o.p. ventenni (a volte meno, 18, 17 anni) che semplicemente maneggiano i mezzi di produzioni contemporanei con la normale fantastica agilità generazionale, non spendono nulla o quasi (se non negli episodi di viaggi nel paese d'origine, ogni tanto, bellissimi), sfondano gli occhi coi colori fluo da “Euphoria” o “I may destroy you” viste con le password tarocche, ma soprattutto sanno raccontare- e sono gli unici- la vita in particolare di una Milano che, yes, non vorrebbe proprio che tutto questo esistesse, che non ci fosse periferia, perché rovina ogni piano europeo e gli scali ferroviari fichissimi e le riforestazioni, che si vorrebbero fare anche qui, dove persino degli idioti capirebbero che serve ben altro. 

Il d.o.p. Alessandro Girbino e altri -vedi Redcoos di origine egiziane -  sono operatori dell’immagine che, come nei casi inglesi e americani fin dagli anni sessanta- accompagnano i rapper fin dai loro inizi, uno sta in fissa con la musica e l’altro con la visione smartphonica. Perché si vive e si cresce insieme, e poi chissà dove si va a finire. 

L'onda- in assoluto-è iniziata a Genova, nel 2016 e poi ha travolto il panorama musicale al completo, come racconta il diligente doc in quattro puntate "2016" in onda in queste settimane su "Discovery +". Con Tedua e Izi. 

E lì il coetaneo Federico Merlo abbraccia il genere, e la fratellanza tra ragazzi maschi, il bromance, su certi tetti che sembravano davvero Rabat e il migliore cinema nordafricano, e che hanno commosso sul serio.

E poi l'uso dei progetti edilizi popolari più incredibili - Le Lavatrici, per esempio- iniziando una lunga serie di rimandi a folli o incompresi capolavori dell'architettura 60/80 utilizzati come set per i video della scena che la raffinatissima compagine di "Forgotten Architecture" guidata da da Bianca Felicori ha saputo raccontare come nessuno. 

E con cultura da parte dei rapper non casuale: Felicori racconta di una recente conversazione con Tedua che paragonava il progetto del ‘’Biscione" a Genova firmato Daneri alle Unitè d'Abitation di Le Corbusier a Marsiglia. Gente che sa quello che fa, insomma. 

La coscienza esatta di vivere dentro certe geometrie è stata estremamente alta come non mai in questi 7 anni e nelle evoluzioni della scena che dalla trap iniziale portano-con qualche buco normalissimo- alla drill attuale, quella per esempio praticata dai nostri tre ragazzi.

E che incrocia sonorità uk (più forti in alcuni, come in RondoDaSosa, forse il migliore musicalmente) e costruisce collegamenti con la scena francese sonora e visiva seguendo la scuola dei cari vecchi PNL (nonchè dell'Afrotrap crescente anche in Italia). Poi ci sono anche le ragazze, musiciste, ma davvero sarebbe troppo lunga. Belle toste, comunque. 

Del resto si tratta dell'unica scena (diciamo) hiphop mai riuscita a pensarsi come parte di un network internazionale complesso: quella di seconda generazione marocchina dialoga con il mondo arabo intero e da qui con quello francese o viceversa (con ospitate reciproche). E realtà inglesi importanti come Central Cee vengono qui - come in altri territori europei- a girare video imponenti, convocando tutti quelli che sono stati nominati fin qui, o quasi.

Morale? Trattasi di gente, spesso firmata da major o sotto contratto con etichette licenziate a label multinazionali, o parte di società di management note, di cui moltissimi avevano sentito parlare poco e niente fino al bordello dell’altro ieri. Un mondo parallelo solo apparentemente alieno al resto del mondo. Tutt’altro, in realtà. 

Per una volta è stata invece la sociologia più attenta a rizzare le antenne. Basta dare un occhio al numero intero di "Terre Urbane" non a caso chiamato ‘Della coca, della piazza e degli spari’ 

Sebastiano Benasso, ricercatore di sociologia dell’Università di Genova, parla giustamente di ‘produzione di panico morale che va avanti da un po’ di mesi’. 

Infatti - per dare la seconda parte del racconto della faccenda di cronaca- tutto è a metà tra la verità, la farsa e la normale vita di merda, social inclusi.  

Touche’ fa provocazioni continue su IG contro Simba la Rue, e viceversa. Simba alcuni mesi fa sequestra Touchè e con un video girato in macchina (veramente incredibile) lo umilia pubblicamente. 

Attraverso un meccanismo più volte raccontato in questi giorni e che ruota intorno ad una signor(in)a chiamata Bibi Santi, Simba becca delle gran coltellate quest'estate e se va all’ospedale.

Per un caso assoluto esce nello stesso momento dal carcere Baby Gang (che al volo invita a votare Berlusconi), fa subito una cazzata, s’azzuffa con due senegalesi a botte di stampelle e revolverate, ecc. Fatte le indagini e una fraccata di intercettazioni -che, parlando di cinema, non potranno che essere state strabilianti per gli inquirenti, vedi anche le stories degli avvocati degli imputati- li han messi dentro tutti e tre (nda: curioso che in parallelo sta succedendo una cosa analoga a tutti i membri dell'etichetta YSL del rapper Young Thugs, praticamente identica).  

Ma la questione è un'altra. E ancora la sociologia sul pezzo entra in campo. Benasso: "Per la prima volta si vede questa vita e a parlarne in ogni caso sono le voci non bianche" (forse Ghali, che non a caso racconta sempre a Noisey delle visite da piccolo al padre in carcere). 

Sta non a caso per uscire da Nova Logos un libro collettivo su tutto questo universo da lui curato insieme a Luca Benvenga (Università di Lecce), per dire quanto intensa è l’osservazione del fenomeno.  

C'è una chiave di spiegazione finale estremamente utile. ‘Tutto questo ci parla delle conseguenze del lock down’, commenta Agnese Maccari, antropologa dell’Università di Torino. 

‘Chiusi e bloccati, i quartieri di periferia hanno perso il contatto con il centro e questo fenomeno ha accelerato il rigetto dello stesso. Si è persa la relazione classica tra i due poli, che ora diventa “non siamo più noi a dover venire lì, ma siete voi che volete venire qui e volete diventare come noi” (questo conferma anche il dato per cui tantissimi pischelli di buona famiglia che vengono dai centri urbani fanno di tutto per essere considerati come boys from the hood, usando pistole giocattolo e quant’altro).

Insomma, si è optato per l’ostentazione della propria bolla, il quartiere, mostrato dalle riprese dall’alto dei droni, come una teca in un museo. Tutto esprime l’idea di ‘chiuso’ e non a caso non vi è alcun impegno di questi artisti nei live; tutto si concentra su video e social, dove vestono come nella drill inglese o come nella trap francese (passamontagna e guanti, borsello, tute anonime, maglie da calcio, oppure vestiario brandizzato non dissimile alla merce fake), moda che risulta lontana anni luce lontana dall’esibizione bling precedente.

Non c’è cura o ricercatezza del personaggio, se non la presenza ingombrante del mito del mafioso. Sicuramente la rivendicazione di riscatto - a cui ci aveva abituato l’hip hop delle periferie romane di vent’anni fa- non ha nulla a che spartire con questa nuova realtà, se non la rabbia, unico fil rouge davvero interessante. Ed è proprio su questa rabbia che i riflettori dovrebbero essere puntati, poiché le banlieue francesi insegnano, non solo in termini stilistici”.

Tocca pure allora ricordare in tal senso i riot durante la fine del lockdown del 2021 durante il tentativo di stoppare le riprese di un video di Neima Ezza. In quel caso comparvero sui muri di San Siro scritte in francese identiche a quelle fatte durante analoghi moti a Parigi. 

E, botta finale -e colpo al cuore al panico morale nostrano- ecco comparire sulle nostre strade -direttamente dalle rues di periferia francesi ma anche da Philadelphia- persino l’ultima fissa, già intravista in un paio di video sopra citati, e in crescente ascesa su IG: la superimpennata con la megamoto, unico segno reale di possesso di denaro: il nuovo idolo, sempre di seconda generazione marocchina- è  Momo. Siamo solo all’inizio di tutto. 

Baby Gang-Simba La Rue, trapper in manette. Il ruolo della suora e il commento di Salvini. Il Tempo il 07 ottobre 2022

La faida tra rapper finisce di nuovo con le manette. Sono stati entrambi arrestati Simba La Rue (Lamine Mohamed Saida il vero nome) e il collega Baby Gang (Zaccaria Mouhib), nell'ambito di un'operazione congiunta di carabinieri e polizia in relazione a un'aggressione a colpi di arma da fuoco avvenuta a Milano nella notte tra il 2 e il 3 luglio scorso. In manette finiscono in tutto nove persone, compresi quattro giovani accusati di aver quasi ucciso Simba La Rue a colpi di coltello un paio di settimane prima a Treviolo.

Carabinieri e polizia, coordinati dalle procure di Milano e Bergamo, hanno tirato le somme con due indagini distinte ma parallele sulle violenze delle bande di trapper. Era in stampelle, Simba, lo scorso 3 luglio in via Alessio De Tocqueville, una delle strade della movida, quando con altri dieci amici del suo entourage ha attuato una «caccia armata» per punire un ragazzo senegalese colpevole di presunti vecchi torti. Come ripreso dalle telecamere di sorveglianza costretto a camminare con le stampelle, usate poi come armi improprie nella rissa, per le conseguenze dell’aggressione subita in provincia di Bergamo il 16 giugno. E per la quale a distanza di pochi mesi sono stati individuati e arrestati quattro giovani ritenuti far parte di un altro schieramento, quello di «Baby Touchè». Anche lui giovane trapper, protagonista con Simba, di un rivalità degenerata in una serie di aggressioni e ritorsioni.   

Faida che a Simba, ventenne italo-tunisino di Lecco, è costata, oltre al rischio di perdere l’uso della gamba, un arresto lo scorso fine luglio per aver a sua volta sequestrato e picchiato il rivale Touchè a inizio del mese precedente. Un periodo in carcere come disposto dal gip Guido Salvini tramutato dal tribunale del Riesame negli arresti domiciliari nella comunità giovanile Kayros di Vimodrone. È qui che i poliziotti della Squadra mobile e i militari della compagnia Duomo lo hanno prelevato per riportarlo in carcere con le accuse di rissa, lesioni, rapina aggravata e porto abusivo di arma da sparo.

Sarebbe nata dalla spinta a una giovane ragazza la rissa con successiva sparatoria nella notte del 3-4 luglio scorso in zona corso Como a Milano. La giovane - G.F. - avrebbe confermato alla squadra mobile di Milano il 13 luglio 2022 le genesi e la dinamica dell’aggressione. Ha infatti riferito di essersi recata assieme ai suoi amici senegalesi - poi vittime dell’aggressione - e ad alcune ragazze in una discoteca e nelle prime ore del mattino avrebbero iniziato ad uscire. Il giovane africano è uscito pochi istanti prima di lei che lo avrebbe notato sul marciapiede opposto intento a discutere con alcuni ragazzi chiedendo che si scusassero per aver urtato la ragazza. Da quell’istante è partita l’aggressione di massa con tanto di furto di una collana di oro giallo, 400 euro in contanti, documenti di identità e vari effetti personali.

Nella casa nella disponibilità di Baby Gang a Sesto San Giovanni, perquisita questa notte dai carabinieri di Milano, sono state trovate armi illegali e simulacri di mitragliatori e kalashnikov. In particolare una pistola Beretta calibro 7,65 trovato sotto un cuscino con la matricola ma di provenienza non chiara. I carabinieri della Compagnia di Milano Duomo ritengono di aver "decapitato" dopo oltre sei mesi di attività investigativa la banda e parlano di una disponibilità inusuale di armi e capacità di approvvigionarsi da parte della banda anche rispetto al passato. Non più solo armi da taglio ma da fuoco. Sono le stesse che vengono poi utilizzate per girare i videoclip musicali con l’obiettivo di accrescere il "potere" sui social e il numero di follower.  

Nell'ambito dell'inchiesta, emergono altri particolari sulla vicenda. Simba La Rue, e la fidanzata "Bibi" parlavano attraverso il telefono di una suora operatrice della Comunità Kairos di Vimodrone gestita da Don Claudio Burgio. È quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip. Nel fascicolo si legge che il 9 settembre 2022 nel pomeriggio Simba la Rue ha utilizzato il cellulare di una suora operatrice della Comunita si é messo in contatto 2 volte con la ragazza, e più tardi nel corso della stessa giornata, "Bibì" ha richiamato direttamente la suora che l’ha rassicurata in merito al fatto che le avrebbe consentito di avere contatti con il fidanzato.

Simba era tornato nella comunità Kairos dal Centro clinico del carcere di San Vittore, su decisione del tribunale del Riesame, proprio l’8 settembre a causa della situazione della sua gamba accoltellata il 16 giugno scorso in continuo peggioramento e con l’operazione chirurgica presso l’ospedale San Gerardo di Monza programmata per il successivo lunedì 12 settembre per limitare i danni al nervo femorale della gamba destra causati dalle coltellate, danni che probabilmente solo in parte possono essere recuperati.

Le stesse contestate a Baby Gang. Anche lui come Simba quest’anno era già stato arrestato e finito in carcere. Esattamente lo scorso 19 gennaio quando è stata eseguita l’ordinanza in cui gli venivano contestate due rapine commesse nell’estate del 2021. Era stato poi rimesso in libertà dai giudici del Riesame un mese dopo con l’annullamento del provvedimento restrittivo. 

Sulla vicenda si è espresso anche Matteo Salvini. «Così avranno tanto tempo per comporre e cantare» ha scritto il leader della Lega su Facebook.

Baby Gang, il trapper "maledetto" arrestato per la sparatoria a Milano: il primo furto a 11 anni, la musica, le sfide alla polizia. Luca De Vito su La Repubblica il 7 Ottobre 2022.

Baby Gang nel carcere di San Vittore: le immagini usate per un video musicale  

Zaccaria Mouhib, 21 anni, è diventato più famoso per i reati che per le canzoni. Dall’infanzia di povertà a San Vittore. Nessuno è riuscito a 'salvarlo', neanche l’incontro con don Burgio, prete dei ragazzi difficili: "Solo lui ha creduto in me"

"Ora faccio musica e mi sto comportando bene. Ma di quello che ho fatto io, qua in Italia, gli altri rapper non hanno fatto manco un quarto". Zaccaria Mouhib, in arte Baby Gang, raccontava in un'intervista a Vice i suoi esordi nella microcriminalità: un lungo elenco di furti, rapine, resistenze a pubblico ufficiale, lesioni di cui ha sempre fatto vanto e che hanno alimentato la sua fama di trapper "maledetto", più noto per i reati che per la musica.

Estratto dall'articolo di Luca De Vito per repubblica.it il 7 ottobre 2022.

"Ora faccio musica e mi sto comportando bene. Ma di quello che ho fatto io, qua in Italia, gli altri rapper non hanno fatto manco un quarto". Zaccaria Mouhib, in arte Baby Gang, raccontava in un'intervista a Vice i suoi esordi nella microcriminalità: un lungo elenco di furti, rapine, resistenze a pubblico ufficiale, lesioni di cui ha sempre fatto vanto e che hanno alimentato la sua fama di trapper "maledetto", più noto per i reati che per la musica. 

Elenco a cui aggiunge adesso l'ultimo episodio, la rissa con sparatoria di Corso Como. Nato a Lecco nel 2001 da famiglia marocchina, Zaccaria vive un'infanzia di povertà. Nel 2012 per la prima volta va in una comunità per minori a Torino: era stato colto in flagrante a rubare vestiti da un negozio. È l'anno in cui per lui finiscono le estati spensierate del bambino e cominciano quelle dei guai con la giustizia. Entra ed esce dalle comunità di mezza Italia: Rimini, Bologna, Brescia. 

Da qui il suo soprannome: le cronache dei giornali locali riportavano fatti di cronaca che sembravano opera di una baby gang, senza sapere che in realtà c'era dietro soltanto lui.

La prima volta in carcere Zaccaria ci va a 15 anni: finisce dentro per aver picchiato un poliziotto, anche se sostiene di essere stato aggredito per primo. Due mesi al minorile di Bologna e poi il trasferimento al Beccaria di Milano. Comincia a fare avanti e dietro tra carcere e comunità, scappa e viene riacciuffato, finché la pena si esaurisce. […] 

Il nome di Baby Gang torna alla ribalta nell'aprile del 2021. Stavolta per un video girato in strada a San Siro insieme all'altro rapper Neima Ezza. Per quelle riprese nessuno ha chiesto i permessi e non si possono fare assembramenti per le restrizioni per il Covid, ma nonostante questo in piazza Selinunte arrivano centinaia di ragazzini radunati dal tam tam social. L'intervento delle forze dell'ordine genera un caos che finisce con guerriglia in strada e una sassaiola, per fortuna senza feriti gravi. […]

Poco dopo arrivano le perquisizioni: Baby Gang si fa fare un video in cui si vede lui che gioca con i videogame mentre gli agenti cercano nel suo appartamento. E lo pubblica su Instagram, l'ennesima sfida. […] 

Nel frattempo colleziona Daspo come se fossero medaglie: a settembre del 2021 ne arrivano tre nel giro di poche settimane, con il divieto di avvicinamento a Milano, Lecco e Riccione. 

E cresce anche la sua fama come trapper: le serate nei locali si moltiplicano, i concerti sono sold out e mezza Italia lo chiama per esibirsi (anche se alcune date vengono cancellate prima dell'esibizione e dopo le segnalazioni della Polizia ai gestori delle location). 

A gennaio di quest'anno viene arrestato insieme ad altri rapper, sono accusati di aver avvicinato dei giovani alle Colonne di San Lorenzo e averli bloccati e colpiti per farsi consegnare denaro e gioielli. Baby Gang finisce a San Vittore, ma le accuse non reggono: il tribunale del Riesame dà ragione al suo avvocato Nicolò Vecchioni il quale sostiene che né i riconoscimenti fatti dalle vittime né l'analisi delle celle telefoniche fossero sufficienti a giustificare una misura così forte, anche perché il volto di Zaccaria era ormai noto e le testimonianze potevano essere condizionate.

Esce dopo neanche un mese in cella e il giorno dopo fa esplodere fuochi d'artificio davanti a San Vittore. Non solo. Dopo poco annuncia sui social di aver girato un video dentro al carcere: sono le immagini che userà per la sua clip "Paranoia", girate con un telefonino fatto entrare di nascosto. Motivo per cui sarà indagato per il reato 391 ter che punisce sia "chi indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico" sia il detenuto che lo riceve e lo usa. 

Ad aprile un altro colpo di testa: è in giro con un amico in scooter, non si ferma all'alt di due poliziotti in via Costa, aggredisce gli agenti a calci e scappa. E si arriva così alla notte di luglio in Corso Como. Molto probabilmente lo stile di Baby Gang è una strategia puramente mediatica: una continua sfida alle regole e alle autorità, anche a costo di pagarne un prezzo con la giustizia, pur di alimentare l'immagine da ribelle che porta fan e follower. "Fa parte del gioco", dice Zaccaria. Solo che stavolta ci sono di mezzo le pistole. 

Luca De Vito per repubblica.it il 7 ottobre 2022.

Sono stati arrestati quattro presunti autori di un tentato omicidio ai danni del rapper Simba La Rue, accoltellato lo scorso 16 giugno nel comune di Treviolo, a Bergamo. Tra questi c'è anche la fidanzata del giovane, Barbara Boscali, 31 anni, in arte "Bibi Santi 91", accusata di aver aiutato i rivali per consentire loro di mettere in atto la vendetta di un altro rapper, Baby Touché, nell'ambito della faida tra i due gruppi di rapper. Lo stesso Simba è stato (nuovamente) arrestato oggi, insieme a Baby Gang e ad altri nove della loro banda, per la rissa con sparatoria avvenuta a luglio in corso Como, nel cuore della movida milanese. 

Faida dei trapper, l'accoltellamento di Simba come 'risposta' al sequestro di Baby Touché

L'accoltellamento era infatti la risposta all'aggressione con rapimento del rapper padovano Baby Touché di inizio giugno: un blitz che era avvenuto anche grazie a una trappola in cui aveva avuto un ruolo un'altra ragazza, Sara Ben Salah. Anche per i fatti che hanno portato al ferimento di Simba in un parcheggio a Treviolo in provincia di Bergamo pochi giorni dopo, un ruolo chiave lo ha avuto una donna. In questo caso a tradire sarebbe stata appunto Boscali, la fidanzata di Simba La Rue. La giovane, attrice hard, avrebbe fornito ai rivali del compagno l'indirizzo in cui abitava, come emerge da una serie di intercettazioni agli atti. 

Simba attirato in trappola, la fidanzata: "Doveva venire solo a umiliarti". E Lui: "Mi hai venduto"

Dopo l'aggressione, è la stessa Boscali a contattare telefonicamente il trapper e a spiegargli di averlo tradito: "Sei un'infame bastarda" è la risposta che arriva dal compagno. Due settimane dopo i due si sentono ancora: "Doveva venire da solo a farti questa cosa - dice la ragazza ricostruendo le sue conversazioni con Samir, uno della banda di Baby Touché - umiliarti avanti perché... aveva paura dei tuoi amici, e da solo sarebbe riuscito a parlarti e al massimo tirarti qualche schiaffo, lui non è neanche venuto, ha mandato i suoi amici". "Ma mi hai venduto o no?", le chiede il trapper. "Ma a me nessuno mi ha pagato", è la risposta. A cui Simba però non crede: "Basta, basta, basta non c'è più da dirmi, l'ho fatto con una persona, l'ho fatto con due, mi hai venduto e basta".

Simba la Rue e le intercettazioni con la fidanzata dopo l'accoltellamento

Durante la conversazione poi la ragazza si accalora. "Quando io ho visto questa cosa - dice Boscali per cercare di giustificare il proprio comportamento - per quello che ho urlato e mi son spaventata perché io, non era lui il tipo, perché doveva venire lui! Non so chi ha mandato, cosa, poi dopo quando io l'ho chiamato ho urlato e gli ho detto "mi hai ammazzato il tipo, ma che cazzo hai fatto!", ho iniziato a fare casino, che lui ha detto che ha mangiato la scheda l'ha buttata e si è messo a piangere pure lui". 

Elementi, questi, raccolti nell'inchiesta milanese che vede protagonista Simba La Rue, il cui telefonino era intercettato. Confluiti nel fascicolo della procura di Bergamo hanno consentito di effettuare gli arresti di oggi, tra cui anche Boscali. Non sono chiari i motivi per cui la giovane avrebbe tradito il fidanzato. Lei stessa, però, in passato aveva denunciato sui social di essere stata picchiata da Simba La Rue.

Luca De Vito per “la Repubblica” l'8 ottobre 2022.  

Due storie sovrapposte e collegate, con protagonisti simili ma intrecci diversi. E che ieri hanno avuto lo stesso finale: ovvero arresti, perquisizioni e l'azzeramento delle due bande di rapper più agitate (e pericolose) della Lombardia. Quelle che fanno riferimento a Baby Gang e Simba La Rue da una parte e Baby Touché dall'altra. Rivali tra loro, violente, con facile disponibilità di armi e pronte a tutto. Anche a sfidare le forze dell'ordine: «Faccio più soldi di voi, il vostro stipendio me lo mangio a pranzo » aveva esternato tempo fa Baby Gang sui social.

La prima di queste storie è ambientata a Milano, in corso Como, fra il 3 e il 4 luglio. È la cronaca di un'alba di follia, in cui la banda di Simba La Rue e Baby Gang affronta due senegalesi in una rissa in cui questi ultimi hanno la peggio, riempiti di botte entrambi dai rapper e uno dei due raggiunto anche da una pistolettata alla gamba. 

Alla base dello scontro, screzi e piccole questioni di soldi probabilmente legate alla droga. Ma più che i rancori ad accendere gli animi è l'alcol. I due senegalesi per primi sparano con una scacciacani, gli altri urlano: «Noi vi ammazziamo» e «guardate che noi siamo la Gang». E cominciano a menare.

«Baby Gang ha tirato fuori il ferro perché anche il tipo ha iniziato a sparare - dice intercettato nell'auto Chakib Mounir detto "Malippa", uno dei giovani coinvolti nella rissa - Mentre Mario lo teneva, lui ha tirato fuori il ferro e ha iniziato a sparare, bam bam!». E si lamenta per il suo comportamento: «Però quando Zaccaria (Baby Gang, ndr ) si ubriaca è un casino. Zaccaria non deve bere proprio. Infatti lui lo sa. Però quando vuole bere è un casino, e non puoi dirgli di no». 

Tutti vengono identificati grazie alle telecamere all'esterno di un Club (undici gli arresti, tra cui due minorenni). Immagini analizzate dagli specialisti della sezione Omicidi della Mobile guidati da Marco Calì in cui si vede il passaggio di una pistola tra Baby Gang e Simba La Rue, tra i più scatenati nell'assalto nonostante le stampelle per il recente accoltellamento alla gamba.

«Sai cosa mi faceva ridere? Speedy (soprannome di Simba La Rue, ndr ) che picchiava il negro con la stampella», dice ancora Malippa. Una faida tra social e armi: nella casa dove si appoggia Baby Gang a Sesto San Giovanni è stata trovata una Beretta calibro 7,65 sotto al cuscino ma anche una decina di riproduzioni di mitra e mitragliette Uzi appese ai muri, usate nei video della gang per accrescere il numero dei follower. 

Ed è lo stesso Simba La Rue il collegamento con un'altra operazione che ieri ha portato ad altri arresti dei carabinieri di Bergamo. Quelle stampelle erano infatti la conseguenza delle coltellate subite in un agguato da parte dei rivali «di Padova », la banda di Baby Touché. Per riannodare il filo della seconda storia, bisogna tornare al parcheggio di Treviolo, Bergamo. È il 16 giugno scorso quando Simba viene accoltellato alla gamba per vendetta per il rapimento del rapper avversario Baby Touché, umiliato con un video sui social (fatti per cui Simba si era fatto un giro in carcere). A tradirlo, Barbara Boscali, la ex, attrice hard, un figlio, in arte "Bibi Santi 91".

Dall'ordinanza che ha portato in carcere quattro persone per tentato omicidio in concorso, tra i quali il fratello di Baby Touché - una è ancora ricercata - emerge il ruolo chiave dell'allora "donna" del rapper. Che ha «venduto» la posizione del suo uomo al gruppo rivale. Così "Babi Santi" ha contattato un certo S. (ancora ricercato), del gruppo di Touché: «Ho tutto quello che può servirti ». Cioè la posizione di Simba "Speedy", quella sera, per la vendetta. Dieci coltellate, 40 giorni di prognosi.

Il 6 agosto è la ragazza stessa che va dai carabinieri e ammette che «volevo vendicarmi per le umiliazioni subite» nella storia con Simba La Rue. «Pensavo lo avrebbero solo bullizzato con un paio di schiaffi», confessa. E invece è stata una spedizione punitiva con i coltelli. «Concorrente morale», nell'agguato. «A Samir (la persona contattata del gruppo rivale, ndr ) dicevo "vediamo se anche con gli uomini fa il figo come fa con me"». E il fratello di Touché il 23 giugno diceva: «Ha fatto quello che ha fatto, noi abbiamo fatto quello che abbiamo fatto, così finisce di rompere il ca...».

Zita Dazzi per “la Repubblica” l'8 ottobre 2022.

Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, lei conosce molto bene due degli arrestati, Baby Gang e Simba. Il primo l'hanno arrestato nella sua comunità ieri all'alba.

«Li conosco entrambi molto bene. In questo momento bisogna solo attendere che vengano accertati i fatti che vengono contestati. Già in passato Zaccaria, (Baby Gang, ndr ) dopo 20 giorni è stato scarcerato perché è risultato non colpevole. Quindi per il momento posso solo esprimere il mio dispiacere, dato che l'arresto interrompe per l'ennesima volta un percorso».

Quale percorso?

«Questi ragazzi vengono da un'infanzia traumatica, che li ha portati a vivere in contesti di fortissimo disagio, di povertà educativa oltre che economica. Zaccaria è stato più volte allontanato dai suoi affetti. A 8 anni era già in comunità. Ne ha girate dieci prima di finire al Beccaria a 15 anni, dove l'ho conosciuto io». 

Lo sta giustificando?

«No, lungi da me l'idea. Aspettiamo che la giustizia faccia il suo lavoro. Ma nella storia di questi due ragazzi l'intervento dello Stato e dei servizi sociali non c'è stato, e se c'è stato non ha sortito gli effetti attesi».

Non sono stati seguiti quando erano piccoli?

«Zaccaria e Mohamed (Simba, ndr ) raccontano la rabbia che è esplosa nelle loro canzoni, c'è il tema spietato della loro infanzia e di tutto quel che secondo loro hanno subito».

 Cioè?

«Andavano a scuola in ciabatte e venivano derisi, si sono sentiti sempre discriminati. Nel confronto con i coetanei a scuola è emersa la differenza sociale. 

E da lì sono arrivate le offese. Questi ricordi in carcere sono sedimentati e hanno prodotto una reazione rabbiosa contro il mondo degli adulti e delle istituzioni, avvertito come mondo che li giudica, li esclude». 

Quale futuro li aspetta?

«Finire in carcere per vecchie denunce rallenterà il loro percorso di cambiamento. Non conosco i capi di imputazione, ma se una rissa diventa motivo di carcerazione a San Vittore, penso che le conseguenze si vedranno per altri anni a seguire. Loro lo vivono come un accanimento delle istituzioni, io continuerò ad accompagnarli nel loro cammino di rinascita, senza aspettarmi cambiamenti improvvisi e redenzioni miracolose».

Milano, faida fra trapper: sparatoria in corso Como, arrestato Baby Gang. Le intercettazioni: «Facciamo fuoco addosso alla gente». Andrea Galli Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022.

Decapitata la banda di Simba la Rue, già agli arresti. Gli attacchi del 19enne a giornalisti e agenti: «Io il vostro stipendio lo mangio a pranzo». Due mesi prima i giudici avevano rigettato la richiesta di sorveglianza speciale 

La sparatoria del 3 luglio in corso Como e, nel riquadro, il trapper Baby Gang, alias Zaccaria Mouhib, 19 anni

«Abbiamo rischiato troppo… Io sono già dentro… Tra un anno e mezzo arriverà tutto, un anno e mezzo, due». E no: era lo scorso 4 luglio quando alcuni «soldati» della gang dei musicisti trapper capeggiata dai noti «Simba la Rue» e «Baby Gang», intercettati senza saperlo parlavano dell’aggressione, il giorno prima, domenica 3 luglio, all’alba, nella zona milanese dei locali di corso Como: due senegalesi gambizzati, da «punire» per antichi presunti torti. Poche ore dopo, per uno scambio di persona, era stato fermato Tiémoué Bakayoko, giocatore del Milan. E adesso siamo qui, «appena» a inizio ottobre, dunque in larghissimo anticipo rispetto alle loro previsioni, a raccontare che le indagini sono terminate, e che quei ragazzi, insieme ad altri, avranno da duellare contro la giustizia. L’operazione all’alba di polizia e carabinieri ha innescato due ordinanze cautelari contro 11 persone, tra cui lo stesso rapper Baby Gang, mentre Simba la Rue era già stato arrestato a fine luglio.

Le due gang decapitate

Lo sfondo è sempre quello: la faida tra le gang, già generatrice di 9 arresti dei carabinieri a fine luglio. E se contiamo l’odierna e contestuale ordinanza di Bergamo contro 5 «soldati» dello schieramento opposto, quello di «Baby Touché», non è sbagliato ipotizzare una consistente decapitazione delle bande. Dopodiché, siccome a volte il tempo qualcosa regala, non possiamo non iniziare da due storie personali. Le storie proprio di loro due: «Simba la Rue» e «Baby Gang». Amati, venerati, omaggiati dal popolo dei social che segue, esulta, imita. Contro le regole, contro il sistema, contro gli adulti. Contro tutti e nessuno.

Le stampelle come armi

Ebbene, di «Simba la Rue» s’era sinceramente trascorsa mezza estate a resocontare le gravi condizioni di salute, conseguenza dell’accoltellamento subìto in provincia di Bergamo il 16 giugno del quale la locale Procura parrebbe intenzionata a diradare le informazioni degli avvenuti arresti. Al solito, se ne ignora il motivo. Proseguiamo. Un perito aveva giudicato il quadro clinico di «Simba la Rue», al secolo Mohamed Lamine Saida, nato in Tunisia 20 anni fa e residente nel Lecchese, non idoneo al regime detentivo. Del resto a lui, infine operato, era stato suturato e ricollegato il nervo femorale tranciato da quella lama in due monconi. Eppure, tutto ciò premesso, lo stesso Saida che protestava contro la permanenza in cella, dov’era e che cosa faceva quel 3 luglio? Ma ovviamente stava lì, in corso Como, munito anzi armato di stampelle, per reggersi in piedi, poveretto, stampelle che invece sferrava come armi contro i due senegalesi. E ancora, poi trasferito dal carcere a una comunità nonostante il gip Guido Salvini avesse manifestato i propri dubbi sull’ipotesi paventando il rischio di una convivenza con membri del sodalizio, fin da subito Saida entrava, giustappunto, in contatto proprio con affiliati, vedeva, incontrava, telefonava, brigava, insomma superando, si legge in un dirimente e forse definitivo passaggio dell’ordinanza del gip, «anche le più pessimistiche previsioni». Può bastare, in attesa certo della versione del diretto interessato e della difesa del suo avvocato. Passiamo all’altro.

«Cambio vita»

Evitando la scontata riflessione sul nomen omen, discutendo di «Baby Gang», cioè Zaccaria Mouhib, 19enne con abitazione a Sondrio, spiccano annunci come il seguente, sventolati sui benedetti/maledetti social, strumento per i trapper di arruolamento dei discepoli: «Giornalisti pezzi di merda, sbirri infami, polizia associazione mafiosa, faccio più soldi di voi, il vostro stipendio lo mangio a pranzo». Di Mouhib, cui la squadra del questore Giuseppe Petronzi ha dedicato un ampio e strutturato lavoro non investendo unicamente sulla mera attività di contrasto ma ragionando d’insieme, dentro la realtà, non si può non menzionare la precoce carriera criminale, il vano pellegrinaggio, lui pure, per comunità, le risse, i furti, le lesioni personali, le istigazioni a delinquere, la diffamazione, e via elencando – l’elenco è davvero disgraziatamente corposo –; parimenti, a fronte di una «grave, attuale e concreta pericolosità sociale», non si può non menzionare la precedente decisione del Tribunale di rigettare la proposta di una sorveglianza speciale contando sulle garanzie di «Baby Gang» di, testuale, «aver cambiato vita e non avere più necessità di delinquere». Infatti. Per la cronaca, seppur sembri un desolante passaggio scontato, la decisione dei giudici, i quali avevano bocciato l’obbligo di soggiorno a Sondrio, era antecedente (di 60 giorni) l’agguato di corso Como. In linea non unicamente teorica forse l’offensiva poteva essere evitata, avendo comunque avuto «Baby Gang» un ruolo centrale.

Le certosine indagini

«Non fu rissa banale ed estemporanea ma un episodio di grave violenza e sopraffazione, originato da una logica di banda e da una volontà di controllo del territorio». Così il gip Salvini per inquadrare l’episodio del 3 luglio, che aveva avuto, in prima battuta, la caccia delle «volanti» della polizia, impegnate nella ricostruzione dei fatti, e poi affiancate negli sviluppi dalle ricognizioni della squadra Mobile, e insieme il proseguo delle indagini della Compagnia Duomo dei carabinieri già sul pezzo, in quanto concentrati su due pregressi avvenimenti: un altro pestaggio, nella zona di Porta Venezia, condotto dal gruppo di Saida, e il rapimento del rivale «Baby Touché». Fatto salvo che i carabinieri di Milano del generale Iacopo Mannucci Benincasa, sul complesso tema delle gang giovanili hanno già prodotto un’articolata e avanguardistica mappa milanese, unendo incursioni di analisi sociale alla mera arte d’investigare, i due percorsi di ricerca sono confluiti nella collocazione sulla scena del crimine di ogni personaggio. Volti, nomi, ruoli di chi, quella notte di luglio, quando erano le 5.20, stava in corso Como. Fatti seguiti, i giorni successivi, dalle parole. Sempre intercettate. Eccone alcune. «Noi non spariamo in aria, è quella la verità! I nostri ragazzi, se sparano, sparano addosso alla gente… Baby c’aveva il ferro in mano…». «Se parla troppo, scassalo!». «Gli ho tirato troppe ginocchiate, mi sa… Guarda il suo sangue! Mi fa piacere… Tantissimo mi fa piacere».

La fratellanza

A sociologi e quanti altri le ricche e intense analisi sulla catena di violenze, sui singoli comportamenti, su questa fratellanza di sangue, sulle responsabilità dei genitori e degli educatori, sulle banalizzazioni mediatiche, su certi anacronistici annunci che non tengono conto dei cammini individuali, senza che questi fungano s’intende da giustificazione, sul demandare alle forze dell’ordine e alle comunità, ma sì, se la sbrighino loro e amen. Però, unitamente alle indagini, rimangono i messaggi da esse diffusi: risulta un peccato capitale battezzare la faida quale conseguenza di affari tra delinquenti «periferici» che, in sostanza, non ci riguardano. Fissarsi infatti sulle terre di nascita di alcuni dei ragazzi, sovente ventenni, è una scappatoia per non percorrere il loro successivo cammino, col grosso dell’esistenza trascorsa in Italia. E non a Milano, bensì nella ormai ex serena e illesa provincia padana, in comunità dove amministratori e cittadini si bullano di non avere grossi sostanziali problemi di criminalità. Certe dinamiche di questi ragazzi, aveva da subito ammonito il gip, rimandano alle azioni delle banlieue francesi: la professione della violenza come appartenenza al gruppo, la connivenza, la reciproca protezione, i silenzi, il culto dei capi, la facilità – spaventosa facilità – con la quale un incensurato si rovina la vita partecipando a un agguato e quasi uccidendo un coetaneo.

Gli altri arrestati

Fra i destinatari delle ordinanze, anche Paulo Marilson Da Silva, principale manager di «Baby Gang», figura apicale per le pubbliche relazioni; Eliado Tuci detto «Lupo», altro servitore di Mouhib; Andrea Rusta, uno che segue come un ultrà o un adolescente innamorato d’un calciatore sia «Simba la Rue» sia «Baby Gang». Di questo Rusta, le intercettazioni riportano l’inesauribile goduria nel ricordare l’accanimento contro i due senegalesi ricordando, com’è prevedibile, che i balordi aveva approfittato di una considerevole sproporzione numerica; da branco; erano sicuri che avrebbero avuto la meglio rischiando zero. Facile, no?

Andrea Galli per corriere.it l'8 ottobre 2022.  

In una precedente occasione, d’estate, colloquiando con il questore di Milano Giuseppe Petronzi, era emerso il tema dell’assenza di inneschi ideologici, di richiami politici nei presunti «manifesti» dei trapper. 

E del resto, scorrendo la breve — ha soltanto 21 anni — e intensa esistenza di Zaccaria Mouhib alias «Baby Gang», esploriamo canali di violenza e rabbia, di insulti, di nemici «banali» da individuare — dai «giornalisti pezzi di m…» alla «polizia associazione mafiosa» —, con poche e poco fantasiose variazioni («Sbirri infami»).

E insieme esploriamo una catena di azioni che un esperto potrebbe inquadrare nella casistica dei disturbi della condotta: atteggiamenti fin da ragazzino di prepotenza e minacce, danni fisici, la «volontà» di affrontare direttamente la vittima, faccia a faccia; insomma manifestazioni precoci rispetto alle quali, col trascorrere del tempo, risulta difficile recuperare. 

Di suo, «Baby Gang», figura apicale (anche) in quest’ultima inchiesta centrata sulla gambizzazione, lo scorso 3 luglio nella zona di corso Como, di due senegalesi autori di presunti torti contro la banda del musicista trapper, ha spesso lamentato la situazione di «bersaglio», per esempio spiegando, nei canali social, che «da quando sono piccolo, di ogni cosa che succede intorno a me la colpa è sempre mia». 

Del 25 maggio 2013, a 11 anni, il primo incontro con le forze dell’ordine: «Imbrattava con una bomboletta spray il muro di un’abitazione».

Del 2014 il furto di un cellulare; del 2016 lo spaccio di droga e l’aggressione — le mani strette intorno al collo — di un commerciante cui aveva rubato una maglietta; del 2017 l’irruzione in un centro sportivo per arraffare negli spogliatoi magliette e palloni, mentre nel 2021 aveva capeggiato la marcia di trenta coetanei verso la discoteca «Old Fashion» sostenendo che lì avessero impedito a un suo amico di entrare; ne seguivano lanci di pietre contro il personale di sicurezza e la caccia indiscriminata a clienti del locale per picchiarli.

Una catena densa e inquietante, culminata nell’agguato del 3 luglio, che pare segnerà quantomeno una pausa nella degenerazione di «Baby Gang»; degenerazione che però, forse non soltanto in linea teorica, magari poteva essere evitata. Due mesi prima di quell’episodio, il Tribunale di Milano aveva rigettato la proposta della polizia di una sorveglianza speciale, in base alla quale il ragazzo non avrebbe potuto uscire da Sondrio, la città di residenza.

I giudici avevano sottolineato le dichiarazioni di «Baby Gang» di aver «cambiato vita non avendo più la necessità di delinquere», e avevano riportato la relazione della comunità che lo aveva ospitato: «Si trova in bilico tra intenti contrapposti e non ha ancora trovato un punto di equilibrio tra la personalità di rapper antisistema, con cui si è affermato a un livello artistico, e la necessità di rispetto, sul piano personale, del precetti del vivere civile». 

Per l’intera giornata di ieri, un numero sproporzionato di adolescenti ha commentato, beninteso sui social network, la caduta di «Baby Gang». Ammesso che venga considerata una caduta e non, come al contrario accade, una medaglia. Nel nome, nel segno, di lui, solo lui, idolo e capo, e dei suoi «post», come quello rivolto a una pattuglia di carabinieri: «Ecco a voi ragazzi, cioè io devo svegliarmi e trovarmi ste facce di m… qui sotto casa mia… Fuck you».

In questa faida esplorata negli ultimi mesi dagli investigatori, si è evidenziata la contrapposizione tra quelli di «Baby Gang», e del socio, l’altro musicista trapper «Simba la Rue», che nonostante fosse in stampelle a causa di un precedente accoltellamento inferto dai rivali di «Baby Touché» — ed ecco la seconda formazione che completa lo schieramento — era lì, alle 5.20 del 3 luglio. 

Pronto a inseguire e utilizzare quelle stampelle come armi. Laddove a sintesi delle precedenti indagini di luglio il gip Guido Salvini aveva sottolineato le analogie con dinamiche da banlieue francesi, adesso il giudice ha rimarcato, scrivendo a proposito degli indagati, la «totale astrazione dalla realtà in cui agiscono, con l’ego totalmente incluso in quello della banda che impedisce anche solo di percepire il disvalore e il peso delle azioni criminose, con un grave rischio imitativo nei confronti di altri soggetti molti giovani».

Quando l’hanno fermato in strada, «Baby Gang» indossava unicamente abiti Gucci; nel preparare la borsa per la prigione, ha tenuto a cambiarsi per mettere una tuta del Milan, nel mentre manifestando un atteggiamento di fastidio per il disturbo che i carabinieri gli stavano arrecando. Sbuffi, sbuffi, sbuffi. Una colossale noia. 

Bibi Santi, chi è la pornostar che ha fatto da esca per l’agguato al suo fidanzato Simba La Rue. Andrea Galli su Il Corriere della Sera l'8 Ottobre 2022.

La ragazza avrebbe aiutato i rivali ad aggredire il suo fidanzato. Il movente: si era filmata sui social con i lividi che «Simba» le aveva lasciato sul volto. E poi con l’emoticon triste e il simbolino dell’ospedale aveva aggiunto una sorta di invito: «Giocate a fare i gang star tra di voi, le donne lasciatele fuori» 

Barbara Boscali, in arte Bibi Santi 91, in una foto su Facebook

Un mese fa. Il 9 settembre. Per due volte «Simba la Rue», violando le disposizioni del gip, s’era messo al telefono. Voleva farlo, continuava a farlo, doveva farlo, grazie al cellulare prestatogli da una suora, impiegata nella comunità di recupero in cui il 20enne era finito su decisione dei giudici del Riesame per l’incompatibilità del suo quadro clinico con la prigione. «Simba la Rue», che si chiama Mohamed Lamine Saida, è nato a Tunisi e ha residenza in provincia di Como, aveva necessità di parlare con Barbara Boscali, 31 anni, appartamento a Treviolo, 10 mila abitanti in provincia di Bergamo. Era la sua fidanzata. Era perché la donna, di professione artista hard con il nome d’arte di «Bibi Santi 91», lo ha tradito. L’ha consegnato ai rivali della banda di «Baby Touché»; e ha rischiato di farlo uccidere. Questioni di uno spazio infinitesimale, e una delle dieci coltellate gli avrebbe provocato ferite letali.

I fendenti nella notte

Saida aveva già dei dubbi su Barbara, fra le 4 persone arrestate nell’indagine (non conclusa) di Bergamo per ricostruire le responsabilità dell’aggressione. Già da subito, dinanzi agli investigatori, aveva recitato la sua parte. Choc, disperazione in conseguenza di un «agguato improvviso»: lei e «Simba la Rue» stavano sulla macchina di quest’ultimo, una Mercedes nera; avevano trascorso la serata proprio su insistenza di Boscali, della quale si dice sia stata legata sentimentalmente ad altri «soldati» delle gang; Saida guidava verso l’abitazione della fidanzata, che intanto aveva fornito agli aggressori in attesa l’esatta collocazione degli spostamenti. Dopo quella telefonata con il cellulare della suora, la donna aveva chiamato la medesima religiosa la quale, a sua volta, aveva fornito ampie garanzie sul fatto che i due si sarebbero ancora potuti sentire. Avrebbe fatto da tramite.

«Io ti compro tutto»

Ora, nella complessa gestione del fenomeno, che rimanda alle dinamiche delle banlieue francesi, e sollecita plurime domande riguardo al ruolo dei social network che riflettono, senza spesso ricevere nessun accenno critico, il divismo di ragazzini contro le regole — ogni regola — fin dalle elementari, il questore Giuseppe Petronzi e il generale dei carabinieri Iacopo Mannucci Benincasa hanno avviato percorsi sì di sofisticata investigazione ma insieme di vera comprensione della realtà. Delle dinamiche. Degli spazi nei quali si muovono i trapper. Dei contesti geografici (sempre più paesi della provincia). Delle possibilità per colpire ma anche gestire in prevenzione. E va da sé che le comunità, al netto dello sforzo in solitaria per offrire alternative alla galera, sono una voce — e parimenti lo sono le pur parziali misure in possesso della magistratura — dell’articolato scenario. Che interseca anime perse, bugie, pose da diabolici giocatori di poker, abissi umani che s’incrociano senza che quell’incontro divenga un salvifico abbraccio di naufraghi. Tra le telefonate intercettate Saida-Boscali, eccone una. Risale al 10 luglio. Già era rivelatrice. Saida: «Mi sono rotto il c… delle tue tarantelle». Boscali: «Vieni qua, ti prego». «Mi chiami e dici che ti stai drogando, che ti stai facendo...». «Tu Simba vedi tutto negativo». «Io ti compro tutte le cose...». «Senti, quel figlio di p… voleva umiliarti, aveva paura a venire da solo e ha mandato gli amici…». Saida: «Ma mi hai venduto o no?». Boscali: «A me nessuno mi ha pagato».

La vita da fuorilegge di Baby Gang: simulacri di armi appesi alle pareti, risse, droga e insulti alla polizia. Estratto dell'articolo di Alice Castagneri per lastampa.it  l'8 ottobre 2022.

[...] Spaccio, rissa, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, istigazioni a delinquere, diffamazione. Una fedina penale, che negli anni, diventa sempre più sporca.  Nell’aprile del 2021 si ritrova coinvolto in una guerriglia con le forze dell’ordine per un video girato in strada a San Siro insieme al rapper Neima Ezza. Nessuno ha i permessi per le riprese e gli assembramenti in quel periodo sono vietati, ma infrangere le regole e sfidare il sistema per Zaccaria non è certo un problema.

Centinaia di ragazzi si radunano nelle strade dopo il tam tam sui social, e a quale punto i tafferugli sono inevitabili. A gennaio finisce di nuovo in manette – stavolta a San Vittore – con l’accusa di aver fermato e intimidito dei ragazzi alle Colonne di San Lorenzo per farsi consegnare soldi, gioielli e cellulari. Esce dopo neanche un mese e il giorno dopo fa esplodere fuochi d'artificio davanti al carcere. Poco dopo esce un nuovo brano: Paranoia. Il videoclip contiene immagini girate con un telefonino fatto entrare di nascosto in carcere. E anche per questo Baby Gang viene indagato. 

I social sono il mezzo con cui diffonde la violenza. Gli insulti contro la polizia sono all’ordine del giorno. Soprattutto quelli contro gli agenti: «Giornalisti pezzi di merda, sbirri infami, polizia associazione mafiosa, faccio più soldi di voi, il vostro stipendio me lo mangio a pranzo». Anche i giornalisti finiscono spesso nel suo mirino: «Allora sentite, grandissime teste di c…, è da un bel po’ che vi sto facendo parlare a tutti senza dire nulla, ma adesso mi state veramente rompendo il c…, è da quando sono piccolo che ogni cosa che succede intorno a me la colpa è sempre di Baby Gang…».

Quando è stato fermato per strada dai carabinieri, nelle prime ore di venerdì, era vestito Gucci da testa a piedi. Durante l'indagine per la rissa con sparatoria avvenuta in corso Como a Milano, la notte tra il 2 e il 3 luglio scorsi, gli viene sequestrata una pistola Beretta 7,65, che era nascosta nella casa di Sesto San Giovanni. L’arma è intestata a una società riconducibile alla madre dell'artista e utilizzata dalla sua gang come base. Nella casa, da tempo monitorata dai carabinieri, gli investigatori trovano anche simulacri di armi e di mitra appesi alle pareti, utilizzati nei video musicali. La Beretta sequestrata, di cui Baby Gang ha riconosciuto di essere il proprietario (è stato infatti arrestato anche per detenzione di arma comune da sparo, reato contestato solo a lui), ha una matricola non censita, quindi potrebbe essere di provenienza illecita o estera. 

Da lastampa.it l'8 ottobre 2022.

Non poteva rimanere senza conseguenze, nella logica dei trapper, il rapimento, con tanto di umiliazione sul web di Baby Touché, cantante padovano. E così il 16 giugno, a Treviolo (Bergamo), finì accoltellato seriamente Simba la Rue, trapper violento - tant'è vero che è stato nuovamente arrestato per una sparatoria a Milano -, ritenuto l'ispiratore del sequestro. 

Dopo un’estate di furti, rapimenti, aggressioni e sparatorie, quello che hanno scoperto i carabinieri di Bergamo, che hanno arrestato quattro persone per tentato omicidio, è che è stata la sua fidanzata, Barbara Boscali, 31 enne bergamasca con un profilo su onlyfans, ad attirarlo nella trappola quella sera. 

«Volevo solo che anche Simba venisse umiliato un po' visto che mi continuava ad umiliare, ma non avrei mai pensato che lo avrebbero accoltellato», ha raccontato la donna davanti ai carabinieri di Bergamo, allora come testimone e oggi arrestata con gli altri tre. Dalle intercettazioni risulta che aveva attirato Simba nella trappola perché stanca delle violenze fisiche ma anche che l'aggressione fu una «vendetta» per il rapimento di Touché.

Il fratello del sequestrato, ora anche lui in carcere, al telefono diceva: «Ha fatto quello che ha fatto, noi abbiamo fatto quello che abbiamo fatto, così finisce di rompere il ca...». Arrestato un altro del gruppo del trapper padovano, un suo collega milanese di 24 anni, Baby Gang, e un altro ancora: un marocchino 30enne che si trova da qualche tempo nel centro di detenzione della polizia di Vordernberg. 

Il mandante, però, potrebbe non essere la sola fidanzata di Simba tanto che sul web era stata postata una rivendicazione di un'altra persona. I militari avevano cominciato a indagare sulle immagini delle due auto a bordo delle quali se n'era andato il commando dopo aver lasciato Simba con delle gravi ferite, soprattutto alle gambe, tanto da dover essere operato per svariate ore.

Dopo aver individuato il gruppo, però, c'era stata la confessione "in diretta” della fidanzata del trapper, al telefono con lui: «Doveva venire da solo a farti questa cosa, umiliarti...», dice la giovane e La Rue risponde: «Mi hai venduto e basta». La Boscali pensava a qualche schiaffo e lascia intendere che l'altro ideatore della spedizione punitiva non faceva parte del gruppo: «Non so chi ha mandato, cosa, poi dopo quando io l'ho chiamato ho urlato e gli ho detto: “Mi hai ammazzato il tipo, ma che cazzo hai fatto!”». E Simba: «Che fine di merda, che fine di merda ho fatto!».

"Attirato in trappola". Chi è l'attrice hard che ha "tradito" Simba la Rue. L'attrice a luci rosse, nota come "Bibi Santi 91", secondo l'accusa avrebbe tradito il fidanzato Simba la Rue fornendo informazioni ai suoi aggressori. Il motivo? Forse una vendetta. Marco Leardi il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La sera dell'agguato era appartata in auto con il suo fidanzato Simba la Rue. Era lì accanto a lui, prima che il rapper venisse accoltellato dai componenti di una banda vicina al suo rivale Baby Touché. Nell'ambito delle odierne operazioni eseguite dai carabinieri, Barbara Boscali è stata arrestata assieme ad altre tre persone con l'accusa di concorso in tentato omicidio in qualità "mandante" dell'aggressione avvenuta a Treviolo (Bergamo) lo scorso 16 giugno. La 31enne, attrice hard nota come "Bibi Santi 91", avrebbe infatti tradito il proprio compagno fornendo ai rivali le informazioni a loro utili per far scattare la vendetta.

Chi è Barbara Boscali, fidanzata di Simba la Rue

Oltre a mostrare se stessa, anche in versione "senza censure" sul proprio profilo di OnlyFans, sui social la ragazza aveva raccontato i dettagli della sua travagliata relazione con Simba la Rue. Sempre in rete, "Bibi Santi 91" aveva in passato accusato il fidanzato di averla picchiata. Secondo gli inquirenti, anche quell'episodio potrebbe aver innescato intenzioni di vendetta da parte della 31enne.

"Bibi Santi 91", secondo l'accusa, avrebbe quindi attirato Mohamed Lamine Saida, alias Simba la Rue, in una sorta di "trappola". All'improvviso, mentre i due si trovavano in un parcheggio in via Aldo Moro, il blitz punitivo contro il rapper, compiuto - secondo quanto ricostruito - da sette persone datesi poi alla fuga. In quel violento scontro Barbara Boscali non aveva riportato alcun graffio e già questo elemento aveva insospettito gli inquirenti. Stando a quanto riferiscono alcune fonti, la giovane attrice a luci rosse avrebbe poi fornito un racconto vago alle forze dell'ordine, soprattutto in merito a quell'accoltellamento avvenuto davanti ai suoi occhi. I carabinieri si erano poi domandati come mai l'agguato fosse avvenuto proprio vicino all'abitazione della ragazza, in quel paesino della bergamasca e non nella zona milanese solitamente frequentata dal trapper.

Le intercettazioni dell'attrice hard

Secondo quanto ricostruito dai militari "Bibi Santi 91" avrebbe fatto il doppio gioco, consentendo agli esecutori materiali dell'agguato di mettere in atto il loro regolamento di conti. L'accoltellamento, infatti, sarebbe stato una vendetta presunto sequestro del trapper rivale, Baby Touché, circostanza che Simba La Rue aveva negato nell'interrogatorio di garanzia, sostenendo che il "collega" fosse entrato in auto spontaneamente. "Soffro nel pensare di aver tradito in questo modo la persona che amo, capisci?", avrebbe affermato Barbara Boscali in una delle intercettazioni acquisite dalle forze dell'ordine. "Io volevo dirti questa cosa, che quel figlio di p... che sai chi è, mi ha detto che veniva da solo a parlarti e ti avrebbe umiliato", aveva aggiunto. "Ma mi hai venduto o no?", le aveva chiesto a quel punto il trapper fidanzato. E lei: "Ma a me nessuno mi ha pagato...". Parole alle quali il musicista però non crede.

L'inchiesta e gli arresti

Elementi finiti poi nell'inchiesta milanese che vede protagonista Simba La Rue, il cui telefonino era intercettato. I dettagli emersi sono poi confluiti nel fascicolo della procura di Bergamo hanno consentito di effettuare gli arresti di oggi, tra i quali - per l'appunto - anche quello della Boscali.

Maddalena Berbenni per corriere.it il 12 novembre 2022.

La camicina bianca sotto il blazer nero, i jeans attillati, la tracolla di Luis Vuitton, Mcqueen ai piedi, occhialoni scuri. È Bibi Santi versione Procura. Con la madre al fianco e l’avvocato Benedetto Maria Bonomo ad assisterla, Barbara Boscali, 33 anni, si è fatta interrogare ieri mattina dal pm Emma Vittorio e dai carabinieri della sezione operativa della compagnia di Bergamo.  

Hanno condotto loro l’indagine sul capitolo bergamasco della faida fra bande di trapper, con al centro il tentato omicidio del protagonista indiscusso Mohamed Lamine Said, l’italo-tunisino Simba La Rue, 20 anni, della provincia di Como, ai tempi fidanzato di Boscali.

È crollato nel parcheggio sotto casa della ragazza, a Treviolo, il 16 giugno, per le coltellate inferte da chi voleva vendicare il sequestro del leader rivale, il padovano Baby Touché. Boscali, 33 anni, un figlio, una vita all’insegna della trasgressione, ha sostanzialmente confermato la versione dell’interrogatorio di garanzia e prima ancora di quello in caserma a indagine in corso.  

Ammette cioè di avere preso contatti con il gruppo dei padovani per vendicarsi di Simba che la maltrattava. Voleva umiliarlo, fargliela pagare. Ma è tornata a ribadire che nessuno con lei aveva mai parlato di coltelli, non immaginava conseguenze così gravi.

L’avvocato Bonomo parla di «atteggiamento collaborativo» e per ora non accenna a nuove richieste di misure meno restrittive. Dopo un breve periodo in carcere, Boscali è ai domiciliari senza la possibilità, lei che pubblicava tutto sui social, lividi compresi, di utilizzare il telefonino.  

Proprio sui social aveva ricevuto minacce da parte di entrambe le fazioni e per questo i carabinieri hanno organizzato servizi di pattugliamento sotto casa sua. Anche gli altri quattro arrestati saranno convocati, a parte, per il momento, colui che avrebbe pugnalato il trapper, il marocchino trentenne Youness Foudad, bloccato in Austria.  

Il milanese Francesco Menghetti, 24 anni, in carcere a Bergamo, ha già parlato, ammettendo di avere alzato le mani contro Simba. Sostiene, però, di non aver saputo che Foudad avesse un coltello. Moaad Amagour, 24 anni, fratello di Baby Touchè, e Samir Benskar, 19, preso di ritorno da Ibiza, entrambi padovani, saranno ascoltati prossimamente.

Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.

Non è solo scena. Non sono solo pose da gangster. Sono risse, coltellate vere, rapine, reati gravi, minacce e frasi razziste. Fatti autentici come i guai in cui finiscono tanti giovani trapper nostrani, anche se forse l'unico motore che li spinge, molto spesso, è l'effimera ricerca di notorietà. Far parlare di sé. Ma appunto non per dischi, tracce, rime, produzioni, che non sembrano dare loro le soddisfazioni sperate. Bensì per azioni scellerate da pubblicare, puntando sulla sete insaziabile del popolo social.

Le ultime cronache arrivano dalla Sardegna, dove il romano Elia Di Genova, noto nella scena capitolina come Elia 17 Baby (già arrestato per droga) è accusato di tentato omicidio per una coltellata inferta a un 34enne che rischia la paralisi. E dalla Brianza, dove due 25enni, il trapper monzese Jordan Jeffrey Baby (Jordan Tinti) e il romano Gianmarco Fagà, alias Traffik (entrambi con una serie di denunce e processi alle spalle) sono stati arrestati perché avrebbero rapinato un immigrato africano al grido di «ti ammazziamo perché sei nero» alla stazione dei treni: il tutto documentato da un video finito su Youtube.

Ma questa è anche l'estate della rivalità tra le bande al seguito di Simba La Rue e Baby Touché, che per ora è sfociata in nove arresti (tra cui Simba e alcuni suoi seguaci) con accuse di sequestro di persona. 

A Porto Rotondo I fatti che coinvolgono Di Genova avvengono a Porto Rotondo, e nascono da una lite fra due gruppi di giovani che si erano radunati sulla spiaggia di Marinella fra sabato e domenica, dopo una serata a vagare nelle discoteche della costa. Di Genova, che si trovava in vacanza in Costa Smeralda da una settimana, e altri tre romani sarebbero stati rimproverati da un giovane sassarese di 34 anni, e da un suo amico, perché importunavano alcuni clienti da poco usciti da un vicino locale. Spintoni, pugni e calci.

Sembra finita lì ma pochi minuti dopo la zuffa riprende. Qualcuno tira fuori un coltello e il sassarese, colpito alla schiena in un punto molto delicato, si accascia. Di Genova viene arrestato, mentre gli amici sono stati denunciati per lesioni e rissa.

Per avere notizie di Jeffrey Baby e Traffik bisogna spostarsi nel sottopassaggio della stazione di Carnate, in provincia di Monza. L'accusa è di aver preso di mira un nigeriano 41enne, in pieno pomeriggio, mentre percorreva il sottopassaggio spingendo la propria bici. I due, a torso nudo con una maglia sulle spalle, si sarebbero impossessati della bici e dello zaino che portava in spalla minacciandolo con insulti razzisti. La vittima, una volta a distanza, ha fotografato con il cellulare i due giovani, che sono saliti sul treno per Monza.

Poco prima li aveva invitati a restituirgli le sue cose, ma i due trapper, per tutta risposta, avevano buttato la refurtiva sui binari, filmandosi durante questa azione (il video è stato pubblicato in una «storia» sui profili social di Traffik). Grazie alla descrizione della vittima e alle foto scattate con il telefonino, i carabinieri della compagnia di Vimercate li hanno identificati e portati in carcere, in virtù di un fermo del pm Flaminio Forieri.

I profili Jordan Tinti fa parte della generazione cresciuta sotto il nome di Gang 20900, come il codice postale di Monza, o di Sacra Corona Ferrea. Il 25enne non è nuovo ai guai giudiziari. Nel 2021 la procura di aveva chiuso nei suoi confronti le indagini per il reato di istigazione a delinquere contro il personaggio tv di «Striscia la Notizia» Vittorio Brumotti, al quale era stato augurato un «bagno d'acido» dopo un'incursione di quest' ultimo alla stazione di Monza per documentare le attività di spaccio.

Sempre Jordan Tinti, a dicembre 2019, si era distinto per aver vandalizzato un'auto dei carabinieri davanti al comando provinciale di Napoli. Il romano Traffik è si è distinto per molti guai giudiziari, ed esperienze in carcere. È stato accusato di razzismo da altri rapper per l'uso indiscriminato dell'espressione «negro» nel testo di un brano. 

Nel 2021, è stato condannato a tre anni e due mesi in primo grado dal tribunale di Novara con l'accusa di maltrattamenti verso la sua ex fidanzata (una influencer piemontese), violazione di domicilio e resistenza a pubblico ufficiale. Il giovane aveva affittato un'auto con conducente per farsi portare nel novarese dalla sua ex, che era in ospedale, ma era finito in caserma, tra insulti ai militari e un tentativo di entrare in casa della giovane, che al processo aveva riferito di minacce di morte.

(ANSA il 16 agosto 2022) - Un trapper romano di 26 anni, Elia Di Genova, conosciuto come "Elia 17 Baby", è stato fermato dai carabinieri della compagnia di Olbia per la rissa con accoltellamento avvenuta nella notte tra sabato e domenica nella spiaggia di Marinella. Il giovane è accusato di tentato omicidio. In ospedale a Sassari è finito un 35enne di Sassari ferito alla schiena con un fendente: rischia la paralisi.

Il noto trapper, che annovera migliaia di follower, è stato identificato, a quanto pare, grazie alle testimonianze raccolte dai militari dell'Arma che hanno ricostruito tutta la vicenda. I legali che rappresentano il trapper, Pietro e Gian Maria Nicotera di Roma, hanno sentito il loro assistito al telefono e attendono l'udienza di convalida del fermo per conoscere i dettagli della vicenda. Il giovane trapper era assurto agli onori della cronaca già nel 2021 quando era stato arrestato per spaccio ed era finito nei guai per una rissa con alcuni turisti a Villa Borghese.

(ANSA il 16 agosto 2022) - Due trapper molto noti, Jordan e Traffik, sono stati arrestati dai militari della stazione di Bernareggio (Monza e Brianza) per aver rapinato un operaio 41enne nigeriano della sua bicicletta e dello zaino, armati di coltello e al grido di "vogliamo ammazzarti perché sei nero" alla stazione di Carnate. Jordan, brianzolo di 25 anni è noto alla cronaca nazionale per la sua insofferenza nei confronti delle forze dell'ordine e noti personaggi televisivi. L'altro, Traffik, 26enne romano, è gravato da precedenti per rapina e altro. Sono stati arrestati per rapina aggravata dall'uso di armi e dalla discriminazione razziale. 

Dicono che sono trapper, ma sono criminali: da Traffic a Simba La Rue, un'estate di attentati, intimidazioni e arresti

Spingendo con forza sui social network e su YouTube per ottenere follower, ma non il successo radiofonico o del tour.

Francis Aliu Yaogeh aggredito dai trapper Traffik e Jordan Jeffrey Baby: «Mi inseguivano con i coltelli, li ho fotografati». Federico Berni su Il Corriere della Sera il 17 agosto 2022.

«Sei nero, ti ammazziamo». Le minacce risuonano ancora forti nella testa di Francis Aliu Yaogeh, nigeriano 41enne, vittima di rapina da parte di due 25enni dediti alla musica trap (una sorta di sottogenere dell’hip-hop), ma che trovano maggiore notorietà attraverso reati di vario genere.

L’immigrato ha famiglia e lavora regolarmente in una azienda di Lesmo, nel monzese, che produce tendaggi. «Sono qui in Italia per lavorare» sottolinea. Sabato si trovava alla stazione ferroviaria di Carnate, altro piccolo centro brianzolo, quando, nel sottopassaggio pedonale, ha incrociato i due malintenzionati, successivamente identificati in Jordan Tinti (Jordan Jeffrey Baby), residente nel vicino comune di Bernareggio, e Gianmarco Fagà, romano con una discreta notorietà sotto il nome di Traffik.

Yaogeh ha avuto paura, ma anche la prontezza di immortalare i due rapinatori, che gli hanno portato via bicicletta e zaino, scattando loro due foto con il cellulare, prima che se ne andassero, successivamente consegnate ai carabinieri della compagnia di Vimercate, comandati dal maggiore Mario Amengoni. «Ho visto due ragazzi senza maglietta venirmi incontro — ha raccontato il cittadino nigeriano — stavano scendendo dalle scalinate del binario 1. Uno alto un metro e novanta circa, l’altro di poco più basso. Tutti e due avevano molti tatuaggi sul volto e sul corpo. Uno aveva il numero 23 tatuato».

Il fatto avviene nel sottopassaggio pedonale della stazione, alle quattro e mezza del pomeriggio, pieno giorno: «Quando mi hanno visto hanno iniziato a urlarmi contro dicendomi “parla con me...parla con me”. Io gli ho risposto chiedendo perché avrei dovuto parlare con loro». Ma non c’è stata risposta: «All’improvviso hanno tirato fuori dai pantaloni un coltello, e mi hanno minacciato di morte perché avevo la pelle nera. Mi hanno detto... vogliamo ammazzarti perché hai la pelle nera».

Circostanza che lo ha turbato molto: «Ce l’avevano con me per il colore della pelle», assicura Francis Aliu Yaogeh. «Mentre urlavano si avvicinavano tenendo in mano i coltelli come fossero dei pugnali. Mi sono spaventato, ho lasciato la mia bicicletta e lo zaino che era nel cestino del manubrio e sono scappato correndo». La vittima esce dal sottopasso pedonale: «I due ragazzi hanno cominciato a seguirmi con il coltello in mano dicendo ancora di fermarmi perché volevano ammazzarmi. Continuavano a dirmi che ero nero. Io ho continuato a correre fino a quando li ho visti fermarsi. Hanno preso le mie cose e mi sono avvicinato a loro. Erano sul binario 2».

Tenendosi a distanza, Francis chiede loro («Li ho pregati» specifica in realtà agli inquirenti) di ridargli la bici e lo zaino. «Mi hanno risposto di no e hanno preso la bici e lo zaino, e li hanno buttati sui binari. Uno con il coltello ha tagliato le gomme mentre l’altro ragazzo filmava con il cellulare». Video poi pubblicato su Youtube e sui profili social di Traffik: «Alla fine li ho visti salire sul treno per Monza dal binario 3. Sono riuscito a fotografarli due volte con il mio telefonino, e dopo, prima di andare dai carabinieri, ho recuperato le mie cose sui binari». 

Trapper e violenza, attenti al soffio del razzismo. Karima MouaL su La Stampa il 16 agosto 2022.  

«Ti ammazziamo perché sei nero». Queste poche parole non sono scritte sui social, sapendo di essere magari ben tutelati da un falso profilo e uno schermo che segna una distanza netta, ma quelle pronunciate da Jordan e Traffik - nomi d’arte di due giovanissimi italiani abbastanza conosciuti nel mondo della musica trap - contro un operaio di origine nigeriana. Parole che si sono accompagnate ad una violenza inaudita contro un uomo di 41 anni che ancora oggi ha la sola colpa di avere la pelle nera. Tanto basta per essere preso di mira dai due trapper, armati di coltello per inveire contro di lui, con minacce di morte, riuscendo infine a rapinarlo di zaino e bicicletta. Questa brutta storia - grazie anche alla vittima che riesce a scattare, seppur da lontano, alcune foto ai suoi aggressori - finisce con l’arresto dei due per rapina aggravata dall’uso di armi e dalla discriminazione razziale. Potrebbe finire qui se non fosse l’ennesimo caso di violenza a sfondo razziale che si aggiunge ai troppi altri casi che si sono susseguiti in questi anni, ma che purtroppo continuano a non essere presi in considerazione come allarme di qualcosa che sta covando da troppo tempo, e che oggi purtroppo intacca trasversalmente anche i più giovani. Ecco, con tutti i conflitti che si trova a vivere il nostro Paese, quello etnico, razziale, che consiste nella discriminazione, criminalizzazione e nell’odio per gli stranieri, immigrati, rispolverando il più becero e vecchio sentimento di ostilità verso gli africani, che se sono neri va ancora peggio, è quello che più dovremmo temere per il futuro della nostra società. State attenti al soffio del razzismo. Anche a rischio di diventare afoni a forza di ripeterlo, mi è d’obbligo evidenziare come il razzismo in Italia stia scorrendo sempre più velocemente e indisturbato un po’ ovunque. Da ultimo, quando si perde la vita come quella di Alika Ogorchukwu, ammazzato tra la cittadinanza. Ah, tra l’altro i suoi funerali sono stati rimandati ancora una volta perché non si riesce ancora a concedere il visto ai parenti. Poi si dovrà un giorno scrivere del perché ancora una parte del mondo è destinata a rimanere imprigionata tra le proprie frontiere, e se questo non sia anche razzismo istituzionalizzato. Poi il 6 agosto sulla statale 16, fra Foggia e San Severo, è avvenuto l’ennesimo incidente mortale che ha visto come vittima Koffi, un altro lavoratore immigrato morto mentre andava in bicicletta al suo lavoro nei campi. Ma la lista dei lavoratori sfruttati che muoiono di fatica, incidenti, sfruttamento e ignavia di uno Stato che continua ad ignorarli è lunga e non fa altro che infestare l’aria di un sentimento di cui bisognerebbe vergognarsi: che la dignità di vivere tutelati come essere umani non è per tutti. Infatti, questo fatto di cronaca che ha visto come vittima un cittadino nigeriano, operaio, per mano di due balordi italianissimi e giovanissimi, non ha trovato spazio tra i tweet di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, mentre sappiamo molto bene come sarebbe stato utile alla loro campagna di odio contro gli immigrati e gli stranieri se quanto accaduto fosse capitato a parti inverse. Basti scorrere i loro profili social per intuire come setaccino la cronaca quotidiana alla ricerca del nigeriano o dell’africano criminale da dare in pasto ai loro elettori. Etnicizzare ogni fatto di criminalità è la loro cifra utile a disegnare un immaginario tra un noi italiani e un loro: tutti gli altri, immigrati stranieri, neri, la minaccia esterna. Il mostro e nemico utile, dietro al quale in realtà si nasconde il più grande e più pericoloso fallimento della destra italiana. Quello di essere incapaci di immaginare, tradurre e far credere di poter riuscire a costruire una società inclusiva, dove almeno cittadini si diventa, una conquista dopo l’altra, provenendo da ovunque nel mondo. Che dovrebbe essere un ideale da raggiungere proprio da un partito con dei valori sani di destra. E invece niente. Siamo ai neri da ammazzare perché neri. Ma cosa si pretende dopo tanta propaganda che punta il dito sugli africani come fonte di tutti i disordini e criminalità? Siamo ancora la culla dove meglio gli immigrati vengono sfruttati nell’illegalità, quella dei campi, del terzo settore, o della criminalità organizzata fingendo che esistano solo questi ultimi e sbandierando porti chiusi e blocchi navali. La bruttezza di questa campagna elettorale dove il tema immigrazione viene trascinato anche con i fatti di cronaca è che ci evidenzia che purtroppo in questi 30 anni siamo tornati maledettamente indoietro senza fare alcun passo avanti; e la parola «nero» è lì a ricordarcelo.

Con l'aumento di imboscate, accoltellamenti e indagini. TheWorldNews il 16 agosto 2022.

Si definiscono artisti e trapper, noti soprattutto per la loro attività criminale in prima linea nella musica devono tutti dimostrare che di loro non c'è molta traccia alla radio o nelle classifiche. questa escalation armata tra gli ultimi rappresentanti dell'autoproclamato hip-hop sembra grottesca. C'era una volta, Notorious B. Storie di fronte in alcuni casi sembrano evidenziare cali di carriera che non erano nati. Questa volta Jordan Tinty25 anni dalla Brianza, Jordan Meglio conosciuto come Jeffrey Baby, Traffic, nato Gianmarco Faga, 26,in coppia con Gallagher, Gallagher era un altro trapper della capitale, un suo ex amico, che sosteneva di essere l'autore della prima canzone di genere musicale nel nostro paese: Cavallini

Rapine, Minacce e Arresti

Jordan e Traffic sono stati arrestati per furto per 41 anni da parte di militari alla Stazione Bernaleggio (Monza e Brianza). Un vecchio lavoratore nigeriano con una bicicletta e uno zaino, armato di coltello, grida "Voglio ucciderti perché sei nero" alla stazione di Karnate. Jordan, che ha tatuaggi integrali, ha già fatto notizia tra i Carabinieri per aver postato un video di lui che saltava sul tetto di una gazzella e insultava gravemente Vittorio Brumotti durante la sua campagna antidroga. Vive in Brianza ed è stato aggravato dall'uso delle armi per motivi di razzismo, e nel convalidare l'arresto per rapina il giudice non ha mai rispettato la sorveglianza speciale ricevuta, quindi non c'era dubbio che i Carabinieri avrebbero riconosciuto lui nella fotografia scattata dalla vittima della rapina Ha una fedina penale di: due anni e mezzo per aver rapinato un tifoso che gli aveva chiesto l'autografo a Roma e per aver picchiato un cittadino del Bangladesh. È stato anche processato per aver abusato della sua ex ragazza, e tra i motivi per cui il giudice lo ha condannato al carcere c'era il fatto che praticamente non aveva residenza, oltre alla sua fedina penale, sono stati affrontati da lavoratori nigeriani appena scesi un treno di ritorno dal lavoro: Sono comparsi all'improvviso dalla scala di accesso al marciapiede, a torso nudo e con le magliette che gli coprivano le spalle. Lui tirò fuori un coltello: "Sei nero, e noi voglio ucciderti."

Un uomo lasciò la bicicletta e lo zaino in un sottopassaggio, e i cacciatori dissero che l'avrebbe ucciso per il colore della sua pelle. Continuavano a minacciare.

Escalation preoccupata

I due entrarono nella piattaforma con biciclette e zaini. In risposta all'invito del nigeriano a restituire la refurtiva dall'altra parte della stazione, hanno gettato la refurtiva tra i binari e hanno tagliato le gomme delle loro biciclette con i coltelli. Tutti finirono i loro video e li pubblicarono sui social network. La mattina dopo stavano passeggiando a Bernaleggio quando li presero i Carabinieri Jordan and Traffic Elia di Genova, in realtà un L'artista romano di 26 anni noto come Area 17 Baby, è stato arrestato per tentato omicidio. pugnalato e rissa su una spiaggia della costa di Olbia la notte del 14 agosto. È stato rintracciato in un albergo di Porto Cervo nella stanza di un amico. Quella notte ferì gravemente un 35enne di Sassari, ora a rischio paralisi e ricoverato in ospedale

Faida tra Simba La Rue e Baby Touche

È stato il peggiore degli attacchi col coltello dello scorso giugno Mohamed Lamine Saidaalias Trap Simba La Ruee la Francia Cresciuto tra l'Italia e vive in Francia e Italia, Lombardia in Lecco. Il primo mini-album dell'etichetta Warner e già più conosciuto di Jeffrey Baby e Traffic. Il rivale di andata e ritorno di Baby Touché, il cui vero nome è Amine Amagour nato in Marocco residente a Padova. Dopo che la loro "banda" si è scontrata, costretta a salire su un'auto e picchiata da diverse persone, è stato Touché a mostrare la sua faccia insanguinata sui suoi social network. L'uscita del video ha portato visibilità a Baby Touché,mi è piaciuto e le visualizzazioni sono aumentate alle stelle, ma c'era anche la minaccia di ritorsioni per il famigerato atto.ha poi pugnalato il rivale Simba, e la banda ha subito nove arresti nel frattempo. Negato l'ingresso a "senza apparentemente alcun effetto positivo". da superare). Questi sono i numeri virali dei video e dell'esposizione sociale di cui poche persone vivono e pagano le bollette. Nessun grande successo record. Non ci sono premi o tour al sacco (come in Fedez, Sfera Evasta e Maracache). Non fermarti, come vogliono i loro seguaci. E questo non è morale. è un'estate di faide e attività criminali tra coloro che vivono nell'ombra del genere musicale.  

(ANSA il 5 ottobre 2022) – Il gip di Milano Guido Salvini ha disposto il processo con rito immediato per Simba La Rue, all'anagrafe Mohamed Lamine Saida, rapper di 20 anni con centinaia di migliaia di follower su Instagram, e per altri 8 giovani della sua ' crew', arrestati lo scorso luglio nell'ambito di una indagine della Procura di Milano su una "faida" tra due gruppi di 'trapper', iniziata a parole a fine 2021 e che si è tirata dietro una scia di sangue fino a qualche mese fa. 

Il giudice, che ha accolto la richiesta del pm Francesca Crupi, ha fissato il processo davanti al Tribunale per il prossimo 24 novembre. Gli imputati ora possono scegliere se chiedere riti alternativi o affrontare il dibattimento. Tra gli episodi contestati il sequestro del suo 'rivale', il rapper Baby Touche', avvenuto il 16 giugno.

Simba, poco prima aveva subito un agguato ed era stato ferito gravemente a coltellate ad una gamba a Treviolo, provincia di Bergamo. E poiché necessita di cure ai primi di settembre, su richiesta della difesa, è stato scarcerato dal Tribunale del Riesame.

Simba La Rue-Baby Touché, aggressioni e sequestri nella faida tra i due gruppi di trapper: 9 arresti.  Manuela Messina su La Repubblica il 29 luglio 2022.

Operazione dei carabinieri di Milano tra Bergamo, Como e Lecco: "Nelle bande regole di omertà". Coinvolta anche una ragazza: doveva "sedurre" i rivali per farli cadere negli agguati. Il gip: "spirale di violenza inarrestabile"

Dovevano vedere tutti che cosa erano capaci di fare. Ecco perché il sequestro di Mohamed Amine Amagour, alias Baby Touché, avvenuto lo scorso giugno, è stato ripreso e pubblicato su Instagram. Senza nessun ripensamento, senza alcuna valutazione delle conseguenze di quel gesto. Ancora più importante era il riconoscimento pubblico della pericolosità di un gruppo rispetto ai rivali, la certificazione social della propria capacità di prevaricazione. 

Lo scrive anche il gip di Milano Guido Salvini, che ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare in carcere per 9 persone tra cui il rapper Simba La Rue. "Un tratto essenziale delle azioni di questi gruppi è contraddistinta dalla 'spettacolarizzazione' delle stesse, prima esaltate nei brani musicali e poi, quando concretamente avvengono sono riprese, girando dei veri e propri film mediante i cellulari, da chi vi partecipa e diffuse con commenti entusiastici sui social network". Da qui si deve partire per comprendere le vicende che hanno portato ai nove arresti di stamattina avvenuti tra Bergamo, Como e Lecco. Erano stati richiesti dalla pm Francesca Crupi, titolare dell'indagine condotta dai carabinieri della compagnia Duomo. 

Nelle perquisizioni di stamani a casa di Simba, che vive nel comasco insieme ai genitori, è stata trovata anche una pistola calibro 6.35 modificata, con matricola abrasa e con in canna quattro proiettili. L’arma si trovava nella sua camera. A casa di un altro membro della crew di Simba, Ndiaga Faye, sono stati trovati anche 200 grammi di hashish. 

"Era tutto uno scherzo, una finzione", ha detto il trapper ai carabinieri dal letto di ospedale a Lecco dove si trovava dopo l’agguato del giugno scorso. Segno che, come spiegano i carabinieri, non ha "minimamente compreso" il disvalore delle sue azioni. "Non capisco perché state esagerando - ha detto ancora ai militari - nessuno ha mai denunciato".  Il trapper è stato dimesso questa mattina e portato in carcere a San Vittore.

Come nasce la rivalità tra i gruppi dei rapper Simba La Rue e Baby Touché

Quella tra i due gruppi guidati dai trapper Simba La Rue e Baby Touché è una rivalità che va avanti da mesi. Due crew governate, scrivono i carabinieri, "da regole di fedeltà reciproca e di omertà" e che si sono rese protagoniste di "reiterati episodi di violenza" che hanno travalicato "l'aspra conflittualità determinata dalle rivalità nella diffusione delle rispettive produzioni musicali". Anche Simba, infatti, a metà giugno subì un agguato e fu ferito a coltellate a Treviolo, nella Bergamasca. Subito dopo quell'episodio, mentre sui social veniva evocato il suo nome, Baby Touché pubblicò un video sul suo profilo Instagram per dissociarsi: "Io faccio musica non la guerra", il messaggio. Su quest'ultimo caso indagano i pm di Bergamo.

Arrestati trapper a Milano, quando Baby Touché si giustificava sui social: "Faccio musica, non la guerra"

Così Baby Touché è stato sequestrato e picchiato. Ma il trapper: "Era solo per farci pubblicità"

L'episodio più significativo riportato nell'ordinanza eseguita oggi avviene a giugno. Per due ore Amagour aka Baby Touché è stato nelle mani del rivale Simba La Rue e di altri tre giovani rapper, e compare in dei video sui social con il volto tumefatto mentre viene preso in giro dai suoi sequestratori. Era stato accerchiato nei pressi di via Boifava a Milano, colpito a calci e pugni e infine caricato su una Mercedes Classe A. Viene liberato in un paese del lecchese, dopo la gogna pubblica. 

"Siamo in normali rapporti. Con lo stesso abbiamo inscenato una finta faida fra di noi per fare spettacolo e per farci pubblicità". Così ha messo a verbale Baby Touché, negando davanti agli investigatori di essere stato sequestrato e picchiato. "I video che sono stati pubblicati da me e da quelli che erano in macchina con me su Instagram - ha aggiunto il giovane - sono stati realizzati da me e dagli stessi ragazzi con cui ero in compagnia mentre eravamo a Milano. Preciso di aver incontrato Simba La Rue a Milano poco prima e nello stesso luogo da dove sono partito per venire a Calolziocorte (...) Ribadisco di non essere stato mai in pericolo e di non essere stato costretto da nessuno a fare alcunché contro la mia volontà". Per il gip di Milano Guido Salvini è "evidente che le menzogne riferite da Baby Touché siano finalizzate a non fare emergere l'esistenza di una faida tra le due bande nell'ambito della quale lui stesso è coinvolto per la commissione di gravi fatti di sangue". Una faida basata anche su un "meccanismo pubblicitario costruito intorno ai comportamenti e alle azioni delle bande, attraverso le canzoni, i video e i social network" che "punta all'imitazione e alla glorificazione delle azioni delittuose moltiplicando gli effetti pericolosi".

Milano, guerra fra trapper: il video del rapimento di Baby Touché

Dalla faida in musica alla rissa e alle rapine in strada

Un altro episodio risale allo scorso marzo e riguarda invece la rapina di un portafogli e di un telefono. Un fatto che viene inserito dal gip nei "regolamenti di conti tra bande che negli ultimi mesi si erano contraddistinti per violenza, anche a causa dell'uso delle armi e della spettacolarizzazione dei fatti criminosi che appunto vengono quasi sempre pubblicati - con tanto di video e foto dell'accaduto - sui profili Instagram degli stessi". 

Erano le 2.40 di notte e da una prima ricostruzione le due vittime, Akrem Ben Haj Aouina (molto vicino al trapper Baby Touché) e Thomas Calcaterra, insieme ad altre due ragazze, erano appena usciti da un bar in via Panfilo Castaldi, in zona Porta Venezia a Milano. Poco prima di incamminarsi verso via Settala vengono intercettati da un "folto" gruppo di ragazzi travisati e colpiti "con calci, pugni, fendenti di arma da taglio - nella specie un coltello". Aggrediti, vengono loro infine sottratti portafogli e telefono. 

Nell'ordinanza milanese vengono riportate le intercettazioni autorizzate nell'ambito di un'altra indagine per droga della Questura di Lecco. "Figa gli ho tirato un pugno che mi sa che l'ho aperto tutto", dice uno degli aggressori all'amico che è con lui in macchina poco dopo l'agguato di via Settala. "Hai fatto bene", gli risponde l'altro. 

La faida tra rapper, la ragazza che doveva "sedurre" i rivali e farli cadere negli agguati

Proprio da queste intercettazioni telefoniche si evince il ruolo dell'unica ragazza che compare tra gli arrestati di oggi, di appena 20 anni. E' proprio lei - si legge nel provvedimento - che viene "incaricata di attirare la vittima Aouina con la scusa di un appuntamento galante (...) al fine di rendere possibile l'agguato ai suoi danni". Dalla carta si evince che per comunicare ai suoi amici, che avevano già in programma l'aggressione, la posizione esatta, aveva condiviso la posizione di Whatsapp per 8 ore in modo che si potesse "monitorarla per tutta la durata dell'appuntamento". Dietro i capelli, è un altro dettaglio riportato dal giudice, nascondeva anche una cuffia bluetooth per poter "aggiornare il gruppo di assalitori in diretta senza dovere perdere tempo a mandare messaggi che avrebbero potuto insospettire" la vittima".

All’agguato avrebbe partecipato anche un 17enne ivoriano per il quale si procede separatamente con la Procura dei minorenni e infatti altre perquisizioni sono avvenute stamane all’istituto penitenziario minorile Beccaria. Il ragazzo, infatti, era già in istituto per via di una precedente con condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione per estorsione, atti persecutori e minacce. Proprio questa rapina sarebbe da ricondurre, a sua volta, a una precedente aggressione avvenuta il 14 febbraio ai danni di un membro della banda di Simba La Rue, alla stazione di Padova. Il giovane sarebbe stato accerchiato e malmenato e su questa vicenda indagano gli inquirenti padovani. 

Il gip: "Spirale di violenza inarrestabile. I follower pensano che i crimini siano normali e si schierano"

I giovani "che aggrediscono, nel giro di pochi giorni diventano quelli aggrediti, in una spirale di aggressioni-ritorsioni-aggressioni che si autoalimenta e che non appare altrimenti arrestabile e che con il passare del tempo produce crimini sempre più cruenti e pericolosi". Lo scrive il gip di Milano Guido Salvini nell'ordinanza sui 9 arresti per la guerra tra bande di trapper.

Tutto il "meccanismo pubblicitario costruito intorno ai comportamenti e alle azioni delle bande, attraverso le canzoni, i video e i social network", spiega il giudice, "punta all'imitazione e alla glorificazione delle azioni delittuose moltiplicando gli effetti pericolosi delle azioni stesse". La "dimensione sociale" in cui si muovono li ha portati "a una totale astrazione dalla realtà, che impedisce loro di percepire il disvalore ed il peso delle azioni criminose" e questa "continua sfida ad alzare sempre la posta in gioco, le continue ed improvvise ritorsioni, imprevedibili e 'spettacolari', sono ormai fortemente pericolose per la sicurezza pubblica" in una "dinamica di 'giustizia privata', realizzata con armi, minacce sui social, avvertimenti ed aggressioni spettacolari".

Il fatto che "gli autori dei reati, e più in generale, gli appartenenti alle bande rivali, siano molto conosciuti e seguiti sui social network", dove annunciano anche "i prossimi 'obiettivi', rischia di portare numerosi ragazzi anche di giovanissima età a considerare 'normali' le azioni criminose poste in essere dagli esponenti delle gang". I follower hanno "seguito con coinvolgimento le evoluzioni della faida e hanno creato delle vere e proprie 'fazioni' di sostegno all'uno o all'altro gruppo, scontrandosi nei commenti e alzando ancor di più il livello di scontro".

«Mi ha offeso, io l’ho umiliato»: così è cominciata la faida tra i trapper Simba La Rue e Baby Touché. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022.

Simba La Rue nega il sequestro del rivale. «Era una strategia mediatica, Touché è entrato in macchina di sua spontanea volontà». Ammette però di essersi procurato una pistola.

«Un giorno ero in corso Como con la mia ragazza e sono stato umiliato pubblicamente da questi ragazzi, mi hanno lanciato sassi e fatto un video, da lì è iniziato tutto». Così il trapper Simba La Rue, nome d’arte di Mohamed Lamine Saida, finito a San Vittore per l’aggressione e il sequestro di persona di Baby Touché, spiega l’avvio della faida con il rivale. Una guerra iniziata l’inverno scorso. Dopo l’umiliazione «ci sono stati vari dissidi sui social» racconta il 20enne italo-tunisino, l’ultimo ad essere ascoltato tra i nove arrestati. «Poi un mio amico, Gapea, è andato a Padova per cure mediche della madre e ha chiamato questo trapper per chiarire che non aveva intenti bellicosi. Touché non si è presentato ma si è presentata una torma di persone, è stato umiliano anche Gapea, è stato pure accoltellato». Da lì «è tutto degenerato, noi abbiamo fatto questa specie di vendetta contro un ragazzo che c’era durante l’aggressione del mio amico e cioè Akrem. Gli abbiamo fatto questa specie di trappola con l’aiuto anche della ragazza Sara e lo abbiamo aggredito. Ho girato io un video dell’aggressione».

I dissidi sono continuati fino al 9 giugno scorso, quando nel riaccompagnare un amico a casa, in zona Barona a Milano, incrociano per caso Touchè. «Sono andato lì da lui — racconta Simba La Rue — e gli ho detto di fare uno scontro fisico uno contro uno. Ma lui è più esile di me, ci siamo picchiati, io sono più forte e quindi mi sono fermato e gli ho detto che visto che lui mi aveva umiliato ora toccava a lui. Touché è salito in macchina ma il manager Mounir (Chakib Mounir detto Malippa, ndr) non voleva essere coinvolto e voleva che si chiarisse tutto prima di entrare in macchina. Sottolineo che Touché è entrato in macchina di sua spontanea volontà, io non l’ho sequestrato ». Il filmato pubblicato su Instagram dove il trapper padovano si scusa per i dissing contro il rivale e il 20enne lo apostrofa sarebbe dunque frutto di un accordo, non di un sequestro di persona. «Era tutta una cosa mediatica, ci siamo messi d’accordo anche perché Touchè era interessato a sfruttare mediaticamente il video. Abbiamo anche programmato di far uscire una canzone insieme». Una collaborazione musicale mai iniziata: il 15 giugno Simba La Rue viene accoltellato a Treviolo, alle porte di Bergamo. Un’aggressione di cui porta ancora i segni — è arrivato in tribunale con le stampelle —— e che nonostante un prossimo intervento chirurgico potrebbe lasciare un danno permanente alla gamba destra.

«Non so da chi sono stato ferito vicino a Bergamo, erano tutti bardati, erano circa 6 o 7. Molto probabilmente erano amici di Touchè. È successo tutto proprio sotto casa della ragazza con cui ero di notte. Ho cercato di salire in macchina inutilmente» ha raccontato Simba La Rue al gip di Milano Guido Salvini che lo ha interrogato per circa due ore. Assistito dall’avvocato Niccolò Vecchioni, il giovane non nuovo ai guai con la giustizia (risulta ammesso al regime della messa alla prova in un procedimento penale davanti al Tribunale per i minorenni per una rapina ) ha ammesso di essersi procurato una pistola, dopo l’aggressione, trovata e sequestrata il giorno dell’arresto. «La pistola l’ho presa io, con qualche proiettile, dagli zingari quando sono uscito dall’ospedale per paura di nuove aggressioni. Ho fatto una grande cavolata, è stata la prima e ultima pistola che ho preso». Il difensore ha chiesto per lui la revoca della custodia cautelare in carcere.

Le ordinanze tra Como, Lecco e Bergamo. Milano “zona di guerra”, nove arresti nella faida dei trapper Simba la Rue e Baby Touché. Vito Califano su Il Riformista il 29 Luglio 2022. 

Guerra tra bande, raid e violenze, perfino un sequestro di persona e una ragazza utilizzata come una sorta di esca per attirare i rivali in trappola. Il gip di Milano Guido Salvini ha firmato un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito delle indagini sullo scontro tra due bande nell’orbita del mondo hip hop e trap nel milanese: una faida senza esclusione di colpi tra il gruppo istituitosi intorno a Simba La Rue e quello di Baby Touché. Le ordinanze hanno raggiunto nove persone, quattro italiani e cinque stranieri tra Bergamo, Como e Lecco. A vario titolo accusati di sequestro di persona, rapina e lesioni aggravate.

Le indagini sono state svolte dalla Compagnia Carabinieri Milano Duomo e coordinate dalla pm Francesca Crupi dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano. Secondo le indagini i gruppi erano governati “da regole di fedeltà reciproca e di omertà”, protagonisti di “reiterati episodi di violenza” che hanno superato più volte e di parecchio i limiti di una “aspra conflittualità determinata dalle rivalità nella diffusione delle rispettive produzioni musicali”. Una spirale di violenza senza senso e senza soluzione di continuità tra ragazzi appena ventenni esplosa lo scorso febbraio (ma le tensioni erano in corso da oltre un anno) dopo un confronto verbale degenerato nei mesi successivi a colpi di ritorsioni e aggressioni.

L’episodio più clamoroso ha interessato lo stesso Baby Touché, nome d’arte di Mohamed Amine Amagour, diciannovenne di origini marocchine, residente a Padova, che lo scorso 9 giugno era stato prelevato, praticamente sequestrato in un’auto per due ore da un gruppo di quattro rivali, con gli smartphone a riprendere due ore di violenze. Il trapper fu picchiato, umiliato nei contenuti caricati sui social, inquadrato con il volto tumefatto mentre veniva sbeffeggiato. Baby Touché sarebbe stato accerchiato nei pressi di via Boifava a Milano, colpito a calci e pugni e caricato su una Mercedes Classe A. Dopo le violenze era stato rilasciato a Calolziocorte, in provincia di Lecco.

Simba La Rue, nome d’arte di Mohamed Amine Amagour, classe ’99, di origini tunisine, cresciuto tra la Francia e l’Italia ma di stanza a Lecco, che è stato raggiunto da un provvedimento, a metà giugno era stato invece vittima di un agguato a Treviolo, ferito a coltellate, episodio sul quale indagano i pm di Bergamo. Subito dopo Baby Touché aveva pubblicato un video per dissociarsi da quell’aggressione: “Io faccio musica non la guerra. Voglio fare la musica non voglio fare la strada. Sono Touché il cantante, non Touché il criminale”. Altro episodio nella spirale di violenza lo scorso marzo in zona Porta Venezia a Milano, quando intorno alle 2:40 Akrem Ben Haj Aouina (molto vicino a Baby Touché) e Thomas Calcaterra, in strada insieme ad altre due ragazze, erano stati raggiunti da un gruppo di ragazzi travisati e colpiti “con calci, pugni, fendenti di arma da taglio – nella specie un coltello”. Le vittime erano state aggredite e derubate dei loro portafogli e telefoni.

Dalle intercettazioni era emerso anche il ruolo di una ragazza di 20 anni, tra gli arrestati di oggi, “incaricata di attirare la vittima Aouina con la scusa di un appuntamento galante”. La giovane tramite un auricolare Bluetooth nascosto tra i capelli aggiornava “il gruppo di assalitori in diretta senza dovere perdere tempo a mandare messaggi che avrebbero potuto insospettire la vittima”. Un ruolo da infiltrata, una spia sotto copertura. “Comunque a Milano, se dobbiamo girare, stiamo attenti perché adesso siamo entrati in una zona di guerra”, si ascoltava in un’altra intercettazione.

La spirale di violenza era in presa diretta diffusa sui social dagli stessi protagonisti di una faida efferata quanto insensata, un atteggiamento che “punta all’imitazione e alla glorificazione delle azioni delittuose moltiplicando gli effetti pericolosi delle azioni stesse”. Secondo quanto scritto dal gip Salvini nell’ordinanza tutti i coinvolti si sarebbero mossi in una “totale astrazione dalla realtà, che impedisce loro di percepire il disvalore ed il peso delle azioni criminose” e questa “continua sfida ad alzare sempre la posta in gioco, le continue ed improvvise ritorsioni, imprevedibili e ‘spettacolari’, sono ormai fortemente pericolose per la sicurezza pubblica” in una “dinamica di ‘giustizia privata’, realizzata con armi, minacce sui social, avvertimenti ed aggressioni spettacolari”.

Spesso le azioni erano perfino annunciate via social, dichiarazioni che rischiavano anche “di portare numerosi ragazzi anche di giovanissima età a considerare ‘normali’ le azioni criminose poste in essere dagli esponenti delle gang”. A provarlo le fazioni che si erano create in rete a sostegno di una parte o dell’altra, e che spesso arrivavano allo scontro diretto nei commenti.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2022.

Vent'anni compiuti a giugno. Studi liceali e da settembre l'iscrizione a Giurisprudenza, zero esami dati ma un'aspirazione: «Vorrei diventare magistrato». Tra i tanti, un tatuaggio sotto l'ombelico, suo grande vanto: scritta «Bijoux». Appartamento senza porte alle camere in una vecchia corte del Lecchese, un fratello maggiore che sgobba, impiegato in un'agenzia immobiliare, la mamma operaia, italiana, che fa altrettanto, il papà, nordafricano, pregiudicato, perditempo, ludopatico. Una nonna vicina di casa, adorata: quando il maresciallo Giada Moschetti, di sette anni maggiore, reduce dall'esperienza a Pioltello, satellite multietnico dell'hinterland di Milano, ha accompagnato l'arrestata Sara Ben Salha verso la macchina dei carabinieri, lei ha visto quell'anziana e ha pianto. Il primo e ultimo attimo di cedimento.

Alle 5.30 l'ora dell'ingresso nell'abitazione del maresciallo, accompagnato da un collega; a mezzogiorno il superamento del cancello del carcere di San Vittore. E in questo lasso temporale Sara, fidanzata di un elemento della gang, accusata d'aver «sedotto» i rivali consentendo ai complici l'organizzazione di agguati (auricolari nascosti per trasmettere in tempo reale le conversazioni), incensurata ma apparsa solida nella sua essenza criminale, ecco Sara mai s' è lamentata, mai ha protestato o manifestato insofferenza. Per tacere delle preoccupazioni di finire, chissà per quanto, in galera: «Vediamo com'è».

Ora, se non è stata casuale la scelta di affidare al maresciallo l'operazione della cattura - una donna peraltro quasi coetanea -, non risulta invece «costruito» il comportamento con l'indagata della stessa Giada Moschetti. Che al Corriere racconta: «Ha letto le imputazioni e ha ammesso le colpe. Si è confidata. Posso raccontare alcuni particolari: ha spiegato le problematiche relative al padre, e l'atteggiamento della mamma che non se la sente di allontanarlo.

Quell'uomo "le fa pena", ha detto Sara, e privato della famiglia precipiterebbe ancora di più. Da parte mia, ho sottolineato quanto questa caduta, dura, durissima, possa essere un'occasione per riprogrammare il futuro. Prendersi cura della propria vita. Compiere delle scelte. Non si scappa dalla realtà, ma la si può utilizzare per tornare a respirare».

Vero, il pentimento. L'accettazione delle conseguenze. Ma è della ragazza la voce intercettata che ricordava, in relazione all'agguato di Porta Venezia: «Il suo sangue, volevo spalmarmelo il suo sangue di m...». Ed è di nuovo Sara che si ingegnava per depistare i carabinieri fornendo una testimonianza errata, alterando i fatti e le descrizioni, e poi, orgogliosa, ne dava conto ai sodali per dimostrare che il suo l'aveva fatto. E bene. Vedremo l'iter giudiziario; vedremo i giorni da detenuta; intanto Sara, che nel viaggio ha dedicato riflessioni a progetti estetici (i capelli, le unghie, le labbra), ha ammesso che non immaginava la «trasformazione» delinquenziale della gang. Impossibile però che ne ignorasse il passato, o che, incaricata di trasformarsi in esca, non abbia pensato alle finalità dell'azione. Ed era lei, recita da attrice e calma da sbirro, che derideva due della banda opposta: lì, in strada, le avevano domandato se stesse bene, preoccupati si fosse ferita nella rissa della quale, invece, la ventenne aveva permesso la genesi.

Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2022.

Una faida permanente. La musica come bandiera, gli agguati da filmare e immettere in tempo reale sui canali social, le ragazze arruolate per sedurre i rivali e agevolare gli agguati dei complici. Educazione criminale di ventenni italiani e stranieri, in maggioranza residenti nell'inquieta provincia lombarda, specie nei paesi del Lecchese.

I nove arresti firmati all'alba di ieri dal Comando provinciale dei carabinieri di Milano non raccontano soltanto lo scontro in atto - rapine, pestaggi, accoltellamenti, sequestri di persona - tra la banda capeggiata da Mohamed Lamine Saida, in arte «Simba La Rue», e quella avente a capo Mohamed Amine Amagour alias «Baby Touché», entrambi noti trapper.

Lame e spade. Come evidenziato nell'ordinanza del gip Guido Salvini, magistrato esperto, dentro la realtà, e dunque non avvalendoci di semplificazioni mediatiche, «le violenze si ispirano in qualche modo ai tumulti delle banlieu francesi».

Un paragone appunto spesso sprecato. Non questa volta.

Che non è la prima - la faida è esplosa nel 2021 - né, forse, sarà l'ultima. Si attendono altri adepti, altri attacchi, anche se le catture hanno di fatto azzerato la banda di Saida, lui per primo in cella, e hanno fornito agli inquirenti materiale per acquisire ulteriori elementi.

Due gli episodi genesi di queste indagini: la rapina di un portafoglio e un cellulare con calci, pugni, fendenti di armi da taglio e una soverchiante superiorità numerica, lo scorso primo marzo a Milano, nella zona dei locali di Porta Venezia; e la prigionia subìta il 9 giugno da Amagour, ovvero «Baby Touchè», catturato dai nemici - muniti perfino di spade - in periferia, sempre a Milano, trasferito su una Mercedes classe A con targa svizzera, lì sopra vittima di minacce, pugni e derisioni, ripreso sanguinante, gonfio di paura, infine «pubblicato» online cosicché il pubblico di «Simba la Rue» godesse dello spettacolo e inviasse a ripetizione dei «like».

Vendette e anti-Stato. «Frate, oggi abbiamo rischiato di brutto, se io portavo la pistola... abbiamo sfiorato l'arresto bro...». Le intercettazioni riportano la disponibilità di armi da parte delle bande, l'abitudine a tenersele addosso nella quotidianità, l'assenza di esitazioni o timori nel manovrarle. Quando, in un'altra intercettazione, si prospetta l'imminenza di una «guerra» contro la gang avversaria, non sembrano affatto parole in libertà di ragazzi che si ritrovano a bere e scherzare. Al contrario, il denso scenario criminale incontra una netta conferma nella diffusa omertà, nella «regola» di non dialogare per nessun motivo con i carabinieri, insomma nel rifiuto d'avere per interlocutori rappresentanti dello Stato.

Ogni episodio della faida, compresi i più sanguinari, sono affari personali, interni alla gang: non si domanda mai aiuto. Dunque, non si collabora mai. Sentite la narrazione di «Baby Touché» in relazione al sequestro: «"Simba La Rue"? Lo conosco da tempo e siamo in normali rapporti. La faida? Una finta faida tra di noi per fare spettacolo e farci pubblicità. I video della prigionia? Realizzati da me e dai ragazzi con cui ero in compagnia. Ribadisco di non essere mai stato in pericolo e di non essere stato costretto a fare alcunché contro la mia volontà...». Il 16 giugno, una settimana dopo l'aggressione a «Baby Touché», l'altro trapper, «Simba La Rue», è stato accoltellato in provincia di Bergamo. Sui social la rivendicazione è stata firmata proprio da un soldato di «Baby Touché».

La 20enne coinvolta in una faida tra trapper. Sara Ben Salha: “Ho incontrato Alessia Pifferi in carcere, non è un mostro ed è sola al mondo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Agosto 2022 

Sara Ben Salha, 20 anni, è ai domiciliari da mercoledì 3 agosto dopo essere stata arrestata insieme ad altri otto coetanei nell’ambito dell’indagine sul collettivo del trapper lecchese Simba La Rue, arrestato anche lui, soprattutto in merito alla violenta faida con la crew del padovano Touché, in cui Ben Salha ha avuto il ruolo di “esca”. La giovane, infatti, è stata arrestata per avere attirato con la scusa di un “appuntamento galante” Akrem Ben Haj Aouina, amico di Touché, poi accoltellato.

Una brutta vicenda di faide tra bande rivali in cui è finita anche la 20enne che ammette le sue colpe e chiede scusa: “Ho fatto da esca per quel ragazzo, lo ammetto, gli chiedo scusa nel modo più sincero. Non mi aspettavo che lo avrebbero accoltellato, pensavo che volessero soltanto spaventarlo. Mi sono lasciata trascinare, ammetto le mie colpe, se devo pagare con altro carcere lo accetterò”, ha detto in una lunga intervista a Repubblica.

Sara ha passato alcuni giorni a San Vittore dove ha incontrato Alessia Pifferi, la 36enne in carcere per aver lasciato la sua bambina di 18 mesi da sola per 6 giorni. La piccola è morta di stenti. La cella di Alessia era di fronte a quella di Sara che ha potuto parlarle a lungo in quelle ore di attesa in carcere. “Ognuna ha raccontato la sua storia all’altra – ha detto Sara nell’intervista a Repubblica – Lei si è aperta molto con me, non nega assolutamente le sue colpe, soffre molto. L’ho sentita piangere tutto il giorno, sdraiata in silenzio a guardare il soffitto. Non è un mostro ed è sola al mondo, la famiglia le ha voltato le spalle, il compagno è sparito, le altre detenute la odiano. Ho provato tanto dispiacere quando l’ho salutata, le ho assicurato che le avrei scritto e lo farò. Lei pagherà a vita il prezzo di ciò che ha fatto, quindi anche lei merita una spalla su cui piangere. Il carcere mi ha insegnato a non giudicare le persone solo con l’apparenza”.

La ragazza nella faida tra i giovani trapper avrebbe avuto il ruolo di “esca”, accettato per vendicare l’amico, membro del gruppo di Simba e anche lui arrestato, Fabio Carter Gapea, vittima di un agguato alla stazione di Padova lo scorso febbraio. “Quel giorno lui voleva solo parlare con i ragazzi di Touché ma è stato accerchiato e aggredito, ha rischiato di finire in carrozzina per via delle coltellate, lo ha salvato la giacca che indossava. Da lì è partito tutto. Io volevo molto bene a Gapea e ho deciso di fare questa vendetta insieme agli altri – spiega Ben Salha – Ma io l’avevo detto ai ragazzi la sera dell’agguato ad Akrem di non usare i coltelli, di non fargli del male, ci sono le intercettazioni che lo provano. Non mi hanno ascoltata. Ho le mie colpe, ovviamente potevo anche aspettarmelo che quello non era solo un modo per spaventarlo ma che avevano altre intenzioni, sono stata io una ingenua a fidarmi della loro parola”.

La ragazza ha parlato anche del gruppo di Simba e di Touché: “Sono tutti giovani che vogliono solo vivere la loro vita, qualcuno prova a farsi valere tramite le canzoni, ma nessuno di loro è un vero criminale – ha detto – Sia Simba che Touché sono entrati nei loro personaggi senza pensare alle conseguenze, prendendo spunto dai cantanti americani che certe cose le hanno fatte davvero. Ma se uno di questi ragazzi fosse morto durante la faida, ne avrebbero sofferto tutti”, conclude la 20enne, che già prova a guardare avanti. “Sono iscritta a giurisprudenza, vorrei diventare magistrato, il gip Guido Salvini durante l’interrogatorio mi ha detto di non darmi per vinta, che ci sono magistrati che hanno avuto un passato difficile. Non so quanto sarà possibile realizzare questo sogno, ma io ci proverò”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Sparatoria a San Siro, condannato a 2 anni e 3 mesi il rapper «24K». Otto anni a Carlo Testa. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.

Stando alle indagini, sarebbe stato il 51enne pregiudicato a ferire gravemente un 26enne egiziano che rischiò di morire, ma il vero obiettivo doveva essere il rapper. In precedenza c’era stata un’escalation di violenze. 

È stato condannato a 2 anni e 3 mesi Islam Abdel Karim, il rapper 32enne noto come Kappa 24K», arrestato il 4 febbraio e accusato di «detenzione e porto sulla pubblica via di arma da sparo ed esplosione in aria di più colpi» in «luogo pubblico affollato» per aver preso parte alla sparatoria dell’8 gennaio in piazza Monte Falterona, quartiere San Siro a Milano. Lo ha deciso il gup milanese Tiziana Gueli, che nel processo con rito abbreviato ha anche condannato a 8 anni di reclusione il pregiudicato per fatti di droga Carlo Testa, 51 anni e finito in carcere per tentato omicidio. Entrambi gli imputati sono ancora detenuti ed erano presenti in aula.

Sarebbe stato Testa, stando alle indagini della Squadra mobile e del pm Stefano Civardi, a ferire gravemente un 26enne egiziano (il ragazzo rischiò di morire, con due pallottole rimaste nel corpo all’altezza dell’arteria femorale), ma il vero obiettivo doveva essere proprio «24K». Per Testa, difeso dal legale Niccolò Vecchioni, la Procura aveva chiesto 10 anni, ma il giudice ha escluso l’aggravante dei futili motivi. E per «24K», difeso dall’avvocato Robert Ranieli, il pm aveva chiesto 2 anni e 8 mesi. Le difese hanno annunciato che ricorreranno in appello (le motivazioni del verdetto tra 90 giorni). La sparatoria era seguita ad un’escalation di violenze che avevano visto contrapposti due gruppi di rapper, quelli di San Siro e quelli di piazza Prealpi. Tra i motivi della lite gli sfottò tra le due crew sul web, il cosiddetto dissing (gara d’insulti), ma anche, pare, la spartizione dei compensi dalle case discografiche.

Testa, secondo le indagini, avrebbe cambiato fronte passando al gruppo antagonista di piazza Prealpi (diverso da quello di «24K» e altri), di cui farebbero parte anche i rapper Rondo da Sosa, Simba la Rue e Keta, anche loro noti alle cronache. Un testimone aveva messo a verbale che poco prima della sparatoria uno dei rapper in una videochiamata aveva detto: «Venite qui, siamo in piazza Falterona, vi sparo in faccia». Intercettato l’11 gennaio scorso, «24K» diceva: «Se lo becco io prima che lo trovano le forze dell’ordine (riferendosi a Testa, ndr) lo mando in coma (...) a me viene a fare questo (...) mi fai l’agguato con trenta persone, figlio di p..., infame».

La difesa chiedeva che il rapper venisse assolto «per non aver commesso il fatto», perché avrebbe usato una «pistola ad aria compressa, di quelle che usa spesso nei suoi video musicali». Il legale di Testa, dal canto suo, aveva evidenziato che dai filmati acquisiti delle telecamere puntate sulla piazza si vedeva che quella sera Testa scese dalla macchina e fu subito accerchiato da «10-15 persone» del gruppo rivale. Almeno tre di queste, secondo la versione dell’imputato, erano «armate», lui riuscì a disarmarne una e sparò tre colpi «per difendersi» e uno di questi colpì l’egiziano, che «faceva parte degli aggressori».

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.  

Nel 2011 Marracash esce con un pezzo che si chiama rapper/criminale. Il senso: cantanti e malandrini non si devono confondere, ognuno deve coltivare il suo "talento". Er Gitano, rapper (e non solo) di Torbella, sente la canzone, prende la macchina e va a Milano. Cerca Marracash: si è sentito chiamato in causa e vuole spiegazioni. 

Fuori a un bar trova Caneda, altro rapper milanese. Che, nonostante le minacce, non sgancia il cellulare del collega della Barona. La missione punitiva finisce negli archivi di Youtube, a scopo pedagogico. Per la cronaca: l'anno dopo Er Gitano si spara un colpo di pistola in testa dopo una lite con la fidanzata. 

Erano altri tempi: negli Anni Dieci c'era già la mania per il "gangsta rap" (genere molto americano), ma gli interpreti si limitavano a descrivere episodi di vita di strada, senza doverli necessariamente vivere. Poi è successo qualcosa: è arrivata la trap. Che non è soltanto un sottogenere musicale (diventato dominante), ma uno stile di vita. 

C'entra sempre il modello americano. La definizione "trap" deriva dalle "trap house" di Atlanta, topaie dove si smerciava roba e ci si faceva. Un narcos più illuminato di altri decise di ripulire i soldi della droga fondando un'etichetta discografica. Il resto è venuto da sé. 

La cifra stilistica della trap? L'utilizzo di una vecchia batteria programmabile della Roland, la 808, l'autotune per correggere le stonature e, ovviamente, i testi. Ripetitivi fino alla noia. Tipo la biografia del boss di quartiere. Che "smazza" la roba e comanda lo spaccio; che gira armato; che scopa le "pussy" dei rivali per umiliarli; che ama la mamma, in una imbarazzante riedizione del complesso di Edipo.

Dopo la trap è arrivata la "drill". La differenza sta nei contenuti: niente più episodi "happy" o intimisti, ma solo violenza e nichilismo. Negli anni sono cambiati anche gli interpreti. L'hip hop italiano è giunto alla terza (o alla quarta) generazione. Adesso è il momento dei figli degli immigrati. E non è un fatto inedito. 

In Francia questa evoluzione è successa già vent' anni fa. Il rap come voce delle banlieue.

Non tanto come forma di riscatto sociale. Ma una strada (veloce) per fare soldi. Tanti soldi.

In questo c'entrano le etichette discografiche.

Che, oltre alla musica, devono vendere il personaggio. La Generazione Z ama la drill come i loro genitori impazzivano per Vasco e le loro nonne tiravano reggiseni ai Beatles. La fascinazione per il crimine è una forma di ribellismo. Non c'è pischello a Roma o sbarbato a Milano che non si pompi nella sua macchinina un pezzo trap che parli di grammi di coca tagliati o "bitchis" prese per i capelli e messe a novanta. 

Dunque le Major che hanno fatto: hanno cercato gli interpreti più credibili per questo genere e li hanno trovati nelle case di ringhiera dove vivono ammassati gli immigrati. Tunisini, egiziani, marocchini, latinos. Milano in questo è avanguardia. E a Milano c'è il quartiere San Siro.

Torniamo un attimo indietro a Marracash.

Per dire che, undici anni dopo, non c'è più distinzione tra rapper e criminale. Oggi il rapper deve essere criminale. Per vendere. Avere un fascicolo giudiziario e un tot di precedenti fa curriculum. Esibire una pistola nelle storie di Instagram: dieci crediti. Respirare gli effluvi della coca che brucia sulla stagnola: venti crediti. Smerciare una panetta di fumo: trenta crediti. Commettere almeno un paio di reati mentre si gira il videoclip di una canzone: quaranta crediti. 

Zaccaria Mouhib è nato a Lecco da genitori marocchini. Ha ventuno anni. E dal 2012 entra ed esce da carceri minorili e comunità educative. È conosciuto come Baby Gang e ha quasi 900mila follower su Instagram. Proprio sui social si è vantato di aver girato una parte del video della sua ultima canzone a San Vittore. Cioè, aveva un cellulare in carcere. Gli è stato sequestrato. La questura di Milano ha chiesto di sottoporre Baby Gang a «sorveglianza speciale di pubblica sicurezza». Richiesta rigettata dal Tribunale. 

Sui social succedono cose. Si chiamano "biff". Partono sfottò tra rapper. Alcuni sfottò diventano minacce. Alcune minacce si trasformano in coltelli e pistole. La notte dell'8 gennaio 2022 a Milano fa stranamente caldo. Islam Abdel Karim, rapper 32enne noto come Kappa 24k, deve sistemare una certa questione con i "trap-ragazzini" di San Siro. Per la supremazia del quartiere e per i soldi delle case discografiche. Si presenta armato in piazza Monte Falterona, ma quegli altri hanno chiamato Carlo Testa, un pregiudicato 51enne per fatti di droga. Segue una sparatoria in cui viene ferito gravemente un 26enne egiziano. 

Il 15 giugno Mohamed Lamine Saida, 23 anni, origini tunisine, residente nel lecchese, è parcheggiato con la fidanzata in via Aldo Moro a Treviolo. Sono le tre di notte. Dal buio esce un'ombra. Qualcuno lo sta aspettando. Si becca una decina di coltellate e finisce in prognosi riservata all'ospedale di Bergamo. È un regolamento di conti. Saida, noto come Simba La Rue, aveva "scazzato" col collega rapper padovano Amine Amagour, 19 anni, origini marocchine. 

Baby Touchè (il suo nome d'arte) giorni prima era stato caricato in auto, riempito di botte e filmato. Le immagini del pestaggio sui social. Ovviamente. Infine c'è un altro caso: Napoli. Dove il fenomeno Gomorra ha ispirato un'intera generazione di trapper. Tutti con il video girato nelle Vele, tutti che si dicono originari di Secondigliano, per vantare un pedigree criminale, pure se non lo sono. 

Cosa che non fa Niko Pandetta, techno-neomelodico amatissimo dai quindicenni. Lui è di Catania, canta in napoletano, ma non ha bisogno di inventarsi storie. Lo sanno tutti che è il nipote del boss Turi Cappello, detenuto in regime di 41bis dal 1993.

Grave 20enne accoltellato in un parcheggio nella Bergamasca

(ANSA il 17 giugno 2022) - Un 20enne è stato accoltellato la scorsa notte durante una lite a Treviolo (Bergamo) e ora è ricoverato in gravi condizioni all'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

L'episodio è avvenuto in un parcheggio di via Aldo Moro attorno alle 3 della notte scorsa. Secondo una prima ricostruzione, ad aggredire il giovane, che era in compagnia di una ragazza, sarebbe stato un gruppo di ragazzi con i quali era nata una discussione. 

Gli aggressori, dopo aver lasciato a terra il 20enne ferito con diverse coltellate, sono fuggiti e sono ricercati dai carabinieri.

(ANSA il 17 giugno 2022) - È il rapper Simba La Rue, nome d'arte di Mohamed Lamine Saida, il 20enne accoltellato la scorsa notte durante una lite a Treviolo (Bergamo). Secondo i primi accertamenti dei carabinieri, il giovane di origini tunisine, cresciuto tra Francia e Italia e residente a Lecco, stava accompagnando a casa la fidanzata, che abita proprio a Treviolo.

Parcheggiata l'auto in via Aldo Moro, è stato aggredito da un giovane armato di coltello in quello che potrebbe essere stato un vero e proprio agguato. Il rapper, che ha tentato di difendersi, non sarebbe in pericolo di vita. 

L'aggressione a Simba La Rue è avvenuta pochi giorni dopo quella a un altro rapper, Baby Touche e sui social c'è chi ipotizza sia stata una vendetta. Tra i due giovani ci sarebbe una accesa rivalità. 

Rapper accoltellato: Baby Touche: "Faccio musica, non la guerra"

(ANSA il 17 giugno 2022) - Baby Touche, rapper che è stato picchiato nei giorni scorsi da Simba La Rue, si chiama fuori da quanto accaduto la notte scorsa a Treviolo nel Bergamasco dove Simba è stato accoltellato (è ora in ospedale).

"Io faccio musica, solo musica, tutto il resto lasciatelo lontano da me, che non voglio fare la guerra", sostiene in una story sui social. "Nessuno di noi vuole una madre che piange", aggiunge Baby Touche, che ha detto di non sapere nulla di quanto accaduto la notte scorsa, mentre sui social, dagli appassionati di 'dissing', le sfide a base di insulti e minacce via web tra rapper e trapper, il ferimento di Simba La Rue viene inteso come vendetta conseguente al suo pestaggio.

Agostino Gramigna per il “Corriere della Sera” il 17 giugno 2022.

Un accoltellamento. Un giovane colpito. I fendenti sono diversi, si difende inutilmente, comincia a perdere sangue. Provincia di Bergamo, Treviolo: sono le quattro del mattino di ieri e il giovane si chiama Mohamed Lamine Saida, milanese, origini tunisine, che ha accompagnato a casa la fidanzata, residente in un quartiere residenziale. Saida è stata colpito da un altro giovane, sceso da un'auto. 

Quando arrivano i militari e Saida viene trasportato in ospedale si scopre la sua identità. Quella «vera», quella che si è data per scalare la notorietà. Simba La Rue.

Il nome probabilmente non dirà nulla a chi non ha confidenza con il rap/trap. Ma in quel mondo Simba La Rue è un nome. Un mondo abitato da rapper, segnato da gelosie e scontri, narrato dalla violenza delle parole e dai suoi codici. Simba La Rue è cresciuto tra la Francia e l'Italia, ma abita a Lecco (il suo ultimo EP, Crimi, è uscito a maggio per Warner). Chi poteva volergli del male? Un passo indietro.

Baby Touché. Si fa chiamare così un altro rapper/trapper giovanissimo, un artista, con la voglia di sfondare e raccontare la sua vita di strada. Il suo vero nome è Amine Amagour, ha 19 anni, origini marocchine e abita a Padova. 

Touché conosce Simba la Rue. I due non si amano. Ma si controllano, come nemici che attendono, dell'altro, il passo falso. Usano i social, armati di parole che danno linfa alla musica e ai testi. Si provocano. 

Poi su un profilo Instagram che richiama il nome di Simba La Rue, il cui coinvolgimento non è però stato accertato, compare il video di un episodio di una settimana fa a Milano. Mostra Baby Touché.

Il rapper è accerchiato, aggredito e picchiato da alcune persone che l'hanno fatto salire su un'auto. Ha il volto gonfio. 

Dal naso esce sangue. Chi gli siede di fianco ride, lo prende in giro, gli urla frasi nelle sue orecchie. Chi ha colpito Touché? Forse una ritorsione per un suo presunto «dissing» (scambio di insulti tramite canzoni o video) che il rapper padovano avrebbe rivolto a Simba La Rue a gennaio nel suo singolo «Pull up». 

Nel video Touché appare spaventato. Si sente una voce fuori campo che dice: «Dov'è il gangster che sei, dov'è la tua sicurezza?». Gli amici di Touché «rispondono» sui social, postando numerose storie, messaggi allusivi: «Ti sei messo in un bel guaio, figlio di p., domani io vado in carcere».

Oppure: «Voi pensate di averla chiusa così, la storia? Per me è iniziata ora, fosse l'ultima cosa che faccio». La faida sembra non avere fine. L'aggressione a Bergamo è stata la risposta della gang di Baby Touché? Sarebbe un epilogo logico. 

Su Instagram, un presunto amico del rapper padovano avrebbe rivendicato l'atto: «Volevi Samir e hai avuto Samir... sono venuto da te con le palle quadrate. Ora hai pagato e la storia finisce». 

Saranno le indagini a fare luce. Intanto sui social, Baby Touché si è tirato fuori da quanto accaduto a Treviolo. «Io faccio musica, solo musica, tutto il resto lasciatelo lontano da me che non voglio la guerra. Nessuno di noi vuole una madre che piange».

La trappola. Report Rai PUNTATA DEL 23/05/2022 di Chiara De Luca

La trap è un sottogenere della musica rap, molto in voga tra i giovani.

La trap racconta in maniera brutale e compiaciuta la vita di strada. Questo stile, nato nel mondo delle gang americane di Atlanta, in Italia è stata strumentalizzata dalla criminalità organizzata, alcuni tra i più noti cantanti sono vicini a famiglie di mafia. Report ha incontrato alcuni dei più noti interpreti di questo genere.

Marco Gregoretti per “Libero quotidiano” il 20 ottobre 2022.

«Maresciallo non ci prendi, pistole nella fendiiii». E infatti non è stato acciuffato dai Carabinieri: le manette ai polsi gliele hanno messe gli agenti della squadra mobile di Milano agli ordini di Marco Calì, coadiuvato dal funzionario Nicola Lelario. Niko Pandetta, trapper "neomelodico", trentunenne di origine siciliana, che suona brani morbidi per raccontare vite da duri e che ha vinto due dischi d'oro, era latitante da una decina di giorni. Da quando la Cassazione aveva confermato la condanna per spaccio di droga a quattro anni di reclusione. Nonostante i suoi avvocati avessero fatto ricorso.

I poliziotti milanesi, su richiesta dei colleghi di Catania, dove lo stavano cercando in seguito alla sentenza emessa dal Tribunale della città siciliana, sono riusciti a trovarlo nel quartiere periferico di Quarto Oggiaro, all'esterno del B&B in cui alloggiava. In tasca aveva 12mila euro. Gli investigatori stanno vagliando anche la posizione di altre due persone. Il suo manager, un albanese di 33 anni, che, poco prima dell'operazione della squadra mobile, si trovava insieme al trapper e che sarebbe l'affittuario della stanza e l'uomo di 38 anni, con qualche precedente per truffa, seduto alla guida dell'auto, vicino a Pandetta.

Nei confronti dei due potrebbe scattare l'accusa di «procurata inosservanza di pena». Che il cantante fosse ricercato, infatti, lo sapevano tutti: non aveva mai smesso di tenere aggiornati i suoi follower, via social. È stato lui stesso, il sei settembre scorso, a informarli, attraverso l'account di Instagram, della sentenza di condanna a quattro anni. Come fosse un qualsiasi "ganassa", o "maranza" che dir si voglia, aveva commentato: «Sono abituato agli spazi stretti, alla case piccole, alle celle». Poi, però, si era dato alla fuga.

Forse aveva capito che, "bella bomber!", il transitare dell'adrenalina del successo si sarebbe per un pò interrotto. Eh, si perché soltanto due settimane fa in un famoso locale milanese, zeppo di ragazzi e di ragazze in festa, era successo che il dj, scatenatissimo, avesse urlato al microfoni: «Ehi, raga!!! Abbiano un ospite d'onore, E chi se l'aspettava. È arrivato, qui, proprio qui, Niko Pandettaaaa!!!». Il trapper aveva reso omaggio ai fans giovani e giovanissimi cantando uno dei suoi brani. 

Pandetta è il terzo trapper che arrestano in una settimana a Milano, a conferma che il combinato disposto tra violenza metropolitana, disagio giovanile e «voglio tutto e subito», oramai sia arrivato a livelli oltre la guardia. Imponendo modelli e riferimenti dove, come sostengono i sociologi «il disvalore la faccia da padrone». Insomma la vita conta poco. Importante è apparire. Nel caso di Niko Pandetta si aggiunge uno step: quello dell'utilizzo dei riti e dei miti della criminalità organizzata per fare musica e spettacolo.

E, magari, alla fine qualcuno ci casca. L'artista arrestato ieri è nipote di Toni Cappello, in carcere al 41 bis da quasi 30 anni, perché ritenuto appartenente alla mafia catanese. E proprio ai boss detenuti in regime di massima sicurezza, nel 2019, davanti a un locale dell'hinterland napoletano, Pandetta aveva dedicato una strofa: «Con la speranza», disse, «che tutti quelli che stanno al 41 bis presto possano tornare alla libertà e alle loro famiglie. Facciamo un applauso forte!».

Ci furono levate di scudi e polemiche dure. Ingenuità? Fatto sta che durante un programma di Rai Due, poco prima, era stato ancora più pesante sostenendo, in sostanza, che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino se l'erano andata a cercare. La tv di Stato, giustamente, chiese scusa. La sua fama di trapper morbido con la criminalità organizzata l'aveva preceduto ad Abbiategrasso, dove in un pub avrebbe dovuto tenere un concerto. Si opposero sia la presidente della Commissione regionale antimafia che il sindaco della cittadina dell'hinterland milanese.

Le ultime foto postate lo ritraggono "virtualmente" dietro le sbarre di una cella del carcere di Opera. Da una settimana, prima dell'arresto, stava cercando di accreditarsi in rete come un giovane uomo alla ricerca della nuova vita: «Sono cambiato, ma pagherò il mio passato finché ci sarà da pagarlo. Non fuggo più né dalla polizia né dalle mie responsabilità». Il tema è che, in realtà, forse ha ragione chi sostiene che Baby Gang e Simba la Rua, i trapper arrestati venerdì sette ottobre, rispetto a lui siano due mammolette.

Ottavio Cappellani per “la Sicilia” il 23 ottobre 2022.  

Sull’arresto di Niko Pandetta mi sembra che le parole più logiche, lucide e persino “legittime” (la “legittimità” è una cosa diversa dalla “legalità”, che ancora nessuno ha bene capito cosa sia, anche se una definizione precisa esiste, ed è un “limite” non alla “società civile”, ma al contrario allo Stato: la “legalità” non obbliga – come comunemente credono gli ignoranti e i pazzi – la “società” a comportarsi bene, al contrario “obbliga” lo Stato a esercitare i poteri a esso conferito dalle leggi – in buona sostanza, la “legalità” non è una cosa “più ampia” della “legittimità”, anzi dipende da quest’ultima), dicevo: sull’arresto di Niko Pandetta mi sembra che le parole più lucide, logiche e “legittime” le abbia dette proprio Niko Pandetta (e Andrea Zeta, altro cantante dalle vicende simili a quelle di Pandetta).

In sintesi: “Abbiamo commesso reati, abbiamo pagato, o pagheremo il debito con la giustizia e la società, oggi siamo cambiati e torneremo con le nostre canzoni”. Perché una cosa deve essere chiara: Niko Pandetta non è stato arrestato per il contenuto delle sue canzoni, ma perché ha commesso un reato. Punto. Non ci sarebbe altro da dire. La divisione tra il reato, per così dire commesso nella “realtà”, e il contenuto delle canzoni dovrebbe essere netta. Altrimenti arrestiamo Roberto Saviano o, che ne so, Quentin Tarantino.

E invece si sono spese troppe parole in commenti moralisti e perbenisti, petulanti e anche un po’ rompicoglioni, sui testi di Pandetta. L’esempio più fastidioso: “Niko Pandetta ha dedicato una canzone a suo zio, boss in carcere…” etc. etc. Ma che minchia vuol dire? Uno, una canzone, una poesia o quello che è la può dedicare a chi vuole! Anche a Charles Manson per dire (e infatti non mancano canzoni dedicate a Charles Manson). Che dedicare una canzone a qualcuno  possa essere in una qualche connessione con un arresto è un delirio contrario allo stesso concetto di “Stato di Diritto”, una conquista democratica che dovrebbe invece essere difesa strenuamente.

Coolio, dai, prendiamo Coolio. E’ stato in carcere da giovane. Ma io non riesco ad ascoltare Gangsta’s Paradise senza commuovermi di brutto, soprattutto se mi vedo il video tratto dallo stupendo film “Pensieri Pericolosi” con una meravigliosa Michelle Pfeiffer. Volete sentirne parti del testo? Eccole: “Mentre cammino nella valle della morte guardo la mia vita e vedo che non mi è rimasto più niente… Non ho mai ucciso un uomo che non lo meritasse… Faresti meglio a stare attento a come parli e a dove cammini o tu e i  tuoi amici potreste essere tracciati col gesso…

Continuiamo a passare la nostra vita nel paradiso dei gangster… Nel ghetto ho capito che non posso vivere una vita normale… Perché siamo così ciechi dal non vedere che quelli a cui facciamo del male siamo io e te… Dicono che devo imparare ma non c’è nessuno a insegnarmi…”. Ascolterei (come faccio) duemila volte Coolio, al posto di sentire ancora il vostro petulante moralismo di chi si sente migliore.

LA TRAPPOLA di Chiara De Luca Immagini di Fabio Martinelli Montaggio di Andrea Masella Grafiche di Michele Ventrone

FABRI FIBRA – RAPPER Il rap è una magia, non è una cosa data per scontato: devi avere la giusta strumentale, devi avere le giuste parole.

CHIARA FUORI CAMPO Fabri Fibra in Italia è l’artista che ha portato il rap in cima a tutte le classifiche: con oltre un milione di copie vendute, è oggi uno dei pilastri del rap nostrano.

FABRI FIBRA – RAPPER Dall’inizio, quando sono arrivato che il rap non era proprio capito, e quindi c’era molta gente che pensava che se io dicevo qualcosa, la pensavo davvero, o l’avrei fatta davvero, quando in realtà era dire qualcosa sopra le righe per attirare attenzione. Oggi è più accettata la cosa, non perché vengono accettati gli artisti per quello che dicono ma perché, comunque, quel disco fa guadagnare.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il rap negli ultimi anni ha avuto un’evoluzione da cui è nata la trap.

ANDRY THE HITMAKER – PRODUTTORE MUSICALE Ogni singolo elemento che vedi qua è un suono diverso. Allora, adesso ho selezionato la traccia di cassa, poi ci sono i clep, poi abbiamo anche degli snerd di risposta, gli ay hat, che è un’altra parte fondamentale della trap.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Immancabile in ogni pezzo trap che si rispetti c’è il famoso autotune.

ANDRY THE HITMAKER – PRODUTTORE MUSICALE Ti fa la correzione vocale: si sente molto l’effetto robotico sulla voce, la rende, la rende trap.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La trap nasce agli inizi del 2000 nelle trap house americane, ad Atlanta.

ANDREA BERTOLUCCI - ESPERTO DI CULTURA TRAP Erano delle case, molto spesso abbandonate, poste nei sobborghi delle città americane dove veniva consumata, venduta ogni tipo di sostanza.

VEGAS JONES - TRAPPER La trap music, la trappola, è una cosa mentale che tutti abbiamo per quanto mi riguarda cioè chiunque ha e che noi artisti facciamo nostro scrivendo sui testi.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E nei testi della trap la distinzione tra realtà e dimensione artistica a volte rischia di essere ambigua. Ostentazione della ricchezza, auto e orologi di lusso, champagne, violenza, spaccio e uso di droga, la donna dipinta come un oggetto, pentiti e forze dell’ordine visti come nemici. Anche perché, spesso, si tratta di artisti nati nelle zone d’ombra della legalità.

PAOLA ZUKAR - MANAGER MUSICALE Secondo me il rap è un po’ come la boxe, nel senso, ha delle regole, ha delle sue regole e per cui non è che non si menino quando boxano, però devi rispettare delle regole: l’arte prima di tutto.

CHIARA DE LUCA Non c’è il rischio che poi passi un cattivo esempio, un messaggio sbagliato?

FABRI FIBRA - RAPPER Il rap è un genere musicale che racconta quello che c’è là fuori e se là fuori c’è questo, c’è una disgregazione dei valori e un consumismo estremo, il rap lo racconta.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E così come il rap, anche la trap racconta quello che c’è là fuori ed è per questo che è più facile strumentalizzarla.

ILARIA MELI - AUTRICE DE IL “CLAN DEI CASAMONICA” Un genere come quello della trap, che è un genere nuovo, che arriva tanto ai giovani, che ha un grande successo, ha attirato l’attenzione delle mafie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La musica può creare consenso o dissenso. È un po’ come nel caso del rap, che è una musica che è cresciuta tantissimo, il 40 percento. Ha la pretesa, l’ambizione di essere lo specchio della realtà. Ci sono degli artisti veramente bravi che pur cantando e utilizzando parole un po’ sopra le righe non c’è il rischio che vengano fraintesi. Ma poi ci sono altri casi, come nel sottogenere della trap, può accadere che come nella musica neomelodica che invece la musica possa diventare addirittura uno strumento per raccogliere consenso all’interno delle mafie. La nostra Chiara De Luca.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Alla periferia di Roma, a Spinaceto, nel videoclip che ha decretato il successo del trapper Poli Ok, tra i protagonisti ci sono alcuni rampolli della famiglia Di Silvio. Il manager del cantante è Mirko Di Silvio.

POLI OK Non può essere tra di noi, speriamo presto libero.

 CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il Mirko osannato dalla folla durante il concerto è proprio il suo manager, arrestato per droga. Mentre in quest’altro videoclip Samuel Casamonica chiede la liberazione di Manuel Di Silvio, anche lui arrestato per droga.

SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Non scattare foto se no te la sfracello la telecamera, te lo dico subito. No, perché, passa la gente, prendono e mi fanno le foto, così.

CHIARA DE LUCA Sei famoso?

SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Sì, sono famoso perché sono un cantautore.

CHIARA DE LUCA Ah, e scusa dove ti posso cercare, ti voglio ascoltare…

SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Io sono Samuel.

CHIARA DE LUCA Samuel?

SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Casamonica.

CHIARA DE LUCA E sei famoso perché sei un Casamonica?

SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE Sono famoso perché mi conoscono tutti, in quel senso lì.

CHIARA DE LUCA Qui, in questa zona, a Spinaceto?

SAMUEL CASAMONICA – CANTAUTORE No, in tutto il mondo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il video viene girato tra le case popolari di Spinaceto perché lì siamo a casa loro. Lo leggiamo anche dai muri: Papù ti vogliamo bene. Papù è Antonio Di Silvio, capo del clan, morto nel 2016. La questura di Roma gli negò il funerale pubblico per non ripetere lo stesso errore del funerale di Vittorio Casamonica.

MARCELLO RAVVEDUTO – PROFESSORE DIGITAL PUBLIC HISTORY – UNIVERSITÀ DI SALERNO Quando tu porti avanti un modello sociale in cui la ricchezza che viene prodotta con la violenza, con l’organizzazione del crimine, sebbene si rischi la galera o la morte, questo elemento sostiene tutto il modello di vita della criminalità organizzata.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Un altro cantante tanto famoso quanto controverso è Niko Pandetta.

NIKO PANDETTA – TRAPPER Mi chiamano tutti i mafiosi, i privati, persone che vendono la droga con pistole addosso. Non te le posso dire certe cose.

GIANPIERO CIOFFREDI – PRESIDENTE OSSERVATORIO LEGALITÀ E SICUREZZA REGIONE LAZIO Anche se negli ultimi tempi tenta di darsi un’aria da bravo ragazzo, ma in questi anni ha condotto, diciamo, i concerti che sembravano concerti di solidarietà verso, verso la mafia.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Niko Pandetta è un artista siciliano. Nasce come cantante neomelodico per poi diventare uno degli artisti trap più seguiti in Italia.

CHIARA DE LUCA Tu eri neomelodico, poi cosa cambia?

NIKO PANDETTA –TRAPPER Poi il neomelodico realmente è la stessa cosa della trap: viene cantata diversamente perché si parla di storia vissuta, diciamo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Dopo essere stato condannato per spaccio e rapina si dedica alla musica, arrivando al successo grazie a un brano dedicato allo zio Turi, ovvero Salvatore Cappello, uno dei più potenti boss catanesi, in carcere da trent’anni in regime di 41 bis.

NIKO PANDETTA – TRAPPER Alla fine, l’ho fatto perché alla mia famiglia lo voglio bene anche se non dovevo farlo, tra virgolette.

 CHIARA DE LUCA Tu prendi le distanze da tuo zio?

NIKO PANDETTA – TRAPPER In che senso le distanze?

CHIARA DE LUCA Condanni quello che ha fatto tuo zio?

NIKO PANDETTA – TRAPPER Ma non sono io a condannare, è il magistrato che condanna, non io. Ha sbagliato e sta pagando.

CHIARA DE LUCA A chi ti accusa di essere un cantore della mafia?

NIKO PANDETTA – TRAPPER Io fino a ieri sono uscito assolto per questa cosa... Apologia... Assolto, caso archiviato

CHIARA DE LUCA Ad oggi quale e il tuo pensiero rispetto alla mafia?

NIKO PANDETTA – TRAPPER Per me la mafia fa schifo: se vuoi detto questo, te lo dico.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Attraversando lo Stretto, in Calabria, a Rosarno, il Comune sciolto tre volte per infiltrazione mafiosa, sta spopolando il cantante Domenico Bellocco, in arte Glock 21.

ENZO CICONTE – PROFESSORE STORIA DELLE MAFIE UNIVERSITÀ DI PAVIA Tu mandi un messaggio in cui fai vedere i mitra, fai vedere i rolex, fai vedere i gioielli. Il messaggio è: con noi sei potente perché il mitra, la pistola è la violenza. L’altro, vieni con noi perché puoi diventare ricco. Il problema è che ci sono giovani che pensano di imitarlo, pensano che questi sono i nuovi padroni del mondo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La Glock 21 è una delle armi usate dalla ‘ndrangheta, un modello fu trovato nel bunker di Gregorio Bellocco, zio del cantante, quando fu arrestato il 16 febbraio 2005 insieme a dischi di musica calabrese che inneggiavano alla ‘ndrangheta.

ROBERTO DI PALMA - SOSTITUTO PROCURATORE DDA REGGIO CALABRIA 2002-2021 C’è una canzone che è stata fatta esplicitamente per celebrare questo giorno come se fosse un giorno di apocalisse per la piana di Gioia Tauro: si parla di torrenti che si sono inariditi perché quel giorno è stato arrestato questo grandissimo uomo di onore.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E dopo 14 anni, nell’anniversario dell’arresto, proprio il 16 febbraio 2019, il giovane Trapper Bellocco pubblica un videoclip finanziato da alcuni commercianti di Rosarno.

KLAUS DAVI – MASSMEDIOLOGO Questo tipo di finanziamenti sta più a indicare che dietro c’era un consenso.

CHIARA DE LUCA È stato deciso a tavolino il video?

KLAUS DAVI – MASSMEDIOLOGO Certo, nulla accade a caso in quei contesti. È un omaggio a questo personaggio che ha dato identità a Rosarno.

CHIARA DE LUCA Nel video ci sono anche altri ragazzi, chi sono?

KLAUS DAVI – MASSMEDIOLOGO Sono tutti ragazzi collegati a personaggi di primo piano delle famiglie. Questo non fa di loro dei mafiosi, assolutamente. Tutti che attraverso un legame di parentela stanno a testimoniare un messaggio preciso.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il gruppo P38, inneggia agli anni di piombo, alle Brigate Rosse e all’omicidio di Aldo Moro. Durante le tappe del tour, il Nuovo Br Tour, il gruppo ha sfoggiato sul palco la bandiera a cinque punte. Dopo l’esibizione del 25 aprile a Pescara e del I maggio a Reggio Emilia è scattata la denuncia.

BRUNO D’ALFONSO Ho deciso di denunciare perché, essendo io un figlio di una vittima del terrorismo, diciamo, riaffiora un ricordo bruttissimo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Lui è il figlio di Giovanni d’Alfonso, il carabiniere ucciso dalle Brigate rosse il 5 giugno del 1975. I P38 per pagarsi le spese legali hanno avviato una raccolta fondi, hanno anche una linea di merchandising.

CHIARA DE LUCA Che cos’è che l’ha toccata di più?

BRUNO D’ALFONSO Io mi rendo conto che questi sono dei ragazzini, e che comunque sfruttano un’onda modaiola, mediatica per emergere nel campo musicale. Però quello che mi fa male è che loro hanno adottato una leggerezza tale che fa capire l’ignoranza rispetto alla storia e rispetto a determinati valori.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Dopo aver denunciato, D’Alfonso è stato minacciato

BRUNO D’ALFONSO Eh, ho ricevuto un messaggio tramite Instagram, sul mio profilo, c’era la foto di mio padre con una X sopra, rossa, e con la scritta “sei il prossimo”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Alla stupidità umana non c’è mai un limite. Ma abbiamo anche capito che il fenomeno sta degenerando, al punto che è dovuta intervenire anche la politica, ma col suo solito passo felpato. È stato presentato un disegno di legge presso la Commissione Giustizia della Camera, però già un anno fa, a febbraio del 2021, e ancora non è stato calendarizzato. Questo perché c’è il rischio che i più giovani, o chi non ha le chiavi, il filtro giusto per decriptare, finisca con l’emulare il messaggio. Il disegno di legge dovrebbe inasprire le pene nei confronti di chi inneggia all’organizzazione mafiosa, o ne esalta addiritura le gesta. L’argomento però è spinoso perché bisogna anche orientarsi e bisogna tenere presente la libertà di espressione. Noi pensiamo che più che in punta di legge, bisogna agire invece dal punto di vista culturale.

Rapper arrestati: pm, a processo Baby Gang e Neima Ezza. Chiesto processo per 4 per una serie di rapine a Milano. (ANSA 19 maggio 2022) La Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per i rapper Baby Gang, nome d'arte del ventenne Zaccaria Mouhib, Neima Ezza, ossia Amine Ez Zaaraoui, anche lui 20 anni, Samy Dhahri, 19 anni conosciuto come Samy Free, e per un 31enne albanese, tutti imputati in un procedimento per una serie di rapine nel capoluogo lombardo. 

    Nell'inchiesta chiusa ad aprile, condotta dai carabinieri di Pioltello e dagli agenti dell'Ufficio Prevenzione Generale della Questura milanese e coordinata dal pm Leonardo Lesti, sono stati contestati, a vario titolo, quattro episodi: tre casi avvenuti in una zona centrale della movida milanese, tra le Colonne di San Lorenzo e piazza Vetra nel maggio 2021, e l'ultimo a Vignate, nel Milanese, lo scorso luglio.

Baby Gang - già finito al centro di fatti di cronaca negli ultimi anni e poi indagato in altre due inchieste nelle scorse settimane, tra cui un episodio di resistenza agli agenti durante un controllo - era stato scarcerato, dopo l'arresto a fine gennaio, dal Riesame, perché il suo legale, l'avvocato Niccolò Vecchioni, aveva dimostrato che gli elementi probatori a suo carico erano lacunosi. Poi, a fine febbraio il gip Luca Milani ha revocato i domiciliari per Neima Ezza, sostituendoli con l'obbligo di dimora a Milano e di permanenza nella sua abitazione dalle ore 20 alle 7. E dandogli la possibilità di chiedere l'autorizzazione per fare concerti fuori dagli orari fissati.

    Revocati i domiciliari anche per Samy Free, anche in questo caso per l'attenuazione delle esigenze cautelari. Il quarto indagato, invece, non era stato arrestato. L'udienza preliminare si aprirà il 18 ottobre davanti al gup Domenico Santoro che dovrà decidere sul rinvio a giudizio o meno. (ANSA).

Nuflex, rapper di Baggio arrestato per spaccio di droga a Milano: aveva 2 mila euro in contanti. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 24 maggio 2022.

Il 24enne è stato notato agi agenti mentre prendeva in consegna un pacco, trovato poi in una cantina dietro un materasso, con 380 grammi di cocaina. Arrestati anche un coetaneo e un 44enne con precedenti

Arrestato per droga il rapper milanese Nuflex. Il giovane, 24 anni, un precedente per droga, è stato arrestato nei giorni scorsi dalla Sesta sezione della squadra Mobile di Milano insieme ad altre due persone per spaccio di 380 grammi di cocaina. Nuflex, rapper emergente del quartiere di Baggio, che ufficialmente lavora come cameriere, era in strada in via Marcantonio Colonna insieme a un 44enne, anche lui con precedenti per droga. I due sono stati notati dagli agenti mentre attendevano l’arrivo di un’auto con a bordo un altro 24enne, con precedenti per reati contro il patrimonio.

Il rapper è salito a bordo della vettura e poco dopo è sceso con un pacco, poi insieme al 44enne è salito in un appartamento (di proprietà dell’uomo). Poco dopo il cantante è sceso e ha consegnato un pacco all’autista 24enne che lo attendeva in strada. A quel punto gli agenti sono intervenuti e hanno bloccato i due e perquisito l’auto. Sotto al sedile è stato recuperato il pacco con all’interno oltre 8 mila euro in contanti.

Nelle tasche del giubbotto del rapper sono stati trovati altri 2 mila euro. Poi gli agenti sono saliti a casa del 44enne e in cantina, dietro a un materasso, hanno trovato il pacco con 380 grammi di cocaina. I tre sono stati arrestati e nell’udienza per direttissima il giudice ha ordinato la custodia cautelare in carcere.

·        Il musical è nato a Napoli.

Paolo Ferrari per “la Stampa” il 25 settembre 2022.

Il Vesuvio osserva sornione la sua Napoli sparare lava sonora incandescente sul mondo intorno. Quando alla radio partono Marechià dei Nu Genea oppure Io, tu e l'estate di Napoleone la sensazione è che dietro quell'eleganza e quei groove ci sia qualcosa che viene da lontano. Dalle viscere della città in cui più è riconoscibile un Dna sonoro e attitudinale capace di scorrere con naturalezza di generazione in generazione. 

La Nuova Compagnia di Canto Popolare proiettò il folk sui palchi dei grandi raduni alternativi, Napoli Centrale segnò un punto di non ritorno sul fronte funk partenopeo, Pino Daniele rivoluzionò in direzione black il sapore della canzone d'autore nazionale reduce dall'insolente sverniciata rock' n'roll inflittale da Edoardo Bennato, gli Almamegretta hanno portato nel mondo il dub del Golfo. Di tutti loro rimane traccia, a volte evidente, in altri casi custodita nel profondo dell'anima.

Sul primo fronte s' incontrano omaggi espliciti: il misterioso cantautore digitale Liberato ha da poco pubblicato una cover di Cicerenella, un classico del repertorio NCCP, mentre gli stessi Nu Genea, duo di produttori e musicisti di area elettronica, nel loro disco Bar Mediterraneo hanno inserito una calorosa versione di Vesuvio del combo militante Anni Settanta «E' Zezi».  

Per quanto concerne Davide Napoleone, trentenne della provincia di Salerno migrato in Piemonte, la lezione di Pino Daniele è indelebile: «Iniziai a esibirmi per strada nel centro storico di Napoli cantando le sue canzoni - racconta - ed è rimasto un faro. In seguito ho approfondito le indagini, rendendomi conto di come lui, Alan Sorrenti, Napoli Centrale e Nino Bonocore siano stati decisivi per trasformare il dialetto campano in linguaggio universale come non accadeva dai tempi di Carosone».

 Con una considerazione interessante: «La differenza tra loro e noi - spiega Davide - consiste nel fatto quella generazione era stanziale sul territorio, mentre noi viaggiamo e magari viviamo anche fuori: io a Torino, i Nu Genea a Berlino e Siracusa».

Anche Meg ha visto il mondo, ma sente la forza del legame con Napoli, tant' è che il suo nuovo album, in uscita il 30 settembre, s' intitola Vesuvia. Così recita la narrazione che lo accompagna: «Sono cresciuta alle falde del Vesuvio, la sua sagoma è casa e sento il suo richiamo sempre, anche quando sono dall'altra parte del pianeta. Lo sogno di notte in maniera ricorrente: sin da bambina sono ossessionata da lui, è una presenza imponente nella mia coscienza ed è parte indissolubile di me. Ogni sua zolla, ginestra, sentiero, è come una mia cellula, capello, ruga. È mia madre e mio padre. Da quando ho aperto gli occhi è il mio imprinting».

A sottolineare la natura femminile attribuita al vulcano un parterre di ospiti che comprende Elisa, Emma, Katia Labèque e Nziria. Quest' ultima è capostipite di un nuovo sottogenere, hard neomelodic, in cui il neomelodico popolare poggia su basi techno gabber per raccontare storie di sapore no gender. La sua Hard tarantella si incastra alla perfezione nella trama che lega passato e presente del Golfo.  

Si allargano così gli orizzonti, urgenza comune al duo Nu Genea: «Entrambi - spiegano Massimo Di Lena e Lucio Aquilina - abbiamo consumato i dischi del cosiddetto Neapolitan Power, da Pino Daniele a Napoli Centrale e Tony Esposito, possiamo sentirci onorati di essere accostati a loro ma sentiamo ancora di più l'influenza di una città sotterranea, invisibile a livello nazionale». 

Con la complicità dei collezionisti Lorenzo Sannino, in arte Famiglia Discocristiana, e Gianpaolo Della Noce, in consolle DNApoli, tra mercatini delle pulci, racconti, incontri con personaggi dimenticati è nato così il progetto Napoli segreta, giunto al secondo volume: «Abbiamo ottimizzato e rimesso in circolazione il filone disco funk Anni Settanta e Ottanta della città, lavorando sodo per rintracciare i cantanti e i detentori dei diritti. Qualcuno era reticente, magari perché il 45 giri in questione era stato finanziato con fondi non proprio leciti, altri hanno risposto con entusiasmo».  

Così la Sexy Pummarola di Gibo & Pummarola Band o i potenti singoli di Tonica & Dominante sono finiti nelle cuffie di tanti insospettabili under 30 europei.

Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 22 aprile 2022.  

Colpo di scena. Il musical non è nato a Broadway nell'Ottocento ma a Napoli nel Cinquecento. A dirlo è un bellissimo libro appena uscito dall'editore Argo e intitolato Il chiaro e lo scuro (pp. 496, euro 28). 

A curare il volume è il noto etnomusicologo Gianfranco Salvatore, grande esperto di tradizioni musicali afroeuropee e professore all'Università del Salento. Insieme a lui, studiosi di fama internazionale come, tra gli altri, l'africanista Norbert Cyffer dell'Università di Vienna, lo storico dell'arte Paul H.D. Kaplan della Purchase University di New York, la storica Kate Lowe del prestigioso Warburg Institute di Londra, Mishele Rak, esperto del patrimonio culturale europeo.

All'origine di tutto ci sono gli schiavi africani che affollano la città e che mescolano la loro lingua, la loro musica e la loro arte a quella dei padroni. E proprio dalla folla di colored che vive all'ombra del Vesuvio prendono vita nuove forme espressive. 

Come la "canzone moresca" per lo più considerata un genere musicale autoctono e fino ad ora confusa con altri tipi di canto popolare come le villanelle. La presenza di termini incomprensibili in queste canzoni recitate e ballate è stata per lo più interpretata come un gergo dimenticato.

E invece queste parole e suoni misteriosi appartengono al kanuri, una lingua africana diffusa in Nigeria, Sudan e Camerun. Facendo luce sul mistero delle "moresche", il volume fa affiorare una realtà multiculturale e multilinguistica dove tra bianchi e neri si stabilisce una relazione di simpatia, addirittura di empatia, che non ha confronti in Europa. 

E che produce forme artistiche fusion, in cui i neri sono protagonisti, in anticipo sul teatro musicale moderno. Dalle pagine emerge, insomma, un melting-pot in salsa napoletana, dove le culture africane si integrano pacificamente con quella locale. E producono un'arte nera a metà.

·        Morti di Fame.

Un figlio al padre: papà, perché gli artisti sono spesso comunisti?

Il padre: perché a loro piace essere mantenuti e sono molto libertini e viziosi e con poca voglia di lavorare!

Estratto dell’articolo di Stefano Mannucci per “il Fatto quotidiano” il 20 agosto 2022.

[…] se l'istituto previdenziale di Sua Maestà controllasse le entrate del quasi ottuagenario Sir Mick, scoprirebbe un patrimonio netto da 500 milioni di dollari, metà del quale garantito da rendite immobiliari: un castello in Francia e l'isola antillana di Mustique, che il signor Jagger affitta a cifre non inferiori di 30 mila dollari per brevi residenze. 

"Un tirchio patologico", l'aveva fulminato l'ex moglie Jerry Hall, sciura disinteressata ai soldi, come dimostra il matrimonio (purtroppo in crisi) con l'attuale marito Rupert Murdoch. Mick si risentì per le accuse di Jerry: "Dice cazzate. Mi preoccupo delle spese per i miei figli e pure per il tenore di vita della Hall, piuttosto dispendioso".

Perché è brutto essere additati come spilorci. Ne sa qualcosa pure Paul McCartney, in attivo per oltre un miliardo di euro […] Nel 2001, per la festa di compleanno della moglie Linda, niente open bar: costrinse gli invitati a pagarsi le bevande. 

[…] guai agli spilorci al ristorante. Chissà se stavolta Madonna, tra i frizzi e i lazzi e i "Bella Ciao" cantati in Sicilia l'altro ieri per festeggiare i suoi 64 anni, ha lasciato qualche banconota sulla tovaglia. La granny doll Ciccone non è nota per la generosità con i camerieri. In America, dove la mancia non dovrebbe essere inferiore al 15 per cento, Madge non supera mai il 10. […] Madonna dovrebbe essere munifica con il personale di sala, visto che in gioventù serviva ai tavoli di Donkin'Donuts. […]

[…] Jennifer Lopez […] puntualmente impedisce al suo Ben Affleck di lasciare mance adeguate alle ragazze delle trattorie. A Las Vegas litigarono di brutto, a fine cena, davanti a tutti. Peggio ancora, giurano i suoi amici, è Britney Spears. Lascia il piatto vuoto, neanche uno spiccio […] Una notte Rod Stewart, già rincasato, si rimise cappotto e scarpe e tornò nel locale tra grida molto isteriche e poco blues: non gli risultava quella bottiglia d'acqua, rivoleva indietro due dollari. […] Uno che di sicuro ha le tasche cucite è Sting: ha annunciato ai figli che non lascerà loro un centesimo di eredità. […]

Il grande business delle film commission italiane. Da vent’anni le regioni foraggiano il cinema con decine di milioni di euro. Ma spesso i finanziamenti sono poco controllati. E mentre si decide se le pellicole sono arte, industria o inviti al turismo, scandali e risse non sono rari. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 16 Maggio 2022.

Risse, poltrone, soldi a pioggia, professionalità incerte. I nemici delle Film Commission italiane, Fc per brevità, hanno materia crescente per denigrare un sistema che in vent’anni di storia o poco più ha funzionato spesso come un’agenzia di promozione turistica, invece di rilanciare l’industria del cinema italiano, un tempo rigogliosa. Il calderone dei finanziamenti, spesso troppo modesti per essere tracciati in modo adeguato, alimenta di tutto dalla piccola produzione indipendente al progetto di animazione fino ai kolossal Usa come “Searching for Italy”, avventura enogastroculturale di Stanley Tucci andata in onda a maggio sulla Cnn e rifocillata con il denaro del contribuente veneto e piemontese.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 5 maggio 2022.

Lunga vita al cinema italiano (stavo per scrivere romano, ma poi mi sono accorto dell'infelice battuta) ma, avendo seguito in tv la serata dei David di Donatello, ho avuto la netta sensazione che qualcosa non tornasse (Rai1). Lasciamo perdere lo scimmiottamento degli Oscar hollywoodiani, lasciamo perdere la conduzione di Carlo Conti (per fortuna c'era Drusilla Foer, anche se non in forma eccezionale) ma si può far iniziare una serata di gala con le parole del ministro che ricorda ai presenti quanto lo Stato stia facendo per il cinema?

Come dire agli spettatori: guardate che i biglietti li pagate due volte, al botteghino e con le tasse (per chi paga le tasse). E il ministro Franceschini non ha un addetto stampa (pardon, alla comunicazione) che gli suggerisca frasi meno banali sulla differenza fra cinema e tv? 

Ha detto: la differenza non è più tra grande e piccolo schermo ma tra esperienza individuale ed esperienza collettiva, quando al cinema è meglio andarci nel primo pomeriggio per non avere disturbatori attorno che tossiscono e chiacchierano. Tutti i premiati hanno ripetuto le seguenti frasi: «Sono emozionato Io non lo volevo fare questo film.

Non mi sentivo all'altezza» (vabbè ci sta, ma siete gente dello spettacolo!); «Non me l'aspettavo e quindi per scaramanzia non ho preparato il discorso» (la scaramanzia è un grande segno di professionalità?), «Ringrazio la mia famiglia che» (un esasperato familismo che pareva dicesse: se non ci fossero i miei che mi mantengono non potrei fare questo mestiere). 

Persino Sabrina Ferilli ha ringraziato la famiglia che la sopporta e merita tanti David (ma chi, l'imprenditore Flavio Cattaneo?). A mezzanotte il cinema italiano ha detto la sua sull'invasione dell'Ucraina da parte di Putin: Drusilla ha letto il discorso di Charlie Chaplin ne «Il Grande dittatore» contro la guerra. Davvero un gesto coraggioso! Lunga vita al cinema italiano.

Massimo Colaiacomo per “la Repubblica” il 4 maggio 2022.

«Il conte Carandini fermo come Torre in Pietra che non crolla lancia il manifesto della nuova Internazionale: "Agricoltori di tutto il mondo unitevi! La terra ai Carandini!" » . Chi altri se non la penna caustica di Ennio Flaiano ( «mi spezzo ma non m' impiego») poteva condensare in un epigramma la figura del conte Nicolò Carandini, partigiano, liberale e proprietario della tenuta di Torre in Pietra e insieme ironizzare su uno slogan del Pci?

Nella Roma del dopoguerra, l'arte del motteggio e del calembour, della facezia e dell'arguzia, talvolta anche licenziosa, aveva il suo palcoscenico naturale nei tavoli dei caffè. Che fosse il bar Rosati, a piazza del Popolo, o il caffè Aragno, in via del Corso nel palazzo oggi occupato da Apple, o Babington, in piazza di Spagna, o l'Antico Caffè Greco, in via dei Condotti, una carovana di straordinarie intelligenze e di spiriti liberi affrontava una quotidiana transumanza da un caffè a un ristorante. 

Giornalisti, scrittori, sceneggiatori, pittori, registi, scultori a una cert' ora del giorno, più spesso al calar del sole, a un segnale mai convenuto, si ritrovavano a occupare gli stessi tavoli, reduci dalla redazione di un giornale, o da un'atelier o da uno studio di Cinecittà. 

Federico Fellini e Ugo Pirro, futuri pluripremiati con Oscar e David dì Donatello, Giovanni Russo, Mario Missiroli, Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante, Alberto Moravia (" l'amaro Gambarotta", era il calembour coniato per lui dallo scultore Mazzacurati). 

Sui tavoli di quei caffè hanno preso corpo sceneggiature di film, come accadeva per Roberto Rossellini, frequentatore del caffè Strega di via Veneto: lo stesso da un cui tavolo il sulfureo Flaiano vedeva avanzare Vincenzo Cardarelli, intabarrato d'estate come a Natale, per apostrofarlo come " il più grande poeta morente"; o idee per un romanzo o un saggio.

Mario Pannunzio (" il profeta del passato", secondo lo spirito caustico del solito Mazzacurati) aveva nel caffè Rosati una succursale della redazione del Mondo, che era in via della Colonna Antonina, di fronte alla Camera. 

Il caffè Aragno era stato, negli anni del regime, la meta prescelta dagli antifascisti che si ritrovavano nella terza sala interna. Dalla fine della guerra fino a tutti gli anni Settanta, in quel triangolo compreso fra piazza del Popolo, via del Corso e via Veneto si ritrovò quella società di intellettuali e di artisti, testimoni dell'effervescenza e della creatività di un Paese uscito materialmente distrutto dalla guerra ma ricco di energie civili e morali che sapevano felicemente esprimersi nelle diverse forme dell'arte.

L'Italia pluripremiata nel cinema a Hollywood, con Fellini, e la nomination per Rossellini, non era più solo il Paese sconfitto, ma si imponeva sempre più come una nazione in grado di risollevarsi faticosamente e non senza contraddizioni fino a ritrovare una propria identità. Roma, con i suoi caffè e i giovani talenti squattrinati che li frequentavano, fu in qualche modo il motore della rinascita civile, aiutata in quegli anni anche dal prestigio e dall'autorevolezza che circondava la politica.

Del fervore di quella stagione, delle speranze come delle inquietudini che accompagnavano quella generazione, Eugenio Scalfari è stato autorevole protagonista e testimone. La sera andavamo a via Veneto, uscito nel 1986, è un po' il regesto degli anni che dal Mondo di Pannunzio rotolarono, sotto la sferza degli eventi, verso la nascita di Repubblica. A via Veneto capitava saltuariamente un altro testimone d'eccezione, Giovanni Russo, "Giovannino" lo chiamavano gli amici, inviato speciale del Corriere della Sera e autore di grandi inchieste sulle condizioni del Mezzogiorno.

 «Con Flaiano e Fellini in via Veneto, Dalla Dolce vita alla Roma di oggi» non è solo la sua memoria affettuosa o nostalgica di una stagione irripetibile, o non ripetibile in quegli stessi modi. È piuttosto l'amara delusione di chi ha visto sfiorire fino a spegnersi quella tensione civile e morale grazie alla quale l'Italia poteva riconoscersi nella sua storia. Alla fine degli anni Sessanta, attraversando piazza del Popolo in compagnia di un collega, Ennio Flaiano indicò una comitiva di giovani capelloni attovagliati rumorosamente ai tavoli del caffè Rosati. « Vedi quelli? - disse Flaiano credono di essere noi».

Dario Salvatori per Dagospia il 2 maggio 2022. 

Il problema degli artisti italiani che non hanno successo nel mercato anglo-americano è un vecchio adagio. Stantio e irrisolvibile. Nel suo articolo Gino Castaldo cita alcuni dei nostri senatori, Franco Battiato, Francesco De Gregori, Lucio Dalla, Vasco Rossi, Mina, Fabrizio De Andrè, Lucio Battisti e nessuno di loro ha mai sfondato  negli Stati Uniti o in Gran Bretagna. I tentativi di De Gregori  e di Battisti sono decisamente da dimenticare. 

Il fatto è che in America si vuole qualcuno che si esprima correttamente nella loro lingua. Questo accade  sia nel cinema che nella musica. Si dice sempre “abbiamo i migliori doppiatori al mondo”, certo, perché altrove non ci sono. Si preferisce vedere il film in originale.

Un mercato che da noi non è mai partito. In compenso, per esempio nel nord Europa, abbiamo bambini che crescono bilingue perché vedono film originali. Cantanti o attori è lo stesso. Oppure sei destinato ad essere una figura “etnica”. Jennifer Lopez è arrivata a 52 anni  e nel 90%  dei casi interpreta una donna latina. Difficile che possa rubare un ruolo a Nicole Kidman. Nella musica è quasi peggio. A Domenico Modugno, nell’anno di “Nel blu dipinto di blu”, che divenne “Volare” in America, pur vincendo due Grammy Awards (il  riconoscimento nacque proprio quell’anno) lo ospitarono in uno show di prima serata dove interpretava un ruolo da “italiano”, pur avendo tutto, con tanto di pagnotta e fiasco di vino. Era prevista anche Katyna Ranieri, cantante sofisticata, moglie di Riz Ortolani, in quel periodo “resident” al “Ciro’s” di Hollywood dove si radunavano tutti i divi dopo aver girato. Rimase inorridita e  cancellò la sua apparizione.

Nel 1960 cercarono di lanciare due artisti italiani di grande valore: Mina e Umberto Bindi. La prima arrivò in hit con “Il cielo in una stanza”, oltre la centesima posizione, l’artista genovese al n.47. Nello stesso 1958 Marino Marini  si piazzò al n.2 in Inghilterra   con “Come prima” e Renato Carosone nella Top Ten americana con “Torero”. Nel 1962 Emilio Pericoli piazzò “Al di là” (canzone vincitrice al Festival di Sanremo nel 1961 nella doppia versione Luciano Tajoli-Betty Curtis) al n.6 negli Stati Uniti e al 30 nel Regno Unito. 

Nel 1964 toccò a Rita Pavone scalare la hit Usa, ci riuscì con “Remember me” toccando il n.10 (nel 1966 confermò il ruolo di artista internazionale con “Heart” n.21 in America e in Inghilterra l’anno dopo con “You only you” al n.10 nel ’67). Nel 1964 Gigliola Cinquetti, dopo aver sbaragliato tutti al Festival di Sanremo e all’Eurovision, si piazzò con il suo cavallo di battaglia  (“Non ho l’età”) al n.17 (nel 1971 con “Go” andò meglio , n.8). Incuriosiscono  casi sporadici di grande effetto, per esempio “Il silenzio” di Nini Rosso al n.8 nel 1965 in Inghilterra e la versione italiana di “Zorba’s dance” di Marcello Minerbi al n.6 nello stesso anno. Si tenga conto che in quel periodo Minerbi aveva un grande successo in Italia come componente dei Marcellos Ferial, quelli di “Sei diventata nera”, per intenderci. 

Arriva anche il turno di Ennio Morricone con “The good, the bad and the ugly”(“Il buono, il brutto e il cattivo”) addirittura al n.1 in Inghilterra, condividendo il primato con l’orchestra di Hugo Montenegro. Morricone si ripeterà tredici anni dopo toccando la vetta nel 1981 con “Chi mai”, tema tratto dalla serie “The life and times of David Lloyd George”.

Nominalmente gli anni Settanta si chiudono con i tour in tutto il mondo di Raffaella Carrà, la quale con “Do it, do it, again”  entra nei Top Ten inglesi  collocandosi al n.9. Un caso è rappresentato dal successo al di là dell’Atlantico di Eros Ramazzotti e Laura Pausini, beniamini del pubblico latino, ma nei entrati nelle top generaliste. Gli anni Ottanta si aprono all’insegna di Sabrina Salerno, popolarissima in tutta Europa. N.3 in Inghilterra con “Boys”. Sua rivale, ma anche compositrice, Spagna, che con “Call me” (n.2)riesce a scalzare in hit addirittura Michael Jackson. 

I Novanta segnano il successo di Zucchero, “Senza una donna” (“Without  a woman”) n.4 nel 1991. Il 1995 è l’anno dell’affermazione di due brand italiani: “Miss Sarajevo” dei Passengers al n.6 e  “If you wanna party “  di Molella featuring Outhere Brothers al n.9. L’anno dopo è il turno di Luciano Pavarotti che agguanta il n.2 in America con “Nessun dorma” nel 1996, a cui si affianca l’anno dopo “Con te partirò” di Andrea Bocelli sempre al n.2 statunitense. 

Come si vede un panorama esteso, complesso, che annovera più stili e più personalità. Non  vero che dopo Modugno le classifiche anglo-americane  abbiano chiuso le porte agli artisti italiani. Diciamo che gli italiani, stando alle critiche dei d.j, difettano in “groove” e “bounce”. Quest’ultimo è un termine coreutico ed esprime il molleggiamento e la velocità del brano.

Negli anni Cinquanta i 45 giri, sotto al titolo del brano, degli autori e dell’interprete, compariva questo termine, forse per aiutare i ballerini, e dunque un “medium bounce” assicurava seduzione alla coppia ma anche un minimo di foga nell’allaccio. Se tutta questa vasta schiera di interpreti ci ha lasciato innumerevoli compilation e clip di alto valore, ora  toccherebbe ai nuovissimi darsi da fare. In tre lustri di dominio (diciamo anche di monarchia) di rapper non c’è stato nessuno in grado di essere in qualche modo competitivo. Guardate i rapper americani, impostano la coreografia, si piazzano davanti ai ballerini, sanno cosa fare. I nostri no. Guardate Frankie Hi-Nrg-mc: voce baritonale e ruolo di Erode nel “Jesus Christ Superstar”. Ma non era lui il primo rapper? E’ il bounce bellezza! 

Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 30 aprile 2022. 

«Dobbiamo far sì che sia versata agli interpreti una percentuale congrua dei ricavi». «Gli attori dovrebbero avere un compenso adeguato e proporzionato agli incassi». Quelle pronunciate nei giorni scorsi da Neri Marcoré ed Elio Germano non sono frasi dal sen fuggite, ma lo sparo di partenza di una nuova fase nei rapporti tra attori, produzioni e istituzioni in Italia. I motivi dello scontento non sono di semplice comprensione per lo spettatore comune, abituato a considerare gli interpreti una casta di eletti, ricchi e famosi.

A differenza di Hollywood, in Italia i compensi delle star del cinema sono segreti, tutto si muove sul filo del «si dice». Secondo la rivista americana People With Money, nell'ultimo anno Terence Hill e Stefano Accorsi avrebbero fatturato 58 milioni di euro a testa, mentre per Money.it Checco Zalone per il solo Quo vado? avrebbe guadagnato, da attore e sceneggiatore, 6 milioni. 

Qualche anno fa il sito di lifestyle snapitaly.it aveva stimato il patrimonio di Roberto Benigni intorno a 245 milioni di dollari, 75 quello di Sofia Loren, Monica Bellucci sui 45. Sempre secondo il sito, i grandi volti del nostro cinema inciderebbero mediamente sul budget del film di circa il 15%, con compensi dai 200 mila euro di Luca Zingaretti per un episodio di Montalbano ai 300 mila a pellicola per star come Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea. 

Ma i top player sono pochi e in realtà il settore è in grave sofferenza. Ben oltre il famigerato «zero virgola», la risicatissima quota di diritti connessi spettanti agli attori che ha fatto esplodere la protesta.La madre di tutti i problemi è che in Italia, dal punto di vista fiscale, agli interpreti non viene riconosciuta una specificità propria, rientrando nella categoria generica dei lavoratori della comunicazione.  

Un calderone indistinto, dai calciatori ai portalettere. A differenza di questi ultimi, gli attori dell'audiovisivo non hanno mai avuto un contratto collettivo di lavoro. Per questo un paio d'anni fa 1.400 interpreti di cinema, televisione e palcoscenico hanno creato Unita, l'Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.  

Uno dei soci fondatori è Francesco Bolo Rossini (a breve a Cannes con la serie di Bellocchio Esterno Notte): «È dai primi anni Duemila - dice - che l'Europa ci chiede un contratto che stabilisca minimi sindacali, garanzie e diritti. Siamo l'unico Paese occidentale a non averlo. In più il Fondo di Previdenza per i Lavoratori dello Spettacolo è la sola cassa Inps in attivo: ha un tesoretto di oltre 5 miliardi di euro e produce un utile di esercizio annuo di circa 300 milioni. 

 Visto che il nostro è un settore con pochissimo welfare, l'avanzo consentirebbe di aiutare gli attori nei momenti di inattività. Questo ora non è possibile, perché con il sistema dei vasi comunicanti della previdenza italiana quelle somme vanno a coprire i disavanzi delle altre casse».

Poi c'è la proverbiale discontinuità dell'attore: in Italia vengono pagate solo le pose (le giornate effettive di riprese sul set), il resto va per la gloria. Non aiuta la prassi consolidata adottata dalla maggior parte delle produzioni di imporre all'attore la retribuzione a partita Iva anziché l'assunzione a tempo determinato. «Non esiste mestiere più subordinato di questo», spiega ancora Bolo Rossini.  

«L'attore deve sottostare a un rigido sistema di regole fissato dal datore di lavoro: presentarsi in un certo luogo in un dato momento, lavorare per un determinato numero di ore, per mesi non può neanche tagliarsi barba e capelli. È a tutti gli effetti un lavoratore dipendente. L'assunzione non è impossibile da ottenere, ma devi avere un potere contrattuale particolarmente forte. Esistono produzioni virtuose sensibili ai diritti, ma in molti casi se non fatturi viene scelto qualcun altro». 

Quanti sono gli attori in Italia? Difficile dirlo. Secondo l'Inps 83.390, con una media annua di 15 giornate lavorate e 2.818 euro guadagnati. Ma la cifra include anche i numerosissimi non professionisti, magari in virtù di una sola comparsata.

A fronte di un 3-4% di star e una percentuale analoga di attori cosiddetti «sopra la linea», c'è un 90% che galleggia o addirittura non riesce a camparci. Per contarsi, un collettivo di attori ha dato vita al Raai, Registro Attrici Attori Italiani, il censimento è in corso. «Un albo professionale non lo si può creare, perché la Costituzione Italiana prevede il libero accesso all'arte», spiega la portavoce Karin Proia, nel cast di Boris.  

«Ma è fondamentale almeno delimitare il perimetro del professionismo. Vanno definite anche le tutele, al momento praticamente inesistenti o irraggiungibili ai più. Un esempio tra i tanti: per accedere alla maternità, attrici e danzatrici devono lavorare all'ottavo mese. Posto che tu sia in grado di farlo, ma chi ti prende con il pancione? Certo non la produzione di un film, visto che la pancia cresce e creerebbe problemi di continuità nelle scene. E ve la immaginate una ballerina sulle punte a un mese dal parto?».

·        I Laureati.

Via la cuffia e gli occhialini, su il tocco! Da oggi chiamatela dottoressa Federica Pellegrini. Redazione Università su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022.

«La Divina» ha ricevuto oggi la laurea honoris causa all’università San Raffaele di Roma con una lectio magistralis su «La donna e la performance sportiva: come il ciclo mestruale può influenzarne la prestazione»

Federica Pellegrini

Via la cuffia e gli occhialini da nuoto, su il tocco! Non è stato solo Tim Cook questa mattina ad essere insignito della laurea honoris causa in un’affollata cerimonia alla Federico II di Napoli. Anche Federica Pellegrini da oggi è «dottoressa» in Scienze Motorie: la «divina» del nuoto italiano si è laureata «honoris causa» all’Università San Raffaele di Roma con una lectio magistralis dal titolo «La donna e la performance sportiva: come il ciclo mestruale può influenzarne la prestazione». Dalla prima medaglia di bronzo agli assoluti italiani nei 200 stile libero del lontano 2002 alla serie impressionante di vittorie in Italia e sui palcoscenici internazionali, fino ad arrivare ai Giochi di Tokyo, Pellegrini ha lasciato in eredità ai giovani un modello da seguire, abbinando ai comportamenti corretti in vasca e fuori la consapevolezza che nella vita si possono raggiungere risultati impensabili attraverso l’allenamento e il sacrificio. «Abbiamo voluto premiare non solo una campionessa con un palmarès straordinario, ma anche la persona che si distingue per le sue doti di sensibilità, per la sua voglia di sorprendersi, per la sua grande determinazione e per il suo impegno civile e sociale» ha affermato Vilberto Stocchi, Magnifico Rettore dell’Università.

La cantante Annalisa

La cantante Annalisa, di cognome Scarrone, che è stata scoperta da Amici ed è approdata anche a Sanremo, ha in tasca anche una laurea in fisica. Nata nel 1985 a Savona, ha studiato canto dall’età di 13 anni e si è diplomata al liceo scientifico prima di iscriversi all’Università di Torino, corso di laurea in fisica. Una scelta che, come lei stessa ha spiegato, è derivata «dalla piena coscienza dell’importanza di un titolo di studio e di una formazione culturale per la successiva ricerca di un lavoro e realizzazione personale»: «Io mi sono iscritta a fisica semplicemente perché mi piaceva. Ho iniziato fin da bambina a studiare musica e avevo intenzione di portare avanti anche quello. Quindi quando sono arrivata alla fine del liceo scientifico ho scelto una cosa più che altro che mi piacesse e che avrei potuto portare avanti insieme agli studi musicali».

Marco Malvaldi

Un’altra laurea che non ti aspetti è quella di Marco Malvaldi, l’autore dei gialli del BarLume da cui è stata tratta la serie tv con Filippo Timi. Nato nel 1974 a Pisa dove

Via la cuffia e gli occhialini, su il tocco! Da oggi chiamatela dottoressa Federica Pellegrini

di Redazione Università

«La Divina» ha ricevuto oggi la laurea honoris causa all’università San Raffaele di Roma con una lectio magistralis su «La donna e la performance sportiva: come il ciclo mestruale può influenzarne la prestazione»

Mr. Bean

Lo sapevate che Mr. Bean alias Rowan Atkinson ha conseguito una laurea in ingegneria elettrica presso il Queen’s College di Oxford? Ebbene sì: il grandissimo comico inglese ha iniziato a lavorare al suo personaggio più famoso, la quintessenza dell’inglese maldestro, proprio mentre studiava all’università. 

Ma non c’è solo lui. Ecco un elenco di laureati famosi che forse non vi aspettate, pescati dal mondo dello spettacolo e dello sport, ma anche da quello delle lettere dove dietro i nomi di famosi scrittori si nascondono laureati in ingegneria, matematica e chimica (dall’ingegnere Carlo Emilio Gadda in giù).

Giorgio Chiellini

Il difensore e vice capitano della Juventus, classe 1984, ha conseguito la maturità scientifica al liceo Federigo Enriques di Livorno con il voto lusinghiero di 92/100 e nel 2010 si è laureato in Economia e commercio a Torino (voto 109). Meno sorprendente il titolo della tesi: «Il bilancio di una società sportiva, il caso di Juventus Football Club».

vive tuttora, Malvaldi non ha studiato Lettere, Storia o Filosofia, ma si è laureato in Chimica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, per poi conseguire un dottorato e fare per diversi anni l’assegnista di ricerca prima di abbracciare la carriera di scrittore. Talento multiforme, ha studiato anche al Conservatorio, tentando pure la carriera di cantante lirico...

Sio

Sio, alias Simone Albrigi (1988), autore della fortunatissima serie di fumetti Scottecs, è laureato in Lingue orientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il suo canale youtube, con i video scientifico-demenziali del dottor Culocane e le ricette assurde della signora Mariangiongiangela, ha 600 mila iscritti e conta 63 milioni di visualizzazioni.

Jodie Foster

L’ex bambina prodigio che a 3 anni già faceva la pubblicità del Coppertone in tv, la baby prostituta di Taxi Driver che diversi anni dopo, nei panni della giovane e tenace recluta di polizia Clarence Starling, riesce a conquistarsi il rispetto e un non scontato salvacondotto da Hannibal the cannibal Lecter nel Silenzio degli innocenti, si è laureata in letteratura inglese a Yale.

Cindy Crawford

La top model Cindy Crawford, icona dell’America rampante anni 80, ha mancato invece la laurea in ingegneria chimica: lasciò la Northwestern University per dedicarsi alla carriera di modella che le ha fruttato un patrimonio attorno ai 100 milioni di dollari. Non per niente vanta un quoziente di intelligenza altissimo: 156.

Hugh Grant

Hugh Grant si è laureato in letteratura inglese al New College di Oxford. Indimenticabili le sue foto in costume leopardato a un party della Piers Gaveston Society, la confraternita della gioventù dorata e debosciata di Oxford di cui ha fatto parte anche l’ex premier britannico David Cameron.

Claudio Baglioni

Il cantautore romano invece aveva lasciato la facoltà di Architettura dopo il successo di Questo piccolo grande amore a metà degli anni 70. E’ tornato alla Sapienza per dare gli ultimi esami ed è stato proclamato dottore discutendo una tesi sul restauro architettonico e la riqualificazione del gasometro di Roma nel 2004.

Emma Watson

Altra laureata in letteratura inglese, questa volta però alla Brown University, è Emma Watson-Hermione. La maghetta di Harry Potter, cresciuta sotto gli occhi degli spettatori nel corso dei vari episodi della saga cinematografica, si è iscritta alla Brown nel 2009, quando era già stata nominata «attrice dal maggior incasso del decennio». 

Durante gli studi nella prestigiosa università dell’Ivy League, «nessuno mi ha mai chiesto un autografo», ha raccontato la Watson in un’intervista. Ma il giorno del diploma era accompagnata da una guardia del corpo nascosta sotto tocco e toga.

Elio (e le storie tese)

Stefano Belisari, in arte Elio, autore di canzoni di culto come Cara ti amo, dopo il diploma al Conservatorio di Milano si è iscritto al Politecnico dove si è laureato in ingegneria elettronica nel 2002.

Quentin Tarantino

Meglio di lei, a Hollywood, fa solo Quentin Tarantino. Il regista di film di culto come Le Iene, Pulp Fiction, Kill Bill e Bastardi senza gloria, ha un QI di 160, pari a quello dell’autore della teoria dei buchi neri Stephen Hawking.

The Rock

Il wrestler e attore Dwayne Douglas Johnson, più conosciuto come The Rock (fra i suoi ultimi film, Fast and Furious 5 e 6, G. I. Joe -La vendetta, Hercules il guerriero), si è laureato in criminologia all’università di Miami.

Edoardo Bennato

Nato a Bagnoli nel 1949, Edoardo Bennato si è laureato in Architettura con una tesi intitolata «Ristrutturazione della zona dei Campi Flegrei con particolare riferimento alle reti di trasporto urbano collettivo».

Guglielmo Stendardo

Il difensore dell’Atalanta non solo è laureato in Giurisprudenza ma ha anche superato l’esame di Stato per diventare avvocato due anni fa dopo un primo tentativo fallito.

Il giorno in cui ha passato l’orale presso la Corte d’Appello di Salerno ha dichiarato: «Volevo dimostrare come sia possibile conciliare la professione di calciatore con gli studi». Impresa tutt’altro che facile, visto che quando lo stesso Stendardo, alcuni mesi prima, aveva chiesto un permesso di tre giorni per andare a sostenere gli scritti, l’allenatore non solo glielo aveva negato (si era alla vigilia di una partita importante con la Roma poi finita malissimo: 3-0) ma gli aveva anche comminato una multa salata.

Sara Tommasi

La starlette divenuta tristemente famosa per aver preso parte ai festini erotici nelle residenze dell’ex premier Silvio Berlusconi, quelli finiti sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo come i «bunga bunga parties», vanta una laurea in Economia alla Bocconi. Oggi recita in film porno.

Carlo Verdone

Dopo la maturità classica al liceo Nazareno di Roma e prima di girare il suo primo film, Un sacco bello, Carlo Verdone si è laureato alla Sapienza in Lettere Moderne con una tesi sull’influenza della letteratura italiana nel cinema muto italiano. «Questa tesi è venuta a Carlo Verdone in «Un sacco bello»

fuori un po’ per caso - ha raccontato in un’intervista -. Tutto il mio piano di studi era stato incentrato sulla storia delle religioni dell’Oriente antico».

Renzo Arbore

Il foggiano «naturalizzato» napoletano Renzo Arbore si è laureato in Giurisprudenza alla Federico II. Di quegli anni ha raccontato: «Ero uno studente tutt’altro che eccellente. Uno così così».

Natalie Portman

L’eterea protagonista del Cigno nero, si è laureata in Psicologia ad Harvard nel 2003. Nata a Gerusalemme nel 1981, ha iniziato la sua carriera d’attrice giovanissima, recitando nel film di Luc Besson Léon al fianco di Jean Reno.

Arnold Schwarzenegger

L’ex governatore della California, Arnold «Teminator» Schwarzenegger, ha al suo attivo oltre a un passato come campione di culturismo e una filmografia che va da Conan il barbaro a True Lies, anche una laurea in Economia con specializzazione in marketing dello sport all’università del Wisconsin.

Paolo Giordano

Paolo Giordano, premio Strega nel 2008 con il romanzo La solitudine dei numeri primi, è laureato in Fisica delle interazioni fondamentali presso l’Università degli studi di Torino. Nel 2010 ha conseguito il dottorato di ricerca in fisica teorica.

Checco Zalone

Luca Medici, in arte Checco Zalone, si è laureato in Giurisprudenza a Bari, «l’unica città al mondo - come ha dichiarato lui stesso - in cui ci sono più avvocati che cittadini».

·        Poppe al vento.

Ida Di Grazia per leggo.it il 24 agosto 2022.

Victoria De Angelis, la bassista dei Maneskin, continua sfidare la censura e l'algoritmo di Instagram postando scatti super sexy in cui mostra orgoliosa il suo corpo coprendo solo il seno con il nastro adesivo. Anche le sue performance sono spesso "nipple free", ma è proprio così originale? 

 Per Victoria gli scatti senza veli in cui mostra orgogliosa il suo corpo sono una sfida, post dopo post, all’algoritmo di censura di Instagram. Anche sul palco con i Maneskin si mostra spesso con dei copricapezzoli in stile burlesque. Ad esempio sul palco del Lollapalooza 2022, nei giorni scorsi, dopo aver messo solo il nastro adesivo a forma di "x" a coprire il seno, ha concluso il concerto togliendo anche quelli.

Provocatrice e libera dalle convezioni sociali la De Angelis è davvero così all'avanguardia? Tralasciando l'encomiabile messaggio di body positive, che continua a sottolineare sia nelle interviste che con le sue foto, in cui evidenzia l'importanza di accettarsi sempre e che tutti i corpi sono belli, c'è chi davvero provocava e "sconvolgeva" il pubblico italiano quasi cinquant'anni prima. 

Stiamo parlando di Amanda Lear: eclettica, raffinata e provocatrice per eccellenza, la musa di Dalì, che oggi ha 82 anni portati divinamente, aveva usato il nastro adesivo sul seno già nel 1974 (anno in cui tra le altre cose, registrò insieme a David Bowie la sua prima canzone intitolata Star, che non venne mai pubblicata), quando la società era decisamente meno "libertina" rispetto ad oggi ed il senso del pudore e la censura, quella vera, poteva mettere fine alle carriere degli artisti del piccolo schermo.

Che gli artisti possano ispirarsi, a quelli del passato, o addirittura citarli, ovviamente non è una novità, nè qualcosa da condannare, anzi. Ne abbiamo un esempio proprio in Italia con Loredana Bertè e Madonna. I look della Bertè - il pancione, l'abito da sposa ecc... - sono stati di ispirazione per lady Ciccone, cosa che Loredana sottolinea anche sui social. Come ad esempio quando su TikTok ha postato uno scatto di Madonna del 1992 che fa l'autostop nuda vs il suo del 1984. 

Ma quindi la domanda nasce spontanea:  nessuno si inventa più nulla? E' già stato tutto fatto ed è già stato detto tutto? Dov'è la fantasia?

·        Il lato eccentrico (folle) dei Vip.

Barbara Costa per Dagospia il 17 dicembre 2022. 

50 anni di caz*i famosi, di caz*i dei potenti! Fa 80 anni Anthony Summers, uno dei più grandi… quale definizione metto, quella di saggista, o quella più spregiata di illustre gossipparo? Non v’è saggista di gossip più serio e di successo e invidiato di Anthony Summers, indagatore delle mutande del potere: presidenti, star, capoccia di Hollywood, icone, non c’è famoso smutandato a più riprese da Summers, e sopra tutti c’è lui, J. Edgar Hoover, per 40 anni capo dell’FBI, e crocifisso da Summers in una pruriginosa biografia, hard, e per questo motivo: è Summers che spiattella al mondo che Hoover, l’integerrimo e moralista Hoover, in verità era omosessuale e travestito e non come lo filma Clint Eastwood, dove Hoover era morbosamente attaccato alla mamma, tanto da indossare i di lei vestiti e sottane, no, non solo: J. Edgar a casa si infilava tutù rosa e scarpette da ballo, e… piroettava in salotto. 

Una passione pesante pure per il suo amante di una vita, Clyde Tolson, suo vice FBI, relazione clandestina a chiunque tranne a una persona, chi? John F. Kennedy!!! Hoover ha intercettato ogni presidente che ha avuto, ascoltato le loro telefonate, e curiosava sulle amanti di Kennedy. Siccome Kennedy agiva per restringere l’autonomia della CIA e dell’FBI, Hoover, in ambasce per un tale declassamento, un giorno porta i nastri delle sc*pate di JFK a Bob Kennedy, min. della Giustizia (e neo capo str*nzo di Hoover per volere di JFK), sicuro di ricattarli.

Ma i Kennedy non erano stupidi e giocavano d’anticipo, sempre, e mostrarono a Hoover le foto di lui che si baciucchiava Tolson, domandandogli pure come andavano le prove in tutù. C’è voluta Dallas per fermare John F. Kennedy, assassinio che Anthony Summers fissa in "Cospiracy" (c’ha avuto non so quante edizioni, aggiunte, scoop e nuovi titoli), dove sbugiarda il "Rapporto Warren" e scrive che a sparare tra i cecchini ci sono i cubani quindi c’è Castro. Castro!!!

Kennedy non lo voleva fare fuori, no, sono stati i suoi predecessori a volerne la testa con piani paralleli alla "Baia dei Porci" di cui Nixon, 8 anni vicepresidente di Eisenhower, sapeva. E come li sapeva Hoover. Ma come non li sapeva Kennedy, che per questo muove guerra a FBI e CIA e che forse è per questo – è anche per questo – che gli fanno saltare il cervello…

Certo, Hoover sapeva che i Kennedy si sc*pavano Marilyn Monroe: Summers lo scrive nella sua "Dea", biografia di Marilyn Monroe, e porta le prove. Quali? I numeri di telefono. Se la Monroe nel suo appartamento di New York sulla 57esima est, che divideva da sposata con Arthur Miller (lo sapevi che Miller era feticisticamente fissato cogli alluci di Marilyn? E che Marilyn non portava mai gli slip, nemmeno col ciclo?

E che ha avuto fino a 15 aborti accertati da Summers, e forse un figlio, quando aveva 14 anni, dopo una violenza, o no, avuto a 21, ma dato in adozione, le avrebbe intralciato la carriera…), sull’elenco del telefono di New York il numero di casa Miller/Monroe stava sotto intestatario "Marilyn Monroe": Monroe che sta per nome e Marilyn per cognome, ed era il loro numero vero… e nessuno lo sapeva!

Che roba, ma senti: Marilyn, nella sua villa in California aveva due telefoni, uno rosa, ufficiale, e uno bianco, segreto, dove 476-1890 aveva un filo diretto col numero privatissimo di Bobby Kennedy, o altrimenti col “RE7-8200, il centralino principale del ministero della Giustizia”, e questo poco prima di morire, quando Bobby chiude con lei per quella volta che Marilyn s’era azzardata a chiamarlo a casa, e aveva risposto Ethel, la moglie di Bobby…

Ha fatto bene il "Toronto Sun" a dire che Woodward e Bernstein a Anthony Summers gli spicciano casa (traduzione mia) e infatti cambiamo Presidente: Franklin D. Roosevelt. Dovete sapere che i Roosevelt erano un clan dove si sposavano sempre tra cugini, e cugini erano Franklin e Eleanor, 6 figli, e letti separati: FDR ha avuto più amanti di JFK e una per 20 anni, Lucy Mercer, con cui faceva sesso pure alla Casa Bianca, contando sulla complicità di Anna Roosevelt, sua figlia. 

E ci sta Lucy e non Eleanor con FDR quando a FDR piglia un colpo, e c’è Lucy e non Eleanor quando Franklin D. Roosevelt muore. Eleanor mica si disperava per le corna del marito: lei ci faceva figli ma in realtà era lesbica e una delle sue amanti più focose era Lorena Hickok, corrispondente dell’AP. Hoover mette sotto intercettazione più Eleanor che suo marito il Presidente, e Hoover dal 1964 al 1968 intercetta Martin Luther King, uomo da cui era ossessionato: è così che sappiamo del pene allegro del reverendo King, che amava le orge, e godeva di più se erano interracial.

Se il Presidente Nixon aveva una sola amante e cinese sicché per Hoover pericolosa nemica comunista, è Nixon che al telefono – intercettato – sa che “quel rompicaz*o di Hoover” è morto. E ci ride forte su. I caz*i di Nixon sono tutti in "Nixon – The Arrogance of Power", libro di Summers, e sono qui i suoi epiteti razzisti e le sue risate sguaiate, è qui il gossip della sua presunta omosessualità. Nixon era gay??? 

Chissà, fatto sta che da Presidente trascorreva numerosi weekend a Miami in casa di Bebe Rebozo, un lobbista, e uno che aveva finanziato le campagne elettorali di Nixon. Rebozo che era un mafioso. Mai la mafia impera nei libri di Summers quanto nella biografia che lui dedica a Frank Sinatra: sapete che Sinatra era proprietario del Cal-Neva, casinò con resort di Las Vegas, dove i suoi compari mafiosi riciclavano i proventi illeciti.

Questo Cal-Neva era posto al confine tra Nevada e California, e aveva una piscina enorme, metà in uno stato, metà in un altro. Su questa piscina svettava una bella fune rossa. Serviva a segnare il confine. Sul lato della California, quiete assoluta. Sul lato del Nevada, vai a festini, e alcool, e droghe e orge con m*gnotti e m*gnotte. Leggi differenti. 

E non vi dico dei libri che Anthony Summers ha riservato allo scandalo Profumo, agli impicci della CIA e famiglia Bush pre l’11 settembre (libro finalista Pulitzer) e alla scomparsa di Madeleine McCann. E solo perché non li ho ancora letti.

Teresa Cioffi per corriere.it il 7 Dicembre 2022

La loro vita non è la solita routine. Dominano i plachi internazionali, colgono l’ispirazione per dare vita a brani cantanti in tutto il mondo, valorizzano il loro lato eccentrico (e a volte un po’ folle) per emozionare i fan. Sono artisti. Ma anche i grandi cantanti hanno le loro abitudini. Strane, in molti casi. A volte si tratta di piccole fissazioni per l’igiene, in altri casi di riti scaramantici o di hobby particolari. Dai grandi del rock alle icone del pop, andiamo a scoprire tutte le stranezze delle star. 

The Rolling Stones e la shepherd’s pie

Insieme hanno fatto la storia del rock, ma non senza strane abitudini prima di salire sul palco. Il loro chitarrista, Keith Richards, non rinunciava al suo piatto preferito prima di esibirsi. Ogni volta si faceva portare in camerino la sua shepherd’s pie, un pasticcio di carne ricoperto di purè di patate. Si racconta che un giorno un ragazzo della sicurezza non abbia resistito alla tentazione e ne abbia assaggiato un pezzettino. Nessun perdono: pare che Richards si sia rifiutato di salire sul palco.

Bono Vox e il cappello portafortuna

Pare che Bono avesse l’abitudine di portare con sé in tour un cappello portafortuna. Nel 2003 gli U2 si trovavano in Italia per salire sul palco del concerto di beneficenza di Luciano Pavarotti. Arrivato nel nostro Paese, Bono si accorse di aver dimenticato il suo cappello a Londra. Senza perdere un minuto fece portare il suo accessorio preferito all’aeroporto di Gatwick in taxi e fece in modo che il cappello prendesse il primo volo diretto in Italia. Sembra che avesse chiesto ai piloti della British Airways di tenerlo con loro fino all’arrivo. Le voci dicono che abbia speso 1.700 euro per il viaggio del suo cappello.

Céline Dion e la temperatura in camerino

23 gradi. Non uno in più e non uno in meno. Era questa la temperatura che la cantante di «My Heart Will Go On» e di «It’s All Coming Back To Me Now» pretendeva nel suo camerino ad ogni concerto. Una fissazione più che un’abitudine, ma ognuno ha le sue richieste. E quelle di Céline Dion non sono nulla in confronto a quelle di Madonna. 

I water nuovi

La regina del pop non ammette di utilizzare wc già testati da altri. Per questo motivo, quando gira il mondo per i suoi concerti, gli hotel sono costretti ad intervenire con water nuovi di zecca. Una strana abitudine che condivide con Mary J. Blige, ma Madonna chiede anche di più. Ad ogni tappa ci devono essere 30 guardie del corpo, 20 linee telefoniche internazionali e rose lunghe esattamente 15 centimetri.Katy Perry e la fissazione per i denti

Se Madonna si fa scrupoli per l’utilizzo dei water, anche Katy Perry è fissata con l’igiene, in particolar modo con quella dentale. Si lava i denti 6 volte al giorno e lo fa ovunque si trovi. Nella borsa c’è sempre spazio per uno o più spazzolini, senza dimenticare il dentifricio. I suoi incubi peggiori sono le carie, le macchie e l’alito pesante. Una tendenza condivisa con l’ex fidanzato Orlando Bloom, anche se una volta, ad una trasmissione radiofonica inglese, Katy Perry ha raccontato: «Ama il filo interdentale, grazie a Dio, ha dei denti brillanti. Lui però lo lascia ovunque».

 Enrique Iglesias e il biliardo

Il mago del reggaeton estivo che ha fatto ballare migliaia di adolescenti a partire dagli anni Duemila ha anche lui qualche abitudine strana, soprattutto ai concerti. Nel backstage deve sempre avere con sé un tavolo da biliardo. Ovviamente non dice mai di no ad una partita insieme ai membri del suo staff, un rituale ormai diventato irrinunciabile.

Robbie Williams nottambulo

La vita di Robbie Williams è decisamente cambiata negli ultimi anni. Ha detto basta alle droghe e all’alcool. Ha anche smesso di fumare, ma ad una cosa non rinuncia: il cioccolato. Oltre all’abitudine di mangiare dolci, l’ex Take That ha raccontato di essere molto più produttivo di notte che di giorno. A quanto pare non va a dormire prima delle 5/6 di mattina: «Sono un nottambulo, è il modo in cui sono programmato – ha raccontato – lavoro molto e mi sveglio a mezzogiorno. Poi mangio verso le cinque di pomeriggio e mi sento pieno». 

La dieta dei 7 colori

Sul cibo invece è molto attenta Christina Aguilera. Non solo perché la cantante ama avere uno stile di vita sano, ma anche perché la dieta che segue è un piacere per gli occhi. Si chiama «Dieta dei 7 colori» e prevede menù settimanali basati sui colori degli alimenti. Il primo giorno è bianco, il secondo è rosso, il terzo è verde e così via, seguendo la scala cromatica. Il vantaggio consiste nel consumare molte vitamine, minerali e fibre.

Justin Timberlake e l’aria condizionata

Cantautore, ballerino, attore, produttore discografico e maniaco dell’ordine. Anche Justin Timberlake ha le sue abitudini segrete. Una di queste riguarda l’igiene, soprattutto quando va in hotel. E se Madonna pretende di avere wc completamente nuovi, il cantante di «Can’t stop the feeling!» pare si faccia sostituire i filtri dell’aria condizionata in ogni albergo in cui passa la notte. Un'altra curiosità? A colazione pare immerga i biscotti nel latte per esattamente 7 secondi. 

Harry Styles e la pulizia

Anche l’ex cantante dei One Direction pare sia fissato con la pulizia. In un’intervista rilasciata al Daily Mail qualche anno fa, gli altri membri della band inglese Liam Payne, Louis Tomlinson, Zayn Malik e Niall Horan avevano raccontato che «Harry ama che tutto sia pulito e ordinato. È fissato sul fatto di tenere il bus perfettamente a posto. È andato al supermercato e ha comprato una tonnellata di prodotti per la pulizia poiché non gli sembrava che il mezzo fosse abbastanza pulito». Forse iniziava ad esserci un po’ di tensione nella band… 

Lady Gaga prima dei concerti

Agli sportivi viene detto di non fare sesso prima di una gara. Una regola adottata anche da Lady Gaga. Eccentrica e disinvolta, maestra di performance sul palco, la cantante non ha mai fatto del sesso un tabù. Ma, nonostante i costumi e le trasgressioni in scena, ha sempre preso la cosa molto sul serio. Tanto che a Vanity Fair ha raccontato: «Se fai sesso con una persona che non ami rischi di compromettere le energie positive». Per questo motivo, se non è coinvolta, preferisce evitare prima di un concerto.

Kim Kardashian e le iniezioni di sangue

Attrice e modella, si è dedicata alla musica con qualche singolo, il più noto dei quali è «Jam (Turn it Up)». La sua è un’abitudine davvero strana e riguarda il trattamento di bellezza che è abituata a fare. Parliamo di maschere per il viso. Sul mercato ce ne sono di tutti i tipi, ma Kim Kardashian ne utilizza una a base di sangue. Il trattamento si chiama vampire facelift e consiste nel prelevare una certa quantità di sangue e isolare le piastrine così da ottenere un plasma ad alta densità di componenti ematici, che vengono poi infiltrati direttamente nella zona che si desidera rigenerare. 

Orietta Berti e il collezionismo

Anche Orietta Berti ha le sue particolarità, soprattutto per quanto riguarda il collezionismo. La sua passione, oltre alla musica, sono le acquasantiere e ne possiede di ogni tipo, alcune anche regalate dai fan. Non sono però gli unici oggetti da collezione. Pare che la cantante di «Fin che la barca va» abbia in casa anche numerose bambole, alcune delle quali mostrate in tv. Anche i puffi catturano la sua attenzione e sembra abbia numerose statuette blu. 

Arisa al mare vestita

Il suo vero nome è Rosalba Pippa, è nata a Genova nell’82, ama il mare e le piace fare il bagno vestita. Nell’estate del 2020 si è fatta fotografare su bagnasciuga con una maglietta e un sorriso. In didascalia ha scritto: «Una delle cose che adoro è fare il bagno vestita. Voi l’avete mai fatto?».

VICTORIA DEI MANESKIN SUL CESSO

La FOMO di Victoria

Concludiamo con i Maneskin, che sono passati da suonare nelle strade di Roma ai palchi più prestigiosi del mondo. Una stranezza riguarda la bassista del gruppo, Victoria De Angelis, che ha raccontato di soffrire di FOMO, «fear of missing out», ovvero la paura di perdersi sempre qualcosa. Per questo motivo ha raccontato a Radio Deejey di uscire ogni sera: «Anche se sono stanchissima devo uscire per forza».

·        La Tecno ed i Rave.

DJ set Così i rave e la musica techno hanno cambiato il mondo del clubbing. Claudio Coccoluto, Pierfrancesco Pacoda su L'Inkiesta il 2 Settembre 2022.

A un anno dalla sua scomparsa prematura, Baldini + Castoldi pubblica le memorie di Claudio Coccoluto. L‘artista fu tra i primi ad animare la scena internazionale con la cultura del suono dance

La filosofia del suono

Quello che deve caratterizzare un club è la qualità del suono.

Null’altro.

Così dev’essere un club.

Un contenitore ideale, concettuale, dice Coccoluto, un cubo

vuoto, nel quale immettere la musica, che è il messaggio. Tutto il resto è una sovrapposizione inutile. Che serve a distrarre dal potere assoluto del suono.

Il Ministry, appunto. 

La maniera di intendere la discoteca che domina la scena notturna italiana, oggi come negli anni Novanta, è la filosofia del divanetto e dello specchio (o della cubista, più o meno vestita) e dei superospiti televisivi. Il nome del dj non è così importante. La discoteca è ormai un luogo strutturato con privé, tavoli, elementi che tendono a limitare il concetto «democratico» di annullarsi, perdersi nella musica, immergersi nel ballo facendo scomparire ogni tipo di divisione (sociale, sessuale…)

Un tempo era anche una necessità: non esistevano spazi ricercati e bisognava arrangiarsi. Ma noi la vivevamo come uno stimolo e non come una limitazione.

Coccoluto è un teorico della dance.

A lui non servono le belle strutture, ma una stanza con un impianto sopra la media dei sound system che si ascoltano nei locali. Il ballo deve sempre essere il contenuto centrale della notte in un club.

Con l’avvento della house si compie il ritorno all’essenziale, la riscoperta dei valori alla base di una festa: è la cultura del dopo rave, quando il successo di un evento era legato non solo alla qualità dei dj, ma anche alla scelta accurata di luoghi diversi, di scenografie poco usuali, dai parcheggi ai depositi di alimentari, agli hangar degli aeroporti.

Bisognava portare l’esperienza del rave, difficilmente attuabile per l’incapacità di chi organizzava a fronteggiare emergenze come l’invasione di migliaia di ragazzi, all’interno del club. Era la nostra sfida: consolidare una «politica» basata sui contenuti musicali.

Il rapporto con i rave

Il fenomeno dei rave si affacciò in Italia negli anni Novanta sull’onda dello scandalo dei primi rave inglesi. Lo scoprimmo attraverso i racconti dei viaggiatori, dei travellers della dance, che erano stati in Inghilterra e ce ne parlavano. Ma erano reportage nebulosi. Non capivamo esattamente di cosa si trattasse. Migliaia di ragazzi si muovevano, attraversavano nazioni, solcavano campagne e autostrade non per andare a un concerto rock, ma per ballare. E in quei luoghi non c’era un palco con una band che suonava, semplicemente la cabina di un dj. Era lontano da ogni immaginazione che diecimila adolescenti avvolgessero due giradischi e un mixer. E i racconti degli italiani che a Londra avevano provato l’esperienza del rave ne dilatavano la mitologia.

All’epoca il club aveva una dimensione strettamente limitata al territorio. Non si andava a ballare in un’altra città, il locale era un luogo di incontro, un’estensione della propria casa, un posto da comitiva. L’unica realtà in cui esisteva una vera «scena» era la riviera romagnola, dove la densità delle discoteche rifletteva soprattutto un sistema quasi industriale, dal bagno in spiaggia alla pensione, al ballo.

Poi, le regole del rave furono fissate: una lunga sequenza di dj e una durata infinita, se paragonata a una normale serata in discoteca.

Diventai un dj da rave per pura passione «nomadica» e tecnologica. A differenza dei tanti colleghi italiani che in quegli anni si erano avvicinati alla celebrità, ero l’unico a non avere una discoteca fissa. Cambiavo club con frequenza ed ero più disponibile degli altri. E poi avevo comprato, a rate, il primo vero oggetto del desiderio per chi faceva il mio mestiere: il telefono cellulare. Questo mi rendeva reperibile ovunque, sempre, e mentre gli altri dj erano legati a uno spazio fisico, a me nulla impediva di prendere le mie borse dei dischi, salire in macchina e viaggiare.

Il rave era una realtà caotica, una cultura dove la relazione tra musica e droga era fortissima: due concetti complementari. Una realtà, per i miei gusti, troppo inglese, estranea alla mia visione del club, ma il fascino delle moltitudini di ragazzi in adorazione era irresistibile.

Dovevo provarlo.

L’aspetto più innovativo del rave era la libertà assoluta di espressione, che si traduceva in una ricchezza di scelte musicali impossibili da portare nelle sale di una discoteca. Ma la totale improvvisazione ebbe vita breve: i rave si caratterizzarono subito come territori della techno.

La techno era allora il suono contrapposto a tutti gli altri, un suono da «setta». Chi la faceva e l’ascoltava, per definizione e scelta era in aperta opposizione con le altre sfere musicali. Una sorta di linea ritmica di demarcazione: chi la superava, diventava parte di una comunità separata.

I technomaniaci si consideravano degli eletti, come se dal punto di vista musicale e culturale vivessero in un limbo che permetteva loro di guardare con sufficienza il resto del mondo.

E gli altri generi.

Non ho mai amato i BPM [«beep per minute»] esasperati, velocissimi, frenetici, basati su un’ossessione ripetitiva, chiaramente legata al dilagare delle droghe sintetiche. Così mi invitavano ai rave con una funzione specifica: aprire o chiudere, con il mio set.

Le mie selezioni musicali venivano usate in apertura per anticipare gli eccessi elettronici che sarebbero seguiti, oppure all’alba, per riportare serenità con suoni più vellutati. Potevo perciò mettere la musica che amavo, lontana da quello che sarebbe accaduto nelle due ore successive quando sulla pista si sarebbero scatenati i ritmi più brutali, suono che la mia immaginazione nemmeno considerava. Era davvero un altro mondo.

Con questa scelta conquistai il rispetto della generazione dei raver, la tribù della techno (musicalmente diversa dall’elettronica di oggi) che aveva preferito separarsi dalla scena delle discoteche.

La techno era davvero contrapposta alla house, musica invece più melodica, armonica, con parti cantate in primo piano e strumenti musicali tradizionali che incontravano le batterie elettroniche. Basti pensare ai sensuali pianoforti della house di Chicago, un contrappunto melodico che è il segno di distinzione del genere. Ma house e techno erano due comunità contrapposte anche da un punto di vista ideologico, proprio come era accaduto per la disco e il rock, con la differenza che stavolta il dibattito era interno alla club culture. Uno scontro durato un decennio e azzerato soltanto da poco, avvenuto nell’Italia delle squadre di calcio, dei colori e dell’attaccamento alle proprie piccole certezze.

I rave italiani degli anni Novanta erano in verità molto ingenui. Nessuno aveva esperienze organizzative adeguate, nessuno pensava che potesse essere sviluppato (come era successo in Inghilterra) un rapporto di collaborazione con le istituzioni, e non c’erano garanzie di sicurezza per chi andava lì a ballare. Quando accettavamo di mettere dischi in un rave, noi dj sapevamo che non vi era alcuna certezza che l’evento si svolgesse, perché la polizia poteva chiuderlo prima ancora che fosse iniziato. Ma a un rave arrivavano migliaia di ragazzi, e quando si fa ballare così tanta gente i brividi sulla pelle non ti lasciano, dal primo solco sino a quando cedi la consolle a chi è in scaletta dopo di te.

Per i dj il rave ha avuto una grande importanza anche da un punto di vista etico. È stato forse l’unico evento capace di farti interrogare su cosa significa veramente questo mestiere. E su cosa significa il dj per i ballerini. Di certo il nostro era un punto di vista privilegiato. Trovarsi sul palco come le grandi star del rock permetteva di osservare le facce, i desideri di persone molto differenti da quelle che si vedevano in una discoteca.

C’erano tanti tipi di consumatori di rave. La sfida era trovare un sistema di relazioni che potesse raggiungere tutti, al di là delle diversità comportamentali; possibilità, questa, che il club non offriva, perché la discoteca era più selettiva nella proposta e anche nell’accoglienza. Credo che attualmente succeda soltanto a Ibiza che in un club si trovino a fianco, sulla stessa pista, tipologie umane così varie e interessanti. Hanno in comune una sola aspirazione, un solo desiderio: il divertimento, il puro edonismo.

Il rave era un’avventura nuova per tutti. Per chi organizzava, per chi metteva i dischi, per chi frequentava l’evento. Una scoperta continua. La differenza con Ibiza è tutta qui.

Nelle Baleari esiste, senza paragoni nel mondo, un’ipotesi di «divertimento preventivo». Significa che si arriva sull’isola con uno stato d’animo già predisposto al piacere, come se debba obbligatoriamente succedere. Come si trattasse di un valore, di un optional che si acquista nell’agenzia di viaggi nel momento in cui si prenotano l’aereo e la settimana tutto compreso. 

Da “Io, dj. Perché il mondo è una gigantesca pista da ballo”, di Claudio Coccoluto e Pierfrancesco Pacoda, a cura di Gianmaria Coccoluto, Baldini+Castoldi, 176 pagine, 18 euro

·        Alias: i veri nomi.

I veri nomi delle rockstar: da David Bowie fino a Bob Dylan (e molti altri ancora). Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022 

Alcuni hanno scelto il proprio nome d’arte in autonomia, altri lo devono a qualcuno. C’è chi lo ha ereditato, chi lo ha preso in prestito dalla mitologia e chi lo deve ad un maglione

Sono diventati idoli con un nome diverso

Nella storia della musica in tanti, per un motivo o per l’altro, hanno deciso di farsi chiamare con uno pseudonimo. Alcuni hanno scelto un nome d’arte per creare un personaggio, altri per essere finalmente sé stessi. Due cose che non cadono per forza nella contraddizione. Da David Bowie a Joe Strummer, da Freddie Mercury a Sting, andiamo scoprire come le star del rock si chiamavano in origine e per quale motivo hanno scelto il loro nome d’arte.

David Bowie

Ha rivoluzionato il genere del rock e di pseudonimi ne ha avuti tanti. Così come sono stati tantissimi i personaggi che ha esibito sul palco. Mai però la personalità è venuta a mancare. In origine era David Robert Jones, poi è diventato Ziggy Stardust, The Thin White Duke per non dimenticare Alladin Sane, Halloween Jack e Nathan Adler. Più noto come David Bowie, ha voluto mantenere il nome di battesimo, mentre per il cognome si è ispirato ad un tipo di coltello americano, il «bowie» . Il Duca Bianco ha deciso di utilizzare questo richiamo perché «la sua figura poteva tagliare da entrambi i lati, incidendo un solco nella musica». Ma perché «Il Duca Bianco»? Un nuovo alter ego creato poco dopo la pubblicazione dell’album “Station to Station“, del ‘76. Il Duca Bianco era un personaggio aristocratico, elegante e vestito di bianco. Non è però l’unica interpretazione. Alcuni ritengono che il nome derivi dalla sua dipendenza dalla cocaina.

Gene Simmons

Il suo vero nome è Chaim Witz. Nasce ad Haifa, in Israele, in una famiglia ebrea di origine ungherese . Con la madre si trasferisce all’età di 8 anni negli Usa e qui decide di cambiare nome. Diventa Eugene Klein, anche se non passa troppo tempo da una nuova modifica. Preferisce infatti il diminutivo Gene perché ritiene che sia più americano rispetto al nome di battesimo Chaim. Klein invece è il nome da nubile di sua madre. Il cognome in seguito si trasformerà ancora una volta e negli anni sessanta sceglierà il definitivo «Gene Simmons».

Eddie Vedder

L’esponente più rappresentativo del movimento grunge, in realtà si chiama Edward Louis Severson III. Troppo nobile per il rock? in realtà la voce dei Pearl Jam non ha origini nobili. A parte questo, di fatto il nome era troppo lungo per essere efficace. Così scelse di chiamarsi semplicemente «Eddie», soprannome di Edward. Mentre per il cognome è tutta un’altra storia. Quando il cantante era ancora piccolo, i suoi genitori divorziarono. Sua madre si risposò con Peter Mueller e Eddie Vedder per anni pensò di essere suo figlio biologico, tanto da cambiare il suo cognome in Mueller. Infine scoprì che quell’uomo che mal sopportava non era il suo vero padre. Scelse quindi il cognome della madre, Vedder.

Joe Strummer

Si tratta del nome d’arte di John Graham Mellor, cantante e chitarrista del gruppo punk rock «The Clash». Nato ad Ankara, in Turchia, è il secondo genito di Ronald Mellor, diplomatico inglese. Si trasferisce successivamente nel Regno Unito, e qui inizia la sua passione per la musica. Dopo aver lasciato la scuola e aver imparato a suonare la chitarra sotto consiglio di un musicista di strada, ottiene un buon successo nei pub di Londra con lo pseudonimo di Woody. Il seguito però adotta il soprannome di «Strummer» (strimpellatore, dal verbo to strum) a causa di quel modo «rozzo» di suonare la chitarra. Così erano gli inizi. Ovviamente non poteva ancora sapere cosa sarebbe riuscito a fare con quella chitarra.

Bob Dylan

Robert Allen Zimmerman è il suo vero nome, anche se Bob Dylan nel ‘62 adottò legalmente il nome con il quale è passato alla storia. Nel ‘59 iniziò ad esibirsi sui palchi Minneapolis quando ancora era uno studente universitario. In realtà aveva già cambiato diversi pseudonimi prima di arrivare a quello definitivo. Passò per Elston Gunn, Robert Allyn e Bob Dillon prima del nome d’arte ufficiale, scelta dalla quale nacquero alcune leggende. Alcuni pensarono che il nome fosse ispirato al poeta Dylan Thomas, ipotesi smentita in seguito. La verità? Bob, soprannome di Robert. Il cognome invece nasce da un gioco di parole, ovvero dalla deformazione del nome di suo zio, Dillon.

Elvis Presley

Quando si dice Elvis si dice Presley. E, in realtà, è il suo vero nome. Non è noto invece il secondo nome del cantante, che era Aron. Elvis Aron Presley. Non lo adottò mai nella sua carriera musicale, un secondo nome scelto dai genitori in onore di un caro amico di famiglia. «Elvis» deriverebbe dal padre, Vernon Elvis Presley. «Aron» invece da un amico del padre, Aaron Kennedy, con una «a» in più. Nel secondo nome del mito del rock and roll c’è infatti un errore ortografico. Nonostante ciò, il cantante scelse di mantenere quel nome scritto male nella sua vita, ma non nella carriera musicale. Tutta una questione di semplicità.

Bono

Il cantante degli U2 è nato a Dublino il 10 maggio 1960. Nella capitale irlandese nasce anche il nome d’arte di Paul David Hewson, poi conosciuto come Bono Vox. Un giorno il cantante stava facendo un giro con l’amico Fionan Hanvey (poi membro dei Virgin Prunes, gruppo new wave irlandese). I ragazzi entrarono in un negozio di apparecchi acustici, che esiste ancora e che ancora si chiama Bono Vox. In latino significa «bella voce». Un nome più che appropiato, adottato immediatamente dal cantante. A Bono, invece, pare non essere mai piaciuto il nome della sua band, gli U2: «Non mi piace ancora, non mi piace davvero- ha raccontato - Sono stato in ritardo nel capire, non avevo realizzato che anche Beatles era un cattivo gioco di parole. Avevamo pensato alle implicazioni della lettera e del numero e nella nostra testa ricordavano l’aereo spia, era l’U-boat, era futuristico. Ma poi è diventato una sorta di accettazione implicita. No, non mi piace quel nome, non mi piace tutt’ora»

The Beatles

Il leggendario gruppo di Liverpool, composto da John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, e Ringo Starr deve il suo nome ad un membro del gruppo, che però non riuscì a suonare con loro a lungo. Si tratta di Stuart (detto Stu) Stucliffe, bassista che fu parte della band dal 1960 al 1961. Stuart a 22 anni iniziò a soffrire di fortissimi mal di testa. Fu visitato diverse volte ma non fu riscontrato nessun problema. Le sue condizioni però si aggravarono a tal punto che il 10 aprile 1961 il giovane bassista morì sull’ambulanza che lo stava portando in ospedale. Fu lui a suggerire il nome «Beatals» a John Lennon, che però lo modificò per richiamare la parola «beat», ritmo. Questa è una versione della storia. Una leggenda creata dallo stesso Lennon narra invece che intorno ai 12 anni il cantautore ebbe una visione, in cui un uomo su una torta fiammeggiante gli disse: «Voi sarete Beatles, con una A». Pare che da questa storia nacque «Flaming Pie», titolo dell’album di Paul McCartney.

Freddie Mercury

Il vero nome del grande frontman dei Queen? Farrokh Bulsara. Freddie è il diminutivo di Frederick, primo nome del cantante nella versione inglese. Mercury invece è stato scelto con cura e per spiegarlo bisogna prendere in causa gli dei dell’Olimpo. Nella mitologia Mercurio era il messaggero degli dei, figlio di Zeus e della Pleiade Maia. Fu lui ad inventare la lira, proprio quella di Orfeo, estratta dal guscio di una tartaruga. Mercurio, anche Ermes, è la divinità della parola e della comunicazione. Quale miglior cognome poteva quindi scegliere Freddie? Pare che lo fece scrivere anche sul passaporto.

Slash

Il chitarrista e compositore dei Guns N’ Roses deve il nome d’arte all’attore Seymour Cassel, amico del padre e noto per aver partecipato a numerose serie televisive come «Batman», «E.R» e «Ai confini della realtà». Saul Hudson (nome vero di Slash), in un’intervista rilasciata a Steve Jones ha raccontato: «Ovunque andassi in sua compagnia, lui cominciava a chiamarmi Slash, dal nulla. Fu una di quelle cose che le persone portano con sé nella vita. Le voci cominciarono a girare, così anche i miei amici smisero di chiamarmi Saul ed iniziarono ad attribuirmi quel soprannome». Che dura fino ad oggi: «Nessuno mi chiama più Saul, in realtà. Forse solo la polizia perché è scritto sulla mia patente di guida. Ho rifiutato di cambiare nome all’anagrafe anche se anche mio padre e mia madre mi chiamano Slash».

Sting

Gordon Matthew Thomas Sumner è Sting dei Police. E nel suo caso deve il suo nome d’arte ad un maglione. Aveva 17 anni ed era già in una band. Lui stesso ha raccontato che un amico con il quale suonava gli fece cantare una canzone a parer suo orribile. Così, per ripicca, incominciò a indossare un maglione altrettanto brutto. Era nero e giallo, a strisce. « Lui iniziò a chiamarmi Sting per scherzo» ha raccontato al Daily Star. «Sting» in inglese significa «pungiglione». Ha mantenuto il nome così come la passione per le api, tanto che il roker è proprietario di una tenuta in Toscana, a pochi chilometri da Firenze, dove alleva api e produce miele.

·        Woodstock.

La storia da incubo della riedizione di Woodstock nel 1999. Gino Castaldo su La Repubblica il 5 Settembre 2022.

Negli Stati Uniti ci sono stati vari tentativi di replicare il leggendario festival del 1969. Quello del trentennale è stato un disastro assoluto di violenze e droga andata a male, raccontato in un documentario di Netflix

Il fatto che si sia svolto a Rome, in provincia di New York, non fa che sottolineare la grandiosità del disastro che fu l’improvvido tentativo di ricostruire la leggenda di Woodstock, trent’anni dopo. Un istruttivo e drammatico documentario visibile su Netflix col titolo “Trainwreck: Woodstock ’99”, racconta di questa impresa folle e male organizzata, che in realtà aveva avuto un preludio nel 1994 quando fu immaginata un’edizione del venticinquennale alla quale ho avuto la fortuna, o sfortuna a seconda del punto di vista, di partecipare.

Per motivi anagrafici avevo bucato l’edizione del 1969, quindi pensai che sarebbe stata una buona occasione, ma anche lì le cose non andarono tutte per il verso giusto: arrivarono 250mila persone, ci fu la pioggia di rito, c’era un cast di tutto rispetto e perfino alcuni dei reduci dell’edizione originale. C’era anche Bob Dylan, e insomma ci furono momenti esaltanti, era interessante vedere una nuova generazione di ragazzi che voleva vivere a suo modo lo spirito di Woodstock. Erano i giovani a renderla attuale e non pateticamente revivalistica. Ma eravamo consapevoli che la storia non fosse giusto ripeterla, e infatti al terzo giorno la maledizione si abbatté con feroce puntualità sotto forma di un disastro organizzativo di proporzioni inaudite. Era finito il cibo, i bagni chimici erano esplosi, l’organizzazione era completamente saltata, ci salvammo attraversando guadi di liquami puzzolenti e arrivando agli alberghi, piuttosto distanti, a piedi.

Fu una dura lezione che riguardava soprattutto il falso mito dell’organizzazione americana. Compresi che al confronto in Italia siamo impeccabili, maestri di efficienza e senso di responsabilità. In America al contrario erano irresponsabili e cialtroni, mettevano in moto eventi di proporzioni gigantesche senza averne il controllo. Non successe nulla di grave, per pura fortuna. Senza aver imparato nulla da questo disastro, hanno deciso di riprovarci nel 1999. Per fortuna quella volta ho resistito alla tentazione di andarci e il documentario di Netflix arriva oggi a confortare la scelta di allora.

Le tre puntate sembrano più che altro una serie horror, la prova di come un sogno di pace amore e bella musica possa trasformarsi in un incubo di violenze, droga andata a male, anarchia selvaggia, una sorta di regressione collettiva tipo “Il signore delle mosche”, colpa soprattutto dell’organizzazione che pensò a un’immensa piana di cemento che diventava bollente sotto il sole, con le bottigliette d’acqua a quattro dollari, pochissima sicurezza, nessun servizio di pulizia dell’area, una scaletta musicale poco ragionata e una generale disattenzione che fomentò la progressiva incazzatura del pubblico. Successero cose brutte, ma anche qui solo la buona stella della musica ha impedito che si trasformasse in qualcosa di ancora più tragico. Una lezione su come si può fare a pezzi un mito.

Da rockol.it il 2 agosto 2022.  

Netflix ha pubblicato un trailer per il documentario 'Clusterf**k: Woodstock '99', che arriverà sulla piattaforma di streaming il prossimo 3 agosto. 

Le prime notizie riguardo un film sulla manifestazione per celebrare i 30 anni dalla prima edizione del 1969 iniziarono a girare nel 2020. Purtroppo il festival fu disastroso e viene oggi ricordato per le violenze, il vandalismo, gli incendi, il pubblico inferociti nei confronti degli organizzatori che diedero l'impressione di avere interesse unicamente per il profitto tralasciando ogni altro aspetto.

Quanti hanno partecipato all'evento hanno raccontato di prezzi gonfiati, mancanza di protezione dalle alte temperature, scorte insufficienti di servizi igienici e acqua, personale sottopagato che ha abbandonato le proprie mansioni. Le autorità hanno successivamente denunciato 44 arresti, 10.000 persone che necessitavano di cure mediche e otto stupri nel corso dei tre giorni dell'evento. Un giornalista ha riportato che "c'erano solo ondate di odio che rimbalzavano dappertutto. Era chiaro che dovevamo andarcene".

In un comunicato Netflix ha dichiarato: "Il nome del festival del 1969 è sinonimo di pace, amore e ottima musica. Venne ripreso per un attesissimo 30° anniversario e commercializzato come una celebrazione del millennio. (…) Che cosa è andato storto? La docuserie 'Clusterf**k: Woodstock '99' si propone di trovare la risposta. Alcuni hanno incolpato la musica aggressiva delle principali band che vi parteciparono come Korn, Limp Bizkit e Rage Against the Machine; altri hanno puntato il dito contro lo sfruttamento commerciale da parte degli organizzatori del festival. Utilizzando rari filmati e interviste a testimoni oculari...".

Il produttore esecutivo Tom Pearson dal suo canto ha detto: "Questa è una storia epica e universale di nostalgia, arroganza, avidità e scisma generazionale, raccontata dal punto di vista di chi sta in prima linea.”

Franco Giubilei per “La Stampa” il 29 agosto 2022.

Non tutte le riedizioni riescono col buco: quando va bene hanno un sapore di nostalgia, ma quando va male finiscono in tumulti e violenze. A Woodstock 99, che intendeva celebrare il raduno rock per eccellenza degli Anni 60, il Love and Peace dei genitori si trasformò nell'Hate and Destroy dei figli, esasperati dalle condizioni del festival: asfalto di un'ex base militare invece dei verdi pascoli di Bethel, caldo allucinante, zero servizi igienici e security inesistente esasperarono i 400 mila ragazzi, che a fine manifestazione distrussero tutto.

L'intervento dei reparti antisommossa è l'ultima cartolina da un megaevento raccontato da un documentario Netflix, Trainwreck: Woodstock 99. Il contrario di quanto era accaduto a Bethel per i tre giorni di Pace e Musica, quando un mix di buona sorte e spirito hippy rese sopportabili i disagi provocati da un'organizzazione avventurosa, che intendeva portare 50mila persone e se ne ritrovò mezzo milione, molte delle quali in acido.

Trent' anni dopo l'aria era diversa: Rage Against the Machine, Red Hot Chili Peppers e i durissimi Korn invece di Jefferson Airplain e Jimi Hendrix, Metallica e Limp Bizkit a urlare la rabbia della generazione X. 

A far danni ovviamente non fu la violenza della musica, ma l'impreparazione dei produttori: lasciate migliaia di giovani a cuocere in una spianata priva di bagni, con le bottiglie d'acqua vendute a otto dollari l'una, annullate l'evento conclusivo promesso e avrete la devastazione divampata a Rome, Stato di New York.

Le immagini del documentario sono molto eloquenti nel rendere il clima di quell'evento disgraziato: all'inizio l'illusione Love and Peace parve reggere, ma in breve il testosterone prese il sopravvento, con gruppi di giovani maschi che si assembravano intorno alle ragazze. 

Gli slogan e i gadget fricchettoni venduti sul posto diventarono intollerabili quando venne a galla lo spirito speculativo dell'operazione. Le riprese Netflix mostrano mischie spaventose sotto il palco, dove a centinaia si scatenavano nel pogo, presto degenerato in risse vere e proprie. 

Alla fine il furore del pubblico si abbatté su torri di strumentazione e palcoscenico, quindi i lacrimogeni della polizia riportarono la calma nel festival riuscito nella non facile impresa di imbrattare un monumento live alla musica rock di tutti i tempi. 

Se a Bethel era andata bene in realtà era stata anche fortuna, perché le carenze organizzative erano colossali, ma poi venne Altamont, e fu chiaro che anche il mondo hippy generava i suoi mostri.

La decisione sciagurata di affidare agli Hell's Angels il servizio d'ordine di quel festival determinò scontri e violenze, con la banda di motociclisti che teneva a bada il pubblico a colpi di stecche da biliardo. Quando gli Stones conclusero Simpathy for the Devil un afroamericano 18enne, Meredith Hunter, si avvicinò al palco con una pistola finta e venne ammazzato a coltellate da un Hell's Angel. Il mito di Woodstock in realtà era andato in frantumi molto tempo prima della riedizione del 1999. 

 Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 25 agosto 2022.

Affitti una ex base militare piena di cemento e asfalto; ci metti 400mila spettatori per tre giorni di fila; fai suonare le band rock più aggressive in circolazione; subappalti la ristorazione ad aziende che fanno pagare otto dollari una bottiglia d'acqua; non hai un vero servizio d'ordine; non hai un numero sufficiente di servizi igienici; continui a scocciare tutti quanti sui fantomatici valori di pace e amore che sarebbero alla base dell'evento. Cosa può andare storto?

Ad esempio, alla fine, il pubblico potrebbe decidere di radere al suolo tutto quanto, palco incluso. Abbattere le torri dei tecnici audio. Incendiare qualche camion. Saccheggiare gli stand. Assediare gli organizzatori.

Abbattere il muro che circonda l'area. Continuare nella devastazione fino all'arrivo delle squadre anti-sommossa della polizia. 

Andarono così i tre giorni della nuova Woodstock, organizzata nel 1999 a trent' anni dalla vecchia Woodstock, passata alla storia come un fine settimana di pace, amore, sesso, droga, musica. La Woodstock del '69 fu l'apice della stagione degli hippies. La località prescelta in realtà si chiamava Bethel, contea di Sullivan, una cittadina rurale 69 km a sud-ovest di Woodstock.

Elliot Tiber, il proprietario del motel El Monaco sul White Lake a Bethel, si offrì di ospitare il festival in una sua tenuta di 15 acri. Aveva già ottenuto un permesso dalla città per il White Lake Music and Arts Festival, che sarebbe stato un concerto di musica da camera. Quando si accorse che la sua proprietà era troppo piccola, Tiber presentò gli organizzatori a un allevatore, Max Yasgur, che accettò di affittare loro 600 acri (2,4 km²) per 75.000 dollari. Una miseria. Gli organizzatori, tra i quali spiccava Michael Lang, il vero inventore della manifestazione, dissero di attendere 50mila persone. Ne arrivarono 400mila. Il festival si protrasse dal 15 al 17 agosto 1969 ma la gente rimase un altro giorno, non voleva andarsene. Jimi Hendrix suonò all'alba e incendiò l'inno americano nel cielo mattutino. Si esibirono, tra gli altri Creedence Clearwater Revival, Jefferson Airplane, Santana, Janis Joplin, Sly & The Family Stone...

Il concerto fu un successo ma i promotori non guadagnarono nulla, almeno così dicono nello splendido documentario Trainwreck: Woodstock '99, tre puntate disponibili su Netflix. Fatto sta che Woodstock divenne un marchio e alla fine incassò il dovuto tra film, dischi, gadget. Nel 2019, ad esempio, sono usciti lussuosi e costosi cofanetti con le intere performance musicali della tre giorni. Nel 1994, Lang provò a rivitalizzare il marchio ma il festival non ottenne un grande successo. Nel 1999, l'organizzazione era più combattiva.

Questa volta, nessuno sarebbe entrato gratis. La base militare di statunitense di Rome nello stato di New York era perfetta perché enorme ma circondata da un muro. Il festival si svolse dal 22 al 25 luglio 1999. La lista degli ospiti musicali prevedeva la crema del metal e del cosiddetto nu metal: Limp Bizkit, Rage Against the Machine, Korn, Red Hot Chili Peppers, Megadeth, Metallica. Chitarre ad alto volume, testi rabbiosi, nichilismo. Parrebbe che gli organizzatori, questa volta, non sappiano chi hanno invitato a suonare. Il pubblico comunque risponde bene: arrivano in 400mila anche questa volta.

Progressivamente il festival diventa un delirio sempre più pericoloso.

C'è un caldo da allucinazioni, l'asfalto non aiuta. Mancano acqua, docce, servizi igienici. Nessuno pulisce, si dorme tra la spazzatura. Il servizio d'ordine non ha la minima idea di cosa debba fare. Nell'incertezza, resta immobile. Assistiamo a riunioni grottesche in cui anziani hippie, avidi di denaro, disposti a risparmiare su qualsiasi cosa, predicano la pace e l'amore universale ed esaltano «lo spirito di Woodstock», che non si capisce dove stia di casa. Non a Rome dove si svolge il concerto. Pace e amore è uno slogan per vendere magliette e lo spirito di Woodstock si riassume in: «arrangiatevi, è andata bene la prima volta, andrà bene anche questa». Invece va male.

Durante il concerto dei Limp Bizkit, si teme la prima sommossa. Il pubblico sprigiona elettricità, il gruppo rovescia benzina sul fuoco con l'esecuzione di Break Stuff, brano classico del repertorio, in cui si racconta di una giornata storta, in cui si ha voglia di fare del male a qualcuno. L'ultimo giorno, gli organizzatori hanno promesso un grande evento finale dopo l'esibizione dei Red Hot Chili Peppers. Invece non c'è nulla. Il pubblico si scatena e distrugge tutto. Alla fine si conteranno numerosi feriti e una notevole quantità di denunce per stupro e molestie.

Rimane una domanda nell'aria.

Come mai nel 1969 non successe nulla e nel 1999 successe un disastro? 

Prima la pace e l'amore; poi la rabbia e la violenza? La prima Woodstock fu baciata dalla fortuna. Ma le vibrazioni negative erano già presenti anche nella Summer of Love. Infatti pochi mesi dopo, quando i Rolling Stones organizzano la «loro» Woodstock all'autodromo di Altamont, ci scappa addirittura il morto dopo una giornata di violenza cieca tra il pubblico e il servizio d'ordine affidato agli Hell's Angels.

La generazione che si presenta a Woodstock '99 è stata allevata a colpi di consumismo e nichilismo. I ragazzi sanno benissimo che tutto è merce, anche gli slogan patetici che i vecchi hippie ripetono come un mantra. Schiacciare i grilli parlanti (tra cui ci possiamo mettere anche Mtv e il mondo delle celebrità) fa parte del divertimento. Forse il documentario vorrebbe contrapporre la vecchia generazione di idealisti a quella nuova di nichilisti. In questo fallisce completamente. È chiarissimo che in questa storia non esistono i buoni, solo gli affaristi e le loro vittime.

·        Hollywood.

Steve Della Casa per “La Stampa – TuttoLibri” il 31 ottobre 2022.

Hollywood, la grande fabbrica dei sogni, suscita da sempre tanto amore e tanto odio: sentimenti contrastanti ma da sempre conviventi, che si sono manifestati in saggi, romanzi, opere teatrali e film.  

David Thomson, come tutti gli europei che si sono trasferiti nella Mecca del cinema (lui è inglese, ma si è presto trasferito in California diventando critico e docente di cinema tra i più famosi e stimati) prova esattamente questi sentimenti, e li utilizza come ossatura di un sorprendente racconto che viaggia sospeso tra grande storia e piccoli ma significativi aneddoti, ritratti al vetriolo e umorismo irriverente.

Lo spunto arriva da un film che, a pensarci bene, può essere davvero letto come una grande metafora della storia di Hollywood e che non a caso è diretto da un altro grande europeo che all'epoca si era trasferito proprio lì. Stiamo parlando di Chinatown, uno dei capolavori che Roman Polanski ha realizzato nel suo (purtroppo) breve periodo americano, prima dei problemi giudiziari che lo hanno spinto su altri lidi.  

Chinatown, come sintetizza mirabilmente Thomson, è «una storia di acqua e di incesto»: l'investigatore privato interpretato da Jack Nicholson è (ovviamente) ingaggiato da una donna misteriosa, svolge le sue indagini e capisce che una strana perdita d'acqua è davvero importante e che uno strano legame unisce due belle donne e il padre di una di loro. 

La vicenda del film è però raccontata non seguendo Polanski o Nicholson, bensì lo sceneggiatore Robert Towne, tre volte candidato agli Oscar (anche per L'ultima corvée e per Shampoo). Scopriamo così che Towne in precedenza era stato soprattutto un revisore di sceneggiature scritte da altri, a partire da Bonnie and Clyde di Arthur Penn dove era stato chiamato da Warren Beatty; che il finale tragico di Chinatown era fortemente voluto da Polanski; e che Towne aveva pensato di far ritornare l'investigatore in azione, dopo quella vicenda ambientata nel 1937, anche dieci anni dopo (e questo avvenne con il travagliatissimo Il grande inganno, sempre con Nicholson) e nel 1957 (ma questo terzo episodio non vedrà mai la luce). 

Il racconto di Thomson va molto oltre gli aneddoti che interessano soprattutto i cinefili. Noah Cross, il padre-padrone dal nome biblico della storia magistralmente interpretato da John Huston, è secondo Thomson ispirato a William Mulholland, l'industriale che ha fornito il nome a una delle più note strade di Hollywood immortalata da David Lynch in un bellissimo film. 

Mulholland era un imprenditore senza scrupoli che per primo pensò a Hollywood (anche) come luogo di possibile speculazione edilizia una volta risolto lo storico problema della mancanza d'acqua. Lo risolse, e ci fu il boom delle abitazioni di lusso. Su come fece ci sono molte opacità, e il racconto del film ne svela alcune. E, come Thomson ricorda, la popolazione cresce a dismisura. A Los Angeles nel 1890 abitavano 150.000 persone, nel 1915 già si superò il milione di residenti.

Ma non solo di Chinatown si parla in La formula perfetta - luci e ombre dalla fabbrica dei sogni. Ovviamente quando si parla di Hollywood non si può non citare Francis Scott Fitzgerald e in particolare l'incompiuto Gli ultimi fuochi dove lo scrittore mette in scena soprattutto Irvin Thalberg, il produttore del primo Ben Hur, lo scopritore di von Stroheim e di Greta Garbo. 

Ma non aspettatevi una voce di enciclopedia. E lo stesso per Mayer, uno dei fondatori della MGM che Thomson ricorda soprattutto per aver inventato un lucidalabbra molto speciale per le tante attrici che portava a letto. Su Frank Sinatra cita Ava Gardner, che ricordava come ci fosse una parte del corpo del cantante che pesava davvero molto. Di Chaplin ricorda l'impegno sociale dovuto a un'infanzia difficile, ma anche la passione per le minorenni e l'abilità nel giocare in borsa che gli consentì di essere l'unico divo di Hollywood a non perdere soldi durante la crisi del 1929. 

Racconta poi perché secondo lui La vita è meravigliosa non ha vinto l'Oscar, e spiega perché Howard Hawks (il regista di successi come Scarface, Susanna, Il fiume rosso) era così benvoluto. E confessa un grande amore per Nicole Kidman, ma per motivi insoliti: quando si è truccata per assomigliare a Virginia Woolf, infatti, non la si riconosceva più, proprio come anni prima aveva fatto Dustin Hoffman per Il piccolo grande uomo.  

E c'è spazio anche per gli agenti degli artisti, descritti come una genia di vampiri che ha di fatto ammazzato lo star system. Attori, attrici, registi. Splendori e miserie, slanci umanitari e sesso estremo, arte purissima e intrighi infernali. 

Un altro che conosceva molto bene Hollywood, lo scrittore e regista Kenneth Anger, intitolò la sua opera più famosa Hollywood Babilonia. Siamo da quelle parti, ed è probabilmente l'unico modo per raccontare la fabbrica dei sogni. Anche perché in un altro film della Hollywood classica ci si interroga proprio su questo, su quale sia la materia di cui sono fatti i sogni

·        Spettacolo mafioso.

Luca Monaco e Andrea Ossino per repubblica.it il 29 agosto 2022.

I pusher che girano "con lo zainetto pieno" al Festival del Cinema, i tentativi di riciclaggio con la pubblicità del Borotalco e le riprese del Commissario Rex, le apparizioni del boss de La Rustica vicino a Senese, Daniele Carlomosti detto "Il bestione", nella serie Romanzo Criminale, nei film con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks, oltre che in Gangs of New York, di Martin Scorsese. Anche la "mala" ama il grande schermo. 

I ruoli attoriali, certo. Basti pensare alla presenza dei Casamonica, degli Spinelli, dei Di Silvio, nelle serie Suburra o in Vita da Carlo di Verdone. Attrae però soprattutto la produzione. Tanto da indurre la criminalità a mettere in piedi il "sistema cinema": un fenomeno scandagliato dalla magistratura. 

La procura di Roma ha coordinato diverse indagini capaci di svelare le modalità attraverso le quali le organizzazioni criminali, specie certi personaggi vicini alla camorra, ripuliscono il denaro sporco infiltrando le loro aziende nelle produzioni degli spot pubblicitari e dei film. Rilevando cosa può avvenire dietro le quinte dei set cinematografici, ai festival o anche davanti alle telecamere, visto che i boss e i loro dipendenti non si sottraggono quando sono chiamati come comparse o attori, anche nelle pellicole da premio Oscar.

Gli affari di Vitagliano

A Roma l'interesse delle grandi consorterie criminali per il cinema è un fatto noto. I carabinieri e i finanzieri lo avevano capito già nel 2018, quando il sostituto procuratore Nadia Plastina aveva disposto l'arresto di Gaetano Vitagliano, un imprenditore napoletano ritenuto vicino al clan degli scissionisti di Secondigliano e altre 22 persone, sequestrando anche 280 milioni di euro tra immobili (261), conti correnti e 54 società. 

Secondo le accuse iniziali i personaggi in odore di camorra riciclavano denaro attraverso i locali della movida romana: dal Macao di via del Gazometro, fino alla catena di bar Babylon cafe, passando per il Mizzica e il Dubai Cafe. I seguenti processi non sempre accoglieranno le tesi della procura. Ma le successive indagini dei carabinieri hanno permesso di scoprire l'esistenza di tre società riconducibili a Vitagliano: la Cisco, la Cisco Unipersonale e la Project.

Seguendo le fatture emesse da quelle società gli investigatori hanno bussato alla porta delle più importanti società cinematografiche, costrette a dover "giustificare operazioni di impresa soggettivamente inesistenti, rappresentate da prestazioni in nero fornite da terzi sul set di varie riprese cinematografiche". 

Dalla pubblicità del Borotalco fino alla serie televisiva del Commissario Rex: molte produzioni venivano sfruttate dalla criminalità. Gli affari erano stati conclusi anni addietro, quelle indagini quindi sono state archiviate. Agli atti però resta quella che i carabinieri definiscono "una prassi consolidata": l'esistenza nel mondo del cinema, si legge nell'informativa redatta dai militari del Nucleo Investigativo, "di un consolidato e longevo sistema con il quale operai specializzati, quali macchinisti, elettricisti, fotografi, appartenenti a squadre costituite da tempo, si sono muniti di attrezzature e apparecchiature proprie".

Queste squadre, una volta assunte da un produttore cinematografico, "offrono alla produzione - spiegano ancora i carabinieri - il noleggio delle proprie attrezzature e apparecchiature senza che questi ultimi debbano ricorrere a gare di appalto e quant'altro". Da qui l'esigenza di giustificare le operazioni, soprattutto in caso di controlli da parte di chi ha emesso "finanziamenti a supporto delle medesime produzioni". 

Le testimonianze dei produttori

Per questo nell'autunno del 2017 molti produttori sono stati ascoltati come persone informate dei fatti dai carabinieri: nessuno di loro è mai stato indagato per alcun tipo di reato. Dal fratello di Massimo Boldi a quello di Pupi Avati. E ancora i legali rappresentanti della Cattleya, la società fondata da Riccardo Tozzi, il produttore nel 2001 ha sposato Cristina Comencini, la madre di Carlo Calenda. Mario Ferdinando Gianani, marito dell'ex ministro Marianna Madia e fondatore della Wildside, ha anche consegnato agli inquirenti cinque fatture siglate con le società lavatrici di Vitagliano.

I militari hanno passato al setaccio i bilanci relativi alla "produzione denominata Luigi Tenco" della Vega's project, a quella del film Tutto tutto niente niente della Fandango, e anche le fatture emesse per realizzare Romanzo di una strage o Matrimonio a Parigi. Le società lavatrici di Vitagliano sarebbero entrate in contatto anche con gli studios di Cinecittà e con alcuni operai che hanno lavorato al film Venuto al mondo, diretto da Sergio Castellitto. "Gaetano Vitagliano o soggetti a lui riconducibili hanno pagato operai in nero con denaro contante, ricevendo da questi gli assegni della Duea Film", aveva invece raccontato Antonio Avati, fratello del regista Pupi e amministratore della Duea Film.

L'indagine sul produttore Muscariello

Vitagliano non è stato il solo a capire le potenzialità che offre il cinema a chi intende riciclare denaro. "Perché un film può costare 200 mila ma può costare pure 50 milioni di euro", diceva il produttore Davide Muscariello, classe 1997, una relazione sentimentale con una "tentatrice" della seconda edizione di Temptation Island e un'indagine a carico in cui si sospetta che l'uomo, coinvolto nell'inchiesta della finanza insieme a un carabiniere, un poliziotto e altre sei persone, avrebbe ripulito i soldi del clan Mazzarella di Napoli.

Muscariello non disponeva di "una realtà aziendale, di strutture, di risorse umane, professionali e strumentali adeguate rispetto alle operazioni fatturate", dicono le indagini del pm Francesco Cascini. E i suoi film non resteranno negli annali del cinema. L'ultima produzione, All'alba perderò, si è trasformata in un presagio: all'alba del 17 marzo scorso i carabinieri lo hanno arrestato, trovando anche collegamenti con l'ultimo boss albanese della Capitale, Elvis Demce. 

Il Ghb al Festival del cinema

Non solo riciclaggio. Nel mondo del cinema e nei festival infatti girano molte persone e molti soldi. E il denaro attrae spacciatori di ogni sorta che sperano di fare affari. Lo spiega molto bene Clarissa Capone, la "zarina del Ghb" arrestata il 27 ottobre insieme ad altre 39 persone tra cui Claudia Rivelli, la sorella di Ornella Muti, che recentemente ha scelto di patteggiare la sua pena accordandosi con la procura per una condanna a 1 anno e 5 mesi di reclusione.

Spacciavano nuove droghe, tra qui quella dello stupro. Fentanili consumati nei festini della "Roma bene" o venduti nei festival. "Calcola che quando ci stava il Festival del Cinema io là ci andavo con lo zainetto pieno... cioè ci stavano giornalisti... cioè ci stava di tutto e di più... e da là poi so... sono arrivata ad un politico...da che ti fai il giornalista la voce si espande, la voce è arrivata pure all'assistente del politico...", conferma la ragazza non sapendo di essere intercettata.

La doppia vita del "bestione" Carlomosti dalla stanza delle torture al set

Soldi e fama. Le ambizioni dei criminali spesso coincidono con le opportunità offerte dal piccolo e dal grande schermo. E così capita spesso di trovare comparse o attori che tra estorsioni, furti, torture e crimini di ogni sorta prestano il loro volto al cinema. L'ultimo è Daniele Carlomosti, 43 anni, soprannominato "il bestione". 

È il boss di La Rustica, che trascorreva le sue giornate tra i set e la stanza delle torture allestita dentro un appartamento popolare in via Naide 116 per seviziare le sue vittime, i cattivi pagatori. Dalla borgata di Roma Est fino a Cinecittà, Carlomosti ha lavorato con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks.

Ha partecipato anche alle riprese di Gangs of New York, di Martin Scorsese ed è stato fotografato al fianco di Claudio Amendola sul set del film di Antonio Albanese, Come un gatto in tangenziale, la stessa pellicola dove le gemelle Valentina e Alessandra Giudicessa hanno interpretato due ladre seriali, un ruolo che deve essere venuto spontaneo visto che capita diverse volte di imbattersi nelle sorelle tra i corridoi della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio, dove le due sono state accompagnate a più riprese per aver commesso furti.

I Casamonica dalla Romanina a Cinecittà

Altro fenomeno è l'interesse dei Casamonica per il mondo del cinema. Già nel 2015 gli investigatori hanno annotato che Lenka Kviderova, compagna di Antonio Casamonica e indagata insieme al suo ragazzo e altre due persone per un'estorsione ai danni del titolare di un ristorante a Ponte Milvio, aveva redditi che provenivano da alcune produzioni cinematografiche. La donna infatti aveva recitato in diversi film tra cui Fantozzi 2000 - La clonazione e in Zora la vampira. 

Tre anni dopo, nel 2018, L'Espresso invece aveva scoperto che Luciano Casamonica, nipote del famoso Vittorio (ricordato per il funerale in stile "Padrino") e una serie di precedenti alle spalle, era stato reclutato nella serie co prodotta da Cattleya e Rai Fiction per scritturare sinti che recitarono nella seconda stagione di Suburra. I primi passi nel mondo del cinema Lucky Luciano, così si fa chiamare Luciano Casamonica, li ha mossi da bambino, recitando in western con Orson Welles e Tomas Milian. I suoi giovani parenti hanno coltivato la passione per il cinema. I Casamonica, gli Spinelli e i Di Silvio sono di casa a Cinecittà, non fosse per altro che la cittadella del cinema si trova a due passi dalle loro abitazioni alla Romanina e costituisce un importante polo economico sul territorio che controllano da decenni.

I nipoti di Nando, uno dei fratelli di Vittorio Casamonica, salutato con il funerale show in piazza don Bosco al Tuscolano nel 2015, hanno preso parte alla serie Vita da Carlo su Amazon prime, oltre che in Suburra, dove i Casamonica, non a caso, interpretano loro stessi. Attoriali durante le perquisizioni e gli arresti, ai funerali con la colonna sonora del Padrino come nei film.

·        Il menù dei vip.

Claudia Casiraghi per “La Verità” il 23 marzo 2022.

Cubetti di ghiaccio come antipasto per dare una scossa al metabolismo, omogenizzati a sostituire le portate, pugni come unità di misura e guai a sgarrare. I regimi alimentari , - «diete» nel termine che tanto fa gola a chi persegua ciecamente standard strampalati di magrezza o bellezza - dovrebbero basarsi, tutti, sull'equilibrio. 

Ma, della virtù aristotelica che si trova nel mezzo, il nutrirsi delle star ha ben poco. Jennifer Aniston, Victoria Beckham, Madonna, e poi Chris Pratt, Angelina Jolie, Uma Thurman, Mel B, Reese Witherspoon, Renée Zellweger si sono scoperti adepti fedelissimi di diete assurde, finalizzate - ciascuna a modo proprio - a contenere oltre ogni logica la possibilità di ingrassare.

E poco importa che per farlo, per evitare di mettere su ciccia, ci si debba sottoporre a rituali drastici, ingolfarsi di bibitoni con «effetti secondari», costringersi a fagocitare esclusivamente salmone. Quel che conta, alla fine di giornate in cui il solo sedersi a tavola è sufficiente a provocare malumori, è essere certi di aver fatto il possibile per rimanere entro i ranghi (di canoni aberranti).

Mel B, fu-Spice Girl, per preservare intatta la propria forma fisica ha fatto voto di mangiare solo salmone. Salmone a pranzo, salmone a cena. Salmone a colazione e salmone ogniqualvolta il corpo chieda di essere nutrito. Salmone e poco altro, con una dedizione seconda solo a quella grazie alla quale Victoria Beckham è riuscita a nutrirsi di pesce alla griglia per gli ultimi 25 anni. 

«Da quando l'ho incontrata, Victoria ha mangiato solo pesce alla griglia e verdure al vapore. Molto raramente si è discostata e si discosta da quello. L'unica volta in cui ha assaggiato qualcosa dal mio piatto è stato quando era incinta di Harper», quarta figlia della coppia, ha rivelato, non senza mestizia, David Beckham, specificando come la moglie «da allora non l'ha più fatto».

Posh Spice, come la collega, è tornata al suo pesce grigliato, triste forse, ma certo meno bizzarro degli omogenizzati ingurgitati da Reese Witherspoon. L'attrice è una delle entusiaste della «baby food diet», un modello nutritivo inventato da Tracy Anderson, blasonata personal trainer delle star. Questa ha deciso di imporre ai suoi clienti di sostituire i pasti, meglio se colazione e cena, con un omogenizzato a scelta fra quelli che si propongono ai bambini.

Carne, pesce, quale gusto abbiano le pappette frullate è secondario. Ciò che conta, per seguire la dieta così come la Anderson comanda, è assumere fra due e 14 vasetti al giorno, privandosi per conseguenza dei cibi solidi. Cibi che, di riffa o di raffa, sembrano esercitare sugli abitanti di Hollywood una paura ancestrale.

 «La gente a Los Angeles è spaventata a morte dal glutine. Giuro su Dio, qualcuno potrebbe derubare un negozio di liquori impugnando un bagel», ha scherzato Ryan Reynolds, che, in un tweet, è riuscito a fotografare con estrema nitidezza un quadro semipsicotico.

Chris Pratt, nell'estrema convinzione di potersi mantenere muscoloso, ha deciso di sottoporsi al cosiddetto «digiuno di Daniele», una dieta che affonda le proprie radici nell'Antico Testamento: impone a chiunque la segua di eliminare per 21 giorni i «cibi del re»: carne, prodotti lattero-caseari, alcolici, dolcificanti, pane lievitato e tutto quel che una pagina dedicata di Wikihow («Come digiunare come Daniele») si premura di enumerare. Pratt, per ragioni di sopravvivenza, pare circoscriva il digiuno a pochi momenti all'anno.

Elle Macpherson, come Jennifer Lopez, cercherebbe invece di farne uno stile di vita. La top model e la cantante si dice abbiano bandito dalla propria tavola zuccheri artificiali, cibi raffinati, bevande alcoliche e caffeina. Rovinerebbero il corpo da dentro, invecchierebbero la pelle. C'è chi mangia a costo di osservare con tanto di calendario alla mano l'evolversi del sistema solare. 

Madonna, convinta che la Luna eserciti influenza sul girovita, in nome dello stesso principio che porta il satellite a governare le maree, si sottopone a tre giorni di purificazione mensile, assumendo in corrispondenza della fase di luna nuova solo cibi liquidi. Sostiene che, così facendo, il corpo umano possa eliminare fluidi e tossine in eccesso.

Tesi bizzarra, seconda solo a quella in virtù della quale Renée Zellweger apre ogni suo pasto succhiando cubetti di ghiaccio: Bridget Jones sembra convinta che l'acqua congelata possa aumentare il suo senso di sazietà, portandola a consumare meno cibo una volta seduta a tavola. Perciò, anziché godersi un antipasto tradizionale, l'attrice spilucca ghiacciolini senza sapore. 

Li ciuccia e li mastica, certa pure che il freddo aumenti il dispendio calorico. E vada al diavolo la scienza, la marea di dottori pronta a certificare come certe diete rovinino l'organismo. A casa Zellweger, come nelle altre magioni hollywoodiane, ad imperare è la solita e vecchia legge che alla bellezza lega, in un binomio indissolubile, la sofferenza.

·        Il Duo è meglio di Uno.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 marzo 2022.

Alcune coppie di vip ci fanno arrabbiare, altre ci fanno sognare. Il modo in cui si guardano, le storie che raccontano sulla loro vita sessuale, tutte queste cose ci fanno capire quali coppie stanno facendo sesso bollente e quali no. 

Ma è sufficiente guardare una coppia per capire quanto sesso sta facendo? È possibile fidarsi delle loro affermazioni vanagloriose? Quali segnali indicano che una coppia è rovente sotto le lenzuola? 

Ecco la mia opinione su quali sono le coppie veramente bollenti e quali invece sono dei bluff. 

Will Smith e Jada Pinkett Smith. Le voci sul loro matrimonio aperto sono scoppiate nel 2003 e sono state confermate nel 2021 durante un’intervista a GQ. Will ha confessato che Jada non aveva mai creduto nel matrimonio convenzionale, ed entrambi hanno avuto rapporti sessuali con altre persone al di fuori del matrimonio. Jada ha confermato una relazione con August Alsina.

Forse questo spiega perché una coppia sulla cinquantina, sposata da 24 anni e con figli, mostri un linguaggio del corpo così apertamente sessuale. Jada ha ammesso di dedicarsi al sesso spontaneo (hanno fatto sesso in una limousine mentre andavano agli Academy Awards), sesso frequente (“tanto sesso” era il segreto di bellezza di Jada), sesso soddisfacente («sesso davvero, davvero buono è il segreto per un matrimonio duraturo», ha detto a David Letterman) e sesso in semi-pubblico (in un'altra intervista ha ammesso di aver fatto sesso all'aperto, in macchina, a casa di amici e in costume). Nel suo talk show Red Table Talk, Jada parla spesso della sua vita sessuale con Will, quasi sempre in termini entusiastici.

Le foto di loro due insieme hanno tutti i tratti distintivi di una coppia innamorata e lussuriosa: spesso si baciano appassionatamente in pubblico e i loro busti sono spesso in contatto (un segno che la coppia si collega sia a livello di amore che di lussuria). È interessante notare che Jada mette spesso una mano sul petto di Will quando posa in pubblico: un gesto che solitamente viene usato per mettere in guardia gli altri sul proprio compagno. 

È probabile che le loro non siano solo chiacchiere: di solito sono scettica nei confronti delle coppie che gridano "Stiamo facendo sesso fantastico!" ai quattro venti. Ma le loro interviste sembrano estremamente oneste e non sono mai contraddittorie, inoltre si presentano come una delle coppie più felici di Hollywood. Gli credo! 9.5/10 

Kim Kardashian e Pete Davidson. Kim l'ha reso ufficiale su Instagram giorni fa, ma esce con Pete Davidson da cinque mesi, suscitando la collera dell'ex Kanye West. Alcuni (me compresa!) Non capiscono bene perché il comico del Saturday Night Live abbia un tale fascino, ma le sue storie d'amore con alcune delle donne più belle di Hollywood sembrano certamente intensamente sessuali. 

Se non sta baciando intimamente Ariana Grande sul tappeto rosso, sta baciando con la lingua Kate Beckinsale (20 anni più grande di lui) a una partita o si sta baciando in piscina con la figlia di una top model, Kaia Gerber. Il linguaggio del corpo in tutte le foto invia un messaggio chiaro: stiamo facendo sesso bollente. 

E io ci credo, ma non con la sua ultima conquista. Kim – la sex symbol più bancabile del mondo – pubblicizza costantemente la sua sessualità in un'implacabile raffica di pose suggestive nude e seminude. 

Secondo quanto riferito, il suo famigerato sex tape con Ray J le ha fatto guadagnare milioni per un motivo: non era solo una celebrità che faceva sesso, era una celebrità che sembrava che si stesse davvero divertendo.

La coppia Pete e Kim in quel periodo sarebbe stata dinamite sessuale. Da allora, ogni mossa di Kim è stata fatta sotto gli occhi del pubblico, al punto che dubito che lei stessa conosca la differenza tra fantasia e realtà. 

Le manifestazioni pubbice di affetto apertamente sessuali di Pete fanno pensare che porti un tocco vigoroso e animalesco alla camera da letto. Ma le pose sul tappeto rosso di "Look at me" di Kim, in cui l'ex Kanye era costretto a stare dietro di lei come una guardia del corpo piuttosto che come un partner, suggeriscono che ha perso la connessione con qualsiasi vera passione anni fa.

Probabilità che facciano sesso fantastico: 5/10. Se c'è del sesso bollente, dipenderà da Pete. 

Jennifer Lopez e Ben Affleck. Si sono incontrati durante le riprese mentre J-Lo era ancora sposata e si sono presentati al pubblico nel 2002, e altrettanto rapidamente si sono fidanzati. 

Quello che era iniziata come una storia romantica, è andata rapidamente in crash a causa dell’«eccessiva attenzione dei media». Entrambi si sono risposati e hanno divorziato, Ben ha combattuto pubblicamente l'alcolismo, prima di ritrovarsi l'anno scorso. 

Ora Jennifer proclama: «È una bellissima storia d'amore e abbiamo avuto una seconda possibilità». Le foto della coppia mostrano Ben, in particolare, che mostra un linguaggio del corpo intensamente adorante. Lui inclina la testa per appoggiarsi sulla sua guancia, chiudendo gli occhi e guardando sognante in lontananza e la bacia costantemente sulla fronte. Lei risponde in modo gentile appoggiandosi a lui. 

L'amore, chiaramente, non è scarso in questa relazione. Ma che dire del sesso?

Il sesso con l’ex è una cosa curiosa. Le persone spesso si separano con gli ex, anche se ci hanno fatto il miglior sesso della loro vita, quando mancano altre qualità altrettanto importanti. Il motivo per cui molti ex finiscono per diventare “amici con benefici” dopo che la relazione è finita è perché la scintilla sessuale rimane. E poi loro conoscono il tuo corpo e i tuoi stimoli sessuali, tu conosci i loro. 

L'abbondanza di foto di Ben e Jen che si baciano appassionatamente in mille luoghi – sia privati che pubblici – suggerisce che non è stata certo una mancanza di passione a far separare questi due la prima volta. Immagino sia l'amore e la lussuria che li terrà uniti. 

Probabilità: c'è una gioia così evidente da entrambe le parti e una volontà di mostrare vulnerabilità (necessaria per lasciarsi andare davvero sessualmente), che assegno loro il punteggio perfetto 10/10.

Megan Fox e Machine Gun Kelly. Sposata con Brian Austin Green da dieci anni e tre figli, Megan ha incontrato Kelly durante le riprese di un film. Hanno iniziato come amici, poi lei ha lasciato suo marito e ha recitato nel suo video musicale. 

Kelly è tipo completamente diverso dall’ex marito. Brian era pulito e tradizionalmente di bell'aspetto; Kelly è eccentrico, appariscente, pesantemente tatuato. 

Lei lo chiama "dolcemente bello" e la sua "fiamma gemella". È stata al suo fianco mentre usciva dalla tossicodipendenza. Indossa una fiala con il suo sangue al collo (alias Angelina e Billy Bob Thornton) e i due, per un evento, si sono incatenati insieme. 

Megan si è vantata di aver fatto sesso su un tavolo in una proprietà di Airbnb («Sono davvero felice che non sia più il mio tavolo») e che fanno "il tipo di sesso che convincerebbe Lucifero a stringere il suo rosario». 

Ha una "passione" per i piedi (e i suoi sono apparentemente molto belli) e gli piace succhiarli. Eppure, il loro linguaggio del corpo è curiosamente indifferente, sia sessualmente che emotivamente. Ti aspetteresti di vedere un sacco di drappeggi del corpo (letteralmente, dappertutto), intenso contatto visivo e coccole.

Invece, si mettono in posa come le Kardashian. Il braccio sopra la sua spalla, la mano appoggiata sul suo petto servono più a per mostrare le sue lunghe unghie appuntite che a trasmettere affetto (seriamente, quanto sono pratiche quelle unghie durante il sesso, a proposito?). Posano costantemente per la telecamera di fronte, invece che l'uno verso l'altro. 

Anche quando vengono colti alla sprovvista, il linguaggio del corpo non è eccezionale. Ci sono poche prove del legame feroce e potente di cui si vantano. 

La probabilità che facciano un ottimo sesso: non dubito che il loro sesso sia sperimentale, con entrambi ugualmente desiderosi di provare quante più pratiche sessuali possibili. Dubito che entrambi siano in grado di perdersi nel momento e godere appieno di una connessione intima. È un 4/10 basso da parte mia. 

Penepole Cruz e Javier Bardem. Separatamente, entrambi trasudano sex appeal, ma è quando sono insieme che le scintille volano davvero.

I sex symbol Penelope Cruz e Javier Bardem si sono incontrati nel 1992 durante le riprese di "Jamon, Jamon". Hanno continuato a girare film insieme per anni, e i fan che volevano che si incontrassero nella vita reale. Ma non è successo fino a un decennio dopo. 

Come star solitarie, le loro immagini erano rare. Ecco perché le loro foto audaci, su una spiaggia in Brasile 12 anni fa, hanno fatto molto scalpore. Lui le stava afferrando la natica, lei ricambiava. Una certa pressione vigorosa sulla parte inferiore del busto suggeriva anche una forte connessione sessuale. Le foto sul tappeto rosso di loro due mostrano molta giocosità e ricerca l’uno dell’alto (si guardano intensamente in viso per controllare le emozioni).

Un matrimonio e due figli dopo, Javier ha concluso una recente intervista con una degna riaffermazione del motivo per cui non espongono la loro relazione agli occhi del pubblico: «Dobbiamo proteggere 'noi'». 

Probabilità che facciano sesso fantastico nella vita reale: tutti quegli anni di tensione sullo schermo ribollente non consumata! Hanno due bambini piccoli do loro lo stesso un punteggio di 8/10 come coppia.

Estratto dell’articolo di Gianni Poglio per “Panorama”, pubblicato da “La Verità” il 3 marzo 2022.

Non solo Mahmood e Blanco a Sanremo: duetti e raduni di star della canzone sono una tendenza consolidata in tutto il mondo Da Ed Sheeran e Taylor Swift all'attesissimo concerto in coppia De Gregori-Venditti, l'unione è la nuova chiave del successo. 

In estrema sintesi è questo il claim vincente della musica contemporanea. Special guest, featuring e duetti sono le tre parole chiave di una tendenza che ha di fatto abolito l'idea che un album sia un evento artistico esclusivo del cantante che sulla copertina di quel disco ci mette la faccia. Nella musica italiana come in quella internazionale, e senza nessuna distinzione di genere, emerge un'inarrestabile voglia di gioco di squadra, di contaminazione.

E così un duetto non se lo nega nessuno, nemmeno Ed Sheeran e Taylor Swift, che di recente hanno unito le voci nel singolo The Joker and The Queen. Per non parlare di Elton John che alla vigilia dell'ultimo tour della sua carriera ha addirittura pubblicato un album con sedici duetti registrato via Zoom nei mesi del lockdown, o dei Coldplay con Selena Gomez in Let Somebody Go.

O, ancora, Bruno Mars e Anderson Paak con una nomination nella categoria «incisione dell'anno» ai Grammy 2022 per il brano Leave the Door Open. E in Italia? Taxi Driver di Rkomi, al secondo posto nella classifica italiana degli album, a 42 settimane dalla pubblicazione, vede il rapper milanese collaborare con Tommaso Paradiso, Gazzelle, Irama, Sfera Ebbasta, Elodie, Dargen D'Amico, Calibro 35 e molti altri ancora.

Unirsi funziona alla grande, come dimostrano chiaramente i vincitori dell'ultimo Festival di Sanremo, Mahmood e Blanco, che con Brividi hanno già conquistato due dischi di platino e battuto ogni record precedente su Spotify con 3 milioni e 384 mila clic nelle prime 24 ore di streaming. Sono al primo posto nella programmazione radiofonica italiana e al quindicesimo nella Billboard global 200, la classifica dei brani più ascoltati e acquistati al mondo.

Una prova inequivocabile di come la generazione Z abbia completamente ridisegnato la fruizione dei brani in gara all'Ariston. E non solo in chiave nazionale. L'anno scorso i Måneskin, dopo il trionfo sanremese con Zitti e buoni, hanno conquistato il primo posto nelle classifiche streaming di 32 Paesi in meno di un giorno. Un boom sensazionale che nel giro di pochi mesi li ha portati a duettare con l'iguana del rock, Iggy Pop, nel brano I Wanna Be Your Slave. 

Erano eventi unici e straordinari gli incontri tra megastar in sala d'incisione, basti pensare all'impatto dell'unione tra i Queen e David Bowie in Under Pressure (1981) o tra gli Aerosmith e i Run Dmc in Walk This Way (1986), il brano che ha spalancato le porte della White America all'hip hop.

Oggi, unire le forze in una canzone o in un disco, oltre a essere abbastanza scontato, non è ovviamente un mero fatto artistico: nell'era della musica liquida mettere insieme due brand è un moltiplicatore di clic, significa rivolgersi con la stessa canzone a due fan base diverse, ovvero alla platea sterminata dei follower sui vari social.

Si chiama marketing e funziona benissimo. A coronare definitivamente il trend della musica «all together» sono poi arrivati i 15 minuti dell'half time show del Superbowl 2022, che nel nome dello show e dell'audience hanno messo insieme i giganti dell'hip hop. Da Eminem a Kendrick Lamar, da Mary J Blige, Snoop Dogg, 50 Cent a Dr. Dre. La celebrazione di un modo di fare musica e di stare sul palco, la consacrazione del rap come genere definitivo di riferimento per i Millennial.

Al proliferare degli artisti che si uniscono nei brani corrisponde poi un'altra singolare tendenza, quella della moltiplicazione degli autori delle canzoni stesse. Lucio Dalla aveva sbancato le classifiche con il disco omonimo del 1979 scrivendo da solo musica e testi di capolavori come L'anno che verrà o Anna e Marco, Lucio Battisti e Mogol si erano divisi rigorosamente musica e parole in una decina di album epocali dove era chiarissimo chi faceva cosa. Ecco, oggi non funziona più così.

Dietro a una hit da classifica ci sono sempre più spesso quattro o cinque autori delle musiche e almeno un paio di addetti ai testi. Come se le canzoni fossero piccoli Frankenstein dove ognuno aggiunge una tessera del puzzle e si prende una fettina dei diritti d'autore. Come dicevamo all'inizio, più si è meglio è Anche sul palco: come faranno Francesco De Gregori e Antonello Venditti, protagonisti di un concerto a due il 18 giugno all'Olimpico di Roma.

La chiusura del cerchio di due carriere iniziate cinquant' anni fa, nel 1972, allo «Studio 38» dell'Apollo di Roma, quando incisero un album insieme come duo, ribattezzandosi Theorius Campus. Non erano famosi e cantarono separatamente le loro canzoni che ancora non erano celebri. Non sarà così all'Olimpico, dove le versioni di Generale e Roma capoccia a due voci risuoneranno ben oltre le mura dello stadio.

·        Non è la Rai.

Non è la Rai. «Boncompagni è pura genialità». «Ambra parla come fosse viva». Oreste Del Buono e Enzo Biagi su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.

Opinioni opposte di due giornalisti su autori e programmi tv. Per Del Buono «Domenica In è il trionfo della genialità (ma sì, genialità) strategica di uno che di comunicazioni di massa ne capisce davvero». Per Biagi invece in ‘Non è la Rai’ Ambra incanta le platee con i cori pensando forse di «collaborare alla proposta di un nuovo inno nazionale» 

Questo doppio intervento dedicato al programma «Non è la Rai» venne pubblicato sul Corriere della Sera in due date diverse: il primo, di Oreste Del Buono, il 4 gennaio 1990; il secondo, di Enzo Biagi, il 15 settembre 1994. Ve li riproponiamo insieme, dall’Archivio del Corriere, come «Pro e contro», due pareri discordanti eppure entrambi interessanti sulla trasmissione di Boncompagni.

ORESTE DEL BUONO - 4 gennaio 1990 - Il Corriere della Sera

4 gennaio 1990 «Un’adunata sediziosa di italiane in fiore. La Tv di Boncompagni è pura genialità» di ORESTE DEL BUONO

Questa volta spero di trovarla d’accordo per quanto riguarda quel gran polpettone che va sotto il nome di Domenica in»: dall’esordio della lettera proveniente da Bresso a firma Massimiliano Daniele si può capire che chi scrive non trova il programma di Gianni Boncompagni di proprio gradimento. «Nel mio ingenuo immaginario di giovane spettatore televisivo, mi auguravo cambiamenti capaci di movimentare e di rendere “più digeribile” un simile programma. E invece? Invece ci siamo ritrovati con un cruciverba il cui tabellone è almeno triplicato, e con un gruppo di sedicenti cantanti che è salito a otto che in succinti abiti di scena storpiano grandi successi musicali nella drammatica convinzione di darne una memorabile interpretazione personale. È giusto? Le domando...».

Il signor Massimiliano Daniele (o Daniele Massimiliano), quando scrisse la prima volta a questa rubrica per protestare contro un giudizio non troppo positivo sulla serie Moonlighting da lui adorata come il non plus ultra del brio, dell’eleganza, dello spirito televisivo americano, era studente liceale, ora si dichiara studente universitario ma non ha certo perduto la sua foga. «È giusto intrattenere gli italiani con urletti, schiamazzi, starnazzi di un esiguo gruppetto di adolescenti alle quali forniamo il pretesto di autodefinirsi “artiste” e “personaggi televisivi”? È giusto tutto questo? No, non credo...».

Caro signor Daniele Massimiliano (o Massimiliano Daniele), la giustizia non c’entra. C’è pur sempre il telecomando che permette di cercar scampo da quanto si aborre in televisione. Ma, secondo il mio modestissimo parere, Domenica in non è un pretesto per esibirsi offerto a un gruppetto di adolescenti, ma una trasmissione di massa. Infatti, non sono in scena solo le cantanti, ma anche le chitarriste e tutto il gruppone delle ragazze del coro. Un’autentica massa su cui la conduttrice Edwige Fenech ha un potere relativo come sempre a un singolo dentro una massa. Si tratta quasi dell’adunata sediziosa di una leva di italiani, anzi d’italiane in fiore. È il trionfo della genialità (ma sì, genialità) strategica di Gianni Boncompagni, uno che di comunicazioni di massa ne capisce davvero.

Domenica in è una creatura collettiva in perenne festa tribale. È una trasmissione più originale e più schietta dell’arrembante Fantastico. È una perla di Rai Uno. Mi scusi di non essere ancora una volta d’accordo con Lei, ma «Lei non è mica italiano», come direbbe la splendida Emma Coriandoli (al secolo Maurizio Ferrini). Comunque, Rai Uno sta lavorando anche per Lei. Il nuovo kolossal s’intitola Michelangelo, ma ha la garanzia della sceneggiatura di Julian Bond, della regia di Jerry London (quello di Shogun), dell’interpretazione di Frank Martel e Raffaello si chiama «Rafael», Firenze «Florence», Roma «Rome» e Milano «Milan». Come va, come va? Tutto okay, tutto okay.

ENZO BIAGI - 15 SETTEMBRE 1994 - IL CORRIERE DELLA SERA

15 settembre 1994 «Ambra, la 16enne che parla come fosse viva davanti a due milioni di fedeli spettatori» di ENZO BIAGI

C’è di tutto: abbiamo nella Marsica gli orsi come nei Carpazi, in Sardegna le foche come sulla banchisa polare e a Siracusa il papiro come in Egitto. E poi i primati. Un concittadino, Leonardo, ha dipinto la Gioconda, il quadro più prezioso che esiste. Il più insigne poliglotta di tutti i tempi è un bolognese, il cardinale Mezzofanti: sapeva tradurre in 4 lingue e ne parlava correttamente 39. Il Palladio ha disegnato l’Olimpico di Vicenza, il più antico teatro coperto.

Avevamo anche il secondo partito comunista, dopo quello russo, ma non c’è più. Però abbiamo Ambra: un fenomeno che non ha eguali sulla Terra. Mentre Clinton vede un aereo che sta tentando di atterrare nella sua stanza da letto, mentre si discute delle pensioni, dei Leoni del cinema e della truffa infinita sulla sanità (mille miliardi solo in Sicilia) da noi c’è polemica su questa adolescente, che, con altre creaturine anche più giovani, incanta le platee dei coetanei intonando un coro che dice: «Merda, merda, merda». Forse la piccina pensa di collaborare alla proposta di un nuovo inno nazionale.

Ha 16 anni la bimba che sgambetta nel programma Non è la Rai, e parla proprio come se fosse viva. Dietro ai suoi discorsi c’è, come è ovvio, un suggeritore: lei è, più che altro, una doppiatrice; e dice di Berlusconi: «È invidiosissimo dime». Come è ridotto il povero presidente del Consiglio, nonché proprietario della Fininvest. È, anche questa ragazzina, un prodigio, ed è circondata da 140 fanciulline, e tra loro c’è anche qualche vispa negretta, perché i nostri giovani non sono affatto razzisti. Il programma ha addirittura degli autori, che percepiranno come meritano dei diritti, e lasciano stare i doveri. «Si fa», scrive la bravissima Alessandra Comazzi sulla Stampa, «ma non è civile». Forse questa esperienza lascerà un segno nelle giovinette che per nove mesi continueranno ad esibirsi, tutti i giorni, in un gioco che, secondo la psicologa Daniela Conzales, mitizza «solo i valori della bellezza e del consumismo».

Ambra ha fatto vedere che sa camminare sulle acque: il problema per lei e per le sue amiche è quando rimetteranno i piedi per terra. Pare che due milioni di fedeli spettatori guardino Non è la Rai, il che dimostra ancora una volta la forza del mezzo televisivo. Dice Ambra, questa volta spontaneamente: «Qualunque cosa io faccia, loro mi seguono». Capita anche coi «grandi». A me fa piacere che non sia proprio la Rai che ha a che fare con questa, e anche con qualche altra trasmissione: ci sono «fenomeni» ai quali non è poi un grave sacrificio dovere rinunciare.

Qualcuno ha detto che la telecamera non è mai innocente, perché amplifica tutto: anche il nulla. D’ora in poi Ambra affronterà argomenti seri, si fa per dire: intervisterà ospiti non di eccezione, ma i consueti intellettuali di servizio. Non avrà problemi: l’affluenza è garantita. Per Ambra, credo, come per l’estroso personaggio di una commedia di André Roussin: «L’intellettuale è uno che entra in una biblioteca anche quando non piove».

GLI AUTORI 

ORESTE DEL BUONO - Toscano dell’Isola d’Elba, dove nacque (a Marciana) nel 1923, Oreste Del Buono fu scrittore, giornalista e traduttore. Grande sostenitore della cultura popolare, curò con Umberto Eco un volume su James Bond e diede vita ad un’enciclopedia del fumetto italiano. Sul Corriere scrisse tra il 1963 e il 1989. Fu critico letterario e televisivo del quotidiano e nelle pagine della Cronaca di Milano fondò la fortunata rubrica La Talpa di Città. Morì ottantenne a Roma nel 2003. 

ENZO BIAGI - Giornalista, scrittore e conduttore tv in rai, Enzo Biagi nacque nel 1920 a Lizzano Belvedere, nel Bolognese. Cominciò a collaborare con il Corriere nel 1963 e vi restò fino al 1971, quando assunse la direzione del Resto del Carlino che durò appena qualche mese, dopo che la proprietà non lo difese in un violento scontro con il ministro Luigi Preti. Tornò al Corriere, per restarvi fino al 1981. Dopo lo scandalo P2, lo lasciò per Repubblica. Tornò nel 1988 e scrisse fino al 2007, quando, 87enne, morì a Milano.

Che cosa resta di «Non è la Rai»? Tre storie delle ragazze del programma cult anni Novanta. Teresa Ciabatti  su Il Corriere della Sera il 18 giugno 2022.

Ascolti alti, le protagoniste trattate da dive, i fan in delirio. Ma anche strani regali, biglietti minacciosi e bamboline voodoo. I ricordi e le nuove vite di tre ex protagoniste: Angela Di Cosimo, Eleonora Cecere e Ilaria Galassi («Sono sopravvissuta a un aneurisma, ora faccio la badante»). 

Un balletto dalla terza edizione di «Non è la Rai», 1994, condotta da Ambra Angiolini. In prima fila, da sinistra: Eleonora Cecere, Cristina Aranci, Pamela Petrarolo, Alessandra Pazzetta, Roberta Carrano, Angela di Cosimo

«All’inizio c’erano le quattro stagioni, io ero autunno. Ma durò poco, quasi subito diventammo tutte estate, e fu estate fino alla fine». A parlare è Angela Di Cosimo, negli Anni 90 tredicenne, nonché una delle ragazze più invidiate e amate d’Italia. Insieme a Miriana, Ambra, Eleonora, Antonella, Ilaria, Pamela, Marzia, Alessia, Roberta, Mary, Emanuela, e altre, per l’esattezza ottanta. Ottanta ragazze tra i dodici e i ventidue anni che dal 9 settembre 1991 su Canale 5 ballano davanti alle telecamere. Torniamo dunque laggiù, allo studio 1 del Centro Palatino, alle palme finte, alla piscina - Non è la Rai , programma di Gianni Boncompagni e Irene Ghergo.

«Quando partiva Please don’t go ci tuffavamo, tuffo libero. Io mi buttavo dallo scivolo» racconta Angela («a seguito delle proteste su costumi e abbigliamento succinto, fu vietato usare la piscina» svela una ragazza che vuole rimanere anonima).

Molte sono giovanissime - per alcuni troppo (note le proteste delle femministe e del Telefono Azzurro: bambine sessualizzate riprese in pose ammiccanti, contestano). Una delle più piccole è Eleonora Cecere, al tempo dodicenne. Papà elettrauto, mamma portiera, Eleonora vive a Pontestorto - Castelnuovo di Porto (Roma) dove passa l’infanzia: «Ci piaceva tagliare i lombrichi in pezzi che rimettevamo insieme per creare il lombrico gigante... Sapevamo che non poteva resuscitare... Eppure ogni volta aspettavamo per vedere se casomai iniziava a muoversi».

Infanzia simile anche per le altre ragazze, in maggioranza provenienti dalla periferia di Roma o della provincia, vedi Ilaria Galassi, papà impiegato di banca, mamma casalinga - Tor Bella Monaca. «Da bambina giocavo a truccarmi, camminare sui tacchi di mamma, fingere di fumare con le penne». Sognare già a sette, otto anni di apparire in tv, e quindi nel momento in cui succede, all’età di tredici anni, l’esplosione: «Urlavo a mia madre di non disturbarmi che dovevo ballare. Mi chiudevo in cameretta a cantare in playback, provavo le mosse, gli sguardi. In realtà non era cambiato niente, scuola, compiti. Era più come mi sentivo, cosa vedevo guardandomi allo specchio». Viceversa Angela - papà impiegato dell’Enel, mamma casalinga - Torrevecchia, non sogna la Tv che fino a lì è Bim Bum Bam- «cartone animato preferito Georgie ».

All’inizio nessuna capisce bene le conseguenze dell’apparire ogni giorno in televisione - per gli stessi autori il programma è un contenitore di intrattenimento con giochi e quiz rivolto alle casalinghe. Condotto da Enrica Bonaccorti, le ragazze - sempre in principio - sono uno sfondo, nel migliore dei casi protagoniste dei giochi quali ruba bandiera. Tra le regole: niente trucco. Chi riesce a mettere il rimmel viene immediatamente individuata dalla Ghergo che la spedisce a lavarsi. «Ci volevano acqua e sapone. Dovevamo essere le ragazze della porta accanto, dicevano». Questo per i primi mesi, insieme alle quattro stagioni. Dopo tutto cambia. S’ingigantisce, va fuori controllo: ressa di ragazzi all’ingresso del Palatino, molti dei quali dormono lì pur di vedere le loro beniamine. Centinaia, migliaia di lettere. E regali: pupazzi, gioielli, persino soldi.

«Spesso ci regalavano anellini. Poi chiamavano le mamme per chiedere se potevamo restituirli, in genere erano delle nonne» ricorda Eleonora. «Un ragazzo mi regala un orso bianco alto quanto me - Angela - solo che non me lo fanno tenere al Palatino, devo portarmelo a casa. Lo carico in motorino, tra le gambe, l’orso davanti, io dietro. Al Circo Massimo prendo in pieno le rotaie del tram. Ecco, grazie all’orso mi salvo: aveva una lunga striscia di asfalto sul muso, senza di lui mi sarei rovinata. La sera, siccome non entrava in lavatrice, lo abbiamo lavato con una pezzetta». «Mio padre ha tenuto tutto - Ilaria -, in cantina esistono ancora pupazzi, lettere, lui non ha buttato niente».

I telefoni di casa squillano. «Dalle sei di sera a mezzanotte ininterrottamente, tipo centralino». I padri cambiano numero. Passa una settimana, una settimana di pace, e il telefono riprende a squillare: hanno trovato il numero nuovo. «Io parlavo con chiunque - Ilaria -, poiché i miei non mi facevano uscire, quelli erano gli unici contatti con l’esterno. I fan chiedevano di incontrarmi, e io li invitavo a casa. Ragazzi e ragazze che facevano due giorni di viaggio solo per vedermi. Alle ragazze regalavo i miei vestiti, tanto a noi arrivavano a pacchi, avevamo gli sponsor». A proposito di vestiti: «Una mattina al mercato di Tor San Lorenzo vedo un banchetto con i vestiti Phard, sopra un grande cartello: I VESTITI DELLE RAGAZZE DI NON È LA RAI, lì mi sono sentita importante», racconta Eleonora. «Col primo stipendio - di nuovo Eleonora - sono andata da Bacillario a via del Corso a farmi fare un chiodo su misura». E ancora: «Per strada mi riconoscevano, tutti volevano essere abbracciati da me».

«C’era un gioco - ricorda Angela - in cui dovevamo tuffarci nella piscina piena di schiuma, toglierci i costumi e scambiarceli, mentre la gente da casa chiamava per indovinare chi avesse il costume con la scritta Bilboa. Una volta dovevo averlo io, ma nella fretta di passarmelo Pamela lo perde... sorridendo, la testa fuori, mi metto a cercarlo coi piedi, niente. Ho fatto il gioco nuda, meno male che con la schiuma non si vedeva niente» («non è assolutamente vero che ci fosse una telecamera sott’acqua visibile solo in regia, come alcuni dicevano» ragazza anonima). Purtroppo quella felicità totale, quel senso di giovinezza eterna, presto s’incrina. «Arriva una bambolina - racconta Eleonora - un’altra, e un’altra. L’ultima con uno spillo in testa e un cappio al collo, insieme a un biglietto che diceva “questa sei tu”. Erano bamboline voodoo». Sempre Eleonora: «Un giorno ricevo un cd, eravamo al Palatino, io, Ilaria, Angela, Pamela scendiamo in sala prove per ascoltarlo. Lo mettiamo e parte la voce di uomo che dice: “Eleonora, ti farò molto male”».

Eleonora Cecere ai tempi di «Non è la Rai» 

Anche Angela riceve regali che la spaventano: «Una valigetta ventiquattrore con dentro santini e peli pubici». Minacce di morte, foto sconce, lettere volgari (vorrei farti questo, quello...). E loro tredici, quattordici, quindici anni, loro piccole, bambine. «Solo a casa mi sentivo al sicuro - dice Eleonora -. Sul letto mamma metteva i pupazzi, quelli che mi regalavano i fan. Uno in particolare: l’asinello di Winnie The Pooh, quello con cui adesso dormono le mie figlie. La notte stringevo l’asinello, e passava la paura». Ma gli eventi inquietanti si moltiplicano: le ragazze vengono seguite in motorino. Strattonate per foto e autografi. «Un pomeriggio citofona una tizia che mi chiede di scendere. Io scendo, e lei dice che vuole menarmi, motivo: il fidanzato l’ha lasciata per colpa mia, si è innamorato di me dalla televisione. La verità è che tutti sapevano l’indirizzo di casa nostra, chiunque poteva venire e farci del male».

Impossibile camminare per strada: Eleonora e Angela, passeggiando su via del Corso, vengono riconosciute e accerchiate. Qualcuno grida: «Brutte», «fate schifo» - frattanto la folla aumenta, si stringe intorno - «chi vi credete di essere» - finché loro - per mano, piccole, piccolissime - non riescono a fuggire e a infilarsi in un negozio. Ilaria cita un episodio specifico: un uomo che all’ingresso del Palatino ferma la macchina del padre. «Sono io il vero padre di Ilaria» urla. Sostiene che la mamma della ragazza gli abbia scritto una lettera per rivelargli la verità. E adesso lui è qui per riprendersi la figlia. Avanza per cercare di afferrare Ilaria, senonché il padre esce dalla macchina, lo spintona, per fortuna sopraggiunge la sicurezza. «Dopo abbiamo saputo che era un malato psichiatrico fuggito dall’ospedale», dice Ilaria.

Nel frattempo il merchandising : album, quaderni, diari. I ragazzi fuori dallo studio si scambiano le figurine: tu mi dai Ambra, io ti do Miriana. Le scritte d’amore sulle mura del Palatino e sotto casa. Angela non dimentica le proteste del condominio, e il padre che cerca di pulire con acqua e sapone le scritte «Angela for ever», «Angela sei la mia vita». Qualcuno, come il fratello di Eleonora, s’ingegna: prende accordi coi fan per vendere le foto della sorella. Quindi le serate, già dalla seconda edizione le ragazze sono ingaggiate per fare serate in giro per l’Italia. «Prendevamo l’aereo il pomeriggio, a fine diretta, e ripartivamo la mattina seguente». La maggior parte di loro non ha mai preso un aereo. Come dimenticare il primo volo, occhi chiusi, mano nella mano. Poi volare diventa abitudine. Durante una di queste trasferte, in Calabria, svegliate dai genitori, le ragazze sono costrette a scappare.

«Papà mi disse solo che si era creata una brutta situazione - Ilaria - erano stati minacciati con le pistole, eravamo in pericolo». E loro, tredicenni, quattordicenni, quindicenni, loro piccole, disorientate, nottetempo fuggono senza paura però, quasi che quell’emergenza sia parte del film che stanno vivendo, del meraviglioso film che si augurano duri tantissimo. Perché sì, nessuna immagina che potrebbe finire. Gli ascolti alti, la calca di ragazzi fuori dal Palatino. Le lettere, i regali. Invece: dopo quattro anni, il 30 giugno 1995, finisce. Ambra annuncia «oggi canto piangendo», e in playback canta T’appartengo , mentre le altre, strette l’una all’altra, singhiozzano - tredici, quattordici, quindici anni, piccole, piccolissime. È vero che piangere non è una novità. «Eravamo adolescenti - dice Angela - gli amori, le delusioni. Sulle canzoni struggenti, partiva il pianto. Le ragazze normali piangevano nelle loro camerette? Noi in studio. I motivi erano gli stessi» («a molte, prima della diretta, mettevano il collirio per lacrimare» ragazza anonima). 

Sia quel che sia, quell’ultima puntata è indimenticabile (sotto il video in rete, tutt’oggi i commenti: «Avevo 6 anni..., ero in ospedale a combattere con una brutta malattia. Mamma riuscì a procurarsi una piccola televisione per lasciarmi vedere Nonè la Rai . Quello era il momento più lieto di quei brutti giorni, specialmente quando Ambra cantava questa canzone. La gioia era così forte che quando la ascolto mi emoziono ancora ». «Gli anni che vorrei rivivere indimenticabili che ricordi». « Hai ragione Daniel, ogni tanto le riguardo... Ricordo molto bene quella giornata davanti alla TV a piangere»).

Sullo schermo la scritta The end .

Ebbene sì, la fine è arrivata davvero.

E ora? Cosa succede ora? Si domandano in molte

Qualcuna tenta di proseguire la carriera televisiva, poche riescono. Eleonora forma un gruppo musicale su modello delle Spice Girls: Le dolce manie, «sfortunatamente dura poco per questioni di gelosie interne». In seguito si dedica al teatro. Decine di provini, «ogni volta va male, il regista o chi per lui dice sprezzante: tu sei quella di Nonè la Rai . Allora mi faccio mora e alliscio i capelli. Poi dico basta: se mi vogliono, mi prendono per quello che sono. E ridivento bionda». Stessi problemi per le altre, Angela è una delle poche a capire subito che non sarà la televisione il suo futuro. Commessa in un negozio di abbigliamento dove chi la riconosce chiede: come sei finita qui?

Passano gli anni. Da diciotto Angela è parrucchiera nel negozio della sorella a Torrevecchia. Diverso il caso di Ilaria che avrebbe potuto continuare a lavorare in televisione. Lei, quella ragazzina che provava le coreografie in cameretta e che urlava ai genitori di non disturbarla. Lei, la dodicenne che guardandosi nello specchio vedeva una star. Ebbene proprio lei, ingaggiata nel ruolo di velina bionda di Striscia la notizia , è costretta a rinunciare: aneurisma cerebrale, coma. Al risveglio dall’operazione durata dieci ore, Ilaria ha perso la memoria, non sa camminare, né parlare. Tre anni di riabilitazione per riprendere la vita normale. Di quel periodo rammenta la vicinanza della famiglia. «Io pensavo che la mucca fosse il cavallo, allora papà mi spiegava: questo è il cavallo, e questa la mucca, sono diversi, vedi?».

Alla domanda: «Uscita dal coma ricordavi di essere Ilaria Galassi di Non è la Rai ?», risponde no.

Quindici, venti, trent’anni. Passano trent’anni.

Oggi le ragazzine di un tempo sono mamme, alcune si dedicano ai figli, altre lavorano. Eleonora, tornata a vivere a Castelnuovo di Porto, mette in scena spettacoli col marito regista, e gira i teatri del Lazio: «Albano, Palestrina, Latina, Montalto di Castro, Tarquinia, Tolfa. D’estate le piazze: Scandriglia, Trevi nel Lazio, Frascati, Civitella San Paolo». Quando causa Covid il teatro si ferma, lei non si perde d’animo: lavora in un’agenzia di sicurezza, vigilanza non armata, negli hub dei vaccini Covid. Non rinuncia comunque al teatro: «Con mio marito abbiamo messo in scena Eleonora Cecere- words for peace , un’ora e mezzo di canto e di ballo. Debutto a Monterotondo, sold out ».

Ilaria invece, mamma di due bambine, lavora presso una signora anziana. «Se qualcuno per strada mi riconosce e chiede cosa faccio ora, rispondo la verità: mi prendo cura di una signora, loro sgranano gli occhi: fai la badante? Chiedono. Sì, faccio la badante». È un lavoro che le piace, oltre a essersi molto affezionata alla signora. «Ha novant’anni, io la lavo, la porto in bagno, la trucco, la pettino. Le ripeto: se viene qualcuno deve trovarti bella». Eccole dunque le ragazze di allora, le più invidiate, le più desiderate, eccole cresciute. Cosa rimane della loro adolescenza scintillante? Tanti pupazzi e qualche scritta, come quella sotto casa di Angela: «Angela, non rispondi mai». «I ragazzi che oggi ci seguono sono tantissimi, non mollano perché credono ancora in noi» dice Eleonora, tornando forse laggiù, ai giardinetti di Pontestorto, con la speranza che i pezzi di lombrico si uniscano a formare il lombrico gigante che di colpo si anima, riprende vita.

Da fanpage.it il 22 luglio 2022.

Ilaria Galassi si racconta in un'intervista rilasciata a Fanpage.it 27 anni dopo Non è la Rai, il programma che la trasformò in una delle adolescenti più amate d'Italia. Dopo essersi vista costretta a chiudere il salone di parrucchieri, a causa della crisi generata dalla pandemia, da qualche tempo fa la badante presso una signora di 90 anni. 

Tra loro si è instaurato un rapporto fatto di premure, cura e tenerezza. Nel corso dell'intervista, la quarantaseienne ha anche raccontato perché non è stata presa all'Isola dei famosi 2022 e, infine, ha risposto a Maccio Capatonda, che nei giorni scorsi ha svelato che da adolescente era perdutamente innamorato di lei. 

Due anni fa, mi raccontasti che lavoravi nel salone di parrucchieri del tuo compagno, eri alla cassa e ti occupavi della contabilità. Poi cosa è successo? 

Siamo stati costretti a chiudere per via della pandemia. Eravamo in zona Parioli. L'affitto era altissimo e nonostante ci fosse il Covid, noi dovevamo pagarlo. Abbiamo dovuto fare una scelta. Fortunatamente, il mio compagno ha un altro negozio a Fiumicino e ci siamo trasferiti. 

Oggi fai la badante. Come ti sei ritrovata a prenderti cura della signora Ausilia?

Una cliente mi disse che aveva bisogno di una donna che stesse con sua madre dalle 09:00 alle 13:00. Non era il mio lavoro, quindi non mi piaceva usarlo come tale. Le ho detto: "Lo faccio perché è quello che facevo sempre con mia nonna, ma non voglio neanche essere pagata". Mi piace farlo. E poi, in questo periodo non sto lavorando. Ho mandato il curriculum ovunque, ma è difficile trovare lavoro. Dato che mi annoio a stare senza far niente, mi sono detta: "Ma che me frega, lo faccio" e ho accettato di occuparmi di Ausilia. 

Quindi non vieni pagata per occuparti di lei?

Ogni tanto mi fa qualche regalo e con quei soldi ci faccio la spesa. Però non è che vado lì perché vengo stipendiata. In questo momento, sta lavorando solo il mio compagno. Dobbiamo pagare l'affitto. Arriviamo a fine mese proprio stretti, stretti, stretti (sorride, ndr). 

Cosa fai nelle quattro ore in cui tieni compagnia a questa signora?

Innanzitutto, le do le pastiglie la mattina, altrimenti si scorda. Le lavo le gambe, le si aprono spesso delle ferite, la disinfetto, le metto la crema e le bende. Poi, la porto in bagno, la lavo, se vuole le faccio la piega e la ceretta al viso, fa colazione, si mette seduta e chiacchieriamo di tutto e di più. Mi racconta la sua storia. Faccio queste cosine per lei, la coccolo. È bella da morire. Ha 90 anni, ma non li dimostra affatto. 

Sapeva del tuo passato a Non è la Rai?

Sì, anche se lei non vedeva Non è la Rai. In realtà, non guardava proprio la televisione, aveva tanto da fare. Era una casalinga, faceva la pasta fatta in casa, la sarta, si occupava dei figli. È una di quelle donne vecchio stampo.

Dal video che hai pubblicato sui social, traspare il bel rapporto che avete instaurato. Ti ha insegnato qualcosa che ha cambiato il tuo approccio alla vita?

Tante. Una cosa fondamentale che mi ha insegnato è risparmiare sul cibo. Non si butta niente. Bisogna sempre reinventare un pasto nuovo, quando ci sono degli avanzi. E poi fare le cose con calma. 

Mi dice sempre: "Non ti preoccupare, se non lo fai oggi, lo fai domani, stai tranquilla. Goditi la vita giorno per giorno". Mi trasmette pace. Oggi la vita è frenetica, si pensa spesso ai soldi e lei mi dice: "Guarda che i soldi non c'erano neanche ai miei tempi. C'era solo lo stipendio di mio marito, che non guadagnava tantissimo, ma siamo stati bene lo stesso". Per me è come se fosse una terapia andare da lei. 

Dunque, anche lei si sta prendendo cura di te.

Ci aiutiamo a vicenda. Quando vede che sono giù di morale mi chiede: "Che hai?" e io mi sfogo con lei. Vede sempre il lato positivo nelle cose. Se ho delle discussioni con il mio compagno, perché abbiamo caratteri diversi, lei mi dà i consigli giusti e mi invita ad avere pazienza. 

In che modo tu hai cambiato le sue giornate?

Da quando ci sono io, si è ripresa. Si era buttata giù tanto, perché ha perso una delle sorelle con cui viveva in simbiosi. Ad agosto non ci sarò, perché andrò a trovare mia madre. Lei è già impanicata, ma io l'ho rassicurata che a settembre tornerò da lei: "Non ti preoccupare, che io non ti mollo". 

Hai fatto i provini per l’ultima edizione dell'Isola dei famosi. Come mai non ti hanno preso?

Ho fatto un provino su Zoom e due di persona, con tutti gli autori. Nell'ultimo mi sono un po' ammosciata, perché ho dovuto ricominciare daccapo, pur avendone fatti altri due, in cui mi ero già raccontata bene. Alla fine mi hanno detto: "Hai tante qualità, ma non ti sai vendere". 

In che senso?

Credo intendessero dire che non so vendermi nei provini. Forse era piatto, era come se mi fossi bloccata. Mi sono un po' arrabbiata e ho detto che se devo vendermi lo faccio per i miei figli, se non hanno da mangiare o un tetto sulla testa. Per fare l'Isola dei famosi, mi sembra davvero una cosa brutta. Grazie e arrivederci. Non so se il prossimo anno mi permetteranno di farlo di nuovo, li ho un po' trattati male (ride, ndr). 

Per la quota Non è la Rai, poi hanno preso Pamela Petrarolo.

Sono contenta per lei. È una mia amica. Ausilia, quando le ho spiegato che il provino era andato male, mi ha detto: "Continua a insistere, a fare provini e vedrai che qualcosa succederà".  

Maccio Capatonda ha dichiarato al Corriere che ai tempi di Non è la Rai era innamorato di te: “Cercavo l’amore platonico, cercavo l’anima gemella e l’avevo trovata in Ilaria". Ti aspettò anche fuori dagli studi per dirti che ti amava e tu lo salutasti "carinamente". Cosa gli rispondi?

Non ricordo questo episodio. Che bello, sono molto felice di questa cosa. Spero che un giorno andremo a prenderci un caffè o andremo a cena fuori, così mi racconta le emozioni che ho suscitato in lui. Mi fa piacere. Io l'invito gliel'ho fatto, quindi aspettiamo la risposta. 

·        Abel Ferrara.

Giulia Villoresi per “il Venerdì – la Repubblica” il 24 agosto 2022.

Abel Ferrara, 71 anni, regista di culto della scena indipendente americana, in piedi nella sua cucina parla del suo ultimo film, mentre noi, la metà dei suoi anni, ci dimentichiamo di offrirgli la nostra sedia. Ce ne dimentichiamo per un'ora e mezza. Tanto che alla fine sarà costretto a dirci: «Però così mi viene un colpo, bro'». Bro' sta per brother, fratello: ha iniziato a chiamarci così quando l'atmosfera si è scaldata. Il Maestro - qui all'Esquilino lo chiamano tutti così - parla americano con una lieve inflessione italiana, e non perché vive a Roma da vent' anni, ma perché è cresciuto tra gli italo-americani del Bronx.

Per prima cosa ci ha preparato una moka con l'acqua minerale: un rituale quasi religioso, con picchi di violenza inaudita (la forza con cui maneggiava le tazzine faceva temere il peggio), e tanto magnetico da inchiodarci alla sedia. Anche i suoi film sono così. L'ultimo, Padre Pio, sarà presentato il 2 settembre alla Mostra del cinema di Venezia nella selezione ufficiale delle Giornate degli Autori.

Qui l'eterna riflessione di Ferrara sui temi del peccato e della redenzione ha raggiunto la sua forma più esplicita: l'agiografia. Quella di un santo di cui si è detto di tutto (millantatore, fornicatore, iracondo, fascista, affarista), interpretato da un attore che ha combinato di tutto: Shia LaBeouf, 36 anni, arrestato almeno undici volte a partire dai nove, alle spalle un rehab e una conversione al cristianesimo (era ebreo), dopo un «viaggio spirituale» che ha avuto il suo culmine proprio in questo film. E si vede. Come in Pasolini (2014), che racconta le ultime 24 ore di PPP, anche qui Ferrara si è concentrato su un breve segmento storico: sono i fatti sanguinosi, e pressoché sconosciuti, avvenuti a San Giovanni Rotondo nell'ottobre del 1920, proprio mentre Padre Pio, appena fuori dal paese, combatteva (talvolta fisicamente) con Satana, ed elaborava la croce delle stimmate "definitive".

Partiamo dall'eccidio di San Giovanni Rotondo.

«Un fatto storico di portata mondiale. E voi non ne sapete nulla. Nel 1920 in Italia ci sono state le prime elezioni vinte dalla sinistra. I socialisti hanno preso molti comuni. Ma a San Giovanni Rotondo, un paesino dominato da preti e proprietari terrieri, la destra ha negato il risultato delle votazioni. Una quarantina di persone si è radunata sotto il Comune per protestare. La tensione è salita. I carabinieri hanno sparato. Risultato: undici morti. Una fottuta strage. E voi non ne sapete nulla. Perché?».

Non lo so.

«È la nascita del fascismo, cazzo! È la prima battaglia della Seconda guerra mondiale. È l'inizio di tutto. Ed è accaduto lì, a San Giovanni Rotondo, mentre Pio lottava col diavolo». 

Nel 1961, ricostruendo l'eccidio, l'Avanti osservava che sarebbe sciocco immaginare Padre Pio come estraneo ai fatti, immerso esclusivamente nelle sue esperienze mistiche.

«Non me la bevo. Il monastero dei cappuccini era fuori dal paese. Neppure ci andavano, in paese. Ovviamente lui aveva un'influenza, ma non politica».

Non politica?

«No, bro'. Era un'influenza spirituale. Perché lui vedeva tutte quelle dinamiche e sapeva a cosa avrebbero portato. Il diavolo gli parlava: "Pensi che gli ultimi cinque anni siano stati brutti? Vedrai i prossimi venti. Guerra. Spagnola. Ebrei gassati. Milioni e milioni di morti. Come pensi di fermarmi? Tornatene da mamma, cazzone!"». 

Invece lui è rimasto.

«E ha costruito un ospedale. Un fottuto ospedale, dove non c'era neanche l'acqua! Un monaco tra i poveri che raccoglie 35 milioni di dollari».

Dollari di oscura provenienza, pare.

«Pio sapeva smuovere le montagne». 

Le è mai venuto il dubbio che questo carisma fosse un'emanazione dell'ego, più che dello spirito?

«La sua battaglia quotidiana era proprio questa: l'ego. Cos' era il diavolo, sennò? Nelle lettere lo dice. "Perché sto facendo tutto questo? per me o per Gesù Cristo?". Ma lui era soprattutto un grande confessore». 

Cosa significa?

«Significa che fuori fanno quaranta gradi, e tu stai in un fottuto bugigattolo tutto il giorno ad ascoltare le sofferenze altrui. "I miei pomodori non crescono. Mia figlia non rimane incinta. Non ho soldi. Non ho fede. Mi scopo la moglie del mio amico". E tu li ascolti. Porti a tutti la parola di Dio. Poi gli porti un ospedale. Cos' è? Compassione? Miracolo?».

Lei crede nei miracoli?

«Credo in quell'ospedale. Credo nella compassione. Ma non credo nei miracoli: sono buddista. Credo che le cose, semplicemente, accadono». 

Allora che cos' erano le stimmate di Padre Pio?

«La sua risposta all'apocalisse che stava arrivando. Una risposta così profonda da far uscire il sangue. Le stimmate sono la sofferenza che attendeva tutti, che lui ha preso su di sé. Quante persone hanno detto: "Mi ha toccato, e sono cambiato"? Lui ha portato il miracolo tra la gente».

Di nuovo il miracolo...

«Shia, per esempio, crede nei miracoli». 

Ecco, Shia LaBeouf: perché ha scelto lui per interpretare Padre Pio?

«Qualcuno me l'ha presentato, abbiamo parlato e c'è stata una connessione. Al tempo lui stava affrontando un viaggio spirituale. Un viaggio nel quale è immerso ancora oggi. Lo stesso viaggio che sto facendo io». 

Come si è preparato per il ruolo?

«Si è chiuso per due mesi in un convento di cappuccini fuori Los Angeles.

I frati lo hanno accettato, dandogli tutte le conoscenze di cui aveva bisogno.

Lui era già molto dentro alla questione della fede, e ci è entrato ancora di più». 

Ha pensato di farsi monaco?

«Questo devi chiederlo a lui. Ad ogni modo, i cappuccini del film non sono attori: sono monaci veri». 

Hanno visto il film?

«Sì. E hanno detto che è un capolavoro. Tutti i fottuti cappuccini! Ecco la mia più grande felicità!». 

La felicità: pensa di conoscerla meglio, da quando vive in Italia?

«Dieci anni fa ho passato quattro mesi in una comunità fuori Caserta e ho chiuso con droghe e alcol. Sono rinato lì. A trenta minuti dal luogo in cui era nato mio nonno, cioè Sarno. Ero molto legato a mio nonno. È grazie a lui che ho scoperto Padre Pio. Erano coetanei e conterranei. Lui emigrò negli Stati Uniti nel 1900 e se la cavò alla grande.

Non come gangster. Col duro lavoro. Però non imparò mai l'inglese».

Come lei che non ha mai imparato l'italiano

«Beh, sai. Mia moglie è moldava. Parla moldavo». 

Quindi lei parla moldavo?

«No. In realtà parlo a stento l'inglese. Ecco il problema: non ho mai imparato davvero l'inglese, quindi imparare altre lingue mi viene difficile». 

Perché ha scelto l'Italia?

«Perché ero stanco di lottare per la mia libertà creativa. Quello che faccio, che per me è sacro, nel mio Paese non è rispettato. Lì il regista come autore di film ormai non esiste più. L'artista non conta un cazzo, conta il profitto. Qui invece c'è una legge che dice che nessuno può toccare il mio film. E non è solo una legge. È una filosofia di vita». 

Cioè?

«La vedi quella maniglia? Il tipo che l'ha fatta, cento anni fa, ci ha messo tempo e cura. A New York te la fanno in cinque minuti e non gliene frega un cazzo. Guarda il pavimento (marmette anni 20, ndr). Questo pavimento è come i miei film. Come il caffè. Il cibo. Non lo so cos' è. Cultura. Rispetto per l'arte. Quando hai una civiltà di tremila anni impari a rispettare certe cose». 

Eppure, non tutti pensano che questa civiltà stia producendo arte vitale. Prendiamo il cinema: le piacciono i film italiani?

«Vabbè. C'è stato Berlusconi. I nuovi registi sono cresciuti con la sua tv, non con Rossellini e Antonioni».

La maggior parte di quei registi conosce Rossellini e Antonioni.

«Non lo so. Garrone mi piace, per dire. Ma la verità è che non vedo film. Non li vedo perché li faccio e la sera voglio solo leggere un libro». 

A che film lavora, adesso?

«Sto per partire per l'Ucraina: andiamo a girare un documentario».

Cosa ha in mente?

«Niente di preciso. Intanto partiamo da Kiev, il resto dipende».

Da cosa?

«Da quanto sono coraggioso».

·        Achille Lauro.

Luca Dondoni per “la Stampa” il 6 luglio 2022.

Achille Lauro continua a stupire e ieri all'Ippodromo di San Siro l'artista romano ha aggiunto due nuovi tasselli al puzzle della sua carriera. Insieme agli elementi della band e all'Electric Orchestra che entra ed esce di scena diventando elemento musicale e spettacolare al tempo stesso, Lauro De Marinis ha creato uno show con opere d'arte NFT realizzate interamente a scopo benefico, le «Achille Lauro NFT live Superart». Ma prima del concerto non si può non parlare della sua esperienza non proprio positiva all'Eurovision Song Contest.

Un'eliminazione che scotta ancora.

«Credo che la carriera sia fatta di alti bassi, è un grande puzzle e si aggiungono pezzi di volta in volta. Sinceramente non mi interessa la fiammata iniziale, anche se ce l'ho avuta e bella grossa. 

A 30 anni ho già fatto quattro Sanremo, dieci dischi, vinto San Marino, l'Eurovision Song Contest, scritto due libri, la regia di documentari, la produzione video e la supervisione artistica di tutti i miei concerti. Qualcosina no? Sono anche abituato a prendere le facciate e a dover ricominciare. Se non va riparto, non è un problema.

All'estero queste cose sono viste benissimo e poi è ambizioso vivere così. Quanti fallimenti hanno creato grandi imprese, fare carriera vuol dire anche scontrarsi con la critica». 

Quindi dall'Eurovision in poi si svolta pagina, c'è un nuovo Achille Lauro.

«Esatto, l'Eurovision è stato un punto fermo della mia storia e da lì sono ripartito. L'aver presentato una canzone come Stripper che per me rappresentava un cowboy pazzo sul toro meccanico e non essere stato capito mi è dispiaciuto. 

Dell'estetica non me ne importa più nulla, ma ci sono canzoni che hanno il diritto e dovere di essere accompagnate dallo spettacolo. Altre vivono da sole e la loro anima ti impone rispetto. Un pezzo come Marilù lo posso fare solo con un microfono indossando una maglietta bianca, seduto su uno sgabello e basterebbe così». 

Una rivoluzione.

«E se viene interpretata bene o male non è un mio problema; non amo i condizionamenti sennò non avrei registrato 15 dischi totalmente fuori moda. Ho sempre fatto le cose prima degli altri. Quando sono andato a Sanremo, della mia generazione chi ci andava? Nessuno, ma dopo la mia Rolls Royce che era assolutamente rock, a Sanremo sono arrivati i Måneskin e il Festival lo hanno anche vinto. Poi, sul look, Blanco e Mahmood hanno osato un po' di più ed è andata benissimo. Diciamo che anticipo i tempi». 

Begli esempi, ma solo lei non ha vinto Sanremo però si è portato a casa il Festival di San Marino e l'Eurovision. Quella volta Blanco disse: «Voglio bene ad Achille Lauro ma per me e Mahmood Sanremo è stata una priorità e non avrei mai cercato di andare a Torino a tutti i costi».

«Tanti mi hanno scritto per dirmi che non l'aveva detta proprio così, ma penso che io non debba chiedere il permesso ai miei colleghi per le scelte che faccio; e poi a un pischelletto può capitare di dire apertamente una cosa che pensa non ritenendola importante, e invece lo è». 

Lauro ci spiega cos' è l'NFT Live Superart?

«È la generazione tramite reti neurali di opere d'arte "sound-reactive" che arrivano direttamente agli occhi degli spettatori tramite i ledwall che sono sul palco. Gli studenti della scuola BigRock, partendo dall'ascolto dei cinque brani, Solo noi, Roma, Marilù, Rolls Royce e C'est la vie hanno ideato dei concept creativi che producono quadri digitali unici al mondo e saranno messi all'asta come Non Fungible Token in autunno a supporto dell'Associazione "Comitato Maria Letizia Verga" per lo studio e la cura della leucemia del bambino». Lauro per lei non sarà uno sforzo anticiparci il suo futuro. 

Che cosa succederà?

«Voglio fare sei San Siro consecutivi, ampliare la mia società di Management che sta diventando sempre più grande e ha soci come l'Arcobaleno Tre di Lucio Presta, Ferdinando Salzano, l'agenzia Musica e Parole: gente che sa fare il suo mestiere. Vorrei lavorare nella moda, sviluppare il discorso NFT perché la generazione Alpha sviluppa un'identità digitale prima di quella fisica e io starò sempre dalla parte dei ragazzini». 

Cosa ne pensa del twist Anni '60, il ritmo che sta imperando questa estate?

«Mi ha già annoiato. Speriamo che ci sia un'evoluzione».

"Ricomincio da capo. Ma all'Eurovision ci ho messo la faccia". Paolo Giordano il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'artista ieri a Milano con uno show che punta sugli "Nft" (a scopo benefico)

Di certo lui non fa una piega. Achille Lauro ha le idee chiare anche quando non hanno l'effetto voluto. «Faccio le cose a modo mio, a prescindere da come vengono accolte». Dopo il chiacchierato passaggio all'Eurovision Song Contest di Torino (era in gara per San Marino, non ha superato la semifinale), è partito con l'Electric Orchestra per concerti che creano in diretta opere d'arte generativa Nft a scopo benefico (Ntf Live Superart). Un'altra scommessa di questa «mina vagante» che tra pochi giorni compirà 32 anni e non smette di sparigliare le carte anche quando non ha assi da giocare. Ieri sera era all'Ippodromo di Milano, poi passerà anche da Brescia, Roma, Firenze, Napoli, Taormina, Lecce e via elencando fino a metà settembre. Un tour di passaggio in quell'inarrestabile e controverso mondo che è Achille Lauro con le sue visioni.

Però adesso possiamo fare un bilancio. L'Eurovision?

«Seguo l'istinto e credo che ogni opportunità vada presa. Sono arrivato all'Eurovision pensando che nessun altro si sarebbe presentato con un brano punk rock cantato su di un toro imbizzarrito».

Non è andata come avrebbe voluto: niente finale.

«Sono abituato a metterci la faccia e poi a ricominciare se non va bene. In America questo è visto come un segnale di ambizione e il fallimento di una iniziativa è considerato un'opportunità per iniziarne un'altra. Certo, sarebbe stato bello arrivare in finale, però...».

Però?

«Tutto ciò non mi impedirà di arrivare a suonare in sei concerti a San Siro».

Consecutivi?

«Ovvio». (sorride - ndr)

Ci sono state polemiche sulle irregolarità di voto che hanno coinvolto alcuni Stati, tra i quali San Marino. In più il bacio sulla bocca del suo chitarrista Boss Doms potrebbe aver alienato tanti voti in alcune aree europee.

«Non conosco il funzionamento delle votazioni né le dinamiche politiche. Però sono soddisfatto perché abbiamo presentato uno spettacolo dirompente. In ogni caso, ho partecipato per quattro volte consecutive al Festival di Sanremo e non ho mai vinto».

L'Italia all'Eurovision era rappresentata da Mahmood e Blanco, che ha criticato la sua scelta di «correre» per San Marino.

«Molti mi hanno mandato messaggi per dire che non si era espresso proprio così. Ma è un giovane pischello e magari non pensava che quella frase sarebbe stata riportata. In ogni caso, io faccio le mie scelte senza chiedere il permesso ai colleghi».

Questo tour è comunque una sfida coraggiosa. Anche perché punta sugli Nft, i «Non-fungible token» che poi saranno messi all'asta per il Comitato Maria Letizia Verga per lo studio e la cura della leucemia del bambino.

«Gli Nft suscitano le stesse reazioni nella gente di quando è arrivata Internet, non mi stupirei se in futuro avessero un ruolo sempre più importante».

La frenesia del giovanilismo a tutti i costi colpisce anche Achille Lauro?

«Ormai io sono un caz.. di boomer, ormai sono come Califano (sorride - ndr) ma non ho paura di perdere il pubblico, non ho paura del futuro. In fondo il mio lavoro me lo sono inventato passo dopo passo».

La giornata tipo di Achille Lauro.

«Lavoro 19 ore al giorno, e non scherzo. Chi è di fianco a me pensa che io sia una persona strana, in realtà ho soltanto una gigantesca passione. Sono curioso, seguo tutto. La mia prima start-up è stata finanziata dalla Sony con centinaia di migliaia di euro ma faccio tante altre cose tranne il manager».

Però potrebbe fare il giudice in un talent show.

«Non mi metto limiti. Ho visto ad esempio che Rkomi sarà in giuria nel prossimo X Factor. Però, se devo proprio dirla tutta, non mi sento portato per stare davanti alla tv. Per capirci, al cinema preferirei fare il regista più che l'attore».

L'estate del pop ha risvegliato le melodie tipo anni Sessanta.

«Posso dirlo. Me so' rotto i cogl...».

Scusi?

«Come sempre arriveremo alla nausea. Ma ci penso io: mi inventerò una cosa che subito tutti diranno che schifo ma poi due anni dopo tutti la imiteranno». (sorride - ndr)

Tanti pensano che la sua attenzione all'allestimento e alla scenografia le abbia tolto attenzione alla musica.

«Questo tour mette un punto sulla mia storia fino all'Eurovision. Ora ci sarà un nuovo inizio».

Ossia?

«Siamo in una fase musicale che va oltre l'urban. E io magari me ne andrò sul palco solo con jeans e maglietta. La propria identità resta sempre più importante della moda».

"Io, girovago nel mondo ora mi sento molto rock". Ferruccio Gattuso il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.

L'artista ritorna dal vivo anche all'Ippodromo «Dai primi dischi a oggi, tour nella mia storia».

È tempo di Milano per Achille Lauro e, finalmente, è anche tempo di Achille Lauro per Milano. I fan aspettavano un tour vero da almeno due anni, perché le date che dovevano essere si sono perdute sulla strada della pandemia. Ora però che la musica live sembra correre con energia da una parte all'altra dei palchi, lo show, come si dice, è in città. Reduce dall'esibizione pirotecnica all'Eurovision Contest 2022 con il brano «Stripper» tratto dall'album «Lauro - Achille Idol Superstar», l'artista romano (nato però a Verona) approda insieme alla Electric Orchestra con il suo cocktail di generi (musicali e non solo, per come gioca con le varie declinazioni sessuali) all'Ippodromo di San Siro il 5 luglio, nella cornice del Milano Summer Festival. E, come racconta, si sente «molto rock».

Achille Lauro, si torna live: come si sente?

«Davvero mi sembra sia passata una vita dall'ultima volta in cui ho fatto un live da tour. L'emozione è totalmente diversa rispetto ad altri contesti. Lo so io e lo sa il pubblico, e difatti si percepisce un'energia e una complicità totalmente diverse».

Che tipo di show sarà?

«Per questo tour abbiamo scelto di creare un percorso attraverso la mia storia, partendo dai primi album e singoli importanti fino ad arrivare ai brani da alta classifica, unendo la mia rock band all'orchestra. Col Direttore Musicale Marco Lanciotti e il Maestro Gregorio Calculli, abbiamo creato un viaggio tra live e musical, senza mai momenti di silenzio. Un lavoro duro».

Il concerto a Milano è attesissimo: recupera tre date perdute tra 2021 e 2022: con quale spirito arrivi in questa città?

«Sono carico, non vedo l'ora di incontrare, dopo due anni di stop, il mio pubblico e sicuramente lo farò con uno spirito del tutto diverso rispetto ai live passati. Cercherò di metterci tutta l'energia che ho risparmiato in questi due anni di lunga attesa».

Pensa di premiare questa attesa con qualche fuori programma particolare?

«La serata prevede sicuramente qualcosa di speciale, ma non voglio svelare nulla per ora. Lascio la sorpresa a chi verrà a vedermi all'Ippodromo».

Che rapporto ha con Milano?

«La considero un po' come la mia città adottiva: è europea, dinamica, il polo della musica in Italia, un luogo ricco di opportunità: è il posto in cui spesso mi trovo a lavorare e dove ho creato il mio team di lavoro. Anche se rimango un girovago».

Dalla pandemia sono tornati alla grande sia il teatro sia i live musicali: la gente, dunque, ha sete di performance live. Siamo alla normalità?

«Il mondo dello spettacolo sembra rinascere, e il contatto col pubblico è il senso della nostra professione. L'ho percepito già nella mia ultima performance One Night Show agli Arcimboldi dello scorso dicembre, sul palco mi sento a casa, è la mia zona di comfort».

Come si prepara per un live? Magari ripassando le critiche ricevute o cullandosi nell'autostima?

«No, non do assolutamente troppo peso a chi mi assale né spendo tempo ad auto-elogiarmi. Cerco di rilassarmi e preparare ogni mio show nei minimi dettagli, ci metto poco a concepire l'idea, ma mesi a realizzarla».

Quattro Sanremo, un San Marino, un «Eurovision» alle spalle: ma la musica deve per forza sempre essere gara?

«Non vivo queste competizioni come gare da affrontare con spirito combattivo. Ho sempre visto questo tipo di manifestazioni come un'occasione per far conoscere la mia musica e un'opportunità per confrontarmi con chi fa lo stesso mestiere. Tutto qui».

Da open.online.it il 20 febbraio 2022.

L’ultimo ad esibirsi è stato Al Bano. Un classicone: Felicità. Poi l’annuncio: al prossimo Eurovision Song Contest sarà Achille Lauro con la sua Stripper a portare i colori di San Marino. Il premio Radio e Tv è stato vinto sempre da Achille Lauro mentre il premio della critica invece è stato vinto da Mate per la sua Dna. 

Non chiaro il premio speciale al turismo San Marino: è stato annunciato sul palco per Ivana Spagna ma poi si è scoperto essere uno scherzo della trasmissione tv Le Iene. Nella conferenza stampa dopo la vittoria Lauro ha rivendicato la sua scelta di partecipare a Una voce per San Marino: «Io e i miei collaboratori abbiamo lavorato molto per questo. Ora vogliamo portare all’Eurovision tutta l’esperienza che abbiamo maturato in questi anni».

Una voce per San Marino era un festival partito in sordina. Pochi annunci, poche interazioni sui social e poco interesse da parte del pubblico italiano. Poi la bufera è montata. Prima con i meme, con i cantanti di Sanremo che hanno cominciato a rilanciare sui social la loro partecipazione al concorso con l’obiettivo di staccare un biglietto per l’Eurovision.

Poi è arrivato l’annuncio di Achille Lauro, unico fra gli ex Sanremesi, e infine la valanga di tweet che hanno accompagnato la finale. Mentre scriviamo il numero di tweet pubblicati con l’hashtag #UnaVocePerSanMarino ha superato quota 40 mila: più di tutti gli abitanti di San Marino messi insieme.

Achille Lauro vince l’edizione 2022 del Festival Una Voce per San Marino. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2022.

Superfavorito alla vigilia e in pole anche per i bookmakers, con ha vinto la prima edizione di e parteciperà come rappresentante della Repubblica del Titano all', in programma dal 10 al 14 maggio a Torino. Lo ha scelto una giuria guidata da nella serata finale al Teatro Nuovo di Dogana trasmessa da San Marino Rtv, tra gli organizzatori della manifestazione con Media Evolution e la Segreteria di Stato per il Turismo. All'Esc «sfiderà» tra gli altri il duo composto da Mahmood e Blanco, portacolori dell'Italia e vincitori con «Brividi» dell'ultimo festival di Sanremo, dove Lauro si è piazzato 14° con «Domenica».

Achille Lauro durante la sua esibizione Al secondo posto il dj turco Burak Yeter con Alessandro Coli (tra i big con «More than you»), terzo l'emergente Aaron Sibley dal Regno Unito («Pressure»). Ospiti della finalissima Al Bano e Mirko Casadei per un omaggio al padre Raoul. La partecipazione a «Una Voce per San Marino» era aperta a big ed emergenti «senza limitazioni di cittadinanza e di scelta della lingua nell'interpretazione del brano presentato per il concorso».

Tra i big in lizza — presentati dall'artista italo-eritrea Senhit, che ha rappresentato San Marino lo scorso anno con «Adrenalina», e dal conduttore israeliano Jonathan Kashanian — anche Valerio Scanu, Ivana Spagna, Alberto Fortis con il batterista della Formula 3 Tony Cicco e la band romana Deshedus, l'ex tronista Francesco Monte, Cristina Ramos, vincitrice di «Got Talent Espana» e «La Voz Mexico», Matteo Faustini, vincitore del Premio Lunezia per le «nuove proposte» di Sanremo 2020, e la «wild card» Fabry & Labiuse feat. Miodio, primi partecipanti per San Marino all'Eurovision nel 2008. Ha dato invece forfait per motivi di salute il rapper Blind, fra i protagonisti di «X Factor» 2020. Nove anche i cantanti emergenti in gara: oltre ad Aaron Sibley, Camille Cabaltera, Basti, Vina Rose, Alessia Labate, Mericler (Maria Chiara Leoni), Kurt Cassar, Elena & Francesco Faggi, Mate.

Andrea Giacobino per iltempo.it il 4 febbraio 2022.

Una nuova società di «moda digitale» per il cantante e performer Lauro De Marinis, in arte «Achille Lauro», protagonista della prima serata del Festival di Sanremo. Qualche settimana fa, infatti, è stata costituita a Milano davanti al notaio Claudio Letterio la LG2 Tech di cui Lauro ha il 51% mentre Giambattista De Stefani e Leonardo Vigolo detengono ciascuno il 24,5%. 

La newco ha come oggetto “lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di un servizio sartoriale realizzato attraverso lo sviluppo e la produzione di un’applicazione innovativa ad alto valore tecnologico”.

Lo statuto spiega che la società è titolare «di un nuovo sistema di presa misure e messa in prova digitale a favore del cliente» che gli consente «di poter provare, supportato da abiti intelligenti di nostra produzione e distribuzione, abiti adattati alle misure del proprio corpo». Tra i soci del performer c’è De Stefani, che è anche amministratore della De Marinis srl, la «holding» di Lauro che però nel 2020 ha perso 90mila euro su 573mila euro di ricavi.

La società, che controlla fra l’altro l’immobiliare Dmre, De Marinis Mgmt e De Marinis Publishing, è recentemente entrata col 14,2% in Milano K3, agenzia di music management che gestisce tra i molti cantanti anche Lauro, e con lo 0,75% nell’azienda agricola romana TheCircle che vende prodotti sostenibili tramite coltura acquaponica. Cristiana Zambon, madre di Lauro, è amministratore unico della De Marinis e della LG2 Tech.

Luca Dondoni per "la Stampa" il 21 Febbraio 2022.  

«Sono molto contento, prima di tutto perché questo è un grande segnale di ripartenza per il teatro Nuovo di Dogana di San Marino, ma anche per lo spettacolo, così come lo è stato l'Ariston per il Festival di Sanremo. San Marino mi ha accolto con calore e aver vinto potendo così andare all'Eurovision Song Contest sarà una grandissima opportunità. 

Lo farò con una canzone che si intitola Stripper e, certo, sarò avversario dell'Italia, ma penso che in generale essere su quel palco a Torino sarà una grande opportunità per tutti noi artisti e intendo ovviamente anche Mahmood e Blanco. Sarà bellissimo potersi esibire davanti a una platea così grande regalando alla mia musica e alle mie performance un palcoscenico di livello internazionale. "L'antica terra delle libertà", così è conosciuta San Marino nel mondo, mi ha permesso di partecipare al suo festival e quindi il mio saluto non può essere: ci vediamo a Torino!».

 A caldo, appena vinto il festival «Una voce per San Marino» Achille Lauro si è emozionato tanto che nemmeno ha sentito la chiamata sul palco dei presentatori Jonathan Kashanian e Senhit che lo rivolevano ascoltare per chiudere una trasmissione talmente vintage da richiamare i fasti Anni 80 della lombarda Antenna 3. D'altra parte Achille Lauro rappresenterà San Marino all'Eurovision 2022 in programma dal 10 al 14 maggio a Torino e non è cosa da poco. 

A riprova di quanto l'Eurovision sia diventato importante, in questi giorni si erano inseguite le voci di Orietta Berti ingaggiata dall'Armenia e Tananai dalla Svizzera: erano bufale. Non lo è invece quella di Emma Muscat (già finalista ad Amici 2018, l'anno che vinse Irama) che essendo di nazionalità maltese correrà per l'Isola Stato del Mediterraneo. Tornando a Lauro, voci ben informate davano il cantante romano iscritto a «Una voce per San Marino» addirittura in anticipo rispetto al festival di Sanremo, una strategia ben precisa per la sua immagine.

La giuria, presieduta anche da Mogol, ha premiato un autentico stratega della comunicazione che sui suoi tatuaggi, i suoi silenzi, la sua estrema gentilezza unita a scelte estetico/stilistiche legate al guru Alessandro Michele (Gucci), sta costruendo una carriera. 

Per l'Eurovision la strada sembra in discesa, ma in verità Lauro ha dei paletti da schivare. Il delegato del microstato incastonato tra le colline romagnole dovrà prima superare le semifinali, la prima si svolgerà il 10 maggio e la seconda il 12, poiché San Marino non è tra le cosiddette «big five», ossia le cinque nazioni che hanno per prime sostenuto economicamente l'Ebu, l'Unione europea di radiodiffusione che organizza la kermesse, e che sono finaliste di diritto. Italia, Francia, Spagna, Germania e Regno Unito porteranno i loro cantanti direttamente alla serata del 14 maggio. Per noi sul palco del PalaAlpitour ci saranno Mahmood e Blanco, al momento considerati dagli scommettitori i principali favoriti alla vittoria.

Quindi qual è il paletto più difficile da scansare? Semplice, le «Big 5» possono contribuire a determinare quali Paesi passeranno alla serata finale del 14 maggio ma con diritto di voto in una sola delle due semifinali. In particolare, all'Italia e alla Francia è stato accordato diritto di voto nella prima quindi, visto che Achille Lauro canterà nella seconda semifinale, quella del 12 maggio, questo impedirà agli italiani che seguiranno la diretta su Rai1 di votarlo.

Qualora l'artista romano si qualificasse per la finale, i fan italiani avranno invece la possibilità di spingere per dare a lui i propri 12 punti al televoto. Lauro nella seconda semifinale potrà contare sul voto eventuale di tanti Stati che però non lo conoscono benissimo. In più, come da regolamento, San Marino non può auto-votarsi, così come non potrà farlo nemmeno l'Italia in finale per i propri artisti, Mahmood e Blanco con Brividi. Insomma, se Achille Lauro riuscirà ad arrivare in finale sarà già un successo. Sicuramente avrà ampliato la sua popolarità anche all'estero.

Francesca D'Angelo per "Libero quotidiano" il 22 febbraio 2022.

I ripescaggi sono sempre una cosa tremenda: nello sport come nei concorsi. Fanno molto "ultima spiaggia dei trombati" o "pia elemosina dell'ultima ora". Non a caso, chi ne esce vincitore di solito non si riversa in strada al grido di po-po po, ma guarda il cielo con la stessa gratitudine di un miracolato. Ecco, questo per dire che l'entusiasmo di questi giorni per Achille Lauro, rientrato in corsa per il rotto della cuffia all'Eurovision Song Contest 2022, è un tantino fuori luogo. La sua infatti non è una vittoria ma un ripescaggio, peraltro cercato a tavolino.

Per dire, la cantante Emma Muscat, ex volto di Amici ed ex di Biondo (due credits che la rendono italiana d'adozione seduta stante) si è conquistata un posto gareggiando a Malta, ma lei è maltese di origine. Lauro invece non vanta discendenze in quel di San Marino, il cui concorso era però aperto a tutti. La gara, tra l'altro, era quello che era. Nonostante l'investimento, le buoni intenzioni e lo sforzo generale, la kermesse è stata un incrocio tra il saggio di fine anno e la versione kitsch di Sanremo. Per dire, c'era Valerio Scanu che cantava: «Se il mondo fosse governato dalle mamme non ci sarebbero più figli in guerra». E, no, l'autore della sua canzone non era lo stesso delle frasi di Osho. Insomma, se non avesse vinto qui, Lauro avrebbe dovuto come minimo cambiare mestiere.

ZERO PROVOCAZIONI Lui stesso probabilmente ne era consapevole visto che si è limitato a togliersi la camicetta e niente più: zero provocazioni, nessun battesimo sul palco. Quello che però impressiona di più è l'ostinazione. Voglio dire: sei andato a Sanremo? Hai perso? Pace. Impara da Tananai e vai avanti con la tua carriera. Invece niente. Addirittura Lauro assicura di essersi iscritto a Una voce per San Marino in tempi non sospetti, ossia prima di Sanremo. Il che non migliora la situazione e trasforma Lauro, da giusto riscattato da San Marino, a più grande rosicone d'Italia. 

Della serie: ci devo essere, costi quel che costi, perché voglio avere la stessa fama dei Maneskin. Non che il resto dei partecipanti sia stato da meno: in parecchi sono corsi ai ripescaggi, persino gente come Francesco Monte, che era stato scartato da Amadeus, la mitica Ivana Spagna, il già citato Scanu o un'altra vecchia conoscenza di Sanremo, Matteo Faustini. Tutti in cerca di una rivincita e a nessuno che venisse il sospetto che questa corsa ai ripari non facesse poi così onore alla propria immagine. Il rischio infatti è perdere due volte.

FAVORITI E COMPARSE Un conto infatti è vedersi surclassare da Blanco e Mahmood all'Ariston: oh, può succedere. Ci sta. Diverso invece è che tu smuovi mezzo mondo, fai kilometri per scovare uno Statarello che non abbia ancora il suo cantante per l'Eurovision, ottieni il biglietto per Torino, vai all'Eurovision Song Contest e perdi di nuovo, magari senza nemmeno vedere la luce della finale. In tal caso sarebbe una conferma della propria inferiorità artistica.

Noi non vogliamo certo gufare, ci mancherebbe, ma a occhio il destino non è esattamente roseo: per gli scommettitori Mahmood e Blanco sono favoriti a 2,85, mentre la vittoria di Emma Muscat è data 100 a 1, e anche Lauro è messo malino, a 19. In tutta questa faccenda c'è però una nota positiva: a Una voce per San Marino Al Bano, intervenuto come super ospite, ha annunciato che, a 80 anni suonati, vuole andare al festival di Sanremo 2023. Amadeus, se ci sarai, prendi nota...

Dario Salvatori per Dagospia il 20 febbraio 2022.

L’Italia che va. L’Italia del ripescaggio. Nel gas, nei mondiali di calcio, nella pandemia, nel sesso (questo sconosciuto), ovviamente anche nella musica. Achille Lauro, dopo il deludente piazzamento al Festival di Sanremo (14°), ha cercato con tutte le sue forze lo spareggio. 

C’è riuscito alla prima edizione del Festival della Canzone di San Marino, con “Stripper” (ancora i Rolling Stones), cantando un testo al femminile e citando, fra gli altri, “Nessuno mi può giudicare”(Sanremo 1966, Caterina Caselli), il testo di Pace-Panzeri che quest’anno è stato ripreso più volte, anche da Rettore e Ditonellapiaga. Una canzone che, forse, gli consentirà di rappresentare il Titano all’Eurovision che si terrà a Torino dal 10 al 14 maggio.

Già, perché per lui  i tempi supplementari  non sono ancora finiti. Dovrà superare le semifinali, visto che l’accesso diretto spetterà da regolamento alle “Big Five”, ovvero Inghilterra, Spagna, Italia, Germania e Francia. 

A Sanremo Achille Lauro è apparso un po’ spompato. Un performer che sembra avere scarsa dimestichezza con il palco, rimanendo sul palco inchiodato alla X che il direttore di palco aveva disegnato a terra. E che dire del coro gospel? Un gruppo di cantanti di quella forza e di quella esperienza avrebbe ben movimentato  quel palco, in realtà si sono dovute accontentare di un ruolo alla Paola Orlandi.

Achille Lauro sostiene di essere un brand da 30 milioni di euro, ma la prima cosa che ha fatto è stata quella di agguantare il premio di 7 mila euro destinato al vincitore. Di questi tempi! Anche il budget inizia a farsi sentire. A San Marino, Lauro ha sfoggiato la stessa giacca Sgt.Pepper vista a Sanremo, presumibilmente fresca di lavanderia. 

Peccato che abbiano fatto lo stesso sia Alberto Fortis che Ivana Spagna, che era già pepperizzata nei Settanta. In realtà quattro Festival di Sanremo di seguito sono troppi per chiunque. Il vero sogno di Lauro sembra essere quello non tanto di ripetere l’exploit dei Maneskin, partito proprio dall’Eurovision, quanto accedere allo stato mainstream. 

Il mondo indie, underground e centro sociale è dietro le spalle, oggi aspira ad un predicatore glam fin troppo prevedibile. Vedrete che ci sarà anche al prossimo Sanremo, quando con cinque presenze consecutive raggiungerà Gino Latilla (1924-2011), che ci riuscì passando da “Vecchio scarpone” a “Tutte le mamme”.

Difficile raggiungere le 34 canzoni in gara di Latilla. Ma nei record del cantante pugliese c’è ben altro. Nel 1953 i fotografi erano piazzati all’Hotel Londra e si era sparsa la voce che la liason fra Latilla e Nilla Pizzi era ripartita. Tutto vero. Già, come fare? I paparazzi tenevano sott’occhio la 1500 del cantante, posteggiata nel garage, ma Latilla li gabbò: e in Lambretta fuggì di nascosto per raggiungere Adionilla alloggiata al Gran Hotel del Mare di Bordighera. Per la serie quando gli ormoni giravano a mille.

Cominciano ad essere troppe le similitudini con il Comandante Achille Lauro (1887-1962), a cui il cantante romano ha preso il nome e il cognome. Quando nel 1952 fondò il Partito Monarchico, decise di regalare una scarpa ai suoi sostenitori. Una sola. La destra, ovviamente. L’altra poteva essere ritirata solo dopo l’esito del voto. Altro che mainstream.

Quando decise di candidarsi a sindaco di Napoli, attrezzò centinaia di camioncini per distribuire il “Pacco Lauro”, ovvero chili di pasta da distribuire e lanciare nei quartieri e nelle periferie. Era nato il “laurismo”. Puro stampo populista, certamente, del resto il comandante aveva come modello Onassis, che però parlava una mezza dozzine di lingue, l’armatore napoletano, invece, si esprimeva solo in dialetto.

Quando volle diventare sindaco, nell’estate del 1952 acquistò dall’Atlanta Hasse Jeppson, centravanti svedese di grande pregio. Prezzo: 105 milioni! La città impazzì, non solo i tifosi. Altro che influencer e visual merchandising, puro istinto e crono centrismo.

Non scherzava nemmeno nella vita privata.  Nel 1971, all’età di 84 anni, sposò in seconde nozze la 34enne Eliana Merolla. Tutto questo senza mai apparire in Tv. Chissà, forse in questo periodo Achille (il cantante) si diverte di meno. Del resto, come diceva Mel Brooks: “Non puoi divertirti con ciò che non ami, ammiri o rispetti.”

Massimo Galanto per tvblog.it il 23 febbraio 2022.

“Achille Lauro ha vinto il Festival di San Marino; insomma, pur di partecipare all’Eurovision, Lauro prima si è affidato a Sanremo, poi a San Marino, eppure, visto il personaggio, quello più adatto a lui sarebbe stato San Patrignano“. È questa la battuta di Ezio Greggio pronunciata in apertura della puntata di lunedì 21 febbraio di Striscia la notizia che ha fatto ‘indignare’ i social e i fan di Achille Lauro.

Non è la prima volta che il tg satirico di Canale 5 attacca il cantante e non è neanche la prima volta che lo associa al mondo della tossicodipendenza. I precedenti iniziarono nel 2019, quando Achille Lauro prese parte al Festival di Sanremo allora condotto da Claudio Baglioni (altro bersaglio preferito da Antonio Ricci). 

Angelo Calculli, manager di Lauro, su Instagram ha scritto un post (non pubblico) nel quale definisce Striscia la notizia “un programma vecchio e per vecchi e non durerà in eternità” e spiega che “non serve che ci si arrabbi per questo“, né fare denunce, ma “bisogna solo indignarsi per la strumentalizzazione che fanno del luogo di San Patrignano associandola al termine drogato“. 

Per il resto, ad oggi, non si registrano commenti ufficiali dalle due parti direttamente interessate. Il caos social che si sta generando in queste ore convincerà la trasmissione di Canale 5 – questa settimana co-condotta da Silvia Toffanin – a tornare sul caso o si deciderà di ignorarlo. 

Sanremo 2022, Achille Lauro: «Cerco di distruggere la mia carriera». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2022.

Quarta volta consecutiva al festival. In gara porta «Domenica» e nella serata cover «Sei bellissima».  

Gli sono bastati cinque mesi. La pausa, lo stop annunciato che aveva messo in agitazione i fan, non è durata tanto a lungo. Achille Lauro è tornato subito a fare musica. «In pandemia avevo pubblicato tre album perché volevo regalare musica che fosse come un amico per tutti. Dopo “Lauro” mi sono fermato perché avevo bisogno di godermi la vita. Ho fatto viaggi, visto posti nuovi e a settembre sono andato a vivere in una villa sull’isola di Albarella con altre 6-7 persone. C’eravamo solo noi, qualcuno che veniva a trovarci, e i daini... Ci siamo stati fino a poco fa e abbiamo lavorato a 150 canzoni e ad altri progetti per il futuro», racconta alla vigilia della partenza per Sanremo.

Lauro sarà al Festival per la quarta edizione consecutiva: tre volte in gara e nella scorsa edizione il ruolo di ospite fisso. Una carriera che, dopo gli esordi fra i pionieri della trap, ha avuto le sue tappe principali all’Ariston. «Le quattro edizioni sono state come i sacramenti. La prima volta con “Rolls Royce” è stato il battesimo. Con “Me ne frego” l’eucaristia. L’anno scorso la confessione. E questa sarà la confermazione». Il tema del sacro torna con la presenza al suo fianco dell’Harlem Gospel Choir. «Fuori dal palco sono credente, ma qui faranno spettacolo con un ruolo da protagonisti». La canzone si chiama «Domenica», ricorda «Rolls Royce» ma con dei suoni da risveglio domenicale e un racconto che accende la curiosità su quanto possa essere accaduto il sabato sera... «Sembra un brano leggero ma dal vivo è ultra-punk. Il testo è in contrapposizione con il suono. Più che di somiglianze con “Rolls Royce” parlerei di una mia identità che mi piace mantenere anche se sono anni che cerco di distruggere la mia carriera, ma ancora non ci sono riuscito. Sono divisivo e credo che questa sia la mia forza».

Non ha paura di sembrare uno che vive solo all’Ariston: «Non sono “quello di Sanremo”. Per me questa manifestazione è un “di cui”. Ho dei progetti legati al cinema con Amazon, ho appena fatto un concerto in cui ho creato il primo NFT live, presto avrò un progetto legato al Metaverso e al mondo del gaming. Comunque a Sanremo ci tornerei anche l’anno prossimo, magari da direttore artistico: darei un tocco da produzione internazionale».

Nella serata del venerdì, quella dedicata alle cover farà «Sei bellissima» in coppia con Loredana Berté: «Lei è un’icona ultra-rockstar. La forza del pezzo va oltre il ritornello pop che conoscono tutti. Nelle strofe struggenti tocca un tema attuale: da quelle parole emerge lo stato d’animo di una donna sminuita che soffre e a cui tutti dovremmo chiedere scusa».

Non svela nulla su quello che ci sarà attorno alla musica («sarà un bello spettacolo a livello scenico») ma respinge la critica che il personaggio, i costumi e l’immagine siano più forti della sostanza musicale. «Parlare di costumi o travestimento sarebbe una definizione riduttiva. Quello che accade sul palco è una proiezione totale della canzone a livello visivo. Per me il palco è come un videoclip». E se invece la sua musica fosse un’opera d’arte non ha dubbi: «“ L’urlo” di Munch».

Con «Domenica» arriva anche una parte di quelle nuove canzoni cui ha lavorato in ritiro. Uscirà infatti «Achille Idol Superstar», un’espansione di «Lauro», album pubblicato l’anno scorso. C’è una ballad delicata come «Fiori rosa» che nel testo oltre a Battisti cita quell’«aria da bambina» di baglioniana memoria e un «piccolo uomo» che fa tanto Mia Martini: «Sono figlio di quel cantautorato e ho voluto citare pezzi immortali». In «Foxy» le parole sono più suoni che racconto. Anche «Rolling Stones» sta sul mondo rock, mentre «Sexy Boy» riprende il classico giro blues alla Muddy Waters.

Il tour è previsto, Covid permettendo, a maggio. Uno spettacolo con la band e i 50 elementi dell’Orchestra Magna Grecia: «Suoneremo in posti che quando mi esibivo in garage potevo solo sognare. Lo show sarà un crossover fra punk rock e il musical: ci sarà modo di sorprendere anche lì».

·        Adele.

Adele compie 34 anni: la storia con «Mr. 21», il matrimonio finito, i segreti dei suoi amori. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2022.

Le tappe della vita sentimentale della cantautrice britannica, che da un anno fa coppia fissa con il procuratore sportivo Rich Paul

«Mr. 21»

«Didn't I give it all? Tried my best/Non ho dato tutto? Ho fatto del mio meglio» canta Adele nella struggente «Take It All», brano che parla di una storia d’amore che sta andando in frantumi. Quella con il cosiddetto «Mr. 21» nello specifico, l’uomo con cui la cantante si frequentava nel 2009/2010, ribattezzato così dai fan perché ha ispirato le tracce del disco «21» (2011), vincitore di un Grammy (la teoria più comune è che si tratti del fotografo Alex Sturrock, ma non sono mai arrivate conferme sulla sua vera identità). «Era la mia anima gemella - ha detto di lui Adele ad Out -, Avevamo tutto, a tutti i livelli. Finivamo le frasi l'uno dell'altro, e lui poteva semplicemente capire come mi sentivo guardandomi negli occhi. Amavamo le stesse cose, e odiavamo le stesse cose». Dalla relazione con «Mr. 21» (di cui parlano anche «Turning Tables», «Someone Like You» e «Rumor Has It») la cantautrice britannica, che oggi compie 34 anni, ha imparato molto: «Mi sembra giusto che la persona che finora ha avuto il maggiore impatto su di me meriti un piccolo riconoscimento - ha raccontato a Vogue nel 2012 -. Posso fare cose che non avrei mai immaginato di poter fare. Se non l'avessi incontrato, penso che sarei ancora quella ragazzina che ero quando avevo diciotto anni. E la cosa migliore è che ora so cosa voglio per me stessa».

L’incontro con Simon Konecki

Grazie a «21» Adele è diventata una acclamata star della musica, e nel 2011 - grazie ad un amico comune, Ed Sheeran, secondo la teoria più accreditata - ha conosciuto l’imprenditore Simon Konecki. La coppia - immortalata per la prima volta in Florida nel 2012 - è sempre stata estremamente riservata sulla relazione fino all’annuncio, nel mese di giugno dello stesso anno, della gravidanza di Adele.

La nascita di Angelo e il matrimonio

Angelo Adkins è nato il 19 ottobre 2012, primo figlio per Adele, secondo per Simon (che aveva già avuto una bambina dal suo precedente matrimonio con la stilista Clary Fisher). In seguito - nel 2018 - la coppia è convolata a nozze, anche se già nel 2017 la cantautrice si era definita «sposata» («Stavo tentando di ricordare come mi sentivo all'inizio della relazione che ha ispirato questa canzone - ha detto dal palco di un concerto in Australia -. Un feeling che quando lo avverti per la prima volta è il miglior feeling che ti possa capitare sulla Terra e da cui sono diventata dipendente. Ma ovviamente si tratta di un feeling che non potrò più provare di nuovo, visto che ora sono sposata»).

Il divorzio

«Sono stata ossessionata dall’idea di una famiglia per tutta la vita perché non ne ho avuta una. Fin da piccola mi ero ripromessa che quando avessi avuto dei bambini, saremmo rimasti insieme. E ci ho provato, davvero a lungo». Nel 2019, ad appena un anno dalle nozze, Adele e Simon hanno deciso di divorziare. La star, intervistata nel 2021 da Oprah Winfrey, ha spiegato di essersi sentita «imbarazzata» dal divorzio: «Prendo il matrimonio molto seriamente e sembra quasi che vi abbia mancato di rispetto sposandomi e poi divorziando così velocemente». La fine del matrimonio ha ispirato alla cantautrice un nuovo disco, «30», uscito nel novembre dello scorso anno.

Un nuovo amore

Oggi Adele ha ritrovato la serenità accanto ad un nuovo amore, il procuratore sportivo Rich Paul, con cui fa coppia da circa un anno. Quando lo scorso febbraio la cantante è stata immortalata con un vistoso anello all’anulare, sul red carpet dei Brit Awards, si è subito parlato di un possibile nuovo matrimonio. Il gossip insomma si è scatenato, ma finora non sono arrivate né conferme né smentite. I fan rimangono in attesa.

La scelta di Adele insegna. L’attivismo non è moda social ma tutela dei più deboli. Lilli Gruber su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.

Lasciamo che l’artista sia fiera di essere donna ma pensiamo ai casi di omotransfobia. Quasi triplicati. Nel mondo davvero inclusivo che chiunque con un po’ di giudizio dovrebbe desiderare, c’è posto per tutti.

Sette e Mezzo è la rubrica di Lilli Gruber sul magazine 7. Ogni sette giorni sette mezze verità. Risposte alle vostre domande sull’attualità, il mondo, la politica. Questa puntata è uscita sul numero di 7 in edicola il 18 febbraio. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it

Cara Lilli, Adele, la pluripremiata cantante con ben tre vittorie ai Brit Awards, al momento di ritirare il premio ha detto di essere orgogliosa di essere donna. Apriti cielo, i correttissimi organizzatori avevano addirittura eliminato le categorie “maschile” e “femminile”. Se è giusto pretendere che venga adottato il principio di reciprocità fra le religioni, che dovrebbe permettere di costruire sinagoghe, moschee e chiese ovunque, perché viene imposto di abolire questo principio quando si parla di sesso biologico ed è permesso solo affermare la neutralità gender?

Roberto Bellia paradosso44@yahoo.com

Caro Roberto, le critiche mosse ad Adele ci raccontano quanto a volte sia delicato e labile il confine tra buon senso e polemica fine a sé stessa, quando si tratta dei temi legati all’identità di genere. L’edizione 2022 dei Brit Awards ha cancellato la categoria di artista maschile e femminile proprio nel rispetto di alcuni cantanti che si definiscono non binari, che cioè non sentono di far parte di nessuno dei due generi. Ritirando il premio come migliore artista dell’anno, Adele ha però detto «capisco perché il nome di questo premio è stato cambiato, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un’artista femmina». Scatenando le polemiche di parte dell’opinione pubblica che l’ha definita una Terf, ovvero una femminista radicale ideologicamente avversa alle persone trans. Ora, Adele ha più volte espresso apertamente il suo sostegno alla comunità e alle istanze del mondo Lgbtqia+, ma allo stesso tempo è felice di essere una donna. E lo ha ribadito ritirando un riconoscimento ambito e prestigioso. Perché, allora, attaccarla? L’attivismo non dovrebbe essere una corsa a intestarsi per primi la polemica del giorno per finire nelle tendenze dei social.

Nel mondo davvero inclusivo che chiunque con un po’ di giudizio dovrebbe desiderare, c’è posto per tutti. E, dunque, non bisognerebbe nemmeno colpire chi rivendica con orgoglio la propria appartenenza, anche a un genere percepito da alcuni come “privilegiato”. Il rischio, altrimenti, è di fare discriminazioni al contrario. Proprio qualche giorno fa l’Unar - l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio - ha denunciato il crescente clima di violenza in Italia: episodi legati all’omotransfobia, al razzismo, all’antisemitismo e ad atteggiamenti discriminatori nei confronti di persone con disabilità. Con l’ampio e acceso dibattito sul ddl Zan le persone Lgbt sono inevitabilmente diventate più visibili, pagando per questo un prezzo molto alto: dai 93 casi denunciati nel 2020, si è passati a 238, pari a un episodio di omotransfobia ogni due giorni. Lasciamo che Adele possa essere fiera di essere una donna, e concentriamoci piuttosto su questi numeri che non ci rendono certo un Paese civile degno di questo nome.

Adele sotto attacco perché ama «essere una donna». Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

Dominatrice ai Brit Awards dove è eletta miglior artista, ora diventata una categoria senza genere: per il suo discorso di ringraziamento, la cantante è accusata di transfobia. 

Raccontare in un disco, dopo sei anni di silenzio e con assoluta sincerità, il proprio divorzio, le insicurezze, le delusioni, la maternità, la solitudine. E riuscire a vendere mezzo milione di copie in tre giorni e un milione in due settimane (record), intasare Apple Music di pre-ordini (record), fare man bassa di premi. Se gli artisti più grandi sono quelli che raccontano il proprio tempo raccontando se stessi, Adele (33 anni), sta facendo proprio questo. Lo dimostra la reazione — quella è immancabile — dei social media al suo discorso sul palco dei Brit Awards, da lei dominati ancora una volta come «artista dell’anno», «album dell’anno» (per 30), e inevitabilmente «canzone britannica dell’anno» per Easy on Me che ha toccato il numero 1 in 27 Paesi.

Perché se sali sul palco tre volte, e devi fare tre discorsi di ringraziamento diversi, la probabilità di dire qualcosa che offenderà qualcuno, da qualche parte sui social media, diventa quasi una certezza. Così è stato. La reazione alla vittoria per l’album dell’anno non ha suscitato reazioni: ha dedicato il premio «a mio figlio... e a Simon, suo padre. Sono molto orgogliosa di me stessa per aver tenuto duro e aver pubblicato un album che parla di temi molto personali ... non capita molto spesso, ultimamente».

Poi però ecco la statuetta da «miglior artista dell’anno» ed ecco i problemi. Per la prima volta, i Brit Awards sono diventati senza genere, cancellando le categorie di artista maschile e artista femminile, unificate in quella vinta da Adele. Una scelta in sintonia con i tempi che ha intristito nel Regno Unito qualche commentatore ma che prende atto di una situazione pratica dalla quale non si scappa: ci sono adesso — Sam Smith è un esempio ovvio — artisti musicali nonbinari, che non si qualificano cioè in una categoria univoca come maschile/femminile.

David Bowie, 50 anni fa, l’aveva già capito e l’aveva spiegato nei fatti, con la sua musica e i suoi look e il suo essere impossibile da ridurre in categorie prefissate, da Ziggy Stardust in avanti. Il problema è che Adele, come ha fatto, dice semplicemente «Che notte! Grazie Brits… grazie a tutti voi del pubblico, congratulazioni a tutti gli altri vincitori e ai candidati, siete fortissimi! Capisco perché hanno cambiato il nome di questo premio, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un’artista donna».

Prima dei social media sarebbe stata accolta come una dichiarazione innocua: ma il carburante di Twitter e Facebook è l’«engagement», cioè l’interazione tra utenti, e l’indignazione (oltre alle bufale sul Covid come abbiamo visto in questi due anni) fa sempre engagement. Ecco così le accuse, più o meno aspre ma riprese con enfasi dalla stampa britannica, di transfobia per Adele, che già ha dovuto subire mesi di critiche social quando dimagrì di 45 chili (scelta considerata offensiva da chi la vede come l’imposizione di un canone estetico).

È un terreno delicato. Di sicuro sarebbe (sarà?) complicatissimo «cancellare» un’artista da oltre 100 milioni di copie vendute in carriera (soprattutto nell’era di Internet si tratta di una cifra mostruosa, nel Novecento per avere la musica senza pagare bisognava svaligiare il negozio, adesso basta una connessione internet), così come appare complicato «cancellare» J.K. Rowling, creatrice della saga di Harry Potter.

Da 105.net l'11 febbraio 2022.

Adele continua a collezionare un successo dietro l'altro, ma le critiche non mancano. Le ultime arrivano dopo i Brit Awards, dove è stata regina indiscussa. Nel discorso di ringraziamento la cantante ha detto che ama "essere una donna". E così sono piovute subito (incomprensibili) accuse di transfobia. 

La risposta dell'artista? Si è scatenata in un locale gay di Londra con tanto di pole dance. La "colpa" di Adele è quella di aver pronunciato queste parole: "Capisco perché hanno cambiato il nome di questo premio, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un’artista donna". E sì, perché per la prima volta ai Brit Awards hanno cancellato le categorie di artista maschile e artista femminile e sono state unificate in quella vinta dalla cantante. Bene, sui social gli haters si sono scatenati e sono stati prontamente ripresi dalla stampa britannica che ha accusato l'artista di "transfobia". 

Dal canto suo, Adele, da sempre amata dal mondo Lgbt di tutto il mondo, ha preferito replicare con i fatti. E ha trascorso una serata speciale in un locale gay molto in voga nella capitale inglese. L'artista si è davvero scatenata, accennando anche un pole dance. 

"Amo essere donna". E i gruppi Lgbt si scatenano contro Adele. Roberto Vivaldelli l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

"Capisco perché hanno cambiato il nome di questo premio, ma amo davvero essere una donna, amo davvero essere un'artista donna". Attivisti transgender contro la popstar Adele.

Viviamo in un'epoca in cui il neomoralismo politicamente corretto "soffoca" tutto: l'arte, la libertà di pensiero e di espressione, le opinioni. Dopo decenni di lotta femminista, oggi persino dichiararsi fieri di "essere donna" diventa un problema, anche per un'artista internazionale come Adele. Come riporta l'agenzia Adnkronos, la celebre popstar ha dominato ieri i Brit Awards, portandosi a casa i tre premi - Miglior artista, Miglior canzone (per Easy On Me) e Miglior album dell'anno (per '30') - collezionando così un totale di 12 trofei nel corso della sua carriera, solo uno in meno del record di 13 di Robbie Williams. Un trionfo macchiato dalle polemiche. Motivo?

Nel ritirare il premio di artista dell'anno, Adele ha criticato fra le righe la decisione dei Brit Awards di eliminare le categorie maschili e femminili per andare incontro alla moda "gender-fluid", affermando: "Capisco perché il nome di questo premio è cambiato, ma amo davvero essere una donna ed essere un'artista donna. Sono davvero, davvero orgogliosa di noi". Dichiarazioni che soltanto qualche anno fa l'avrebbero resa la beniamina dell'opinione pubblica progressista. Oggi, al contrario, le sue affermazioni appaiono quasi reazionarie e sui social gli attivisti transgender ed Lgbtq l'accusano di "transfobia", un po' come era successo a donne coraggiose come la scrittrice JK Rowling e la docente Kathleen Stock.

Adele sotto attacco sui social: "È una Terf"

Gli attivisti Lgbtq l'hanno prontamente etichettata come "Terf" che, come spiega il Financial Times, sta per "femminista radicale trans-escludente", un termine impiegato dalle associazioni transgender come insulto. Probabilmente la popstar, proprio come Rowling e Stock, crede banalmente che il sesso biologico non sia un "dettaglio" ed essere nate donne consenta di godere di determinati diritti che non dovrebbero essere automaticamente estesi a chiunque si svegli una mattina e si identifichi nel genere femminile. Buon senso, no? Non per certi gruppi Lgbtq e per le associazioni transgender, che hanno dichiarato guerra alle donne che credono che il sesso biologico sia predominante sul genere. Nonostante la maggior parte degli utenti difenda Adele, gli attivisti Lgbtq si sono scatenati contro di lei sui social, come riporta il New York Post. "Per favore, no, Adele non può essere una Terf", ha sottolineato un "femminista fedele" di nome Jacob, che conta migliaia di follower su Twitter. "Chi avrebbe mai pensato che Adele fosse una transfoba e avrebbe usato la sua piattaforma per chiedere la distruzione della comunità trans. Soprattutto gli adolescenti confusi", ha scritto un altro utente di Twitter. Altri si sono lamentati di aver "perso molto rispetto per Adele" e di non voler più "spendere un centesimo per la sua musica", ha osservato inoltre il Times di Londra.

"Donne perseguitate per aver difeso la loro identità"

Adele ha semplicemente criticato una tendenza in atto negli ultimi tempi. Per strizzare l'occhio all'ideologia transgender e al politicamente corretto, infatti, i progressisti identitari chiedono di rendere "neutrali" i premi rispetto al genere. I Brit Awards hanno optato per questa scelta, criticata con grande intelligenza da Adele, ma gli attivisti chiedono di cancellare categorie come "miglior attrice" agli Oscar e "miglior voce femminile" ai Grammy Awards. L'ultima follia liberal, dunque, è quella di eliminare ogni possibile riferimento al sesso biologico. In un editoriale pubblicato su Spectator, l'insegnante Debbie Hayton ha affermato che Adele rischia di unirsi al gruppo di "donne di talento" come l'autrice di Harry Potter JK Rowling che "vengono perseguitate senza pietà, semplicemente per aver difeso il loro sesso". Il messaggio di Adele alle donne e alle ragazze, scrive, "è fonte di ispirazione. Ecco una donna - che ha venduto decine di milioni di album - che dice al mondo di essere orgogliosa di essere una donna. È qualcosa da celebrare, non da condannare” spiega. Quella di Adele è la vittoria del talento e della femminilità contro l'ossessione gender neutral.

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

·        Adria Arjona.

Adria Arjona entra nella galassia di “Guerre stellari”: «La forza è con me». Da un’infanzia itinerante in Sudamerica a Hollywood: è una storia da film quella dell'attrice portoricanoguatemalteca, ora protagonista di una serie legata alla saga di Star Wars. E qui svela la sua arma segreta: un mantra "casalingo". MARIA LAURA GIOVAGNINI su Iodonna.it il 4 Settembre 2022.

«“Che la forza sia con te” è una delle migliori battute della storia del cinema. Adesso mia madre continua a ripetermela, una sorta di passepartout che riassume l’universo delle raccomandazioni materne. Ha sostituito tutti gli “stai attenta a questo, stai attenta a quello”», ride Adria Arjona (pronuncia: “Archona”). La citazione non è casuale: l’attrice portoricano-guatemalteca è protagonista di una serie legata alla galassia di Guerre stellari: Andor, su Disney+ dal 21 settembre.

Adria Arjona: Star Wars dopo il cult Irma Vep

«È il prequel di Rogue One, ma niente paura: non c’è bisogno di essere esperti della saga per apprezzarla» spiega la testimonial del profumo My Way di Giorgio Armani, reduce dal successo del cult Irma Vep (su Sky e su NOW). «Ricostruisce la personalità e il passato di Cassian Andor (impersonato da Diego Luna, ndr), ufficiale dell’Alleanza Ribelle: è la prima volta che conosci davvero nella sua umanità un personaggio di Star Wars, è una storia che ci riguarda tutti. Io sono Bix, sua amica e confidente: complicata, intelligente, coraggiosa, indipendente».

Proprio nessun ostacolo sulla strada per Hollywood?

Certo, all’inizio è stato difficile mettere un piede dentro in quanto donna e donna di colore, però le cose stanno cambiando. Il mio ottimismo è giustificato, come dimostra il fatto che io sono diventata parte dell’epopea di Star Wars… E comunque, se ho momenti di insicurezza, mi ripeto un mantra.

Quale?

Le parole di mio nonno: “Non sono qui per vedere se posso; sono qui proprio perché posso!”.

Il nonno è stato il suo role model?

Lo è stata di più mia nonna. Lasciò il Guatemala per trovare lavoro: produceva orsetti per i bambini, mentre i suoi figli erano a casa affidati a qualcun altro! È la mia eroina. Mio padre (Ricardo Arjona, oggi una delle più famose popstar latinoamericane, ndr) portava per anni lo stesso paio di scarpe, che finivano per essere sandali perché tagliava via la parte davanti… Eppure non ha mai rinunciato al suo sogno, la musica: sono cresciuta girando il Sudamerica con lui per piccoli concerti, vivevamo nei bus con cui ci spostavamo, eravamo molto poveri. Poi, all’improvviso, è diventato una star. Ma ce lo nascondeva. 

Perché mai? 

Voleva che crescessimo senza perdere di vista i valori autentici, era amico di Rigoberta Menchú (l’attivista guatemalteca premio Nobel per la Pace 1992, ndr). Solo a 13 anni ho realizzato quanto fosse diventato famoso ed è accaduto esattamente quel che lui aveva già previsto: “Ehi, aspetta un secondo, allora puoi comprarmi un telefonino…” è stata la prima rivendicazione (ride). Lavoravo per i suoi show, vendevo il merchandising. Quando si è esibito allo Staples Center (mitica arena di Los Angeles, ndr) gli ho obbiettato che non potevo più stare dietro un banco, la gente ormai mi riconosceva. E lui: “Ai concerti di papà tu lavori!” (ride).

Non ha pensato di seguire le sue orme?

Non ci sarebbe una Britney Spears se mi fossi messa a cantare io! Sto scherzando: sono una cantante atroce. 

La vocazione quando si è manifestata?

Difficile individuare il momento esatto, credo tu ce l’abbia nel sangue e la scopra poco a poco. Da piccola vedevo un film sul pattinaggio sul ghiaccio e volevo diventare pattinatrice; vedevo una puntata di CSI e volevo diventare un’investigatrice forense; vedevo Law & Order e volevo diventare un’avvocata… E mio padre: “Non puoi essere tutte queste cose, puoi essere una di queste, se lo vuoi veramente. Io credo ci sia qualcos’altro in te… E quando mi sono trasferita a Miami (dopo la separazione dei suoi, ndr), fu lui a suggerirmi corsi di fotografia e musica. Mi iscrissi anche a uno di recitazione soltanto per superare la timidezza. Nell’istante in cui sono entrata in quella stanza, però, mi sono illluminata: questo è quel che voglio fare per il resto della vita! Diventata maggiorenne, mi sono trasferita a New York per frequentare la scuola di Lee Strasberg.

E oggi è pure produttrice.  

Per me è importante poter scegliere quali storie raccontare e quali vite celebrare. Ho appena terminato Los Frikis e ho già un nuovo progetto. 

Los Frikis?

“Frikis” è una storpiatura dall’inglese, freaks, una definizione che si usava per i punk cubani. Il film si svolge a inizio anni Novanta durante l’epidemia di Aids nell’isola, quando tanti teeneger si inocularono il virus per assicurarsi cibo e un tetto, entrando nelle cliniche statali destinate a chi aveva contratto l’Hiv.

Tema tosto per un debutto.

La vicenda merita di essere conosciuta. Non è una storia da tagliarsi le vene: è una storia di passione per la musica, una storia di fratelli e sorelle, una storia d’amore… Ci sono tanti aspetti positivi. 

Si sente una “artivista”, artista-attivista?

No. Per come la vedo, sono due cose separate. Gli artisti cercano di trasformare il mondo in primis con la loro arte. Ma, avendo i privilegio di essere seguiti e ascoltati, possono contribuire alla cause che hanno più a cuore – per quanto mi riguarda, la sostenibilità – attraverso varie piattaforme. 

Usa Instagram, quindi.

Devo. 

Perché “devo”?

Non solo per l’impegno sociale, anche per il mio lavoro: gli studios decidono sulla base dei follower se sarai tu ad avere la parte o un’altra attrice. È triste, però è così. 

Per ora non corre il rischio di restare in panchina.

In effetti… Ho appena terminato le riprese di Keyhole Garden con Zoe Saldana e Garrett Hedlund, sarò in Pussy Island di Zoë Kravitz e in Hitman di Richard Linklater. 

E quando, eccezionalmente, non lavora?

Mi limito a un po’ di attività fisica (amo la boxe e le cose ad alta intensità, lo yoga non sarebbe da me), per il resto sto con la famiglia e gli amici, preferibilmente nella natura.  

Guatemala, Porto Rico, LA… Cosa chiama “casa” oggi?

Sono cresciuta on the road e continuo a vivere on the road: ho un’abitazione a Los Angeles, però non ci sono quasi mai. “Casa” è ovunque incontri i miei genitori o i miei fratelli.

IO Donna

·        Adriano Celentano.

La dedica di Celentano alla moglie Claudia Mori. Con una frecciatina politica. Adriano Celentano e la dedica d’amore a Claudia Mori su Instagram. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022

Il cantante pubblica un video in onore della moglie. L'inizio però è una frecciatina politica

«Mi sembra di capire che le cose non stanno andando bene...». Inizia così il video pubblicato su Instagram da Adriano Celentano. Il messaggio è d’amore e politico allo stesso tempo. Politico all’inizio perché prosegue «e in attesa di attaccare qualcuno o forse tutti, per farmi perdonare, vi mando un video di quando io e Claudia eravamo piccoli...», firmato L’Inesistente, nickname usato dall’artista sui social. Il riferimento al subbuglio politico in vista delle elezioni del 25 settembre prossimo è appena velato, giusto il tempo di realizzarlo che partono le note di “Io non ricordo (da quel giorno tu)” corredato da foto e video che ripercorrono la loro storia insieme.

Adriano Celentano e Claudia Mori hanno festeggiato 58 anni di matrimonio il 14 luglio scorso. La scintilla tra “Il Molleggiato” e l’attrice romana è scoccata nel 1964 sul set del film Uno strano tipo. Scoppiò un amore così travolgente da portarli a sposarsi solo l’anno dopo, quando hanno detto sì nella penombra delle 3.30 del mattino per evitare di essere assaliti da fotografi e curiosi che li perseguitavano da settimane.

Da quel momento è nato non solo l’amore che li rende ancora oggi “La coppia più bella del mondo” e dal quale sono nati tre figli (Rosita, Giacomo e Rosalinda), ma anche un sodalizio professionale. Mori infatti dal ‘91 è l’amministratrice delegata del Clan Celentano, la casa discografica fondata dal marito.

Paola Italiano per “la Stampa” il 10 agosto 2022.

Nell'estate delle coppie vip che scoppiano, un fulmine di una potenza antica spezza il flusso di gossip, retroscena, corna, accordi di divorzio. Che effetto ci fanno due che stanno insieme da quasi 60 anni come Celentano e Mori?

Adriano ieri è tornato a farsi vivo dal suo profilo Facebook - dove si presenta come "L'inesistente" - e stavolta niente strali politici o tirate sui media, vaccini, libertà (forse più avanti, dice, perché «Le cose vanno male». 

Ma stavolta ha dedicato una canzone a Claudia, e un video «di quando io e Claudia eravamo piccoli», scrive con nostalgica tenerezza colui che non saprebbe parlare d'amore. Seguono immagini di loro giovani (e bellissimi) e il testo di Io non ricordo (da quel giorno tu) che Giuliano Sangiorgi ha scritto qualche anno fa per lui, parole come «sono certo che da quel giorno tu mi sei scoppiata dentro e cosa importa se non ricordo più se nella pelle ci sei ancora tu».

Eccolo Adriano titanico stagliarsi sullo sfondo degli amori senza fine che finiscono (male), la favola di Totti e Ilary naufragata nel gossip dopo 20 anni, l'addio tra Claudio Amendola e Francesca Neri dopo un quarto di secolo, una vita se si pensa ai pur rispettabili 12 anni insieme di Shakira e Piqué. Nell'Armageddon delle favole degli amori felici, Celentano ci sbatte in faccia i suoi 58 anni d'amore con Claudia Mori festeggiati il 14 luglio. Lo ha fatto apposta? Voleva dire «poveri voi, che postate dichiarazioni, mostrate magliette alle telecamere, ci mandate le vostre foto di famiglie felici, e poi vi sciogliete come neve al sole?». 

Celentano ci ha abituati a fare della coppia un uso «politico», almeno due volte in modo eclatante. Siamo la coppia più bella del mondo celebrava il «vero amore per sempre unito dal cielo», niente di più reazionario nell'Italia del 1968, nel mondo che cantava la liberazione sessuale. 

E poi nel 1970 Celentano e Mori trionfano a Sanremo con Chi non lavora non fa l'amore, una sorta di inno crumiro nell'epoca delle contestazioni operaie.

Ma la differenza tra i vip di ieri e di oggi non la fa solo il finale. Mori e Celentano si sposarono nel 1964 e altro che esclusive ai giornali (e allora men che meno dirette tv): per dribblare i giornalisti che li inseguivano ovunque i due si dissero sì alle 3 e mezza del mattino nella chiesa di San Francesco a Grosseto, grazie anche alla complicità di Padre Ugolino, il frate francescano confidente dei vip che teneva rubriche sui giornali e trasmissioni alla radio e li sposò un anno dopo l'inizio della loro storia d'amore sul set del film Uno strano tipo. «'Il vestito da sposa di Claudia ce l'avevo io in convento, da un mese - avrebbe poi raccontato padre Ugolino - lo indossò praticamente in chiesa. Nemmeno i frati del convento sapevano del matrimonio».

E se ora Totti e Blasi sono alle prese con la spartizione del patrimonio, quello del «molleggiato» è da sempre oculatamente gestito dalla consorte-manager che, dice chi sa, si occupa di vita professionale e famigliare, lasciando Adriano libero di pensare solo alla sua creatività. È bello vedere che le favole esistono. Ma esistono davvero? Davanti a Celentano e Mori vengono in mente le parole di Gaber ne Il Dilemma: «Questa voglia di non lasciarsi è difficile da giudicare, non si sa se è una cosa vecchia o se fa piacere». 

Perché le favole sono bellissime ed è bello crederci, ma forse le vite di tutti ormai assomigliano più a quelle dei vip che si lasciano, compulsione social compresa: raccontiamo le nostre storie bellissime, i nostri amori stupendi che anche quando sono fortissimi quasi mai riescono ad avere «la tenacia delle cose antiche». È colpa dell'epoca e della storia? Forse, anche. Ma ascoltatela bene la canzone di Celentano per la sua Claudia. Finisce così: «E ora tu vuoi portarmi a fare un giro tra i ricordi per sentire se quel che brucia forte, brucia ancora come ieri o è soltanto un'altra scusa detta per nascondere bene l'abitudine che ci tiene ancora qui». Adriano, sicuro che con Claudia vada tutto bene? Per favore, almeno tu. Almeno voi.

·        Afef Jnifen.

Afef Jnifen compie 59 anni: i quattro matrimoni, il passato come modella, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022

La modella ed ex conduttrice televisiva è nata in Tunisia il 3 novembre 1963

Quarta di sei figli

Compie oggi 59 anni Afef Jnifen. Nata il 3 novembre 1963 in Tunisia la modella ed ex conduttrice televisiva - che lo scorso anno è convolata a nozze con il manager Alessandro Del Bono - è quarta di sei figli. Figlia di Mohamed Jnifen, che è stato ministro plenipotenziario per i rapporti bilaterali tra Tunisia e Libia, si è trasferita giovanissima a Parigi per diventare indossatrice. Ma questa non è l’unica curiosità su di lei.

Scoperta da Jean-Paul Goude

Afef è stata lanciata nel mondo della moda dal regista fotografo Jean-Paul Goude, con cui ha lavorato per alcuni spot pubblicitari. In seguito ha sfilato per stilisti come Armani, Gaultier, Chanel e Cavalli. «Salire in passerella? L’ho fatto in passato - ha dichiarato in passato Afef al Corriere -, ora lo rifarei soltanto per divertirmi con le amiche o per beneficenza, come quando ho partecipato allo show di Naomi Campbell per l’evento Fashion For Relief».

Ospite del Maurizio Costanzo Show

Dopo essersi fatta conoscere dal pubblico italiano grazie al Maurizio Costanzo Show nella seconda metà degli anni Novanta Afef nel 1999 conduce il rotocalco Nonsolomoda. Nello stesso anno guida insieme a Fabrizio Frizzi Scommettiamo che...?. Successivamente - in seguito al suo matrimonio con l’imprenditore Marco Tronchetti Provera - le sue apparizioni televisive si diradano: nel 2004 presenta una puntata speciale de Le Iene e nel 2006 partecipa al programma La grande notte con Gene Gnocchi su Rai 2. «Ho deciso tantissimi anni fa di smettere di fare televisione, volevo mettermi tranquilla e pensare ad altro - raccontava Afef alcuni anni fa a Grazia -. Ero sempre sotto i riflettori e anche mio marito si ritrovava al centro di ingiusti, violenti attacchi. Essere in due in prima linea era davvero troppo. La gente mi riconosceva e mi fermava per strada chiedendomi anche di lui. Spesso polemizzando. Io sono una donna reattiva, rischiavo di fare a botte di fronte a un’accusa gratuita. Non ne potevo più. Avevo bisogno di stare un passo indietro. Ho detto basta, ho scelto di avere forza e di dare forza. Era il 2006. Da allora non ho fatto più niente: niente tv, nessuna dichiarazione pubblica, se non qualche rarissima volta per parlare di moda».

Giurata di Project Runway

Nel 2016 Afef è tornata in tv: ha fatto parte della giuria del programma Project Runway Middle East.

Attrice ne «Il commissario Montalbano»

…e che nel 1999 ha recitato in un film della serie «Il commissario Montalbano»: era Karima Moussa ne «Il ladro di merendine».

Quattro matrimoni

Afef si è sposata quattro volte: la prima, giovanissima, in Tunisia con un vicino di casa. Nel 1990 è invece convolata a nozze con l'avvocato romano Marco Squatri (con cui ha avuto il figlio Sammy). In seguito alla separazione nel 2001 sposa Marco Tronchetti Provera. Con l’imprenditore, conosciuto in occasione di un’intervista di Nonsolomoda, vivrà vent’anni di (riservatissimo) amore. Fino alla separazione, arrivata nel 2018. Negli ultimi anni Afef ha ritrovato la serenità accanto all'imprenditore italiano Alessandro Del Bono, sposato in Costa Azzurra lo scorso anno.

·        Aida Yespica.

Aida Yespica compie 40 anni: dagli abusi da bambina all’abbraccio con il figlio dopo due anni. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.

La showgirl venezuelana ha esordito a 20 anni sulle passerelle milanesi. Nel 2012 ha sposato a Las Vegas l’avvocato Leonardo Gonzales, ma il matrimonio è durato solo un anno

La moda e la tv

Nata il 15 luglio 1982, sotto il segno del cancro, Aida Yespica compie 40 anni: la modella venezuelana ha cominciato a farsi notare all’interno del mondo della moda e della tv a 20 anni, quando ha partecipato al suo primo concorso di bellezza. Per poi esordire sulle passerelle di Milano, dove si è fatta notare anche da agenti televisivi che hanno puntato su di lei.

La violenza a 7 anni

“Sono stata stuprata quando avevo 7 anni. Avevo rimosso tutto ma poi nel 2016 mi sono arrivati tutti i ricordi ascoltando una donna che aveva subito delle violenze. Era una persona che frequentava la mia casa, un amico di mio padre”: è stata una confessione dolorosa quella che Aida Yespica ha fatto a Eleonora Daniele nel 2021 in una puntata di “Storie Italiane”. La showgirl non ha trattenuto le lacrime nell’occasione.

L’incontro con il figlio dopo due anni

Nella prima decade di luglio 2022, Aida Yespica ha avuto modo di riabbracciare il figlio Aron, che non vedeva da più di due anni. A novembre, il figlio nato dalla relazione con Matteo Ferrari, festeggerà 14 anni: la pandemia e alcuni problemi burocratici, le hanno impedito di raggiungere Aron negli Stati Uniti per tanto tempo.

Cantante

Nel luglio 2022 è stato messo online il videoclip di “Bugatti”, brano che segna l’esordio nel mondo discografico di Aida Yespica. Prodotto da Max Calo – nominato agli Grammy Awards – è scritto in spagnolo con una melodia reggaeton che strizza l’occhio alla musica pop.

Gli ex

Nel 2007 Aida Yespica è stata fidanzata con Matteo Ferrari, da cui ha avuto suo figlio, Aron Ferrari. I due si separano appena un anno dopo la nascita del figlio. Nel 2012 Yespica sposa a Las Vegas l’avvocato Leonardo Gonzales, ma è un matrimonio lampo: un anno più tardi è di nuovo single. In seguito si è legata all’imprenditore Geppy Lama, lasciato dopo la sua uscita dal Grande Fratello Vip, nel 2017. Ora accanto a lei Mirko Maschio è un imprenditore, classe ’77, presidente del gruppo Maschio Gaspardo.

Ossigenoterapia ai capelli

I capelli di Aida Yespica sono oggetto di invidia da molte delle sue fan e follower: per curarli la showgirl si sottopone con costanza all’ossigenoterapia, per renderli più folti e voluminosi.

·        Alan Sorrenti.

Sandra Cesarale per il “Corriere della Sera” il 16 ottobre 2022.  

L'ingresso fu trionfale. Settembre 1979, l'Arena di Verona si accende per il Festivalbar.

«Varcai l'entrata dentro una Rolls Royce decapottabile color sabbia. Era di un mio amico che aveva appena comprato un sacco di quadri, e li aveva stipati tutti dentro l'auto». 

Sicuramente non erano croste prese al mercatino.

«No, ma non erano mie. Però l'apparizione fu scenografica, follia mista a esibizionismo».

Alan Sorrenti quel Festivalbar lo vinse con Tu sei l'unica donna per me . Erano i suoi anni pazzi e dorati. Tagliati i capelli lunghi, rasata la barba e abbandonati i vestiti hippie per gli eleganti completi bianchi disegnati da Gianni Versace, il ventinovenne metà napoletano e metà gallese sbancava le classifiche (non soltanto italiane) con il suo iconico falsetto cantando: Noi siamo figli delle stelle/senza storia senza età, eroi di un sogno; oppure chiedendosi struggente: Non so che darei/per fermare il tempo. 

Ascesa, caduta e rinascita di un uomo, che ha vissuto fra l'Inghilterra, l'Italia e gli States. E che oggi, a 71 anni, apre un altro capitolo della sua vita con un album, Oltre la zona sicura, e un tour. 

La sua storia parte dall'Italia.

«Da Napoli, dove sono nato e in parte cresciuto. Lì mi sentivo uno straniero, mamma gallese, Gwendoline, detta Gwen, e papà napoletano, Francesco. Indossavo jeans e pellicciotto per mettere insieme le mie anime. In quella città volevo stare il meno possibile. Per fortuna spesso visitavo i nonni nel Galles. Eppoi mia madre lavorava alla Nato di Bagnoli, lì c'era il profumo dei dolci, la musica che arrivava dagli uffici... quando varcavo quei confini trovavo l'America. A 16 anni, per farmi imparare bene l'inglese, mi iscrisse a una scuola privata. A Folkestone, sulla Manica». 

Di nuovo: un'altra vita.

«Mi sono tuffato in una realtà diversa. Un mio compagno di classe un po' ribelle aveva trovato il modo, la sera, per impossessarsi dell'automobile della direttrice. Scendeva giù, in città, e io mi accodavo. Quando si aprivano le porte dei pub ascoltavo la voce di velluto di Otis Redding e le canzoni dei Beatles. Una sera, davanti a un locale di musica dal vivo vidi una fila incredibile, riuscii a entrare e c'erano sul palco tre ragazzi che suonavano. Alla fine del concerto seppi che erano i Cream con Eric Clapton. Quelle erano le onde che mi facevano vibrare».

Era un ribelle?

«Sì, ma sono riuscito a contenermi fino a 18 anni. Quando da Folkestone tornavo a Napoli, mi esibivo con I Volti Senza Nome. Andavamo forte. A Londra avevo visto i concerti dei Family.Il cantante a un certo punto prendeva l'asta del microfono e la scagliava contro il pubblico in delirio. Lo copiai, in effetti funzionava».

Sai gli incidenti...

«Nemmeno uno. Gli spettatori e il proprietario ci amavano. Un po' meno i Cuori di Pietra, il gruppo che suonava prima di noi e ci prestava gli strumenti. Quando mi vedevano erano terrorizzati ma non mi dicevano mai di no». 

I suoi genitori erano contenti di questo figlio sovversivo?

«Per me avrebbero voluto altro. Tanto che mi ero iscritto a Medicina. Un esame solo, passato a pieni voti. Gli volevo dimostrare che non ero mica scemo. Però mi lasciavano libero, merito di mamma e del suo spirito democratico. Una sola cosa la sconvolse». 

Quale?

«Era terrorizzata che perdessi il mio accento inglese e iniziassi a parlare americano». 

E papà?

«Dipendente dell'azienda tranviaria e disegnatore, era più rigido, ma non aveva un carattere forte... lasciava correre. Eppoi da giovane cantava pure lui, incise un disco. Quando, durante la Seconda guerra mondiale, fu imprigionato in Inghilterra lo facevano esibire. Ma la fine del conflitto ridimensionò le sue ambizioni. Credo che la musica faccia parte del Dna di famiglia: mia sorella Jenny canta e pure mamma, al college, durante la festa di fine anno, quando si elegge la reginetta del ballo, salì sul palco». 

È vero che offrì uno spinello a Nino Manfredi?

«Questa non me la ricordo. E mi pare strano che lo abbia fatto, non mi sopportava tanto».

Perché?

«Per qualche anno sono stato fidanzato con sua figlia Roberta. Manfredi era all'apice della carriera, aveva girato un film come Per grazia ricevuta , io ero un ventenne che suonava. Lo capisco, le mie visite a casa sua gli rompevano la concentrazione. Sua moglie Erminia diceva che la mia musica era terapeutica». 

Napoli negli anni Settanta era un fiume di creatività. Chissà quanti incontri.

«Con Tony Esposito suonavamo nel magazzino di stufe di mio padre, che pensava sempre a lavorare. Al contrario di me. E poi la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Roberto De Simone, Peppe Barra, Eugenio ed Edoardo Bennato. Le storie si intrecciavano. Pino stava al quartiere Sanità, più soul del Vomero, dove vivevo io». 

Pino Daniele?

«Lui. Un po' più piccolo di me, lo incrociavo per le scale di casa mia. Io salivo e lui scendeva, un ragazzo con una gran massa di capelli neri.

Andava a suonare con mia sorella. Un paio di mesi prima che morisse mi invitò a un suo concerto a Napoli. Ero contento di riabbracciarlo dopo tanti anni. Una persona piena di entusiasmo e progetti. Dietro le quinte mi confessò che voleva ricreare il Neapolitan Power».

In America come c'è finito?

«Andai con il produttore Corrado Bacchelli per incidere il mio terzo album. Fu un viaggio rocambolesco. Non avevamo mica soldi, allora prendemmo un aereo da Roma a Lussemburgo, poi ci fermammo a Bruxelles, da lì fino a Reykjavik, in Islanda, dove nevicava così forte che siamo rimasti bloccati per un giorno. Alla fine riuscimmo a volare a New York. Mi spiazzò, sembrava Napoli con i grattacieli. Dormimmo al Chelsea Hotel, quello frequentato da Bob Dylan, Leonard Cohen e Janis Joplin. L'impatto fu insolito e spettacolare: mi trovai di fronte il grande jazzista Sun Ra. Era con la sua tribù, una folla di persone. Pensai: questo viene da un altro mondo». 

A San Francisco si ritrovò nella stessa stanza di Santana.

«Per un'intervista a due: erano gli anni che vestiva di bianco, parlammo di spiritualità. Lui stava sulla cima di una montagna. Io in basso». 

Dopo è arrivato a Los Angeles.

«Il mondo che cercavo, un'altra dimensione.Lo capii appena si aprì il portellone dell'aereo e vidi le palme. In tasca avevo il contatto di Jay Graydon, il produttore di Toto, Manhattan Transfer, Al Jarreau. Me l'aveva dato il mio tecnico del suono di San Francisco prima di finire sdraiato sulla consolle per problemini con l'alcool». 

Che atmosfera c'era?

«Quando non si lavorava si andava nei club. Una volta incontrai il fonico di Stevie Wonder che stava impazzendo perché il grande Stevie lo chiamava anche in piena notte. Spesso mi fermavo a dormire nell'ex casa di Humphrey Bogart, acquistata dal mio produttore dell'epoca, Greg Mathieson. 

Una villa vuota perché lui e la moglie, con i loro sei figli punkettoni, non avevano i soldi per rimetterla a posto. Quelli erano anni incredibili, esagerati e inaspettati. Capitava di svegliarti la mattina e non sapevi dov' eri. Ricordo il manager cinese di una ragazza che aveva passato la notte con me, aspettò tutto il tempo fuori dal portone. Come cantavano gli Eagles: la vita nella corsia di sorpasso sicuramente ti fa perdere la testa».

Nel 1977 scrisse «Figli delle stelle».

«Non è nata all'improvviso, ma l'ispirazione arrivò in America. Ero nelle stelle non soltanto in senso fisico, prendevo parecchi aerei, ma anche per l'energia e la magia che trasmetteva Los Angeles. Quell'anno uscì Star Wars di George Lucas, feci la fila a un cinema, il Sunset Boulevard era un luccichio continuo. In Italia la presentai per la prima volta al Divina di Milano, un club gay. Quella sera c'era anche Grace Jones che cantava la Vie en Rose. Per me quella canzone rimane una rivelazione, sono ancora un figlio delle stelle».

 Il successo le ha sballato l'esistenza?

«Volevo gestire la mia vita e non ci riuscivo più. All'inizio la fama è un gioco divertente, un bel film di cui sei il protagonista. Dopo viene fuori una follia autodistruttiva, cominci a essere così incasinato e fatto che non puoi più creare quello che vuoi». 

Nel 1983 la sua ex moglie l'accusò di uso e spaccio di stupefacenti. Ci fu il processo, la condanna.

«Nella vita si fanno degli sbagli. Ma dopo il vuoto, nel 1988, ho cominciato una rivoluzione umana, sono diventato buddhista della Soka Gakkai International. Da quel momento c'è un altro Alan».

Un errore che non rifarebbe?

«Non mi sposerei». 

Ride e aggiunge: «Ora lo farei con la mia luce magica, la mia compagna Barbel: una cerimonia speciale, niente di civile o religioso» Avete chiamato vostro figlio Sky. Il cosmo ritorna. «Sky Julian Markus, ha 19 anni, due passaporti e due cognomi. Mi ha spinto a incidere il nuovo album». Lo ha intitolato «Oltre la zona sicura» . 

Perché?

«Stiamo entrando in una fase nuova, ignota e misteriosa dove certi riferimenti sono svaniti. Ci troviamo ad affrontare delle sfide che ci portano a superare i nostri limiti». 

Lei quando ha superato i suoi?

«Tante volte. Ricordo un viaggio alle Hawaii: mi sono lanciato con una carrucola su una corda tesa sopra un precipizio. Ma mio figlio si era buttato e l'ho seguito. Esperienze che vanno provate. Uso la mia vita al meglio, diceva Bowie».

·        Alba Parietti.

Da leggo.it l'11 febbraio 2022.

Alba Parietti in prima fila al Festival di Sanremo è sempre stato scontato. Da anni, infatti, ha sempre goduto dello spettacolo da una posizione privilegiata e ne è sempre stata orgogliosa. Quest'anno qualcuno si è chiesto perché abbia indietreggiato. È stata lei stessa a parlarne a La Vita in Diretta. 

«Voglio dire una cosa… Per il bene del Paese, io mi sacrifico volentieri. Se il Paese chiama, io ci sarò. Quindi, sabato sera, per rassicurare gli italiani, sarò seduta, spero in prima fila», aveva detto la settimana scorsa durante un collegamento con Amadeus, che con ironia aveva aggiunto: «Mi sento tranquillo anche io».

Eppure le cose non sono andate così. Durante la serata finale di Sanremo 2022 non era presente in prima fila, bensì in seconda. Così il popolo della rete le ha chiesto perché e la spiegazione è arrivata sempre a La Vita in Diretta con una battuta: «Io non mi sono posta questo problema, ma sono felice che gli altri si siano preoccupati. Effettivamente questa seconda fila mi ha… Sono stata retrocessa. Devo denunciare la Rai?».

Da I Lunatici – Radio 2 il 12 aprile 2022.

Alba Parietti è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte su Rai Radio da mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e trenta circa. 

Alba Parietti ha parlato un po' di se: "La mia carriera? Il momento d'oro è difficile da individuare. Ce ne sono stati tanti. Tutto il periodo degli anni '90 è stato una escalation di cose importanti. Da Galagol a Sanremo, a Macao, che mi ha riportato su. Il momento difficile? Quello dopo l'inizio. L'inizio è stato pazzesco, dopo una esagerazione di successo iniziale c'è stato un momento di calo molto violento. Prima di Sanremo. Quello è il momento in cui ho pensato di essere un fuoco di paglia.

Il momento dell'esplosione della popolarità? E' stato violentissimo e incredibile. Di colpo mi sono trovata ad essere la donna più famosa d'Italia, con Galagol. Un programma 'piccolo' con una emittente che ho trascinato verso il successo che meritava. Mi sono ritrovata ad avere più di dieci copertine a settimana. All'epoca poi non era usuale avere una donna, che non era una giornalista sportiva, che riuscisse a condurre un programma in cui si parlava di calcio". 

Sull'arrivo in Rai: "Ci fu una bella trattativa tra TeleMonteCarlo e la Rai per il mio approdo in Rai. L'arrivo in Rai me lo ricordo bellissimo. Conducevo 'La Piscina'. Poi ci fu un momento di stallo, poi l'idea geniale di Pippo Baudo di portarmi a Sanremo, e fu un successo pazzesco. Facemmo punte di share incredibili".

Sulla bellezza: "E' stato un vantaggio totale. Ma questa bellezza ha sconfinato, ne parlo come se stessi parlando di un'altra persona perché oggi ho sessant'anni e non credo di essere più bella come all'epoca. Una giornalista americana, senza che io la conoscessi, mi vide a una festa dove c'erano tutte le star del cinema e mi dedicò un enorme articolo su uno dei giornali più importanti del mondo. Colpivo molto per la bellezza. 

Ho dovuto convivere con molte gelosie. A volte di gente che neanche conoscevo. Ma l'ho sempre messa in conto. Però ho anche molte amiche con non mi invidiano per niente ma mi vogliono un bene dell'anima. La gelosia è un fatto umano. Io non credo che sarei riuscita ad essere amica di una tipo Monica Bellucci, Sharon Stone. Quella che quando entra tutti gli occhi sono su di lei. Non so se sarei riuscita ad esserle amica. Gli amici si vedono nel momento del successo, chi riesce a godere del tuo successo senza esserne invidioso è davvero un amico".

Sui social: "Se fossero esistiti negli anni '90 avrei avuto una vita terribile. Già non avevo nessuna privacy, ero perseguitata dai paparazzi, non potevo fare niente, tutto quello che mi accadeva era messo in piazza in maniera violenta. Figuriamoci se ci fossero stati i social. Per fortuna non c'erano. Si viveva benissimo anche senza". 

Sugli anni che passano: "Non ho paura della mia età. Non ho paura della mia età, anche se vedi dei cambiamenti fisici. Poi la gente pensa che tu debba avere sempre 18 anni o 20 anni. Pensa che debba restare quella. Lo pensano soprattutto i giovani. Gli anni che passano sono una scoperta perché ti devi reinventare. Devi scoprire di avere altre qualità. Sono molto corteggiata dai giovani. Si interessano molto a me. Sono molto curiosi di imparare. Anche amiche donne".

Sugli rimpianti: "Una cosa che non rifarei? Ci sono solo cose che farei in più. Tante volte il fatto di non aver osato mi pesa. Quando mi offerto di fare James Bond rifiutai perché non sapevo parlare l'inglese come sarebbe servito. Dovevo fare 'Goldeneye', la protagonista. Non era un ruolo marginale. Serviva di conoscere alla perfezione l'inglese, non l'ho potuto fare".

Sulla parità di genere: "Le donne hanno ancora molto da conquistare. La parità non c'è. A livello economico e non solo. Pensiamo alla maternità, ad esempio. Una donna non dovrebbe sentirsi chiedere se pensa di avere dei figli ad un colloquio di lavoro. Oppure questa domanda dovrebbe sentirsela rivolgere anche un uomo".

·        Al Bano Carrisi.

Da liberoquotidiano.it il 30 novembre 2022.

Non si spengono le polemiche sul caso Al Bano-Patricia. La donna spagnola infatti continua a sostenere sulla tv spagnola dia vere avuto una relazione clandestina proprio con il cantante italiano. E i dettagli raccontati da Patricia stanno scatenando un vero e proprio putiferio.

La donna ha infatti parlato di una relazione clandestina durata per ben 3 anni, il tutto alle spalle della Lecciso. Ma come abbiamo ricordato, secondo alcune indiscrezioni riportate da DiPiù Tv, la Lecciso non avrebbe mai creduto alle parole della donna spagnola. Ma di certo i racconti intimi di Patricia hanno fatto parecchio rumore.

C'è una frase rilasciata a un programma spagnolo che più di ogni altra ha di fatto scatenato il chiacchiericcio del gossip: "Era molto focoso e prima di fare l’amore lui mi cantava all’orecchio. Tanto con Loredana lui non è che abbia mai avuto un rapporto lineare, sì insomma tra loro due ci sono sempre stati degli alti e bassi".

Parole che lasciano pensare a una certo tipo di confidenza tra la stessa Patricia e Al Bano. Va ricordato che il cantante ha smentito in modo categorico le indiscrezioni sul suo conto ma di certo i dubbi dei fan restano. Al momento il racconto della donna non ha causato scossoni nella vita privata di Al Bano. Ma se tornasse in tv a raccontare altri dettagli, allora le cose potrebbero cambiare...

Da oggi.it l’1 Dicembre 2022.

Fine d’anno travagliata per Al Bano. Il leone di Cellino San Marco sta affrontando una presunta amante (Patricia Donoso, avvocata) e un presunto debito con un conduttore televisivo. Alla presunta amante, Al Bano ha risposto senza remore. Ricapitolando. Patricia Donoso (si presenta come avvocata, criminologa, psicologa, divisa tra Miami, New York e la Svizzera) ha raccontato in diretta televisiva di avere avuto una storia d’amore con Al Bano durata ben tre anni. Ci sarebbero anche delle foto che testimonierebbero il loro incontro.

Il cantante le ha dato della bugiarda ai microfoni di Fanpage: «Come dicono in Spagna, la signora è una mentirosa». E ancora: «La signora, come prova, ha mostrato una fotografia con me in aeroporto, ma se tutte le donne che hanno una foto con me in aeroporto diventano mie amanti, capisce che c’è un problema, no?». Al Bano è stato inarrestabile: «Gli avvocati dovrebbero avere un’etica, no? Forse, la signora vuole cercare di lavorare di più e cavalcare l’onda».

Ma i guai con la spagna non sono finiti. In questi giorni, un conduttore di Telecinco, Kiko Hernández, ha dichiarato che l’artista di Cellino San Marco gli dovrebbe circa 30mila euro dal 2009, e che i numerosi solleciti per il pagamento non hanno avuto riscontro… In attesa della risposta dello stesso Al Bano.

Maria Francesca Troisi per mowmag.com l’1 Dicembre 2022.

Al Bano playboy? Dalla Spagna spunta una nuova (presunta) amante del leone pugliese, che ruggisce e nega. Eppure, se fosse vero, non sarebbe mica da giudicare, semmai elogiare per aver difeso la tradizione nazionale. Da Casanova a D'Annunzio, da Mastroianni a Carrisi, l'importante è portare alta la bandiera.

Al Bano tombeur de femmes. Dalla Spagna con furore spunta una nuova (presunta) amante del leone di Cellino San Marco. Tale Patricia Donoso, avvocatessa, criminologa e psicologa, che in diretta Tv (a Telecinco) confessa di una relazione clandestina durata ben tre anni. E aggiunge pure particolari peccaminosi, che risvegliano il chiacchiericcio spagnolo e italico. "Al Bano era molto focoso, e prima di fare l'amore mi cantava all'orecchio.

Tanto con Loredana non è che abbia mai avuto un rapporto lineare, sì insomma tra loro ci sono sempre stati alti e bassi". Lecciso cornuta e contenta? Macché. Per ora non abbocca, vai a capire se per quieto vivere o altro. E il Carrisi? Manco a dirlo ruggisce, e rispedisce al mittente, smentendo categoricamente. Anzi sottolinea persino di non conoscere la donna, nonostante la spagnola possieda una foto (col cantante in aeroporto) a sostegno della sua tesi. "La signora è una mentirosa", picchia duro il ferito pugliese a Fanpage. Ferito certo non nell'orgoglio.

Parliamoci chiaro, l'italian manzo si è sempre piazzato bene, anzi è famoso in tutto il mondo proprio per la sua fine capacità amatoria. Ieri (Vittorio) Gassman e Gigi Rizzi, oggi Corona e Carrisi e quant'altri. I grandi seduttori italiani sono vivi e vegeti e lottano insieme a noi. E diciamola tutta, a quasi 80 anni il leone canterino fa ancora la sua splendida figura. Con quel sapore un po' rustico - zoticone, che alla donna piace eccome. E poi abbiamo sempre amato i bugiardi, i fedifraghi, a dirla tutta. Perché siamo masochiste? Ma no, perché a letto scaldano di più. Ce lo insegna Mastroianni, ai tempi di uno scontro impari con Letterman (sì quel David Letterman). Quando lui gli chiese delle donne: "Ma lei ha una moglie", e il nostro Marcello sospirò che voleva farle felici tutte.

D'altra parte, lo stesso Vate (il sommo D'Annunzio), è stato uno dei più grandi donnaioli del Novecento, e con ben quattromila conquiste da esibire. Quattromila! Roba da far impallidire persino Silvio. L'instancabile Cavaliere, che tanto si è speso per la causa. Che dire poi del fisicatissimo David Sanclimenti, il 27enne di Frosinone, che solo qualche mese fa ha sbancato la trasmissione inglese Love Island UK, che punta proprio sulla seduzione. Del resto Casanova era italiano mica per niente.

E allora, dal Veneto alla Puglia, dai ventenni ai settantenni e oltre, e di secolo in secolo, ci sentiamo di sollevare un unico coro. Se fosse vero che Al Bano ha tradito la consorte, non sarebbe da giudicare, semmai da elogiare come irriducibile esemplare di italian playboy. A lui il merito di aver difeso la tradizione nazionale. Perché la fama del maschio italiano non è solo leggenda.

Al Bano, il grande amore con Loredana Lecciso (e Romina Power). Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 26 Agosto 2022

Il cantante di Cellino San Marco, 79 anni, è associato solo a due donne in tutta la sua vita. Con entrambe ha un legame forte, basato anche sull’educazione dei figli

Le donne di Al Bano

Nella vita di Al Bano sono state due le donne che gli hanno rubato il cuore: Romina Power e Loredana Lecciso (che oggi compie 50 anni). Entrambe le storie d’amore sono state intense e passionali e hanno plasmato in toto la vita del grande cantante, fatta non solo di musica ma anche di dolori, gioie, addii e ricongiungimenti.

L’incontro con Romina

E’ il 1969 quando sboccia la favola d’amore tra Romina Power e Al Bano: lei è ancora una teenager, figlia primogenita di Tyrone Power e Linda Christian, e ha incontrato quel ragazzo del sud Italia sul set del film “Nel sole”. Da lì i due faranno coppia fissa nel lavoro ma anche nella vita privata.

I figli e la separazione

Ylenia, Yari Marco, Cristél e Romina Jr sono i figli di Al Bano e Romina. La primogenita della coppia, Ylenia Carrisi, sparì nel 1994 senza lasciare traccia. E proprio la scomparsa della figlia di Al Bano si trasformerà in una tragedia familiare che porterà poi la coppia al divorzio, ufficializzato nel 1999.

L’incontro a scuola con Loredana Lecciso

Dopo la fine del primo matrimonio con Romina, Al Bano si è legato a Loredana Lecciso, show girl pugliese allora nota per le esperienze nei reality show. I due si sarebbero conosciuti mente il cantautore portava Cristel e Romina jr a scuola.

I figli e il mistero delle nozze con Lecciso

Al Bano e la Lecciso hanno avuto due figli: Albano Carrisi Jr (detto Bido). e Yasmine Carrisi. Si dice che si siano sposati in gran segreto in Bielorussia, ma i diretti interessati non hanno mai confermato l’indiscrezione. Il rapporto tra i due ha avuto diversi alti e bassi soprattutto dopo il ritorno nella vita di Al Bano di Romina Power. Per motivi artistici.

Due genitori sulla stessa linea

Al Bano e Loredana hanno la stessa mentalità su questioni familiari importanti e a dirlo è stata la stessa Lecciso in una recente intervista: “È capitato di discutere su diverse cose e avere alti e bassi, ma su una cosa siamo andati sempre d’accordo, l’educazione e il percorso che i figli dovevano fare. Questa è una cosa che ci ha sempre uniti, è una fortuna, un dono: l’idea che avevamo sui nostri figli viaggiava in maniera parallela. L’obiettivo era comune”.

Ylenia Carrisi, Al Bano: "Quando è scomparsa...", il dramma che non aveva mai rivelato. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 06 giugno 2022.

Al Bano si confessa al settimanale Gente, diretto da Rossella Rasulo. Quando parla fa sempre notizia perché resta uno dei personaggi della musica più amati di sempre. Albano Carrisi nel 1994 ha dovuto combattere contro un gigante, arrivato all'improvviso nella sua vita. Ovvero la scomparsa di sua figlia Ylenia, nata dal matrimonio con Romina Power, misteriosamente scomparsa da New Orleans in circostanze che non sono state mai chiarite. Il cantante, in una lunga intervista concessa al magazine Gente in occasione dei suoi 79 anni, fa il bilancio della sua vita.

"Se sfoglio le pagine della memoria ce ne sono alcune nere, dure, tragiche. Quando è scomparsa mia figlia e quando è finito il mio rapporto con Romina non riuscivo a darmi risposte, vivevo uno tsunami esistenziale", rivela.

Poi ha voltato pagina e le cose sono cambiate, perché il "mondo gira" e i giorni passano. Nella vita di Carrisi, vent'anni fa, è arrivata Loredana Lecciso con cui ha avuto due figli, Jasmine e Bido. “Bella e intelligente”: così, con queste parole, la descrive. "E' la madre dei miei due figli, è attenta e pratica nell’educazione dei figli, in questo siamo allineati", racconta ancora. 

Al Bano, con un repertorio di oltre 500 canzoni, gira il mondo dove è acclamatissimo. Potrebbe tornare a Sanremo 2023 e proprio dalla colonne di Gente lancia un appello ad Amadeus. "Pronto un brano", dice il cantante di Cellino San Marco che è stato l'ultima volta in gara a Sanremo con la canzone Di rose e di spine. Ora potrebbe tornarci. Condizionale d'obbligo. 

Da “Libero quotidiano” il 23 marzo 2022.

Furto nelle tenute di Al Bano Carrisi, a Cellino San Marco (Brindisi) dove i ladri sono fuggiti con oltre duecento pali in ottone sradicati all'interno dei vigneti di negramaro. «Fa male al cuore commenta Al Bano di furti ne hanno fatto parecchi in questi anni, ed ogni volta si prova tanta amarezza. 

Tu fai le cose con tanto amore, poi arriva qualcuno, per un capriccio o per un bisogno di soldi, e ti provoca questi danni. Ci sono uomini che costruiscono e uomini che distruggono: bisogna difendersi dai secondi. Tu fai le cose per bene. Dedichi tanto tempo alla tua terra e lo fai con amore e passione. Poi, però, di colpo- conclude- arriva chi invece distrugge il tuo lavoro: hanno tagliato fili, tolto i pali, creando un danno all'interno dei vigneti, oltre che un disservizio».

Il valore del furto è di poco superiore ai tremila euro. Indagano i carabinieri della stazione di Cellino San Marco. Nei giorni scorsi il consorzio di tutela dei vini dop Brindisi e Squinzano aveva denunciato un boom di furti di pali nei vigneti. 

Il presidente Angelo Maci aveva lanciato l'allarme: «Continuano a ripetersi, notte dopo notte, da oltre due mesi, furti a scapito di poveri viticoltori. Una vera e propria razzia di pali che reggono le spalliere. L'aspetto inquietante è il danno che viene provocato alle spalliere per poter sfilare i tutori che sono interrati nel terreno per 50 centimetri». I ladri di pali non hanno fatto alcuna eccezione per i vigneti del vip Al Bano.

Ferruccio De Bortoli per Oggi il 17 marzo 2022.

Grande ammiratore di Putin, Al Bano ha cambiato idea (”Come si fa a non cambiarla davanti a tutto quello che succede?”) e ha annullato i concerti di Mosca e San Pietroburgo. 

Il cantante pugliese, nel suo piccolo, una lezione l’ha data a tutti i putiniani d’Italia che fanno finta di non esserlo mai stati (Salvini) oppure tirano dritto riscoprendo le virtù del silenzio (Berlusconi). Lui un prezzo lo paga, vista l’immensa popolarità di cui gode in Russia. Gli altri non pagherebbero nemmeno quello

Da lastampa.it il 17 marzo 2022.

Nella tenuta di Al Bano Carrisi, a Cellino San Marco, nel Brindisino, da stasera abiteranno tre profughi ucraini, una mamma con la sua bambina e un ragazzo di 17 anni, in fuga dalla guerra. Il cantautore pochi giorni fa ha cancellato i suoi concerti in Russia e ha condannato l'invasione dell'Ucraina, dicendosi deluso da Vladimir Putin di cui è stato «un grande ammiratore». «Una mia cugina da anni ha rapporti con la comunità ucraina, oggi arriva un gruppo di cinque persone, tre staranno in casa mia, mi sembra giusto e doveroso», aggiunge.

Un passo solidale con cui Al Bano prende ulteriormente le distanze dal leader russo che in passato aveva ammirato, apprezzamento che gli era costato l'inserimento (poi cancellato) nella black list ucraina. «Ho cantato per Putin, mi è piaciuto in passato e ora non mi piace più, ma mi è dispiaciuto, in questi giorni, vedermi definito 'amico di Putin' - precisa - Purtroppo non sono un suo amico, altrimenti gli avrei consigliato di far parlare l'intelligenza». 

Secondo il cantautore pugliese tutto il conflitto è riconducibile «allo scontro tra due potenze, Usa e Russia e forse un minimo di ragione Putin ce l'ha, ma sull'attacco all'Ucraina ha completamente torto, è inaccettabile e la società civile si rifiuta di continuare a vedere le immagini di morte e devastazione che ci arrivano quotidianamente». La perdita economica per la cancellazione dei suoi concerti in Russia non lo tocca: «Io canto anche per i soldi, ma soprattutto perché cantare mi dà gioia e adesso da quelle parte la gioia è lontana", conclude.

La complessità di Al Bano. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2022.

Stavo vacillando sotto i colpi degli intellettuali più complessi e già cominciavo a chiedermi se non fosse davvero un docile orsacchiotto in letargo, a cui il cacciatore di frodo Zelensky aveva fatto il solletico sotto le zampe, quando anch’io, come Checco Zalone in «Quo vado?», sono rimasto folgorato dalla visione di Al Bano. Conoscerete sicuramente la storia di questo conterraneo del professor Canfora che, per avere cantato «Felicità» davanti a Putin, era finito sulla lista nera di Kiev (ma si può?). Eppure, dopo l’invasione russa — è lui, sia chiaro, a chiamarla così —, Al Bano ha preso le distanze dall’illustre fan e , in quel di Cellino San Marco. Gliene sono grato, anche perché a oggi rimane l’unico frequentatore e ammiratore italiano di Putin ad avere avuto la decenza di dissociarsene in pubblico. Riguardo alla guerra, duole dirlo ai nostri intellettuali, Al Bano non ha però un’opinione abbastanza complessa. Afferma che tutte le Grandi Potenze, compresi gli Stati Uniti, tendono a essere un po’ arroganti per natura, e fin qui anche Povia e Crozza sarebbero d’accordo con lui. Ma aggiunge che ci sono cose che proprio non si fanno, tipo aggredire un Paese o una famiglia, perché se le fai, devi poi anche fare i conti con la Storia. La mette giù troppo semplice? Prendetevela con Al Bano, non con me, che, per usare le parole dell’orsacchiotto Putin, sono solo un moscerino entrato accidentalmente in bocca, al confronto.

Ucraina, Al Bano ospita a Cellino famiglia di profughi: «Putin ha fatto un grande errore». «Si tratta di una madre con una bambina ed un ragazzo di 18anni». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Marzo 2022.

«Putin ha commesso uno dei suoi più grandi errori». Lo dichiara il cantante Al Bano Carrisi, annunciando che tra poche ore ospiterà tre profughi ucraini, in fuga dalla guerra. «Andrò a prenderli alle 18 nel punto di ritrovo di Cellino San Marco (Brindisi), e poi si trasferiranno da me. Si tratta di una madre con una bambina ed un ragazzo di 18anni. Dovrebbero essere tutti dello stesso nucleo familiare».

Sul motivo di questa sua scelta, il cantante spiega: «Come si fa a girarsi dall’altra parte quando l’umanità ti chiama? Fino adesso sono sempre stato chiamato a cantare, adesso sono chiamato a fare queste opere di umanità, niente di straordinario. Quel che è certo è che non mi aspettavo per niente un atteggiamento ed un’azione del genere di Putin, che sta commettendo uno dei suoi più grandi errori. E’ una lotta tra giganti quella a cui stiamo assistendo: sostanzialmente tra Nato, America e Russia».

Maria Volpe per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.

Al Bano e la Russia, un grande amore. Tanti i suoi concerti a Mosca, tanti gli onori e i successi che i russi hanno riservato al cantante di Cellino San Marco. In Russia Al Bano si è esibito «l'ultima volta quattro anni fa, prima del Covid. Ora avevo in programma tanti concerti, da Mosca a San Pietroburgo, vediamo gli sviluppi di questa situazione drammatica. Non vedo l'ora di cantare la pace tra i popoli». 

L'artista pugliese come tutta l'umanità non si aspettava certo di svegliarsi ieri con la notizia della guerra «È stato terribile. Io sono un uomo di pace. Una notizia inaccettabile e anacronistica, il mondo si rivolta contro la guerra. Anche perché a farne le spese è sempre la povera gente. Nessuno se l'aspettava, speravamo tutti nella via diplomatica. Spero ancora che ci sia tempo per trovare un accordo».

E nonostante la musica, specie quella dal vivo, sia la sua vita Al Bano confessa che se oggi la Russia lo chiamasse per un concerto non ci andrebbe: «Una volta quando mi chiamarono in Afghanistan, dissi no. E poi non credo che i russi abbiano tanta voglia di divertirsi. Questa situazione dà fastidio a tutta l'umanità. Vorrei fare davvero un appello a tutti, alla Russia, e all'Ucraina: deponete le armi e tirate fuori l'intelligenza».

Al Bano non vuole fare distinzioni. «Putin? Non solo lui deve capire quanto è grave la situazione. Tutti devono farlo, tutti devono applicarsi per arrivare alla pace. Da ogni parte ci deve essere ragionevolezza. Tutti devono adoperarsi per arrivare alla pace: russi e ucraini sono fratelli, non devono dimenticarlo». 

E a proposito di Ucraina, nel marzo 2019, il governo di Kiev lo aveva inserito nella lista degli indesiderati, in quanto «minaccia alla sicurezza nazionale», contestandogli alcune dichiarazioni sull'appartenenza della Crimea alla Russia. Ma tutto si è risolto: «Ho parlato con l'ambasciatore e ha capito che non meritavo quella presa di posizione e mi ha cancellato dalla black list. Io ho sempre seminato pace. Sono un cantante, non un politico. Oggi con l'ambasciata ucraina qui a Roma abbiamo rapporti umani straordinari».

E un artista non smette mai di sognare. Per questo va oltre l'augurio della pace. Ha una speranza «folle»: «Che un gruppo di scienziati inventi un vaccino anti guerra da iniettare a tutti gli esseri umani che nascono affinché sparisca dal cervello umano la fama di potere. Basta con i Napoleoni e gli Hitler». 

Da liberoquotidiano.it il 23 febbraio 2022.

Il rapporto tra Al Bano Carrisi e la figlia Romina junior non è dei migliori. Anzi, ultimamente la tensione sembra essere tornata ad alzarsi, dopo che i due sono stati pizzicati dai fotografi del settimanale NuovoTv mentre discutevano animatamente in strada a Roma. Eppure negli scorsi mesi avevano fatto qualche passo avanti, dato che erano tornati a parlarsi dopo un lungo silenzio.

Nonostante ciò tra padre e figlia pare che non si riesca a trovare un punto di contatto per andare d’accordo. Al momento non sono noti i motivi della lite che si è consumata in strada tra il cantante di Cellino San Marco e l’opinionista di Oggi è un altro giorno, ma si vocifera che la tensione tra i due sia alle stelle come mai era accaduto prima d’ora. In passato la 34enne ha confessato in televisione di non essere mai stata capita dal padre, pur riconoscendo gli sforzi che lui ha fatto per venirle incontro.

Completamente diverso, invece, il rapporto che Romina Carrisi ha con la madre: le due si supportano sempre a vicenda, tanto che più volte la Power ha promesso le poesie e gli spettacoli teatrali della figlia.

L’ex naufraga dell’Isola dei Famosi si è anche cimentata in più settori negli ultimi anni, dalla letteratura al teatro, passando per il cinema e la televisione.

Alessio Poeta per “Chi” l’11 Dicembre 2022.

Jasmine Carrisi dice di essere impulsiva come la mamma, e testarda come il papà. A guardarla da vicino, invece, appare centrata e accomodante. «Oggi so finalmente quello che voglio», rivela a “Chi” mentre posa per la prima volta lontana dalla famiglia e da quel mondo incantato dal quale, spesso, ha sognato di fuggire. Ventuno anni, un presente nella musica, una serie tv da girare, un cognome (talvolta) ingombrante e un futuro tutto da scrivere. «La mia serenità è frutto della consapevolezza: vivo senza ansie e sono concentrata unicamente sul presente». 

Domanda. La ricordavamo bambina, mentre ora la ritroviamo molto sexy. 

Risposta. «Le svelo un segreto: cresco anch’io». 

D. Cos’è successo nel mentre? 

R. «Ho acquisito sicurezza, ho fatto i conti col passato e ho superato le mie fragilità cercando, sempre, il lato positivo in ogni cosa».

D. Il merito? 

R. «Della psicoterapia, ma è stato un lavoro lungo. Mi ci ero avvicinata già a 13 anni, poi, per paura di essere associata a un qualcosa che non conoscevo, ho rimandato». 

D. Cosa ha imparato dalla terapia? 

R. «L’importanza dell’accettazione. In fondo, il segreto è tutto lì. Per troppo tempo mi sono colpevolizzata per gli errori passati». 

D. Fa strano sentire parlare di errori alla sua età. 

R. «Gli sbagli, ahimè, non vanno di pari passo con l’età anagrafica». 

D. Il più grande che ha commesso? 

R. «Ha a che fare con la sottovalutazione. Da qualche parte ho letto che le persone ti trattano come tu dici loro di trattarti e ti attribuiscono il valore che tu dici loro di avere. Niente di più vero». 

D. La sua sottovalutazione ne da dove nasceva? 

R. «È difficile riavvolgere il nastro, ma come tanti anch’io sono stata bullizzata, derisa, offesa. Insomma, non è stata una passeggiata fin qui». 

D. Provi a centrare il punto. 

R. «C’è stato un episodio, alle elementari, dove un compagno mi prese in giro davanti a tutta la scuola - alunni, insegnanti, collaboratori scolastici - per la situazione sentimentale dei miei genitori. Uno shock perché i miei, fino a quel momento, mi avevano sempre tutelata dal gossip che ruotava attorno alla nostra famiglia. Dal nulla iniziai a odiare tutto: la scuola, lo sport, me stessa. Sognavo, a fasi alterne, di sparire». 

D. Ha mai detestato i suoi genitori per il ruolo mediatico che hanno sempre ricoperto? 

R. «In qualche modo sì. Dopo quel poco simpatico battesimo di fuoco evitavo di accendere la tv e di passare davanti a qualsiasi edicola. Impazzivo all’idea che tutti avessero un’immagine, il più delle volte sbagliata e sgradevole, della mia famiglia». 

D. Ne ha mai parlato con loro? 

R. «No, perché temevo di ferirli e perché, in fondo, sapevo che non era colpa loro. O almeno non del tutto». 

D. Il dualismo mediatico Lecciso-Power, invece, la faceva soffrire? 

R. «Quello, per assurdo, non mi ha mai toccata perché, dalla mia, avevo la realtà». 

D. I rapporti con i suoi fratelli, oggi, come sono? 

R. «Sani, come quelli delle altre famiglie, poi chiaramente c’è chi sento di più, chi meno». 

D. A Natale, in una famiglia allargata come la vostra, che si fa? 

R. «Si gioca agli incastri perfetti. Scherzi a parte, in genere siamo io, mamma, papà e Albano Jr». 

D. A breve partiranno le registrazioni della serie I Carrisi.

R. «Non posso spoilerare molto, se non che ne vedrete delle belle. È un progetto importante». 

D. La serie girerà attorno alla sua vita. Cos’ha lei che gli altri fratelli non hanno? 

R. «Non saprei. Sicuramente, tra tutti, sono la più divisiva». 

D. Sui social le danno della raccomandata, della rifatta. 

R. «E molto altro! La verità è che ho solo fatto un po’ di filler alle labbra. Il resto appartiene alla naturale evoluzione del corpo umano». 

D. Oggi è percepita come simpatica o antipatica? 

R. «Posso dirle che per strada, conoscendomi, si ricredono sempre tutti. A primo impatto vengo percepita come una privilegiata, quando in realtà sono una ragazza tranquillissima».

D. In amore, invece, come se la cava? 

R. «Single». 

D. Era uscita la notizia di un flirt con Giovanni, figlio di Biagio Antonacci. 

R. «Una sana frequentazione diventata, poi, una piacevole amicizia. Succede». 

D. Tergiversa. Il primo bacio? 

R. «A 13 anni, ma non ci veda nulla di romantico. Ha presente il Il flirt con il figlio di Antonacci? Sì... Ma ora siamo solo buoni amici gioco “obbligo o verità”? Ecco, quello». 

D. Allora mi dica il primo lampo amoroso? 

R. «Intorno ai 19 anni. Bello». 

D. Gira voce che sia diventato gay...

 R. «No, quella è una storia che appartiene a un passato remoto, anzi: scriva pure che si tratta del mio migliore amico». 

D. Papà cosa le ha detto delle chiacchiere su lei e Antonacci? 

R. «Non credo gli sia mai arrivata la voce visto che l’attenzione è sempre su lui e mia madre». 

D. Piuttosto è di questi giorni la notizia che suo papà avrebbe avuto un flirt con l’avvocatessa Patricia Donoso. 

R. «Ha visto la foto? Mio papà aveva la classica espressione che utilizza per fare i selfie. Aveva persino il pollice rivolto verso l’alto eppure i titoli dei tabloid parlano di uno sguardo compromettente».

D. Ne ha parlato con lui? 

R. «Certo, e ci abbiamo riso tutti su. Se ogni selfie fatto corrispondesse a una relazione mio padre, a quest’ora, sarebbe un vero tombeur de femmes». 

D. Abbiamo parlato poco di sua mamma. 

R. «Fino a qualche tempo fa, sul cellulare, l’avevo salvata come “Ansia”». 

D. Non facciamo fatica a capire il perché. 

R. «È la classica mamma italiana: chioccia, protettiva, apprensiva. Mi chiama ancora bimba». 

D. Nel suo percorso è stata un ostacolo? 

R. «No, piuttosto un valore aggiunto! È attentissima ai messaggi che passo, al contenuto, ma anche all’immagine».

D. Su TikTok, però, ammicca parecchio. 

R. «Mi esprimo seguendo il trend del momento e non pensando al giudizio altrui». 

D. Papà è geloso? 

R. «No, anzi spesso è proprio lui a chiedermi di girargli qualche video». 

D. Il futuro come se lo immagina? 

R. «Sogno la musica, un palco dove potermi esibire, ma anche di trasferirmi, subito dopo gli studi, per la gioia di mamma e papà, in America. È ora di spiccare il volo. Il mio volo».

·        Al Pacino.

Dagotraduzione da Dnyuz il 10 marzo 2022.

È difficile immaginare “Il Padrino” senza Al Pacino. La sua interpretazione di Michael Corleone, che è diventato un rispettabile eroe di guerra nonostante la sua famiglia corrotta, passa quasi inosservata per la prima ora del film - finché alla fine si afferma, prendendo gradualmente il controllo dell'operazione criminale di Corleone e del film insieme ad essa. 

Ma non ci sarebbe nemmeno Al Pacino senza "Il Padrino". Quando Francis Ford Coppola lo ha scelto per il ruolo, lottando per convincere la Paramount Pictures a ingaggiarlo, Al Pacino era una stella nascente del teatro di New York ma aveva interpretato un solo ruolo al cinema nel dramma sulla droga “The Panic in Needle Park” nel 1971. Ne è seguito mezzo secolo di ruoli cinematografici fondamentali, inclusi altri due ruoli nei panni di Michael Corleone ne "Il Padrino - Parte II" e "Parte III".

"The Godfather" è stato presentato in anteprima a New York il 15 marzo 1972 e 50 anni dopo, puoi immaginare tutte le ragioni per cui Pacino non vorrebbe più parlarne. Forse si sente imbarazzato o infastidito dal modo in cui questa performance, dall'inizio della sua carriera cinematografica, domina ancora il suo curriculum, o forse ha detto tutto quello che c'è da dire al riguardo. 

Ma in un'intervista telefonica il mese scorso, Pacino, che ora ha 81 anni, è stato piuttosto filosofico, persino stravagante, riguardo al film. Rimane un ardente ammiratore del film ed è ancora sbalordito dal modo in cui il ruolo gli ha permesso di fare carriera.

«Sono qui perché ho fatto 'Il Padrino'», ha detto Pacino, parlando dalla sua casa di Los Angeles. «Per un attore è come vincere alla lotteria». 

Come ha ricordato Coppola, Pacino era perfetto per il ruolo ed era un candidato per cui valeva la pena lottare, nonostante la sua mancanza di esperienza. 

«Quando ho letto il libro del 'Padrino', continuavo a immaginarlo», ha detto Coppola in un'altra intervista. «E non avevo una seconda scelta. Per me è sempre stato Al Pacino. Questo è il motivo per cui sono stato così tenace nel convincerlo a interpretare Michael. Questo era il mio problema». 

Ma per l'attore, interpretare la performance della vita ha portato i propri oneri, come ha imparato negli anni a seguire. 

«È difficile da spiegare nel mondo di oggi, spiegare chi ero in quel momento», ha detto Pacino. «Mi è sembrato che, all'improvviso, si fosse sollevato un velo e tutti gli occhi fossero puntati su di me. Naturalmente, è successo ad altri nel film. Ma "Il Padrino" mi ha dato una nuova identità con cui è stato difficile convivere».

Pacino ha parlato dell'essere stato ingaggiato e della realizzazione di "Il Padrino", del peso della sua eredità e del motivo per cui non ha mai più interpretato un altro personaggio cinematografico come Michael Corleone. Questi sono estratti modificati dalla nostra conversazione. 

Quando ricevi una chiamata in cui ti si chiede di parlare de "Il Padrino", c'è una parte di te che pensa, oh Dio, di nuovo? Diventa mai noioso? 

Beh no. Te lo aspetti. Ti aspetti di parlare di cosa ha funzionato e cosa no. Hai la sensazione che qualcuno verrà da te. Devi solo dire: OK, sono stato qui, ho fatto questo. Ma è bello. È meglio che parlarne da solo. 

Come è nato il ruolo di Michael Corleone? 

In quel momento della mia vita, non avevo scelta. Francis mi voleva. Avevo fatto un unico film. E non ero così interessato. La mia testa era in un altro spazio. Nei primi film che ho girato mi sentivo fuori posto. Ricordo di aver detto al mio amico Charlie [il suo mentore, l'insegnante di recitazione Charlie Laughton]: Reciti e loro dicono, beh, fallo di nuovo. È reale e non reale allo stesso tempo. Ci vuole un po' per abituarsi.

Quando vi siete incontrati tu e Coppola? 

Per fare un po' di storia, Francis era un regista e aveva Zoetrope [la sua società di produzione], e nel gruppo c’erano persone come Steven Spielberg e George Lucas e [Martin] Scorsese e [Brian] De Palma. E ricordo di averne visti alcuni quando Francis mi chiese di venire a San Francisco dopo avermi visto in uno spettacolo a Broadway. Conosci quella storia? Sto raccontando vecchie storie ora. [Ride]

Va bene. È per questo che siamo qui. 

Mi ha visto sul palco [a Broadway nel 1969 nello spettacolo "Does a Tiger Wear a Necktie?"] ma io non l'ho incontrato. A quel tempo aveva scritto "Patton" e mi ha inviato una sceneggiatura per una meravigliosa storia d'amore che aveva scritto [che non è mai stata prodotta]. 

Voleva vedermi. Voleva dire che dovevo salire su un aereo e andare a San Francisco, cosa a cui non ero abituato. Ho passato cinque giorni con lui. È stato davvero speciale. Ma siamo stati respinti, ovviamente. Ero un attore sconosciuto e aveva girato un paio di film, "You're a Big Boy Now" e "The Rain People". Così sono tornato a casa e non l'ho più sentito.

Ma alla fine l'hai fatto. Quando è stato? 

“Panic in Needle Park” non era ancora uscito. E ho ricevuto una telefonata da Francis Coppola. Innanzitutto, diceva che avrebbe diretto "Il Padrino". Ho pensato, beh, potrebbe essere in crisi o qualcosa del genere. Perché gli hanno dato "Il Padrino"? 

Non pensavi fosse possibile che ce l'avesse fatta? 

Devo dirtelo, era già un grosso problema. Era un grande libro. Quando sei un attore, non metti nemmeno gli occhi su quelle cose. Non esistono per te. Sei in un certo punto della tua vita in cui non verrai accettato in quei grandi film, almeno non ancora. E ha detto che non solo dirigeva il film, [scoppiando in una risata] ma voleva che lo facessi io. Mi dispiace, non voglio ridere qui. Sembrava così oltraggioso. Eccomi qui, a parlare con qualcuno che penso sia fuori di testa. Ho detto, su che treno sono? OK. E voleva che facessi Michael. Ho pensato, OK. Ho detto, sì, Francis, bene. Invece era la verità. E poi mi è stata assegnata la parte».

La Paramount era notoriamente contraria all'idea che tu interpretassi il ruolo. 

Bene, hanno rifiutato tutto il suo cast! [Ride] Hanno rifiutato Brando. Hanno rifiutato Jimmy Caan e Bob Duvall. C'era conflitto. 

Di recente ho guardato alcuni dei tuoi provini del "Padrino" e sembrava che tu avessi questo aspetto da cane bastonato sulla faccia mentre ti veniva chiesto di rifarlo ancora e ancora. 

Sì. Ho sempre avuto quello sguardo. [Ride] Quell'espressione mi ha aiutato a superare queste audizioni. Perché stavano facendo un provino grandi attori. Ma ecco il segreto: per un qualsiasi motivo, mi voleva e io lo sapevo. Potevo sentirlo. E non c'è niente del genere, quando un regista ti vuole. È la cosa migliore che un attore possa avere, davvero.

Ma tu non eri esattamente un nessuno. Avevi già vinto un Tony Award. 

Oh, sull'isola di Manhattan, le cose stavano andando bene per me. Avevo fatto "The Indian Wants the Bronx". Ero giovane. Ho ricevuto l'Obie Award e poi ho vinto un Tony. Poi sono stato licenziato da una commedia. [Ride] 

Quando hai iniziato le riprese de "Il Padrino", lavorando al fianco di persone come Caan e Duvall, che avevano molta più esperienza nel cinema, e Brando, che ammiravi moltissimo, come hai resistito?

Ho pensato al ruolo. Non riuscivo proprio ad articolarlo in quel momento. Potrei articolarlo oggi. Pensavo che era un personaggio che poteva essere molto efficace se veniva dal nulla. Questa era la mia visione. Non potevo, naturalmente, parlarne con nessuno perché non sapevo come dirlo. Ma potevo pensarlo. E ho sentito che era programmato per me quando ho letto la sceneggiatura. 

Come mai? 

Non si fa vedere molto. È lì ma non si fa vedere. Immagino che gran parte di questo sia servito solo per costruire il discorso in cui dice che andrà a prendere quei ragazzi [il boss della droga Sollozzo e l'agente di polizia corrotto Capt. McCluskey], e tutti iniziano a ridere di lui.

Significa che Michael veniva sottovalutato ed era qualcosa a cui potevi collegarti e utilizzare a tuo vantaggio? 

Esattamente. Ma ti dirò che non avrebbero potuto essere più complici, tutti loro. Ero giovane, ero sconosciuto ed erano così rasserenanti. C'era amore lì. Lo capivano, Brando in particolare. Ma anche gli altri. Stavano diventando quei fratelli maggiori e consiglieri che interpretano nel film. Quel tipo di emozioni e colori in loro sono venuti fuori, sia nella performance ma anche nella vita. 

C'è mai stato un momento durante la realizzazione di "Il Padrino" in cui hai capito che sarebbe stato fantastico così com'è? 

Ricordi la scena del funerale di Marlon, quando l'hanno stroncato? L’abbiamo finita di sera, il sole stava tramontando. Quindi ero felice perché potevo andare a casa e bere qualcosa. Stavo andando al mio camper, mi dicevo, beh, sono stato abbastanza bene oggi. Quindi torno al mio camper. E lì, seduto su una lapide, c'è Francis Ford Coppola, che piange come un bambino. Piangeva profusamente. Sono andato da lui e gli ho detto, Francis, cosa c'è che non va? Cosa è successo? E lui mi dice: «Non mi daranno un'altra possibilità». Significava che non gli avrebbero permesso di filmare un'altra scena. E ho pensato: credo di essere in un buon film qui. Perché aveva quel tipo di passione».

Hai rivisto il film di recente? 

No. Potrei averlo visto due, tre anni fa. È il tipo di film che quando inizi a guardarlo, continui a guardarlo. 

Ti imbarazza guardare i tuoi film? 

No. Mi piace guardare i film in cui ho recitato. A volte li mostro. Io dico: "Ehi, sono io, sì! Guarda questo!" Beh, non vado così lontano. Ma lo farei se potessi. Penso che "Il Padrino" suoni, non importa cosa. Ma sei sorpreso quando ti rendi conto di quante persone non l'hanno mai visto.

Stai incontrando persone che sono consapevoli de “Il Padrino” come fenomeno culturale ma non l'hanno visto? 

Ne hanno sentito parlare. Lo capisci. “Oh, ho sentito... eri in quello? Era un film, vero?" Sì. Lo stesso valeva per "Citizen Kane", tra l'altro - anch'io ero in quello. Perché no? Non lo sanno. 

C'è qualcosa nella tua performance che vorresti cambiare adesso? 

Forse sono stato risparmiato. È come quando una volta ho perso il portafoglio quando avevo vent'anni. Non avevo soldi, ma quello che avevo l'avevo nel portafoglio e l'ho perso. Ho detto: Al, devi semplicemente dimenticarlo. Cancellalo dalla testa, ok? Sai cosa ti succederà se continui a pensarci. Quindi, quello che faccio è che non ci penso. 

Chi del film non ha ricevuto abbastanza credito per il contributo che reso?

John Cazale, in generale, è stato uno dei grandi attori del nostro tempo. Ho imparato tanto da lui. Avevo fatto molto teatro e tre film con lui. Era stimolante, lo era e basta. E non gli è stato attribuito nulla di tutto ciò. Ha recitato in cinque film, tutti nominati all'Oscar, ed è stato fantastico in tutti. È stato particolarmente bravo ne “Il Padrino II” e non credo che abbia ottenuto quel tipo di riconoscimento. 

C'è un'intensa calma nel modo in cui interpreti Michael ne “Il Padrino” che non credo di aver mai più rivisto nelle tue altre interpretazioni cinematografiche, anche le volte in cui l'hai interpretato. Era una parte di te che è andata via o era solo la natura del personaggio che lo richiedeva?

Mi piacerebbe pensare che fosse la natura di quella persona in particolare e quell'interpretazione. Non riesco a pensare a nessun altro personaggio che ho fatto che avrebbe potuto usare quel tipo di struttura. Ero un giovane attore – nella “Parte III”, non ero più giovane, ma non è colpa mia. [Ride] 

Ma rispetto ad altri personaggi a cui sei anche strettamente associato, come Tony Montana in “Scarface”? 

Ebbene, quel personaggio, Tony Montana, è stato scritto da Oliver Stone e diretto da Brian De Palma, che voleva la realtà aumentata. Brian voleva fare un'opera. Tutto quello che volevo fare era imitare Paul Muni. [Ride] Ma se metto "Dog Day Afternoon" con "Il padrino" o "Serpico", non vedo una somiglianza. Chiameresti Michael più introspettivo? Questo è quello che direi. E non conosco altri personaggi introspettivi che ho interpretato. 

Hai ricevuto la tua prima nomination all'Oscar per “Il Padrino”, ma quell'anno non hai partecipato alla cerimonia. Stavi protestando perché eri stato nominato come attore non protagonista, anziché protagonista?

No, assolutamente no. Ero in quella fase della mia vita in cui ero un po', più o meno, ribelle. Sono tornato per altri Oscar. Ma non sono andato all'inizio. Era la tradizione. Non credo che Bob [De Niro] sia andato. George C. Scott neanche è andato. Lo hanno dovuto svegliare. [Ride] Marlon non è andato. Guarda, Marlon ha restituito l'Oscar. Che ne dici di questo? Si stavano ribellando alla cosa di Hollywood. Quel genere di cose era nell'aria. 

Quindi tutto questo ha contribuito ai tuoi sentimenti in quel momento riguardo alla tua crescente fama?

Ero un po' a disagio nell'essere in quella situazione, essere in quel mondo. In quel periodo stavo anche lavorando sul palco a Boston [in “Richard III”]. Ma quella era una scusa. Avevo solo paura di andare. Ero giovane, più giovane persino dei miei anni. Ero giovane per la novità di tutto questo. Era la vecchia sindrome del colpo di cannone. Ed è collegato alle droghe e a quel genere di cose, in cui ero impegnato, e penso che avesse molto a che fare con questo. All'epoca non ero a conoscenza delle cose. 

Quando hai vinto un Oscar per “Scent of a Woman”, c'era qualche parte di te che desiderava ancora di averlo vinto per aver interpretato Michael Corleone? 

Assolutamente no. Se ci penso adesso, dico: “Certo, avrei dovuto vincere! Avere tre Oscar! Sarei come i grandi”. [Ride] No, non credo. È una cosa seria. Viene onorato per qualcosa.

Quindi ti senti a tuo agio ora con gli elogi che hai ricevuto - e continui a ricevere - per la tua interpretazione ne "Il Padrino"? 

Oh si. Ne sono profondamente onorato. lo sono davvero. È un lavoro in cui sono stato così fortunato ad essere coinvolto. Ma mi ci è voluta una vita per accettarlo e andare avanti. Non è che ho interpretato Superman. 

Hai qualche tipo di metrica che utilizzi per classificare i tuoi film?

Immagino ai film che realizzo io stesso, che ho diretto e scritto, come "Looking for Richard" o "Salomé" con Jessica Chastain, ma sto parlando di me stesso. Dovrei parlare de "Il Padrino". Non so perché vado d'accordo con me stesso. Non conosco nessun altro. [Ride] Quando qualcuno mi chiama, e mi dice, Devi essere solo. Rispondo: no, sono qui con il mio ego. [Ride]

·        Alberto Radius.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 28 febbraio 2022.

È stato definito la memoria storica del rock italiano, solo che a lui del passato non è mai importato granché. Sarà per questo che alla soglia degli 80 anni (li festeggerà il 1° giugno) ragiona ancora come un ragazzino: «Non so come mai, però dopo un po’ che suono in una band gli altri si adagiano». E parla di gente che, come minimo, ha 40 anni in meno. 

Siamo a San Colombano al Lambro, nella sua casa tra verdi colline e strade in terra battuta nel lodigiano, e da qui Milano è vicina il giusto per essere raggiunta quando serve e lontana abbastanza per mitigare tutti i problemi di una metropoli.

Dall’altra parte del tavolo, in un bel soggiorno luminoso, c’è Alberto Radius, un chitarrista che ha lasciato il segno nei migliori album di Lucio Battisti e Franco Battiato. E che nello studio milanese da lui fondato ha prodotto circa 350 dischi. Senza dimenticare l’attività con la Formula 3, altre decine di band prima, dopo e durante, visto che è ancora in pista con diversi live programmati nelle prossime settimane. Con lui abbiamo parlato di tutto, ma proprio tutto, per ripercorrere una carriera irripetibile. 

Nasci a Roma, ma cresci a Milano. Questioni familiari?

Sì, la mia famiglia era originaria di Milano, solo che mio padre dopo aver lavorato all’Alfa Romeo è stato chiamato in aviazione e ha continuato con la carriera militare fino a diventare un generale stellato. Ma era un truffatore come me…

In che senso?

Che siamo arrampicatori della vita. Ci sappiamo arrangiare. Non alla napoletana, alla milanese. Quelli rubano, noi abbiamo soltanto voglia di fare. Io ce l’ho ancora. 

Ti sei fermato durante la pandemia?

Non mi lamento, in questi due anni ho lavoricchiato. Suonavo con un trio insieme a due ragazzi genovesi e dopo un po’ li ho mollati perché si erano adagiati. Adesso ho trovato un altro trio e con loro sono 3-4 anni che stiamo insieme. Però già si stanno adagiando anche loro. Ho risentito una registrazione degli inizi ed era molto più bella. Non capisco perché dopo un po’ tutti si adagiano. 

È vero che, dopo quello di Milano, hai chiuso anche il tuo studio qui a San Colombano?

Era un piccolo studio, ma ormai non c’è più lavoro in quel settore. E comunque sono stato chiuso 40 anni in cantina a produrre dischi, circa 350, mi sembra di aver fatto abbastanza.

Immagino sia difficile ricordarseli tutti.

Ogni tanto scopro qualcosa grazie al web. Non sono tecnologico, mio figlio mi ha spiegato qualcosa. Ma ho cercato “tutti i dischi di Alberto Radius” e mi è uscita una lista infinita. Ho anche trovato due pezzi bellissimi di 50 anni fa e adesso li voglio reincidere perché non si capiscono bene le parole. 

A giugno compirai 80 anni.

Per adesso sono contento di aver passato tutte le malattie. Per fortuna non ho mai fumato neanche una sigaretta quando era normale farlo. Così come le droghe, che nel nostro ambiente circolavano in quantità. Gli altri sapevano che non usavo e non toccavano il cane… sennò li mordevo. Mi hanno operato al cuore, alla vescica, ultimamente a un polmone per un tumore, mi sono già rotto le gambe, il polso sinistro proprio qui in salotto quando sono scivolato sul tappeto. Pensa che avevo una serata in Sicilia due giorni dopo. 

E come hai fatto?

Ho suonato lo stesso con un tutore. Facevo qualche nota, quando mi si addormentava la mano andavano avanti gli altri e poi ricominciavo. Se non mi diverto sto a casa, se mi diverto suono anche gratis.

Con la trap si è tornati a parlare delle periferie, del “ghetto”, dell’assenza della politica, della mancanza di lavoro.

E noi ne parlavamo già 50 anni fa. Venivo dalla collaborazione con Mogol, ma lui parlava sempre della sua vita nei testi e non mi appassionava. Quando ho incontrato Oscar Avogadro è stata la svolta. Gli artisti di oggi parlano del nulla. 

Quali sono stati gli incontri più importanti della tua vita a livello artistico?

Da quando nel ‘78 ho aperto lo studio in via Capolago a Milano, che era il più attrezzato d’Italia, sicuramente quello con Battiato. Avevo speso tutto facendo anche dei debiti, ma c’erano un banco, dei riverberi e degli echi che non aveva nessuno grazie al Lexicon 224. Ora trovi tutto nei programmi sul computer. Mi sono avviato su quella strada dopo aver sentito nel ‘77 il batterista dei Genesis che suonava direttamente sull’eco. 

È vero che hai faticato due giorni per far accettare a Battiato la tua intro di Cuccurucucu?

Effettivamente… diciamo che facevo tremila cose e poi lui sceglieva. Quello è andato bene, no? Non c’era niente di simile prima. Franco, come Lucio, faceva solo gli accordi. Entrambi, ti spiegavano come avevano pensato il pezzo a grandi linee, ma senza dirti altro. 

Hai raccontato anche che Battiato un giorno ti ha persino aiutato a comprare casa.

Battiato è un essere speciale. Per il lavoro su L’era del cinghiale bianco, su Patriots e su La voce del padrone mi ero dedicato totalmente a lui. Anche se mi facevano altre richieste gli davo sempre la priorità. 

Si sentiva che era qualcosa di importante. In America avevo comprato una batteria elettronica Roland TR-808 che in Italia non c’era ancora e avevamo realizzato con quella La voce del padrone. Era difficilissima da usare, bisognava schiacciare tutto con le dita, infatti eravamo in dieci concentrati per stare a tempo. Ma alla EMI non hanno accettato la batteria elettrica, così siamo stati costretti a tornare alla batteria vera.

E quindi, avete rifatto tutto?

Ho chiamato Alfredo Golino, che aveva tre marce più degli altri, e in un giorno e mezzo ha risuonato i brani. Si era segnato due-tre cose e, buona la prima, ha finito in tempi record. Ti dico un trucco che allora rendeva i dischi più belli. Nella strofa c’era un tempo, nell’inciso quel tempo era un pelo più veloce, questo gli dava del gas. Adesso il tempo è tutto uguale, quindi aggiungono roba in produzione ma che non riesce a dare uno sprint, anzi, contribuisce solo ad appesantire. Non è stata l’unica volta che abbiamo dovuto rifare tutto. 

Quando è successo?

Per L’era del cinghiale bianco Battiato aveva già registrato il disco in un altro studio, ma non era soddisfatto. Allora è venuto da me e lo abbiamo risuonato daccapo. Quella volta alla batteria c’era Tullio De Piscopo. Ho sempre fatto il raccoglitore di idee e di elementi. Dipende da chi è più utile in base al progetto. Ho fatto anche l’introduzione per Nel sole di Al Bano… 

Tanto per non farti mancare nulla…

Era il ’67 se non ricordo male. Mi disse: «Radius cosa vuoi fare?». Ho risposto suonando: du den du den… pem … e mi si è rotta la corda. Anche perché ne usavo di talmente sottili che non esistevano in commercio. Per il Mi cantino usavo la corda del banjo, solo che non aveva il fermo. Allora dovevo rompere un’altra corda di chitarra, unirla a quella del banjo e arrivava appena per essere fissata. Era un accrocchio e ogni tanto si rompeva, però come suonava ragazzi! 

Ci siamo persi sul gesto di generosità di Battiato che ti ha permesso di comprare casa.

Ah giusto. Avevo deciso di comprarne una vicino allo studio e costava 250 milioni di lire. Me ne mancavano 50. Dovevo prendere un sacco di soldi dalla casa discografica e da altri lavori, però tardavano ad arrivare. Un giorno si presenta in studio Battiato e mi dice: «Ho sentito che ti mancano 50 milioni per comprare casa». «Sì, ma tu che c’entri?», gli ho risposto. Lui tira fuori il libretto degli assegni, scrive la cifra mancante, e me lo lascia sul tavolo: «Hai fatto tanto per me». Che bel momento! 

Cinquanta milioni di lire non erano pochi neanche allora, no?

Come 200 mila euro di oggi, come minimo. Però aveva capito che mi ero dedicato completamente a lui.

L’ultima volta che vi siete sentiti?

Un anno prima che morisse. Io ho tutti i nastri di quelli che hanno lavorato con me in un garage strapieno. Adesso alcuni li sto rigenerando per metterli su chiavetta e un giorno ne salta fuori uno con scritto: “Battiato Japan”. Mah, non mi ricordavo neanche cosa fosse. Così lo chiamo per chiedergli cosa farne e lui mi dice: «Non me ne frega niente, fai come vuoi». Era il suo atteggiamento verso quello che era passato. 

In salotto fa capolino il gatto che cattura l’attenzione di entrambi. Gli chiedo quale sia il nome e, dopo un attimo di perplessità, risponde: «Si chiama Gatto… Io al massimo lo chiamo Gattus. Il gatto di Radius…».

Prima di Battiato è stato fortissimo il tuo legame con Lucio Battisti…

Con Lucio eravamo amicissimi. Ricordo ancora quando con Mi ritorni in mente dovevamo fare un rallentamento che dava profondità al pezzo e, dopo aver provato con dei fiati italiani, non eravamo soddisfatti. Allora ho chiamato i Chriss & The Stroke, che erano mezzi italiani e mezzi stranieri. Ci abbiamo messo un pomeriggio, ma alla fine è uscito tutto come volevamo.

Con la chitarra com’era?

Ma chi, Lucio? La chitarra la suonicchiava appena… Aveva l’idea della chitarra. Come l’introduzione di Eppur mi son scordato di te è proprio mia quella. Lui mimava i suoni e io lo seguivo. Non al primo, ma al terzo colpo usciva l’idea giusta.

Ho letto che non hai apprezzato il blocco delle canzoni di Battisti da parte della moglie.

Ho lavorato con Lucio quando era fidanzato con Grazia Letizia Veronese. Sono stati un mese a casa mia quando lei era incinta. Allora la chiusura al pubblico era giusta, la condividevo. Lucio non era uno adatto ai bagni di folla alla Venditti o alla Baglioni. Lui voleva stare a casa a farsi i cazzi suoi. Un giorno li ho dovuti portare via da casa loro per seminare i paparazzi… 

Un vero e proprio inseguimento?

Certo, solo che non potevano starmi dietro. Avevo una macchina americana, la Cobra Shelby. L’ho rivenduta recentemente perché era più un debito che altro. A casa loro, appena tiravano la tenda per guardare fuori c’era un fotografo pronto a scattare. 

Allora quando Grazia Letizia era all’ottavo mese, ho caricato lei e Lucio sulla mia auto e li ho portati via. Ci hanno inseguito, ma sull’autostrada ho schiacciato l’acceleratore e a 250 all’ora li ho seminati. Loro avevano delle Seicento… Sono stati con me in via Novara a Milano nella stanza degli ospiti fino alla nascita del figlio. 

E condividi anche che in seguito che la moglie abbia stoppato per anni la diffusione delle sue canzoni sulle piattaforme digitali o tanti eventi a lui dedicati?

Ma sai, bisognerebbe entrare nella testa di Maria Grazia. Il problema è che tra moglie e marito si formano legami così forti che a volte si diventa gelosi di tutto. La gelosia ti fa bloccare, perché pensi: meglio che tenga io queste cose e non siano a disposizione di altri. Però questo lo trovo sbagliato, le canzoni di Lucio sono patrimonio di tutti. E poi prenderebbero un sacco di soldi, non so come sono finite le cause con Mogol. 

Tu come ti sei spiegato la rottura Battisti-Mogol?

Per una questione finanziaria. Le divisioni erano 12/24 all’edizione, 8 al musicista e 4 al paroliere. Penso che Mogol volesse pareggiare con Lucio 6 e 6. Poteva essere comprensibile dal suo punto di vista, solo che non teneva conto di altri aspetti, cioè che Lucio faceva la musica e cantava. E come le cantava quelle canzoni… gli dava l’emozione giusta. I pezzi li rifaceva cinquecento volte prima di registrarli. Curava ogni particolare, era un perfezionista. Ma una volta registrato, se c’era qualche sbavatura la teneva. Erano quelli gli elementi che tiravano fuori l’anima di ogni brano. Oggi chissà come mai sono tutti intonati. Poi dal vivo… 

Come hai vissuto gli album di Battisti del dopo Mogol?

Oggi li valuto meglio di allora, però non mi è mai piaciuto quello che ha fatto con Pasquale Panella. C’erano quaranta brani messi insieme e mai finiti. Una strofa e un inciso, una strofa e un inciso e via così, dieci in ogni pezzo…

Panella quando l’ho intervistato ha detto di essere molto fiero di aver tolto Battisti dai falò…

Sarà un vanto per lui, non per la gente. A parte La sposa occidentale e qualcos’altro che non dispiace, in generale era poco digeribile. Attenzione, non bisogna dimenticare che è stato Lucio a voler fare cose diverse, non Panella che lo spingeva. L’aveva detto anche a me: «No no, voglio fare questo e basta».

L’ho visto a casa sua in quel periodo, abbiamo mangiato e poi siamo andati nel casottone dove aveva un bel pianoforte su un un palchetto, un Bösendorfer. Si è messo a suonarlo e mi faceva: «Senti che bassi». Brim, brum, bram… si gasava proprio. Ah, ti faccio vedere una cosa incredibile… 

Sparisce per qualche minuto e torna con un pedale per chitarra che appoggia sul tavolo.

E questo cos’è?

È il pedale di Jimi Hendrix che ha perso quando ha suonato in Italia. Me lo ha dato il cantante dei Camaleonti, si vede che gli è caduto dal furgone prima di andarsene. Ma il bello è che dietro c’è un appunto scritto a mano proprio da Battisti. Sono i conti di Lucio. Quindi è un doppio ricordo. Non lo metto in vendita perché non merita di andare perduto.

Jimi Hendrix è stato il più grande chitarrista di tutti i tempi?

Per me è più corretto dire che Hendrix ha inventato la chitarra. Oggi se apri YouTube trovi un sacco di chitarristi velocissimi, ma a che serve? Quando sono andato a sentire il trio dei più veloci del mondo, dopo tre pezzi sono uscito. Una gara di tecnica che non valeva nulla, del cuore non c’era traccia. 

Chi è oggi secondo te il miglior chitarrista in circolazione?

Per me è ancora Santana, che con tre-quattro note ti dona delle emozioni uniche. Come lui non c’è nessuno. 

Hai avuto anche una band che si chiamava Il Volo tra il ’74 e il ’75.

Quel gruppo era nato perché Mogol ha fatto scogliere la Formula 3, voleva puntare su qualcosa di internazionale. Ci aveva assicurato che avrebbe pagato tutto lui, non dovevamo preoccuparci di niente. Dopo il secondo disco abbiamo avuto un contenzioso e litigato, così Mogol ha detto agli altri: o me o lui, cioè Radius. E loro: «Ma scusa, il gruppo l’ha fondato lui». E quindi ci siamo ritrovati per un periodo, in particolare io e Mario Lavezzi che eravamo i più attrezzati, a dover pagare gli altri per le serate.

Quel nome nel 2010 lo hanno usato per il progetto composto dai giovani tenori. Ti hanno mai contattato?

Era un nome inventato alla Numero Uno, la casa discografica. E lì gravitava anche mister Quando quando quando Tony Renis, che ha formato quel nuovo progetto. Dopo tanti anni deve aver pensato, visto che gli altri non ci sono più, perché non rifarlo? Io avevo fondato Il Volo Srl con Mario Lavezzi, poi dopo qualche anno gli ho ceduto le edizioni. So che gli hanno fatto causa e hanno perso. Ma la causa dovevo farla io, perché avevo i miei dischi che avrebbero giustificato una richiesta del genere. Ma non me ne frega nulla. I tre giovani tenorini sono un po’ anacronistici ma funzionano. 

Fra le righe hai già fatto capire più volte che la musica contemporanea non ti convince.

Intanto non capisco perché i cantanti biascicano le parole. Come Mahmood e Blanco, che fanno le foto da rocker e poi quando li senti cantare sono tutti gentilini… Comunque la formula è sempre la stessa. Prima un po’ di rap, poi un giro armonico e alla fine ancora rap. Ma un successo come quello della canzone Mille si deve a Orietta Berti e alla sua parte melodica, non a quella rap con Fedez e Achille Lauro. Ora c’è questa moda, ma non so quanto durerà. C’è anche da dire che il computer ha ucciso la musica. Basta cliccare e non paghi più una lira.

Un consiglio ai giovani?

Devono fare la gavetta. Stare in cantina e suonare ore e ore per anni. Io suono ancora due-tre ore al giorno.

I Måneskin sembra che abbiamo fatto la gavetta, anche suonando per strada.

Adesso avranno un cantinone dove provare… Sono contento per loro. Ho visto quando suonavano per le strade di Roma, significa che la cantina l’hanno fatta. Suonare per strada significa stare attento ai vaffanculo che ti arrivano dai negozianti o dai passanti. 

Prima era ancora meglio, perché facevi un mese in un posto, un mese in un altro, alla fine due mesi a Milano o Roma e conoscevi tutti gli artisti in circolazione. E allora i musicisti facevano anche i facchini… 

Non avevamo i tecnici, montavamo tutto noi. Con la Formula 3 spostavamo un organo Hammond che pesava 200 chili senza maniglie. Dovevamo portarlo su e giù per le scale. Mi sono spaccato la schiena e ancora mi fa male oggi. Ho una laurea in facchinaggio. 

C’è chi dice che i Måneskin non sono rock.

Sono rock. Hanno rubato dal passato e hanno rubato bene. Certo, un successo del genere è un mistero.

Con la Formula 3 avete suonato con Stevie Wonder.

Ci hanno chiamato perché stava arrivando in Italia e dovevamo preparare un pezzo dove lui suona la batteria. Si è messo a sedere, io ho cominciato a fare delle note e lui appresso, siamo andati avanti 5-6 minuti. Stevie è impressionante. Ha toccato il timpano, il rullante, il charleston e ha proseguito a bomba. 

Con quali altri artisti internazionali hai collaborato?

E chi lo sa… Sono andato tante volte a New York, a Monaco e a Londra per registrare, ma non so per cosa le hanno usate le miei incisioni. Allora funzionava così. Mi davano gli accordi e mi chiedevano delle parti di chitarra o degli assoli. Chissà dove sono andati a finire… Ogni tanto mi sembra di sentire qualcosa di mio nei video su YouTube, ma chissà…

Chi ascolti con più piacere?

Prima di tutto Fausto Rossi, in arte Faust’o. Lui è bravissimo, in particolare con i testi. Il suo primo disco lo risento ogni tanto, si intitolava Suicidio, fantastico! Un altro è Mino Di Martino, che ha fatto un album eccezionale ma purtroppo non lo hanno promosso. Un tempo poteva succedere, ti mettevano nel cassetto e potevi non uscirne mai. E sono quelli che hanno avuto meno successo. Ma a me non interessa nulla. 

Parliamo di chitarristi, ti faccio qualche nome. Alex Britti?

Bravo, anzi, molto bravo. Poco socievole, però. Una volta ci siamo incontrati a Sanremo in quelle feste post festival. Prima suonava lui, quando sono arrivato io sul palco ha staccato il jack della chitarra e se ne è andato senza neanche salutare. Non sarà il massimo della socialità, ma è molto bravo. 

Ricky Portera?

Anche lui è bravo, ha seguito l’esempio di Steve Vai. Mi piace il suo assolo in Ayrton di Lucio Dalla. Ma il più bravo di tutti è un altro…

Chi?

Luca Colombo. Peccato non sia più nell’orchestra della Rai, infatti a Sanremo c’era un suono squallido di chitarra. Colombo ha veramente le palle quando suona. Oppure c’è lo storico chitarrista di Vasco, Maurizio Solieri. Ma Vasco si tratta bene, anche Stef Burns è fenomenale. In generale ascolto poco i chitarristi. Non per cattiveria, ma se senti troppi gli altri rischi di copiarli, anche inconsciamente. 

Vasco lo apprezzi?

È stato uno dei grandi innovatori della musica italiana. E non si vergogna di fare i pezzi degli altri, come di Battisti o De André.

Ti sarebbe piaciuto lavorare con lui?

Mah, ha un suono molto preciso e caratterizzato e quindi per forza il “cappello” su tutto deve essere il suo. Ma se mi chiama magari ci vado. Però in questo caso è una questione di soldi. 

Come valuti le richieste?

Ultimamente se mi chiamano voglio i soldi. Se il progetto mi piace ne chiedo meno. Solo ad alcuni non chiedo nulla perché sono amici.

Stavo dimenticando che qui a San Colombano vive anche Gianluca Grignani e tu hai suonato su alcuni suoi dischi.

Ho fatto due dischi con Grignani. L’ho visto a Sanremo e non mi è sembrato in formissima. Mi spiace, abita qui vicino. 

È vero che ti ha lasciato totale libertà durante il lavoro?

Sì, anche perché per me è sempre il concetto base da cui partire. Vengo, faccio quello che vuoi ma in libertà. In seguito puoi cancellare tutto, a me non interessa, ma voglio carta bianca. Sennò chiami un turnista qualsiasi. Non ho mai fatto un assolo uguale all’altro. Sennò gli stimoli dove li trovo? 

Della stessa generazione c’è anche Morgan, che ha collaborato con Battiato.

Era molto amico di Franco. È un bel musicista. Se ne dicono tante su di lui, ma secondo me è pure un bravo ragazzo. Forse la televisione gli ha fatto bene da un lato e male da un altro. Quando lo sento cantare le canzoni di Battiato, sapendo che musica e testi non sono semplici, mi sembra che li faccia molto bene. Per cui bisogna riconoscere che come musicista ci sa fare. 

Hai qualche rimpianto?

Forse con Jovanotti nel periodo de L’ombelico del mondo, non ricordo se già per quell’album o subito dopo. Mi è spiaciuto che sia saltata la collaborazione, perché è simpatico e molto attivo. Stonato come una campana, ma ha altre qualità. 

Tra Beatles e Rolling Stones chi scegli?

Rolling tutta la vita. Quando sono usciti con Satisfaction ero nei night e sono letteralmente impazzito. Per quel suono mi sono chiesto: ma da dove viene? Se è stato Keith Richards a inventare quei riff è un genio.

Una chitarra come si sceglie?

Vieni, ti faccio vedere le mie.

Mi porta nella stanza degli ospiti, che in realtà ospita soltanto le sue chitarre. 

Non ne hai moltissime.

Ne ho solo quattro tutte uguali, una però è la mia preferita. Questa Hamer, che ha un magnete che allunga le note. L’ho trovata per caso da un grossista. Me l’aveva data da provare e ho scoperto questo allungatore di suono che non finisce mai finché dura la pila. E poi ne ho un’altra a cui tengo molto, una Les Paul del ’58 o del ’59, che adesso si sta rifacendo il look da un appassionato liutaio. È la chitarra più famosa del mondo, ce l’hanno tutti. Ma hanno quelle nuove, non come questa che vale dai 100mila ai 300 mila euro. 

Cosa deve avere una chitarra per essere insostituibile?

Deve trasmettere qualcosa. Non ci devi andare a letto, ma deve seguirti e tu devi seguire lei.

Sei mai stato costretto a suonarne qualcuna che non apprezzavi per questioni di sponsor?

È successo a Sanremo l’anno scorso quando sono stato ospite dei Coma_Cose. Mi hanno dato quella doppio manico che era sempre stonata. L’ho dovuta accordare poco prima di salire sul palco perché in due minuti perdeva l’accordatura. In quel caso, poi, la Sony mi ha trattato male. Leva questo, leva quello, allora alla fine venivo gratis. E ci sarei anche andato lo stesso, perché i Coma_Cose sono dei bravi ragazzi. 

Un assolo che avresti voluto aver inventato tu?

Uno qualsiasi fra quelli di Jimi Hendrix.

E fra i tuoi, quale ami di più?

Sono affezionato a quello di Nel ghetto. L’ho fatto una volta sola ed è venuto così. La tecnica è bella, va però usata con parsimonia. 

Sanremo quest’anno l’hai seguito?

Tutto e forse l’ho trovato un po’ meglio degli altri. Però i pezzi sono tutti uguali. Gianni Morandi si è svegliato grazie a Jovanotti. A quel punto, una volta sul podio, avrei fatto vincere lui. Il brano di Elisa era un po’ freddino, anche se lei è bravissima. Mahmood e Blanco non male, il pezzo era difficile. Solo che non si capisce mai se sono vittorie vere o presunte. Anche perché non mettono le cifre dei voti, così si sarebbe vista la differenza. Ma ormai dovrebbero chiamarlo “il festival della canzone e del look”. Anche quest’anno mi avevano chiamato per fare l’ospite il venerdì, ma non sono potuto andare. 

Con chi ti saresti dovuto esibire?

Con Achille Lauro. Me l’ha presentato il produttore in un ristorante. Io non lo conoscevo e, a parte salutarci, non ci avevo più pensato. Poi mi hanno chiamato per essere suo ospite, solo che mi dovevo operare e quindi è andata buca. Non mi sembra di aver perso niente, la canzone Domenica era bruttina, così come la scena del battesimo.

Sei credente?

Sono ateo e apolitico, non mi impressiona la scena del battesimo in sé, soltanto non mi sembrava niente di rilevante. In generale non riesco a entrare in questa musica che fanno biascicando le parole. Ma avranno ragione loro visto che vendono i dischi… anzi, visto che hanno follower. Perché non vendono più un cazzo con la musica.

Il tuo brano Musica e parole, cantato nel 2008 da Loredana Bertè, fu squalificato. Era già uscito vent’anni prima con il titolo Ultimo segreto da Ornella Ventura…

E chi se lo ricordava? A mia difesa posso dire che quando Loredana mi ha chiamato, in un albergo megagalattico di Milano, e mi ha detto: «Devo andare a Sanremo, posso usare un tuo pezzo?», io le avevo portato due brani nuovi. Ma lei ha tirato fuori una cassettina con su scritto: “Testo da rifare”. Era sempre una musica mia e non mi sono ricordato che fosse già uscita. Sai, una volta ci si scambiavano i pezzi così, con delle cassettine. Ma poi ho scoperto che non avrebbero potuto squalificarci. Il regolamento di allora diceva che dopo un tot di ore dalla prova generale la regola dell’inedito era annullata. 

Prima hai detto che il computer ha ucciso la musica. E i talent?

Ti racconto un aneddoto. Dopo la vittoria di Dennis Fantina a Saranno Famosi nel 2001 (il primo nome di Amici di Maria De Filippi, ndr) mi chiamano per il suo disco e suono sul pezzo Io credo in te. Non andò molto bene. Qualche tempo dopo sono in giro per Milano e sento che qualcuno suona il clacson per salutarmi. Mi giro e dentro all’auto vedo Dennis. Che ci fai qui, gli chiedo. E lui: «Consegno il cibo a domicilio». Mi sembra che renda l’idea su cosa penso dei talent. 

Se avessi vent’anni oggi, credi che riusciresti comunque a raggiungere grandi risultati?

Sicuramente avrei avuto lo stesso percorso, però magari riuscendo a fare di meno. Certo è che oggi non potrei incontrare un Battisti o un Battiato. Ma sono sicuro che mi sarei comunque divertito.

La tua filosofia è sempre quella di non pensare mai al passato?

Del passato me ne frega fino a un certo punto. 

E avresti mai pensato di arrivare a 80 anni?

A 50 anni mi dicevo che dopo i 70 è tutto regalato. Ora mi dico che dopo i 100 è tutto regalato. Io sono molto attaccato alla vita, la amo profondamente. Voglio ancora divertirmi. Se fai un lavoro che non ti piace è dura andare avanti, basta andare alle Poste per verificarlo. 

·        Aldo, Giovanni e Giacomo.

Aldo, Giovanni e Giacomo in tv: i programmi prima di Mai Dire Gol, chi era sposato con Marina Massironi, 10 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.

Oggi il trio comico sarà protagonista della prima serata di Italia 1 con «Chiedimi se sono felice»

L’esordio al cinema con «Tre uomini e una gamba»

Stasera Italia 1 trasmetterà alle 21.20 «Chiedimi se sono felice» di Aldo, Giovanni e Giacomo. L’avventura nel cinema di Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti è iniziata nel 1997 con il mitico «Tre uomini e una gamba», diretto dal trio comico e da Massimo Venier. Prodotto con budget e mezzi modesti ottenne un successo straordinario, e molte frasi cult del film vengono citate ancora oggi nel parlare comune (dal «falegname che con 30mila lire la fa meglio» all'inganno della cadrega). Forse però non tutti sanno che i tre protagonisti non chiesero nessun compenso per recitare: chiesero solo una percentuale sugli incassi (scelta azzeccata, con il senno di poi). Ma questa non è l’unica curiosità su Aldo, Giovanni e Giacomo.

Le origini del trio

Aldo (Cataldo all’anagrafe) Baglio e Giovanni Storti si conoscono da lungo tempo: prima di dedicarsi in coppia al cabaret negli anni Ottanta hanno studiato insieme danza mimica e hanno frequentato la scuola di melodramma al Teatro Arsenale di Milano. Giacomo (Giacomino) Poretti invece si è unito ad Aldo e Giovanni in un secondo momento, nel 1991. Prima faceva parte del duo Hansel e Strudel insieme all’allora fidanzata (poi moglie) Marina Massironi.

Prima di Mai dire Gol

Le prime apparizioni televisive di Aldo, Giovanni e Giacomo risalgono all'estate del 1992, all'interno del programma TG delle vacanze, accanto a Gigi e Andrea e Zuzzurro e Gaspare. Nello stesso anno il trio prende parte a Su la testa! di Paolo Rossi e nel 1993 entra nel cast di Cielito lindo con Claudio Bisio. Poi, nel 1994, Aldo, Giovanni e Giacomo approdano a Mai dire Gol…e il resto è storia.

I personaggi bocciati

Sembra incredibile ma alcuni - oggi amatissimi - personaggi lanciati dal trio a Mai Dire Gol inizialmente vennero bocciati: «Agli esordi ci avevano bocciato alcuni personaggi, fanno schifo, dicevano. Erano i bulgari - hanno detto Aldo, Giovanni e Giacomo al Corriere -. Anche per Tafazzi la stessa cosa, ci dissero di andare a farlo all’oratorio».

La (vera) tv svizzera

Uno degli sketch più popolari di Aldo, Giovanni e Giacomo è la parodia di Ultimo Minuto: ambientata in Svizzera vede protagonista il signor Rezzonico (Giovanni), odiato dal suo vicino di casa Fausto Gervasoni (Giacomo), che viene salvato all’ultimo minuto da situazioni di estremo pericolo dal poliziotto Hüber (Aldo). Forse non tutti sanno che due componenti del trio - Aldo e Giovanni - hanno lavorato davvero, negli anni Ottanta, per la RSI Radiotelevisione svizzera, all’interno dei programmi Ciao domenica e La bottega del signor Pietro.

Giacomo ex infermiere

Prima di dedicarsi a tempo pieno alla comicità Giacomo Poretti ha lavorato come infermiere: nel libro «Turno di notte», uscito nel 2021, ha raccontato i suoi 11 anni all’ospedale di Legnano. «I ricordi più belli li ho in chirurgia plastica e traumatologia-ortopedia - ha rivelato al Corriere -. C’era una tale carenza di infermieri che ti impiegavano subito a fare tutto, anche se non eri diplomato. Ma il reparto che mi ha segnato di più è stato medicina, con i pazienti di oncologia». Qualche mese fa dichiarato, durante un incontro pubblico a Pordenonelegge, che se durante il Covid «la situazione fosse precipitata a tal punto da renderlo necessario, sarei tornato in corsia. Chi ha fatto l’infermiere, anche se non lo è più, non scappa».

In versione fumetto

Aldo, Giovanni e Giacomo possono vantare i loro alter ego a fumetti: parliamo di Baldo, Gionni e Giacomino, comparsi nel numero 2769 di Topolino, nella storia «Paperino & Paperoga in... Tre paperi dentro a un cinema» (pubblicata due giorni prima dell'uscita nei cinema de «Il cosmo sul comò»).

L’Ambrogino d'oro

Nel 2010 il Comune di Milano ha conferito ad Aldo, Giovanni e Giacomo il prestigioso Ambrogino d'oro. «Negli anni Novanta Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti escono alla ribalta come trio comico - si legge nella motivazione -. La simpatia e l’estro della formazione vincente catturano una cospicua fetta di pubblico che li consacra maestri dell’umorismo, proponendosi in modo mai volgare né offensivo e Milano spesso diventa parte integrante delle loro scenografie».

Chi ha corso una maratona nel Sahara

Grande appassionato di running Giovanni Storti (che pratica anche il tai chi) ha partecipato a diverse competizioni, tra cui una maratona nel Sahara. «Ho iniziato a correre a quarant’anni - ha raccontato al Corriere -. Da giovane ho fatto un po’ di sport, come calcio o ginnastica, per fortuna adesso non mi ritrovo molto scassato. Fino a 55 anni andava benissimo, dopo mi sono accorto che la mente ti fa andare più di quanto il tuo corpo possa permetterti».

Vita privata

Per quanto riguarda la vita privata Aldo Baglio è sposato con l'attrice Silvana Fallisi, con la quale ha spesso collaborato («Chiedimi se sono felice», «Tu la conosci Claudia?», «Il cosmo sul comò», «La banda dei Babbi Natale», «Fuga da Reuma Park»). La coppia ha avuto due figli: Gaetano e Caterina. Giovanni Storti, sposato con Annita Casolo, ha due figlie: Clara e Mara (comparse insieme al padre sul grande schermo, così come i figli di Aldo Baglio, nel film «Il cosmo sul comò»). Giacomo Poretti invece, dopo la fine del matrimonio con Marina Massironi negli anni Ottanta, successivamente è convolato a nozze con Daniela Cristofori, da cui ha avuto un figlio.

Renato Franco per corriere.it l'11 settembre 2022.

«Ho paura che tanti personaggi ideati negli anni passati oggi non siano più proponibili. Oggi ci sono i paladini di tutto, in guerra contro tutti, che non capiscono che raccontare anche in modo buffo realtà faticose e importanti di sofferenza non fa che bene. Un personaggio come il Professor Alzheimer (incompetente e negligente, affetto da improvvisi vuoti di memoria) verrebbe subito attaccato, bollato come inopportuno». 

Parola di Giovanni (Storti), un terzo del trio con Aldo e Giacomo. «Già in passato ce la menavano un sacco sugli animali, perché facevamo finta di schiacciarli, di trattarli male. Anche Il circo di Paolo Rossi adesso non andrebbe bene: io interpretavo un imbonitore, Giacomo era sdraiato su un carrellino, come quelli che si vedono ancora in India, era senza mani e gambe e io lo frustavo. 

Pensare che durante le prove due persone in carrozzina ridevano come matti; adesso sarebbe impensabile. Come quando Aldo faceva il cieco che riprendeva la vista. Era tutto una finta, ma oggi viene tutto preso molto sul serio».

Giovanni è protagonista della giornata di chiusura di Fuoricinema alle 16,45 (la festa-festival che si affaccia sul parco della Biblioteca degli Alberi a Milano) dove parlerà anche del suo amore per l’ecologia. Come attore è uno e trino. Perché al cinema alterna anche i ruoli in solitaria, senza i consueti compagni. È successo in Boys, in Tutti a bordo, nell’ultimo Le voci sole . Ha voglia di scampoli di assenza? 

«Mi piace collaborare con altri registi e attori, per far scattare qualcosa di interessante e positivo, per vedere come è diverso il mondo rispetto al trio. Con il trio sai che giochi in casa, ci sono quella conoscenza e quel feeling spettacolari, che il pubblico riconosce a pelle».

In Le voci sole (i temi attuali della delocalizzazione del lavoro e quello dei social che possono dare grande notorietà e poi affossarti) ha un ruolo drammatico: «Anche nelle parti intense cerco di mettere qualcosa di comico, mi piace questa cifra; del resto in fondo mi sento una persona drammatica, seria, anche perché è faticoso dover essere sempre comici...».

Tra i tanti spettacoli in trio cosa vi rappresenta di più? «Il teatro più di cinema e tv, per il suo meccanismo immediato con il pubblico, quindi I corti, Tel chi el telùn: sono i progetti che mi hanno esaltato di più. Il cinema è diverso, alla fine sei quasi condizionato dal successo che ha decretato il pubblico.  

La tv invece è stata il palco delle grandi follie. A Mai dire gol dovevamo lavorare in pochi minuti, eravamo costretti a inventare cose esaltanti. Lì abbiamo vissuto i momenti più euforici e folli, divertenti». Eppure all’inzio personaggi come I Bulgari e Tafazzi furono bocciati: «Sembra incredibile. Ci dissero che i Bulgari facevano schifo, che erano da oratorio... Tafazzi invece era stato bollato come una scemata, salvo poi diventare di culto — anche con un po’ di fortuna — come emblema della sinistra che si autoflagella.  

La fortuna fu approdare a Mai dire gol dove c’era una libertà espressiva e soprattutto una sintonia di comicità unica con le persone che decidono, che sono quelle fondamentali per la riuscita di un progetto». 

Le crisi? «Ogni periodo ha i suoi problemi, a volte non riesci a stare bene assieme, il giorno dopo sì; ci sono i momenti in cui sei creativo, altri meno. È normale...». Tantissimi successi, qualche raro colpo a vuoto: «Penso al Festival di Sanremo 2016, non ci credevamo molto noi per primi e lo abbiamo affrontato in modo strano; ci è dispiaciuto sia andata così. Come Reuma Park, doveva essere la celebrazione dei nostri 25 anni invece era stato presentato come un film vero, nuovo. Un successo mancato che ci ha fatto soffrire».

Senza il «grano» di Giovanni la loro storia forse non sarebbe stata scritta, investì 5 milioni di lire nel trio: «Ci credevamo e io ero l’unico ad avere un po’ di soldi, non ci ho neanche pensato un attimo, era giusto che venissero investiti lì, sul nostro futuro». Le decisioni a maggioranza, ma non solo: «Il meccanismo è doppio: o si decide a maggioranza o uno è così bravo da convincere gli altri a farsi seguire. C’è anche il proverbio: chi fa da sé fa per tre. Ecco, non è il nostro caso, per noi è il contrario».

Massimo Balsamo per “il Giornale” il 4 luglio 2022.  

«Ultimamente non si può dire più niente»: parola di Giovanni Storti. Sul set per il nuovo film del Trio, in sala a Natale, l'attore ha stroncato il politically correct. «Certi nostri sketch non si potrebbero più fare», la riflessione di chi ha scritto la storia della comicità: se avessero iniziato oggi, avrebbero dovuto rinunciare a molte gag. Forse, per assurdo, non avrebbero raggiunto lo stesso successo. 

Questa è un'era dominata dal politicamente corretto

«La comicità è un modo parallelo di vedere la realtà, un modo dissacrante e alle volte un po' cattivo. La linea tra garbo e fastidio è sottile, ma penso che il politicamente corretto non sia applicabile alla comicità, anzi la distrugge. Noi abbiamo fatto delle cose che forse non si potrebbero più fare: al Circo di Paolo Rossi picchiavo Giacomo che era privo di braccia e gambe, abbiamo sparato agli animali e oggi ti ammazzerebbero, poi con il dottor Alzheimer abbiamo trattato temi spinosi in modo incredibile.

Forse siamo riusciti a tenere un livello di comicità non così cattiva, pur trattando temi in modo cattivo. Però ultimamente non puoi dire niente, è vero. Ci sono questi gruppi Penso agli animalisti: io amo la natura più di ogni cosa, poi fingi di dare un calcio a un gatto e ti attaccano come se fossi un delinquente. Forse vogliono farsi vedere, ma ti impediscono di dire qualsiasi cosa». 

Da oggi è in sala «Le voci sole», il suo primo ruolo drammatico

«È stato molto interessante. Con i due registi, Brusa e Scotuzzi, avevo già lavorato. Devo dire che mi piace sempre quando mi chiamano per un ruolo drammatico. Amo interpretare ruoli che non ho mai fatto. Io cerco sempre di mettere dentro qualcosa di buffo, ma fortunatamente loro mi frenano».

Il film racconta una caduta agli inferi

«Il film ha due temi importanti, la delocalizzazione del lavoro e soprattutto il ruolo dei social, cosa possono creare nel bene e nel male». 

Che rapporto ha con i social?

«In realtà non sono social, anzi sono abbastanza distaccato, a parte ciò che faccio per i profili del Trio, come Giova Loves Nature». 

Tema a lei molto caro è il cambiamento climatico...

«Sì, è uno dei dossier più caldi. Se ne parla, si fa finta di parlarne, ma in realtà si va dall'altra parte. Si continua ad andare sulle fonti fossili, si pensa al nucleare o al carbone. Le emergenze vengono cavalcate in maniera contraria. Vuoi per stupidità, per ignoranza o per interesse, si va sempre nella direzione sbagliata».

Parlando della pandemia, non ne siamo usciti migliori

«Le prospettive erano buone. Quando c'è una crisi, se si va dalla parte giusta, si migliora. Ma stiamo creando dei disastri. Era un'occasione per spingere di più verso la natura, per trovare situazioni energetiche, alimentari, lavorative e sociali migliori. Invece, per colpa della fretta, è peggiorato tutto». 

Ripercorrendo la sua carriera, di cosa è più orgoglioso?

«Del fatto che come Trio abbiamo sempre cercato di essere autonomi, cioè di fare le cose che ci piacevano, anche sbagliando, ma senza essere tirati da una parte o dall'altra».

Un rimpianto?

«C'è stata la possibilità magari di lavorare con dei miei miti, come Jackie Chan, e non l'abbiamo fatto per meccanismi un po' sciocchi».

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 28 giugno 2022.

«Ma dobbiamo parlare del Trio?», chiede Aldo Baglio. Al Taormina Film Fest si prende Una boccata d'aria, come il titolo del suo secondo assolo diretto da Alessio Lauria (dal 7 luglio nelle sale per 01). 

«Un ruolo inedito per me, avevo bisogno di fare altre cose, non volevo fare l'Aldo che conoscono tutti». Via dalle battute, dagli sketch, dalla gestualità larga da folletto, dalle sue «facce».

«Abbiamo tutti bisogno di sperimentare. Se Giovanni e Giacomo mi hanno dato consigli? No, ognuno si fa gli affari suoi. Ma il Trio non si tocca, la gente continua a guardarci su YouTube, non ci abbandonano neanche nei film brutti. Stiamo lavorando a quello nuovo, Il più bel giorno della nostra vita. Uscirà a Natale». 

Un tuffo nell'usato sicuro dell'umorismo surreale: «Due soci d'affari sposano i loro figli e arrivo io come un tornado alla Hollywood Party con la mia esuberanza che fa danni incredibili».

Nel film cerca di salvare la sua pizzeria sull'orlo del fallimento, un segreto che tiene nascosto alla moglie (Lucia Ocone), un'eredità contesa e un rapporto conflittuale col fratello che non vede da anni. 

Curioso: gli altri due del Trio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti, hanno sterzato anch'essi su toni amari: il primo verrà a Taormina con la sua opera prima, Le voci sole: «E' il mio primo ruolo drammatico, è la storia attualissima di una famiglia che si disgrega, una caduta agli inferi, storia attualissima, io ho perso il lavoro durante la pandemia e vado in Polonia per cercarne un altro»; Giacomo recita a teatro con la moglie Daniela Cristofori in Funeral Home, il titolo suggerisce l'aria che tira.

Aldo dice che quel pizzaiolo ha molto di lui: «Potrei essere uno che dice bugie e nasconde le cose, quella vigliaccheria e fragilità le conosco, mi appartengono. Ho amici che si sono ritrovati schiacciati dal debito con le banche cercando di vivere al di sopra delle loro possibilità. Il pizzaiolo fa i conti col passato».

Lei in questa storia ha ritrovato qualcosa delle sue origini umili? «Beh, abbiamo girato in una Sicilia non di cartolina, dove sono stato fino a tre anni prima di trasferirci a Milano, abbiamo girato a Vita, un paesino colpito dal terremoto dove vita non c'è. Io ho fatto la terza media, ho lavorato presto in un'officina sognando di fare il tornitore; ho studiato da disegnatore meccanico solo che sono arrivati i computer.

Poi l'impiego alla telefonia pubblica, ma dovevo vivere tutta la vita così? Mi ritrovai col rischio di perdere il lavoro statale: volli perderlo. I miei colleghi della Sip mi dicono che li facevo ridere, io non me lo ricordo».

E il Trio? «Con Giovanni eravamo amici già prima. Facevamo i mimi alla Scala e guadagnavamo bei soldini, volevamo comprare un furgone e fare spettacoli nelle piazze. A Milano alla fine degli Anni '70 c'era un bel fermento, il Ciak, lo Smeraldo, ci siamo ritrovati lì. Oggi non ci sono i locali ma i social che io non uso, la tecnologia mi spaventa».

Dice che tutti e tre hanno cominciato «in modo inconsapevole, anche i nostri personaggi, i nostri Tafazzi, sono nati per caso», Giacomo Poretti era capo infermiere, Giovanni Storti insegnava acrobazia in una scuola…

Al primo film da solo, Aldo si presentò intimidito, leggendo un biglietto ringraziò produttori e compagni di viaggio per avergli dato quella possibilità. «Non andò benissimo il mio debutto, qui c'è una squadra forte e si vede, il film, lasciatemelo dire, è venuto bene».

Anna Maria Piacentini per “Libero Quotidiano” il 28 giugno 2022.  

Taormina. L'appuntamento è con Aldo Baglio, protagonista del film fuori concorso Una boccata d'aria, in coppia con Lucia Ocone (che nei prossimi giorni ritirerà il premio Nino Manfredi). Esilarante? Non direi: è qualcosa di più. Diretto da Alessio Lauria, l'attore torna ad essere un protagonista che va oltre i confini del famosissimo trio, anticipa i trend del mercato inaugurando dal 7 luglio nei cinema un film "puro", semplice, ma pieno di vita. Una parentesi prima di tornare al trio, come lui stesso ammette. «Aldo e Giovanni non si toccano, a Natale torniamo insieme sul grande schermo con il film Il giorno più bello della mia vita».

Aldo, ci parli della sua carriera? In fondo non l'ha mai fatto...

«Avevo 16 anni, vivevo a Milano, dove sono cresciuto. Lavoravo in un'officina meccanica, mi piaceva l'idea di fare il tornitore, ma mia mamma voleva che avessi un posto fisso. Erano gli Anni 70, mi sono licenziato e mi hanno preso alla Sip, dopo tre mesi di corso».

Perchè poi è andato via? Stipendio sicuro, possibilità di carriera: pensava già di fare l'attore?

«No, ma spesso mi chiedevo: dovrei vivere tutta le vita così? Allora sono andato dal mio capo e gli ho detto: voglio licenziarmi». 

Negli Anni 70 il posto fisso era un gran regalo. Il suo capo avrà pensato: questo è matto!

«Infatti era molto sorpreso e mi ha chiesto di ripensarci: questo è un lavoro statale, se ne rende conto? Ma sta scherzando?».

Invece?

«Ho lasciato. Avevo già conosciuto Giovanni e a Milano ci siamo messi a cercare lavoro. La sera andavamo nei localini, abbiamo fatto i provini e ci hanno preso. Peccato che molti di quei posti meravigliosi, come il Derby non ci sono più. Che ricordi...». 

Uno in particolare?

«Un sogno fantastico che è arrivato da solo quando con Giovanni siamo riusciti a comperare un furgone e a lavorare nelle piazze. Piacevamo alla gente, quei luoghi erano una conferma».

Milano per lei è stata una città molto importante, giusto?

«Assolutamente sì. Se non fossi stato a Milano non ce l'avrei mai fatta. Ci sono arrivato che avevo tre anni. Sì amo la Sicilia, ma il mio rapporto con lei è la vacanza, quasi il Paradiso... ma Milan è Milan...».

Già allora la considerava viva, capace di darle ciò che avrebbe voluto?

«Sì, era brillante, ti faceva sognare. Andavamo anche al Ciak, era bello, ti appassionava. Mio papà era diverso da me, ma ha fatto molti lavori a Milano, credo anche il tassista abusivo. Ha una storia fantastica, spesso ho pensato di farla scrivere per poi girare anche un film. Devo trovare la produzione... vedremo. Non si dice che l'arte è sperimentazione?».

L'attualità fa piangere, ci manca uno spunto divertente a cui aggrapparci. Vogliamo certezze. Per esempio, conferma che il trio andrà avanti?

«Assolutamente sì. Ci è piaciuto allontanarci un po', ma il trio non si tocca. Per fortuna siamo tutti in crescendo». Soddisfatto del ruolo che ha avuto nel film di Lauria? «Incosciamente sì, ho sempre cercato di guardarmi dentro. C'è anche una riflessione sul mondo del lavoro.

Chissà quanti si ritroveranno in queste dinamiche, come quello di dover affrontare i debiti. Nel film ho una pizzeria, sono pieno di cose da pagare e le banche non aiutano. Purtroppo questa è una realtà. Però qui c'è un papà che non assomiglia al mio. Mi ispiro a mia madre, una donna perfetta». 

Prima di chiudere, cosa pensa del Monza in serie A?

«Ne sono felice, è la mia squadra. È come prendere "una boccata d'aria". Guarda caso è anche il titolo del mio film».

Aldo, Giovanni e Giacomo in tv: i programmi prima di Mai Dire Gol, chi era sposato con Marina Massironi, 10 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022.

Venerdì 10 giugno il trio comico sarà protagonista della prima serata di Italia 1 con il film del 2008 «Il cosmo sul comò».

L’esordio al cinema con «Tre uomini e una gamba»

Venerdì 10 giugno Italia 1 trasmetterà in prima serata il film del 2008 di Marcello Cesena «Il cosmo sul comò», settimo capitolo della filmografia di Aldo, Giovanni e Giacomo. L’avventura nel cinema di Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti è iniziata nel 1997 con il mitico «Tre uomini e una gamba», diretto dal trio comico e da Massimo Venier. Prodotto con budget e mezzi modesti ottenne un successo straordinario, e molte frasi cult del film vengono citate ancora oggi nel parlare comune (dal «falegname che con 30mila lire la fa meglio» all'inganno della cadrega). Forse però non tutti sanno che i tre protagonisti non chiesero nessun compenso per recitare: chiesero solo una percentuale sugli incassi (scelta azzeccata, con il senno di poi). Ma questa non è l’unica curiosità su Aldo, Giovanni e Giacomo.

Le origini del trio

Aldo (Cataldo all’anagrafe) Baglio e Giovanni Storti si conoscono da lungo tempo: prima di dedicarsi in coppia al cabaret negli anni Ottanta hanno studiato insieme danza mimica e hanno frequentato la scuola di melodramma al Teatro Arsenale di Milano. Giacomo (Giacomino) Poretti invece si è unito ad Aldo e Giovanni in un secondo momento, nel 1991. Prima faceva parte del duo Hansel e Strudel insieme all’allora fidanzata (poi moglie) Marina Massironi.

Prima di Mai dire Gol

Le prime apparizioni televisive di Aldo, Giovanni e Giacomo risalgono all'estate del 1992, all'interno del programma TG delle vacanze, accanto a Gigi e Andrea e Zuzzurro e Gaspare. Nello stesso anno il trio prende parte a Su la testa! di Paolo Rossi e nel 1993 entra nel cast di Cielito lindo con Claudio Bisio. Poi, nel 1994, Aldo, Giovanni e Giacomo approdano a Mai dire Gol…e il resto è storia.

I personaggi bocciati

Sembra incredibile ma alcuni - oggi amatissimi - personaggi lanciati dal trio a Mai Dire Gol inizialmente vennero bocciati: «Agli esordi ci avevano bocciato alcuni personaggi, fanno schifo, dicevano. Erano i bulgari - hanno detto Aldo, Giovanni e Giacomo al Corriere -. Anche per Tafazzi la stessa cosa, ci dissero di andare a farlo all’oratorio».

La (vera) tv svizzera

Uno degli sketch più popolari di Aldo, Giovanni e Giacomo è la parodia di Ultimo Minuto: ambientata in Svizzera vede protagonista il signor Rezzonico (Giovanni), odiato dal suo vicino di casa Fausto Gervasoni (Giacomo), che viene salvato all’ultimo minuto da situazioni di estremo pericolo dal poliziotto Hüber (Aldo). Forse non tutti sanno che due componenti del trio - Aldo e Giovanni - hanno lavorato davvero, negli anni Ottanta, per la RSI Radiotelevisione svizzera, all’interno dei programmi Ciao domenica e La bottega del signor Pietro.

Giacomo ex infermiere

Prima di dedicarsi a tempo pieno alla comicità Giacomo Poretti ha lavorato come infermiere: nel libro «Turno di notte», uscito nel 2021, ha raccontato i suoi 11 anni all’ospedale di Legnano. «I ricordi più belli li ho in chirurgia plastica e traumatologia-ortopedia - ha rivelato al Corriere -. C’era una tale carenza di infermieri che ti impiegavano subito a fare tutto, anche se non eri diplomato. Ma il reparto che mi ha segnato di più è stato medicina, con i pazienti di oncologia». Qualche mese fa dichiarato, durante un incontro pubblico a Pordenonelegge, che se durante il Covid «la situazione fosse precipitata a tal punto da renderlo necessario, sarei tornato in corsia. Chi ha fatto l’infermiere, anche se non lo è più, non scappa».

In versione fumetto

Aldo, Giovanni e Giacomo possono vantare i loro alter ego a fumetti: parliamo di Baldo, Gionni e Giacomino, comparsi nel numero 2769 di Topolino, nella storia «Paperino & Paperoga in... Tre paperi dentro a un cinema» (pubblicata due giorni prima dell'uscita nei cinema de «Il cosmo sul comò»).

L’Ambrogino d'oro

Nel 2010 il Comune di Milano ha conferito ad Aldo, Giovanni e Giacomo il prestigioso Ambrogino d'oro. «Negli anni Novanta Aldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti escono alla ribalta come trio comico - si legge nella motivazione -. La simpatia e l’estro della formazione vincente catturano una cospicua fetta di pubblico che li consacra maestri dell’umorismo, proponendosi in modo mai volgare né offensivo e Milano spesso diventa parte integrante delle loro scenografie».

Chi ha corso una maratona nel Sahara

Grande appassionato di running Giovanni Storti (che pratica anche il tai chi) ha partecipato a diverse competizioni, tra cui una maratona nel Sahara. «Ho iniziato a correre a quarant’anni - ha raccontato al Corriere -. Da giovane ho fatto un po’ di sport, come calcio o ginnastica, per fortuna adesso non mi ritrovo molto scassato. Fino a 55 anni andava benissimo, dopo mi sono accorto che la mente ti fa andare più di quanto il tuo corpo possa permetterti».

Vita privata

Per quanto riguarda la vita privata Aldo Baglio è sposato con l'attrice Silvana Fallisi, con la quale ha spesso collaborato («Chiedimi se sono felice», «Tu la conosci Claudia?», «Il cosmo sul comò», «La banda dei Babbi Natale», «Fuga da Reuma Park»). La coppia ha avuto due figli: Gaetano e Caterina. Giovanni Storti, sposato con Annita Casolo, ha due figlie: Clara e Mara (comparse insieme al padre sul grande schermo, così come i figli di Aldo Baglio, nel film «Il cosmo sul comò»). Giacomo Poretti invece, dopo la fine del matrimonio con Marina Massironi negli anni Ottanta, successivamente è convolato a nozze con Daniela Cristofori, da cui ha avuto un figlio.

·        Alec Baldwin.

Così è cambiata la vita di Alec Baldwin a un anno dalla tragedia sul set. Dal tragico sparo alle indagini, dal processo alla nascita della figlia e l'allontanamento dalla scena cinematografica. Ecco cosa è successo a Alec Baldwin negli ultimi dodici mesi dopo il dramma sul set di Rush. Novella Toloni su Il Giornale il 21 Ottobre 2022.  

Sono passati trecentosessantacinque giorni dalla tragedia consumatasi sul set del film "Rust", dove Halyna Hutchins, direttrice della fotografia, è morta per uno sparo partito dalla pistola di scena, che l'attore Alec Baldwin impugnava nel momento dell'incidente. Dodici mesi di dolore, accuse, processi e interrogatori che hanno sconvolto le vite di un'intera troupe cinematografica e della famiglia della donna uccisa.

Era il 21 ottobre 2021, quando i siti americani battevano la notizia della tragedia consumatasi a Santa Fe, nel New Mexico, dove si stavano effettuando le riprese della pellicola cinematografica "Rust" con protagonista l'attore statunitense Alec Baldwin. Il divo di Hollywood stava girando una scena nella quale sparava in favore di telecamera ma l'arma, che avrebbe dovuto essere caricata a salve, ha esploso un vero colpo che ha ucciso la direttrice della fotografia, Halyna Hutchins, e ferito non gravemente il regista, Joel Souza.

Le indagini hanno preso il via come un presunto incidente, ma con il passare dei giorni e con il susseguirsi delle testimonianze sono emersi dettagli inquietanti, che hanno messo in discussione le responsabilità di tutti i presenti sul set dai tecnici agli armaioli fino allo stesso Baldwin.

A che punto è il processo

Una prima sentenza è stata emessa lo scorso aprile e riguarda l'indagine civile condotta dalle autorità del New Mexico contro la Rust Production LLC, società produttrice del film. La produzione è stata accusata di avere messo a segno una lunga e gravissima sequela di negligenze, che hanno determinato il tragico incidente sul set ed è stata punita con il massimo della pena, in ambito civile: una multa di 136.793 dollari.

Dal punto di vista penale le accuse sono ancora pendenti fino a quando il dipartimento dello sceriffo della contea di Santa Fe non completerà le indagini. La causa per omicidio colposo, che la famiglia Hutchins ha intentato lo scorso febbraio contro Alec Baldwin, la società di produzione, i produttori e altri membri chiave della troupe, ha trovato invece un epilogo diverso. Il marito di Halyna Hutchins, che aveva accusato la casa di produzione e i produttori di avere tagliato i fondi e scelto di assumere la troupe più economica disponibile oltre che un'armatrice priva di qualifiche, ha ritirato la denuncia trovando un accordo con le parti.

Alec Baldwin rompe il silenzio: "È stato orribile"

Il 5 ottobre scorso i legali del divo di Hollywood hanno confermato che "hanno raggiunto un accordo con Matthew, il marito della Hutchins, che sarà produttore esecutivo del film". L'accordo raggiunto prevede, infatti, che le riprese del film riprendano da dove si erano interrotte il prossimo gennaio con il cast originale. "Non ho alcun interesse a impegnarmi in recriminazioni o attribuzioni di colpe - ha detto il marito della Hutchins - Tutti noi crediamo che la morte di Halyna sia stato un terribile incidente". L'uomo riceverà anche parte dei diritti legati al film.

Come sta l'attore e cosa è cambiato nella sua vita a un anno dal processo

Subito dopo avere siglato l'accordo con l'ex marito della direttrice della fotografia morta sul set di Rush, Alec Baldwin è tornato sui social network, dicendosi sollevato del buon esito della vicenda: "Durante questo difficile processo, tutti hanno mantenuto il desiderio specifico di fare ciò che era meglio per il figlio di Halyna. Ringrazio tutti coloro che hanno contribuito alla risoluzione di questa tragica e dolorosa situazione". Ma gli ultimi dodici mesi non sono stati affatto facili per l'attore, che ha avuto pesanti ripercussioni dal punto di vista lavorativo. In una intervista rilasciata alla Cnn lo scorso agosto, Baldwin ha dichiarato di avere perso ben cinque proposte di lavoro e di avere temuto per la propria incolumità fisica, in seguito alle dichiarazioni di Donald Trump, che lo riteneva colpevole di avere ucciso volontariamente la Hutchins.

Lo stress emotivo vissuto in quest'ultimo anno, ha confessato Alec Baldwin, gli ha "tolto tanti anni di vita". Solo la moglie Hilaria e i suoi figli gli hanno dato la serenità e la forza di andare avanti e non ritirarsi dal mondo del cinema. Lo scorso 22 settembre l'attore e la moglie sono diventati genitori per la settima volta, salutando l'arrivo della piccola Ilaria Catalina Irena. L'annuncio della gravidanza era arrivato proprio mentre l'attore era al centro del dramma vissuto sul set. Baldwin non dimentica, però, la collega e amica Halyna. "La vera tragedia è quello che è successo a questa donna. Nulla la riporterà indietro. È morta e lascia un bambino", ha ammesso recentemente l'attore a pochi giorni dall'anniversario della morte.

Benedetta Mura per corriere.it il 19 settembre 2022.

Alec Baldwin torna a recitare, non al cinema ma a Broadway. Sarà impegnato nel revival dell’opera Art, commedia teatrale portata in scena negli Anni 90 da Yasmina Reza, in calendario per la prossima primavera. L’attore 64enne riprende per la prima volta un copione in mano dalla tragedia avvenuta a ottobre 2021 sul set del film western Rust, dove ha perso la vita la direttrice della fotografia Halyna Hutchins, colpita dal proiettile di una pistola di scena. 

Su Baldwin sono subito ricadute le accuse, soprattutto da parte dell’Fbi che lo ritiene colpevole di aver premuto il grilletto. Dal quel momento l’attore è caduto in disgrazia. «Sono stato licenziato da cinque film importanti», ha detto in un’intervista a Chris Cuomo, ex anchorman della Cnn, aggiungendo che continua a ricevere minacce di morte. Il tre volte vincitore del Golden Globe adesso vuole ripartire da Broadway, da quel palco che nel 1992 gli è valso una candidatura ai Tony per l’opera teatrale “Un tram” che si chiama desiderio. 

Era il 21 ottobre 2021 quando sul set del film western Rust la direttrice della fotografia, Halyna Hutchins, è stata colpita da un proiettile. Lo sparo, partito da una pistola di scena impugnata da Alec Baldwin, è stato fatale. L’attore, finito sotto accusa per omicidio colposo, non ha mai smesso di proclamarsi innocente affermando di sapere che la pistola fosse finta e che il colpo fosse partito accidentalmente senza aver premuto il grilletto.

Nell’intervista rilasciata a Chris Cuomo Baldwin, inoltre, ha scaricato la colpa su Hannah Gutierrez Reed, che aveva il compito di controllare le armi usate sul set, e sul vice regista Dave Halls, che gli aveva consegnato l’arma. È stato tirato in ballo anche Seth Kenney che aveva fornito gli oggetti di scena alla produzione. Potrebbe essere stato lui, secondo l’attore, a portare senza volerlo pallottole “vive” sul set. 

Secondo il rapporto balistico dell’Fbi reso noto nei giorni scorsi, ne sarebbero state trovate ben 150. La polizia federale degli Stati Uniti, inoltre, continua a smentire la difesa dell’attore affermando, nel proprio rapporto di analisi, che il colpo della Colt calibro 45 non sarebbe potuto partire in maniera accidentale senza che il grilletto non venisse premuto fisicamente.

Broadway ha segnato gli inizi della carriera attoriale di Baldwin. Il suo debutto sul prestigioso palco newyorkese è avvenuto nel 1986 con Il malloppo di Joe Orton . Poi si sono susseguiti Serious Money di Caryl Churchill nel 1988, Prelude to a kiss di Craig Lucas nel 1990 e Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams nel 1992, un successo, quest’ultimo, che gli è valso una candidatura ai Tony awards come miglior attore protagonista in un’opera teatrale.

L’ultima apparizione di Baldwin in un teatro di Broadway è stata quattro anni fa, nel 2018. Adesso l’attore è pronto a ripartire proprio da dove aveva cominciato, dal teatro. L’unico posto che ha voluto dargli fiducia.

 Il report dell’Fbi sul caso del film Rust: «Alec Baldwin ha sparato». Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

Nell’ottobre del 2021 l’attore uccise Halyana Hutchins, direttrice della fotografia , e ferì il regista Joel Souza. 

«Non punterei mai una pistola contro qualcuno premendo un grilletto, mai» aveva dichiarato l’attore statunitense durante un’intervista rilasciata all’emittente americana Abc. Invece lo ha fatto. 

A confermarlo sono le indagini dell’Fbi che smentiscono Alec Baldwin, il quale ha sempre negato di aver premuto il grilletto sul set del film «Rust» uccidendo la direttrice della fotografia Halyna Hutchins e ferendo il regista Joel Souza. 

L’incidente è avvenuto nell’ottobre 2021, quando la troupe stava girando alcune scene d’azione al Bonanza Creek Ranch, Santa Fe, in New Mexico. L’attore stava maneggiando una pistola (una Colt calibro 45) quando è partito il colpo che ha tolto la vita a Halyna Hutchins. 

Se l’attore ha sempre dichiarato di non aver sparato, ora gli investigatori federali lo smentiscono dichiarando che: «Non sarebbe potuto partire un colpo senza che il grilletto non venisse fisicamente premuto». Resta comunque confermato che si sia trattato di un incidente. Non c’è ancora alcuna prova a sostegno della tesi che l’arma sia stata intenzionalmente caricata con proiettili veri.

Da tgcom24.mediaset.it il 16 agosto 2022.

Si riaccende dopo mesi il caso legato al film Rust, sul cui set è morta la direttrice della fotografia Halyna Hutchins, colpita da un proiettile partito dalla pistola impugnata da Alec Baldwin. 

L'attore americano - che non sapeva di avere in mano un'arma con munizioni vere - ha sempre sostenuto di non aver premuto il grilletto, ma ora l'Fbi di fatto lo smentisce. Come riportano i media americani, dall'analisi forense è emerso che da quella pistola (una Colt calibro 45) "non sarebbe potuto partire un colpo" in maniera accidentale "senza che il grilletto non venisse fisicamente premuto". 

Le dichiarazioni di Baldwin - La conclusione arriva dopo l'analisi delle caratteristiche della pistola. Stando all'Fbi, non può quindi trovare riscontro l'ipotesi secondo cui il proiettile che ha ucciso Hutchins sia partito in maniera del tutto accidentale. A sostenerlo era stato lo stesso Baldwin durante un'intervista all'emittente americana Abc risalente al dicembre 2021, due mesi dopo la tragedia.

"Il grilletto non è stato premuto, non ho premuto il grilletto", aveva detto l'attore in quell'occasione, riuscendo a stento a trattenere le lacrime. "Non era previsto nel copione che il grilletto venisse premuto", aveva inoltre osservato il giornalista George Stephanopuoulos, che aveva condotto l'intervista. 

Il mistero sul proiettile - Durante l'intervista, Baldwin aveva anche aggiunto: "Non punterei mai una pistola contro qualcuno premendo un grilletto, mai". Alla domanda dell'intervistatore su come sia stato possibile che la pistola contenesse un proiettile vero, l'attore aveva risposto: "Non ne ho idea. Qualcuno ha messo un proiettile vero nella pistola, un proiettile che non doveva nemmeno essere sul set".

Un incidente - Anche il regista Joel Souza era stato colpito dallo sparo, ma a differenza di Hutchins si è salvato dopo il ricovero in ospedale. Gli investigatori hanno comunque confermato che si è trattato solo di un incidente: non c'è infatti alcuna prova che l'arma sia stata caricata intenzionalmente con proiettili veri. 

"Episodi di negligenza" - Secondo Mamie Mitchell, script supervisor che era accanto alla direttrice della fotografia nel momento dell'incidente, si sarebbero verificati "episodi di negligenza" sul set. La donna ha inoltre sostenuto che non era previsto che in quella scena Baldwin facesse fuoco con la pistola. 

Il settimo figlio - Baldwin, a distanza di tempo, pare essersi ripreso dallo shock della tragedia. L'attore dovrebbe tornare entro la fine di quest'anno a recitare sul set di un nuovo film. Dalla moglie Hilaria, inoltre, aspetta il settimo figlio. "Dopo molti up and down nel corso degli ultimi anni, abbiamo un eccitante up e una grande sorpresa: questo autunno arriverà un altro Baldwinito", aveva annunciato sui social la donna.

Dagotraduzione da Pagesix il 29 aprile 2022.

Kim Basinger ha detto che l'ex marito Alec Baldwin non è sempre stato «emotivamente e mentalmente disponibile» ad affrontare problemi seri riguardanti la loro figlia, Ireland. 

«Sai che stiamo tutti bene, andiamo tutti d'accordo, qualunque cosa. Ma lui è una sfida. Abbiamo affrontato le nostre sfide», ha condiviso Basinger, 68 anni, durante il "Red Table Talk" di Facebook Watch mercoledì, mentre discuteva della battaglia di sua figlia di 26 anni con la sua salute mentale.

«Non credo che Alec fosse emotivamente o mentalmente disponibile per quel tipo di discorsi. Alec, sai, opera in un modo molto diverso nella sua vita». 

Mentre Ireland crede che suo padre soffra di ansia, Basinger è convinta che la sua educazione gli abbia reso difficile attingere alle sue emozioni, e lo ha descritto come «qualcuno che è cresciuto in una famiglia che soprrimeva le emozioni o le scambiava per debolezza». 

Basinger e Baldwin si sono sposati nel 1992, hanno avuto Ireland nel 1995 e si sono impegnati in una feroce battaglia per la custodia durante la loro separazione nel 2002. 

«Ci sono cose per cui vado da mio padre», ha proseguito Ireland, «ma se anche solo provassi ad avere questa conversazione in qualche modo con lui, non credo che sarebbe in grado di assorbirne davvero nulla».

Per un certo periodo, Ireland non ha parlato con nessuno dei suoi genitori a causa dell'abuso di sostanze. «Nella mia famiglia ci sono stati alcolismo e dipendenza dalla droga», ha condiviso durante un segmento uno contro uno con Willow Smith, 21 anni. «Una notte sono andata così oltre con il bere e le pillole che non riuscivo ad andare a dormire». 

«Avevo isolato tutti i miei veri amici, isolato la mia famiglia. Non avevo il controllo su nulla nella mia vita. Mi sono torturata con i disturbi alimentari che avevo. Non ho parlato con i miei genitori per tipo un anno. Li vedevo qua e là, ma mi vergognavo così tanto di quello che ero diventata e di come stavo vivendo».

Da allora ha riparato i suoi rapporti con i suoi genitori ed è «libera da anoressia e bulimia» da anni ormai. Alec è attualmente in attesa del suo ottavo figlio, il settimo con l'attuale moglie, Hilaria Baldwin.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 aprile 2022.

Una giovane madre giace sul pavimento di un polveroso set di un film western, la sua vita svanisce mentre i paramedici si affollano intorno a lei. Accanto alla donna, un collega - Joel Souza - piange di dolore perché ferito anche lui con un’arma da fuoco. 

È difficile pensare a filmati più inquietanti usciti da una Hollywood ossessionata dalla violenza, perché questa scena è del tutto reale. 

Pubblicando una raccolta di video e foto inedite, la polizia ha rivelato gli ultimi momenti di vita della direttrice della fotografia Halyna Hutchins - accidentalmente colpita dall'attore Alec Baldwin mentre si preparava a girare una scena per un film a basso budget, “Rust”. Le immagini Hanno gettato nuova luce su una tragedia che ha scosso Hollywood e ha acceso un dibattito sugli standard di sicurezza.

Come la tragedia sul set ha scatenato il gioco delle colpe

L’incidente nel ranch del New Mexico dello scorso ottobre ha dato il via a un brutto gioco di colpe che, in attesa dei risultati dell'indagine della polizia, incombe ancora sui responsabili della sicurezza delle armi sul set e sull'irascibile Baldwin, la star principale del film così come sul suo co-produttore e co-sceneggiatore. Lui ha negato ogni responsabilità, insistendo sul fatto che la pistola gli è stata passata assicurandogli che fosse scarica. 

La star insiste anche sul fatto di non aver mai premuto il grilletto, ma di aver solo tirato indietro parzialmente il martello per poi lasciarlo andare, mentre seguiva le istruzioni per puntare il suo revolver vintage verso la telecamera.

La scorsa settimana, l'Ufficio per la salute e la sicurezza sul lavoro del New Mexico ha emesso la multa massima possibile - 137.000 dollari - alla società di produzione del film, stabilendo che intenzionalmente non ha fornito adeguate precauzioni di sicurezza in relazione all'uccisione di Hutchins e al ferimento di Souza. Tuttavia, resta da decidere la responsabilità individuale per l'imperdonabile disavventura, così come è da sciogliere il mistero di come, infrangendo una delle regole cardine delle produzioni cinematografiche, siano arrivate sul set pistole cariche.

Lo sceriffo di Santa Fe Adan Mendoza ha detto ieri: «Non credo che nessuno sia fuori dai guai quando si tratta di accuse penali». E questo includeva Baldwin. «È stato lui a maneggiare l'arma che ha sparato il proiettile e  che ha portato alla morte», ha detto Mendoza. La pistola è stata analizzata per accertare «cosa è servito per manipolare quell'arma da fuoco in modo tale da farla esplodere», ha aggiunto. 

«Lavoreremo con l'ufficio del procuratore distrettuale per determinare se c’è stata negligenza criminale o ci sono accuse penali. In un certo senso sappiamo chi non ha svolto il suo lavoro qui».

Ha detto che nessuno si era ancora fatto avanti per ammettere di aver portato sul set pistole cariche. Si aspetta che le indagini siano finalmente concluse tra poche settimane. Tuttavia, ha ammesso che gli investigatori avevano scoperto informazioni "riguardanti" alcuni messaggi di testo in cui si discuteva di munizioni vere che forse erano state utilizzate in un film precedente girato pochi mesi prima. 

Nuove prove sull'armaiolo alle prime armi

In effetti, è qui che inizia il percorso in questa nuova raccolta di prove. Lo sceriffo si riferiva a uno scambio tra Hannah Gutierrez Reed, la giovane e inesperta armaiola di Rust, e Seth Kenney, il fornitore di armi del film, mentre la prima stava lavorando lo scorso agosto a un altro film, The Old Way.

Gli ha chiesto se poteva «sparare proiettili bollenti fuori dalla botola... come un grosso carico di munizioni reali». Ha risposto avvertendola di non usare mai proiettili dal vivo o "caldi". «È un grave errore, finisce sempre in lacrime», le ha detto. E lei ha risposto: «Buono a sapersi, continuerò a sparare al mio». 

Formata da suo padre, un veterano esperto di armi da fuoco di Hollywood, Gutierrez Reed aveva solo 24 anni e ha ammesso di aver quasi rifiutato il suo primo lavoro come armaiolo cinematografico, The Old Way, con Nicolas Cage, perché era «preoccupata di non essere pronta» e ha scoperto che caricare proiettili a salve nelle pistole era «la cosa più spaventosa».

La pratica della pistola ad estrazione rapida di Baldwin

La successiva significativa rivelazione nella raccolta di nuove prove è fornita da filmati muti di Baldwin che prova quello che sarebbe diventato il momento fatale. Seduto in costume occidentale sulla panca di una chiesa, Baldwin si esercita due volte per «estrarre rapidamente» la pistola dalla fondina nascosta nella sua giacca e puntarla verso la telecamera. 

Era stata una giornata difficile. Una troupe di sei persone se n’era andata quella mattina disgustata dalle condizioni di lavoro, quindi era stato necessario trovarne un'altra, il che aveva ritardato l’inizio delle riprese. 

Baldwin ha usato quel tempo per provare lo scontro a fuoco che il suo personaggio, un fuorilegge incallito e ferito, avrebbe dovuto avere con un maresciallo degli Stati Uniti e cacciatore di taglie. Più tardi, la pistola che doveva essere caricata solo con proiettili fittizi è esplosa e un proiettile è passato attraverso il corpo di Hutchins prima di conficcarsi nella spalla di Souza.

La lotta disperata per salvare la vittima

Gli attori e la troupe sono stati portati fuori dalla minuscola chiesa - diventata ufficialmente una scena del crimine - e sostituiti da polizia, paramedici e personale medico della compagnia cinematografica. L'atmosfera frenetica è stata catturata dalla telecamera indossata da un soccorritore. 

Circondata da apparecchiature, bende e quattro persone che cercavano disperatamente di tenerla in vita, Hutchins giaceva sulla schiena, senza emettere alcun suono ma ancora sufficientemente cosciente da continuare a muovere il braccio sopra la sua testa. 

«Halyna, resta con noi», si sente dire a uno dei medici. Un altro la esorta a fare respiri profondi mentre gli posiziona una maschera per l'ossigeno sul viso. Il filmato finisce quando la spostano su una barella e poi sull’elicottero. È stata trasportata in aereo all'ospedale dell'Università del New Mexico, ma in seguito ha ceduto alle ferite riportate.

«Benvenuti nel giorno peggiore della mia vita».

Baldwin e i membri dell'equipaggio sono stati successivamente filmati in ulteriori video dalle telecamere della polizia, mentre sono seduti in silenzio in attesa di notizie fuori dalla chiesa. 

La polizia si è anche filmata mentre interrogava le persone coinvolte nella scena. Poiché Baldwin ha negato di aver premuto il grilletto e ha detto di non sapere come fossero arrivati i colpi dal vivo sul set, è stata interrogata anche l'armaiola Gutierrez Reed - che ha negato la responsabilità della sparatoria. Profondamente sconvolta, quando le è stato chiesto se fosse lei l'armaiolo, ha risposto: «Lo sono, o almeno lo ero», aggiungendo: «Benvenuto nel giorno peggiore della mia vita». 

In seguito ha accompagnato un'ufficiale donna in un gabinetto dove le ha detto: «Non posso credere che Alec Baldwin stesse tenendo la pistola. È così fottuto». Ha poi chiesto agli agenti se poteva andare su un'auto della polizia lontano dal resto della squadra. «Voglio solo andarmene da qui e non mostrare mai più la mia faccia in questo settore... Sono l'unica armiera donna e ho rovinato tutta la mia carriera».

L’attore viene filmato di fronte alla polizia

Il filmato girato dalla telecamera di un detective mostra l’agente mentre interroga Baldwin sul set e l'attore chiede se può cambiarsi il costume prima di andare alla stazione di polizia per un colloquio. «Non so se questo [è] sangue sospetto o sangue reale», gli dice l'ufficiale indicando il suo panciotto schizzato. «Oh, questo è falso. Tutto questo è teatrale», gli assicura Baldwin.

Ma la polizia gli ha chiesto di rimanere in costume. La polizia ha anche rilasciato filmati di Baldwin interrogato nell'ufficio dello sceriffo della contea di Santa Fe. Baldwin è stato filmato mentre parlava con due agenti di polizia in una stanza degli interrogatori: «Qualcuno ha messo un proiettile nella pistola. Ho provato con una pistola calda. Doveva essere fredda o vuota... Questa è la cosa più orribile che abbia mai sentito in vita mia». 

Ha chiesto se sarebbe stato accusato e ha sospirato pesantemente quando gli è stato detto che non lo era. Ha raccontato che Gutierrez Reed gli aveva consegnato la pistola, e ha aggiunto: «Stavo presumendo che fosse una pistola fredda».

Gli investigatori in seguito gli hanno detto che Hutchins era morta. Con la mano che si è coperto la bocca, poi è rimasto in silenzio. 

Perché non hanno usato una pistola di gomma?

La polizia ha rilasciato e-mail inviate a Dave Halls, l'assistente alla regia del film, che è stato accusato di non aver adempiuto al suo dovere di controllare che le armi fossero al sicuro. In un messaggio, un amico ha avvertito che il «team di PR di Baldwin è in overdrive e sta cercando di trasferire la colpa da se stesso a un'ape operaia che non ha i soldi o il potere per confutare nulla di tutto ciò».

Anche se a Baldwin è stata data una pistola carica, gli addetti ai lavori affermano che ciò non lo esonera dalle responsabilità. Le linee guida sindacali degli attori di Hollywood specificano che nessuno dovrebbe prendere in mano una pistola senza controllarla da solo e non dovrebbe mai puntarla direttamente contro nessuno. 

I registi hanno una varietà di opzioni su quali pistole usano. Le pistole finte di gomma sono sempre più popolari, ma alcuni registi e attori le considerano insufficientemente realistiche per le riprese ravvicinate. Un'alternativa è usare una vera pistola che è stata modificata in modo che possa essere caricata solo con proiettili fittizi.

Sembra che Baldwin fosse uno di quei registi a cui non piaceva usare pistole finte. In un messaggio di testo, Sarah Zachry, la maestra di scena di Rust, ha detto a un amico che Gutierrez Reed aveva sempre voluto usare armi false sul set, ma questo era in conflitto con i desideri di Baldwin. 

«Ad Alec non è mai piaciuto niente di falso come le pistole e nemmeno il coltello di gomma», ha scritto. «Ha sempre voluto il vero coltello, ma alla fine gli ho dato la gomma a sua insaputa. Ha sempre voluto la sua vera pistola». 

Se è così, ora potrebbe pentirsi profondamente della sua passione per l'autenticità.

Tragedia sul set di Rust, ecco il filmato di Alec Baldwin che punta la pistola. La polizia ha diffuso una serie di video sull’incidente che è costato la vita alla direttrice della fotografia Halyna Hutchins. su Il Dubbio il 26 aprile 2022.

L’ufficio dello sceriffo della contea di Santa Fe ha diffuso un video in cui si vede l’attore Alec Baldwin puntare la pistola verso la macchina da presa poche ore prima che la direttrice della fotografia Halyna Hutchins venisse uccisa a colpi di arma da fuoco sul set di Rust. Un altro video mostra l’attore seduto nell’ufficio dello sceriffo per essere interrogato, nel momento in cui gli viene data notizia che Hutchins è morta.

Baldwin ha sempre sostenuto di non aver premuto il grilletto della pistola che ha ucciso Hutchins e di non avere idea di come un proiettile vero fosse arrivato sul set. Le immagini rilasciate dalla polizia, e raccolte nell’ambito dell’indagine sull’incidente mortale avvenuto il 21 ottobre 2021 durante le riprese a Santa Fe, in New Mexico, mostrano i primi soccorsi alla donna e gli interrogatori fatti dalla polizia, anche al divo hollywoodiano. Nell’indagine è finito anche un filmato di prova registrato sul set con Baldwin in costume mentre si esercita in una manovra rapida con una pistola. Il giorno dell’incidente l’attore si trovava all’interno di una piccola chiesa quando, puntando l’arma contro la direttrice della fotografia, ha provocato la morte di quest’ultima e il ferimento del regista Joel Souza.  

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 aprile 2022.

Sono stati rilasciati ieri dall'ufficio dello sceriffo della contea di Santa Fe i video ripresi dalle bodycam dei paramedici che tentavano di salvare la vita ad Halyna Hutchins dopo che Alec Baldwin le aveva accidentalmente sparato sul set del film “Rust”. La clip mostra gli ultimi momenti di Halyna Hutchins, si sentono i paramedici che gridano «Halyna, resta con noi!». 

Hutchins, morta all'età di 42 anni, è priva di sensi, stesa sul pavimento di una chiesa mentre i soccorritori lavorano per salvarla. Non si può sentire molto altro che incoraggiamento per Hutchins e i paramedici che si danno istruzioni l'un l'altro.

In un altro video, si può sentire la troupe di Rust, incluso Baldwin, chiedere come sta Hutchins.   Si sente Baldwin chiedere «qual è la sua diagnosi?» in riferimento a Hutchins e gli viene detto che le cose sono «un po' più difficili». 

Qualcuno può essere sentito chiedere se la condizione è pericolosa per la vita e la risposta è: «abbastanza per farsi trasportare in aereo». 

Un video mostra Baldwin mentre viene avvicinato dalla polizia per la prima volta pochi istanti dopo la sparatoria e viene avvertito di non discutere di quello che è successo con nessun collega.

Un'altra clip mostra Baldwin seduto sul retro di un camion mentre chiede un aggiornamento su Hutchins, ma viene informato dal poliziotto che i paramedici stanno ancora lavorando su di lei. Una terza serie di filmati lo mostra mentre viene interrogato in una stazione di polizia. I file dell'indagine includono anche clip di prova che mostrano Baldwin in costume mentre si esercita in una manovra rapida con una pistola. 

Lo sceriffo della contea di Santa Fe Adan Mendoza ha dichiarato che l'indagine della sua agenzia rimane aperta e in corso in attesa dei risultati delle analisi balistiche e forensi dell'FBI, nonché degli studi sulle impronte digitali e sul DNA.

«L'ufficio dello sceriffo sta rilasciando tutti i file associati alle nostre indagini in corso», ha affermato nella dichiarazione. Quei file includono anche foto di munizioni dal set e rapporti d'esame. 

Da tgcom24.mediaset.it il 27 aprile 2022.

I produttori del film "Rust" sono stati multati in riferimento all'incidente che ha portato alla morte la direttrice della fotografia Halyna Hutchins, uccisa accidentalmente dall'attore Alec Baldwin. La casa di produzione è stata fortemente criticata dalle autorità americane "per non aver seguito le linee guida sulla sicurezza". La multa massima stabilita è pari a 136.793 dollari.

Secondo il Dipartimento dell'Ambiente del New Mexico, gli studios hanno dimostrato "indifferenza per i rischi associati all'uso di armi da fuoco sul set. Ci sono stati diversi fallimenti intenzionali di gestione e prove più che sufficienti per suggerire che, se fossero state seguite le pratiche standard del settore, la tragedia non si sarebbe verificata".

Halyna Hutchins è stata uccisa e il regista Joel Souza è rimasto ferito a ottobre mentre Baldwin provava con quella che credeva essere una pistola sicura.

·        Alessandra Amoroso.

Alessandra Amoroso compie 36 anni: dagli esordi ai fidanzati alla religione. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

Dall’esordio nel talent Amici, al rapporto con Maria De Filippi che lei chiama “mamma”. Le curiosità sulla vita della cantante, che ora pare essere single

Il compleanno

Alessandra Amoroso, tra le cantanti italiane più amate e seguite, compie 36 anni il 12 agosto. E festeggia con un grande regalo e soddisfazione: “Tutto accade a San Siro”, serata evento all’insegna della sua musica, andrà in onda prossimamente in prima serata su Canale 5, che porta in tv il concerto della cantante a Milano. Una passione fortissima la sua per la musica tanto da essere entrata a far parte del Guinness dei primati per il maggior numero di duetti in minor tempo, e cioè 19 in 2 minuti.

Scrittrice

Alessandra ha nel suo curriculum anche un libro, “A Modo mio vi amo”. Un modo della cantante per ringraziare i fan per tutto il calore che le hanno sempre dato. E per averla sostenuta sempre.

Gli amori

Prima di intraprendere l’avventura di “Amici” , Alessandra Amoroso viveva a Lecce e all’epoca aveva una relazione con Marco Traficante. Terminata la storia, nel 2010 inizia una liason con l’amico di sempre Luca De Salvatore, poi è stata la volta del produttore Stefano Settepani. La fine di questa storia è stato un momento che ha segnato la cantante

Il legame con Maria De Filippi

Alessandra Amoroso è diventata famosa grazie al talent “Amici” e il suo legame con Maria De Filippi è molto forte. La stessa cantante ha dichiarato in una recente intervista: “Io la chiamo mamma. Lei è stata la prima a starmi accanto, mi ha tenuto la mano come solo una mamma sa fare”.

Suora

In passato, Alessandra ha confessato di aver voluto diventare suora. Da piccola faceva la chierichetta nelle mese, cantava nel coro della chiesa ed è ancora oggi molto religiosa. I suoi portafortuna sono una medaglia della Madonna e una di San Antonio che si è fatta regalare dalla amata nonna.

Alessandra Amoroso: «Finalmente è arrivata la felicità». «La gioia che provo è autentica perché dipende da me stessa, non dagli eventi: dopo un paio d'anni di analisi non mi sento più un'anima divisa in due» racconta la popstar, che l'11 giugno sarà a Reggio Emilia con sei colleghe per un concerto contro la violenza di genere. E il 13 luglio da sola (seconda italiana nella storia) al Meazza di Milano con "Tutto accade a San Siro". MARIA LAURA GIOVAGNINI su Iodonna.it il 28 Maggio 2022.   

A volte, basta una domanda. «I tatuaggi? Qui sul braccio ho descritto un po’ i miei sogni, nello stile dei fumetti: c’è una casa (dal camino escono due cuori) con sopra un grande sole e, davanti, io, il mio compagno e il cane; accanto c’è una “nuvoletta” con il matrimonio, una con un figlio e una con… due tombe (eh sì, vorrei stare fino alla morte con l’uomo che amo!). Poi, in ordine sparso: un corno portafortuna. La metà di un avocado (l’altra metà ce l’ha la mia migliore amica). Una cicogna per la nascita della mia nipotina, Andrea. Una croce (non ho una religiosità tradizionale, ma rappresenta la protezione del “mio” Dio). 

Un teschio messicano, sull’onda dell’entusiasmo dopo un viaggio di lavoro in America Latina. Due rondini (le mie nonne, che sono volate via). Il mio piede e la zampa del mio primo cagnone. La scritta “I knew/ Lo sabía” (me lo sentivo che la musica era la mia strada): lo stesso tattoo del mio amico/manager. Un microfono e la citazione da Sant’Agostino: “Chi canta prega due volte”. Una luna e una stella, ispirate a un ciondolo trovato in un uovo di Pasqua che mi aveva regalato la nonna: bigiotteria della peggiore, per me preziosissima. Due pezzi di Lego e due tessere di puzzle, perché ci sono incastri predestinati. Ah, c’è anche “Los Angeles”».

Et voilà, ecco Alessandra Amoroso – in un autoritratto assai più eloquente delle parole – proprio alla vigilia di due appuntamenti importanti: l’11 giugno sarà a Reggio Emilia con Elisa, Emma, Giorgia, Fiorella Mannoia, Gianna Nannini e Laura Pausini per Una. Nessuna. Centomila, il concerto che alza le voci contro la violenza di genere (gli incassi saranno devoluti ai centri antiviolenza); il 13 luglio sarà a Milano con Tutto accade a San Siro, seconda donna (15 anni dopo la Pausini) protagonista assoluta allo Stadio G. Meazza. 

Appuntamento l’11 giugno al Campovolo di Reggio Emilia per Una. Nessuna. Centomila, il concerto, il maggior evento musicale di sempre contro la violenza di genere. Si alterneranno sul palco Alessandra Amoroso, Elisa, Emma, Giorgia, Fiorella Mannoia, Gianna Nannini, Laura Pausini, affiancate da colleghi maschi.

Una. Nessuna. Centomila: come mai questo titolo pirandelliano?

Una, da sola, non può combinare niente: è nessuna. Come nella canzone di Tiziano Ferro: “Una è troppo poco, due sono tante” e noi contiamo di essere addirittura centomila alleate nelle battaglie per le donne.

Tutto può accadere

C’è ancora tanta strada da percorrere: lo dimostra il fatto che sarà solo la seconda nella storia ad avere San Siro per sé.

Sì, ma sono positiva, ottimista, super speranzosa (ah, che sensazione meravigliosa la speranza!). Non possiamo ignorare i passi avanti compiuti, l ‘energia che si respira. Le cose stanno cambiando e, poco a poco, il gender gap si colmerà persino dal punto di vista dei salari. Sono tanti gli episodi incoraggianti. Prendiamo il caso delle calciatrici, per esempio: sono state finalmente riconosciute come professioniste, al pari dei colleghi.

Già: la sua Tutto accade è la canzone ufficiale della Divisione Calcio femminile e lei è stata la prima a capitanare la Nazionale cantanti. Una vecchia passione?

Mio padre (tifoso sfegatato pazzesco) mi ha insegnato a palleggiare e, avendo tutti amici maschi, mi sono buttata. Stavo in porta e mi arrivavano pallonate allucinanti sul naso: vabbe’, mi avranno forgiata pure quelle (sorride). Al le me di e, con la scuola, ho partecipato alle gare regionali.

Che bambina era?

Mooolto vivace! E molto attaccata alle mie due sorelle e alla marea di cugini (ho dieci, spettacolari zii!). Abbiamo una chat di famiglia e ci diamo ogni mattina il buongiorno.

«Basta una scintilla e dopo tutto accade…»: la prima scintilla per la musica?

La musica mi accompagna da quando ho memoria. Uno dei regali più indimenticabili è stato il Canta Tu, quell’aggeggio per il karaoke. In realtà mamma canticchiava sempre – Mina, Battisti, Baglioni – e mi divertivo ad accompagnarla. Quando avevo qualche difficoltà, cantavo ed era l’unico modo per sfogarmi, per essere felice. Era un rifugio (la voce si spezza). Questa cosa ancora mi emoziona. Ricordo che in campagna, vicino a Otranto (è cresciuta tra Lecce e Otranto, ndr ), cantavo per… gli alberi. Una roba da matta.

Alessandra Amoroso e la spiritualità

Da spiritualità orientale, semmai. Oggi il forest bathing è una pratica di benessere trendy.

Mi piace parlare con le piante: mia nonna mi ripeteva che le fa crescere meglio. Tutto quello che so, me lo ha insegnato lei.

E ora la scienza l’ha dimostrato. Ma vedo che è ancora facile alla commozione.

È che credo nel potere della musica: ha fatto tanto per me, sono sicura che può fare tanto per altri. Sono sempre stata giudicata per la mia sensibilità, però ora ho imparato a difendermi dai giudizi. Troppa era l’emotività e mi rendeva vulnerabile rispetto a persone che neppure se lo meritavano. La differenza con il passato è che ho iniziato a tutelare le mie lacrime, a non sprecarle. Devono essere versate per cause giuste.

Come è passata dal canto come urgenza interiore al canto come professione?

A un certo punto mi sono resa conto che avevo qualcosa da dire e intendevo dirla. Ho aspettato il mio diciottesimo anno, nel 2004, per il provino di Amici. Non è andato bene. Ho iniziato a fare la commessa in un negozio di abbigliamento ma, nel 2008, ho pensato: sai che c’è? Non ho mai visto Roma, vado in vacanza lì con un’amica e ne approfitto per riprovarci, senza aspettative eccessive. E invece da lì, dalla vittoria in quel talent show, è cambiato tutto.

Le cinque canzoni che hanno rappresentato una svolta e non potranno mancare a San Siro?

Immobile, la prima. Senza nuvole, il primo album, nel 2009. Stella incantevole, dedicata alle persone che non ci sono più ma sono parte dell’universo, sono astri.

La morte è un chiodo fisso.

Non ho paura della morte, in realtà: mi piace rendere omaggio – sia nei testi, sia nei tatuaggi – a chi nella mia vita ha avuto un ruolo fondamentale. All’elenco vorrei aggiungere Difendimi per sempre e Amore puro, emblematiche del legame con il mio pubblico, che io chiamo “big family”. Mannaggia, pure questo mi commuove… Oggi, ‘na traggedia … (sorride con gli occhi lucidi). I miei traguardi sono merito della mia gente, che mi ha immancabilmente teso la mano, pronta a tirarmi su. Sono caduta parecchie volte, emotivamente.

In che senso?

A 22 anni ero piccola, “scoperta” in un mondo troppo grande per me, che non mi apparteneva: a Roma, dove si procedeva così di corsa… Avevo perso la mia quotidianità a Lecce (svegliarmi, presentarmi al negozio, incontrare le amiche, pranzare con mia nonna la domenica). Mi sentivo diversa, per fortuna ho capito che sono capace di resistere in questo ambiente pur con la mia diversità. Sprecavo le mie energie, oggi le canalizzo. (tira fuori una sigaretta)

Fuma?

Eh, io e la perfezione siamo due pianeti distinti, ma va bene così: sto imparando l’accettazione. Ci sono voluti una pandemia e due anni e mezzo di analisi, che adesso non abbandono di certo: definisco la psy (la psicologa, ndr) “la mia fatina del cervello”, sembra abbia una polvere magica ogni volta che ci parliamo. Mi spiega: tu hai già gli strumenti, io ti do la possibilità di vederli e saperli utilizzare. 

Alessandra ha raggiunto il successo nel 2009 con la vittoria del talent show Amici. Qui con Maria De Filippi e gli altri finalisti dell’ottava edizione: Luca Napoletano, Alice Bellagamba, e Valerio Scanu. Foto Ansa

A proposito di psicoanalisi: “Porterò le mie due anime a San Siro, Alessandra e Sandrina” ha detto. Pirandelliano anche questo: la protagonista di La signora Morli, una e due, Evelina, per qualcuno era Eva, per qualcuno Lina…

Il percorso di accettazione cui accennavo mi è servito a capire che non esiste Sandrina, come mi chiamavano in famiglia (la svagata, eccessivamente accomodante, malinconica e al tempo stesso troppo piena di entusiasmo, esagerata), senza Alessandra (quella che canta, lustrini-paillettes-riflettori; forte, mai inopportuna). Poi ho capito che i limiti me li mettevo da sola, Sandrina e Alessandra facevano a botte non capendo che una non poteva esistere senza l’altra, che l’una era il valore aggiunto dell’altra. A lungo mi sono svalutata.

Un male femminile.

Forse per la donna del Sud ancora di più: dev’essere sempre dedita al sacrificio, deve trovare per forza l’uomo della vita. Uno stress! Dev’essere la figlia perfetta, la nipote perfetta, l’amica perfetta, la commessa perfetta, la cantante perfetta… Io non sono perfetta, Alessandra e Sandrina sono proprio cool entrambe!

E l’amore, in questa fase della vita? I guru delle relazioni sostengono che, quando una è forte sulle sue gambe, si presenti quello giusto.

Allora sta per presentarsi! Io sono pronta, perché sono fortissima sulle mie gambe. Non ho bisogno di un compagno per essere completa, mi completo da sola. La felicità finalmente è arrivata. La felicità vera, quella che parte da me stessa, non dagli eventi esterni.

·        Alessandra Celentano.

Alessandra Celentano, dalla castità alla patologia al piede. Le cose che non sapete di lei. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2022.

E’ una delle insegnanti più temute della scuola di Amici. Ma ha partecipato ad altre trasmissioni televisive: la sua passione? I cani

La carriera

Alessandra Celentano, oggi volto di “Amici”, è nata a Milano il 17 novembre 1966. Sin da bambina ha iniziato a studiare danza con maestri di fama internazionale, tra cui gli ex danzatori scaligeri Piera Casbelli, Ornella Costalonga e Francesco Aldrovandi, fino a perfezionarsi all’Opera di stato di Budapest. Successivamente, grazie a una borsa di studio, ha frequentato il Corso di Perfezionamento Professionale di danza a Reggio Emilia, che anni dopo la vedrà come docente. A metà degli anni ’80 entra a far parte dell’Aterballetto diretto da Amedeo Amodio, dove interpreta ruoli da prima ballerina accanto a grandi interpreti del mondo della danza tra cui Elisabetta Terabust e Alessandra Ferri prendendo parte a tournée in Italia, Europa, America, Brasile e Canada.

Casta da 13 anni

La maestra di danza del talent Amici di Maria De Filippi si è separata dal marito, Angelo Trementozzi, nel 2012. Da allora non ha avuto nessun amore, neanche un flirt. In un’intervista a “Belve” ha ammesso di essere casta da tredici anni.

Non solo Amici

Non è sempre stata solo insegnante. Nel 2014 so è cimentata come concorrente di Pechino Express, in coppia col coreografo Corrado Giordani. I due sono arrivati settimi. Ha avuto anche il ruolo di mentore in entrambe le edizioni di Selfie – Le Cose Cambiano, il programma di Simona Ventura.

Zio speciale

Come suggerisce il cognome, è la nipote del grande Adriano Celentano. E’infatti figlia di suo fratello Alessandro.

Appassionata di cani

Alessandra ama moltissimo gli animali, in particolare i cani. Nella casa in cui vive ha quattro cani suoi e quattro che appartengono alla sorella.

Lacrima facile

Nonostante sia nota per essere l’insegnante più dura e severa della scuola di Amici, spesso piange. Ha dichiarato alla rivista “Oggi”: «Piango spesso. Una bella musica fa piangere. Un film può farmi piangere. I ricordi, quelli sì, mi fanno spesso scendere le lacrime».

L’alluce rigido

La maestra durante un’intervista rilasciata a DiPiù che ha rivelato di soffrire dell’alluce rigido, una sindrome che colpisce i danzatori. “La sindrome dell’alluce rigido – ha dichiarato a DiPiù – che colpisce le articolazioni del primo dito del piede logorandole a poco a poco e provocando, di conseguenze, grossi problemi alle ossa e dolori atroci. Si tratta di un male diffuso fra i ballerini – ha spiegato – perché è causato dalla eccessiva usura del piede e, se curato in tempo, non è grave”.

Alessandra Celentano, la confessione: «Non faccio sesso da 13 anni». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022.

La professoressa di “Amici” ha parlato nell’intervista a “Belve” incalzata da Francesca Fagnani. La puntata verrà trasmessa su Rai2 martedì sera

Alessandra Celentano, volto e professoressa di “Amici”, si è confessata a Francesca Fagnani nell'intervista a “Belve” che verrà trasmessa martedì sera. Alessandra Celentano,55 anni, ha detto di non fare sesso da 13 anni e di avere i suoi motivi per una simile scelta: «Sono sempre stata un po’ difficile, quelli più giovani di me non li guardo, quelli più vecchi di me non li guardo, quelli della mia età mi sembrano un po’ passatelli, quindi capisce che è difficile" ha detto la Celentano (in base a quanto si legge su Davidemaggio.it "Questo è un vero gossip, non lo sa nessuno». E non si è fatta attendere la risposta di Fagnani: «Vedrà adesso quante proposte…».

Un altro tema toccato nell’intervista è stato quello della mancata maternità: «Mi è dispiaciuto perché è stata la causa della mia separazione, abbiamo anche provato a fare delle inseminazioni che non sono andate in porto e a un certo punto mi sono fermata perché l’accanimento non mi piace: vuol dire che non doveva essere».

"Questo è un vero gossip, non lo sa nessuno". Alessandra Celentano: “Non faccio sesso da 13 anni, sempre stata un po’ difficile”. Vito Califano su Il Riformista l’8 Novembre 2022

Alessandra Celentano si confessa a tutto tondo in un’intervista su Rai2. E la notizia diventa virale in pochi minuti. Perché a fare scalpore, tra media e social, è la confessione della professoressa di Amici, il talent show cult di Maria De Filippi su Mediaset. “Sono casta da 13 anni”, ha rivelato la 55enne coreografa, insegnante ed ex ballerina nel programma Belve, condotto da Francesca Fagnani, in onda questa sera in seconda serata.

“Sono casta da 13 anni – ha detto Celentano – Sono sempre stata un po’ difficile, quelli più giovani di me non li guardo, quelli più vecchi di me non li guardo, quelli della mia età mi sembrano un po’ passatelli, quindi capisce che è difficile”. Le parole di Celentano sono state riportate nelle anticipazioni della puntata. “Cioè, mai avuto uno da più di 13 anni?”, ha quindi pressato la conduttrice e Celentano ha ribadito: “Questo è un vero gossip, non lo sa nessuno”, ha aggiunto ancora. “Vedrà adesso quante proposte…”, ha ribadito con ironia la conduttrice.

Alessandra Celentano è figlia di Alessandro Celentano, fratello del celebre cantautore Adriano Celentano, e cugina del cantautore Gino Santercole. Da giovane ha perfezionato lo studio della danza all’Opera di Stato di Budapest e a Reggio Emilia. È stata sposata con il commercialista e docente universitario Angelo Trementozzi dal 2007 al 2012.

“Mi è dispiaciuto perché è stata la causa della mia separazione – ha detto a proposito del delicato tema della maternità mancata – , abbiamo anche provato a fare delle inseminazioni che non sono andate in porto e a un certo punto mi sono fermata perché l’accanimento non mi piace: vuol dire che non doveva essere”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        Alessandra Ferri.

Alessandra Ferri: «Per amore ho fatto follie. Il divorzio fu un grande dolore, è stata la danza a salvarmi». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.

La ballerina: da bimba portai i fiori in camerino a Carla Fracci. Finché me lo chiederanno continuerò a danzare, anche invecchiando siamo esseri splendenti. 

Alessandra Ferri, 58 anni, è stata étoile al Royal Ballet di Londra e all’American Ballet Theatre di New York

Alessandra Ferri è la ballerina italiana più famosa al mondo, è stata étoile sia al Royal Ballet di Londra sia all’American Ballet Theatre di New York. Ora è in Italia in tournée, nonostante nel suo ambiente si vada in pensione a 35 anni mentre lei di anni ne compie 59 il 6 maggio. Capelli sciolti, dolcevita nocciola, finite le prove, sembra stare tutta dentro un unico gesto più volte ripetuto nel corso della conversazione. È quello che fa con le mani, facendole roteare con grazia nell’aria come per scacciare una parola a lei molesta, eppure impossibile, nel suo caso, da evitare. La parola è «carriera» («mi chiede di ripercorrere la carriera, ma non amo questa parola...», oppure: «Ho scelto la maternità all’apice della... carriera. Possibile che non ci sia un’altra parola? Percorso? Vita artistica?»).

Perché detesta questa parola?

«Perché implica un lavoro più che una vocazione. Perché implica una certa strategia più che un sogno realizzato. Perché io sono più contenta quando lavoro che quando sto in vacanza».

Quante scarpette da danza ha consumato in 40 anni di «carriera»?

«Penso due paia al giorno per le prove e due paia per ogni spettacolo».

A spanne, trentamila?

«Non le ho mai contate... Nei Giorni felici di Beckett, da cui è tratta L’Heure Exquise che dal 14 aprile sto portando in giro per l’Italia, Winnie è sepolta in un cumulo di sabbia che sale adagio adagio, finché lei ci sparisce dentro; la mia Winnie, invece, è sommersa dalle scarpette usate, ovvero dal tempo che avanza, soffocante, ed evoca una fine vicina della vita».

La sua Winnie, che da oggi e domani è anche a Milano al Piccolo Teatro Strehler, è una ballerina âgée che vive nei ricordi dei giorni felici. Lei invece, nel 2007, disse addio al palcoscenico, ma poi è tornata. La lontananza dalla danza era insopportabile?

«I primi tre anni, mi sembrava di stare in vacanza. Poi, ho cominciato a sentirmi come se fossi chiusa in una stanza in cui si era spenta la luce. In moltissimi momenti della vita, anche in pandemia, dovermi alzare tutte le mattine e affrontare una lezione che a volte la detesti, la odi, è una disciplina che salva. Willy Burmann, il mio maestro di New York, mi diceva sempre: Alessandra, la mattina fai la doccia, vieni a lezione e, dopo, pensi. A volte, sei contentissima di farlo, ma avere avuto tanti giorni belli e tanti in cui non ne potevo più mi ha reso fortissima».

Da quando è tornata a ballare nel 2013, i maggiori coreografi hanno voluto creare da zero ruoli per lei, realizzando un repertorio adatto a una cinquantenne che prima non era mai esistito. Com’è stato possibile?

«Non avevo immaginato un secondo capitolo, invece Wayne McGregor ha creato per me il ruolo di Virginia Woolf in Woolf Work e poi Afterite, che porterò a giugno alla Scala; John Neumeier ha creato Duse ; Martha Clarke ha creato Chéri... tutti ruoli che mi rendono felice perché sono convinta che, anche invecchiando, siamo comunque esseri splendenti. Amo questa parte della mia vita artistica e di donna perché mette l’accento non sulla prestazione, che non può essere più quella dei vent’anni, ma su introspezione e conoscenza di sé. Se volessi rifare Manon, Giulietta, Carmen, sarebbe una debolezza».

Le faceva paura il ritorno in scena?

«Ero terrorizzata: se sei ferma da sei anni, il corpo non torna uguale con uno schiocco di dita. C’è una vocina dentro che dice: sei pazza, non ce la farai. L’altra vocina dice: stai zitta e fallo. In questo, la danza è uno specchio interiore: impari a distinguere la vocina della paura dalla voce del sé che dice “questa cosa va fatta, punto”. C’è la voce del corpo fisico, che è piccolo, e poi c’è la voce dell’anima, che è immensa».

Mi descrive in un’immagine la fatica della ballerina?

«Intanto, deve immaginare che noi abbiamo dolori sempre. Quando le figlie erano bambine, arrivavo a casa dopo cinque ore di prove, distrutta, e passavo il pomeriggio sdraiata».

E oggi che ha vent’anni di più?

«È più faticoso, ci sono più dolori. Da ragazza, fai colazione e via, pam! Salti. Adesso, mi servono due ore di preparazione: ho un problema alla caviglia non risolvibile e devo riscaldarla. Il mio partner sbagliò un movimento, me la ruppi e non ho più dei legamenti e della cartilagine».

E come fa a danzare?

«Mi fa male. Ma se impari a conoscere il dolore fisico, puoi superarlo».

Com’era Alessandra Ferri da bambina?

«Già a tre anni vivevo delle storie dentro di me e sentivo un’altra realtà che mi chiamava. E anche se i miei non frequentavano i teatri, dissi: voglio andare a scuola di danza. Mi hanno iscritta e per me fu subito chiaro che era la mia vita: non è che mi piaceva il tutù, non era una cosa trallallero trallalà, mi piaceva proprio lo studio, capivo che era la mia chiave per aprire la porta della libertà interiore».

Viene dalla borghesia milanese, papà ingegnere, mamma casalinga: quanto l’hanno sostenuta?

«Passeggiavo con mamma a Milano quando vidi il bando per la scuola della Scala. Nel frattempo, ci eravamo trasferiti a Monza, ma io dissi: voglio studiare lì. Ricordo la riunione familiare, attorno al tavolo della cucina. Mamma era stata maestra e aveva dovuto rinunciare al lavoro, ma teneva all’indipendenza femminile e convinse papà a farmi fare le medie alla Scala».

E quando a 15 anni fu presa al Royal Ballet di Londra?

«Ormai, avevano capito dagli insegnanti che avevo talento. Non avere i miei contro e sapere che non dovevo dimostrare a nessuno che avevo ragione mi diede un enorme sostegno. Per loro, era anche uno sforzo economico non da poco e non esistevano telefonini, ma solo un appuntamento settimanale in una cabina telefonica».

A Londra, diventerà prima ballerina.

«Fu straordinario l’incontro con Sir Kenneth McMillan, questo grandissimo coreografo che iniziò ad affidarmi ruoli importanti. Al mio esordio come prima ballerina, in Mayerling, ero nervosissima. Ricordo che salii sul palco e sentii in petto come una bolla di sapone che scoppia, una sensazione meravigliosa di connessione col pubblico che non dimenticherò mai, quel sentirsi più grandi del corpo che siamo».

Un incontro emozionante della «carriera»?

«Intanto, Mikhail Baryshnikov, che nell’85 mi portò a New York».

Anche lì, étoile.

«Mi avvicinò a Milano, dopo Il Lago dei Cigni di Franco Zeffirelli alla Scala. Mi chiese: verresti all’American Ballet Theatre? Risposi: sì, anche domani mattina. Avevo 21 anni. Nel primo spettacolo che facemmo insieme, Giselle, a Miami, vederlo provare senza sosta nonostante un grosso problema al ginocchio m’insegnò tantissimo. Poi, naturalmente, c’è stato l’incontro con Roland Petit, a Marsiglia, ballando Carmen. Con lui ci fu proprio una scintilla. Quindi, Julio Bocca: io 21 anni, lui 19 e abbiamo ballato insieme per oltre vent’anni».

Prima figlia nel 1997: quanto ci pensò prima di mettere in pausa la danza?

«Per nulla, fu una decisione d’amore, mi sono detta: sono una donna che balla e le due cose devono convivere. Sapevo che, se avessi sacrificato la danza, avrei odiato la famiglia e, se avessi sacrificato la maternità, avrei odiato la danza. Quando Emma e Matilde erano piccole, viaggiavano con me, le ho portate ovunque. Quindi, mi sono fermata, ho fatto la mamma e la moglie e, quando sono tornata a ballare, uscivamo da un periodo difficile, dalla mia separazione: riprendere a danzare è stato importante per me e per le figlie, perché hanno visto quanto conta avere indipendenza emotiva».

Il divorzio dal suo secondo marito, il fotografo Fabrizio Ferri, fu così doloroso?

«È stato uno di quei momenti in cui la danza mi ha salvata. Era stata una storia d’amore bellissima, il divorzio è arrivato inaspettato».

Vi incontraste a Pantelleria a casa di Isabella Rossellini e lì nacque il libro fotografico «Aria» che suscitò stupore per i nudi.

«Fu l’incontro di due artisti che poi si sono amati moltissimo, che hanno voluto parlarsi e conoscersi attraverso la propria arte. Nacque prima l’idea del libro e, mentre lo realizzavamo, l’amore».

Finiste in cronaca rosa anche per la separazione che ne conseguì dal suo primo marito. Scrissero che lui la chiuse a chiave fuori casa o che prese a sassate il loft di Fabrizio. Era vero?

«Diciamo che, fu un tale colpo di fulmine che lui non la prese bene. Lo capisco. Tutte le storie, finendo, hanno momenti difficili, melodrammatici. Si fanno follie per amore e per dolore».

Lei che follie ha fatto?

«Viaggi per vedere Fabrizio per poche ore».

Ora, è innamorata?

«Della vita, quello sì. Mi eccito quando posso dire: wow, la vita continua. Quattro anni fa, ho deciso di lasciare New York e, in un mese, ero a Londra: ci sto bene, sono più vicina alle figlie, che vivono a Milano. Matilde ha 24 anni e si occupa di moda e pubblicità, Emma ne ha 20 e studia Scienze Enogastronomiche».

Tornerà a vivere in Italia?

«Prima o poi, credo di sì. Gli affetti sono qui».

Al «Gala Fracci» il 9 aprile alla Scala, c’era anche lei. Che rapporto ha avuto con l’étoile mancata un anno fa?

«Ho fatto un estratto di Exquise, che fu creato per lei da Maurice Béjart. La prima volta che vidi Carla, ero una bimba della scuola di ballo che le portava un mazzolino di fiori in camerino. Per me, è stata un’icona. Più avanti, abbiamo diviso il palco, mi ha dato consigli. Una volta, mi disse: mi dicono sempre che sono dura, ma bisogna essere così o ti rivoltano come una bistecca. Aveva ragione: è verissimo».

Lei fino a quando ballerà?

«Io, a ogni richiesta che arriva anche per gli anni a venire, rispondo: sì, va bene».

·        Alessandra Mastronardi.

Alessandra Mastronardi: ora al cinema divento cattiva. Da ragazza ero scomoda per le mie amiche. Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

Conosciuta per i ruoli da ragazza della porta accanto, l’attrice è la compagna di un narcotrafficante nel film in cui Nicolas Cage racconta i suoi (veri) fallimenti. «Il film tv su Carla Fracci? Siamo stati sfortunati. Sono tornata single, mi guardo intorno». 

Alessandra Mastronardi è severa con se stessa, autocritica; l’aspetto garbato e gentile tante volte l’hanno indirizzata verso ruoli da ragazza della porta accanto. «Meg Ryan ci ha costruito la carriera. Io lo vedo come un limite».

Cambierà registro?

«L’ho appena fatto. In Altrimenti ci arrabbiamo sono una gitana circense, maneggio il coltello, addestro tigri e parlo una strana lingua inventata da me. E sono la donna di un narcotrafficante, In The Unbereable Weight of Massive Talent di Tom Gormican (in uscita il 22 aprile), dove Nicolas Cage racconta se stesso. Ma fino a un certo punto».

Cioè?

«Lui scherzando dice: questa è la storia di Nick Cage, non di Nicolas Cage. E’ basato sulla sua vita, sulle sue insoddisfazioni d’attore, certe scelte sbagliate, i debiti. Ma è romanzata sul narcotrafficante messicano suo fan che lo invita al compleanno e Nicolas viene ingaggiato dalla Cia per avere informazioni. E’ una commedia degli equivoci. Lui dice che la cosa più difficile sarà di far capire cosa c’è di vero e cosa di fiction, per esempio, dice sempre che lui, al contrario, del film, non trascura i suoi figli».

Perché vive a Londra?

«Avevo bisogno di cambiare aria, di crescere, di alzare l’asticella. L’ho deciso sette anni fa. Ho vissuto lo shock del pre e il dopo Brexit, il caro vita, i supermercati mezzi vuoti, gli amici che andavano via».

L’Italia vista da lontano?

«La ami molto di più, metti a fuoco le cose belle, la luce di Roma, i colori caldi che vanno dall’arancio al seppia, diventa una città all’improvviso romantica. Quando torno mi vengono addosso i difetti, soprattutto l’abbandono».

Ha iniziato giovanissima.

«A 12 anni, per caso. I miei genitori lasciavano me e mia sorella in vacanza al mare a Fregene, dove organizzavano giochi e una sfilata per bambini. Mi notò una agente di cinema e mi propose un provino. Mio padre, psicoterapeuta, mi disse sì purché fossero solo impegni estivi o nel week-end. Il mio primo film fu, con Barbara D’Urso, Il manoscritto di Van Hecken».

Com’è stata la sua adolescenza?

«Gli anni del liceo sono stati i più difficili. Recitavo, ero scomoda per i compagni di classe, a un mio spot con Ozpetek regista e Gianni Morandi, e loro mi prendevano in giro, ero abbastanza bullizzata, anche se all’epoca non esisteva questo termine, mi rubarono il cellulare…L’appiglio erano i genitori».

E il lavoro?

«Fino a 25 anni non avevo il coraggio di scrivere sul documento d’identità che ero attrice. Lo sono diventata sul campo, da autodidatta. Se vai in una scuola di recitazione e sbagli, ti correggono; se sbagli davanti a milioni di telespettatori…Ho avuto la sindrome dell’usurpatrice di ruoli. La mia scuola è stata I Cesaroni , solo che poi crescevo, volevo emanciparmi da quella romanità popolana e folk, mi sentivo sempre rigettata indietro. Sbagliavo io, ho imparato con gli anni».

Lei ha fatto 25 film e 19 serie tv, però viene percepita come attrice televisiva.

«E’ vero, perché ho fatto serie molto popolari e mi manca il film col morso. Però ho amato L’ultima ruota del carro di Veronesi con Elio Germano che ti porta per mano, le scene prendono vita e non te ne accorgi, tutto viene non solo naturale ma sentito. La serie che amo è L’allieva, dove sono una svampita tra le nuvole, ma non stupida, a metà strada fra Il diario di Bridget Jones e Alice nel paese delle meraviglie e Sex and the City».

Il film tv su Carla Fracci era troppo zuccheroso?

«I pareri sono stati discordanti. La sfortuna fu che morì in quei mesi, era come se tutti si aspettassero un film su di lei a posteriori, alla memoria. Non era così».

Come vive i provini?

«Sono la parte più dolorosa del mestiere, quando vanno male sono un rifiuto, è difficile non prenderla sul personale. Un regista una volta mi disse che mi avrebbe presa se avessi avuto un altro tono di voce, il mio lo infastidiva».

Ha lavorato con Woody Allen, Clooney, Pattinson...

«Woody Allen in To Rome With Love era di poche parole ma affilate come un bisturi, cambiò direzione a una scena di cui non era convinto dandomi un bicchiere in mano, fingendomi ubriaca prese un’altra piega; lo spot con George Clooney, beh lui chiamava tutti per nome, fino all’ultimo arrivato, ed è un segno di rispetto; lo stesso che ha avuto Pattinson in Life (sul fotografo che seguiva James Dean) : era sempre sul set, anche nelle scene che non lo riguardavano».

Ha 36 anni, si sposerà col suo fidanzato, l’attore scozzese Ross McCall?

«Veramente ci siamo lasciati, è durata quattro anni. Sono una da storie lunghe. Purtroppo non è andata. Ora mi guardo intorno, respiro la primavera».

·        Alessandro Bergonzoni.

Clotilde Veltri per repubblica.it l’11 Dicembre 2022.

Di se stesso lei dice: "Sono un passante che passa da un pensiero a un altro, sono copritore di distanze tra un malato e un sano, un vecchio e un giovane". Alessandro Bergonzoni è diventato questo?

"Il passante è colui che va da una parte all'altra, ma è anche la parte dell'asola che lega, che annoda e può essere slegata. Il passante è qualcosa che oltrepassa e questo oggi è il mio lavoro, come azione e immedesimazione. Da quattro anni mi interrogo sulla No Man's Land, cosa accade nella terra di nessuno che c'è tra gli spettacoli, le mostre, le presentazioni dei libri, gli incontri nelle scuole, nelle carceri. 

Accade che non posso più fare solo il mio mestiere, vivere soltanto della mia biografia, di quello che può condurmi a essere una persona di successo. Più che il successo mi interessa il far succedere, più dell'avvenenza il poter avvenire".

Quindi è cambiato il suo ruolo di artista, un tempo si diceva impegnato...

"L'artista deve guardare oltre, e si tratta di un lavoro sovrumano perché il tema dell'umano è finito. Il salto quantico è quello della sovrumanità. Non posso più solo guardare i migranti e piangere, devo immedesimarmi, devo superare il confine. La gente pensa che il dolore lo prova solo chi ne è afflitto ed è giusto, ma come direbbe Einstein questa è la teoria della relatività mentre a me interessa la pratica dell'assoluto. Come posso mettere in pratica l'assoluto? Devo cercare di andare il più vicino possibile, quasi fin dentro l'altro".

Ha coniato un verbo, "capolavorare", che significa?

"Vuol dire smettere di fare solo il proprio mestiere e farne altri con incanto. Voglio prendere delle lezioni di incanto. Il ponte Morandi è caduto perché qualcuno non ha saputo capolavorare. A Ischia succede quel che succede perché l'uomo non capolavora più, al massimo lavora, ma non lavora ad arte". […] 

Cito: "Venga dopo il politico, prima si guardi al polittico che letteralmente significa forma sacra, qualsiasi opera d'arte costituita da più elementi distinti, ma collegati tra loro". È un deluso della politica?

"Sì, sono triste e deluso dalla politica, ma sono stanco-vivo non stanco-morto nel senso che non sono rassegnato, la mia è disperanza. Ma la speranza non serve a niente se non hai un'energia ulteriore che è quella che ognuno di noi può tirare fuori. Tutti sostengono che è nel dolore che si comprende, io credo che sia anche nella meraviglia, nell'incanto e nell'immedesimazione. Se togli alla parola Ministero la n e la i resta mistero. Questo chiedo alla politica, di vedere oltre. Molti dicono che servono nuovi leader, ma a noi servono nuove anime, capesante".

Cosa c'entrano le capesante?

"C'entrano perché si parla sempre di eletti che, alle elezioni, sono i votati, ma i veri eletti sono quelli che hanno una grazia particolare. Uno dice: mica posso essere Leonardo o Michelangelo o Gino Strada o don Ciotti. Ma queste persone sono come noi, non sono diverse, il fatto di andare oltre è quello che ne fa delle capesante". 

Quindi il salto quantico è non voltarsi dall'altra parte...

"In assenza di una costituzione interiore, la bellezza della nostra Costituzione tanto decantata, non serve a niente. La mia costituzione interiore me la devo costruire personalmente, ci vogliono scuole d'anima, non scuole di partito. È inutile che il parlamento applauda Liliana Segre quando dice che in Libia ci sono gli stessi lager dove è stata lei, se poi lasciamo che la legge Minniti rispedisca i migranti in quei lager. Serve una poetica più che una politica".

I suoi strumenti: le parole e la comicità.

"Io uso la comicità e non la voglio dimenticare, né svendere. Non voglio diventare quello che dice: prima facevo il comico e ora faccio altro. La chiamo arte contemporanea nel senso che contemporaneamente fai tutto. 

La comicità è un mix di religione, cattiveria, bontà, sanità, c'è paura, c'è liberazione, protesta, dolcezza e lo spettatore che ride a stancamento, esausto, come dicono a Napoli fa un'esperienza, per me è fondamentale. Perché anche la risata occupatoria e non liberatoria è una forma di frequenza, di sacralità, di grande liberazione e impegno del corpo. E lavora sul cervello, sull'anima, sulle cellule che vibrano in modo diverso, perché la risata è potente, è una forma di meditazione e di cura". […]

Recentemente ha spiegato che, durante il Covid, il cinema le è mancato, la tv l'ha odiata.

"I talk show sono inverecondi: si litiga, si presentano i libri, con dietro le foto dei morti - del covid, della guerra, delle catastrofi - e intanto tutti ridono, fanno battute, litigano. Noi abbiamo bisogno di cominciare a trasmettere elettricità, frequenza, luce. Non possiamo avere venti trasmissioni identiche con la stessa mancanza di sensibilità. Per forza c'è indifferenza come dice il nostro arcivescovo Zuppi. Ci siamo abituati all'abitudine, è devastante.

 L'arte e la poesia chiedono altro. Conta quello che stiamo facendo nell'Universo solo che se lo dice Dante e qualcuno lo legge siamo contenti, se lo dice qualcuno citato dai famosi tarzaniani - citacitacita - ci commoviamo. Tutti citano qualcuno, ma non diventiamo mai Dante, non diventiamo mai Alda Merini, mai Montale. Noi stiamo a guardare. Ecco i dieci demandamenti, fallo tu, pensaci tu, organizzalo tu".

·        Alessandro Borghese.

Da corriere.it il 4 settembre 2022.

La domanda arriva alla vigilia della ripartenza in tv di Celebrity Chef, il talent culinario giunto alla seconda stagione dopo il successo della prima, girato interamente nel nuovo ristorante veneziano di Borghese. 

In un’intervista al Messaggero, lo chef torna su un tema di cui aveva già parlato, tre anni fa, proprio al Corriere: il figlio che non ha mai potuto vedere, un bambino venuto al mondo nel 2006, prima del matrimonio con Wilma Oliverio (avvenuto nel luglio 2009) e della cui esistenza Borghese ha saputo molto tempo dopo la nascita.

Oggi Borghese ha due figlie con Wilma, Alexandra e Arizona, di 6 e 11 anni, e si occupa del ragazzo dal punto di vista economico e legale. «Una situazione molto delicata: appena mi è stato comunicato ho fatto gli accertamenti del caso e ora gestisco la situazione dal punto di vista economico e legale. 

Insomma, ho fatto tutto quello che bisognava fare. Certo, mi piacerebbe vederlo ma non ne ho mai avuto l’opportunità, non me lo permettono. Ormai è grande», ci aveva già raccontato tre anni fa. L’incontro finora non è avvenuto e oggi il ragazzo vive all’estero.

Sul fatto in sé, questo era stato il commento di Borghese: «Non è mica un assassinio, è una cosa che capita e che è capitata a me come a centomila altre persone. La madre non era nemmeno una fidanzata: prima di sposarmi con Wilma ho avuto trascorsi diciamo sportivi». E aveva aggiunto: «Non parlo molto della mia vita privata, proteggo molto anche le mie ragazze, però su questa storia non ho nulla da nascondere. E anche scoprirlo, all’epoca, non era stato affatto choccante: appunto, non è un delitto». Da domani lo chef torna su Tv8 con Celebrity Chef, in onda dal lunedì al venerdì alle 19.10: una sfida ai fornelli tra vip. A giudicare i loro piatti, oltre a Borghese, la food editor del Corriere Angela Frenda e lo chef stellato Enrico Bartolini. 

Fulvio Cerutti per “la Stampa” il 20 agosto 2022.  

«Se vuoi conoscere il carattere di un uomo, scopri cosa pensa il suo gatto di lui».

Quando Alessandro Borghese riporta questo proverbio sui social allega una foto che riassume tutto l'amore per i suoi felini: il micio è seduto sulle sue gambe mentre lui lo accarezza con quello sguardo perso di chi nutre un sentimento speciale. 

«Io mi sento un "collezionista di gatti", anche perché mi piacerebbe averne di più. Per ora però i nostri tre cuccioloni sono più che sufficienti - racconta lo chef e conduttore televisivo -. Il mio è un legame che viene da lontano: io mi trovo in mezzo ai gatti fin da quando ero un ragazzino. Una passione che mi ha trasmesso mia madre. Poi insieme a mia moglie e alle mie piccole abbiamo deciso di prendere dei micioni, mantenendo una tradizione che si può dire di famiglia». 

E dei tre uno è una star con tanto di profilo Instagram dedicato (@tokyoborghese) in cui si mostra, a quasi 16mila follower, in tutte le sue posture più buffe e annoiate: «Si chiama Tokyo perché quando lo abbiamo guardato la prima volta ci ricordava un mix fra Giuliano, il gattone paffuto di Kiss Me Licia, e Garfield. Pensando ai fumetti nipponici ci è venuto automatico chiamarlo Tokyo. Aveva un po' la faccia stampata da gattone giapponese»

Riassumendo, come è composta la famiglia "pelosa"?

«Tokyo, è il nostro cucciolone di casa, il primo che abbiamo preso: è arancione, ha sei anni, l'età della mia figlia minore Alexandra. Poi sono arrivate due sorelle di un anno e mezzo: Crystal, tigrata con la pancia bianca, e Savannah, marrone con macchie più chiare. Tutti e tre sono degli Exotic Short Hair e amano rimanere in casa a poltrire. In questo Tokyo è il campione. 

Crystal è quella che cerca di comportarsi da gatto: esce in giardino, dà la caccia a una lucertola e poi te la porta tutta contenta e fiera. Savannah è invece una gatta un po' speciale: è nata con dei problemi, ma noi non l'abbiamo voluta separare da Crystal e l'abbiamo fatta curare e adesso va alla grande».

Che rapporto hanno con lei? Come si comportano?

«Tokyo è quello che viene sempre a cercarmi quando rientro dal ristorante, da qualche programma tv. Nel periodo estivo, quando mia moglie e le figlie escono di più, lui mi accoglie all'ingresso più o meno come un essere umano annoiato: seduto sul suo sedere, con le gambe larghe e con la schiena appoggiata su se stesso. In una posizione altamente ambigua. Ma come sappiamo i gatti fanno determinate cose e noi non sapremo mai perché le fanno» 

E le altre due?

«Le sorelle hanno dei caratteri molto diversi: Crystal come dicevo è la più esploratrice, ma è anche quella che quando la tieni in braccio ti fa più coccole di tutti e tre. Poi sa, mentre Tokyo è un poltrone, una sorta di soprammobile con le zampe e se ne sta per i fatti suoi nei punti freschi della casa, le altre due interagiscono molto con le mie figlie che le coccolano, le spazzolano e ci giocano».

Con tre gatti in casa come sono le gerarchie in famiglia?

«L'unica cosa certa è che io vengo per ultimo nella piramide: vivo in un mondo di donne. Avevo trovato in Tokyo un potenziale alleato maschio, ma la sua pigrizia non mi ha aiutato. Però devo ammettere che sono anche primo perché ovviamente vengono coccolato da tutte» 

È vero che fa sport con loro in giardino?

«Sì, io faccio un po' di stretching e loro si mettono accanto a me. Così ho deciso di preparargli dei percorsi a ostacoli e li faccio giocare. Gli abbiamo fatto anche una mini-palestrina. Diciamo che fanno una bella vita, come in un resort di lusso» 

In cucina è più complicato il palato dei suoi gatti o dei suoi commensali?

«Be', devo dire che i miei gatti hanno dei gusti gastronomici particolari. Ognuno ha il suo: c'è chi mangia il secco, chi il morbido, chi non tocca il pollo e chi mangia solo salmone.

Diciamo che hanno dei vizi culinari, ma ormai so perfettamente che cosa preparargli, magari gli aggiungo giusto delle verdure. Sa i gatti sono animali speciali: sono molto indipendenti e con una grande dignità da rispettare sotto tutti i punti di vista» 

Sui social spesso lei si fotografa con loro dicendo "Siamo due gocce d'acqua". Si sente un po' gatto?

«Più che altro provo dell'invidia: quando li vedo spaparanzati sotto il termosifone e io invece devo uscire alle 6,30 della mattina per andare al lavoro affrontando il freddo dell'inverno vorrei essere loro. A parte questo mi piace la loro astuzia e soprattutto la loro indipendenza: quando vogliono le coccole vengono e fanno i ruffiani, mentre altre volte vogliono starsene per loro conto e non vogliono essere disturbati. Mi piace questa loro capacità di poter scindere i due aspetti, pur rimanendo comunque affettuosi».

Che cosa direbbe a chi abbandona gli animali?

«Quella è gente con cui è meglio non avere a che fare. Il legame con un animale è qualcosa di stupendo e loro sono esseri viventi che hanno bisogno di affetto. Chi non crede o non sente questo, allora non deve proprio prendersi un animale. Non bisogna comprarli o adottarli».

Andrea Cappelli per Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.

È lo stesso filone inaugurato da Elsa Fornero nel 2012, quando a margine di un convegno a Milano pronunciò l'ormai celebre frase «i giovani non devono essere troppo choosy (schizzinosi, nda)». 

Di davvero imperdonabile, in quella esternazione, c'è il ricorso snobistico alla lingua inglese. Per il resto, il concetto espresso dalla Fornero è stato ripreso e aggiornato decine di volte nel corso degli anni. L'ultimo a proseguire su questo solco è Alessandro Borghese, noto chef nonché volto televisivo di svariati programmi tra cui "4 ristoranti" (Sky Uno). 

Intervistato dal Corriere, il cuoco ha ribadito un concetto già espresso mesi fa: i giovani non sono più disposti a fare sacrifici. E soprattutto, se si deve imparare un mestiere, si può anche lavorare senza essere pagati. Considerazioni schiette che, come prevedibile, hanno suscitato un vespaio, dividendo l'opinione pubblica. Se si contestualizzano le sue parole, però, ci si rende conto che Borghese non ha tutti i torti.

La premessa è che quest' ultimo gestisce da fine 2017 un ristorante a Milano: "Alessandro Borghese, il lusso della semplicità". «Sa cosa è successo lo scorso weekend?» esordisce il cuoco nella sua intervista; «quattro defezioni tra i ragazzi della brigata, da gestire all'ultimo minuto, e nessuno disposto a sostituire. Così a cucinare siamo rimasti io e il mio braccio destro: 45 anni io, 47 lui».

ATTEGGIAMENTI DELETERI il Al netto dei singoli casi, è evidente che etica e rispetto impongono di non tirare bidoni all'ultimo minuto, soprattutto quando c'è più bisogno del tuo lavoro. Che la disavventura occorsa a Borghese sia frutto del caso? Può darsi. Sta di fatto che lo chef, così come tanti altri professionisti in ogni ambito, lamenta da tempo questa deriva. Molti ragazzi «preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci (a lavorare, nda) lo fanno con l'arroganza di chi si sente arrivato». 

Tra gli atteggiamenti deleteri elencati da Borghese c'è anche la «pretesa di ricevere subito compensi importanti. Sarò impopolare ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con vitto e alloggio riconosciuti. Stop. 

Mi andava bene così: l'opportunità valeva lo stipendio». Il ragionamento si conclude così: «Vuoi diventare Alessandro Borghese? Devi lavorare sodo. A me nessuno ha mai regalato nulla. Mi sono spaccato la schiena, io, per questo lavoro che è fatto di sacrifici e abnegazione. Ho saltato le feste di compleanno delle mie figlie, gli anniversari con mia moglie. Ho nuotato con una bracciata sempre avanti agli altri perché amo il mio mestiere». 

A onor del vero, si potrebbe obiettare che la retorica sui giovani lavativi, sulle nuove generazioni più flaccide di chi le ha precedute, è vecchia come il mondo e racchiude in sé uno stereotipo. Per ogni rampollo viziato che ha disertato le cucine di Borghese ci sono migliaia di giovani che pur di lavorare sono disposti a trasferirsi all'estero, prendendo in affitto cubicoli periferici pur di raggiungere i loro obiettivi. Stando al rapporto Istat del 2019 (fase pre pandemica) il numero di giovani italiani trasferitisi all'estero in cerca di opportunità è in continuo aumento (+4.5%, 122mila unità nel 2019), mentre il rapporto di Migrantes sugli italiani all'estero rileva che dai 3,1 milioni del 2006 si è passati ai 5.5 milioni attuali (+76.6%). E la maggior parte di essi è composta da diplomati «in cerca di un qualsiasi lavoro.

C'è un errore si legge nel rapporto- nella narrazione della mobilità recente, raccontata come quasi esclusivamente composta da altamente qualificati occupati in nicchie di lavoro prestigiose e specialistiche, quando invece a crescere sempre più è la componente dei diplomati alla ricerca all'estero di lavori generici». 

DEDIZIONE E SACRIFICIO Dato a Cesare quel che è di Cesare, resta il fatto che Borghese ha ragione da vendere. Per ottenere qualcosa l'unica strada percorribile è quella della dedizione e del sacrificio. Scrostando via quell'atteggiamento di sufficienza che molti giovani manifestano verso i lavori manuali. Scomodando René Guénon, infatti, giova ricordare che gli artigiani sono gli eredi di chi, nelle società tradizionali, era in grado di manipolare la materia. Un'arte sopraffina, dal sapore esoterico, che vale la pena coltivare.

Da mowmag.com il 19 maggio 2022.

“Entrambi i miei figli sono stati cresciuti con l’insegnamento di cavarsela da soli, senza aiuti finanziari da parte mia”. 

A dirlo era stata la nota attrice Barbara Bouchet per difendere Alessandro Borghese, uno dei suoi figli che era finito al centro delle polemiche per una frase tratta da una intervista nella quale raccontava le difficoltà nel reclutare personale disposto al sacrificio nel suo ristorante: “Ragazzi e ragazze vogliono tenersi stretti i week end”. E probabilmente sarà vero che la madre non lo ha aiutato economicamente, ma quando hai un genitore famoso spesso basta anche solo una buona parola per avere una spinta in più, e non da poco, rispetto a tanti che quella fortuna non ce l’hanno.

A confermarci che la Bouchet un “aiutino” al giovane Alessandro ha provato a darlo è un altro grande chef come Gianfranco Vissani. Intervistato da Black List per MOW, fra le altre cose, ha ricordato di quando l’attrice lo contattò per “raccomandare” il figlio nel suo ristorante di Baschi, in provincia di Terni: “Mi chiamò per prendere Alessandro. Come hanno fatto altri, per esempio Angela (Brambati, ndr) dei Ricchi e Poveri. Ma siccome io faccio pagare per venire a imparare da me, alla fine non li mandarono”. 

Vissani, ma è vero quello che ha detto Alessandro Borghese che oggi è difficile trovare giovani disposti a fare sacrifici in cucina?

Alessandro è un bravo ragazzo. Ha ragione quando dice certe cose. Perché i ristoranti sono dei negrieri. Io però li faccio lavorare tre giorni a settimana e li pago 1300 euro al mese, sono ben pagati, no? Gli altri giorni sto chiuso perché non abbiamo clienti, tra Covid e guerra in Ucraina. 

Conosco la mamma di Alessandro, Barbara Bouchet. Lei mi contattò per prendere il figlio nel mio ristorante. Come anche Angela dei Ricchi e poveri. Da me però per venire a imparare bisogna pagare e loro volevano mandarmeli gratis, ma porca… (imprecazione) gli ho risposto. E alla fine non sono venuti”. 

Che ripercussioni ha la guerra in Ucraina per la ristorazione italiana?

Secondo me tutte queste misure contro Putin in realtà vengono nel cu*l a noi. Ma perché non vogliamo usare il gas italiano? Abbiamo tutto in Italia, gas e petrolio. Non vogliono estrarlo perché c’è chi dice che è antiestetico o che inquina. Come il nucleare, abbiamo siti al confine con la Francia e se scoppia di là pensano che non ci arrivino le radiazioni?

Le fermiamo con le mani? Quindi la ristorazione patisce i rincari dell’energia?

Faremo questi tre mesi estivi e se va avanti così poi chiuderemo tutti. Nella grande ristorazione possono resistere 5-6 ristoranti, ma se finanziati anche da altri, sennò tutto il resto dovrà tornare alla cucina territoriale, neanche regionale. Con 30 euro bisogna far mangiare la gente. Ma scusa, perché in Spagna pagano la benzina 1300 e noi 1800 adesso che è stata abbassata, ma in autostrada 2200? Non la diminuiscono perché ogni gestore fa come ca**o gli pare. 

Quindi neanche i grandi chef, come i grandi musicisti durante la pandemia, possono più permettersi di rimanere chiusi?

Io ho 25 dipendenti e mi tocca pagarli tutti. Con gli eventi si riesce a resistere, tra poco ne ho due, uno a Roma e uno a New York, ma non credete che sia facile. Io pagavo di bolletta della luce 3500 euro, adesso è arrivata a 12mila euro al mese. Come ca**o facciamo? E non parliamo del gas. È un gioco che non regge più. Poi mio figlio passa e chiude tutto, ma che ca**o chiudi? Andremo avanti con le candele? Questo è un paese nel quale dopo il Superbonus del 110% tutti gli imprenditori sono nei guai perché non sanno alla fine chi paga. Ma si può andare avanti così?

Alessandro Borghese: in cucina ascolto i Led Zeppelin, a Sanremo tifo Elisa. Elisabetta Pagani su La Repubblica il 30 Gennaio 2022.

Per il vulcanico chef di "4 Ristoranti" musica e cibo hanno lo stesso potere evocativo: “Cosa ascolto quando sono ai fornelli? Red Hot Chili Peppers ma anche Vasco e Pino Daniele”. E sulla finale del Festival: "Si guarda, come si guarda l'Italia quando gioca ai Mondiali".

Si è divertito ad associare un piatto a ciascuno di questi protagonisti del Festival di Sanremo pescando dal menu del suo ristorante. Un supplì bello carico per Amadeus, una cacio&pepe per Fiorello, un calamaro ripieno di sapori del Sud per Checco Zalone. E ancora, una popolare Pasta fagioli e cozze per Cesare Cremonini, un morbido e gustoso bao per Al Bano, un dolce icona come il tiramisù per Loredana Bertè. E lui, il vulcanico Alessandro Borghese, lo chef dai mille progetti, in televisione con Alessandro Borghese - 4 Ristoranti e Kitchen Sound, e a Milano con il suo locale, Alessandro Borghese - Il lusso della semplicità?

"La vita è bella - Calamaro e mortadella", il piatto che ha associato a Checco Zalone (@AB Normal) Quale piatto associa a se stesso?

«Io sono senza dubbio una colazione continentale. Quelle degli alberghi, dove trovi il dolce e il salato. I waffle, le uova, le salsiccette, il burro con la marmellata. Sono un gran mix».

Si definisce uno chef “rock&social”, ha pubblicato un cd di canzoni e ricette e conduce Kitchen Sound, cucina a ritmo di musica. Che rapporto hanno musica e cibo?

«Hanno lo stesso potere evocativo. Una nota può portarti indietro e farti rituffare in un preciso momento, piacevole o meno, esattamente come un sapore o un odore. Nei miei ristoranti metto sempre la musica».

Il neuromarketing studia anche le connessioni fra musica e cibo, per capire gli effetti sui clienti.

«Io metto semplicemente quello che mi piace. Spazio tra tutti i generi ma soprattutto sano rock Anni 60, 70 e 80. Anche in cucina».

Che musica serve per cucinare?

«Serve roba che dia la carica. Red Hot Chili Peppers, Led Zeppelin, hip hop di inizio Anni 90. Di italiano Vasco, Pino Daniele. Ci divertiamo insomma».

Piatti diversi hanno bisogno di musica diversa?

«No, io vado in shuffle. Mi piace sorprendermi e mi affido all’algoritmo. Magari fa sbucare un brano che non sento da anni e mi dà l’ispirazione».

Sanremo "cucinato" da Alessandro Borghese: un supplì per Amadeus e una cacio e pepe per Fiorello

Un piatto ispirato da una canzone?

«Rocket Queen dei Guns N’ Roses mi ha ispirato i miei spiedini di cozze pastellati. C’è dietro un gioco lievemente erotico perché nel brano è stata inserita anche la registrazione di una parte di un atto sessuale. La ascoltavo e per me le regine del mare erano le cozze, ed ecco qua. Ma sono associazioni spontanee, non cose su cui ragioni. Dai Led Zeppelin invece arrivano le mie Led Zeppolin, zeppole napoletane condite in varie maniere».

A Sanremo non c’è molto rock, anche se l’anno scorso hanno vinto i Måneskin.

«Li conosco dai tempi di X Factor. Sono romani e sono diventati planetari, un grande orgoglio italiano. Il mio genere è il rock ma anche la musica italiana mi piace».

Che rapporto ha con il Festival?

«Eccezionale. Forse la mia esperienza più bella è stata proprio quando, anni fa, ho cucinato per gli artisti con il mio camion attrezzato parcheggiato di fianco all’Ariston. E poi ho girato una serie intera di Kitchen Sound dentro al Casinò di Sanremo. Di giorno si girava, la sera trasformavo la sala in un ristorante gourmet per 40 persone».

Alessandro Borghese: “Chi lavora bene ce la farà, salteranno gli improvvisati”

di Federica Gatto23 Aprile 2020

Cosa le chiedevano gli artisti?

«Intanto ricordo un grande freddo - il camion era tutto aperto - e una grandissima goliardia. Cucinavo con due termiche sotto la giacca e un cappellino di lana. Ricordo Neffa, Renga, Frankie hi-nrg, che venivano per una sana cacio e pepe, per le rigaglie di pollo o per abbuffarsi di supplì. È stato davvero un gran piacere».

Cantanti preferiti sul palco quest’anno?

«Tra quelli in gara seguirò con attenzione Elisa. E fra gli ospiti Cremonini».

Guarderà la finale di Sanremo?

«Certo, si guarda come si guarda l’Italia che gioca ai Mondiali».

Nel suo programma, 4 Ristoranti, le è mai capitato di dare consigli sulla musica? Di bocciare o elogiare una scelta?

«La maggior parte dei ristoranti non mette la musica. Al massimo c’è musica di sottofondo, da ascensore la chiamo io. Quindi no. E poi sono troppo impegnato a dare consigli gastronomici».

Il suo ristorante, Alessandro Borghese - Il lusso della semplicità (@AB Normal) Tra Covid, personale che manca e rincari delle bollette per i ristoratori è un periodo difficile.

«Avremo ancora un anno da tribolare, poi spero che la situazione migliori. Non si tornerà più come prima però, ci sarà una nuova normalità. I tavoli ad esempio. Difficilmente rivedremo quei posti coi tavolini appiccicati. O comunque, io parlo per me, già lo spazio fra un tavolo e l’altro era ampio, ora l’ho aumentato. Così come le regole della sanificazione. Tutte cose giuste, da mantenere anche dopo. Il personale è cambiato, in quantità e qualità, si punta sui giovani volenterosi che vogliono imparare».

Il personale si trova a fatica, perché secondo lei?

«C’è carenza, è vero. Un tempo le persone rimanevano anche uno o due anni in un ristorante per fare esperienza, oggi c’è meno volontà di sacrificio. Si prova un mestiere e lo si abbandona velocemente se non si ingrana. Il ricambio di personale è più frequente. È un lavoro molto faticoso, che ti occupa le ore notturne».

Il personale non scarseggia perché le condizioni di lavoro offerte dai ristoratori, tra stipendi e orari, non sono adeguate o troppo precarie?

«La pandemia ha fatto capire a molte persone che il lavoro non è tutto. Soprattutto a questa generazione, che è un po’ diversa dalla mia. Io parlo per me, ma ho alzato gli stipendi e aggiunto un giorno di chiusura perché voglio che chi lavora sia soddisfatto. Bisogna adattarsi ai tempi che cambiano e lanciare il cuore oltre l’ostacolo». 

·        Alessandro Cattelan.

Alessandro Cattelan: «Che ansia per il debutto a teatro con il mio one man show». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.

Il conduttore si racconta alla vigilia della prima tappa del suo spettacolo a teatro: «La scelta di andare in Rai è per ampliare il mio pubblico. Le cose si valutano nel tempo»

Sul palco c’è un grande organo, ci sono i fiori e c’è anche la bara. E poi c’è lui, Alessandro Cattelan, intento a celebrare un insolito funerale: il suo. Questa sera, ad Alessandria, andrà in scena la data zero di Salutava Sempre – La spettacolare fine di Alessandro Cattelan, primo one man show del conduttore che lo porterà in giro per l’Italia (il 29 e 30 novembre a Milano, il 2 dicembre a Torino, il 4 a Roma e via dicendo, con nuove date nel 2023). Cammina nel teatro in sneakers — «Cesare (Cremonini, ndr.) mi ha suggerito di indossare le mie preferite durante lo spettacolo, tipo coperta di Linus, visto che per l’emozione guarderò spesso in basso» — , cerca di gestire un’ansia che non provava da anni. «Da tempo è il mio primo pensiero, al mattino. Più si avvicinava questa data più cercavo strade per tranquillizzarmi».

Oltre alle scarpe preferite quali altre ha trovato?

«Ho chiesto aiuto ad amici che fanno teatro. La prima rassicurazione è che il pensiero che tutti, prima del debutto, è: ma chi me lo ha fatto fare? Luca Argentero mi ha anche detto che dietro le quinte, mentre sentirò il brusio della gente che mi aspetta, proverò il desiderio di chiamare un taxi e tornare a casa».

Come mai il teatro?

«Da spettatore lo vado a cercare. E già non è un bene perché quando fai per la prima volta una cosa che ti piace hai degli standard irraggiungibili. Ho accettato di provarci durante la pandemia, pensando a una cosa lontanissima. Invece questo giorno è arrivato e sono un po’ spaventato».

Cosa la spaventa?

«È tutto nuovo. Penso: e se non ride nessuno? Però rispetto alla tv, chi comprerà un biglietto, prenderà la macchina e verrà a teatro sarà qualcuno che mi conosce, in sintonia con il mio linguaggio, il mio modo di scherzare. O almeno cerco di crederlo».

Di cosa parlerà nello show?

«L’idea è fare uno spettacolo in cui essere sinceri, scorretti: questo lusso viene concesso nel momento in cui tutti ti vogliono bene, in cui di colpo diventi per chiunque più buono, più intelligente, più simpatico, cioè quando sei morto. Il funerale è come il free pass per dire anche qualcosa di poco rispettoso».

Durante lo spettacolo si infilerà in una bara.

«Non sono superstizioso ma quando, durante le prove, mandavo le foto ai miei amici ricevevo commenti divertenti. La morte è l’unica certezza ma resta uno dei pochi temi di cui non si parla, come se si facesse fatica ad averne una quieta comprensione. Io ne ho paura, ma tendo ad essere iper razionale: va messa in conto. Comunque durante lo spettacolo si ride eh, solo vorrei che a chi va a casa resti attaccata una robina su cui riflettere».

Si aspetta un pubblico in sintonia con lei, a differenza di quello che accade in tv. La vive davvero così?

«Beh, in tv puoi imbatterti in un canale senza cercarlo. E anche io so che ho davanti un pubblico più largo, devo stare più attento a quello che dico».

Il suo passaggio in Rai non è stato sempre facile. Potendo, cambierebbe qualcosa?

«Se fai questo lavoro devi ambire a farlo per più gente possibile. Alcune cose riescono, altre meno ma diventano parte della tua esperienza, puoi imparare. A gennaio tornerò con Stasera c’è Cattelan quindi vado avanti a fare quello che mi piace. Resto convinto che tutto vada valutato nel tempo: un programma come il mio ha bisogno di quotidianità. Deve diventare parte della routine televisiva, del tipo: buttiamo un occhio lì, vediamo che succede».

Si era parlato di suoi dissapori con Laura Pausini durante l’Eurovision.

«Ecco, io non so nemmeno come sia potuta uscire questa voce totalmente infondata. No, noi siamo davvero amici, anche le nostre figlie giocano assieme».

La verrà a vedere a teatro?

«Non lo so, ora è in Spagna. Ma sono stato un po’ timido con gli inviti... Il giorno peggiore sarà ad Alessandria con amici e parenti a vedermi anche cantare e ballare».

Come un vero showman.

«Più che altro uno scemen. Però sì. Non ci saranno nemmeno ospiti sul palco con me, però avrò diversi momenti di interazione con il pubblico».

Impossibile non fare il paragone con Fiorello.

«Eh lo so. Con lui mi sono sentito anche ieri, è stato gentile. Mi ha spiegato che anche per lui, che fa questo mestiere da anni, c’è sempre un momento in cui si sente totalmente insicuro di quello che sta per fare».

Al suo funerale tutti le vorranno più bene. Ma oggi si sente benvoluto dalla gente?

«Ho smesso di farmi, per quanto possibile, questa domanda. Però si, tendenzialmente mi sento benvoluto». 

Il ritorno di Alessandro Cattelan: «La seconda serata è il mio habitat». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2022.

Il conduttore su Rai2 con «Stasera c’è Cattelan» con tre appuntamenti a settimana

Da Rai1 a Rai2, dalla prima alla seconda serata. Lo vive come un passo indietro o il ritorno a un habitat che più le appartiene? «La seconda». Alessandro Cattelan è stringato come il Quelo di Corrado Guzzanti (la seconda che hai detto). Dopo gli inciampi con il suo Da grande (gli ascolti non erano stati un granché) e il successo di Eurovision (in coabitazione con Mika, Laura Pausini e 40 cantanti da tutta Europa), il conduttore si riaffaccia in tv con il programma che si è cucito sulla sua personalità, sul registro della sua ironia, sul codice della sua idea di televisione: «Il late night è il genere di programma che sognavo da ragazzino, il tipo di show che immaginavo quando ho iniziato a fare tv. Penso che sia la cosa che mi viene meglio, che è più nelle mie corde». L’ex conduttore di X Factor sarà su Rai2 con tre appuntamenti a settimana (martedì, mercoledì e giovedì alle 23) con Stasera c’è Cattelan che è la versione Rai di E poi c’è Cattelan che ha segnato i suoi anni di Sky.

La cifra è quella dell’intrattenimento leggero ma profondo (perché dietro c’è sempre un pensiero, a volte riuscito altre meno): «Il bello del late night è che ogni puntata è diversa; lo stimolo è sempre quello di trovare idee nuove, la difficoltà è intercettare argomenti che possano essere interessanti per gli spettatori. Oggi gli stagni in cui pescare sono tanti — il mondo della cultura e dello sport, i personaggi dello spettacolo, la rete e i social —, la sfida è offrire al pubblico temi nuovi e stimolanti». L’impianto di Stasera c’è Cattelan è consolidato, un misto di monologhi e musica, interviste «in cui far emergere gli ospiti in modo diverso e originale» e una serie di rubriche «dal taglio ironico, per andare a letto con un sorriso». Nella prima settimana gli ospiti saranno Cristiano Malgioglio, Emanuela Fanelli e i protagonisti della Bobo tv (Vieri, Adani, Cassano e Ventola); Caressa e Ariete (mercoledì), Pozzecco e Lazza (giovedì). «Andare in onda per tre giorni di fila è l’ideale per creare un legame con gli spettatori, in tv c’è bisogno di continuità, di abitudine e routine».

 Alessandro Cattelan torna in tv, dalla moglie influencer all’essere poco mondano. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2022.

Martedì, mercoledì e giovedì alle 23 il conduttore su Rai2 con “Stasera c’è Cattelan”. Dalle nozze in segreto con Ludovica Sauer agli esordi come giuria de Lo Zecchino D’Oro

Il ritorno in tv

Alessandro Cattelan, classe 1980, torna su Rai2 con tre appuntamenti a settimana (martedì, mercoledì e giovedì alle 23) con “Stasera c’è Cattelan”, in seconda serata. Si tratta, indicativamente della versione targata Rai di “E poi c’è Cattelan” che l’ha visto protagonista per anni su Sky. E Cattelan è proprio stato uno dei simboli, per anni, di Sky: dal 2011 al 2020 è stato protagonista di X Factor, prima di approdare in Rai col programma “Da Grande”. Nel 2022, poi, con Mika e a Laura Pausini, ha condotto l’Eurovision 2022 a Torino.

Niente mondanità

Al settimanale “Grazia” Cattelan ha dichiarato di non amare la vita mondana, e di adorare il silenzio della propria casa: “Non sono un mondano, amo la mia casa, i miei interessi, i miei amici. Al mio matrimonio c’erano 20 persone”.

Giuria

Aveva la tv e la musica nel DNA: nel 1987, quando era un bambino di soli 7 anni, è stato membro della giuria dello Zecchino D’Oro.

Il Covid

Nel 2020 Cattelan è stato contagiato dal Covid-19. E’ stato sostituito alla conduzione di X Factor da Daniela Collu: allora i live della trasmissione erano già iniziati.

La moglie influencer

Alessandro Cattelan e la modella Ludovica Sauer (influencer) sono convolati a nozze in gran segreto: c’erano solo i testimoni, i genitori e la loro piccola Nina, nata due anni prima. Hanno anche un’altra figlia Olivia.

I tatuaggi

Alessandro Cattelan ha la passione per i tatuaggi: ne ha 15 tatuaggi, tra cui uno raffigurante un tema sacro e un altro raffigurante Elvis Presley.

Il cartello stradale

In un’intervista a Vanity Fair ha rivelato di aver rubato un cartello stradale, un senso unico che è rimasto appeso per anni alla sua parete. Lo ha poi tolto Ludovica per sostituirlo con un armadio.

·        Alessandro Gassman.

Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 3 aprile 2022.  

Nel suo libro del 1981, dal fulminante titolo di Un grande avvenire dietro le spalle, il grande Vittorio Gassman si rivolgeva al figlio Alessandro invitandolo a cercare se stesso. «Guarda che si diventa se stessi pensando agli altri, usando i nostri privilegi per dare una mano a chi ne ha bisogno, scuotendo la pigrizia e l'aridità». Chissà com' è andata.

A 57 anni si è trovato?

«Direi di sì. Oggi faccio scelte professionali seguendo esclusivamente i miei gusti di spettatore. E come persona cerco di utilizzare la mia popolarità per cause che considero importanti: impegno in favore dei rifugiati con l'Unhcr e lotta ai cambiamenti climatici. La mia generazione, cresciuta inquinando in tutti i modi, finora se n'è fregata. Io non voglio più farlo».

Da dove viene questa consapevolezza?

«Da mia madre (la scomparsa attrice francese Juliette Maynel, ndr), figlia di contadini che ha sempre amato la campagna e la vita all'aperto. Grazie a lei sono cresciuto in mezzo alla natura». 

E suo padre?

«Lui no. Papà ha sempre lavorato. In tutta la sua vita ha fatto solo un viaggio per diletto, a Paxos, in Grecia. Andammo dopo uno dei suoi periodi di depressione. Ogni mattina andavamo al porto e ogni volta si incazzava». 

Perché?

«Voleva parlare in greco antico - una delle sue tante passioni - con i pescatori locali e quelli, ovviamente, non lo capivano. Dopo averle tentate tutte, alla fine se ne andava urlando e insultandoli. In greco antico, ovviamente. Scene meravigliose». 

Un mese fa ha pubblicato un libro Io e i Green Heroes Perché ho deciso di pensare verde, quindi adesso vive e consuma tutto in maniera sostenibile?

«Faccio quello che posso. Cerco di non usare la plastica, per esempio. Anche sul set». 

Ha l'auto elettrica?

«No, ibrida. Vivo in centro, non ho il garage e non saprei come caricarla. Di colonnine a Roma ce ne sono pochissime».

Di cosa parla il libro?

«Eroi verdi. Gente che contro tutto e tutti porta avanti imprese ecologiche, riduce il disastro ambientale e ci guadagna: ci fa i sordi, come si dice a Roma. Non racconto storie radical chic ma persone concrete e di successo. Solo loro potranno salvarci». 

Lei che negli ultimi anni si è sempre esposto - anche con la scopa in mano per pulire le strade di Roma - oggi si impegnerebbe in politica?

«No. In Italia ci vuole gente giusta al posto giusto. Io faccio l'attore e il regista. I politici dovrebbero fare, bene, i politici. Lo sa che nel 2014 non abbiamo usato le risorse per avviare le energie rinnovabili solo per questioni burocratiche? Se lo avessimo fatto, oggi potremmo fare a meno del 60 per cento del gas russo».

Senta, per caso si è stufato di fare commedie?

«Non rinnego le cose fatte e sono grato per le esperienze, la popolarità e i soldi. È solo che oggi con certe cose rido meno. Voglio fare altro». 

Progetti lenti, cupi, un po' noiosi: quella roba lì?

«Per carità, no. Voglio solo affrontare temi più profondi». 

Sente di non aver raccolto il giusto?

«Il cinema per me è un'arte popolare e io ho sempre fatto scelte in questa direzione. A una certa critica questo non piace e l'ho pagata. Poi chi non mi apprezzava a un certo punto ha cambiato idea». 

Quando ha capito di non essere più il figlio scemo - sono parole sue - del grande Vittorio Gassman?

«Chi mi conosce bene sa che lo sono ancora. Sono sempre un cazzaro a cui piace ridere e far ridere. Diciamo che aver fatto regie teatrali e cinematografiche più ricercate (l'ultimo film è Il silenzio grande, ndr) mi ha aiutato. E anche non rifare tante sciocchezze serve».

La più grande che ha fatto?

«Aver scelto pensando ai soldi. Ora so che posso vivere con meno e selezionare. E poi ho meno paura di non piacere a tutti». 

Da ragazzo, però, era tremendo.

«È vero. A vent' anni ero antipatico e facevo spesso a botte. Mi dava fastidio essere trattato come uno strano solo perché figlio di una persona importante».  

A suo figlio Leo, cantante 23enne, la prima cosa che ha voluto insegnare qual è stata? 

«Essere gentile ed educato con tutti, cosa che io non ero, ricordarsi che siamo stati fortunati a nascere in questa famiglia, e che nella vita per arrivare a destinazione è meglio faticare. Lui lo fa: con la musica si è mosso da solo e si è appena laureato».  

Senza essere ridicoli, cos' ha in comune con un ventenne?

 «Mi ingarello con la Vespa se un pischello mi supera. E con gli amici coetanei la butto sul fisico e giochiamo a braccio di ferro».  

E vince? 

«Scelgo quelli con i quali so di potercela fare. Che merdaccia...». 

A proposito di fisico, quanto guadagnò per il calendario nudo che fece per Max nel 2001? 

«Tantissimo. Mi comprai un pezzo di casa. Vorrei rifarne un altro con le stesse pose e negli stessi posti. Potrei chiamarlo Avanzi...».  

Gli avanzi hanno bisogno di un aiutino? 

«No, ho paura. Finché mia moglie non mi dice: Bello mio, fa qualcosa, vado avanti così».  

Dal 9 aprile al 29 giugno l'Auditorium di Roma ospiterà una grande mostra per il centenario di suo padre (Genova 1° settembre 1922-Roma 29 giugno 2000): cosa si vedrà?

 «Di tutto. È divisa in quattro sezioni: teatro, cinema, letteratura e tv. È divertente e non funeraria, proprio come l'avrebbe voluta papà. Ci saranno la macchina del Sorpasso, il cavallo di Riccardo III, libri, filmati, documenti rari. Materiale nostro, ma anche di Centro Sperimentale, Cineteca Nazionale, Istituto Luce, Teche Rai... È bellissima». 

È vero che suo padre papà voleva farsi imbalsamare? 

«Certo. L'ha fatto scrivere dal notaio nel testamento, con tutti i dettagli. Voleva essere messo nel salotto di casa con un registratore vicino per dire a tutti: Buonasera amici. Tornate a trovarci. A presto. Meno male che in Italia è illegale».  

Anni fa circolava un progetto di documentario sui baci che aveva dato: che fine ha fatto? 

«Sì, anni fa. Se ne parlò a lungo poi non s' è fatto più niente. Non so altro. È uno che ha baciato tanto, papà, anche se poi quando si innamorava veramente finiva sempre per sposarsi. Nel suo caso quattro volte».  

Che cosa gli vorrebbe dire adesso? 

«Eh... Di tutto. Ogni tanto mi diverto a pensare a quello che lui e quelli della sua generazione farebbero sui social... Prenderebbero per il culo tutti. Senza peli sulla lingua».  

Lei online su cosa inciampa più spesso? 

«Ho una specie di alter ego con cui rispondo in romanesco a chi mi scrive la solita roba: Facile dire questo e quello per un comunista con il Rolex come te».  

È comunista? 

«Mai stato. E non ho il Rolex». 

 Il primo ringraziamento a chi lo deve? 

«A mia moglie, la donna della mia vita. Anche con lei sono stato molto fortunato». In caso di bisogno un vero amico a cui chiedere aiuto, anche economico, ce l'ha? «Penso di sì. Non tanti ma ci sono, per fortuna».  

Nel suo ambiente? 

«I miei migliori amici non vengono dal cinema». 

Alessandro Gassmann: «Papà mi ha insegnato cos’è la stanchezza. Quando parlava di sé stesso mi vergognavo di lui». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 21 agosto 2021. 

Sarà a Venezia con « Il silenzio grande» , di cui è regista, una storia sul non detto che riguarda ogni famiglia, «anche la mia». «Rispetto a Vittorio, con mio figlio sono molto presente: Leo ha potuto avere più sicurezze, io ero un pacco che viaggiava da un padre a una madre». 

Vittorio Gassman e il figlio Alessandro al Festival d’Annecy nel 1986. Il “Mattatore”, soprannome dovuto all’omonimo spettacolo televisivo che Vittorio Gassman condusse nel 1959, è morto a Roma nel 2000, a 77 anni

Alessandro Gassmann è un attore molto popolare, figlio di un gigante del teatro e del cinema. Alessandro ha fatto aggiungere una “n” nel cognome, non per distinguersi da suo padre, Vittorio Gassman, a cui era molto legato, ma per recuperare le radici familiari: suo nonno era l’ingegnere tedesco Henrich Gassmann. Padri e figli: come il tema del nuovo film di Alessandro, Il silenzio grande, con Massimiliano Gallo e Margherita Buy, che l’8 settembre porta come regista alle Giornate degli autori, sezione autonoma della Mostra di Venezia.

Di cosa si tratta?

«Di una fortuna dilapidata, di uno scrittore che vive chiuso in casa in una bolla, tra i suoi libri che (come dice Maurizio De Giovanni autore del testo e della piéce teatrale da cui è tratto) sono l’arredamento della mente, i mobili che contengono i sentimenti, i cassetti delle emozioni. La vita dei suoi cari gli scorre accanto senza scalfirlo. I figli si sono alleati con la madre, contro di lui, per vendere la villa sontuosa avuta in eredità che non possono più permettersi».

Il cast de Il silenzio grande, regia di Alessandro Gassmann. Da sinistra, Massimiliano Gallo, Marina Confalone e Margherita Buy con i piccoli Antonia Fotaras e Emanuele Linfatti

Sembra Cechov.

«Me l’ha già detto un amico e la cosa mi inorgoglisce, perché il mio primo lavoro da attore fu La domanda di matrimonio di Cechov. Il film nasce dal successo avuto con l’omonima piéce che ho portato a teatro. I temi sono importanti: i silenzi piccoli e grandi nelle famiglie, il non detto, che poi riguarda sia la storia di Maurizio De Giovanni che la mia».

Cioè?

«Tutte le visioni del protagonista sono mie, il lato onirico, la possibilità di uscire dalla realtà, il velo di distacco. È il film che mi somiglia di più».

Lo scrittore è un padre ingombrante, come forse è stato Vittorio per lei. «Ingombrante in modo piacevole, anche non volendo, ma per la qualità del suo talento. Volevamo una storia di rapporti umani con del mistero familiare dentro, in una famiglia colta, elegante, che vive fuori dalla realtà, dove lo sfondo di Napoli, in quella villa bellissima ma scricchiolante, c’è e non c’è».

Il protagonista ama l’odore della carta vecchia (che dà l’idea di una separatezza dalla realtà), lei invece è molto digital.

«In realtà non è così, ho scoperto Twitter sette anni fa e lo uso per le regole basiche del vivere comune. Per tutto il resto sono un amanuense, scrivo a penna, ho il fax, chiamo al telefono le persone e non lascio messaggi ma richiamo più tardi. Sono molto vecchio per i miei 56 anni!».

Un selfie di Alessandro Gassmann, 56 anni, con il figlio Leo, cantante, 22

Lei, che padre è?

«Sono come dovrebbe essere un politico con i suoi elettori. Non dico quello che un figlio vuol sentirsi dire e che piace per conquistare, ma quello che serve ed è utile. Ma Leo è un figlio fantastico e non perché abbia vinto Sanremo Giovani, farà 23 anni a novembre, studia all’università americana a Roma Affari Internazionali e Psicologia, poi, come avviene in America, si fa una crasi tra le due discipline».

Rispetto a Vittorio…

«Sono molto presente. Intanto con Sabrina sto bene insieme e Leo ha potuto avere molte più sicurezze, mentre io ero un pacco che viaggiava da un padre a una madre. Papà era più spaventoso di me, quando si arrabbiava era terrorizzante, gli bastava lo sguardo silente. Io poi avevo risultati scolastici disastrosi… Con mio figlio sono stato severo in modo metodico nel proibire il cellulare fino ai suoi 15 anni e il motorino fino a 16».

Non basta lavorare, dice nel film Margherita Buy a Massimiliano Gallo, devi fare il padre, seguire i figli. Eppure lui, lo scrittore, avrebbe potuto insegnare il piacere della lettura, il rispetto delle parole…

«Io ho dato a Leo gli strumenti per ampliare il suo vocabolario, per capire quanto sia unica e bella la nostra lingua italiana. Le composizioni che scrive per sé stesso, lontano dal pop che l’ha reso celebre, sono molto belle e di spessore. Lì si apre e tira fuori più coraggio, sono riflessioni sulla sua generazione, parla del cambiamento climatico…Dovrebbe farle conoscere quelle canzoni».

Leo da piccolo l’ha mai vista come un supereroe?

«L’ho pensato io di mio padre, ci sono stati anni in cui ho creduto che fosse lui Brancaleone. Ha fatto ruoli rimasti nella storia del cinema mondiale, la mia carriera è più modesta».

Qual è stato il suo momento più importante come figlio?

«Direi quando papà mi fece fare il macchinista teatrale per due anni, inculcandomi il concetto di stanchezza fisica. Ho smesso di essere figlio il giorno in cui, in tournée, stette male».

Da ragazzo accompagnava Vittorio ai Festival di cinema?

«Sì, la prima volta a 17 anni per Di padre in figlio, il film che cominciò quando ne avevo 8 e lo concluse nove anni più tardi. È un racconto tra me e lui. Amava parlare di sé stesso in pubblico, io lo detestavo, ne avevo vergogna. Mi mise nelle mani di Enrico Lucherini, il press agent, che aveva un esercito di venti sarte e mi riconsegnò a papà che ero un’altra persona. Quel giorno capii che non volevo fare l’attore. Ero timidissimo».

Poi lo è diventato: una nemesi?

«Assolutamente sì, per mio padre fu lo stesso, fu sua madre a insistere perché diventasse attore. Io non volevo al punto che dopo Venezia mi iscrissi ad Agraria a Perugia. Mio padre mi volle a teatro al suo fianco per la seconda edizione di Affabulazione, ed è cominciato tutto».

Alla Mostra di Venezia invece è andato spesso con i suoi film?

«Ho avuto il premio Pasinetti per Non odiare. Poi ho portato un documentario e ora questo film. Se mi piacciono i Festival? Non sono un grande appassionato, spero siano occasioni per ricompattare le persone, ai Festival sento un po’ di falsità e di puzza sotto al naso, che io non ho mai avuto ed è uno dei mali primari del cinema italiano».

Tornano i Festival ma la gente continua a disertare le sale.

«Ormai vince la pigrizia, durante il Covid ci siamo sempre più abituati a vedere i film con i nostri televisori giganteschi. Temo che le sale resteranno parecchio in sofferenza».

Premiare, com’è avvenuto a Cannes, un film su una donna che resta incinta di una Cadillac, non rischia di allontanare ancora di più gli spettatori?

«Potrebbe essere l’ultima spallata. Anche a me piacciono i film strani, ma ad entrare nella Storia sono quelli dove si parla e si capisce qualche cosa, sono universalmente comprensibili e non creano distanza. Il mio film può ricordare un classico della letteratura, a Venezia proporrò il film di una volta».

Lei si porta a casa i personaggi?

«No. Ho appena finito un film, Il pataffio dal romanzo di Luigi Malerba, su una buffa vicenda ambientata in un Medioevo grottesco, dove impersono un frate con la tonsura a forma di disco in testa. Il dramma è stato di mia moglie quando mi ha visto con i capelli rasati a quel modo».

Alessandro Gassmann: «Papà Vittorio mi fece fare il barista per punizione. Mia madre? A 86 anni è in Messico e ci parliamo per mail». Valerio Cappelli Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2022.

Alessandro Gassmann ama zappare e seminare, è appassionato di macchine agricole e ci racconta che, quando va nella sua casa in Maremma, guida i trattori, «quelli non grandi, ma non è così difficile».

Possiamo definirla un attore strappato alla terra? 

« Possiamo dire che fare l’attore mi ha sradicato dalla terra. Mi ero iscritto ad Agraria all’università di Perugia e, per dirla con un eufemismo, non sono mai stato uno studente modello. Dopo essere stato rimandato in latino e greco, per punizione mio padre mi mandò a fare il barista. All’università ricordo che mi guardava con l’aria di dire, studia Agraria perché non ha voglia di fare nulla. E mi fece debuttare come attore accanto a lui in Affabulazione. È andata così».

Ora ha scritto un libro, strano e piacevole, a metà tra autobiografia e questioni ambientali e climatiche, in cui racconta che lei, figlio dell’immenso Vittorio Gassman, rischiava... 

«Ho rischiato, da ragazzo, di essere tutto lampade abbronzanti e superficialità. Ho avuto in tempi lontani la possibilità di lavorare per Luca Ronconi, spettacoli di oltre sei ore in cui avevo il tempo di lasciare il teatro, andare nei locali a fare il dj (guadagnando parecchi soldi) e di tornare in camerino, pronto per l’ultimo atto».

Alessandro, quando ha scoperto di avere il pollice verde? 

«Io non ho il pollice verde. Ho una fascinazione e un innamoramento totale per la natura. Vedo continuamente documentari, studio le forme animali. Da giovane mi arrampicavo sugli alberi, come Cosimo ne Il barone rampante di Italo Calvino. Al primo momento libero scappo in campagna, dove ho imparato i segreti per avvicinare gli animali selvatici. È semplice, devi restare fermo, immobile (come fanno i cacciatori, purtroppo). Devi fingere di non esserci. Un giorno, durante il primo lockdown, quello duro, nel silenzio totale, nell’assenza del rumore di automobili, mi trovai sopra vento, dunque non emettevo odori. E sono stato a pochi metri da volpi, fagiani, lepri, cerbiatti. Una meraviglia».

Il libro (edito da Piemme) si intitola . L’ha dedicato a sua madre, l’attrice Juliette Mayniel. «È lei che mi ha fatto crescere nel rispetto della natura. È figlia di contadini francesi, che non ho fatto in tempo a conoscere. La casa in campagna dei suoi nonni divenne il quartier generale degli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Mia madre è nata in un isolato villaggio rurale. Lei sa mungere, cosa che io non riesco a fare, mi fa impressione».

La storia dei suoi genitori durò poco. 

«Due anni e qualcosa. Non ho mai occasione di parlare di mia madre, mi chiedono sempre di mio padre. Era di una bellezza fuori dal comune, uno dei volti della Nouvelle Vague, aveva vinto l’Orso d’oro alla Berlinale. Attrice cult ancora oggi, quando metto una sua foto sui social, spopola. Papà, beh lui era Super Gassman, all’apice della sua carriera. Erano gli Anni 60, periodo in cui non era facile stargli vicino, soprattutto con una donna evoluta, moderna, femminista come mia madre. Lui aveva divorziato da Shelley Winters, era un battitore libero. Fu lei a lasciarlo, con una espressione irriferibile che in romanesco verrebbe benissimo. Come ci rimase papà? È un argomento di cui non si è parlato molto. In seguito ebbero un rapporto amichevole».

Perché Juliette smise presto di recitare? 

«Perché, un po’ svogliatamente, fece film non meravigliosi in Italia, l’ultimo progetto importante fu l’ Odissea in tv dove lei interpretava la Maga Circe. Vedeva tanti film ma non amava il cinema, l’ambiente intendo, che in Italia era molto maschile, goliardico. Le passò la voglia».

Sua madre dove vive? 

«Da una ventina d’anni in un luogo ameno del Messico, col patio al centro, il giardino. Gioca a bridge con le amiche, è pittrice, è stata brava a rimettere a posto ruderi rivendendoli a peso d’oro. È diventata la sua pensione. Ha 86 anni, ci sentiamo quasi quotidianamente via email in un lungo palleggiamento tra l’italiano e il francese. Al telefono meno, non ha abbastanza udito e si innervosisce se non sente bene. Da piccolo mi chiamava il ragazzino selvaggio, un omaggio al film di Truffaut, ma anche perché diceva che somigliavo fisicamente al giovane protagonista».

Ha saputo che le ha dedicato il libro? 

«Sì, ma non è una donna che fa molti complimenti. È colta, raffinata. Si è divertita nella vita. Il cinema è il passato, non credo di sia mai rivista in un suo film. Ecco, se devo confessarlo in questo siamo identici».

Davvero? «Non mi rivedo mai, la sola idea mi infastidisce, mi sento in imbarazzo, soprattutto nei film per la tv vedo gli errori, le imprecisioni, non mi sento credibile. E poi ho altro per la testa. Voglio fare solo regie, se ne avrò la forza mi piacerebbe girare documentari e occuparmi di natura».

Ma nell’ultima serie tv, , ha fatto saltare il banco degli ascolti... 

«Faccio un mestiere che ha a che fare con l’egocentrismo, se reciti in un film e la gente ti fa i complimenti è piacevole. Mettiamola così, ho intenzione di privilegiare la regia».

Senta, ma chi sono gli eroi verdi del libro? 

«In rete i social possono essere anche utili e non solo un luogo di nefandezze. Navigando sul web ho scoperto questi eroi, sto cercando di spendere la mia popolarità per le loro cause. Alla fine del libro c’è un QR code che apre una mappa dell’Italia, regione per regione, si individuano questi eroi nelle vicinanze, per migliorare il nostro impatto sul pianeta. Centinaia di aziende si riconvertono in attività eco sostenibili che creano lavoro e ricchezza. Conosco persone che forniscono seta agli stilisti ricavandola dall’interno bianco della buccia delle arance. Ho conosciuto Annalisa Corrado, ingegnera e socia del Kyoto Club di Roma che studia modi per rallentare il riscaldamento del pianeta. Con il loro aiuto, il ricavato del libro verrà devoluto per piantare alberi da frutta in terreni sequestrati alla mafia».

Esiste anche l’eco fanatismo, i talebani della bio diversità? 

«In Italia è completamente sbagliata la comunicazione su queste tematiche. Sono sempre appannaggio della sinistra, e per fortuna se ne è occupata, ma spesso col ditino puntato che ha finito con l’allontanare ancora di più la gente. Io questo libro voglio mandarlo a Giorgia Meloni, con cui non condivido nulla, ma vorrei che la destra sviluppasse una sensibilità in questo campo. Il nostro futuro non può essere tema politico».

Questi temi si dovrebbero comunicare col sorriso e meno cipiglio. «Se penso a Gianmarco Tognazzi... Siamo cresciuti insieme. È terrorizzato dagli animali, da ogni tipo di insetto. Su un set fu inseguito dalle scimmie».

Cosa pensa di Greta Thunberg? 

«Attaccarla (anche volgarmente) è facile, la giovane età, la sindrome di cui è affetta... Non sarà lei a risolvere i problemi del pianeta ma è importante che esista, si sta spendendo molto, è una icona. E ha genitori che la proteggono».

Lei come si adopera sul green? 

«Ho girato un documentario sugli artisti siriani rifugiati in Giordania e Libano per l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite; ora ho una missione in Uganda per raccontare il muro di alberi che i rifugiati stanno edificando per fermare la desertificazione dell’Africa subsahariana».

È vero che con Sabrina si è sposò in un agriturismo? «Vero. C’era un Quartetto d’archi. In totale eravamo in diciotto».

L’ultima volta che ha mangiato carne?

«Eh... Dai scherzo, la mangio una volta alla settimana».

Tempo fa ci ha detto che , scrive canzoni ambientaliste che... «Che dovrebbe avere il coraggio di pubblicare. Si è appena laureato all’università americana a Roma, Art & Communication. Ma sta per cominciare il Festival di Sanremo? Quando mio figlio non partecipa non lo vedo. Guardo anche poco la tv».

Sa che per la prima volta ci stavamo dimenticando di un uomo monumentale e fragile? «Vittorio! Non sia mai. Nel libro racconto di essere stato il figlio privilegiato, mi ha avuto all’età giusta. Con mia sorella Paola era troppo presto, con mio fratello Jacopo troppo tardi, Vittoria era lontana, in America. Tra noi fratelli e sorelle, nati da madri diverse, ci sono decenni di differenza. Avevo un rapporto fisico con mio padre, facevamo la lotta, giocavamo a tennis, le gare di nuoto».

Diletta, l' ultima moglie di suo padre... 

«La più importante, se non altro per la durata. È una donna vissuta sempre all’ombra di quel gigante e ha accettato meno di tutti noi altri il fatto che non ci fosse più. I miei fratelli? C’è affetto e stima per Paola e ancora di più per Vittoria, Jacopo è colto, studioso, bravo regista, persona complessa; Emanuele il figlio di Diletta è quello che conosco meglio, dai 14 ai 18 anni abbiamo condiviso la stanza».

Qual era il difetto di suo padre? «Non sapeva guidare».

Ma se ha fatto ! 

«Comprava auto sportive e correva come un matto. Inchiodava di colpo, prendeva male le curve. Al volante, credetemi, era un disastro».

E una qualità? 

«Eccellente pagatore di tasse. Forse era la sua metà tedesca, da parte di suo padre. Ricordo il cruccio dei David di Donatello che erano rivestiti d’oro e non sapeva come denunciarli al fisco».

Jacopo ci ha detto che con i suoi amichetti delle elementari Vittorio organizzava le Olimpiadi culturali. Sorride. «Erano quiz per bambini di sei anni con domande surreali: che cos’è una scolopendra? Dove abita Cossiga? Quanto pesa il pugile Tyson? Alcuni arrivavano preparatissimi e si divertivano, la maggioranza non tornava più. Si vincevano libri, i bambini tornavano a casa con la Recherche di Proust sotto il braccio».

·        Alessandro Greco.

Da ilmessaggero.it il 9 aprile 2022.

Ospite a Oggi è un altro giorno, Alessandro Greco ha ripercorso gli esordi della sua carriera, iniziata con personaggi televisivi iconici come Raffaella Carrà e Fabrizio Frizzi. In collegamento, anche la moglie Beatrice Bocci, la cui storia d'amore dura da 25 anni. «Abbiamo scelto di vivere nella castità» rivela Alessandro. Alla domanda della Bortone sul perchè di questa scelta, il presentatore risponde: «Ci siamo sposati nel 2008, dopo 2 figli, abbiamo preso questa decisione. Non c'è un perchè, è un cammino». 

«Da tre anni abbiamo preso questa decisione, che ci ha portati a viverci più intensamente» aggiunge l'ex miss Italia, Beatrice. «Ora peso di più le parole, dò valore agli abbracci e alle carezze, più di prima» continua.

I due si sono conosciuti grazie a Fabrizio Frizzi che, tuttora, è per loro un ricordo indelebile: «Una persona splendida, buona e pulita - racconta Greco -. Avrebbe dovuto avere più attestazioni di stima prima e non dopo la morte. A volte è troppo tardi». Commossa, Beatrice ricorda la persona buone che era Fabrizio sottolineando: «Per me c'è ancora, ne parlo al presente». 

Greco domani, 9 aprile, comincerà una nuova avventura su Rai 2: "Cook 40". «E' un programma di cucina in cui in 40 min si può fare un intero menù. Il tutto contornato da allegria, giochi e spensieratezza».

Alessandro Greco torna in tv: il successo con Furore, «figlioccio» di Raffaella Carrà, la fede, 8 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2022.

Cook40

Dopo Dolce Quiz, andato in onda lo scorso anno su Rai 2, Alessandro Greco torna - il 9 aprile alle 12.05 - con un nuovo programma settimanale dedicato alla cucina: Cook40. Forse non tutti sanno che Greco, nato a Grottaglie il 7 marzo 1972, proviene da una famiglia di pasticceri (suo nonno Alfredo era «il pasticcere più famoso di Taranto», ha raccontato, e suo padre ha seguito le sue orme). Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.

Gli inizi

Alessandro Greco inizia la sua carriera come presentatore e imitatore in radio e tv private. Nel 1992 partecipa a Stasera mi butto su Rai 2, e nel 1995-1996 è nel cast di Unomattina estate. Conduce anche la seconda edizione del Seven Show in onda sul circuito Italia 7.

Il successo con Furore

La svolta per Alessandro Greco arriva nel 1997: a 25 anni gli viene affidata la conduzione di Furore. Il programma sarà un successo e Greco - che condurrà la trasmissione per cinque edizioni - nel 1998 si aggiudicherà il Telegatto. «Al pubblico piace perche si coglie lo spirito del gioco vero, autentico. A Furore c’erano scontri accesi tra le due squadre, ben sapendo che non si vinceva nulla. È il concetto di ritrovarsi e stare insieme a divertirsi» raccontava Greco al Corriere. Sarà al timone del programma anche nella nuova edizione revival del 2017, affiancato da Gigi e Ross.

Gli occhiali «autorevoli»

Una ulteriore curiosità legata a Furore: il conduttore, pur non essendo miope, appariva in tv con gli occhiali da vista. Era stata Raffaella Carrà a suggerirgli di indossarne un paio con le lenti neutre. «Tu sei un bravo ragazzo - gli disse la conduttrice, come raccontato da Greco a TV Sorrisi e Canzoni -. A Furore devi avere il ruolo di giudice imparziale, ma anche incontestabile. E siccome avrai a che fare con concorrenti famosi che sono volponi della televisione, devi evitare di farti scavalcare. Tu hai personalità ma sei giovane e per loro sconosciuto, allora dobbiamo dare autorevolezza alla tua immagine di conduttore».

Ha lavorato con Raffaella Carrà

Negli anni successivi Alessandro Greco conduce trasmissioni come Portami al mare fammi sognare con Laura Freddi (Rai 2, 1999) e Una canzone per te con Federica Panicucci (Rai 2, 2000), e partecipa a Buona Domenica (Canale 5, 2003-2004). Nel 2008 torna in Rai per presentare Il gran concerto, programma educativo curato da Raffaella Carrà e Sergio Japino (che lo avevano già scoperto e lanciato con Furore). Greco ha ricordato così al Corriere la grande conduttrice, icona della tv italiana, scomparsa lo scorso anno (che lo ha coinvolto anche nel 2008-2009 come inviato di Carramba! Che fortuna): «Raffaella Carrà è stata fondamentale per la mia vita privata e professionale. Inizialmente c’era quel timore reverenziale, una certa soggezione, poi col tempo è nato un rapporto di confidenza e amicizia. Un legame che non si è mai interrotto. Raffaella e Sergio (Japino) sono per me dei genitori televisivi e lei mi chiamava figlioccio».

Concorrente di reality (e non solo)

Nel 2005 Greco partecipa come concorrente al reality show La talpa su Italia 1, insieme alla moglie Beatrice Bocci. Nel decennio successivo si metterà in gioco anche in alcuni popolarissimi programmi Rai: Tale e quale show (2014-2015), imitando artisti come Adriano Celentano e Marco Masini, e Il cantante mascherato (2020), sotto la maschera del Mastino Napoletano.

L’esperienza in radio

Nel curriculum di Alessandro Greco c’è anche la radio: ha iniziato nel 2008 con il programma Chi c'è c'è chi non c'è non parla su RTL 102.5. Per la stessa emittente ha condotto anche Shaker e No problem W l'Italia insieme a Charlie Gnocchi.

L’amore, con Beatrice Bocci, e la fede

È sposato dal 2008 con la showgirl Beatrice Bocci (con cui sta dal 1998). La coppia, che ha due figli (Alessandra, nata da una precedente relazione di Beatrice, e Lorenzo), nel 2019 ha raccontato in un libro, «Ho scelto Gesù: un'infinita storia d'amore», il suo percorso di fede. Alessandro e Beatrice, ospiti di Storie Italiane, hanno anche svelato di aver scelto la castità per tre anni, nonostante fossero già sposati civilmente, prima di celebrare il matrimonio in chiesa nel 2014: «È successo quando stavamo insieme già da diversi anni e avevamo due figli, in pellegrinaggio a Medjugorje - ha dichiarato Greco -. Sono accadute determinate cose che ci hanno portato a rinnovare il nostro sì nella nostra camera d’albergo. È stato come un’anticipazione del nostro matrimonio. Avevo capito dove stavamo arrivando e le ho detto: “Se tu sei pronta, io sono pronto e ti dico sì”. Stavamo arrivando alla scelta di mettere Gesù al centro della nostra vita, nei sacramenti e nella messa».

·        Alessandro Meluzzi.

Alessandro Meluzzi, la triste fine dell'arcivescovo complottista: come si è ridotto...Filippo Facci su Libero Quotidiano il 07 settembre 2022

Che poi dispiace di scrivere male di Alessandro Meluzzi, perché viene una certa età in cui alla fine ci si conosce tutti e lui è uno simpatico davvero: la prima volta che lo vidi in tv fu alla fine degli anni Ottanta a una delle prime trasmissioni di Giuliano Ferrara su Raitre, si parlava di droga e lui era giovane, magro, ben vestito (col panciotto) e figurava banalmente e solo come «psichiatra». Ora, più di trent' anni dopo, il punto è diventato se uno psichiatra non debba occuparsi di lui. Noi pensiamo di no, riteniamo che lui ci faccia e non ci sia, insomma, che vaneggi sapendo di vaneggiare. Ma non possiamo ancora spiegarci bene: perché c'è da adempiere al dovere giornalistico di spiegare chi è Meluzzi. Spiegare, soprattutto, che possa risultare omissivo dire solo che Meluzzi risulta psichiatra, saggista, ex comunista torinese (amendoliano) con parentesi al manifesto, seguiva fase craxiana, poi parlamentare della primissima Forza Italia del '94, poi senatore, poi ha mollato Berlusconi ed è passato con l'Udr di Cossiga, poi coi Verdi che l'hanno cacciato, poi con Lamberto Dini e Rinnovamento italiano, poi ha aperto un centro per malati di mente (Agape) e ha scritto libri con titoli come «Cristoterapia» e «Il maschio fragile, scopri il bastardo che c'è in te» e poi uno sulla mafia nigeriana con - pare - Giorgia Meloni.

Dimenticavamo di precisare che Meluzzi è gradito opinionista televisivo su qualsiasi argomento e consulente criminologo su casi giudiziari possibilmente celebri. Ci addentriamo poi con terrore nel lato religioso, limitandoci a dire che da laico socialista è passato dopo varie traversie alla Chiesa cattolica greco-melchita di rito bizantino (non sapete cos' è? Neanche noi) dopodiché se l'è presa con Papa Benedetto XVI e insomma è diventato un perfetto lettore della Verità. E' proprio convinto: ogni tanto circola in abito talare e dice messa in giro per l'Italia. In sostanza - fingiamo disinvoltura - si è autoproclamato primate, metropolita e arcivescovo di una particolare chiesa ortodossa non riconosciuta dalla Chiesa ortodossa, questo dopo che si era proclamato diacono di rito greco e di obbedienza romana pur destituito dalle gerarchie cattoliche in quanto lui legato alla massoneria, infine si è autoimposto col nome ecclesiastico-patriarcale di Alessandro I e l'onorificenza di Sua Beatitudine. Ecco, l'abbiamo scritto, e il problema è che l'articolo non è ancora incominciato perché in teoria dovremmo parlare del complottismo di Meluzzi su covid, gas e altre cose: e non parlare della sua barba da Rasputin e del suo look da scienziato pazzo dei film di fantascienza: che poi è il suo tema preferito, la fantascienza. Ultimamente non è vissuto sulla Terra né in Italia, ma a «Draghistan», nell'Italia sottomessa alla dittatura economica e sanitaria: un punto di riferimento dei sovranisti/novax/complottardi della peggiore Italia post-bizantina. Di quanto poi si sia avvicinato a Lega e Fratelli d'Italia non ce ne frega niente. Del suo attivismo social neppure: è fisiologico.

Ha preso a definire i quotidiani «carte da cesso», ce l'ha con Bill Gates definito capo del «Great Reset» «vecchio nerd masturbatore», l'altro giorno si è basato sui principi della psico-economia (non fate domande) spiegando che la crisi del gas deve essere letta con le lenti del «teorema Rothschild» dietro il quale si cela l'attuale fase dell'economia globale, laddove la finanza internazionale muove i suoi fili per assicurare il mantenimento dello status quo. La ripresa economica seguita alla pandemia e la guerra in Ucraina e la quotazione del gas sono interlacciati per scatenare una tempesta perfetta sull'Europa. Sembrano solo cazzate, e infatti lo sono. Alla fine di agosto l'industriale Alberto Balocco è stato ammazzato da un fulmine, ma secondo Meluzzi non aveva «segni di ustione»: e giù discussioni. Coi suoi 95mila follower su Twitter aveva pure sostenuto che il poliziotto poi condannato per l'omicidio del nero George Floyd fosse «un attore». Soprattutto, ora e sempre, che tutti i vip vaccinati contro il Covid-19 abbiano ricevuto «un falso vaccino»: l'ha detto anche durate una serie di convegni anche all'estero (vabbeh, a San Marino). Ma sono ciliegine. La torta resta che tanti dei morti passati alla cronaca potrebbero essere vittime di un famigerato « siero genico» (l'anti Covid) che nasconde oscure manovre mondialiste. Quando poi il motivo di alcune morti non viene riportato con crudezza cerusica - per privacy o deontologia giornalistica - il complottismo si eccita, e la barba di Meluzzi si allunga. Sull'inaffidabile enciclopedia wikipedia c'è scritto che Meluzzi «è altresì sostenitore della teoria del complotto di estrema destra QAnon e ne propaga i contenuti, diffondendo informazioni false sulle rete sociali, in particolare sulla pandemia di Covid 19». Magari, scritta così, è solo una sciocchezza come tante di wikipedia. Ma noi la riportiamo. Le diamo credito. Perché anche noi facciamo parte del complotto di estrema destra QAnon. Se solo ci spiegassero che cazzo è.

·        Alessandro Preziosi.

Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 30 maggio 2022.

La voce nel suo ambiente gira da tempo e con una certa insistenza, quindi si parte da lì, un po' in salita, forse, ma così non ci si pensa più. D'altra parte, Alessandro Preziosi, 49 anni, napoletano, attore da trent' anni in pista, due figli da due donne diverse - Eduardo, 27 anni, ed Elena, 16, avuta da Vittoria Puccini, 42 - dicono sia tipo che non si tira indietro. 

Passa per essere uno stronzo: conferma?

«Lo pensano in tanti, è vero. Meno di prima, però».

E lo è?

«Dice così solo chi non mi conosce. Sono napoletano e mi piace fare battute. Adoro prendere in giro le persone. Mi diverto con poco, solo che a volte sembra troppo. La mia stronzaggine, o il mio essere fuori luogo, si spiega così». 

In pratica che fa?

«La butto sul surreale, sottolineo il ridicolo, esagero un po'. Non prendo sul serio ciò che non deve essere preso sul serio. Ormai tutti si credono chissà cosa». 

Quelli dello spettacolo, poi.

«Appunto. A chi del mio mondo si lamenta, e succede spesso, dico: Hai capito o no che per mezza giornata di lavoro ti danno lo stipendio mensile di tre persone?. E poi i soldi sui diritti di immagine: qui non esistono i diritti veri...» 

La sua è una famiglia di avvocati (padre penalista, zio tributarista, madre pm), e anche lei si è laureato in Legge pur sognando di fare qualcosa con la musica: se la cavava o era solo un gioco?

«A Napoli e in Campania con il microfono in mano ci sapevo fare: cantavo e imitavo molto bene Maradona, Bombolo, Troisi, Vialli, Verdone... Mi è sempre piaciuto intrattenere. Ho anche inciso due dischi di rumba».

Rumba?

«Sì. Però io amo il blues: John Mayall, Ry Cooder, Eric Clapton... E sono cresciuto ascoltando Keith Jarrett. Con il piano provavo a rifarlo a orecchio».

A casa è stato faticoso far passare un sogno così?

«Sì, tanto. Mia madre ancora oggi mi dice che da giovane a me non servivano calci in culo, ma in faccia. I miei, per fortuna, mi hanno dato importantissime lezioni di serietà, che io non avevo». 

Cosa l'ha guidata ?

«Nessuna passione speciale, quella l'ho trovata dopo. Lo stimolo più forte è stato un altro: andar via di casa. Non volevo far soffrire e non volevo soffrire».

Solo che è diventato padre a 22 anni, quando andava ancora all'università.

«Già. E l'ho saputo a 21». 

Saperlo prima diciamo che succede quasi a tutti.

«Certo. Nel mio caso, però, quell'attesa ha determinato un grande cambiamento. Alla fine di quei nove mesi ho scelto, dopo aver accettato la scelta della madre di mio figlio, di diventare padre. Ho visto una personalissima aurora boreale». 

Che intende dire?

«Ho pensato a tutto: famiglia, amici, lavoro, amore, denaro, libertà, prospettive... E ho accettato la sfida senza mai tirarmi indietro». 

Ha detto di aver avuto una giovinezza da roulette russa, che ha rischiato la pelle più volte. Che cosa ha fatto e quando?

«Roba da incoscienti, più o meno dai 17 ai 25 anni. Poi con mio figlio di 2-3 anni mi sono un po' calmato».

Di che cosa stiamo parlando?

«Nel mio curriculum non ci sono furti d'auto o motorino, ma traversate spericolate per andare a ballare a Roma». 

Ha detto di essersela vista brutta.

«Meglio non raccontare. Diciamo che la roulette russa l'ho usata con una pistola giocattolo. Mi sono trovato coinvolto in alcuni incidenti stradali ma non guidavo io». 

Ai suoi figli ha raccontato tutto questo?

«Certo. Non voglio che perdano tempo a rifare cose stupide. Non è vero che certi errori bisogna farli per forza. Per fortuna ho due figli che mi dicono tutto. Li amo pazzamente. E credo che le mie difficoltà nelle relazioni siano anche frutto del fatto che quando a 21 anni trovi una forma di amore così assoluta, dopo è tutto più complicato».

Nelle interviste parla spesso di perdono: l'ha più concesso o ottenuto?

«Sono stato più perdonato. Gli altri sono andati più veloci di me. Io ho più risacca».  

Finora ha raccolto il giusto o poteva andare meglio? 

«Questo mestiere non è fatto solo di quello che porti sul set o sul palco, ma di scelte. E io nel farle ho sempre avuto fortuna»  

Teatro, tv e cinema: è più bravo a far cosa? 

«Sono forte a ping pong».  

Questa è una battuta? 

«Sì. Ho imparato a includere, sia nel lavoro sia nella vita. Speriamo che qualcuno non mi smentisca».

 A chi deve la sua fortuna professionale? Faccia un solo nome. 

«Il regista Antonio Calenda, che mi scelse per il mio primo spettacolo teatrale. Fu lui a notare che avevo qualcosa».  

La cosa di cui va più fiero? 

«Quando sono andato con un uomo».  

Scherzo o coming out? 

«Scherzo, per carità. Sono fiero di avere il coraggio di dire che sono un miracolato».  

Si considera tale? 

«Certo. Il miracolo determina sempre uno stupore nei confronti di ciò che accade. E io, non ho dubbi, sono stupito e consapevole. Se penso alle tante cose fatte in questi anni, di recente anche un documentario da regista sul terremoto dell'Irpinia di cinquant' anni fa, me lo ripeto: sono un miracolato».

 La delusione più cocente? 

«Non aver recitato il ruolo di Le Chiffre, l'antagonista di 007, in Casino Royale del 2006. La sera prima del secondo provino feci tardissimo e il giorno dopo non avevo voce».  

Non si è presentato al provino per The Young Pope di Paolo Sorrentino nonostante la convocazione: perché? 

«Ero impegnato a teatro. Lui per me è un grandissimo. Spero in un'altra occasione». 

Vi conoscete?

 «L'ho incontrato anni fa allo stadio, a Napoli, per la finale di Coppa Italia Napoli-Fiorentina. Accompagnando atleti paralimpici sono arrivato senza biglietto fino alla tribuna d'onore e mi sono seduto proprio al suo posto. Che ci fai qui?, mi disse. Alla fine vincemmo noi». 

Da regista farà anche un film? 

«Sì. Ci sto lavorando. Il punto di partenza è Lettera al padre, di Franz Kafka. Nel frattempo vorrei anche mettermi a suonare più seriamente il piano e cantare. Per la prossima edizione dell'Umbria Film Festival di Paolo Genovese farò uno spettacolo con Mogol sulle sue canzoni. Io canterò e reciterò. Per me è un gigante».  

Suo padre e suo nonno in passato sono stati sindaci di Avellino: ha mai pensato alla politica? E' vero che lei è stato vicino ai 5Stelle? 

«No (ride), mai. La politica per me è qualcosa di lontano. E poi non sono ricattabile». 

Tutti quelli che fanno politica lo sono? Lo dice perché lo sa?

 «Perché lo vedo. Si fanno troppi compromessi che non rispettano il benessere di tutti». 

 Nel suo ultimo film Bla bla baby il suo personaggio ha il superpotere di parlare con i neonati: quale superpotere vorrebbe avere?

 «Nessuno. Vorrei solo ricordarmi sempre che la speranza è la forma più grande di amore». A proposito di amore, è sempre signorino ? «Sì. Con prole».

·        Alessandro Esposito detto Alessandro Siani.

Siani: «Il mio primo show a scuola grazie al prof di religione. Maradona mi disse: “Ho paura”». Renato Franco su Il Corriere della Sera domenica 24 Luglio 2022. 

« Padre operaio, mamma casalinga, vivevamo in una casa dove io non avevo una mia stanzetta e per studiare andavo sul pianerottolo, sulle scale, che era pure più fresco. Ogni volta che sentivo il rumore dell’ascensore correvo via per non farmi vedere che stavo in mezzo alle scale. E ancora oggi quando sento il rumore dell’ascensore inizio a correre». Alessandro Esposito da Napoli ha toccato le sue vette da attore con Benvenuti al Sud (30 milioni di euro di incassi) e la massima esposizione a Sanremo 2012 (presentava Morandi) con il suo monologo da 11 milioni di spettatori. Allora aveva però già cambiato il suo cognome in onore di Giancarlo Siani, assassinato dalla camorra. «Vivevo ai quartieri spagnoli, la notizia della sua morte rimbalzò nei telegiornali e fece rumore perché era stato ammazzato non solo un giornalista, ma soprattutto un uomo perbene. È uno dei primi ricordi pubblici che ho ben presenti. Più avanti, quando avevo 18-19 anni, non sapevo ancora se avrei fatto questo lavoro, avevo alle spalle solo qualche spettacolino amatoriale e pensai a questo omaggio. Non mi rendevo bene conto dell’impatto e della forza di una scelta del genere, ma facciamo questo lavoro anche per lasciare un segno».

Cosa l’ha spinta a mettersi al centro dell’attenzione, a salire sul palco? «Da ragazzino ero già un comico nella mia classe, non quello che faceva le imitazioni dei professori e nemmeno il pagliaccio delle barzellette, ero un ragazzo che notava le contraddizioni che ci circondano e le trasformava in mini-monologhi. L’insegnante di religione mi propose di fare uno spettacolo per la scuola, mi disse che se facevo le prove di teatro me le scalavano dalle ore di studio. Accettai subito, anche perché io non amavo studiare, entravo a scuola solo quando mi ero proprio stufato di marinare».

L’ironia funzionava più da acceleratore per integrarsi in un gruppo o da compensazione perché si sentiva escluso? «In realtà quando fai ridere o emozionare tu provi dentro di te delle sensazioni che sono difficilmente decifrabili confrontandoti con gli amici, con la comitiva che frequenti. Mentre loro desideravano andare in discoteca, io sentivo l’esigenza di stare fuori a parlare. La discoteca per me era chiusura, non apertura. La ricerca del comico è sempre di confrontarsi con la gente, l’aspetto delle relazioni umane è fondamentale. E oggi è più importante che mai. Il like dei social non è paragonabile a un “mi piace quello che stai facendo” detto guardandoti negli occhi; la ricerca di quel mi piace quotidiano ti spinge a fare meglio. Lo capisci piano piano e non vedi l’ora di essere abbracciato dalla gente: non è un’esigenza narcisistica, ma è quella voglia irrefrenabile che provi sul palco e sul set, un’adrenalina spontanea di cui ti nutri attraverso la gente».

I primi spettacoli? «Facevo tanta improvvisazione, gli show duravano anche tre 0 quattro ore perché non volevo mai scendere dal palco. Con il tempo ho capito che l’improvvisazione non deve essere un elemento per colmare il vuoto di una sceneggiatura, ma deve essere un momento di estasi, di virtù. Sono partito da un localino di 80 spettatori e sono arrivato allo stadio San Paolo, con le sue 25 mila persone. Era la prima volta di un comico in uno stadio, c’era gente così confusa che chiedeva dove bisognava scavalcare per entrare».

I modelli? «L’imprevedibilità e l’improvvisazione di Totò, il sentimento ironico di Massimo Troisi, la drammaturgia — sia comica sia drammatica — di Eduardo hanno assolutamente influenzato il mio modo di vedere la comicità. È stato strepitoso crescere con le loro invenzioni, le loro battute, le loro frasi. Io neanche lontanamente sono stato in grado di avvicinarmi alla loro grandezza, e non lo dico per umiltà ma per lucidità...».

C’è chi la accusa di assomigliare troppo a Troisi. Le dà fastidio? «I grandi hanno lasciato un’ideologia, un pensiero, una strada, una filosofia. La mia è una instant-comicità, una comicità momentanea; certo il sogno è fare qualcosa che possa restare nel tempo, ma obiettivamente io sono il nulla in confronto a loro».

Pino Daniele è un altro mito napoletano. «Fu lui a dirmi che mi voleva conoscere, mi invitò a casa sua e mi scrisse la colonna sonora per un film (La seconda volta non si scorda mai) senza volere soldi. Porto dentro di me le giornate con lui, i suoi racconti; ho conosciuto tutta la famiglia, sento ancora i figli; quell’atmosfera è stata formativa per la mia crescita».

«Benvenuti al Sud» fu un successo clamoroso. «Io e Claudio (Bisio) veniamo da due scuole diverse di comicità; io rappresento la nuova scuola napoletana, con uno slang più underground; Claudio ha alle spalle l’eredità della comicità milanese di Dario Fo, Jannacci, Cochi e Renato. Quell’incontro fu un colpo di fulmine, si creò un’alchimia strepitosa, la previsione era di 4/5 milioni di incasso... Era un remake di un film francese, noi lo abbiamo cambiato nel linguaggio e poi l’abbiamo rivenduto ai francesi. Come diciamo noi, abbiamo fatto pacco, contropacco e contropaccotto».

Che set è stato? «Quando io iniziavo a parlare napoletano Claudio non mi capiva, rispondeva con frasi che non c’entravano nulla. Io lo seguivo a ruota e venivano dei ciak improvvisati strepitosi. Questo gioco tra noi due è stato fondamentale».

La svolta della carriera? «Una telefonata di Lucio Presta che mi chiamò per invitarmi al Festival di Sanremo 2012; l’idea era di portare in scena i Tre Terrones, evoluzione meridionale dei Tre Tenori. Dovevamo essere io, Checco Zalone e Rocco Papaleo. Per vari impegni i Tre Terrones non si realizzarono, quindi andai da solo e usando la metafora della barca feci un monologo sull’Italia, un Paese diviso che aveva bisogno di essere unito. Quell’occasione mi diede l’opportunità di far capire al pubblico che non ero solo l’attore di Benvenuti al Sud, ma anche un comico da andare a vedere a teatro. Da lì l’asticella, la responsabilità, l’attenzione si sono alzate; da lì tutto è cambiato».

Sanremo è catalizzatore unico? «È il palcoscenico più importante d’Italia, l’edizione del 2020, in piena pandemia ci ha lasciato una strepitosa conduzione di Amadeus e di Fiorello. Fiorello poi è strepitoso in tutte le situazioni, ma sul palco di Sanremo senza pubblico fu Maradona».

Ha fatto molti film con Christian De Sica. «È un mito, un’icona; la prima volta che recitai con lui ebbi la sensazione del pulcino del Napoli accanto a Maradona. Siamo completamente diversi, nel camerino lui ama il freddo, io il caldo; io mangio prima di andare in scena, lui dopo. Ma ci unisce la voglia di divertire il pubblico: lui davanti a una risata del pubblico non guarda in faccia nessuno».

Ancora Maradona. Voi napoletani non riuscite a muovervi da lì? «Per noi Maradona è un esempio di grandezza. Io ho conosciuto lui, Pino Daniele, Luciano De Crescenzo, ho capito che avevano una matrice comune: il fatto di intercettare il pensiero della gente anche tra mille contrasti e mille problemi. Maradona l’ho diretto come regista in uno spettacolo al San Carlo, prima di salire sul palco Diego era pensieroso nel camerino. Mi disse: ho paura, ho paura di deludere la gente. Lui, Maradona. Eppure il pensiero era sempre quello, la gente. Non nascondeva le sue fragilità e contemporaneamente era un gigante».

Una battuta di cui si è pentito? «La battuta è strepitosa per un semplice motivo: tu la porgi al pubblico e il pubblico decide se è piaciuta o no. È la cosa più democratica del mondo. Se piace la tieni; se no la elimini».

Lei è un personaggio pubblico, si sente prigioniero del pubblico? «Applico una regola semplice: se ho giornate storte, sto a casa, perché essere del pubblico significa esserlo appena esco dalla porta di casa mia. Non mi posso lamentare se qualcuno mi chiede una foto o mi registra inaspettatamente con il cellulare».

La politica che sentimenti le suscita? «Comici. La sinistra ha la costola di Di Maio, di Calenda, di Renzi, di Santori... ha più costole il Pd di un dinosauro, e ricordiamoci che i dinosauri si sono estinti. Noi siamo cresciuti con il mito degli americani. Se c’era un problema o lo dicevi a tuo padre o al presidente americano. Erano gli unici due che potevano fare qualcosa. Oggi nei discorsi di Biden ci stanno più papere che nel lago di Garda. Questa mancanza di riferimenti è un disastro. Un riferimento però c’è: odio la parola resilienza, perché da quando la usano è tutto un disastro».

Un lusso che si è concesso? «Comprare casa ai miei genitori: quello che avevo desiderato per me l’ho fatto prima per loro, era una spesa folle perché non sapevo se il mio domani sarebbe stato di successo. Ora sono arrivato a 27 anni di carriera ma allora non avevo la certezza di resistere così tanto. E non voglio usare la parola resilienza...».

Per i monologhisti oggi è più dura, tempi più stretti, attenzione più bassa: una foto e una battuta come insegna Osho... «Il fast-smile ormai è un processo che interessa il mondo della comicità. Penso che gli spettacoli non dovrebbero durare più di un’ora e mezza, come fanno gli americani che sono compressi, funzionali, efficaci; è questa la chiave. Nella nostra tv una volta si pensavano monologhi da 20 minuti, ora dopo 3 minuti secondo me te ne devi andare. Meglio 10 interventi da 2 minuti che 20 in una botta sola, altrimenti facciamo gli spettacoli che fanno riflettere, cioè la gente riflette e pensa: ma che so’ venuto a fare a vedere questo?».

·        Alessio Boni.

Alessio Boni: «Odiavo fare il piastrellista. Un produttore mi molestò in un hotel di New York». Emilia Costantini  su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2022.

L’attore: «Comencini e Masina mi bocciarono per l’accento». I tormenti: «Da ragazzino mi sentivo ignorante, detestavo gli studi che avevo fatto. Ogni tanto mi ritrovavo a piangere davanti al Lago d’Iseo». Il ruolo più difficile: «Rievocare Walter Chiari» 

«Due cose non puoi scegliere nella vita: in quale luogo nascere e in quale famiglia. Io sono nato nell’ospedale di Sarnico in una famiglia proletaria, di piastrellisti», racconta Alessio Boni, che però non ha fatto il piastrellista. «Mio padre e i suoi parenti facevano questo mestiere a Villongo, e sarebbe stata una cosa normale per lui che io facessi altrettanto. Per un po’ l’ho accontentato, mentre frequentavo le lezioni serali all’istituto di ragioneria, ma mi sentivo ignorante, detestavo quel lavoro, quel tipo di studio e persino il paese che mi circondava. Ogni tanto andavo a piangere di fronte al vicino Lago d’Iseo e mi chiedevo: perché mi capita tutto questo?».

E dopo i pianti?

«Decisi: scappo, vado nelle forze dell’ordine. Faccio la domanda, mi prendono in Polizia. Ero contento, pensavo di diventare un Serpico, ma non mi piacevano tutte quelle gerarchie ingessate e scappo di nuovo, vado negli Stati Uniti e... vedrai, lavorerò in qualche ditta importante, farò import export, imparerò l’inglese... Invece faccio il lavapiatti, il babysitter, anche in nero, sì, cari americani, anche in nero! Ma i soldi per mantenermi non bastano mai e torno in Italia con le pive nel sacco. Non mi arrendo, il piastrellista proprio no e mi metto a fare l’operatore turistico, comincio ad appassionarmi nel creare quegli spettacolini per gli ospiti del villaggio. Riuscivo sempre a coinvolgere il pubblico. Il capo animatore, osservando le mie discrete capacità di intrattenimento attoriale, un giorno mi dice: perché non provi al centro? Io lo guardo e, siccome eravamo sul Gargano, gli rispondo: il centro di Vieste? E quello ribatte: ma no, il Centro Sperimentale di Cinematografia! Decido di nuovo: vado a Roma, per tentare lo scritto, tanto mi cacceranno... Invece passo lo scritto, poi la seconda fase e alla terza fatidica fase mi trovo davanti dei mostri sacri».

Chi erano?

«Luigi Comencini, Giulietta Masina, Mauro Bolognini... Esordisco, con voce impostata: buongiorno. E Comencini subito mi chiede: Bergamo o Brescia? Oddio!, penso: si sente così tanto? Credevo di non avere un accento così forte. E la selezione non la passo, però è un’iniezione di fiducia».

Fiducia? Ma se era stato bocciato!

«Sì, perché mi sono reso conto di quanto fossi ignorante. Così cerco lavoro, lo trovo come cameriere, poi mi iscrivo alla scuola di Alessandro Fersen e qui scopro che Stanislavskij non era il centravanti di una squadra di calcio russa, ma un pedagogo del teatro. Scopro anche, grazie all’insegnante di dizione, che avevo una cadenza dialettale forte: non mi ero mai sentito, me ne accorgo durante un saggio e per la vergogna credo di non aver parlato per due giorni».

Dunque, la sua passione per il teatro fu immediata?

«All’inizio volevo fare solo cinema. Il teatro mi sembrava una roba noiosa per vecchi. Però una sera degli amici romani mi propongono di andare al Sistina. Non c’ero mai stato e ho chiesto consiglio su come vestirmi, figuratevi la risposta... Assisto alla Gatta Cenerentola con Beppe Barra protagonista e mi si scoperchia il cervello: capii che volevo fare teatro e qual era la scuola più importante? L’Accademia Silvio d’Amico. Vado, mi iscrivo per fare il provino».

Con quell’accento dialettale e con il semplice diploma di ragioneria?

«L’accento lo avevo superato, grazie alla frequentazione della Fersen. Quanto al diploma da ragioniere, non era richiesto solo il liceo classico, anche se i miei colleghi mi chiedevano cosa significasse fare il piastrellista... Certo, mi sentivo un pesce fuor d’acqua... Fino al fatidico giorno del provino...».

Che succede?

«La commissione era severissima, erano mazzate... Mi è successa una cosa stranissima. Avevo preparato un brano da I sette contro Tebe , ma poco prima che toccasse a me non ricordavo nemmeno la battuta iniziale. Dieci secondi di terrore, una follia: mi vedo recitare dall’esterno, come se stessi in estasi. Sono arrivato fino alla fine senza rendermi conto di ciò che avevo fatto. Però superai la prova».

E il papà piastrellista come reagì al figlio che voleva fare l’attore?

«Si vergognava. I commenti dei paesani erano sprezzanti, gli dicevano: Alessio gira il mondo a spese tue? Io lo capisco, perché veniva dal dopoguerra, si era rimboccato le maniche, era riuscito a costruirsi faticosamente il suo piccolo impero, il negozio di piastrelle, un futuro sicuro per noi tre figli maschi. Si sentiva tradito e avvertivo il peso della sua disapprovazione: avevo i capelli lunghi, i jeans stracciati, giravo il mondo... uno scialacquatore di soldi, anche se mi mantenevo. Quando d’estate tornavo a casa, mi rimetteva a fare il suo lavoro, finché ho detto basta e poi sono arrivate le prime importanti esperienze con gli Strehler, i Ronconi...».

I suoi genitori venivano ad applaudirla?

«All’inizio non capivano cosa stessi facendo. Solo quando acquistai un po’ di visibilità nei primi film, se usciva la mia foto sul giornale, seppi da mia madre che papà ne comprava una decina di copie e le distribuiva a parenti e paesani. Mi fece tenerezza, era la sua rivalsa, come a dire: vedete, mio figlio non è un lazzarone, ha solo voglia di fare un altro lavoro. E la consacrazione arrivò con La meglio gioventù: alla presentazione al Festival di Cannes era presente la famiglia intera. Io mi giro e vedo mio padre, nordico, austero, commosso. Era orgoglioso di me, pur non riuscendo mai a dirmi: bravo».

I sogni americani archiviati?

«Assolutamente no, però mi accadde un episodio sgradevole. Avevo 24 anni, frequentavo ancora l’Accademia e la mia agenzia mandava in giro il mio curriculum per propormi a qualche produttore. Vengo contattato per un incontro in un mega hotel a Piazza di Spagna, dove un produttore americano stava cercando giovani attori per un nuovo progetto. Vengo accolto in una suite imperiale. Non mi esprimevo in un eccellente inglese, ma abbastanza buono e mi scelgono. Mi puzzava un po’ questa scelta: com’era possibile che prendessero proprio me? Comunque la fortuna può girare, allora parto per l’America e a New York vengo invitato a cena dal produttore in un altro meraviglioso hotel al Central Park. Mi spiega che intendeva fare di me un nuovo divo di Hollywood, però poi... inizia con le avances, dicendomi semplicemente: se diventi il mio amante, diventerai una star. Lo guardai scioccato. Ciò che mi aveva ingannato era che lo sapevo sposato e con un figlio, quindi non mi passava per l’anticamera del cervello la possibilità di una sua proposta sessuale. Riprendo l’aereo e ritorno all’Accademia».

Tra i numerosi personaggi del repertorio classico che ha impersonato, quale è stato quello più difficile da restituire al pubblico?

«Non è stato un classico, ma dico Walter Chiari. E non perché i personaggi delle tragedie greche sono facili, ma perché lo spettatore quei personaggi non li ha mai conosciuti, mai incontrati. Mentre Chiari lo conoscono tutti e persino la casalinga di Voghera poteva dire: no, questo interpretato da Boni non c’entra niente con il vero Chiari. Rievocarlo per me è stata l’impresa più difficile della mia carriera, era un’anguilla che mi scivolava tra le mani e sul set più volte mi sono pentito di aver firmato quel contratto».

È stato altrettanto difficile interpretare il Matteo Carati de «La meglio gioventù» che ha il triste epilogo del suicidio?

«Non sapevo cosa fosse il suicidio, cosa scatta in mente a chi arriva a questa tragica decisione. Purtroppo l’hanno fatto due persone che conoscevo bene: una si è buttata dall’ultimo piano di un hotel, l’altra si tagliò le vene. L’incontro con la morte mi ha reso più carico di umanità, di quell’immagine non ti liberi più».

A proposito di umanità: ha mai avuto una lite con un collega di cui si è poi rammaricato?

«A volte discuto animatamente, senza arrivare allo scontro».

Una critica offensiva del suo lavoro da cui si è sentito ferito?

«Qualcuna negativa è capitata, ma sono sempre migliorative. Diceva Alda Merini: ringrazio i miei nemici, perché sono i più attenti a ciò che scrivo. Amo ricordare il più bel complimento che abbia mai ricevuto. Una volta ero a Lecce per presentare proprio La meglio gioventù e, dopo la proiezione, venne una signora con la figlia, una ragazza non vedente e mia fan sfegatata. Mi disse che l’avevo emozionata perché, pur non potendo guardare i tratti del mio viso, le arrivava la mia forza interiore, il mio recitare col cuore».

Perché ha affermato che vorrebbe interpretare una drag queen?

«È un mondo lontanissimo dal mio, non lo conosco, vorrei conoscerlo intimamente e non con la faciloneria di quelli che, a volte, si cimentano in questo ruolo. Vorrei capire il motivo per cui certe persone nascono con un involucro, il loro corpo, in cui non si sentono a proprio agio. E mi affascinerebbe comprendere il passaggio da un sesso all’altro, le perplessità, le difficoltà nell’affrontare l’esistenza».

La sua compagna e madre dei suoi figli è la giornalista Nina Verdelli: le dà qualche consiglio mediatico?

«È molto più social di me e mi suggerisce le news da pubblicare o no su Instagram. Seguo sempre i suoi preziosi consigli».

Si intitola «Mordere la nebbia» il suo libro recentemente pubblicato. Quanto le è servito essere bergamasco per fare il suo mestiere?

«Bergamo mi è servita tanto per darmi lo stimolo a dimostrare ciò che sapevo fare. Mi sento bergamasco in quanto testardo: se mi prefiggo degli obiettivi, vado avanti, non mi arrendo e non mollo, magari sbattendo la testa. Mordere la nebbia è un motto per i giovani: capire cosa c’è dietro la nebbia senza averne paura». 

·        Alessia Marcuzzi.

Alessia Marcuzzi compie 50 anni: gli esordi, 25 anni a Mediaset, i due figli, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l’11 Novembre 2022.

La conduttrice televisiva, che nel 2023 tornerà in Rai con il programma Boomerissima, è nata a Roma l’11 novembre 1972

Gli esordi

«Sento tantissimo il tempo che passa, sono piena di fragilità, è un’età complicata avvicinarsi ai cinquant’anni. So di essere fortunata, sia chiaro, dico che è difficile a livello interiore. Lo so, non sembra: quando ti vedono in televisione sembri invincibile». Alessia Marcuzzi (è sua la citazione appena riportata, tratta da un’intervista rilasciata un paio di anni fa a Grazia) festeggia proprio oggi 50 anni. Nata a Roma l’11 novembre 1972 ha mosso i suoi primi passi televisivi a Telemontecarlo, nello show «Attenti al dettaglio» del 1991. Nel 1994 arriva in Rai e affianca Gigi Sabani a Il grande gioco dell'oca su Rai 2. Ma queste non sono le uniche curiosità su di lei.

Il successo con Colpo di fulmine

Il primo grande successo per Alessia Marcuzzi, Colpo di fulmine (1995): lo show di Italia 1 di appuntamenti al buio diventa subito popolarissimo. L’anno successivo la conduttrice approda al Festivalbar (accanto ad Amadeus e Corona), programma che condurrà fino al 2002, e nel 1997 è al timone di Fuego! (altra trasmissione pomeridiana di Italia 1).

Mai Dire Gol

Anche Mai Dire Gol è stato un programma particolarmente fortunato per Alessia Marcuzzi: la trasmissione della Gialappa's Band (i «Gialappi», come li chiama la conduttrice), tra il 1998 e il 2000, le ha regalato una ulteriore popolarità.

Tra cinema e tv

Dopo alcune piccole esperienze cinematografiche (il cameo in «Chicken Park» di Jerry Calà e il ruolo in «Tra noi due tutto è finito» di Furio Angiolella) nel 1998 Alessia Marcuzzi prende parte a «Il mio West» di Giovanni Veronesi. «La recitazione è la mia vera passione, avrei voluto fare l’attrice - ha raccontato al Corriere -. In quel film ero al fianco di David Bowie e Harvey Keitel: proprio lui mi diede delle dritte per fare l’Actor’s Studio in America». Per la televisione tra il 2004 e il 2006 è la protagonista della serie di Canale 5 «Carabinieri». Recita anche nella seconda stagione della fiction «Il giudice Mastrangelo 2» (2009), nel film «Un amore di strega»(2009) e nella sketch comedy «Così fan tutte» (2009-2012).

I calendari sexy

Nel 1998 Alessia Marcuzzi si fa immortalare senza veli per il calendario del mensile Max, seguito nel 2000 da quello per Panorama. Il rapporto con il suo corpo? «Ora è ottimo - ha dichiarato la conduttrice nel 2017 al settimanale Oggi -. Starei sempre nuda, farei un calendario anche domani. Amo la mia fisicità anche se da ragazzina ero una specie di ‘cozza’: alta, rossa e con le lentiggini. Quando mi proposero di fare foto sexy fui entusiasta. Pensai: ecco la mia rivalsa!».

Le Iene

«Avevo lasciato tutto, anche la tv. Volevo solo sposarmi e fare la mamma. Ero la casalinga perfetta». Così diceva Alessia Marcuzzi al Corriere nel 2015 ricordando la sua storia d’amore con il calciatore Simone Inzaghi, con cui nel 2001 ha avuto il figlio Tommaso. Quell’anno però, dalla tv, è arrivata una nuova proposta: «Dal nulla mi chiamarono per condurre Le Iene». Marcuzzi ha condotto la trasmissione dal 2001 al 2005 e dal 2018 al 2021. «Sono la iena meno cattiva del mondo, non perché pensi di essere quella buona, ma perché continuo a credere nelle persone, forse un po’ troppo. Vedo sempre il bene e a volte la pago sulla mia pelle. Spesso sul lavoro devi affrontare situazioni scomode: io, invece, rimango atterrita, non sono capace di nascondere un disagio, dovrei essere più navigata. Per questo alle Iene mi sento protetta».

La figlia Mia (e il matrimonio a sorpresa)

Oltre a Tommaso Alessia Marcuzzi ha anche un’altra figlia, nata nel 2011 dalla relazione con Francesco Facchinetti: Mia. In seguito alla rottura nel 2014 la conduttrice è convolata a nozze - a sorpresa, a Londra - con il produttore televisivo Paolo Calabresi Marconi. «Ci conoscevamo già da ventenni - ha raccontato al Corriere -. Ci guardavamo da lontano, eravamo sempre fidanzati nei momenti sbagliati. Si liberava lui e mi impegnavo io. Quando ci siamo trovati mi ha confidato che, anni fa, credeva fosse la volta buona: stava per farsi avanti quando sono usciti i giornali in cui io e Francesco ci baciavamo sui monti. E ha detto: ma come?!». Il matrimonio è durato otto anni: nel settembre 2022 è arrivato, tramite una nota congiunta inviata all’Ansa, l’annuncio della separazione.

Conduttrice di reality

Nel ricco curriculum di Alessia Marcuzzi ci sono due importanti conduzioni: il Grande Fratello (2006-2015) e L'isola dei famosi (2015-2019). Nel 2019 e nel 2020 ha anche guidato Temptation Island, il suo ultimo impegno targato Mediaset. Il 30 giugno 2021 infatti, tramite un comunicato ufficiale, ha annunciato l’addio all’emittente dopo venticinque anni: «Voglio essere io a dirvelo, prima che lo leggiate su qualche blog in maniera distorta. Dopo 25 anni in Mediaset ho deciso di prendermi un momento per me, perché non riesco più a immaginarmi nei programmi che mi venivano proposti. È per questo motivo - non vi nascondo con grandissima sofferenza - che ho deciso di comunicare all’Editore e all’Azienda di voler andare via, salutandoli con stima e affetto e ringraziandoli per aver avuto fiducia in me tutti questi anni. La mia carriera televisiva è iniziata proprio lì e quindi ringrazierò sempre tutti per la crescita professionale che mi hanno permesso di fare. Credo però che questa pandemia, oltre a tutto il male che ha portato, abbia dato a molti di noi la possibilità di guardarci dentro, per capire davvero chi siamo e cosa vogliamo diventare. Io lo sto facendo, e spero di non deludere me stessa e quella che sono». Nel 2023 Alessia Marcuzzi tornerà in tv, in Rai, con un nuovo programma su Rai 2: Boomerissima.

·        Alessia Merz.

Marco Vigarani per corriere.it il 2 aprile 2022.

Fra gli Anni 90 e Duemila, Alessia Merz è stata uno dei volti più noti della televisione italiana. Da “Non è la Rai” a “Striscia la Notizia” passando per “Meteore”, “Quelli che il calcio” e alcuni progetti cinematografici come “Jolly Blu”.

 Da un decennio però il suo volto si vede raramente in televisione perché ha cambiato vita e si gode a Zola Predosa la famiglia che ha creato con l’ex calciatore Fabio Bazzani, oggi nello staff di Sinisa Mihajlovic al Bologna.

Chi è oggi Alessia Merz?

«Una donna realizzata che ha vissuto due vite bellissime. Una che le ha permesso di togliersi grandi soddisfazioni, guadagnare bene e viaggiare tanto; l’altra che la rende felice come moglie e mamma. 

Oggi faccio i compiti con i figli, li sgrido quando c’è bisogno ma non sono una casalinga disperata. Sono uscita dal mondo dello spettacolo per scelta e sono soddisfatta della mia decisione»

Eppure c’è ancora tanta curiosità per lei.

«Mi rende felice. Ho avuto la fortuna di partecipare a programmi molto noti e popolari ma lo show business è spietato e tanti colleghi si sono ritrovati fuori senza motivo, finendo anche in depressione. 

Personalmente ho fatto una scelta e mi piace, oggi come allora, fermarmi a fare due chiacchiere con le persone. Non me la sono mai tirata. Una decina d’anni fa, quando andavo al supermercato sentivo la gente chiedersi se fosse davvero Alessia Merz a spingere il carrello, pensavano che non fosse possibile e invece mi divertivo a salutare confermando che non vivevo su un altro pianeta»

È stato difficile il distacco dal mondo dello spettacolo?

«In realtà non me ne sono quasi accorta. Ho conosciuto Fabio, dopo un anno ci siamo sposati e poi sono arrivati subito i nostri due figli. Ero talmente entusiasta di questa nuova fase della mia vita che sono trascorsi tre o quattro anni in un istante, con emozioni diverse e bellissime. Volevamo una famiglia e l’abbiamo costruita. L’uscita dal mondo dello spettacolo è stata voluta e naturale» 

Il binomio calciatore-showgirl sembrava un cliché e invece voi avete sconfitto i luoghi comuni.

«Siamo una coppia atipica che è sempre apparsa poco sui giornali. Dopo una vita sotto le luci dei riflettori in cui siamo stati fortunatissimi a fare un lavoro che ci piaceva, oggi apprezziamo entrambi anche stare a casa. Preferiamo la trattoria ruspante al locale chic dove firmare due autografi in più. Ci piace essere Alessia e Fabio. Il top della nostra mondanità sono le vacanze estive a Milano Marittima».

Dalle grandi città a Zola Predosa: cosa ha trovato in questa dimensione?

«Volevamo vivere in un posto in mezzo al verde, non in centro città, ma nemmeno isolato: abbiamo pensato che questo paese fosse perfetto. Ho vissuto anni in cui mi svegliavo in un hotel diverso ogni mattina e passavo giornate in aeroporto, è stato bellissimo ma ad un certo punto ti senti una scheggia impazzita che non si ferma mai. Non rinnego nulla e non ho rimpianti ma ho preferito fermarmi»

Riceve ancora proposte che fanno vacillare questa scelta?

«A volte può mancarmi l’idea di fare qualcosa che mi permetta di rimettermi al centro, ma la mia vita oggi è inscindibile da quella della mia famiglia. Quando faccio qualche lavoro per un paio di giorni capisco che non ho più la mentalità di un tempo. 

Le proposte importanti ci sono anche per i reality: mi avevano chiesto di partecipare a “Pechino Express” e anche all’edizione che è appena iniziata de “L’Isola dei Famosi”. Però non potrei stare tanti mesi lontana da Fabio e dai ragazzi: potrebbe andare a fuoco la casa!». 

Quali sono i progetti a cui ha partecipato che ricorda con più affetto?

«Li ho affrontati tutti con una mentalità diversa da quella che ho adesso, ero una ragazza di carattere ma timida, oggi sono una donna. “Striscia la Notizia” era perfetto: lavoravi poco, ti divertivi e guadagnavi tanto.

“Sanremo Giovani” dal Teatro Ariston è stato il top a livello di soddisfazione personale. E ancora le risate dietro le quinte in “Candid Angels” o le emozioni nell’incontrare icone come Sandy Marton, Samantha Fox o Larry Hagman in “Meteore”. Erano tutti programmi con idee forti alla base, oggi forse ce ne sono meno e si preferiscono i reality. Però non li condanno: è solo una constatazione». 

Con quali occhi guarda la televisione oggi?

«Mi diverte molto seguire proprio i reality perché conosco tre quarti dei concorrenti, so come sono davvero e capisco subito quando fingono. Mi piace scoprire in anticipo le dinamiche del gioco e infatti mia figlia mi rimprovera per questo motivo.

Non dico però che i reality siano finti perché ormai sono sempre più lunghi e dopo qualche giorno ti dimentichi sempre delle telecamere. Anche quando partono come finzione, inevitabilmente diventano veri. Con mio figlio invece guardo il calcio che è sempre stato la mia grande passione, tanto da andare da sola al Bernabeu di Madrid per una partita». 

In trent’anni si è passati da “Non è la Rai” a TikTok.

«A differenza di altre colleghe, non rinnegherò mai di aver partecipato a “Non è la Rai”. È stata una palestra di vita ritrovarmi a competere con un centinaio di ragazzine per ottenere un’inquadratura.

Senza contare le lamentele dei genitori appostati dietro le quinte come iene. Le cose sono cambiate, ma in realtà sono anche rimaste uguali. Un paio d’anni fa ho portato mia figlia a un evento in un centro commerciale perché impazziva per alcuni TikToker: lei filmava il palco e i genitori degli altri ragazzi chiedevano una foto a me. È stato divertente». 

Cosa è cambiato in questi anni?

«Penso di essere stata fortunata a fare il mio lavoro negli anni d’oro. Lo stesso potrei dire per Fabio nel calcio. La concorrenza fra Novanta e Duemila era fortissima ma era tanta anche la soddisfazione. Si percepiva di più il senso di un evento. Quando ho fatto il calendario non ho dovuto propormi, sono stata cercata e inseguita al pari di colleghe del livello di Alessia Marcuzzi, Paola Barale o Sabrina Ferilli. È stato un bel riconoscimento». 

Quali sono i colleghi con cui ha lavorato più volentieri?

«Con Max Pezzali abbiamo lavorato praticamente per tre anni consecutivi fra “Sanremo Giovani”, “Jolly Blu” e “Telethon”: ci divertivamo un sacco. Poi stimo tantissimo Amadeus, una persona sincera che merita tutto quello che sta ottenendo.

E ancora la cultura e l’ironia di Fabio Fazio, la comicità tagliente di Gene Gnocchi, la complicità con Samantha De Grenet e Filippa Lagerback. L’elenco sarebbe lungo. Magari non abbiamo contatti frequenti ma quando ci rivediamo è come un ritrovo con i compagni delle superiori». 

Se sua figlia volesse seguire la sua strada, glielo consentirebbe?

«Le piacerebbe farlo e intendo lasciarla libera di seguire i suoi sogni. Le ho già detto però che non è tutto oro quello che luccica: ci sono tanti sacrifici da fare e serve anche la fortuna di essere nel posto giusto al momento giusto.

Senza dimenticare i fatti spiacevoli. In passato mi sono trovata in auto con una persona di cui mi fidavo che mi aveva promesso un film e solo urlando più forte che potevo sono riuscita ad uscirne illesa. Sicuramente quindi con lei avrò l’attenzione di evitarle certi pericoli».

·        Alessio Giannone: Pinuccio.

Pinuccio si racconta: "Mi chiamò Striscia pensai a uno scherzo e chiusi il telefono". Gianni Messa su La Repubblica il 30 gennaio 2022.

Alessio Giannone, 42 anni, conosciuto dal pubblico televisivo come Pinuccio.

Alessio Giannone, volto noto al pubblico televisivo, ricorda gli anni della liceo Scacchi: "Ero studente da ultima fila"; la nascita del suo alter ego ("Tredici anni fa, grazie a Berlusconi); il presente a Mediaset ("Ho conosciuto Piersilvio): il futuro ("C'è il progetto di un film") 

Alessio Giannone, in arte Pinuccio, 42 anni, è un altro di quelli che si sono laureati in giurisprudenza per procedere poi in tutt'altra direzione. "Presi 104 dopo una tesi sull'eredità nel diritto romano. È stato bello, mi dissi, e finì lì. Ma ho un ottimo ricordo del mio percorso universitario".

All'epoca faceva già teatro.

"Ho frequentato stabilmente le compagnie La DifférAnce e Tiberio Fiorilli.

·        Alessandro Haber.

Da quotidiano.net il 17 novembre 2022.

Alessandro Haber da otto mesi è costretto su una sedia a rotelle. L'attore bolognese di 75 anni ha raccontato la sua disavventura al quotidiano Libero. Haber ha spiegato che la sua situazione attuale è la conseguenza di un'operazione chirurgica andata a male: "Sto facendo terapie per una operazione che non è andata bene. Poi ne ho fatta un'altra. Sto provando a riprendermi. Fatto sta che guardo il mondo a mezz'altezza". 

L'attore emiliano, che in carriera ha vinto un David di Donatello, un Globo d’oro e cinque Nastri d’argento, sta cercando di reagire: "Lavoro, provo in teatro, vado ai concerti", ma non è facile e lo sottolinea: "Però non sono autonomo". 

Haber è sposato con l'attrice romana Antonella Bavaro, da cui ha avuto nel 2004 una figlia. Prima dello sfortunato intervento Haber stava girando i teatri italiani interpretando gli scritti e le poesie dello scrittore cult americano Charles Bukowski con lo spettacolo Haberowski.

Nato a Bologna il 19 gennaio 1947 da padre rumeno, di origine ebraica, e madre italiana, Haber ha vissuto i primi anni in Israele, per poi rientrare a nove anni. Il primo ruolo lo ottenne nel 1967, interpretando Rospo nel film di Marco Bellocchio La Cina è vicina. 

Fu protagonista però solo 20 anni dopo quando Pupi Avati lo volle nella pellicola Regalo di Natale. Dal comico al drammatico Haber ha abbracciato in toto la professione. Fu anche in Fantozzi e in Amici miei, Atto II.

Negli anni novanta lo vediamo in Parenti serpenti del 1992 di Mario Monicelli. Poi ci fu la parentesi di quattro film di Leonardo Pieraccioni: I laureati del 1995, Il ciclone del 1996, un cameo in Fuochi d'artificio del 1997 e Il paradiso all'improvviso del 2003.

 Ma è il teatro la sua vera passione dove si cimenta in Orgia di Pier Paolo Pasolini, Woyzeck di Georg Büchner, Arlecchino, Ugo di Carla Vistarini, Scacco pazzo (che portò sul grande schermo come regista) e L'avaro di Molière.

Nel 2002 per le sue doti sul palcoscenico riceve il Premio Gassman (miglior attore per l'interpretazione di Zio Vanja nell'omonimo testo di Anton Cechov). Nel 2010 ha partecipato al film documentario Pupi Avati, ieri oggi domani, dedicato al regista Pupi Avati. Nel 2018 è il Cardinale Mazzarino nel film Moschettieri del re - La penultima missione, diretto da Giovanni Veronesi. Nel 2019, dopo 15 anni, è ancora con Pupi Avati nel suo film Il signor Diavolo. 

Alessandro Haber sulla sedia a rotelle da otto mesi: "Operazione andata male, guardo il mondo a mezza altezza". Redazione Spettacoli su La Repubblica il 17 Novembre 2022  

L'attore, 75 anni, non è più autonomo dopo un intervento non riuscito

Parla di uno stato d'animo "decisamente fragile", spiega di vivere da otto mesi su una sedia a rotelle, sottoposto a terapie per un intervento andato non bene: "Sto provando a riprendermi, fatto sta che guardo il mondo a mezza altezza", "la riflessione e lo struggimento sono particolarmente forti". È un Alessandro Haber addolorato quello che rivela le proprie condizioni di salute: 75 anni, è stato sottoposto a un'operazione chirurgica, poi a un'altra, ma la ripresa è difficile e lenta.

"Lavoro, faccio delle prove in teatro, vado ai concerti però non sono autonomo" racconta in un'intervista a Libero l'attore bolognese, uno dei volti più popolari del cinema e del teatro italiani con oltre centoventi film all'attivo (ma anche programmi tv) e numerosi riconoscimenti, dal David di Donatello 1994 come miglior attore protagonista per Per amore, solo per amore di Giovanni Veronesi ai vari Nastri d'argento, da quello ottenuto per Willy Signori e vengo da lontano a quello per Le rose del deserto e La sconosciuta a La vera vita di Antonio H.

Tra i film più recenti ai quali Haber ha preso parte, L'ombra di Caravaggio di Michele Placido. 

Alessandro Haber: «Da otto mesi in sedia a rotelle per un intervento andato male». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2022.

L’attore, 75 anni, lo rivela in una intervista. «Sto provando a riprendermi. Fatto sta che guardo il mondo a mezz’altezza. Lavoro, provo in teatro, vado ai concerti. Ma non sono autonomo»

Da otto mesi su una sedia a rotelle. Alessandro Haber, 75 anni, soffre di problemi di salute ed è costretto a ricorrere alla carrozzina. A rivelarlo in una intervista è lo stesso attore: «Sto facendo terapie per una operazione che non è andata bene. Poi ne ho fatta un’altra. Sto provando a riprendermi. Fatto sta che guardo il mondo a mezz’altezza. Lavoro, provo in teatro, vado ai concerti. Però non sono autonomo».

Haber, che nel corso della sua carriera, tra i vari premi, ha vinto un David di Donatello, un Globo d’oro e cinque Nastri d’argento, negli ultimi anni ha portato in scena, nei principali teatri italiani, lo spettacolo «Haberowski» in cui interpreta gli scritti e le poesie dello scrittore americano cult Charles Bukowski. Al cinema è stato, nel 2018, il Cardinale Mazzarino nel film «Moschettieri del re - La penultima missione» di Giovanni Veronesi, mentre nel 2019 è tornato, dopo 15 anni, a lavorare con Pupi Avati nel suo nuovo film «Il signor Diavolo», dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso Avati.

Dagospia l'11 febbraio 2022. Estratto dal libro “Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini) di Alessandro Haber

(…) Decidemmo anche di sostituire la mia auto con una più grande e comoda. Andammo a ritirarla a Faenza da Paolo Tramonti, un amico che ha una concessionaria. Dopo aver trascorso la serata a una festa di beneficienza, dove acquistai un quadro da millecinquecento euro, verso mezzanotte riprendemmo la strada del ritorno con il nostro nuovo SUV. A un certo punto sull’E45 trovammo una deviazione che ci portò tra le colline. 

Era estate, il clima era piacevole, c’era la Luna, insomma la situazione era quella giusta. Allora eravamo al principio della nostra relazione per cui la passione scorreva abbondante nelle vene. Tra un tornante e l’altro i nostri motori iniziarono a scaldarsi e le chiesi se volesse fare delle “cosine”. Trovammo uno spiazzo sterrato tra il bosco e ci spogliammo in un secondo. 

Non c’era anima viva e ne approfittammo per uscire nudi dall’auto. Ci appoggiammo al portabagagli per fare l’amore e, dopo qualche spinta di troppo, l’auto cominciò a muoversi, all’inizio in maniera impercettibile, poi sempre più velocemente. Tentai di afferrarla in tutti i modi. “Prendi un sasso, prendi un sasso, porca puttana”, urlai ad Antonella ma non c’era che ghiaia.

Il SUV da ventimila euro e il quadro da millecinquecento scivolarono in un fossato piuttosto profondo. Scesi facendomi largo tra i rovi per recuperare almeno i nostri abiti. La luce della Luna faceva intravedere qualcosa e presi a caso quello che c’era, dopodiché ci avviammo a piedi verso la statale per cercare di qualcuno che ci portasse dai Carabinieri a fare denuncia. Eravamo vestiti, ma le mutande, quelle no, non si sapeva che fine avessero fatto. Concludemmo la nottata in caserma e lì, com’è nel mio stile, andai in scena. Raccontai la verità e cioè che non c’eravamo fermati a vedere il panorama. Gli mimai tutto quello che era accaduto, scatenando le risate dei Carabinieri. Come se non bastasse, alla fine mi chiesero l’autografo e ci facemmo anche una foto tutt’insieme. Al momento dello scatto sussurrai ad Antonella: “E pensare che non sanno che sotto non abbiamo nulla”

Dagospia l'8 febbraio 2022. Estratto del libro “Volevo essere Marlon Brando ma soprattutto Gigi Baggini” di Alessandro Haber.

(…) Tutte le volte che passo da quelle parti mi fermi a casa sua e di sua moglie, un avvocato divorzista che ha insegnato diritto romano all’università. La sua attività lavorativa mi affascina molto e le chiedo sempre di raccontarmi qualche dettaglio. Quando mi ospitano mi trattano come un principe, mi fanno trovare dei ragù meravigliosi e un’insalata di campo dal sapore unico, che non ho mai assaggiato altrove.

Mi lasciano le chiavi, e mi cedono divano o televisore. È tutto perfetto, o quasi. Nella loro bellissima casa hanno un solo bagno e allora al mattino li costringo a lasciarmelo libero per almeno quarantacinque minuti. Se lo trovo occupato, la moglie esce terrorizzata. Sanno che sono un animale che ha delle scadenze precise, conoscono i miei orari e non mi disturbano; non solo, mi portano “la Repubblica”, perché sanno che, quando mi ritiro, ne ho bisogno come fosse un lassativo perché leggere mi rilassa. Qualche volta ho provato con il “Corriere”, ma non funziona. (…)

Dagospia il 7 febbraio 2022. Estratto del libro di Alessandro Haber, “Volevo essere Marlon Brando” (Ma soprattutto Gigi Baggini)

(…) Vi ho già parlato di Nanni Moretti, ma c’è una cosa che ho dimenticato di raccontarvi che riguarda proprio il telefono e che accadde ai tempi di “Sogni d’oro”. Con Nanni ci eravamo già incontrati, da lì a un mese avremmo cominciato il film e piano piano stavamo entrando in confidenza. Un pomeriggio mi chiamò mentre stavo facendo l’amore. Ero sopra di lei. Tu.tum, tu-tum. Squillò il telefono. “Pronto, chi parla?”, risposi con l’affanno 

“Sono Nanni”

“Nanni ciao, sto scopando”, mi puoi chiamare più tardi?”

“Come ti permetti?” Se lo avessi detto a un altro, mi avrebbe chiesto scusa, Nanni no. “Non sono tuo fratello, come ti permetti?”

“Nanni scusa, sto facendo l’amore, è una cosa normale, lo fanno tutti” 

S’incazzò e mise giù il telefono 

Cosa ho fatto? Cosa ho fatto? Me lo aveva anche detto che non dovevo parlare di figa e di calcio. A quel punto mi accorsi che ero ancora dentro di lei, mi guardava e non capiva e allora mi incazzai ancora di più: “Chi sei? Come ti chiami? Non dovevo dirgli che stavo scopando. Vai via. Non faccio più il film, non faccio più il film”. Rimasi solo come un cretino.

Da ilnapolista.it il 27 gennaio 2022.

Il Fatto Quotidiano intervista Alessandro Haber. Racconta che da quarant’anni la gente lo ferma per strada perché ricorda di lui la scena della “puttana dell’Adelina” in “Amici miei atto II”. 

«Mi recitano l’intera scena a memoria, con le battute perfette, i tempi giusti, i cambi di tono”. Le dispiace? “No, anzi, ma è incredibile, perché parliamo di un’unica posa e di molto tempo fa».

In quel film, dice, «avevo davanti quattro mostri di attori, non uno». Erano Ugo Tognazzi («incontenibile, una prima donna assoluta, un uomo affetto da un egocentrismo sano portato all’eccesso. Uno generoso, disponibile, che non si risparmiava»), Gastone Moschin («il più silenzioso del gruppo, riflessivo, un filosofo con un’intelligenza particolare»), Renzo Montagnani («sentiva di essere un po’ meno degli altri: era un attore fantastico, ma recitò in film di basso livello per guadagnare e mantenere un figlio con problemi seri, e questo lo ha sminuito come professionista») e Adolfo Celi («quello meno eclettico dei quattro»).

«Monicelli girava lasciando una certa libertà: ti metteva sulla scena, dentro l’inquadratura, ti dava i parametri e poi stava anche al tuo estro; in realtà la mia parte è quasi solo con Adolfo Celi, per uno degli scherzi più atroci mai immaginati». 

Sull’amicizia nel mondo dello spettacolo: «Nel nostro mondo è facile reputarsi amici, tutti ci credono, ma quasi sempre i rapporti durano il tempo di un set: sono rari quelli che sopravvivono al post-ciak; sono poche le persone che uno può chiamare alle tre di notte se hai un problema». Ne elenca otto, per quanto lo riguarda, tra cui Giovanni Veronesi, Pietro Valsecchi, Giuliana De Sio e Massimo Ghini. 

Parla del suo carattere: «Lo so, ho un carattere non facile, però non ho mai tradito nessuno, nessun atto malvagio o di vendetta. Piuttosto divorato dalla passione: all’inizio suscitavo timore, magari venivo preceduto dalla frase “oh, arriva Haber”, poi mi hanno accettato». 

Ha amato molto Giuliana De Sio.

«Innamorato appena l’ho vista. Poi l’ho corteggiata per un anno, ma niente; per un anno alle feste la prendevo da parte e le dicevo di amarla; le telefonavo ma si negava. Poi ci fu un’esplosione. Dopo una serata con altri, salii a casa sua e scopammo come folli; anzi, facemmo l’amore. Era il 25 marzo 1976. Per oltre un anno non l’ho mai tradita; passato quel periodo, un giorno la raggiungo a Torino: girava un film. 

La trovo nella hall: “Ciao Giuliana, finalmente. Come stai? Ti amo”. Dopo qualche secondo di silenzio, lei: “Ti devo dire una cosa: ti ho tradito”. “Come mi hai tradito?”. “Solo qualche bacio”. Dal giorno successivo cominciai a non essere più fedele e ripresi a fumare». 

Il rapporto con la cocaina: negli anni Ottanta farne uso era normale.

«Sniffare? In quel decennio era difficile trovare qualcuno che non ne facesse uso». 

Lui ne prese, sul palco, solo una volta.

«Fu una cazzata. Venne un amico in camerino. “Vuoi fare un tiro?”. “Ho smesso e comunque mai durante il lavoro”. E invece me ne lasciò un po’. Mancava un’ora al sipario. In principio non sentii niente, stavo benissimo. Ma, appena misi piede in scena, mi accorsi che avevo la bocca ingessata. Dovevo dire “buongiorno…” ma niente, non riuscivo a emettere nulla. Così mi attaccai alla brocca dell’acqua posizionata sul tavolo di scena».

·        Alex Britti.

Davide Desario per leggo.it il 2 dicembre 2022.

a una parte sta ristrutturando la nuova casa romana a Casal Palocco. Dall'altra sta ultimando le prove del suo ultimo tour. E non è un caso che Alex Britti, 54 anni romano e romanista (entrambi doc), abbia deciso di chiamare la tournée Sul Divano: «È come se il pubblico venisse a casa mia».

Un tour a dicembre?

«Perché dopo la pandemia e il lockdown ho accumulato una voglia di suonare che non mi passa. Siamo stati due anni fermi. È stato devastante. E adesso, anche dopo 30 date estive, ho ancora tanta voglia di suonare. Mi dà energia, idee. Insomma mi fa sentire di nuovo vivo». (...)

Pensa che gli altri non sappiano riempire il concerto con la loro musica?

«Non lo so. Io sono diverso. Non dico migliore ma diverso. Sul palco sono io, il divano e le mie chitarre».

Quante ne ha?

«Ufficialmente cinque. Una acustica, una classica, una 12 corde e due di ferro. Poi ho quelle di backup: la bionda e la mora».

Parla delle sue chitarre come fossero delle fidanzate.

«Vuole insinuare che ho cinque fidanzate?».

Parlavo del suo rapporto con la chitarra.

«La chitarra non è un oggetto. La chitarra è un concetto. È una cosa che hai sempre in testa. Che ci pensi sempre. Che non riesci a stare senza suonarla. Poi è chiaro ognuna ha un suono diverso». (E gli riscappa da ridere ndr).

Andiamo avanti, i suoi tre chitarristi preferiti?

«Stevie Ray Vaughan, Santana e Paco de Lucia».

E tra gli italiani con chi vorrebbe collaborare?

«Io sono un po' viziato. Ho suonato con Billy Preston, Joe Cocker, Patti Smith e Ray Charles. In Italia preferisco i giovanissimi, i loro suoni. Quelli della mia età sono troppo calcolatori, i ragazzi invece sono come me, istintivi».

Non mi ha detto un nome.

«Ho apprezzato Salmo. Di recente ho sentito un bel pezzo di Lazza e Sfera Ebbasta. Le sonorità rap e trap. Anche se i testi non mi attirano». (...)

Ops, Sanremo... che mi dice?

«È una bella cittadina, si mangia benissimo il pesce».

Britti...

«Il mio rapporto con il Festival è ottimo. Ho bei ricordi. Ci tornerei volentieri. Appena sarà possibile. Appena mi chiamano. Appena si ricreerà quell'atmosfera magica che ti fa scrivere un pezzo per Sanremo».

Alex Britti: «Sono un papà single, non ho mai messo la fede. Preferisco Falcao a Totti». Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.

Il cantautore: «In classe con la chitarra, i prof volevano bocciarmi». L’incidente: «Era Capodanno, in tangenziale a Napoli: non guidavo io, tre auto distrutte dal fuoco. Per fortuna non mi feci nulla, i poliziotti mi portarono al concerto con la volante». I miti: «B.B. King mi disse “sei bravissimo”»

«Quando aiutavo papà in macelleria, la mia specialità era preparare gli hamburger: macchinetta, carne macinata, sale e pepe. Ne facevo uscire 180-250 in un pomeriggio. Ogni tanto mi toccavano pure le pulizie e le consegne a domicilio: da piccolo in bicicletta, da grandicello in motorino».

Però il giovane Alex Britti non ha mai visto un futuro nella bottega del padre Umberto e della madre Annita. «Volevo suonare da quando avevo sei anni. Da bambino ero già determinato e cocciuto», racconta il cantautore romano e golden boy della chitarra. Aveva ragione. Alla fine degli anni Novanta il debutto con Solo una volta (o tutta la vita), la prima hit di una lista di canzoni dalla quale persino Mina ha attinto. Una lista lunga quasi quanto gli amori veri o presunti che gli sono stati attribuiti (all’inizio degli anni 2000 la storia con Luisa Corna ha riempito le pagine di cronaca rosa). Ora porta due tour in giro per l’Italia: in uno c’è la sua anima pop, nell’altro quella blues con le canzoni dall’album strumentale Mojo. «Il pubblico è contento: non so se erano stanchi di ascoltarmi cantare o se sono soltanto molto felici di sentirmi alla chitarra. Io suono blues e dintorni, non cerco di imitare Muddy Waters e Steve Ray Vaughan vado oltre, come facevano loro che sono stati degli innovatori. Ma il mio non è un disco per intrippati. Ci sono temi che puoi fischiettare sotto la doccia. Io lo faccio, canticchio pure Pat Metheny, John Coltrane, Miles Davis».

La prima chitarra gliel’hanno regalata i suoi genitori.

«Al mio compleanno, avevo sette anni… non mi sopportavano più. Non gli davo pace. All’inizio l’hanno presa come un gioco, poi si sono preoccupati, alla fine si sono arresi e ora sono orgogliosi. La volevo perché ce l’avevano due fratelli che abitavano sul mio pianerottolo. Erano gli anni Settanta, girava l’adesivo di un hippie con i capelli lunghi, una specie di Rambo con una sei corde sulle spalle al posto del mitra. Lo appiccicavano sui vetri delle Renault 4. A quei tempi per i ragazzini era un mito. Per me si trasformò in un’ossessione».

In che modo?

«In prima media tutti i giorni andavo in classe con la chitarra. I professori chiamarono i miei: “Ditegli di mollarla o lo bocciamo”. Fui promosso. Ma in seconda dovevo consegnarla alla professoressa. E io, alla fine delle lezioni, mi piazzavo a suonare sul muretto di fronte alla scuola. Facevo il primo Bennato quello più incazzato, rivoluzionario. Gli insegnanti mi hanno pure lasciato esibire al concertino di fine anno. E poi m’hanno bocciato... ’sti maledetti (ride). Nel frattempo avevo conosciuto un impresario che mi procurava contratti per piccoli live estivi. Andavo anche ai veglioni di Capodanno e di Carnevale, ormai era il mio lavoro. Volevo fermarmi alla terza media. Papà mi disse: “O studi o vieni in bottega”. Mi iscrissi al magistrale, frequentato soprattutto da donne. Mi hanno cacciato un mese prima della fine dell’anno: ero un pischelletto sveglio, con un capoccione di capelli lunghi e ricci, il motorino e l’inseparabile chitarra. La mattina manco entravo… organizzavo gitarelle con le ragazze. Era una scusa per non lavorare».

Funzionò?

«Con la formula del due in uno mi sono rimesso in carreggiata. Ho cambiato scuola, ragioneria. Comoda, era sotto casa: dormivo vestito, scendevo dal letto ed ero arrivato. Intanto avevano aperto il Big Mama, dove incontrai il primo vero musicista, Roberto Ciotti, un gigante del blues in Italia. Diventai il suo chitarrista. Ero bravino, je l’ammollavo, come si dice a Roma. Mi iniziarono a chiamare altri locali. Da lì ho iniziato a non dormire: tornavo alle 3 del mattino e alle 7 avevo le lezioni. Non so come, ho preso un diplomaccio con il 36».

Ai suoi genitori deve la passione per la cucina che l’ha portata a Celebrity MasterChef?

«Papà e mamma sono buongustai, a casa si mangiava tanto e bene. Vengo da una famiglia in cui il cibo è sempre stato importante e continua a esserlo. Mio padre a cena parlava già di quello che avremmo mangiato a pranzo e la sera del giorno dopo».

Come ha imparato a stare tra i fornelli?

«Con le note e il cibo sono un autodidatta. Rubo con gli occhi. A 13 anni chiedevo a mia madre: “Che ci metti dentro la carbonara, cosa usi per lo spezzatino?”. Ad Amsterdam vivevo a casa della cantante di Rosa King, la sassofonista. Che aveva un compagno di Aruba. Era una guerra. Quando non si andava in tour, una sera cucinava lui e una io. Ero bravino ma preparavo piatti romaneschi: matriciana e carbonara, carne e pesce. Mi insegnò a usare le spezie. Ricordo un baccalà con il sugo nel platano fritto, usato come cucchiaio. Per me, che non ero mai uscito dal Grande Raccordo Anulare, era una sorpresa. Poi ho imparato da una fidanzata belga e dalla zia di una dolcissima ragazza africana che viveva a Parigi. La signora preparava il cibo per terra, sopra a un telo, dove poggiava le ciotole con gli ingredienti».

A proposito di donne. Come va l’amore?

«Sono single da un pezzo. Attenzione però: sono un papà single».

La danno per sposato con la madre di suo figlio.

«Mai messo la fede. Ci siamo lasciati quando Edo aveva due anni, ora ne ha cinque. È un bimbo sereno, vive metà mese con me e l’altra metà con la mamma».

Quando Edoardo sta con lei che fate?

«Lo lavo, lo vesto, ci chiacchiero, lo porto a scuola, gli ho pure insegnato a nuotare. Giochiamo: pallone, racchettoni, le lotte con i Pokémon, andiamo a cercare i ragni in giardino. A due o tre anni mi chiedeva sempre la chitarra, ora non più. Però canta bene, è intonato e conosce tutte le sigle dei cartoni animati. Se da grande volesse suonare, core de papà, per me sarebbe una gioia».

Lei alla musica non ha mai rinunciato?

«Mai. Una volta, non guidavo io, ho fatto un incidente pauroso sulla tangenziale di Napoli nella notte di Capodanno. Tre automobili distrutte, fuoco e fiamme, sono arrivati polizia e pompieri. Per fortuna non si è ferito nessuno. Ricorda i Blues Brothers quando gli sparano addosso? Si rialzano, si danno due pacche sulle spalle per togliersi la polvere e dicono: “Andiamo”. Io ho controllato che stessero tutti bene e poi ho chiesto a dei poliziotti se mi accompagnavano con la volante a suonare. Sono arrivato con tre quarti d’ora di ritardo, ma il concerto è andato liscio».

Non è da tutti ricevere i complimenti di un mito come B. B. King...

«Per due volte ho aperto i suoi live allo Smeraldo di Milano, nel ’98. Non lo incontrai, ma mi fecero sapere che era stato lui a volermi sul palco la seconda volta. Non c’avevo creduto a questa storiella… spesso le persone cercano di compiacerti. Insomma, arrotondano. Un anno dopo, al Pavarotti & Friends, dove suonavo per Luciano e Joe Cocker, mentre io e Joe stavamo per salire sul palco, belli, truccati e pettinati, incontriamo B.B. King che aveva appena finito di esibirsi. Cocker lo saluta e gli fa: “Blues Boy ti presento Alex”. Lui mi guarda e dice: “Io ti conosco, hai aperto il mio concerto. Ti ho sentito suonare sei bravissimo, fortissimo”. Quella che io pensavo fosse una bugia era la pura verità. Non ho ancora capito come sono riuscito a salire sul palco quella sera. In un attimo sono cresciuto di dieci centimetri. Ero più basso».

Quando ha del tempo libero e suo figlio sta con la mamma che fa?

«Con il mio lavoro e la vita che faccio non ho una regola per niente. Se posso mi alleno, corro soprattutto. Ho le scarpe per qualsiasi di tipo di superficie: da asfalto, su strade sterrate. Mi piace allenarmi: stretching, addominali. Nuoto, faccio ginnastica in acqua, magari mentre Edoardo gioca vicino a me. In valigia metto sempre elastici e maniglie per flessioni».

Un’altra grande passione è la Roma. Francesco Totti è un mito per lei?

«Sono tifoso da sempre e vado allo stadio. Totti è stato un calciatore importante, ma rimango pragmatico e poco romantico. Lo stimo come atleta e come uomo. Me lo ricordo giovane, abitava vicino a casa mia. Ci incontravamo al supermercato. Chi veniva a fare la spesa ci vedeva chiacchierare davanti agli scaffali della pasta: “Cosa preferisci: spaghetti o bucatini?”. Totti ha cambiato casa quando si è sposato. Ma ci siamo rivisti a una festa natalizia della Roma, prima del Covid. Io ho bevuto un prosecco, lui un succo d’arancia. È una persona eccezionale, carina, gentile, educatissima, umile nonostante quello che è diventato. I miti però appartengono ai sogni che si fanno da ragazzini. E per quelli della mia generazione l’idolo era Falcao. Mi dispiace, non volermene France’, te vojo bene».

Nelle partitelle di calcio che ruolo ha?

«Sono il difensore che ogni tanto si infila e va avanti. Ma la mia maglietta è la numero cinque, come quella di Falcao. Ogni volta che trasloco mi porto dietro un quadretto con due foto: quella di Paulo Roberto, comprata a 15 anni allo stadio, e quella di Dizzy Gillespie presa ad Amsterdam. Lo appendo sempre in cucina. Quando mi sveglio, la prima cosa che faccio, anche a occhi chiusi, mi preparo un caffè. E tutte le mattine li guardo. Falcao, grazie a un amico in comune, mi anche ha mandato un messaggio con gli auguri per il mio compleanno».

Le piacerebbe incontrarlo?

«No, non sono uno che fa altarini. Porto sempre il portachiavi della Roma dentro al beauty soltanto perché quando lo guardo mi fa sorridere. Uno molto figo, non ricordo chi, ha detto che i sogni sono come la Stella Polare: la inseguiamo tutta la vita per tornare a casa, ma non la raggiungiamo mai».

·        Alexia.

Alexia: «All’estero sono ricercatissima nella musica dance. Posso ora, a 55 anni, mettermi a fare i TikTok? Ma siamo matti?». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2022.

Quando si è accorta di avere una bella voce? «Me ne sono accorta da bambina, nei bagni della mia scuola dell’infanzia».

Alexia, nata Alessia Aquilani, voce potente e cristallina che ha plasmato una buona fetta degli anni Novanta diventando — anche all’estero — «la regina della dance», parla con la serenità di chi ha conosciuto il successo e non ha avuto paura di prenderne le distanze. Milioni di dischi venduti, quattro partecipazioni a Sanremo dopo la svolta nel pop, conquistando anche una vittoria, nel 2003, e incursioni nel jazz, nel soul, fino alla scelta di tornare ora con un album di Natale, «My XMas», fatto rigorosamente a modo suo. Tradotto: «È un disco anche molto divertente».

Torniamo però ai bagni dell’asilo... «In generale, il bagno è un posto in cui ti rilassi. Poi ci sono le piastrelle, che fanno un po’ l’effetto del microfono, creano un’acustica particolare. Un giorno, nei bagni dell’asilo appunto, me ne sono accorta e da quel momento mi chiudevo lì e iniziavo a cantare. Solo che dopo qualche tempo le insegnanti si sono insospettite per questi miei allontanamenti e hanno capito perché mi chiudessi lì. Così aspettavano che ci andassi per venirmi ad ascoltare fuori dalla porta. Quando me ne sono accorta ho smesso. Ma quella, di fatto, è stata la mia prima audizione».

E anche il suo primo successo. «Dopo poco iniziarono a chiedermi di cantare alle recite e a cinque anni già mi esibivo, con il microfono in mano, da solista. Ricordo di aver cantato anche accompagnata da un’orchestra ideata da un professore molto illuminato, composta solo da ragazzini della mia cittadina (Arcola, in Liguria, ndr.), davanti a una platea piuttosto ampia. Mia mamma, che era una sognatrice, lì ha iniziato a credere nel mio talento».

Sembra tutto molto bello, no? «In realtà in una cittadina di provincia come quella in cui vivevamo, all’inizio era stata un po’ indicata come la mamma che chissà dove voleva spingere la sua povera figlia. Mia mamma invece, nella sua semplicità, aveva una tale forza e anche una grande saggezza che semplicemente la portava a dire: cavoli, mia figlia ha talento».

In casa sua nessuno cantava? «Mio papà cantava benissimo, aveva una voce tenorile. Avrebbe voluto tentare anche lui la carriera di cantante ma una volta, durante una festa di piazza, decise di cantare un brano e siccome non studiava mai molto bene, ha mollato una stecca davanti a tutti... Da quel momento ci ha fatto una croce sopra. E da quel momento mi sono detta: io voglio studiare».

Lo ha fatto? «Moltissimo, da autodidatta prima, cercando di trovare i metodi più giusti per me, studiando sui dischi di cantanti bravissime. Ma non avevo la tecnica, non sapevo come si comportassero le mie corde vocali. Nel mentre avevo iniziato la famosa gavetta e lavoravo tanto, un’estate anche per 45 serate di fila... e ho avuto dei problemi alle corde vocali. Mi sono dovuta fermare per un po’. Quindi ho deciso, a vent’anni, di intraprendere questo percorso più seriamente, con un insegnante di canto lirico».

Ha mai pensato di diventare cantante lirica? «Mi affascinava molto quel tipo di canto: ero improvvisamene cosciente di quello che riuscivo a fare grazie a un’impostazione lirica. Poi però il richiamo verso la musica soul, il jazz e il blues era talmente forte che una cosa escludeva l’altra. Cantavo con diverse cover band, andava benissimo tutto, pur di fare esperienza, di esibirmi dal vivo. Ho fatto anche delle cover di liscio: non dico mi venissero benissimo, ma mi sono dovuta adattare. Poi, finito questo primo periodo di gavetta, ho iniziato a lavorare negli studi di registrazione: facevo dei turni come corista».

Un percorso ben diverso rispetto a chi, oggi, viene lanciato da un talent show o diventa famoso grazie a visualizzazioni o streaming. «Era tutto un altro mondo. Quando iniziavi a proporre i tuoi progetti all’inizio venivano puntualmente scartati. Le porte in faccia erano tantissime ma solo così cominciavi a capire come ti dovevi muovere. Raggiungere un primo contratto non significava andare in tv immediatamente. Dovevi farti conoscere in giro e fare assaggiare il tuo prodotto un poco alla volta».

La prima grande occasione? «Quando ho iniziato a lavorare con Ice MC. Quando è arrivato il boom avevo per fortuna le spalle forti, dopo due anni di tournée con lui. Osservando Ice, cioè Ian, ho intuito che bisogna fare molta attenzione perché il successo arriva ma poi se ne va anche via. Bisogna ottimizzare quello che si sta ricevendo cercando di avere un atteggiamento professionale e preparandosi un terreno per il futuro. La mia regola è sempre stata lavorare come se fosse l’ultima volta».

Aveva dunque la sensazione che le cose potessero presto cambiare? «C’è stato un momento in cui mi sono resa conto che inseguivo delle cose che non mi appartenevano più. Quando inizi un percorso artistico sai come ti vuoi esprimere ma poi si cambia, si evolve e ho cominciato a desiderare altro. Ma proprio in generale. Ho ripreso a studiare: sono sempre stata appassionata delle lingue straniere ma non avevo avuto il tempo di applicarmici, così l’ho fatto. Poi volevo esserci per la mia famiglia e quindi ho iniziato a organizzare il mio lavoro in base a queste nuove esigenze».

L’idea, da fuori, è che non si sia più riconosciuta in un mondo discografico che, nel frattempo, era completamente cambiato. È così? «Non sono mai stata brava a sgomitare, anzi. A un certo punto mi sono accorta che le case discografiche non cercavano più dei bravi cantanti, ma altro. Gente che magari avesse anche una storia impattante, un percorso che emoziona in modo particolare. Io non posso continuare a raccontare che quando è morto mio papà ho avuto una piccola depressione: avrò dovuto elaborare un lutto, no? Sono forse l’unica al mondo? Posso davvero ripetere all’infinito queste cose? Quindi ho deciso di fare un passo indietro e continuare a lavorare nelle sfere dove Alexia ancora conta qualcosa».

Quali sono queste sfere? «All’estero sono ricercatissima nella musica dance. Per il resto, quando hai tanti streaming arrivano i bravi produttori e i bravi autori ma quado un artista non fa streaming, può essere bravissimo, ma si fa più fatica. Ho dei progetti inediti molto interessanti, pronti per essere utilizzati, ma aspetto il momento giusto».

Le pesa non essere eccessivamente social? «Ma come posso io, a 55 anni, mettermi a fare i TikTok? Ma siamo matti? Cosa faccio, i balletti? No, non ho proprio il carattere, non mi sentirei a mio agio. Oltre al fatto che sarebbe come chiedermi di ricominciare tutto da zero: ci vuole anche un pochino di stile. Non posso cercare di apparire, di essere attrattiva per i giovani spingendo sulla baracconaggine. Piuttosto io, piano piano, con i miei follower che — magari lentamente — però crescono, mi creo un seguito che però è solo mio, reale, concreto».

È frustrante scontrarsi con la logica dei numeri e della visibilità fine a sé stessa? «Beh sì. Fai progetti molto interessanti penalizzati da questo aspetto. Il mio produttore però mi ripete sempre: “Sai quanti brani escono ogni settimana? Ottanta”. Per dirmi che per forza vanno spinti... quindi razionalizzi tutto... ma nessuno mi può impedire di fare quello che davvero mi piace».

Come questo disco di Natale? «Sì, dopo trent’anni mi sono detta: lo faccio, ma tutto in inglese. Per promuoverlo farò più eventi live che televisione. È un disco allegro, dove c’è tutta la mia anima: soul, blues, pop-rock. Porta leggerezza in un momento in cui serve».

Il ricordo di un suo Natale? «Mi viene in mente quello del 2006, in cui ero sposata da un anno con mio marito ed ero in attesa della nostra prima figlia. Quel Natale nevicava a Milano e avevamo deciso di rimanere a casa... ripenso all’albero enorme che dovevamo montare in salotto, al pancione ormai grande e alla gioia incredibile che sentivo nel cuore. Un anno dopo la nostra bimba, precoce in tutto, già stava in piedi e mi aiutava a decorare a modo suo quello stesso albero, nello stesso salotto».

Oggi le sue figlie le danno consigli a proposito del suo lavoro? «La più grande mi prende un po’ in giro, mi dice che dovrei farei dei podcast in cui parlo dei cantanti che mi piacciono. Poi aggiunge: “Per esempio Harry Styles”, che mi piace, per carità, ma più a lei...».

Si sente sempre rappresentata dal suo nome d’arte? Si sente sempre Alexia? «Sì. Me lo sono portato dietro per una vita, è il mio nome. Me lo ha dato il mio primo produttore e io non lo volevo, anche perché in nord Europa indica i cabinet medicali... per non parlare di tutto il caos da quando è arrivata Alexa... però sì, per me ora è il mio nome e me lo tengo».

Se le dico Sanremo? Ci tornerebbe? «È un ricordo dolce, di momenti di grande felicità oltre che di presa di coscienza di quello che veramente valgo. Ci vorrei tornare, certo che vorrei, ma non si può suonare il campanello... le persone dimenticano in fretta e nel tempo ho capito che il Festival è anche uno spettacolo televisivo: come tale, deve fare molti ascolti, garantiti da certi nomi. Se non sei super popolare è difficile. Nonostante ciò, come molti altri colleghi senior, tutti gli anni io il tentativo lo faccio: sarebbe sbagliato precludersi questa cosa. Ma non è che ci punti più come un tempo».

Pensa di essere un po’ sottostimata? «Forse sono esagerata ma penso che il mio vissuto sia tangibile e parli per me. Io mi sento una portatrice sana di allegria. Se ci sarà un riscatto sarà ben accetto ma sento che, in ogni caso, questo disco rappresenta un mio riscatto personale, quindi andrà bene anche se sarà uno dei tanti passaggi che ho fatto... certo, vorrebbe dire però che le persone sono proprio sorde».

·        Alice.

Alice: «L’ultimo incontro con Battiato? Non c’era bisogno delle parole». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.

L’interprete presenta «Eri con me», album in cui rilegge i brani del cantautore.

A quel titolo cambierebbe il tempo verbale. «Eri con me» è il titolo di una canzone di Franco Battiato con il quale Alice ha battezzato l’album (esce in formato fisico, cd e doppio vinile, lo streaming da gennaio) in cui reinterpreta il repertorio del cantautore scomparso nel maggio del 2021. «Oggi direi “sei con me”. Attraverso le sue canzoni, che porto in tour dal 2020, ho potuto vivere ciò che Franco ha trasmesso, lui vive attraverso la sua arte».

Nella scaletta del disco la voce profonda e carica di emozioni di Alice si muove fra capolavori come «La cura» o «E ti vengo a cercare», alcuni brani che hanno segnato la loro intesa artistica come «I treni di Tozeur» e «Prospettiva Nevski» e altri più nascosti. Se c’è una costante è la spiritualità dei testi. «È quello cui sento di aderire. Negli anni 80 io e Franco avevamo interessi comuni, oltre alla musica. Entrambi eravamo arrivati, per strade diverse, agli insegnamenti del filosofo e mistico Gurdjieff. Nel 1981 mi era stato regalato il suo Incontri con uomini straordinari, ci vollero due anni prima che lo aprissi: lo lessi d’un fiato. Ero finalmente pronta».

Le loro carriere si incrociarono la prima volta nel 1980 quando Battiato scrisse per lei «Il vento caldo dell’estate». Tante altre collaborazioni fino all’ultima, un tour insieme nel 2016. «L’ultima volta l’ho visto a Milo nel 2020. Sono andata a trovarlo a casa sua e siamo stati insieme tutto il giorno. Sono stati momenti intensi in cui le parole non servivano». La malattia degenerativa che lo aveva colpito non ha rovinato il ricordo. «Era sempre Franco. Lo è sempre stato, al di là della manifestazione esteriore. Anzi forse quel giorno lo era ancora di più». Sono 50 anni di carriera, iniziata col vero nome Carla Bissi e una vittoria a Castrocaro che la proiettò di diritto a Sanremo. «Ero una ragazzina, non ebbi un’impressione positiva, i miei gusti non corrispondevano a quello che mi proponevano i discografici. Dopo due singoli smisi di cantare. Nel ‘75 arrivò Giancarlo Lucariello e mi fece tornare col nome Alice Visconti. Visconti l’ho poi lasciato per strada, non mi corrispondeva». Il rapporto fra Alice e Carla funziona. «Non c’è differenza. Mi interessa appropriami di ciò che sono, non di un nome».

Alice attraverso le parole delle canzoni di Battiato. Si è sentita più protetta o ha protetto («La cura»)? «Non è quello che cerco. Avviene da sé. Sono aspetti naturali che si manifestano. Quel brano canta l’amore terreno più elevato». «Io chi sono», se lo è chiesto anche lei. «Sin da piccola... “io sono” è l’unica risposta possibile». E di «Povera patria» sottolinea l’attualità. «Al di là dei governi, siamo chiamati a un salto di coscienza. Assurdo che oggi patria sia una parola di parte: la patria unisce un popolo, una società con origini e obiettivi comuni e un desiderio di parità di diritti».

"Ho messo la mia voce al servizio di Battiato, un genio sempre attuale". L’artista ritorna cantando sedici "classici" del compositore. In lotta con i discografici. Paolo Giordano su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Il suo primo incontro con Franco Battiato?

«A fine anni Settanta».

Che effetto le fece?

«Mi tolse i dubbi».

Continuare o no?

«Avevo scritto musica e testi ma volevo capire se valesse la pena continuare. Il mio manager di allora, il compianto Angelo Carrara, mi consigliò di parlarne a Franco Battiato. Fu un incontro essenziale, diedi a Franco la “cassettina audio” con i miei pezzi e lui mi chiese una settimana di tempo. Poi mi disse: “Continua a scrivere, tra un anno ci vediamo e faremo un disco insieme”. Così nacque Capo Nord».

C’è sempre un motivo per ascoltare la voce di Alice, una delle cantautrici più raffinate della nostra storia. Ora pubblica Eri con me, ossia sedici canzoni di Franco Battiato che in questo disco rivivono come fossero nuove. Da I treni di Tozeur aProspettiva Nevski fino a La Cura, Alice canta come se fosse il tramite con quel riservatissimo geniaccio che se ne è andato un anno e mezzo fa: «Volevo proprio così, che la mia voce fosse uno strumento della sua arte». Carriera anomala e libera, quella di Carla Bissi, classe 1954, in arte Alice, che ha pubblicato il primo brano cinquant’anni fa (Il mio cuore se ne va a Sanremo 1972) quando la stampa innamorata dei soprannomi zoologi l’aveva soprannominata, eh già, «la cerbiatta di Forlì». Ha vinto Sanremo nel 1981 con la strepitosa Per Elisa, scritta da Battiato e Giusto Pio, ma poi ha evitato di ripetersi e, tra un duetto con Skye dei Morcheeba e album raffinati come Personal juke box, si è data l’indispensabile regola di cantare solo quando si ha qualcosa da dire.

Quanto le è costato?

«Sono state scelte consapevoli e sono uscita da un ambiente discografico che ti mette dentro una gabbia. Per dirla tutta, le case discografiche mi hanno spesso tagliato le gambe».

Mai fatto compromessi?

«Direi pochi. Ad esempio il Festival di Sanremo del 2000, al quale ho partecipato solo per poter pubblicare il disco God is my dj sulla ricerca del sacro nella musica, e non della musica sacra come qualcuno talvolta crede».

C’è un erede di Franco Battiato?

«Credo di no. Il primo pezzo del mio disco, ossiaDa oriente a occidente, è stato composto da Battiato a inizio anni Settanta e raccoglie tutto il suo genio inimitabile. Già lì si capisce che non ha eredi».

Che cosa prova quando canta «Povera patria»?

«Penso che quel pezzo vada al di là del periodo storico in cui è stato scritto. Si attualizza continuamente perché l’essere umano non cambia».

Battiato era di destra o di sinistra?

«Né di destra né di sinistra. Guardava tutto dall’alto e quindi la sua era una visione apartitica. Di certo pensava che ciò che accade al nostro vicino di casa in realtà accade anche a noi stessi. Perciò credo che in un periodo complicato come questo, le sue opinioni sarebbero ancora preziosissime».

Le è tornata la voglia di fare un disco pop?

«Oddio pop proprio no. Ma ho in mente un disco con quel linguaggio».

Ossia?

«Dopo il mio ultimo album Weekenddel 2014, che aveva anche la collaborazione Franco Battiato, qua e là ho scritto delle cose e ho messo in musica anche qualche poesia in friulano di Pierluigi Cappello e lui ha ascoltato qualcosa prima di andarsene per sempre».

Le farà ascoltare anche al pubblico?

«Sì, mi piacerebbe pubblicarle».

·        Alfonso Signorini.

Alfonso Signorini: «La mia ex è ancora convinta che io sia eterosessuale. Ho 100 autografi di Pavarotti». Elvira Serra su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022.

La passione del giornalista: «Ogni giorno prendo due ore e mezzo di lezioni di piano». Cattiverie: «Chi ho fatto arrabbiare di più? Emanuela Folliero». L’amore: «Io e Paolo Galimberti ci siamo lasciati, ma ora sono innamorato» 

Quanto ha fatto arrabbiare Aurora Ramazzotti?

«Eh, credo tanto. Dopo ho saputo che non aveva ancora superato il terzo mese».

Avrebbe pubblicato lo stesso la notizia?

«No. Ma mi dicono che ora vada tutto bene e che lei sia felicissima».

I social hanno cambiato il modo di fare gossip?

«Lo hanno molto compromesso. Però accanto a una grandissima superficialità c’è anche la volontà di approfondimento. Il mio giornale riesce ancora ad avere esclusive, grazie ai rapporti con i personaggi, con gli agenti, con i fotografi».

Dirige «Chi» da 16 anni. Ci pensa a lasciarlo?

«Ma io ne sono gelosissimo! Controllo tutto, guardo anche le didascalie, trovo i refusi!».

Alfonso Signorini non ha il turbo di Enrico Mentana, ma una forza motrice altrettanto fuori mercato con cui racconta, ricorda, aggiunge, colora 27 anni di giornalismo da professionista (senza contare le prime recensioni musicali sulla Provincia di Como), scoop, interviste, bestseller (quello su Maria Callas vendette oltre un milione di copie e lui ci si comprò casa a San Felice). Parla a raffica, mentre il «maggiordomo» di Diego Della Valle versa l’acqua, porta via le tazzine del caffè, dispone i pasticcini sul tavolo del J.P.Tod’s Club di Milano. A un certo punto gli scivola dalla tasca un rosario di legno. «Era di mia madre. Lo porto sempre. Quando c’è qualcosa che non va o incontro una persona negativa si forma un nodo». Per fortuna adesso è liscio.

Direttore, quanti numeri ha in rubrica?

«Cinquantotto».

Soltanto?

«Ho due rubriche: in quella professionale ne ho qualche migliaio. Quel telefono lo tiene il mio assistente».

Quanti bambini ha battezzato?

«L’ultimo è Gabriele, il figlio di Clizia Incorvaia e Paolo Ciavarro (la coppia nata al Grande Fratello Vip, ndr). E a parte Michi, il figlio di mia nipote Ilaria, saranno una dozzina. Poi ho fatto da testimone di nozze a una ventina di miei ex allievi del Leone XIII, quando ero insegnante».

Nel 2020 su «Chi» mise sé stesso in copertina. Narcisista?

«Moltissimo! E comunque se non lo facessi io, la concorrenza non lo farebbe mai».

La copertina più venduta quest’anno?

«La separazione di Blasi e Totti. Abbiamo vissuto di rendita per tutta l’estate».

Il record di sempre?

«Del mio Chi? Le nozze Falchi-Ricucci: 800 mila copie, e la crisi dei giornali era già avviata».

Lo scoop di cui è più orgoglioso?

«Il bacio di Pavarotti con Nicoletta Mantovani: un milione e 600 mila copie esaurite in tre giorni. Lo ripresero in tutto il mondo. Ed era frutto della mia amicizia personale con il tenore, nata quando bazzicavo la Scala per La Provincia di Como e lo aspettavo fuori per chiedergli l’autografo. Ne avrò un centinaio».

Se le dico 7 dicembre?

«Significa tante cose. Un immaginario di glamour che sognavo dalla mia cameretta a Cormano. La Prima della Scala era qualcosa di irraggiungibile. Quando misi piede in Montenapoleone raccontai a mia madre: c’è una via tutta profumata! Lì conobbi Valentina Cortese: era avvolta da uno zibellino così lungo che spazzava la strada. Ingenuamente le dissi: “Guardi che la pelliccia tocca per terra”».

Perché è convinto che morirà quel giorno?

«Perché il 7 dicembre 1983 ebbi il mio primo attacco di panico: ero in coda alle 5 del mattino per un posto nel loggione alla Turandot di Katia Ricciarelli, Placido Domingo e Ghena Dimitrova. Non l’ho più voluta ascoltare».

Finché non ne ha curato la regia.

«Me lo chiese il Maestro Alberto Veronesi nel 2017 al Festival Puccini di Torre del Lago. Alle prime prove generali con coro, cast e orchestra mi guardavano tutti prevenuti. “Avete ragione, starete pensando cosa c’entra questo opinionista del Grande Fratello con l’opera lirica. Sappiate che faccio le cose con passione”. Saltò su uno del coro: “Ma noi non ci appassioniamo agli amori di Belén”. Aprii lo spartito e suonai al piano l’attacco della Turandot. Non dissero altro».

Il 10 settembre con il Teatro Bellini di Catania debutta la «sua» Cavalleria Rusticana a Vizzini, paese natale di Verga, di cui quest’anno ricorre il centenario . Ma dove trova il tempo?

«Intanto io dormo quattro ore per notte. La musica occupa una parte importantissima nella mia vita. Ogni giorno prendo due ore e mezzo di lezioni da un maestro di piano. Poi mi esercito per altre due. Ora i miei collaboratori sono terrorizzati perché sono partito per la Sicilia nel periodo più intenso, ci sono le prove per il Grande Fratello Vip, che comincia il 19».

Come nasce la passione per la musica?

«Da una tastiera Bontempi, che i miei mi regalarono a 6 anni, esasperati dal vedermi snobbare il Fortino Fort Apache e l’Allegro Chirurgo... Riuscii a frequentare il Conservatorio da privatista solo quando mio nonno morì e ci lasciò una piccola eredità. Il primo pianoforte verticale di seconda o terza mano arrivò molto dopo: mia madre per comprarlo vendette l’acquamarina che le aveva regalato mio padre».

Alfonso Signorini bambino con i genitori e la sorella

Riuscì a ricomprargliela?

«Sì, quando andai in India come inviato per Chi: ne presi una bellissima, più un collier. E a mio padre portai un orologio d’oro. Quando lei scartò i regali mi gelò: “Ma quando li metto? Per andare al mercato”».

Credevo che lei fosse quasi sordo.

«A furia di ascoltare la lirica a tutto volume, le cuffie mi hanno rotto un timpano e a 35 anni ho dovuto cedere all’apparecchio acustico. Ma so distinguere benissimo un bemolle dal diesis».

Quest’anno compie vent’anni di tv.

«In realtà l’esordio fu nel 2001 con Chiambretti c’è. Ero con Piero e Irene Ghergo quando vedemmo gli aerei infilarsi nelle Torri Gemelle. Cambiammo tutto. In video arrivai per caso. Roberto D’Agostino mollò una rubrica e suggerii di sostituirla con un duello sugli stili dei personaggi. I primi furono Berlusconi e Bertinotti: spendeva più il comunista per i golf di cachemire».

Il programma cui è più affezionato?

« Kalispéra!: il primo condotto da solo».

Chi ha fatto arrabbiare di più in questi anni?

«Emanuela Folliero. A un programma su Rete 4, dove presentava il suo calendario, le chiesi se aveva preso certi stivali al Raccordo Anulare».

Non è una bella cosa.

«Ma io quello ero! Oggi sono diventato un agnello pasquale...».

Mica tanto. L’uscita sull’aborto al GF Vip?

«Sono incavolato nero ancora adesso per come è stata decontestualizzata. Era l’una e un quarto di notte, stavo parlando con Giucas Casella della “finta” gravidanza della sua cagnolina, disquisendo di pura cialtroneria».

Ha detto: «Noi siamo contrari all’aborto in ogni sua forma». La Endemol si è dissociata.

«La Endemol dopo con me si è scusata, e il mio era un plurale maiestatis. Comunque rivendico il diritto di dire che io sono contrario, e di lasciar dire a un altro che è favorevole».

Nell’autobiografia «L’altra parte di me» ha scritto: «Sono gay ma non mi piacciono i gay».

«Non mi piacciono quelli rappresentati da certi media, la riduzione a macchietta. Ma difendo i Gay Pride come forma suprema di libertà».

È a favore del Ddl Zan?

«Sono a favore, certo».

L’ora più buia?

«La morte di mia mamma: un trauma enorme. Quella sera alle 22.30 citofonano e due carabinieri mi dicono che sta per salire il premier».

Silvio Berlusconi.

«Mi ha tenuto la mano tutta la notte, conservo nel portafogli il biglietto che mi scrisse».

È il suo spin doctor?

«Ma figuriamoci. La gente non crede che io a quell’uomo voglia bene davvero».

Non è nemmeno il cocco di Marina?

«Sono così tanto cocco che dopo aver lasciato Chi ho impiegato anni per rimettere piede a Segrate, e l’ho fatto grazie a Carlo Rossella e a due scoop che ho portato al suo Panorama: le foto di Susanna Torretta e l’intervista al fratello di Bin Laden. E mi ripresero solo come collaboratore».

Ha detto che voterà Forza Italia finché ci sarà Berlusconi. E dopo?

«Ho smesso di votare da un pezzo e lui lo sa».

Come sta Paolo Galimberti?

«Dopo 18 anni non stiamo più insieme. Una decisione sofferta, ma dovuta: quando il rapporto si trascina per non far dispiacere all’altro è meglio chiudere. Gli vorrò sempre bene».

Adesso è single?

«Sulla carta sì, ma sono molto innamorato. Sa quando non vedi l’ora di ricevere un messaggio e guardi il telefonino cento volte?».

Fa parte del suo mondo?

«No. Non frequento il mondo della televisione ed è la mia salvezza. C’è chi per un’ora in più sullo schermo venderebbe il marito».

In passato ha convissuto con una donna.

«Con Laura, per cinque anni. Tempo fa l’ho incontrata in Puglia, io ero con Paolo e lei con il marito, l’istruttore di tennis con cui mi aveva tradito. È ancora convinta che io sia eterosessuale».

Il Cardinale Carlo Maria Martini ha svolto un ruolo importante nel suo coming out.

«Lo conobbi a una lectio magistralis al Leone XIII. Iniziammo un rapporto epistolare. Andai a trovarlo in Terra Santa. Mi disse che alla fine conta solo quanto siamo stati capaci di amare».

Giovanni Ciacci: un sieropositivo al Grande Fratello Vip serve per fare ascolti?

«No, serve per una questione di giustizia: fino a quest’anno erano esclusi dal regolamento».

La soddisfazione più grande che si è tolto?

«Economicamente, la casa a Cortina. Un giorno ci andrò a vivere: voglio essere sepolto lì».

E non materiale?

«Poter dire finalmente no a quello che non voglio più fare».

·        Alyson Borromeo.

Barbara Costa per Dagospia il 12 marzo 2022.  

Lei squirta sul set ma non (ancora) nella realtà, lei ha 19 anni ed è lei, la ragazza che sempre più porno fan cercano, ne chiedono, ne vogliono: chi è quella moretta, quella ragazza nuova, quella lì, con i capelli a caschetto… “che figaaa”, “cazz*rola, è tanta roba!”, “è brava”, “diventerà top”, “baby, you’re stuuunning!”, “ma quali porno ha fatto e con chi”, “credo non abbia limiti”, “farà strada”…

Questa ragazza è italiana, si chiama Alyson, "Alyson Thor" no, non più, ora è "Alyson Borromeo", e stella nascente del porno! Alyson, italo-francese, ma nata e cresciuta a Torino, nel porno da giugno 2021, data del suo primo video girato… e meno male che dice di voler porno procedere con calma! Se la sua prima scena è consistita in una doppia penetrazione, e anale!!!, e se Alyson sui set già squirta… cosa ci serberà nelle prossime? 

Grandi e nuovi suoi porno sono in uscita, a cominciare dai due episodi, il 2 e il 3, di "Rocco’s Sex Clinic", il nuovo serial siffrediano. Alyson lo dice, che è "Rocco’s Sex Clinic" il suo vero esordio porno. È qui che ha iniziato a pornare sul serio, dopo il suo incontro e ingresso nella hard-academy di Rocco, ingresso avvenuto lo scorso settembre, e che ha ribaltato l’insuccesso dell’impatto iniziale. 

Alyson è una ragazza giovanissima con un breve passato da fotomodella e che, ingolosita dal porno, ha contattato via Instagram il profilo di una agenzia porno importante, i cui agenti ha incontrato a Milano, e che, dopo tre settimane, le hanno prenotato il primo set porno, a Barcellona (“Non ci ho pensato due volte: era quello che volevo fare!”). Da lì, è stata virata a Siffredi. Ma, a un primo colloquio, Rocco non l’ha giudicata pronta. Alyson non si è persa d’animo, è andata in vacanza con la sua migliore amica, per ripresentarsi a Rocco a settembre, e stavolta conquistandosi la porno protezione di… Malena! È grazie alla generosità e ai consigli di Malena, che Alyson ha irrobustito la sua porno determinazione.

La tassativa e benefica "paternale" che Rocco impone alle giovani provinanti screma chi ha ferrea intenzione di fare porno – assumendosene oneri e onori, in prima persona – e chi no. “Rocco è molto severo”, dice Alyson, “ma da lui acquisisci la consapevolezza di ciò che vuoi e stai per fare. Lui ti insegna, ti inquadra, ti muta approccio e impostazione. Solo così capisci se questo è il mestiere che fa per te. Con Rocco si gira ore! È complicato stargli dietro. Ma è grazie a lui che sui set sono sempre più sicura. È il lavoro che sognavo”.

Va ribadito, e forte: la generazione Z è senza precedenti, in ogni campo, e pure nel porno. Se è la prima a nascere e crescere in un mondo, e in società, digitali, dal mucchio spiccano cervelli svegli e pensanti. A pochi mesi dal debutto, Alyson Borromeo ragiona già da star in fieri. Lei ha rinunciato a grosse cifre garantite da scene super hard, scene porno super estreme, ovvero quelle scene che hanno ampio e saldo mercato e che per questo in un lampo fanno salire il tuo nome ai vertici, assicurandoti una notorietà istantanea e però fugace. Sono queste scene lautamente pagate, per lo più ambite da ragazze che non vogliono fare porno a lungo, ma puntano a raggranellare alla svelta più soldi possibili per poi investirli altrove.

Alyson no, Alyson ha detto no perché lei mira a una presenza porno lunga, e solida: lei punta a diventare come il suo mito, Malena. Alyson vuole segnare porno marcate impronte. Ha mutato il suo cognome d’arte da Thor in Borromeo (Alyson è il suo nome reale) per una futura conquista del porno americano. È negli USA che vuole andare Alyson, è lì che vuole mettersi alla prova, e brillare, con la sua italianità, chiaro brand, nel nome. 

Alyson sogna il porno americano, ha dalla sua il pregio di parlar tre lingue, ma non ha fretta: c’è quello europeo che l’aspetta. Sa bene che è inutile starsene in Italia, dove la porno produzione è (quasi) nulla, e dove c’è chi tuttora associa il porno allo squallore della più misera prostituzione! Il porno è un mestiere e Alyson lo sa e ne ha fatto sue le regole odierne: sta a lei smazzarne le carte a suo vantaggio.

Ne ha già filtrato l’aria competitiva, e la fatica e l’abnegazione che il set porno esige. La telecamera di un set non ha niente in comune con quella di uno smartphone, anche se oggi è prassi mediare tra i set e i porno fatti in casa sui social: dopo il terzo banno, Alyson è di nuovo online con le sue clip, e non male quella in cui svela il suo corpo nudo, "bagnato", sudato, a riprese appena concluse. Alyson è etero ma ama "giocare" con le donne fuori, e dentro, i set, anche perché, nella sua vita privata – dove, a quanto se ne sa, non c’è un fidanzato – “i preliminari migliori me li hanno fatti le donne: in questo sono, siamo, imbattibili!”.

·        Alyx Star.

Barbara Costa per Dagospia il 16 gennaio 2021.

“Io a 30 anni me ne vado in pensione!”. La ragazza è convinta, la ragazza è determinata, la ragazza si chiama Alyx Star e non torna indietro. Non è presunzione né follia, è che Alyx è una tipa sveglia che i conti in tasca sa farseli benissimo. Ognuno vive e pensa al suo futuro se vuole e può, c’è chi con la pandemia ha capito che si vive una volta sola e al diavolo scrivania e ufficio e una vita snervante da pendolare, e chi, come Alyx, a 23 anni ha questo per alcuni assurdo, irrealizzabile, sicuramente ambizioso progetto: smettere di lavorare a 30 anni, e godersi un’assicurata – e privata – pensione in Costa Rica.

È quello che questa porno attrice si è messa in testa di fare, e Alyx è una ragazza che col lavoro ha un rapporto particolare: lei è nel porno da due anni che tali non sono, perché Alyx ha girato la sua prima scena appena prima che scoppiasse la Covid-pandemia. È quindi stata ferma per poi tornare a pornare qualcosa come 60 e oltre scene, in gran parte lesbiche, settore in cui va alla grandissima perché Alyx è una ragazza bisex tendenzialmente lesbo, fidanzata nella vita reale con una lei, e che nel suo esagerato carnet sessuale (ne ha tenuto il conto fino alla soglia delle 50 conquiste!) ha avuto ben più donne che uomini.

Con una coetanea ha perso la verginità a 12 anni, a un pigiama party e, se pur l’imene in sé, per quello che vale, è stato spezzato a 16 anni da un ragazzo che ha visto una volta o due, è con le donne che Alyx meglio si trova e sta e gode, e questo è evidente nelle scene lesbiche che gira, e pure il motivo preciso per cui uno studios importante quale "Girlfriends Films" l’ha messa sotto contratto in esclusiva, contratto da cui escono porno al pubblico graditissimi (in modo particolare "Bad Lesbian 13"), insieme ai video dove Alyx si masturba ottenendo orgasmi multipli solo accarezzandosi e succhiandosi le tettone: “Mi succede anche quando faccio sesso nel mio privato”, rivela Alyx, aggiungendo che i suoi capezzoli sono così sensibili che il godimento che prova a farseli titillare e succhiare e mordicchiare non è uguale a quello che la sconvolge a solleticarle il clitoride, ma ci va vicino.

Le sue favolose tettone sono un feticcio per i fan che un po’ invidiano i peni che tra quei muri mammari guazzano felici. Alyx Star a quanto pare è un sogno di moglie: come capire sennò l’esultante accoglienza serbata a quel porno dove da sposa è vestita e poi svestita a torbide consumazioni nuziali? 

Alyx è nata a San Francisco, non ha frequentato nessuna scuola, per decisione familiare ha studiato a casa, diplomandosi a 16 anni. Ed è a 16 anni che Alyx è uscita di casa e si è messa a lavorare mantenendosi da sola, in Oregon, come barista e baby sitter. E Alyx a 16 anni ha chiesto l’emancipazione legale dalla sua famiglia, non perché con essa non andasse d’accordo, con i suoi genitori non c’era alcun problema, anzi, ma Alyx ha chiesto di aver potere legale di una maggiorenne per mettersi a lavorare prima come gestore di un bar, in seguito come amministratrice di condominio.

Lei a 16 anni era già una persona a norma di legge adulta, in grado di gestire sé stessa, una casa, un lavoro, e i suoi sottoposto (nel caso anche sposarsi, opzione non rientrante nei suoi propositi). Senza dubbio Alyx come persona è in fretta maturata molto prima dei suoi coetanei. Il suo corpo in rete, sui social, un corpo tutto naturale e "grosso", burroso (è alta quasi 1 metro e 80 per 67 kg), quei seni enormi, pieni, tali già all’età di 14 anni (“e io sono quella che ha le tette più piccole in famiglia!”) ha attirato l’attenzione di seri oculati agenti porno di cui Alyx ha declinato in un primo tempo ogni offerta.

Ma a 21 anni, capa e proprietaria di una spa a Portland, su sprono della sua fidanzata Alyx ha cambiato idea e deciso di almeno provarci, col porno: ha ricontattato agenti e girato quella scena etero, l’unica rilasciata prima dello scoppio della pandemia. 

Con la spa chiusa per Covid, Alyx non si è persa d’animo, auto-porno-promuovendosi nella sicurezza di casa sua su porno piattaforme social, fidando però nel porno professionale quale sua occupazione primaria per i prossimi 7 anni. Fino al momento in cui, secondo i suoi piani, i soldi col porno sudati e messi da parte e fatti sapientemente fruttare non saranno più che sufficienti a saldare i suoi bisogni e sfizi di una vita da baby-pensionata in Costa Rica. Ci riuscirà?

·        Alvaro Vitali.

Alvaro Vitali a Oggi è un altro giorno: «Dopo il successo di Pierino il telefono ha smesso di squillare». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2022.

L’attore, tra i protagonisti negli anni Settanta della stagione della commedia sexy all’italiana, si è raccontato nel programma di Serena Bortone: «Cambiavo macchina ogni tre mesi». 

Prima il grande successo legato ai film di «Pierino», poi il telefono ha improvvisamente smesso di squillare. Ospite di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno insieme a sua moglie, Stefania Corona, l’attore Alvaro Vitali ha raccontato la sua parabola artistica: «Nella vita - ha spiegato - sono stato davvero Pierino, già da piccolo nel quartiere dove sono nato, a Trastevere, facevo tanti dispetti. Mia mamma mi portava in collegio, io entravo dalla porta principale e uscivo da quella posteriore, andava a prendere l’uva nei capi e la vendevo. Usavo la fionda per divertirmi a rompere i vetri. A otto anni ho fatto fagotto e me ne sono andato a vivere a casa di mia nonna perché non sopportavo più il controllo di mia madre. Dovevo rimanere un mese e invece sono rimasto fino a 34 anni».

Scoperto da Federico Fellini Vitali, oggi 72enne, nel 1969 fu scritturato per una piccola parte in «Fellini Satyricon»: «Ho girato 150 film, lavorando con registi come Fellini, Dino Rosi, Polanski e Monicelli. All’inizio facevo elettricista, poi mi ha chiamato una produzione di Dino Risi che doveva fare un film, “Mordi e fuggi”, in cui dovevo interpretare un giornalista. Da lì è cambiata la mia vita, mi hanno dato 500mila lire e a qual punto ho deciso di fare cinema. Una volta ero a Cinecittà per fare un provino, mi fanno entrare con un altro attore e vedo una sciarpetta bianca, un cappello e una grande luce. Era Federico Fellini. Ha chiesto chi dei sue sapesse fare il verso del merlo e io ho iniziato a fischiare. Poi mi ha interrotto: “Prendete lui che l’altro sta ancora aspettando il merlo”. Da allora è iniziata la nostra collaborazione».

Con il regista riminese lavorerà anche in «I clowns» (1971), «Roma» (1972) e «Amarcord» (1973), ma è negli anni Settanta che l’attore conoscerà il successo grazie alla commedia sexy all'italiana e alle pellicole della saga di «Pierino», personaggio protagonista di numerose barzellette: «Ho fatto 4 film con Pierino, poi tante commedie sexy. Circa 5 film l’anno, ma non sono diventato ricco. Distribuzione e produzione mi stipendiavano mensilmente e in questo modo non si guadagna poi molto. Ho comprato la mia casa, poi delle macchine che sono la mia passione, la cambiavo ogni tre mesi».

In seguito, con la fine della stagione della commedia sexy, è arrivato l’oblio: «Mi sono sentito escluso dal cinema, non volevo sentire e vedere più nessuno». Vitali, che ha rivelato di essere caduto nel baratro della depressione, si è risollevato con l’aiuto della sua Stefania: «Siamo ottimi colleghi - ha raccontato Corona - e come moglie e marito siamo come tutte le coppie che litigano e fanno la pace. Insieme da 24 anni, sposati da 15. Quando ci siamo incontrati Alvaro stava vivendo un periodo di depressione. Aveva girato un film su Pierino che poi non è mai uscito e l’aveva visto come la fine della carriera. Era allegro e generoso in pubblico, ma in casa cambiava ed era triste, senza la voglia di fare più niente. Io l’ho spinto a rialzarsi, anche per via delle numerose esperienza che aveva alle spalle, della sua genialità, quindi abbiamo cominciato a lavorare insieme. Lo scuotevo, gli agenti ci chiamavano e l’ho costretto a impegnarsi di nuovo».

Alvaro Vitali e la depressione: "Non sono mai diventato ricco ma compravo una macchina ogni 3 mesi. Poi..." Libero Quotidiano il 14 aprile 2022.

Alvaro Vitali e la depressione dopo il successo. L'attore, noto soprattutto per il personaggio di Pierino, si è raccontato in una lunga e intima intervista con Serena Bortone a Oggi è un altro giorno su Rai 1. "Ho fatto 4 film con Pierino, poi tante commedie sexy. Circa 5 film l’anno, ma non sono diventato ricco. Distribuzione e produzione mi stipendiavano mensilmente e in questo modo non si guadagna poi molto. Ho comprato la mia casa, poi delle macchine che sono la mia passione, la cambiavo ogni tre mesi", ha detto. 

Poi l'inizio del periodo più difficile: "Il telefonino ha smesso di squillare, mi sono sentito escluso dal cinema, non volevo sentire e vedere più nessuno". Proprio in quel momento, però, ha conosciuto quella che poi sarebbe diventata sua moglie, Stefania Corona. "Insieme da 24 anni, sposati da 15. Quando ci siamo incontrati Alvaro stava vivendo un periodo di depressione. Aveva girato un film su Pierino che poi non è mai uscito e l’aveva visto come la fine della carriera - ha raccontato lei nello studio della Bortone -. Era allegro e generoso in pubblico, ma a casa cambiava ed era triste, senza la voglia di fare più niente. Io l’ho spinto a rialzarsi". 

Vitali, infine, ha rivelato di essere stato davvero "Pierino" da bambino: "Già da piccolo nel quartiere dove sono nato, a Trastevere, facevo tanti dispetti. Mia mamma mi portava in collegio, io entravo dalla porta principale e uscivo da quella posteriore, andava a prendere l’uva nei campi e io la vendevo. Usavo la fionda per divertirmi a rompere i vetri…".

·        Amadeus.

Dagoreport il 17 dicembre 2022. 

Amadeus è un “pezzo da novanta” della Rai, l’azienda lo blandisce e lo premia, ma il suo successo non basta a portare quiete in famiglia. A casa ha una moglie, Giovanna Civitillo, che seppur felice per i trionfi del marito, scalpita, ha voglia di emergere, di portare il suo faccione in tv. Il suo nome, non a caso, è sempre accanto a quello del marito. Dentro I “Soliti Ignoti”, per esempio, il programma che Amadeus conduce su Raiuno, nella televendita del caffè, Amadeus fino a poco tempo, fa non era mai solo, c’era anche Giovanna a fare con lui la réclame. Lo sponsor pagava lui e anche lei.

Certo le televendite non sono veri e propri programmi ma è pur sempre qualcosa. La Civitillo non ha un curriculum da esperta di cucina eppure nel settembre scorso a sorpresa è entrata a far parte del programma “E’ sempre mezzogiorno” su Raiuno con una rubrica sulle sagre. Il marito, Amadeus, deve le sue fortune a Lucio Presta. A cosa si debba l’attenzione che viale Mazzini riserva alla showgirl non si sa. Intanto le porte per lei si aprono. Come quelle dell’Ariston, per esempio.

Alberto Matano, conduttore de “La vita in diretta”, è uomo di mondo. Sa come vanno certe cose e, anche quest’anno, visto che Sanremo è alle porte, ha assoldato Giovanna Civitillo come “inviata speciale” al Festival. Chi storce il musino perché, nonostante la pletora di inviati a disposizione, la tv pubblica si ritrova a pagare un esterno, deve sapere che la prode Giovanna, a Sanremo, è un valore aggiunto: può aprire porte che altri nemmeno vedono.

A “La vita in diretta”, la Civitillo porterà i grandi big della musica, andrà a curiosare dietro le quinte, farà intervenire a sorpresa il marito, si spingerà con le telecamere dove nessun giornalista potrà mai arrivare. In fondo non è un’inviata qualunque, è la moglie del gran capo del Festival. La 45enne di Vico Equense ha creato un profilo Instagram del marito e lo ha chiamato “Giovanna e Amadeus”. Un nome che è tutto un programma, possibilmente il suo.

Amadeus: «Le canzoni di Sanremo? Le scelgo in macchina mentre guido». Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.

«Io credo che al Festival di Sanremo debba andare l’attualità discografica e per fare questo devi partire non dal nome, ma dalla canzone. Quando io scelgo i brani, penso se quella canzone può avere un successo radiofonico. Tant’è che le mie scelte avvengono in automobile. Se uno pensa che io mi chiuda in una sala di incisione con le casse, no. Io salgo in macchina e scelgo le canzoni mentre guido e a volte mi faccio anche dei viaggi apposta per ascoltare le canzoni». Così Amadeus racconta i suoi Festival e le sue scelte in «Sanremo, Italia», ultima puntata di «Storie della Tv», la serie di Rai Cultura realizzata con la consulenza e la partecipazione di Aldo Grasso, in onda martedì 22 novembre alle 21.10 in prima visione su Rai Storia

Amadeus festeggia 60 anni: vita, amori, carriera. Silvia Fumarola su La Repubblica il 4 Settembre 2022.

I segreti e le passioni del conduttore simbolo di Rai 1

"Sono stato molto fortunato: ho fatto della mia passione il mio lavoro. Cosa potrei volere di più?". Amadeus ha sempre tenuto i piedi per terra. Da bravo ragazzo, sfodera una notevole tenacia: papà insegnante di equitazione, mamma casalinga, studi di ragioneria senza entusiasmo, in radio si trasforma. Le prime radio private gli fanno capire il suo destino e gli cambiano la vita. Il 4 settembre Amedeo Umberto Rita Sebastiani, in arte Amadeus, nato a Ravenna nel 1962 e cresciuto a Verona, compie 60 anni. Torna su Rai 1 con I soliti ignoti, Arena 60 70 80 e 90 e il Festival di Sanremo di cui sarà conduttore e direttore artistico anche per i prossimi due anni. Lo ha ringiovanito, ha creduto nella musica che piace ai giovani e ha capito che il mix vincente è parlare a tutti. Per questo nell'edizione 2023 ha voluto come co-conduttore Gianni Morandi, 77 anni croccanti. Dieci punti per conoscere meglio Amadeus, timido di successo. 

Gli inizi

La stanza di Amadeus ragazzino è piena di 45 giri, la musica è la sua grande passione, il mangiadischi lo accompagna ovunque. La madre è disperata: "Basta, devi studiare". Ma il giovane Amedeo non ci sente da quell'orecchio. Quando accompagna l'amico Gianni ai provini per Blu Radio Star, l'aspirante dj Gianni non passa. Prendono Ama.  

Studiare? No grazie - "I miei genitori sono stati generosi con me, mi hanno lasciato libero ma ci tenevano che prendessi il diploma. Alla maturità ho promesso ai professori: 'Datemi 36 non farò mai il geometra'".  

La tenacia è (quasi) tutto - "Devi combattere per realizzare il tuo sogno, sognare cento per realizzare cinquanta. Ho iniziato alla radio, mettevo i dischi. Poi ho aspettato Vittorio Salvetti sei ore in albergo. Volevo che qualcuno mi desse una possibilità. Fu gentile, lo colpì la mia perseveranza. Mi mandò da Claudio Cecchetto a Radio Deejay. Per vedere Baudo che conduceva Un milione al secondo venivo a Roma e tornavo a Verona. Mi mettevo seduto tra il pubblico".  

Sbagliando si impara - "Ero tornato in Rai dopo essere passato a Mediaset, dove nel 2006 non avevo combinato niente. Fu un grande errore lasciare l'Eredità. Pensavo di poter fare il preserale, di ricominciare a Milano, ma per due anni non ho fatto niente. Non lo dico retoricamente, ma è utile anche sbagliare. Mi chiamò Michele Guardì: quando facevo Mezzogiorno in famiglia, quello era il mio Sanremo".     

Fiorello forever - Amici da sempre e per sempre, complici, inseparabili, tifosi dell'Inter. Fiorello dice che sono gli Amarello". "Fiorello" dice Amadeus "occupa un posto speciale, è la persona che mi fa più ridere, lo conosco da trent'anni. Quando è arrivato a Milano era un selvaggio, avevamo tutti e due il sogno della televisione. Facevamo DeeJay Television. Non ci aveva invitato nessuno ai Telegatti. Affittiamo gli smoking, compro i biglietti per il Teatro Nazionale, i primi posti più vicini ai vip. Due bambini a Disneyland". Confessa che senza Fiorello non avrebbe potuto fare il Festival e che la cosa più bella quando sono insieme in scena è la sorpresa. "Non mi dice mai quello che farà, è imprevedibile. Lo adoro per questo, è capace di tutto".  

I modelli - "Ho guardato tanta televisione Corrado, Baudo. In gita a Roma con la scuola scattai la foto ricordo al cavallo della Rai di viale Mazzini". 

Festival, vera passione - "Andavo a Sanremo quando lavoravo alla radio, sperando di raccogliere una dichiarazione dai cantanti. Adesso conduco il festival con il pubblico che è ringiovanito,  la più bella soddisfazione. Riportare i giovani davanti alla tv è una vittoria. Pippo Baudo mi disse: 'Ascolta con attenzione le canzoni, le devi sapere a memoria'. Io le sento in macchina, decine di volte, a volume altissimo". Fiorello ironizza sul fatto che ormai Amadeus ha preso la cittadinanza a Sanremo. L'ad Carlo Fuortes, visti i risultati, lo ha blindato. "Sono felice della conferma per due anni", ha spiegato Amadeus "che Fuortes abbia definito il mio festival un format. Mi sono potuto mettere al lavoro subito". 

Giovanna, che scossa - Due matrimoni: dal primo ha avuto la figlia Alice, 25 anni. Nel 2003 incontra nel programma L'eredità Giovanna Civitillo, che lo fulmina col balletto della scossa. Nozze nel 2009, nasce Josè Alberto che ha 13 anni. Dopo aver ottenuto dalla Sacra Rota l'annullamento del primo matrimonio, risposa Giovanna in chiesa l'11 luglio 2019. " Giovanna è il mio punto fermo, condividiamo tutto, abbiamo anche i social in comune" spiega. "Stiamo bene insieme, ridiamo, amiamo viaggiare, lei mi fa stare bene. Le prime persone con cui mi sono consulto sono il mio manager Lucio Presta e mia moglie. Ho bisogno del sostegno di Giovanna per fare serenamente il mio lavoro. Vederla seduta all'Ariston a Sanremo, mi rende felice". 

Ignoti, che passione. "Io sto sempre dalla parte del pubblico, sono prima di tutto spettatore". E' lui a scovare nella società Magnolia un quiz argentino, con un conduttore e dieci concorrenti intorno. Era L'eredità. "La gente più strana l'ho incontrata ai quiz, i concorrenti sono un mondo da scoprire. Mi fermano chirurghi, ingegneri che chiedono di partecipare. C'è chi è in cerca di visibilità, chi tenta la fortuna. A I soliti ignoti non voglio mai incontrare prima il concorrente". 

Amadeus: "Porto 40 anni di musica all'Arena di Verona. Sanremo? Già al lavoro". Silvia Fumarola su La Repubblica il 7 giugno 2022.

Il conduttore presenta 'Arena '60, '70, '80 e... '90', in onda su Rai 1 il 17 e il 24 settembre e il primo ottobre. Tra gli ospiti Gloria Gaynor, Ornella Vanoni, Rita Pavone

L’anno scorso è stato un successo, quest’anno si fa il bis aggiungendo un decennio fondamentale per la musica: gli anni 90. Amadeus presenterà Arena – ’60 ’70 ’80 e '90 il 12, 13 e 14 settembre a Verona; lo spettacolo sarà poi trasmesso il 17, 24 settembre e primo ottobre su Rai 1.

“Apre la stagione”, dice il direttore del Prime time Stefano Coletta, “con Amadeus torna l’intrattenimento al sabato. Abbiamo sperimentato la cultura il sabato sera, ora bisogna invece tallonare in modo agonistico e portare il varietà su Rai 1.L a collaborazione con l’Arena per noi è motivo di orgoglio. La mission del servizio pubblico è far parte attiva di uno scenario che non tutti possono vivere, c’è il problema della povertà. Ma è bello portare uno spettacolo come questo a tutti, nelle case”.

Realizzato da Arcobaleno Tre, questo show fa ballare senza nostalgia generazioni diverse: “Lo scorso anno” spiega il produttore Niccolò Presta, 29 anni “era bello vedere che sui social commentavano famiglie intere”. “Questo grande appuntamento che torna non fa che sottolineare la centralità dell’intrattenimento musicale nel prime time della Rai”, spiega il vicedirettore di Rai 1 Claudio Fasulo, “saranno tre serate piene di colore, la centralità dell’Arena in quanto sede di eventi viene confermata, siamo reduci dall’Inno di Mameli con Gianni Morandi e dalla serata dedicata a Lucio Dalla. All’Arena ci troviamo bene, insieme al Teatro Ariston di Sanremo è diventata il luogo ideale della musica in televisione”.

Le tre serate hanno già venduto più di 17mila biglietti, a quasi cento giorni dall’evento. Già al lavoro sul Festival di Sanremo (“Quest’anno le canzoni stanno arrivando prima”), Amadeus, che ideato il progetto Arena, ringrazia tutti, a cominciare dal sindaco di Verona Federico Sboarina “perché le idee possono venire ma senza il gruppo di lavoro - Gianmarco Mazzi, Presta, il mio amico dj Massimo Alberti e tutta la Rai - non si realizzano. Il bello è poter realizzare una compilation con tutti gli interpreti e le canzoni originali Alla fine avremo quasi 50 artisti. Frankie goes to Hollywood canteranno The power of love e Relax; Paul Young con Every time you go away e Love of the common people, Gloria Gaynor (I’ll surivive e Can’t take my eyes off you) Bonnie Tyler (Total eclipse of the heart). Siamo felici di ospitare Ornella Vanoni che canterà L’appuntamento, Una ragione di più e altri successi poi Rita Pavone Il ballo del mattone, Gianluca Grignani con i suoi successi Destinazione paradiso, Falco a metà e La mia storia tra le dita. E gli Aqua con Barbie girl, Richard Sanderson con Reality colonna sonora del Tempo delle mele”.

Sono i giovani a rilanciare i vecchi successi che scoprono anche grazie alle serie tv: Running up that hill di Kate Bush grazie all’inserimento in Stranger things prima sulla piattaforma iTunes, le piacerebbe ospitarla? “La musica quando rimane iconica è incollata a noi”, dice Amadeus, “queste canzoni sono incollate a noi, basta rispolverarle. Stranger things è una serie fortissima, è chiaro che un brano torna, non è che all’epoca non fosse bello, ma continua a essere bello e se ne accorgono i ragazzi di oggi. Oggi una canzone può diventare un successo dall’oggi a domani. Non abbiamo la pretesa di far tornare in classifica i pezzi, ma far capire che rimangono forti. Avere Kate Bush ospite è un sogno”.

Immagina l’Arena a capienza piena e anche l’Ariston? “Già l’anno scorso con sei mila persone è stato bellissimo, quest’anno sarà una grande festa”, dice il conduttore, “per Sanremo abbiamo imparato a non fare una previsione molti mesi prima. Spero che nel 2023 l’Ariston sia come lo abbiamo visto nel febbraio 2020, prima che tutto accadesse. Ma ho quasi paura ad avere una certezza, lo sapremo a ottobre o a novembre se saremo tutti senza mascherina ma dobbiamo incrociare le dita sperando che non sbuchi qualche variante”. Sogna di portare sul palco Mina (“sarebbe bellissimo ma è davvero un sogno”), intanto per le serata delle cover potrebbero arrivare gli artisti delle canzoni scelte. “Uscirà il regolamento lunedì, gli artisti hanno la possibilità di essere accompagnati, se vogliono il cantante originale del brano va benissimo”, continua Amadeus, “mi piace pensare che curiosando in 40 anni di musica ci sia solo l’imbarazzo della scelta. È stato bello ascoltare Elisa che cantava Flashdance, quella serata di Sanremo è piaciuta tanto al pubblico perché era una serata di festa”.

Amadeus elogio della leggerezza: «Sono un ex ultimo della classe, avevo una possibilità su un milione». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.

Il conduttore scende dal palco e si svela in un’interista a Walter Veltroni: «Il mio compito è portare leggerezza nelle case, una brezza di serenità. Sono pop e mi piace. Ho sempre desiderato sedermi accanto ai più bravi e imparare». 

Amedeo Umberto Rita Sebastiani, in arte Amadeus, è nato a Ravenna nel 1962. Il suo debutto è stato a Radio Deejay negli Anni 80. Sposato due volte, ha due figli.

Amadeus, mi racconti come era la tua stanza da bambino?

«La condividevo con mio fratello Gilberto. Io sono del ‘62 e lui del ‘66. Ricordo che c’erano due camere vicine, una però mia madre la teneva sempre vuota per gli ospiti. Ma la verità è che non veniva mai nessuno. E io non capivo perché mio fratello non potesse dormire nella stanza vuota. Non l’ho mai capito. In camera nostra c’erano due letti collocati testa contro testa, un comodino in mezzo, una piccola scrivania. E poster, musicali, ovunque».

Di chi?

«Sono cresciuto con la musica internazionale: Police, Pink Floyd, Eagles, Yes, Deep Purple, Led Zeppelin. Quel mondo fantastico mi faceva sognare: immaginavo di possedere una grande Jeep e di guidare sulle highways ascoltando la musica degli America o dei California. Nella camera c’erano uno stereo, un giradischi vecchio, e una marea di 45 giri. Qualsiasi soldo avessi in tasca lo spendevo in 45 giri. Mia madre impazziva, per questo. Li ascoltavo anche venti, trenta volte al giorno. Mamma si arrabbiava: “Studia! Stai sempre a sentire la musica, studia!”».

Ti ricordi come è iniziata questa passione?

«I miei sono siciliani e quando andavamo a in vacanza a Isola delle Femmine, a Sferracavallo, la cosa fondamentale per me era portare il mangiadischi. Mia madre e i miei nonni avevano sempre teglie intere di pasta al forno, ma a me non importava. Volevo solo e spingere io i 45 giri nel mangiadischi. Poi, a diciassette anni, un mio amico che abitava al di piano di sotto, Gianni, un giorno mi disse: “Mi accompagni, che c’è un provino in una radio?”. Si chiamava Blu Radio Star, ora non esiste più. Ricordo che eravamo in una stanza grande, venti ragazzi tutti seduti, e io accompagnavo Gianni. Tutti entravano, facevano un provino di lettura al microfono e una piccola simulazione di un brano da annunciare. Ascoltarono tutti e venti, il mio amico fu l’ultimo. Io mi alzai per andarmene, ma mi fermò il direttore Mimmo Sgambati che mi disse: “Tu non lo fai il provino?”. Io risposi “No, sono qui solo per accompagnare il mio amico”. Lui insistette: “Però hai il vocione, voglio sentirti.”. Feci questo provino e andai via. Dopo dieci giorni lui mi chiamò e mi disse “L’unico che ho preso dei venti, sei tu”. L’amico non mi parlò più, chiaramente. Però io da lì ho cominciato. Sliding doors. Casualmente».

Altrimenti cosa avresti fatto nella vita?

«Forse questo, lo stesso. A quattordici, quindici anni andavo dai nonni il sabato e guardavo Canzonissima, poi il giovedì il quiz di Mike Bongiorno, ero attratto da quel mondo magico. Mi piacevano Raffaella Carrà, Corrado, Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Enzo Tortora. Quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande, io dicevo il presentatore televisivo o l’allenatore di calcio».

Un po’ lo stesso mestiere: organizzare squadre, mettere ordine nelle cose, imporre un’atmosfera.

«Forse sì».

«SONO SEMPRE STATO POCO BRAVO A SCUOLA, IN MATEMATICA HO PRESO UN SACCO DI 3. MA HO ASSORBITO TANTO FACENDO I QUIZ!»

Ti ricordi che libri leggevi da bambino?

«Io sono sempre stato poco bravo a scuola. Non ho mai letto molto. Considero di avere imparato molto facendo i quiz. Nel senso che a scuola ero uno bravo ad organizzare le feste il sabato, bravo a tenere su il morale della classe, bravo a fare casino. Ma non ero uno studente modello. Ero quello dell’ultimo banco, capace di fare le imitazioni degli insegnanti e bravissimo in alcune materie, ma scarsissimo in altre. Mi piaceva l’interrogazione di italiano, avevo la parlantina sciolta, me li intortavo, parlavo per ore e quelli mi davano nove, dieci. Se però c’era matematica io mi rifiutavo e scrivevo sul compito: “non so neanche da dove iniziare”. Regolarmente prendevo due, tre».

Il primo jukebox della tua vita te lo ricordi?

«In un bar di Sferracavallo, avevo sedici anni. Il disco che mettevo sempre era Ti amo di Umberto Tozzi. Credo d’aver sentito Ti amo e Tu, senza esagerare, almeno centocinquanta volte, nel corso di quella vacanza».

Quanta televisione vedevi tu?

«Per essere un ragazzino di quattordici, quindici anni, tanta».

Che lavoro facevano i tuoi?

«Mio papà era istruttore di equitazione, mia mamma casalinga e hanno girato l’Italia. Dalla Sicilia si sono trasferiti a Ravenna dove sono nato io, poi a La Spezia. Infine a Verona, dove sono cresciuto».

Cosa ti hanno detto i tuoi dopo Sanremo?

«Si sono commossi. Mia madre mi ha scritto un messaggio che mi ha strizzato il cuore. Mi hanno detto: “Non siamo degni di essere i tuoi genitori”. Ho risposto: “Non lo dovete dire neanche per scherzo”. Loro stanno sempre in un angolo, non sono molto presenti, sono timidi. Mio padre poi è un uomo molto severo, molto forte caratterialmente, poco espansivo. Loro hanno fatto una cosa molto importante per me, non mi hanno mai ostacolato. Negli Anni 70 sentire che tuo figlio faceva il dj era come dire che era un drogato. Tante volte glielo hanno chiesto e non si sono mai vergognati. All’epoca per un ragazzo come me era impensabile fare la televisione. Avevo due genitori che non c’entravano niente col mondo dello spettacolo, io non conoscevo nessuno, non ero figlio d’arte. Le mie probabilità non erano una su mille, ma una su un milione. Però ce l’ho fatta».

«SE POTESSI INVITEREI A CENA CELENTANO, BENIGNI (CHE È COLTO), POI MINA (CHE NON CONOSCO) E VINCENZO MOLLICA (CHE MI AFFASCINA)» 

C’è stato mai un momento in cui hai pensato di aver sbagliato strada?

«No, rispetto al mio lavoro no, mai. Sono sempre stato convinto di aver preso la strada giusta. Quello che sognavo di fare da ragazzo l’ho realizzato e questa la considero la grande fortuna della mia vita».

Tortora, Bongiorno, Corrado, Baudo. A chi ti senti più vicino?

«Per il modo di gestire il palco, Pippo. Io, anche quest’anno, quando ho accolto i cantanti che entravano avevo bisogno di avere un contatto fisico, dopo due anni di distanziamento. Volevo toccare una spalla o abbracciarli. Si è detto che è stato anche il festival degli abbracci, ed è vero, volevo proprio questo. Il rispetto della liturgia nel quiz l’ho appreso da Mike Bongiorno, il non prendere troppo sul serio tutti dall’ironia di Corrado. Enzo Tortora aveva un’eleganza unica, forse irriproducibile. Io cerco sempre di tenermi lontano dalla volgarità».

Pippo si è fatto sentire dopo il festival?

«Con lui ho parlato prima del festival, ci siamo sentiti più volte. Quando fui designato ci incontrammo in un ristorante e lui mi disse: “Ricordati che devi conoscere a memoria le canzoni e devi lavorare con i cantanti, modificare quello che ritieni modificabile e lavorare su ogni brano. Devi essere padrone del brano tanto quanto il cantante che lo interpreta.”. Per tre anni ho fatto proprio così».

Proviamo a fare un gioco. Immaginiamo che tu possa invitare a cena quattro personaggi della storia della televisione.

«Adriano Celentano e Roberto Benigni perché è di un livello culturale alto. Io sono affascinato forse perché sono l’ultimo della classe, sono stregato dai primi della classe. Io dicevo sempre al più bravo di tutti: “Siediti vicino a me, stiamo all’ultimo banco. Tu ti diverti e io imparo”. E quindi mi piace avere persone che mi possano raccontare. Io amo assorbire dagli altri. Poi mi piacerebbe Mollica».

Mollica è a metà tra un cartone animato ed un essere umano.

«Mollica, sì. Mollica sempre per la storia del racconto, che mi affascina. E poi Mina, che non ho mai incontrato nella mia vita. In una cena così tolgo gli orologi, perché lì il tempo non deve mai passare».

«CHI FA QUESTO MESTIERE È UN PO’ COME IL CLOWN AL CIRCO. IO SONO VERO IN TELEVISIONE, SOLO CHE QUELLO È AMADEUS...»

Amadeus con la seconda moglie Giovanna Civitillo e il figlio Josè Alberto, 13 anni. Dal primo matrimonio con Marisa Di Martino ha avuto Alice, 25 anni 

Un festival con i palloncini e uno con le mascherine. Cosa è stato fare spettacolo in mezzo ad una tragedia come la pandemia?

«Sono stati tre festival completamente diversi dall’altro. Il primo era il festival dell’assembramento. Io non ho mai visto tanta gente nella mia vita, eppure ho frequentato locali, discoteche... C’era gente ovunque. Il secondo era il deserto, una situazione drammatica. Ho l’immagine di quando uscivamo dal teatro Ariston, la sera dopo le prove, e Sanremo sembrava una città morta. Con il lockdown si era pensato di non farlo, io mi sono opposto fortemente. Cinque serate di leggerezza, in quella tragedia, non facevano male, né per le persone a casa né per il mondo della discografia, per i lavoratori della musica. Farlo con i palloncini al posto del pubblico è stato terribile. Per fortuna c’era Fiorello, vicino a me. Lui si è caricato sulle spalle molto. Io in fondo presento canzoni, non ho bisogno del rimbalzo delle emozioni del pubblico, mi concentro sulla telecamera e basta. Lui no, lui fa ridere e se davanti non c’è nessuno che ride è micidiale. Ma Fiore è riuscito anche a fare questo. L’ultima edizione è stata una gioia. Avevamo le mascherine ma non ci facevamo caso, c’era il calore del pubblico, l’applauso, l’ovazione, le risate e il divertimento, il calore. Era bellissimo vederli in piedi o ballare».

Ti sei ritagliato uno spazio, come altri grandi presentatori, che è anche un po’ quello della spalla...

«Mi viene naturale, mi diverto, mi piace la comicità. Vivo la televisione come il primo spettatore, se c’è un comico io sono felice di fare da spalla a lui. Non voglio che tutto ruoti intorno a me. Quello che mi piace è far ruotare tutto nella maniera giusta.».

La leggerezza è una parola che spesso è considerata un insulto...

«No, la leggerezza per me deve fare parte dello spettacolo. Io faccio spettacolo, devo portare nelle case delle persone un clima di serenità. Non sono un giornalista, non faccio un approfondimento, non faccio il medico, devo portare una brezza lieve nelle case e mi viene naturale, non la studio. La leggerezza è una cosa bella, poi ognuno, nel quotidiano, ha la propria vita. Io posso essere ansioso, posso avere un carattere diverso da quello che appare. Chi fa questo mestiere è po’ come il clown al circo. Per quanto io sia vero in televisione... Quello è Amadeus. Nella vita sono Amedeo, siamo due cose diverse».

Amadeus durante l’edizione del 1993 del Festivalbar con Fiorello, che è stato testimone di nozze del suo primo matrimonio, e Jovanotti  

Al circo i clown ti facevano piangere o ridere?

«Ridere, a me facevano ridere e non li volevo mai vedere struccati perché in quel modo mi mettevano un po’ di tristezza. Volevo fare la foto con il clown, non con il clown in “borghese”. Mi facevano ridere in scena, ma capivo che poi il clown ha una sua vita, una sua faccia. Se lo vedi fuori dal contesto, un po’ triste, tutto cambia. E questa cosa non l’accettavo. Volevo che la realtà fosse la finzione».

Un tempo Sanremo era più indietro del Paese, una specie di zona presidiata, murata, dentro la quale le tensioni sociali non arrivavano e, se c’erano, venivano espulse. Il suicidio di Tenco ne è la prova più dolorosa. Nel corso del tempo, con Fabio Fazio e altri, Sanremo invece è diventato specchio del Paese...

«Tutto quello che è capitato a Sanremo in questi tre anni è stato pensato e voluto. In primo luogo nella scelta della musica. Sanremo è il festival della canzone italiana. Trovavo incredibile che le canzoni del festival durassero venti giorni, per poi essere sostituite, nelle radio, dai pezzi belli, quelli nuovi. Sembrava che Sanremo fosse fatto per cantanti che dovevano fare un’apparizione per le serate nei locali. No. Sanremo deve rispecchiare la realtà discografica, unire pubblici diversi, ma raccontare la musica del proprio tempo. E poi Sanremo ha il fascio di luce televisivo più importante del nostro Paese. E noi dobbiamo far sì che quella luce vada ad illuminare delle cose che ci possano aiutare a ragionare, a suscitare dubbi e aprire discussioni. Come abbiamo fatto con Rula Jebreal il primo anno, e stavolta con Lorena Cesarini, Roberto Saviano, Drusilla Foer, Sabrina Ferilli. O Mengoni, che ha parlato degli haters sul cellulare. Sanremo non può essere impermeabile, non può diventare un mondo a sé, chiuso».

Viviamo in un tempo frammentato in cui tutti i gusti culturali, cinematografici sono individualizzati. Poi arriva Sanremo e diventa una specie di gigantesca calamita che cattura tutto: giornali, social, discussioni. L’ “evento” è una strada per tutta la televisione?

«Un qualsiasi programma televisivo funziona se diviene un evento. Ma crei l’evento quando lo apri a tutti, quando intercetti i gusti di diverse generazioni, diverse classi sociali, livelli di istruzione. Oggi Sanremo è un programma non solo per i miei genitori, ma anche per il mio figlio più piccolo. Ha tredici anni e nella sua classe tutti hanno parlato di Sanremo. Ma lo è anche per la grande, che ne ha ventiquattro. L’ottanta per cento dei ragazzi ha seguito le serate, qualcosa di incredibile e di importante, per la Rai. Sanremo è andato incontro ai giovani. Non basta dire faccio una trasmissione che può essere vista dai giovani. Devi andargli incontro, entrare con curiosità in quel mondo, nel mondo dei social, della musica, della moda e persino assecondare fenomeni dell’istante come è stato il Fantasanremo. Quello è il loro mondo e tu devi andare verso di loro, non aspettare che loro vengano da te. Tante volte uno ha paura di rendere un programma Pop. Pop è un termine bellissimo: modernità e molteplicità di linguaggi. Ma sempre con l’occhio al pubblico».

«LASCIAI LA RAI PER GUADAGNARE DI PIÙ E HO PRESO UNA TRANVATA. SANREMO 2023? SARÀ SENZA FIORELLO, NON POSSO CHIEDERGLI ALTRO»

Amadeus ha condotto tre edizioni di Sanremo ed è stato confermato per altre due. In questa foto è con Fiorello insieme ai Maneskin, sul palco per la premiazione come vincitori dell’edizione del 2021 

Secondo te sarebbe fattibile oggi una nuova Canzonissima?

«Sì. Titoli storici come Canzonissima, bisogna adattarli al giorno d’oggi. Si può fare, ma con cantanti forti. Se arrivano Elisa, Emma, Mahmood allora sì che fai una vera Canzonissima. Canzonissima si può immaginare, sarebbe bellissimo, ma con i numeri uno...».

Nel 2007 hai avuto un momento difficile...

«Dalla mia scelta sbagliata di andare via dalla Rai e di lasciare l’Eredità che, in quel momento, aveva un successo pazzesco».

Perché lo facesti?

«Perché in quel momento Mediaset mi faceva un contratto di tre anni, la Rai di uno solo. L’ho fatto perché andavo a guadagnare più soldi e perché pensavo, in quel momento, di essere invincibile e che il pubblico mi avrebbe seguito anche di là. Quella batosta mi è servita. Perché arrivi un punto in cui pensi che tutto sia possibile. Cioè ti senti forte e dici qual è il problema? Io ho un anno di contratto, in un’altra azienda me ne propongono tre, qui guadagno mille lire di là me ne offrono cinquemila. E vai. Mia moglie mi aveva consigliato di non andarmene dalla Rai. Con quella decisione ho preso una tranvata non indifferente».

Quanto sei stato fermo?

«Dal 2007 ho ripreso a lavorare a fine 2009 grazie a Michele Guardì. Partecipavo a Mezzogiorno in famiglia e basta. Prima di tornare a fare qualcosa con ascolti importanti sono passati cinque o sei anni».

A Sanremo fu censurata nel ‘59 Jula de Palma che cantava Tua . Invece adesso è un festival in cui si esalta la fluidità, c’è Drusilla che è stata una grandissima scelta. Torniamo al tema di prima: in questo caso Sanremo è più avanti del Paese?

«Sì. Sanremo è stato, per certi periodi, più indietro del Paese, oggi è più avanti. È il Paese che deve fare un passo avanti, in tante cose. Per me è normale che venga Drusilla Foer e dobbiamo smettere di stupirci. Anche in questo i ragazzi sono più avanti. Che ognuno scelga come amare è naturale, nel resto d’Europa sarebbe normale. Ci tengo a dire che, rispetto ai tempi in cui i funzionari censuravano Dalla, molto è cambiato in Rai. L’amministratore delegato Fuortes mi ha detto: “Hai completa libertà e autonomia, nel fare Sanremo. Di quello che decidi informi il direttore di rete, ma io ho totale fiducia in te”. E così è stato, non mi ha mai chiesto: “Chi hai invitato? Chi sono i cantanti? Le donne?” Mi rendeva tranquillo sapere che se pensavo di chiamare Drusilla Foer non dovevo comunicarlo all’azienda. Decidevo in autonomia e responsabilità».

Quando hai ascoltato le canzoni di quest’anno chi immaginavi avrebbe vinto?

«Quando ho sentito Mahmood e Blanco ho pensato che sarebbero arrivati tra i primi tre. Ascolto la musica a volume alto e mi ha colpito la forza di questo brano scritto benissimo, quasi un classico. In generale penso sempre al fatto che poi le canzoni possano o meno essere suonate alla radio. I brani quasi sempre li ascolto in macchina. A volte giro a vuoto per Roma o mi faccio apposta Roma-Milano in macchina, per sentire i pezzi che mi arrivano. Li ascolto veramente cinquanta, cento volte prima di decidere».

Ora sei stato confermato per due anni...

«Sono contento che questo sia avvenuto a marzo. Di solito si cominciava a lavorare a settembre e questo rendeva tutto più difficile. Una conferma per due anni è un premio per il lavoro fatto. La responsabilità del festival per cinque anni è un apprezzamento per quello che Fuortes ha definito un “format”. Espressione che mi ha colpito e che condivido. Il nostro è stato un festival che, partendo dalla musica - tutta la musica - poi si apriva ad altro ed era attraversato dal suo tempo storico. Spero che le prossime edizioni si svolgano senza emergenze terribili, come quelle di questi anni».

Chi sono gli ospiti che sogni?

«Io sono un appassionato della musica italiana. Per questo sarebbe bello avere al festival Mina e Adriano Celentano. E, oltre a loro, mi piacerebbe tornasse Roberto Benigni. Ma se mi chiedi un sogno, un sogno vero, te lo confesso: vedere il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sul palco del festival degli italiani».

E Fiorello ci sarà?

«No, lui è stato molto generoso con me. Mi ha accompagnato e mi è stato vicino, da par suo, in questi anni. Non posso chiedergli di più. Ma non si libererà di me. Lo tartasserò per avere consigli. E lui è la persona ideale, in virtù del talento e dell’esperienza, per darmi i più giusti».

Il nostro quotidiano è stravolto. Prima dalla pandemia, ora dalla guerra di invasione di Putin. Come senti questo tempo bastardo?

«È una situazione assurda. Abbiamo vissuto la nostra vita in un mondo di pace e di speranza, almeno qui in Occidente. Siamo stati un impasto di leggerezza e forza, di sogno e di solidità. E ora invece tutto sembra precario, sospeso, fragile. Abbiamo visto riaffiorare una pandemia e le persone morire per un virus. E ora i carri armati della guerra fredda. Il mondo sembra aver messo la marcia indietro. Non pensavo che tutto questo fosse possibile. La pandemia, la guerra... Faccio fatica anche io, che lo sono per carattere e mestiere, ad essere ottimista, in questi giorni. Sembra non esserci limite alla follia, perché la guerra è sempre una follia. E questa, una guerra di aggressione, lo è più di altre. Le bombe sui bambini, le case distrutte, il dramma dei rifugiati. Questa storia rischia di mettere in ginocchio il mondo. Proprio ora, che sembrava potessimo tornare a correre...».

Ottavio Cappellani per “la Sicilia” il 6 marzo 2022.

Le notizie della settimana sono, ovviamente, Putin e Amadeus. Due personaggi per molti versi simili e infatti a me Amadeus, confesso, mette paura. Credo che la sua essenza sia stata catturata nell’imitazione di quel genio assoluto (e troppo buono, per questo continua a fare la “spalla”) di Max Tortora, che lo dipinse di una cattiveria fredda, calcolatrice, inumana. Questa settimana – e giustamente – è stato paragonato ad altri due cattivissimi: Mike Bongiorno e Pippo Baudo, gli altri due presentatori che invasero Sanremo (era cattivo anche Corrado, ma non arrivava all’ira glaciale che possiedono solo i grandi presentatori).

Di Mike Bongiorno ricordiamo le sfuriate esagerate contro alcuni concorrenti ed alcune vallette, per lui non esisteva il “gioco”, formatosi alla scuola americana sapeva che l’intrattenimento è una cosa serissima perché dietro ci sono gli sponsor, cioè i soldi, e con i soldi e gli sponsor non si scherza, mai: il concorrente doveva essere credibile così come le vallette dovevano riverire le marche in quel momento vendute, non creò una dittatura della propria immagine ma la trasferì fuori di sé creando la dittatura dello sponsor, così come ogni dittatore dice che il suo potere non è altro che il potere del popolo.

Pippo Baudo era una jena nelle interviste a quelli che non aveva lanciato lui, o eri lanciato da Pippo Baudo e quindi facevi parte della sua oligarchia in maniera che la tua luce si riflettesse in qualche maniera su di lui esaltandandone potere e fiuto, o venivi perculato: cercatevi su youtube l’intervista di Pippo Baudo a Franco Battiato dove il primo massacra il secondo. 

Amadeus ha la stessa stoffa di Bongiorno e Baudo (e di Putin), si è notato nella serata con Sabrina Ferilli dopo un paio di giorni in cui gli altrettanto cattivi giornalisti cercavano di mettere zizzania ventilando l’ipotesi che fosse arrivato il momento di una conduzione al femminile.

Ne fece le spese Sabrina Ferilli, che venne continuamente zittita e messa in ombra: cosa non facile; tentò in tutte le maniere di stoppare e interrompere il monologo che le toccava e che le aveva scritto Selvaggia Lucarelli; la Ferilli era così incazzate che disse a un tubo per terra “sta a fa’ er pezzo dde mmerda con me”, almeno questa è la narrazione ufficiale, che se fosse vera, come mi azzardo a non credere, è anche peggio perché vuol dire che Amadeus ti azzanna alla gola fino al punto da farti mandare affanculo anche i tubi. 

Credo che Fiorello ne sia anche lui terrorizzato, non è mai stato davvero cattivo con il potere e usa la tecnica del giullare di corte: prende in giro per sottolineare l’importanza del preso in giro, ma con Amadeus questa tecnica arriva a toccare punte inenarrabili di captatio benevolentiae.

Dicono che abbia portato il rock e la musica dei giovani a Sanremo, ma i Maneskin sono la versione per famiglie dei Rage Against dei Machine che infiammarono i Riot (sommosse popolari) e i suoi trapper e rapper più che gangsta’ sembrano sciampisti.

Per questi motivi si merita ampiamente il podio con Bongiorno e Baudo.

Anticipazione da Oggi il 26 gennaio 2022.

«Trent’anni fa, quando avevo appena iniziato, un giornalista mi definì “il presentatore della porta accanto”. Ecco, credo che il mio segreto sia questo». Amadeus parla al settimanale OGGI, in edicola da domani. E svela il suo “metodo”: «Dietro c’è un controllo maniacale di ogni dettaglio. Io seguo tutto in prima persona, sono della Vergine, preciso, pignolo.

Sono sempre presente e seguo qualsiasi passaggio in maniera scrupolosa, sia al Festival sia ai Soliti Ignoti. Se guidi la macchina devi anche conoscere il motore, non basta entrare e mettersi al volante». Però, aggiunge, «non amo provare, mi piace improvvisare e ad alcuni sembra una follia. Me lo diceva Fiorello il primo anno: “Guardi le prove dei cantanti, inviti gli ospiti, parli con discografici, ma poi non provi mai?”. No, quando parte la sigla salgo sul palco e conduco».

E a OGGI rivela anche di avere un portafortuna: «Mio padre è istruttore di equitazione, mio fratello pure. Non posso fare a meno del classico, banale ferro di cavallo, rigorosamente arrugginito».

La moglie di Amadeus: "Ho messo da parte la carriera per realizzare il mio sogno". Novella Toloni il 9 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Ospite di Mara Venier, Giovanna Civitillo ha ripercorso gli inizi della sua carriera di ballerina fino all'incontro con il marito Amadeus, che le ha cambiato la vita.

Con il festival di Sanremo sempre più vicino, tutto ciò che gravita attorno alla kermesse e ai suoi protagonisti tiene banco nelle principali trasmissioni televisive della Rai. A Domenica In il conto alla rovescia all'inizio dell'evento canoro è già iniziato e l'ospitata di Giovanna Civitillo, moglie di Amadeus, ha fatto da corollario alla parte della trasmissione dedicata proprio a Sanremo.

Ospite di Mara Venier nell'ultima puntata di Domenica In, la moglie del conduttore ha ripercorso la sua storia professionale di ballerina che, nel 2002, si è incrociata con quella di Amadeus, che all'epoca conduceva il quiz televisivo L'Eredità. Galeotto fu un bigliettino fatto consegnare da Giovanna ad Amadeus da un assistente di studio. Un primo passo che ha portato all'inizio di una storia finita all'altare e con la nascita di un figlio.

L'arrivo dell'amore, però, è coinciso anche con la fine della carriera professionale della Civitillo. Lo ha ammesso lei stessa, quando Mara Venier l'ha sorpresa con una domanda spigolosa: "Hai trascurato un po' la tua carriera per la tua famiglia. Non voglio dire per colpa di Amadeus, ma....". A quelle parole Giovanna non si è tirata indietro e ha spiegato: "Sì, incontrare Ama è stata la fine della mia carriera televisiva. Prima di lui ho fatto parte di tutti i corpi di ballo di Rai e Mediaset. Volevo fare la ballerina, ma lui mi ha stravolto la vita".

Chi è davvero Amadeus Cosa rivela la sua grafia

Il rimpianto per quella che poteva essere la sua carriera in tv, però, non l'hanno frenata: "Ho realizzato il mio vero sogno, quello di costruirmi una famiglia e avere un figlio meraviglioso. Non rimpiango nulla". Nonostante l'amore e la felicità accanto ad Amadeus, dire addio alla sua professione, che l'ha vista anche calcare i palchi dei teatri, non è stato indolore: "Tutto questo mi è costato un po' di dolore. Io quando vado a teatro, al momento degli applausi piango". In televisione Giovanna Civitillo è comunque tornata anche se non come ballerina, ma come co-conduttrice e opinionista. Prima in una delle passate edizioni di Detto Fatto, il programma di Bianca Guaccero su Rai Due, poi nell'anteprima del Festival di Sanremo dello scorso anno. Un ruolo che secondo i rumor potrebbe ricoprire anche quest'anno nell'edizione che andrà in onda dall'1 al 5 febbraio.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi

·        Amanda Lear.

Amanda Lear svela: "La mia trasgressione oggi? Andare in chiesa ed essere fedele". L'attrice ha rilasciato un'ironica intervista a La vita in diretta in occasione del suo compleanno: "Il tempo passa troppo velocemente, ma ho ancora tante cose da fare". Novella Toloni il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

Gli anni sembrano non passare mai per Amanda Lear, che ha festeggiato 83 anni in diretta nel programma pomeridiano di Alberto Matano parlando a ruota libera della sua vita. "La fama, come l'amore, dura tre anni", ha ironizzato l'attrice in collegamento esterno con La vita in diretta, dove è stata protagonista nella puntata di venerdì 18 novembre, giorno del suo compleanno.

Parlando proprio di fama e successo, Amanda Lear ha svelato la sua personale ricetta e nel farlo ha citato i Maneskin, band che lei apprezza in particolar modo: "Loro hanno il look giusto, la canzone giusta, certo poi bisogna rinnovarsi, quando finiscono questi tre anni. Io ho trovato il teatro, mi ha aiutata tantissimo a rinnovare il mio personaggio, altrimenti continuavo a cantare nelle discoteche 'Voulez vous...'". Figura che ha sempre fatto discutere, la Lear lo scorso marzo era finita al centro di una polemica per avere fatto una clamorosa gaffe a Domenica In su un'attrice ucraina.

Amanda Lear: "Chi pensa ancora che sia un uomo, è idiota"

A La vita in diretta, l'attrice - nonostante la verve e la vitalità - ha dichiarato che il tempo passa troppo velocemente, ma che ha ancora "tante cose da fare e non vedo l'ora di farle". La sua regola d'oro per guardare al futuro con ottimismo e positività è una sola: "Non pensare mai più a ieri, perché ieri sono successe delle disgrazie, la tristezza... non aver paura del domani, perché tanto domani non sai cosa ci sarà... allora vivi oggi!". Il suo sogno, oggi, sarebbe quello di recitare in un film italiano dopo le numerose esperienze in pellicole francesi. Ma nell'attesa si dedica alla passione per la pittura e al teatro. La musa di Salvator Dalì ha scherzato, infine, sulla sua vita fatta di trasgressioni, che per lei oggi sarebbero semplicemente "sposarmi, andare in chiesa e essere fedele". Una vera rivelazione per lei, che per tutta la vita ha giocato sull'ambiguità della sua sessualità.

(ANSA il 19 settembre 2022.) - "In America - ha annunciato Amanda Lear alla prima puntata di "Da Noi...a Ruota Libera" domenica su Rai1 - faranno un film sulla mia vita, con Margot Robbie - ha azzardato la Lear - ma il fatto di vedermi su uno schermo non è qualcosa che penso mi piacerebbe, la felicità è un'altra cosa. 

Sono felice di essere viva". La modella, cantante, attrice, pittrice e presentatrice televisiva ha aperto la quarta edizione del programma condotto da Francesca Fialdini. Lear poi ha ricordato la sua prima ospitata al Maurizio Costanzo Show: "Mi avevano parlato di un certo Costanzo, che avrebbe potuto mettermi in difficoltà con le sue domande. Allora mi sono portata un mandarino, nascosto nelle tasche, ed ero pronta a tirarglielo addosso. Invece poi è andata benissimo e tuttora sono ospite del Costanzo Show".

Anna Bonalume per corriere.it il 20 agosto 2022.

Amanda Lear è una delle ultime dive viventi. La sua voce roca ha segnato la storia della musica disco. Conduttrice televisiva in Italia, da quarant’anni vive vicino a Saint-Rémy-de Provence, nel sud della Francia. La donna, che ammette di aver alimentato l’ambiguità sulla sua sessualità per «vendere dischi », restituisce un’immagine senza veli di una società nella quale non si riconosce più. 

Perché ci ha dato appuntamento all’Hotel Meurice?

«Ho trascorso la mia infanzia qui, ogni sera venivo in questo bar con Dalí, lui prendeva la sua tisana. Quando ero una studentessa squattrinata alle Belle Arti di Parigi, alloggiavo in un piccolo albergo economico a Saint-Germain-des-Prés, La Louisiane. Poi ho iniziato a cantare, ad avere una carta American Express, e allora mi sono trasferita al terzo piano del Meurice. Salvador Dalí era furioso, mi disse: "Non riesco a dormire se sei nel mio stesso albergo, al piano di sotto, mi dà fastidio". E io ho risposto: "Sono io che pago! Vado nell’hotel che voglio"».

Lei ha iniziato come studentessa alle Belle Arti. Cosa rappresenta per lei la pittura?

«È stato il mio primo grande amore! Sarò pittrice fino alla morte, non sono una cantante. È la mia terapia, la cosa che mi mantiene in equilibrio. Con la pittura non ho bisogno di andare dallo psicanalista, i miei colleghi vanno tutti dallo psicanalista!» 

Ha realizzato il suo sogno d’infanzia?

«Il mio sogno era diventare famosa. Forse un assassino, un’attrice di Hollywood, sapevo che un giorno sarei stata una celebrità. Ora mi rendo conto che essere famosi non serve a nulla, se non a rimorchiare gli uomini. Ma questo non basta a pagare l’affitto». 

Crede nell’inferno?

«No. Ci siamo già ! Non potrebbe essere peggio, la nostra morte sarà migliore! Ma per il momento è un inferno, una lotta continua per sopravvivere, per essere in salute, per lavorare, per avere soldi. Tutte queste frustrazioni, queste delusioni, sono un inferno!» 

Cosa cerca in un uomo?

«La fedeltà. È quasi impossibile, ma è così meraviglioso. E la lealtà. Sono stata molto fortunata nella mia vita, ho incontrato uomini meravigliosi, ma ora la boutique è chiusa. Continua ancora un po’, perché c’è una nuova generazione che è piuttosto gerontofila. A loro piacciono le donne più grandi e questa è una novità. Prima, quando una donna raggiungeva i 40 anni la sua vita era finita, come uno yogurt scaduto. Oggi questa scadenza viene sempre rimandata. Basta guardare Jane Fonda o Tina Turner, tutte donne che hanno superato gli 80 anni, straordinarie. E i giovani scoprono che queste donne gli offrono la loro intelligenza, la loro tenerezza». 

Cosa trova negli uomini molto più giovani che la accompagnano?

«Hanno una certa ingenuità, è facile mostrare loro il mondo che li affascina. E forse ho bisogno di questo per convincermi che posso ancora essere utile. Gli americani hanno inventato la parola cougar (tardona ndr ), perché non conoscono i romanzi... Bel-Ami , Chéri, questo è sempre esistito». 

Le voci sulla sua sessualità hanno contribuito al suo successo, lei ha mantenuto il dubbio. Le fake news sono state una manna dal cielo per lei?

«Oggi siamo invasi dalle fake news, ma allora non ce n’erano molte. Quarant’anni fa, la vita sessuale, il “né uomo né donna” erano molto intriganti, si cominciava a scoprire tutto questo, in effetti questo pettegolezzo mi è servito molto. All’epoca tutte le belle ragazze modelle erano cantanti, appena una ragazza era bella poteva lanciare un disco! Quindi non è stato facile smarcarsi. Più si parlava di Amanda Lear, più i giornali uscivano con scoop sulla mia sessualità. L’ho imparato da Salvador Dalí: l’anima del business è la pubblicità!» 

Dalí le disse: « La donna pittrice è buona solo a scarabocchiare fiori e bambini che piangono! Nessuna donna ha mai dipinto la Cappella Sistina! » Che cosa le è piaciuto di lui?

«Fisicamente era un bel dibattito. Io uscivo con giovani chitarristi, mentre lui aveva 70 anni e l’alito pesante, i denti marci, eppure non avevo mai incontrato un uomo così affascinante. Mi portò a pranzo al ristorante Lasserre a Parigi. Una volta, alla fine del pasto, recitò una poesia di Garcia Lorca. Nessuno mi aveva mai fatto una cosa del genere! Dimenticavo che fosse vecchio. Non mi ha mai raccontato la stessa storia due volte! Mi parlava del suo tempo, dei surrealisti, di Hitchcock, di Frank Sinatra. Ero sotto il suo incantesimo!» 

Perché ha detto che la sua storia con David Bowie è stata un errore?

«È stato un malinteso. Marianne Faithfull me lo presentò a Londra, lui aveva l’influenza. Aveva i capelli rossi, era pallido, i suoi denti non erano granché, ma era affascinante. Mi ha detto che si era innamorato di me e io gli ho risposto: “No, ti sei innamorato della mia foto! “. Mi aveva vista sulla copertina dell’album dei Roxy Music. Era l’immagine della donna dominatrice, l’ideale di Hitchcock, ma io non ero così. Bowie non aveva finito la scuola, non aveva cultura e istruzione, ma io gli parlavo del cinema tedesco, di Fritz Lang, di Metropolis, e lui voleva vedere tutto, comprava libri, avevamo una relazione intellettuale e sessuale. È stato anche il mio primo contatto con il mondo del lavoro, perché mi ha detto: “Amanda, devi cantare!”. Mi ha messa sotto contratto, mi ha pagato le lezioni di canto, di ballo, l’affitto. Ho aspettato due anni e ho chiesto al suo manager: “E io?”. Ma mi rispondeva sempre: “Dopo, dopo...”. Poi Bowie ha incominciato a drogarsi e io me ne sono andata. Gli devo questo primo impulso dell’inizio».

Si capisce che gli incontri con alcune personalità sono stati importanti per la sua carriera...

«Gli incontri con Dalí, Bowie, Fellini, Berlusconi sono stati tutti casuali. Ma la cosa va avanti. L’altro giorno ero al Café de Flore a Parigi e ho visto un uomo seduto da solo, vestito in modo semplice: era Tim Burton. Il destino! Più le persone sono famose e importanti, più sono semplici. Quando ho interpretato Qu’est-il arrivé à Bette Davis et Joan Crawford? con Michel Fau, nel 2021, Brigitte ed Emmanuel Macron sono venuti a vedermi, poi mi hanno invitato a cena, sono stati molto gentili. Oggi, invece, ci sono queste piccole star, le influencer su TikTok, che si vantano tanto». 

Prima di Macron, lei ha incontrato Mitterrand...

«Mi scrisse una lettera per incontrarmi quando Berlusconi lanciò La Cinq in Francia. Non avevo mai incontrato un presidente della Repubblica, non sapevo come vestirmi. Dovevo indossare un abito, un cappello? Ho chiamato Françoise Sagan, che mi ha detto: “Vai come sei. Ricordati di indossare delle mutande pulite, non si sa mai!”. Mi ritrovo seduta da sola davanti a lui. Parliamo di televisione e di altre cose. Quando me ne sono andata, alcuni giornalisti mi hanno chiesto cosa fosse successo, ma non era successo nulla. Allora mi hanno domandato: “Ma se ti avesse proposto qualcosa?”. E io ho risposto: “In quel caso, si chiudono gli occhi e si pensa alla Repubblica!”».

Lei è stata una pioniera sulle questioni riguardanti la sessualità e la condizione LGBT. Cosa pensa delle evoluzioni della società?

«Stiamo tornando indietro su tutte le conquiste, come l’aborto. Pensavamo di esserci evoluti, ma ora stiamo tornando all’epoca in cui tutto era proibito. Parlo come una vecchia, ma ho conosciuto un’epoca molto libertaria. Non era tutto proibito, non indossavamo nemmeno le cinture di sicurezza in auto, potevamo fumare in aereo, facevamo l’amore e non dovevamo proteggerci, non c’era il terrorismo. Mi dispiace per i giovani, che sono costretti a stare sempre attenti, ad avere paura».

Sono passati cinque anni dal caso Weinstein. Cosa pensa del movimento #MeToo?

«Sono felice che la gente abbia il coraggio di parlarne, perché tutti sapevano quello che accadeva nel mondo dello spettacolo, ma nessuno diceva niente. Ma perché si è aspettato così tanto? Perché una ragazza oggi dice “quarant’anni fa lui mi ha messo le mani sul culo”? Non capisco! Se qualcuno mi mette le mani sul culo, la sera stessa vado dalla polizia! Sono un po’ scioccata che questo emerga dopo così tanti anni, così faticosamente». 

Oggi si discute molto della separazione tra sesso e genere. Che cos’è l’identità?

«È semplicemente una parola. Siamo esseri umani. Il genere è un modo per imprigionare le persone in una categoria. Siete eterosessuali, omosessuali, bisessuali, transessuali, non mi interessa. Credo che queste categorie scompariranno, per far posto alla parola “sessuali”. Ma sarà un processo lungo».

Che cos’è il sesso?

«È igiene, come mangiare un buon pasto. È farsi piacere, un piacere fugace. Non ci vedo una dimensione spirituale, o di comunione tra due esseri. L’importante è trascorrere un bel momento e se si può farne a meno, meglio ancora». 

Le donne hanno ottenuto un posto migliore nella società?

«Salvador Dalí mi diceva: “Vedrai, tra qualche anno andremo verso una società matriarcale. Le donne domineranno, prenderanno il sopravvento”. Penso che questo possa accadere, ma dobbiamo evitare la vendetta. Oggi ci sono donne aggressive che vorrebbero quasi uccidere gli uomini. Ma l’uguaglianza è ovviamente auspicabile. Le donne possono essere più riflessive e più calme degli uomini quando si tratta di prendere decisioni politiche importanti. Ci sono uomini molto irruenti che iniziano una guerra troppo facilmente».

Cosa ne pensa della nuova primo ministro francese?

«Ha saputo tener testa in Parlamento. I membri di “La France insoumise” e il loro leader Jean-Luc Mélenchon sono stati maleducati, l’hanno attaccata, insultata. Sapevamo benissimo che sarebbe andata così, ma lei è riuscita a non perdere la calma. Non ha reagito come in Italia con un “ vaffanculo”. È difficile per una donna in politica, perché si viene giudicate in base al modo di vestire, all’aspetto. Non si usa lo stesso linguaggio sessista nei confronti degli uomini».

«In Francia ci piace bruciare i nostri idoli », scrive nel suo libro Délires (Le Cherche midi) . Lei è stata bruciata?

«L’essere umano ha bisogno di sminuire gli altri. Guardiamo le star e ci facciamo dei complessi perché sembrano perfette. Per vendicarci, dobbiamo distruggerle. Da un lato ammiriamo queste persone, dall’altro ne siamo gelosi. Siamo contenti di mostrare le foto di Isabelle Adjani e dire “ah però, è ingrassata”... Questo ci rassicura: non esiste un idolo perfetto fino alla morte».

Ha paura della morte?

«No, al contrario. Sono favorevole. Ho realizzato i miei sogni, ho avuto una vita molto bella, ogni mattina ringrazio di essere viva, ringrazio per questo buon cappuccino, ringrazio per aver incontrato una persona interessante. Non so cosa potrei chiedere di più». 

Le piacerebbe essere immortale?

«Sarebbe la peggiore delle punizioni».

Amanda Lear: le fake news su di lei, l’amore con Salvador Dalì (e con Bowie), 9 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'1 Luglio 2022.

La cantante sarà protagonista del documentario di Gero von Boehm «Queen Lear», in onda venerdì 1° luglio in seconda serata su Rai 2

Queen Lear

Venerdì 1° luglio in seconda serata Rai 2 trasmetterà il documentario «Queen Lear», realizzato dal regista Gero von Boehm e interamente dedicato al mito di Amanda Lear, cantante, attrice, scrittrice, pittrice, modella, doppiatrice, presentatrice televisiva…insomma: una vera e propria icona pop vivente. Tutti la conoscono anche come musa di Salvador Dalì, per cui posò e di cui fu amante negli anni Sessanta. «La vuole sapere la cosa più strana del mio ménage-à-trois, con Salvador Dalì e Gala - raccontava Lear qualche anno fa a Vanity Fair -? La curiosità della gente, che non finisce mai. Ma cosa ci sarà di così strano a stare in tre invece che due? Lo fanno tutti: dai re, ai principi, perfino i presidenti della Repubblica e molti comuni mortali».

Vittima di fake news

C’è una leggenda metropolitana che da sempre gira sul conto di Amanda Lear: di lei è stato detto che è nata uomo e che in seguito ha cambiato sesso. «Io sono stata la prima vittima delle fake news e dei complottisti - ha detto Amanda Lear a La Stampa in una recente intervista -. Dicevano che quelle foto (quelle senza veli apparse su Playboy nel 1978, ndr.) erano ritoccate. La gente sparlava di me pensando forse di distruggermi. E invece hanno contribuito alla mia fama. Ecco, do questo consiglio alle vittime delle fake news di oggi sui social: utilizzatele a vostro vantaggio».

L’amore con David Bowie

La copertina dell'album «For Your Pleasure» dei Roxy Music, su cui Amanda è immortalata mentre tiene al guinzaglio una pantera nera, attira l'attenzione di David Bowie, con cui Amanda intreccerà una relazione che durerà due anni. Ha raccontato al Corriere: «Mi vede sulla copertina dei Roxy Music, chiede di conoscermi: stiamo insieme per due anni. Io gli spiego l’espressionismo tedesco del quale non sapeva niente — era un autodidatta, intelligentissimo ma partiva da zero o quasi — che diventa una sua passione. Lui si accorge che ho una bella voce, mi dà fiducia, mi consiglia di diventare cantante. Arriva subito la disco e capisco che è il momento giusto».

Con i CCCP

Nella lunga discografia di Amanda Lear (il suo ultimo disco è «Tuberose» del 2021) compare anche una collaborazione insolita: nel 1988 i CCCP coinvolgono la cantante nella cover in versione punk del suo successo discografico del 1978 «Tomorrow», «Tomorrow (Voulez vous un rendez vous)». L’operazione avrà un successo inaspettato e «Tomorrow (Voulez vous un rendez vous)» diventerà l’unica canzone dei CCCP a finire in classifica.

Il suo nome nelle canzoni

Il nome di Amanda Lear è citato in numerose canzoni, da «Magic Shop» di Franco Battiato a «La radio a 1000 watt» degli 883, da «Supercafone» di Piotta a «In gabbia (non ci vado)» di Myss Keta. Nel 2017 i Baustelle le hanno dedicato il brano «Amanda Lear», contenuto nell'album «L'amore e la violenza».

Due matrimoni

Nel 1965 Amanda Lear sposa Morgan Paul Lear, ma l’unione dura poco. Nel 1979 convola a nozze per la seconda volta con Alain-Philippe Malagnac d'Argens de Villèle, che nel 2000 morirà tragicamente, a soli 51 anni (nell’incendio della loro villa in Provenza).

La relazione con Manuel Casella

Sul set della trasmissione di Italia 1 Il brutto anatroccolo (uno dei tanti programmi tv che Amanda Lear ha condotto per la televisione italiana) conosce il modello Manuel Casella, di 40 anni più giovane di lei. Amanda e Manuel si innamorano, e staranno insieme dal 2001 al 2008.

Ha doppiato Edna Mode

È di Amanda Lear la voce di Edna Mode, personaggio del film d'animazione «Gli Incredibili» (nella versione francese ed italiana della pellicola).

La prima volta di Miguel Bosé

Lo scorso anno Miguel Bosé ha raccontato che la sua prima volta è stata con Amanda Lear: «Non capisco perché Miguel abbia raccontato questa cosa privata, si vede che gli ho lasciato un bel ricordo - ha commentato lei intervistata a Verissimo -. Lui era il figlio del grande torero Dominguín, che era un grande conquistatore ed era preoccupato che Miguel fosse troppo delicato, dolce. Lui veniva spesso ospite da Salvador Dalì nella sua villa a Cadaqués, in Catalogna, e un’estate Luis me lo ha buttato praticamente tra le braccia. Io e Miguel siamo andati a fare una passeggiata, ed è successo».

Piero Degli Antoni per “il Resto del Carlino” il 2 maggio 2022. 

Amanda Lear, lei a gennaio ha subito un'operazione al cuore. Le hanno sostituito una valvola. È vero che l'ingresso all'ospedale non è stato così piacevole?

«Sono arrivata lì con la mia valigetta, e l'addetta alla reception, dopo avermi fatto compilare tutti i moduli, mi ha chiesto un assegno. 'Ma come?', ho detto io.

'Non ho neanche visto la stanza... ' 'Non si sa mai', ha risposto lei. Un mese fa ho partecipato a una festa a Parigi per l'abolizione delle mascherine, c'era Carla Bruni, c'era Jean Paul Gautier, tutti 'Ciao, ciao darling!', baci e abbracci. Risultato: ci siamo tutti presi il Covid. L'ho passato abbastanza bene, ma la stanchezza e la mancanza di appetito ci sono ancora». 

Parlando di muscolo cardiaco, quale è la sua canzone del cuore?

«Ho registrato centinaia di canzoni, e 20 album, non sono dei capolavori, lo so. Potrei dire 'Follow me' o 'Sphinx', ancora adesso non sono male. Come tutti gli artisti ho dovuto fare tormentoni che vendessero. Adesso ho fatto un disco come omaggio alla canzone d'autore francese». 

Il suo artista del cuore?

«Joaquim Patinir, ci sono dei quadri bellissimi al Prado. A Madrid, quando ci andavo con Salvador Dalì, stavamo in un albergo proprio di fronte al Prado. Di pomeriggio lui immancabilmente faceva la siesta. Così attraversavo la strada e andavo al museo. Benché l'abbia frequentato per 15 anni, i quadri di Dalì non mi piacciono, preferisco De Chirico o Magritte. Lui disprezzava Magritte, era geloso, diceva che era solo un piccolo artigiano».

Il suo film del cuore?

«Sono sempre impazzita per i musical americani. Quando stavo a Parigi c'era un cinema che faceva delle intere giornate dedicate ai musical, ogni sera andavo a vedere Gene Kelly, Fred Astaire, Judy Garland, Vincent Minnelli. Mi vedevo quattro o cinque film di seguito, entravo alle 8 e uscivo alle 4 di mattina. Erano film in technicolor, e il technicolor non ha dei colori reali, io poi mi fumavo le canne e vedevo tutto in technicolor...La mia cultura cinematografica è tutta lì, quando vado al cinema non voglio soffrire né piangere, mi voglio divertire. Lo scopo di un artista è farti sognare». 

Il suo libro del cuore?

«Ora non leggo più tanto come una volta. Adoro Agatha Christie, mi è piaciuto molto anche 'Profumo' di Suskind. Quando ero una figlia dei fiori leggevo molti libri di esoterismo, le poesie di Khalil Gibran, i libri di Paolo Coelho». 

Il suo uomo del cuore?

«Mio marito (Alain-Philippe Malagnac d'Argens de Villèle, morto nel 2000 in un incendio, ndr). Nella vita ci si innamora una volta sola, se quell'amore sparisce ci possono essere altri piccoli amori, passioni che durano un po' e poi finiscono. Sento ancora la sua mancanza. Il mio grande amore adesso è per me stessa, ho imparato ad accettare i miei difetti. Faccio quello che voglio, sono asociale, selvaggia, mangio quando voglio, mi vesto come voglio. Tutte le donne dovrebbero scoprire questa indipendenza». 

Ha parlato di difetti. Qual è il suo peggiore?

«Sono incredibilmente gelosa non solo in amore, ma anche nelle amicizie. E poi ho l'ossessione del controllo, penso sempre che io farei meglio di chiunque altro. Quando viene la donna delle pulizie, dopo controllo ciò che ha fatto e non sono mai soddisfatta. Per questo non ho mai voluto un manager».

È vero che nel suo testamento ha lasciato tutto ai gatti?

«Ma è una fake news! Non è possibile lasciare l'eredità ai gatti. Si può lasciare a una fondazione, già collaboro con un'organizzazione che sostiene il diritto a morire dignitosamente. Sostengo l'eutanasia. Macron aveva promesso che si sarebbe occupato del problema ma, come con tutte le altre promesse, non ha fatto niente. Ancora adesso ci tocca andare a Zurigo per poter morire in pace. 

Per quanto riguarda l'eredità, voglio lasciare tutto a posto. Dei miei quadri non so cosa faranno, non sono all'altezza di finire in un museo. Ma dipingere è il segreto del mio equilibrio, davanti a una tela sono sempre di buon umore. È un lavoro artigianale che fai da solo, non hai bisogno di vestiti, luci, microfoni. Mi evita di andare ogni settimana dallo psicanalista».

Lei è una spendacciona...

«I soldi sono lì per essere spesi. Non capisco quelli che li mettono via per quando saranno vecchi... ma io non sarò mai vecchia! Compro borse, scarpe, viaggi, contribuisco a varie fondazioni. Un diamante no, perché poi cosa te ne fai? Lo lasci in cassaforte. Oppure invito a cena tutti i miei amici, e pago io. Cos' è questa storia che una donna non deve pagare? Perché?» 

Ha sempre detto che i suoi fidanzati erano tutti morti di fame...

«Tutti, mai avuto uno ricco. Anzi no, uno l'ho avuto, era l'erede della dinastia tedesca degli Opel, mi aveva regalato una Rolls Royce, di un blu celeste metallizzato. Mi ci vede, a guidare una Rolls Royce per le vie di Londra? I miei amici mi prendevano in giro. Preferisco i ragazzi che fanno un lavoro manuale, che conoscono il valore dei soldi, che non li hanno ereditati da papà». 

Molti ragazzi giovani le fanno ancora le avances...

«Il mondo è cambiato, i ragazzi di oggi sono più sfacciati, hanno il coraggio di avvicinarti e dirti 'sei bella, mi piaci'. Una volta c'era la barriera sociale, adesso non più, soprattutto grazie alle discoteche, dove si mescolano vip, star, gente comune, ricchi, poveri. Oggi viviamo in una società dell'immediatezza, tutto deve avvenire subito, una volta si corteggiava, adesso si vuole subito una donna, si vuole diventare subito famosi». 

E alle avances dei ragazzi come reagisce?

«Sono lusingata. Ci hanno fatto credere che, passata una certa età - 40-50-60 - le donne scadessero come lo yogurt. Invece questi ragazzi ti trovano ancora bella e attraente. Anche se poi non si conclude niente, ognuno torna a casa sua, è bello sapere che qualcuno si interessa ancora a te».

Da corrieredellosport.it il 15 marzo 2022.

Amanda Lear è stata protagonista di un’uscita infelice durante l’ultima puntata di Domenica In. Dimenticando per un attimo la guerra in Ucraina, l’attrice si è lasciata sfuggire un commento poco carino nei confronti di una modella mentre parlava del film sulla vita di Salvador Dalì, di cui fu la musa per tanti anni. “Hanno fatto un film sulla sua vita, con Ben Kingsley. E in questo film, hanno preso una modella australiana, alta, bionda, che recita la mia parte. E io ho visto la sua foto e ho detto ‘Beh, non mi piace!’. Sembro una mig***ta ‘ucraniana’, no veramente“, ha detto durante lo show domenicale. 

Mara Venier si scusa: “Non avevo capito”

Mara Venier non si è immediatamente resa conto di quanto affermato dalla sua ospite. La frase però non è sfuggita ai telespettatori, che hanno attaccato Amanda sui social. Poco dopo la conduttrice è intervenuta dicendo: “Voglio precisare una cosa. Quando Amanda se n’è uscita con quella battuta molto infelice, io ho detto subito ‘Cosa hai detto?’ perché non avevo capito. Se avessi capito quello che stava dicendo, è chiaro che avrei preso le distanze come le prendo adesso. Non è il momento adesso di fare polemiche inutili.”

Domenica in, Amanda Lear senza censura: "Drogata, ho rimorchiato maschi e..." Libero Quotidiano il 13 marzo 2022.

Amanda Lear si confessa senza censura da Mara Venier, a Domenica In, su Rai uno, nella puntata del 13 marzo. La showgirl ha detto a chiare lettere di non aver alcun rimpianto nella sua vita: "Ho fatto di tutto. Ho fumato, mangiato, bevuto, mi sono drogata, rimorchiato dei ragazzi pazzeschi. Non ho rimpianti". Amanda Lear ha vissuto la sua vita pienamente. Ha avuto storie d'amore, ha incontrato gli artisti più importanti del mondo dell'arte, della musica e dello spettacolo. Ma è sempre rimasta se stessa, una persona semplice e autoironica.

Quindi Amanda Lear è tornata a parlare della sua boutique, che attualmente è chiusa, e del fatto che l’uomo che la vedrà nuda sarà il medico legale (si spera il più tardi possibile).

Infinie con Mara Venier ha scherzato sull'età. Quando si è sentita dare della "coetanea", la conduttrice ha ribattuto con altrettanta ironia: "Sono tanto più giovane di te! Non cominciare con questa storia". 

"Sembra una m... ucraina". Gaffe di Amanda Lear a Domenica In. Francesca Galici il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.

Frase infelice per Amanda Lear durante il blocco di Domenica In dedicato al film su Salvador Dalì. Mara Venier si dissocia.

A Domenica In, Amanda Lear ha ripercorso gran parte della sua carriera. Testimone di un'epoca di grande epopea culturale e artistica, Amanda Lear con Mara Venier ha affrontato alcuni dei temi più scottanti che hanno caratterizzato la sua lunghissima carriera nel mondo dello spettacolo. È stata per lungo tempo la musa di Salvador Dalì, che lei ha definito "un maestro di arte e di pittura, ma anche un maestro di vita". Tantissimi gli amori famosi che hanno costellato la sua vita, molti dei quali famosi e iconici, anche se Amanda Lear non ha negato di essere stata una libertina, che si è privata di poche esperienze. Tuttavia, durante l'intervista, l'attrice è scivolata in una gaffe dalla quale Mara Venier si è dissociata.

L'argomento trattato in quel momento era il film in uscita nelle sale sulla vita di Salvador Dalì, che inevitabilmente affronta anche la loro relazione. Ed è proprio commentando l'attrice che la interpreta che ad Amanda Lear è sfuggita una battuta infelice: "Sembra una m... ucraina". Frase pronunciata in un italiano zoppicante da parte dell'attrice, tanto che nemmeno Mara Venier si è accorta sul momentoi di cosa avesse realmente detto la sua ospite che, alla richiesta della conduttrice di ripetere la sua affermazione, ha rapidamente cambiato discorso.

L'intervista si è conclusa poco dopo ma evidentemente a Mara Venier sono state riferite le esatte parole della sua ospite, tanto che la conduttrice al ritorno da una pubblicità ha voluto fare alcune precisazioni, anche alla luce della polemica che stava iniziando a divampare sui social. "Se avessi capito quello che stava dicendo, è chiaro che avrei preso le distanze come le prendo adesso. Non è il momento adesso di fare polemiche inutili! Non avevo sentito per cui stop alle polemiche! Non è proprio il momento", ha detto la conduttrice visibilmente adirata per quanto accaduto e per quanto stava succedendo sul web.

Quindi, per chiudere polemiche e discorso, ha aggiunto: "Vi prego, non è il momento. Lo sapete com’è fatta Amanda Lear, se n’è uscita così, in maniera istintiva. Non ve lo devo spiegare io. La base della sua personalità sono le battute di spirito. Questa è stata un’uscita infelicissima che io non ho sentito e chiudiamo qua". Successivamente anche Amanda Lear si è voluta scusare per quella frase infelice.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 6 marzo 2022.

Contempla il suo giardino fiorito, nella casa in Provenza: «Anche l'albicocco ha messo i fiori. È troppo bello». Reduce da un'operazione delicata a Zurigo («Mi hanno messo una valvola cardiaca nuova»), Amanda Lear si rilassa. O almeno ci prova. «Il dottore mi ha detto di stare a riposo per 2-3 mesi, ma io sono sempre piena di energia. La prossima settimana andrò a Roma da Mara Venier».  

Intanto, nei giorni scorsi, su Arte, la tv franco-tedesca (degli intellettuali, badate bene), è passato un documentario dal titolo «Queen Lear: le vite di Amanda Lear», del regista tedesco Gero von Boehm, in programmazione presto su Rai 2. 

Ma è vero che perfino la première dame, Brigitte Macron, l'ha chiamata per prendere notizie? 

«Sì. Nei mesi scorsi ho recitato in teatro a Parigi con Michel Fau e lei è un'amica di quest' attore. Una sera Brigitte è venuta a vederci con Emmanuel Macron. Noi quattro, poi, abbiamo cenato in un ristorantino lì vicino. Abbiamo parlato di arte, musica, teatro. Io non discuto mai di politica. Lei è simpatica, molto colta. Ha una figlia che è cardiologa e, quando ha saputo che avevo dei problemi al cuore, ha organizzato una visita, perché potesse consigliarmi. Quando ero ricoverata, mi ha chiamato. È molto carina».  

Nel documentario vengono fuori novità. Ad esempio, un'Amanda da giovane timida e silenziosa

«Ero complessata. Non mi piacevano i miei denti. Ero magra, troppo alta». 

Quando iniziò ad avere più fiducia in sé stessa? 

«Il giorno in cui incontrai Catherine Harlé, direttrice di un'agenzia di modelle. Io ero andata a bere una cioccolata calda al Café de Flore. Abitavo lì, a Saint-Germain-des-Près. Non avevo un soldo, ero studentessa delle Belle Arti. Mi chiese se volessi fare la modella. Fui sorpresa. Le dissi che non ero bella come le mannequin che si vedevano sui giornali. Pensavo a Twiggy, Veruschka, donne pazzesche».  

Cosa fece? 

«Accettai e diventai una mannequin famosa. Nel documentario si vedono le mie sfilate, una davanti a Elisabeth Taylor. Così forse in Italia la smetteranno di dire che tutto questo non è vero o che ho inventato le mie relazioni con Salvador Dalì o David Bowie: tutte le palle che si raccontano da Barbara d'Urso. Lì ci sono i filmati dell'epoca. Ho autorizzato il progetto anche per mostrare ai francesi quello che ho fatto in Italia, in particolare un programma all'avanguardia come "Stryx", sulla Rai, nel 1978. Io, Grace Jones e Patty Pravo eravamo le streghe sexy».  

Da giovane modella iniziò a sentirsi bella? 

«Non mi sono mai sentita bella, neanche oggi. Quel mestiere mi consentì di viaggiare. Anche a New York, dove la notte uscivo con Andy Warhol e la sua banda, andavamo al Max' s Kansas City. Lì conobbi Nico, che era la musa dei Velvet Underground. Mi propose di dormire a casa sua. Che persona interessante, ma era matta come un cavallo. Poi finì male, dimenticata. Si drogava, si è persa». 

Dalla droga ci è passata pure lei? 

«Come tutti. Allora, se non fumavi neanche una canna, ti guardavano male. Poi prendevamo le anfetamine. Fu Dalì che mi aiutò a uscirne. Io gli spiegavo che, quando ero drogata, sballavo, vedevo gli arcobaleni. E lui mi faceva notare che li avrei visti anche bevendo un bicchiere d'acqua minerale. Non era necessario. Bastava aprire gli occhi e capire la bellezza di un raggio di sole». 

Nel documentario vengono fuori le sue foto senza veli per Playboy nel 1978

«Forse si poteva evitare, è pur sempre televisione».

 Ma, vedendo quelle immagini, come si poteva in quegli anni sospettare che lei fosse un uomo? 

«È la stessa ragione per cui qualcuno continua a dire che la Terra è piatta. Io sono stata la prima vittima delle fake news e dei complottisti. Dicevano che quelle foto erano ritoccate. La gente sparlava di me pensando forse di distruggermi. E invece hanno contribuito alla mia fama. Ecco, do questo consiglio alle vittime delle fake news di oggi sui social: utilizzatele a vostro vantaggio».  

Il suo personaggio pubblico corrisponde alla sua vera natura? 

«Per niente. Sono come Dalì: dottor Jekyll e Mister Hide. In lui c'erano due personaggi schizofrenici: uno privato, adorabile, intelligente, colto. E l'altro pubblico, antipatico e odioso. So benissimo cosa vogliono da me, recito una parte. Poi ritorno a casa mia, mi tolgo il trucco, vivo coi miei gatti e miei olivi. Sono molto più angosciata e solitaria».  

La vera Amanda è più buona o cattiva? 

«Né l'uno, né l'altro. Amanda Lear è semplicemente noiosa! (ndr, grande risata)».

Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" l'11 gennaio 2022.

Ventisettemilacentoventicinque like e tremilaventidue commenti (di nomi famosi come Mara Venier e non famosi) alle sette di ieri sera, che oggi saranno sicuramente destinati a crescere, un «guarisci presto» corale via social media riservato ad Amanda Lear che su Instagram aveva postato una foto dal letto d'ospedale zurighese: «FELICE di averlo fatto!! Intervento chirurgico al cuore. Il mio cuore è stato aggiustato e AMERÀ i miei fans ancora di più», aggiungendo tag per ringraziare il suo medico e spiegare che comincia «una nuova vita».

L'ondata di affetto che ha avvolto così calorosamente Lear si spiega, semplicemente, con la bellezza di tutto quello che lei (ufficialmente classe 1939, pur con l'alea che avvolge le date di nascita di tante dive; e poi, insomma, l'età alle signore...) ha regalato al pubblico attraverso una carriera lunghissima dagli anni Sessanta a oggi.

Nella foto, non un selfie ma scattata da qualcuno al suo capezzale con ottima luce diffusa, Lear appare in forma ammirevole con un pigiama a righine orizzontali un po' marinaresco, il trucco come sempre precisissimo, idem i capelli biondi recentissimamente curati del colorist (anche qui da manuale della diva: presentarsi in sala operatoria freschissima di coiffeur). Se non fosse per la flebo e il braccialetto da ospedale con la targhetta, è la Amanda dei tanti scatti quotidiani che condivide con i follower (119 mila).

Sui social media regala foto dei suoi concerti, delle apparizioni alle fashion week, i suoi quadri, gli amici, l'amatissima Provenza. Adesso, la malattia: vissuta però come un'occasione per spargere, e ricevere, affetto. Perché in un'era di tanti influencer dalle attività opache (selfie a parte), Lear è una influencer da quando è entrata nello show business mezzo secolo fa: cantante regina della disco music (27 milioni di dischi venduti), attrice, conduttrice, pittrice, modella, doppiatrice di cartoon hollywoodiani, amica di un numero impressionante di grandi del Novecento.

Dal mentore Salvador Dalì (il suo nome d'arte, vuole la leggenda, fu inventato dal sommo pittore, che foneticamente la ribattezzò «Amant de Dalí»), David Bowie al quale spiegò l'espressionismo tedesco nel corso della loro relazione durata due anni («Era un autodidatta, intelligentissimo ma partiva da zero o quasi»), i Roxy Music, i grandi fotografi. Le polemiche del 2022 che infuriano sul gender le ha spente cinquant' anni fa quando il gossip voleva che fosse stata registrata, alla nascita, come maschio e come maschio avesse vissuto l'adolescenza: chiuse il discorso con un «Che barba!» in cinque lingue (è poliglotta) valido anche oggi.

Posa dal letto d'una clinica ignorando i postumi dell'appuntamento col cardiochirurgo perché appartiene alla scuola delle modelle anni Sessanta, ha posato per fotografi come Helmut Newton e David Bailey e più tardi sulla copertina di «For your Pleasure» dei Roxy Music in tacchi a spillo e con una pantera nera al guinzaglio - se sei tu a far preoccupare la pantera invece del contrario, cosa vuoi che sia aver a che fare con un bisturi. Il segreto del suo successo è che ha fatto tutto, in oltre cinquant' anni di carriera perché, molto semplicemente, tutto dopo un po' la annoia.

«Io mi stanco. Mi stanco sul lavoro, mi stanco in amore. Mi stanco di mangiare sempre la stessa pappa. È per questo, di sicuro, che sono ancora qui. Perché ho cambiato strada, spessissimo: ho fatto la modella e poi la cantante e poi la tv, il cinema, il teatro, il doppiaggio - aveva spiegato al Corriere tre anni fa -. Tutto purché la gente non mi vedesse sempre lì a fare la stessa identica cosa. Me lo immagino il pubblico, che mi vede e pensa "Ancora lei?"».

·        Ambra Angiolini.

Giulia Cavaliere per “Domani” il 16 dicembre 2022.

Una delle cose più interessanti che accadono invecchiando è il fatto di iniziare a mettersi nei panni degli altri, di domandarsi come si sentano a fare questa o quell’altra cosa; se da giovani è più facile giudicare, gradire o sgradire assertivamente qualcosa o qualcuno, con il procedere del tempo diventa più naturale, semplicemente, empatizzare e abbandonare le certezze del proprio sentire per fare spazio al dubbio circa il sentire dell’altro. 

Ecco quello che insomma mi è accaduto nel vedere in differita Ambra mentre cantava T’appartengo ventotto anni dopo la prima volta in quel pomeriggio del 13 settembre del 1994, allora in diretta a Non è la Rai, oggi sul palco del Forum di Assago per la finale, in diretta anche lei, della sedicesima edizione di X Factor. 

Come si sentirà? Come dev’essere salire su uno dei palcoscenici più importanti della tua nazione, da donna adulta, con una carriera in corso e alle spalle quasi tre decenni di fatiche indicibili per realizzarla cercando di dimostrare di essere credibile ben oltre il gioco dello zainetto e quella canzoncina di quando eri giovanissima, che ora stai cantando dopo una vita a cercare di affrancartici?

Come ci si sente a essere vestite facendo il verso alle sé stesse minorenni in una mise apertamente sexy ma adulta insieme perché ora, ben più che maggiorenne, si può fare? Nel giro di pochissime ore dopo la diretta, il video dell’esibizione di X Factor ha raggiunto numericamente un successo esorbitante: sui social la performance conta oltre 12 milioni di views sugli account di X Factor – tra YouTube, Instagram, Facebook, Twitter e TikTok – la clip è schizzata al 1° posto delle tendenze YouTube e, quel che sconvolge di più, la canzone ha raggiunto la vetta delle classifiche, superando gli stessi concorrenti del talent e finendo col diventare uno tra i brani più scaricati su iTunes. 

Eppure, in uno stile di attenzione tutto contemporaneo che non fa che conteggiare e porre cura ai numeri ben prima e più che al cuore delle cose, tutto questo gran viraleggiare non mi distoglie dal domandarmi come stesse, come si sentisse lei, Ambra, e non tanto quanto mi sia piaciuto o meno vederla lì sopra. 

La protagonista del più grande successo di questa stagione di X Factor, infatti, non ha mai nascosto la sua scarsa adesione a questo pezzo, e questo fin da quando all’epoca dell’uscita si ritrovò a vederlo in cima alle chart nazionali e a ottenere un sorprendente successo anche all’estero (in Sudamerica la versione spagnola andò fortissima); all’epoca dichiarò di sentirsi complice dell’illusione collettiva della cantante di successo pur essendo ben consapevole di essere una ragazzina che non sapeva cantare. 

La coccola

Durante l’esibizione al Forum pochi i suoi sorrisi, percepisco dall’altro lato dello schermo un certo distacco, la freddezza che sa sempre tradire l’inconscio di chi in fondo non si sente troppo al proprio posto, vale a dire a fare ciò che più ama: il momento, certo, le regalerà un nuovo trionfo e un rinnovato entusiasmo del pubblico, ma quanto di questo entusiasmo ha effettivamente a che fare con la qualità e la forza di quello che abbiamo visto, quanto c’entra con lei? 

C’è qualcosa nel luminoso ingranaggio del risuccesso che non funziona appieno, qualcosa di drogato, nebuloso, ed è qualcosa che ha a che fare anche col sentire di chi lo sta rigenerando, cioè col protagonista di quel rinnovato successo, questo qualcosa si aggancia bene a un tema che nello spettacolo fa sempre la differenza centrale, generando uno scarto: l’esigenza, l’urgenza. 

Il trionfo di T’appartengo (2022 edit, con un nuovo arrangiamento se possibile pure infinitamente peggiore del primo originale) coincide con la coccola, la rassicurazione rivolta a noi, giovanissimi dei 90s, comunità Lgbt che abbiamo eletto Ambra a icona, che siamo ancora qui e che nonostante i traumi, le fatiche, il precariato e la crisi del 2008, i terrorismi, i manganelli e le armi da fuoco che ci hanno fatti scappare dalla piazza, abbiamo ancora le nostre piccole eroine stonate che possono conquistare il mondo suggerendoci che forse, chissà, potremo farlo ancora anche noi.

Se ci aggiungiamo che nei corsi e ricorsi che oltre alla storia investono la retromania, ora è tempo di riscoperta piena degli anni Novanta, eccoci qui tutti primi in classifica. Questo, però, non riguarda affatto né la canzone né chi la canta, non riguarda cioè minimamente ciò che va a definire la qualità del discorso artistico e della performance. 

Dopo Non è la Rai Ambra, come alcune delle sue colleghe, ha anzitutto acquisito pubblicamente un cognome, è diventata Ambra Angiolini, è stata ed è un’attrice in teatro, cinema e tv, una conduttrice radiofonica e televisiva, ha rivelato un’intelligenza, un certo gusto e squadernato davvero il talento che Gianni Boncompagni, l’autore e inventore del programma e delle ragazze che ne erano protagoniste, aveva perfettamente fiutato e messo di fronte alle telecamere. 

Posto che di divertissement si parla, guardando la performance, più che divertirmi, sentirmi rappresentata o anche solo raccontata, mi è parso di vedere il solito brodo di nostalgia pronto per essere gustato ma in fondo per niente gustoso.

Quanto pesa, pensavo, questa nostalgia? Cosa sacrifichiamo in suo nome? Mi domando se, a furia di rimestare il passato anche nelle sue espressioni più povere, non ci stessimo perdendo qualcosa, non tanto canzoni migliori, cantanti migliori, spettacoli migliori, ma forse espressioni migliori di quella incarnata da ciò che non saremo mai più e incarnazioni nuove, originali e rappresentative di ciò che invece siamo diventati. Una forma di affermazione al presente. 

T’appartengo la scrissero Stefano Acqua, Bruno Zambrini (tra gli altri autore di varie canzoni “per te” per Gianni Morandi, come Non sono degno di te, In ginocchio da te e Se non avessi più te, ma pure di La bambola per Patty Pravo) e Franco Migliacci, re dell’autoralità canora italiana che si prestò al gioco con la complicità dei figli Ernesto e Francesco Migliacci Jr. (che si firmava con lo pseudonimo di Assolo per aggirare l’omonimia). 

Il pezzo è una love song ma anche un rap stinto, con un seducente scioglilingua come ritornello e davvero poche intuizioni (su tutte metto in salvo quel piccolo enjambement che dice “i pianti / che io per colpa tua non piangerò mai più” che mi interrogava a dieci anni e mi appassiona ancora un po’).

All’epoca il singolo superò le centomila copie vendute in tre giorni e le star in classifica, proprio come oggi. Circa il doppio di quante ne aveva vendute Bedtime Stories, il nuovo album di Madonna, uscito tre settimane prima. Il testo, che racconta i turbamenti e le emozioni di un amore giovanile, fa impazzire le giovani spettatrici di Non è la Rai, che lo imparano presto a memoria: «E adesso giura, adesso giura / adesso giura che non hai paura / che sia una fregatura dirmi, “Amore mio” / perché un amore col silenziatore / ti spara al cuore e “pum”, tu sei caduto giù».

Il singolo esce nell’ottobre del 1994, l’album un mese dopo. Contiene, oltre a T’appartengo, altre sette canzoni. Eppure, allora, il brano respirava, così come faceva Ambra, erano cioè entrambi avvolti da una naïveté ariosa che era la loro forza. Nei risuccessi, invece, è impossibile scorgere qualcosa di ingenuo, di dolce, di naïf, ed è facile sentire la tensione asfittica della spirale da cui non si esce, e questo perché i risuccessi nascondono, e ormai neppure troppo bene, un gesto programmato, studiato al dettaglio per far leva sulle debolezze dell’audience, sulle sue malinconie e, appunto, sulla sua domanda di brodi nostalgici, più facili da digerire perché, in fondo, sommersi dal tempo. 

Quest’artificio, mi pare, è ben più artefatto, manovrante, di quanto Gianni Boncompagni manovrasse programmaticamente i microfoni ad archetto e la carriera della giovane Ambra che nel frattempo, da qui, ragazzina dei Novanta che oggi si avvia con calma ai quarant’anni, preferisco ascoltare al presente, col suo cognome bene in vista.

Ivan Rota per Dagospia il 16 dicembre 2022.

“Sono Jolanda, la figlia brutta”: esordisce così, ironicamente, la figlia di Ambra Angiolini e Francesco Renga, reagendo al body shaming dei soliti leoni idioti da tastiera. E continua dicendo che non è nata per essere bella, ma per fare cose nella vita. E la mamma commenta: ”É da quando sei nata che cerco di essere come te. Follemente tua”. 

Jolanda Renga: «Mi dico da sempre che sono brutta, ma il mio sogno non è essere bella o la sosia dei miei genitori». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022

La figlia 18enne di Ambra Angiolini e Francesco Renga ha deciso di rispondere ai commenti di chi la critica per l’aspetto: «Dico a chi si sente come me di non farsi abbattere da certe parole. Nella vita il mio desiderio è provare a migliorare un po’ il mondo»

«Ciao, sono io, Jolanda, la figlia brutta...». Con queste parole, dette con una dolcezza davvero disarmante, Jolanda Renga ha voluto rispondere ai tanti commenti di chi, con la solita aridità a cui ci hanno abituati i social, hanno scritto di lei e del suo aspetto, paragonandola in negativo ai genitori, dicendo che non era altrettanto bella, altrettanto affascinante e via così, verso un baratro di bassezze non qualificabili oltre che ingiuste. Nel video condiviso sui social, e rilanciato anche dalla mamma, Ambra Angiolini, Jolanda, 18 anni, mostra prima alcuni commenti, poi racconta: «Sei brutta è una cosa che mi dico sempre, da quando sono piccola, quando mi vedo allo specchio, quando mi vedo nelle foto: sei brutta, hai il naso brutto, il sorriso brutto, il neo brutto, le gambe brutte, tutto brutto». Quindi, l’ammissione: «In realtà, mi sono imbattuta in quel video per caso, oggi. All’inizio ci sono rimasta male, molto male. Quindi oggi, al posto di dirmi così, ho deciso di chiedermi scusa, scusa perchè ho dato alle parole di queste persone tanta importanza. Così ho deciso anche di fare un discorso generale a riguardo».

Quello che conta

E, sempre accompagnata dal suo sorriso, ha proseguito: «Il mio sogno, per fortuna, non è essere bella e neanche la sosia dei miei genitori. In realtà il mio desiderio più grande nella vita è fare delle cose che contano, cose importanti e mi piacerebbe tentare di migliorare un po’ il mondo. Sono felice e anche orgogliosa di me stessa perché posso dire che ogni giorno, nel mio piccolo, tento di fare qualcosa e cerco sempre di dare il massimo in quello che faccio, quindi penso che questo mi renda una bella persona. Ho sempre pensato che le cose importanti fossero quelle che non possiamo vedere: io tengo molto di più alla mia anima che alla mia faccia e al mio aspetto, perché quello non resterà per sempre, invece il mio cuore e la mia anima saranno quelli per tutta la vita e quindi preferisco siano loro ad essere belli e puliti».

Il punto di forza

E ancora: «Penso che finché la cosa peggiore che si dice di me è che sono brutta, allora posso stare tranquilla, perchè sono abbastanza sicura che non si possa dire di me che io sia cattiva oppure egoista o insensibile. Io vorrei parlare a quelli che si sentono un po’ come me: vorrei dirvi che siete tanto speciali e che finché avrete cura e rispetto di voi stessi e degli altri, brillerete sempre di una luce diversa. Le persone buone e gentili sono belle davvero, quindi vorrei dire a voi di non permettere a quelle persone di cambiare questa parte così speciale e unica: imparate invece ad apprezzarla e a renderla un punto di forza». Una lezione di profondità e gentilezza che sparge bellezza anche dove era stato seminato il suo opposto. Tra le tante persone commosse, anche la mamma, che ha risposto così alle sue parole: «Tu il mondo lo hai già migliorato, semplicemente decidendo di esserci. E’ da quando sei nata che cerco di essere “brutta” come te. Follemente tua, amore».

Da sportmediaset.mediaset.it il 4 novembre 2022.

Valerio Staffelli consegna il Tapiro d’oro a Silvia Slitti e all’ex calciatore Giampaolo Pazzini, molto attapirati perché Ambra Angiolini non libera la loro casa milanese. La giudice di X-Factor era in affitto con l’ex compagno, l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri, nel loro appartamento milanese, ma avrebbe dovuto andarsene entro giugno. Invece è ancora lì.

 "Lei cantava “se prometto poi mantengo”, ma evidentemente era una promessa senza data", dichiara ironicamente Slitti, costretta a trasferire tutta la famiglia a Forte dei Marmi e, addirittura, cambiare scuola al figlio. 

"Quando devo venire a Milano per lavoro devo andare a dormire in albergo", conclude.

"Ma almeno paga?", chiede l’inviato di Striscia. «Il contratto era a Massimiliano Allegri, ma non so cosa fanno… abbiamo avuto notizie incoraggianti e rassicurazioni dall’avvocato: se fossero veritiere, la procedura dovrebbe essere molto breve. Noi speriamo che ce la restituisca in fretta", risponde Giampaolo Pazzini.

Da corrieredellosport.it il 26 ottobre 2022.

Nonostante il clamore mediatico Ambra Angiolini continua a vivere nell'appartamento milanese di Giampaolo Pazzini. A farlo sapere la moglie dell'ex calciatore, la prima a portare a galla questa scomoda situazione. Su Instagram Silvia Slitti ha condiviso un post con le ultime parole della conduttrice pronunciate durante la conferenza stampa di X Factor. 

Ambra ha dichiarato di essere molto dispiaciuta del fatto che il ministro Bernini sia stata costretta a togliere dalle sue storie Instagram quel filmato con la sua canzone storica 'T'appartengo'. Poi ha rivelato: "Se avessi messo degli avvocati da piccola ora con i direttivi potevo comprarmi delle case". 

L'ultima frecciata di Silvia Slitti

Frase che ha ovviamente scatenato lady Pazzini: "Senza parole. Era meglio, così magari non stava a casa nostra". In una successiva story l'event planner ha spiegato: "Sì, è ancora a casa nostra. Sì, è una situazione folle. Sì, è la verità. E sì non ha vergogna". Ambra Angiolini non ha mai commentato la faccenda, si è limitata a dire che i suoi avvocati stanno lavorando per lei. 

Nel programma tv Fuori dal coro Mario Giordano ha però mostrato il documento dello sfratto, dove “compare il nome di Massimiliano Allegri, ex fidanzato di Ambra Angiolini e intestatario del contratto di locazione scaduto il 30 giugno. Come si legge, lui non si oppone alla convalida, d’altronde da mesi lui non vive più nell’appartamento, chi sta occupando abusivamente è Ambra”.

Il coinvolgimento di Max Allegri

La casa contesa, situata in zona Moscova, era stata affittata da Max Allegri: l’idea era di farne il nido d’amore con Ambra, approfittando del fatto che i Pazzini, durante la pandemia di Covid, si erano trasferiti al mare. Ma l'allenatore della Juve in quel plurilocale non ha mai messo piede: la relazione con la Angiolini si è interrotta all’improvviso proprio in coincidenza con il trasloco dell'ex ragazza di Non è la Rai, che per stare vicino al fidanzato aveva lasciato Brescia. Oggi nell'immobile vivono la presentatrice e la figlia Jolanda, avuta dall'ex Francesco Renga.

Ambra Angiolini abusiva, il documento bomba. Libero Quotidiano il 19 ottobre 2022

Ambra Angiolini torna a far parlare di sè. Da un po' di settimane l'attrice si è resa protagonista della clamorosa inchiesta Ladri di case a Fuori dal coro condotta da Mario Giordano su Rete 4. La rubrica mira a denunciare il fenomeno delle occupazioni abusive di case, e stavolta a finirci dentro è proprio la Angiolini, in quanto è accusata da Silvia Slitti, proprietaria di casa e moglie dell'ex calciatore Giampaolo Pazzini, di occupare abusivamente la sua abitazione nel centro di Milano. Il caso è ormai noto, nonostante l'attrice non abbia mai risposto alle accuse. Adesso però, grazie a un'indagine di Fuori dal coro, andata in onda nella puntata di martedì 18, ci sarebbe un documento - esclusivo - che la incastra. Si tratta dell'ordinanza di convalida dello sfratto datata 3 ottobre 2022. 

"Sul documento - spiega Giordano - compare il nome di Massimiliano Allegri, ex fidanzato di Ambra Angiolini e intestatario del contratto di locazione scaduto il 30 giugno. Come si legge, lui non si oppone alla convalida, d’altronde da mesi lui non vive più nell’appartamento, chi sta occupando abusivamente è Ambra".  A quanto pare, dunque, Ambra è accusata di non aver liberato l'appartamento che aveva preso in affitto con l'allora suo compagno. Dopo essersi lasciati, l'allenatore della Juventus avrebbe smesso di pagare e lei sarebbe rimasta lì, con il pretesto di avere bisogno di tempo per il trasloco. 

Tant'è che "a metà agosto Silvia aveva regalato più tempo ad Ambra per andarsene”. Ma nonostante la disponibilità, Ambra non ne avrebbe voluto sapere e avrebbe addirittura mandato a dire alla Slitti, tramite i legali, che lei non voleva più essere importunata. Intervistata al telefono, la proprietaria ha anche aggiunto di aver ricevuto "una diffida da parte dell’avvocato della signora Angiolini che mi intima a non parlare più della vicenda, una diffida che non trovo giusta dal momento che dobbiamo avere la libertà di parola, quando diciamo il vero dobbiamo poterlo dire”. Intanto, il documento - mostrato nella trasmissione - dimostra che ci sarebbe un giudice per lo sfratto, e di conseguenza la Angiolini dovrebbe lasciare al più presto l’appartamento. 

Ambra Angiolini e Max Allegri: tutto ciò che c’è da sapere su una storia che continua a far parlare di sé. Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

L’attrice e l’allenatore della Juve si sono lasciati lo scorso anno, ma di recente Ambra ha dichiarato di aver dovuto affrontare 12 mesi di terapia per superare il dolore di quella rottura

12 mesi di analisi

<<Se non avessi fatto dodici mesi di psicoterapia, visto il mio ultimo ex, tu saresti sicuramente stato il prossimo>>. Con queste parole Ambra Angiolini si è rivolta a Samuel, concorrente di X Factor, il quale non ha nascosto di provare una certa attrazione per l’attrice che ora siede tra i giudici del talent show. Ambra non solo ha risposto alla provocazione con ironia, divertendo il pubblico a casa e in studio. Soprattutto ha svelato qualcosa di più sulla sua storia con Massimiliano Allegri, allenatore della Juventus, con il quale è stata legata sentimentalmente fino allo scorso anno. <<Oggi grazie a te – ha detto al concorrente – voglio dire alla mia psicoterapeuta che sono guarita>>. Un anno di terapia per andare oltre le paure, le sofferenze e le insicurezze che la fine di una relazione può portare. Oltre allo scherzo, Angiolini pare aver voluto mandare un messaggio a tutti coloro che stanno vivendo una situazione simile, raccontando la propria esperienza e suggerendo che farsi aiutare non è un male. Anzi può essere utile per andare avanti. Ma volgendo lo sguardo alla ex coppia, ripercorriamo insieme i passaggi cruciali della relazione tra Angiolini e Allegri.

Gli inizi della storia

Fu a Torino che iniziarono i corteggiamenti. Pare che l’attrice e l’allenatore si siano conosciuti nel capoluogo piemontese, dove abita Allegri. Lei si trovava in città per girare le riprese del film <<La verità, vi spiego, sull’amore>>, uscito nel 2017. Presentati da amici in comune, i due iniziarono a frequentarsi lontano dai fotografi per qualche tempo. Una love story che, però, non aveva tante possibilità di restare nell’ombra. E infatti il mister bianconero e l’attrice di <<Saturno Contro>>, nell’estate dello stesso anno, erano andati in vacanza insieme all’Argentario. Qui erano stati paparazzati e la loro storia era finita sul settimanale Chi.

Un amore a gonfie vele

<<Sono innamorata e felice>> aveva raccontato Ambra Angiolini a La Gazzetta dello Sport. L’attrice si è spesso raccontata, senza nascondere le sue emozioni. Nel 2018, ospite di Mara Venier a Domenica In, aveva dichiarato: << Massimiliano mi ha insegnato la tenerezza e la calma. Mi abbraccia senza stringere. MI ha fatto tornare gli occhi a cuore>>. Allegri è sempre stato più discreto, con poche dichiarazioni ma tanti di quegli abbracci spesso pubblicati sulle riviste. La storia andava a gonfie vele, tanto che qualcuno aveva parlato di matrimonio. Una notizia poi smentita dalla stessa Angiolini, la quale aveva spiegato: << Non sento l’esigenza di sposarmi. Ci ho messo tanto a piacermi e non sento più l’esigenza sociale di essere la moglie di qualcuno. Io amo un uomo e questo può bastare>>. In quel periodo stavano cercando casa insieme a Milano, la città in cui la coppia aveva deciso di convivere. Quella casa che in futuro avrebbe dato numerosi problemi ad Ambra.

Le storie precedenti e i figli

Entrambi avevano alle spalle storie importanti. Ambra Angiolini aveva avuto una lunga storia con Francesco Renga, dalla quale erano nati i suoi due figli, Leonardo e Jolanda, che oggi hanno rispettivamente 16 e 18 anni. Massimiliano Allegri, invece, negli anni ’90 aveva sposato la modella Gloria Patrizi, con la quale aveva avuto una prima figlia, Valentina. Un matrimonio durato qualche anno, poi la rottura e il successivo incontro con Claudia Ughi, consulente area psicologica della Juventus Football Club. Non si sono mai sposati ma sono stati insieme 8 anni e hanno avuto un figlio, Giorgio, che oggi ha 10 anni e gioca a calcio. Anche questa volta però la storia non ha avuto seguito e, ancora oggi, i contrasti tra i due non sono finiti. Di recente sono tornati in tribunale per quanto riguarda l’assegno familiare e per l’accusa di Allegri all’ex compagna di aver usato per sé i soldi destinati al figlio.

I tradimenti: il famoso capello biondo

Nonostante le loro storie passate, Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri sembravano una coppia affiatata e felice. Questo fino allo scorso anno, quando si iniziò a parlare di tradimenti. <<Che finimondo per un capello biondo che stava sul gilet>> cantava Edoardo Vianello. E, da quanto raccontato dal settimanale Chi, pare che l’attrice abbia trovato proprio un capello non suo nella macchina del compagno. Subito è stata esclusa l’ipotesi del crine di cavallo e il settimanale di Alfonso Signorini ha riportato la notizia del tradimento. Da Allegri nessuna indiscrezione, a parte una, durante una conferenza stampa tenutasi in occasione di un match Juve-Roma. <<Della mia vita privata non ho mai parlato e non intendo farlo – ha raccontato – sono due cose che ho sempre diviso, va bene così ed è molto più importante parlare della partita>>.

Il tapiro e le polemiche

Dopo la fine della storia, accade ciò che non ci si sarebbe aspettati. Per Ambra Angiolini si è trattato di un tapiro d’oro, consegnatole da Valerio Staffelli di Striscia La Notizia. Ciò non è piaciuto a diverse persone. In primis a sua figlia Jolanda Renga, che sui social aveva dichiarato: <<So bene che, in quanto personaggio pubblico, secondo alcuni è giusto che la sua vita, anche privata, venga sbandierata ai quattro venti, ma è davvero necessario infierire?>>. Sulla questione si era espressa anche l’ex ministra Bonetti che aveva aggiunto: <<certamente si è scelto di andare dalla donna e non dall’uomo>>. Parole alla quale Antonio Ricci ha risposto e sul sito del programma Mediaset ha pubblicato una lista di nomi ai quali era stato consegnato il tapiro, sottolineando di aver dato spazio ai <<loro cuori spezzati, senza distinzione di genere>>.

Il percorso di Ambra dopo la rottura

Oltre alle polemiche e ai fatti di contorno, la fine della storia con Allegri ha rappresentato un momento difficile per l’attrice. La psicoanalisi l’ha aiutata ad affrontare quanto accaduto, un percorso durato dodici mesi, come raccontato a X Factor. Si è trattato di una sorpresa per i fan di Ambra Angiolini, anche se lei stessa, in precedenza, aveva dato voce alle sue difficoltà e alla voglia di stare di nuovo bene. <<Esiste per tutti un giorno zero, un momento in cui non si vince, non si perde, ma si riparte – aveva raccontato su Radio Capital – Ci si allontana dalle persone che diventano ricordi, da quelle che non restano, da quelle che in fondo non ci sono mai state. Negli inizi non si conosce sconfitta>>. Aveva parlato di un nuovo inizio della sua vita, ma proprio in questi giorni pare potrebbe esserci un nuovo inizio anche per i suoi sentimenti.

I nuovi amori

Sembra, infatti, che l’attrice stia avviando una relazione con Francesco Scianna, attore insieme al quale è stata fotografata a Roma. Diva e Donna ha pubblicato le immagini che ritraggono i due in atteggiamenti più che confidenziali. Pare che i due attori si siano conosciuti nel 2016 mentre stavano lavorando entrambi allo spettacolo teatrale <<Tradimenti>> di Michele Placido. Meno recentemente, sono state pubblicate delle foto anche della nuova fiamma di Max Allegri. Lei è Nina Lange Barresi, proprietaria di una società di consulenza manageriale. Sono stati sorpresi a passeggiare insieme a Lugano la scorsa estate. Pare dunque che entrambi abbiano voltato pagina.

I legali di Ambra Angiolini sulla vicenda della casa occupata: «È stata lesa la sua onorabilità». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.

Dopo che la wedding planner Silvia Slitti ha reso noto di non riuscire a tornare in possesso della sua casa, affittata alla showgirl, sono intervenuti gli avvocati: «Notizie riportate non in modo corretto. Rispettate la sua privacy». 

Per il momento Ambra Angiolini non è intervenuta sulla vicenda divulgata da Silvia Slitti, secondo cui la neo giudice di X Factor starebbe occupando abusivamente casa sua. Al suo posto sono intervenuti gli avvocati Valeria De Vellis e Daniela Missaglia, smentendo le notizie. «È evidente la lesione della privacy e dell’onorabilità di Ambra Angiolini, che impone fin da subito la cessazione di ogni ulteriore divulgazione di illazioni e commenti», hanno scritto in una nota. Aggiungendo: «Sono notizie riportate in modo distorto e inappropriato con riferimento a una vicenda strettamente personale di cui si stanno occupando i legali delle parti coinvolte».

La risposta

Slitti, wedding planner e influencer, si era sfogata sui suoi social: «Le ho affittato casa per 10 mesi, il contratto è scaduto ma non vuole andare via. Ho trovato un muro fatto di prese di posizioni legali, silenzi, menefreghismo e mancanza di empatia, mentre la persona in questione manifesta serenità gioia e sorrisi in tv». Interpellata da Selvaggia Lucarelli per il quotidiano Domani, Angiolini ha commentato: «È una brutta storia, ci sono di mezzo i legali, non sono abituata a fare casino sui social».

Ambra Angiolini e l'accusa di Silvia Slitti: "Le ho affittato casa per 10 mesi, il contratto è scaduto ma non vuole andare via". Lucia Landoni su La Repubblica il 21 Settembre 2022.

L'organizzatrice di eventi e moglie dell'ex calciatore Giampaolo Pazzini pubblica una serie di storie su Instagram in cui racconta della sua casa milanese, affittata alla giudice di X Factor: "Vorremmo tornare a viverci, ma lei non ha intenzione di lasciarla"

Due donne molto note a Milano e non solo - una è un'organizzatrice di eventi e wedding planner, nonché moglie di un ex calciatore che ha militato sia nell'Inter sia nel Milan, e l'altra una conduttrice televisiva, attrice e cantante - una casa contesa tra proprietaria e affittuaria e i social network a fare da cassa di risonanza: ecco gli ingredienti della vicenda, "sgradevole dal punto di vista personale prima ancora che legale" come lei stessa l'ha definita, denunciata via Instagram da Silvia Slitti, moglie di Giampaolo Pazzini. L'altra protagonista è Ambra Angiolini - mai esplicitamente citata, ma più volte evocata tramite indizi non fraintendibili - che occuperebbe la casa milanese di Slitti abusivamente da mesi, dato che il contratto di affitto è scaduto lo scorso giugno.

"È una situazione che mi fa stare male, che mi fa sentire impotente e per questo frustrata - ha scritto la wedding planner nelle stories, sfogandosi con i suoi 105mila follower - Ma soprattutto molto nervosa e direi anche demoralizzata nei confronti dell'essere umano 'donna', che io invece ho sempre reputato molto capace di ragionare e di fare la cosa giusta". Come detto, l'oggetto del contendere è la casa che Silvia Slitti e il marito hanno acquistato a Milano - una di quelle "per cui scegli anche le mattonelle del bagno e i fiori sulla terrazza. A pochi passi dall'ufficio di lei, vicino agli amici del figlio, un terrazzo pieno di candele e le cornici con le foto dei ricordi belli" - e poi lasciato a malincuore per spostarsi temporaneamente a vivere in una località di mare durante la pandemia.

Ecco quindi la decisione di "affittare per 10 mesi, solo 10 mesi, quell'amata casa a una persona che aveva bisogno di un favore" continua il racconto di Slitti su Instagram, dove viene anche specificato che la persona in questione è "nota al grande schermo, vantava anni e anni di conduzione, cinema, musica, un passato illustre e una reputazione sempre difesa a spada tratta". Motivi per cui i coniugi Pazzini si sono sentiti tranquilli "nell'affidarle un pezzetto di cuore". Trascorsi i dieci mesi previsti dal contratto, i proprietari hanno però scoperto che rientrare in possesso della loro abitazione non sarebbe stato così semplice: "La casa non sarebbe mai stata liberata, se non fino a quando chi l'aveva abitata non avesse deciso di andarsene come se fosse sua" prosegue Silvia Slitti. I ripetuti tentativi di dialogo dei coniugi Pazzini sono caduti nel vuoto, scontrandosi con "un muro fatto di prese di posizioni legale, silenzi, menefreghismo e mancanza di empatia, mentre la persona in questione manifesta serenità, gioia e sorrisi in tv".

Proprio quella calma ostentata pubblicamente da parte dell'inquilina ormai abusiva ferisce e irrita maggiormente Slitti, che si vede costretta a soggiornare in hotel ogni volta che è a Milano per lavoro e a vedere il figlio struggersi per la sua cameretta e per i giochi che vi ha lasciato. Al termine del lungo racconto - tutto in terza persona - la wedding planner ha svelato ai follower di essere la protagonista della storia, chiedendo il loro parere. Ed è proprio attraverso le risposte alle centinaia di domande ricevute che arrivano le allusioni ad Ambra Angiolini, attualmente tra i giudici della nuova edizione di "X Factor": qualcuno chiede infatti se la canzone "E se prometto poi mantengo" (verso tratto dal brano "T'appartengo" di Ambra) sia un indizio e Slitti replica con l'immagine di un avatar che si tappa la bocca lasciando però intuire un sorriso. E a chi si domanda se l'affittuaria sia "una giurata dell'X Abusivetor" viene risposto che "in questo momento a casa mia la musica è di casa". Una situazione difficile, per cui "sono triste (tantissimo) da un punto di vista umano, ma felice per aver visto una tale vicinanza da parte vostra" spiega Silvia Slitti ai follower, assicurando che "io continuo a battermi per la giustizia".

«Il contratto è scaduto ma Ambra non se ne va da casa mia». SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 21 settembre 2022

Doveva essere un affitto di dieci mesi, mentre lei e la sua famiglia si erano trasferiti in un’altra città. Ora il contratto è scaduto ma Ambra, che nel frattempo si è lasciata con Massimiliano Allegri, sembra non volersene andare. Lei ribatte: «È una brutta storia, ci sono di mezzo i legali». 

Silvia Slitti, famosa organizzatrice di eventi e moglie dell’ex calciatore Giampaolo Pazzini, mi racconta via Instagram quello che le sta accadendo con molta amarezza, dopo aver atteso pazientemente che la situazione si risolvesse in maniera pacifica. La situazione riguarda la sua casa milanese affittata a Massimiliano Allegri e Ambra Angiolini nel giugno del 2021, quando i due progettavano di vivere insieme a Milano.

Come Silvia ha spiegato ieri sera in alcune storie su Instagram, quella casa era stata affittata momentaneamente perché lei e la sua famiglia si erano trasferiti in una città di mare per via del Covid, con l’intenzione però di tornare a Milano dopo dieci mesi (così stabiliva il contratto d’affitto). Poi Ambra e Allegri si erano lasciati e in quella casa così amata da Silvia, da suo marito, da suo figlio che lì ha la sua cameretta e i suoi giochi, è rimasta solo Ambra. Che però allo scadere dei dieci mesi di contratto a giugno non se ne è mai andata.

LA CASA

Ma come è possibile che Ambra non trovi una nuova casa in affitto a Milano? «La domanda è stata anche la mia quando a giugno, una volta arrivato quasi il termine del contratto, ho iniziato a chiedermi perché non facesse il trasloco… All’inizio erano scuse per il fatto che aveva tanto lavoro, che non poteva andarsene, che chiedeva il favore di restare…».

E qui subentra Massimiliano Allegri. «Era stata presa dal suo ex compagno con lei, perciò ho iniziato a chiedere a lui come fare … Tutti ci hanno detto che Ambra era via a registrare, che non si riusciva a parlarle e che in fondo dovevo aver pazienza. A luglio iniziano ad entrare di mezzo i legali dell’ex compagno e di lei dato che Ambra decide di far valere contro Allegri delle sue motivazioni personali in relazione a ciò che si aspettava da lui… Penso che siano “cose loro”, ma continuo a non capire cosa c’entri casa mia! Quindi ci affidiamo a un legale anche noi e cerchiamo di tornare a casa. Si va verso agosto, era passato un mese e mezzo e i tempi si allungano….».

LA PIEGA PACIFICA

A questo punto Silvia decide di prendere in mano la situazione. «Cerco il suo numero e le scrivo un lungo messaggio in cui le spiego chi sono, le dico che mi spiace per come sono andate le cose e che sicuramente avrà i suoi motivi, ma che quella è casa mia ed io lavoro a Milano, mio figlio vuole tornare a casa sua quando ricomincerà la scuola e io non ci dormo la notte perché sto male per questa situazione ma che, da donna, sono a disposizione per aiutarla».

La storia, insomma, sembra prendere una piega pacifica. «Lei mi chiama nel pomeriggio dicendosi felicissima di aver la possibilità di spiegarmi.. mi racconta che è via, che non sa come traslocare, che la figlia sta lì a studiare e un mare di altre cose. Piange, si mortifica… Non tornava molto tutto, ma decido di crederle: la stimavo cavolo! Non volevo essere stronza! Prendo una decisione contro tutti, decido di farle un “favore”, le regalo un altro mese e le dico: io ti do la data simbolica del 15 settembre! Il 15 settembre inizia la scuola e io devo entrare a casa mia… Lei giura che per il 7 settembre mi lascerà casa».

“PROMETTO E POI MANTENGO”

Silvia le crede, la situazione sembra ormai arrivata a una svolta. «Le credo. Ho le sue telefonate, ho i suoi messaggi… Insomma mi sento serena! Mi invita a Roma per conoscermi, mi dice che sono stata gentilissima. Fino a che a fine agosto, senza alcun motivo, un giorno mi chiama la sua assistente, mi dice di non “importunare” più la signora Angiolini che è molto impegnata e che devo capire che non ha tempo per affrontare un trasloco se non tra svariati mesi ma non entro l’anno. Ero in bicicletta.. Mi prende male, inizio a piangere e ripeto in loop che quella è casa mia… è casa mia e che non capisco come non possano anche solo dispiacersi e chiedermi scusa. Mi dicono che sono io che devo capire loro.

In effetti diventa piuttosto difficile capire le ragioni di tanta ostinazione nel rimanere lì. «Inizio ad avvertire tutti che non starò più zitta! Che per correttezza aspetterò la famosa data del 15 Settembre e poi racconterò tutto… Ma niente. Lei va in tv e inizia a cantare “Prometto e poi mantengo”… E beh io vado fuori di testa».

Chiedo a Silvia cosa dica Allegri in tutta questa situazione. «Lui è super disponibile, ha sempre pagato lui per tutta la durata del contratto, solo che il contratto era fino al 30 giugno. Siamo al 21 settembre e io devo stare in hotel. Io in hotel e lei a casa mia, assurdo»

LA REPLICA

Ho provato a chiedere un commento ad Ambra, perché potrebbe avere le sue buone ragioni, ma per ora le sue ragioni restano sconosciute. Mi ha risposto: «è una brutta storia, ci sono di mezzo i legali, non sono abituata a fare casino sui social».

Insomma, speriamo che tutto si risolva presto senza troppi strascichi, che Silvia possa tornare nella sua casa e che Ambra trovi una nuova casa, di quelle belle e luminose. Con l’X Factor, insomma.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Da liberoquotidiano.it il 17 agosto 2022.

Ambra Angiolini si confessa. E lo fa in una lunghissima intervista a Vanity Fair in cui di fatto fa un bilancio della sua vita e delle sue storie. L'attrice come è noto da qualche tempo ha interrotto la relazione con Max Allegri, ma il vero amore della sua vita è stato il cantante Francesco Renga. 

Proprio la fine di questa storia avrebbe segnato e non poco la Angiolini che rivela: "L’unico vero fallimento che riconosco è la fine del rapporto con Francesco, il padre dei miei figli. Dopo la rottura della mia famiglia sono caduta in depressione, finita nella fogna delle fogne, ed era giusto che ci finissi, perché era il passaggio dell’elaborazione di un lutto enorme".

Poi parla del suo rapporto di oggi con l'amore: "Io non ho bisogno per forza di un amore per stare bene, né la fine di un amore per stare male. E adesso io sono felice perché sto rispettando me stessa, sono felice se mi vesto carina solo per andare a lavorare. In questo momento il cuore mi batte a prescindere. Sono felice e mi diverto senza pensare al grande amore. E questo non mi sembra un delitto". Insomma Ambra prova scoprire un lato inedito del suo modo di essere. Un reinventarsi dopo le delusioni d'amore. La strada giusta per ripartire. 

Ambra Angiolini: «Sono a quota 30, crisi». La sua è una storia lunga. Ha cominciato in una scuola di ballo di provincia, ha poi mescolato tv e teatro, cultura alta e pop spinto. Un percorso unico, non privo di dolori. Su cui oggi l’attrice riflette. Da sola. Dopo aver messo in fuga lo psicanalista...PAOLA PIACENZA su Io Donna il 30 aprile 2022. 

«Ripartorita». Parli con Ambra Angiolini e i neologismi sgorgano spontanei. Nientemeno! La poliedrica attrice è da qualche giorno in streming con la serie Le fate ignoranti, ispirata al film di Ferzan Ozpetek del 2001 (su Disney +). «Quando Ferzan mi ha ripartorita con Saturno contro (era il 2007, ndr), mi sono legata a lui come sempre faccio con chi mi aiuta a uscire da una crisi. Da allora mi sono detta che anche se mi avesse chiamata per fare un plaid su una poltrona avrei accettato».

Saturno contro le ha aperto una seconda vita professionale. Cosa c’era che non andava in quella che già aveva? Era personaggio, dava i nomi alle trasmissioni, ispirava libri e tesi.

Sentivo gli scricchiolii di quella vita, seguivo gli altri che spesso amavano ribadire il passato e io volevo essere tutto ciò che doveva ancora accadere. Non mi credeva nessuno… Prima di incontrare Ferzan pensavo che la fragilità fosse un difetto tremendo, per cui ostentavo quella finta presunzione che veniva dal mio passato televisivo. Una strategia che non funzionava più.

Quante fasi della vita sente di aver vissuto finora?

Direi che sono a quota 30 crisi, ma va tutto bene.

Ambra Angiolini «Sono ciò da cui la gente cerca di guarire»

È diventata una modalità operativa.

Io sono tutto quello da cui la gente di solito cerca di guarire. Ho capito che gli sbagli sono opportunità, perché alla fine quando ci sono dentro mi sembra impossibile trovare soluzioni al dolore senza sentirlo o all’ansia senza viverla. Ci hanno insegnato che bisogna sedare tutto, io invece non sedo niente. Una volta uno psicoterapeuta che poi mi ha abbandonata…

Un caso raro…

Non gli ho mai chiesto perché, l’ho lasciato andare. Mi disse: «L’unica cosa che ti manterrà sana tutta la vita è che non hai paura di sentire». Ed è vero.

Il suo personaggio in Le fate ignoranti, una cartomante che ama e vive con una donna, incontra anche battaglie politiche che hanno fatto di lei un’icona del movimento Lgbt.

Un percorso cominciato quando ero piccola. Da volontaria del Mario Mieli, il circolo di cultura omosessuale di Roma, ho capito cosa era importante per me. Il film di Ferzan quando uscì nel 2001 fu precursore di una serie di temi che allora non si affrontavano. Oggi se ne parla, la società c’è, ma la politica non ci arriva: “sotto” è tutto pronto, “sopra” manca l’ascolto.

Manca un’idea di comunità?

La questione Lgbt nella serie è centrale, ribadisce che il concetto chiave è l’amore. Ma soprattutto mostra, in questo periodo storico, che esistono gli altri, è incredibilmente moderna nel portarci in luoghi dove la gente si conosce, ci si fida gli uni degli altri. Il nostro mondo è fatto di solitudini e social, e forse per questo siamo considerati più gestibili anche politicamente. Questo racconto invece, dopo il Covis, le mascherine, la distanza sociale, ci porta in un altrove dove, se stai scivolando, c’è qualcuno che ti acchiappa. È la stessa forza del terzo settore che ha tenuto insieme l’Italia durante il Covid.

Quanto è importante per lei mettere insieme cultura alta e popolare, fare teatro con Serena Sinigaglia (lo spettacolo Il nodo) e una televisione che arrivi a tutti?

Mi esercito ogni giorno a non rinnegare le cose che ho fatto. Mi dà fastidio pensare che quando arrivi in uno di quei mondi bellissimi dove hai desiderato tanto essere – con gli intellettuali, i libri giusti, le citazioni, i metodi giganteschi, Grotowski – il rischio è arrivare alla conclusione che tutto il resto è uno schifo. Allora a casa magari sparisce la televisione… Io invece tengo tutto. Non mi piace chi non si vuole far comprendere: se imparo qualcosa non vedo l’ora di tornare a raccontarla ai miei figli, ai miei amici, alle persone che contano per me. «Vieni a teatro a vedere questa cosa, anche se non è il tuo genere, ti piacerà».

Lei ha iniziato così presto che avrà dato modo al tempo di lavorare, produrre cambiamenti, dire qualche no.

La prima volta che mi sono ribellata è stato di fronte a un articolo dell’Espresso, che non sapevo nemmeno che giornale fosse, né se ci fosse un pensiero politico dietro. L’articolo parlava di una ragazzina che, con atteggiamento navigato, Lolita dei nostri tempi, si sedeva in poltrona, ammiccava e squittiva delle cose. Non c’era una parola sola che mi tornasse, eppure volevo capire: piangevo, mi arrabbiavo, scoprivo Nabokov e mi chiedevo: «Perché gente che non mi conosce scrive questo di me?». Non c’erano ancora i social, ma quelli erano hater ante litteram. Da lì la ribellione, il girarmi di schiena, volevo davvero che pensassero che ero str… Non era detto che siccome ero piccola dovevo accettare tutto e stare al mio posto.

Perché piccola e forse anche perché donna?

Ero minorenne, mi stavo ancora formando. Come poi è successo anche quando sono ingrassata. Per i miei 18 anni un programma tv mi regalò un primo piano delle mie chiappe! Dicendo: «Finalmente, per rassicurare tutti, è dimagrita». Oggi li arresterebbero, allora era possibile.

Ancor prima di aver l’età per votare aveva già capito che stava in un mondo che aveva desiderato ma che era pericoloso.

Avevo capito chi erano i nemici, chi sparava a me per colpire Berlusconi o Boncompagni o “la sinistra col portafoglio a destra”. Forse dovrei andare a Discovery, sono un documentario vivente.

Ha un punto di vista da insider su tre decenni di storia della tv, ma non solo, di questo Paese. Mediaset è stata a lungo un luogo chiave per capire cosa stava succedendo in Italia.

Io ci ho sempre messo la faccia. Poi c’era una contraddizione che avvertivo forte. Il famoso periodo dell’auricolare, per esempio. Un esperimento che non era mai stato tentato prima. Carmelo Bene, Dario Bellezza venivano lì, si mettevano in regia e guardavano che cosa succedeva nel rapporto tra me e Gianni. Ma mi attribuivano certe frasi solo quando faceva comodo.

Ce ne sono state di famose.

«Il diavoletto sta con Occhetto, il padreterno sta con Berlusconi» (ma anche «Satana tiene per Occhetto» e anche «Stalin tiene per Occhetto», ndr): quella era solo farina del mio sacco, mentre tutto il resto, la canzone di Otis Redding (I’ve being living you too long, ndr), era suggerito da Gianni. Mi dicevo, con quale presunzione ti ribelli? Loro sono intelligenti e tu no. Così sono diventata bulimica, pur di trovare una responsabilità mi sono ammalata.

Dà l’impressione di aver elaborato quella stagione. Ha conservato rancori, rimpianti?

Tra tutti quei cunicoli, anfratti, grotte dove mi sono addentrata, con lo psicoterapeuta che mi ha abbandonato, credo di essere arrivata alla parola più bella: consapevolezza. Quando sei consapevole non lotti più.

È attrezzata ora per assecondare i desideri dei suoi figli?

All’inizio io ho assecondato i desideri di tutti tranne i miei. Frequentavo una scuola di danza in periferia perché mia mamma non mi voleva in strada, lavorava tanto e non ci potevamo permettere una tata. Di lì, un provino con Raffaella Carrà e Johnny Dorelli. Mi presero per la sigla, Scranda la mela, e io pensai che era una cosa stupenda, che bello si balla! Con Francesco (Renga, il padre dei suoi figli, Jolanda e Leonardo, ndr) lavoriamo per togliere a mia figlia l’ideale di perfezione, di essere quella sempre giusta. A partire dai voti. Le dico: «Non sei un 4 quando te lo danno, e non sei nemmeno un 10». Dover dimostrare ti fa venire il senso di colpa anche quando fai bene. Ma non si può pararle l’orizzonte perché non faccia errori, i miei con me non l’hanno fatto. Io so che devo restare ferma e vedere dove vuole andare. Intanto perché così la conosco davvero e poi perché cresco anche io: accettare le scelte degli altri non è semplice.

Quando i suoi figli si sono accorti che i genitori facevano mestieri così particolari?

Il fatto di essere capitata a Brescia perché ero incinta e dovevamo decidere dove stare è stata una buona cosa. Brescia è per noi un luogo protetto, Francesco lì è molto amato e c’è un grande rispetto per la privacy. Quando io e Francesco ci siamo separati, un’insegnante chiese a Jolanda: «A casa ci sono problemi?» e lei tornò scossa, non aveva mai affrontato la cosa pubblicamente e non le andava di farlo. Ma alla fine aver lavorato tanto sul guardarci negli occhi, sperando di cogliere sempre le parole più giuste, ha fatto sì che le cose ce le siamo raccontate. 

Sembra attrezzata per i periodi duri che forse ci attendono.

(ride) Aspetto la prossima crisi. È come il graffio dell’orso in Vento di passioni. Prima o poi si risveglia e ti accorgi che stai sanguinando.

Metafora potente, film bruttino.

Ma Brad Pitt era bellissimo in quel film! Io da piccola però adoravo Jeremy Irons. Avevo il poster in cameretta.

Altri miti?

I film e la tv degli ani ’90, Beverly Hills… Ma ci dividevamo una stanza in tre. Mia sorella adorava i Duran Duran, mio fratello gli Spandau. E io che volevo trovare un posticino per Madonna dovevo lottare. Uno dei “Bellissimi di Rete4” una sera mi sedusse: Innamorarsi con Meryl Streep e Robert De Niro. Un film senza happy end. Chissà come mai… iO Donna

Gloria Satta per "il Messaggero" il 25 gennaio 2022.

Ambra Angiolini all'insegna delle emozioni forti. Nel suo nuovo film, La notte più lunga dell'anno di Simone Aleandri (in sala il 27 gennaio), ha un ruolo amarissimo: è Luce, una cubista divisa tra il padre malato (Alessandro Haber) e le notti in discoteca, ma decisa a lasciare quella vita avvilente in cui perfino il sesso orale che accetta di praticare su un tipo per compiacere il datore di lavoro, momento-choc del film, assume i contorni della disperazione. 

Poi, nella serie Le Fate Ignoranti di Ferzan Ozpetek, a primavera su Disney+, l'attrice sorprenderà ancora nei panni di una lesbica sposata con Anna Ferzetti. Intanto continua a portare in tournée Il Nodo, il testo teatrale di Johnna Adams incentrato sul bullismo. Il lavoro è più che mai centrale nella vita di Ambra, 44 anni e due figli, all'indomani della rottura con l'allenatore della Juve Max Allegri, un caso che a ottobre scorso aveva suscitato clamore sui media e un'ondata di solidarietà nei confronti dell'attrice. Dalla sua casa di Milano, dov' è in isolamento dopo il contatto con una persona positiva (il Covid l'ha già avuto l'anno scorso).

Ambra racconta sfide, stati d'animo, progetti. A quali emozioni ha attinto per interpretare la cubista pentita?

«A quel dolore profondo che abbiamo provato tutte, in un contesto o nell'altro. Anch' io, come Luce, sono cresciuta nei crepacci della vita in cui, alla fine, è tutta questione di sliding doors, occasioni fortunate. Il mio personaggio capisce di non aver mai scelto: lo ha lasciato fare agli altri ma ora, anche se cambiare è difficile, nessuno le toglie il diritto di soffrire. Si affaccia alle fessure aperte delle proprie ferite». 

È una metafora che ha postato anche sui social, perché?

«Le cicatrici sono opportunità. A me è capitato di trasformarle grazie al cinema. Quando nel 2016 mi sono separata (dal cantautore Francesco Renga, padre dei suoi figli, ndr), ho girato il film 7 minuti di Michele Placido tirando fuori tutta la mia rabbia». 

E com' è stato tornare sul set con Ozpetek che nel 2007 la fece debuttare come attrice in Saturno contro?

«Bellissima esperienza. Con lui devi buttare via gli aspetti tecnici e virtuosistici del mestiere per mettere in gioco le tue emozioni. Ferzan ha il potere di entrare nei miei momenti di crisi e tirarmi fuori». 

Si aspettava che, al momento della separazione da Allegri, la gente prendesse le sue parti con rispetto e affetto?

«Non voglio toccare quell'argomento, preferisco far parlare il mio lavoro». 

Com' è iniziato per lei l'anno nuovo?

«Senza aspettative eccezionali. Ma nel mio piccolissimo continuo a lavorare per rappresentare un'alternativa all'isolamento oggi che tutto sembra sconsolante. Anche la politica, diventata solo intrattenimento». 

A 14 anni era un'icona della tv, poi ha avuto successo anche nel cinema e in teatro.

Cosa le manca?

«Per la scrittura e la regia c'è tempo. Oggi ho un progetto bellissimo in cui credo profondamente: animare dei piccoli laboratori teatrali destinati alle studentesse di Milano e centrati sui disturbi alimentari». 

Quelli di cui ha sofferto anche lei e raccontato con coraggio nel libro InFame.

«Vorrei far capire alle ragazze quanto è sbagliata l'ossessione per il corpo che ha rovinato tante persone. Ho voluto postare il servizio trasmesso dalla Rai sui miei 18 anni: iniziava con un primo piano del mio sedere e l'annuncio che avevo finalmente perso i chili di troppo. Oggi una cosa del genere non sarebbe nemmeno pensabile». 

Sua figlia Jolanda, che l'ha difesa sui social al momento della rottura con Allegri, ha appena compiuto 18 anni: molto diversi dai suoi?

«Per la sua maturità, Jolanda potrebbe averne compiuti 50. Ha il senso della responsabilità da un bel pezzo. È ancora in cerca della sua strada, intanto studia tantissimo. E io, da mamma scorretta, ogni tanto la tolgo dai libri». 

Le quote rosa, ormai applicate in tutti i settori, sono lo strumento giusto per combattere la diseguaglianza di genere?

«Diciamo direttrice anziché direttore, ma le cose non sembrano cambiate. Noi donne siamo ancora incazzate, c'è un terremoto dentro di noi. Ma lo spazio dobbiamo andarcelo a prendere da sole, senza farci abbindolare dalle parole. Non bastano gli slogan a fare la rivoluzione». 

·        Anastacia.

Anastacia: io, risorta due volte, torno con un nuovo tour. Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera l'1 gennaio 2022. La cantante americana racconta delle sue rinascite e dell’amore per l’Italia dove arriverà a settembre: «Nei miei live farò piangere, ma saranno lacrime di gioia». «È la mia nuova resurrezione?», riflette Anastacia. Sorride: «Forse sì, ma adesso sono circondata dalla gioia, cerco tranquillità e una nuova connessione con il pubblico che è mancata durante la pandemia. Sono forte, ce la farò. Nel 2014, quando ho pubblicato l’album Resurrection, ero fragile, mi ero persa. Ora è tutto più simile a un’esplosione, a una palla di fuoco».

L’interprete e autrice di Chicago — cresciuta a New York — sta lavorando a un nuovo album e prepara il tour europeo che a settembre la porterà in Italia — partirà il 21 da Milano — se non ci saranno recrudescenze della pandemia. «Ci sono le date e i locali. Con il Covid la musica ci è stata portata via in modo inaspettato. Non darò campane e fischietti a chi viene ad ascoltarmi. I concerti saranno intimi, incentrati sulla musica più che sui ballerini. Sul palco mostrerò l’artista, non solo la cantante. Il pubblico ascolterà i brani che si aspetta, vecchie canzoni mai proposte dal vivo e qualche pezzo nuovo. Farò piangere ma saranno lacrime di gioia». Il nuovo tour si intitola «I’m Outta Lockdown - The 22nd Anniversary», un gioco di parole con la canzone I’m Outta Love che nel 2000 le diede il successo trascinando l’album Not that Kind in cima alle classifiche di mezzo mondo. «Fa ridere, chi celebra i 22 anni? Era tutto pronto per andare in tour nel 2020, ma abbiamo dovuto fermarci. È stato difficile per me vedere come stava lottando l’Italia. Ed è stato penoso vedere che l’ex presidente americano Donald Trump, che io odio, non rispettava il lutto di altri paesi».

Anastacia deve parte del suo successo anche al nostro Paese. «Sono stata fortunata a duettare con Luciano Pavarotti. Con Eros Ramazzotti è stato un incontro magico e per questo devo ringraziare sua figlia Aurora: è stata lei a consigliare il mio nome al papà». Dice che le voci di Pino Daniele e Giorgia racchiudono la passione, l’amore degli italiani per la musica. E ricorda che la sua prima performance live nel nostro Paese avvenne al Festival di Sanremo presentato da Raffaella Carrà: «Aveva un’energia travolgente, era una grande donna con un grande talento. Mi ha anche invitato a Carramba, realizzando una mia fantasia: ho cantato I’m Outta Love circondata da una ventina di uomini a torso nudo». E fra gli show indimenticabili mette quello al Fabrique di Milano, nel 2014. «Avevo l’influenza. Mentre salivo sul palco piangevo perché non riuscivo a cantare, ero arrabbiata e impaurita. Non dimenticherò come le persone mi abbiano aiutata mettendosi a cantare loro».

Anastacia ha combattuto per arrivare al successo e per mantenerlo. Da bambina le è stata diagnosticata la malattia di Crohn, da adulta ha sconfitto due tumori. «Ho fede e so che, anche se la strada non è sempre dritta e ti porta in un posto diverso da quello che avevi sperato, c’è una ragione. I miei fan non sanno quanto ho lottato nella mia vita. Ma sanno che sono autentica». Quando non è in tour si diverte a fare altro: ha recitato nel musical We Will Rock You con le canzoni dei Queen e ha partecipato a diversi reality show, l’ultimo, l’australiano The Masked Singer, lo ha pure vinto. «Qualche volta devi andare oltre la tua confort zone — racconta — In Australia la parte migliore è stata la competizione fra me e il costume da vampira, indossavo una specie di cattedrale sopra la testa ma, alla fine, è stata la migliore terapia per i miei guai al collo».

·        Andrea Bocelli.

Andrea Bocelli: «Vivo per i miei ragazzi, voglio invecchiare con Veronica e credo sempre di più in Dio». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 5 luglio 2022.

Il cantante si confessa: «Ho il culto della libertà ma sono a favore della vitaA mia madre fu consigliato di abortire: lascio le considerazioni al lettore». 

«Finalmente a casa, finalmente in famiglia». Dopo un giugno di concerti Oltreoceano, Andrea Bocelli saluta con gioia l’appuntamento che il 7 luglio lo riporta in Italia, a inaugurare il festival «Parma Cittàdella Musica» al Parco Ducale (in cartellone anche Zucchero, Pinguini Tattici Nucleari, Fabri Fibra, Irama e Sting).

Com’è ritrovare il pubblico italiano?

«Una sensazione molto bella. La musica non conosce barriere, d’accordo: parte della sua potenza e bellezza sta nel suo essere un linguaggio universale. Poterla però condividere nel proprio paese, laddove buona parte del repertorio che propongo è nato, è una grande gioia e una dolce responsabilità».

A Natale hanno fatto il giro del mondo le foto di sua figlia Virginia, 10 anni, alla Casa Bianca: com’è stato l’incontro con il presidente Biden?

«Cordiale e di una semplicità che abbiamo molto apprezzato. Nei confronti di Virginia il presidente si è posto come un nonno, sorridente e gentile. Ne è scaturito un clima di confidenza che ha stemperato ogni possibile tensione».

In quell’occasione si è esibito insieme a suo figlio Matteo: che emozioni ha provato?

«Con Matteo, così come con Amos, il più grande, e con la piccola Virginia, da genitore vivo una comunione che sintetizza un dato di fatto. E cioè che essi vengono prima di tutto e tutti, che sono la mia priorità assoluta e la mia più grande gioia e ragione di vita. Verificare che Matteo abbia trovato la propria strada e sia un giovane artista apprezzato, è un ulteriore regalo».

Ha sempre voluto essere genitore?

«No, non l’ho mai sognato, mi ci sono trovato e sono stato felice di esserlo, ma non avevo la paternità come vocazione, tutt’altro. Avevo una sorta di allergia ai bambini piccoli da giovane, poi ho conosciuto il mio primo figlio e l’orizzonte si è spostato».

Che padre è Andrea Bocelli? Ha mai detto qualche no?

«Tutto il piano educativo è stato incentrato sul crescere i miei figli liberi. Dire di no a qualcosa sarebbe stata una sconfitta per me. La libertà è fondamentale: Dio ci ha creato liberi e non sarà un genitore a limitarci».

Lei ha raccontato di essere stato un figlio difficile. Con i suoi figli, invece, sembra che non ci siano scontri.

«Cose serie mai. Ma io ero ribelle per ragioni diverse e i miei genitori erano protettivi nei miei confronti ovviamente pensando a rischi e pericoli. Penso alle loro apprensioni e a quanto fossero orgogliosi dei miei primi successi. Solo oggi posso comprenderli a fondo».

Nomina spesso Dio: la sua Fede è molto forte?

«Sempre di più. Se uno si avventura in questo cammino, diventa un’esigenza quotidiana. Io sono molto razionale e scettico di natura. Proprio per questo ho Fede. La favola dell’ateo non mi convince, non ho mai potuto pensare di essere figlio del caso».

Non c’è nulla della Chiesa con cui non è d’accordo?

«La Chiesa è fatta di uomini e gli uomini sono fallibili, ma anziché criticare mi preoccupo di vedere che cosa posso fare io di costruttivo per la Chiesa. Invece noto un accanimento oserei dire brutale».

Che cosa intende?

«Si parla dei preti pedofili, ma non si parla dei sacerdoti nelle missioni, delle persone che danno la vita nei luoghi poveri o pericolosi. Bisognerebbe prendere esempio dal calcio: lì si parla sempre dei più bravi».

Alcune idee, come l’essere contro l’aborto, non contrastano con la libertà?

«Non si pretenderà mica che la Chiesa approvi l’aborto? E non si può neanche pretendere che una corte come quella Corte Suprema americana si esprima diversamente: fa il suo lavoro e va presa per quello che è: a volte piace, a volte non piace. Io ho il culto della libertà, ma sono a favore della vita. A mia madre quando era incinta di me fu consigliato di abortire. I medici videro dei problemi durante la gravidanza e fu così consigliata. Il resto delle considerazioni, le lascio al lettore».

Come si sente a essere un rappresentante dell’Italia nel mondo?

«Onorato, emozionato e talvolta anche un po’ preoccupato. Ma non dimentico mai il privilegio di poter fare della mia più grande passione una professione».

In una carriera come la sua, ci sono obiettivi ancora da raggiungere?

«Invecchiare insieme a mia moglie e poter cantare una ninna nanna ai figli dei miei figli. La vita non mi stanca, è un miracolo che non smette di stupirmi. E cantare, per me, è sempre un po’ una dichiarazione d’amore».

Da "Oggi" l'8 giugno 2022.

Le poesie d’amore che scrive per la moglie, il suo rapporto con il buio, certi ricordi dolorosi di quando era in collegio da bambino… Andrea Bocelli, unico italiano invitato a cantare al Giubileo della regina Elisabetta, si racconta in un’intervista al settimanale OGGI in edicola domani. 

Di Veronica, «compagna, amica, amante», dice che «è portatrice di una bellezza raffinata e moderna. Me ne sono accorto da subito, dai nostri primi discorsi. Quando due mondi si riconoscono non servono troppe conferme». E ancora: «Io non sono geloso. E Veronica lo è stata giusto i primi tempi. L’amore è un fuoco: va alimentato come la fiamma del camino. In questi 20 anni non abbiamo mai litigato seriamente».

Bocelli parla anche dei figli, Virginia, che fa ginnastica artistica, canta e studia pianoforte, avuta da Veronica, e dei ragazzi avuti dal primo matrimonio, Amos, laurea in ingegneria spaziale e diploma in pianoforte, e Matteo, che segue le orme paterne. «Di Matteo sono un irriducibile fan fin dalla prima ora», sottolinea il tenore con orgoglio paterno. E non esclude un quartetto Bocelli. «Perché no? Accade già, in famiglia, quando ci ritroviamo tutti insieme».  

Andrea Bocelli racconta il suo rapporto con il buio.  «Il buio non fa parte della mia vita, non alberga in me. Ho combattuto e combatto, giorno dopo giorno, per vivere nella luce e solo nella luce, allontanando le tenebre a qualunque costo», dice a Oggi. E ricorda l’infanzia in collegio: «Il distacco da casa è stato doloroso. Ma è stato necessario perché quella era una scuola dove si seguiva il metodo Braille… Sono stato un bambino problematico, un ragazzino troppo amante del rischio. 

Mia mamma è stata coraggiosa decidendo di lasciarmi molta libertà. Questo le ha comportato di dover affrontare molte ore di veglia. Con mio padre c’è stato il tempo degli scontri, anche violenti, anche con colluttazione fisica, quando avevo 18 anni. Poi tra noi il rapporto è cresciuto, si è fondato sul dialogo. Ora mi mancano».

Andrea Bocelli, morta la mamma Edi Aringhieri: accompagnò il figlio negli anni più difficili. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.

Viveva nella tenuta di famiglia di Lajatico, in provincia di Pisa. Era stata lei a scoprire il talento musicale del figlio e a iscriverlo al conservatorio. In gravidanza i medici le avevano detto che quel bambino sarebbe diventato cieco.

È morta Edi Aringhieri, la mamma di Andrea Bocelli, aveva 84 anni. Ad annunciarlo in inglese un post su Facebook nel profilo pubblico del figlio Andrea. «Mancherà tantissimo ai suoi cari e a tutti noi. Ha lasciato la sua casa terrena dopo una lunga e straordinaria vita per raggiungere il suo amato marito, Sandro, in Paradiso», si legge sopra una foto che ritrae Edi Aringhieri Bocelli sorridente nel vigneto di famiglia mentre mostra alcuni grappoli di uva.

La signora Edi è stata una figura fondamentale nella vita di Andrea. Donna coraggiosa, dal carattere forte e generoso, accompagnò il figlio durante gli anni più difficili, quando ormai era certo che a 13 anni sarebbe diventato cieco per un glaucoma. Ed era stata lei a capire per prima l’intelligenza e soprattutto il talento musicale di Andrea. Che iscrisse all’allora Istituto musicale Pietro Mascagni di Livorno, oggi conservatorio, nel quali un Bocelli poco più che bambino iniziò a studiare. Un’impostazione classica che è stata fondamentale per l’artista toscano. Arrivava quasi tutti i pomeriggi (la mattina frequentava le scuole dell’obbligo a Lajatico e poi superiori e università a Pisa) accompagnato in auto dall’instancabile madre, che per lui era anche una straordinaria motivatrice.

Durante un’intervista televisiva, mamma Edi si era commossa a raccontare che Andrea era nato il giorno della fiera di Lajatico. E quella mattina c’era stato anche un annuncio dal cielo molto particolare: una colomba bianca, molto grande («mai vista una colomba di quelle dimensioni»), era atterrata sulla finestra e la guardava. «Pensai di aver partorito un futuro papa», raccontò sorridendo la signora. Certamente era nata una star.

Edi Aringhieri viveva a Lajatico, un comune della provincia di Pisa immerso nelle colline di una Toscana meno conosciuta ma ugualmente splendida. E con il marito gestiva un’azienda agricola. Qui Andrea, dopo il successo, aveva deciso di far diventare realtà il Teatro del Silenzio, una grande arena naturale dove una volta l’anno si celebra uno spettacolo al quale Bocelli invita grandi artisti internazionali. La mamma di Andrea non si era mai rifiutata di parlare della cecità del figlio. Rivelò che in gravidanza i medici avevano diagnosticato a quel figlio un glaucoma e c’è chi le aveva consigliato di abortire. Il marito Alessandro, del quale è stata innamorata per tutta la vita, era scomparso dodici anni fa.

Bocelli e la scomparsa della madre: «A mia insaputa portava i miei nastri registrati ai big della musica». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.

Il cantante ricorda Edi Aringhieri, mancata venerdì scorso: anche se non è facile colmare un vuoto simile, penso che mia mamma abbia lasciato un corpo che ormai la faceva soltanto penare.

Aveva ottantaquattro anni Edi Aringhieri, madre di Andrea Bocelli, mancata venerdì scorso, dopo una lunga malattia. Il figlio, tra i più importanti interpreti musicali al mondo, oggi 63 anni, ha subito voluto dare l’annuncio a tutti quelli che lo seguono sui social con un messaggio molto semplice, tramite il suo staff: «Dopo una lunga e straordinaria vita, ha lasciato la sua casa terrena per raggiungere l’amato marito Sandro in Paradiso». Oggi, in questa pagina, Andrea Bocelli affida al Corriere della Sera un personale ricordo di sua madre e con queste parole conferma la grande importanza che Edi Aringhieri ha avuto nella sua vita, anche quella professionale.

Maestro, innanzitutto come sta in questo momento, nel giorno successivo ai funerali?

«Sono abbastanza sereno. Mia mamma se ne è andata piano piano, negli ultimi anni, non senza dolore e sconcerto in coloro che l’hanno amata. Purtroppo venerdì è stato solo l’ultimo atto di un processo che l’ha allontanata lentamente, funestata da tante patologie che l’hanno via via svuotata dei suoi contenuti, contenuti che erano preziosi. Ultimamente, non c’era più margine di speranza che potesse migliorare. Abbiamo fatto il possibile per farla stare bene, fino a quando il corpo ha ceduto». 

Che persona è stata Edi Aringhieri? Come vuole ricordarla?

«Una donna generosa, intelligente, iperattiva, capace e caparbia, sempre pronta ad aiutare il prossimo. Una personalità carismatica, amata e apprezzata. Solo chi ha avuto modo di conoscerla nel suo fulgore, può comprenderne la grandezza». 

Lei ha detto che la sua mamma è stata molto importante nella sua carriera, soprattutto agli inizi. Ci racconta un episodio, un aneddoto che ci faccia capire questa rilevanza nella sua lunga e feconda carriera di artista?

«Quand’ero giovane e nessuno sembrava voler scommettere su di me, ricordo che lei andò a Roma, a mia insaputa, per parlare di persona con le star dell’intrattenimento televisivo d’allora, appostandosi sotto le loro case per consegnare i nastri con la mia voce. Contattò molte radio private, distribuendo le mie prime canzoni incise, i primi progetti discografici autoprodotti…».

Colpisce in modo particolare un dettaglio riportato nei giorni scorsi dal «Corriere di Bologna»: quando lei era uno studente la sua mamma la accompagnava in auto al Conservatorio più volte alla settimana. È vero? E quanta determinazione c’è in una madre così?

«Lei ha sempre creduto in me, mi ha sempre seguito e aiutato. Ha pensato per anni con ansia a quello che sarebbe stato il mio futuro, e per questo in gioventù ha lavorato anche quindici ore al giorno. Quando avevo appena sei anni, fu lei che con coraggio mi lasciò in collegio, nonostante lo strazio, suo al pari e forsanche maggiore del mio. Quand’ero lontano, era lei che dalla sua camera spiava il campo di grano davanti casa, perché quando sarebbe stato alto abbastanza e pronto per la mietitura, avrebbe significato che era il tempo in cui sarei tornato, per le vacanze estive. Questa era la mia mamma».

Edi Aringhieri è stata madre e anche … nonna di artisti — il figlio maggiore di Andrea, Matteo Bocelli ha intrapreso la carriera di cantante e anche Virginia, la figlia minore del tenore e di Veronica Berti dimostra già un grande talento canoro, ndr— . Che nonna è stata? Anche qui, ci racconta un episodio illuminante?

«Una nonna molto affettuosa. Confesso che mi è spiaciuto che Virginia non l’abbia conosciuta nei suoi anni migliori. Però le era molto legata. Sono rimasto turbato dalle sue lacrime, così copiose, quando le abbiamo dovuto dire che la nonna era salita in cielo».

Il dolore della perdita di una mamma è indicibile. Però le persone che perdiamo continuiamo a ritrovarle nella nostra vita, nei modi più impensati. Dove ritroverà adesso Edi? Forse in un suo insegnamento, in un luogo, in un ricordo…

«Anche se non è facile colmare un vuoto simile, penso che mia mamma abbia lasciato un corpo che ormai la faceva soltanto penare. Sarebbe egoistico, accanirsi nel tentativo di prolungare forzatamente un percorso esistenziale giunto al suo termine. Siamo tutti pellegrini, di passaggio in questo pianeta. Confido ci ritroveremo, un giorno. Nel frattempo, porto mia madre nel cuore».

Lutto in casa di Andrea Bocelli, è morta la madre del cantante. L'addio a Edi Aringhieri affidato alla pagina Facebook del tenore. La Repubblica il 28 Maggio 2022.

E' morta venerdì sera all'ospedale di Pontedera, dove era ricoverata da giorni per l'aggravarsi del suo stato di salute, Edi Aringhieri, 84 anni, originaria di Ponsacco (Pisa) e madre del tenore Andrea Bocelli. 

Edi Aringhieri Bocelli ha sempre mantenuto e coltivato le sue radici toscane, come del resto il figlio che non ha mai dimenticato Lajatico, il borgo rurale della Val d'Era dal quale ha spiccato il volo diventando una star planetaria della musica. Edi Bocelli più volte in passato aveva parlato liberamente, anche in tv, a Domenica In, della disabilità del figlio, non vedente. "Mi avevano suggerito di abortire - ricordava - perché la gravidanza fu difficile, arrivai in ospedale con forti dolori e i medici mi dissero che Andrea sarebbe nato con un glaucoma congenito che lo avrebbe reso cieco qualche anno più tardi. Ma io non ne volli sapere di abortire". 

E' stato il gruppo di collaboratori dell'artista sulla pagina Fb ufficiale a dare l'annuncio del lutto familiare e in poche ore la bacheca è stata invasa da migliaia di espressioni di cordoglio dei fan sparsi in tutto il mondo. "E' con grande dispiacere - si legge nel post - che il nostro staff annuncia la scomparsa della signora Edi Aringhieri Bocelli, madre di Andrea. 

Mancherà moltissimo ai suoi cari e a tutti noi. Ha lasciato la sua casa terrena dopo una vita lunga e straordinaria per raggiungere il suo amato marito, Sandro, in Paradiso. Tutti i nostri cuori sono con Andrea e Veronica, Alberto e Cinzia, e l'intera famiglia Bocelli in questo momento. Per chi volesse rendere omaggio alla memoria di Edi, qualsiasi donazione all'Abf (la Andrea Bocelli Foundation, l'organizzazione filantropica internazionale creata dallo stesso tenore, ndr)  o ad altro ente di beneficenza sarà un fiore - non reciso, ma vivo - per contribuire a celebrare la sua memoria, di cui le siamo grati".

La salma della madre di Bocelli viene esposta per le visite di amici e parenti nella casa di famiglia a La Sterza, località vicina a Lajatico, dove domenica 29 maggio alle 9 nella chiesa di San Leonardo Abate saranno celebrate le esequie. E' la stessa chiesa di tutte le cerimonie di famiglia, dalle prime nozze di Andrea, ai battesimi dei suoi figli, al funerale del padre Alessandro scomparso 22 anni fa.

·        Andrea Delogu.

Il problema di Andrea Delogu è che recita sempre. L'Espresso il 7 marzo 2022.   

“Tonica” è un programma leggero con brio. Peccato che la sua conduttrice ha il copione in testa e parla troppo di sé. Come un Linkedin da palcoscenico.

Quando la presentano è sempre “frizzante”, “pungente”, “irriverente”. Una peperina si sarebbe detto ai tempi di Gianburrasca. In realtà lei, Andrea Delogu, splendida quarantenne, umanamente simpatica e sulla carta una donna capace di suscitare diffuse empatie generazionali, della scavezzacollo televisivamente parlando ha davvero pochino. Perché recita. Sempre, comunque e a prescindere. Lo fa, senza neanche troppo agio, anche nella sua ultima fatica di tarda serata, “Tonica”, su Rai Due. All'apparenza un programma di brio che ha tutti i contenuti giusti al posto giusto. Si rivolge ai giovani con i giovani. Parla di musica facendo musica. Insomma, come si diceva ai tempi dei consigli per gli acquisti, cosa vuoi di più dalla vita.

Ma nonostante dai presupposti ci si aspetti una conduzione leggera come una piuma, ci ritrova di fronte a un innamoramento viscerale e indissolubile del copione. Delogu lo scrive, lo legge, lo impara con diligenza, e anche se prova spesso ad alzare sapientemente gli occhi al cielo in cerca di una qualche ispirazione di spontaneità mentre muove le mani a ritmo, si capisce che non ha nessuna intenzione di lasciarsi andare. Così l'intero prodotto, breve ma intenso, è vittima costante di un'aria di pesantezza da velluti antichi, da sipari imbiancati, e anche se si tratta di lanciare l'ultima star di Tik Tok ti aspetti da un momento all'altro che da una quinta sbuchi lo spettro di Banquo.

Peccato, anche perché questa aria da attrice dall'aria impostata che suo malgrado non riesce a staccare i piedi dalle tavole del palco un po' sbatte col il ruolo da eterna giovane promessa della Rai, e anche quando parla di sé, della sua esperienza, ma anche dei suoi amici («ciao Stefano, tutti ci credono amanti e invece»), i suoi trascorsi, i suoi amori, il suo divorzio («ma siamo rimasti molto legati») i suoi lavori precedenti («quando Arbore mi ha scoperta»), presenti («dopo che Arbore mi ha scoperta») e futuri («visto che Arbore mi ha scoperta»), insomma, anche quando tratta uno degli argomenti che più le sta a cuore proprio non ce la fa a cedere all'improvvisazione. Così alla fine di ogni puntata, nonostante si siano intravisti sprazzi inediti di modernità quel che resta allo spettatore è soprattutto il bagaglio d'esperienza della conduttrice, pubblico e privato, che viene declamato in un avvincente Linkedin da palcoscenico. Mentre le note restano sullo sfondo. Loro sì, molto toniche.

Da leggo.it il 30 gennaio 2022.

Andrea Delogu parla della fine del suo matrimonio con l’attore Francesco Montanari. La coppia si è detta addio all’inizio del 2021, ma solo ora la conduttrice ha deciso di raccontare i motivi della separazione. 

Andrea Delogu e Francesco Montanari sono stati sposati per quattro anni, dopo tre di fidanzamento: «Con Francesco abbiamo passato insieme sette anni che rivivrei subito – ha fatto sapere la Delogu in un’intervista a “F” - Mi hanno dato la possibilità di capire chi sono anche in un contesto familiare, di avere dei suoceri fantastici. Ma le cose cambiano e noi a dicembre 2020 abbiamo deciso di separarci, anche se poi la notizia è uscita solo a marzo».

I due col passare del tempo si sono scoperti diversi: «Noi ci siamo lasciati perché era finito l’amore. Il nostro è stato un colpo di fulmine: diversi come il giorno e la notte, ci ha uniti il desiderio di appartenenza. Ma lavorando siamo cresciuti in modo diverso. So che uno come lui non lo troverò più, ma non era la mia persona. E lui deve trovare una donna che se lo meriti, un po’ più tradizionale, forse.

Io soffrivo che ci fosse una regola nel formare una famiglia. Va bene il pranzo dai parenti, il viaggio con gli amici di sempre, ma poi voglio anche un’avventura. Va bene la voglia di fare un figlio, ma se non viene pazienza, la mia famiglia sei tu». 

Un giorno si sono accorti che l’amore era finito: «Pensavamo: se vengono, bene. Poi non sono venuti. Stavamo insieme da sette anni, sposati da quattro, non ci siamo dati tanto tempo. Quando ci siamo accorti di adorarci senza più amarci ce lo siamo anche detti: un figlio aiuterebbe. Ma poi ho pensato: che senso ha costruire una famiglia se la storia già non sta funzionando? Siamo ancora liberi e giovani. Io i miei 39 anni non me li sento».

·        Andrea Roncato e Gigi Sammarchi.

Davide di Francesco per noidegli8090.com il 27 novembre 2022.

Gigi e Andrea, lo storico duo, sono stati intervistati da Serena Bertone a Oggi è un altro giorno dove hanno avuto modo di ricordare la loro carriera e parlare dei progetti futuri.

Dopo la laurea in Pedagogia l'attore ha intrapreso la carriera nel mondo dello spettacolo, dando vita con Andrea Roncato al duo Gigi e Andrea. Tra i molti successi ci sono stati i film: L'allenatore nel Pallone, I Pompieri, Acapulco prima spiaggia a Sinistra e molti altri. Dopo vent'anni lontano dal grande schermo, nel 2008 ritorna a recitare nel film Benvenuti in amore di Michele Coppini. Dieci anni dopo prende parte come guest star a un episodio di L'ispettore Coliandro, diretto dai Manetti Bros. 

Alla domanda della conduttrice su cosa stesse facendo ora nella sua vita Gigi Sammarchi ha risposto di essere andato vivere in Spagna: "Non ho fatto nessuna fine particolare, ho deciso di fare altre cose e di non dedicarmi solo allo spettacolo. Mi sono un po'ritirato, ora vivo in Spagna, mi piace molto. Ho deciso di passare gli ultimi anni che mi restano, spero tanti, in quel posto. Corro al giorno tra i 10 e 15km al giorno."

Andrea Roncato: «Sempre grato a Moana Pozzi. Carol Alt? Solo un flirtino. La vita del playboy fa schifo». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 03 ottobre 2022.

L’attore: Sandra Mondaini trattava me e Gigi come dei figli

Miami Beach, fine estate del 1993 o giù di lì. «Mi ritrovai al Raleigh Hotel con Mickey Rourke, arrivato su una vecchia Rolls Royce cabrio, in canotta, pantaloncini e stivaletti alti da boxe, cappellino a cuffia con codino a pompon, l’aria rintronata di chi si è allenato sul ring e le ha prese. Sobrio, beveva gran succhi di frutta e nuotava a dorso nella piscina liberty, con i suoi due chihuahua accucciati sul torace. Ci eravamo incrociati ai Telegatti. Finì che passammo insieme quindici giorni. Prima di sfondare a Hollywood faceva il cameriere in quello stesso albergo. Mi convinse a tatuarmi un sole azteco sul braccio sinistro da un suo vecchio amico e mi regalò dei sigari Avana appena portati da Cuba, in cambio gli passai la mia scatola di Toscanelli, ne andava matto», racconta Andrea Roncato , 75 anni, icona assoluta dei dorati Ottanta e Novanta. Lo squattrinato conquistatore di Acapulco, prima spiaggia a sinistra — in comico duo con l’amico d’infanzia Gigi (Sammarchi) — l’improbabile Bergonzoni scopritore di talenti calcistici per il 5-5-5 del mister Oronzo Canà di L’allenatore nel pallone, la mamma emiliana con vestaglia fucsia e ferri da maglia che minaccia il figliolo: «Io ti ho fatto e io ti disfo» («Era un mix tra mia madre, mia nonna e mia zia, chi non si divertiva per niente con le battute sul marito poco prestante a letto era mio padre»). Quello dei varietà berlusconiani (Premiatissima, Risatissima) o concorrenti (Domenica In), delle fiction popolari (Don Tonino o Carabinieri). Il più classico vitellone romagnolo della commedia all’italiana, ma infine pure attore drammatico per il trio d’autore Gabriele Muccino-Pupi Avati-Paolo Virzì, in ordine di apparizione.

Papà Bruno era sagrestano.

«Don Arturo era il cugino di mamma, la nostra casetta a tre piani era proprio davanti alla chiesa, da bambino giocavo tra i banchi, mi piaceva l’odore di incenso e il vino rosso e dolce che assaggiavo di nascosto dalle ampolle. Da chierichetto mi offrivo di portare la croce e le candele alle processioni o ai funerali perché mi pagavano belle duecento lire. Poi, quando ho imparato a suonare l’organo, invitavo le ragazzine in canonica e strimpellavo Bach con la speranza di rimediare qualche bacetto».

A dieci anni lezioni private di solfeggio.

«Ero innamorato della maestra di pianoforte. Portava il reggicalze, quando si sedeva accanto a me mi distraevo a sbirciarle le gambe».

Le estati e il Natale in campagna dai nonni.

«Mi sembrava di andare lontano, chissà dove, ma Bologna era a venti minuti di auto. C’erano le galline, i conigli e i buoi, la sera si giocava a briscola nella stalla e quel calduccio avvolgente che c’era lì dentro non l’ho mai più provato. Costringevo le mie cuginette Mirella e Paola a giocare ai cowboy, con le pistole finte, gli zii erano gli indiani, da dietro l’uscio sparavo a mia nonna Argia che cucinava appoggiata al bastone, pam pam».

Poi è arrivato Gigi.

«L’ho conosciuto alla parrocchia di Santa Maria Maddalena, io 12 anni e lui 9, ci si sfidava a pallacanestro. Gigi suonava la chitarra, io il pianoforte, tre anni dopo con altri amici fondammo un gruppo, I Ragazzi della Nebbia, pezzi dei Beatles e dei Rolling Stones. Portavo i capelli lunghi, al collo un medaglione con la faccia di Jfk e mi sentivo fichissimo.Gli strumenti li prendevamo a scrocco dai negozi di musica, con la scusa di provarli, quando abbiamo esaurito i rivenditori di Bologna e provincia ci siamo sciolti».

Siete finiti nel coro di montagna.

«E lì abbiamo cominciato a proporre qualche siparietto comico. Veniva spesso Francesco Guccini, amico del maestro del coro, che preparava una tesi sul canto popolare. Ho visto nascere in diretta molte sue canzoni. “Ho rotto con la mia fidanzata”, ci raccontava. E attaccava con “Vedi cara, è difficile spiegare…”. Quando nel 1970 aprì a Bologna l’Osteria delle Dame, ci chiamò a fare i primi spettacoli di cabaret. La fortuna fu incontrare Bibi Ballandi, che aveva sotto contratto Celentano, Bertè, Vianello e Mondaini, i big».

Tre anni di serate con Sandra Mondaini.

«Ci trattava come figli, in hotel prendevamo sempre le camere vicine e giocavamo a carte fino a notte fonda, chissà che avrà pensato la gente. A Milano ci ospitava a casa sua, Raimondo ci prendeva in giro, però ogni mattina ci faceva trovare Il Resto del Carlino sul comodino».

I primi soldi.

«Mamma Ines era casalinga. Le regalai una pelliccia di visone, la teneva chiusa nell’armadio per paura di rovinarla. Papà guidava un maggiolino scassato. Gli comprai una Bmw. Tremava. Mi ricordo ancora i suoi occhi».

Anni Ottanta, estati ruggenti a Riccione.

«Io, Gigi, Diego Abatantuono, Jerry Calà, Umberto Smaila, Ninì Salerno e Franco Oppini prendevamo in affitto una villona con parco tutti insieme. Bei tempi quelli, cinquemila persone a sera a sentirci. Io e Gerry ci scambiavamo le auto per fingerci ricchi, lui mi cedeva la station wagon, io la Lancia Beta Montecarlo. Che feste, certe notti invitavamo le go-go girls, le ragazze immagine delle discoteche della Riviera, e si buttava l’amo. A volte il pesce abboccava, a volte no».

Eccolo il vitellone romagnolo.

«Ma no, quello solo nei film. Nella vita se una mi piaceva certo che ci provavo, la buttavo sulla simpatia, anche se sa cosa si dice da quelle parti? Che la gran parte dei tedeschi sono figli dei bagnini di Riccione».

Millantò di avere avuto 500 donne.

«Fesserie, non l’ho mai detto. E poi le donne non si contano».

Jeans a vita alta, canotta rossa su torace villoso, il suo Loris Batacchi «capoufficio pacchi» era un buzzurrissimo seduttore seriale («Fantozzi subisce ancora») da 6 mila tacche.

«Una caricatura di quelli che si vantano delle loro conquiste spesso immaginarie, la realtà è che a volte noi uomini siamo patetici, dei fessacchioni».

Moana Pozzi però, nel celebre libello sui suoi amanti celebri, le diede un 7 pieno e la qualifica di «una bella storia di sesso».

«E le sarò sempre grato, è come l’abbraccio accademico del rettore. Ci frequentammo per sei mesi nel 1985, non faceva ancora la pornodiva, l’avevo conosciuta sul set de I pompieri. Oltre che bella, era intelligente e profonda, sapeva parlare di tutto, dal calcio alla filosofia».

Occasionale compagno di bisboccia serale era Berlusconi.

«Grande uomo di spettacolo, molto attento, potevi chiamarlo alle due di notte, a volte invece era lui che telefonava all’alba se non gli era piaciuta una battuta. Si andava a mangiare insieme e poi in discoteca, nel privé. Chiacchierava, scherzava con le vallette, faceva il finto romantico declamando “Silvio, rimembri ancora…”. E soprattutto spendeva un sacco di soldi per quei varietà, da noi venivano come niente Alain Delon, Robert De Niro, Sylvester Stallone. O Tony Curtis che mi chiedeva: “Andava bene la scena? La rifaccio?” A me. Roba da matti».

Paolo Villaggio il terribile.

«Poteva sembrare cinico, ma era affettuoso, colto, adorava prendere il giro il prossimo. Al ristorante era capace di fare impazzire il cameriere ordinando “dei maccheroncini, ma solo 32. O del riso, ma 122 chicchi, mi raccomando”. O si fingeva in bolletta: “Purtroppo non ci pagano da mesi, se scendo a fare una foto con il cuoco ci fate lo sconto?”. Oppure era capace di ordinare champagne Cristal e poi andarsene senza pagare. Non era tirchio, si divertiva così».

Massimo Boldi.

«Grande. Non ha bisogno di battute per far ridere, basta lui, la sua faccia, unico».

Christian De Sica.

«Attore vero. Ci sentiamo spesso, io resto amico di tutti i colleghi, ho bisogno di sentire che mi vogliono bene, non sono invidioso, godo del successo altrui come se fosse mio».

Alberto Sordi, in Vacanze di Natale ’91.

«Sul set lo osservavo di nascosto, sembrava improvvisare, invece era tecnicamente perfetto, un manuale di recitazione. Non potevo crederci che sul manifesto del film il mio nome fosse scritto grande quanto il suo».

Lino Banfi, «L’allenatore nel pallone» 1 e 2.

«Quello bello è stato il primo, giravamo a Rio de Janeiro, Lino era simpatico ma timido. Quando si trovava accanto a qualche stangona mulatta si impappinava e cominciava a invocare la madonna dell’Incoronèta».

Con Serena Grandi non dica che non ci ha provato.

«Amica. Ci diede una mano quando io e Gigi arrivammo a Roma, due provinciali spaesati».

Con Elena Sofia Ricci invece…

«Siamo stati fidanzati per un annetto. Ero innamorato, ma troppo birichino… finiva che mi mandavano tutte a quel paese».

Carol Alt.

«Un flirtino»

Stefania Orlando invece la sposò nel 1997, Avete divorziato dopo due anni.

«La signora se n’è andata, capita. Sul momento dissi che era colpa mia, che uscivo troppo la sera, che frequentavo compagnie sbagliate, dove girava la cocaina. Allora scrissero che ero finito nel tunnel della droga, quando mai, è stato un periodo, poi si è chiuso, non bevo alcolici, giusto mezzo bicchiere di Lambrusco. Stefania aveva un altro, Paolo Macedonio, punto. In questa storia non vedo santi né eroi, ci sono rimasto male sì, ma nemmeno più di tanto».

Tradito o traditore?

«Si tradisce con qualcuno, è un cerchio, il conquistatore è pure cornuto e le corna bisogna portarle a testa alta. Non si muore per amore, solo se non si trova un amore per cui vivere».

Lei l’ha trovato. Nicole. Sposata nel 2017.

«Mi capisce, mi prende come sono, pregi e difetti, non ho bisogno di cancellare messaggi dal telefonino, la vita del playboy in effetti fa schifo. Collezionare furiosamente donne, auto e orologi è da insicuri, da poveracci».

Francesca D'angelo per “Libero quotidiano” l'8 maggio 2022.

E meno male che c'è la pandemia a rallentarlo. A 75 anni, Andrea Roncato macina un film dopo l'altro: oggi esce in sala Vecchie canaglie, dove è di nuovo in coppia con Lino Banfi. Poi in autunno sarà nei film La California di Piera Degli Esposti e Evelyne tra le nuvole. Non pago, spera pure «che Vecchie canaglie diventi una serie tv». 

La pensione, questa sconosciuta?

«Mi scusi, ma per vivere bene bisogna vivere, no? Smetterò di recitare... da morto». 

Certo che, sotto sotto, lei è davvero una vecchia canaglia...

«Nella vita, di sicuro! Ma in senso buono: "canaglia" è un uomo truffaldino, ma simpatico, brillante». 

Per molti lei è ancora "il donnaiolo", quello dei film anni 80 con la battute pronta verso le donne. Oggi, in epoca di catcalling, il suo personaggio durerebbe quanto un gatto in tangenziale?

«In realtà le nostre commedie rispettavano le donne, ben più dei moderni programmi tv. Davamo infatti vita a delle caricature non per esaltare il mito del donnaiolo ma per mostrarne la pochezza: eravamo dei playboy coglionazzi». 

Sarà, ma faccio un po' fatica a darle ragione.

«Nei nostri film c'erano molte belle donne e qualcuna si spogliava: è vero. Però erano cose all'acqua di rose rispetto a quello che passa oggi. Ormai le donne sono tutte uguali, ostentano seni e sederi finti, adeguandosi a un modello di bellezza comune.

L'accento è sempre sull'apparenza, quindi sono valorizzate più dal punto di vista sessuale che non intellettuale. Mi sembra molto più offensivo questo che i nostri film... Tra l'altro all'epoca c'era molta più censura». 

Com' è possibile?

«Noi per esempio non potevamo dire "sedere", ma "fondoschiena". Oggi invece si sente di tutto in prima serata». 

Senta, ma è vero che negli anni 80 Berlusconi veniva a ballare con voi in discoteca?

«Avevamo un ottimo rapporto, molto diretto. Se una tua battuta non gli piaceva, Berlusconi ti chiamava anche alle due di notte. Poi, sì, è vero: veniva a mangiare con noi e pure in discoteca se capitava». 

Chi rimorchiava di più, lei o Berlusconi?

«Beh, lui era il capo: era avvantaggiato! (ride, ndr) Ma andavamo in discoteca per ridere, mica per conquistare le ragazze. Berlusconi era un simpatico e si è rivelato anche un grande professionista: c'è chi lo accusa di molte cose, ma se queste persone fossero obiettive dovrebbero riconoscere che a livello industriale è stato uno dei più bravi, e anche a livello politico non aveva poi tante idee sbagliate... di certo, meglio di chi c'è adesso».

Lei dove si schiera: destra o sinistra?

«Ormai non so più cosa sia di sinistra e cosa di destra. Quindi mi schiero di volta in volta in base alle singole persone. Vorrei si desse più spazio alle donne: sono le più coerenti. 

Ha dichiarato: "Negli anni 80 prendevo tutto". Lo faceva per soldi?

«Era il mondo di quell'epoca che viveva sui soldi. Facevo le commedie perché quelle c'erano da prendere. Poi ho capito che se fai il comico finisci per fare sempre lo stesso ruolo, così ho spaziato. Ma va bene così, rifarei tutto». 

Ha raccontato di essersi drogato. Quando ha detto basta?

«Ecco, capiamoci. Non è che io sia uscito dal tunnel della droga, o robe del genere: non c'era nessun tunnel. Mica sono finito a San Patrignano. Semplicemente per un paio d'anni ho frequentato compagnie sbagliate, a cui non sapevo dire di no.

Poi da solo ho capito che era un'enorme cagata e ho smesso. Lo avevo raccontato solo per sensibilizzare i giovani invece poi la stampa ci ha cavalcato su...». 

È favorevole alla liberalizzazione delle droghe leggere?

«Se è per scopi medici, sì. Per mero divertimento, no: le droghe ti sballano il cervello e finisci per fare una vita terribile». 

Franco Giubilei per “Specchio – La Stampa” il 13 giugno 2022.

Gigi Sammarchi appartiene alla nobile stirpe delle "spalle", indispensabili sponde di quel gioco a ping-pong che tiene alta la tensione comica in una coppia di attori. Discende dalla grande scuola del varietà italiano del Dopoguerra che partorì Billi e Riva e poi negli anni Tognazzi e Vianello, fino alla diramazione tutta milanese di Cochi e Renato e così via fino a Zelig, che rispetto alle origini ha segnato un punto di azzeramento e ripartenza, stavolta con ritmi tutti televisivi: «Il tipo di tv che fanno oggi non mi piace, non mi ci riconosco - dice Sammarchi -. 

Io e Andrea (Roncato, l'altro elemento della coppia, ndr) facevamo sketch da venti minuti-mezz' ora, ora in due minuti hai già dato. La verità è che noi non c'entriamo niente con programmi come Zelig». 

Bolognese come il suo compare/amico di palco, settantatré anni, di formazione pedagogista, Pierluigi Sammarchi detto Gigi si è trovato sotto i riflettori nel pieno degli Anni 80, il cui spirito è ben rappresentato dai programmi e dai film cui ha partecipato, oltre che dal boom della tivù commerciale di Berlusconi, che di quel genere di prodotti fu formidabile propulsore: «Gli Anni 80 sono stati il decennio più bello per musica e spettacolo, anche per l'esplosione delle televisioni private».

Il suo compagno d'avventura ha detto pubblicamente di aver avuto frequentazioni con la droga principe di quegli anni, la cocaina, ed è singolare come il ruolo di personaggio serio rispetto allo scemoide scavezzacollo che era Andrea sul palco si ritrovi anche nei loro rapporti personali, in un'amicizia nata da bambini, quando Gigi aveva sei anni e l'altro due di più: «Io ad Andrea riguardo alla coca non ho mai detto nulla, né lui me ne ha mai parlato. 

Sapevo che avrebbe negato, perché lui mi ha sempre un po' sentito come il fratello buono, che non fa gli eccessi, mentre lui era un po' più estremo». 

Ecco perché «siamo sempre andati d'accordo, come sul palco, dove io facevo "l'intelligente". Nell'affascinante gioco di specchi fra vita privata e realtà in cui non è raro smarrirsi, come accade ai più fragili, per indole e carattere ad Andrea è toccata la parte del saggio che ha interpretato con tutta la bonomia bolognese del caso.

All'inizio i due si esibivano all'Osteria delle Dame, uno dei luoghi di quella Bologna che da una certa ora in poi dava il meglio di sé: «Guccini cantava, e noi facevamo i cretini», racconta Gigi, che dopo aver fatto supplenze per due anni buttò la laurea alle ortiche per darsi al cabaret, ritrovandosi da subito nel ruolo che avrebbe resistito finora, fino agli show che il duo comico continua a tenere anhe oggi: «Queste cose nascono per caso, dall'improvvisazione sul palco, dallo stimolo che dai a una battuta. In tutto questo lui era il cretino e io quello intelligente della coppia».

Sammarchi ha una casa a Marbella, dove vive con la moglie e il cane per la maggior parte dell'anno, e non ha grandi hobby se non una piccola passione per la riparazione di vecchi juke-box che gli ha attaccato un amico: «L'unica cosa che mi diverte fare è rimetterli in sesto, una cosa cominciata quando un amico mi chiese per scherzo di riparare due suoi juke-box e io ne ho fatto uno bellissimo». 

Ex tifoso della Virtus di pallacanestro, una religione a Bologna, nota non a caso come "basket-city", lo ha pure praticato, e con buoni risultati: «In gioventù giocavo da play-maker con una media di trenta punti a partita».

A grattare un po', in realtà, vengono fuori anche altri passatempi che esigono tempo, dedizione e allenamento, tipo la maratona: «Le faccio da quindici anni, le classiche, da quella di New York alle altre, le ho fatte tutte». Lontano dai riflettori, davanti al mare della Costa del Sol, ha tutta l'aria di vivere in pace con sé stesso, senza patire la mancanza del pubblico, che è poi la droga di ogni attore: «Ho deciso da tempo che con lo spettacolo ho già dato, per il mio modo di lavorare e per gli spettacoli che ho sempre fatto, la tv attuale non è più aria». 

·        Andrea Sartoretti.

Andrea Sartoretti: "Il politicamente corretto non ha senso di esistere". L'attore Andrea Sartoretti a tutto tondo: dal boom di "Romanzo criminale" al ritorno di "Boris", passando per l'immarcescibile politically correct. Massimo Balsamo il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Ha vestito i panni di personaggi amati dal grande pubblico, si è messo in gioco con progetti rischiosi e ha sempre avuto ragione. Protagonista in questi giorni al Lucca Film Festival in qualità di giurato, Andrea Sartoretti è tra gli attori più interessanti del panorama italiano. Dal “Bufalo” di “Romanzo criminale” allo sceneggiatore di “Boris”, fino alla straordinaria interpretazione in “Monte” di Amir Naderi, premiata ai Nastri d’argento 2017. Di questo e di molto altro ha parlato ai nostri microfoni.

Tra i tanti personaggi, il “Bufalo” di "Romanzo criminale" è stato il ruolo della vita?

“Non è il personaggio della vita, perché nella vita di un attore ogni personaggio diventa un parente. È stato sicuramente un personaggio importante, perché anche 'Romanzo criminale' mi ha dato la possibilità di continuare a fare questo mestiere. Io, come il regista della serie e gli altri attori, ho avuto la fortuna e il grande privilegio di fare parte di una produzione che ha cambiato la televisione. Prima di ‘Romanzo criminale’ eravamo abituati a una qualità e una serialità che conosciamo bene. ‘Romanzo criminale’ è stata una Porta Pia della televisione, ha portato il cinema in televisione”.

Ha mai avuto paura di essere ricordato solo come il “Bufalo”?

“In realtà sta all’attore stesso dimostrare che non è così. Mi scuso anche solo per l’esempio che sto per fare: è come se uno chiedesse ad Al Pacino se gli dà fastidio di essere ricordato soprattutto per ‘Scarface’. Il pericolo ci sarebbe stato se avessi fatto un personaggio in una serie che non mi piaceva, con qualità bassa. Quello mi avrebbe danneggiato e dato molto fastidio, ma sinceramente essere ricordato per aver partecipato a una serie che è entrata nella storia della tv… Mettiamola così: tornassi indietro, lo farei immediatamente, non scherziamo (ride, ndr)”.

Anche perché lei ha interpretato personaggi diversi in prodotti agli antipodi, basti pensare a “Boris”…

“Io ho avuto la fortuna di fare tre cose molte vicine con tre personaggi totalmente diversi: ‘Squadra antimafia’, ‘Boris’ e ‘Romanzo criminale’. Mi hanno dato la possibilità di suonare tre strumenti diversi e sono andati tutti molto bene. Con ‘Boris’ c’è stata la possibilità di usare il set televisivo per raccontare un’Italia claudicante, in tutti i suoi difetti, grazie ad una scrittura intelligente e comica”. 

Tra un mese arriverà su Disney+ la quarta stagione di “Boris”: come è stato tornare sul set e ritrovarsi dopo tanti anni?

“In realtà è stata la cosa più semplice. La maggior parte degli attori di ‘Boris’ li frequento quotidianamente, per cui per me non è cambiato molto (ride, ndr). Io andavo a scuola insieme al regista Giacomo Ciarrapico, a Pietro Sermonti e a Mattia Torre: la sua morte è stata un dolore infinito per tutti noi. Siamo cresciuti insieme. Frequento sempre Massimo De Lorenzo, Caterina Guzzanti e Carlo De Ruggieri. Ci vediamo spesso, insomma. A livello lavorativo, dopo il primo ciak la sensazione è che non fossero passati dieci anni dall’ultima volta”.

Come spiega l’incredibile successo “postumo”?

“Tutti pensano che ‘Boris’ abbia avuto successo fin da subito. In realtà, il successo è arrivato a scoppio ritardato. ‘Boris’ non era molto visto su Fox. Anzi, è diventato quello che è diventato grazie o per colpa della pirateria. La maggior parte degli appassionati non aveva visto la serie su Sky, ma in maniera illecita (ride, ndr). Da lì è diventato virale. Le persone hanno iniziato a fermarci per strada in maniera abbastanza assidua dopo due anni e mezzo dalla prima serie. Lì abbiamo capito tutto (ride, ndr)”.

Pensando a una serie come “Boris”, il politicamente corretto quanto influisce nell’arte al giorno d’oggi?

“È terribile, è massacrante. Non ha senso di esistere. È un modo edulcorato di definire la censura. Il politicamente corretto è ipocrisia, non ha senso. ‘Boris’ è un esempio: grazie al suo cinismo e alla sua libertà riesce a toccare argomenti molto importanti. A volte è mostrando il cinismo del mondo che tu lo combatti, è mostrando le ingiustizie del mondo che crei una denuncia. Non parlarne, alimenta il male del mondo. Il politicamente corretto è una moda, passerà anche questa”. 

Ripercorrendo la sua carriera, il momento più bello?

“Quando ho iniziato a lavorare. Io sono andato via di casa a 21 anni, facevo due lavori per mantenermi il lavoro dell’attore. Io lavoravo al mattino per una galleria d’arte e al pomeriggio per la Lipu, come segretario. Grazie a quei due lavori, potevo mantenere il lavoro dell’attore. Con i ragazzi di Boris - Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Massimo De Lorenzo e Carlo De Ruggieri – ci autoproducevamo, scrivevamo i testi, li mettevamo in scena e alla fine del mese andavamo a brindare quando riuscivamo a non andarci sotto (ride, ndr). Quando andavamo a pari, era motivo di festa. Abbiamo iniziato a guadagnare col teatro… forse mai (ride, ndr). I primi soldi li abbiamo visti quando un teatro ha deciso di produrci, con 800 euro a testa per uno spettacolo di un mese”.

Un rimpianto?

“Io ho la fortuna di essere anche madrelingua francese e amo il cinema francese. È un rimpianto a metà in realtà, perché potrei tranquillamente lavorare in Francia in futuro”.

Con chi le piacerebbe lavorare in futuro?

“Ci sono autori italiani interessanti. Mi piacerebbe lavorare con il nuovo cinema italiano, con gli autori più interessanti. Il sogno nel cassetto è fare un film con Aki Kaurismäki. Anzi, gli mando un messaggio tramite te: ‘Un film con te lo faccio anche gratis’ (ride, ndr)”.

Tra i tanti film della sua carriera, impossibile non citare “Monte” di Amir Naderi. In una sola parola, bellissimo...

“Quel film mi ha dato tantissime soddisfazioni. Non è un film facile, non nasce per il botteghino, ma mi ha fatto girare il mondo. È stato proiettato in Francia al Centre Georges Pompidou di Parigi e negli Stati Uniti d'America nella prestigiosa rassegna cinematografica del MOMA, il Museo d'Arte Moderna di New York. Mi ha dato molte soddisfazioni professionali, ma anche umane. Ho conosciuto Amir Naderi, straordinario. Una persona che vive per il cinema e che morirà per il cinema: io credo che il suo sogno sia morire sul set. Nella sua vita non ha fatto altro che combattere per fare film. È partito dal nulla: orfano, nato ad Abadan, dove è cresciuto in una nave abbandonata. Ed è finito a Cannes e a Venezia, facendo il suo cinema”.

Quali sono i suoi prossimi progetti?

“Oltre a ‘Boris’, a novembre uscirà ‘Il principe di Roma’ di Eduardo Falcone e ora sono sul set del nuovo film di Annarita Zambrano”.

·        Andrea Zalone.

Fabrizio Accatino per “la Stampa” l'8 giugno 2022.  

«Girare un film non è stata una mia idea, mi hanno chiamato. Ci ho messo entusiasmo, umiltà e tanta ansia: il primo giorno di set ho iniziato con 9 gocce di Xanax, poi sono andato a scalare fino alla fine delle riprese». 

Andrea Zalone è una persona schiva. Anche ora che deve accompagnare l'uscita della sua opera prima da regista, Il giorno più bello, l'insostituibile autore e spalla comica di Maurizio Crozza affronta le interviste come una tortura. Non lo aiuta il cast, su tutti Luca e Paolo, che mentre parla non smettono un istante di prenderlo per i fondelli. Lui prova a tirare dritto, perde il filo, raccoglie le idee, ricomincia. 

Il film è la storia di un wedding planner cinquantenne (Paolo Kessisoglu) innamorato della moglie del suo migliore amico (Luca Bizzarri). Vuole vendere l'azienda e scappare con lei (Valeria Bilello), ma prima ha due problemi da risolvere: convincerla a separarsi e organizzare ancora un matrimonio per due rampolli dell'alta società (Stefano De Martino e Fiammetta Cicogna). 

La cerimonia dovrà essere sontuosa, visto che la sposa è figlia dell'uomo che ha intenzione di rilevare l'attività (Carlo Buccirosso). «Ci siamo ispirati a un film francese del 2017, C'est la vie - Prendila come viene», spiega Zalone. «Fabio Bonifacci ha curato l'adattamento con il mio contributo, e insieme abbiamo scritto la sceneggiatura. Siamo stati blindati cinque settimane a San Giorgio Canavese, nel Torinese, su un set dal clima bellissimo. Tutti gli attori sono stati straordinari, a partire da Luca e Paolo. Hanno sempre un'alchimia incredibile ma qui sono stati particolarmente bravi, certo non per merito mio». 

Non le piace apparire, vero?

«Per nulla. Quando in Fratelli di Crozza Maurizio mi chiama in scena ho sempre quell'interminabile attimo di gelo».

È difficile fare la spalla comica da fuori campo?

«Nella vita ho avuto la fortuna di fare tante cose, che mi hanno abituato a stare dietro a ritmi non miei: l'attore, il doppiatore, il regista radiofonico. Credo che Mauri si sia accorto di queste mie caratteristiche e le abbia apprezzate. Mentre interagisco con lui ho sempre nelle orecchie i miei numeri uno: Serena Dandini e la Gialappa' s Band». 

Guarda tanta televisione?

«Solo talk show, ma tutti. A casa ho due televisori sempre accesi: appena sveglio seguo Omnibus e Agorà, la sera mi alterno tra Floris e Berlinguer. Un incubo. Quando la stagione finisce non apro più un giornale per mesi». 

Il personaggio a cui è più affezionato?

«Red Ronnie. Mi fa davvero ridere, è un mio momento di grande evasione, di libertà totale. In più per scriverlo abbiamo il privilegio di ascoltare prima quello vero: meraviglioso, ipnotico». 

Si può far ridere senza offendere nessuno?

«No. La comicità per definizione ha sempre un bersaglio, che sia una persona o un costume, quindi qualcuno che si sente colpito c'è sempre. Se si offende significa che è un bersaglio un po' troppo permaloso». 

Il professor Orsini come ha reagito alla caricatura che gli fate?

«Non lo so, per scelta Maurizio non ha mai contatti con nessuna delle persone che interpreta. Lui è stato un bersaglio facile, si è quasi offerto alla satira, praticamente immolato». 

Qual è la formula chimica della battuta?

«Si parte con un ragionamento che si ritiene importante. Per trasformarlo efficacemente in una battuta si sfruttano tecniche classiche come il paradosso o il ribaltamento. Se il processo funziona e comunica allo spettatore una verità, ecco nascere il tormentone. A monte occorre però avere quel tipo di talento». 

Cosa risponde a chi le obietta che quella battuta era venuta anche a lui?

«Mi capita spesso. A tutti spiego che le battute possono venire, il problema è che loro non sono obbligati a pensarle, io sì, per otto ore al giorno». Ennio Flaiano definiva l'umorista «una persona di ottimo malumore». 

Aveva ragione?

«Sicuramente per fare questo mestiere a livello caratteriale qualcosa di malmostoso ce lo devi avere. Ma è una professione meravigliosa e io mi sento un privilegiato». 

Come trova il tempo di continuare a doppiare il dott. Michael Niederbühl nella soap Tempesta d'amore?

«Il lunedì mattina, prima di ripartire per Milano. Mi ero ripromesso che sarei andato avanti a prestargli la voce fino a quando fosse esistito, ma 15 anni dopo è ancora lì. Credo di essere l'unico doppiatore a sperare che il proprio personaggio muoia». 

Con che frequenza pensano che lei sia Checco Zalone?

«Ogni volta che prendo un taxi o prenoto al ristorante. Lo capisco dagli sguardi di delusione quando compaio io».

·        Andrée Ruth Shammah.

Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 29 agosto 2022.

Geniale, caotica, sempre in movimento. L'irrequietezza come temperamento e forse un motivo c'è: Andrée Ruth Shammah è figlia di una fuga. Quella di una famiglia sefardita di Aleppo, ebrei che per «scappare dai pogrom arabi prima trovarono rifugio sui tetti e poi si dispersero nel mondo». 

Gli Shammah capitarono a Milano, nel 1948 nacque Andrée, «e forse - racconta - i miei nemmeno sapevano bene che cosa era Milano. L'idea era di andare in Giappone. Ma rimanemmo». Quattro sorelle, tra le quali lei: intelligente, vivace, amante del teatro. Il padre faceva tutt'altro: investimenti finanziari, consulenze, insomma si occupava di soldi. 

Lei però è diventata un'apprezzata regista. Come ha cominciato?

«Incontrai Giovanni Testori per motivi che nulla avevano a che fare con il teatro. Papà faceva investimenti nel mondo dell'arte, Giovanni era un appassionato di pittura. Per anni sono andata nello studio di Testori, in via Brera, nel pomeriggio. Caffè, conversazioni su arte e teatro. Fu il mio apprendistato di ragazza ebrea ma allieva di una scuola cattolica, milanese ma di origini aleppine». 

Milano, negli anni Sessanta, era un laboratorio di linguaggi. La lingua di Carlo Porta veniva rielaborata a teatro, c'era il «grammelot» di Dario Fo.

«E la mia prima regia fu nel '73, con l'Ambleto di Testori, rivoluzione del concetto di idioma. Ma tutto era cambiato con le contestazioni del '68: Strehler se n'era andato dal Piccolo, Paolo Grassi voleva rinnovare, chiamò Franco Parenti. E mi chiese di fargli da assistente alla regia, anche perché Franco era molto giù. 

Era da poco stato lasciato da Benedetta Barzini, per la quale lui aveva detto addio a moglie e figli. All'inizio non lo sopportavo: mi irritava per come parlava. E poi tenga conto che a Milano in quel periodo c'era Marco Bellocchio, che faceva cose fighissime».

Poi il legame con Franco. Per la verità, breve, dal '72 al '73. Ma esattamente cinquant'anni fa, insieme, avete fatto nascere il Salone Pier Lombardo, che si chiama Teatro Franco Parenti dal 1989.

«E ne abbiamo fatto un esempio unico di teatro privato con funzione pubblica. Se io oggi devo fare un qualsiasi lavoro qui, devo andare a chiedere ai sostenitori. Mille, duemila, cinquemila euro. E vado di persona, meno male che tutti riconoscono la qualità di quello che facciamo». 

Che tipo era Franco?

«Coerente. Fermo nelle sue idee, anticonformista, se necessario controcorrente. Quando mise in scena Claudel, un autore cattolico, il Pci gliene disse di ogni. Oddio, il Pci bacchettone non ammetteva neanche le parolacce nei testi di Carlo Porta. E anche Dario Fo non era d'accordo su Claudel, ne discussero a lungo, Dario cercava di dissuaderlo. Franco gli disse: "Vedi, Dario, tu fai sempre te stesso e va bene, io però non ho bisogno di ripetere me stesso"».

Che rapporto c'era con Fo e Rame?

«Buono. Dario studiava architettura e per mantenersi scriveva degli sketch. Franco faceva il personaggio di Anacleto il gasista alla radio, in corso Sempione, e allora era consuetudine che i giovani autori lasciassero nel camerino degli attori affermati questi foglietti con delle piccole scene. Parenti rimase colpito dalla bravura di Dario e lo invitò per parlare. Insisteva: devi fare l'attore. Ma Dario non voleva fare quello. In ogni caso, iniziò un sodalizio e poteva durare di più, ma Franca sognava la televisione».

Com' era Silvio Berlusconi prima di diventare Silvio Berlusconi?

«Senta questa. Una volta Silvio incontra Franco in aereo. Gli dice: "Venga a trovarmi, io se vuole le apro un teatro". Parenti torna a Milano e mi fa: "Ho incontrato un industriale che vuole finanziare un teatro, ma io ho la sensazione che voglia il suo teatro".

Non se ne fece niente. Però mi ricordo che ai funerali di Craxi Berlusconi piangeva a dirotto. Tenga presente che quando Craxi cadde in disgrazia a Milano non si trovava più un socialista, spariti tutti».

Craxi. È vero che le offrì la direzione del Teatro Stabile di Roma?

«E io gli risposi: "Ma che ci vengo a fare a Roma se ho un teatro qui a Milano? Finanziami questo, se puoi". Ma lui non poteva, e insomma eravamo punto e a capo, ce la siamo sbrigata noi».

Erano lottizzati anche i teatri?

«Eccome. Ma almeno sapevi chi faceva cosa. Gabriele Salvatores in area socialista all'Elfo, per dire. Il Parenti però restava fuori, non eravamo ingabbiabili». 

Strehler. Lei lo ha conosciuto molto bene. Se dovesse raccontarlo in breve?

«Un visionario, un grande uomo di teatro. Le racconto questa. Maggio Musicale Fiorentino, lui sta provando. Valentina Cortese cerca di farlo mangiare, mi manda a prendere due vassoi con sei paste di riso ciascuno. Lei gliene offre una. Lui, insofferente, "Ma non vedi che sto lavorando?", però intanto allunga dietro una mano e la prende. Lei, di volta in volta, sostituisce il dolce mancante attingendo dall'altro vassoio. Morale: alla fine il maestro ha mangiato ma ha dato a vedere di non mangiare».

Cortese gli era legata?

«Al suo funerale io e Valentina, per rendergli omaggio, abbiamo messo due righe di cocaina sulla bara. Glielo dovevamo». 

Un altro suo grande sostenitore è stato Eduardo De Filippo. È così?

«Non dimenticherò mai quella volta in cui venne a teatro e, davanti a tutti, mi definì "a shamma", che in napoletano vuol dire "fiamma". Fu bellissimo, anche perché era un sostegno a una figura facilmente attaccabile: una donna sola, che molti continuavano a definire con malizia la compagna di Franco . Ma in questo teatro si è fatto di tutto». 

Anche il pane, vero?

«Certo, nei programmi dedicati ai bambini. Ma abbiamo fatto anche i matrimoni. Oggi c'è una piscina, si organizzano dibattiti». 

Lei non ha fatto il '68?

«No, anzi, mi schierai con Paolo Grassi contro chi lo contestava. D'altra parte io, ebrea, nutrivo grande ammirazione per il cardinal Martini. Sempre controcorrente».

·        Angela Finocchiaro.

Angela Finocchiaro: «Lasciai Medicina per il teatro mentre i miei si separavano. Zelig? Angoscia totale». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

L’attrice: «Non sopporto che le attrici vengano pagate meno dei colleghi maschi. Però quando ho recitato con Mastroianni e Sordi non riuscivo a dire una parola». 

È successo tra il liceo e l’università. «Era come se in quel periodo cercassi qualcosa, senza sapere bene cosa fosse. Avevo capito che ero in una turbolenza, ma non realizzavo come sarebbe finita». Con una planata, piuttosto dolce, su un palcoscenico. La carriera di Angela Finocchiaro è iniziata così e ancora oggi, dopo decine di spettacoli a teatro, film e serie tv; dopo programmi di successo, premi e riconoscimenti, negli occhi azzurrissimi e birichini dell’attrice sembra esserci lo stesso stupore di chi si ritrova in un posto in cui finalmente si riconosce, pur non avendo pianificato di andarci.

Torniamo agli inizi...

«Nel mio peregrinare sono finita nella scuola di mimo di Grock. Non era quello che pensavo di voler fare: stavo solo cercando qualcosa che mi suscitasse dell’interesse. Penso che a farmi fermare sia stato l’aver trovato un gruppo di persone con cui stavo bene... dopo un po’ i miei insegnanti mi hanno chiesto di fare una piccolissima parte e ricordo di aver pensato poco prima di entrare in scena: adesso me ne vado».

Agitata?

«Era più panico. Mi ripetevo: ma chi me lo ha fatto fare. Invece sono rimasta. Non immaginavo di costruire una carriera, andavo avanti passo dopo passo per qualche cosa che mi muoveva intimamente. E contemporaneamente iniziavo la facoltà di Medicina».

Si immaginava medico?

«Ma no, è una scelta che non è durata niente, infatti sono passata subito a Psicologia. Ma, anche lì, ho capito presto che il teatro mi piaceva di più. Ero entrata a far parte del Teatro del Sole: si facevano spettacoli nelle scuole tutti i giorni e tutti facevano tutto, compreso montare le luci o guidare il pulmino. Ci ho lavorato quattro anni ed è stata una grande formazione. Ma non ero ancora nell’ottica di dire: è il mio lavoro. Lo è diventato semplicemente perché lo facevo sempre, organizzando laboratori, training, facendo improvvisazione. Era verso la fine degli anni Settanta e a Milano c’era un movimento importantissimo che favoriva la nascita di gruppi di questo genere. Avevi la sensazione di poter comunicare quello che volevi».

Quindi, in quegli anni, ha finalmente trovato la sua dimensione?

«In realtà no: uscita dal Teatro del Sole con altri due attori abbiamo fondato un nostro gruppo, da cui pure poi me ne sono andata. Mi sentivo sempre un cane sciolto e alla fine i gruppi mi stavano stretti, pur essendo le mie radici. Avevo bisogno del mio spazio di libertà: costruivo io i progetti in cui volevo lavorare senza dover aspettare una telefonata».

I suoi genitori come avevano vissuto la scelta di lasciare Medicina per il palcoscenico?

«Intorno ai miei 18 anni loro si stavano separando e io ho approfittato di quella situazione per entrare in un varco altrimenti difficilissimo. C’era il luogo comune che fosse un salto nel buio lavorare nello spettacolo, senza contare che bisognava laurearsi... ma entrare anche timidamente nel teatro mi ha dato la possibilità di prendere un’accelerazione che da sola non avrei avuto. Così sono riuscita a tirarmi fuori dal bozzolo e a liberarmi anche da una certa educazione che arrivava da mia mamma, fortemente legata alla fatica, al rispetto del suo uomo...».

Si considera una femminista?

«Sono una donna e in quanto tale mi sembrerebbe stranissimo non pensare di esserlo. Se sei una donna come minimo sei femminista».

Invece non sono poche le donne che cedono a retaggi maschilisti, non crede?

«Sì, vero. Forse ho incontrato nel mio percorso persone piuttosto illuminate in questo senso, ma siamo ancora al palo con la storia del salario: io sicuramente sono pagata meno dei maschi con cui condivido lo stesso ruolo. Succede soprattutto succede nel cinema».

Dove anche i ruoli per le donne sono molto meno e, di base, più stereotipati.

«Sì, anche quel lato è molto faticoso».

Non ha voglia di scrivere lei qualcosa?

«No. Mi piace collaborare. Con Nichetti abbiamo scritto un soggetto, una sceneggiatura, vediamo cosa si riesce a fare».

Maurizio Nichetti è un suo grande amico?

«Da sempre. Lui è una figura importantissima: era uno degli insegnanti della scuola di Grock ed è stato il primo a farmi capire che avevo dei tempi comici. Me lo ha proprio detto lui, portandomi poi nel suo primo film, Ratataplan, che fu un successo stellare. Siamo rimasti molto legati. Poi abbiamo fatto insieme la serie Mammamia! dove i miei figli erano proprio i miei figli...».

Davvero?

«Sì, non lo volevo fare e loro erano piccoli: avevano 3 e 5 anni. Ma Maurizio, che li conosceva da sempre, è stato così coinvolgente che loro si sono divertiti da morire: ne sono felicissima».

Cosa fanno oggi i suoi figli? Loro non lavorano nello spettacolo?

Occhiata di divertita disperazione. «Una ha scelto scenografia e l’altro regia, ma non ho fatto niente per indirizzarli... penso che oggi sia un ambiente ancora più difficile ma allo stesso tempo mi sembra di essere come i miei genitori: non sei nato nella complessità di adesso e ti annichilisce. Quindi sto zitta: sono appassionati, facciano la loro strada con fiducia e io mi tengo la mia gocciolina di sudore e non la mostro»

Ha lasciato Milano per vivere in campagna.

«Sì, è successo una trentina di anni fa. Adesso si sono trasferiti a Milano i miei figli, città che adorano come me: quando me ne sono andata, negli anni Novanta, mi pareva un po’ flessa e io mi ero rintanata. Ora è di nuovo bella bella. Allora avevo voglia di cambiare, così ho preso la palla al balzo di fidanzarmi con un toscano e mi sono spostata lì. Ma tutti i miei medici li ho tenuti e Milano e quando devo andarci prendo il treno».

E, nel mentre, anche il toscano è rimasto...

«All’inizio lavoravamo assieme, lui curava gli allestimenti degli spettacoli. Finché i bimbi non andavano a scuola li abbiamo sempre portati con noi: volevo sapessero devo erano la mamma e il papà quando non erano con loro. Non parliamo esageratamente del lavoro, in famiglia, e non so dire che genitori siamo stati, anche se di recente abbiamo avuto una soffiata: un’amico ci ha detto che nostro figlio si è detto felicissimo della sua mamma e del suo papà... che da allora sta ancora piangendo».

Come ricorda gli anni a «Zelig»?

«Per me è stata un’angoscia totale. Mi sono divertita nell’attimo in cui riuscivo a farlo, ma ci sono delle regole micidiali — ride —. Cioè, ogni un-due-tre deve esserci il boato della risata. Io non ho quell’indole, quindi questa cosa mi metteva sempre un’ansia bestiale. In teatro arrivi alla risata con tempi diversi e, soprattutto, non sai mai se davvero qualcosa farà ridere: mi piace scoprirlo con il pubblico. Invece lì ci sono Gino e Michele, che sono miei amici del cuore e che mi hanno dato quell’opportunità, ma che sono anche di una perfidia... sono delle macchine da guerra. Diciamo che ci ho provato a fare il cabaret ma non sono sopravvissuta. Credo che anche loro avranno pensato: poverina, la facciamo venire ma non è proprio il suo...».

È stata una delle colonne della «Tv delle ragazze». Dramma anche lì?

«Ecco, lì era diverso, ti costruivi gli sketch... ci doveva essere una chiusa comica ma non era come essere in una sorta di colosseo, inteso come anfiteatro, in cui devi andare e se poi non viene giù è un problema».

Prima che arrivasse lo spettacolo sapeva di essere simpatica?

«Non particolarmente. Ero timidissima, alle feste facevo tappezzeria. Avevo i capelli che sembrava avessero preso la scossa, magra magra, il naso lungo. Questo lavoro è stata una terapia».

Per la timidezza?

«Anche. Poi mi sono legata moltissimo a tante persone con cui sono cresciuta, tra cui Silvio Orlando, Claudio Bisio, Diego Abatantuono o Christian De Sica, con cui sto girando un film».

Un sacco di amici, altro che fare da tappezzeria alle feste...

«Beh, ho lavorato anche con Alberto Sordi e Marcello Mastroianni ma ero totalmente implosa al loro cospetto. Ero giovane: non avevo paura del lavoro, piuttosto dei momenti fuori scena, in cui dovevo chiacchierare a tu per tu con loro. Erano entrambi di una gentilezza... una volta la troupe aveva festeggiato il mio compleanno e Mastroianni si era unito a farmi gli auguri. Bene, io potevo morire, evaporavo, scomparivo, non gustavo per niente il momento... che carattere orrendo ho. Lui in questa serie che giravamo, A che punto è la notte, entrava e usciva dal suo personaggio con una semplicità e una facilita che ti chiedevi: ma da dove arriva?».

E con Sordi? Andò meglio?

«Macché. Avevamo girato un film ed eravamo andati anche a Los Angeles assieme. Lui, gentilissimo, mi aveva perfino portata fuori ma non sono fiera per niente di come ho gestito quell’invito: non parlavo. Avrà pensato: ma che palla».

Potrebbe essere un lato da sfruttare: vorrebbe mettersi alla prova in più ruoli drammatici?

«A teatro no, non ho molta voglia di andare a scorticarmi nell’anima tutte le sere, per mesi. Non ce la faccio. Al cinema invece penso sia bello trovare registi che allarghino la tua coscienza, che ti mettano in difficoltà facendoti fare cose diverse. La bestia nel cuore per me è stato un passaggio, Cristina Comencini mi ha tolto anche delle paure con quel film, dandomi una scossetta. Poi non sempre è possibile, nel senso che non sempre hai modo di uscire dalla tua confort zone. Ogni tanto mi pongo la domanda: ma faccio sempre gli stessi ruoli?».

E la risposta?

«Non so, ma so che a volte me lo chiedo. Detto questo, la libertà di scelta è una cosa meravigliosa ma ci sono dei momenti della vita in cui non l’ho potuta esercitare. La mia fortuna però è una: ogni volta, anche con i progetti più piccoli, finisco per innamorarmi di quello che faccio».

·        Angelina Jolie.

Usa: scontro Angelina Jolie - Brad Pitt: "Lui picchiò lei e i figli in aereo". La Repubblica il 4 Ottobre 2022.

Lo rivela il New York Times. Secondo i documenti legali, l'attrice ha detto che l'ex marito avrebbe messo le mani alla gola a un figlio, e colpito un altro in pieno volto

Angelina Jolie ha rivelato nuovi dettagli del famigerato volo aereo del settembre 2016 che portò alla rottura con il marito Brad Pitt. L'attore e icona sexy di Hollywood avrebbe picchiato lei e i figli.  In una testimonianza incrociata svolta nella battaglia legale tra le due star, che si contendono i diritti della proprietà di un pregiato vigneto in Francia, Jolie ha raccontato una serie di violenze verbali e fisiche da parte di Pitt, esplose durante il volo sul jet privato che aveva portato la famiglia dalla Francia in California.

Secondo i documenti legali, l'attrice ha detto che l'ex marito avrebbe messo le mani alla gola a un figlio, e colpito un altro in pieno volto, e poi "afferrato Jolie alla testa e strattonata". A un certo punto lui le avrebbe gettato addosso la birra, e versato vino sui figli. Dopo quel viaggio, l'attrice chiese il divorzio. L'episodio è finito sotto inchiesta da parte dell'Fbi, che ha giurisdizione sui voli.

Lorenza Sebastiani per “il Giornale” il 20 agosto 2022.

Giustizia maschilista o femminista? Ormai le coppie di Hollywood si attaccano nei tribunali e spesso la verità diventa un dettaglio indistinguibile, tanto meno dai media. Johnny Depp e Amber Heard ne sono un recente esempio e a processo concluso, quando i social avevano da mesi messo in campo un tifo da stadio a favore dell'attore, è rimasto sospeso lo stesso quesito di sempre. Peggio se sul campo rimane una vittima non creduta o un carnefice innocente e calunniato? 

Ed ecco che arriva la stampa, spesso per ultima e utilizzata a turno in modo strumentale dai due epici antagonisti del momento.

Non a caso è appena emersa una sostanziale novità sulla saga dei Brangelina, ossia Brad Pitt e Angelina Jolie, che continuano da anni a scannarsi davanti ai giudici, con la scusa dell'affidamento dei figli.

Lei lo accusa di abuso di alcol e maltrattamenti in famiglia, lui di violenza psicologica e diffamazione. Emblematica la causa che lui le ha intentato a febbraio scorso, per aver venduto a un oligarca russo la sua metà del vigneto francese dove si sposarono, Château Miraval, senza interpellarlo. 

Ora lei, dopo mesi di apparente calma mediatica, ha appena calato l'asso. La CNN di colpo ha rivelato il contenuto di un rapporto ricevuto dall'FBI sul famoso episodio del 2016 che la rivista americana People, all'epoca, aveva indicato come la causa del divorzio tra i due. Sei giorni dopo questi accadimenti la Jolie lasciò infatti Pitt e chiese l'affidamento esclusivo dei figli.

Nell'ambito di un volo privato dalla Francia a Los Angeles lui sarebbe salito già ubriaco, avrebbe afferrato l'attrice alla testa sbattendola contro la porta del bagno, imprecando contro di lei e contro la cattiva educazione impartita ai figli. I ragazzi, denuncia l'attrice, avrebbero chiesto «Stai bene mamma?». A quel punto Pitt avrebbe urlato: «No, la mamma non sta bene. Sta rovinando questa famiglia. È pazza». Questo avrebbe suscitato la reazione del primogenito, Maddox, all'epoca 15enne, che ha testimoniato più volte in passato contro Pitt (e oggi non vuole neanche più il suo cognome). Il ragazzo avrebbe detto: «Non è lei, sei tu, stronzo». 

 L'insulto, si legge nel rapporto dell'FBI, avrebbe mandato l'attore su tutte le furie. Jolie avrebbe allora afferrato il marito per il collo «per impedirgli di attaccare Maddox», e Pitt l'avrebbe spinta contro una parete, procurandole lesioni alla schiena e al gomito, di cui il rapporto contiene foto. Per quell'evento l'attore, che ha negato qualsiasi accusa, è stato indagato sia dai servizi per l'infanzia di Los Angeles sia dall'FBI, ma l'inchiesta fu chiusa in due mesi e senza esito.

CNN ha poi riferito che il vice procuratore Usa avrebbe deliberatamente deciso di non procedere contro Pitt. L'emittente americana ha oggi la certezza che la Jolie abbia di recente intentato una causa anonima contro l'FBI, per ottenere tutti i documenti relativi all'inchiesta federale contro l'ex. La Jolie aveva incassato solo per finta, quindi. Al momento ha la piena custodia dei figli, riottenuta con le unghie e con i denti. 

A maggio dello scorso anno Pitt aveva infatti ottenuto l'affidamento di cinque dei suoi sei figli (Pax, Zahara, Shiloh e i gemelli Knox e Vivienne, 18, 17, 16 e 13 anni), ma lei ha chiesto e ottenuto l'estromissione del giudice, reo di non aver ascoltato le testimonianze dei ragazzi e di averle così negato, a suo dire, «un processo equo». 

Combattiva «ai limiti della persecuzione», l'ha definita a più riprese Pitt sui media americani. «La mia è una battaglia nel puro interesse dei figli», ha spiegato l'attrice, che si ritiene da sempre, come la Heard, vittima di una giustizia iniqua e viziata.

Sono lontani i tempi in cui, per i 50 anni del marito, gli regalava un'isola da 12 milioni di dollari. Una cosa l'abbiamo capita, tanto megalomane la storia d'amore che ci propinano, tanto feroce sarà la causa successiva. E la verità è destinata a rivelarsi irrilevante.

(ANSA il 19 agosto 2022) - Angelina Jolie ha accusato Brad Pitt di averla afferrata per la testa e le spalla, averla spinta contro il muro del bagno dell'aereo privato sul quale stavano viaggiando e averle urlato: 'Stai mandando a puttane questa famiglia!'. 

Il tutto quando era completamente ubriaco e dopo aver insultato i figli della coppia. L'episodio risale al 2016 ed è stato rivelato dalla Cnn che ha ottenuto un rapporto dell'Fbi sulla vicenda. Pitt non è stato ne' arrestato ne' incriminato per le violenze dopo l'inchiesta dei federal sulle violenze.

La Jolie ha detto agli investigatori che due dei loro figli, i cui nomi sono stati censurati nel rapporto ma erano all'epoca minorenni, "erano fuori dalla porta a piangere e hanno chiesto 'Stai bene mamma?'". A quel punto Pitt avrebbe urlato: "No, la mamma non sta bene. Sta rovinando questa famiglia. È pazza'". 

Questo avrebbe suscitato la reazione di uno dei bambini che avrebbe detto: "Non è lei, sei tu, stronzo'". Insulto, si legge nel rapporto dell'Fbi, che avrebbe mandato l'attore su tutte le furie. Pitt, secondo quanto raccontato dalla Jolie, gli è corso incontro "come per picchiarlo" ma lei lo ha bloccato. L'attrice e regista ha anche dichiarato di aver subito lesioni alla schiena e al gomito di cui ha allegato una foto.

Da leggo.it il 18 agosto 2022.

Angelina Jolie ha presentato una causa anonima contro l'Fbi chiedendo perché non ha arrestato Brad Pitt. Secondo i media Usa, l'attrice è stata identificata come la querelante 'Jane Doe' in un procedimento contro il Bureau per il Freedom of Information Act, in cui domanda perché l'agenzia abbia chiuso un'indagine per aggressione nel 2016 sul suo «allora marito». 

In quell'occasione Jolie aveva affermato che lui aveva «aggredito fisicamente e verbalmente» lei e i loro figli. A un agente federale aveva detto che Pitt era «pazzo» e si era imbarcato su un aereo privato dalla Francia agli Stati Uniti insieme a lei e ai loro sei figli, lo aveva accusato di aver preso a pugni il soffitto dell'aereo più volte gridando «stai rovinando questa famiglia». Pitt avrebbe poi attaccato uno dei loro figli, lei lo avrebbe difeso e si sarebbe ferita al gomito. Poi l'attrice lo ha accusato di averle versato della birra addosso in un altro momento del volo.

Sei giorni dopo, Jolie ha chiesto il divorzio. I media hanno riferito che il vice procuratore Usa ha incontrato l'agente federale nel novembre 2017 e ha deciso di non procedere con la denuncia contro Pitt. Jolie ha quindi intentato una causa anonima contro l'Fbi nella speranza di ottenere documenti relativi all'inchiesta federale contro l'ex marito, il quale ha negato tutte le accuse. 

Da adnkronos.com il 19 agosto 2022.

Angelina Jolie ha accusato Brad Pitt di averla picchiata e di avere insultato lei e i loro figli durante una lite a bordo di un jet privato nel 2016. Lo riferisce un rapporto dell'Fbi che la Cnn ha pubblicato. Secondo quanto è scritto nel rapporto, l'attrice ha detto agli investigatori che durante il viaggio di ritorno in California con Pitt e i loro sei figli, dopo una vacanza di due settimane, il suo ex marito le ha chiesto di accompagnarlo in fondo all'aereo. 

Una volta lì, ha riferito Jolie, entrati nel bagno, Pitt l'ha "afferrata per la testa e per la spalla" e spingendola contro la parete del bagno le ha detto "stai fottendo questa famiglia", secondo quanto scritto sul rapporto. Pitt non è stato arrestato o accusato in relazione all'incidente dopo che l'Fbi ha completato l'indagine nel 2016.

La Jolie ha anche detto agli investigatori che due dei loro figli (i cui nomi non sono scritti nel rapporto perché all'epoca erano minorenni) "erano fuori dalla porta a piangere e hanno chiesto: 'Stai bene mamma?'". E Pitt avrebbe urlato in risposta: "No, la mamma non sta bene. Sta rovinando questa famiglia. È pazza". 

A questo punto uno dei figli gli avrebbe risposto: "Non è lei, sei tu, stronzo", una reazione che avrebbe fatto infuriare Pitt il quale, sempre secondo il racconto di Angelina Jolie riportato nel rapporto, sarebbe corso incontro al figlio "come per picchiarlo", ma senza riuscirci perché lei lo ha bloccato. Jolie ha affermato di aver subito lesioni alla schiena e al gomito, allegando al rapporto una foto.

La Cnn ha contattato i rappresentanti di Pitt e Jolie per un commento. "Tutte le parti hanno avuto queste informazioni da quasi sei anni e sono state utilizzate in precedenti procedimenti legali. Non c'è niente di nuovo se non l'essere una trovata mediatica destinata a infliggere dolore", ha detto una fonte vicina a Pitt. Un portavoce dell'Fbi ha spiegato alla Cnn che "nessuna accusa è stata presentata in relazione a questa questione e sarebbe inappropriato commentare ulteriormente".

Angelina Jolie accusa Brad Pitt: "Mi ha insultata e picchiata". La Repubblica il 19 Agosto 2022.

L'episodio risale al 2016 ed è stato rivelato dalla Cnn: l'attrice ha fatto causa all'Fbi chiedendo perché non abbia arrestato l'ex marito

Angelina Jolie ha accusato Brad Pitt di averla afferrata per la testa e le spalla, averla spinta contro il muro del bagno dell'aereo privato sul quale stavano viaggiando e averle urlato: "Stai mandando a puttane questa famiglia!". Il tutto quando era completamente ubriaco e dopo aver insultato i figli della coppia.

L'episodio risale al 2016 ed è stato rivelato dalla Cnn che ha ottenuto un rapporto dell'Fbi sulla vicenda. Pitt non è stato né arrestato né incriminato per le violenze dopo l'inchiesta dei federal sulle violenze.

Jolie ha detto agli investigatori che due dei loro figli, i cui nomi sono stati censurati nel rapporto ma erano all'epoca minorenni, "erano fuori dalla porta a piangere e hanno chiesto 'Stai bene mamma?'". A quel punto Pitt avrebbe urlato: "No, la mamma non sta bene. Sta rovinando questa famiglia. È pazzà".

Questo avrebbe suscitato la reazione di uno dei bambini che avrebbe detto: "Non è lei, sei tu, stronzò". Insulto, si legge nel rapporto dell'Fbi, che avrebbe mandato l'attore su tutte le furie. Pitt, secondo quanto raccontato dalla Jolie, gli è corso incontro "come per picchiarlo" ma lei lo ha bloccato.

L'attrice e regista ha anche dichiarato di aver subito lesioni alla schiena e al gomito di cui ha allegato una foto.

Nei giorni scorsi l'attrice  ha presentato una causa anonima contro l'Fbi chiedendo perché non ha arrestato Brad Pitt. Secondo i media Usa, l'attrice è stata identificata come la querelante "Jane Doe" in un procedimento contro il Bureau per il Freedom of Information Act, in cui domanda perché l'agenzia abbia chiuso un'indagine per aggressione nel 2016 sul suo "allora marito".

In quell'occasione Jolie aveva affermato che lui aveva "aggredito fisicamente e verbalmente" lei e i loro figli. A un agente federale aveva detto che Pitt era "pazzo" e si era imbarcato su un aereo privato dalla Francia agli Stati Uniti insieme a lei e ai loro sei figli, lo aveva accusato di aver preso a pugni il soffitto dell'aereo più volte gridando "stai rovinando questa famiglia". Pitt avrebbe poi attaccato uno dei loro figli, lei lo avrebbe difeso e si sarebbe ferita al gomito. Poi l'attrice lo ha accusato di averle versato della birra addosso in un altro momento del volo. Sei giorni dopo, Jolie ha chiesto il divorzio.

I media hanno riferito che il vice procuratore Usa ha incontrato l'agente federale nel novembre 2017 e ha deciso di non procedere con la denuncia contro Pitt. Jolie ha quindi intentato una causa anonima contro l'Fbi nella speranza di ottenere documenti relativi all'inchiesta federale contro l'ex marito, il quale ha negato tutte le accuse.

Per i Brangelina la vita non è più rosé. Litigano anche per la loro azienda vinicola. Andrea Cuomo il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La Jolie vende le sue azioni della provenzale Miraval, lui vuol farle causa.

La vie en rosé non dura mai in eterno. Prendete Angelina Jolie e Brad Pitt. Fino a qualche tempo fa sembravano la coppia perfetta: belli, famosi, ricchi, buoni. Una «ditta» talmente affiatata da meritare una ragione sociale: Brangelina. Poi la love story è finita e le due star non si può dire abbiano brindato al loro divorzio, «celebrato» nel 2020. Comunque, non con il vino della loro tenuta vitivinicola nel Sud della Francia, la Miraval Côtes de Provence. La tenuta di 500 ettari, di cui 50 a vigneto, che i due acquistarono nel 2008 e nella quale si sposarono nel 2014, lei peraltro con un romanticissimo abito firmato Atelier Versace in cui aveva fatto ricamare i ritratti di tutti i loro figli. E che negli ultimi anni è diventata rinomata anche per i vini che vi sono prodotti, in particolare il Miraval Rosé, prodotto con uve Cinsault, Rolle, Syrah e Grenache e considerato uno dei rosati più rinomati del mondo (il suo prezzo, sui siti di e-commerce del vino, si aggira sui 18 euro a bottiglia).

L'azienda è un successo, ma rischia di essere ora travolta dai dissidi tra i due ex innamorati. Brad, oltre all'abbandono, ha dovuto bere un altro amaro calice, la vendita delle sue quote azionarie della tenuta, pari al 40 per cento (il restante 60 è di Brad). Un'operazione che, stando all'attore, nessuno dei due avrebbe potuto fare senza il consenso del socio. Secondo Pitt, l'ex moglie avrebbe dovuto offrire a lui le azioni, prima di cederle a Tenute dal Mondo, la divisione wine» del potente Stoli Group. L'attore ha passato la pratica ai suoi avvocati. I legali di Brad chiedono che un tribunale civile si pronunci sulla querelle, e aggiungono, come aggravante, che Angelina avrebbe «smesso da molto tempo di contribuire alla Miraval».

La Miraval non è solo un magnifico scenario di cartapesta. I due sono veramente appassionati di vini e quando acquistarono il castello con vigneti, decisero di produrre un vino che fosse davvero buono. Per questo si avvalsero della collaborazione della famiglia di enologi Perrin e oggi il Miraval Rosé è molto quotato nelle principali guide: Wine Enthusiast ha dato 91 centesimi alle annate 2015, 2017 e 2020 (l'ultima uscita), mentre Robert Parker ha giudicato da 90 la 2018.

Va detto che gli ex Brangelina hanno nel frattempo avviato un'altra impresa commerciale nel settore vinicolo: la maison Fleur de Miraval, l'unica che produce esclusivamente Champagne rosé. Grazie anche a questo il fatturato è lievitato dal 3 milioni di dollari del 2013 ai 50 milioni del 2021.sato da tre milioni di dollari nel 2013 a oltre 50 milioni di dollari nel 2021. Andrea Cuomo

Angelina Jolie: «Tutte insieme, siamo più forti». Il cinema non le basta. Agitatrice di coscienze e ambasciatrice delle Nazioni Unite, rivede la gerarchia delle sue priorità e sceglie con cura le sue missioni, con attenzione all'imprenditoria femminile e all'ecologia. E ai figli insegna il rispetto e il supporto reciproco. RICHARD GIANORIO su Iodonna.it il 12 Novembre 2022. 

Ambasciatrice delle Nazioni Unite, la star si dedica appassionatamente alle missioni umanitarie. Musa di Guerlain, è anche madrina di Women for Bees, un programma che valorizza le donne e la biodiversità. Attivista appassionata, fa con noi il punto sul suo impegno ecologista. La nostra riluttanza nei confronti della noiosa pratica di Zoom si attenua quando ha per effetto la miracolosa apparizione di Angelina Jolie, viso solare, sorriso californiano e top nero con spalline sottili, sullo schermo rettangolare del suo vecchio computer. 

L’attrice è a Los Angeles e, per ridurre la sua impronta ecologica, non macina più chilometri inutili se non per spostamenti strategici, come la sua visita in Ucraina, all’inizio di maggio, in veste di emissario delle Nazioni Unite: «Ho potuto vedere con i miei occhi l’assoluta resilienza e la forza inimmaginabile di questa gente, che non solo sopravvive alla situazione di guerra, ma difende anche coloro che stanno intorno» afferma.

Angelina Jolie, oltre in cinema

È da molto tempo che il cinema non basta a riempire la vita di Angelina Jolie, star hollywoodiana e regista, 47 anni compiuti il 4 giugno, che dedica la maggior parte del suo tempo all’attivismo a favore dei diritti civili, personalità straordinaria che sembra aver scelto un sacerdozio umanitario che la porta senza sosta nelle zone di guerra. Angelina Jolie incuriosisce, affascina, magari confonde, ma nessuno può mettere in dubbio la sincerità e la coerenza del suo impegno di donna sul campo che ispeziona i campi profughi, interviene a Davos o fa appello alle istituzioni internazionali.

Agitatrice delle coscienze, è anche ambasciatrice di Guerlain, che l’ha resa la madrina di Women for Bees, un programma all’avanguardia sull’imprenditoria agricola femminile, che forma e sostiene le apicoltrici di tutto il mondo. Al centro c’è la biodiversità, ovviamente, ma soprattutto l’autonomia delle donne nelle regioni svantaggiate: sono stati installati alveari in Cambogia, il suo Paese del cuore, dove in parte risiede, sede della Maddox Jolie-Pitt Foundation, che opera anche per preservare l’ambiente e migliorare le condizioni di vita delle comunità rurali.

Il programma Women for Bees si rivolge alle donne, in genere prime vittime economiche di vicissitudini e sconvolgimenti globali.

Una questione di disuguaglianza, un problema eterno. In generale, non appena scoppia un conflitto da qualche parte, sono loro le prime a soffrire. In molte parti del mondo, le donne non hanno né il sostegno, né le libertà di cui dovrebbero godere. C’è una chiara necessità di porre questo problema sul tavolo, ma c’è anche, forse, un modo più delicato per porvi rimedio, introducendole a quei meccanismi che sono alla base di Women for Bees, la cui implementazione può, a cascata, beneficiare tutte le loro comunità. Ad esempio – e lo vedo nei Paesi poveri – insegnare loro competenze commerciali o in materia di scambio le renderà più autonome, aiutandole a creare le proprie reti. Le donne sono fragili, ma paradossalmente sono anche fonte di una forza straordinaria. Vede, all’inizio della pandemia, il 70 per cento dei caregiver erano donne… Il 70 per cento! Questa è la realtà, ed è una bella cosa: quando le donne hanno accesso a conoscenze, strumenti e opportunità, cosa fanno? Aiutano gli altri.

Come descriverebbe la parola sorellanza?

Donne che sostengono altre donne, si rispettano a vicenda, si emancipano. Donne che si aiutano. Tutte insieme, siamo più forti.

L’impegno in Cambogia

La Cambogia è il suo Paese del cuore. Qual è la condizione femminile laggiù?

Lavoro in Cambogia da circa vent’anni e la nostra fondazione raggiunge circa 20mila persone, garantendo loro accesso a cliniche e scuole. Inoltre, combattiamo contro la deforestazione. Dico “noi” perché, se è vero che sono la creatrice del programma, oggi questo è gestito a livello locale. È la popolazione che svolge il lavoro con successo. Donne giovani o anziane, lavoratrici forestali, lavorano fianco a fianco con uomini di buona volontà. È imperativo non solo aiutare le donne, ma anche rafforzare il legame con gli uomini. Per migliorare la collaborazione dobbiamo unirci.

Pensa che i ragazzi debbano essere educati in modo diverso per far sì che le donne possano realizzarsi meglio?

Sono una sostenitrice del principio “tutti insieme”. C’è sempre più bisogno che i ragazzi siano consapevoli delle questioni legate all’uguaglianza nei Paesi o nelle culture che presentano delle lacune in proposito. È assurdo che ancora oggi, in alcune zone del mondo, le donne siano crudelmente private dell’istruzione e della libertà. Ma la questione dell’educazione si pone al di là di ogni connotazione geografica o culturale, sorge in tutte le comunità e famiglie, in casa vostra così come nella mia. Ad esempio, io ho tre maschi e tre femmine, e ogni giorno scopro nuovi aspetti in ciascuno di loro. L’idea è che ognuno trovi il proprio posto indipendentemente dal sesso e che si realizzi con equità senza ostacolare la libertà dell’altro.

Vive parte dell’anno in Cambogia, avendone acquisito la nazionalità. Come è nata questa scelta?

Nessuno dei miei sei figli è nato negli Stati Uniti. I miei gemelli sono nati in Francia, mia figlia è etiope, i miei figli maschi sono vietnamiti e cambogiani, mentre Shiloh è venuta alla luce in Namibia. Il mio cuore è legato a diversi Paesi, e in particolare a quelli di nascita e di discendenza dei miei figli. Ma devo dire che la Cambogia è stato il primo Paese con cui ho stabilito un legame così forte. Ci ho vissuto e ho imparato a conoscere davvero la sua gente. È stato anche lì che mi sono sensibilizzata rispetto al problema dei rifugiati. Nella mia infanzia si parlava poco di popolazioni sfollate e non ricordo che le lezioni di storia lasciassero molto spazio a questo tema. Quando ho visitato la Cambogia per la prima volta nel 2000, non sapevo nulla del Paese e sono rimasta colpita dall’entità delle mie lacune. È stata una profonda presa di coscienza il fatto di capire cosa fosse realmente accaduto durante il conflitto e poi andare a incontrare i rifugiati. Vede, il luogo in cui ho fatto costruire la mia casa era una roccaforte dei Khmer Rossi. Era rimasto un bunker e il terreno era disseminato di mine. Tutto questo era molto lontano da ciò che mi era stato insegnato durante la giovinezza in America, sperimentarlo è stato per me sia un aggiornamento, sia un rimettere le cose in discussione. Amo il popolo della Cambogia con tutto il cuore. È stato mio figlio Maddox, il mio primogenito, a farmi diventare madre. È ho detto tutto.

Il suo impegno politico è accompagnato da un legame molto forte con la natura. Che cosa ne trae?

In mezzo alla natura mi sento in pace. Mi sento selvaggia e molto umana allo stesso tempo. Spesso devo constatare come tutto quello che non deriva dalla natura sia ciò che ci porta fuori strada.

Angelina Jolie e l’ecologia

Come è nata la sua consapevolezza ecologica?

Non sono cresciuta in un ambiente particolarmente ecologista, sebbene mia madre fosse cosciente di alcuni problemi: spesso citava le foreste vergini in pericolo, ad esempio, un argomento ancora attuale, ahimè. La mia coscienza ecologista si è davvero consolidata durante i miei primi viaggi in Cambogia. All’inizio pensavo principalmente ai bisogni umani, il che per me significava scuole e ospedali. Come dicevo, ho acquistato un terreno, l’ho sminato e vi ho costruito il mio quartier generale. Ovviamente è stato bello sminare e costruire scuole, ma questo implicava anche tagliare alberi e allontanare le tigri dal loro ambiente naturale. È stato in quel momento che ho capito che dovevamo pensare diversamente, in modo più globale. Capire che qualsiasi azione può avere un effetto devastante sull’ambiente. Quindi agire di conseguenza. Cercando di riconciliare tutte le comunità, bracconieri e silvicoltori, coloro che proteggono la foresta e coloro che costruiscono ospedali. Gli interventi pedagogici richiedono aggiustamenti costanti, ma sono convinta che la natura e gli esseri umani possano funzionare bene se sono in sintonia.

Cresce i suoi figli con questa idea in mente?

Penso che le nuove generazioni siano molto più consapevoli e attente di quanto non lo fossimo noi alla stessa età. Ovviamente, è facile angosciarsi per il futuro quando si vede l’inadeguatezza delle leggi o la lentezza dei politici nel far cambiare le cose. Da parte mia, faccio del mio meglio per educare i giovani con una prospettiva globale, ambiente incluso. Su questo tema sono anche co-autrice di un libro (Know Your Rights and Claim Them. A Guide for Youth – Conosci i tuoi diritti e rivendicali. Una guida per i giovani, ndr) che tratta i diritti dei bambini e dei giovani. Per quanto riguarda i miei figli, ho preferito non ripetere continuamente perché è importante pensare all’ambiente. Ho lasciato che se ne facessero un’idea da soli mentre crescevano, immergendoli in ambienti diversi, incoraggiandoli a fare amicizie con persone di culture diverse, in breve a vivere e provare quante più emozioni ed esperienze possibili. Credo che per loro la comprensione, il rispetto e l’apertura verso gli altri siano diventati concetti quasi naturali.

Quali sono i gesti ecologisti quotidiani in famiglia?

Vede, la mia principale preoccupazione riguarda i diritti umani e i diritti dei rifugiati. Non pretendo di essere un esempio di perfezione in materia di ecologia domestica, anche se mi impegno a migliorare. Prima, ad esempio, volavo molto in aereo e mi piaceva. Ora basta. Faccio solo voli mirati, vale a dire necessari e utili, per buoni motivi.

Come possiamo definirla? Ambientalista? Umanista?

Umanista, certo, ma soprattutto internazionalista. Credo che il mondo intero si debba unire in nome di un maggiore rispetto e di un supporto reciproco.

Richard Gianorio madame.lefigaro.fr / 2022 IO Donna

·        Angelina Mango.

La 21 enne al talent show di Maria De Filippi. Chi è Angelina Mango, la figlia d’arte ad Amici: “Un inferno la morte di mio padre, era tutto sotto le telecamere”. Vito Califano su Il Riformista il 3 Dicembre 2022

Angelina Mango ha 21 anni, è nata a Maratea, in provincia di Potenza. Ed è figlia d’arte: di Giuseppe detto “Pino” Mango e di Laura Valente, cantante e cantautrice per anni nei Matia Bazar. “Ho iniziato il liceo scientifico a settembre e a dicembre è morto mio padre. Aveva 60 anni. È stato pesante. Si è scatenato l’inferno nella mia mente in quel momento, perché poi era tutto sotto le telecamere“, ha raccontato la giovane.

Da quest’anno è entrata nella scuola di Amici di Maria De Filippi. E proprio ai suoi compagni ha raccontato il dramma, il trauma della morte del padre morto nel 2014 mentre si esibiva, stroncato sul palco da un infarto, accasciatosi mentre finiva il concerto al “Pala Ercole” di Policoro, in provincia di Matera. Stava cantando uno dei suoi successi più famosi: Oro.

Mango si era fermato, si era scusato con il pubblico e aveva fatto un cenno a un assistente. Sarebbe arrivato in ospedale già privo di vita. La figlia ha raccontato come la sua vita sia migliorata soltanto una volta a Milano, dove si è trasferita con il fratello e la madre, e dove ha conosciuto il fidanzato. Solo allora ha cominciato a stare meglio.

“Mi ha dato proprio la spinta per risolvere un sacco di problemi che avevo. Da lì è nato tutto, ho iniziato a dire basta, la vita è mia. Ok tutti i traumi, però sti cavoli. Uno non può vivere pensando a quello che ha vissuto, deve anche vivere qualcosa in più“. Ai colleghi del talent show la 21enne ha confessato di ascoltare ogni tanto le canzoni del padre, “se mi fa male no. È bello sapere che possa ascoltare la sua voce quando voglio, ma non è la cosa più importante che mi ha lasciato”.

La famiglia viveva e si era formata in Basilicata, terra d’origine del cantante. “Sono nata a Maratea, sul mare, vicino a Lagonegro, il posto dove ho vissuto fino ai 15 anni. Ho vissuto lì con la mia famiglia, eravamo in quattro. Famiglia di musicisti. Mio padre era un cantante, mia madre era una cantante. Ho iniziato a cantare in giro per casa e a parlare, insieme. Ho iniziato a fare musica perché c’era musica ovunque e quindi la facevo pure io, perché era un mezzo di comunicazione che usavamo a casa”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        Angelo Branduardi.

Angelo Branduardi: «Ho superato la depressione. Il sole è uscito dal nero». Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022. (Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale)

Il cantautore: «Sono crollato nel 2020, con la pandemia, vivevo segregato e ho perso 25 chili. La musica? Mi nauseava. Mi hanno aiutato i medici e mia moglie (che mi taglia i capelli). Ora voglio raccontarlo, con le parole giuste»

Possiamo cominciare con una domanda bizzarra?

«Certo».

Chi le taglia i capelli?

«Lo ha sempre fatto mia moglie Luisa Zappa. Non è una domanda banale: i capelli folti e ricci sono una parte importante di me. Ora però sono bianchi e, come mi ha spiegato un esperto, meno forti, un po’ svuotati».

Questa testa che ricorda un albero folto è stata parte del suo personaggio?

«Alla fine, lo è diventata. Ma, mi creda, non ho mai inseguito l’originalità sterile. Ogni passo che ho fatto è nato dalla volontà di non restare fermo. L’idea di continuare a fare “fiere dell’est”, con poche varianti, per tutta la vita, mi atterriva».

Lei nasce il 12 febbraio del 1950 a Cuggiono, nel Milanese. Perché poi la sua famiglia si è trasferita a Genova?

«Perché si andava dove papà trovava lavoro. Ma a Genova ascoltai per la prima volta il suono di un pianoforte. Fu subito attrazione. Però quello strumento era costoso e così la scelta di farmi studiare violino nacque anche da esigenze più pratiche. Mio padre conobbe un tramviere che si dilettava a fare il liutaio e me ne fabbricò uno. Ce l’ho ancora, è la copia di un Guadagnini, bellissimo».

Senza quel tramviere genovese oggi non avremmo avuto brani come La pulce d’acqua ? Sono cose che affiorano dalla sua autobiografia Confessioni di un malandrino , pubblicata da Baldini + Castoldi, scritta assieme a Fabio Zuffanti.

«Questo non lo so. Di certo, il violino per me fu una svolta. Mi mandarono a studiare con un maestro molto bravo, Augusto Silvestri. Un giorno, mentre eseguivo Vivaldi, mi disse: “Tu suoni come un cinquantenne”. Voleva dire che avevo preso così tanta dimestichezza con lo strumento da perdere l’innocenza».

Una volta lei ha detto che il violino, a un certo punto, “si suona da solo”. Che vuol dire?

«Difficile spiegarlo a chi non lo suona. È uno strumento vivo, che sembra assorbire i nostri gesti. Io sono cresciuto con il violino anche se, quando ci trasferimmo a Milano, il mondo era cambiato. Si parlava di musica ribelle, c’erano i primi cantautori. Il violino pareva una cosa del secolo prima e così lo misi da parte per anni. Ma la musica mi è sempre venuta naturale. Quando cominciai a viaggiare per l’Europa una volta, ad Arles, avevo finito i soldi. Mi misi a suonare per strada col piattino».

È vero che lei si ritrovò a vivere la Primavera di Praga del 1968?

«E anche l’arrivo dei carri armati sovietici. Cercavo di parlare con i soldati ma evidentemente non ero credibile e così venni persino arrestato. Per fortuna finì bene, ma ancora oggi faccio fatica a definire il mio rapporto con la politica. Negli anni più caldi della contestazione, quando dovevi per forza schierarti, più volte mi hanno dato del qualunquista, ma senza troppa enfasi. Per capirci, non ho subìto processi come quello che fecero a Francesco De Gregori. Tutt’al più, in uno dei famosi concerti del Parco Lambro, negli Anni 70, mi ignorarono. Questa gliela devo raccontare: una volta ci mettemmo a suonare e, alla fine, nulla. Nemmeno un “ba”. Rifacemmo tutto una seconda volta e niente. Ce ne andammo senza capire come scegliessero i bersagli della contestazione».

Branduardi, la sua è stata una carriera in salita. Anni di gavetta.

«Di pasti inesistenti, letti di fortuna, macchine da spingere per arrivare in posti dove non eri nemmeno certo che ti avrebbero pagato. E tante volte non sono stato pagato. È vero, all’inizio non è stato facile, però ho sempre coltivato la coerenza. Il primo disco, quello che conteneva la versione originaria di Confessioni di un malandrino, non vide mai la luce. Restò un disco fantasma. Il successo arrivò soltanto con Alla fiera dell’Est e con i pezzi che poi finirono sulla bocca di tutti. Ma io, per dire, sempre agli inizi feci La luna, che conteneva suggestioni musicali etniche, come i flauti della Melanesia».

Il ruolo di Luisa Zappa, sua moglie?

«Luisa è la persona che scrive i miei testi, una figura importantissima dunque non solo sul piano personale. È una donna colta, curiosa, che legge tanto. Lei è anche la custode della enorme biblioteca che abbiamo in casa. Nel mio percorso Luisa c’è sempre stata perché la mia musica è una continua ricerca».

Poi finalmente arriva il successo. Brani come Cogli la prima mela conquistano anche il pubblico all’estero. Arrivano i grandi concerti, i palchi giganteschi, le scenografie stellari. Eppure, sul più bello, lei decide di fare un passo indietro.

«Proprio così. Un esempio: ho fatto un album mettendo in musica dieci poesie di Yeats adattate da Luisa. Ricordo anche il momento in cui capii che la megalomania non faceva per me: alla Fête de l’Humanité, 1980, 120 mila paganti. Tornai ai teatri, alle cose più piccole, alla riflessione. Un passo che molti definirono suicida, ma che ci posso fare se ho sempre cercato un’evoluzione».

Forse quel “pizzino” quel bigliettino che le fece scivolare sul banco Franco Fortini, che era suo professore alle superiori, le è rimasto dentro.

«Recitava: Non perdetelo il tempo ragazzi/ non è poi quanto si crede./ Date anche molto a chi ve lo chiede./ Dopo domenica è lunedì. Un verso sul tempo, sul rapporto con gli altri, sulla generosità e sul saper guardare al futuro».

Branduardi, per la prima volta lei sceglie di parlare della sua depressione. Un fatto privato che lei ha affrontato con grande dolore. Ce ne parla?

«Io ho chiamato questo male “il sole nero” perché quello che ho provato è stato proprio un totale anneramento della luce. Come se la luce non riuscisse più ad arrivare a me. Vorrei essere sincero e chiaro su questo punto, perché ho imparato che le parole da rivolgere alle persone che ne soffrono sono importanti e vanno calibrate. Intanto, nella mia famiglia c’erano stati, in passato, episodi simili, ma all’epoca queste persone venivano catalogate come “picchiatelli” e, come è accaduto a una mia zia, ricoverati in manicomi terribili. Oggi per fortuna abbiamo sensibilità, cultura e strumenti medici. Io sono crollato nel 2020, nell’anno della pandemia. Per molti mesi, anche dopo l’allentamento delle misure, non ho nemmeno messo piede in giardino, vivevo segregato, avevo dentro il vuoto totale. Ho dovuto disdire degli impegni, ho annullato cose che mi avrebbero fatto comodo per la carriera».

E la musica? Non le era di conforto?

«Al contrario ed è questa la cosa più dolorosa: il solo ascoltare musica, cioè la mia vita, mi dava la nausea. Nulla aveva più senso, nemmeno le cose che più mi piacciono e quella certezza era terribile. Ho perso venticinque chili e meno male che Luisa mi è stata accanto, perché è difficile avere a che fare con chi soffre di depressione. Si tende a liquidare la cosa rivolgendogli frasi come “non essere triste, hai tutto quello che potresti desiderare”, senza rendersi conto dell’effetto dannoso che sortiscono queste parole».

E come ne è venuto fuori?

«Prima di tutto leggendo tutto quello che ho trovato sull’argomento. Poi facendomi seguire dai medici. Le medicine in questo caso sono importanti e non vanno demonizzate. Oggi sto bene, non prendo più psicofarmaci, solo uno stabilizzatore dell’umore».

Branduardi, lei ascolta i vari generi di musica oggi popolari, come la trap?

«Guccini una volta ha detto che “certa musica non è brutta, ma è inutile”. Io sono uno che nella sua carriera ha sempre cercato strade nuove e dunque ben vengano le novità e le sperimentazioni. Ma mi intristiscono le musiche facili, troppo facili. E certe canzoni omofobe o misogine, quelle dei rapper, mi fanno davvero incazzare».

Oggi è più difficile avere successo?

«Guardi, le dico solo che non vorrei mai essere un debuttante oggi. Una volta si diceva che con il primo disco si andava in perdita, col secondo a pari e con il terzo ci si rifaceva. Ma il tempo che veniva concesso, in genere, era di almeno cinque anni. Oggi non è più così. Se non hai successo subito sei finito. Si fa un brano e devi immediatamente diventare un fenomeno. Con la musica ma anche con le apparizioni mediatiche».

Le critiche in passato l’hanno ferita? E qual è quella che le ha fatto più male?

«Un comico che, a un evento di poesia, mi si avvicinò e mi disse: “Non capisco che cosa ci faccia tu qui”. A me?»

A lei, il trovatore italiano.

«Grazie per aver detto trovatore e non menestrello. Lo so che in molte cose i due termini si assomigliano, però io preferisco il primo».

Dagospia il 9 maggio 2022. Estratto del libro Confessioni di un malandrino. Autobiografia di un cantore del mondo di Angelo Branduardi con Fabio Zuffanti, prefazione di Stefano Bollani (Baldini + Castoldi)

Mentre la mia musica conquistava l’Europa, in Inghilterra e negli Stati Uniti stava esplodendo uno stile decisamente diverso: il cosiddetto punk. Di quel movimento mi piacevano molto i Ramones, band di rock “duro e puro”, essenziale, un po’ come i miei amati Stones. Il biennio 1977-78 è stato anche quello della disco music, nella quale trovavo cose interessanti, vedi Barry White e i suoi fantastici arrangiamenti di archi, oppure Donna Summer e il famoso Munich sound di Giorgio Moroder, un grande musicista di cui mi piacque tantissimo la colonna sonora del Metropolis di Fritz Lang. 

In quel periodo ascoltavo anche i Kraftwerk e prima di questi mi avevano colpito band come Tangerine Dream e Popol Vuh. La musica elettronica mi ha sempre interessato e reputo Sonic Seasonings di Walter Carlos (che poi è diventato Wendy) un vero capolavoro, un doppio album, tutto suonato con il Moog, che mi aveva fatto conoscere Paul Buckmaster.

A Los Angeles con i Red Hot Chili Peppers

Con tutta questa musica che girava intorno, io mi apprestai al passo discografico successivo e per registrare il nuovo album, Cogli la prima mela, andai in Germania, a Monaco di Baviera. A ripensarci, mi rendo conto di quali anni frenetici fossero quelli, da un disco di successo a un tour europeo tutto esaurito non mi fermavo un attimo e non smettevo di imparare cose nuove, anche rispetto alle tecniche di registrazione. La scelta di Monaco di Baviera fu messa in campo proprio perché volevo un disco perfetto dal punto di vista sonoro. 

Devo infatti confidarvi che io sono da sempre appassionato di tecniche di registrazione e che, per apprenderle al meglio, mi recavo spesso negli studi di Plinio Chiesa, il fonico di parecchi miei dischi, solo per imparare. Andavo in incognito (era semplice, bastava mi facessi la coda), mentre magari stavano lavorando altre persone, e osservavo tutto per carpire ogni segreto di quell’arte. 

Un giorno però rischiai di essere scoperto, a riconoscermi fu addirittura Raul Casadei, il quale chiese se per caso non fossi Branduardi. Gli fu risposto: «Si figuri se Branduardi viene qui a perdere tempo». Fu molto divertente. Così imparai a microfonare gli strumenti e a usare il mixer, a un certo punto diventai anche piuttosto bravo, posso dirlo senza falsa modestia, infatti la versione in francese di Cogli la prima mela la mixai da solo e spesso nei miei dischi ho affiancato il fonico durante i mixaggi. Mi sono fatto una cultura su tutto quello che era analogico, sui mixer che costavano magari un miliardo di vecchie lire, sui nastri da due pollici o da un quarto di pollice, sul Dolby, l’effetto di riduzione del rumore, sui compressori, le frequenze e gli equalizzatori. 

Erano tutte cose che mi appassionavano moltissimo. Con la rivoluzione del digitale, poi, sono diventato un po’ meno bravo, anche perché avrei dovuto ricominciare da capo a studiare. In ogni caso manovro ancora bene il mixer e sono conosciuto nell’ambiente come uno dei pochi musicisti ad avere un bagaglio tecnico non indifferente e una grande «paletta», come si suol dire, un ottimo orecchio: distinguo bene le frequenze, so quando tagliare o aggiungere e normalmente ci becco sempre. Ho anche uno studio privato tutto computerizzato, a parte il mixer che è per metà analogico e mi serve per suoni come il basso, la batteria o le chitarre acustiche, per i quali è imbattibile. 

Poi conservo un cimelio: uno Studer a due piste ancora perfettamente funzionante, una macchina fantastica che tengo con grande cura, il miglior registratore che sia mai stato costruito. Il mio antro sonoro è piazzato in una delle case in cui abito. Dico “case” perché c’è quella in cui viviamo io e Luisa e un’altra, nel giardino immerso in un ampio bosco, nella quale si trova appunto lo studio. Queste abitazioni sono state realizzate, su disegno di un architetto canadese, dalla Ille, una ditta del Trentino specializzata nella tecnologia del legno. Arrivai a loro dopo una lunga ricerca e da più di venticinque anni ci lega un’amicizia solida quanto le case che hanno costruito per noi.

Al Country Lane Studios di Monaco, dove fu realizzato Cogli la prima mela, possedevano un costosissimo Solid State Logic, il primo mixer automatizzato in Europa, con il quale potevi memorizzare i mixaggi. Oltre a usufruire di questi ritrovati tecnologici, rimasi stupito dalla bravura dei musicisti dell’orchestra sinfonica della radio bavarese: furono fantastici, così come il quartetto arabo che avevamo portato dal vivo. Nel disco c’è uno dei miei pezzi più celebri: Il signore di Baux, una canzone sul potere che è stata la sigla di inizio e fine delle trasmissioni della radio nazionale francese. 

Il castello di Les Baux-de-Provence – situato nell’omonima cittadina nei pressi di Avignone – sorge in cima a un cucuzzolo che domina il paesaggio e ha una storia molto strana: da un momento all’altro tutti i suoi abitanti sono spariti senza lasciare traccia. È una leggenda oscura, inquietante, così come la musica che ho scritto ispirandomi a questa vicenda, con un bellissimo giro di basso inventato da Gigi Cappellotto che crea una pulsazione nervosa, tesa. Di Cogli la prima mela mi piace ricordare anche il brano finale, Ninna nanna – che è diventato un grande successo nella versione in francese, L’enfant clandestin – e la canzone che titola l’album, la terza in tre anni ad arrivare in cima alle classifiche.

Cogli la prima mela divenne il mio disco più venduto, pur ricevendo delle critiche contrastanti. Del resto tutto si perdona, fuorché il successo. Con me la critica non è mai stata particolarmente tenera, solo in anni recenti la situazione si è ammorbidita e sento di essere compreso meglio in ciò che faccio, prima ero visto sempre un po’ come quello delle filastrocche, dei palchi faraonici… e, a proposito di palchi, come non ricordare quello immenso della Fête de l’Humanité, all’aeroporto di Bourget, a Parigi, nel 1980? Con più di centoventimila persone, decine di telecamere, schermi, enormi gru, non so quante migliaia di metri quadri di palco disegnato dal celebre architetto Oscar Niemeyer. In quel contesto mi sentii schiacciato da tanta imponenza, minuscolo… col senno di poi posso dire che quell’esibizione è stata l’inizio di una svolta. Finito il concerto, uscimmo stremati e facemmo le foto con i dischi d’oro e di platino che avevamo vinto in Francia, c’erano anche Luisa e Sarah, che era piccolissima e si era addormentata sui bauli per gli strumenti. Tante cose, tanto successo e tanta grandezza.

Io però a un certo punto, sarà stato anche l’avvicinarsi dell’età matura, iniziai a capire che non mi sentivo più del tutto a mio agio negli stadi strapieni, con tutte quelle ovazioni, quelle centinaia di concerti con numeri pazzeschi. Prima ero solito sfogare tutta l’energia con corse, salti, capriole, poi cominciai a sentire il bisogno di situazioni più a misura d’uomo. 

Anche il mio modo di interagire sul palco cominciò a stancarmi, avvertivo che dietro tutto questo c’era una sorta di isteria, non lo sentivo più affine a quello che ero. Quando fai quei superconcerti, ogni scenografia, ogni gesto deve essere accentuato. Ecco perché mi viene da chiamarla isteria, era tutto troppo esagerato. Pensavo non ci fosse bisogno di quaranta luci, che i gesti potessero essere meno marcati, meno evidenti.

In occasione del concerto a Parigi successe anche una cosa piuttosto inquietante: il pomeriggio prima dell’esibizione ero con Luisa e a un certo punto si avvicinò una ragazza molto dolce ed educata che chiese se c’era modo di avere un biglietto. Vista la buona impressione che ci aveva fatto, la facemmo entrare e le permettemmo di assistere al soundcheck, con evidente gioia da parte sua. Poi non la rivedemmo più. Dopo qualche mese, una sera che ero a casa, sentii suonare il campanello, erano passate le ventuno e mi chiesi chi potesse essere a quell’ora.

Andai ad aprire la porta e mi trovai di fronte quella stessa ragazza. Rimasi sbigottito e le chiesi cosa facesse lì. Lei mi disse che aveva lasciato la Francia per venirci a trovare con il proposito di diventare una sorta di governante, occuparsi di Sarah e del giardino, che all’epoca era grande tre metri per tre. Il mio stupore, misto a una certa preoccupazione, crebbe sempre più. Le dissi che non sarebbe stato possibile, che Luisa voleva badare da sola alla bambina e che al giardino ci potevo pensare io. A quel punto lei tirò fuori un coltello a serramanico, se lo mise sul polso e mi disse: «Adesso voglio vedere cosa fai». 

Con grande sangue freddo dissi a Luisa di prendere Sarah e di andare al piano superiore, dopodiché cercai di calmare la ragazza e rimasi a parlare con lei fino almeno alle cinque del mattino. Per tutto il tempo il coltello rimase sul suo polso. In quelle ore mi raccontò di abitare a Pau, un paese distante una ventina di minuti da Lourdes, e di avere un figlio che si chiamava, pensate un po’, Parsifal, che aveva dato in affido a una famiglia. Dopo averla a lungo ascoltata, riuscì a convincerla a uscire di casa e a venire in macchina con me fino all’aeroporto. Lei acconsentì e quando arrivammo scoprii che da lì a poco ci sarebbe stato un volo proprio per Pau. Le comprai quindi un biglietto, ma lei a quel punto ricominciò a dare in escandescenze con tutta la gente che ci guardava. Alla fine riuscii a farla imbarcare e da quel momento non l’ho mai più rivista. Un’avventura conclusasi positivamente, per fortuna, che testimonia il tipo di fanatismo che si era creato intorno alla mia figura. 

Tempo dopo successe anche un altro fatto, questa volta più divertente: una mattina ero a casa e sentii i cani abbaiare. Uscii fuori e vidi un camper. All’interno riconobbi un uomo che avevo incontrato sempre in Francia, a Lille, vicino al confine col Belgio. Il tipo se ne stava tranquillo con una canna per l’acqua in mano e mi disse: «Sai, abbiamo deciso di passare le vacanze qui da te». Senza scompormi gli feci presente che, se non fosse andato via subito, avrei chiamato i Carabinieri. Tornò al suo camper, mise in moto e partì immediatamente.

Queste sono tra le più eclatanti, ma mi sono capitate decine di storie con fan che non si accontentano dell’incontro ai concerti ma vogliono entrare nel tuo privato, prendere quasi un pezzo di te. Recentemente uno è addirittura riuscito a introdursi in una chat privata tra Luisa e le nostre figlie, non so assolutamente come abbia fatto… sono situazioni inquietanti da parte di persone evidentemente disturbate, che travalicano l’amore per un artista. Amore che per fortuna la maggior parte dei miei estimatori mi ha sempre dimostrato in maniera educata, infatti ho un rapporto bellissimo col mio pubblico. 

Il periodo di Cogli la prima mela va ricordato anche per l’incontro con il manager di Frank Zappa. Questi era convinto che io potessi sfondare negli USA e mi offrì di trasferirmi lì per almeno cinque anni, durante i quali avrebbero pensato loro a tutto: alla casa, alla scuola per Sarah, alla macchina… io però non ho mai rincorso il sogno americano, l’american way of life, non mi interessava essere parte di quella società e di quella mentalità. Per cui rifiutai.

Una cosa che invece accettai immediatamente fu la partecipazione al grande concerto a Milano, che sarebbe dovuto servire a raccogliere fondi per le cure di Demetrio Stratos. Io non seguivo molto gli Area, ma ho sempre riconosciuto in lui un grande talento. Demetrio era uno che riusciva a fare bicordi, tricordi addirittura, con la voce. Un vero virtuoso e uno studioso del canto, un caso unico. A Milano suonammo io e Maurizio da soli, ricordo grande partecipazione da parte del pubblico in un’occasione che mosse tanti musicisti, per una volta tutti uniti per cercare di aiutare un amico malato. Purtroppo Demetrio non ce la fece e il concerto si trasformò in un sentito tributo a questo grande artista. 

Nel 1980, in un momento interlocutorio che anticipava grandi cambiamenti, uscirono altri due dischi che in qualche modo misero il punto su diverse cose. Il primo è Concerto, un triplo album dal vivo registrato rigorosamente su due piste, senza alcuna sovraincisione, senza trucco e senza inganno, comprimemmo solo un po’ il suono per renderlo più potente. Dal disco fu tratto anche un film, diretto da Dory Zard, che i distributori avrebbero voluto chiamare Cogli la prima mela, cosa che a noi non andava. Per cui lo distribuimmo autonomamente solo per pochi giorni in parecchie città italiane, un po’ come si fa oggi. 

Non era un banale film sui concerti, anche se gli spezzoni live non mancavano, era soprattutto un documentario su tutto ciò che avveniva dietro le quinte, voleva mostrare il grande lavoro per ogni singola esibizione, i viaggi, le prove, i rapporti interpersonali. Testimoniava inoltre i preparativi del concerto che avevamo organizzato a Villa Doria Pamphili. Questa esibizione fu però impedita dal maltempo: pioggia e vento incredibili che addirittura piegarono le strutture in ferro del palco. Così ci trasferimmo in fretta e furia al teatro Tenda a Strisce dove riuscimmo a suonare, con grande disappunto delle migliaia di persone che non ce la fecero a entrare. 

Pochi mesi dopo arrivò anche Gulliver, la luna e altri disegni, che è la ristampa de La luna con una nuova copertina e un brano in più, Gulliver, genialmente arrangiato da una vecchia conoscenza: Paul Buckmaster. A lui si deve l’idea del ritmo, del battimani e del tamburo etnico. Ricordo che, in occasione del nostro incontro, Paul rimase molto stupito: mi aveva lasciato acerbo esordiente e mi ritrovava alle prese con grosse difficoltà a camminare per strada, visto che tutti mi riconoscevano.

In Gulliver, la luna e altri disegni approfittai per remixare i brani de La luna ricantandone alcuni e cambiandone l’ordine. A conti fatti non saprei dire se la versione originale del disco sia più bella, forse sì. O forse sono belle entrambe, la prima più crepuscolare (complice anche la copertina notturna), la seconda più aperta nei suoni e un poco più solare. Due facce della stessa medaglia, e forse anche del mio carattere.

Da liberoquotidiano.it il 4 aprile 2022.

Angelo Branduardi ospite di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno nella puntata di oggi 4 aprile ricorda che da bambino, in una Genova "poverissima ma felicissima" era molto attirato e incuriosito dalle prostitute che vedeva in alcuni quartieri della città mentre se ne stavano ore e ore in piedi agli angoli dei marciapiedi. Racconta anche che la mamma gli aveva spiegato più o meno chi fossero, ma un giorno lui scappò letteralmente di casa per raggiungerle: "Ero con loro, a chiedere cosa facessero. Da quel momento sono diventato la loro mascotte".

Poi il cantante parla anche della depressione: "Il consiglio è di cercare un bravo medico. Io ne sono uscito, sono vivo e vegeto". Branduardi ha quindi presentato in studio la sua autobiografia "Confessioni di un malandrino", che contiene tutta una serie di aneddoti sulla sua vita, da quando cominciò a suonare il violino a 5 anni a quando ha sentito il desiderio di esibirsi in pubblico ascoltando Domenico Modugno. 

"La Fiera dell'Est", poi è stata la canzone degli anni Settanta entrata nel repertorio popolare italiano che lo ha reso celebre. Un successo inatteso perché il brano era il lato B di un altro singolo. I discografici gli dissero: "Avete in mano una bomba e non lo sapete".

Flavio Vanetti per il "Corriere della Sera" l'1 gennaio 2022.  Il suo piccolo Canada è a Bedero Valcuvia, paesino incastonato nell'Alto Varesotto: casa in legno, calore e pace; qui, da 25 anni, Angelo Branduardi crea musica. «Mia moglie Luisa voleva avvicinarsi ai genitori. Ci siamo trovati bene e non ci siamo più mossi». 

È una terra di leggende. Come quella di San Gemolo: «I celti invasori lo decapitarono, lui corse a Varese con la testa sotto il braccio, avvisò del pericolo e tornò indietro rimettendosi nella tomba. Ho raccontato la storia in una canzone». 

La cultura celtica trasformata in musica pop: «Non ho certo l'esclusiva, ma ho partecipato spesso al Festival interceltico di Lorient, sono amato in Bretagna, sono amico di Alan Stivell. Infine ho usato le cornamuse irlandesi: caratterizzano il "Dito e la luna", l'album i cui testi avevo affidato non a Luisa, come al solito, ma a Giorgio Faletti, un caro amico che non c'è più».

Si sente un menestrello come lo fu Dario Fo?

«Magari... Paragonarmi a Dario è un onore, anche se mi hanno sempre identificato così. D'altronde c'è la poetica frase di un anonimo tedesco dell'anno Mille: "Io sono il trovatore e sempre vado per molti paesi e città. Ora sono arrivato fin qui: lasciate che prima di partire io canti". È quello che ho fatto per quasi 50 anni».

Ha avuto modo di frequentare Fo?

«L'ho conosciuto a Roma. Un amico mi ospitava gratis nel suo alberghetto e per sdebitarmi facevo il portiere di notte. In varie occasioni Dario è arrivato assieme a Franca Rame. Di Fo ho visto molti spettacoli e ho una raccolta, regalata, di sue stampe». 

Il Medioevo e il Rinascimento sono ancora attuali?

«Più che mai. Con la pandemia viviamo una nuova peste. Al Medioevo si dà un'immagine sbagliata: non è stato un periodo buio, ma il primo passo verso l'Umanesimo e il Rinascimento. Speriamo che l'Umanesimo, con l'uomo inserito nella Natura, ritorni al termine di questa peste». 

Si sente influenzato più dalla scuola milanese o dai cantautori genovesi?

«Dicono che non appartengo ad alcuna scuola e che nemmeno ne ho fondata una. Sono un caso a parte, come lo fu Franco Battiato». 

Contatti e diversità con lui?

«Le due musicalità sono differenti. Battiato aveva una carica caustica che io non ho, anche se sul palco sono ironico. In comune ho la spiritualità della musica. Con Franco ho duettato nel disco dedicato a San Francesco. Gli dissi: "Ti devo far cantare un motivo". Non chiese di sentirlo o di leggere le parole. Andai da lui e dopo 10 minuti era nato il "Sultano di Babilonia"». 

La musica è solo spiritualità?

«No, è pure "carne" ed è l'unica attività che concilia il diavolo e l'acqua santa. Ennio Morricone, con cui ho avuto l'onore di lavorare, diceva: "La musica è l'arte più astratta ed è la più vicina all'assoluto". Pensava a Dio, ma si può intendere altro». 

Chi sono, per Branduardi, i giganti della musica leggera?

«Stimo tutti i coetanei italiani; gli idoli erano però Joan Baez, Bob Dylan, Cat Stevens, Paul Simon. Oggi ascolto Bach, ma anche Bruce Springsteen».

I suoi sono messaggi mistici e non violenti. Ma spesso un po' rivoluzionari.

«I bambini scoprirono "Alla Fiera dell'Est" mesi dopo la sua uscita. Mentre tutti cantavano di politica, io uscivo con una canzone profondamente religiosa, violentissima, dove tutti ammazzano tutti e dove Dio è uno sterminatore. Questa è una provocazione rivoluzionaria». 

Nato a Cuggiono, subito «esportato» a Genova.

«Sono arrivato neonato. Ero un "vicolaro", la casa era piena di trappole per topi e di scarafaggi. Però ero un principino e ho avuto un'infanzia lieta, anche se in un periodo mi sono ammalato ai polmoni, come Chopin, e sono stato ricoverato al Gaslini».

A Genova ha cominciato a suonare il violino.

«A 4 anni. Volevo il pianoforte, però non c'erano spazio e soldi. Mio padre, un melomane che non sapeva suonare nulla, mi portò da Augusto Silvestri, mitico insegnante di violino. Costui aprì la scatola e fui fulminato dal colore e dall'odore di cera dello strumento. Nel quartiere diventai popolare: per venirmi a sentire si spostavano perfino le prostitute, causando scandalo». 

Non ha mai pensato di diventare un Salvatore Accardo?

«Non ho avuto quel talento: ho sempre ritenuto che sarei stato al massimo un ottimo primo violino. Certo, delusi papà». 

Come ha trovato la sua strada?

«Per caso: suonavo a Milano, nelle sessioni degli altri. Giravo, pagato 20 mila lire o niente, con una 500 scassata che mi piantava in asso: era piena di strumenti; dentro l'auto dormivo pure, non avevo i soldi per l'albergo».

Una gavetta dura.

«Durata anni: ero a supporto di tutti, anche Pfm, Banco Del Mutuo Soccorso, Le Orme. Dopo Il Rovescio della Medaglia, gruppo hard rock, entravo io con le "Confessioni di un malandrino" e la gente ammutoliva. Ho sempre saputo dominare il palco, ho imparato a gestire le situazioni degli anni 70: ti arrivavano addosso le zolle di terra nei festival pop. E in uno di questi, a Villa Doria Pamphilj, conobbi Battiato». 

Sergej Esenin, Dante, William Yeats: i suoi poeti.

«Ma lo sono anche Sandro Penna o Franco Fortini, il mio maestro. Preferisco la poesia al romanzo, al racconto, alla saggistica. La poesia è simile alla musica: è una freccia che ti coglie e ti stravolge. Però Fortini ci fece studiare «I promessi sposi» perché li riteneva un capolavoro assoluto: mi svelò che la traduzione inglese fu curata da Edgar Allan Poe». 

Ha lavorato con Paul Buckmaster, l'arrangiatore di Elton John e David Bowie. Ci pensa? «Paul venne per 1000 sterline a settimana dopo che gli avevo scritto una lettera lunga e mandato una cassetta con i pezzi. Quando andai all'aeroporto capii che la cassetta non l'aveva mai sentita: ma era stato convinto dalla lettera». 

«Alla Fiera dell'Est» oppure «Cogli la prima mela»: quale brano è il simbolo di Branduardi?

«Alla Fiera dell'Est. Ormai non mi appartiene più. È patrimonio popolare, sarò ricordato perché i bambini di oggi la insegneranno ai figli. Ovviamente nessuno di loro sa chi è Branduardi...».

Avendone cantato la vita, le sarebbe piaciuto essere San Francesco?

«Non oserei mai... Però sì, mi sarebbe piaciuto. Nella perfetta letizia». 

Hobby, curiosità e debolezze di Branduardi?

«Di debolezze ne ho avute tante: gli artisti sono un po' trasgressori. L'unico hobby che ho avuto è la vela: non yacht, ma derive da regata. Ero bravo, conto di ricominciare anche se il lago mi mette un po' di angoscia». 

Da ragazzo che cosa canticchiava?

«Fui colpito dai Beatles e da "She Loves You". Ma non la cantavo: ero tenuto dentro gli schemi della musica classica, che insegna molto, ma toglie qualcosa. Per esempio, non so improvvisare, né sul violino, né sulla chitarra, né sul pianoforte. E non so perché». 

«Kyrie Eleison» è una preghiera laica?

«L'ho scritta pensando che fosse un grido di dolore. È in sol minore, tonalità triste. Alla fine, per non incitare al suicidio, ho messo un sol maggiore, tonalità di ampiezza e di speranza. La gente, su 6 minuti, ha colto quei 10 secondi più che il resto: così è stato preso come un canto di speranza».

 Il «dopo» e la morte meritano un brano ad hoc? "Non ci ho ancora pensato. Ho parlato tanto di morte, ma in termini di vita. Nel "Ballo in fa diesis minore" dico: "Vieni qui con la tua falce, che un giro di danza e poi un altro ancora del tempo non sei più signora". Il tempo sconfigge le paure». 

Perché ha dedicato un progetto, «Il cammino dell'anima», a Ildegarda di Bingen, una monaca?

«Cercavo una donna che avesse scritto musica nel passato e mi sono imbattuto in un gran personaggio dell'anno Mille: parlava con gli imperatori, era medico, dietologa, protofemminista e ha introdotto il luppolo nella birra. L'ultimo brano, "Generosa", pare un'aria romantica: quindi Ildegarda ha visto molto avanti». 

La colpisce il successo dei Måneskin?

«Sono bravi. Suonano un sano e vecchio rock and roll, ci sta che abbiano successo».

Si orizzonta nel mare di Internet e dei social?

«Comincio a temerlo un po': ho visto il film di Pif, che è un genio, contro la dittatura dell'algoritmo. Ecco, sono per un utilizzo "umano" e utile della rete e dei suoi derivati». 

Il rap e l'heavy metal hanno creato un altro filone, un po' come ha fatto la dodecafonia rispetto alla musica classica?

«Sì, anche se la dodecafonia, sottolineo, non ha portato a nulla: Schönberg prima di morire disse: "Quanta bella musica ci sarebbe ancora da scrivere in do maggiore». Comunque nel pianeta del rap ci sono motivi molto belli: un altro che considero bravissimo è Eminem». 

Branduardi avrebbe potuto avere ancora più spazio al cinema?

«Non mi lamento: ho contribuito a vari film, ho avuto premi, in Momo recita un maestro quale John Huston. Reputo la colonna sonora di "State buoni se potete" una delle mie cose più belle».

Non ha mai voluto andare a Sanremo: perché?

«Semplicemente, non mi ha mai interessato. Rilancio un concetto formulato da De André: l'ugola non è un muscolo».

La capigliatura folta e riccioluta è un'icona di Branduardi?

«Indiscutibilmente sì: l'hanno sempre curata delle parrucchiere».

Le sarebbe piaciuto fare altro nella vita?

«No, non so nemmeno avvitare una lampadina...».

·        Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz.

Estratto dell’articolo di Erika Chilelli per “il Messaggero” il 6 settembre 2022.

[…] Sguardo sereno, portamento sicuro e labbra tinte di rosa, a completare il look total black un paio di occhiali da sole e due borse di Louis Vuitton. Si è presenta così in aula l'imprenditrice e cantante Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, che nell'aprile del 2021 era finita in carcere nel filone romano dell'inchiesta Petrol Mafie e per la quale ora l'accusa ha chiesto 14 anni di reclusione.

Lo Scico della Guardia di Finanza ha ricostruito un complesso meccanismo di frode fiscale nel settore degli oli minerali, che aveva portato all'emissione di 70 misure cautelari e al sequestro di beni per oltre un miliardo di euro. 

Al centro delle indagini condotte dalle Procure di Roma, Catanzaro, Napoli e Reggio Calabria è finita la Max Petroli (ora Made Petrol Spa) - società petrolifera che la Bettz ha ereditato dal defunto marito Salvatore Di Cesare che secondo gli inquirenti riciclava il denaro di camorra e ndrangheta. 

I pm hanno formulato le richieste di condanna anche per gli altri imputati che hanno scelto il rito abbreviato, tra cui il nipote Filippo Bettozzi e la figlia Virginia Di Cesare, per i quali sono stati sollecitati rispettivamente 9 e 10 anni di reclusione.

[...] in soli 36 mesi l'imprenditrice prodigio Anna Bettozzi era riuscita a far lievitare i conti della Max Petroli, creatura del suo defunto marito, passando da 9 a 370 milioni. Un'impresa mastodontica che l'ex cantante della scuderia di Lele Mora ha ricondotto spesso ai suoi rapporti con gli ambienti politici.

Eppure la rifiorita e nuova Made Petrol Spa, affidata alla direzione della figlia Virginia Di Cesare, ha destato i sospetti delle Fiamme Gialle che indagavano già sui rapporti tra mafia e settore degli oli minerali. 

Fondamentali le intercettazioni telefoniche in cui la Bettz si vantava con la sorella di «avere dietro la camorra». Così, secondo gli inquirenti, l'imprenditrice riciclava i soldi di Antonio Moccia, boss dell'omonimo clan camorristico. 

Tra queste attività vi è la pubblicità del 2019 in cui è stato testimonial l'attore Gabriel Garko pagato a sua insaputa - secondo la Procura di Roma - proprio attingendo alle liquidità donate dai boss.  […] L'esito del processo a carico della Bettozzi, che ha proclamato la sua innocenza fin dall'inizio, è previsto per la fine di ottobre.  

Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” l'11 aprile 2021.

I Casamonica sono stati messi in fuga dagli "amici", dalla famiglia mafiosa dei Moccia. Lady petrolio ha potuto godere della protezione della cosca di Afragola trapiantata a Roma. E grazie ai capitali della camorra l'impero petrolifero ereditato dal marito ha potuto superare la crisi di liquidità. Ma dal carcere di Teramo adesso Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, rispedisce le accuse al mittente. «Ho commesso degli errori e sono pronta a pagare, ma non mai avuto nulla a che fare con la criminalità organizzata», ha detto in occasione del suo interrogatorio di garanzia. 

Collegata da remoto dal penitenziario abruzzese, l'ex strarlette accusata di essere al vertice di un'associazione a delinquere che avrebbe frodato l'Iva e le accise vendendo carburante di contrabbando e riciclando anche denaro, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Davanti al gip Tamara de Amicis ha reso solo dichiarazioni spontanee.

«Non ho mai conosciuto nessuno che facesse parte della criminalità organizzata - ha sostanzialmente detto la donna - Parlavo sono con Alberto Coppola, ma per motivi lavorativi». 

Le intercettazioni acquisite dalla finanza raccontano un' altra storia. «Aho a Piè. Io c ho dietro la camorra. Tu, esattamente, 'ndo ca... vai?», diceva alla sorella non sapendo di essere intercettata. Sarà difficile per i legali della donna, i penalisti Paola Balducci e Pierpaolo Dell' Anno, fare cadere l'accusa di mafia che quattro diverse procure contestano alla Bettozzi.

E poi ci sono i reati fiscali. «A livello tributario sono pronta a pagare e saldare quando devo, sono disposta anche a vendere la mia stessa casa», ha detto al gip. « Si tratta di un'operazione che era già in atto - affermano i difensori - è stato nominato un consulente esperto, un professionista romano incaricato di restaurare i debiti aziendali, quantificando il dovuto per mettere in regola la società. Quando verificheremo i debiti aziendali offriremo alla procura un risarcimento del danno. Nel frattempo ricorreremo al tribunale del Riesame». 

L'indagata, durante le sue dichiarazioni, ha anche parlato del figlio finito in carcere: «Sono preoccupata per lui, non c'entra nulla, era nella società da poco tempo, è un ragazzo giovane e sensibile e adesso che è in carcere ho paura per la sua salute». 

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 10 aprile 2021.

La signora Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, faceva transitare i denari oltreconfine nascondendoli (300mila euro) in "uno stivale a coscia alta". Il suo avvocato si raccomandava all'autista (Augusto, non Ambrogio, alla guida di una Rolls Royce, comunque) di mettere la chiave della cassetta di sicurezza "nelle mutande".

Da anni mi chiedevo come potesse esserci tutto questo smercio di stivaloni lunghi un metro nella brevilinea popolazione italica. 

Non donano, è vero, ma rendono - capisco adesso. Sceneggiatori in crisi d'identità alla lettura delle cronache. L'eredità del marito petroliere premorto, i Casalesi, Gabriel Garko stipendiato (se capisco bene) per fingersi fidanzato, la villa in Costa Smeralda adiacente a quella di Silvio, le terrazze romane danzanti e fra gli ospiti il giudice Palamara, magistrato già noto per altre frequentazioni.

Le ambizioni canore non baciate dal successo anche per via di un talento distribuito in modo diseguale: più vivace per gli affari, meno per l'arte. La lingua, poi, immortalata nelle intercettazioni: "A Pie', io dietro c'ho la camorra. Tu 'ndo co vai". E la divisa da lavoro, dove lo stivalone all' inguine è il dettaglio sobrio. Colpisce, in questo stile di vita - chiamiamolo così, al netto dei reati contestati all'arresto - l'assoluta impermeabilità alle tragedie che colpiscono il 98 per cento della popolazione, come se l'epidemia e il lockdown lì non attecchissero. 

Colpisce anche che il restante 2 per cento siano sempre gli stessi. In un missaggio psichedelico di mafie showbiz magistrati ex presidenti del Consiglio ecco riaffacciarsi Sandokan, della dinastia degli Schiavone, e persino il caro Lele Mora, in un cameo.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 9 aprile 2021.  

E dunque, come da blitz della Guardia di Finanza, accade in Italia che fra Trash e Cash ci siano più cose e più soldi di quante se ne potevano sognare abbagliati da luce, lusso, carne, spettacolo e visibilità.

Nel senso che un tempo i magheggi petroliferi, non certo una novità, si combinavano nel buio più pesto, erano una roba di misteri, segreti, anonime vergogne. Quando venne fuori il primissimo scandalo, metà anni 70, i protagonisti che avevano mollato quattrini ai partiti per frodare legalmente il fisco erano illustri sconosciuti.

E anche in seguito - ancora traffici illegali, dribbling tributari, dossier Mifobiali, fino all' affaire Eni-Petromin - tutto avveniva rigidamente al coperto, di solito con la degna supervisione di spioni, faccendieri, massonerie e consorterie assortite. Basti pensare all' enigmatico romanzo di Pier Paolo Pasolini, Petrolio appunto, e alle verità postume che nascondeva, alcune forse addirittura fatte sparire con destrezza da occulti manovratori. 

Ecco. Con la vicenda di questa Ana Bettz, a suo dire un' artista e show woman, e con la collaborazione straordinaria e marketizzante dell' ex modello e attore Dario Oliviero, al secolo Gabriel Garko, il ribaltamento degli impicci petroliferi può dirsi compiuto e definitivo. 

All' altezza di un tempo forse lurido e sfarzoso, verrebbe da aggiungere con una punta di moralismo, ma certamente incardinato sull' eccesso di ribalta e vetrina, oltre che sovraccarico rispetto ai suoi stessi orizzonti e obiettivi.  

Una tale smania di stupire per farsi ammirare, una tale volontà di ostentazione da far sorgere il sospetto che tutta la luccicante impalcatura esibizionistica fosse montata come arma di distrazione, perfino di massa, per coprire il vero core-business e i suoi poco raccomandabili interlocutori campani - che su queste frenetiche apparenze, magari, sono già più scettici.

Chi ha un quarto d' ora di tempo e un soldino di curiosità può agevolmente raggiungere la pagina "official" di Ana Bettz su Instagram; e lì dentro, ripensando all' andirivieni di borsoni pieni di banconote e all' ordinaria evasione fiscale, farsi un' idea di come l' odierna civiltà dell' immagine si dispieghi con brillantezza occultando le magagne che pure tutti ci portiamo appresso - però qui sotto i morbidi tappeti, i soffitti e le dorature Casamonica style, gli aerei privati, i motoscafoni, le auto da sceicchi, gli alberghi a otto stelle, le mazze da golf maneggiate come scettri di un piccolo grande reame virtuale, ma fino a un certo punto.

E davvero qui non si vorrebbe peccare di maschilismo, ma ci si soffermi anche sulle pose d' esorbitante erotizzazione, l' abbondanza di cuoio, le trasparenze invasive, gli altissimi tacchi, la magia della cosmesi, la spiritualità della chirurgia, "the body" è l' auto-sintesi. 

Una vita in posa nella società dell' imperativo estetico e della prestazione; una messa in scena che va oltre le velleità e forse anche i successi artistici del soggetto, per cui vale la pena notare anche un singolare comparto Bettz "per il sociale": lei col bimbo nero in braccio, "stop violenza sulle donne" e naturalmente la pandemia acchiappata al volo con "una campagna di solidarietà per gli italiani" e l' immancabile "appello" a Mattarella, Conte e Speranza. Dolce nel fondo: il gossip, donde l' ampio servizio illustrato sul "bacio nella notte" - artificiosamente paparazzato - fra lei e Garko.

Questi reca alla triste e vistosa fiaba idrocarburica un' Italia antica, cicisbea, ma anche iper evolutasi nel sogno del divismo di bocca buona costruito da vecchie glorie press agent e scaltri e cinici produttori. Mai, bisogna riconoscere, il mondo dello showbiz è stato un modello etico e di maturità, così come da sempre la bellezza funziona come una scorciatoia obbligatoria e spesso sfruttata ben oltre qualsiasi fraintendimento. Né mai nessuno proporrà Garko senatore a vita. 

Però la franca risolutezza del suo negoziare, così autentico e anche duro nelle intercettazioni, distrugge e insieme sbeffeggia la scena madre e le lacrime di Gabriel che Alfonso Signorini, reuccio del GF, ha propinato qualche mese fa a diversi milioni di italiani. Al dunque la nebulosa trash si è estesa ben oltre i confini originari. S' è fatta economia clandestina, ricca pattumiera, reginetta del cash.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 10 aprile 2021.  

C' è la cronaca mondana che diventa giudiziaria, con gli affari occulti tra la cantante-ballerina Ana Bettz e l' attore Gabriel Garko, coppia dello spettacolo fotografata al centro di Roma e intercettata dalla Guardia di finanza mentre contratta pagamenti in nero per una pubblicità.

E c' è la storia di una imprenditrice ereditiera - la stessa Ana Bettz, al secolo Anna Bettozzi, vedova del petroliere Sergio Di Cesare - accusata di favorire la camorra, compreso il famigerato clan dei Casalesi. 

Questo e molto altro svela l' operazione condotta da quattro Procure (Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria) con i Nuclei di polizia economico-finanziaria delle Fiamme gialle e il Ros dei carabinieri, chiamata «Petrol-mafie spa»: frodi fiscali e autoriciclaggio per un valore complessivo di circa un miliardo di euro, che hanno portato all' arresto di circa 70 persone in tutta Italia. Tra le quali Ana Bettz e un pezzo consistente della sua famiglia: due figli, un nipote, il compagno della figlia e l' avvocato dell' impresa.

I pagamenti a Garko sono diventati un capo di imputazione: autoriciclaggio aggravato dall' aver agevolato un' organizzazione di stampo mafioso (i Casalesi) perché 150.000 euro consegnati in contanti all' attore sarebbero parte dei guadagni illeciti derivanti dai finanziamenti ricevuti dal clan e riciclati attraverso la frode fiscale nel commercio di gasolio. 

Agli atti dell' inchiesta c' è una telefonata del 28 febbraio 2019 in cui l' attore (che al momento non figura tra gli indagati) si lamenta con la Bettozzi perché gli è arrivato un contratto da 250.000 euro mentre «doveva essere da 100», cioè centomila. La donna lo rassicura: «Abbiamo detto che dopo strappiamo tutto. Scusa, noi abbiamo stabilito 250... 50 te li ho già dati e rimangono 200», al che Garko chiarisce: «100 in nero e 100 fatturato...sul contrato va messo il fatturato!».

Ma al di là dei lati nascosti di un rapporto pubblicizzato sui settimanali rosa, l' indagine della Procura antimafia di Roma ha scoperchiato i finanziamenti occulti alla Maxpetroli (oggi divenuta Made Petrol) con cui la camorra riciclava i guadagni illeciti e correva in aiuto di un' impresa in difficoltà, realizzando un' evasione dell' Iva, dell' Ires e delle accise calcolata in oltre 185 milioni di euro.

Dall' inchiesta risulta che il rapporto tra Bettozzi e il tramite della camorra, Alberto Coppola, è nato da un contatto su Facebook e s' è sviluppato facendo entrare nell' impresa ereditata da Ana Bettz i soldi del clan Moccia (tra i più importanti di Napoli), dei Casalesi (attraverso Armando Schiavone apostrofato come «il nipote del barbone», cioè di Francesco Schiavone detto Sandokan) e del clan Micola. Grazie a questi finanziamenti il volume d' affari della Made petrol sarebbe lievitato in tre anni - secondo gli accertamenti della Finanza - da 90 a 370 milioni di euro.

In un colloquio intercettato il 4 marzo 2019, la stessa Bettozzi ha in qualche modo confessato le sue relazioni pericolose, mentre cercava di convincere la sorella Piera a desistere dal progetto di aprire un deposito di carburanti: «A Piè, io dietro c' ho la camorra!

Tu dove c... vai... Te stanno a pijà per il c... Lo sai quanto c' ha in giro Felice (...). 

E io controllo che sia borderline, quasi regolare... Sai quanto c' ha in giro! 15 milioni al giorno, quell' altro 5 milioni, io altri 5 e insieme c' abbiamo 15 e 10, 25/30 milioni al giorno!

Tu dove c... vai? (...) Sei responsabile sempre te... Tu la legge, ti danno l' associazione...». 

Felice è verosimilmente Felice D' Agostino, trentanovenne pugliese introdotto nella Maxpetroli da Coppola, fidanzatosi con Virginia Di Cesare (figlia di Ana Betz) da cui ha avuto un bambino, finito anche lui in carcere con l' accusa di associazione a delinquere.

Come paventato dalla stessa Bettozzi, che l'11 maggio 2019 ebbe un primo complicato incontro con la Guardia di finanza. 

Stava andando in Francia, al festival di Cannes, e fu fermata mentre passava la frontiera a Ventimiglia su una Rolls Royce guidata da un autista. 

I militari controllarono l' interno dell' automobile e trovarono 300.000 euro in contanti nascosti in uno stivale a coscia alta. La donna si attaccò al telefono con l' avvocato Ilario D' Apolito (altro arrestato nell' operazione di ieri) che gli ripeteva: «Ma la chiave ce l' hai tu?... Mettila in tasca ad Augusto (l' autista, ndr )...». Parlava della chiave delle cassette di sicurezza dell' hotel Gallia di Milano, dove poche ore più tardi i finanzieri scoprirono banconote per un altro milione e 700.000 euro. «Come hanno fatto a trovare le chiavi? - si rammaricò subito dopo l' avvocato -. Glielo avevo detto pure ad Augusto, mettitele nelle mutande...».

Valentina Errante per “il Messaggero” il 9 aprile 2021.  

Parlava con tutti al telefono Anna Bettozzi, ereditiera del petroliere Sergio Di Cesare, ex cantante e ballerina. Ana Bettz, come si faceva chiamare sulla scena, parlava con quelli che definiva gli zingari, perché collegati ai Casamonica, e con Gabriel Garko, uomo immagine della sua nuova società petrolifera, che doveva pagare con 100mila euro in nero. 

Vantava soci come Tronchetti Provera e Berlusconi, ma di fatto a fare iniezioni di liquidità alla sua società era stato il boss Antonio Moccia, con almeno 500mila euro cash consegnati in un bar di Napoli, attraverso il cugino Alberto Coppola. E alla sorella, Ana, diceva: «Ah Piè, io dietro c' ho la camorra».

Ed era vero, almeno secondo la procura e il gip di Roma, che ieri l' hanno mandata in carcere con l' accusa, tra l' altro, di essere a capo di un' organizzazione criminale legata alla mafia. Una mega inchiesta, che ha visto lavorare il procuratore Michele Prestipino e l' aggiunto Ilaria Calò e le Dda di Napoli, Catanzaro, Reggio Calabria.

 Il volume d' affari della società petrolifera della Bettozzi, grazie ai capitali riciclati, aveva visto crescere il fatturato di 45 volte in 36 mesi, da 9 a 370 milioni. Petrolmafie, si chiama l' operazione condotta dai reparti territoriali della Guardia di finanza e dallo Scico, che hanno ricostruito un complesso meccanismo di frode fiscale nel settore degli oli minerali, e hanno portato a 56 arresti, 15 fermi e al sequestro di beni per quasi un miliardo di euro.

Il comune denominatore delle quattro inchieste era la «nefasta sinergia» tra mafie e colletti bianchi che avrebbero consentito a camorra e ndrangheta di far fruttare al massimo le frodi fiscali. Al centro delle indagini romana e napoletana la società Max Petroli poi trasformata nella Made Petrol Italia, diretta da Virginia Di Cesare, figlia della Bettozzi ma, di fatto, secondo gli investigatori, sempre controllata dalla madre. 

Iniezioni di liquidità sarebbero arrivate, sempre attraverso Coppola anche dai casalesi. Ma la Bettozzi, fermata nel 2019 alla frontiera di Ventimiglia con 300mila euro in contanti nascosti nella sua Rolls Royce (un milione e 400 mila euro è stato trovato più tardi nell' albergo dove alloggiava) non ha mai ceduto il comando: «È ancora lei - scrive il gip - che riesce a mantenere saldamente nelle mani della propria famiglia il deposito della Maxpetroli (poi Made Petrol) resistendo senza difficoltà alle pressioni del Coppola che, anche forte della provvista di denaro a lui messa a disposizione dal clan Moccia, cerca di insinuarsi nel deposito romano, acquisendo una forma di partecipazione societaria che la Bettozzi prontamente respinge, mantenendo nelle proprie mani le redini del comando». 

La frode fiscale si consumava attraverso la sospensione di imposte, prevista per gli idrocarburi, ma lo stoccaggio avveniva utilizzando decine di società fittizie, collocate in garage, che non pagavano l' Iva e le accise al momento dell' immissione sul mercato. La contestazione per la Bettozzi riguarda 180 milioni di euro. Autoriciclati nella società.

«Scusa, noi abbiamo stabilito 250, 50 te li ho già dati e rimangono 200: 100 in nero e 100 fatturato, sul contratto va messo solo il fatturato!». I soldi per lo spot destinati a Gabriel Garko erano sempre quelli della Max Petroli, autoriciclati, secondo il gip. «Si era parlato del contratto in un certo modo - dice Garko al telefono alla Bettozzi - poi a me è arrivato un contratto fatto in un altro». E così la Bettz spiega e l' attore ribadisce: «100 in nero e 100 fatturato, sul contratto va messo solo il fatturato».

Scrive il gip, emerge «la stipula di un contratto per la realizzazione di uno spot pubblicitario tra Anna Bettozzi e l' attore Gabriel Garko in cui parte del corrispettivo pattuito, pari a 150.000 euro, è stato versato in denaro contante». Era fiera di sé Ana Bettz, si vantava di avere imparato come gestire gli affari: «Io ho creato un impero tu ti fidi di me, io ho creato un impero nel mio piccolo, rispetto a Berlusconi nessuno..» dice in un' altra telefonata intercettata. Evanta anche le sue amicizie. Nel marzo 2018, la donna dice sempre al telefono: «Io oggi non ho risposto quattro volte a Berlusconi, l' ultima chiamata da Arcore perché mi chiamava con il privato, io non ho risposto in quanto sono incazzata con lui». 

Da "Chi" il 20 aprile 2021.

«Sono giorni che lavoro incessantemente, che mio papà non sta molto bene e che il mio nome riempie le pagine dei giornali. Ciononostante sono sereno, ma non nascondo che non è facile sopportare questa gogna mediatica». Gabriel Garko è un fiume in piena nell'intervista verità che ha rilasciato in esclusiva al settimanale “Chi” in edicola da mercoledì 21 aprile. La gogna alla quale l’attore fa riferimento riguarda sia l’Ares-Gate, lo scandalo sulla presunta setta che ruota attorno al produttore Alberto Tarallo e al suicidio di Teodosio Losito (ex di Tarallo), che un’intercettazione con Ana Bettz, al secolo Anna Bettozzi, arrestata con l’accusa di aver riciclato denaro, attraverso sue società, per conto della famiglia di camorra dei Casalesi e di frode fiscale.

«Ho detto a chi di dovere tutta la verità”, spiega Garko che è stato ascoltato dalla Procura di Roma come persona informata dei fatti nelle indagini legate al suicidio di Losito.,  «Non ho altro da aggiungere e spero che presto, nel bene o nel male, si faccia luce su questa brutta vicenda. È assurdo che la vita mi riporti, in continuazione, al passato quando io ho solamente voglia di guardare avanti». 

«Non si scherza con la vita delle persone», ammonisce l'attore. «Ma oramai ci sto facendo il callo: negli anni mi hanno dato dell’attore di serie B, della “mignotta”, del rifatto, del gay per convenienza. È assodato che il mio personaggio venga sempre visto in un altro modo e me ne accorgo ogni qual volta incontro qualcuno. È oramai un classico la frase: “Ti facevo diverso”».

A Massimo Giletti che nella trasmissione “Non è l'Arena” ha inserito il su coming out  di Garko al GFVip come avvenimento di un periodo non propriamente fortunato, risponde: «Mi ha lasciato sgomento perché in un periodo come questo, dove si discute ogni giorno del ddl Zan contro l’omotransfobia, le parole fanno la differenza. Il mio coming out ha solo migliorato la mia vita. Il giorno dopo avevo paura a uscire di casa. Mi sentivo nudo. Invece sono stato accolto da un calore mai avvertito prima. C’è gente che ancora oggi mi ringrazia di averle dato la forza e il coraggio di replicare il mio percorso e altra che, da quel momento, mi apprezza ancora di più».

Riguardo al caso che lo ha collegato ad Anna Bettz, la cantante ed ereditiera accusata di legami con la Camorra per contrabbando di carburanti . «La signora  e io ci siamo conosciuti per motivi professionali qualche anno fa», spiega Garko « Avrei dovuto girare uno spot pubblicitario che, alla fine, non è mai stato realizzato perché il progetto non mi convinceva. Non c'erano presupposti perché mi accorgessi delle sue frequentazioni e se mai me ne fossi accorto, avrei interrotto ancor prima ogni contatto».

Alla domanda se il suo coming out abbia in qualche modo intaccato la sua carriera, Garko risponde: «Sto vagliando diverse proposte e a breve inizieranno le riprese di un film dove reciterò assieme a Nicolas Cage, Eric Roberts e John Malkovich. I cliché che un attore omosessuale smetta di lavorare non hanno più motivo di esistere».

Dagonews il 3 luglio 2020.

A 'sto punto, avrà pensato Cosimo Maria Ferri, tanto vale divertirsi. Il magistrato, già sottosegretario alla Giustizia e attualmente deputato di Italia Viva, era con il suo amico Luca Palamara alla festa di compleanno della giornalista di giudiziaria Rita Cavallaro, a pochi passi da piazza Venezia. 

Sulla terrazza gran calca di giornalisti di giudiziaria (Valentina Errante del "Messaggero" e Brunella Bolloli di "Libero"), la pierre Monica Macchioni e Fabrizio Caccia del "Corriere", l'attore Francesco Testi e il vetenirario dei vip Federico Coccia, la mitologica Olga Bisera, finanzieri e carabinieri ben graduati, che hanno accolto strabuzzando gli occhi la guest-star del compleanno: Ana Betz, al secolo Anna Bettozzi, sventolona ormai in pensione nota meno per le sue canzoni e più per aver ereditato la fortuna del petroliere Sergio Di Cesare. 

Noi non siamo bacchettoni: non c'è niente di male a uscire con gli amici di sera. Certo, i due sono al centro di un'indagine scottante che coinvolge una buona parte della magistratura, quindi forse qualche attenzione in più ci vorrebbe. 

Ma il dettaglio che rende la faccenda più seria è che la sedicente cantante un anno fa è stata fermata al confine tra Italia e Francia a bordo di una Rolls Royce con 300mila euro in contanti, ha subìto il sequestro di un altro milione e 700mila euro, ed è indagata per riciclaggio.

È chiaro che uno non può conoscere il casellario giudiziario di tutti i partecipanti a una festa, ma almeno quello della guest-star, che finì su tutti i giornali pochi mesi fa, sarebbe bene tenerlo a mente. 

Anche perché i magistrati hanno un obbligo deontologico di stare attenti alle loro frequentazioni fuori dalle aule di tribunale. Ma avendo visto, Ferri e Palamara, le loro conversazioni spiattellate su migliaia di pagine di intercettazioni, ed essendo dunque ampiamente sputtanati, ormai avranno mollato gli ormeggi…

Valentina Errante per ilmessaggero.it il 20 aprile 2021.  

Associazione mafiosa, riciclaggio, frode fiscale di prodotti petroliferi - è in corso la maxi operazione coordinata dalle procure distrettuali Antimafia di Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria.

I militari dei comandi provinciali della Guardia di Finanza, dello Scico e i carabinieri del Ros stanno eseguendo una settantina di misure cautelari e sono in corso sequestri di immobili, società e denaro per circa un miliardo di euro. 

Su richiesta del procuratore di Roma, Michele Prestipino, dell'aggiunto Ilaria Calò e dei pm Valentina Margio e Corrado Fasanelli, è stata arrestata anche Ana Bettz, al secolo Anna Bettozzi, vedova del petroliere Sergio Di Cesare.

 Personaggio delle cronache mondane romane, 59 anni, la Bettozzi del petroliere era stata fermata nel 2019 su una Rolls Royce a pochi chilometri da Ventimiglia. Nella sua auto i militari della Finanza avevano trovato 300mila euro in contanti e recuperato in una successiva perquisizione un milione e 700mila euro. Sono in tutto dieci le misure di custodia cautelare in carcere eseguite su richiesta della procura di Roma e tredici quelle ai domiciliari. Quattro, invece, sono state rigettate dal gip.

Giuliano Foschini e Andrea Ossino per “la Repubblica” il 9 aprile 2021.

«Aho a Piè. Io c' ho dietro la camorra. Tu, esattamente, 'ndo ca... vai?». Con una battuta, fulminante, Bettozzi Anna, in arte Ana Bettz, starlette, eriditiera milionaria, capo di un' associazione mafiosa che trafficava petrolio di contrabbando a spese dello stato secondo quattro procure antimafia (Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria), regala uno spaccato straordinario di un pezzo del nostro Paese: un luogo senza più bordi, dove tutto si mischia, si sovrappone senza lasciarsi più distinguere.

E così le aspiranti starlette diventano camorriste, cantano alle feste di Berlusconi o di magistrati la sera mentre la mattina fatturano centinaia di milioni con i capi clan. Pagano attori famosi per fingere relazioni sui settimanali, sfilano sul tappeto rosso del festival di Cannes dopo aver portato milioni di euro criminali in contanti da una parte all' altra del confine a bordo di Rolls Royce.

La storia è quella raccontata in decine di migliaia di pagine dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri del Ros dopo più di tre anni di indagini: un vorticoso giro di denaro, società fittizie e traffico di petrolio di contrabbando, che ha permesso a gruppi camorristici e dranghetisti di arricchirsi, sulle spalle dello Stato, di quasi un miliardo di euro. Non pagando le tasse e frodando l' Iva. Un sistema sofisticato che ha avuto ulteriore ossigeno negli ultimi 12 mesi, grazie alla crisi di liquidità causata dalla pandemia. Risultato: 71 arresti, un miliardo di beni sequestrati.

Il centro della storia, che non è né commedia né farsa, ma mafia, tremendamente mafia, è questa signora romana di 63 anni, Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, personaggio dalle mille sfaccettature: aspirante showgirl, poi cantante un po' stonata, diventa ereditiera del petrolio, dopo aver sposato l' imprenditore Sergio di Cesare, morto tre anni fa, all' inizio dell' inchiesta. La Bettozzi, anzi la Bettz, non ama stare dietro i riflettori. Ma davanti. 

È vicina di casa in Sardegna di Berlusconi, regina di molte terrazze di Roma Nord che prova a usare come trampolino, senza riuscirci però, per la sua carriera da cantante. Pubblica un paio di dischi, riesce a cantare anche a qualche festa in Sardegna a casa dell' ex presidente del Consiglio, ma nulla più. Alla morte del marito eredita una fortuna. 

Il tesoretto è nella Maxpetroli, società che commercializza prodotti petroliferi. L' azienda - secondo la ricostruzione che ne fanno Finanza e Ros - non naviga però in ottime acque. Anzi. E per questo la Bettz chiede un' iniezione di liquidità ad amici. Purtroppo però gli amici sono gli uomini del clan Moccia che, come spiega il procuratore capo di Roma, Michele Prestipino, «storicamente ha fatto registrare la propria presenza in regime di monopolio dei prodotti petroliferi». 

L' iniezione di liquidità arriva. Ed è importante. «La Bettozzi diventa così - scrive il gip Tamara de Amicis nell' ordinanza di custodia cautelare - il capo indiscusso dell' organizzazione, della persona più di tutti "esperta" della materia anche grazie a quanto imparato dal marito. Nulla si muove senza il suo assenso; è lei che intavola il rapporto con Alberto Coppola e, tramite lui, con tutto il gruppo napoletano dal quale riceve cospicui finanziamenti per la propria attività illecita, remunerando adeguatamente gli investimenti fatti da costoro». 

Ana Bettz è donna risoluta. E riesce a tenere però testa anche ai camorristi. «Aho, me state a prendere per c...?» urla al telefono a Coppola, il suo referente, che fino a qualche giorno fa negava fosse uomo di camorra. Sapeva dell' inchiesta, perché aveva spie nella Finanza e forse nella magistratura («erano a conoscenza di un vertice avvenuto alla Dna» annota il gip).

«La Bettozzi - scrive il giudice - che riesce a mantenere saldamente nelle mani della propria famiglia il deposito della Maxpetroli resistendo senza difficoltà alle pressioni del Coppola che, anche forte della provvista di denaro a lui messa a disposizione dal clan Moccia, cerca di insinuarsi nel deposito romano», senza riuscirci. 

Ma ad Ana Bettz non bastava comandare nel clan. Cercava altro, anche. Il successo. Diventa amica inseparabile di Lele Mora. Imperdibili sono le sue interviste a Novella 2000 nelle quali racconta l' amore con Gabriel Garko, l' attore (che ha confessato anche la sua omosessualità) che tiene a libro paga: 250 mila euro, sotto forma di un contratto per la società. Le prove sono contenute nelle telefonate intercettate.

La sera del 28 febbraio 2019, ad esempio, Anna Bettozzi arriva alla stazione di Milano e chiama Garko. L' attore si lamenta: «Si era parlato del contratto in un certo modopoi a me è arrivato un contratto fatto in un altro.il contratto era da 200mila». «E quanto doveva essere?». chiede la donna. 

«Il contratto doveva essere da cento ». risponde Garko. «100 in nero e 100 in fatturato. Il cash prima del contratto». Qualche giorno dopo sono insieme sul tappeto rosso del festival di Cannes. È a bordo della sua Rolls Royce, mentre stava cercando di superare il confine di Ventimiglia, quando viene fermata con 300 mila euro in contanti. Non sa che non è un controllo casuale. I finanzieri, in albergo, le trovano un milione e 700 mila euro. «Mortacci loro», dice la signora che qualche sera dopo cantava su una terrazza romana a una festa dove erano ospiti anche i magistrati Luca Palamara e Cosimo Ferri.

Ieri quando i finanzieri sono andati a metterle le manette per portarla in carcere ha avuto un malore. Ora è in clinica. Ma sa che un' altra storia sta per cominciare. 

Annalisa Grandi per corriere.it il 17 maggio 2019.

Il suo nome d’arte è Ana Bettz. All’anagrafe Anna Bettozzi, 59 anni, imprenditrice e cantante sarda, vedova del petroliere Sergio Di Cesare, nonché cantante, è stata fermata dagli agenti della Guardia di Finanza a Ventimiglia a bordo di una Rolls Royce. Aveva con sé 300 mila euro in contanti.

I soldi

Le Fiamme Gialle a quanto si è appreso avevano seguito l’auto sin dalla partenza: oltre ai 300 mila euro trovati a bordo, ne sarebbero stati trovati un altro milione e 700 mila in un luogo che non è stato svelato. La donna, imprenditrice e cantante, è ora indagata per riciclaggio dalla Procura di Imperia che vuole fare luce sulla provenienza di quel denaro. L’operazione è coperta dal massimo riserbo.

Chi è

Anna Bettozzi, nata a Porto Rotondo, come vicino di casa in Sardegna aveva Silvio Berlusconi, e per la prima parte della sua carriera si era dedicata al settore immobiliare: all’epoca, come racconta «Il Secolo XIX» aveva i capelli neri e pubblicizzava «Le case firmate». Poi, la svolta: Anna si dà al mondo della musica e dello spettacolo, nome d’arte Ana Bettz, capelli biondi e balli scatenati nei suoi video. Per citarne uno, «Ecstasy», primo singolo del 1997, realizzato dal produttore dei videoclip di Madonna e Michael Jackson. Nel 2011 è stata anche presenza fissa a «Quelli che il calcio». Un nome noto, insomma. Vedova del petroliere Sergio Di Cesare, nel 1999 insieme al marito era stata sequestrata per una notte nella villa in cui i due vivevano, al Quarto Miglio, a Roma. I rapinatori avevano portato via soldi e oggetti preziosi per un valore totale di circa 100 milioni delle vecchie lire.

·        Anna Falchi.

Nino Materi per “il Giornale” il 24 Ottobre 2022.

C'è chi invidia a Fiorello la strabordante simpatia; chi a Max Biaggi l'ardimento del centauro; chi a Stefano Ricucci la spregiudicatezza negli affari. 

Ma se vai al Bar «Bob Lovati», covo dei tifosi laziali, ti diranno tutti che loro ai tre suddetti gentiluomini invidiano una cosa sola: Anna Falchi. Che poi, a ben guardare, Anna non è certo una «cosa», ma una creatura meravigliosa con la quale la natura è stata generosa. Bellezza e talento in un mix di apollinea femminilità e dionisiaca determinazione. 

Decisa fin da giovanissima, quando con i primi guadagni si rifece il seno rateizzando (un milione al mese) i 15 milioni del costo dell'intervento plastico. Operazione riuscita (a occhio e croce una quinta abbondante). 

Stiamo debordando in elogi? Forse sì, ma provate voi a fissare il volto (e non solo) di Anna senza rimanerne completamente rimbambiti. Anna Falchi - nome d'arte di Kristiina Palomäki, nata a Tampere (Finlandia) il 22 aprile 1972 - ne è consapevole e quando ti si para avanti con quegli occhi azzurri e quel fisico da «maggiorata anni '50» sa bene che prima (molti prima) o poi cadrai ai suoi piedi. 

Wikipedia, che sa tutto di tutti, le dedica un rapido ritratto che racchiude un'esistenza: «Attrice, conduttrice televisiva, ex modella e produttrice cinematografica italiana con cittadinanza finlandese, considerata un sex symbol degli anni 1990 e 2000». 

Impossibile non partire dalle ultime 6 parole: «Sex symbol degli anni 1990 e 2000». Ne è orgogliosa?

«Orgogliosissima. A quale donna non farebbe piacere essere desiderata da un uomo?».

Beh, ad esempio le femministe dure e pure sostengono che la donna «desiderata» dal maschio rischia di diventare una «donna oggetto».

«Ma quale donna oggetto. Io sono femmina e non femminista. Rispetto tutti, uomini e donne; e pretendo rispetto, da uomini e donne». 

C'è chi chiede che il «cat calling» sia perseguito come un vero e proprio reato?

«Se per cat calling intendiamo un complimento nei confronti di una donna, mi pare una follia tirare in ballo il codice penale; se invece parliamo di molestie o addirittura comportamenti peggiori, allora vanno punite severamente». 

La linea di confine tra i due «generi» può risultare flebile.

«Non credo. La frontiera è chiara».

Ci faccia un esempio.

«Per strada se qualcuno mi fa apprezzamenti che non trascendono in volgarità, la cosa non mi disturba affatto, anzi mi fa piacere; se invece le parole diventano offensive, allora è giusto reagire zittendo il cafone di turno». 

Ma in tempi di politically correct qualsiasi frase vagamente «ambigua» rivolta da un uomo a una donna diventa a rischio...

«A volte si perde il senso delle proporzioni. Anche per questo sono una convinta avversaria del politicamente corretto in ogni sua forma». 

È vero che lei ha però sempre in borsa una bomboletta spray antiaggressione?

«Sì, noi donne rimaniamo dei soggetti vulnerabili. Non si sa mai in chi potremmo imbatterci. Meglio essere pronte al peggio. Io stessa in passato sono sfuggita a due tentativi di aggressione. La cronaca nera, purtroppo, segnala un'escalation di episodi violenti».

A proposito, al suo fianco nella conduzione del programma Rai «I Fatti Vostri», al suo fianco c'è Salvo Sottile, un esperto di cronaca nera.

«Salvo è un giornalista completo. Con lui c'è un feeling speciale e ci divertiamo tantissimo: anche troppo, quando ci prende la ridarella, non riusciamo a smettere...». 

In passato accadeva lo stesso in «Casa Vianello».

«Vero. L'esperienza in tv vissuta con Sandra e Raimondo è tra ricordi più belli. Loro erano sul set esattamente come nella vita. Uno spasso continuo». 

Lei ha avuto la fortuna di lavorare con i maggiori registi italiani. A scoprirla fu addirittura Fellini.

«Ero giovanissima. Federico mi fece un provino per uno spot pubblicitario».

È vero che le dette il seguente consiglio: «Anna, devi essere un po' gattina e un po' mignotta»?

«Confermo. All'epoca non padroneggiavo ancora le espressioni sensuali. Ma poi, col tempo, mi sono ampiamente rifatta». 

Rimanendo in tema di sensualità. Lei è diventata uno dei sogni erotici del maschio italiano pur senza mai fare parte della folta schiera delle dive della commedia sexy anni '80 come Edvige Fenech, Gloria Guida, Nadia Cassini, Annamaria Rizzoli, Barbara Bouchet e via spogliando...

«Non ne ho fatto parte solo per una questione anagrafica, negli anni in cui imperversavano quei film ero troppo giovane per interpretarli. Tutte le attrici che ha citato erano bravissime e mi sarebbe piaciuto far parte di quel gruppo». 

Comunque dopo si è rifatta con i cinepanettoni di Carlo Vanzina e Neri Parenti.

«Mi hanno offerto grandi opportunità. Al pari di Marco e Dino Risi, Enrico Oldoini, Maurizio Nichetti, Carlo Lizzani, Sergio Rubini e tanti altri».

L'avrebbe mai immaginato quando nell'89 per la prima volta salì sul palco del concorso di Miss Italia?

«All'epoca era tutto un sogno. Che poi, incredibilmente, è diventato realtà».

Senza però mai dimenticare l'importanza nello studio.

«In un momento di grande impegno per la carriera ho deciso comunque di fermarmi un attimo. E concludere gli studi universitari che avevo interrotto, conseguendo la laurea in Letteratura con indirizzo artistico. Lo considero uno dei grandi successi della mia vita». 

Una Anna Falchi in versione «perfettina».

«Quando affronto un argomento, foss' anche il più banale, mi impongo di sapere tutto su quel tema. Se, ad esempio, mi invitano a parlare di melanzana, bene, io mi documento alla perfezione pure sulle melanzane». 

Se sui motori di ricerca si digitano le parole «Anna Falchi mutandine» vengono fuori migliaia di like sulla trasmissione Rai Satyricon del 2001 quando, ospite di Daniele Luttazzi, si sfilò gli slip rossi con su scritto È qui la festa! donandoli a un Daniele Luttazzi a dir poco estasiato dall'intimo omaggio.

«Si trattò di una gag preparata. In realtà non rimasi nuda. Sotto avevo un altro paio di mutandine». 

Ma quelle mutandine donate a Luttazzi che fine hanno fatto?

«Leggenda metropolitana vuole che le abbia sequestrate un pezzo grosso con tendenze feticiste. Nell'ambiente circola anche un nome. Ma io non lo farò mai, neppure sotto tortura». 

A proposito di web. C'è una sua immagine in rete che vorrebbe sparisse?

«Alcune sequenze del film del 1994 con Rupert Everett, Dellamorte Dellammore». 

E che si vede di tanto scandaloso?

«Io e Rupert che facciamo sesso su una tomba».

Beh, in effetti è un po' macabro.

«Durante la registrazione dovevamo scavare attorno alle lapidi e sa cosa accadde?» 

Cosa?

«Da sotto terra affiorarono vere ossa di defunti. Fu orribile».

Ma perfetto per una pellicola horror.

«Fin troppo realistico...».

Dai brividi di paura, passiamo ai brividi di gioia: 20 maggio 2000. Lazio campione d'Italia e la supertifosa Anna Falchi che si esibisce in un memorabile spogliarello.

«Lo avevo promesso. E mantenni la parola. Per la Lazio questo ed altro». 

Nel '96 è stata la prima diva italiana a posare nuda per il calendario d'autore di Max con gli scatti del maestro della fotografia Marco Glaviano.

«Erano tempi in cui non c'era il photoshop, e ci si alzava all'alba per avere la luce giusta. Quel calendario è rimasto nella storia per il record di vendite. Mia madre, quando lo vide, ci rimase un po' male. Poi capì e si complimentò per la bellezza degli scatti. In seguito ho fatto altri 4 calendari, ma quello di Max resta il più iconico». 

Quale fu la reazione dei suoi genitori?

«Mia madre ci rimase un po' male. Quanto a mio padre, la sua è sempre stata una figura problematicamente assente». 

Lo stesso destino capitato a Giorgia Meloni che, per questo, è stata attaccata dalla giornalista Rula Jebreal con un tweet da cui tutti si sono dissociati.

«E a Giorgia va anche la mia solidarietà». 

La nomina a premier della Meloni è motivo di soddisfazione per tutte le donne?

«Ne sono lieta. E ben cinque anni fa, durante una trasmissione televisiva, espressi l'auspicio che proprio lei diventasse in Italia la prima presidente del Consiglio. Ora l'esito elettorale mi ha dato ragione». 

Eppure non tutti sembrano aver accettato il risultato delle urne.

«È il gioco della democrazia. Bisogna prenderne atto senza remore. E poi credo che le donne nei ruoli di potere diano più garanzie».

Attenzione a generalizzare.

«Nessuna generalizzazione. Non mi piacciono le quote rosa. Sono per la meritocrazia. I più bravi vanno premiati. A prescindere dal sesso».

Già, i «bravi». Torniamo alla sua amata Lazio. I giocatori di Sarri quest' anno sembrano tutti bravissimi.

«La squadra mi piace. Sarri è ok». 

I suoi calciatori biancocelesti preferiti?

«Mi piacciono tutti. Ma ho un debole per Ciro Immobile, ormai un monumento. Mentre tra i nuovi che si sono inseriti alla grande, una menzione la merita il portiere Ivan Provedel, non a caso diventato un beniamino della curva».

Peccato per voi che quest' anno il Napoli sembra non avere avversari.

«Finora ha fatto un campionato straordinario. Ma sono felice per i napoletani. E sa perché». 

Perché?

«Il mio primo mito calcistico è stato Maradona. Nella prima partita a cui ho assistito da piccola in campo c'era lui con la maglia del Napoli. Non lo dimenticherò mai». 

Ma Diego ha mai saputo di questo suo «debole» per lui?

«Ma no. Ero una bambina. Ma se fossi stata più grande mi sarebbe piaciuto conoscerlo». 

E certo sarebbe piaciuto anche a lui. Nel corso degli anni ha mai appeso nella sua cameretta il poster di qualche campione delle sport?

«No. Ma esteticamente mi piacevano molto i fratelli Inzaghi».

Lei è una grande appassionata d'arte. Che quadri o sculture ha in casa?

«Niente di particolarmente rilevante. Eccetto L'urlo di Edvard Munch». 

Ma non è esposto nella Galleria Nazione ad Oslo?

«Sì, io ho solo una copia». 

Fatta da chi?

«Da me». 

Ah, quindi oltre che sui set si trova a suo agio pure davanti alle tele?

«Mi piace copiare le opere di grandi pittori». 

Altre opere?

«Ne ho dipinte parecchie. Ma la maggior parte le ho buttate». 

Motivo?

«Un po' le ho buttate, un po' sono andate perse nei frequenti traslochi.» 

Sua figlia Alyssa, avuta nel 2010 col suo compagno di allora, l'imprenditore Denny Montesi, ha ora 12 anni. Cosa sogna per lei?

«Alyssa significa creatura del mare. Per lei sogno una vita piena di luce, come i riflessi dell'oceano».

Anticipazione da Oggi il 27 aprile 2022.

«Fiorello? Mi ha tradita. Il mio primo dolore d’amore. Quando è finita, ho dato un mega party in Romagna ed è stata l’ultima volta che ho festeggiato il mio compleanno… se mi ha fatta soffrire? Sì, abbiamo sofferto». 

Fresca dei suoi primi 50 anni, compiuti il 22 aprile, Anna Falchi si confida con il settimanale «Oggi» (da domani in edicola) e traccia un bilancio sentimentale che non sempre risulta positivo. Per l’ex marito Stefano Ricucci ha però parole affettuose: «È l’ideale di uomo che tutte vorrebbero accanto. Romantico, generoso, dedicato. Quello è stato il periodo più bello e insieme il più brutto della mia vita». Anna gli è rimasta accanto nel periodo buio, quello del carcere: «Ma dopo è finita semplicemente perché perdi fiducia in una persona. E perché non volevo vivere con l’ansia che potessero suonare il campanello di casa e riportarlo via».

Da oltre un decennio, la Falchi è legata ad Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e nipote di Bruno Vespa. Solo di recente sono andati a convivere, ma la conduttrice di «I fatti vostri» rivela: «E’ un’esperienza che ci sta mettendo alla prova. Facciamo vite diverse con orari diversi. Non mi sono mai sentita tanto sola da quando siamo insieme. Sembra un paradosso ma è così».

La priorità è l’unica figlia Alyssa, 11 anni, nata dalla relazione con l’imprenditore Denny Montesi: «Lo considero parte della mia famiglia, un parente acquisito. È una persona su cui posso contare». 

Anna Falchi compie 50 anni e racconta: “Stefano Ricucci è l’ideale di uomo che tutte vorrebbero accanto”. Poi parla della storia con il deputato forzista e nipote di Bruno Vespa Andrea Ruggeri. Da più di dieci anni la Falchi è legata sentimentalmente ad Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e nipote di Bruno Vespa. Solo di recente sono andati a convivere, ma la conduttrice rivela: "E’ un’esperienza che ci sta mettendo alla prova. Facciamo vite diverse con orari diversi. Non mi sono mai sentita tanto sola da quando siamo insieme. Giuseppe Candela su Il Fatto Quotidiano il 28 aprile 2022.

Il 22 aprile Anna Falchi ha compiuto cinquant’anni. Attrice, icona sexy e conduttrice, ora impegnata su Rai2 alla guida de “I Fatti Vostri“. Un volto noto al grande pubblico televisivo ma per anni al centro del gossip per i suoi amori, con il settimanale “Oggi” traccia un bilancio sentimentale non sempre positivo: “Fiorello fu il mio primo amore, fu un’esplosione, una botta di adrenalina. Eravamo sulle copertine di tutti i giornali. L’avevo beccato a tradirmi. Abbiamo sofferto, mi ero appena lasciata e in Romagna organizzai un mega party, invitando chiunque conoscessi. Affittai persino un albergo per gli ospiti. Fu liberatorio! Volevo ripartire, è stata l’ultima volta che ho festeggiato il mio compleanno. La fine della storia con Fiorello è stato il mio primo dolore d’amore.”

La relazione con Max Biaggi durata due anni: “Un ragazzo intelligente, equilibrato. Con i piedi ben piantati a terra, nonostante facesse un lavoro completamente folle. Sempre a rischio della vita.” L’amore giunto all’altare con il manager Stefano Ricucci a cui riserva ancora parole affettuose: “È l’ideale di uomo che tutte vorrebbero accanto. Romantico, generoso, dedicato. Regalava il suo tempo a me, pur essendo impegnato come uomo d’affari. Ci ha messo un po’ per conquistarmi, ma con lui sono arrivata alle nozze. Quello è stato il periodo più bello e insieme il più brutto della mia vita. Credevo nel progetto comune, ma mi sono ritrovata ad affrontare cose più grandi di me, in un mondo in cui non c’entravo nulla.”

Anna è rimasta al suo fianco anche nel periodo buio, quello del carcere: “Ho resistito ancora un anno ma dopo è finita semplicemente perché perdi fiducia in una persona. E perché non volevo vivere con l’ansia che potessero suonare il campanello di casa e riportarlo via”, ha spiegato al settimanale diretto da Carlo Verdelli. Da più di dieci anni la Falchi è legata sentimentalmente ad Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e nipote di Bruno Vespa. Solo di recente sono andati a convivere, ma la conduttrice rivela: “E’ un’esperienza che ci sta mettendo alla prova. Facciamo vite diverse con orari diversi. Non mi sono mai sentita tanto sola da quando siamo insieme. Sembra un paradosso ma è così”.

Anna Falchi, rivelazioni privatissime sulla storia con Fiorello: "Un'esplosione, mi ha fatto diventare una donna". Libero Quotidiano il 04 marzo 2022.

Anna Falchi a ruota libera. L'attrice, a ridosso dei suoi 50 anni, ricorda il passato. In particolare le storie d'amore che più l'hanno segnata. Tra queste non poteva mancare lui: Fiorello. Una relazione, seppur breve, che ha fatto parecchio parlare. "Con lui è stata una grande passione. In quel periodo vivevo a cento all’ora, come una vera star. Fu un’esplosione, una botta di adrenalina, eravamo sulle copertine di tutti i giornali - confida al Corriere della Sera -. Non è durato molto ma è stato bello, mi ha fatto diventare donna". E proprio sui giornali non si faceva che mormorare. A Sanremo 1995 la Falchi era infatti la valletta, lui un cantante in gara. Tutti però a quei tempi spettegolavano su certe intemperanze passionali che avrebbero tenuto svegli i vicini di stanza. Rivelazioni che l'attrice ha sempre smentito.

Diverso invece per le voci sul tradimento di Fiorello, che si fece trovare a letto con un'altra. Queste infatti la Falchi le conferma tutte: "Del resto - commenta - chi non è stato tradito, a questo mondo? Nessuno è immune dalle corna". Poi è stata la volta di Max Biaggi, anche questa una storia durata qualche anno, prima che arrivasse nella sua vita Stefano Ricucci. "Fu il periodo più bello e insieme il più brutto della mia vita - ricorda tornando ai giorni che videro Ricucci arrestato -. Credevo nel valore del matrimonio, nel progetto comune, mi sono ritrovata ad affrontare cose più grandi di me, in un mondo in cui ero fuori posto, non c’entravo nulla. Infangata dalle intercettazioni. Fu molto difficile uscirne. Mi chiusi a riccio. Nessuno che spendesse una parola buona per me, mi dipingevano come un’arrampicatrice sociale ambiziosa che aveva voluto accasarsi con un uomo ricco. Che poi quale donna sogna di sposare un povero?".

Ora però la Falchi è finalmente felice accanto al compagno Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia. Il loro legame dura da dieci anni e da poco sono andati a convivere. Non senza difficoltà, ammette ironicamente: "Nessuno dei due era abituato alla presenza continua di un’altra persona in casa, comunque restiamo molto autonomi e liberi".

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 4 marzo 2022.  

Faccia un bel respiro, omm... Il 22 aprile, ne compirà 50. Brinda o si deprime?

«Bah, è un sacco di tempo ormai che non festeggio più il compleanno, figuriamoci questo, tutti quelli che mi vogliono bene non si azzardano nemmeno a farmi gli auguri, non vedo proprio cosa ci sia di bello», ribatte Anna Falchi, con mezzo sospiro e una risata piena, che poi, come darle torto.

«Però ho sempre l'entusiasmo di una bambina, me ne sento quindici di meno» . 

E miracolosamente quelli perlopiù dimostra, dentro e fuori, questo mix shakerato di finlandese e romagnolo, prima modella e pin-up da calendario («Il seno mi è costato 15 milioni di lire, ho dovuto pagarlo a rate», raccontò) con fidanzati famosi (Fiorello, Max Biaggi) e marito immobiliarista/pirata della finanza/furbetto del quartierino (Stefano Ricucci) finito in rovina e in manette, perennemente inseguita dai paparazzi da Sanremo a Piazza Affari, quindi attrice di tv cinema e teatro, trent' anni di carriera lunga e variegata, compreso un periodo di appannamento come capita a tanti, ora entusiasta conduttrice de I fatti vostri su Raidue, in duo con Salvo Sottile (e sì, vanno d'accordissimo). 

«Non amo le ricorrenze, non mi piace sentirmi al centro dell'attenzione, a casa non tengo nemmeno una mia foto».

Nel privato, ormai molto meno turbolento, con una carinissima figlia dodicenne, Alyssa (avuta a 38 anni, il papà è l'imprenditore Denny Montesi, altro ex, qualche burrasca tra loro, oggi rapporti affettuosi), da oltre un decennio Anna Kristiina da Tampere ha trovato pace sentimentale accanto ad Andrea Ruggieri, 46, avvocato, giornalista, deputato di Forza Italia e (cit. profilo Twitter) «amante di vodka martini, calcio e tennis», nonché notoriamente nipote di Bruno Vespa. Perciò niente candeline e zero regali. 

«Eh no, il regalo lo pretendo, è obbligatorio, adoro le sorprese. E comunque uno l'ho già avuto, quando finalmente mi hanno offerto una trasmissione così importante nel daytime della Rai. Ogni mattina mi sveglio felice: il pubblico, i colleghi, la diretta, il batticuore». 

Con gli anni è diventata più...

«Saggia e controllata».

 E meno...

«Esuberante. Ho imparato a frenarmi». 

Da piccola che tipetta era?

«Vivacissima, ne combinavo di tutti i colori. Studiosa, anzi secchiona. Però avevo già un bel caratterino. In seconda elementare, a Scandiano, la maestra ci portò a visitare una fattoria con gli animali. Mi venne una sete tremenda e, senza avvisare nessuno, scappai per tornare a scuola a bere dell'acqua. Quando mi acciuffò, l'insegnante mi diede un gran ceffone, lo meritavo. E mi obbligò a scrivere mille volte sul quaderno a righe: "Non lo farò mai più". Che male alla mano. Per fortuna cinquecento me le scrisse mamma». 

Da grande voleva fare la...?

«L'architetta. Costruivo casette di legno, di cartone, con i mattoncini Lego. Per le bambole e per i gatti». Adolescente terribile? «Di più. Ero ambiziosa, volitiva, smaniosa di libertà, che ho ottenuto molto presto». 

Nel 1989 si piazzò seconda a Miss Italia.

«Ci eravamo appena trasferite a Pesaro e mi iscrissi al concorso per fare amicizia con altre ragazze. Ho imparato a sfilare in passerella. Poco dopo debuttai in tv come valletta di Bruno Gambarotta e Giancarlo Magalli a Lascia o Raddoppia , mi divertivo tantissimo». 

Nel 1992 il celebre spot pubblicitario per la Banca di Roma, regia di Federico Fellini.

«Il set era al lago di Bracciano. Un prato fiorito, gli alberi, il treno, tutto finto. Fellini mi vide arrivare trafelata - con una camicetta bianca di sangallo annodata alla vita e un paio di jeans comprati in un negozio dell'usato di via del Governo Vecchio perché ero senza soldi, struccata, e mi volle così com' ero, anche se era pronto un camper zeppo di vestiti e accessori. Ero convinta che non mi avrebbe mai presa, perché ero troppo magra e ancora decisamente piatta, così diversa dalla sua donna ideale, invece rimase colpito dal mio corpo acerbo, dal viso esotico e dall'allegria romagnola». 

Durante le riprese, il Maestro le suggerì di essere «un po' gatta e un po' m..., agli uomini piace così».

«Scherzava eh. Che esperienza. E che fortuna aver vissuto quei favolosi anni Novanta, l'ultima scia di Dolce Vita! Ho avuto la possibilità di lavorare con tutti i grandi di cinema, teatro e tv, da Fellini a Dino Risi, Carlo Lizzani, Pietro Garinei e Pippo Baudo, con cui ho fatto il Sanremo dei record, quello del 1995. Pippo fu fantastico. Mi avevano messo in guardia: farai poco o niente. Invece fu protettivo e generoso, lasciandomi lo spazio che volevo sul palco, si divertiva con le mie gaffe. Autorevole persino mentre in camerino ci dava gli ultimi consigli, con la giacca da sera, il papillon e sotto ancora soltanto i boxer. Il più bravo in assoluto. Una formazione unica, che mi ha dato quel qualcosa in più. Mi piacerebbe rifare un varietà del sabato sera, di quelli classici con la Carrà, glamour inimitabile». 

Sta ri-sospirando.

«Mi manca lo star system di quei tempi, anche se era difficile gestire la popolarità, i media potevano crearti e distruggerti, mentre oggi con i social sei tu a scegliere cosa e come comunicare con il pubblico. Però l'immagine costruita allora dura nel tempo, io vivo ancora di rendita».

Caso unico di modestia in un mondo di vanesi cronici, si è definita un'attrice mediocre. «Non sono proprio portata, forse solo per le commedie, perché ho la battuta pronta, però faccio fatica a seguire un copione, funziono di più se posso andare a ruota libera. Non è umiltà, è onestà verso me stessa». 

Capitolo amori: lungo, serve un Bignami.

«Eh». 

Fiorello, 1994-1996.

«Una grande passione. In quel periodo vivevo a cento all'ora, come una vera star. Fu un'esplosione, una botta di adrenalina, eravamo sulle copertine di tutti i giornali. Non è durato molto ma è stato bello, mi ha fatto diventare donna». 

A Sanremo 1995 lei era la valletta, lui un cantante in gara. E tutti spettegolavano su certe vostre intemperanze passionali che avrebbero tenuto svegli i vicini di stanza, lei ha sempre smentito. Ma in un'intervista invece rivelò di quando, per fargli una sorpresa di compleanno, andò a trovarlo a Milano, senza preavviso - male - e lo trovò a letto con un'altra. Vero?

«Beh, insomma, più o meno dai. Del resto chi non è stato tradito, a questo mondo? Nessuno è immune dalle corna». 

Pure lei ha tradito?

«Assolutamente sì, sempre. A volte per ritorsione. Sono vendi-cattiva». 

Max Biaggi, 1998-2000, mese più mese meno

«Bravissimo ragazzo, intelligente, serio, in quel momento avevo bisogno di equilibrio e lui mi ha aiutato a crescere. Siamo ancora amici, ci sentiamo, restano i bei ricordi. Credo che se certe persone sono entrate nella mia vita è perché dovevano esserci». 

Nel 2002 arrivò Stefano Ricucci da Zagarolo, immobiliarista, ex odontotecnico, che con un raid in Borsa tentò la scalata al «Corriere della Sera» e ricadde giù. La conquistò regalandole un'aspirapolvere. Il 9 luglio del 2005 il matrimonio trionfale a Villa Feltrinelli, Argentario, 26 invitati e 40 bodyguard, l'abito da Venere di Botticelli, il colpo della strega alla vigilia. Nove mesi dopo fu arrestato. Lei era Lady Finanza.

«Fu il periodo più bello e insieme il più brutto della mia vita. Credevo nel valore del matrimonio, nel progetto comune, mi sono ritrovata ad affrontare cose più grandi di me, in un mondo in cui ero fuori posto, non c'entravo nulla. Infangata dalle intercettazioni. Fu molto difficile uscirne. Mi chiusi a riccio. Nessuno che spendesse una parola buona per me, mi dipingevano come un'arrampicatrice sociale ambiziosa che aveva voluto accasarsi con un uomo ricco. Che poi quale donna sogna di sposare un povero?» 

Rimase con lui nella cattiva sorte, finché, nel giugno 2007 chiese la separazione. «Mi sono fatta forza e sono ripartita da zero, da sola. Ero un'appestata, non mi chiamava quasi più nessuno». Era arrabbiata con lui?

«All'inizio sì. Poi ho capito di avere le mie colpe. Ero stata troppo al mio posto, discreta, senza farmi e fare domande, avrei dovuto conoscere meglio la persona che mi stava accanto».

Vi sentite ancora?

«Di rado, ma con affetto». 

Nel 2010 ha avuto Alyssa da Denny Montesi, ma poco dopo vi siete lasciati. Da più di dieci anni invece il suo compagno è Andrea Ruggieri. Stavolta dura.

«Ci siamo conosciuti che la mia bimba era piccolissima e naturalmente ero concentrata su di lei. Andrea ha rispettato le mie priorità, è rimasto un passo indietro, anche se mi ha aiutato a crescerla, pur vivendo in due case separate». 

Ora siete andati a convivere. Come va?

«Da qualche mese. Non è facile, perché nessuno dei due era abituato alla presenza continua di un'altra persona in casa, comunque restiamo molto autonomi e liberi».  

Prima baruffa domestica?

«Abbiamo orari diversi, Andrea la sera rientra tardi e poche ore dopo io mi devo alzare per andare in tv. Capita spesso che io cucini qualcosa di buono ma lui non si presenta in orario, la cena si raffredda e mi arrabbio. Lui invece mi rimprovera di essere troppo fissata con l'ordine e la pulizia, specie adesso, spruzzo disinfettante ovunque e appena entra dalla porta gli grido di togliersi le scarpe».

È la sua metà finlandese.

«Sì. E sono maniaca della puntualità, una volta mi sono presentata ad un appuntamento in anticipo di una settimana». Matrimonio in vista? «No grazie, ho già dato».

·        Anna Galiena.

Anna Galiena: «Quante liti con Tinto Brass per le scene troppo hot. De Niro? Faceva il filo a tutte». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2022.

L’attrice: «Ho avuto problemi di balbuzie, a volte capita ancora». Formazione: «Sono membro dell’Actors Studio. Lavorare con Kazan? È un despota». L’impegno da regista: «Viviamo in un mondo di uomini che occupano posti di potere e la regia è potere»

Come attrice, la prima apparizione, è proprio il caso di dirlo, l’ha vissuta nel ruolo della Madonna. «Della Madonnnina — precisa Anna Galiena —. Più che apparizione divina è stato l’inizio della mia lunga dannazione... Non avevo ancora compiuto 4 anni e, dato che la mia famiglia si stava allargando a vista d’occhio, visto che dopo di me sono nati altri quattro, tra fratelli e sorelle, pure essendo una famiglia laica, vengo mandata dalle suore. Non avevo intenzione di salire sul palco ma fui scelta per le recite scolastiche proprio per interpretare il sommo personaggio... Chissà perché mi scelsero: ero bionda e con i capelli ricci, infatti mi misero una parrucca castana con i capelli che scendevano fino alla vita. Inoltre ero una ribelle e non gradivo molto l’atmosfera mistica dell’istituto religioso. Ma devo essere riuscita ad assumere un’aria ispirata, con le mani giunte, lo sguardo rivolto al cielo, perché fui molto osannata, e da lì in avanti mi trovai al centro di una serie di piacevoli, graditissimi privilegi».

Insomma, ha iniziato la carriera attoriale molto in «alto» e per di più in un convento?

«Non sognavo di fare l’attrice, la mia passione era la danza. A 8 anni ero alla scuola di danza classica al Teatro dell’Opera di Roma, felice di ballare e cantare. Ma a un certo punto mio padre decise che dovevo iscrivermi al liceo classico, studiare greco, latino e dare il via al percorso che mi avrebbe portato all’università, quindi a un lavoro sicuro da dirigente pubblica».

Ne fu dispiaciuta o accettò serenamente l’imposizione paterna?

«Dispiaciuta? Disperata. Piangevo in continuazione, chiusa in camera, ripiegata su me stessa. Circondata da una libreria piena di volumi, cominciai a gustare il piacere di leggere. Ma quello stato di clausura, troppo intellettualizzata, mi causò un problema: iniziai a balbettare. Quando mi veniva chiesto qualcosa, mi imputavo su certe sillabe... problema non facile da risolvere, ma pian piano imparai a governarlo».

In che modo?

«Quando dovevo dire qualche cosa parlavo velocissima, così non si capiva niente di quello che dicevo e nessuno si accorgeva del balbettio. È un problema che, in certi momenti, ho tuttora. Infatti quando affronto un nuovo testo da recitare me lo studio attentamente, gestisco la dizione, segno le trappole dove posso inciampare».

Come arrivò all’Actors Studio?

«Io sarei scappata da casa molto presto, ho sempre amato girare il mondo zaino in spalla, ma mio padre, severo, diceva: se te ne vai di casa, ti mando appresso la polizia. Quando ho finalmente raggiunto la maggiore età, che all’epoca era 21 anni, me ne sono potuta andare senza essere inseguita dalle forze dell’ordine. Perché l’Actors Studio? Non ho mai voluto studiare in accademie italiane, le ho sempre considerate troppo finte, dirette da tromboni... Il vero mito, per una che voleva intraprendere una carriera artistica, non poteva che essere Lee Strasberg, e tutti coloro che si erano formati con lui».

In che modo si presentò al provino?

«Arrivai terrorizzata, assieme ad altri giovani aspiranti attori. Mi ero preparata una scena tratta da un testo di drammaturgia moderna americana, dove impersonavo una ragazza destinata a suicidarsi. Nella platea del piccolo teatro ricavato da una chiesa sconsacrata, dove dovevamo esibirci, sapevamo che erano presenti personaggi come De Niro, Penn, Hoffman... già membri del laboratorio. Non potevamo vederli, perché erano nascosti da teli neri. Sono sempre stata portata a rischiare, ma per la paura mi mancava il fiato, quindi parlavo con un filo di voce, pianissimo. Ed ecco che quegli speciali spettatori, non li vedevo ma c’erano, ammutoliscono: si crea un silenzio tombale, provocato dalla mia recitazione sottovoce. Insomma, ho rischiato di fare una figuraccia e invece ne è scaturita una interpretazione molto vera, profonda... Fui accettata all’unanimità e diventai membro dell’Actors Studio. Mi pare che, come attrici italiane, siamo solo io e Francesca De Sapio. Una bella soddisfazione...».

Che tipi erano i vari De Niro, Hoffman, Pacino... conosciuti così da vicino?

«Dustin simpaticissimo, calorosissimo, curiosissimo, ha sempre avuto un’autentica passione per l’Italia e gli italiani, tante volte abbiamo chiacchierato a lungo. Bob me lo ricordo come un gran filone...».

Cioè, uno che ci provava?

«Le ragazze gli piacevano: era un gatto sornione, si muoveva lentamente, ti fissava. Si capiva che era sicuro di sé. Al, invece, tutto il contrario: si muoveva a scatti, un tipo nervoso, direi nevrotico, forse caratterialmente più insicuro. Poi ricordo Elia Kazan, una leggenda ma anche un vero despota, un uomo senza pietà: se doveva raggiungere un risultato, non cedeva su niente e durante i nostri allenamenti ci massacrava. Ho interpretato Nina nel “Giardino dei ciliegi” di Cechov diretta da lui e ne porto ancora i segni... Ma è stata una formazione molto importante».

Poi Tinto Brass: perché accettò «Senso ’45»?

«Con Tinto ci conoscevamo da dieci anni e, prima della sua erotomania, l’ho sempre considerato, e lo considero, un uomo colto, piacevole. Avevo visto alcuni suoi film che mi erano piaciuti e più volte mi aveva proposto di lavorare insieme, gli avevo sempre risposto di no, finché mi arriva la sceneggiatura di “Senso ’45”, era bellissima, fedelissima alla novella di Camillo Boito, sia pure trasferita in un’altra epoca. Il film di Visconti meraviglioso, però a mio avviso aveva reso troppo romantica la vicenda, dove invece nessun personaggio è positivo, direi piuttosto che ha un contenuto nichilista. Accettai la proposta di Tinto, mettendo dei paletti precisi».

Quali?

«Innanzitutto gli dissi: le scene ginecologiche con me te le scordi».

E lui ha accettato?

«Abbiamo litigato dal primo all’ultimo giorno di set. Nelle scene che lui voleva rendere più hot fu costretto a mettere una controfigura, perché io non ero disposta a farmi inquadrare in certe posizioni. L’unica in cui sono veramente io, nuda, è quando con Gabriel Garko, ovvero il tenente Helmut Schultz, mio amante, nuotiamo nelle onde del mare. La pornografia non aiuta nel cinema e alla fine non ho voluto partecipare nemmeno alla promozione del film, sono andata solo alla prima conferenza stampa».

Il vero primo grande successo nel cinema, però, lo aveva ottenuto prima, con Philippe Leconte, nel film «Il marito della parrucchiera».

«Questa è tutta un’altra storia, la definirei poetica. Inizia con le belle lettere che il regista mi scriveva rigorosamente con penna stilografica e dove mi dava del voi, spiegandomi i dettagli delle sue idee sul personaggio. Ero incantata. Mentre andavo e venivo tra Roma e Parigi per altri impegni lavorativi venni a sapere che nell’ambiente giravano voci sulla scelta, per questo film, di un’attrice italiana: si diceva che per il regista sarebbe stato casser le visage, cioè rompersi la faccia, un autentico fallimento. Mi sono un po’ spaventata, ma mi arrivò un’altra lettera rassicurante, dove mi diceva di non perdermi in elaborazioni mentali e che mi avrebbe guidato lui. Voleva che ascoltassi certi brani di Dvorak: l’essenza dell’animo di Mathilde, il mio personaggio. Aveva ragione, musica soave, cui si ispirò poi l’autore della colonna sonora, Michael Nyman».

Come si è preparata a vestire i panni di una parrucchiera?

«Feci un corso per imparare il mestiere, perché i miei gesti fossero realistici. Tutti i giorni, per un mese intero, dalla mattina al pomeriggio, lavavo e tagliavo capelli a gente che accettava di farsi fare la messa in piega gratis. Ero affiancata da un vero parrucchiere che interveniva se sbagliavo... Lì ho capito quanto sia faticoso quel lavoro, a fine giornata dovevo farmi massaggiare il braccio destro che mi doleva tantissimo! C’è stato un momento in cui ho temuto di non riuscire ad affrontare il personaggio, troppo diverso da me, leggevo il copione e piangevo... poi ho realizzato che era la mia occasione per dare il via alla carriera: non potevo rinunciare, sarebbe stata la fine del mio sogno da attrice».

Invece il mestiere non l’ha cambiato...

«Quello di attrice no, ma ora sento la necessità di fare anche la regista. Le sole regie che ho firmato finora sono state su di me, invece voglio e credo di essere in grado di dirigere altri attori».

Però sia nel cinema sia nel teatro non compaiono molte registe.

«Viviamo in un mondo di uomini che occupano posti di potere e la regia è potere, ma il vento sta prendendo un’altra direzione. Le differenze di ruoli tra i due sessi le vedo soprattutto nel cinema, forse in teatro la cosa sta cambiando più rapidamente. Soprattutto all’estero, nei Paesi nordici, dove ci sono molte donne alla regia. Mi auguro che accada presto anche qui al sud».

E infatti ora a teatro lei è protagonista e regista dello spettacolo «Coppie e doppi», tratto da Shakespeare, dove interpreta ruoli sia maschili sia femminili simultaneamente.

«Amo il Bardo e mi sono inventata un bel gioco scenico. Ho selezionato alcuni dialoghi di testi celebri dove sono Amleto e Ofelia, Macbeth e Lady Macbeth, Romeo e Giulietta, Otello e Desdemona... ovvero il maschile e il femminile. Non è stato difficile, è bastato un po’ di allenamento tecnico e credo di esserci riuscita bene...».

Com’è nata l’idea?

«In ognuno c’è sia il maschio sia la femmina, basta coglierne l’essenza e lasciarsi andare».

Lei viene da una famiglia prolifica. Si è sposata due volte, perché ha scelto di non avere figli?

«Mi sentivo portata a diventare madre, ma non è successo e, forse, dato il mio lavoro non era possibile conciliare i due ruoli. Non mi sento irrealizzata, vivo felicemente un’esistenza solitaria. Il mio sogno è ritirarmi, un giorno, in una piccola isola siciliana, di cui non dico il nome, e dove posseggo una piccola casa, per godere in pieno del mistero della natura».

·        Anna Maria Barbera.

Anna Maria Barbera compie 60 anni: il successo con Sconsy, le difficoltà, l’amore per la figlia, 9 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.

Aneddoti e curiosità poco note sull’attrice comica lanciata da Zelig, nata a Torino il 15 gennaio 1962.

Gli inizi come corrispondente

«Vi ho mancato o no?»: quando il personaggio di Sconsolata detta Sconsy ha fatto la sua apparizione sul palco di Zelig qualche settimana fa è stato accolto da uno scosciante applauso, segno che il pubblico non ha mai dimenticato Anna Maria Barbera nonostante nell’ultimo decennio sia apparsa poco in televisione. L’attrice, che oggi festeggia i suoi 60 anni (è nata a Torino il 15 gennaio 1962), è conosciuta per la sua verve comica ma il suo curriculum è molto variegato. Forse non tutti sanno che, giovanissima, è stata corrispondente per la testata L’Ora di Palermo: in quegli anni ha intervistato molti volti noti del mondo dello spettacolo tra cui il cantautore Giorgio Gaber, il regista teatrale Luca Ronconi e l’attore Antony Queen. Ma questa non è l’unica curiosità su di lei.

Gli studi alla Bottega Teatrale di Vittorio Gassman

Si è diplomata alla Bottega Teatrale di Vittorio Gassman a Firenze, che ha frequentato grazie ad una borsa di studio. In seguito, nel giro di qualche anno, arriverà allo Zelig con «Provaci ancora Man».

Zelig (e la popolarità)

Nel 2002 Anna Maria Barbera si afferma come comica: sarà il programma Zelig Circus - che ospita il suo già citato personaggio Sconsolata, una donna del sud emigrata al nord che si esprime in uno sgrammaticato linguaggio tutto suo - a regalarle la popolarità. Insieme a tante nuove opportunità professionali: l’anno successivo è a Scherzi a parte, insieme a Manuela Arcuri e Teo Teocoli, e dietro al bancone di Striscia la notizia.

Candidata ai David di Donatello e ai Nastri d'Argento

La sua interpretazione di Nina ne «Il paradiso all'improvviso» (2003) di Leonardo Pieraccioni le è valsa due candidature come miglior attrice non protagonista, ai David di Donatello e ai Nastri d'Argento.

Al cinema

Il film di Pieraccioni è stato solo il primo della carriera cinematografica di Anna Maria Barbera, che negli anni successivi è apparsa in diverse pellicole, tra commedie e cinepanettoni, come «Christmas in Love», «Eccezzziunale veramente - Capitolo secondo... me», «2061 - Un anno eccezionale», «Matrimonio alle Bahamas» e «Matrimonio a Parigi» (in questi ultimi due film ha recitato accanto a Massimo Boldi).

A Ballando con le stelle

Anna Maria Barbera è stata tra i concorrenti della prima edizione di Ballando con le stelle nel 2005. Si è esibita in coppia con il ballerino professionista Ilario Parise.

Una scelta d’amore

In un’intervista di qualche anno fa al settimanale Gente Anna Maria Barbera ha raccontato di aver dovuto lottare per avere sua figlia, Charlotte, nata nel 1987 (oggi attrice): «Quando sono rimasta incinta, il mio uomo voleva solo me. E io l’ho lasciato per avere lei. Non ho meriti, se non come ogni attento genitore, di aver cura, dedizione e preghiera, affinché il proprio figlio possa fiorire non interrompendo il progetto divino». Nella vita è proprio la fede a sostenerla: «La fede mi guida anche quando sembra che le forze vengano meno».

Il ritorno in tv

Nel 2019 Anna Maria Barbera, dopo vari anni di assenza dalla tv (fatta eccezione per qualche sporadica apparizione), si è raccontata a Mara Venier a Domenica In. Ha fatto riferimento, senza entrare troppo nei dettagli, ad un periodo difficile da poco superato: «Il peggio è passato e non voglio più parlarne. Il problema è fare i conti con la sofferenza quando c'è un'assenza. Nel rispetto di tutti e della mia mamma, che tira avanti, io devo stare attenta a quello che dico. “Cara mamma, tutto a posto”».

«Nel Mazzo del Cammin…»

Negli ultimi anni Anna Maria Barbera si è dedicata principalmente al teatro: attualmente è impegnata con lo spettacolo «Nel Mazzo del Cammin…» (prossimo appuntamento 29 marzo 2022 al Teatro Repower di Assago).

·        Anna Mazzamauro.

Mazzamauro: «Caro Fantozzi, sul palco vengo a dirti che ti amo». Fabrizio Dividi su Il Corriere della Sera il 3 Luglio 2022.

«Per anni ho odiato la signorina Silvani perché metteva in secondo piano le mie parti nelle opere di Goldoni, Cocteau e tutti gli altri. Ma è giusto dire che mi ha regalato l’immortalità e che con questo spettacolo ho fatto definitivamente pace con lei». 

«La mia più grande gioia? Entrare alla sera in teatro e prepararmi per lo spettacolo». Il mio più grande dolore? Non mi va di morire; ma chi l’ha detto che non possiamo essere eterni?». Dialogare con Anna Mazzamauro è un viaggio, a volte spassoso, altre riflessivo, tra 60 anni di cinema e teatro. Martedì sera alle 20.45 sarà la protagonista di «Com’è ancora umano lei, caro Fantozzi. Parole e musica dedicate a Paolo Villaggio», spettacolo prodotto da E20inscena che l’autrice-attrice presenterà alla Casa Teatro Ragazzi di corso Galileo Ferraris 266 nell’ambito del 16° «Festival Nazionale Luigi Pirandello e del ‘900» diretto da Giulio Graglia.

«Chi mi conosce solo per il cinema —esordisce — si è perso tutto di me. Se dovessi definirmi con una frase direi semplicemente: “Sono una attrice di teatro”». Ma il dubbio che vi sia risentimento verso il personaggio della signorina Silvani, eterno sogno erotico del ragionier Ugo Fantozzi, dura lo spazio di una risata: «Per anni l’ho quasi odiata perché metteva in secondo piano le mie parti nelle opere di Goldoni, Aristofane, Gogol, Cocteau e tutti gli altri. Ma è giusto dire che quella “merdaccia” della Silvani —si può dire quella parola? — mi ha regalato l’immortalità e che con questo spettacolo ho fatto definitivamente pace con lei». Tutto ebbe inizio con l’incendio del «Carlino», il teatro che Mazzamauro aveva fondato e che fu distrutto da un incendio nel 1968: «Con gli occhi di oggi credo che se non fosse successo, forse sarei rimasta lì per sempre e comunque non ho mai amato piangermi addosso».

Tra un commento sulle sue capacità canore, «non sono una cantante, ho studiato pianoforte e probabilmente sono solo piuttosto intonata»; e una riflessione sul teatro, «non credo assolutamente che, “brechtianamente”, un attore non debba provare emozioni per poterle provocare negli altri, se no sarebbe un semplice suggeritore», il discorso torna sul suo amato-odiato personaggio. «Lo “userò”, come farò affettuosamente con Villaggio, per parlare della mia vita, ma anche di nevrosi e inclinazioni che caratterizzano ognuno di noi. Ci saranno momenti di lettura tratti dalle pagine scritte da Villaggio e molti intermezzi musicali con il bravissimo Sasà Calabrese che mi accompagnerà alla chitarra e al pianoforte».

Sarà anche l’occasione per condividere con il pubblico la stima che l’ha unita all’autore di Fantozzi e a Luciano Salce, regista del film originale, che la scelsero per quel ruolo: «Pensi che mi ero presentata al provino per interpretare la moglie Pina ma mi ero conciata così bene che Salce mi disse: “Perdonami Anna, ma ti ricordavo più brutta. Ti darò la parte della donna dei sogni di Fantozzi”; Villaggio mi squadrò con uno sguardo mostruoso, si avvicinò a Salce e gli disse in un orecchio: “Luciano, è brutta pure lei ma uno come Fantozzi non può che sognare una così”». Altra risata fragorosa: «Fu il mio momento di gloria».

Personaggi ormai entrati nella storia del costume, quelli del ragionier Fantozzi e della signorina Silvani, che offrono continui spunti di riflessione sul presente. Per esempio sul «politicamente corretto» — «sinceramente me ne sono sempre fregata» — e sulla figura di una donna che forse oggi sarebbe scomoda per i suoi comportamenti. Mazzamauro risponde con un’anticipazione: «Il prossimo anno interpreterò Cyrano. Lo farò con abiti maschili, con il suo naso e non sarà una “Cyrana al femminile”; mi interessa la sofferenza delle persone, non ha senso dividerla tra uomini e donne».

Ma in definitiva, chi era la signorina Silvani? «Era volgare, sgarbata, talvolta crudele; ma lo era soltanto perché era una donna tragicamente sola. Non c’è nessuno più solo al mondo di chi rifiuta l’unica persona che l’ha amata veramente, per tutta la vita».

Francesca D'angelo per “Libero quotidiano” il 9 maggio 2022.

Anna Mazzamauro, mi deve levare un dubbio.

«Mi dica, basta che non riguardi la mia età. Anzi, mi fa una promessa prima di questa intervista? Non scriva quanti anni ho. Non amo le categorie. Gay, etero, vecchia, giovane: che vuol dire?». 

Ma non è mica un'etichetta: è un dato anagrafico. Non sarà invece che ha un problemino con la vecchiaia?

«Ah, questo è sicuro! Io detesto la vecchiaia: fosse per me vivrei per l'eternità, come un Highlander. Cerco di combattere il tempo che passa continuando a lavorare. Ma lei diceva di avere un dubbio. Prego».

Al Corriere della sera ha raccontato le cose tremende che Paolo Villaggio le diceva: «racchia», «cesso». Possibile che fosse così stronzo? O era solo un uomo infelice?

«Probabilmente entrambe le cose. Come tutte le persone molte intelligenti Villaggio sapeva essere stronzo: si approfittava del proprio acume per punire gli altri. Ricordo che aveva un atteggiamento snob verso i colleghi alle prime armi: eravamo tutti terrorizzati da lui».

Mi spiace per quello che ha subito. Dopo le sue dichiarazioni qualche collega, per esempio Milena Vukotic, l'ha chiamata?

«Si dispiace de' che? Nei racconti di Fantozzi ognuno di noi era un cesso: appartenevamo ciascuno a un diverso girone dantesco. Io a quello delle amanti, Milena a quella delle mogli e così via... Nessuno era amico di nessuno. Non voglio però che la gente mi dia della poverina perché Villaggio mi dava del cesso. Tra l'altro posso fare una correzione?». 

Prego.

«Il Corriere ha scritto che, quando eravamo ospiti da Barbara d'Urso, Villaggio disse di avermi scelta "come si sceglie un cesso" e che io risposi: "Ma tu hai fatto un sacco di soldi". Non andò così. Io replicai: "Un cesso sul quale avresti appoggiato volentieri le tue chiappe". Forse il termine chiappa ha spaventato il giornale!». 

Tranquilla, noi non ci formalizziamo. Mi dica però la verità: con lo spettacolo teatrale Com' è ancora umano lei, caro Fantozzi di fatto si sta prendendo la sua rivincita?

«Un po' mi vendico un po' mi riconcilio con Villaggio e anche con il mio personaggio. Vuole la prova? Durante lo spettacolo do finalmente un nome alla signorina Silvani: il mio. Lei ora è Anna Silvani». 

Lei è sempre andata molto fiera della sua bellezza atipica. Da donna a donna, però, le chiedo: non ha mai sofferto, nemmeno da bambina?

«Certo che ho fatto fatica, sia da bambina ma anche dopo. Capita purtroppo di imbattersi in qualche stronzo che sottolinea la tua atipicità (non parlo di bruttezza perché quella parola evoca qualcosa di volgare e di incolto) a maggior ragione nel mondo dello spettacolo dove sembra che non puoi recitare se non hai le gambe attaccate ai lobi delle orecchie e il sedere attaccato alla nuca...». 

Nonostante i proclami inclusivi, cinema e tv impongono di fatto un modello di bellezza a senso unico?

«Eccome. Persino le giornaliste dei Tg sono tutte belle e rifatte! Ma perché? Per non parlare di quante donne ricorrono alla chirurgia diventando tutte un bozzo. C'è poi un'altra cosa che mi stupisce: nelle interviste fingono tutti di essere dei sapientoni e dei saggi. Quanto mi fanno ridere! Non sento mai qualcuno che dica la verità! Ma perché non ammettere di avere dubbi, vizi, limiti?». 

Ha ragione: iniziamo subito. Un suo vizio?

«Qui è lunga... La verità è che sono una donna inutile».

Su, non dica così.

«Davvero: ho solo la virtù di sapere recitare. Il mio unico vanto è che non sono "diventata" un'attrice: lo sono sempre stata. È scritto nel mio dna. Sono utile solo quando sto sul palco. Ho solo questa virtù: il resto è una tragedia». 

Per molti lei è un'icona gay: ne è orgogliosa?

«Molto. Il 15 giugno porterò Com' è ancora umano lei, caro Fantozzi al Pride di Padova». 

Pensavo fosse contraria alle etichette...

«Sono riconoscente non tanto di avere quell'appellativo, ma per il fatto che mi venga riconosciuto un atteggiamento di rispetto. Nel mio spettacolo la signorina Silvani si dispera di essersi imbattuta in un uomo gay, in un "diverso", ma lui le risponde: "Non sono io a essere diverso, sono gli altri a essere troppo uguali".

Poi si infila la giacca per metà e aggiunge: "Io sono giacca e tulle, giacca e seta, giacca e piume"». 

Si sente invece un po' femminista nell'animo?

«Ecco, quella sì che è un'etichetta. Preferisco parlare di rispetto dei diritti e delle donne». 

Ha dichiarato: «Sono anarchica ma non bombarola». Cosa pensa della guerra in Ucraina?

«Rispondo citando il poeta Jacques Prévert: "Che coglionata la guerra!". In questa definizione c'è già tutto. La guerra è solo distruzione e morte. Appunto, una coglionata». 

C'è chi ha paragonato le restrizioni da Covid alla dittatura di Putin. Anche questa è una coglionata?

«Molto più di una coglionata! Il paragone non sta né in cielo né in terra: noi non siamo morti stando in lockdown, non abbiamo visto le case bombardate, gli edifici crollare, le vite cancellate. Nessuno ha ucciso nessuno». 

Si è vaccinata?

«Certo! So' tutta un buco: ho fatto tre vaccini, l'anti influenzale, il vaccino contro la polmonite e sono in attesa del richiamo anti Covid». 

Finora lei ha fatto molto teatro e poco cinema: è stata una scelta sua o di terzi?

«Di terzi, anche se io non so fare cinema: lo stesso Fantozzi è in fondo un'opera teatrale. Io e Paolo Villaggio ci comportavamo come dei buffoni del 600. La mia vocazione è il teatro: sono nata per quello, per immergermi nei personaggi, confondermi con loro. Detto questo, se ho fatto poco cinema non è dipeso da me».

Le offrivano sempre i soliti ruoli?

«A teatro sono una prima donna, al cinema vengo subito declassata a caratterista: un termine che detesto. Adesso poi che non ho più vent' anni, mi danno ruoli da anziana chiedendomi pure di balbettare: ma le pare? Gli ultimi due film che ho fatto sono stati tremendi (Poveri ma ricchi e Poveri ma ricchissimi, ndr)».

Ma allora perché li ha fatti?

«Sa... è comunque lavoro».

Dopo Com' è ancora umano lei, caro Fantozzi, cosa bolle in pentola?

«Porterò in teatro una dark lady. Non sarà un personaggio di fantasia ma un mostro davvero esistito. Sarà una storia molto forte di cui però non posso svelare di più». 

Un'ultima domanda. Ha paura della morte?

«Sì, per forza: sono atea. Quindi ho paura eccome della morte, perché non penso che ci sia qualcosa dopo». 

Paolo Villaggio era un uomo infelice. Lei invece?

«Sono felice perché faccio il lavoro che sognavo fin dalle elementari e per cui ho sempre lottato. Già solo questo mi infonde un senso di gratitudine immenso verso la vita. Inoltre, quando sono sul palco, sento tutto l'amore del pubblico. Mi sento viva, bellissima... felice».

Anna Mazzamauro: «Villaggio mi chiamò “cesso” in tv. Ma prima di morire mi disse: “Quanto sei bella”». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2022. 

La «signorina Silvani» si racconta. La crudeltà intelligente di Fantozzi, la rivalità con Pina, la risate con Filini. E poi la vita vera, con un uomo che l’ha ingannata (e derubata).

Anna Mazzamauro, 83 anni

Anna Mazzamauro vive a Roma. Ci sentiamo per telefono. Tarda mattinata. 

Anna, buongiorno.

«Buongiorno a lei, per me il risveglio è sempre tragico. Faccio tutto di notte, tranne l’amore perché sto sola». 

È sola da tanto?

«L’uomo che amavo mi è stato vicino venticinque anni, poi non ce l’ha fatta più: è morto». 

È così difficile stare vicino a Anna Mazzamauro?

«Non le dico. Io se non salgo su un palcoscenico sono niente, non so dove andare, non so che fare. Ho 83 anni e ho già detto a mia figlia che per la mia bara dovranno usare le tavole di legno del palcoscenico». 

Infatti lei sta ancora lavorando, in tour con uno spettacolo ispirato alla «sua» Signorina Silvani, la donna amata da Fantozzi e forse uno dei personaggi più trasversalmente popolari della cultura italiana.

«Ma lo sa che il provino io lo avevo fatto per interpretare la Pina?» 

Ma no.

«Conoscevo Luciano Salce, il regista. Cercavano una donna molto brutta e lui si ricordò di me. Il problema era che io non sapevo che stessero cercando una cessa, anzi, una “bella atipica”, come dico io, e così mi presentai tutta in tiro, con una cofana di capelli ricci, i tacchi e un vestito rosso attillato. Salce mi guardò perplesso e disse “Anna, ti ricordavo più brutta”. Stavo per perdere la parte quando Paolo (Villaggio, ndr) si avvicinò e bisbigliò al regista: “No, c’è bisogno di una donna che faccia innamorare Fantozzi. Questa è piena di difetti ma li porta sui tacchi”. E così la mia vita cambiò per sempre». 

Nacque la «signorina Silvani», senza nome di battesimo. Non bella ma furba, sola e disperata, che dice sì a ogni uomo che incontra. Perché?

«Ha detto bene, “sola e disperata”. Volevo creare un prototipo di donna che dietro alle continue storie di sesso che cercava, nascondeva una grande miseria. Quando viene eletta Miss Quarto Piano della Megaditta è perché, in realtà, si è concessa a tutti gli uomini del primo, secondo e terzo piano. Ma questo non basta a colmare quella solitudine. Anche quando la fanno sposare con Calboni, per me resta sempre la povera signorina Silvani, che deve fingere di essere incinta con Fantozzi, insomma. Un personaggio tragico che però ha fatto ridere generazioni intere». 

E poi c’era l’ufficio: nascevano la figura dell’impiegato, i flirt aziendali, le amicizie da scrivania.

«Copiavo tutto da mia madre, che era una impiegata al Ministero delle Finanze. La camicetta di seta sotto il maglione, le scarpe col tacco infilate nella borsa e quelle comode per andare in tram. Un tipo di donna che si trasforma all’occorrenza, che sa fare bene le metamorfosi. E così la signorina Silvani era santa e demonia a seconda delle situazioni. I cuoricini, le collanine da pochi soldi, lo sputo nel fard: quelle erano invenzioni mie perché quella donna doveva essere terribile, l’unica che Fantozzi, nella sua miseria morale e materiale, potesse desiderare».

Lei ha lavorato vent’anni con Villaggio. Siete diventati amici?

«Mai. Quando gli chiesi perché non ci frequentavamo fuori dal set, mi rispose: “Io frequento solo le persone ricche e famose”. Non sapevo mai quando scherzava o quando mostrava il lato più duro del suo carattere. Come tutte le persone straordinariamente intelligenti, Paolo sapeva essere crudele. In più c’è da considerare che lui era emerso tardi, a quasi quarant’anni: era pervaso da una punta di rancore per tutto quello che aveva dovuto superare prima del successo». 

Poi però il successo per lui era arrivato.

«Sì, ma Paolo non era felice. Una volta stavamo girando a Courmayeur; mi si avvicinò e mi disse: “Strehler mi vuole con sé nel ruolo del buon soldato Svejk”. Io replicai: “Ottimo, tu sei il buon soldato della Megaditta. Gli dirai di sì, vero?”. Non rispose. Poi non se ne fece nulla: capii che a lui bastava aver ricevuto quella proposta. Era sazio solo perché un grande regista lo aveva chiamato. Sul lavoro era un uomo rispettosissimo: era lui che veniva nella mia roulotte a ripassare la parte, era lui che chiedeva al regista di rifare una scena perché io non ero emersa bene». 

Nel privato era comunque gelido.

«Le racconto questo aneddoto. Poco prima di morire, con lui che era già sulla sedia a rotelle, andammo nel salotto televisivo di Barbara d’Urso a raccontare Fantozzi. Quando la conduttrice gli chiese come mi aveva scelta, lui non si scompose e rispose: “Come si sceglie un cesso”. Io allora ribattei secca: “Ma con quel cesso hai guadagnato molto”. Non replicò. Uscimmo dagli studi televisivi. Io mi avvicinai, tirai fuori il libretto di assegni e gli dissi: “Adesso possiamo essere amici?”. Lui non parlò per qualche minuto. Poi mi guardò e mi disse: “Quanto sei bella”. Furono le ultime parole che Paolo mi disse e io capii tutta la sua grandezza, la sua umanità forse nascosta sotto un’apparente crudeltà. Siamo attori, recitiamo sempre». 

E con Milena Vukotic, cioè la signora Pina Fantozzi, oggi siete amiche?

«No, per niente. Innanzitutto eravamo rivali, perché lei era la moglie e io l’amante: certo, si recitava, ma non mi ispirava una reale voglia di amicizia. In realtà nessuno riusciva a essere amico di nessuno su quel set. E sa perché? Perché i film di Fantozzi sono straordinari nel trasformare l’ufficio, la famiglia, le relazioni affettive e le amicizie in grandi gironi danteschi. Finivi per aver paura di essere risucchiato in quel gorgo infernale e così evitavi accuratamente tutti i colleghi. Solo con il ragionier Filini io ridevo tanto. Ma esclusivamente tra una scena e l’altra, non fuori dal set». 

Il grandissimo Gigi Reder.

«Io lo chiamavo Gigi Rider perché sembravamo due ragazzini delle medie: ci facevamo gli scherzi, commentavamo le scene con frasi sconce, insomma ci divertivamo. E Paolo ci guardava sorridendo, secondo me con una punta di invidia: lui era già divo e non poteva permettersi intemperanze da vecchi attori di teatro». 

E Mariangela, cioè l’attore Plinio Fernando, com’è?

«Bizzarro. Qualche volta rimaneva con gli abiti da bambina tra una ripresa e l’altra solo per farsi prendere in braccio da qualche ignara comparsa che non si era accorta di coccolare una bambina ma un ragazzo maturo. E molto astuto!» 

Anna, chi è stato il grande amore della sua vita?

«Nello Riviè, che conoscevo dai tempi dell’università ma all’epoca non mi filava. Ci siamo ritrovati più tardi e siamo stati insieme fino alla sua morte (nel 2002, ndr.). È stato un grande amore, anche se io non ho mai detto “ti amo” nella mia vita, ogni volta che sento questa espressione mi sembra di essere in un film scadente». 

Lo ha mai tradito?

«No, ma mentre stavamo insieme nella mia vita è comparso un uomo. E allora io ho commesso l’errore che commettono molte donne: ho creduto che dietro la natura taciturna di questo signore ci fosse chissà quale profondità morale. Solo in seguito capii che stava zitto perché non aveva nulla da dire. Così all’inizio scattò una specie di dipendenza: io che cercavo di interessarlo regalandogli libri, biglietti del teatro. Lui non accorciava la distanza, restava chiuso nella sua impenetrabilità. Fino a quando non cominciò a chiedermi dei soldi in prestito: prima sei milioni (di vecchie lire, ndr.), poi dieci. Insomma, mi ritrovai ingannata e derubata. Tornai da Nello». 

Lui capì?

«Sì, perché comprese che io “mi ero fatta un film”, come si dice a Roma. Avevo semplicemente interpretato il ruolo di una donna che perde la testa per una figura misteriosa, niente di più. Ho fatto l’attrice, sono un’attrice. Punto». 

Lei ha interpretato anche Cyrano.

«Perché credo che sia molto femmina come personaggio. Soffre per il suo naso, ma sa bene che con altre qualità, quelle interiori, si possono raggiungere mete inaspettate. Quello che accade a me sul palco: mi sento bellissima, sensuale, libera. Non mi è mai passato per la testa di ritoccarmi il naso o di tirarmi la faccia: ho una chirurgia estetica molto più potente, il teatro. Posso essere tutto, santa e puttana, buona o cattiva, bella o brutta. Quando, ancora oggi, sento che il pubblico alla fine esplode in applausi fragorosi, penso di aver fatto proprio bene a fare l’attrice. E non parlatemi di morte: sono atea, paradiso e inferno sono favole bellissime, ma so anche riconoscere il talento di Dante. Ogni altra storia è una storia scritta male».

·        Ana Mena.

Il brano scritto da Rocco Hunt. Chi è Ana Mena, la reginetta (spagnola) delle hit estive che porta a Sanremo “Duecentomila lire”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 31 Gennaio 2022 

È stata capace nella sua giovanissima carriera di conquistare 36 dischi di platino, due dischi d’oro, 5 milioni e mezzo di ascoltatori mensili su Spotify e più di un miliardo e mezzo di visualizzazioni totali su YouTube, oltre a ottenere il ‘titolo’ di ‘reginetta’ delle hit estive create assieme a Fred De Palma e Rocco Hunt.

Ana Mena, 24enne popstar spagnola di Estepona, in Andalusia, è pronta a fare il suo esordio tra i big del Festival di Sanremo in programma dal primo al 5 febbraio, col suo brano “Duecentomila lire”. La giovane cantante e attrice, la sua carriera è decollata infatti partecipando alla miniserie “Marisol, la película”, era già salita sul palco del Teatro Ariston nel 2020, ospite di Riki.

Amore per la musica nato grazie ai genitori, come raccontato da Ana nell’incontro streaming con i partecipanti del Festival realizzato a pochi giorni dal debutto all’Ariston. La madre, quando era bambina, le ha trasmesso “l’amore per il flamenco, mentre mio padre ha sempre ascoltato tanti vostri artisti, come Ricchi e Poveri, i Matia Bazar, Mina… con lui guardo da sempre il Festival“, racconta Ana.

Nonostante un curriculum impressionante, Ana ammette che partecipare al Festival le mette soggezione: “Vedendo nella serie ‘The Ferragnez’ come si sentiva Fedez l’anno scorso prima di esibirsi, mi è salita l’ansia”, racconta la 24enne.

All’Ariston Ana porterà “Duecentomila lire”, brano scritto da Rocco Hunt, Federica Abbate e Zef, che l’ha pure prodotta. Con il rapper salernitano Rocco Hunt la popstar ha già collaborato in passato, cantando con lui in “A un passo dalla Luna” e “Un bacio all’improvviso”, e venerdì salirà sul palco per la serata delle cover in cui interpreteranno insieme un medley di brani.

La giovane cantante è stata anche al centro di polemiche per le sue origini non italiane. “So che se ne è parlato e lo capisco, ma io affronto Sanremo cercando di rendere omaggio con grande umiltà e rispetto alla musica italiana, che adoro e che mi ha reso l’artista che sono“, ha risposto con serenità Ana, che nel prossimo album in uscita dopo il Festival avrà metà dei brani proprio in italiano.

Testo di ‘Duecentomila lire’ di Ana Mena

Sola io ti aspetterò

A cena da sola

In mezzo al fumo di mille parole

Di canzoni che non hanno età

Sulla pelle il tuo sapore

Non si muove

Siamo bravi a continuare

A farci male

lo che non cercavo un ragazzo di strada

Poi mi hai distratta

Vendendomi un’altra bugia

Quando la notte arriva

M’ama non m’ama un fiore

America Latina

Un Cuba libre amore

Quando la notte arriva

Duecentomila ore

Amarsi un’ora prima

E dopo lasciarsi andar

È un’altra sera

Che se n’è andata

È questa attesa

Che è disperata

È l’aria fredda

Di una giornata

Così di fretta

Dimenticata

Quando la notte arriva

M’ama non m’ama un fiore

America Latina

Un Cuba libre amore

Quando la notte arriva

Duecentomila ore

Amarsi un’ora prima

E dopo lasciarsi andar

Quando la notte arriva

Duecentomila ore

Amarsi un’ora prima

E dopo lasciarsi andar 

Fabio Calcagni.  Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

·        Anna Netrebko.

Valerio Cappelli per il "Corriere della Sera" il 19 febbraio 2022.  

Anna dei miracoli, fino all'età di dieci anni, voleva diventare attrice di cinema: «In Russia vedevo i film di Totò, Adriano Celentano e Fantozzi. Quante risate. Ma quando ho cominciato a cantare, è stato più interessante che recitare». 

E' la diva del nostro tempo, per Domingo è la cantante più vicina alla Callas, «per voce, abilità a recitare e musicalità». La inseguiamo dalla scorsa estate, prima la spalla rotta, poi la morte del padre a cui era legatissima e altre disavventure. Finalmente è pronta: oggi e il 21 al San Carlo canta Aida con suo marito Yusif Eyvazov, la regia è quella di Mauro Bolognini del 1978. direttore Michelangelo Mazza. «A Napoli, dopo due opere all'aperto, è il mio debutto al San Carlo, ed è la mia prima produzione scenica in questa città fantastica, così piena di cose da vedere e scoprire». 

In America l'hanno definita «La Trimadonna». «Perché sono stata l'unica cantante ad aprire per tre volte la stagione al Met di New York. Tatjana dell'Onegin, era l'esordio assoluto di una inaugurazione in russo. Allestirono schermi giganti a Times Square e di fronte al teatro». 

E le sue cinque aperture di stagione alla Scala?

«C'è molta preparazione ma per è tutto importante. Com' era dar voce a Lady Macbeth dentro un ascensore? Non così complicato, certi problemi delle prove si sono risolti, era uno degli effetti speciali di una produzione che mi è piaciuta. Ho fatto anche un cd con la Scala e Riccardo Chailly, Amata dalle tenebre: sono eroine che guardano in faccia la morte. Non c'è nulla di fatalistico, è un discorso più poetico e sofisticato. Le tenebre sono l'ombra di depressione e solitudine». 

Lei è un brand, a Salisburgo vendevano 6 tazzine da caffè da lei autografate a 2900 euro

«Ma non ho uno stile di vita lussuoso, sogno di avere una barca, anche piccola, dove nessuno può vedermi. Le amiche del cuore sono quelle della gioventù a Krasnodar, mi seguono, le chiamano «la scorta». 

Con loro non parlo di me e della mia carriera, parliamo di noi. Sono una donna invidiata?

Il tempo libero è l'unico bene di cui sono a corto. Non ho vacanze, non ho tempo per me, non è una vita meravigliosa, la mia». 

Non ha mai parlato della sua prima adolescenza.

«Sono nata a Krasnodar, nella Russia meridionale. Ero selvaggia, facevo dispetti agli adulti e non parlavo: urlavo. Sono sempre stata piena di energie, ricordo una mia lontana recita a Vienna: L'elisir d'amore, ai saluti finali per ringraziare il pubblico feci la ruota come una ginnasta, il vestito si sollevò e si videro i miei slip con i fiori. Una vergogna terribile, ma ero così giovane...

Mi insegnarono a inchinarmi con umiltà e gratitudine. Da piccola tenevo spettacolini in casa dove cantavo e ballavo. Volevo fare un unico ruolo: quello di Baba Yaga, la strega delle fiabe russe. Le principesse non mi interessavano. Più tardi, anziché in soggiorno, gli show li ho fatti nel seminterrato al cui ingresso mettemmo la scritta: la grotta delle meraviglie. Il mio amato padre, Yuri, in seguito vi fermentò il vino. Papà era geologo, fu lui a incoraggiarmi quando espressi il desiderio di cantare: l'importante è che fai sul serio, mi disse. Mia madre morì nel 2002 di tumore, il giorno in cui feci il debutto assoluto al Met». 

Presto si trasferì a studiare a San Pietroburgo

«Agli esami di ammissione della prima scuola, alla prima prova, cantai e ballai. Alla seconda prova un tipo della commissione mi disse: se balli ancora mi alzo e me ne vado. Poi andai al Conservatorio di San Pietroburgo, di fronte al teatro Marinskij: promisi a me stessa che un giorno vi avrei cantato». 

E arriviamo al famoso episodio in cui faceva le pulizie.

«Se ne sono dette tante. Avevo una specie di uniforme di lavoro che stava a indicare che lavoravo nel teatro. Valery Gergiev, il direttore d'orchestra, mi chiese lavori qui? Ero intimidita, annuii. Dopo qualche mese all'audizione per nuove voci mi presentati con altre candidate. Gergiev rimase spiazzato. Mi ascoltò, mi chiese: puoi imparare Susanna delle Nozze di Figaro ? Così è cominciato tutto. Per fare questo lavoro devi sacrificare tutto».

Come sta suo figlio, Tiago, affetto da autismo?

«Meglio, è un ragazzo magnifico, tutti lo amano. Tiago rende la nostra vita migliore».

·        Anne Hathaway.

Anne Hathaway, l’attrice di «Il Diavolo veste Prada» compie 40 anni: tutto quello che non sapete di lei.  Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 12 Novembre 2022.

Dal nome storico alla sfumata carriera ecclesiastica, tutto sull’attrice newyorkese

Origini

Anne Jacqueline Hathaway è nata il 12 novembre 1982 a New York da Gerald Hathaway, avvocato, e Kate McCauley, attrice. Anne è la figlia di mezzo e un fratello più grande e uno più piccolo.

Un nome importante

Una particolare omonimia unisce l’attrice a un’altra famosissima donna. Anne Hathaway è infatti anche il nome della moglie del drammaturgo inglese William Shakespeare.

Religione

La famiglia Hathaway ha cresciuto i propri figli secondo i dettami della religione cristiana cattolica, alla quale Anne era fortemente legata durante l’infanzia. Intorno agli 11 anni la futura star sentì addirittura la chiamata per farsi suora, ma nel corso degli anni successivi il suo rapporto con il cattolicesimo si raffreddò notevolmente, anche grazie al coming out del fratello Michael.

Allergie

Hathaway è intollerante al lattosio e allergica ai gatti. Ironicamente, l’attrice avrebbe dovuto partecipare alla campagna pubblicitaria di “Got Milk?” (che poi evitò) e interpretò l’iconica Catwoman in “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno”.

Ruoli premiati

Sebbene sia nota in gran parte per i suoi ruoli all’interno di commedie e rom-com, Hathaway ha in curriculum anche una sfilza di personaggi drammatici, come quello di Fantine in “Les Misérables” del 2012, che le valso anche il suo unico premio Oscar come miglior attrice non protagonista.

Relazioni

Nel 2008 Hathaway era fidanzata con l’immobiliarista Raffaello Follieri, ma la relazione naufragò quando il futuro sposo venne arrestato per truffa agli investitori e riciclaggio. Quattro anni dopo Anne sposa il collega attore Adam Shulman, con il quale ha due figli, Jonathan Rosebanks e Jack.

Assurdità sul set

Prima delle riprese di “Il Diavolo veste Prada”, ad Anne venne chiesto di ingrassare quasi 5 chili per rientrare al meglio nel personaggio di Andy. Al suo arrivo sul set il regista cambiò idea, costringendola a perdere i medesimi chili e a usare invece delle imbottiture nei vestiti.

·        Annibale Giannarelli.

The Voice Senior e la storia di Annibale: il riscatto a 50 anni da "Lo chiamavano Trinità". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 23 gennaio 2022.

Giannarelli, talento dimenticato e voce invisibile del film culto di Spencer e Hill, vince il talent di Raiuno grazie a un talento stellare. La commozione passa per tre generazioni (compresa quella dei miei figli)

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

“Siamo nelle mani di qualcosa più grande di noi: credo in un Dio senza bandiera”. Un Dio che, probabilmente, l’altra sera trotterellava tra Bud Spencer e Terence Hill nella leggenda degli anni 70, fischiettando il suo cavallo di battaglia, Lo chiamavano Trinità, trascinandosi dietro- come nell’omonimo film- una lettiga di sogni e di riscatto.

 Annibale Giannarelli, 74 anni, timido campagnolo di Sassalbo nelle praterie di Massa Carrara, pronuncia queste parole subito dopo aver vinto la finale stracciascolti di The Voice Senior su Raiuno. Lo fa senza smettere di piangere come un vitello; se ne sta aggrappato alla spalla del suo coach Gigi D’Alessio, illuminato dall’abitino catarifrangente della conduttrice Antonella Clerici, con la sensazione che davvero tutti i telespettatori che l’hanno votato stiano, per un attimo, nella stessa lacrima.

Annibale ha appena cantato - al piano e sfondandosi i polmoni- la colonna sonora dello spaghetti western di cui, dal 1970, è sempre stato l’artista invisibile. Prima ancora si era appropriato di My Way di Sinatra e ne aveva fatto magia. E ancora prima aveva cantato Billy Joel come neanche il vero Billy Joel. La vittoria di Giannarelli, il gigante della musica con la tristezza negli occhi, è stata applaudita all’unisono dai giudici di The Voice; esaltata dal direttore di Raiuno Stefano Coletta; pronosticata e gridata allo scoccare della diretta di mezzanotte dai miei due figli di 7 e 10 anni che da ieri strimpellano Trinità alla chitarra e ricercano ossessivamente su Netflix la filmografia di Spencer &Hill.  Non fanno sempre così, di solito preferiscono i Queen, i Led Zeppelin e Nick Cave. Comunque m'è salito un sussulto d'orgoglio.

Tra l’altro, i  miei ragazzi hanno sorriso, scoprendo che Hill stesso si è congratulato con Annibale, suo cantore il cui nome, per 50 anni buoni, non era mai finito neppure nei titoli di coda (la colonna sonora era firmata solo da Franco Micalizzi). La storia di Giannarelli è l’emblema di un ritorno quasi da romanzo. Emigrato dalla Lunigiana con la famiglia in Australia, a Melbourne, all’età di 13 anni; vincitore di un disco d’oro a 15 anni; spalla di Mina e Peppino Di Capri nei concerti a Sydney; abbandonato negli scantinati dei talenti sfioriti negli anni 80; colpito da vicende familiari gravi di cui preferisce non parlare e chiusosi nel silenzio del paesello sugli Appennini, Annibale ha ricevuto –come nei film di Frank Capra- una seconda possibilità. E non l’ha sprecata.

Ha surclassato concorrenti dal talento mostruoso (una vocalist con figlio a Dubai, una coppia di lavoro e di vita dalla voce tonante, un ballerino esplosivo estratto dalle teche Rai, un tizio canuto che canta come Barry White…); ed è entrato come una spada nei cuori degli spettatori. Ora, con la vittoria inciderà un singolo per la Universal. La musica toglie, la musica dà…

·        Antonella Clerici.

Da leggo.it il 29 novembre 2022.

In una lunga intervista al Messaggero, Antonella Clerici ha raccontato molte cose del suo privato. Cose anche piccanti, come il sesso. «A letto vanno bene le coccole, ma non solo quelle. Conta quantità e qualità, magari non tutti i giorni come un tempo, ma come si deve, con amore e anche una certa dose di trasgressione, perché no?» rivela la conduttrice. 

E, a proposito di trasgressione, ‘Antonellina’ in passato aveva parlato di parrucche, stivali, travestimenti per rendere più calienti le nottate. «Certo, anche questo. Ognuno trova il suo modo per stare bene assieme» ha dichiarato. 

Oltre al sesso, Clerici ha parlato anche di menopausa e chirurgia estetica. La conduttrice ha ammesso di fare uso di piccoli ritocchi ma senza esagerare. Ha cominciato a ricorrere a qualche ritocchino a 40 anni e consiglia di fare piccole modifiche piuttosto che grandi interventi che mutano completamente i connotati: «Dal chirurgo ci vado non più di due volte l’anno. 

Non voglio trasformarmi. Io faccio poche cose, continuative, e sempre d’estate perché d’inverno vado in onda tutti i giorni e si vedrebbe. Ho cominciato a 40 anni. È meglio fare piccoli ritocchi piuttosto che interventi improvvisi e innaturali. Vedo certe bocche in giro, mamma mia…».

E su un suo possibile ritorno alla conduzione del Festival di Sanremo, Clerici dice di essere disposta a farlo, magari per finire la carriera: «Vedremo, magari un giorno come addio alla tv. Comunque non sono avida: ho già fatto tutto e sto benissimo così».

Antonella Clerici: «Vittorio mi ha corteggiata 3 mesi con lettere profumate. Ora viviamo in un bosco». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 19 Ottobre 2022.

Antonella Clerici e l’imprenditore Vittorio Garrone. «Il nostro incontro? Ci ha presentati una dietologa» 

Antonella Clerici e Vittorio Garrone vivono in una casa nel bosco ad Arquata Scrivia, in Piemonte, «fra caprioli, daini, cervi, cinghiali», spiega lui. Però, stasera sono nella casa di Milano, lei è appena uscita dagli studi Rai dove registra È sempre mezzogiorno e scherza: «Questo è l’unico posto in cui possiamo stare da soli: ad Arquata, ci sono tre cani, quattro figli». Tre figli più o meno grandi sono di Vittorio, avuti dal primo matrimonio; una figlia, Maelle, 13 anni, è nata dalla relazione di Antonella con Eddy Martens. «I ragazzi si vedono tanto, hanno un rapporto come tra fratelli, non era scontato», racconta lei. I cani, invece, sono diventati tre perché ad Argo e Pepper si è aggiunta Simba: «La sera, Maelle s’infilava nel nostro letto», spiega Vittorio affettando il salame per l’aperitivo, «dovevo aspettare che si addormentasse per spostarla. Al che, siccome voleva un cucciolo, le ho regalata un piccolo labrador, in cambio della promessa che dormisse con lui». Antonella e Vittorio, 58 anni lei, 56 lui, stanno insieme da sei anni. In teoria, sarebbero una strana coppia: lei star della tv, celebre per i programmi ai fornelli, e prima sul calcio, per le prime serate nazionalpopolari e un Sanremo condotto nel 2010; lui erede della Erg Petroli, per anni imprenditore green in proprio, ora vicepresidente di una Erg «a zero emissioni, leader in Italia nella produzione di energia eolica». Ma anche: lei figlia della provincia, nata e cresciuta a Legnano; lui un’infanzia nei collegi più esclusivi, lontano dalla famiglia, prima per paura delle Brigate rosse, poi dei rapimenti.

Come si incontrano due mondi così distanti?

Vittorio: «Eravamo destinati a non incontrarci mai».

Antonella: «Invece, la dietologa del mio programma, Evelina Flachi, mi dice: ho conosciuto un uomo che sarebbe perfetto per te, ha i tuoi stessi occhi buoni e si è separato da poco».

Vittorio: «Io non guardo tanto la tv, non è che non sapessi che Antonella esisteva, ma prima di incontrarla a Roma con Evelina, un’occhiata su Google l’ho data. Quando è entrata al ristorante, è stato un colpo di luce. Ci siamo messi a parlare e ci siamo dimenticati della nostra amica. Dopo, sono rimasto lì, nel vuoto lasciato dal suo taxi, come un ebete. Sono tornato in albergo e camminavo sulle nuvole. Accadeva sei anni fa, avevo 50 anni, ho pensato: con una donna così affascinante e intelligente non posso usare tattiche, devo essere come sono e speriamo che non mi dica “rimaniamo amici”. Allora, le ho mandato un messaggio. Ci è voluto un po’... Tre mesi di corteggiamento».

Antonella: «Di lettere. Profumate. Me le spediva proprio. Scrive molto bene. Scriveva le sue sensazioni senza aspettarsi una risposta».

Vittorio: «Le ho scritto “tu, per me, sei il tempo senza tempo”».

Antonella: «Mi raccontava di come era fatto lui, mi diceva che potevo prendermi tempo per decidere. Io, però, lo trovavo carino ma non volevo una relazione, uscivo da una storia difficile. Tuttavia, i miei collaboratori notavano che, quando lui chiamava, ridevo tanto. Poi, vado in America per lavoro e mi ritrovo a parlarci a lungo per telefono e, piano piano, a far cadere le barriere».

Vittorio: «Ignorava completamente il fuso orario. Chiamava di notte. Comunque: prima cena a Rapallo, in trattoria; primo bacio a Portofino ed eravamo già paparazzati su Chi».

Antonella: «Non proprio il massimo: siamo grandi, queste sono cose che uno deve dire prima ai figli».

Lei quando si è convinta a lasciarsi andare del tutto?

«Dopo quel primo appuntamento. Poco dopo, suo fratello Edoardo, che è stato vicepresidente di Confindustria, si sposava nella casa di Portofino. Vittorio m’invita, dice: tanto, c’è molta gente. Figurati se nessuno mi notava».

Vittorio: «E dagli occhi dell’amore che avevamo, si sono accorti tutti che non era un’amica».

Com’è che Antonella si è trasferita in campagna?

Vittorio: «Al primo appuntamento le chiesi: ti piace più campagna, montagna o mare? E lei: la campagna la odio. E io, ferito al cuore, e zitto».

Antonella: «Però, per me, la campagna era quella della Brianza in cui andai a 23 anni, col primo marito, un posto da cui volevo scappare. Invece, ora ho scoperto che il contatto con la natura ce l’ho dentro: ora, so riconoscere i fiori, i cambi di stagione, adoro quel verde, quei paesaggi».

Vittorio: «Ad Arquata, ha sentito qualcosa. Probabilmente, ha sentito la mia anima. Dopo un po’ ha detto: lascio Roma e vengo da te. Non me l’aspettavo».

Antonella: «Avevo già maturato la scelta di lasciare la diretta quotidiana. Poi, mi sono accorta che Roma non era la mia città e io avevo 53 anni, ho pensato: che senso ha stare lontani a fare i fidanzatini di Peynet? E sapevo che, se lui fosse venuto a Roma, il rapporto non sarebbe durato».

Vittorio: «Mi sarei trasferito per amore, ma col tempo ne avrei sofferto, avrei finito per sentirmi in credito».

Com’è stato l’impatto con la nuova vita?

Antonella: «Abbiamo ristrutturato e intanto ci siamo sistemati in una piccola dependance, giusto una camera e un salottino, ma sono arrivati subito anche i suoi figli: forse, ci tenevano a conoscermi più da vicino. Praticamente, eravamo dentro in sei, abbiamo subito convissuto in una situazione di casino, poi, c’è stato il Covid e, per tre mesi, siamo stati sempre tutti insieme, anche con la paura, e questo ha cementificato i nostri rapporti. Io ho messo in pratica la regola di non volermi sostituire alla mamma e, se loro hanno una discussione col padre, mi alzo e esco. Sta funzionando: oggi, la casa è allegra, movimentata. Uno chiama e dice “siamo in due”, allora, aggiungo due posti a tavola. C’è un sacco di gente che va e viene, anche perché abbiamo mucche, cavalli, galline, tanto orto».

Che cosa amate l’uno dell’altro?

Antonella: «Lui è uno che c’è. C’è nelle cose importanti e c’è quando lascia un fiore con un biglietto sul cuscino».

Vittorio: «Lei c’è, nei dettagli, per come si prende cura di me nelle cose semplici. Ha fatto le notti in bianco e mi ha fatto le punture di cortisone quando ho avuto un’esplosione dell’ernia del disco».

Ho letto che Vittorio le ha chiesto di sposarlo e ho visto una foto di Antonella con un brillante enorme al dito.

Vittorio: «Non è vero e l’anello è suo: ha già anelli importanti, se dovessi pensare a un diamante per chiederle la mano, non so cosa dovrei inventarmi».

Antonella: «Il bello del nostro rapporto è che nessuno dei due ha interessi materiali a stare con l’altro. Anche per questo, c’è un equilibrio che è meglio non toccare».

Vittorio: «Comunque, mai dire mai. Per me, il matrimonio è un atto d’amore. Anto non ama le sorprese, ma io gliele faccio lo stesso».

Antonella Clerici torna tra i fornelli. «Le nozze? Non mi sposerò mai più. Con Vittorio stiamo bene così». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022.

La conduttrice da lunedì 12 riprende il programma «E’ sempre mezzogiorno» su Rai1 : «Squadra che vince non si cambia, ma avremo nuovi giochi interattivi. IL bosco sarà sempre più in primo piano»

Ritorno ai fornelli

Antonella Clerici è pronta a ripartire perché poi lei alla fine senza il mezzogiorno in tv non ci sa stare. E’ nel suo Dna. Lei che ama cucinare, che ama mangiare soprattutto, perchè unisce al cibo concetti di positività e allegria, non rinuncia a condividerli con il suo pubblico con cui da anni condivide la sua quotidianità. A proposito di questa ripresa ha detto: «Il mezzogiorno è un po’ la casa degli italiani , puoi cambiare le tende o il divano, ma resta sempre la casa. Ci saranno nuovi giochi, molto più interattivi e qualche cuoco nuovo, ma squadra che vince non si cambia. Il programma resta molto green, con il bosco che avrà sempre più spazio e sarà sempre più in primo piano. Speriamo di fare compagnia e dare leggerezza alla gente perchè servono molto anche questi programmi.

Vittorio, il compagno che ama (ma che non sposerà)

Un amore lungo e solido quello di Antonella Clerici e Vittorio Garrone, nato e cresciuto lontano dai riflettori. Da tempo la coppia vive ad Arquata Scrivia, in una casa completamente immersa nella natura e nei boschi, con la figlia della conduttrice Maelle, che oggi ha 13 anni, nata dalla relazione con Eddy Mertens. La presentatrice e l’imprenditore si sono conosciuti grazie all’amica in comune Evelina Flachi: la dietologa aveva organizzato un incontro a tre perché era convinta che i due fossero anime gemelle. E ci aveva visto giusto: per Garrone è stato un colpo di fulmine, mentre la Clerici è andata con i piedi di piombo, facendosi corteggiare prima di cedere. Ma alla fine lui ha conquistato il suo cuore: «Sono convinta che lui è l’uomo con cui non solo invecchierò, ma che non lascerò mai» ha detto più volte. E sono in molti a chiederle spesso: a quando il matrimonio (visto l’affiatamento della coppia)? Ma lei continua a rispondere: «No, non mi sposo, e non mi sposerò mai , perchè come dico sempre il matrimonio non mi porta bene e noi stiamo bene cosi»

La figlia Maelle, il grande amore

Maelle è nata il 21 febbraio del 2009 dall’unione tra Antonella Clerici e Eddy Martens, ex compagno della conduttrice da cui si è separata tempo fa. Maelle è stata a lungo desiderata e per la conduttrice è stata una grande gioia diventare madre a 45 anni. Le due sono dunque legatissime e Maelle ha la stessa riservatezza e timidezza di Antonella. Come lei ama la natura e da quando si sono trasferite nella casa del bosco, ad Arquata Scrivia, con il nuovo compagno di Antonella, Vittorio Garrone, Maelle è molto contenta. Anche lei adora gli animali, specialmente cani e cavalli.

Gli ex amori e matrimoni, la storia con Giletti

Antonella Clerici è una donna passionale e volitiva, che si butta senza timori nelle storie sentimentali, anche se qualche volta ha preso una brutta «facciata». Ma lei è fatta così. Il primo marito è stato il giocatore di basket Pino Motta: si sposarono nel 1989 e divorziarono nel 1991. Poi, c’è stata una intensa storia d’amore con Massimo Giletti che ha tenuto banco su tutti i giornali di gossip. Ma dopo poco più di un anno si sono lasciati, restando però in ottimi rapporti ancora oggi. Poi arrivò un secondo matrimonio: a New York, nel 2000, Antonella ha sposato il produttore discografico Sergio Cossa. Dopo 5 anni hanno divorziato e lei ha iniziato una relazione con Paolo Percivale, un ufficiale di marina militare. Nel 2007 la conduttrice si è legata ad Eddy Martens, più giovane di lei di 15 anni, e padre di Maelle. I due si sono separati nel 2016. Infine , il grande amore Vittorio Garrone, l’uomo con cui «voglio invecchiare». I due condividono tante cose e hanno numerose affinità.

La prematura morte della mamma. Clerici, ambasciatrice Airc

In un’intervista, tempo fa, Antonella ha spiegato a cuore aperto il motivo per cui è diventata ambasciatrice Airc (Associazione ricerca sul cancro), raccontando quel terribile momento: “Mia madre, nel 1995, se n’è andata in soli tre mesi per colpa di un melanoma maligno. Oggi, rispetto al passato, abbiamo a disposizione più strumenti e maggiore speranza. Non dico, per carità, che oggi sarebbe sopravvissuta, il suo male era molto aggressivo. Tuttavia avrebbe senz’altro vissuto di più e meglio. Cerchiamo di volerci più bene. Facciamo prevenzione, ascoltiamo che cosa ci dice il corpo”. Una ferita che non si è rimarginata. Per questo Clerici dedica molto tempo per sostenere la ricerca

L’amore per i cani, l’indimenticabile Oliver

E’ noto che Clerici adora i cani. Ma uno è rimasto speciale nella sua vita, un labrador che è stato suo compagno per 15 anni , condividendo gioie e dolori con la conduttrice : Oliver. Lei ha parlato di lui in ogni programma e ormai il pubblico lo conosceva bene. Il giorno che Oliver se ne è andato, Antonella non è riuscita a trattenere le lacrime in diretta, ma il suo pubblico ha compreso perfettamente il suo dolore. Recentemente per la giornata mondiale del cane, ha detto: «I cani fanno parte della nostra famiglia: viaggiano con noi, dormono al calduccio (leggi divani), vivono amati e ridanno il triplo dell’amore che ricevono. Grazie Argo, Simba, Pepper (in tre nuovi cani che ha adesso, ndr), senza di voi la vita non sarebbe cosi piena. Un pensiero sempre al mio amatissimo Oliver che ha un posto speciale nel mio cuore».

Il legame speciale con Fabrizio Frizzi e Carlo Conti

E’ rara l’amicizia tra colleghi, ma il trio Frizzi-Clerici-Conti ne era un esempio. I tre erano legatissimi. Antonella e Carlo sono stati vicinissimi a Fabrizio e a sua moglie Carlotta nel momento della malattia. E fino all’ultimo hanno sperato che Fabrizio potesse vincere il suo male. Purtroppo Frizzi se ne è andato troppo presto e ora Antonella e Carlo sono molto legati a Carlotta e alla figlia di Fabrizio, Stella.

Una moderna Cenerentola

Antonella Clerici, nata a Legnano, in provincia di Milano il 6 dicembre 1963, ancora oggi, nonostante i successi e gli obiettivi raggiunti, si sente una ragazza di provincia e non si sente mai all’altezza. Adora le paillettes e i vestiti da fiaba perchè con quelli si sente una principessa. Infatti quando ha condotto il Festival di Sanremo, ogni sera ha rallegrato il suo pubblico con abiti davvero fiabeschi. E questo è il lato più bello di Antonella: semplice e sognatrice

·        Antonella Elia.

Antonella Elia: «Se non fosse morto il mio papà, non avrei mai fatto questo mestiere. Era un uomo severissimo». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 13 Aprile 2022.

La showgirl si racconta: l’infanzia a Torino, la televisione, il teatro, il cinema e Vianello, Corrado e Mike Bongiorno: «Gli devo tanto, mi hanno insegnato tutto quello che potevano». 

Il caschetto biondo è lo stesso da almeno tre decenni di carriera. Antonella Elia, che fino ai 25 anni ha vissuto a Torino, è passata attraverso il teatro, la televisione, il cinema. È stata protagonista di una trasmissione che ancora oggi, pure tra sottolineature di genere, resta iconica quale Non è la Rai; ha girato la fortuna con Mike Bongiorno quando ancora si regalavano le pellicce alle concorrenti, ha parlato di calcio con Raimondo Vianello, ha fatto la Corrida, quella vera, con Corrado. Si è trovata spiaggiata all’Isola dei Famosi e poi, anni dopo, al Grande fratello Vip di cui è stata anche opinionista. Antonellina un po’ vipera piace sempre al pubblico. Adesso è tra i «commentatori» a La pupa e il secchione, con Barbara D’Urso.

Antonella Elia, è un buon momento di carriera?

«Da dopo Il Grande Fratello Vip le cose si sono mosse in modo soddisfacente».

Oggi la tv la fanno tutti, anzi meglio se a farla sono i non addetti. Ma è importante o no avere sulle spalle un mestiere?

«Un tempo, quando ho cominciato io, qualsiasi cosa facessi che si trattasse di televisione o teatro, dovevi avere un back ground “pesante” di lavoro. Tutto era molto focalizzato sul lato artistico. Io ho fatto scuole di recitazione, di danza, di dizione. Mi impegnavo parecchio affinché il mio ruolo fosse completo».

Quando ha capito che voleva entrare nel mondo dello spettacolo?

«Fin da subito. Da bambina la mia passione più grande era il balletto. Sognavo la danza classica. Mio padre non me l’ha mai lasciata frequentare».

Ma come, tutte le bambine vanno a danza. Perché non la faceva andare?

«Era un uomo severissimo. Non so se il fatto che non ci fosse mamma lo condizionasse in questo senso (la madre di Elia è morta quando lei aveva un anno), in parte anche perché era di Avellino ed era maturo quando nacqui. Non voleva assolutamente che frequentassi dei maschi. Provai ad andare ai boy scout ma mi tirò via anche da lì».

Per questo motivo la mandò dalle suore?

«Sono stata dalle Domenicane dalla prima elementare alla seconda liceo. Poi mi sono trasferita a Pinerolo con Paola, la mia seconda mamma, dove sono entrata in una scuola statale da cui sono scappata subito».

Suo padre, l’avvocato Enrico Elia, morì che lei aveva 14 anni. Un incidente stradale che ebbe una grossa eco.

«Si perché rimasero coinvolti anche Paolo Barison (ex bomber di Napoli e Roma che morì) e l’allenatore Nicola Radice (che si salvò). Dopo la sua morte venni affidata a Paola».

È stato difficile per lei, così esuberante, crescere in una città come Torino?

«Il ricordo che ho di me in quegli anni è quello di una ragazza timida, complessata. Non ero estroversa, tanto meno fuori dalle righe. Le suore non erano il posto giusto per essere stravaganti. Ho sempre però avuto voti molto bassi in condotta. Ero sola, talmente tenuta al guinzaglio che non frequentavo altri bambini».

Avrebbe fatto questo mestiere se suo padre fosse stato vivo?

«Mai, glielo garantisco al 100%. Per farle un esempio: io volevo frequentare il liceo artistico e poi entrare all’Accademia Albertina, la pittura credo sia la mia vera passione, lui mi costrinse a iscrivermi al classico. Figuriamoci cosa avrebbe detto vedendomi fare la modella o l’attrice, non me lo avrebbe mai permesso».

In qualche modo, per buttarsi nello spettacolo, ha reciso dei legami ancestrali?

«Credo proprio di si. Ero bloccata. La prima volta che mi sedetti in mezzo ad altri ragazzi a un corso di recitazione, avevo 20 anni, ci chiesero la motivazione per cui eravamo lì. Ero terrorizzata e non dissi niente. Uscii sentendomi una nullità».

Le sono rimasti dei legami a Torino?

«Ogni tanto ci torno per lavoro. Soprattutto qui sono rimaste Patrizia e Bruna, le mie amiche di sempre, le più care. Sono molto legata a loro».

Dove sono i suoi ricordi?

«A un certo punto mio papa comprò una casa in corso Montecucco ma la mia infanzia è tutta legata a via Nizza, dove sono cresciuta fino ai sei anni. Sembra brutto dirlo, ma ogni tanto devo davvero venirci a Torino, perché sento il bisogno di andare a trovare i miei affetti al cimitero. Di cambiare i fiori. Tornerò sempre per loro».

Lei ha avuto tanti padri artistici. Chi le è rimasto di più nel cuore?

«La triade: Mike, Corrado, Raimondo. Hanno fatto di tutto per me, mi hanno cresciuta perché ero piccola quando iniziai a lavorare con loro. Sono stati protettivi, paterni, mi hanno insegnato tutto quello che potevano».

L’insegnamento più prezioso?

«L’autoironia. Soprattutto Vianello, amava prendere in giro gli altri ma anche se stesso. Era meraviglioso. E Corrado, anche lui aveva un’ironia straordinaria, le sue facce alla Corrida facevano l’intero programma. E pure Mike: tutte quelle gaffe, sono convita che ci giocasse consapevolmente».

Le piacerebbe oggi un programma tutto suo?

«In effetti ormai sono grande e avrei l’età per condurre. Ma a me piace fare la spalla. Come conduttrice non mi ci vedrei neppure, perderei proprio quel gioco dell’ironia».

Parliamo d’amore. Dopo la débâcle sotto gli occhi di tutti a Temptation Island, con il suo Pietro Delle Piane è tornata. È felice?

«Pietro ha 11 anni in meno di me, è giovane, intatto, puro. Mi fa divertire moltissimo. A Temptation è stato un disastro perché voleva recitare il ruolo di quello che mi faceva ingelosire. Si è fatto odiare da tutti, me in primis, per tanto tempo».

E perché se l’è ripreso?

«Mi trasferisce il senso della famiglia. Io sono sempre stata un cane sciolto, randagia. Per la prima volta sto costruendo qualcosa insieme a un uomo».

·        Antonella Ruggiero.

Antonella Ruggiero compie 70 anni: gli esordi, perché lasciò i Matia Bazar, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 15 Novembre 2022.

La cantautrice, nata a Genova il 15 novembre 1952, nel 2022 festeggia anche il 25ennale del suo album «Registrazioni Moderne»

Voleva fare la pittrice

«Non ho mai festeggiato i compleanni, però ho sempre riflettuto all’inizio di un decennio nuovo. Ora ne inizia uno che mi porta nell’autunno della vita e questo mi piace. Ho fatto quello che volevo, senza che nessuno mi mettesse la museruola. Avere avuto l’opportunità di esprimermi è stato il grande privilegio della mia vita». Proprio qualche giorno fa Antonella Ruggiero diceva queste parole al settimanale Oggi a proposito del suo 70mo compleanno (è nata a Genova il 15 novembre 1952). Forse non tutti sanno che la cantautrice prima di dedicarsi alla musica avrebbe voluto fare la pittrice: «Volevo dedicarmi al disegno - ha raccontato -. Cantavo solo tra me e me e non pensavo di esibirmi. Poi a Genova, la mia città, ho incontrato a un concerto della Pfm quelli che sarebbero diventati i miei soci per 14 anni, abbiamo formato il gruppo e siamo partiti». E questa non è l’unica curiosità su di lei.

Il successo

Nel 1975 Antonella Ruggiero, Piero Cassano, Aldo Stellita, Giancarlo Golzi e Carlo Marrale danno vita ai Matia Bazar («Matia» è anche lo pseudonimo usato dalla cantautrice all’inizio della sua carriera artistica). Il gruppo - che nel corso degli anni cambierà più volte formazione - incide canzoni che otterranno un grandissimo successo, da «Stasera che sera» a «Per un'ora d'amore», «...e dirsi ciao» (brano vincitore a Sanremo 1978, stessa edizione di «Un'emozione da poco» di Anna Oxa e «Gianna» di Rino Gaetano, arrivati rispettivamente al secondo e terzo posto), «Vacanze romane» (Premio della critica a Sanremo 1983), «Souvenir» (Premio della Critica a Sanremo 1985), «Ti sento» e «La prima stella della sera». Il ricordo più bello di quegli anni? I viaggi, come raccontato da Ruggiero ad Oggi: «Ci sono luoghi del mondo dove abbiamo fatto concerti ora profondamente cambiati se non distrutti, come la Siria, per esempio. Abbiamo suonato in Unione Sovietica quando si riempivano i palazzi dello sport, pieni di persone che volevano ascoltare la musica occidentale, con la polizia che non permetteva di fare un passo verso gli artisti». C’è anche un aneddoto legato alla storia della band, avvenuto nel 1978: «Una volta a Roma, poco dopo l’uccisione di Aldo Moro, correvamo in auto verso l’aeroporto a Roma perché pensavamo di perdere l’aereo. La Polizia ci fermò e con i mitra spianati ci fecero scendere e chiesero i documenti. Era un momento di terrore, soprattutto nelle grandi città».

Perché lasciò i Matia Bazar

All’apice del successo nel 1989 Antonella Ruggiero lascia i Matia Bazar per viaggiare e per dedicarsi alla sua famiglia. «Ho fatto quelle cose che, lavorando costantemente, rimandavo ogni volta. Con tanto tempo a disposizione ho potuto vivere», raccontava nel 2012 sempre al settimanale Oggi.

Ha aperto i concerti di Sting

Dopo sette anni di lontananza dalla musica nel 1996 Antonella Ruggiero torna sulle scene con il suo primo album da solista, «Libera». Nello stesso anno apre i concerti delle tappe italiane del tour di Sting.

11 volte a Sanremo

In tutto Antonella Ruggiero è stata al Festival di Sanremo 11 volte, 5 con i Matia Bazar e 6 come solista. L’ultima sua partecipazione risale al 2014 con il brano «Da lontano» (che ha ottenuto la 12ma posizione nella classifica generale).

Duetti indie rock

Nel 2022 Antonella Ruggiero festeggia il 25ennale di «Registrazioni Moderne», il suo album di successo pubblicato nel 1997 contenente le canzoni più popolari e amate dei Matia Bazar riarrangiate in collaborazione con artisti della scena indie rock (Subsonica, Timoria, Ritmo Tribale, Bluvertigo, La Pina+Esa, Scisma, Madaski, Ars Ludi, Rapsodija Trio, Banda Osiris). Per l’occasione il disco l’11 novembre è stato ripubblicato: è uscito per la prima volta in doppio vinile in versione nero e bianco e con due bonus track, ovvero le versioni in spagnolo di «Esta tarde que tarde» (Stasera che sera) e «Dónde estás (Ven a mi)» (Amore Lontanissimo).

Vita privata

Per quanto riguarda la sua vita privata Antonella Ruggiero nel 2001 è convolata a nozze con l’autore e produttore Roberto Colombo, suo compagno storico, conosciuto nei primi anni Ottanta (Colombo si è occupato della produzione e degli arrangiamenti dei dischi «Tango» e «Aristocratica» dei Matia Bazar). La coppia nel 1990 ha avuto un figlio, Gabriele.

Arianna Ascione per corriere.it il 15 novembre 2022.

«Non ho mai festeggiato i compleanni, però ho sempre riflettuto all’inizio di un decennio nuovo. Ora ne inizia uno che mi porta nell’autunno della vita e questo mi piace. Ho fatto quello che volevo, senza che nessuno mi mettesse la museruola. Avere avuto l’opportunità di esprimermi è stato il grande privilegio della mia vita». Proprio qualche giorno fa Antonella Ruggiero diceva queste parole al settimanale Oggi a proposito del suo 70mo compleanno (è nata a Genova il 15 novembre 1952). 

Forse non tutti sanno che la cantautrice prima di dedicarsi alla musica avrebbe voluto fare la pittrice: «Volevo dedicarmi al disegno - ha raccontato -. Cantavo solo tra me e me e non pensavo di esibirmi. Poi a Genova, la mia città, ho incontrato a un concerto della Pfm quelli che sarebbero diventati i miei soci per 14 anni, abbiamo formato il gruppo e siamo partiti». E questa non è l’unica curiosità su di lei. 

Il successo

Nel 1975 Antonella Ruggiero, Piero Cassano, Aldo Stellita, Giancarlo Golzi e Carlo Marrale danno vita ai Matia Bazar («Matia» è anche lo pseudonimo usato dalla cantautrice all’inizio della sua carriera artistica). Il gruppo - che nel corso degli anni cambierà più volte formazione - incide canzoni che otterranno un grandissimo successo, da «Stasera che sera» a «Per un'ora d'amore», «...e dirsi ciao» (brano vincitore a Sanremo 1978, stessa edizione di «Un'emozione da poco» di Anna Oxa e «Gianna» di Rino Gaetano, arrivati rispettivamente al secondo e terzo posto), «Vacanze romane» (Premio della critica a Sanremo 1983), «Souvenir» (Premio della Critica a Sanremo 1985), «Ti sento» e «La prima stella della sera».

Il ricordo più bello di quegli anni? I viaggi, come raccontato da Ruggiero ad Oggi: «Ci sono luoghi del mondo dove abbiamo fatto concerti ora profondamente cambiati se non distrutti, come la Siria, per esempio. Abbiamo suonato in Unione Sovietica quando si riempivano i palazzi dello sport, pieni di persone che volevano ascoltare la musica occidentale, con la polizia che non permetteva di fare un passo verso gli artisti». 

C’è anche un aneddoto legato alla storia della band, avvenuto nel 1978: «Una volta a Roma, poco dopo l’uccisione di Aldo Moro, correvamo in auto verso l’aeroporto a Roma perché pensavamo di perdere l’aereo. La Polizia ci fermò e con i mitra spianati ci fecero scendere e chiesero i documenti. Era un momento di terrore, soprattutto nelle grandi città». 

Perché lasciò i Matia Bazar

All’apice del successo nel 1989 Antonella Ruggiero lascia i Matia Bazar per viaggiare e per dedicarsi alla sua famiglia. «Ho fatto quelle cose che, lavorando costantemente, rimandavo ogni volta. Con tanto tempo a disposizione ho potuto vivere», raccontava nel 2012 sempre al settimanale Oggi. 

Ha aperto i concerti di Sting

Dopo sette anni di lontananza dalla musica nel 1996 Antonella Ruggiero torna sulle scene con il suo primo album da solista, «Libera». Nello stesso anno apre i concerti delle tappe italiane del tour di Sting. 

11 volte a Sanremo

In tutto Antonella Ruggiero è stata al Festival di Sanremo 11 volte, 5 con i Matia Bazar e 6 come solista. L’ultima sua partecipazione risale al 2014 con il brano «Da lontano» (che ha ottenuto la 12ma posizione nella classifica generale). 

Duetti indie rock

Nel 2022 Antonella Ruggiero festeggia il 25ennale di «Registrazioni Moderne», il suo album di successo pubblicato nel 1997 contenente le canzoni più popolari e amate dei Matia Bazar riarrangiate in collaborazione con artisti della scena indie rock (Subsonica, Timoria, Ritmo Tribale, Bluvertigo, La Pina+Esa, Scisma, Madaski, Ars Ludi, Rapsodija Trio, Banda Osiris). Per l’occasione il disco l’11 novembre è stato ripubblicato: è uscito per la prima volta in doppio vinile in versione nero e bianco e con due bonus track, ovvero le versioni in spagnolo di «Esta tarde que tarde» (Stasera che sera) e «Dónde estás (Ven a mi)» (Amore Lontanissimo). 

Vita privata

Per quanto riguarda la sua vita privata Antonella Ruggiero nel 2001 è convolata a nozze con l’autore e produttore Roberto Colombo, suo compagno storico, conosciuto nei primi anni Ottanta (Colombo si è occupato della produzione e degli arrangiamenti dei dischi «Tango» e «Aristocratica» dei Matia Bazar). La coppia nel 1990 ha avuto un figlio, Gabriele.

Dea Verna per “Oggi” il 4 novembre 2022.

«Non ho mai festeggiato i compleanni, però ho sempre riflettuto all’inizio di un decennio nuovo. Ora ne inizia uno che mi porta nell’autunno della vita e questo mi piace. Ho fatto quello che volevo, senza che nessuno mi mettesse la museruola. Avere avuto l’opportunità di esprimermi è stato il grande privilegio della mia vita». Antonella Ruggiero compie 70 anni con allegria, sempre sul palco. 

«Sono concerti tutti diversi, passo da voce e uno strumento alle grandi orchestre, dai cori alla musica sacra, non mi annoio». La sua vita artistica si divide in due parti: i 14 anni con i Matia Bazar, che lei lascia nel 1989 all’apice del successo, e la carriera solista che riparte dal 1996con l’album Libera (un titolo che è un programma). L’11 novembre esce un doppio vinile che le riassume entrambe: è la ripubblicazione di Registrazioni moderne, realizzato nel 1997, in cui cantava da solista i successi dei Ma ti a Bazar duettando con gruppi come i Subsonica, i Bluvertigo, i Timoria. 

E pensare che voleva fare la pittrice.

«Volevo dedicarmi al disegno. Cantavo solo tra me e me e non pensavo di esibirmi. Poi a Genova, la mia città, ho incontrato a un concerto della Pfm quelli che sarebbero diventati i miei soci per 14 anni, abbiamo formato il gruppo e siamo partiti».

Che famiglia era la sua?

«Mio padre era artigiano. Ma la musica e l’arte sono sempre stati nella vita dei miei genitori, anche se non hanno potuto esprimere questa passione». 

Il ricordo più bello degli anni passati con i MatiaBazar?

«I viaggi. Ci sono luoghi del mondo dove abbiamo fatto concerti ora profondamente cambiati se non distrutti, come la Siria, per esempio. Abbiamo suonato in Unione Sovietica quando si riempivano i palazzi dello sport, pieni di persone che volevano ascoltare la musica occidentale, con la polizia che non permetteva di fare un passo verso gli artisti». 

Altri ricordi?

«Una volta a Roma, poco dopo l’uccisione di Aldo Moro, correvamo in auto verso l’aeroporto a Roma perché pensavamo di perdere l’aereo. La Polizia ci fermò e con i mitra spianati ci fecero scendere e chiesero i documenti. Era un momento di terrore, soprattutto nelle grandi città ». 

Era a suo agio nei panni della diva del gruppo?

« Non mai sentito la necessità di salire su un palco per dire: ecco, sono qui, guardatemi. Il palcoscenico è il luogo dove si svolgono i concerti, punto. Fosse per me mi esibirei dietro a un paravento. L’esibizionismo è parte del mondo dell’arte, ma non per me, lo trovo ridicolo». 

Lei ha lasciato i Matia Bazar perché mal sopportava la routine e le pressioni delle case discografiche.

«Quelle sono le regole che valgono tutt’oggi, se uno vuole raggiungere i grandi numeri. Nel 1996 ho ripreso a fare musica scollegata da quegli obblighi, con una mia etichetta. Così faccio quello che mi pare». 

Mai più visti i suoi colleghi dei Matia Bazar?

«Solo in occasione dei funerali di due di loro. Però quando si vive intensamente un periodo della vita con qualcuno, i ricordi sono indelebili. Le persone non le vedi più, ma è come se fosse ieri».

Suo marito è il produttore Roberto Colombo, con cui è legata anche professionalmente. Come l’ha conosciuto?

«Nel 1982 lo abbiamo chiamato per arrangiare Tango e Aristocratica, due dischi bellissimi, i migliori dei Matia Bazar. Abbiamo lavorato insieme, poi ognuno è andato avanti con la sua vita. Alla fine degli anni ’80, ecco che invece la storia è cambiata tra di noi».

 Le piace la musica di oggi?

«Nulla mi stupisce. La mia generazione è stata travolta da cose vere, eccezionali, ora è tutto già visto, già sentito. Ci vorrebbero artisti e interpretazioni che facessero aprire la bocca dallo stupore; magari ci sono, ma nascoste. I media e quelli che vogliono vendere non vanno a cercarle. Prendono, usano, mettono sotto i riflettori, e poi? Vai via che ce n’è un altro. È una catena di montaggio, una cosa orribile».

"La musica di oggi è fresca e giovane. Ma non fa per me". Antonio Lodetti il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

La cantante celebra la sua carriera in oltre 700 canzoni. Con alcuni inediti e rarità.

Non è per niente presenzialista, anzi, ma ha un repertorio sterminato e ha fatto concerti di tutti i generi, dal pop alla musica sacra. Antonella Ruggiero ha un posto tutto particolare nella storia della musica italiana, dalla guida dei Matia Bazar alle numerose e variegate esperienze soliste. Per celebrare la sua carriera, pubblica per la prima volta in streaming e download 27 album, un corpus di oltre 700 canzoni che rappresentano tutta la sua carriera. Accanto a questi c'è un album particolare, dall'appropriato titolo Come l'aria che si rinnova, in cui interpreta alcuni brani inediti e alcune rarità, come un brano a sfondo sacro scritto appositamente per lei da Ennio Morricone.

Quanti dischi, tutto il suo repertorio per i suoi fan.

«Il ricordo del passato è la medicina migliore per proiettarsi nel futuro. Quando facevo la cantante a tempo pieno producevo molto e ora voglio riproporlo al mio pubblico, ma anche metabolizzarlo di nuovo alla mia maniera».

L'album nuovo ha un titolo accattivante.

«Sì, sono canzoni che ho eseguito poco e che amo molto. Appunto, è come l'aria che si rinnova, ha un nuovo sapore e nuovi significati. Sono 18 brani estrapolati dalla mia carriera dal 1996 a oggi e rivissuti con lo spirito del nostro tempo».

Una Antonella rinnovata, dunque.

«Ci si rinnova sempre cercando di mantenere la propria identità. Questi brani comunicano il mio pensiero personale, la mia storia, la mia vita; una finestra che si apre e lascia fluire emozioni».

Chi è oggi Antonella Ruggiero?

«Quella di sempre che continua a crescere. Dall'adolescenza ho costruito la mia personalità artistica e ho cercato di vivere la musica al passo con i tempi. Ora torno più leggera dopo il peso enorme di questi due anni di pandemia, durante i quali ho avuto anche il timore di non poter più cantare».

Ha diviso i vari dischi per temi.

«Sì, per esprimere tutti i generi. C'è un disco con musica sacra e uno con musica popolare e dialettale, c'è la musica d'autore e la ballata pop».

Ce n'è anche uno che si intitola Stranezze.

«Contiene cose fuori dagli schemi e musica contemporanea come Pomodoro genetico, un brano complesso per sola voce».

Già, la sua splendida voce; come decise di diventare cantante?

«Io volevo fare grafica e pittura ma a Genova, a un concerto della PFM, incontrai i Matia Bazar e divenni subito la loro cantante, e arrivò subito anche il successo. Così cominciai un cammino con loro che è durato 14 anni».

Perché li ha lasciati?

«La mia innata voglia di curiosità, principalmente».

Ha nuovi progetti?

«A breve porterò a Cagliari e a Sassari la mia versione de La buona novella di De André per voce recitante coro e orchestra».

De André è impegnativo...

«Fa pensare, muove i sentimenti con la razionalità, la passione e la denuncia. La sua opera mi tocca nel profondo».

Nel disco inedito c'è un brano di Morricone.

«Un brano molto difficile da eseguire. Da Morricone ho imparato quanto le musiche più diverse possano rimanere uniche, ma anche confluire in un solo genere universale».

Che cosa pensa della musica di oggi?

«Non l'ho ancora detto, ma lo dico ora. Dico sempre quando facevo la cantante perché ora mi dedico a singoli progetti multimediali e di largo respiro. Dunque, quando facevo la cantante amavo il pop e le ballate jazz che amo tutt'ora. La musica di oggi è fresca e piena di idee, è fatta da giovani per i giovani, ma non è per me».

E se tornasse a fare la cantante?

«Mai escludere nulla. Ormai i dischi li produco da me, quindi potrebbe venirmi qualche idea particolarmente folle.

Come vede il suo futuro?

«Ora ho raccontato il passato. Il futuro non lo ipoteco mai, ma sono serena, anche se conscia che viviamo un periodo terribile. Il lockdown mi ha segnato parecchio, anche se mi ha dato il tempo di preparare questa collezione di dischi».

·        Antonello Venditti e Francesco De Gregori.

Luca Valtorta per la Repubblica il 20 giugno 2022.

«Quante me ne avete fatte te e De André!», dice Venditti a De Gregori in una scheggia video su YouTube. Data imprecisata. «Negli anni 70, quando De André si accorse di De Gregori, io rimasi solo, avendo una vena più popolare e un linguaggio meno forbito ma ugualmente forte e colto. 

E questi, i due amici della mia vita, una volta vennero sotto il mio palco schiamazzando e facendo casino...». Francesco, giacca di pelle e camicia bianca, sorride e lo guarda un po' stranito mentre fuma un lungo sigaro. Replica: «Io non ricordo niente, forse ero in condizioni alcoliche». «Esatto», ribatte Venditti, «è stata la sostanza stupefacente del "rosso" e io mi incazzavo come una bestia!

Dentro di me dicevo: "Ma questi due fighetti che c***o vogliono?"». Ecco perché la "strana coppia" Venditti-De Gregori funziona: c'è tensione, rivalità sopita ma non troppo, dichiarata anche in una recente intervista alla Rai in cui a uno viene chiesto di parlare dell'altro: «Antonello vendeva più dischi di me, io non ho avuto successo subito»; «Di Francesco mi irrita un po' tutto. Questo modo snob di conferire con il pubblico, di non concedersi mai, di essere un po' stronzo. Lo dicevo anche a De André. 

"Adesso è cambiato?". "Sì. È più stronzo"». Tutto ciò, sul palco, va benissimo da sempre. «Già al Folkstudio eravamo gelosi l'uno dell'altro», spiega Francesco. E però fanno un album insieme nel 1972 «per risparmiare». Si intitola Theorius Campus, ha due soli pezzi cantati in coppia, Dolce signora che bruci e In mezzo alla città.

«Antonello partì subito alla grande con Roma Capoccia e Sora Rosa, io no». Le strade iniziano a separarsi, anche se nel disco dal vivo Bologna 2 settembre 1974 fanno insieme Buonanotte fratello, che fa: "Dov' eri tu che mi dicevi sempre/ 'Guarda che bello, come siamo pazzi'/ Dov' eri tu quando restavo zitto/ Ed ero ingenuo come era una bestemmia (...)/ Tu mi stavi ammazzando con amore". 

Parlava di loro? Chissà, forse no, così come la leggenda per cui il famoso "pianista di piano bar" che "vende a tutti tutto quel che fa" sarebbe Venditti: «No, ma lui non smentisce», sottolinea Antonello che, invece, conferma che la sua Francesco, del 1978, è dedicata a De Gregori: "Vedi Francesco/ Possiamo ancora/ Suoniamo ancora l'ultima volta/ Senza rimpianti, senza paura/ Come due amici antichi/ E nient' altro di più". E finalmente, eccoli qui, vecchi amici e anche un po' nemici, insieme sul palco a farci sognare.

Rita Vecchio per leggo.it il 19 giugno 2022.

“Partirono in due ed erano abbastanza”. Un pianoforte, quello di Venditti. E una chitarra, quella di De Gregori. E per due come loro non è mai abbastanza. Li hanno applauditi in 44 mila stasera allo Stadio Olimpico di Roma pieno, che hanno salutato con un «Grazie Roma. È passato un po’ di tempo. Ma è bellissimo e ce la godiamo tutta». Primo tour insieme in 50 anni di carriera, iniziata ai tempi del Folkstudio. Ed è dalla “capoccia” romana che partono. «Questo concerto è e sarà come un’unica grande canzone - aveva detto Venditti a poche ore dall’inizio - È il concerto di due artisti in uno».

Venti date (con 114mila biglietti venduti a oggi), più la seconda aggiunta all’Arena di Verona (5 ottobre). «A nessuno è mai capitato quello che è capitato a noi - continua Venditti - Cantare insieme sarà una sorpresa non solo per chi viene ad ascoltarci, ma anche per noi. Non è un concerto come gli altri. Lo dimostra il fatto che non stiamo recuperando date di due anni fa, ma è un tour nuovo». La band è «la fusione dei nostri musicisti. - commenta De Gregori - La scaletta si è formata strada facendo». 

A 50 anni da Theorius Campus, il primo e unico disco insieme (giugno 1972), la scaletta è la sequenza di 32 brani/successo, come fossero «inediti, perché di più "inedito" di questo tour non c’è niente. Il nostro repertorio è un carburante, abbiamo portato le salsicce buone per fare il barbecue». Aveva detto sempre Venditti.

Un rapporto fatto di un lungo stop (si narra che iniziò con una litigata durante una partita a carte). «Dopo essersi interrotto, oggi il nostro rapporto si è compiuto. Ci sono stati alti e bassi. Ma ora ci possiamo mandare a fanculo da amici. Perché la fratellanza non può interrompersi mai». Una scaletta che parte con un blocco unico. Prima l'intro «dissacrante» di "Also sprach Zarathustra" di Strauss (colonna sonora di Odissea nello Spazio e con cui Vasco aprì il suo Modena Park 2017) e poi la canzone incipit di "Bomba o non bomba”. Da qui un fiume in piena di brani. “La leva calcistica della classe ’68”, “Modena", “Bufalo Bill” (brano con cui ha dialogato con l’ex presidente Clinton), “La Storia”, “Peppino”, “Generale”, “Sotto il segno dei Pesci”, “Che fantastica storia è la vita”. «Questo fraseggio tra di noi - dice Francesco De Gregori - è molto bello. Abbiamo seguito la nostra vita». E nel seguire la loro vita, non poteva mancare il ricordo di Lucio Dalla. «”Canzone” è un punto esclamativo dentro il concerto. L’idea è del mio socio, Venditti», dice De Gregori. Come non potevano mancare “Ci vorrebbe un amico”, “Notte prima degli esami”, “Sangue su sangue”, l’accenno ai Pink Floyd prima di “Pablo” con De Gregori alla chitarra, “Rimmel”, “Titanic”, “In questo mondo di ladri”.  

E sui due brani, “Piano bar” e “Francesco” (non in scaletta), rispondono rispettivamente entrambi. «Nonostante io abbia smentito di averla scritta per Venditti, continuate a chiederlo. Prossimo concerto, la faremo e la canterà Venditti», dice De Gregori. «“Francesco” invece è sotterrata dalla storia di quando sono andato via da RCA», risponde Venditti. E, quindi, dopo 50 anni di carriera, sopravvissuti o rivoluzionari? «Siamo dei sopravvissuti. Auguro alle nuove generazioni di artisti e rapper di sopravvivere 50 anni come noi», risponde De Gregori. «Ma quale sopravvissuti. Siamo "liquidi" e non mi sento un povero Cristo - risponde Venditti (con fare di chi non ha gradito la domanda) - Siamo un fiume in piena, creativo e con tanta voglia di fare anche più di prima».

E a chi associa alcuni loro brani all’attualità: «La guerra è un fatto brutale, ma non ci deve essere per forza una canzone a parlarne, come non c'è bisogno di sventolare bandiere. È demagogia. Anche per questo abbiamo deciso di evitare qualsiasi immagine. Per esempio, Falcone e Borsellino non ci sono, ma è come se ci fossero. Non si può sempre fare attualità». Immancabili le canzoni su Roma. “Roma Capoccia” (composta da Venditti a 14 anni), «la più bella canzone scritta per Roma», la definisce De Gregori rivolgendosi al pubblico dell'Olimpico, e “Grazie Roma”, con cui chiudono poco più di due ore e mezzo di concerto. «Roma martoriata? No. E nemmeno violentata. - dice Venditti - La risposta è sempre la stessa. Sia che ci sia la Raggi o che ci sia il PD. Roma è stupenda, indipendentemente da tutto e da tutti. I problemi sono superati dalla bellezza di questa città».

Giampiero Mughini per Dagospia il 19 giugno 2022.

Caro Dago, ieri sera ho fatto una eccezione ulteriore a quella che faccio annualmente per la tua festa di compleanno. Infrangere la regola ferrea di non andare mai in un posto dove si raggrumano più di sei persone. Mi sono recato ieri sera, e non è stata un’impresa da poco, allo Stadio Olimpico dove i miei due amici Francesco De Gregori e Antonello Venditti ci restituivano la serata che l’anno scorso era stata cassata dal Covid e dunque inauguravano questa loro tournée a festeggiare il cinquantennale di quel loro esordio col mitologico vinile dal titolo “Theorius Campus” . 

Eravamo ben oltre quarantamila ad ascoltarli, ad applaudirli, a segnalare quanto da mezzo secolo li ritenessimo due protagonisti imprescindibili del nostro itinerario sentimentale. Nelle loro note nei loro versi nelle loro esche musicali ci siamo come cullati - noi tutti - in questi ultimi cinquant’anni.

Eravamo ben oltre quarantamila, un pubblico da stadio per l’appunto. E chi altri se non queste due medaglie d’oro della musica e dello show musicale meritavano un pubblico da stadio, e per giunta di uno stadio che se ne sta frammezzo alle meraviglie dell’architettura tra razionalista e fascista di quello spicchio di Roma. Ho detto architettura fascista a voler sottolineare che è una barzelletta quella di chi sosteneva che il fascismo non ebbe una sua cultura. 

Quarantamila e passa anime ho detto. Che costituivano a loro volta uno spettacolo nello spettacolo. Accanto a me erano intere file di spettatori che accompagnavano a voce alta parola per parola le canzoni di Francesco e Antonello. Parola per parola, molti di loro che si mettevano in piedi e ondulavano al ritmo delle note musicali e mentre ne pronunziavano all’unisono i testi. Intere file, uomini e donne, gente di almeno quattro o cinque generazioni. 

Non lontano da me se ne stava seduta una ragazza che avrà avuto al massimo trent’anni, forse meno. Aveva le braccia nude e con quelle braccia accompagnava esattissimamente, come fosse un direttore d’orchestra, il cantare di Francesco e Antonello. Esattissimamente nel senso che i movimenti appropriatissimi delle sue braccia anticipavano di un ette le parole delle canzoni. Sempre. C’è che di tutti i linguaggi artistici, quello della musica ha un tasso di comunicatività e di coinvolgimento spaventosamente più alto di tutti gli altri. E poi c’è che i versi delle canzoni a noi care non invecchiano, anzi si cementano nella memoria. Due artisti e di fronte a loro oltre 40mila persone che stanno ascoltando i loro racconti su com’è il mondo. Dio la mia invidia per Francesco e Antonello, io che non ho nulla da raccontare e soprattutto non ho nessuno cui dirlo. 

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 9 giugno 2022.

«Mentre percorro la strada dal Giulio Cesare a Trastevere rivivo gli ultimi cinquant' anni della mia vita», riflette Antonello Venditti al telefono. Il 73enne cantautore romano ha appena lasciato in auto il liceo di Corso Trieste che frequentò da ragazzino e dove ieri, di fronte ai maturandi, ha ricevuto dalla Siae una targa con l'incisione dello spartito di Notte prima degli esami che depositò nel 1983. 

Arrivato al liceo «rubando uno spazio alle prove del tour con Francesco De Gregori» (al via il 18 giugno dall'Olimpico), Venditti è stato accolto dai ragazzi con cori sulle note della stessa canzone: «Un omaggio a un artista che è un pezzo di storia», il commento del direttore generale della Siae Gaetano Blandini. «Vi auguro ogni bene: ricordate che gli anni non si comprano», ha detto il cantautore agli studenti, prima di sedersi al piano. 

Cosa ha percepito nei ragazzi?

«Entusiasmo, ma anche timidezza. Gli manca la sfrontatezza che caratterizzava la mia generazione».

Lei com' era, alla loro età?

«In fondo non così diverso. Ai tempi del liceo, dove tutto cominciò, tra le pene politiche, quelle amorose e il bullismo che subivo, ero introverso. Potevo soccombere. Mi salvò un pianoforte. E non solo all'epoca. Notte prima degli esami, nell'83, la scrissi al piano in una fase molto delicata». 

Cioè?

«Volevo farla finita dopo la separazione con Simona Izzo. Fu Lucio Dalla a salvarmi, quando tornai da Milano, dove mi ero trasferito. Mi trovò casa a Trastevere, vicino a lui. Lì scrissi tre canzoni: Ci vorrebbe un amico, che dedicai a Lucio, e Notte prima degli esami». 

La terza?

«Grazie Roma: fu un ritorno a casa. Il concerto al Circo Massimo dell'83 fu una benedizione. Mi sentii parte di questa città». 

Da allora tanto è cambiato intorno a lei. I pini di Roma (La vita non li spezza, cantava), oggi vengono giù con grande facilità. Cosa ne pensa della crisi della città?

«Roma ha sempre avuto problemi. È un microstato e dovrebbe essere amministrato come tale». 

Magari con poteri speciali come quelli che il sindaco Gualtieri si è detto pronto a usare per risolvere la crisi rifiuti?

«Se non li avesse chiesti Gualtieri, li avrei chiesti io. Roma è la Capitale: se va giù, va giù l'Italia intera». 

Quell'allusione nel testo alla Guerra fredda (Gli aerei volano alto tra New York e Mosca) quanto è attuale, invece?

«Tristemente attuale, direi. È una canzone capace di tornare ciclicamente a parlare del presente».

Nella serie Falegnami & filosofi a voi dedicata, su Discovery+, De Gregori dice che lei stato sempre più pop di lui. È così?

«No. Il successo non lo cerchi: è lui a venire da te. Io ho scritto pezzi come Sora Rosa e Lilly, fatto battaglie in prima linea. Parla la mia storia. Ora preparo un nuovo album». Quando uscirà?

«Vedrò. Con De Gregori andremo avanti fino a Natale: dopo l'Olimpico e le arene faremo i teatri. Ne parlavamo da anni». 

De Gregori la punzecchiò, secondo le interpretazioni dell'epoca, in Piano bar. Lei pubblicò Francesco («Scusa Francesco / m' hanno ingannato / mi hanno portato via i ricordi»). C'è mai stata rivalità?

«Macché. È come se fossimo una cosa sola. Le nostre due storie nate insieme hanno preso direzioni parallele: si incontrano dopo cinquant' anni».

Ci saranno ospiti all'Olimpico? Ultimo?

«No. Il concerto sarà un racconto della nostra amicizia: saremo noi e le nostre canzoni».

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 24 maggio 2022.

Neanche il tempo di iniziare le prove che Antonello Venditti è già con il telefono in mano, pronto ad aggiornare i fan che lo seguono sui social con una delle sue dirette. Francesco De Gregori lo prende in giro: «Ma fammi capire: dobbiamo andare avanti una settimana così?». In fondo la differenza tra questi due giganti della canzone italiana, le cui strade sono finalmente tornate ad incrociarsi a cinquant' anni dai primi passi sul palco del leggendario Folkstudio e dall'album congiunto Theorius Campus, sta tutta qui: da un lato il grande schivo che poco si concede da sempre, dall'altro un simpatico compagnone che non perde occasione per raccontarsi.

LE CANZONI All'Atlantico di Roma fervono i preparativi per il tour che li vedrà tornare a condividere i palchi, partendo il 18 giugno dallo Stadio Olimpico. Mentre le telecamere del regista Stefano Pistolini li riprendono in azione, tutto raccontato nella serie Falegnami & filosofi, sei episodi in esclusiva sulla piattaforma Discovery+ da domani, De Gregori e Venditti provano insieme ai loro musicisti le canzoni che faranno parte della scaletta dei concerti. 

La tournée andrà avanti per tutta l'estate: diciassette date per girare l'Italia da nord a sud, prima del ritorno nella Capitale per due nuovi concerti in programma l'1 e 2 settembre alla Cavea del Parco della Musica. «La commemorazione l'abbiamo già fatta. Adesso facciamo un'altra cosa. Quello che non abbiamo fatto ai tempi di Theorius Campus: essere un vero duo», spiega Venditti, 73 anni, che neppure nella sala da concerto presa in affitto per le prove del tour si separa dai suoi occhiali da sole a forma di goccia.

Non se ne separa nemmeno De Gregori, che di anni ne ha invece 71: «Rappresentiamo qualcosa di importante per la storia della musica italiana. Siamo sempre stati sghembi. Antonello è stato più pop di me, nelle intenzioni e anche nei risultati. Io ho sempre viaggiato un po' schiscio, come dicono a Milano. La miscela detonante che io sento che avviene quando cantiamo insieme sta proprio in questo».

Tra sigarette e visite a sorpresa in sala si presenta anche Ultimo, che il mentore Venditti presenta al maestro De Gregori le prove proseguono all'insegna di questa ritrovata amicizia che ha ridato carburante ad entrambi. I brani dei rispettivi repertori si susseguono e si mischiano: Bomba o non bomba, Pablo, Generale, Che fantastica storia è la vita, Buonanotte fiorellino, Alta marea. C'è anche Per le strade di Roma: «Tutti e due siamo intimamente romani.

Antonello lo ha dichiarato più di me, in realtà anche io mi sento di appartenere alla logica, alla bellezza e ai problemi di questa città. In questo siamo tutti e due molto legati. Partire dallo Stadio Olimpico è anche un segnale», riflette De Gregori.

LE STORIE I due arrivano a scambiarsi anche le rispettive canzoni. A cantare La donna cannone, ad esempio, è Venditti: «Per decenni abbiamo avuto due suoni e due modi di scrivere canzoni paralleli, nel senso che non si incontravano mai. Questo distacco, durato tantissimi anni, ci permette adesso di ricollegare due storie musicali e due modi di cantare, di far tornare i conti», osserva Francesco. Antonello gli fa eco: «Quello che rimane è una cosa rara: l'amicizia». Sugli spalti ci sarà da commuoversi.

La leggenda del Principe sul Titanic: i 40 anni dell’album di De Gregori. CARMINE MARINO su Il Quotidiano del Sud il 09 maggio 2022.  

Il nome di un celebre transatlantico – affondato più di un secolo fa nell’Oceano Atlantico con il suo carico di vite e di speranze – per rappresentare lo sfacelo morale di una generazione che era uscita a pezzi dalla «grande illusione» del ’68, misurandosi ben presto con i demoni della violenza politica e della lotta armata.

Eppure, il Titanic sul quale salì a bordo Francesco De Gregori nella primavera del 1982 non è affatto un catalogo di rimpianti o risentimenti: piuttosto, il Principe della canzone d’autore ha voluto mettere insieme i resti della biografia sentimentale di una generazione e di un mondo ormai sul punto di essere inghiottiti dalle onde del riflusso e del disimpegno. Quasi come se volesse cercare riparo dalla superficialità del presente, De Gregori sceglie una rotta eccentrica, che parte dalla bellezza sfumata e irraggiungibile dell’anonima protagonista di Belli capelli e arriva alle porte della Storia con la struggente San Lorenzo, ispirata al bombardamento che colpì il quartiere popolare di Roma la notte del 19 luglio 1943, passando per i lidi della nostalgia (come nella trascinante Rollo & his Jets, un omaggio ai bei tempi andati del rock and roll ascoltato alla radio, che occhieggia Crocodile Rock di Elton John) e del disincanto (le Centocinquanta stelle di «una notte ipocrita che sa di Coca Cola»).

Tuttavia, il cantautore romano non è un collezionista di istantanee: il suo mestiere somiglia a quello del ritrattista intento a catturare sul ponte di una nave i volti di un’umanità appartata che si guadagna da vivere lavorando sottocoperta e che, appena prima di partire, ammucchia i suoi sogni e i suoi desideri in valigie quasi sempre sbrindellate.

L’abbigliamento di un fuochista e I muscoli del Capitano compongono un dittico che ricostruisce da angolazioni opposte le storie dei nomadi del mare: da una parte, il giovane emigrante che si imbarca con i soldi nascosti nella cintura perché, come suggerisce sua mamma, «la gente oggi non ha più paura/nemmeno di rubare»; dall’altra il capitano tutto d’un pezzo che ignora l’allarme del mozzo, atterrito dai fantasmi di un futuro indecifrabile, invitandolo a proseguire la navigazione perché «c’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole». I passeggeri del Titanic, invece, avevano ben presente la loro destinazione: l’America in cui cercare fortuna, riscatto o, più prosaicamente, l’amore. Non c’è differenza di ceto che tenga: tutti, siano essi «signori» o «cafoni», hanno il diritto di sognare in grande. Compresa una quindicenne «innamorata del proprio cappello» che ha il privilegio di viaggiare in prima classe al seguito del padre, ansioso di farle conoscere il capitano del transatlantico.

De Gregori indugia poi su quegli umili passeggeri che scoprono con meraviglia le virtù della terza classe: «Questa cuccetta sembra un letto a due piazze/Ci si sta meglio che in ospedale».

Tra gli sconosciuti gregari che popolano le nove canzoni dell’album, spicca senz’altro Nino, il ragazzo «con le scarpette di gomma dura/Dodici anni e il cuore pieno di paura» consacrato dall’immortale La leva calcistica della classe ’68. Nino siamo tutti noi che, in quella fase di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, abbiamo immaginato di calciare il rigore decisivo nella finale dei Mondiali, scoprendo un attimo dopo di trovarci in un campetto spelacchiato e malinconicamente deserto. Eppure, il riscatto è dietro l’angolo: gli basta incrociare lo sguardo insolitamente convinto dell’allenatore per prendere coraggio, involarsi verso l’area e calciare d’istinto. La palla finisce in rete: Nino ha appena accarezzato la magia di un gesto irripetibile. E noi con lui. 

Da liberoquotidiano.it il 3 aprile 2022.

«Non sembriamo un po' Sandra e Raimondo?», scherza Francesco. «Per me ricordiamo, invece, Jack Lemmon e Walther Matthau ne La strana coppia», replica Antonello. E già, perché De Gregori e Venditti sono la nuova coppia della collezione musicale primavera-estate 2022. A mezzo secolo dal 33 giri in comune Theorius campus, e dopo decenni vissuti su binari separati, i due artisti romani tornano insieme.

Il 18 giugno prossimo partirà dallo Stadio Olimpico di Roma il loro tour 2022 che toccherà anche l'Arena di Verona. Un incontro artistico eccitante come, in passato, sono stati quelli tra Dalla e lo stesso De Gregori, tra Morandi e Baglioni, tra Gino Paoli e Ornella Vanoni. Contrariamente a tante operazioni simili, però, dopo la pubblicazione di un 45 giri in vinile con Ricordati di me da un lato e Generale dall'altro, i due non hanno previsto una canzone nuova nè tantomeno un brano pacifista - taluni se lo aspettavano - sulla guerra in Ucraina.

Francesco e Antonello hanno scelto così. E hanno fatto bene. Inutile cavalcare l'attualità, soprattutto da parte di due artisti che sono sempre stati sinceri, onesti e sensibili in tutto quello che cantavano. Mai falsi. «Le canzoni belle contro una guerra sono poche, si rischia la retorica», ha detto Venditti. 

«Crearne una in fretta e furia non va bene, gli artisti dovrebbero prevedere i disastri, se lo fai in quattro quattr otto può venir fuori una cag...a», ha replicato De Gregori. Come dar loro torto? La musica è arte, serve a comporre note e testi ma soltanto se queste note e questi testi, sono indovinati. La storia è piena zeppa di canzoni pacifiste, di inni che condannano un conflitto, di brani che raccontano storie di giovani morti in battaglia.

Molte canzoni sono oneste, belle, alcune definibili come capolavori. Altre sono state composte e commercializzate take away in pochi giorni, per riempire le vetrine dei negozi di dischi. Diciamola tutta: per sfruttare il momento, per farsi notare. Inutile sottolineare come, nella storia della musica, la canzone pacifista al top sia Imagine. Scritta da John Lennon nel 1971 e suggerita da un passo contenuto nel libro Grapefruit della moglie Yoko Ono, è diventata il simbolo dei brani contro le atrocità della guerra.

Scritta in anni durante i quali abbondavano canzoni con questa tematica, non "contro" una guerra ma "a favore" della pace. Non politiche, non ancora almeno. Bob Dylan, già nel 1963, era già uscito con un altro capolavoro: Blowind in the wind; i Doors avevano risposto con The unknown soldier, primo accenno sui disastri in Vietnam mentre i Rolling Stones avevano puntato il dito contro le violenze di tutte le guerre con Gimme Shelter. Senza però specificare quale guerra, Jagger d'altro canto non ha mai preso una posizione in 60 anni di carriera. Un democristiano di Manchester... 

Paul McCartney, invece, ha imitato Lennon scrivendo Give Ireland back to the irish, brano rock sui drammatici eventi in Irlanda del Nord durante il tragico Black Sunday: la canzone venne bandita dalla Bbc e Sir Paul messo alla gogna.

In Italia è impossibile dimenticare La guerra di Piero del 1969, nella la quale De Andrè ricalcò splendidamente gli argomenti pacifisti espressi da Dylan e anticipò, persino, quelli di Lennon. Amatissima resta ancor oggiC'era un ragazzo che come me, con la quale Gianni Morandi prese posizione contro le atrocità del Vietnam. All'epoca mobilitarsi su disco era di moda, come un eskimo: puntuali, quindi, i Nomadi con Contro e Guccini con Auschwitz, inno sull'olocausto. 

 Più recente Il mio nome e mai più del trio Jovanotti-Ligabue-Pelù (1991) contro il dramma del Kosovo. Oppure Follie preferenziali di Caparezza. Non siamo in zona capolavoro. Brani smaccatamente politici, più che pacifisti, invece furono altri spuntati in seguito, meno belli dei capolavori di Lennon e Dylan.  

I Black Sabbath hanno firmato War pigs, dimenticabile nenia sui "maiali della guerra". Non a livello di Imagine neppure Civil war dei Gun's Roses, e neppure War, del 1986, con cui Bruce Springsteen non perse l'occasione di bacchettare Ronald Reagen, impegnato in frizioni militari in Centroamerica. Dello stesso periodo Russians con cui Sting cantò la Guerra Fredda tra Usa e Urss. Le Torri gemelle del 2001, invece, furono al centro di Cry, di Michael Jackson. Anche qui, niente capolavori in giro. Hanno ragione De Gregori e Venditti: se l'ispirazione non c'è, meglio soprassedere. Tutto il resto è retorica. O, peggio ancora, noia.

Antonello Venditti compie 73 anni: l’imitazione di Guzzanti, mai in gara a Sanremo, 15 (+1) segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.

Il cantautore simbolo della romanità è nato nella Capitale l’8 marzo 1949, figlio unico di un funzionario statale e di una professoressa di latino e greco.

Laureato in Giurisprudenza

Oggi, 8 marzo, compie 73 anni il cantautore simbolo della romanità, nato «sotto il segno dei Pesci», una delle voci più amate del panorama musicale italiano: sono sue canzoni iconiche come (ne citiamo soltanto alcune) «Notte prima degli esami», «Ricordati di me», «Roma capoccia», «Grazie Roma» e «Benvenuti In Paradiso». Parliamo ovviamente di Antonello Venditti: nato nella Capitale nel quartiere Trieste è figlio unico di un funzionario statale e di una professoressa liceale di latino e greco. Forse non tutti sanno che, prima di dedicarsi completamente alla musica, Venditti nel 1973 si è laureato in Giurisprudenza, con una specializzazione in Filosofia del diritto: «E continuavo a frequentare l’ambiente dell’università. Credevo che un giorno sarei stato avvocato, magistrato...se fosse andata proprio bene notaio. Di certo l’idea di diventare famoso non mi interessava assolutamente, mi volevo soltanto esprimere», diceva al Corriere. Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.

Vittima di bullismo

Il cantautore romano ha rivelato di essere stato vittima di bullismo fino all’età di 16 anni: «Cantare è un modo per esprimere me stesso e la mia diversità. Non so far altro che parlare di me. La musica per me è una compagna di vita da sempre - raccontava in un’intervista a La Stampa -. Sono stato un adolescente molto solo, bullizzato fino a 16 anni. Ero talmente complesso e complessato che ho rischiato il suicidio molte volte. Le canzoni sono nate da quel dolore, anche se a volte, prendi “Marta”, mi nascondevo dietro a un altro nome».

Gli occhiali da sole

Uno dei tratti caratteristici del cantautore sono gli occhiali da sole (indossa da anni lo stesso modello): «Me li ha fatti scoprire una ragazza nel 1974 - ha raccontato al Corriere -. Venivano usati nella guerra in Vietnam perché nel cerchietto che c’è nella montatura i soldati sistemavano la sigaretta. Io, che avevo il pianoforte pieno di macchie proprio per le sigarette, ho deciso di usarli come simbolo pacifista. Da allora quei Ray-ban sono i miei occhi. Non me ne hanno mai regalato nemmeno un paio, però mi hanno avvisato quando stavano andando fuori produzione...così sono andato a comprarmene 20, 30 paia».

L’amore per l’Argentario

Uno dei luoghi del cuore del cantautore (dopo la Capitale ovviamente) è l’Argentario: qui Venditti possiede una villa in cui trascorre le vacanze, e qui sono nate «Ricordati di me», «Amici mai» e la cover italiana «Alta marea» (tratta dal singolo «Don't Dream It's Over» dei Crowded House).

Il matrimonio con Simona Izzo

Il 1975 è l'anno del matrimonio con Simona Izzo. Quello tra il cantautore e la regista e attrice è stato un grande amore. La coppia nel 1976 ha avuto anche un figlio, Francesco. Ma nel 1978 l’unione è arrivata al capolinea (a causa delle scappatelle di lui, raccontava qualche anno fa Izzo a Vieni Da Me).

L’amore con Monica Leofreddi

Dal 1985 al 1994 Venditti ha avuto un’altra importante storia d’amore, con la giornalista Monica Leofreddi. «Io e Antonello siamo stati insieme 9 anni - ha raccontato lei a Vieni Da Me -. Non lo ha mai saputo nessuno, non mi andava di essere “la fidanzata di”. Sono stati 9 anni nell’ombra».

La denuncia per vilipendio alla religione

Come raccontato anche nel libro «L'importante è che tu sia infelice» nel 1974, in seguito ad un'esibizione al Teatro dei Satiri a Roma, Venditti fu denunciato per vilipendio alla religione: sotto accusa un verso della canzone «A Cristo», eseguita durante il concerto («ammazzate Gesù Cri' quanto sei figo»). Il cantautore fu processato e condannato a sei mesi con la condizionale.

Gli inni della Roma

Super tifoso della Roma Venditti ha composto «Roma Roma» e gli inni ufficiali «Grazie Roma» e «Che c’è».

Non è mai stato in gara a Sanremo

Nel corso della sua lunga carriera musicale Venditti non è mai stato in gara a Sanremo. Partecipò soltanto come ospite all’edizione 2000 e nel 2019 salì sul palco dell’Ariston per festeggiare i 40 anni dell'album «Sotto il segno dei pesci».

Autore per altri artisti

Antonello Venditti ha firmato anche canzoni per altri artisti come «Ma quale amore» e «Ruba» per Mia Martini, «Eva dagli occhi di gatto» per Milva e «Strade di Roma» per Michele Zarrillo.

L’amicizia con Ivan Graziani

«Nacque un’amicizia profonda, io e Ivan eravamo amichetti, abbiamo passato anni insieme, di notte abbiamo vomitato insieme oltre a suonare insieme, abbiamo vissuto tante vite e quello che vivono insieme gli amici, enormi ubriacature, più sue che mie, i ritorni a casa in cui io ero l’autista…»: parlava così Venditti del suo grande amico Ivan Graziani (morto nel 1997 a soli 51 anni) nel 2016, in occasione dell’uscita del libro di Paolo Talanca «Ivan Graziani. Il primo Cantautore Rock». I due artisti hanno collaborato sul disco «I lupi» (1977) e in diversi altri progetti. «Sono felice di essere qui più come amico che come musicista, con me parlava, che è una cosa che oggi manca, perché il confronto nella musica, come nella vita, è quello che ci fa andare avanti e crescere».

Cameo al cinema

Antonello Venditti appare nelle pellicole «Signore e signori, buonanotte» (1976) con Marcello Mastroianni e Paolo Villaggio, «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino (2013) e ha fatto un cameo anche nella serie tv «Vita da Carlo» di Carlo Verdone e Arnaldo Catinari.

Le sue canzoni nei titoli dei film

Sono due i film che hanno preso in prestito i titoli di alcune sue (amatissime) canzoni: «In questo mondo di ladri» di Carlo Vanzina (2004) e «Notte prima degli esami» di Fausto Brizzi (2006). «Questa notte è ancora nostra» di Paolo Genovese e Luca Miniero (2008) invece riprende nel titolo uno dei versi di «Notte prima degli esami».

L’imitazione di Corrado Guzzanti

Chi nei giorni scorsi ha guardato LOL 2 ha sicuramente avuto modo di rivedere Corrado Guzzanti nei panni del cantautore, vero e proprio cavallo di battaglia del comico romano. L’imitazione (apprezzata da Venditti) è stata lanciata per la prima volta all’interno del programma L’ottavo nano, condotto nel 2001 su Rai2 da Serena Dandini.

In tour con De Gregori

A 50 anni dal loro debutto comune (con l’album «Theorius Campus») Antonello Venditti e Francesco De Gregori nell’estate 2022 uniranno i loro repertori in un unico tour: «Abbiamo avuto carriere parallele, ma siamo stati allattati dallo stesso latte - ha detto De Gregori -. Ci controllavamo a distanza e l’idea di cantare insieme, anche se mai ci siamo detti facciamolo, non ci era mai passata dalla testa».

Marco Molendini per Dagospia il 2 marzo 2022.

Il Principe e Cicalone, storia di un'amicizia mitizzata diventata concerto. De Gregori e Venditti, gli opposti che si ritrovano per sommare il pubblico dell'uno e quello dell'altro e trasformare l'appuntamento in evento (sennò gli stadi come li riempi?). 

E' la ricetta di Friends and partner, la multinazionale della musica italiana, che ha sotto contratto la quasi totalità degli artisti nazionali, ne dispone e ne organizza la vita (artistica), spesso giocando sulla mozione dei ricordi con la suggestione degli incontri e delle rimpatriate, delle amicizie ritrovate e delle associazioni impensabili (come quando Francesco cantò all’Arena di Verona con Fedez e Checco Zalone).

Così, alla fine, l'azienda guidata da Ferdinando Salzano è riuscita a mettere insieme quel tour che Il Principe (soprannome firmato Dalla) e Cicalone (definizione di Guccini) non fanno da cinquant'anni. Non l’hanno fatto perché non ne avevano voglia, perché sono artisti distanti, autori e cantanti agli antipodi, caratteri opposti, romani diversi (Monteverde uno, quartiere Trieste l’altro). Timido, schivo, aristocratico il primo, esuberante, viscerale e popolare il secondo. 

Interprete intimo uno, “ugola di tungsteno” (così  l’aveva battezzato Lilli Greco, mitico produttore della Rca) l’altro. Si sono beccati, probabilmente si sono detestati, hanno fatto pace davanti ai riflettori, ma chissà perché hanno continuato a essere associati in una retorica immaginaria dell’amicizia che parte da lontano.

Ragazzi del Folkstudio, lo sghangherato e fascinoso locale di via Garibaldi, luogo dell’esordio sul finire degli anni Sessanta (con un quartetto battezzato I giovani del Folkstudio assieme a Giorgoo Lo Cascio e Ernesto Bassignano), debuttanti con un primo album, Theorius Campus, firmato assieme per una contingenza più che per un’urgenza musicale: la casa discografica, non volendo rischiare, aveva concesso di fare mezzo disco a testa, metà Venditti e metà De Gregori. 

E, dal caso, sbucarono due canzoni fatte a quattro mani e due voci. Eppure Theorius Campus è passato alla storia come prova di un indissolubile legame artistico, continuamente evocato, mantenuto in vita, raccontato, alimentato dalla romanità, dalla fede romanista e dal rimando a quei primi passi comuni al Folkstudio sotto l’ala di Giancarlo Cesaroni, il chimico patron del locale di via Garibaldi e poi di via Sacchi.

L'unico vero tour congiunto, i due ragazzi, l'avevano fatto qualche mese prima, anche questo per caso: un viaggio della Federazione giovanile comunista in treno in Ungheria (compenso  per aver registrato su richiesta di Nanni Loy la musica di uno special televisivo magiaro). 

Antonello aveva preso il posto Claudio Lo Cascio, che aveva rinunciato alla spedizione perchè si doveva sposare. La storica collaborazione artistica, dopo il disco, si esaurisce rapidamente con la coda di uno di quei tour multipli che servivano a lanciar più artisti emergenti (con loro c’era Riccardo Cocciante). 

Theorius Campus segna il lancio di Antonello con due canzoni potenti e popolari, Roma Capoccia e Sora Rosa, e fa da spartiacque a due carriere separate, a volte antagoniste. Le differenze li allontano e suonano evidenti in quelle due canzoni comuni dell’album, con «l’ugola di tungsteno” di Venditti che sommerge la voce intima di De Gregori.

Il successo crea un solco: uno diventa il campione di una canzone d’autore popolare, l’altro è il paladino di una canzone dal gusto aristo-snob. Arrivano anche a lanciarsi frecciate musicali a  distanza: “è un pianista di piano bar vende a tutti tutto quel che fa” canta Francesco nel brano conclusivo di Rimmel, il disco che sblocca la sua storia.

Anni dopo Antonello si leva il macigno, riferendosi all’amico racconta in una intervista a Mollica: “Quante me ne avete fatte negli anni '70. Quando De Andre' si accorse di te, io rimasi solo, col mio linguaggio meno forbito, ma ugualmente forte e colto. Venivate a rovinare le presentazioni dei miei dischi. Al Teatro Gerolamo io presentavo 'Quando verrà Natale' e tutto andava per il meglio quando siete arrivati voi con Nanni Ricordi e vi siete messi a fare casino,  mandando via la gente. Io mi arrabbiavo come una bestia e pensavo: 'ma questi due fighetti, che vogliono?''. 

Nel ‘96, un quarto di secolo dopo Theorius Campus, improvvisamente si ritrovano, in occasione della campagna elettorale dell’Ulivo per le elezioni politiche. "Stamattina ho telefonato a Francesco e gli ho chiesto se gli andava l'idea di esserci per un saluto a Veltroni. Mi ha richiamato e mi ha detto: sì Antonello, ma se ci andiamo cantiamo insieme", la ricostruzione di Venditti. Si esibiscono a piazza Vittorio, due soli pezzi, Roma Capoccia e Viva L’Italia, quanto basta per riaccendere la retorica dei cantautori riuniti.

Invece finisce con le due canzoni per l’Ulivo e i giornali che continuano a sognare sulla ritrovata amicizia. Sette anni dopo un altro vagito, la canzone ''Io e mio fratello'', che esordisce così: “Sono Antonello e questo è mio fratello/ Il mio miglior nemico/Il mio peggiore amico”. 

In quell’occasione Francesco chiede pubblicamente scusa a Antonello, rivelando comunque il solco scavato: ''Antonello, ho fatto un grandissimo errore e chiedo scusa. Ti devo confessare che quando hai scritto l'inno della Roma, sono rimasto spiazzato in modo anche spiacevole, da cantautore impegnato con la puzza sotto il naso, da cantautore col Kappa. Invece quella canzone e' una straordinaria canzone. La canto in certi momenti formidabili della Roma, come si fa a non cantarla'''. 

Il miglior nemico e il peggior amico si ignorano o quasi per altri 15 anni, salvo un’uscita incontrollata di Antonello nel backstage del concerto di Vasco Rossi all’Olimpico del 2011 (Antonello è uno specialista delle uscite incontrollate, non per niente è Cicalone, come quella volta che durante un certo a Messina sparò “perché Dio ha creato la Calabria?”, frase poi finita su Youtube e che gli scatenò contro l’intera regione). Nell’aftershow dell’Olimpico, chissà perché, se la prende contro la reunion di De Gregori e Dalla: “Uno che dà retta a Dalla è un coglione”, fu la sentenza. 

Ma il tempo, si sa, lenisce tutte le ferite, la nostalgia di sè  addolcisce i ricordi, mettici in più l’offerta a cui non si può  dure di no di Friends and partner e, cosí, rieccoli ora a braccetto, pronti a celebrare il matrimonio mai celebrato. Salzano aveva messo il primo mattone del suo progetto  tre anni fa  all’Arena di Verona, con Francesco ospite dell’altro ex ragazzo del Folkstudio nel concerto dei quarant’anni di Sotto il segno dei pesci.

La serata è stata lo sbrinamento definitivo, lo scivolo verso gli stadi del duo ritrovato. Causa covid l’appuntamento è slittato ma, nel frattempo, i due hanno continuato a filare in armonia, cullati dal progetto di santificazione urbi et orbi  di quell’unione indissolubile che non c’era mai stata. Si sono persino ritrovati all’Expo di Dubai con Antonello ospite di Francesco per cantare di nuovo Roma Capoccia e Viva l’Italia

L’Olimpico, il 17 luglio, sarà il debutto di un lungo viaggio, si annunciano tre ore con la suggestione di un catalogo musicale che ci ha accompagnato lungo tutta la vita. Impossibile mancare, ma non c’è bisogno di condire la storia con la leggenda di un sodalizio artistico da ricomporre. Lo stesso Venditti, qualche giorno fa, presentando l’appuntamento ha ammesso: “Finora non avevamo mai lavorato su nulla di realmente strutturato”. Non è mai troppo tardi.

Luca Dondoni per “la Stampa” l'1 marzo 2022. 

Fra qualche mese accadrà: Antonello Venditti e Francesco De Gregori partiranno per il loro primo tour insieme, un'esperienza che assomiglierà molto a quella vissuta da Baglioni e Morandi nel 2015 dove cantavano singolarmente, in duetto o l'uno i brani dell'altro. Incontrandoli vengono alla memoria canzoni che hanno segnato la storia del pop italiano degli ultimi 50 anni. 

La loro vita artistica, fatta di comunanza e diversità, li aveva visti collaborare a inizio carriera con l'album Theorius Campus, ma il discografico aveva pochi soldi e gli fece incidere un disco dove duettavano solo in Dolce signora che bruci in mezzo alla città, per il resto ognuno cantava un suo brano. 

Qual è stata la scintilla per il Venditti & De Gregori Tour? De Gregori: «Un pranzo a Roma dove ci siamo detti: ma veramente lo vogliamo fare? Dopo una bella bottiglia di vino ci siamo convinti che lo desideravamo. Siamo convinti che alla gente farà piacere vedere i nostri nomi accoppiati. Poi se vuole sapere perché in cartellone il nome Venditti viene prima di De Gregori le confesso che abbiamo risolto la questione con il lancio della monetina e ha vinto lui, anche se sono certo che suoni meglio De Gregori & Venditti».

Il viaggio musicale sarà anticipato da un mega concerto. Venditti:

«Il 18 giugno inaugureremo la lunga avventura allo Stadio Olimpico di Roma con uno spettacolo dove riproporremo, ritoccate, alcune delle canzoni che sono entrate nel cuore della gente, nelle loro storie di vita. Abbiamo mixato le nostre due band. Io mi sono preso basso e batteria mentre gli altri sono musicisti di Francesco. Bravissimi ma probabilmente nel corso dei mesi li cambieremo anche a seconda dei loro impegni. Scalette e musicisti potranno cambiare». 

Per festeggiare questo annuncio avete pubblicato un 45 giri, come si faceva una volta. De Gregori: «Abbiamo reinterpretato due pezzi che amiamo molto reciprocamente. Generale e Ricordati di Me di Antonello. Un regalo a chi ci ascolta da tanto tempo, ma arriverà molto altro. Dopo il tour all'aperto e in alcuni festival (il 10 luglio al Lucca Summer Festival) entreremo nei teatri e allungheremo le date sicuramente sino al 2023. Tutto verrà filmato per un docufilm, e ci sarà anche un disco».

Il vostro tour fa notizia anche perché di voi si è parlato per anni come amici/nemici a causa di un litigio. Venditti: «A lungo ci hanno visto come i Coppi e Bartali della musica, degli antagonisti». De Gregori: «Non ci lasciammo a causa di un litigio, anche se in realtà litigavamo in continuazione, ma perché lui fece Roma Capoccia e diventò immediatamente famoso e io ci misi qualche anno in più, ma facevamo cose diverse. Ci allontanammo rispettandoci tantissimo». Tanto che Antonello nel '78 scrisse una canzone intitolata «Francesco». Il testo recitava: «Siamo due aquiloni strappati che non volano più». 

Venditti: «Sapevo che me ne sarei andato dalla casa discografica ed era una sorta di addio al mio amico De Gregori, anche se lui ha un caratterino bisognerebbe chiedere a Dalla del periodo di Banana Republic». A proposito di Lucio, oggi si celebrano i dieci anni dalla sua scomparsa. De Gregori: «Ho avuto la fortuna di lavorare con Lucio per ben due volte, della nostra amicizia ricordo sia gli aspetti comici che quelli tragici. Adesso, lo confesso, l'aspetto celebrativo non riesco a farlo mio. Ci ho lavorato da vivo e preferisco ricordarlo così».

Venditti: «Dalla mi ha salvato trovandomi una casa a Roma dopo una mia separazione. In più lo ascoltavo molto quando mi parlava perché raramente aveva torto. Ma, guardi, per me le morti non esistono, esistono solo le nascite». 

Cosa pensate del fatto che per ora non si sia vista una grande mobilitazione del mondo della musica contro la guerra in Ucraina? 

Venditti & De Gregori: «Anche sulle facce di persone più erudite di noi abbiamo visto paura e smarrimento. Credo che sia la sensazione che proviamo anche noi. Sulla mobilitazione non abbiamo commenti al riguardo. Cosa dovremmo fare? Un concerto? L'ennesimo concerto che si fa per qualcosa. Il concerto deve essere bello per sé stesso e non per qualcosa. C'è la guerra e allora facciamo un concerto. Ma chi l'ha detto? Piuttosto di scrivere canzoni brutte sulla guerra è meglio stare zitti, altrimenti è retorica».

·        Antonino Cannavacciuolo.

Cannavacciuolo: «Apro in Toscana. Da ragazzo ho lavorato gratis ma oggi i giovani vogliono anche altro». ISABELLA FANTIGROSSI su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.

Nato a Vico Equense e diventato «grande» sul lago d’Orta, apre il 24 giugno il suo quarto «Laqua resort», a Terricciola (Pisa), «Vineyard» in un casale toscano in mezzo alle vigne: «Oggi non mi fermo mai: sono drogato di sfide. E alla terza stella penso tutte le mattine». Intanto progetta di aumentare i giorni di chiusura a «Villa Crespi»: «Per ridurre lo stress della brigata»

«Vedi qua intorno? Siamo vicini a Borgomanero, San Maurizio d’Opaglio, Gozzano». È la provincia verde di Novara che si affaccia sul lago d’Orta e ha alle spalle le grandi industrie del distretto della rubinetteria. «Oggi quegli imprenditori sono miei clienti e sono tutti miei amici, mi chiamano Tonino», racconta Antonino Cannavacciuolo, uno dei pochi chef italiani premiati dalle guide e contemporaneamente personaggio televisivo di successo. «Ma all’inizio quando ho aperto “Villa Crespi”, avevo neanche 25 anni, napoletano, mi guardavano tutti strano, non si fidavano. E poi parlavo di ricciola, di pesce di scoglio. E qui c’era gente che non aveva mai mangiato pesce e non sapeva che cosa era la burrata». Dicono che il suo motto è sempre stato: paura e soldi mai avuti. «Ma ora non lo posso più dire. Mi ridono in faccia. A Masterchef Locatelli mi ha quasi insultato per questo», scherza. E quasi 25 anni dopo, Cannavacciuolo, «nato a Vico Equense centro, ma dai sei anni cresciuto a Ticciano», è pronto per inaugurare il suo ultimo progetto, il quarto «Laqua resort» e il primo ristorante con boutique hotel fuori dalle sue due regioni, Campania e Piemonte. E nel frattempo progetta di cambiare l’organizzazione del lavoro a «Villa Crespi»: «Da agosto chiuderemo due giorni, forse due giorni e mezzo alla settimana in modo da ridurre lo stress della brigata».

La nuova insegna, dunque. Si chiama «Laqua Vineyard» e aprirà le porte ufficialmente il 24 giugno in un casale con giardino nel piccolo borgo etrusco di Casanova, nel Comune di Terricciola, tra Pisa e Volterra. All’interno sono già pronti il ristorante (con design firmato Studio lamatilde) nella zona centrale del casale — con cucina a vista, grande social table, privé e due menu (carta e degustazione curati assieme all’executive chef Marco Suriano) — e sei appartamenti, mentre sta per sorgere l’area benessere e una grande piscina con vista sui vigneti. Quello tra alta cucina e vino sarà un sodalizio forte. Non a caso c’è anche l’idea di collaborare con la vicinissima cantina vinicola La Spinetta della famiglia Rivetti per organizzare insieme eventi.

Anche il progetto toscano nasce dal connubio tra Cannavacciuolo e la moglie Cinzia Primatesta. «Tra me e lei c’è un rapporto di amicizia. Lo dico sempre: se io e Cinzia fossimo stati solo fidanzati, ci saremmo già lasciati. Tra di noi funziona così: lei finge di volersi fermare, dice basta, ora godiamoci la vita, ma poi mette sempre qualcosa di nuovo sul tavolo. E quando non lo fa lei, lo faccio io». Come, appunto, il nuovo resort in Toscana o l’idea futura di mettere in campo un servizio di ecommerce per l’estero, oltre a quello italiano già esistente. «Passami il termine, lo so che è brutto — lo dice quasi sotto voce —, ma io e Cinzia siamo due drogati, due drogati di crescita, di sviluppo, di sfide. Pensiamo sempre al lavoro. In viaggio di nozze mi ero portato dietro le ricette da studiare e Cinzia pensava a come aggiustare i conti. È che alla fine non lavoro: mi diverto. Perciò ora la crescita deve essere anche l’occasione per far star bene chi lavora con me. A “Villa Crespi” — spiega —, oltre a ridurre i giorni di apertura, toglieremo anche qualche tavolo, non faremo più cioè le tavolate da 8: il ristorante così sarà più esclusivo». Una delle strade da percorrere per provare ad agguantare le tre stelle Michelin. «Tutte le mattine in cui mi sveglio lavoro per arrivare lì. È come voler vincere la Champions per un calciatore. Se mi togli quell’ambizione per me è finita».

Ma anche, soprattutto, racconta Cannavacciuolo, due modi per «evitare eccessivo stress alla cucina e alla sala». Un tema, quello delle condizioni di lavoro di cui oggi si parla ampiamente. «Io ho cominciato da ragazzo facendo stage gratis e pagandomi l’alloggio in Francia. Ma la mia è stata una scelta che ho voluto fortemente fare — racconta —. I tempi, però, sono cambiati: una giusta gavetta quando si è giovani ci vuole ma chi lavora oggi chiede, oltre a uno stipendio degno, più qualità e tempo a disposizione. Del resto, è il mondo che cambia: mio padre ha lavorato più di me, io ho fatto qualcosa di meno rispetto a lui e i miei figli probabilmente lavoreranno un poco di meno rispetto a me. Noi oggi cerchiamo di far stare bene la brigata, di gratificarla: senza i miei ragazzi io non faccio niente, perciò devo tutelarli e il mio successo deve essere anche il loro. Dopo di che, ci sono altri temi che andrebbero affrontati: per esempio, la pressione fiscale terribile per un imprenditore. Ma la soluzione non ce l’ho, non sono un politico, sono solo un cuoco».

«Odio e amore» con il papà

Un cuoco che ha fortissimamente voluto da ragazzo questa vita, anche contro il desiderio dei genitori. Con il papà, Andrea, cuoco e insegnante alla scuola alberghiera di Vico dove Antonino ha studiato, racconta che c’è «un rapporto di odio e amore. Mio papà ha sempre lavorato moltissimo, usciva di casa alle 7 e rientrava all’una di notte tutti i giorni. Non abbiamo mai fatto le vacanze assieme, non è mai venuto a vedermi giocare a pallone. Lavorava e basta. Io sentivo mia mamma che diceva alle amiche: io faccio una vita da vedova, mio marito lo vedo solo di notte. Lui, alla fine, era contro la strada che avevo scelto. Ma così mi ha sfidato. Mi sono detto: tu pensi che io non ce la faccio? E così ho cominciato. Anche mia mamma, quando ho iniziato a girare per lavoro, mi chiamava e mi diceva, in dialetto: Tonino, ti prego, torna a Napoli che ti campo(sostengo, ndr) io». Ma lui vuole fare da sé. «A 18 anni mio papà mi voleva comprare la Golf. C’era quella pubblicità della pecora nera in mezzo al gregge bianco che guardavano tutti. Ma io gli ho detto: papà, fermati, la macchina me la compro io quando posso. E quando sono arrivato qui in Piemonte, facevo la stagione, dormivo a due chilometri, andavo avanti e indietro e la macchina mi serviva. Sono andato dal concessionario e gli ho chiesto: quanto costa la macchina che devi buttare? Ho preso quella: una Renault 4 pagata 500 mila lire. Ma ero l’uomo più felice del mondo».

Nel 1999, Cannavacciuolo, all’epoca 25 anni, e la moglie prendono in gestione «Villa Crespi». I primi tempi sono di fatica e molti investimenti. «Non ho vergogna a dirlo. Un gennaio ho detto a Cinzia: quest’anno non possiamo andare in vacanza. Mi ero indebitato per comprare Meta di Sorrento. Poi la gente dice che ho fatto i soldi con la televisione: beh, in realtà ancora prima avevo già fatto un investimento di quasi 4 milioni. Poi, certo, il successo che ho avuto con Cucine da incubo e Masterchef è bello: ci ha dato solidità, oggi siamo più forti come imprenditori, possiamo investire. Con i primi guadagni ho fatto una cucina più grande. Ma la televisione è anche ciò che mi ha permesso di restare chiuso per quasi 5 mesi durante il primo lockdown pagando sempre gli stipendi e anticipando la cassa integrazione». In seguito la coppia, genitori di due figli, Elisa, 15 anni, e Andrea, 9, apre i due bistrot di Torino e di Novara, oggi entrambi stellati, e infine inaugurano i «Laqua resorts», piccola catena di hotel familiari di lusso con ristorante declinati a seconda del luogo: a Sorrento, appunto, a Ticciano (stellato) e, ultimo prima di Terricciola, il «By the lake» a Pettenasco, inaugurato lo scorso anno a tre chilometri da «Villa Crespi». Una struttura nata con l’idea di offrire una tavola più informale, oltre agli appartamenti pensati anche per i clienti del ristorante madre. Il resort è affacciato sul lago: «Abbiamo anche costruito i pontili in legno, qui sul lago non ce li ha nessuno». Si mangiano piatti legati alla storia di Cannavacciuolo e del luogo. Dal luccioperca con crescenza e crescione ai plin alla parmigiana alla linguina alle vongole con bottarga e limone. La cucina è gestita dall’executive chef Gianni Bertone: «Bravissimo, aveva partecipato a Masterchef, poi mi ha inseguito per mesi. A un certo punto mi aveva così stufato che gli dissi di venire a trovarmi a “Villa Crespi”. Ora è sei anni che è con me».

«Nessuna dieta. Solo rieducazione alimentare»

Ma, se non gira in televisione, Cannavacciuolo sta sempre al pass, controlla, aiuta a impiattare, assaggia tutte le preparazioni. «Sarò cuoco per tutta la vita. Mi piace da morire spadellare, assaggiare, mangiare. In lockdown ho solo cucinato. Mi svegliavo, facevo colazione, poi un’ora di palestra e dalle 11 fino alle 16 stavo in cucina. Facevo la linea per Cinzia, quella per Elisa e quella per Andrea. Ho rallegrato un momento buio. Mai mangiato così bene e sano come in quel periodo». E la famosa dieta? «Ma quale dieta? La dieta è uno stress mentale, fa allontanare le amicizie. Io ho fatto, piuttosto, una rieducazione alimentare. Ero arrivato a pesare 155 chili, se guardo certe foto non mi riconosco. Ora ne peso 133 ma ero arrivato pure a 128: devo ricominciare con l’attività fisica. Ho tolto il cibo facile, il fuori pasto, da parecchio evito il cornetto la mattina: prima quando lo mangiavo sentivo il mio corpo che bolliva. Ora faccio una colazione sana — ci tiene a spiegare —, due uova o cereali con kefir, frutta, caffè. A mezzogiorno pesce o carne e verdure. La sera uguale. Ogni tanto la pasta. Poi se mi porti da “Da Vittorio” a Bergamo mica mangio un po’ di pesce bollito. Il cibo rende sempre la vita felice». Come sembra essere la sua. Soprattutto dopo essersi tolto lo sfizio più grande: «Il resort di Ticciano. Solo un pazzo poteva aprire lì, le strade sono strette, non c’è niente. Ma ho realizzato un sogno dei miei genitori. Nel 1994 mio padre aveva comprato quel palazzo con i risparmi di una vita. E lo aveva fatto per me. Diceva: così quando Tonino tornerà si farà qui il ristorante e l’appartamento. Ma io sono sempre rimasto in Piemonte e lo sapevo che a stare qui gli avevo fatto un danno. E, infatti, quando abbiamo aperto là, sai che cosa mi ha detto? Ora sono finalmente sereno». Come, forse, anche Antonino.

·        Antonio Banderas.

Stefania Ulivi per il "Corriere della Sera" il 10 aprile 2022.

Félix Rivero ha realizzato il sogno di ogni star: ha sfondato a Hollywood e ci tiene a farlo pesare. La regista d'avanguardia Lola Cuevas lo scrittura al fianco di un'altra prima donna, Iván Torres, attore di teatro rigoroso ma non meno vanesio, per un film finanziato, a scatola chiusa, da un imprenditore farmaceutico miliardario che sogna di passare alla storia. Del cinema, almeno. 

I tre - Antonio Banderas, Penélope Cruz e Oscar Martínez - sono i protagonisti della commedia nera Finale a sorpresa. Official competition dei registi argentini Gastón Duprat e Mariano Cohn. Applaudito a Venezia 78 sarà in sala con Lucky Red dal 21 aprile. Banderas è Félix.

«Machista, viziato, capriccioso. Fosse stato davvero il mio ritratto non lo avrei fatto», racconta ridendo al Corriere. 

Avrà preso da modelli reali.

«Certo, ho messo il peggio di ciò che ho visto nella mia carriera. Anche se ho vissuto a Los Angeles, non saprei arrivare ai suoi estremi. Ma gli riconosco dei meriti». 

Per esempio?

«È un buon attore, sa giocarsi bene le ottime carte che la vita gli ha dato e sa trovare un equilibrio con Lola, anche lei con un ego ingombrante. Félix è un narciso puro ma lo è anche Iván, un narcisismo intellettuale il suo, più sottile e pericoloso. Ambiguo. Il film darà fastidio a qualcuno che si riconoscerà, è facile trasformarsi in ciò che si critica».

Radiografia impietosa del mondo del cinema.

«Non è facile. Per questo è un ottimo film. La risata è diventata sovversiva, è politicamente scorretta per definizione. Ti puoi mettere nei guai per una battuta. Ma nell'arte la mancanza di libertà non funziona, l'autocensura è terribile, ora si ha paura delle reazioni, delle reti sociali, è un'epoca complicata per l'arte. Duprat e Cohn usano l'ironia come lente d'ingrandimento con cui guardare agli esseri umani, questa fiera della vanità in cui siamo immersi. Tutti e tre in realtà sono vulnerabili, come dei sopravvissuti nella giungla. In ogni campo esiste gente così, capace di uscire dal proprio personaggio solo di fronte a sentimenti veri. Come la paura della morte».

Lei e Penélope, colonne della famiglia Almodóvar, per la prima volta coprotagonisti.

«Buffo che non sia successo prima. Mi ha chiamato con Javier Bardem, l'idea di lavorare con Duprat e Cohn è stata loro. Avevo visto Il cittadino illustre, mi era piaciuto tantissimo. Ci siamo visti nella mia casa di Londra e ho detto subito sì, ci siamo raccontati aneddoti di vita vissuta sul set che abbiamo usato». 

Come Félix che prima di ogni scena fa un verso da mucca per sciogliere la voce?

«Esatto. Mi è capitato, non dirò mai chi è. All'inizio ho pensato che fosse davvero una mucca, poi gli ho fatto notare che magari per lui era utile ma per noi micidiale. Con Penélope sul set abbiamo giocato molto. Appena l'ho vista truccata, ho notato che era già Lola e la relazione è stata tra i due personaggi».

Dopo «Dolor y gloria» dà l'idea di essersi liberato, come se non dovesse più dimostrare nulla.

«Conta anche l'età, siamo sinceri. Mi piace aver fatto due film che raccontano il mondo del cinema. In uno era il regista, qui l'attore. La prima aveva uno stile serio, solenne, qui il tono è di commedia». 

Perché ha scelto di tornare a vivere a Málaga e aprire un teatro?

«La gente pensa che mi sia fatto il mio mausoleo dove seppellirmi. No, è una culla, il teatro è un bambino che spero cresca. Viviamo in un'epoca in cui le immagini che non sono registrate sembra non esistano, tutti fissi sui loro telefoni. Il teatro al contrario è immediato: ciò che succede ogni sera vive nel ricordo di chi l'ha fatto e visto».

È regista e interprete del musical «Company», di cosa si tratta?

«È una riflessione sulla vita di coppia, il patto tra due persone - che siano uomo e donna, due uomini, due donne - per adattarsi ai desideri e gusti dell'altro. Vorrei portarlo in tournée anche in Italia». 

Nostalgia d'America?

«A volte sì. Mi manca mia figlia. Ma me la porto, è la mia seconda aiuto regia. Ha studiato teatro e cinema, voglio che lo metta in pratica».

·        Antonio Capuano.

David di Donatello 2022, chi è Antonio Capuano, premiato da Sorrentino, che dedica la vittoria alla moglie scomparsa un mese fa. Regista, autore e scenografo, ha ricevuto la statuetta Speciale dall'autore di 'È stata la mano di Dio'. 82 anni, il suo discorso ha colpito: "Non capisco perché applaudiate, non me lo merito. Lo voglio dedicare alla mia ragazza che non c’è più", ha detto in ricordo della moglie Willye, morta un mese fa. La Repubblica il 4 Maggio 2022.

"Non ti disunire". Antonio Capuano è uno dei grandi del cinema italiano, diventato un personaggio di È stata la mano di Dio, il mentore di Fabietto, l'alter ego di Paolo Sorrentino, che alla cerimonia dei David di Donatello (dove ha vinto cinque premi tra cui film, regia, il premio alla "mamma" Teresa Saponangelo) gli ha consegnato sul palco il David Speciale."A tien' na cosa 'a raccuntà?" , provoca ancora il ragazzo in una delle più belle scene del film. "E dimmélla!".

"Non ti disunire me lo diceva davvero", ha spiegato Sorrentino a Conti, "Antonio è un maestro di libertà e vitalità, il suo cinema è un ritratto di vitalità. Gli sono molto grato, lui mi ha assunto la prima volta quando ero ragazzo, in 3 secondi, senza che ce ne fosse un motivo valido. Non avevo mai lavorato prima, gliene sarò per sempre grato". Nel 1998 Paolo Sorrentino aveva 28 anni e lavorava come sceneggiatore Rai, una delle sue sceneggiature, Drangoncelli di fuoco, arriva sulla scrivania di Antonio Capuano, che lo prende per lavorare alla scrittura di Polvere di Napoli. "Il produttore Nicola Giuliano mi disse che c'era un giovane bravo del Vomero che aveva scritto una sceneggiatura. Me la fece leggere. Gli proposi di scrivere insieme Polvere di Napoli. Era tenero, Paolo, trepidante".

Commovente la dedica di Capuano: Ringrazio tutti, non capisco perché applaudiate, non me lo merito. Ringrazio Piera e veramente tutti i componenti dell'Accademia, uno a uno. Il premio lo dedico alla mia ragazza che non c’è più". La moglie Willye, morta soltanto un mese fa. Olandese, era arrivata a Napoli per imparare l’italiano e da giovanissima era stata conquistata a colpi di tuffi, raccontava Capuano.

Il regista ha da poco compiuto 82 anni. La gavetta è stata molto lunga e legata al mondo della televisione. Ha lavorato come scenografo, per poi esordire nel 1992, il primo film è stato Vito e gli altri, premiato alla Mostra di Venezia, raccontava la difficile vita dei bambini di strada a Napoli. Il successo arriva con Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, seguono i bellissimi Polvere di Napoli e Luna rossa. Polvere di Napoli è apprezzato sia da Toni Servillo, che chiama Teresa Saponangelo a teatro con lui, che da Roman Coppola, che convoca l'attrice per un provino di uno spot girato dal padre Francis.

Capuano ha vinto il premio dei critici ai David di Donatello nel 2006 con La guerra di Mario e il suo ultimo film è stato Il buco in testa, nel 2020, un'immersione tuffo nel dolore lasciato dagli anni di piombo, ispirato alla storia vera di Antonia Custra, scomparsa nell’agosto del 2017 a soli 40 anni, che decise di perdonare Mario Ferrandi, l’uomo condannato per l’omicidio del padre, il vicebrigadiere di Pubblica sicurezza, assassinato a Milano nel maggio del 1977 nel corso di una manifestazione di militanti di estrema sinistra pochi mesi prima che Antonia nascesse. La ragazza, inoltre, scelse di dare parere favorevole quando Ferrandi chiese e ottenne la riabilitazione.

Antonio Capuano: «Sorrentino mi vede così. Il mio primo David di Donatello? Una toppa». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Il regista napoletano, 82 anni, che Paolo considera il suo mentore, è uno dei personaggi di «E’ stata la mano di Dio». «Mi ha fatto arrogante e un po’ volgare, ma lo difendo, è la sua visione. Il suo film che preferisco? Il divo». 

Il maestro e Paolo. Trent’anni di differenza. Sorrentino e il suo mentore, Antonio Capuano, il regista trasformato in uno dei personaggi di E’ stata la mano di Dio. Alle 16 candidature ai David di Donatello, il 3 maggio, si aggiunge il David speciale a Capuano, 82 anni. E’ stato uno dei simboli del risveglio culturale di Napoli, due generazioni prima di Martone. Non ha mai lasciato la sua città, uomo di una sincerità crudele. Sorrentino ha detto di non sapere se lui avesse visto il film.

E poi?

«Poi l’ho visto, Paolo mi ha fatto arrogante e un po’ volgare, forse mi vede così. Ma io lo difendo, è il suo sguardo e ognuno è libero di mostrarlo, senno’ fa una copia. anche se nel mio quartiere, a Posillipo, la gente che mi conosce da una vita mi ha detto: ma come t’ha fatto Paolo?».

Nel film le fa dire due frasi iconiche: non ti disunire, e ce l’hai una cosa da dire?

«Chissà quante volte ce lo siamo detti nelle nostre lunghe passeggiate in cui parlavamo del Napoli, di noi, delle femmene. Non ti disunire era riferito alle partitelle di calcio. Paolo era un ragazzo timido, schivo ma luminoso. mi manca molto, non so io a lui, non è molto esplicito. Ci siamo persi. Lo sogno spesso, l’ultima volta ero alla Mostra di Venezia e lui era già volato in USA. Nel sogno aveva un bambino nel marsupio, non mi guardava, andava oltre la folla ed è scomparso. Gliel’ho descritto al cellulare il mio sogno, non mi ha risposto e non ho fatto nessuna analisi. Paolo è un borghese, io un proletario, questo ci divide. Ma so che c’è una tenerezza che ci lega. Il suo produttore mi fece leggere una sua sceneggiatura, gli chiesi di aiutarmi a scrivere Polvere di Napoli. Ci siamo conosciuti così. Il suo film che preferisco? Il divo».

Sorrentino nel film si è sentito in debito con Troisi.

«Io ho troppi debiti di riconoscenza, Pasolini è tra i miei maestri, mi influenzano tutti, pure il cinema di m…Fondamentalmente guardo la vita, la gente che cammina, nei bus, in metro…».

Sorrentino dice di amarla e odiarla allo stesso tempo.

«Ognuno è vittima del suo carattere, spesso mi sono detto quante volte vorrei cambiare, prendere una vacanza da me. Sono andato a vedere a teatro Il Tartufo, un Molière così brillante in un’ambientazione proletaria, in una cucina, negli Anni ’60. Mi tormentavo sulla sedia. Sono andato via».

Nell’ambiente conformista del cinema, lei…

«Si, c’entro poco, dovrei essere più furbo, diplomatico. Non ci riesco».

Come ha cominciato?

«Mio padre era tranviere, mia madre casalinga, cinque figli. Ero scenografo, una specie di mosca bianca. Dovevo aiutare in casa. L’estate facevo il bagnino, i lavori del mare. C’era una ragazza olandese bellissima che adocchiavano tutti. Io attirai la sua attenzione con dei tuffi. Uscendo dall’acqua la salutai, lei mi sorrise. E’ mia moglie. E’ un tasto che mi commuove».

Come considera il David?

«Una toppa. Ma non andrò lì a fare discorsi polemici, sarebbe troppo facile. Ringrazierò. E’ il mio primo David, meno male che è speciale. Da piccolo feci la comparsa in Ieri, oggi e domani di quel genio di De Sica. Quando mi diedero il premio De Sica, Rondi che lo presiedeva mi disse: Capuano, mi perdoni di tutte le cose che non ho fatto per lei e avrei potuto fare».

Sorrentino dice che lei crede nella necessità del conflitto.

«E’ indispensabile, per imparare a stare al mondo e fare cinema. Senza conflitto cosa puoi raccontare? Ho girato Il buco in testa e il giornalista Mario Calabresi, un incanto come persona, mi ha detto parole molto belle».

I produttori dicevano…

«Che ho talento ma i miei film non incassavano. Ognuno ha il pubblico che si merita. Nel ‘96 ero a Venezia con Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, in cui un prete ama un bambino con scene di sesso abbastanza esplicito; implora Gesù di concedergli la possibilità di amare. Monsignor Tonini scrisse: su questo film dovrebbe scendere il silenzio. Miriam Mafai mi difese, era in giuria, mi disse che Roman Polanski da presidente si era messo contro».

Rimpianti?

«Nessuno, nemmeno per i soldi. Eduardo dice ad Amalia n Napoli milionaria: li vedo ma non mi batte il cuore».

Cosa consiglia a un giovane regista?

«Cerca la libertà, e guarda la vita».

·        Antonio Cornacchione.

Antonio Cornacchione, da «Povero Silvio» in tv alla vita in teatro: le curiosità su di lui. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.  

Compie 63 anni il 26 settembre. È stato uno dei volti più amati delle diverse stagioni di «Zelig»: ora la sua carriera è incentrata sul teatro e sugli spettacoli dal vivo

Autore di sceneggiature di fumetti

Antonio Cornacchione festeggia il compleanno il 26 settembre (è nato nel 1959): sono indimenticabili le sue gag e i suoi sketch che per anni hanno tenuto compagnia al pubblico del piccolo schermo ma anche agli spettatori teatrali. Sin da adolescente, inizia a interessarsi al mondo dello spettacolo e comincia a lavorare come autore delle sceneggiature di diversi fumetti, tra cui il famoso “Topolino”, per poi rivolgersi al mondo del cabaret. Ed è in questo settore che ha avuto il grande successo.

Impiegato alla Olivetti

Antonio Cornacchione ha avuto il suo primo contratto (a tempo indeterminato anche se poi ci è rimasto otto anni) alla Olivetti, precisamente nella sede milanese dell’azienda in viale Monza. E ha voluto, nel corso del tempo, raccontare al pubblico la sua esperienza in azienda nello spettacolo “Deo ex machina”. Sulla sua vita privata invece è riservatissimo.

“Povero Silvio”

Nei suoi spettacoli teatrali così come in tv (sul palco di Zelig in primis) si è distinto per la satira divertente ma pungente. E’ diventato famoso per la sua frase "Povero Silvio" che in modo ironico si riferiva alla bontà - non compresa - di Silvio Berlusconi.

Tournee 2022

Dal piccolo schermo Cornacchione manca da un po’ di tempo. E si è dedicato in toto al teatro che è il vero habitat naturale per il comico e cabarettista molisano. La scorsa estate ha portato in giro per l’Italia lo spettacolo “Noi siamo voi, votatevi!” con Sergio Sgrilli.

In libreria

Due i volumi di cui Cornacchione è autore: “Povero Silvio” (Kowalski, 2004) e “Povero Silvio Bis “(Kowalski, 2005). Entrambi fanno scia al suo più grande successo.

Su Facebook

Antonio Cornacchione è molto attivo su Facebook: qui pubblica foto, video e battute riferite non solo ai suoi spettacoli teatrali ma commenti ironici sui fatti di attualità.

·        Antonio Ricci.

Da ansa.it il 7 novembre 2022.

Striscia la notizia, "il più longevo programma televisivo satirico di informazione per numero di puntate" (certificato Guinness World Records nel 2011), spegne 34 candeline. Per l'occasione, alcuni dei politici del momento si sono riuniti - con lo zampino di Highlander Dj - per cantare "Tanti auguri a te" al Tg satirico di Antonio Ricci.

Chi alla fine si accaparrerà il Tapiro d'oro?

Intanto qualche numero: 216 il numero totale di Tapiri consegnati a esponenti della politica nella storia di Striscia; 128 i politici che hanno ricevuto almeno un Tapiro. Tra questi anche Giulio Andreotti, Luigi Berlinguer, Giorgio Napolitano, Francesco Cossiga, Umberto Bossi, Ignazio La Russa, Giuseppe Conte e Mario Draghi: 7 i Tapiri ricevuti da Vittorio Sgarbi, primatista assoluto tra i politici, seguito da Antonio Di Pietro e Matteo Renzi con 6 Tapiri. Il podio è completato da Romano Prodi, Pier Luigi Bersani, Oscar Luigi Scalfaro, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Gabriele Albertini, Massimo D'Alema, Gianni Alemanno e Francesco Rutelli (4 Tapiri a testa)

Altre evidenze: il 5 dicembre 1996 la prima consegna del Tapiro d'oro a un politico: andò ad Antonio Di Pietro, accusato di aver preteso per lo studio della moglie un prestito di 100 milioni, una Mercedes e un pacchetto assicurativo. Dopo quattro mesi, Di Pietro venne assolto, ma la vicenda lo spinse a dimettersi da ministro dei Lavori Pubblici. 21 i tapirofori di Striscia. Oltre a Valerio Staffelli, negli anni hanno consegnato Tapiri, tra gli altri, anche il Gabibbo (il primo tapiroforo della storia del Tg satirico), Jimmy Ghione, Moreno Morello, Stefania Petyx, Capitan Ventosa, Alberto Tomba, Fiorello e persino Valentino Rossi.

Ci sono state anche "limited edition": 21 gennaio 1997 Tapiro "ad honorem" tempestato di gioielli a Giulio Andreotti, sotto processo con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Lo consegna il Gabibbo: il "Divo" prima lo ringrazia, dandogli amichevoli buffetti sul muso, poi cerca di restituirgli il premio. 30 dicembre 1998 Tapiro regale, con corona, a Romano Prodi. 

Un "premio alla carriera" per Prodi, all'epoca leader dell'Ulivo, che aveva perso la poltrona di Presidente del Consiglio per lo strappo dell'ala sinistra della coalizione. 9 novembre 2011 Tapiro gigante "escortizzato" (con parrucca e rossetto) a Silvio Berlusconi, dopo la caduta del suo governo, travolto dallo scandalo delle Olgettine. 13 e 19 marzo 2002 Tapiro virtuale e Tapiro adesivo a Vittorio Sgarbi. Il primo viene proiettato su uno schermo, per un presunto conflitto di interessi: Sgarbi collaborava con un sito che commercializzava opere d'arte, mentre era (anche allora) sottosegretario al ministero dei Beni e delle Attività Culturali.

Quello adesivo è la versione fisica del precedente e viene consegnato dalle Tapir's Angels, le inviate di Striscia Fausta, Daniela e Tania, che avevano seguito Sgarbi fino a Parigi, intercettandolo nella hall dell'hotel con la scusa di una foto. Mentre Tania scattava una fotografia, le altre due Tapir's Angels abbracciavano il sottosegretario, appiccicandogli sulla schiena un adesivo raffigurante il Tapiro. Ignaro di tutto, Sgarbi si era fermato a chiacchierare affabilmente con le tre ragazze fino a quando le aveva salutate, per poi allontanarsi. Si accorse del Tapiro adesivo sulla schiena solo a fine giornata, in aeroporto.

10 dicembre 2013 Tapiro con guinzaglio e rotelle a Massimo D'Alema per gli esiti delle primarie del PD, che avevano visto il trionfo di Matteo Renzi, suo dichiarato rivale, su Gianni Cuperlo. 17 gennaio 2014 Tapiro d'oro assenteista a Matteo Salvini, duramente redarguito in aula, a Strasburgo, dal socialista belga Marc Tarabella per il suo ripetuto assenteismo alle riunioni della commissione. Per questo motivo, il premio di Striscia era "assente": c'era solo il piedistallo di legno vuoto. Tanti anche i politici imitati dal Tg satirico dal suo esordio: 45, mentre sono 5 i politici di cui Striscia, primo programma televisivo al mondo a usare l'intelligenza artificiale per imitazioni sempre più verosimili, ha realizzato una versione deepfake: Matteo Salvini, Matteo Renzi, Sergio Mattarella, Giuseppe Conte e Carlo Calenda. 

31 i politici imitati da Dario Ballantini, la cui prima apparizione in vesti "istituzionali" risale al 4 ottobre 1995, quando imitò l'allora ministro Susanna Agnelli. 8 gli imitatori del Tg satirico che si sono cimentati nei panni di un politico: Gianfranco D'Angelo (Giovanni Spadolini, Gianni De Michelis e Ciriaco De Mita), Enzo Braschi (Paolo Cirino Pomicino e Rosy Bindi), Dario Ballantini (Susanna Agnelli, Gianni Letta, Roberto Maroni, Ignazio La Russa, Giovanni Maria Flick, Marco Pannella, Giulia Bongiorno, Franco Marini, Giorgio Napolitano, Michela Vittoria Brambilla, Guido Bertolaso, Angelino Alfano, Matteo Renzi, Enrico Letta, Annamaria Cancellieri, Susanna Camusso, Gianroberto Casaleggio, Matteo Salvini, Ignazio Marino, Angela Merkel, Matteo Orfini, Donald Trump, Valeria Fedeli, Paolo Gentiloni, Sergio Mattarella, Giuseppe Conte, Roberto Speranza, Roberto Fico, Mario Draghi, Roberto Cingolani e Carlo Calenda), Claudio Lauretta (Antonio Di Pietro), Albert Colajanni (Massimo D'Alema), Sergio Friscia (Beppe Grillo, Vito Crimi e Giulia Grillo), Valeria Graci (Paola De Micheli, Jole Santelli e Ursula von der Leyen) e Angelica Massera (Lucia Azzolina). 7 novembre 1988 la prima imitazione di un politico al Tg satirico: Giovanni Spadolini interpretato da Gianfranco D'Angelo in occasione della prima puntata di Striscia

·        Antonio Vaglica.

Alla finale si è esibito sulle note di 'I have nothing' di Whitney Houston. Chi è Antonio Vaglica, il vincitore di Italia’s Got Talent 2022: “In passato sono stato discriminato, cantare mi fa sentire libero”. Redazione su Il Riformista il 24 Marzo 2022.

Ha conquistato il pubblico grazie alla sua voce e a una performance da brividi sulle note di I Have Nothing di Whitney Houston. Antonio Vaglica, 19 anni, è il vincitore di Italia’s Got Talent 2022: si è aggiudicato, oltre alla vittoria indiscussa del programma trasmesso su Sky, anche 100mila euro. Suo il primo Golden Buzzer di questa edizione di IGT, che gli è stato assegnato dal nuovo giudice Elio mandandolo direttamente in finale, dove non ha deluso le aspettative.

Al secondo posto si è classificato l’illusionista Francesco Fontanelli, 22 anni. Medaglia di bronzo per il ballerino sardo Simone Corso– Golden Buzzer della presentatrice Lodovica Comello- sordo dalla nascita, che riesce a ballare grazie alle vibrazioni che percepisce.

La passione per la musica e la voglia di riscatto

Antonio Vaglica, classe 2002, arriva da Mirto Crosia, in provincia di Cosenza, dove studia al liceo artistico. Ha una sorella più grande e un fratello più piccolo: i suoi genitori sono sempre stati i suoi primi fan. A spingerlo a partecipare a Italia’s Got Talent non solo la sua grande passione per la musica, che coltiva fin da piccolo, ma anche la voglia di ‘dimostrare il meglio di sé’ dopo aver trascorso un’infanzia a sentirsi ‘sbagliato’.

La sua esibizione alle audizioni, il 19 gennaio, aveva fatto scattare una standing ovation.  In studio sia i giudici- ossia Federica Pellegrini, Mara Maionchi, Frank Matano ed Elio, che gli assegnerà poi il Golden Buzzer- che il pubblico erano rimasti sorpresi e affascinati dalla sua voce e dalla sua interpretazione del brano Sos d’un terrien en detresse di Daniel Balavoine. Il ragazzo, visibilmente emozionato, aveva spiegato che quel brano, per lui, aveva un significato particolare: “Perché ho vissuto dei momenti di discriminazione, che mi hanno fatto stare davvero male e quindi con questa canzone mi sento libero ed esprimo tutto!”

Nel video di presentazione aveva inoltre raccontato: “Quando ero piccolo prestavo molta attenzione ai giudizi degli altri, mi sentivo sbagliato. Qui a Italia’s Got Talent mi sento molto a mio agio perché vedo anche altri talenti, altre passioni. Questa sera sul palco porterò “Sos d’un terrien en detresse” di Daniel Balavoine, che parla di questo essere umano che non si sente appartenere a questa terra, quindi lancia questo grido di S.O.S in cielo”.

“Dal punto di vista tecnico non posso dirti niente, hai un controllo della voce pazzesco, ma non è solo questo, anche l’interpretazione” aveva sottolineato il giudice Elio.

L’esibizione alla finale 

La magia e l’atmosfera che ha saputo creare in occasione della prima performance si sono ripetute ieri 23 marzo in occasione della finalissima, quando Elio, dopo aver confermato le sue qualità, gli ha augurato di intraprendere la carriera di cantante, ammettendo: “Personalità eminenti dello spettacolo si sono già fatte avanti per lavorare con lui”. 

“Non me lo aspettavo, non me lo aspettavo assolutamente – ha dichiarato il cantante stringendo tra le mani il trofeo della 12esima edizione del programma.- Grazie a tutti coloro che mi hanno votato.”

Non è la prima volta che Antonio si esibisce in tv: infatti ha già partecipato a Sanremo Young nel 2019 condotto da Antonella Clerici.

Sul suo profilo TikTok @antoniovaglica6, seguito da oltre 16mila follower, condivide i video delle sue performance: cover di Ariana Grande, Adele, Mariah Carey.

Antonio Vaglica è il vincitore di Italia’s Got Talent 2022. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 24 marzo 2022.

Con la sua voce il 18enne originario del cosentino ha conquistato il pubblico della dodicesima edizione del talent show. Sul podio, al secondo posto, l’illusionista Francesco Fontanelli seguito dal ballerino Simone Corso. 

Il cantante Antonio Vaglica ha vinto Italia’s Got Talent 2022. Diciotto anni, studente originario di Mirto Crosia nel cosentino (già visto in tv a Sanremo Young 2019), è arrivato in finale grazie al Golden Buzzer (che permette l’accesso diretto all’ultima puntata) di Elio, conquistato dalla sua interpretazione di «SOS d’un terrien en detresse» di Daniel Balavoine. Questa volta Antonio ha cantato una emozionante versione di «I have nothing» di Whitney Houston: «Mi ero abbandonato a un entusiasmo che di solito non mi è solito, ma confermo. Anzi: è aumentato», ha detto il giudice a commento dell’esibizione. Secondo classificato l’illusionista Francesco Fontanelli, 22 anni, studente di farmacia originario di San Vincenzo apparso nel corso della quinta puntata, seguito dal Golden Buzzer di Lodovica Comello, il 26enne ballerino sardo Simone Corso che, sordo dalla nascita, riesce a ballare grazie alle vibrazioni che percepisce.

«Propongo di far vincere tutti!» aveva proposto Elio (tra i giudici del programma insieme Federica Pellegrini, Mara Maionchi e Frank Matano) in apertura di finale. L’ultimo appuntamento della dodicesima edizione del talent show targato Sky è andato in scena in diretta dagli studi di Cinecittà World a Roma, condotto da Lodovica Comello che si è potuta così rifare dopo due anni di attesa (lo scorso anno rimase ferma ai blocchi di partenza causa Covid, l’anno prima lasciò la conduzione nelle mani di Enrico Papi per via del parto imminente). Ospiti della serata, tra le performance dei 12 talenti selezionati puntata dopo puntata - 10 più i 2 Golden Buzzer eletti dal pubblico -, la voce della MotoGP Guido Meda, gli attori Pierfrancesco Favino e Miriam Leone (protagonisti del film «Corro da Te»), che hanno regalato al pubblico un divertente sketch basato sulle imitazioni, e i due comici Valerio Lundini ed Edoardo Ferrario in versione aspiranti mimi.

·        Après La Classe.

Après La Classe, il viaggio leggero con Manu Chao. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.

La band salentina presenta il nuovo disco: «Santa Marilena». 

Si vola in un’isola che non c’è, lontana da «crisi, pandemia e guerre», con il nuovo disco degli Après La Classe: «Santa Marilena», questo il titolo del lavoro, sta accompagnando l’estate live della storica band patchanka — il 20 agosto a Bergamo, il 21 a Corigliano d’Otranto, il 23 a Villapiana, ma il calendario è in continuo aggiornamento — con una voglia di evasione che non rinuncia però all’impegno: «Santa Marilena è uno stato della mente, è il luogo ideale nel quale vivere questo momento storico — racconta Valerio «Combass» Bruno, bassista del gruppo salentino —. In quest’isola i toni sono distesi, si vive in modo pacifico e sereno e c’è libertà totale, specie di espressione».

Gli Après (in cui militano, oltre a Combass, Francesco «Cesko» Arcuti e Marco «Puccia» Perrone), invitano il pubblico in questo luogo immaginario che ogni ascoltatore può fare proprio: «Mettete play, non pensate a nulla e viaggiate con noi. È un discorso leggero, ma ne abbiamo bisogno». Così l’album si apre con le atmosfere latine di «Chiringuito», insieme a Didy e Dj Gruff, e prosegue su ritmi reggae e contaminazioni sonore, come è sempre stato nel loro percorso «senza troppi schemi e vincoli» che è passato, negli anni, dallo ska al punk alla dub.

La leggerezza che viene dal «bisogno di vita» di questo periodo, spiega Bruno, non dimentica però di guardarsi attorno: «Non ci andava di parlare di pandemia e disagio, ma ci sono comunque discorsi di vita vissuta che hanno un certo spessore». In «Sogno otro mundo» la speranza di un pianeta migliore è cantata insieme a Manu Chao, «nostro punto di riferimento massimo insieme a Bob Marley», continua il bassista: «Lui è un maestro nel riuscire ad arrivare in alto con i messaggi. L’abbiamo conosciuto in Salento, abbiamo finito per passare con lui dei mesi, e questo brano più che un feat è una consacrazione di amicizia».

Il cambiamento, sostiene Combass, dovrebbe partire da «un investimento maggiore nella cultura, agendo sui ragazzi giovani». Ne trarrebbe beneficio anche la musica, dice: «Negli ultimi anni in Italia si è abbassato un po’ il livello, c’è tanto copia e incolla, ad esempio nella trap che invece avrebbe spunti molto interessanti. Chi non ha cultura va avanti un po’ per inerzia». Da 26 anni gli Après provano invece a «ricercare qualcosa di nuovo e diverso», senza scendere a compromessi con le logiche commerciali: «Abbiamo pagato un prezzo carissimo, basti pensare a radio e tv, dove esistiamo poco o niente. Ma siamo sempre presenti nelle piazze, con la gente, e vediamo anche un ricambio continuo di pubblico, con ragazzi giovani che ci scoprono. Questo ci porta a continuare a fare bene, senza fermarci mai».

·        Arisa.

Arisa alla ricerca del gregge perduto. Alla ragazza di via Pozzillo piace mostrarsi, ammaliare, eccitare, nell'eterno gioco della seduzione. Gaetano Cappelli su la Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Novembre 2022.

È il 1966, quando Celentano, già tra i cantanti italiani più affermati del momento, torna a rivedere il quartiere da dove era dovuto andarsene, giovanissimo. Col cuore dilaniato dalla nostalgia, cerca la sua casa d’allora. Coi soldi che ha fatto vorrebbe ricomprarla. Ma invano, perché «Là dove c’era l’erba ora c’è una città – àh! Quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà – àh». Vi trova invece l’ispirazione per scrivere Il ragazzo della via Gluck, che sarà uno dei suoi più grandi, duraturi e soprattutto redditizi successi.

Passano gli anni e un’altra grande star italica, alla ricerca delle sue radici, torna sui suoi passi. Questa volta calzando delle acuminate scarpe stiletto perché è una ragazza; per l’esattezza «la ragazza di via Pozzillo», come scrive in calce al suo portfolio, appunto Arisa. Sette foto in cui, oltre alle favolose décolléte, indossa poco altro. È venuta a farle al Pantano, «il mio passeggio da adolescente con la mia best Valeria. Bei tempi, passati». Adesso, sicuro questa best Valeria considererà, quelli, i bei tempi – com’è, per i comuni mortali, l’epoca della giovinezza –, ma che lo faccia Arisa, all’apice del successo e dopo tutte le umiliazioni che i conterranei, ci ha raccontato in ogni salsa, le fecero patire proprio in quegli anni, appare improbabile.

Come improbabili appaiono anche le foto. E non per la loro cifra hot, che ha scatenato soprattutto i suddetti conterranei, in ogni genere di pittoresco commento. Non si capisce infatti perché mai nessuno fa una piega se a smutandarsi sono le cantanti non solo d’oltreoceano – vogliamo parlare di Elodie? –, e se invece osa farlo una terrona nostrale, apriti cielo! No, quello che non convince è proprio l’ambientazione nostalgico-lucana.

Invece dei soliti ambienti sofisticati o, all’opposto, gli scorci di degrado metropolitano, che la sua mise richiederebbe, Arisa si fa depositare infatti su uno desolante sfondo agreste, dove nessuno si meraviglierebbe spuntasse, da un momento all’altro, un gregge di pecore pignolesi – belanti loro, ridacchianti noi.

Eppoi, ancora. S’è capito, alla ragazza di via Pozzillo piace mostrarsi – non è la prima volta che lo fa. Piace ammaliare eccitare. È l’eterno gioco della seduzione e ognuno gioca le sue carte, anche se truccate – qui c’è un tripudio di photoshop! Ecco, ma allora che bisogno c’è di ammantare questo ammirevole trastullo erotico di inutili patetismi. «Ci sono volute tante lacrime, tante preghiere. E chissà quante ancora ce ne vorranno per mantenere il punto per smetterla di dire “ci sono anch’io, mi guardi?”». Ma Arisa cara, ma se dovevi continuare a soffrire così, tanto valeva che te ne restavi a Pignola, con Valeria, la best, e le pecore del Pantano; belanti!

Anticipazione da “Oggi” il 17 agosto 2022.  

«Io ci rinuncio all’amore. Lo dico a malincuore perché da piccola l’ho sempre sognato», dice Arisa in un’intervista al settimanale OGGI in edicola da domani. La cantante, che sta per compiere 40 anni, dopo la fine della relazione con Vito Coppola, maestro di ballo di «Ballando con le Stelle», dice di essere «in convalescenza» e non di non volere più soffrire. 

«Ho capito che devo avere a che fare con persone della mia età, è difficile relazionarsi con chi è più piccolo. Non sempre mi sono presa cura dell’altro, in questo ultimo amore l’ho fatto e non ha pagato. Bisogna trovare l’equilibrio giusto, in cui sei amata tanto quanto ami». 

Eppure, ammette Arisa, un figlio lo vorrebbe: «Ma penso sarebbe meglio senza un compagno. Perché ho paura dell’amore che finisce, per me l’amore è davvero per sempre. Mi fa impazzire l’idea della morte, della fine di un rapporto, che i miei genitori possano andare via. Fossi più spensierata, avrei un compagno, dei figli». 

Niente uomini ma «neanche stare con le donne sarebbe una soluzione, e dire che ho iniziato a battermi per i diritti nel 2010, quando non era di moda. Capita che alcune ragazze mi facciano capire che vorrebbero qualcosa di più, a me però piacciono gli uomini».

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2022.

Giura che a colazione adesso mangia cornetto con latte e caffè. «I carboidrati alle due. A cena niente lieviti perché devo cantare. In tour beviamo molta Red Bull». Ma assicura che non c'è nessuna dieta alla base del suo straordinario dimagrimento, certificato dalle foto su Instagram dove la seguono ormai più di un milione di fan. 

«Semplicemente ho avuto una delusione d'amore molto grande, sono stata molto male e ho smesso di mangiare. Prima era l'innamoramento a non farmi mangiare: avevo lo stomaco chiuso. Ciò che ci fa male a volte fa bene. E adesso mi piaccio di più che a 20 anni». 

Arisa risponde al telefono durante una delle lunghe trasferte che la portano da un capo all'altro dell'Italia per il suo «Ero Romantica Little Summer Tour». Ieri si è esibita all'Arena della Versilia di Cinquale, stasera all'Holiday Village di Fondi, martedì a Pozzallo: ha date fino al 29 settembre. Sosta obbligata il 20 agosto, per i suoi 40 anni. 

Con chi li festeggerà?

«Con i creatori dell'opera: mio padre e mia madre. Mi sono tenuta la serata libera per tornare dai miei in Basilicata. Ci sarà anche mia sorella Sabrina, mentre Isabella, l'altra, sarà in Inghilterra, dove lavora: fa la nutrizionista». 

Quale desiderio esprimerà sulle candeline?

«Il più grande è che i miei genitori stiano bene. In questi anni ho dedicato loro davvero pochissimo tempo: quando torni e ti accorgi che ti sei perso tante cose, ti senti uno schifo. Peraltro io non amo stare la telefono e cerco di non trasferire loro i miei reali stati d'animo per non farli preoccupare. Piuttosto preferisco assentarmi: fingere con loro è impossibile». 

Ha davvero perso molti chili. Si è pesata?

«Non mi peso da un pezzo. Ma sono molto distante dalla palletta simpatica che cantava Sincerità a Sanremo e che pesava 72-75 chili. Però mi piaceva anche quella ragazza».

L'ha seguita qualcuno?

«No, non ho bisogno che qualcuno mi segua, non devo stare attenta. Io seguo il mio stato d'animo. Non mi piace bere alcolici, eccedere nel fumo. Un bicchiere di vino rosso lo bevo solo per darmi energia, non amo strafare». 

E allora come mai prima era più in carne?

«Avevo un'alimentazione disordinata, fatta di molti dolci, bevande zuccherate». 

In un post recente, nuda, ha scritto in inglese: «Sono ogni donna, ma sono anche un uomo. E non c'è niente di sbagliato in me». Perché?

«Non è che volessi mandare un messaggio specifico. È che non sono una signorina canonica. A volte mi sento più uomo che donna: non corrispondo fedelmente all'idea che ha la società della donna. 

Sono sempre più indipendente dal punto di vista professionale, mi sento in dovere di prendere decisioni, a volte mi sembra di essere molto più forte degli uomini che ho intorno. Se non trovo nessuno che abbia le palle per amarmi va bene così: non posso cambiare per gli altri». 

In passato ha postato foto in cui si mostrava orgogliosamente morbida. Non teme che il cambio possa essere vissuto come un tradimento?

«No, perché? Michael Jackson da nero è diventato bianco e i suoi fan lo hanno capito. Chi scrive male sui social è frustrato. Io credo che i miei fan apprezzino la mia forza di volontà. Sono una persona che muore e rinasce continuamente. 

Magari tra sei mesi peserò di nuovo 75 chili. Ma adesso che sto per compiere 40 anni vorrei dimostrare alle donne che se si rimboccano le maniche possono essere più belle che a venti». 

Ha lavorato tanto su di sé: da sola o si è fatta aiutare?

«Anche l'Arisa di oggi è in lavorazione: tanto da sola, tanto con gli amici, tanto con una psicologa. Sono sempre andata in analisi. Io voglio essere un essere umano pazzesco, che cresce fino all'ultimo dei suoi giorni». 

Tra un paio di settimane uscirà il video di «Tu mi perdición». In un passaggio dice: «Y renacer/ Nueva mujer/ Contigo adentró».

«Nel video sono una sorta di sciamana glamour vestita da Salvatore Vignola che scioglie il suo incantesimo d'amore e torna libera».

Quant' è autobiografico?

«Diciamo che ho vissuto una specie di amore strano che mi sembrava fosse voluto da tutti, ma non so se io lo volevo davvero». 

Una curiosità: come la chiamano in famiglia?

«Gli amici Ros, anche mia sorella. Mamma: Rosalba. Mio padre Rosalb senza l'ultima vocale: e non è mai per dirmi qualcosa di bello!». 

Arisa e l’incredibile trasformazione: com’è dimagrita negli ultimi mesi (e perché). BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022.

Rispetto a un anno fa la cantante genovese ha un corpo più magro. Alla richiesta di raccontare quale dieta abbia fatto, preferisce rimanere molto vaga. Raccogliendo però alcuni suoi messaggi si capisce che il percorso di dimagrimento è stato l’insieme di più fattori: dal ballo alla consapevolezza di sé

Ballando, ballando

Via gli occhiali (da anni), i capelli (a fasi alterne) e i vestiti dei tempi (il 2009) di «Sincerità». E, adesso, via anche i chili a suo avviso di troppo. La cantante genovese Arisa, 39 anni il prossimo 20 agosto, si mostra nuda e non solo fisicamente. Sui social, dove è molto attiva, e sul palco del «Little summer tour» organizzato da International Music and Arts, appare disinvolta in un fisico più asciutto rispetto a un anno fa. Una metamorfosi che abbiamo potuto notare anche nel corso dell’ultimo Festival di Sanremo. Nonostante non sia la prima volta che l’artista si sottopone a regimi alimentari (più o meno forzati), le domande sorgono spontanee: qual è la dieta miracolosa? Quale sport ha fatto o sta facendo?

Lo scorso gennaio, durante una puntata di «Amici» dove, peraltro, Arisa tornerà dal prossimo 18 settembre come insegnante, persino Maria De Filippi cercò di indagare.

«Che magra che sei!», le chiese nel tentativo di avere qualche indicazione su come è riuscita a diventare più snella. La risposta di Rosalba Pippa (questo il vero nome dell’artista) fu un chiaro riferimento al programma Rai di Milly Carlucci — «Ballando con le stelle» — che la cantante ha vinto alla fine del 2021 assieme al ballerino Vito Coppola, con il quale ha avuto un flirt.: «Eh, perché ballando ballando...».

La prima immagine del cambiamento da Pechino

La prima immagine di un corpo maggiormente longilineo, pubblicata da Arisa sui social, risale al marzo scorso. Nella foto si trova in un market di Pechino. Nella città cinese l’artista stava partecipando alla cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici e Paralimpici invernali, che in Italia si terranno tra quattro anni dal 6 al 15 marzo 2026. In quell’occasione, Arisa aveva cantato l’inno nazionale come passaggio di testimone dalla Cina al nostro Paese, dove accompagnerà la manifestazione cantando Fino All’Alba, scelta con il 72 per cento di preferenze rispetto a Un po’ più in là di Malika Ayane, l’altra versione dell’inno olimpico italiano proposta dall’artista milanese. In Cina la sua silhouette, visibilmente più magra, era evidenziata da un abito longuette aderente.

La ricetta della «dieta»

Una foto, quella all’interno di un market cinese, che ha suscitato moltissimi commenti, non tutti benevoli. Forse anche questo ha motivato Arisa a fornire a followers e haters la ricetta della sua «dieta». Non una qualsiasi, ma del tutto singolare.

Il titolo?«La mia felicità». Ecco in che cosa consiste, come si evince da un post sul suo profilo Instagram: «Tempo di preparazione: 39 anni. Difficoltà: tre cuoricini scuri su cinque. Ingredienti: 60g di me 50g di te da mescolare insieme a tutte le persone che amiamo e che ci amano davvero insieme, in buona salute, cantando. Peperoncino qb. Tempo di cottura: (tutta la vita a fuoco lento, di tanto in tanto mescolare) C’est très facile... Buon appetito a tutti da #beijing2022». Non è l’unico messaggio che però l’artista ha lanciato.

Sempre in forma

A documentare la trasformazione sono anche alcune foto, sempre su Instagram, scattate a giugno al Padova Pride Village di cui è stata madrina. In quell’occasione Arisa indossava una tutina attillatissima. Poi è stata la volta di Procida, in costume da bagno al mare, e sul palco a Villapiana (Cosenza), dove è apparsa in splendida forma con un’altra sensualissima tutina.

Un amore che causa fame

L’altro messaggio che documenta la trasformazione di Arisa è stato lanciato dalla cantante in occasione del nuovo singolo «Tu mí perdícíon» con tanto di foto di lei nuda. Ai followers ha raccontato che «il mio cuore ha attraversato un periodo molto duro per la prima volta nella vita, ho versato molte lacrime e combattuto con la fissa di un’idea che mi ha rubato il sorriso per mesi». Per poi spiegare che anche questa fase è stata «un pensiero circolare, fatto di notti insonni, come se avessi una febbre strana che mi ha tolto la fame e la voglia di tutto». Potrebbe dunque essere una delusione amorosa alla base del dimagrimento degli ultimi mesi? Chissà... Una cosa è certa: l’artista non ha replicato a chi ha pensato che le immagini fossero ritoccate con Photoshop. È andata oltre. Perché Arisa è Arisa: ieri come oggi. Solo con qualche chilo in meno. Dopotutto la trasformazione fa parte del suo personaggio: camaleontico, provocatore e bonario, serio e faceto, felice e sofferente, forte e fragile allo stesso tempo. In una parola «vero».

Arisa: «Ho pensato di sottrarmi alla vita, mi ha salvato la fede». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.

La cantante - intervistata da Pierluigi Diaco - ha raccontato di aver pensato al suicidio in un periodo buio del suo passato, ma poi hanno prevalso la fede e la voglia di vivere. 

«Ho pensato di sottrarmi alla vita». In un periodo buio del suo passato, in cui si sentiva «sola e abbandonata», Arisa ha anche pensato al suicidio: lo ha confessato nel corso dell’intervista a Pierluigi Diaco, andata in onda ieri sera su Rai2 all’interno del programma Ti sento. Alla domanda del giornalista «Hai mai pensato di sottrarti alla vita?» la cantante ha risposto: «Sì ho pensato di sottrarmi alla vita, io penso che un po’ tutti lo pensiamo però poi io sono una ragazza di fede e lo sono anche per questo. C’era un periodo nella mia vita in cui vedevo sempre che dopodomani c’era un buco nero, che non sapevo cosa mi sarebbe successo, che mi sentivo sola e abbandonata, che nessuno mi amava, bruttissimo». Poi la vincitrice di Ballando con le Stelle è riuscita a risollevarsi da quel momento negativo: «Piano piano dai valore alle tue priorità e dici “okay, la vita mi ha dato cose belle mi può dare anche cose brutte, devo resistere”».

Parlando di vita dopo la morte invece Arisa ha dichiarato di credere nella possibilità di una seconda vita e di voler rinascere come ermafrodita: «Battiato mi diceva sempre che quando noi uccidiamo il nostro corpo in realtà anche la nostra anima va via e non si unisce con le altre particelle per creare nuova vita, la reincarnazione e tutte queste cose. E io invece spero di vivere per sempre e quindi che la mia anima possa un giorno ricongiungersi ad altre particelle e possa dare vita a un essere umano migliore… magari un’ermafrodita. Perché? Perché così sei tutto».

Arisa, il dramma che aveva nascosto: "Quando ho pensato al suicidio. Sola e abbandonata..." Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

C’è attesa per l’intervista integrale che Arisa ha concesso a Pierluigi Diaco e che verrà trasmessa su Rai2 alle 23.20 di martedì 19 aprile, all’interno del programma Ti Sento. Dalle anticipazioni sono emerse delle dichiarazioni molto forti della cantante lucana, che ha confessato di aver pensato al suicidio in passato ma di essere poi riuscita a scacciare i pensieri più oscuri, ritrovando la fede e la voglia di vivere.

“Hai mai pensato di sottrarti alla vita?”, è stata la domanda diretta di Diaco, alla quale Arisa non si è tirata indietro: “Sì, ho pensato di sottrarmi alla vita, io penso che un po’ tutti lo pensiamo però poi io sono una ragazza di fede. Quindi sono una ragazza di fede anche per questo, perché poi c’era un periodo nella mia vita dove vedevo sempre che dopodomani c’era un buco nero, che non sapevo cosa mi sarebbe successo, che mi sentivo sola e abbandonata, che nessuno mi amava, bruttissimo. E poi piano piano dai valore alle tue priorità e dici ‘okay, la vita mi ha dato cose belle mi può dare anche cose brutte, devo resistere'”. 

Arisa ha poi sorpreso il padrone di casa quando ha dichiarato che se esistesse la possibilità di una seconda vita, vorrebbe rinascere come ermafrodita: “Io spero di vivere per sempre e quindi che la mia anima possa un giorno ricongiungersi ad altre particelle e possa dare vita a un essere umano migliore… magari un ermafrodita”.

Da liberoquotidiano.it il 2 marzo 2022.

Arisa dopo aver esibito il suo corpo, da lei stessa definito "morbida felicità", ha mostrato la sua collezione di sex toys. Sistemando la casa in compagnia di un'amica, ha ritrovato un sacchetto con diversi giochi per l'autoerotismo e non ha esitato a scherzare con i suoi fan, facendoli vedere uno ad uno.

Inondata di risposte Arisa ha anche commentato. "Comunque ragazzi io sbaglio sempre a parlare, a essere sincera con voi. E' una cosa divertente, la voglio condividere e subito ci sono persone che mi scrivono 'Se hai bisogno...', 'Se vuoi vengo a casa tua', eccetera. Ma non potete essere un pochino più carini?”, ha scritto su Instagram. 

La cantante ha poi puntualizzato che "i sex toys non si usano solo per sopperire a delle mancanze, servono anche per vivere un momento con se stessi. Non è che mi manca qualcosa e allora compro il sex toys. A me non manca niente, niente... capito?". Divertente anche la conversazione avuta con l'amica alla quale sottolinea il fatto che le pile sono scariche, la donna le risponde "bisogna usarli a mano". Entrambe scoppiano a ridere, provocando nuove reazioni dei follower. 

·        Arnold Schwarzenegger.

Roberto Venturini per “il Messaggero” il 5 aprile 2022.

Fra i vecchi culturisti delle palestre il nome di Arnold Schwarzenegger circola ancora come un mantra. Arnold è il culturista per antonomasia e custode del Segreto dell'Acciaio, come nella leggenda di Conan il barbaro. Basta dire «Arnold» che subito tutti capiscono tutto. Questo è il lascito testamentario che Schwarzy (75 anni il prossimo 30 luglio) ha scolpito nella mente del bodybuilder modello: mettere a fuoco un'immagine non ideale ma programmatica del proprio corpo, poi tanto lavoro per aderire a quella forma. 

Tutto parte dal corpo. Ed è proprio attorno alla fenomenologia del corpo di Schwarzenegger - considerato uno dei personaggi più iconici entrato nell'immaginario collettivo mondiale - che ruota il saggio pop di Fabrizio Patriarca Pumping Arnold - Il mito e il corpo di Schwarzenegger uscito per i tipi di 66thand2nd nella collana Vite inattese.

Quella dello scrittore romano è un'articolata e brillante analisi delle ragioni che hanno portato al successo planetario un ragazzo austriaco trasferitosi, a 21 anni, negli Stati Uniti alla fine degli anni '60. All'iniziale successo come bodybuilder - propiziato dai disumani allenamenti nel club Gold's Gym, a Santa Monica, sotto la direzione di Joe Weider - segue una buona affermazione nel campo dell'imprenditoria. 

In un'intervista del '87 alla giornalista Joan Goodman, Arnold dichiara: «Ho sperimentato una bella dose di pregiudizio. La gente di Hollywood aveva una marea di ragioni per cui non avrei dovuto farcela: il mio accento, il mio corpo, questo nome lunghissimo. Mi rendevano tutto più difficile, finché non ho capito che là fuori non puoi competere a quel livello. Devi crearti un tuo spazio, dove posizioni te stesso in modo che nessuno possa competere con te».

Col tempo però e grazie al successo conseguito dopo il docufilm cult Pumping Iron - girato da Robert Fiore e George Butler nel 1977 - Schwarzenegger si ritrova catapultato in quel coacervo di star del cinema, artisti, fotografi, scrittori e registi che sin dall'inizio aveva sperato di raggiungere. A New York pranza da Elaine' s, dove si raduna il bel mondo.

Siede accanto a Woody Allen o Al Pacino, mangia insalate, stringe amicizie e soprattutto conosce Andy Warhol. «Mi fa un certo effetto - scrive Patriarca - immaginare Arnold alla corte di Warhol entrambi sono lì nella Factory, raccolti in un cerchio di curiosità reciproca, Arnold è accanto a lui, il corpo per eccellenza, il corpo che suscita interesse filosofico, che desta l'attenzione dell'arte».

Ma è sulla questione del corpo che l'autore continua ossessivamente a soffermarsi ritenendo Schwarzenegger uno dei segni più carichi del Novecento. È però all'interno della East Fitness - la palestra frequentata dal saggista romano, aspirante culturista, sita in via Casilina, nella borgata Finocchio di Roma, «dove Pasolini ci ha messo piede mezza volta perché l'hanno fermato davanti al cine Adam con la minaccia di corcarlo di botte se non mollava il portafogli, dopodiché retromarcia e chi l'ha più visto» che l'autore di questo singolare saggio (a metà strada tra La fenomenologia di Mike Bongiorno di Eco e Andy Wharhol era un coatto di Tommaso Labranca) raccoglie le informazioni e le intuizioni più interessanti.

Anche tra i frequentatori dell'East Fitness l'argomento di conversazione principale attorno a Schwarzenegger rimane sempre il corpo ed è così che l'autore lo cristallizza, accorgendosi che il suo successo nasce proprio da un corpo trionfale che svuota la scena della sua umanità, «una specie di esaltazione vitruviana che prende tutto, come uno sfondo inerte». 

Un corpo retorico che fa resistenza e non si lascia usare se non da lui stesso, e da questo punto di vista è esemplificativo il suo celebre motto: «Gli specchi sono strumenti, proprio come lo sono per i ballerini. Devi essere il tuo stesso istruttore. Quando fai il curl con manubri, ad esempio, devi vedere se un braccio lavora come l'altro».

Alla fine della lunga dissertazione intorno a uno dei personaggi più riconoscibile degli ultimi cinquant' anni, Patriarca osserva come ad Arnold vada il merito di aver apportato al cinema americano un'asprezza «estranea sia alla narrazione degli emarginati sia al rilancio del corpo come estrema risorsa degli ultimi e dei diseredati», e nonostante questo il corpo di confine di Schwarzenegger sia diventato sfruttabile dall'industria cinematografica nel momento in cui questa si é sforzata di comprenderlo, celebrarlo, ed elevarlo a fulcro della narrazione: quello che fece James Cameron col primo Terminator trasformando Arnold in un mito intramontabile.

Chiara Fenoglio per “La Lettura - Corriere della Sera” il 21 marzo 2022.

«Il corpo ha le sue ragioni, che la ragione non conosce»: parafrasando ironicamente il più frainteso tra i Pensieri pascaliani, potrebbe essere questa una delle chiavi di lettura di Pumping Arnold , il racconto-saggio che Fabrizio Patriarca dedica al mito di Arnold Schwarzenegger nell'America degli anni Settanta. 

E proprio il valore metaforico della parabola di uno dei corpi più famosi del secondo Novecento è l'oggetto privilegiato di questo singolarissimo libro: da immigrato clandestino (dunque da corpo negato) a divo hollywoodiano (rappresentante ora della perfezione fisica, ora del corpo-macchina di Terminator ), a governatore della California, Schwarzenegger è diventato un «marchio», l'emblema conclusivo di una storia americana che annovera tra i suoi miti primordiali John Wayne e Clint Eastwood, Marlon Brando e Charles Bronson: Pumping Arnold è un libro sull'immaginario collettivo, su un corpo che si fa non solo mito ma autobiografia di un'epoca, tanto da approdare nel 1976 al Whitney Museum con un evento di enorme successo intitolato Articulate Muscle. The Male Body in Art .

Ma è soprattutto il documentario girato da George Butler nel 1977, Pumping Iron (a cui Patriarca dedica la sezione centrale del libro e da cui trae il suo titolo) a proiettare Schwarzenegger nel mondo del cinema, trasformandolo in divo a tutto tondo: perfezione di un corpo senz' anima, di una forma vitruviana senza contenuto, Schwarzenegger è pura materia auto-plasmata, cioè costruita, nutrita, scolpita in base ai principi del culturismo che, lavorando una materia inerte, la muta in arte, dunque in atto di cultura.

Fabrizio Patriarca, il cui interesse per la storia dell'estetica risale ai tempi di Leopardi e l'invenzione della moda (Gaffi, 2008) e arriva fino al gusto lievemente kitsch per i viaggi esotici di Tropicario italiano (66thand2nd, 2020), coglie al volo l'occasione offerta dalla collana Vite inattese per ricamare sulle fibre muscolari di Schwarzenegger una riflessione sulla fotografia, sullo sguardo, sullo specchio-schermo, sull'immaginario del postmoderno: Susan Sontag e Gilles Deleuze, Michel Foucault e Jean Braudillard sono i suoi compagni di viaggio, un viaggio in cui l'indagine sugli scatti di Robert Mapplethorpe e di Andy Warhol sono contigui alla narrazione di brevi sketch ambientati in una palestra della periferia romana, da cui emergono tutti i tabù di ogni discorso sul bodybuilding (gli steroidi, la misoginia e l'omofobia).

Il risultato è una sorta di catalogo brillante dei culturisti che nello specchio hanno il loro oggetto-feticcio («la panca piana è lo specchio dell'anima») ma anche il loro oggetto-limite («lo specchio suggerisce un rimbalzo di sguardi, ma la triangolazione non avviene: ammette testimoni ma non prevede compagni»). Così il passaggio obbligato dalla palestra al cinema è figura del «passaggio dallo specchio allo schermo in cui lo sguardo stesso diventa un oggetto».

Lo specchio del narcisista diventa, scrive Patriarca, uno strumento di controllo di sé e, si potrebbe aggiungere, di isolamento e solitudine rispetto al mondo, un corpo «sorvegliato e punito», per dirla con Foucault, privo di qualsiasi connessione con la realtà. 

Il «fenomeno Schwarzenegger» tuttavia non sarebbe del tutto comprensibile se non ne venisse svelato il fondo parodico: svuotato di umanità, è pura materia che «sconta l'idea della morte con l'eterno presente del sacrificio e del risultato», materia precaria e assoggettata al dominio del tempo, bloccata in una posa («posare» è appunto il verbo che indica il gesto atletico del culturista) che vorrebbe fissarlo in un momento, in un monumento di sé.

Il corpo scolpito come una statua greca o, con reduplicazione dell'effetto parodico, sospeso nella famosa posa «alla Rodin» messa in scena al Whitney Museum, si rovescia nel cyber-corpo di Terminator e nel corpo auto-ironico de I gemelli e soprattutto di True Lies . Per poter restituire efficacemente questo rovesciamento di un corpo ideale, Patriarca deve andare fino in fondo e collocare sé stesso al centro di questa stessa parodia: il narratore non è allora un voyeur alla Walter Siti, bensì un bodybuilder mancato, uno «con del potenziale» che tuttavia si è rassegnato «a una miseria di risultati».

Una parodia che si spinge fino ad auspicare un autore diverso per questo libro, un Roland Barthes o un Geoff Dyer, qualcuno capace di sostituire al corpo pesantissimo di Arnold un discorso sul suo corpo, una riflessione sul suo significato (quello di una competizione estetica senza sforzo atletico), attraverso una narrazione dinamica che affranchi la pesantezza triviale della sala pesi nei territori della considerazione filosofica e sveli così la radice prima dell'esperienza del bodybuilder: quella del dandismo. D'altro canto, spiega Patriarca, Schwarzenegger non ha fatto altro che sostituire al culto dell'abito il culto egocentrico del corpo, pervertendone i segni ma mantenendo intatta devozione narcisistica.

Andrea Cortellessa per “La Stampa – TuttoLibri” il 6 febbraio 2022.  

Quella sera a New York è previsto un successone. Almeno duecento persone, molte più di quante ne assistano di solito ai dibattiti del severo Whitney Museum. Ma quel 25 febbraio 1976 la biglietteria va in tilt: si presentano in tremila. La serata s'intitola Articulate Muscle, The Male Body in Art: al centro della sala si esibiscono, nelle loro pose classiche, tre culturisti. 

Il più atteso è il campione di tutti gli ultimi concorsi: ha un cognome impronunciabile, il viso di un cartone animato, l'accento (se gli venisse chiesto di parlare) di Sturmtruppen. E un corpo mostruoso: Arnold Schwarzenegger trionfa nella posa del Pensatore di Rodin. Il format prevederebbe che i soloni della critica più hip commentino dal vivo quelle opere d'arte viventi, ma le signore (e i signori) di Village Voice e del New Yorker balbettano, sospirano a bocca aperta.  

Si fiondano a immortalarne l'icona Robert Mapplethorpe e Andy Warhol, ma ormai Arnold pensa ad altro. Quella sera infatti il videomaker George Butler è alle ultime riprese di un documentario che farà epoca: Pumping Iron esce l'anno dopo (a Cannes Arnold spopola in slippino sulla croisette) e sdogana il bodybuilding dalla «sottocultura» appiccicaticcia nella quale era sino ad allora relegato. Cinque anni dopo John Milius lo sceglie per Conan il barbaro; due anni ancora e con James Cameron sarà Terminator. 

Lo vorrebbe anche Kubrick, in Full metal jacket, ma Arnold è impegnato; per interpretare il sequel di Cameron spunta trenta milioni di dollari, per Hollywood un record assoluto. Non è un caso che la figura del culturista si codifichi a fine Ottocento: quando si precisa pure, cioè, l'icona del dandy. Sculture che plasmano homo come pura esteriorità, forma quintessenziale, mezzo senza fine: Baudelaire definiva il dandy un Ercole senza fatiche da assolvere. 

Questa la chiave di lettura data al fenomeno culturista da Fabrizio Patriarca che, al suo quarto libro da 66thand2nd, torna ai livelli scintillanti del primo Tokyo transit: critico di formazione, con Pumping Arnold la scrittura saggistica si rivela quella a lui davvero congeniale.  

La leggibilità «pop» è assicurata dallo stratagemma di intercalare le riflessioni sull'«oggetto Schwarzenegger», «uno dei segni più carichi del Novecento», con una serie di gustosi siparietti presi live da una palestra di borgata, campionando le battute di allenatori e palestrati con verve non solo etnografica (condivisibile l'irritazione sull'«Acquario» in cui trasformano i set subalterni «i romanzieri italiani»), ma come attendibili portavoce della tesi di fondo (non può non essere citato Walter Siti, ma senza troppa devozione): della più fulgida delle culturiste (detta «la Transessuala», per un corpo che tende ormai alla perfetta androginia), algidamente indifferente al sesso come ogni vera statua vivente, ci si chiede «a cosa le serva quel culo di marmo», ma appunto quel culo «non deve servire» proprio a niente. 

È pura affermazione di sé, celebrazione gratia sui. Nelle note finali, con preterizione dantesca («io non Enea, io non Paulo sono»), dice Patriarca che alla bisogna non ci vorrebbe lui ma gente come Roland Barthes, John Berger o Geoff Dyer. Ma è proprio lui, invece, il miglior emulo di questi maestri: grazie al punto di vista implicato nella materia (non lontana pure dal Carrère di Yoga).  

Se la saga di «Marcello» vede in Siti l'officiante del culto, il suo voyeur fanatico, dell'ultracorporeità culturista Patriarca è invece partecipe in prima persona. Anche lui si pompa infatti, seppure senza sperare di eccellere (piacerebbe sapere perché, allora; curiosità che resta insoddisfatta), non avendo accettato la prima regola non scritta della disciplina («questo sport si basa sulla droga, sull'alimentazione e sui pesi. Nell'ordine che ho detto. L'unica via per la gloria è il Lato Oscuro, poi vedi tu»). 

Se non il suo corpo dunque, da sempre dopata è la scrittura di Patriarca: autore anabolizzato se ce n'è uno. Ma, come sempre nelle migliori forme-saggio, questa scrittura riflette anche su sé stessa. E dice cose intelligenti sulla «diversione del segno, l'implacabile spasso del postmoderno», cioè sulla «parodia»: quella che per esempio «mescola Arnold a qualche pensatore francese di quelli cripto-figo-strutturalisti & oltre» (con lo spiazzamento di livelli, cioè, che fu il primo Barthes a brevettare).  

Il culteranesimo pop di Patriarca va in brodo di giuggiole, si capisce, nelle ekphrasis del sorriso sprezzante di Schwarzenegger: il quale da molto presto ha fatto dell'autoironia il suo brand, ma già in Pumping Iron ha capito di essere il personaggio di sé stesso. Sino al capolavoro dell'intemerata su Instagram contro Donald Trump, all'indomani del quasi-golpe di Capitol Hill. 

L'ex governatore repubblicano della California (due mandati con record di suffragi, e niente Casa Bianca solo per la Costituzione che la interdice a chi non sia nato sul suolo americano) tenne nell'occasione un discorso serissimo, negli intenti e negli esiti: al cui ineffabile culmine, però, non esitò a sfoderare la spada di princisbecco di Conan. Puro genio. 

·        Asia e Dario Argento.

Estratto dell'articolo di Valeria Arnaldi per "Il Messaggero" il 29 settembre 2022.

«Ero a piazza Farnese, c'era una leggera pioggia – ricorda Rino Barillari - Camponeschi era pieno di persone. Tra queste ho visto Asia Argento, in compagnia di un bel ragazzo. Lei è sempre gentilissima con me, mi lascia scattare, quella volta però non mi ha salutato, così ho capito che c'era qualcosa di diverso. Ho fatto foto di nascosto: bevevano champagne, si abbracciavano, si vedeva la complicità. Quando stavo andando via, lei mi ha fermato.

«Non credo tu abbia fatto foto», ha detto. Le ho risposto che avevo fatto un paio di scatti, mi ha pregato di non pubblicarli, alla fine ha detto «va bene, non fa niente». Poi aggiunge: «Quando ho saputo quello che era successo, sono rimasto profondamente scosso. Una vita non vale cinquanta milioni di foto. Mi sono detto che avrei potuto non scattare, poi ho fatto pace con la mia coscienza, quella storia era già finita».

L'uomo nella foto era il giornalista francese Hugo Clement. (…)

DAGONEWS il 28 settembre 2022.

Una nuova biografia non autorizzata su Anthony Bourdain racconta cosa è successo negli ultimi giorni prima del suicidio dello chef ma, soprattutto, rivela quali sono stati gli ultimi messaggi tra lui e l’allora fidanzata Asia Argento. 

“Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain”, scritto dal giornalista Charles Leerhsen, ripercorre l’angoscia vissuta dallo chef per la sua carriera, il suo matrimonio fallito e la sua travagliata relazione con Asia Argento. Il libro, edito da Simon & Schuster, uscirà l'11 ottobre, ma “The New York Times” ne ha pubblicato un estratto.

«Odio anche i miei fan. Odio essere famoso. Odio il mio lavoro - ha scritto Bourdain all'ex moglie Ottavia Busia-Bourdain, con la quale è rimasto in confidenza dopo la loro separazione nel 2016 - Sono solo e vivo in una costante incertezza». 

Ma la parte che più descrive lo stato d’animo di Bourdain, poco prima di togliersi la vita in un hotel francese, sono i messaggi con Argento. Il libro di Leerhsen racconta la turbolenta relazione tra i due e come entrambi fossero dispiaciuti per le foto scodellate sui giornali: lui insieme all’ex moglie e la figlia e la Argento mentre ballava avvinghiata a un giornalista francese nell'atrio dell'Hotel de Russie di Roma.

«Sto bene – ha scritto Bourdain ad Argento dopo aver visto la foto - Non sono geloso che tu sia stata con un altro uomo. Non ti possiedo. Sei libera. Come ho detto. Come ho promesso. Come intendevo veramente. Ma sei stata noncurante. Sei stata sconsiderata con il mio cuore. La mia vita». 

Secondo la descrizione del Times del contenuto del libro, Bourdain ha poi scritto di essere rimasto ferito dal fatto che "l'appuntamento" avesse avuto luogo in un hotel in cui si erano precedentemente divertiti insieme. Argento ha risposto: «Non posso sopportarlo» e ha detto che non poteva più stare con lui a causa della sua possessività. 

Nell’ultimo scambio di messaggi, Bourdain ha scritto: «C'è qualcosa che posso fare?». E Asia Argento ha risposto: «Smettila di rompermi le palle». A quel punto lo chef ha scritto solo «Ok». Poche ore dopo si è impiccato. 

Come scrive il Times, il libro ha "già attirato l’ostilità della famiglia di Bourdain, degli ex colleghi e degli amici più cari". Il fratello Christopher Bourdain ha inviato due email a Simon & Schuster ad agosto definendo il libro "narrativa dannosa e diffamatoria". Ma l'editore ha risposto: «Con tutto il rispetto, non siamo d'accordo sul fatto che il materiale nel libro contenga informazioni diffamatorie e sosteniamo la nostra prossima pubblicazione». In un'email al Times, Argento ha scritto di non aver letto il libro, aggiungendo: «Ho scritto chiaramente a Leerhsen che non poteva pubblicare nulla di ciò che gli dicevo». 

Il libro riporta anche che Bourdain ha pagato 380.000 dollari all’attore Jimmy Bennett, che aveva raccontato di aver avuto una relazione sessuale con Asia Argento quando lei aveva 37 anni e lui appena 17. Bennett, secondo il libro, aveva chiesto 3,5 milioni di dollari.

Asia Argento ha raccontato di Anthony Bourdain, e dei loro ultimi messaggi, a Domenica In. Il Corriere della Sera il 02 ottobre 2022.

Asia Argento ha parlato degli ultimi sms scambiati con l’ex compagno, morto suicida, nella trasmissione di Mara Venier: i problemi con l’alcol, la depressione, il senso di colpa. Ma anche «gli avvoltoi» che lo hanno circondato, e che «mi hanno fatta fuori» 

Asia Argento è tornata a parlare — «per l’ultima volta», ha detto, interpretando la sua volontà, Mara Venier — dei drammatici ultimi momenti di vita dell’ex compagno, Anthony Bourdain. 

E lo ha fatto in tv, a Domenica In, cercando di replicare a quanto emerso in una nuova biografia non autorizzata dell’eclettico chef, «Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain», scritta da Charles Leerhsen, in uscita negli Usa da Simon & Schuster l’11 ottobre. 

Con Bourdain, Argento ebbe una «bellissima» — ma anche dolorosa — storia d’amore, durata due anni. E di quella storia Argento decide di parlare, per ribadirne la profondità e gli abissi, la bellezza e il drammatico epilogo. Un epilogo su cui la biografia si sofferma, pubblicando gli sms che Argento e Bourdain si inviarono nelle ore precedenti il suicidio. Compreso l’ultimo scambio:

«Posso fare qualcosa?», chiese Bourdain.

«Non rompermi le palle», rispose Argento. 

«Ok», fu l’ultima parola che Bourdain le scrisse. 

«Chi ha dato all’autore della biografia quei messaggi?», si chiede anzitutto Argento. Rispondendosi: «Gli avvoltoi intorno a lui. Perché tanta gente si approfittava di lui». 

Argento poi racconta la loro storia, di cui — spiega — «ho detto già tutto. Avevamo un rapporto libero, eravamo una coppia aperta». Non c’erano ragioni dunque per la gelosia di Bourdain, dovuta alla pubblicazione di alcune foto che ritraevano Argento con un altro uomo, a Roma. «Bene», scriveva d’altronde lo stesso Bourdain ad Argento, «non sono geloso, non sei una mia proprietà. Sei libera, come ho detto, come ho promesso. Ma sei stata sconsiderata con il mio cuore». 

E quell’ultimo scambio? «Io», spiega Argento, «gli ho detto “non mi rompere le palle”. Aveva bevuto, aveva problemi con l’alcol come li avevo io. Era strano, quella sera, aveva una voce impastata, era petulante. Io invece ero allegra, il giorno dopo avrei dovuto iniziare X Factor: un passaggio finalmente felice, importante, dopo aver passato anni difficili per il #metoo, e il caso Weinstein. Quella sera era ubriaco, ma era capitato anche altre volte. E sapevo anche che era con il suo migliore amico: per cui mi sono detta: starà con lui, si sfogherà con lui. Purtroppo non ci ha visto più».

Quello che era successo dopo l’ultimo messaggio «io l’ho saputo la mattina dopo», dice Argento. «Mi ha chiamato la sua agente, è stata molto fredda, crudele. Stavo finendo la valigia per andare a X Factor, e mi ha detto semplicemente: “Anthony non c’è più, è morto. Si è tolto la vita”». 

Secondo Argento, «C’è stato un disegno da parte di chi era intorno a Anthony di addossare la colpa a me. Attenzione: io per prima mi sono data questa colpa, è impossibile non farlo. Me la prendo, quella colpa. Ma credo sia riduttivo dire che una persona arriva a togliersi la vita per un litigio. Non è mai così. Anthony era un uomo intelligentissimo, anche se molto fragile. Avevamo litigato tante altre volte. Ma quando uno è depresso — e lui lo era, come si evince anche da altri messaggi che aveva mandato alla moglie — quando uno sta male, quando uno ha problemi con l’alcol, come aveva Anthony e come avevo anche io, in quel periodo... C’è una lezione che dobbiamo imparare tutti. Il suicidio è un gesto estremo: ma chi lo compie non vuole morire davvero. Vuole solo trovare sollievo dalla depressione. Quando uno è in quella situazione spesso si vergogna, non chiede aiuto: e infatti anche lui non ha chiesto aiuto». 

Come scritto qui, la biografia «presenta il ritratto di un uomo afflitto dalla “disperazione oltre la disperazione”, come diceva William Styron nel suo libro Oscurità trasparente, un Bourdain isolato dagli amici e da ex moglie e figlia, ossessionato dalla forma fisica, sotto l’effetto degli steroidi anabolizzanti, dell’alcol, cliente di prostitute, lontano dalla vita quotidiana della figlia allora undicenne». 

«Io ho fatto fatica a rinascere, a rialzarmi, a tornare a camminare», dice ora Asia Argento, che spiega anche di essere ormai sobria da un anno e mezzo. «Avrei voluto dire ad Anthony, se solo avessi potuto, che domani è davvero un altro giorno, che la vita è meravigliosa, va vissuta fino alla fine». 

Nessun ulteriore commento sulla biografia, che il fratello di Bourdain, Chris, ha definito «fiction diffamatoria», chiedendo all’editore di non pubblicarla. Uno solo, finale, sul messaggio che Morgan — con cui Argento ha avuto una lunga storia d’amore, e una figlia — le ha dedicato sui social, dopo la pubblicazione degli sms con Bourdain. «L’amore tra me e lei c’è stato veramente, ci siamo amati, e quando si dice “ti amo” anche una volta finito il desiderio e conclusa la storia, quello rimane per sempre. Non potrei mai dire né fare nulla contro la madre di mia figlia, e anche se non sono più innamorato di lei avrà sempre il mio rispetto e la mia complicità», ha scritto Morgan. «Non mi aspettavo quel messaggio di Marco» (Castoldi, il vero nome di Morgan, ndr), ha detto Asia Argento. «Mi è arrivato come una carezza».

In difesa d’Asia. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2022.  

Dice Asia Argento che nessuno si uccide per una battuta cattiva. Sicuramente il rapporto causa-effetto è più complesso di come lo liquidano i suoi odiatori superficiali. Riassunto delle malignità precedenti: un biografo dell’ex compagno morto suicida, il cuoco Anthony Bourdain, rivela l’ultimo scambio di messaggi tra i due. Lui: «Posso fare qualcosa?» Lei: «Non rompermi le palle». Lui: «Ok». 

Da qui a imputare il suicidio all’attrice il passo è breve, ma fraudolento. In teoria uno dovrebbe sempre rivolgersi agli altri come se fosse l’ultima volta che parla con loro, ma alzi la mano chi nell’ultimo anno non ha mandato al diavolo un parente, un amico, un collega in qualche messaggio vocale o scritto (la comunicazione «live» è ormai un vezzo per nostalgici). Se il bersaglio del nostro malumore si fosse tolto la vita il giorno dopo, qualcuno in coscienza potrebbe attribuircene la colpa?

Come dice la Argento, che deve averci lavorato sopra parecchio, il suicidio è il gesto estremo di chi è in cerca di sollievo. Non esiste una causa scatenante improvvisa, ma una lenta deriva che può subire un’accelerazione in condizioni particolari: l’alcol, per Bourdain. L’unica educazione sentimentale che possiamo trarre da storie malate come questa è che l’amore salva solo chi si è già salvato da solo, perché funziona da specchio: non ti fa innamorare di chi vuoi, ma di chi sei. Se sei caos, incontrerai persone che producono caos. Per incontrarne una che ti faccia bene, devi prima stare bene tu. 

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Anthony Bourdain, gli ultimi messaggi con Asia Argento prima del suicidio: «Che posso fare?» «Smettila di rompermi». Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022

Una biografia non autorizzata in uscita a ottobre, e anticipata dal «New York Times», racconta le ultime disperate ore dello chef, tra abusi di sostanze e una rottura insanabile con l’attrice italiana 

I milioni di spettatori dei suoi show televisivi, felici di viaggiare con lui per il mondo, e le centinaia di migliaia di lettori dei suoi libri — di cucina, ma anche noir ben scritti e spiritosi — lo ricordano attraverso le loro pagine preferite, e i momenti di tv memorabili: Anthony Bourdain che mangia cibi strani e/o meravigliosi in posti a volte strani e/o meravigliosi, con i Masai nel Serengeti e con il presidente degli Stati Uniti in una tavola calda, a Capri e al Polo Sud, quasi ovunque sul mappamondo attraverso 16 anni di carriera straordinaria.

Oppure — il menù da oggi è più ricco, anche se meno delizioso — possono ricordarlo con i messaggini scambiati negli ultimi cinque giorni della sua vita, luglio 2018, con l’ex moglie Ottavia Busia Bourdain e Asia Argento (ebbe con l’attrice italiana una storia dolorosa negli ultimi due anni della sua vita).

Il New York Times ha ieri anticipato alcuni tristissimi passaggi di una nuova biografia «non autorizzata», Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain , scritta dal giornalista Charles Leerhsen, in uscita negli Usa da Simon & Schuster l’11 ottobre.

Il fratello di Bourdain, Chris, definisce il libro «fiction diffamatoria» e ha chiesto all’editore di non pubblicarlo: «Ogni singola cosa che scrive su rapporti e relazioni all’interno della nostra famiglia quand’eravamo bambini e poi adulti l’ha inventata. O è comunque totalmente sbagliata». L’agente di Bourdain ha chiesto alla maggior parte dei suoi amici e collaboratori di non parlare con Leerhsen, che però una fonte valida — la cui identità non è stata divulgata — l’ha trovata. Ha avuto accesso al computer di Bourdain e al suo telefono, e cita nel libro lunghi scambi di messaggi, mail, e perfino la cronologia del browser (nelle ultime ore di vita, quando Asia Argento non voleva comunicare con lui, cercò su Internet il nome di lei «centinaia di volte»). È doverosa una premessa, come sempre quando si parla di suicidio: le neuroscienze, la psicologia, la medicina in generale insegnano che è impossibile sotto il profilo scientifico determinare con certezza le cause di un suicidio, tantomeno si può immaginare di attribuire responsabilità, specie sulla base di aneddoti e impressioni. Quel che si sa con certezza è che l’ideazione suicidaria non è uno stato permanente, e l’aiuto della medicina — o di una semplice voce di un Telefono Amico — è in grado di indicare una via d’uscita alternativa alla morte.

Detto questo, ecco i messaggi citati dalla biografia.

Cinque giorni prima della morte di Bourdain, Argento viene fotografata mentre ballava con un altro uomo a Roma. «Bene. Non sono geloso. Non sei una mia proprietà. Sei libera. Come ho detto. Come ho promesso… Ma sei stata sconsiderata con il mio cuore. Con la mia vita».

Down and Out in Paradise pubblica anche l’ultima comunicazione finale tra Argento e Bourdain, avvenuta il giorno in cui lui si è impiccato in una camera d’albergo in Francia. Bourdain: «C’è qualcosa che posso fare?» Argento: «Smetterla di rompermi le palle». Bourdain: «Ok».

Il libro presenta il ritratto di un uomo afflitto dalla «disperazione oltre la disperazione», come diceva William Styron nel suo libro Oscurità trasparente, un Bourdain isolato dagli amici e da ex moglie e figlia, ossessionato dalla forma fisica, sotto l’effetto degli steroidi anabolizzanti, dell’alcol, cliente di prostitute, lontano dalla vita quotidiana della figlia allora undicenne.

Barack Obama, che sa sempre trovare le parole giuste, quando il mondo seppe della morte di Bourdain ricordò il suo amico «Tony» twittando una foto della volta che andarono a mangiare insieme — lo chef scrittore e il presidente degli Stati Uniti allora in carica — non in un ristorante stellato ma in una tavola calda vietnamita frequentata dalle persone normali: «Uno sgabello basso di plastica, una ciotola di noodles economici ma deliziosi, birra fredda di Hanoi. È così che ricorderò Tony. Ci ha insegnato tante cose sul cibo ma, soprattutto, sulla capacità che il cibo ha di unirci, di renderci un po’ meno timorosi delle cose che non conosciamo. Ci mancherà».

Anthony Bourdain e gli ultimi messaggi con Asia Argento prima di morire: bufera su una biografia non autorizzata. CHIARA AMATI su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022

Una biografia non autorizzata, scritta dal giornalista Charles Leerhsen e in uscita l’11 ottobre prossimo, rivela dettagli intimi della vita di Anthony Bourdain, chef star-tv americano morto suicida l’8 giugno 2018. Nel libro, anticipato dal «New York Times», anche scambi di messaggi telefonici con Asia Argento. Fino all'ultimo, in cui lei gli disse: «Non rompere» 

Era stata fotografata al ristorante romano «Camponeschi», Asia Argento: allora ballava con il giovane giornalista francese Hugo Clément. 

«Tutti li hanno guardati… Era una scena di pazza sensualità», dichiarerà poi a La Verità Rino Barillari, il paparazzo autore degli scatti. E lui, lo chef americano Anthony Bourdain, che dell’attrice romana è stato il compagno di vita fino al giorno del suicidio, non aveva gradito. 

Il suo disappunto lo aveva esplicitato in una serie di messaggi alla diretta interessata. Uno su tutti: «Non sono astioso. Né geloso del fatto che tu sia stata con un altro uomo. Non sei di mia proprietà. Sei libera. (…). Sei stata però superficiale. Non hai considerato il mio cuore. La mia vita».

A quelle frasi, Argento avrebbe risposto «I can’t take this. Non posso sopportarlo». 

Il giorno successivo, un nuovo messaggio di Bourdain: «C’è qualche cosa che possa fare?». Lei: «Smettila di rompermi le palle».

«Va bene».

Era l’8 giugno del 2018: quel giorno Bourdain — talento visionario famoso in tutto il mondo per i suoi libri sugli eccessi dell’alta ristorazione (Kitchen Confidential in primis) e per la serie tv in onda sulla Cnn Parts Unknown - Cucine segrete si — si tolse la vita, impiccandosi nella sua camera d’albergo, a Kaysersberg, in Francia. 

La biografia non autorizzata e le polemiche

Messaggi, tanti messaggi: questo, e altro ancora, si leggerà, dall’11 ottobre, in quella che Simon & Schuster, tra le maggiori case editrici statunitensi, ritiene essere la prima biografia non autorizzata dello scrittore e documentarista di viaggi newyorkese, anticipata dal New York Times. 

Down and out in Paradise: The life of Anthony Bourdain, il titolo, promette dettagli freschi e intimi, ma anche crudi e angoscianti, delle ultime ore di vita dello chef, e non solo. 

Tra le pagine del volume, infatti, non mancano scambi avuti con Ottavia Busia-Bourdain, l’ex moglie che, dopo essersi separata nel 2016, diventerà via via la principale confidente. Situazione, si apprende, affatto gradita alla Argento. 

Chi è Charles Leerhsen, l'autore del libro

Nel redigere la biografia, il giornalista Charles Leerhsen, ex direttore esecutivo di Sports Illustrated e People, prende in esame oltre 80 interviste, file di testo e email dal telefono e dal portatile di Bourdain. «Materiale, questo, ottenuto da una fonte riservata», tiene a precisare l’autore. 

Ne è uscito un ritratto che ha del kafkiano: da adolescente scontroso in un sobborgo del New Jersey a talento gastronomico e televisivo capace di raccontare le cucine dei luoghi che visitava, dando conto del contesto socio-culturale in cui si trovavano, senza con ciò ricorrere a stereotipi o fascinazioni. 

Voleva una biografia che documentasse anche, e soprattutto, la solitudine dell’uomo Bourdain, che ne scandagliasse l’animo più tormentato. Ecco questo, come riporta il New York Times, voleva Leerhsen, incurante delle reazioni contrastanti che avrebbe suscitato. Come di fatto è successo. 

«Ogni singola cosa scritta circa le relazioni e le interazioni all’interno della nostra famiglia da bambini e da adulti è frutto di fantasia o di errore», replica in una intervista il fratello dello chef, Christopher. 

Una resistenza la sua, insieme a quella di molte altre persone vicine a Bourdain, che avrebbe motivato Leerhsen ad andare avanti, convinto una volta di più di essere sulla strada giusta. 

I contenuti della biografia

La bio comincia con l’infanzia di Bourdain, prosegue con il matrimonio dei suoi genitori, l’andamento a scuola, i voti terribili — «era più felice quando, in estate, andava a lavorare nei ristoranti di Provincetown, Massachusetts», si legge — il diploma e il rapporto con la prima moglie, Nancy Putkoski. 

Poi l’esperienza, da giovanissimo, al Culinary Institute of America , cinque miglia a Nord di Vassar ad Hyde Park, New York. 

E ancora: l’ascesa come chef in alcuni tra i più affermati ristoranti della Grande Mela dove, negli anni, si è trovato a fare i conti con colleghi intimidatori.

Bourdain e la relazione con Asia Argento

Leerhsen approfondisce quindi la relazione con Asia Argento, definendola tumultuosa — e, allo stesso tempo, molto profonda. 

«Mi ritrovo a essere perdutamente innamorato di questa donna», avrebbe ammesso Bourdain alla ex moglie e confidente Ottavia, come si apprende dalla biografia. Per lei non avrebbe badato a spese. 

Di più. Ne avrebbe sposato anche le battaglie, tanto da diventare un convinto sostenitore del movimento #MeToo dopo aver saputo che Harvey Weinstein, nel 2017, aveva aggredito sessualmente la Argento. 

Ma Leerhsen, nella ricostruzione dell’uomo Bourdain, si spinge ancora oltre. Scrive alla diretta interessata, vuole sapere i particolari. 

Lei, Asia, risponde citando Oscar Wilde: «È sempre Giuda che scrive la biografia». In un’intervista sempre al New York Times dichiara, poi, di non aver letto il libro e specifica apertamente che «quest’uomo non poteva pubblicare nulla di ciò che gli avevo detto». Non vuole speculazioni sulla persona che ha amato fino all’ultimo giorno. E della quale, dopo il suicidio, aveva scritto: «Era il mio amore, la mia roccia, il mio protettore. Sono devastata. Vi prego di rispettare la privacy della sua famiglia e la mia». 

Di questo messaggio, affidato a Twitter nei giorni del dolore, Leerhsen pare non abbia tenuto conto.

 Estratto dall'articolo di Valeria Robecco per repubblica.it il 5 ottobre 2022.

La sua uscita è prevista soltanto l’11 ottobre, ma la nuova biografia non autorizzata che racconta gli ultimi giorni di vita di Anthony Bourdain ha già creato un putiferio, con molteplici diffide e minacce di cause per diffamazione. A partire da quelle di Asia Argento, fidanzata dello star-chef di ‘Parts Unknown’. 

Nel libro del giornalista americano Charles Leerhsen pubblicato da Simon & Schuster, infatti, oltre a dettagli intimi e dolorosi della vita di Bourdain sono contenuti gli ultimi messaggi scambiati dalla coppia prima che lui si suicidasse, in una stanza d’albergo in Francia, quattro anni fa. Secondo le anticipazioni diffuse dal New York Times, in "Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain", lo chef non apprezzò le fotografie che ritraevano la Argento mentre ballava con il giovane giornalista francese Hugo Clement nella hall dell’Hotel de Russie a Roma, dove erano stati insieme. 

“Non sono geloso che tu sia stata con un altro uomo. Non ti possiedo. Sei libera. Come ho detto. Come ho promesso. Come intendevo veramente. Ma sei stata senza riguardi per me. Con il mio cuore. Con la mia vita”, le avrebbe scritto.

Asia avrebbe quindi minacciato di lasciarlo, dicendo che non poteva più di sopportare la sua possessività, e quando il giorno successivo lo chef le scrisse nuovamente chiedendo se c'era qualcosa che poteva fare, avrebbe risposto: “Smettila di rompermi le palle”. “Va bene”, disse lui. Era l’8 giugno 2018, e poche ore dopo Bourdain si tolse la vita impiccandosi nella stanza del suo albergo a Kaysersberg. “Ho scritto chiaramente a quell'uomo che non poteva pubblicare nulla di quello che gli ho detto”, ha fatto sapere Argento al Nyt.

A contestare i contenuti della biografia, basata su oltre 80 interviste e documenti tra cui email e messaggi dal telefono e dal laptop dello chef, sono stati anche i suoi parenti e amici. “Ogni singola cosa che scrive sulle relazioni e le interazioni all'interno della nostra famiglia, da bambini e da adulti, è inventata o completamente sbagliata”, ha detto Christopher Bourdain al quotidiano newyorkese. 

L’autore del libro, tuttavia, ha risposto alle critiche affermando di aver “deciso di scrivere una biografia completa, dalla nascita alla morte, di Tony Bourdain, e lungo la strada ho ottenuto sms ed email. Li ho usati come i biografi di un'era precedente usavano lettere personali - ha aggiunto -. Non li ho rubati, mi sono stati dati da una o più fonti, come le lettere sono state date ai biografi. Non ho dovuto mostrare il mio manoscritto a nessuno in cambio, quindi non è autorizzato anche se ho ricevuto collaborazione”. [...]

Lo scrittore, peraltro, avrebbe avuto una collaboratrice eccellente, Ottavia Busia-Bourdain, per 11 anni moglie dello chef, a cui “confidava ancora i suoi pensieri più intimi” nonostante si fossero separati nel 2016. E in uno degli ultimi messaggi prima del suicidio, Bourdain le avrebbe scritto: “Odio i miei fan. Odio essere famoso. Odio il mio lavoro. Mi sento solo e vivo in uno stato di perenne incertezza”. 

Leerhsen, come altri prima di lui, ha cercato di trovare una ragione per il gesto estremo di Bourdain, che alla fine della sua vita si iniettava steroidi, beveva all’eccesso, visitava prostitute ed era quasi scomparso dalla vita della figlia. Sopraffatto dalla solitudine, in crisi sul lavoro e nella relazione con Asia, grande accusatrice di Harvey Weinstein e poi a sua volta accusata, a cui lo chef era stato vicino nei mesi caldi dello scandalo MeToo. E per cui, secondo il libro, ha speso centinaia di migliaia di dollari sostenendo finanziariamente lei, i suoi due figli e a volte persino i suoi amici. [...]

Bourdain e l'ultimo sms di Asia. "Adesso smettila di rompere". Bufera per la biografia non autorizzata dello chef suicida. Messaggi con la Argento poche ore prima di morire. Valeria Robecco il 29 Settembre 2022 su Il Giornale. 

Una nuova biografia non autorizzata racconta gli ultimi giorni di vita di Anthony Bourdain, con dettagli intimi e dolorosi, il suo desiderio di continuare la relazione con Asia Argento, e la reazione irritata di lei. E cerca di far luce sui motivi che potrebbero aver spinto al suicidio lo star-chef di «Parts Unknown». Prima ancora di arrivare sugli scaffali, il libro del giornalista americano Charles Leerhsen che uscirà l'11 ottobre con Simon & Schuster ha già scatenato una bufera, con molteplici diffide e minacce di cause per diffamazione. Anche e soprattutto da parte di Argento, la quale ha detto al New York Times di aver «scritto chiaramente a quell'uomo che non poteva pubblicare nulla di quello che gli ho detto».

Secondo le anticipazioni, infatti, in Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain sono contenuti gli ultimi messaggi scambiati tra lei e il fidanzato, prima che lo chef si togliesse la vita in una stanza d'albergo in Francia nel 2018. L'attrice - grande accusatrice di Harvey Weinstein e poi a sua volta accusata, a cui Bourdain era stato vicino nei mesi caldi dello scandalo MeToo - stando alla ricostruzione di Leerhsen avrebbe minacciato la rottura dopo che il fidanzato si era arrabbiato via sms per una foto in cui flirtava con il giovane giornalista francese Hugo Clement nella hall dell'Hotel de Russie a Roma. «Non sono geloso che tu sia stata con un altro uomo. Non ti possiedo. Sei libera, come ho detto, come ho promesso, come intendevo veramente. Ma sei stata senza riguardi per me. Con il mio cuore. Con la mia vita», avrebbe scritto lui. La cosa che lo feriva sarebbe stata che l'incontro era avvenuto proprio nell'albergo che entrambi amavano e dove erano stati insieme: «Non posso sopportarlo». Asia avrebbe quindi minacciato la rottura dicendo che non ne poteva più della sua possessività, e quando il giorno successivo Bourdain le scrisse nuovamente chiedendo se c'era qualcosa che poteva fare, avrebbe risposto: «Smettila di rompermi le palle». «Va bene», disse lui. Poche ore più tardi, si impiccò.

I contenuti della biografia, basata su oltre 80 interviste e documenti tra cui email e messaggi dal telefono e dal laptop dello chef, sono stati contestati, oltre che da Argento, anche da parenti e amici. «Ogni volta che parla della nostra famiglia, o sono cose inventate o totalmente sbagliate», ha detto Christopher Bourdain al Nyt. Leerhsen, però, avrebbe avuto una collaboratrice eccellente, Ottavia Busia-Bourdain, moglie dello chef per 11 anni, e sua confidente nonostante la separazione nel 2016. «Odio i miei fan. Odio essere famoso. Odio il mio lavoro. Mi sento solo e vivo in uno stato di perenne incertezza», le aveva scritto Anthony in uno degli ultimi messaggi carichi di angoscia prima del suicidio. Come altri prima di lui, Leerhsen ha cercato di trovare una ragione per il gesto estremo di Bourdain, che alla fine della sua vita si iniettava steroidi, beveva all'eccesso, visitava prostitute ed era quasi scomparso dalla vita della figlia. Sopraffatto dalla solitudine, in crisi sul lavoro e, sul fronte personale, nella relazione con Asia (per cui, secondo il libro, ha speso centinaia di migliaia di dollari fornendo sostegno finanziario a lei, ai suoi due figli e talvolta persino ai suoi amici).

Le rivelazioni (smentite) del libro in uscita. “Anthony Bourdain scrisse ad Asia Argento prima di morire: ecco gli ultimi messaggi”: è bufera sulla biografia dello chef star. Vito Califano su Il Riformista il  28 Settembre 2022 

Asia Argento si era detta devastata dalla morte del compagno Anthony Bourdain. “Era il mio amore, la mia roccia, il mio protettore. Sono devastata. Vi prego di rispettare la privacy della sua famiglia e la mia”. E invece la biografia non autorizzata scritta dal giornalista Charles Leerhsen rimette al centro quella storia, un amore tumultuoso e i tormenti di un uomo, lo chef-star che l’8 giugno del 2018 si uccise impiccandosi in un albergo.

Del libro di Leerhsen si è cominciato a parlare perché alcuni stralci della biografia – non autorizzata, ribadiamo – sono stati pubblicati dal New York Times. Il libro è in uscita l’11 ottobre per la Simon&Schuster. Il titolo è Down and out in Paradise: The life of Anthony Bourdain. E altro che privacy: l’ex direttore esecutivo di Sports Illustrated e People è andato a fondo anche tramite file di testo, interviste ed email dal telefono e dal portatile dello chef. Tutto materiale che ha dichiarato di aver recuperato da una “fonte riservata”.

Bourdain viene fuori secondo le anticipazioni in tutta la sua verve vitalistica e in tutto il suo tormento esistenziale. Adolescente in un sobborgo del New Jersey, studente non troppo brillante, l’esperienza al Culinary Institute of America a cinque miglia a nord di Hyde Park, la prima moglie Nancy Putkoski, la relazione con l’altra ex moglie Ottavia Busia-Bourdain, l’ascesa a talento gastronomico mondiale, televisivo e viaggiatore capace di raccontare come nessuno prima, con uno stile tutto suo e personale, imitatissimo.

Il fratello Christopher Bourdain ha preso immediatamente le distanze da tutto questo: “Ogni singola cosa scritta circa le relazioni e le interazioni all’interno della nostra famiglia da bambini e da adulti è frutto di fantasia o di errore”. A fare scalpore però nelle ultime ore sono stati alcuni messaggi, definiti gli ultimi dalla biografia non autorizzata, che risalirebbero alle ultime ore di vita dello chef. E c’entra Asia Argento, compagna di Bourdain.

La ricostruzione dello chef racconta di un uomo solo che si sarebbe impiccato in seguito a una serata passata da solo mangiando e bevendo in eccesso. In quei giorni lo chef avrebbe scoperto il flirt della compagna con un altro uomo. Asia Argento era stata fotografata dai paparazzi al ristorante romano Camponeschi mentre ballava con il giornalista francese Hugo Clément. “Non sono astioso. Né geloso del fatto che tu sia stata con un altro uomo. Non sei di mia proprietà. Sei libera. (…). Sei stata però superficiale. Non hai considerato il mio cuore. La mia vita“.

L’8 giugno Bourdain si impiccò nella sua camera d’albergo a Kaysrsberg, in Francia. Le rivelazioni della biografia non autorizzata hanno fatto il giro del mondo, appena sono state anticipate, in pochissimo tempo. Argento non ha voluto collaborare con Leehrsen: “È sempre Giuda che scrive la biografia”, avrebbe risposto al giornalista quando questi le aveva chiesto delucidazioni.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Dario Argento, cuore (horror) di papà. Enrico Caiano su Il Corriere della Sera il 3 Luglio 2022.

Il regista e i suoi film restaurati in tripudio a New York. «Emozioni? Solo con Fiore e Asia, le mie figlie». Il maestro insospettabile: «Antonioni». Gli amici che non diresti: «Celentano e Banana Yoshimoto». 

Il regista Dario Argento, 81 anni, abbraccia la figlia Asia 46 anni, attrice, in un’immagine scattata nel luglio del 2021 sul red carpet del Festival di Cannes (foto di Redux Pictures/Contrasto)

Attenti a Dario Argento! Perché mette paura, dite? Macché. Dietro quell’aria da Principe delle Tenebre si nasconde un padre affettuosissimo, un uomo sensibile e mite, innamorato dell’arte in genere e del cinema in particolare da quando era bambino, anche perché figlio di un produttore romano e di una modella poi fotografa brasiliana. Quindi abituato da subito a trascorrere le lunghe giornate di infanzia e adolescenza tra registi, attori, sceneggiatori. Ad annusare storie e inquadrature.

Attenti a Dario proprio per questo. Quatto quatto, quello che spesso con sufficienza veniva definito nell’ambiente «il maestro del brivido» per relegarlo a un genere e poco più, è diventato negli anni un autore a tutti gli effetti e pure di culto (più all’estero che da noi, va detto). Ammiratore assoluto di maestri ma non dell’horror come Fellini e Antonioni («L’autore che più mi ha influenzato e appassionato»), considera Ingmar Bergman il più grande («Anzi, Inniari Berimar che sarebbe la pronuncia corretta in svedese, dove la g si pronuncia i», gioca a fare il colto). L’ha ben capito Cinecittà, che gli ha organizzato un tour mondiale che ha appena concluso la sua tappa newyorchese al Lincoln Center, tra il 21 e il 29 giugno. Dove il titolo è proprio Attenti a Dario Argento: una rassegna di 20 film. Praticamente la sua intera filmografia, con 17 di questi restaurati in 4K dalla stessa Cinecittà. La qualità ha fatto sobbalzare l’interessato: «Sono quasi più belli di quando li ho girati!». Il tour continuerà ora (dopo una tappa a Parigi) ancora negli Usa toccando Los Angeles e molte altre città, per poi trasferirsi in Sud America e ancora in Europa. Una celebrazione che non ha precedenti negli ultimi anni per un maestro italiano del cinema e riporta alla mente i bagni di folla e le beatificazioni della critica di quando il nostro cinema era ospite quasi fisso agli Oscar con appunto Fellini, Visconti, De Sica o Antonioni. L’accoglienza della Grande Mela è stata da rockstar, la sala strapiena, domande di tutti i tipi di un pubblico soprattutto giovane, già “in fissa” con i brividi horror genuini di un cineartigiano d’eccellenza come lui.

«New York è una città che amo è in cui ho anche vissuto per un periodo della mia vita. Amo la sua cultura, mi ci trovo molto bene. In altri momenti però mi ci sono anche sentito spaesato... Certo l’omaggio del Lincoln Center mi ha reso felice». Un po’ l’effetto che a Dario Argento fa l’America tutta (e forse anche a sua figlia Asia, ma questo lo vedremo più avanti...): esaltazione mescolata ad ansia. In qualche caso a repulsione. Sarà anche per questo che nonostante le offerte non ha mai ceduto a una carriera Usa. Limitandosi a due serie tv firmate con altri maestri dell’orrore e a un film a 4 mani col padre degli zombie George A. Romero su racconti del suo autore mito Edgar Allan Poe. «Con Romero ho anche coprodotto il suo Zombie», precisa con il puntiglio di chi ama e cura i dettagli. «Quanto alla serie tv The Master of Horror mi è valsa una targa che mi ha emozionato molto perché attestava che i miei due episodi sono stati i più venduti in dvd di ciascuna delle due stagioni».

Non gli capita spesso. Di emozionarsi, s’intende: «Io davvero non sono uno che prova delle grandi emozioni per questo genere di cose». Lo “smuovono” gli affetti. Quello per le figlie, Fiore, 52 anni, (nata dal matrimonio di breve durata con Marisa Casale) e Asia (46) avuta con la storica compagna Daria Nicolodi scomparsa un anno e mezzo fa, è fortissimo. Ed è uno dei motivi per cui non ha mai lasciato Roma per le sirene americane: «Roma è le mie figlie», è il suo slogan di papà 81enne. «Vivono entrambe qui e con difficoltà si sarebbero spostate in America. Asia forse più facilmente, Fiore, invece, che aveva fatto l’università a New York si è presto disamorata degli Stati Uniti e del cinema. Ha studiato da stilista e lavorato in Italia con Fendi e Lagerfeld». Corsi e ricorsi: il disamore per gli Usa ora riguarda Asia, centrifugata dall’esperienza hollywoodiana: «Io le sono sempre stato vicino e se Asia ha avuto momenti difficili e brutti nella vita forse non è stata tutta colpa sua ma delle perversioni del cinema americano di questi ultimi anni. Dopo il repulisti del #metoo la situazione è diversa ma prima Hollywood era un posto di sporcaccioni, drogati e alcolizzati. Asia ha incontrato gente spregevole».

Quella bambina che cominciò a recitare a 10 anni in una serie tv ante litteram di Sergio Citti, Sogni e bisogni, e poi solo tre anni dopo fu piccola protagonista di Zoo di Cristina Comencini, non aveva come si potrebbe pensare suo padre dietro: «Mai. Anzi io ero proprio invidioso dei colleghi che si vantavano di avere quella ragazzina nei loro film», replica piccato. «Io che ero il padre e l’avevo allevata portandola sul set a seguire la lavorazione dei miei film, lei che aveva imparato molto bene il cinema da me… Finalmente ho scritto un film per lei che era Trauma. E da allora ne abbiamo fatti 5 insieme. Me la sono ripresa!». E parte una delle sue rare risate.

L’uomo che ha spaventato generazioni di italiani sa anche ridere. Forse non è un caso che da anni vanti una solida amicizia con Adriano Celentano («Mi ha voluto come regista dell’unico film non horror della mia carriera, Le cinque giornate, sì, proprio l’insurrezione milanese del 1848: un film che mi è piaciuto fare e che per me è riuscito nonostante l’insuccesso. Nacque un rapporto che dura ancora, lo stimo e lo apprezzo, è una persona importante della mia vita»). Però, oggettivamente, è un solitario, oggi come da bambino e non ha problemi a confessarlo: «Da piccolo ero affascinato dai racconti di Edgar Allan Poe, dai film horror di una volta, molto ben fatti. Non ero certo uno di quei bimbi che non dormivano la notte per paura. Convivevo bene con i fantasmi». Come ora. Non sente affatto il peso dell’età e non pensa alla morte: «So che accadrà ma preferisco pensare al mio lavoro, ai miei racconti, a esaminare esattamente come si svolgono i miei incubi».

I suoi film nascono così, da questi pensieri insistenti. «Parto da un particolare», spiega puntiglioso, «da una piccola scena, un momento, e su questo costruisco tutto il film attorno come un puzzle. È successo così sempre. Mi immedesimo nei personaggi e quando mi trovo davanti la pagina bianca nella macchina per scrivere, perché io ancora scrivo con quella, per me è come se fosse lo schermo. Vedo i fatti che si svolgono, i personaggi, le scene intere. Come un film che si dipana davanti a me». Del suo successo planetario la spiegazione che si dà è semplice: «Racconto i miei, sogni i miei incubi, i miei segreti. E questo è comprensibile in tutte le nazioni è qualcosa che va a toccare il mondo interiore, intimo, di tutti». Cosa che agli americani non riesce più, però: «Puntano tutto sullo spettacolo, gli effetti speciali e fanno film superficiali. In Spagna, in Messico con Guillermo del Toro, grande amico e talento vero, in Oriente – e rivendica all’horror i trionfi di Parasite – invece c’è profondità, ci sono solide basi psicologiche freudiane». Tra i suoi fan d’Oriente più accesi, fin da ragazzina, c’è la scrittrice minimalista Banana Yoshimoto, diventata negli anni sua grande amica: «Ci scriviamo e ci vediamo con Banana, quando esce un mio nuovo film lei prende l’aereo dal Giappone e viene in Italia per vederlo assieme a me sul grande schermo. Ci comprendiamo molto bene. Leggo i suoi libri e mi piacciono. Sono storie diverse dalle mie ma percorse da un brivido, creano inquietudini importanti ed è questo a unirci».

Ma in Italia c’è un Dario Argento del futuro? «Non ne ho visti. Spero nascerà qualche talento quando il cinema italiano smetterà di dedicarsi solo alle commedie».

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 24 giugno 2022.

Asia Argento ricorda Alda Merini e sono schegge di passato remoto. Le poesie aiutano, le poesie di Alda sono schiaffi di vita che Asia comprende molto bene. C'è un senso di ritorno che s' addice perfettamente a Venezia e alla Biennale. Il giorno dell'inaugurazione di Biennale Teatro, coincide non a caso con l'apertura di «Late Hour Scratching Poetry» l'appuntamento con le parole di Alda Merini, «irregolare, amatissima icona della poesia contemporanea. Un viaggio attraverso le sue memorie - da L'altra verità a Diario di una diversa fino alla La pazza della porta accanto - un flusso di pensieri tra pagine di diario, versi, lettere, annotazioni». 

A dare voce alla prosa lirica di Alda Merini la figura altrettanto anticonvenzionale di Asia Argento. «Solo angeli e demoni parlano lo stesso linguaggio, da sempre», scriveva Giorgio Manganelli nella prefazione de L'altra verità.

Ogni sera, per tutta la durata del Festival, Asia Argento e poi Galatea Renzi e poi Sonia Bergamasco (voci scelte dai direttori di Biennale Teatro Stefano Ricci e Gianni Forte), occuperanno a Venezia gli spazi esterni dell'Arsenale in nome e nelle parole di Alda Merini. Ad accompagnare lo spettatore, Demetrio Castellucci, con i suoi soundscape elettronici e djset. 

Asia ma la sua amicizia con Alda Marini?

«L'ho conosciuta negli Anni 90, ci avevano coinvolte in un progetto pubblicitario che non ricordo se andò mai in porto. Lei aveva scritto delle poesie su mie foto scattate da Ferdinando Scianna. Avevo 19 anni. Fumammo cento sigarette insieme. In quell'occasione mi aveva dettato due poesie che non trovo più dopo mille traslochi. Mi diceva, "tu, pallido cerbiatto"».

Come la ricorda?

«Un poeta rock che rompe gli schemi. Una sopravvissuta che ha saputo amare la vita in modo carnale. Un avvicendarsi di uomini, era adulata ma si scherniva, un'anima selvaggia». 

La sente affine?

«Mi sento figlia dei suoi cancelli aperti per tutti noi. Non sarei la donna libera che sono se non mi avesse spalancato la porta, come io dopo ho fatto per altri. Il cammino è oltre la porta e il nostro valore si valuta sulla capacità di superare gli ostacoli che le porte chiuse rappresentano». 

Merini aveva scritto che da tutta questa sofferenza aveva scoperto la potenza della vita. Anche lei?

«La sofferenza, la nascita, la malattia fanno parte della vita. Accettare e risorgere dalla sofferenza crea un potere sovrumano. È molto più facile stare nel dolore e nel rimorso perché lo si riconosce. È quasi confortevole stare male, è fatto noto. Complicato è riprogrammare il proprio cervello per conoscere la felicità. Io lo faccio pensando agli altri e meno a me, una soluzione per superare il mio egoismo infantile».

Lei ha detto che finalmente è uscita dalle dipendenze riappropriandosi di se stessa. È vero?

«Bisogna conoscere le dipendenze per sapere che una persona che è dipendente lo sarà per sempre. Io pratico e studio buddismo per scollegare i miei mondi bassi. Ma posso solo dire di essere in recupero. Da un anno non bevo e tengo a bada l'alcolismo. Ma non sono guarita. Ci sono dei traumi che molte persone vivono, viene a mancare il sistema di attaccamento e allora ci si affida all'alcol e alle droghe, fungono da ansiolitici. All'inizio funziona ma con il tempo diventano depressivi. Trasformare il veleno in medicina. Un lavoro quotidiano. "Per oggi ho fatto del mio meglio": me lo dico e sento grandi benefici».

Con sua madre, l'attrice Daria Nicolodi, era cominciata come compagne di bevute. Vero?

«Con mia madre ci siamo perdonate sul suo letto di morte. Il risentimento uccide. Liberarsene è la chiave per andare avanti altrimenti resti in un meccanismo atroce che impedisce l'evoluzione. Oggi certe brutte cose non definiscono quella che sono. Io ho perdonato lei e lei me di non essere stata una figlia migliore». 

Lei ha figli che l'hanno molto aiutata ma dei quali non vuole parlare, ma un compagno ce l'ha?

«Non sono pronta e non lo cerco, non voglio distrazioni dal mio focus». 

Che ora è soprattutto lavorativo giusto?

«Ho girato un film in Francia e un thriller in Belgio. I francesi sono sempre stati molto generosi con me. A breve ci sarà una retrospettiva sui miei film da regista alla Cinematheque francaise. E in Italia una serie su La storia di Elsa Morante. Sono felice, in Italia non lavoravo da anni. Stanno arrivando occasioni che oggi sono in grado di cogliere. Ho fatto chiarezza con me stessa. Faccio l'attrice da quando avevo 9 anni, non trovavo più il senso. Oggi dopo una pausa, ricomincio». 

Lei usa molto i social. Altra dipendenza?

«Ora cerco di usarli molto meno. È positivo il fatto che quando ho bisogno di dire qualcosa posso parlare direttamente su Instagram, senza intermediari. Ma non cerco seguaci e non racconto la mia vita. In passato era una droga infantile, ora ne faccio un uso mediatico».

Il #Metoo l'ha rovinata?

«E perché mai? Faceva parte del mio cammino e mi ha fortificata. Era un periodo atroce e ho fatto il mio dovere. Così quell'uomo orribile (si riferisce all'allora potentissimo produttore Harvey Weinstein che lei accusò di abusi nei suoi confronti senza mai nominarlo, ndr) ora è in prigione. In questo modo ho aiutato altre donne». 

In questi giorni sui giornali...

«Ho capito dove vuole andare a parare ma la prevengo: non dirò una parola su Johnny Depp e su Paul Haggis. Con il #Metoo si poteva fare di più ma c'è stata un'isteria collettiva che non ha aiutato». 

Lei in che spera? Nel successo?

«Spero di arrivare al cuore delle persone».

Anticipazione da "Oggi" il 15 giugno 2022.

Asia Argento sceglie OGGI, diretto da Carlo Verdelli, per una intervista esclusiva nella quale racconta la sua discesa agli inferi e la sua difficile rinascita senza alcol e droghe con un “protocollo della serenità”. 

«Sono felice. Di essere sopravvissuta. Di aver spezzato la catena di dipendenze che ha rovinato la mia vita. Avevo toccato il fondo», dice, raccontando che nel 2017 con le sue accuse al produttore Harvey Weinstein «è partito lo tsunami che mi ha travolta… una serie di eventi terribili culminati con l’ischemia di mia madre, la sua malattia, in pieno Covid, nel settembre 2020. Non potevo vederla. Un dolore straziante… sono ricaduta in una depressione di cui avevo sofferto in altri momenti della mia vita. Non riuscivo ad alzarmi dal letto, uscivo di casa solo per portarle vestiti. Quando è andata via, ho iniziato a star peggio. Bevevo molto… L’alcol era stato il terreno di incontro con lei, eravamo compagne di bevute. Dovevo liberarmi del risentimento per le violenze fisiche e psicologiche che mi aveva fatto quando ero bambina. Sul suo letto di morte le ho detto che la perdonavo, ma mi sono anche scusata per non essere stata la brava figlia che voleva».

E ancora: «Mettevo il bicchiere tra me e gli altri, per proteggermi. Da un anno non ho più bisogno di quel filtro… Ho elaborato il mio “protocollo della serenità”. È una routine. Medito la mattina, per focalizzare le energie sugli obiettivi della giornata, e la sera, per ringraziare. Oggi mi dicono che sono solare. Io che per tutti ero la “maledetta”».

A OGGI Asia Argento parla molto anche dei suoi rapporti sentimentali (««Non ho problemi con gli uomini, ma non voglio relazioni») e dei suoi due figli: «Sono completa. Ora ci posso essere davvero, per loro».

Da corriere.it l'11 giugno 2022.

Asia Argento ha festeggiato un anno trascorso sobria e ha deciso di condividere questo suo traguardo con un post sui suoi social. L’attrice ha scritto: «Oggi compio un anno di sobrietà. Per chi mi conosce, chi ha letto il mio libro, o semplicemente mi ha seguita in questi 37 anni di carriera e vita pubblica, sa che fin da quando ero una ragazzina ho cercato di colmare un vuoto innato dentro di me, fatto di paure, ego, e difetti di carattere, con l’abuso di droga prima, ed alcol poi. Ho provato ad annegare i dispiaceri nell’oblio ma dopo un po’ hanno imparato a galleggiare. I miei ansiolitici sono diventati dei depressivi».

L’aiuto del buddismo

Argento ha poi spiegato che la conquista della sobrietà non è per lei un fatto inedito: «Ero già stata sobria dal 2013 al 2016, ma poi ho avuto una ricaduta che è durata 5 anni in cui ho veramente toccato il fondo, in tutti sensi ma soprattutto spiritualmente. Un anno e mezzo fa, dopo la sofferenza per la perdita di mia madre, ho iniziato a praticare il buddismo di Nichiren Daishonin ed il mio karma ha iniziato a trasformarsi, così come i miei pensieri, azioni e parole.

Ho ritrovato il desiderio di smettere di farmi del male, di espandere la mia coscienza. Con l’aiuto del programma di recupero di AA ho trovato la serenità, dei nuovi scopi ed obiettivi, un giorno alla volta. Mi auguro che questo “coming-out” possa aiutare ed incoraggiare altri dipendenti che soffrono ancora. C’è una soluzione, se ne può uscire! Provo una gratitudine immensa, e ringrazio gli amici che percorrono con me la strada che porta verso la luce». 

L’anniversario della morte di Bourdain

La decisione di cambiare il corso della sua vita è arrivata tre anni dopo la morte del suo fidanzato, lo chef Anthony Bourdain. «Ho smesso di bere un giorno dopo il terzo anniversario della morte di Anthony — conclude il post —. Oggi mia sorella Anna avrebbe compiuto 49 anni. Dedico a loro il mio progresso, e prego per la loro pace».

Asia Argento con papà: «Se a 46 anni fossi ancora una “bad girl”, sarei morta». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022.

Fuori concorso al festival il nuovo film «Occhiali neri». Il regista Dario: torno al giallo con venature horror. Asia: è un buono, usa l’arte per esorcizzare la paura. 

BERLINO Dario e Asia Argento sono i due anarchici del cinema italiano. Di rado si fanno vedere in pubblico insieme. Eccoli alla Berlinale con la loro cruda innocenza. «Questo copione — racconta Dario — l’ha trovato Asia a casa mia, mentre cercava vecchie carte. Il lockdown mi ha spinto a riprenderlo e ad attualizzarlo, gli ho dato una frustata per lanciarlo al galoppo».

Al Festival portano Occhiali neri (nelle sale dal 24): Asia insegna ai non vedenti, Ilenia Pastorelli è l’escort perseguitata da un maniaco, diventata cieca dopo un incidente d’auto provocato dal pazzo che coinvolge una famiglia cinese: Ilenia fa amicizia con il bambino, unico sopravvissuto. «Lui le farà da padre», dice il regista, che torna «al giallo con venature horror».

È il loro sesto film insieme. Cosa ricorda del primo, Trauma ? «Avevo 13 anni e una grande paura di deluderlo, di non essere all’altezza; mi ha valorizzata ed è passata… Da lui ho ereditato una energia nervosa ma adesso è più sereno e anche io mi sono calmata. Ha scoperto la gioia dell’improvvisazione recitando in Vortex». «Ho fatto un scena di mezz’ora senza copione che è stata tagliata», dice lui. Asia sorride: «Sul set non c’è differenza tra me e le altre attrici, salvo che a fine giornata ci diamo un bacetto dandoci la buonanotte». Cosa vorrebbe avere di suo padre? «Le dico cosa non vorrei e che ci lega: la timidezza, che si trasforma in finta arroganza. E la solitudine». A che punto è la bad girl? «Me lo dicevano a 18 anni, ne ho 46 e se lo fossi ancora sarei morta o sarei diventata una baracconata mai vista. La gente evolve, cambia punto di vista. Mi piace pensare anche al bene, al buio accendo la luce e gli scarafaggi volano via, sta a noi cacciarli e concentrarci sul bene».

«In questo film — riprende Dario — ho pensato ai miei sogni e incubi, gli stessi di quando ero adolescente, coinvolgono i miei familiari». L’aspetto onirico è centrale nel suo cinema. «Ma quando papà parla di sogni e incubi sono visioni, è qualcosa difficile da spiegare. Anch’io ho delle visioni, un mondo interiore ricco a volte con cose che non si possono raccontare, altre volte con dell’humour che si annida nel buio e nell’oscurità, da papà ho imparato a non esserne spaventata. È un buono che esorcizza la paura con l’arte, non deve fingere di essere perfetto e invece qui fuori è pieno di gente razzista e omofoba». Asia, e quando accusarono suo padre di misoginia perché fa ammazzare le donne nei film... «Una stupidaggine, anzi, ha esaltato le donne, sono le eroine che sconfiggono il male in una femminilità mai stereotipata». Il più grande insegnamento del padre è quando andò a vivere da sola a 18 anni e lui disse: ora anche con i soldi devi cavartela da sola.

Tutti la chiamano maestro, però riconoscimenti veri… «Ho avuto soddisfazioni ma solo un David alla carriera. L’Oscar mi manca». «Magari si ravvederanno — interviene Asia —. Oggi agli Oscar si premiano film politically correct. Niente dissacratori». «È vero — dice Dario —, il cinema è conformista e ipocrita». Perché dopo gli uccelli e i gatti dei suoi titoli, i thriller si sono riempiti di tarantole, lucertole, scorpioni… «Eh, mi hanno copiato, pensano che mettendoci dentro un animale i loro film sono simili ai miei». E quando li rivede? «Sono a disagio, aspetto che si sedimentino in me e che mi diano delle risposte. Ci metto uno o due anni». E nella parte del nonno com’è? «L’affetto per i miei nipoti c’è ma non sono così presente, sono preso da tante cose, e anche loro».

Giulio De Santis per corriere.it il 21 gennaio 2022.

«Il momento più difficile è stato quando i miei figli mi hanno chiesto perché qualcuno mi chiamasse prostituta. Ma hanno capito. Ora sono serena. Ma sono stati mesi bui».

Cosi l’attrice Asia Argento, 46 anni, ricorda davanti al giudice il dolore provato dopo le opinioni espresse da Mario Adinolfi, ex deputato, giocatore di poker, 50 anni, sotto processo con l’accusa di averla diffamata in una serie di post e articoli, il primo su Facebook, poi ripreso da una testata online con il titolo «Asia Argento? È prostituzione». 

Nel testo l’ex parlamentare commentava - per la Procura con toni tali da offendere l’onore e il decoro dell’attrice - gli abusi sessuali commessi su di lei da Harvey Weinstein, il produttore cinematografico condannato nel 2020 per violenza sessuale. Il primo articolo di Adinolfi, difeso dall’avvocato Francesco Zilli, è del 18 ottobre 2017. 

Pochi giorni prima, il 6, un’inchiesta del New York Times aveva svelato le molestie ai danni di alcune attrici, tra cui Ashely Judd, compiute da Weinstein negli anni ‘90. Il 10 ottobre anche Asia Argento trova il coraggio di rivelare in un’intervista a Ronan Farrow, figlio di Woody Allen e di Mia Farrow, gli abusi subiti dal produttore in gioventù. In quei giorni nasce il movimento MeToo contro le violenze subite dalle donne sul lavoro.

Adinolfi decide di esprimere un parere sulla vicenda dell’attrice. Prima su Facebook, che lo bloccherà. Poi in un articolo sul suo giornale, dai contenuti simili a quello sul social network e intitolato «Un caso per riflettere sulla dignità», dove sostiene che «aver subito le attenzioni controvoglia del regista, senza reagire e denunciare, è stato senza dubbio un errore» e aggiunge che «il maschio è un porco ma quella è prostituzione». Pareri ripetuti su Twitter quando «cinguetta» che «quella dell’attrice era prostituzione d’alto bordo».

Parole che hanno ferito Asia Argento, costituitasi parte civile con l’avvocato Ervin Rupnik, come ricorda davanti al pm Gianluca Mazzei: «Leggere certe posizioni mi ha fatto male, mi sono chiusa in me stessa. Spiegare ai miei figli cosa stesse accadendo è stato duro, ma hanno compreso. Grazie a loro e a chi mi vuole bene, mi sono risollevata. È stato un percorso doloroso. Ma rifarei tutto. Ancora adesso, dopo 4 anni, aspetto che Adinolfi si scusi». L’ultimo passaggio l’attrice lo dedica alla stampa: «A volte ho avuto l’impressione di essere stata più compresa dai media stranieri, che da alcuni italiani». 

Arianna Finos per “la Repubblica - Robinson” il 23 gennaio 2022.

Viaggio nei Settanta di Dario Argento, il decennio che l'ha visto debuttare e trasformarsi in uno dei maestri dell'horror mondiale. Un libro e due retrospettive organizzate da Cinecittà, una delle quali al Lincoln Center di New York, sono l'occasione di una conversazione con il regista 81enne che, oltre mezzo secolo dopo il debutto, sta per consegnarci un nuovo film da regista, Occhiali neri. 

Com’era Dario Argento nel 1970?

«Uno che veniva dal giornalismo, dalla critica. Fu difficile debuttare. Ci misi un anno, con mio padre che era il produttore, per trovare i fondi. L'uccello dalle piume di cristallo se lo vedi oggi è bizzarro, non è un giallo o un poliziesco, è un film pazzoide e allora non se ne facevano, con questo gusto dell'immagine. L'ho girato in sei settimane, avevo un storyboard preciso. Per evitare ingerenze, per la fotografia volli un quasi debuttante, Vittorio Storaro». 

Come vi siete trovati?

«Era un ragazzo pieno di interessi, diverso da oggi che è concentrato sui grandi pittori. Era bello lavorarci. Ma non è successo più è andato in America, ha vinto Oscar... Quando ha curato il restauro del film ne ha cambiato i colori, aggiungendone altri. Dal capo della società francese con cui abbiamo lavorato so che in molti hanno protestato. Anch' io preferivo l'originale».

Com' è andata con Morricone?

 «La prima volta che andai a casa sua si offese da morire. Mi abitava vicino, entrai in salotto e mi guardò con aria torva, notando che avevo sottobraccio un pacco di dischi d'epoca. "Cosa sono?", idee per ispirarci, risposi. "Ma a chi mi devo ispirare? Butta via quella robaccia". Improvvisò gran parte della musica con il suo gruppo, lui suonava la tromba, seguendo le scene». 

Già dal debutto si capiva che lei voleva fare di testa sua

«Sì. I miei film li ho scritti, immaginati e coprodotti con mio padre, ero il totale padrone. Anche quando ho lavorato in America». 

Il suo cinema è stato omaggiato dalle cinemateche di tutto il mondo. Il libro di Steve Della Casa "Dario Argento, due o tre cose che sappiamo di lui" è in inglese e italiano, a giugno al Lincoln Center di New York ci sarà la retrospettiva dei suoi film, restaurati da Cinecittà.

«Fin dal primo film cercavo platee diversissime. Non mi interessava il solito cinema italiano che si rivolge a se stesso, al proprio pubblico. L'uccello dalle piume di cristallo fu per due settimane al primo posto negli incassi negli Stati Uniti, cosa irripetibile per un nostro film». 

Ha scelto spesso attori stranieri. Con Tony Musante andò male.

«Per fortuna ho avuto solo due contrasti drammatici, con lui e con Cristina Marsillach in Opera. Ricordo che la mattina entravo in macchina per andare alla De Paolis per L'uccello dalle piume di cristallo con il terrore per cosa si sarebbe inventato sul set. Diceva che ero un debuttante e gli dovevo obbedire. Gli facevo ripetere le battute cinquanta volte, finché per sfinimento faceva come dicevo io. Il film ebbe successo e lui mi chiamò, "Dario che bel lavoro abbiamo fatto". Io: Tony, ricordi che abbiamo litigato per tutto il set e l'ultima sera sei venuto a cercarmi a casa per menarmi? E lui: "Non ricordo..."». 

I Settanta sono stati gli anni di piombo, del cinema politico. Nella sua biografia "Paura" scrive "il caos che governa il destino degli uomini non mi ha mai contaminato".

«Allora critica e colleghi mi consideravano un reietto. Quando uscì Suspiria, in una importante sala milanese, ci fu una marcia di Autonomia operaia, con gli spray scrissero nell'atrio " l'assassina è la direttrice". Corremmo a cancellarli». 

Come ha vissuto quel decennio?

«Avevo amici di sinistra, come Nanni Palestrini, siamo stati molto insieme. Da una parte vivevo con il mio animo e il mio istinto che seguiva la sinistra che protestava e si batteva, ma dall'altra, quando facevo i film, ero assolutamente apolitico, anche se nei miei lavori si trovano temi di giustizia sociale. Però rifiutavo di immettermi nella strada del cinema di denuncia. Anche da critico al Paese sera, il direttore Fausto Coen mi lasciava dei biglietti: "Siamo un giornale per il popolo, dobbiamo fare politica, non puoi dire che Per un pugno di dollari è uno dei più bei film italiani degli ultimi vent' anni».

Le femministe non la amavano.

«Alcune dicevano che ammazzavo le donne. Errore di valutazione. Le donne erano le mie protagoniste. Con mia figlia Asia ho fatto cinque film, poi Suspiria, Phenomena, tutti avevano un'impronta femminile. Sono stato plasmato da mia mamma, fotografa di attrici. Sul set con gli uomini ero imbarazzato, quando la mattina vado a lavorare con le attrici sono felice. In Occhiali neri a Ilenia Pastorelli ho dato spazio alla sua personalità. È stata molto brava». 

Un film politico lo ha fatto, " Le cinque giornate", nel '73.

«Per carità. Il regista si tirò indietro quando tutto era pronto papà disse: "Così falliamo". Fu Adriano Celentano a insistere, "Fallo tu". Gli sono affezionato, andavo in casa sua a Milano, quando fuggivo da Roma e da una donna che mi perseguitava. La sera con un amico in cantina faceva il rock con le parole inventate. Nelle pause del set suonava la chitarra per comparse e passanti. È pure un bravo regista, basta guardare Yuppi Du». 

Si era ispirato al Maggio francese, le diedero del qualunquista.

«I giornali di sinistra mi diedero dell'anarco fascista, sì. Cosa non vera. Profeticamente Balestrini, che collaborò al film, quando lo vide me lo disse, ma non gli credetti». 

Disse che smetteva come regista, poi ha girato" Profondo rosso".

«Ero rimasto così male per l'accoglienza che per stare tranquillo pensai di limitami a scrivere e produrre. Poi ebbi un sogno che mi fece cambiare idea e tornai ai film che facevo prima». 

In quel film ha lanciato i Goblin.

«Avevano vent' anni, me li suggerì l'editore musicale Carlo Bixio. Ogni notte dopo il set ci trovavamo a casa mia, sentivamo i loro pezzi. Ho lavorato con i grandi, da Bill Wyman a Brian Eno. Le musiche di Occhiali neri sono del francese Arnaud Rebotini, consigliato da Gaspar Noé».

I Settanta sono stati gli anni del connubio tra droga e arte. Per la prima volta lei assunse cocaina.

«Non mi ha influenzato mai. Mi dava una certa energia, ma dopo poco tempo il mio fisico si è rivoltato, ogni volta che la prendevo vomitavo, ho smesso per sempre».

Il suo rapporto con la moda?

 «Ero amico di Armani e degli altri stilisti, mi vestivo dalle bancarelle». 

Nel '78 produsse "Zombie" di George Romero.

«Siamo stati grandi amici, pur diversi per stile e pensiero. Lui era cattolico integralista di sinistra. Io sono credente da quando è morto papà». 

"Zombie" criticava il consumismo.

 «Sì, ma all'epoca i critici non gli dettero peso. Invece ha influenzato ogni film di zombie e l'horror politico è una tendenza contemporanea, dal film Us alla serie Walking Dead ».

A fine Settanta lei è passato dal thriller all'horror.

«Ma la commistione c'era già. Da seguace di Edgar Allan Poe, i miei film hanno sempre i suoi pensieri maledetti». 

Ha ancora un pubblico giovane.

«È vero, le mie retrospettive sono piene di ragazzi. È il mistero dei miei film, il susseguirsi di generazioni».