Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LE RELIGIONI

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE RELIGIONI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Dei.

La Superstizione.

L’Esorcismo.

Il Satanismo.

La Stregoneria.

La Cartomanzia.

L’Immacolata Concezione.

Santa Lucia.

Il Natale.

Epifania e Befana.

La Candelora.

I Riti della Settimana Santa.

I Miracoli.

I Dieci Comandamenti.

San Francesco.

San Pio.

San Gennaro.

Il Santo Graal.

Le Formule di Rito.

La Mattanza dei Cristiani.

Cristiani contro Cristiani.

Il Papa Beato.

Il Papicidio.

Il Papa Emerito.

Il Papa Comunista.

Il Papa Fascista.

La Papessa.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Santa Teresa di Calcutta.

Il Vaticano e la Comunicazione.

Il Concilio.

Il Concistoro.

Il Sinodo.

La CEI. Conferenza Episcopale Italiana.

La Pontificia Accademia per la Vita.

Le Riforme.

Comunione e Liberazione.

Comunità di Sant’Egidio.

Scandali Vaticani.

Le Donne dei Papi.

I Preti e le Suore.

Il matrimonio.

Il Vaticano e l’Aborto.

La Chiesa e gli Lgbtq.

Il Vaticano e l’Immigrazione.

Il Vaticano e l’Italia.

Le Sette.

Il Panteismo.

I Testimoni di Geova.

Scientology.

L’Ebraismo.

Lo Zoroastrismo.

L’Islam ed il Terrore.

L’Islam e le Donne.

L’Islam e la Finanza.

L’Islam ed i social.

 

 

  

 

 

LE RELIGIONI

SECONDA PARTE

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Santa Teresa di Calcutta.

Un documentario su Madre Teresa a 25 anni dalla morte. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Settembre 2022.

Il 5 settembre 1997 moriva Madre Teresa di Calcutta, proclamata santa nel 2016. Ma chi è stata questa donna? Una grande paladina della carità? Una coraggiosa madre dei poveri? L’autorevolezza e il carisma di questa piccola suora dal luminoso sorriso erano straordinari, come il lavoro con le sue Sorelle Missionarie della Carità a Calcutta in India e poi in tutto il mondo. A 25 anni dalla morte, Rai Cultura la ricorda con il doc «Santa Teresa di Calcutta» in onda oggi alle 19 su Rai Storia.

«La santità - diceva Madre Teresa - non è un privilegio di pochi. È un semplice dovere per voi, per me. Se vi sono poveri nel mondo è perché voi ed io non diamo abbastanza». Il documentario - firmato da Antonia Pillosio - è realizzato partendo da spunti biografici inediti suggeriti dal Cardinale Angelo Comastri, Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano e Arciprete della Basilica di San Pietro, suo amico personale, dal vaticanista Saverio Gaeta, da Padre Brian Kolodiejchuk, postulatore della sua causa di beatificazione e direttore Centro Madre Teresa e da Suor Mary Prema, la nuova Superiora generale delle Missionarie della Carità. Un giorno - racconta il Cardinale Comastri - un fotografo famoso le chiese: «Madre, io vorrei cogliere i segreti di questi occhi. Perché i suoi occhi sono così felici? Io ho fotografato attori, attrici, ma non ho mai visto occhi così felici.» «La risposta della Madre fu un capolavoro: se vuole sapere il segreto è molto semplice: i miei occhi sono felici perché le mie mani asciugano tante lacrime. Faccia così anche lei». E Gaeta aggiunge: «Credo che sia una di quelle persone che tutti considerano oggi diciamo Santa, ma la considerano Santa a prescindere dal fatto religioso. È stata un modello perché ha rappresentato effettivamente quello che è il cuore dell’uomo quando vuol rispondere al bisogno degli altri».

·        Il Vaticano e la Comunicazione.

Dagonews il 5 luglio 2022.

Tra fine giugno e inizio luglio Papa Francesco ha concesso, sua sponte e senza ovviamente avvertire il cosiddetto Dicastero della Comunicazione, tre interviste importanti. La prima è stata all'agenzia argentina Telam, la seconda all'agenzia tedesca Reuter e la terza (il 26 giugno) al giornalista spagnolo Jordi Evole, molto noto in Spagna per il suo programma Salvados, che si occupa di attualità con inchieste e interviste a personaggi chiave del nostro tempo.

In Spagna, è conosciuto anche con il soprannome di "el follonero", che si traduce anche come "lunatico" oppure "piantagrane". Evole ha già intervistato Papa Francesco due volte e le interviste sono andate in onda sulla tv spagnola La Sexta. Il 26 giugno si è presentato in Vaticano con una comitiva di 10 "esclusi", compresi una transessuale e una pornodiva, e ha registrato quattro ore di televisione dove il Pontefice rispondeva liberamente alle domande che i suoi dieci interlocutori gli ponevano altrettanto liberamente. 

Il programma, diviso in quattro puntate, andrà in onda in autunno su uno dei canali news della Disney. Agli occhi di Papa Francesco, Jordi Evole ha un grande pregio: non è per nulla intimorito da quei cattolici di professione che, facendo credere agli ingenui di essere "il Vaticano" o, addirittura, di parlare "a nome del Papa", riescono a monetizzare anche gli sforzi che il Papa fa per non averli più tra i piedi.

Classico il caso del documentario "Francesco" di Evgeny Afineevsky andato in onda il 21 ottobre 2020: era un fritto misto di spezzoni dell'intervista al Papa di Valentina Alazraki per l'emittente messicana Televisa. In teoria le immagini non erano di proprietà vaticana, eppure qualcuno (tramite la rete delle strane società che producono finte esclusive e "speciali" ordinari sul Papa da rivendere a caro prezzo grazie agli "amici degli amici") è riuscito a farle uscire dalle teche vaticane perché, come si sa, nessuno può criticare chi dice di "parlare" a nome del Papa. Con Evole il giochetto non è mai riuscito e certamente non riuscirà neanche questa volta, perché mica si è un "follonero" per niente. E il Papa, certamente, gode.

Da ilsismografo.blogspot.com il 7 Luglio 2022.

(L.B., R.C. - a cura Redazione "Il sismografo") Andrea Tornielli, editorialista del Dicastero per la comunicazione, vaticanista di lunga data, ha firmato su Vatican News e sull'Osservatore Romano, martedì 5 luglio scorso, un ampio testo intitolato «Giraud sulla guerra in Ucraina: 'Negoziato, o sarà distruzione' totale». 

L'articolo-intervista nella sua apertura sottolinea: "A colloquio con il gesuita economista francese - padre Gaël Giraud - dopo le parole di Papa Francesco all’Angelus di domenica 3 luglio: “Proprio per evitare esiti disastrosi, che potrebbero portarci a un nuovo conflitto mondiale, è assolutamente necessario arrivare a una tregua e poi alla pace”.

Sotto traccia...

Questa conversazione, domande e risposte, è molto interessante e utile per capire - indagando sotto traccia - molti umori, suggestioni e opinioni che attraversano in profondità il mondo cattolico, soprattutto europeo e nordamericano, di fronte all'aggressione armata di Putin contro l'Ucraina. Questo mondo oggi, dopo 134 giorni di guerra, appare più come un arcipelago, come un luogo frantumato, abitato da disorientamenti, perplessità e interrogativi senza risposte. 

Fra tante prese di posizione, sia nelle domande che nelle risposte, alcune sono singolari come quando, per esempio p. Giraud nel suo sacco di bellicisti che vogliono la guerra trovano posto tutti, ma - attenzione! - non Putin che è all'origine del conflitto secondo lo stesso gesuita. Oppure quando Tornielli scrive che il Papa è una delle "poche voci che si è alzata in favore della pace e del negoziato".

Non è proprio così. L'elenco di persone rilevanti e autorevoli che in tutto il mondo e di tutte le religioni che hanno chiesto sempre la pace e il fine della guerra, e che hanno distinto con trasparenza l'aggressore dall'aggredito, è lunghissimo. Andrebbe ricordato inoltre che il gesuita Giraud parla a favore dell'indipendenza del Donbass e della Crimea e legittima un referendum truffaldino, e tutto ciò a pochi giorni dalle parole di mons. Paul Richard Gallagher che a nome della Santa Sede e del Papa ha difeso con fermezza e chiarezza l'integrità territoriale dell'Ucraina.

Alla fine però ciò che si presenta come del tutto insolito e inedito nei tanti decenni di storia dei media vaticani è la nota che Tornielli ha aggiunto al suo articolo pubblicato sull'Osservatore Romano e su Vatican News: "I media vaticani avviano una serie di approfondimenti sulle parole di Papa Francesco sulla guerra in Ucraina e sulle possibili soluzioni per un negoziato: gli intervistati esprimono le loro opinioni che non possono pertanto essere attribuite alla Santa Sede." 

E' sorprendente questa nota, anzi è 'storica'. Non si era mai visto che i media vaticani assumessero una simile posizione di fronte a materie discusse e discutibili, in particolare nel caso di questioni dottrinarie, eticamente sensibili o temi politici e culturali controversi. Siamo veramente di fronte a qualcosa d'indefinibile e inafferrabile, che appare un nonsenso assoluto, forse un effetto collaterale dei cambiamenti climatici.

I media vaticani hanno sempre evitato, con metodo e severità, di dare voce a ciò che era l'opposto di quanto dice il Papa, la Santa Sede, la Chiesa e la sua gerarchia o che non rientra nel pensiero o punto di vista della Santa Sede o del magistero del Vescovo di Roma. Questi media, fino ad oggi, quando hanno riferito un pensiero o punto vista contrario a quelli del Papa e della Sede Apostolica lo hanno riassunto o citato per confutarlo, non per amplificarlo o screditarlo. Questi media hanno come missione specifica e principale quello di spiegare, divulgare e rendere comprensibile l'agire e il magistero della Chiesa. Null'altro! 

Non vogliamo esperti che ci spiegano le ragioni di Putin

Ai media vaticani nessuno ha mai chiesto di essere stampa pluralista, tanto è così che lo stesso Papa Francesco in tre occasioni ha chiamato l'Osservatore Romano "il giornale del Partito", per dire con sarcasmo che è un vettore "che può sbagliare ma è sempre autorevole seppure non ufficiale". E migliaia di persone che hanno lavorato oltre 160 anni (per il giornale) e oltre 90 anni (per la radio) in questo settore della Santa Sede conoscono molto bene cosa sono e cosa non sono questi due vettori per la comunicazione del Pontefice. 

Basterebbe ricordare il caso del vice Direttore dell'Osservatore Romano, mons. Virgilio Levi, licenziato quasi in tronco, in un passaggio molto delicato della vita di Lech Walesa in occasione del dialogo tra Giovanni Paolo II e il generale Wojciech Jaruzelski (Presidente della Polonia 1989 - 1990), e che il presbitero commentò con parole che sembrarono un "ben servito" al leader sindacale polacco. Papa Giovanni Paolo II fece sapere a don Virgilio: 'Se tu lo pensi, caro Virgilio, va bene, è legittimo, nella chiesa ci sono opinioni diverse, ma l'Osservatore Romano pensa e dice quanto pensa e dice il Papa'.

Dunque affrontando la questione si sta parlando specificamente della missione e del ruolo dei vettori mediatici al servizio del ministero del Papa, della Sede Apostolica e della sua diplomazia, di ciò che è legittimamente il punto di vista e la visione della Chiesa Cattolica, a prescindere dall'essere o non essere d'accordo. 

Detto in parole povere: non aspettiamo sull'Osservatore Romano un articolo per difendere le ragioni di Putin o sul perché ha aggredito l'Ucraina. Non aspettiamo esperti 'neutrali' che dicano dalle pagine dell'Osservatore perché l'Occidente è decadente. Non vogliamo studiosi ospiti dell'Osservatore Romano che provano a convincerci che è meglio lasciar perdere e accompagnare gli ucraini verso la resa. Non vogliamo ambasciatori russi che ci spiegano e profilano la "nuova" Europa.

·        Il Concilio.

Papa Roncalli, il Concilio visto da vicino. Orazio La Rocca su La Repubblica l'1 ottobre 2022.

Concilio Vaticano II 

A sessant’anni dall’evento che ha riformato la Chiesa il nipote di Giovanni XXIII ne racconta i retroscena e le sfide

Cardinali divisi, Curia pontificia spaccata, persino il segretario papale "perplesso e contrario". Non viene accolta bene in Vaticano l'idea di Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli) di indire il Concilio quando lo annuncia 2 giorni dopo l'elezione al Soglio, il 28 Ottobre 1958. Segno evidente che la "voglia" di rinnovare la Chiesa gli era nata anni prima ed era sua ferma intenzione avviare il nascente Pontificato con l'immediato varo delle riforme conciliari.

·        Il Concistoro.

Da veritaeffari.it il 4 settembre 2022.  

Con quale mezzo si deve andare al Concistoro, da papa Bergoglio? È stato anche questo uno dei tanti problemi dei cardinali: per arrivare in Vaticano, con questo pontefice, non si può mica scegliere una vettura lussuosa. 

Mica si può fare come una volta, quando si scendeva da una Mercedes S nera appena uscita dal lavaggio a mano. Papa Francesco usa mezzi semplici, a cominciare dall’amata Ford Focus, ma anche la Fiat Panda a lui piace tanto: le utilitarie sono la sua passione.

E allora che si fa? In molti hanno imitato la scelta minimalista del Santo Padre, magari facendosi accompagnare da un sacerdote amico con una macchina scalcagnata, altri hanno preferito un anonimo taxi per non essere notati. 

Alcuni però non si sono persi d’animo, come chi è arrivato a bordo di una Bmw, ma sporchissima, tanto che la vernice sembrava opaca. Con una targa “Cv” molto rovinata. Sono passati i tempi del cardinale Tarcisio Bertone, che andava anche a visitare la fabbrica della Ferrari, quando c’era Luca Cordero di Montezemolo, benedicendo le fuoriserie destinate ai miliardari di tutto il mondo.

DAGOREPORT l'1 settembre 2022.  

Per parlare in modo chiesastico, si potrebbe dire “contra facta non sunt argumenta’’: contro i fatti, non servono chiacchiere. Il 29 e 30 di agosto il Papa ha riunito a Roma il concistoro, cioè il collegio dei cardinali, il “senato papale” che lo deve aiutare nel governo della Chiesa. 

Papa Francesco non aveva convocato un concistoro dal 2014 (è stato eletto nel 2013), fedele al principio che ai guai di Santa Romana Chiesa avrebbe posto rimedio lui e il suo “cerchio marcio” composto da improvvisati (e improvvisate) menti nuove e bene intenzionate.

Come previsto, questa volta i cardinali si erano presentati pronti a agguerriti con osservazioni puntute contro diversi punti della costituzione apostolica “Praedicate Evangelium”, il topolino menomato nato dalla montagna di chiacchiere con la quale, dal 2013, era stata più volte annunciata e poi rimandata. 

In concistoro il Papa non si è presentato: si è fatto vedere brevemente il pomeriggio, in un paio di “circoli linguistici”, per un breve saluto. E neanche si è presentato il vescovo Mellino che, avendo compreso che i porporati non avevano nessuna voglia di ottemperare alla sua richiesta di non fare interventi e neanche porre domande (perché rischiava di far capire a tutti che tra lui e il diritto canonico esiste una totale incomprensione) ha preferito restare chiuso in casa con il telefono spento.

C’è stato solo l’invito a depositare gli interventi scritti la cui lettura è stata rimandata alle calende greche. E sin da primo giorno, i cardinali più agguerriti non temevano di fare sentire a tutti espressioni tipo “è una pagliacciata”, “vogliono tappare la bocca ai cardinali” e altre espressioni meno riferibili.

Per accontentare il Papa che non li voleva vedere, buona parte dei porporati hanno disertato pranzo e cena nel refertorio di Santa Marta e hanno sciamato verso i ristoranti di Borgo. Persino i media vaticani (occupati a Venezia a fare finta di essere entusiasti dei film di Abel Ferrara e Gianfranco Rosi: business first, l’anno santo si avvicina) hanno volato basso nel riferire il clima dentro il concistoro.

Si sono limitati ad esibire il cardinale honduregno Maradiaga e l’italiano Lojudice (due focolarini ardenti) mentre dicevano quanto fosse stato bello potersi conoscere visto che i porporati “abitano lontano” tra loro. Nel frattempo, in rete sono apparsi gli appunti del cardinale Burke (due note) e quelli del grande storico della Chiesa e del diritto il cardinale Brandmüller. 

Qualcosa deve aver capito anche il Papa e, prima che diventi più rancoroso e vendicativo che pria, ha evitato di leggere ai cardinali l’organigramma delle nomine della sua curia romana sfascista. Intanto, dopo che l’arcivescovo di Milano ha dato il via (il suo “intermezzo” a Como il 31 agosto viene giudicato in Vaticano come arguto, sagace, umile e semplice), le altre esternazioni arriveranno, di sicuro.

Settimo Cielo di Sandro Magister, su magister.blogautore.espresso.repubblica.it il 31 agosto 2022. 

Queste sopra sono alcune righe autografe dell’intervento preparato dal cardinale Walter Brandmüller per il concistoro del 29 e 30 agosto, che non gli è stato consentito di pronunciare, pubblicato integralmente in questa pagina di Settimo Cielo.

Il concistoro vedeva riuniti i cardinali con papa Francesco. Era a porte chiuse, ma soprattutto è stato scomposto, per volere del papa, in gruppi linguistici, impedendo con ciò un dialogo diretto e tra tutti, come era in effetti avvenuto nell’ormai lontano febbraio del 2014, nell’ultimo concistoro in piena regola convocato da Francesco, in vista del sinodo sulla famiglia e sulla “vexata quaestio” della comunione ai divorziati risposati, concistoro rivelatosi talmente franco nel criticare l’impostazione voluta dal papa da indurlo a cancellare da lì in avanti convocazioni dei cardinali altrettanto libere e aperte all’ascolto.

Brandmüller, 93 anni, tedesco, una vita da storico della Chiesa e presidente dal 1998 al 2009 del pontificio comitato di scienze storiche, non è nuovo a proposte riguardanti il ruolo dei cardinali nella Chiesa cattolica. Meno di un anno fa aveva già avanzato su Settimo Cielo un’ipotesi di riforma dell’elezione dei papi a suo giudizio più consona alle origini storiche e ai fondamenti teologici del cardinalato (meno elettori e più eleggibili).

Ma in questo concistoro, l’intervento da lui preparato ha preso di mira soprattutto il rapporto che dovrebbe legare al papa i cardinali, di fatto da lui ammutoliti, all’opposto di quello che invece dovrebbe avvenire, in primo luogo sulle verità di fede e di morale.

L’intervento del cardinale Walter Brandmüller per il concistoro del 29-30 agosto 2022

La convocazione di un concistoro dopo tanto tempo motiva una riflessione sulla natura e il compito del cardinalato, soprattutto nelle circostanze attuali. Bisogna pure sottolineare che i cardinali non sono soltanto membri del conclave per l’elezione del sommo pontefice. 

I veri compiti dei cardinali, indipendentemente dalla loro età, sono formulati nei canoni 349 e seguenti del codice di diritto canonico. Vi si legge: “assistono il romano pontefice sia agendo collegialmente quando sono convocati insieme per trattare le questioni di maggiore importanza, sia come singoli, cioè nei diversi uffici ricoperti prestandogli la loro opera nella cura soprattutto quotidiana della Chiesa universale”. E al papa “prestano principalmente aiuto nei concistori” (canone 353).

Questa funzione dei cardinali anticamente trovò espressione simbolica, cerimoniale, nel rito di “aperitio oris”, di apertura della bocca. Esso significava infatti il dovere di pronunciare con franchezza la propria convinzione, il proprio consiglio, soprattutto nel concistoro. Quella franchezza – papa Francesco parla di “parresía” – che all’apostolo Paolo fu particolarmente cara. 

Per ora, purtroppo, quella franchezza viene sostituita da uno strano silenzio. Quell’altra cerimonia, della chiusura della bocca, che seguiva alla “aperitio oris”, non si riferiva alle verità di fede e di morale, ma ai segreti d’ufficio. 

Oggi però bisognerebbe sottolineare il diritto, anzi, il dovere, dei cardinali di esprimersi chiaramente con franchezza proprio quando si tratta delle verità di fede e di morale, del “bonum commune” della Chiesa. 

L’esperienza degli ultimi anni è stata tutt’altra. Nei concistori – convocati quasi solo per le cause dei santi – venivano distribuite schede per chiedere la parola, e seguivano degli interventi ovviamente spontanei su qualsiasi argomento, e basta. Non c’è stato mai un dibattito, uno scambio di argomenti su un tema preciso. Ovviamente una procedura del tutto inutile. 

Un suggerimento presentato al cardinale decano di comunicare in anticipo un tema per la discussione affinché si potessero preparare eventuali interventi rimase senza riscontro. Insomma, i concistori da almeno otto anni finivano senza qualsiasi forma di dialogo. 

Il primato del successore di Pietro, però, non esclude per niente un dialogo fraterno con i cardinali, i quali “sono tenuti all’obbligo di collaborare assiduamente col romano pontefice” (canone 356). Quanto più gravi e urgenti sono i problemi del governo pastorale, tanto più necessario è il coinvolgimento del collegio cardinalizio. 

Quando Celestino V, nel 1294, rendendosi conto delle circostanze particolari della sua elezione volle rinunciare al papato, lo fece dopo intensi colloqui e col consenso dei suoi elettori. 

Una concezione dei rapporti tra papa e cardinali del tutto diversa fu quella di Benedetto XVI,  che – caso unico nella storia – la sua rinuncia al papato, per motivi personali, la fece all’insaputa di quel collegio cardinalizio che lo aveva eletto. 

Fino a Paolo VI, che aumentò il numero degli elettori a 120, c’erano soltanto 70 elettori. Questo aumento del collegio elettorale a quasi il doppio era motivato dall’intenzione di andare incontro alla gerarchia dei paesi lontani da Roma e onorare quelle Chiese con la porpora romana. 

La conseguenza inevitabile era che venivano creati dei cardinali i quali non avevano nessuna esperienza della curia romana e perciò dei problemi del governo pastorale della Chiesa universale. 

Tutto ciò ha delle conseguenze gravi quando questi cardinali delle periferie sono chiamati all’elezione di un nuovo papa.

Molti, se non la maggioranza degli elettori, non si conoscono a vicenda. Ciononostante sono lì ad eleggere il papa, uno tra loro. È chiaro che questa situazione facilita le operazioni  di gruppi o ceti di cardinali per favorire un loro candidato. In questa situazione non si può escludere il pericolo di simonia nelle varie sue forme. 

Alla fine, mi pare che meriti una seria riflessione l’idea di limitare il diritto di voto nel conclave, per esempio, ai cardinali residenti a Roma, mentre gli altri, sempre cardinali, potrebbero condividere lo “status” dei cardinali ultraottantenni. 

Insomma, pare auspicabile che carica e competenza del collegio cardinalizio vengano aggiornate.

Consistorium Extraordinarium Cardinalium

“Incontro sulla nuova Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium”

Aula nuova del Sinodo Città del Vaticano 29-30 Agosto 2022

OSSERVAZIONI SUL RAPPORTO TRA L’UFFICIO PETRINO E IL SERVIZIO DELLA CURIA ROMANA 

Il Preambolo della Costituzione Apostolica Praedicate evangelium insiste principalmente sulla missionarietà e sinodalità della Chiesa come qualità della vita ecclesiale e sembra far derivare da questa impostazione la struttura della Curia Romana.

Si tratta di due caratteristiche conosciute, ma la loro elevazione a criteri fondamentali della Curia Romana si presta ad ambiguità e a equivoci che devono essere riconosciuti e dissipati. 

Missionarietà 

È giusto affermare che tutta la Chiesa è missionaria. Tutti i fedeli sono chiamati, secondo la loro vocazione e le loro doti personali, a dare testimonianza a Cristo nel mondo. Ma nel dare testimonianza a Cristo, i fedeli necessitano dell’incontro con Lui vivo nella Chiesa attraverso la Sacra Tradizione, che è dottrinale, liturgica e disciplinare. Necessitano buoni Pastori – il Romano Pontefice e i Vescovi in comunione con Lui, insieme con i sacerdoti, principali cooperatori dei Vescovi – che li guidino a Cristo e salvaguardino per loro la vita in Cristo, specialmente per l’insegnamento della sana dottrina.

È infatti l’insegnamento della verità che fa crescere la vita in Cristo di ogni fedele e di tutta la Chiesa. Come ci insegna San Paolo, nella Chiesa non siamo più “fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore”, ma “agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo” . 

Secondo il costante insegnamento della Chiesa, Cristo istituì l’ufficio Petrino perché tutti i Vescovi e, così, tutti i fedeli siano uniti nella fede . Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, dichiarò: “Affinché lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, [Gesù Cristo] prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione” . Così il Concilio definisce l’ufficio Petrino: “Il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” .

La Curia Romana è lo strumento principale del Romano Pontefice nel suo servizio insostituibile alla Chiesa universale. Secondo le parole dei Padri conciliari: “Nell’esercizio del suo supremo, pieno e immediato potere sopra tutta la Chiesa, il Romano Pontefice si avvale dei dicasteri Curia Romana, che perciò compiono il loro incarico nel nome e nell’autorità di lui, a vantaggio delle chiese e al servizio dei sacri pastori” . 

Il Successore di San Pietro, tramite la Curia Romana aiuta i singoli Vescovi a compiere il loro fondamentale servizio che il Concilio descrive con queste parole: “Tutti i Vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa, istruire i fedeli nell’amore di tutto il corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia (cf. Mt. 5, 10) e, infine, promuovere ogni attività comune a tutta la Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità” . 

Sinodalità 

Sinodalità, in quanto termine astratto, è un neologismo nella dottrina sulla Chiesa. È risaputo che il Concilio Vaticano II ha voluto evitare i termini astratti di conciliarità e collegialità, che non si trovano nei testi conciliari. 

La tradizione canonica conosce l’istituto del Sinodo quale strumento per dare consigli ai sacri Pastori; non si descrive la Chiesa quale sinodale ma, invece, quale comunione gerarchica. 

Il Sinodo dei Vescovi si descrive quale “un’assemblea di Vescovi i quali … si riuniscono in tempi determinati per favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi, e per prestare aiuto con i loro consigli al Romano Pontefice stesso nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi, nell’osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica e inoltre per studiare i problemi riguardanti l’attività della Chiesa nel mondo” .

In modo simile, il Sinodo diocesano si descrive quale “l’assemblea di sacerdoti e altri fedeli della Chiesa particolare, scelti per prestare aiuto al Vescovo diocesano in ordine al bene di tutta la comunità diocesana …”. 

La sinodalità che la Costituzione Apostolica Praedicate evangelium, citando discorsi di Papa Francesco , propone è come una qualità della Chiesa e quindi si riferisce ai diversi modi, con i quali tutti i fedeli, per la loro vocazione e con i loro doti, assistono i loro sacri Pastori ad adempire le loro responsabilità come veri maestri della fede. Tra questi modi eccelle l’istituto del sinodo: il can. 212 del Codice di Diritto Canonico provvede le norme al riguardo che disciplinano il rapporto tra i sacri Pastori e i fedeli nella comunione gerarchica della Chiesa. 

Conseguenze 

La missionarietà e la sinodalità come qualità della vita ecclesiale non cambiano la natura dell’ufficio Petrino o del servizio prestato al Successore di Pietro dalla Curia Romana quale “principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione”. Infatti, presuppongono l’ufficio Petrino assistito dalla Curia Romana. Nella luce di questo, seguono delle osservazioni.

Primo. La Costituzione Apostolica insiste che la Curia Romana “è al servizio del Papa, successore di Pietro, e dei Vescovi, successori degli Apostoli” . Ma il servizio della Curia Romana è al Successore di Pietro. Servendo il Romano Pontefice, la Curia Romana serve anche i Vescovi nel loro rapporto con il Papa. 

Non è realistico domandare che la Curia Romana serva tutti i Vescovi. Infatti, essi hanno le loro proprie Curie per aiutarli nel compimento delle loro responsabilità di veri pastori. In questo, si deve mantenere chiaro il servizio distinto del Successore di Pietro.

Allo stesso tempo, definire la Curia Romana a servizio dei singoli Vescovi rischierebbe una visione mondana della Chiesa nella quale le Chiese particolari sarebbero filiali o sussidiarie della Chiesa a Roma, tutti serviti dalla stessa Curia Romana. Sarebbe una distorsione del rapporto del Successore di Pietro con i Vescovi. 

Secondo. Il termine dicastero, quale termine generico secolare, tratto dal Diritto Romano, per i vari uffici di diversa natura della Curia Romana non esprime sufficientemente l’aspetto della comunione gerarchica coinvolta nel trattamento di questioni dottrinali, liturgiche, educative, missionarie, ecc., e non esprime la reale differenza non di dignità (tutti i dicasteri sono giuridicamente pari), ma di materia e di competenza. 

Terzo. Sembra giusto restaurare in qualche forma, almeno nella prossima fase attuativa della Costituzione Apostolica, la Congregazione per la Dottrina della Fede al posto primo fra tutte le Congregazioni della Curia Romana in virtù del suo compito di “aiutare il Romano Pontefice e i Vescovi nell’annuncio del Vangelo in tutto il mondo, promuovendo e tutelando l’integrità della dottrina cattolica sulla fede e la morale, attingendo al deposito della fede e ricercandone anche una sempre più profondo intelligenza di fronte alle nuove questioni”.           

Quarto. Sarebbe importante nell’elenco delle qualità richieste negli Officiali e Consultori di mettere nel primo luogo la sana dottrina e la coerenza con la sana disciplina della Chiesa. 

Infine, nel descrivere le qualità della Chiesa universale e particolare sembra più sicuro e chiaro seguire la dottrina sui quattro attributi: una, santa, cattolica, e apostolica , invece di affidare tale funzione definitoria a termini meno adeguati o perfino meno definiti quali missionarietà e sinodalità.

 Concludo. La Costituzione Apostolica Praedicate evangelium nell’ordinare il servizio della Curia Romana deve essere in tutto ispirata dalla natura specifica dell’ufficio Petrino che è la raison-d’être della Curia Romana. Altrimenti, la mancanza di chiarezza sul servizio della Curia Romana recherà una confusione dannosa in tutta la Chiesa. Raymond Leo Card. BURKE 

DAGO-TRASCRIZIONE DEL DISCORSO DI MONS. MARIO DELPINI l'1 settembre 2022.

IL DISCORSO DI MONSIGNOR DELPINI CONTRO BERGOGLIO

Sono veramente impressionato da questa celebrazione, dalla partecipazione così corale, così festosa, dall’organizzazione, dalla presenza delle autorità, dalle forze dell’ordine, sono veramente ammirato, forse c’è ancora un margine di miglioramento sul tenere accese le candele dell’altare, per il resto sono veramente ammirato per questo. 

Mi faccio voce della conferenza episcopale lombarda, di tutte le nostre Chiese, per dirti l’augurio, l’affetto che questo evento ci ha regalato e credo un modo per intensificare il rapporto di affetto con il Santo Padre, Papa Francesco, che sceglie i cardinali perché siano collaboratori stretti, consiglieri attenti del suo servizio alla chiesa universale.

Voglio farmi voce di tutti i vescovi lombardi, anche quelli che oggi non hanno potuto esserci, per dire l’affetto al Santo Padre, la gratitudine e per augurare a te che il tuo servizio possa essere  veramente di aiuto al Santo Padre. Ci sono state anche delle persone un po’ sfacciate che si sono domandate perché il Papa non abbia scelto il Metropolita per fare il cardinale e abbia scelto invece il vescovo di Como. 

Ora, io credo che ci siano delle buone ragioni per questo, quindi naturalmente interpretare il pensiero del Santo Padre è sempre un po’ difficile. Forse vi ricordate quell’espressione altissima di una sapienza antica che diceva “ci sono tre cose che neanche il padre eterno sa. Una è quante siano le congregazioni delle suore, l’altra è quanti soldi abbiano non so quale comunità di religiosi, e l’altra è cosa pensino i gesuiti”, quindi…

Però in questa scelta, mi pare che si riveli chiaramente la sapienza del Santo Padre. Perché ha scelto il vescovo di Como per essere un suo particolare consigliere? Ho trovato almeno tre ragioni: la prima è che il Papa deve aver pensato che l’arcivescovo di Milano ha già tanto da fare, è sovraccarico di lavoro, e quindi ha detto: bisogna che lavori un po’ anche a te. Questa è una delle ragioni. La seconda probabilmente è che il papa ha pensato: quei bauscia di Milano non sanno neanche dov’è Roma, è meglio che non li coinvolga troppo nelle cose del governo della chiesa universale.

Ma forse c’è anche un terzo motivo per cui ha fatto questa scelta. Se mi ricordo bene il papa è tifoso del River, che non ha mai vinto niente, quindi forse ha pensato che quelli di Como potrebbero essere un po’ in sintonia, perché si sa che lo scudetto è a Milano. 

Però questi tre pensieri così saggi del Santo Padre dicono anche l’augurio un po’ più serio: lavora, ecco. Il Papa chiede a noi, in particolare ai cardinali, di dedicarsi senza risparmio, di lavorare per la Chiesa, di servire la Chiesa fino al sangue, una dedizione che non si risparmia.

Il secondo augurio è la Chiesa universale. Ciascuno di noi per forza di cose si concentra molto sulla sua diocesi, ma chiamarti ad essere cardinale vuol dire che questo amore per la Chiesa deve raggiungere tutti i posti, deve occuparsi di tutte le situazioni drammatiche in cui i cristiani sono perseguitati, in tutti i luoghi in cui la fede si spegne ecco, abbi a cuore la chiesa universale. 

La terza cosa che riguarda le squadre di calcio, mi pare che il papa suggerisca: tu fai il tifo per i perdenti, stai dalla parte di quelli che sono più deboli, di quelli che perdono. Questo è l’augurio che voglio farti, ti chiede di lavorare, di lavorare tanto, però ecco, vorrei concludere dicendo: se per caso Roma ti chiede di lavorare troppo, secondo me tu potresti cedermi qualche valle della tua diocesi che ti risparmia un po’ di lavoro… 

L’arcivescovo di Milano scherza con Cantoni: «Il Papa ha scelto te perché ha pensato che io avevo già tanto da fare»

Da laprovinciadicomo.it l'1 settembre 2022.

Applausi, preghiere, ma anche qualche risata. La Messa di Sant’Abbondio in Duomo, è stata anche l’occasione per un divertente intervento dell’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini. Che rivolgendosi al cardinale Cantoni ha detto: «Perché ha scelto te e non me come cardinale?. Uno: il Papa deve aver pensato che l’arcivescovo di Milano ha già tanto da fare; (esplosione di applausi ndr). Due: “Quei bauscia di Milano non sanno nemmeno dov’è Roma (risate ndr). Tre: il Papa è tifoso del River che non ha mai vinto niente e forse ha pensato che quelli di Como possono sentirsi in sintonia». 

Infine monsignor Delpini ha aggiunto, sempre rivolto all’amico Cantoni: «Se il Papa ti fa lavorare troppo, lascia a me qualche valle della tua diocesi che è troppo grande».

Le ironie di Delpini sul Papa e le nomine dei nuovi cardinali dividono la Chiesa. Giampiero Rossi su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022 

Il caso durante il pontificale celebrato dal vescovo di Como, Oscar Cantoni, alla sua prima messa in città come cardinale fresco di nomina da parte di papa Francesco. «Battute fuori luogo». «No, è il suo stile da sempre» 

L’ennesimo scherzo da prete o la prima, neanche tanto velata, polemica nei confronti nientemeno che del Papa? Dopo un discorso dei suoi, con l’ironia portata sull’altare, l’arcivescovo Mario Delpini si ritrova al centro di una polemica che scuote gli ambienti ecclesiastici.

Forse suo malgrado, anche se qualcuno è convinto del contrario. Il fatto si consuma in un contesto solenne: il Duomo di Como, il pontificale celebrato dal vescovo della città lariana Oscar Cantoni, alla sua prima messa in città come cardinale fresco di nomina da parte di papa Francesco. «Mi faccio voce della Conferenza episcopale lombarda e di tutte le nostre chiese… Ci sono state delle persone un po’ sfacciate che si sono domandate perché il Papa non abbia scelto il metropolita per fare il cardinale e abbia scelto invece il vescovo di Como. Ora io credo che ci siano delle buone ragioni per questo», dice Delpini quando arriva il momento di rivolgere un suo saluto al nuovo cardinale. Quindi aggiunge: «Ma in questa scelta mi pare si riveli chiaramente la sapienza del Santo Padre. Perché ha scelto il vescovo di Como per essere un suo particolare consigliere? Io ho trovato almeno tre ragioni. La prima è che il Papa deve aver pensato che l’arcivescovo di Milano ha già tanto da fare, è sovraccarico di lavoro, e quindi ha detto: bisogna che lavori un po’ anche il vescovo di Como e quindi ha pensato di dare un po’ di lavoro anche a te. La seconda ragione è che probabilmente il Papa ha pensato: quei bauscia di Milano non sanno neanche dov’è Roma, quindi è meglio che non li coinvolga troppo nel governo della Chiesa. E forse c’è anche un terzo motivo. Se mi ricordo bene, il papa è tifoso del River, che non ha mai vinto niente, e forse ha pensato che quelli di Como potrebbero essere un po’ in sintonia perché si sa che lo scudetto è a Milano». Applausi e risate, dalle navate all’altare affollato da porporati.

La polemica e gli interrogativi cominciano a lievitare soltanto l’indomani, quando il video e la trascrizione del siparietto comasco dell’arcivescovo di Milano cominciano a girare negli ambienti vicini e ostili a Jorge Mario Bergoglio. «È un attacco frontale al Santo Padre perché neanche in questa occasione lo ha nominato cardinale», tambureggiano alcuni siti notoriamente attenti a qualsiasi sospiro spendibile contro il Papa. «L’ennesima performance da parroco di campagna che fa battute al termine della messa», replicano coloro che conoscono Mario Delpini. «Questo è il Mario, è sempre stato così — dice senza esitazioni e ridacchiando don Luigi Caldera, parroco di Cesano Boscone e a suo tempo compagno di seminario dell’attuale arcivescovo — a lui non è mai interessata la “carriera” ma soltanto la Chiesa e i suoi fedeli». E allo stesso modo la pensa un altro veterano come don Armando Cattaneo, già prevosto di Saronno e attualmente al lavoro sulle tematiche della Laudato sì: «Ma lui è così da sempre e soprattutto ha avuto il coraggio e la trasparenza di non far finta di non sapere che molti si ponevano qualche domanda sulla sua mancata nomina a cardinale, però l’ha affrontata a modo suo. Insomma — aggiunge il prete — se uno rimane tutto impacchettato è noioso, se solo esce un po’ dagli schemi diventa un nemico del Papa?».

Nessun commento dalla Curia, ma il clima interno della chiesa ambrosiana sembra disteso: anche tra i meno vicini a Delpini viene esclusa l’ipotesi della polemica e, anzi, viene sottolineata la parte meno rilanciata del discorso, cioè quella in cui si fa riferimento all’attenzione del Papa ai poveri e a tutti coloro che hanno più bisogno di attenzione. Ma a Roma quel discorso è stato notato, e non manca chi fa notare l’inopportunità comunicativa, considerando il contesto solenne, cioè un pontificale nel giorno di Sant’Abbondio, che per Como è equivalente al Sant’Ambrogio milanese. E poi, puntualizzano i preti più pignoli, il Papa ha sempre dichiarato il suo tifo per il San Lorenzo, non per il River Plate.

L'arcivescovo di Milano Delpini (ancora senza porpora) e l'ironia sulla nomina a cardinale di Cantoni: "Nessuno sa cosa pensano i gesuiti". Lucia Landoni su La Repubblica l'1 Settembre 2022 

Delpini, che non ha mai ricevuto la porpora, partecipa a una celebrazione a Como. E va a briglia sciolta: "Probabilmente il Papa ha pensato: quei 'bauscia' di Milano non sanno neanche dov'è Roma, meglio non coinvolgerli troppo nel governo della Chiesa universale"

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Un'ironia piuttosto graffiante sull'imperscrutabilità delle decisioni di Papa Francesco - nonché sulle sue opinioni calcistiche - ma anche una frecciata non troppo velata sul fatto che il suo incarico comporti più responsabilità di quelle dei "colleghi" di altre diocesi. E persino una rispolverata all'eterna rivalità tra Milano e Roma: non si è fatto mancare nulla l'arcivescovo di Milano Mario Delpini nell'intervento tenuto ieri dal pulpito del Duomo di Como durante la messa per il patrono cittadino Sant'Abbondio, la prima celebrata dal neo cardinale Oscar Cantoni, vescovo della Diocesi comasca dal 2016.

Proprio sulla recente nomina decisa da papa Bergoglio si è soffermato Delpini - come si vede nel video di Espansione Tv -, che non ha invece mai ottenuto la porpora: "Mi faccio voce della Conferenza episcopale lombarda e di tutte le nostre chiese. Ci sono state delle persone un po' sfacciate che si sono domandate perché il papa non abbia scelto il metropolita (Delpini, ndr) per fare il cardinale e abbia scelto invece il vescovo di Como - ha esordito - Ora, io credo che ci siano delle buone ragioni per questo. Naturalmente interpretare il pensiero del Santo Padre è sempre un po' difficile". Ed ecco la prima uscita ironica: "Forse vi ricordate quell'espressione altissima di una sapienza antica che diceva che tre sono le cose che neanche il Padreterno sa: una è quante siano le congregazioni delle suore, l'altra è quanti soldi abbia non so quale comunità di religiosi e la terza è che cosa pensino i Gesuiti".

Appurato questo - pur garantendo che "in questa scelta mi pare si riveli chiaramente la sapienza del Santo Padre" - l'arcivescovo milanese ha proseguito a briglia sciolta, illustrando quelle che secondo lui sarebbero le motivazioni di una nomina che i vertici della Curia milanese sembrano aver accolto con una certa sorpresa, nonostante Bergoglio abbia da sempre un preciso occhio di riguardo alle "diocesi minori" quando si tratta di concedere la porpora cardinalizia. "Perché ha scelto il vescovo di Como per essere un suo particolare consigliere? - ha proseguito dal pulpito, rivolgendosi a Cantoni - Io ho trovato almeno tre ragioni. La prima è che il papa deve aver pensato che l'arcivescovo di Milano ha già tanto da fare, è sovraccarico di lavoro, e quindi ha detto: bisogna che lavori un po' anche il vescovo di Como e quindi ha pensato di dare un po' di lavoro anche a te".

Ecco poi la mai risolta diatriba tra capitale reale e capitale morale del Paese: "La seconda ragione è che probabilmente il Papa ha pensato: quei 'bauscia' di Milano non sanno neanche dov'è Roma, quindi è meglio che non li coinvolga troppo nel governo della Chiesa universale". Per finire con una spruzzata di sfottò calcistico - che in Italia non guasta mai, nemmeno quando si affrontano gli argomenti apparentemente più seri - facendo notare che "se mi ricordo bene, il papa è tifoso del River, che non ha mai vinto niente, e forse ha pensato che quelli di Como potrebbero essere un po' in sintonia, perché si sa che lo scudetto è a Milano". E poco importa che in realtà Papa Francesco sia un tifoso della squadra del San Lorenzo, il concetto è passato forte e chiaro, creando un certo scompiglio tra i fedeli presenti in chiesa e poi sui social network, dove qualcuno ha definito l'uscita di Delpini "una sceneggiata rancorosa, invidiosa e acida".

D'altronde a Milano è risaputo che l'arcivescovo ama molto l'umorismo: non a caso lo scorso dicembre ha inserito una barzelletta nel discorso di Sant'Ambrogio alla città, cosa che nessuno dei suoi predecessori aveva mai fatto. E chi lo conosce bene ricorda il rapporto di grande stima e affetto che lo lega a Oscar Cantoni: forse proprio in virtù della loro amicizia di lunga data, Delpini si è preso qualche libertà in più.

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 6 settembre 2022.  

Tra i cardinali nominati nei giorni scorsi da Papa Francesco c’è anche monsignor Oscar Cantoni, il vescovo che a capo della Chiesa di Crema, non fece dimettere dallo stato clericale, don Mauro Inzoli, il sacerdote di Comunione Liberazione, amico di Roberto Formigoni, condannato in Cassazione a quattro anni, sette mesi e dieci giorni di reclusione, per pedofilia.

A ritornare su questa vicenda è il blog “Silere non possum”, fondato nel marzo 2021 da Marco Felipe Perfetti, considerato dai vertici del Vaticano “iper tradizionalista” che ha pubblicato copia degli atti del procedimento penale amministrativo della Congregazione per la Dottrina della Fede da dove si evince che don Inzoli fu, in un primo momento, “graziato” da parte del suo vescovo Oscar Cantoni.

Nella vicenda del prete presidente del Banco Alimentare, da tutti conosciuto come “don Mercedes” a causa della sua passione per le auto di grossa cilindrata, il neo cardinale ha avuto un ruolo chiave. Nel documento pubblicato da “Silere non possum” si legge che “il 21 luglio 2011 questo Dicastero affidò al Vescovo di Crema, quale proprio Delegato, il compito di svolgere un processo penale amministrativo ex can. 1720 CIC nei confronti del chierico. Nell’istruttoria furono raccolte le denunce di undici minori maschi, due minori femmine ed emersero gli indizi di possibili abusi su altri sette minori”. 

Fatti non contestati dal parroco della Santissima Trinità in Crema: “Vista la parziale confessione dei fatti addebitati da parte del reo e la sua impossibilità di presentare elementi a proprio discolpa, nonché considerate la gravità e imputabilità dei delitti, che, manifestando una strategia diuturna e costante, per quanto influenzata dalla struttura psicologica della persona, era chiaramente riferibie a dolo”, dice la documentazione.

Di fronte a tutto ciò che fece l’attuale vescovo di Como? “Dopo essersi consultato con i propri assessori – ritenne raggiunta la necessaria certezza morale circa il compimento degli abusi” e il 25 agosto 2012, con un decreto condannò Inzoli ad una pena di soli cinque anni senza alcuna riduzione dello stato clericale. 

Anzi gli impose di vivere fuori dalla Diocesi di Crema, gli tolse ogni impegno pastorale e gli impose la celebrazione della Santa Messa in privato. Nulla di più. […]

L'arcivescovo di Milano e la frecciata al Papa: "Non siamo dei bauscia". Delpini e il nuovo cardinale creato a Como: "Forse tifa per una squadra di perdenti..." Fabio Marchese Ragona il 2 Settembre 2022 su Il Giornale.

Gli hanno dato malignamente del «rosicone», che a tutti i costi voleva togliersi un sassolino dalla scarpa per non avere avuto dal Papa la berretta cardinalizia, andata invece al vescovo di Como. Monsignor Mario Delpini, l'arcivescovo di Milano, in realtà ha sfoggiato la sua solita ironia e utilizzando qualche battuta graffiante sulla scelta di Bergoglio, ha voluto dare una risposta a chi in questi mesi ha continuato a chiedere: «Ma perché il Papa ha fatto cardinale il vescovo di Como e non l'arcivescovo di Milano?». Domanda che si è ripetuta nel tempo, con insistenza, soprattutto tra i banchi delle parrocchie ambrosiane. «Don, ma perché il Papa non ci dà ancora un cardinale?» «Padre, perché il Papa ha scelto Como e non Milano?». E così, due sere fa, è arrivata la risposta del diretto interessato, al termine della messa presieduta dal neo porporato, Oscar Cantoni, nella cattedrale di Como per la festa di sant'Abbondio, patrono della città.

Quando monsignor Delpini ha preso la parola, davanti ai fedeli e ai vescovi e cardinali della Lombardia, nessuno avrebbe immaginato che l'arcivescovo, già braccio destro del cardinale Angelo Scola quando era alla guida della diocesi più grande d'Europa, avrebbe scherzato su quel tema: «Ci sono state delle persone un po' sfacciate», ha detto Delpini, «che si sono domandate perché il Papa non abbia scelto il metropolita per fare il cardinale e abbia scelto, invece, il vescovo di Como. Ora io credo che ci siano delle buone ragioni per questo. Interpretare il pensiero del Santo Padre è sempre un po' difficile», ha aggiunto, «perché forse vi ricordate quell'espressione altissima di una sapienza antica che diceva: Ci sono tre cose che neanche il Padre Eterno sa: una è quante siano le congregazioni delle suore, l'altra è quanti soldi abbiano non so quale comunità di religiosi, e l'altra è cosa pensino i gesuiti!. Dopo i sorrisi del pubblico, l'arcivescovo ha rincarato la dose: Io ho trovato almeno tre ragioni per la scelta del Papa: la prima è che il Santo Padre deve aver pensato che l'arcivescovo di Milano è sovraccarico di lavoro. La seconda è che probabilmente il Papa ha pensato: Quei bauscia di Milano non sanno neanche dov'è Roma, quindi è meglio che non li coinvolga troppo nelle cose del governo della Chiesa Universale. Il terzo motivo forse è che il Papa è tifoso del River (in realtà è la squadra del San Lorenzo, ndr), che non ha mai vinto niente, e quindi ha pensato che quelli di Como potrebbero essere anche un po' in sintonia perché si sa che lo scudetto è a Milano». Il video con il discorso dell'arcivescovo è diventato virale sui social e qualcuno ha definito le parole di Delpini «irriverenti» nei confronti di Francesco. Tanto che, ieri in serata, arriva il post di Don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova molto vicino a Papa Francesco: «Un arcivescovo, quello di Milano, che sbeffeggia in pubblico il Papa e un confratello perché la sede è ancora senza porpora era qualcosa che ancora ci mancava alla collezione». In realtà, chi conosce «don Mario», invece, non si è sorpreso o scandalizzato, sapendo che le battute sarcastiche sono il suo forte: «Era chiaramente ironia, non c'è niente contro il Papa, figuriamoci! Era solo un modo per buttarla sul ridere, per sdrammatizzare un po', dopo tutti quei pettegolezzi sulla porpora che non è arrivata», fa sapere un collaboratore della curia ambrosiana. Ormai è risaputo che Francesco, per la creazione dei nuovi cardinali, non tiene più conto delle sedi di fama storica, tradizionalmente cardinalizie, come appunto Milano. «Non è la storia che nomina i cardinali, ma il Papa», è stata la risposta che Francesco ha dato a un porporato che gli chiedeva conto di questa scelta che premia principalmente le piccole diocesi.

DELPINI DOPO LE BATTUTE SU PAPA FRANCESCO: «CRITICATO PER LA MIA IRONIA, VOGLIONO UNA CHIESA NOIOSA». Giampiero Rossi per corriere.it il 10 settembre 2022.

Il futuro come uno spaventoso «accumularsi di minacce». Il linguaggio appesantito dalla «lamentazione», mentre l’ironia sembra quasi «proibita». In mezzo a tutto ciò, tuttavia, continua a germogliare «l’impegno per il bene comune». Dal suo osservatorio milanese, l’arcivescovo Mario Delpini segnala che ci sono alcuni aspetti della nostra convivenza che «segnano tutta la società occidentale». 

Eccellenza, due giorni fa ha inaugurato l’anno pastorale ambrosiano. Con quali auspici?

«La chiesa è una comunità che vuole seminare speranza nei giorni facili e in quelli difficili. Quindi il mio auspicio è che sappiamo conservare passione nella vita di tutti e che in questa vita continui a rivelarsi la gloria di Dio»

Lei è impegnato in un giro all’interno della diocesi più grande del mondo: che impressioni ne sta ricavando?

«Trovo molte conferme della mia convinzione che Milano sia una realtà meravigliosa, ricca di persone e opere di eccellenza: ovunque trovo tanta gente impegnata a rendere più abitabile la città, a rendere meno insopportabili i problemi. Però noto anche un’altra cosa: una volta qui si parlava il dialetto milanese, adesso la lingua più parlata mi sembra quella della lamentazione. Insomma, un’ eccellenza economica, culturale e sociale che finisce per parlare un linguaggio un po’ depresso». 

Un altro effetto degli anni della pandemia?

«Non mi pare che già prima fosse abituale un’arte del “parlare per fare del bene”, che dovrebbe essere il criterio dell’agire umano in quanto tale. Da tempo ho l’impressione che si parli senza pensare se ciò che si dice fa del bene o no. Anche il dibattito politico, il linguaggio sportivo, la chiacchiera di strada ricadono spesso nella lamentazione e coprono di grigio anche lo splendore». 

A proposito di linguaggio. Lei stesso, a distanza di una settimana, ha voluto chiarire pubblicamente il senso delle sue battute nel Duomo di Como, dopo tante ipotesi, critiche e illazioni.

«Da questa vicenda traggo l’idea che l’ironia sia quasi proibita, che in questo contesto mediatico bisogna essere seri, parlare il meno possibile e soprattutto annoiare. Perché se uno fa una battuta in pubblico si scatena tutto questo. Evidentemente i media si aspettano che la chiesa parli sempre in modo noioso. Dopodiché sono del tutto d’accordo col Papa, ne condivido le scelte e i criteri, e non vedo alcuno smacco se una città ha un vescovo che non è cardinale». 

Ma lei continuerà a usare l’ironia?

«Farò come sono capace di fare, in fondo volevo solo fare gli auguri a un amico». 

La sua proposta pastorale («Kyrie, Alleluia, Amen – Pregare per vivere, nella Chiesa come discepoli di Gesù») suona come un invito alla preghiera rivolto soltanto ai cattolici...

«Credo che il vescovo, cioè la chiesa, con la propria presenza debba cercare di interpretare i bisogni dell’umano e provare a dare una risposta cristiana. E questo tema della preghiera, in realtà, non si rivolge soltanto ai cattolici che frequentano la chiesa, perché colgo un bisogno di spiritualità molto più diffuso, sebbene in certi casi si caratterizzi per il suo egocentrismo: “Ho bisogno di spiritualità per stare bene con me stesso”. In ogni caso anche questa domanda di qualcosa di non solo materiale e relazionale ma anche spirituale significa qualcosa. È uno spazio al quale io come vescovo posso anzi devo rivolgermi. A quella persona dico: io ho una parola da offrirti su questo tuo bisogno di spiritualità». 

Com’è cambiato il mondo in questi cinque anni del suo mandato di arcivescovo di Milano?

«La città e tutto il Paese hanno reagito con molta energia ai problemi che si sono presentati. Tuttavia la pandemia ha fatto emergere con maggiore criticità i problemi cronici: la solitudine, soprattutto degli anziani, l’emergenza educativa in alcuni quartieri. 

E in questi cinque anni mi sembra si sia confermata una domanda che non ha avuto risposta: c’è una terra promessa verso la quale vale la pena mettersi in cammino? Ecco, questa domanda di speranza viene quasi censurata come imbarazzante, e questo tratto segna Milano e tutta la civiltà occidentale che non guarda più al futuro come a una terra promessa ma come a un accumularsi di minacce». 

Cosa si aspetta dalla politica dopo il 25 settembre?

«Mi aspetto alcune virtù: la lungimiranza, cioè non soltanto tamponare emergenze ma un percorso per il futuro del Paese e dell’Europa; la fierezza, cioè la consapevolezza che ce la possiamo fare, che siamo capaci di affrontare i problemi, quindi servono competenze ma anche un atteggiamento sano; la resistenza, perché l’impegno politico può essere logorante sotto il ricatto della popolarità e del malcontento. Aggiungerei anche la gentilezza: l’aggressività non è inevitabile». 

DELPINI E LE SCUSE AL PAPA "VOLEVO ESSERE SPIRITOSO NON MI SONO FATTO CAPIRE". Miriam Romano per “la Repubblica – ed. Milano” il 10 settembre 2022.  

Mario Delpini chiude l'incidente diplomatico che lo ha visto protagonista nei giorni scorsi, per le battute pronunciate dopo la scelta di papa Francesco di nominare cardinale il vescovo di Como, Oscar Cantoni, ma non lui stesso. «Mi scuso perché non mi sono fatto capire, cercherò di non usare più il genere letterario dell'ironia», dice ora Delpini, che da monsignore guida la Diocesi di Milano che è anche la più estesa del mondo.

A molti sui social le frasi pronunciate durante la messa del 31 agosto nel Duomo di Como erano sembrate persino offensive nei confronti del Papa.

«Probabilmente il Santo Padre avrà pensato: quei bauscia di Milano non sanno neanche dov' è Roma, quindi è meglio che non li coinvolga troppo nelle cose del governo della Chiesa universale » , era stata la battuta. 

«Cercavo di essere spiritoso», è il chiarimento pronunciato ora in Duomo nella Messa di apertura dell'anno pastorale. E poi: « La prima cosa che penso è che sono contento che Oscar sia diventato cardinale e penso che possa dare buoni consigli al Papa. Il secondo punto è che io non desidero diventare cardinale, non mi sentirei proprio a mio agio. E terzo punto è che la Chiesa di Milano non è diminuita nel suo prestigio e nella sua bellezza perché il vescovo non è cardinale. Sono d'accordo con il Papa, penso faccia bene a fare delle scelte e usare criteri che lui ritiene opportuno». 

Strappa un sorriso alla platea dei fedeli, Delpini, quando aggiunge che «devo chiedere scusa al Papa non perché dissento da quello che fa. Ma perché non sono esperto del campionato di calcio dell'Argentina. Ho attribuito al Papa di fare il tifo per una squadra. Si sa: gli argentini su questo sono un po' suscettibili. Il Papa tifa per il San Lorenzo e devo chiedere scusa per questa confusione». Con uno sfottò calcistico, infatti, l'arcivescovo aveva attribuito al Papa il tifo per la squadra argentina del River Plate. 

La crisi energetica, la guerra in Ucraina e anche un riferimento alle imminenti elezioni politiche. L'omelia dell'arcivescovo Mario Delpini non ha lasciato indietro nessun tema d'attualità. La navata centrale del Duomo piena di fedeli fino in fondo, undici seminaristi ammessi al percorso per il sacerdozio e otto laici candidati a diventare diaconi.

La Messa di apertura del nuovo anno pastorale, celebrata ieri mattina in Duomo, come ogni 8 settembre (festa della Natività della Beata Vergine Maria), non è stata scandita solo dal tradizionale " programma", la cosiddetta Proposta pastorale, che quest' anno è già stata pubblicata a giugno con il titolo " Kyrie, Alleluia, Amen - Pregare per vivere, nella Chiesa come discepoli di Gesù", per consentire a parrocchie, comunità pastorali e decanati di definire attività e programmi del nuovo anno. 

La celebrazione, invece, ha toccato tutti i fedeli. « Celebriamo l'alleanza con Dio - ha sottolineato Delpini durante la sua omelia - non come un rito che si esaurisce tra le mura delle nostre chiese, ma come il principio di una missione. Vogliamo essere cittadini responsabili, attivi, pensosi, intraprendenti per il bene comune » . Un attivismo anche politico. «Saremo presenti nei partiti politici, nelle amministrazioni comunali, nelle responsabilità economiche non come gente che cerca potere e vantaggi di parte, ma come gente che vuole servire il bene comune».

Clarida Salvatori per corriere.it il 28 agosto 2022.

La Perdonanza Celestiniana quest’anno ha un ospite d’onore: Papa Francesco. Come primo appuntamento il pontefice, arrivato nella mattinata non senza difficoltà a causa della nebbia fitta che ha inizialmente impedito l’atterraggio all’elicottero partito da Roma e giunto allo stadio «Gran Sasso», nella zona est dell’Aquila, ha fissato un incontro con i parenti delle 309 vittime del terremoto (magnitudo 5,8) che nella notte del 9 aprile del 2009 distrusse la città. 

«È stata una emozione molto forte - ha raccontato al termine il chirurgo aquilano Vincenzo Vittorini, dell’associazione vittime del terremoto, che ha perso la moglie e un figlio -. La memoria è fatta sia di cose belle che di brutte. In tal senso, noi siamo da 13 anni sentinelle della memoria affinché non accadano più certi eventi negativi, come la mancanza di prevenzione e sicurezza. Non dobbiamo dimenticare. Se sì dimentica non c’è futuro. Da 13 anni ci battiamo per questo».

Seduto sulla sedie a rotelle prima e sorretto da un bastone poi, con il caschetto di protezione ben calzato sulla testa, Bergoglio ha visitato la Cattedrale di San Massimo, ancora inagibile per le conseguenze del sisma, e ha parlato ai fedeli raccolti nella piazza principale del capoluogo abruzzese. Ha poi percorso, a bordo della Papamobile, le principali strade del centro storico salutando le tante persone accorse per vederlo da dietro le transenne, e alle 10 è arrivato alla Basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove sono custodite le spoglie di Papa Celestino Ve dove ha presieduto l’Angelus.

«Che L’Aquila sia davvero capitale di perdono, di pace e di riconciliazione - le parole pronunciate da Bergoglio nel sagrato -. Erroneamente ricordiamo la figura di Celestino V come “colui che fece il gran rifiuto”, secondo l’espressione di Dante nella Divina Commedia. Ma Celestino V non è stato l’uomo del “no”, è stato l’uomo del “sì”. Infatti, non esiste altro modo di realizzare la volontà di Dio che assumendo la forza degli umili. Proprio perché sono tali, gli umili appaiono agli occhi degli uomini deboli e perdenti, ma in realtà sono i veri vincitori, perché sono gli unici che confidano completamente nel Signore e conoscono la sua volontà».

Primo Pontefice nella storia della tradizionale celebrazione aquilana, giunta alla 728sima edizione, Papa Francesco, dopo diversi minuti in raccoglimento sulla sedia a rotelle, ha praticato il rito dell’apertura della Porta santa, bussando tre volte, con il ramo d’ulivo del Getsemani, sull’anta del portale nel lato sinistro. Da questo momento e fino alla sua chiusura, ai pellegrini che vi passeranno sotto verrà concessa l’indulgenza plenaria.

La sua visita ha richiesto un’organizzazione diversa da quella messa in campo negli anni passati. In occasione della visita pastorale del Papa è stato infatti anticipato al 23 - anziché svolgersi il 28 di agosto - il tradizionale corto della Bolla. In cui la Dama e il Giovin signore in abiti tradizionali scortano, dal palazzo del Comune fino a Collemaggio, la Bolla ovvero la pergamena con l’indulgenza plenaria che papa Celestino V donò alla città e al mondo. Introdotto il numero chiuso, ai soli possessori del ticket, per i posti a sedere in piazza Duomo e nel piazzale di Collemaggio. Tutti gli altri fedeli hanno salutato il pontefice durante il tragitto nelle strade del centro storico della città.

La preghiera di Francesco sulla tomba di Celestino (e altre voci di dimissioni). Bergoglio apre la porta santa di Collemaggio. L'omelia per allontanare l'ipotesi di rinuncia. Fabio Marchese Ragona il 29 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Un gesto che rimarrà nella storia, mai nessun Papa aveva aperto la porta santa della Basilica di Santa Maria di Collemaggio dove riposa Celestino V, il Pontefice che nel 1294 rinunciò al pontificato. Pietro da Morrone, questo il suo nome, prima di compiere il passo indietro, decise di concedere l'indulgenza plenaria perpetua a chi avesse attraversato quella porta, in ricordo della sua incoronazione al soglio pontificio proprio all'interno della basilica aquilana. Un rito che continua da 728 anni, sempre negli ultimi giorni di agosto, e che ieri è stato compiuto anche da Papa Francesco.

Seduto in carrozzina, Bergoglio, davanti a quel portone sbarrato, ha seguito le litanie dei santi e, dopo aver compiuto l'antico rituale, è entrato in basilica per pregare davanti alle spoglie di Celestino V, sotto gli occhi di milioni di fedeli, alcuni convinti (e qualcuno a dire il vero anche malignamente speranzoso) che quel momento potesse essere un preludio alle dimissioni. Un gesto che per molti ha richiamato alla memoria la preghiera di Benedetto XVI davanti alle spoglie di Pietro da Morrone, compiuta nell'aprile del 2009, qualche settimana dopo il terremoto che distrusse la città. Ratzinger, che aveva raggiunto il capoluogo abruzzese per manifestare vicinanza alla popolazione ferita, in quell'occasione depose sulla teca un suo vecchio pallio, ancora oggi conservato all'interno dell'urna. Un gesto visto da molti come un segno profetico delle dimissioni, annunciate poi nel febbraio 2013 ma su cui Benedetto aveva già iniziato a riflettere nell'aprile dell'anno prima. Anche per Francesco, soprattutto i giornali d'oltreoceano, avevano ipotizzato quindi che la visita a L'Aquila potesse anticipare qualche decisione clamorosa: le dimissioni, insomma, sulla scia di Benedetto, incontrato al monastero Mater Ecclesiae insieme ai venti nuovi cardinali, alla vigilia della trasferta aquilana. Bergoglio ha bollato questa ipotesi come semplice «coincidenza», assicurando, in più occasioni durante alcune interviste, che l'idea di lasciare il pontificato non gli è mai balenata per la testa. Potrebbe accadere in futuro, ha spiegato, «se le mie condizioni di salute rendessero impossibile andare avanti». Non è un caso che nel corso dell'omelia a L'Aquila, Francesco abbia ribaltato completamente l'immagine che si è sempre avuta di Pietro da Morrone: «Erroneamente - ha detto il Papa - ricordiamo la figura di Celestino V come colui che fece il gran rifiuto, secondo l'espressione di Dante nella Divina Commedia; ma Celestino V non è stato l'uomo del no, è stato l'uomo del sì». Infatti, ha continuato Francesco, «non esiste altro modo di realizzare la volontà di Dio che assumendo la forza degli umili, non ce n'è un altro. Proprio perché sono tali, gli umili appaiono agli occhi degli uomini deboli e perdenti, ma in realtà sono i veri vincitori, perché sono gli unici che confidano completamente nel Signore e conoscono la sua volontà».

Vincitori proprio come Benedetto XVI, «il Papa umile», così come lo ha più volte ribattezzato Bergoglio, ricordando quella scelta rivoluzionaria che ha cambiato la storia della Chiesa. Una «correzione» a Dante che sembra anche allontanare ogni legame tra la visita a L'Aquila del Pontefice e il tema delle dimissioni papali: come confermato anche da numerosi cardinali a lui vicini e presenti in questi giorni a Roma, la rinuncia non è, infatti, nei pensieri del Papa, deciso invece a entrare adesso in una nuova fase del pontificato.

Bergoglio crea nuovi cardinali. E prepara una sorpresa. Ieri il Concistoro con il quale Francesco guarda verso l'Asia. I neoporporati hanno incontrato anche Benedetto XVI. Nico Spuntoni il 28 Agosto 2022 su Il Giornale.

Usque ad effusionem sanguinis, recita la formula latina con cui il Papa crea i nuovi cardinali, inginocchiati di fronte a lui. Sino a versare il proprio sangue. Non un'iperbole in un tempo in cui un cristiano su otto nel mondo viene perseguitato e si assiste sempre più spesso a scene di sacerdoti uccisi e vescovi imprigionati. Ieri nella Basilica di San Pietro la formula è risuonata diciannove volte, tante quante le berrette rosse consegnate da Francesco. L'indirizzo di saluto è toccato al neocardinale Arthur Roche, prefetto del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. "Prendiamo forza da lei, Santità, dalla sua testimonianza, dal suo spirito di servizio e dal suo appello alla Chiesa intera a seguire il Signore con maggiore fedeltà", ha detto il prelato britannico prima di ricevere per primo dalle mani del pontefice l'anello e la pergamena con la nomina.

C'è grande attenzione all'Asia nell''infornata' di porpore fatta ieri dopo l'annuncio di fine maggio: ci sono due indiani tra cui l'arcivescovo di Hyderabad, Anthony Poola che diventa il primo dalit - i cosiddetti "fuori casta" - della storia in rosso; poi William Seng Chye Goh e Virgilio do Carmo da Silva, i primi cardinali rispettivamente di Singapore e di Timor Est. Ma anche Giorgio Marengo, il più giovane del Sacro Collegio con i suoi 48 anni, pur essendo originario di Cuneo è soprattutto il prefetto apostolico di Ulan Bator e missionario in Mongolia da vent'anni.

Il Papa, dunque, guarda ad est e lo fa capire anche nella sua omelia quando cita due esempi per i neocardinali: Agostino Casaroli, il segretario di Stato di Wojtyla che è entrato nella storia per aver continuato la cosiddetta Ostpolitik vaticana nei confronti degli Stati dell'est europeo e della Chiesa ortodossa. Bergoglio ha elogiato il prelato morto nel 1998 per il "suo sguardo aperto ad assecondare, con dialogo sapiente, i nuovi orizzonti dell'Europa dopo la guerra fredda e Dio non voglia - ha aggiunto - che la miopia umana chiuda di nuovo quegli orizzonti che lui ha aperto!". Un riferimento abbastanza evidente a quanto accade in Ucraina e forse anche una risposta a chi, in questi giorni, lo ha accusato di essere troppo indulgente con la Russia dopo le parole di pietà nei confronti di Darya Dugina.

Accanto a Casaroli, Francesco ha citato anche il cardinale vietnamita François-Xavier Nguyên Van Thuán incarcerato per tredici anni dal regime comunista e del quale ha ricordato quel "fuoco dell'amore di Cristo" che lo animava "a prendersi cura dell'anima del carceriere che vigilava sulla porta della sua cella".

La Basilica San Pietro, a differenza degli ultimi Concistori, era piena di membri del Sacro Collegio arrivati a Roma per partecipare alla riunione sulla riforma della Curia convocata da Francesco lunedì 29 e martedì 30 agosto. Dopo la pandemia, i cardinali hanno avuto la possibilità di rivedere e confrontarsi con i loro confratelli. Ma nessun pronostico con i giornalisti per quanto riguarda la riunione: in queste ore si stanno susseguendo una serie di indiscrezioni che vorrebbero il tema della regolamentazione della rinuncia papale al centro dell'incontro voluto da Francesco. Secondo diverse fonti, potrebbe essere vicina la codificazione dello status di vescovo di Roma emerito con la possibile abolizione della figura del papa emerito per il futuro.

E a proposito di ciò, come da consuetudine, ieri i nuovi cardinali sono stati ricevuti al monastero Mater Ecclesiae ed hanno incontrato Benedetto XVI in compagnia di Francesco e del prefetto della Casa Pontificia, monsignor Georg Gänswein. Assente al Monastero così come in Basilica monsignor Richard Kuuia Baawobr: il vescovo di Wa non ha ricevuto la berretta rossa perché si è sentito male appena atterrato a Roma. Francesco ha spiegato nel suo discorso a San Pietro che il neoporporato ha subìto un intervento ed è ricoverato.

Da Ansa il 28 agosto 2022.

A dieci anni dalla morte del cardinale Carlo Maria Martini (Torino 1927 - Gallarate 2012), che ricorre il prossimo 31 agosto, di lui restano il ricordo di un protagonista indiscusso della storia della Chiesa italiana degli ultimi quarant'anni, l'eredità della sua intensissima attività di raffinato teologo e insigne biblista, la memoria della sua figura carismatica di vescovo che aveva scelto il dialogo quale strumento per l'azione pastorale. 

Ma il nome del cardinale Martini - gesuita, Arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002 - rimane anche legato a una delle pagine più significative della storia d'Italia: risale a 38 anni fa e fu il gesto eclatante deciso dai terroristi rossi per indicare la fine definitiva della lotta armata nel Paese.

Era il 13 giugno 1984: nell'Arcivescovado di Milano uno sconosciuto si presentò all'allora segretario del cardinale Martini, don Paolo Cortesi, e, mentre questi era al telefono, abbandonò su un tavolo tre borse, contenenti due fucili kalashnikov con caricatore, un fucile beretta, un moschetto automatico, tre pistole, un razzo per bazooka, quattro bombe a mano, due caricatori e centoquaranta proiettili. 

Era l'arsenale dei "Comitati Comunisti Rivoluzionari", gruppo terroristico di sinistra, ritenuto contiguo alle Brigate Rosse, che nella seconda metà degli anni settanta aveva firmato alcune eclatanti azioni di sangue. L'arsenale fu consegnato al cardinal Martini, figura carismatica a Milano, a significare la resa dei terroristi, ma anche per sollecitare una mediazione della Chiesa per una "riconciliazione umana, sociale e politica". L'uomo non proferì parola e andò via. 

Il cardinale Martini, informato dal segretario, chiamò le autorità, e le armi furono prese in consegna dalla polizia. Il cardinale scelse il silenzio su quel gesto emblematico degli ormai ex terroristi, ed il fatto emerse solo alcuni giorni dopo durante un processo a circa 200 imputati, molti dei quali accusati di banda armata. Tra questi Ernesto Balducchi, che il 27 maggio 1984, dal carcere di San Vittore, aveva inviato al cardinale Martini una lettera per chiedere l'intervento della Chiesa in una sorta di mediazione per la ripresa del dialogo con lo Stato. Nel documento si diceva tra l'altro: "Noi vi affidiamo le nostre armi". Si pensò a una consegna figurata.

L'episodio di quel 13 giugno, invece, diede concretezza a quel che era scritto nella lettera, alla quale l'Arcivescovo aveva risposto. Due giorni prima che si presentasse lo sconosciuto, descritto da don Cortesi come un giovane tra i 25 e i 30 anni, alto circa un metro e ottanta, lo stesso segretario del cardinale aveva ricevuto una telefonata da un anonimo il quale sosteneva di avere del materiale da consegnare all'Arcivescovo di Milano. Si pensò in quella circostanza che si trattasse di omaggi che solitamente venivano fatti al Cardinale.

Quando la notizia della consegna delle armi da parte dei terroristi al cardinale Martini divenne pubblica, un portavoce dell'arcivescovado fornì una versione ufficiale: "La mattina del giorno 13 giugno si è presentato alla segreteria dell'Arcivescovo un uomo che ha consegnato tre borse per il cardinal Martini, andandosene immediatamente. Quando, in tempo successivo, le tre borse sono state aperte scoprendovi in esse delle armi, sono state subito avvisate le autorità competenti che hanno provveduto a farle ritirare dalla polizia".

"No, non ebbi paura", raccontò alcuni anni dopo il cardinal Martini al giornalista Aldo Maria Valli, che ha riportato quel colloquio nel suo libro "Storia di un uomo". "Quando portarono le borse con le armi - disse il cardinale - chiamai il prefetto. Arrivò e io dissi: bene, apriamo le borse. Lui restò inorridito ed esclamò: per carità, non tocchiamo niente! Una situazione curiosa. Temo che un po' di paura l'ebbe invece il mio segretario di allora".

Carlo Maria Martini, dieci anni dopo: ripartire (sempre) dai poveri. Di don Virginio Colmegna su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.

L’attualità del pensiero del cardinale Carlo Maria Martini a dieci anni dalla scomparsa, qui ricordata attraverso il suo discorso sui poveri: «La povertà non è essere senza denari ma piuttosto essere senza potere, senza ascolto, senza confidenza» 

Carlo Maria Martini appariva austero, ma chi, come me, l’ha conosciuto e ha collaborato con lui da vicino, sa bene quanto fosse un uomo capace di appassionarsi. Come quando parlava di ospitalità, di carità, di povertà. Sui poveri, per esempio, ho sentito da lui una definizione sempre attuale: «Poveri siamo un po’ tutti, perché la povertà è soprattutto non contare niente. Non è tanto essere senza denari, ma piuttosto essere senza potere, senza ascolto, senza confidenza». Ecco perché aggiungeva: «Ciascuno deve tirar fuori con coraggio la sua povertà e saper guardare agli altri a partire da questo punto di osservazione».

Sono parole che mi hanno accompagnato nell’ormai ventennale cammino della Casa della Carità. Mi hanno consolato di fronte alle difficoltà, consapevole di quella fatica dell’ospitalità che Martini aveva sinterizzato nelle due radici semantiche della parola stessa: hospes, come amicizia e hostis come inimicizia, cioè come fatica.

Oggi più che mai, in una realtà sempre più interconnessa, ma che troppo spesso lascia indietro i più deboli considerandoli «uno scarto», come ha scritto Papa Francesco, mi pare decisivo essere capaci di ripartire dai poveri, dai più fragili, estraendo ricchezza culturale dalle diversità. Come? Diceva sempre Martini: «Facciamo in modo che si moltiplichino i piccoli luoghi di conoscenza, condivisione, ascolto e a un certo punto, da questi tanti piccoli luoghi, nascerà una città».

Carlo Maria Martini, dieci anni dalla morte: che cosa di lui oggi ci porterebbe un po’ di luce? Marco Garzonio su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

Intuizioni, riflessioni e inquietudini del cardinale arcivescovo di Milano. A Basilea con Aleksi fu protagonista nel 1989 del primo incontro ecumenico dopo 500 anni. Durante Tangentopoli fu un salvagente morale 

Per fare memoria di Carlo Maria Martini, morto il 31 agosto 2012, dobbiamo chiederci cosa di lui oggi sarebbe utile avere per prospettare qualche punto fermo nel disorientamento che offusca individui, governi, relazioni internazionali e un po’ di luce sul cammino di persone e comunità. È un modo per rispettare lui e assumere su di noi il riferimento al Salmo che il cardinale volle inciso sulla tomba in Duomo: «Lampada per i miei passi è la tua Parola». Sempre nello spirito che Martini ha disseminato negli oltre 22 anni di magistero immaginiamo sette (numero biblico per eccellenza cui infinite volte l’Arcivescovo fece riferimento) possibili nessi tra memoria viva del cardinale e attualità cocente.

Casa Europa

Non c’era evento piccolo o grande di cui Martini non cercasse consonanze nella Scrittura. Dalla liturgia del giorno o dal brano che gli balzava all’occhio aprendo la Bibbia si chiedeva «Che cosa mi dicono queste parole». Dio non ha parlato una volta per tutte e non ha abbandonato l’uomo al suo destino. La creatura è chiamata ogni giorno a continuare l’opera del Creatore con altri uomini, ambiente, cultura. Martini fu protagonista nel 1989 del primo incontro ecumenico dopo 500 anni: a Basilea guidò i cristiani d’Europa insieme ad Aleksi, Metropolita di Leningrado poi Patriarca della Russia. Niente scontri di civiltà ma la Parola (il titolo di Basilea, «Giustizia, pace, salvaguardia della Creazione», era sintesi del vangelo delle Beatitudini) rende fratelli. Il progetto d’una casa comune europea coi cristiani al lavoro fianco a fianco contribuì al crollo del Muro di Berlino.

Il senso della storia

Allo scoppio di Tangentopoli Martini fu un salvagente morale nello sfarinamento di politica, istituzioni, economia (Romiti chiese scusa in pubblico al cardinale per il coinvolgimento della Fiat nello scandalo). Ma punto di riferimento per tutti, credenti e non, divenne perché propose una visione del vescovo estraneo a beghe pratiche e logiche di potere. Riportò d’attualità il patrono Ambrogio, «defensor civitatis», capace di negare la comunione all’Imperatore per comportamenti dispotici.

Potenzialità individuali

La prima lettera pastorale di Martini «La dimensione contemplativa della vita» stupì i laici e mise in crisi i cattolici. I primi trovarono un uomo di Dio che esponeva pensieri, idee, valutazioni in modo molto laico, con una libertà invece poco praticata nelle «chiese ideologiche» dei tempi (marxiste, liberal); i secondi, affetti ancora da dosi di clericalismo e rendite di posizione d’un Paese che si credeva cattolico, vennero riportati alla coscienza individuale. «Cristiani adulti» era leit motiv della pastorale martiniana.

Il ruolo della politica

Alla morte di Lazzati (1986) Martini istituì le Scuole di formazione al sociale e al politico. Le intitolò all’ex rettore della Cattolica che, tornato dalla prigionia in Germania, aveva scritto un manifesto «I fondamenti di ogni ricostruzione» ed era stato Padre Costituente (si attende che Roma sblocchi la causa di beatificazione di Lazzati). La politica come servizio ispirata al bene comune procurò guai a Martini. La Lega ne chiese la rimozione da Milano. Ma anche molti cattolici faticarono ad accettare il senso di liberazione che lui espresse finita l’esperienza storica della Dc: la fede poteva essere lievito, granello di senape, animare un piccolo gregge nel sociale e non strumento di governo o di favori. Iniziava la traversata del deserto che dura oggi: la Chiesa di Francesco non dice per chi votare e che tratterà con chi andrà a palazzo Chigi. Resta il punto fermo del vangelo.

Le braci

Nell’intervista postuma pubblicata dal «Corriere» l’1 settembre 2012 Martini evocò l’icona delle braci. Torna il senso della storia, arricchito dal riferimento al possibile apporto ricreatore della Spirito. Il vento soffia e i tizzoni fan sprigionare il fuoco. Il cardinale non si arrese anche se la Chiesa si mostrava arretrata di 200 anni.

Preghiera, non sogni

Nel libro «Conversazioni notturne a Gerusalemme» Martini fa una confidenza a padre Spoerschil: prima aveva sogni sulla Chiesa, ma adesso (2007, l’ultimo anno a Gerusalemme) lui «prega per la Chiesa». Sembra una distonia con un Papa che da quasi dieci anni sprona a sognare. Forse è l’abbandono fiducioso alla «lampada per i miei passi» che conta più delle parole.

Pensieri e inquietudini

Quando Martini compì 80 anni Tettamanzi guidò un pellegrinaggio a Gerusalemme per portargli gli auguri della città. Ai Getsemani Martini si congedò dai fedeli così: «L’importante è che impariate a pensare, a inquietarvi». Riprendeva un’antica preghiera cristiana che lui aveva ripreso: «Dona Signore al tuo popolo Pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze». Coscienza, idee, libertà, responsabilità: quattro virtù senza tempo né casacche, attualità per la città e per il mondo.

Maris, sorella del cardinale Carlo Maria Martini: «Da ragazzino andava a gettare i libri proibiti nel Po. Il Papa? Non volle mai farlo». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 15 Agosto 2022. 

Maris Martini, sorella del cardinale morto 10 anni fa: «Dietro Carluccio mi apparvero papà e mamma. Davanti a Wojtyla si inginocchiò con le scarpe bucate»

Maria Stefania Martini, detta Maris, è una donna alta, bella, dagli occhi chiari. L’aria di famiglia è quella. A 88 anni, sta passando qualche giorno in una casa di cura sul lago di Garda; «ma solo per dimagrire».

Signora Maris, com’era suo fratello, Carlo Maria Martini?

«Carluccio. In famiglia tutti lo chiamavamo così. Quando qualcuno, per far intendere di essere in confidenza con lui, lo chiamava Carlo Maria, io sorridevo».

Com’era Carluccio?

«Il miglior fratello che potessi sognare. Mi portava in casa le mie amiche in bicicletta. Organizzava per noi i mercatini, i giochi con le bambole».

Giocava pure lui?

«No, a lui piaceva giocare a nascondino con gli altri ragazzi. Ma non era un leader. Si prendeva cura degli amici, badava a che nessuno fosse escluso».

A scuola com’era?

«Il più bravo. Lo ricordo sempre sui libri. Passava i compiti al vicino di banco, ma gli diceva: “Sei sicuro che sia per il tuo bene?”. Per questo qualcuno non lo amava. Francesco, il nostro fratello più grande, lo picchiava gridando: “Sei un perfettino, ti faranno Papa!”».

Ci andò vicino.

«Non voleva assolutamente. Lei se lo ricorda al funerale di Wojtyla, alla vigilia del conclave del 2005? Arrivò zoppicando, appoggiato a un bastone nodosissimo. Non gli avevo mai visto un bastone così in vita sua. Si sedette a San Pietro e lo appoggiò davanti, ostentandolo in mondovisione il più possibile. Era il suo modo di dire: “Non votatemi”».

Eppure in quel conclave ebbe almeno 35 voti.

«Che, dicono, fece confluire su Ratzinger. Avevano idee diverse; ma mio fratello lo considerava l’uomo giusto per la Chiesa in quel momento».

Com’era il rapporto tra loro?

«Quando glielo chiesi, dopo che Ratzinger divenne Papa, mi indicò con il suddetto bastone un cassetto. Dentro c’era la loro corrispondenza. Si confrontavano sulla Bibbia, dandosi rigorosamente del lei».

Nel suo libro «L’infanzia di un cardinale» lei cita una testimonianza di Alfonso Signorini, il direttore di «Chi».

«L’argomento era l’omosessualità di Signorini, che confidò a mio fratello le proprie sofferenze. Lui rispose che “saremo ricordati per quanto avremo amato”. Una frase in cui non riconosco il suo stile; ma l’aveva trovata in San Giovanni della Croce, su cui stava lavorando per un ciclo di esercizi spirituali».

La famiglia Martini era religiosa?

«Nostra madre Olga sì. Nostro padre Leonardo, ingegnere, non tanto. Ma Carluccio era nato con la vocazione dentro».

Ebbe mai fidanzate?

«No. E quando Montanelli gli chiese se avesse avuto tentazioni, rispose: lei pensa che interessi ai lettori? Lo ricordo nel 1940, al lido di Camaiore, fermarsi a pregare in un convento vicino alla spiaggia. Una grazia naturale, che sentiva di dover confermare con la propria vita. Il resto lo fecero i gesuiti. Un giorno, nel 1941, cominciò a gettare i libri di nostro padre nel Po…».

Nel Po?

«Carluccio aveva portato a casa l’Indice dei libri proibiti, e si era reso conto che la biblioteca di casa ne era piena; a cominciare da Balzac. Avevamo lasciato la nostra casa natale di via Cibrario e ci eravamo trasferiti sul Lungo Po. Mio fratello e mia madre scesero sulla riva. Lei ritagliava il frontespizio dei libri, per cancellare titolo e autore; e lui li gettava con tutta la sua forza al centro del fiume, in modo che la corrente li portasse via».

Quando decise di farsi prete?

«Nel settembre 1944. Andò a Cuneo, in seminario. Siccome sapeva il tedesco gli accadde di fare da interprete: conobbe Peiper, il boia di Boves. Mio padre soffrì moltissimo il doversi privare di lui. Scrisse a suo fratello Pippo e a sua sorella Elena, dolendosi perché stava perdendo il figlio prediletto. Entrambi gli risposero che sarebbe stata una benedizione per tutta la famiglia».

Fu così?

«Non siamo santi. E Carluccio non era un asceta. Era un uomo che amava le gioie della vita. Ad esempio gli piaceva andare al ristorante: quand’era rettore della Gregoriana scoprì la cucina di Roma, mangiavamo insieme i carciofi alla giudia e la carbonara. Certo, era un uomo di grande fede».

Non aveva mai dubbi?

«Se li aveva, li confidava al confessore, non a noi. Nel 1972 perdemmo nel giro di pochi mesi nostro padre, nostra madre e nostro fratello Francesco, stroncato da un ictus cento giorni dopo essersi sposato. Fu un dolore terribile. Tempo dopo mi confidai con Carluccio, lui era già arcivescovo di Milano. Mi disse: “Maris, non è come dici. Loro non sono morti. Sono qui con noi. Non li vedi?”. Io alzai lo sguardo, e alle sue spalle vidi mamma, papà e Francesco».

Anche vostra madre aveva sofferto per la sua scelta?

«Sì. Sarà stato il 1949, Carluccio studiava teologia a Chieri, quando gli venne una polmonite. La mamma voleva portargli un cuscino più morbido; ma nel convento non lasciavano entrare le donne. La ricordo mentre stringe e bacia il cuscino su cui il figlio avrebbe posato il capo, prima di affidarlo a papà perché glielo portasse».

Il giovane Martini viaggiò molto, in America e in Terrasanta.

«Vicino a Gerusalemme, arrivando dall’Egitto, cadde in un pozzo. Stava visitando un sito archeologico quando la terra gli franò sotto i piedi, e lui precipitò. Si salvò per miracolo, ma ruppe la macchina fotografica che portava al collo. Era mia, gliel’avevo prestata. Rimase mortificatissimo».

Con Wojtyla che rapporto avevano?

«Certo non provavano la stessa sintonia che legava mio fratello a Paolo VI. Eppure fu Wojtyla a mandarlo a Milano, anche se erano così diversi. Noi eravamo una famiglia borghese, all’ordinazione episcopale venne la nostra balia veneta, la Lisa, con sua figlia, la Elsa. Le presentammo al Papa, che però non capiva la parola “balia”. La Elsa ebbe un colpo di genio: “Mi son la figlia de la dona di servissio”. Wojtyla annuì».

Come ricorda la cerimonia?

«Quando mio fratello si prosternò davanti al Papa, vidi che aveva le scarpe bucate. Il vescovo africano al fianco le aveva lucidissime. Carluccio non amava il Vaticano, si sentiva soffocare. Le cerimonie lo annoiavano, i formalismi lo infastidivano. Indossò le calze rosse da cardinale sbuffando».

Fu felice di trasferirsi a Milano?

«Accadde tutto all’improvviso. Gli spiaceva lasciare Roma e il suo clima tiepido. Noi siamo torinesi, la nostra chiesa di riferimento è la Consolata. Per i milanesi invece il Duomo, l’arcivescovo, sono tutto. Si trovò benissimo. In tanti — Albertini, de Bortoli, Liliana Segre… — lo adoravano».

Prima però viene la Milano del terrorismo.

«Mio fratello celebrò matrimoni e battesimi in carcere. Fu criticato per questo; ma lui ha sempre avuto la passione del dialogo. Fece incontrare carnefici e vittime. E si fece consegnare due sacchi pieni di armi. Gli chiesi: e se vi beccavano? Credo avesse avvertito le forze dell’ordine e i magistrati. Al suo segretario aveva detto solo: ti porteranno questi due sacchi, tu ritirali. Era la resa incondizionata dei terroristi. L’inizio della riappacificazione».

Poi venne la Milano da bere.

«Giravano molti soldi. Lui con le offerte aprì la Casa della carità, il museo diocesano… Ora ho fatto fare una Rosa che porta il suo nome, e siccome per qualche anno la produzione è limitata le ho prese tutte io, le rose, per regalarle ai luoghi che Carluccio aveva nel cuore. Per primi, appunto, la Casa della carità, il museo, le carceri».

Quindi arrivò Tangentopoli.

«Gli dissi: tu tieni i tuoi discorsi, poi i tuoi parroci fanno votare per la Lega… Sorrise. Era un uomo molto spiritoso e bonario».

E andò a Gerusalemme.

«Diceva: “A Gerusalemme è meraviglioso morire, ma è terribile essere moribondi”. Viveva nel Pontificio istituto biblico, aveva il Parkinson, gli servivano cure, a volte cadeva, ma non voleva disturbare i confratelli, che passavano tutto il giorno fuori a studiare. Sognava di essere sepolto nella Valle di Giosafat, dove si terrà il Giudizio universale; è venuto a morire a Gallarate».

Dieci anni fa. Nella casa dei gesuiti. Sei mesi prima delle dimissioni di Ratzinger e dell’elezione di Francesco.

«Con Bergoglio si erano sfiorati nel 1974. Erano entrambi a Roma per la congregazione generale della Compagnia di Gesù. La spaccatura tra conservatori e difensori della teologia della liberazione era terribile, mio fratello tentava di mediare. Per calmare gli animi, padre Arrupe, che aveva una bella voce, nei momenti di massima tensione intonava un canto».

Il cardinal Martini temeva la morte?

«Sì. Forse perché presagiva che sarebbe stata una morte pubblica. L’arciprete gli chiese in quale parte del Duomo volesse essere sepolto. Rispose: faccia lei».

Come ricorda il 31 agosto 2012?

«I miei figli, Giulia e Giovanni, mi mandarono a chiamare. Gli tenevo la mano, ma non era più cosciente. Ha avuto una bella morte; troppo affollata, però. Il soggiorno era pieno, in camera sua erano in dodici. Ricordo un’orribile coperta peruviana in pile, ricamata a farfalle e fiori. Era il 31 agosto e proprio non serviva. Gliel’aveva messa addosso una suora, temo per farla a pezzetti da diffondere come reliquie. Ma io avrei preferito un lenzuolo bianco e un cuscino morbido, come quello che tanto tempo prima gli aveva portato la nostra mamma. Come nell’iconografia della morte dei santi».

Geopolitica vaticana. Il Concistoro di Papa Francesco e i nuovi equilibri nella Chiesa. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 30 Maggio 2022.

Bergoglio nominerà di 21 nuovi porporati. Di questi, 16 avranno diritto di voto in un eventuale conclave. Salgono così a 113 i cardinali scelti dal Pontefice, contro i 64 e i 52 rispettivamente creati da Benedetto XVI e da Giovanni Paolo II. Il Sacro Collegio appare sempre meno eurocentrico e più universale.

A poco meno di 48 ore dalla definitiva uscita di scena del cardinale Angelo Sodano, onnipotente e controverso segretario di Stato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI (che ne accettò le dimissioni il 22 giugno 2006 per raggiunti limiti d’età), Papa Francesco ha ieri annunciato, dopo la consueta preghiera del Regina coeli, un nuovo concistoro per la creazione di 21 nuovi porporati. Di essi 16 avranno diritto di voto in un eventuale conclave. 

Avendo invece superato gli 80 anni il giorno della solenne adunanza, che si terrà il 27 agosto, saranno cinque i non elettori: i due arcivescovi emeriti di Cartagena (Colombia) Jorge Enrique Jiménez Carvajal e di Cagliari Arrigo Miglio, il salesiano belga Lucas Van Looy, vescovo emerito di Gent, il camerlengo del Capitolo di San Pietro ed ex sottosegretario del Sinodo dei Vescovi Fortunato Frezza, l’insigne canonista gesuita Gianfranco Ghirlanda. A quest’ultimo, già rettore della Pontificia Università Gregoriana dal 2004 al 2010, il pontefice ha voluto così riconoscere il fondamentale apporto alla stesura della Praedicate evangelium, la costituzione apostolica sulla riforma della Curia Romana in vigore dal prossimo 5 giugno. Documento che, come comunicato sempre ieri da Bergoglio, sarà oggetto di riflessione «di tutti i cardinali» il 29 e il 30 agosto 

È facilmente immaginabile la consistenza di una tale assise, dal momento che con l’imminente concistoro (ottavo del pontificato di Francesco) il Sacro Collegio sarà costituito da 229 cardinali, di cui 132 elettori e 97 non elettori. Non tutti, è vero, potranno parteciparvi per motivi di salute, età avanzata o impedimenti vari. Ma anche con tali limiti sarà preponderante la presenza di porporati bergogliani: 113 contro i 64 e i 52 rispettivamente creati da Benedetto XVI e da Giovanni Paolo II. Differenze ancora più evidenti, se si considerano i soli elettori: il 27 agosto saliranno infatti a 83 i bergogliani di contro ai 38 ratzingeriani e agli 11 wojtyłiani. E alla fine dell’anno – con sei “nuovi” ottantenni – saranno rispettivamente 82, 34 e 10.

Ma a destare interesse sono soprattutto i profili dei 16 nuovi cardinali elettori, la cui creazione Francesco ha ieri annunciato. Più che i tre capi dicastero della Curia Romana, ossia il prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti Artur Roche, il prefetto della Congregazione per il Clero Lazzaro You Heung-sik, il presidente del Governatorato Fernando Vérgez Alzaga, a colpire sono i nomi dei restanti presuli, tutti alla guida di diocesi più o meno importanti. Di essi due gli italiani: il settantunenne vescovo di Como Oscar Cantoni e Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator in Mongolia, che coi suoi 48 anni diventa il componente più giovane del Sacro Collegio. L’altro europeo è invece l’arcivescovo di Marsiglia Jean-Marc Noël Aveline. 

Quattro, inoltre, gli asiatici e altrettanti quelli operanti nelle Americhe: si tratta dell’arcivescovo di Goa e Damao (India) Filipe Neri António Sebastião do Rosário Ferrão (India), dell’arcivescovo di Hyderabad (India) Anthony Poola, dell’arcivescovo di Dili (Timor Est) Virgílio do Carmo da Silva, dell’arcivescovo di Singapore William Seng Chye Goh e dell’arcivescovo di Manhaus (Brasile) Leonardo Ulrich Steiner, dell’arcivescovo di Brasilia Paulo César Costa, dell’arcivescovo di Asunción (Paraguay) Adalberto Martínez Flores, del vescovo di San Diego (Usa) Robert W. McElroy. Due, infine, gli africani: il vescovo di Ekwulobia (Nigeria) Peter Ebere Okpaleke e il vescovo di Wa (Ghana) Richard Kuuia Baawobr. 

Con tali porporati il Sacro Collegio appare sempre meno eurocentrico e più universale. Preconizzandoli, Francesco ha dato infatti nuovamente prova della sua predilezione per zone periferiche o per presuli impegnati in quelle che lui stesso chiama «periferie esistenziali». 

Un nome, in ogni caso, solleva qualche perplessità ed è quello del vescovo di Wa. Promosso all’episcopato da Papa Francesco il 17 febbraio 2016 dopo essere stato per un sessennio superiore generale dei Missionari d’Africa o Padri Bianchi e quindi dallo stesso Bergoglio designato, il 4 luglio 2020, a componente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Richard Kuuia Baawobr è indubbiamente un presule zelante. Ma è anche uno di quelli che si è sempre distinto per inequivocabili posizioni anti-Lgbt+ in un Paese come il Ghana, in cui i rapporti tra persone dello stesso sesso sono puniti fino a tre anni di carcere e in cui è all’esame una proposta di legge ancora più draconiana di quella russa contro la cosiddetta propaganda omosessuale. 

S’è reso soprattutto celebre il 7 aprile dello scorso anno, quando ha pubblicamente ringraziato il neoeletto presidente del Parlamento, Alban Sumana Kingsford Bagbin, per l’inflessibilità contro la promozione dei diritti Lgbt+ e l’ha esortato a non cedere ad alcuna pressione esterna. Di Baawobr è inoltre noto l’aperto sostegno alla conferenza regionale per l’Africa del World Congress of Families, tenutosi proprio nella capitale ghanese dal 31 ottobre al 1° novembre 2019. 

Tra i relatori, all’epoca, Brian Brown, presidente dell’International Organization of Families – Iof (noto in Italia per il ruolo protagonistico al Congresso di Verona, i legami con Pro Vita e l’aperto sostegno a Matteo Salvini), e Theresa Okafor, attivista nigeriana tra le proponenti della legge del 2014, che criminalizza le relazioni tra persone dello stesso sesso, lo scambio di effusioni in pubblico e persino la frequentazione di locali e associazioni Lgbt+.

·        Il Sinodo.

"Noi andiamo avanti". I vescovi tedeschi sfidano ancora Roma. Nico Spuntoni il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

Al termine della Visita ad limina, la conferenza episcopale tedesca respinge le critiche della Curia. Ed è giallo sull'assenza del Papa all'incontro

Se non è stata una resa dei conti, poco ci è mancato. Quello andato in scena tra i vescovi tedeschi in Visita ad limina in Vaticano e la Curia romana preoccupata per la strada intrapresa dal Cammino Sinodale non è stato un confronto facile. In ballo c'è l'unità della Chiesa stessa e la fedeltà ai suoi insegnamenti di sempre.

Le visite ad limina Apostoloroum a Roma per incontrare il Papa e ricevere consigli sul governo delle Chiese locali rappresentano un obbligo canonico per tutti i vescovi della Chiesa cattolica. L'ultima volta della Conferenza Episcopale tedesca (Dbk) era stata nel 2015, quando il discusso Cammino Sinodale non era ancora iniziato. Nella settimana appena trascorsa, i 62 membri della Dbk hanno avuto modo di incontrare Francesco giovedì mattina al Palazzo Apostolico. Il faccia a faccia è stato piuttosto lungo, ma ha toccato temi generali come il ruolo dei laici nella Chiesa e l'attività pastorale in un mondo che cambia. Solo a margine è stata affrontata la questione più calda, quella del Cammino Sinodale tedesco che ha nella sua agenda cambiamenti radicali su morale sessuale, ruolo delle donne, celibato, partecipazione ai sacramenti e scelta dei vescovi.

Questo perché era in programma la presenza di Francesco all'ultimo incontro, previsto per venerdì mattina all'Istituto Augustinianum subito fuori le mura vaticane, dedicato specificamente al Cammino Sinodale tedesco e durante il quale era stato fissato un confronto con i capi dicastero della Curia. Ma, a sorpresa, Jorge Mario Bergoglio non si è presentato all'auditorium dell'università cattolica, mentre a confrontarsi sui temi più divisivi sono rimasti da una parte i vescovi tedeschi e dall'altra il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin con gli altri prefetti della Curia. Tra di loro c'era il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, titolare di quel Dicastero per la dottrina della fede da cui nel febbraio 2021 uscì il Responsum che ribadiva il niet di Roma alla benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso. Proprio questo è uno dei temi su cui la Chiesa tedesca è andata allo scontro con Oltretevere, non solo per la protesta di centinaia di sacerdoti che hanno disobbedito, ma soprattutto per un documento favorevole alle benedizioni approvato proprio nell'assemblea plenaria del percorso sinodale.

Lo scontro tra Curia e vescovi tedeschi

Nonostante venerdì mattina i capi dicastero abbiano espresso le loro preoccupazioni per i cambiamenti radicali che l'episcopato tedesco intende portare avanti nel Cammino Sinodale, il presidente della Conferenza, monsignor Georg Bätzing ha apertamente sfidato Roma dicendo in conferenza stampa che non toglierà "la possibilità di benedire quelle coppie omosessuali che chiedono la benedizione di Dio".

Non è stato questo l'unico dissidio. E che il confronto con la Curia abbia lasciato nodi irrisolti lo si poteva constatare dalla lettura del comunicato congiunto di Santa Sede e conferenza episcopale di Germania diffuso venerdì sera. Dalla nota, infatti, si è scoperto che i capi dicastero avrebbero addirittura provato a chiedere un'interruzione del Cammino Sinodale nella formula di una moratoria che però è stata respinta dai vescovi tedeschi.

A difendere l'unità della Chiesa universale sono stati soprattutto i cardinali Ladaria Ferrer e Marc Ouellet, prefetto del Dicastero per i vescovi, che hanno manifestato i loro dubbi sul merito e sul metodo delle proposte dalla Germania. I temi più divisivi si scorgono tra le righe del comunicato quando si parla di "strutture della Chiesa, ministero sacro e l'accesso ad esso, l’antropologia cristiana". Dunque la Curia deve aver respinto come non accettabili proposte come ordinazione femminile, abolizione del celibato, partecipazione dei laici nell'elezione dei vescovi. E Parolin ha fatto capire all'episcopato tedesco che al ritorno in Germania "non si potrà non tenere conto" dei rilievi avanzati a Roma dalla Curia.

E il Papa? Anche nel recente viaggio di ritorno dal Bahrain, Francesco aveva fatto capire che le spinte eccessive del Cammino Sinodale tedesco non sono di suo gradimento dicendo che in Germania c'è già "una grande e bella Chiesa evangelica" e che lui non ne vorrebbe un’altra ma la preferisce "cattolica, alla cattolica, in fratellanza con la evangelica". La sua mancata partecipazione al confronto sul percorso sinodale organizzato venerdì mattina non è stata al momento giustificata dal Vaticano. Un'interpretazione l'ha data in conferenza stampa il presidente della conferenza episcopale tedesca, Bätzing, definendolo "un abile gesuita" che li ha "lasciati lottare tra fratelli".

Roberto De Mattei per “Libero quotidiano” il 15 novembre 2022.

Il Sinodo Generale convocato da Papa Francesco per l'autunno del 2023 rischia di essere pesantemente influenzato dal "Cammino Sinodale Tedesco" (Synodale Weg), che suscita la preoccupazione di eminenti prelati come il cardinale Gerhard Müller, secondo cui: «Stanno sognando un'altra chiesa che non ha nulla a che fare con la fede cattolica...e vogliono abusare di questo processo, per spostare la Chiesa cattolica, non solo in un'altra direzione, ma verso la (sua) distruzione». 

Per chi vuole comprendere quale sia questa direzione, è utile la lettura del libro, appena tradotto in Italia, della storica Julia Meloni, dedicato a La Mafia di San Gallo. Un gruppo riformista segreto all'interno della Chiesa, Fede e Cultura, Verona 2022, pp.178, euro 18). 

La lettura di questo libro è appassionante come un romanzo, ma tutto vi è documentato secondo un rigoroso metodo storico.

Questo aspetto merita di essere sottolineato in un momento in cui certe teorie cospirative sono esposte in maniera superficiale e talvolta fantasiosa. Per supplire alla mancanza di prove, queste teorie utilizzano la tecnica di una narrazione, che fa presa sulle emozioni, più che sulla ragione, e conquista chi, con un atto di fede, ha già deciso di credere all'inverosimile. 

Julia Meloni racconta invece la storia di una cospirazione reale, di cui espone accuratamente il fine, i mezzi, i luoghi, i protagonisti. È la storia della "Mafia di San Gallo", come la definì uno dei suoi principali esponenti, il cardinale belga Godfried Danneels.

San Gallo è una cittadina svizzera, di cui nel 1996 era vescovo mons. Ivo Fürer, che era stato, fino all'anno precedente, segretario generale della Conferenza dei vescovi europei. D'accordo con il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, mons. Fürer decise di invitare un gruppo di prelati, per stabilire un'agenda di lavoro per la Chiesa del futuro. Il gruppo si riunì per dieci anni, tra il 1996 e il 2006. Le personalità chiave, oltre al cardinale Martini, erano Walter Kasper, vescovo di Rottenburg-Stoccarda e Karl Lehmann, vescovo di Magonza, entrambi destinati a ricevere la porpora cardinalizia. 

Successivamente vennero cooptati altri due futuri cardinali: Godfried Danneels, arcivescovo di Malines-Bruxelles e Cormac Murphy-O' Connor, arcivescovo di Westminster. Ad essi si aggiunse nel 2003 il cardinale della Curia romana Achille Silvestrini, grazie al quale il gruppo di San Gallo divenne una potente lobby, capace di determinare l'elezione di un Pontefice. Pochi giorni dopo il funerale di Giovanni Paolo II, su invito di Silvestrini, la "mafia di San Gallo" si incontrò a Villa Nazareth, a Roma, per concordare un piano di azione in vista del prossimo conclave. 

IL PIANO In una fotografia apparsa su The Tablet del 23 luglio 2005, accanto al cardinale Silvestrini, si vedono i cardinali Martini, Danneels, Kasper, Murphy-O' Connor, Lehmann, tutti "membri chiave della Mafia di San Gallo", come scrive Julia Meloni.

Il piano iniziale prevedeva l'elezione al soglio pontificio del cardinale Martini, ma proprio a partire dal 1996, l'anno della creazione del gruppo, l'arcivescovo di Milano iniziò ad avvertire i primi sintomi del morbo di Parkinson. Nel 2002, il cardinale rese pubblica la notizia passando il testimone al cardinal Silvestrini, che dal gennaio del 2003 fu il regista delle grandi manovre che si tennero in vista dell'elezione del nuovo pontefice.

Il cardinale Murphy-O' Connor era a sua volta legato con il cardinale Jorge Maria Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, e lo presentò al gruppo come possibile candidato anti-Ratzinger.

Bergoglio raccolse il consenso della "mafia di San Gallo", ma fu proprio il cardinale Martini a nutrire i maggiori dubbi sulla sua candidatura, anche alla luce delle informazioni che sul vescovo argentino gli giungevano dall'interno della Compagnia di Gesù. Fu forse con sollievo che, quando in conclave del 2005 la sconfitta di Bergoglio apparve certa, il cardinale Martini annunziò al cardinale Ratzinger che gli avrebbe messo a disposizione i propri voti. 

Il gruppo di San Gallo tenne un'ultima riunione nel 2006, ma Martini e Silvestrini continuarono ad esercitare una forte influenza sul nuovo pontificato. Nel 2012, il cardinal Kasper parlò di un «vento del Sud», che soffiava nella Chiesa e il 17 marzo 2013, pochi giorni dopo la sua elezione, papa Francesco citò, non a caso, Kasper come uno dei suoi autori preferiti, assegnandogli il compito di aprire il Concistoro straordinario sulla Famiglia, nel febbraio 2014.

L'essenza di Amoris Laetitia è contenuta nell'"ultimo testamento" di Martini, l'ultima intervista da lui rilasciata, pubblicata subito dopo la sua morte nel 2012. In quel testamento Martini parlava specificamente di portare i sacramenti a divorziati risposati civilmente, prefigurando così la proposta di Kasper nei sinodi sulla famiglia e poi in Amoris Laetitia.

Un dettaglio curioso che l'autrice sottolinea è questo: da dove ha tratto il proprio nome Papa Francesco? Secondo la vulgata, il cardinale Hummes, in occasione dell'elezione di Bergoglio, gli avrebbe chiesto di non dimenticare i poveri, spingendolo ad assumere il nome "Francesco". Ma il cardinale Danneels aveva ripetutamente chiesto un "nuovo Francesco" già negli anni '90 e fino a poche settimane prima del conclave del 2013. Quindi non solo l'elezione e il programma, ma anche il nome di Francesco sembra frutto delle manovre della lobby.

Jorge Maria Bergoglio ha però deluso i progressisti in misura non minore di quanto abbia irritato i conservatori, e il suo pontificato conosce, dopo nove anni, un inesorabile declino. Tuttavia, se i principali esponenti della "Mafia di San Gallo" sono morti, il suo spirito modernista aleggia sul processo sinodale, mentre nuove manovre sono in corso per il prossimo conclave. 

"Motus in fine velocior", come dice il vecchio proverbio. Mentre presumibilmente ci avviciniamo alla fine del pontificato di papa Francesco, sembra che gli eventi si stiano accelerando con il documento Traditionis Custodes e il sinodo "alla Martini" sulla sinodalità". Le pagine di Julia Meloni aiutano a capire meglio le oscure dinamiche che agitano oggi la Chiesa.

Sinodo: che roba è? Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista l'8 Giugno 2022.

Un fantasma si aggira per l’Orbe Cattolico: il Sinodo in corso. Tutti ne parlano, nessuno sa esattamente cosa sia. Sappiamo soltanto che ci si incontra, si parla, di discute. Esattamente di cosa? Anche qui, non sembra chiaro. Dico subito, per chiarezza: se prendo un abbaglio, se qualche lettore non è d’accordo, lo dica entrando nel merito. Non gradisco commenti ‘ad hominem’ come quelli ricevuti ultimamente da saccenti sedicenti commentatori (tipo, mi hanno scritto,  che sono vecchio – come se l’autrice di questa perla resterà sempre giovane… – oppure che non so niente di Vaticano dove ovviamente non avrei mai messo piede e che comunque nel mondo del giornalismo nessuno mi conosce. Vabbe’, tralasciamo…). Insomma se c’è qualcosa da dire, prego restiamo sui fatti e non sulle persone che ne scrivono (regola elementare di buona educazione).

Dico questo perché il primo problema del mondo cattolico è qui: per evitare di discutere sui temi, si passa a calunniare le persone cercando di sviare l’attenzione. Del tipo: l’argomento, certo, è importante, certo, però quello lì che lo ha sollevato è un tipo così e così… E che c’entra? Niente, è un modo per distrarre e non parlare.

Bene, torniamo al Sinodo. Adesso il teologo Brunetto Salvarani elenca una serie di problematiche irrisolte. Tutte serie, intendiamoci, ma il problema è di fondo. Anzi a ben guardare i problemi sono due. Una nota di metodo e una di contenuto. Metodo: è un commento troppo lungo!!!! Come si fa a leggere ‘sta lenzuolata? Non è possibile. Il mezzo è il messaggio: un post troppo lungo diventa indigesto sebbene molto azzeccato. Serve a pochissimi e non arriva ad un pubblico più ampio come meriterebbe!

Contenuto: vanno messe a fuoco due questioni. La prima: tanto lo spazio per discutere liberamente non c’è e nessuno sa come fare. In Italia c’è una cultura cattolica che discute liberamente? Non mi pare. Anche la segreteria del Sinodo non sa come fare e va avanti con newsletter in diverse lingue la cui efficacia non si sa quale sia. Voglio dire che servirebbe uno sforzo vero di dialogo, a partire dai media cattolici che dovrebbero iniziare ad ospitare opinioni e non selezionarle in base ai ‘desiderata’ di chi comanda o – peggio – ai presunti desiderata. Il risultato è semplice: il meglio dei teologi (i pochi che hanno coraggio di scrivere) o gli studiosi  e  gli intellettuali (pochi anche questi) vanno per conto loro sui giornali laici (quando li pubblicano) oppure su blog personali che a volte sono seguitissimi. Però sta di fatto che luoghi veri di incontro non ci sono. E il Sinodo diventa un fantasma in giro per l’Orbe Cattolico.

Seconda questione, collegata alla prima. Appunto per questo assistiamo ad un caos di blog, siti, approcci di tutti i generi, nella confusione più totale. Non parresia (discussione libera e sincera), confusione pura e semplice dove le vere intenzioni non si quali siano e spesso i blog servono per finalità iper-personali di guerre di potere interno alle retrovie più impensabili del sottomondo cattolico. Tutto, ovviamente, mascherato da buone intenzioni: tutti hanno voglia di far progredire la Chiesa – tutti Pelagiani, direbbe Papa Francesco perché tutti hanno la soluzione in tasca. Invece fanno parte di un unico caos il cui scopo, ancora una volta, è sviare l’attenzione e andare proprio da nessuna parte.

Viene al pettine un nodo profondo: la mancanza di una opinione pubblica nel mondo cattolico, visto che non si è mai voluto lavorare affinché ci fosse. Dal Vaticano ai vescovi, è difficile mettere in discussione la cultura clericale. E invece il Sinodo dovrebbe servire ad ‘uscire’ dai perimetri consolidati e dialogare con il resto del mondo (i cattolici sono 1,2 miliardi sugli oltre 7 miliardi di abitati del pianeta) che poi sarebbe il vero compito di una Chiesa in uscita che evangelizza.

·        La CEI. Conferenza Episcopale Italiana.

"Non siamo dipendenti". L'avvertimento del vescovo al Papa. Monsignor Athanasius Schneider, vescovo in Kazakistan, ha sollevato dubbi sulla presenza di Francesco a un Congresso con tutti i leader religiosi. Nico Spuntoni il 18 Settembre 2022 su Il Giornale. 

Il papa in Kazakistan ha sfiorato l'incontro con il presidente cinese Xi Jinping ma ha avuto modo di trovarsi faccia a faccia con una delle voci più critiche della Chiesa sull'indirizzo del suo pontificato: monsignor Athanasius Schneider. Vescovo ausiliare di Maria Santissima in Astana, il prelato kirghiso si è distinto per la sua contrarierà alle posizioni aperturiste sulla comunione ai divorziati e alle restrizioni delle celebrazioni in forma straordinaria del rito romano introdotte con il motu proprio Traditionis custodes.

Nella tre giorni papale nel Paese centroasiatico c'è stata anche l'occasione per salutare i vescovi e il clero locali ai quali, nell'omelia per la Messa celebrata nella cattedrale Madre di Dio del Perpetuo Soccorso, ha raccomandato di stare attenti a non "guardare indietro con nostalgia, restando bloccati sulle cose del passato e lasciandoci paralizzare nell’immobilismo" perché questa sarebbe "la tentazione dell'indietrismo". Ad ascoltarlo non solo il più noto Schneider ma anche l'arcivescovo di Astana, monsignor Tomasz Peta che nel 2018 fu - insieme al primo - autore del documento "Professione delle verità immutabili riguardo al matrimonio sacramentale" nel quale si ribadiva l'impossibilità di mettere in discussione l'indissolubilità del matrimonio alla luce di quella che veniva definita "l’attuale dilagante confusione" scaturita dopo la pubblicazione dell'esortazione apostolica Amoris laetitia.

Si può dire che l'episcopato kazako sia uno dei meno allineati all'agenda dell'attuale pontificato. E lo si è visto anche a margine della visita apostolica, con le perplessità espresse da monsignor Schneider per la partecipazione di Francesco al Settimo Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali, il principale motivo della sua presenza a Nur-Sultan.

Come ha riportato Philip Pullella, corrispondente di Reuters, il vescovo ausiliare ha riconosciuto che l'evento - fondato dall'ex presidente Nursultan Abishevich Nazarbayev e aperto ai rappresentanti di tutte le fedi - ha il merito di "promuovere il rispetto reciproco nel mondo" ma al tempo stesso ha denunciato il pericolo che la presenza del Papa "potrebbe dare l'impressione di un supermercato di religioni, e questo non è corretto, perché c'è solo una vera religione, ovvero la Chiesa cattolica fondata da Dio stesso". Schneider ha parlato di "pericolosità" perché in simili eventi vede il rischio di "minare la unicità e assolutezza di Gesù Cristo come Salvatore e della nostra missione di predicare a tutte le nazioni, a tutte le religioni, Gesù Cristo". Il presule kirghiso, che è stato anche docente universitario di patristica, aveva già sollevato dubbi su un altro pilastro dell'impegno interreligioso durante questo pontificato: il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune che Francesco firmò nel 2019 con il grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib.

Successivamente, nel corso di una visita ad limina dei vescovi kazaki e dell'Asia centrale, monsignor Schneider aveva chiesto al Papa di correggere un punto di quel documento nel quale si parlava di diversità delle religioni volute da Dio. Francesco concordò con lui che la frase così scritta poteva essere fraintesa e in una successiva lettera indirizzata al vescovo spiegò che la volontà di Dio riferita alla diversità di religioni era da intendersi solo come volontà permissiva di Dio.

La correzione, esplicitata anche durante un'udienza generale in piazza San Pietro, maturò a seguito della richiesta di Schneider che prese alla lettera l'appello del papa, durante la visita ad limina, ad esprimere liberamente le critiche. Monsignor Schneider ha deciso di farlo anche questa volta per il Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali e si è sentito in dovere di ricordare che a muoverlo è lo spirito di collegialità e motivando il suo atteggiamento con queste parole: "Non siamo dipendenti del Papa, siamo fratelli. Quando in buona coscienza sento che qualcosa non è corretto o ambiguo devo dirglielo, con rispetto, fraternamente".

Lorenzo Bertocchi per “La Verità” il 25 maggio 2022.   

«I vescovi devono sentirsi liberi di votare». Questo avrebbe detto papa Francesco lunedì mattina, in un incontro a porte chiuse con i vescovi italiani che, dai resoconti trapelati, risulta essere stato scoppiettante. Impegnati nell'Assemblea generale i presuli italiani sono stati appunto chiamati ad eleggere il successore del presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, e lo hanno fatto ieri mattina individuando la terna di nomi da sottoporre poi al Papa per la scelta definitiva.

E alla fine il Papa ha scelto come nuovo presidente della Cei il cardinale di Bologna, Matteo Maria Zuppi, 66 anni, già figura di punta dell'Onu di Trastevere, la Comunità di S. Egidio, e vescovo ausiliare di Roma dal 2012, quindi successore del cardinale Carlo Caffarra a Bologna per espressa volontà di Francesco. 

Ma il voto dei vescovi riuniti in assemblea più che libero è stato ampiamente indirizzato dal Papa stesso, tanto che la terna uscita ieri dalle urne è stata quasi perfettamente corrispondente alle attese, fatto salvo il terzo nome indicato, quello di monsignor Antonino Raspanti, 62 anni, vescovo di Acireale (avrebbe incassato 21 voti).

Ma si trattava di un outsider, gli altri due nomi sono stati, nell'ordine delle preferenze ricevute, quelli dei cardinali Matteo Maria Zuppi, 66 anni, arcivescovo di Bologna (108 voti), e Augusto Paolo Lojudice, 57 anni, vescovo di Siena (41 voti), cioè i due profili chiaramente emersi dai desiderata papali come espressi anche nell'intervista da lui concessa al direttore del Corriere qualche settimana fa.

«Preferisco che sia un cardinale», aveva detto papa Bergoglio a Luciano Fontana, aggiungendo in altra occasione che lo voleva anche sufficientemente giovane da non superare l'età canonica per la pensione, i 75 anni, prima della scadenza del quinquennio nel 2027. I nomi di Zuppi e Lojudice quindi sono gli unici che, come ampiamente atteso, rispondevano all'identikit, con l'aggiunta di essere particolarmente vicini allo stile e alla mens di Francesco.

I due sono considerati pastori in uscita, come si dice secondo un ritornello caro al pontefice, e due preti di strada, secondo un altro mantra di moda, ma tra loro sembrava essere in pole il cardinale di Siena, sebbene con un profilo meno «politico» di quello di chi viene dalla scuola di S. Egidio, la comunità fondata a Roma dal professor Andrea Riccardi nel 1968. 

Secondo molte indiscrezioni il cardinale Zuppi recalcitrava all'idea di impegnarsi nella presidenza Cei, anche perché è dato da più parti come uno dei candidati forti per un prossimo conclave e l'idea di assumere le tante beghe che un capo dei vescovi deve prendersi sulle spalle, non appare propriamente come una vetrina utile allo scopo.

Le patate bollenti di cui si dovrà occupare Zuppi, in primis la questione spinosa degli abusi del clero, come si può già intravedere da quanto accaduto in Francia e Spagna, e dalle pressioni esterne che proprio in questi giorni sono arrivate ai vescovi italiani riuniti in assemblea, saranno forse il dossier più ostico, ma ci sono anche i rapporti politici, quelli dottrinali, quelli con la stessa curia romana. 

 Per quanto Zuppi certamente si impegnerà, i riflettori saranno tutti puntati su di lui e ogni più piccola stecca sarà registrata dagli spettatori. Ecco allora che quello che veniva dato come il più forte candidato per succedere a Francesco, con questa «inattesa» elezione in qualche modo viene ridimensionato, insieme ai progetti di S. Egidio che secondo diverse interpretazioni da tempo è impegnata a lavorare al prossimo conclave. Nulla è compromesso in linea di principio, ma è evidente che Zuppi presidente della Cei è una grossa novità sul ruolo dei papabili di un futuro conclave.

Sembrava proprio che il Papa fosse orientato sul cardinale Lojudice, pensando per lui anche un ritorno a Roma in veste di vicario, invece, il Papa, forse un po' a sorpresa, ha scelto Zuppi, probabilmente rispondendo alla messe di voti che lo ha indicato come numero 1 della terna. 

Perché l'incontro a porte chiuse di lunedì è stata luogo di molti mal di pancia, tanto che la frase di Francesco che invitava a «votare liberamente» è suonata nelle orecchie di molti vescovi dal sapore retorico, visto che è arrivata dopo una tirata del Papa che ha affossato senza mezzi termini la candidatura di monsignor Erio Castellucci, vescovo di Modena. «So che è un bravo vescovo e che è il candidato di Bassetti», avrebbe detto Francesco, «ma io preferisco un cardinale». L'ex presidente Bassetti, che già è uscito di scena senza troppi complimenti, trovandosi accolte senza colpo ferire anche le sue dimissioni da vescovo di Perugia, ha incassato così un altro bel «buffetto» papale.

A questo punto si dice che un vescovo sia intervenuto in aula chiedendo direttamente al Papa a cosa servisse tutto questo sfoggio di democrazia, se l'elezione di fatto era già orientata verso i nomi di Zuppi e Lojudice. Una domanda, se veramente c'è stata, che ha una sua innegabile dose di buon senso.

Che il mal di pancia abbia preso molti vescovi lunedì è testimoniato dal fatto che monsignor Castellucci, nonostante il netto niet del Papa espresso davanti a tutti, sembra abbia preso parecchi voti nelle prima tornata di ieri mattina, salvo poi ritirarsi proprio perché memore della tirata papale nei suoi confronti. Ecco allora che il Papa potrebbe aver scelto Zuppi anziché Lojudice per dare atto del rispetto di una certa democraticità dell'elezione: il cardinale di Bologna è quello che ha preso più voti e il Papa ha «ratificato». «Cercherò di fare del mio meglio, ce la metterò tutta», sono le prime parole del neo presidente dei vescovi italiani. Ma il primo ad essere sorpreso per questa elezioni è forse lo stesso Zuppi, che di imbarcarsi in questa avventura pare non avesse tanta voglia.

Paolo Rodari per repubblica.it il 24 maggio 2022.

Chi lo conosce bene racconta che non ci sperava più di tanto nella nomina alla guida della Cei, pur sapendo di essere insieme al cardinale Paolo Lojudice tra i favoriti. Eppure, il Papa l'ha scelto dopo che il suo nome è stato quello più votato dai confratelli vescovi nella terna. Matteo Zuppi, "don Matteo" per tutti, 66 anni, romano, arcivescovo di Bologna, è sempre rimasto fedele alla semplicità che ha contraddistinto il suo sacerdozio prima, l'episcopato poi. 

Quando nel 2019 Francesco lo creò cardinale non a caso disse: "Il cardinale è rosso perché deve testimoniare fino al sangue. Speriamo di essere buoni testimoni del Vangelo: quello di oggi è chiarissimo". E ancora: "Dobbiamo cercare di essere sempre ultimi nell'amore e mettersi sempre al servizio degli altri".

Appartenente alla Comunità di Sant'Egidio fin dagli Anni del liceo, al Virgilio di Roma (qui conobbe Andrea Riccardi, "un ragazzo poco più grande di me - ha raccontato - che parlava del Vangelo a tanti altri ragazzi in maniera così diretta e nello stesso tempo con tanta conoscenza"), una laurea in lettere, quindi la scelta del sacerdozio a Roma, per anni vicino agli ultimi e ai poveri, viene scelto dal Papa anche per la sua capacità di unire le differenti anime presenti nella sua comunità, da quelle più vicine al pontificato in corso, fra queste la scuola dossettiana, a quelle più conservatrici che avevano visto nei vescovi suoi predecessori una loro espressione. Ne sono un esempio, in qualche modo, gli attestati di stima che gran parte del mondo politico e religioso gli tributa in queste ore.

Zuppi, che è stato anche viceparroco di Vincenzo Paglia a Santa Maria in Trastevere, si è sempre distinto per l'instancabile azione a sostegno dei più poveri, degli immigrati, dei rom, senza escludere l'attività di diplomazia esercitata con Sant'Egidio. Arrivare a Bologna da Roma non era cosa scontata. 

Ancor più non lo era diventare cardinale e poi, oggi presidente dei vescovi italiani, tenuto anche conto che da anni sulla cattedra di San Petronio si erano succeduti vescovi non contigui alla linea conciliare messa in campo dall'innovatore Giacomo Lercaro dal 1952 al 1968. Significative, in questo senso, le prime parole che Zuppi rivolse alla diocesi. Disse, citando il Concilio Vaticano II, monsignor Oscar Romero e Giovanni XXIII, che la Chiesa deve essere "di tutti, proprio di tutti, ma sempre particolarmente dei poveri".

A Bologna Zuppi sa interpretare al meglio quella Chiesa dei poveri che ebbe in don Paolino Serra Zanetti, in padre Marella e nelle Case della carità una sua espressione. Non fin dall'inizio Zuppi ha deciso di non vivere nell'arcivescovado, ma nella casa del clero. "Ho sempre vissuto insieme ad altri - disse tempo fa a Repubblica -. 

Abitare in una casa dove vivono altri sacerdoti è per me occasione di confronto in un cammino nel quale sento il bisogno di condividere". In lui Francesco rivede forse sé stesso, negli anni di Buenos Aires. Come il Papa, infatti, Zuppi ha sempre valorizzato quella pietà popolare che altri sacerdoti faticano a comprendere. A Trastevere, i primi anni, fu tentato di considerare queste manifestazioni come sopravvivenze del passato. E invece, disse, "vi ho scoperto tanta profondità spirituale".

Cei, Zuppi è il nuovo presidente. Preferito a Lojudice e Raspanti. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2022.

Papa Francesco ha scelto il successore di Gualtiero Bassetti: è l’attuale cardinale di Bologna.

Francesco ha scelto: il cardinale Matteo Zuppi, 66 anni, arcivescovo di Bologna, è il nuovo presidente dei vescovi italiani. La scelta del Papa è arrivata poco più di un’ora dopo che l’assemblea generale della Cei aveva trasmesso a Santa Marta l’esito della votazione del mattino: il cardinale Zuppi era il candidato più votato della terna da sottoporre al pontefice, seguito dal cardinale di Siena Paolo Lojudice e da monsignor Antonino Raspanti, vescovo di Acireale. L’annuncio è stato dato dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente uscente, tra gli applausi della platea riunita all’Hilton Rome Airport di Fiumicino. Era stato lo stesso Papa a tracciare, nel colloquio con il direttore Corriere, Luciano Fontana, il profilo del nuovo presidente: «Io cerco di trovarne uno che voglia fare un bel cambiamento. Preferisco che sia un cardinale, che sia autorevole».

I due candidati più autorevoli erano apparsi fin dall’inizio Zuppi e Lojudice, entrambi assai stimati e «preti di strada» come piacciono a Bergoglio, con una lunga esperienza tra i più poveri e gli ultimi. Francesco non era vincolato dalle preferenze ma alla fine, come accadde per Bassetti nel 2017, ha nominato il candidato più votato dall’assemblea. Qualche giorno fa scherzava, a proposito del fatto che fosse dato per favorito: «Il cardinale Biffi diceva che solo i matti vogliono diventare vescovi, si potrebbe dire che quelli ancora più matti vogliono diventare capi dei vescovi. I vescovi devono indicare qualcuno che sentano che faccia unità e possa rappresentarli tutti, aiutando la Chiesa italiana a continuare il cammino degli ultimi decenni e il cammino sinodale iniziato l’anno scorso. Vediamo che cosa decideranno i vescovi nella terna che indicheranno al Papa e cosa deciderà il Papa».

Il cardinale Zuppi, romano, viene dalla comunità di Sant’Egidio: nel 1973, studente al liceo classico Virgilio, incontrò il fondatore Andrea Riccardi. Da quel momento ha iniziato a impegnarsi nelle varie attività di Sant’Egidio, dalle scuole popolari per i bambini emarginati delle baraccopoli romane, alle iniziative per anziani soli e non autosufficienti, per gli immigrati e i senza fissa dimora, i malati terminali e i nomadi, i disabili e i tossicodipendenti, i carcerati e le vittime dei conflitti. Laureato in lettere e Filosofia alla Sapienza, ha conseguito il baccellierato in Teologia alla Pontificia Università Lateranense. È stato per dieci anni parroco della basilica romana di Santa Maria in Trastevere e assistente ecclesiastico generale della comunità di Sant’Egidio: fu mediatore in Mozambico nel processo che portò alla pace dopo oltre diciassette anni di sanguinosa guerra civile. Nel 2012, dopo due anni come parroco a Torre Angela, Benedetto XVI lo nominò vescovo ausiliare di Roma. Francesco lo ha scelto come arcivescovo di Bologna nell’ottobre 2015 e quattro anni più tardi, il 5 ottobre 2019, lo ha creato cardinale.

La Chiesa e le polemiche giustizialiste. Regola e misura: la lezione di Zuppi al paese dei veleni eterni. Alberto Cisterna su Il Riformista l'1 Giugno 2022. 

È a suo modo virale il podcast che Matteo Zuppi ha dedicato alla virtù cristiana della prudenza. Matteo Zuppi è il modo semplice, spoglio di titoli e sigilli, con cui il cardinale di Bologna, neopresidente della Cei, si presenta all’ascoltatore. Il tono è pacato, le parole misurate, la precisione teologica diluita in immagini, evocazioni e endiadi che servono a rendere comprensibile il discorso senza svilirlo in una mera predicazione morale, scolorita apposta per renderla commestibile al palato grezzo della società secolarizzata.

È, forse, il dramma pastorale della Chiesa del Terzo millennio che deve preservare la solennità di un dogma complesso e profondo dalle diluizioni moderniste, compromissorie, anomiche, moraleggianti. Ascoltare quelle parole e identificare in colui che le ha pronunciate il nuovo reggitore della comunità ecclesiale, il custode della comunione sinodale in Italia dovrebbe rassicurare anche quanti dalla fede sono distanti, ma avvertono l’autorevolezza dell’annuncio evangelico e ne restano comunque attratti. Il paese ha un bisogno quasi disperato di leadership autorevoli, di profeti, di uomini e donne che manifestino e rendano percepibile la propria assoluta coerenza tra parole e opere, tra fatti e discorsi. Draghi e Mattarella sono al vertice di una piramide di gradimento (come la si definisce) che non è altro che l’espressione sintetica della consapevolezza che la pubblica opinione ha della corrispondenza tra la correttezza dei loro comportamenti e la linearità delle loro parole.

In questo minuscolo pantheon che parla alla nazione, si inserisce la nomina del cardinale Zuppi, asceso da pochissimo tempo alla porpora di “principe della Chiesa”, come un tempo si diceva, e che ora è stato posto da papa Francesco a capo della conferenza dei vescovi italiani. Il primo discorso pubblico ha riguardato il tema delle violenze clericali, degli abusi sessuali commessi su donne e adolescenti, talvolta bambini, da dannati della fede con l’abito talare. L’annuncio di un report che a novembre darà indicazioni sui casi di violenza e sulla loro diffusione in Italia ha, in parte, scontentato. Mentre altre conferenze episcopali nel mondo hanno preso in esame range temporali molto più ampi, la missione che la Cei si è data è più delimitata nel tempo e questo, si dice, equivale a una sorta di sanatoria per il passato, di occultamento di episodi che si sarebbero comunque dovuti individuare e denunciare.

Difficile dire cosa sarebbe stato meglio fare, la “prudenza” ha certamente orientato le scelte dei vescovi italiani. Tuttavia, in questa inevitabile e comprensibile pulsione onnivora di giustizia che proviene dalle vittime e dai loro congiunti i quali vorrebbero procedere a ritroso per decenni – in Francia si partirà addirittura dal 1945 – per scovare casi e casi, abusi e abusi, violenze e violenze, un punto appare evidente e riguarda tutta la collettività nazionale, in cui la Chiesa svolge un ruolo non certo secondario. Alberto Melloni, su Repubblica di sabato scorso, ha ricordato che «la Chiesa ogni domenica porta a messa due volte i manifestanti di Cofferati contro l’articolo 18» e che questo si traduce in un circuito di responsabilità e di dialogo con una parte rilevante della popolazione italiana. Evocare la ricerca di scempi e delitti, di peccati e rimorsi lontani nel tempo è una sorta di permanente vocazione nazionale; in essa si esprime la radicata incapacità di un popolo nel far di conto con il proprio passato per poi guardare avanti e prepararsi ai tempi nuovi che stanno arrivando. Quand’anche si scovassero parroci e sacerdoti, presbiteri e monsignori responsabili di atrocità lontane e portate nella tomba, non è chiaro cosa cambierebbe realmente nella percezione sociale e religiosa di un fenomeno abietto e per troppo tempo nascosto.

La Chiesa universale è stata scossa nelle fondamenta da quanto venuto alla luce e non è scavando nelle fosse comuni della perversione che una diversa verità potrebbe venire a galla. «La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo» ricorda Matteo Zuppi, senza confondersi con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione. «Regola e misura» un’endiadi preziosa per tracciare la via di ogni giusta decisione, individuale e collettiva, sotto il segno della responsabilità. Per un paese praticamente in stato di guerra, che pubblicamente esorta alla sconfitta di un nemico mai dichiarato eppure quotidianamente evocato; per un paese che gronda di retorica a ogni commemorazione mescolando senza ritegno vittime e carnefici, le une spesso a braccetto degli altri, «regola e misura» potrebbero suonare come esortazioni prive di senso.

Eppure sono la cifra della responsabilità collettiva, esiste una soglia innanzi alla quale ogni vendetta, ogni giustizia, persino ogni verità si devono fermare per lasciare spazio alla ricostituzione delle relazioni forti che costituiscono una comunità e la tengono insieme. Ammonisce il cardinale Zuppi: «L’uomo senza legami, dissoluto, non è prudente perché è facilmente accecato dalle ricchezze e dal benessere. La prudenza guarda al presente, non è segnata dalla amarezza e dal veleno della disillusione che spegne la gioia e l’entusiasmo e fa perdere la voglia di cambiare».

È vero, chi ha le carni e l’anima lacerate dalla violenza e dall’ingiustizia sanguina e urla il proprio dolore e vorrebbe che il mondo si ergesse a sua difesa. La prudenza della Conferenza episcopale italiana appare, tuttavia, necessaria. È il contrassegno costitutivo di una comunione che dura da oltre duemila anni e che perdona ogni giorno centinaia di persecuzioni in Cina, in Africa, in Medioriente e altrove perché ha lo sguardo rivolto al futuro e si nutre di un passato che non avvelena né accieca. Una buona lezione per quanti sono affaccendati con l’elmetto in mano a difendere l’Occidente dai salotti di casa o stanno con la paletta e il secchiello a proteggere le spiagge in concessione a caccia di voti. Alberto Cisterna

Accoglienza e dialogo. Perché Matteo Maria Zuppi è diventato il capo dei vescovi italiani. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 25 Maggio 2022.

L’ex arcivescovo metropolita di Bologna è da sempre pienamente in linea col sentire di Bergoglio. Particolarmente attento al mondo del lavoro, il presule si è fatto inoltre notare per le posizioni di accoglienza e dialogo con la collettività Lgbt+

Bonario distacco dalle voci sempre più insistenti, che lo indicavano da giorni nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana. Non senza quell’arguta ironia romanesca, degna d’un Domenico Tardini, che gli aveva fatto dare affettuosamente del matto a chi lunedì gli augurava tale nomina da parte del Papa. Ma quell’auspicio si è concretato ieri mattina con la rapida designazione di Matteo Maria Zuppi da parte del pontefice, che, in qualità di “primate d’Italia”, si è attenuto all’inequivocabile parere degli altri vescovi del Bel Paese. Questi, nell’eleggere la terna da presentare a Francesco, avevano poco prima concentrato tanti di quei voti (ben 108) sulla persona del metropolita di Bologna da assicurargli la prima posizione in netto distacco dagli altri due nominativi: il cardinale Augusto Paolo Lojudice, ordinario di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino, e il ratzingeriano vescovo di Acireale Antonino Raspanti, rispettivamente fermatisi a 41 e 21 preferenze.

Porporato di creazione bergogliana, il sessantaseienne Matteo Maria Zuppi inaugura dunque in seno alla Cei una nuova era dopo quella di Gualtiero Bassetti. Non nel senso di eclatante strappo con la linea di questi, cui il presule d’origine romana ha fra l’altro rivolto parole di affettuosa gratitudine al pari di altri predecessori quali Antonio Poma, Ugo Poletti, Camillo Ruini, Angelo Bagnasco. Ma di delicata e progressiva inversione di rotta nell’ottica di accelerazione di percorsi rimasti incagliati nelle secche dell’immobilismo, a partire da quello sinodale. Non a caso, nel primo incontro con la stampa, Zuppi ne ha espressamente parlato come uno dei suoi tre punti programmatici («Sono queste le tre dinamiche che mi accompagnano e di cui mi sento tanto responsabile») insieme con l’obbedienza «al Papa che presiede nella carità col suo primato» e con la collegialità. 

Da queste parole già s’evince come il porporato non si possa etichettare tout court come progressista. Pienamente in linea col sentire di Bergoglio, che, imponendogli il 5 ottobre 2019 la berretta cardinalizia, aveva dato prova di considerare prioritario il ponte tra le religioni e l’aiuto ai migranti, l’arcivescovo di Bologna ha goduto infatti della stima di Giovanni Paolo II, sotto il cui pontificato è stato vicario e poi parroco della basilica di Santa Maria in Trastevere, e di Benedetto XVI, che l’ha nominato, il 31 gennaio 2012, vescovo ausiliare di Roma. Una vita, quella di Zuppi, spesa al servizio degli ultimi nelle periferie romane con la Comunità di Sant’Egidio (dal 2010 al 2012 è stato anche parroco dei Santi Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela) e nel ruolo di negoziatore di pace per le aree più difficili del mondo come, ad esempio, il Mozambico.

Pronipote per parte di madre del cardinale Carlo Confalonieri, già segretario particolare di Pio XI, e laureato in Lettere e Filosofia alla Sapienza, Zuppi è stato successivamente promosso da Francesco, il 27 ottobre 2015, ad arcivescovo di Bologna. Nella metropolia emiliana egli ha sempre coniugato le mansioni squisitamente pastorali e magisteriali di vescovo con l’interesse evangelico per le periferie esistenziali così care a Bergoglio e con un particolare interesse per i migranti. Cosa, questa, che l’ha fatto entrare spesso nel mirino dei salviniani duri e puri, insofferenti anche alle nette condanne di posizioni sovranistiche o strumentalizzatrici di simboli cristiani in chiave identitaria. 

Particolarmente attento al mondo del lavoro, il presule si è fatto inoltre notare per le posizioni di accoglienza e dialogo con la collettività Lgbt+, che proprio a Bologna ha, a livello associazionistico, una delle sue principali sedi storiche. Sono ben note le parole che ha rivolto, il 16 giugno 2016, alla Fiom riunita a Bologna per il 115° anniversario del sindacato. «Il sindacato – ebbe a dire in quell’occasione – ha sempre avuto attenzione nel difendere quello che è di categoria, ma anche quello che non è immediatamente nella propria categoria, come la dignità dell’uomo, dei diritti della persona. La lotta contro l’omofobia e la lotta contro la violenza alle donne ci troveranno vicini. La lotta contro qualunque ingiustizia è nel profondo di chi ha a cuore il bene della propria categoria, ma anche il bene comune. Le conseguenze della crisi sono ancora pesanti c’è sofferenza e incertezza. E questo chiede di non rimandare, di saper affrontare cercando quello che è necessario, abbandonando certe modalità e cercandone di nuove per arrivare a uno sforzo di sintesi». Zuppi ha inoltre prefato Un ponte da costruire: Una relazione tra Chiesa e persone Lgbti, edizione italiana di Building a bridge. How the Catholic Church and the Lgbt community can enter into a relationship of respect, compassion, and sensitivity, del gesuita e consultore del Dicastero vaticano per la Comunicazione James Martin, e Chiesa e omosessualità. Un’inchiesta alla luce del magistero di Papa Francesco del giornalista de L’Avvenire Luciano Moia.

Accoglienza e dialogo, però, che in Zuppi non sono mai sinonimi di acritica acquiescenza. Se ne è avuta prova durante la prima edizione del Festival de Linkiesta, quando il 7 novembre 2019, dialogando con la sociologa Paola Lazzarini, presidente di Donne per la Chiesa nell’ambito del panel La “Fratelli tutti” e la Chiesa del presente, ha detto sul ddl Zan, approvato tre giorni prima alla Camera: «Io ho apprezzato moltissimo, alcuni no, la posizione del giornale dei vescovi, che è Avvenire. Ricordo che è un testo approvato, fra l’altro, solo alla Camera. Ripeto: ho apprezzato moltissimo, qualcuno si straccia le vesti, che il giornale dei vescovi – la posizione dei vescovi è nota, d’altra parte la presidenza della Cei era uscita con una nota prima ancora che venisse presentato il testo – pubblica, in primo luogo, l’intervento di chi ha la paternità della legge, Alessandro Zan, e poi la risposta firmata del direttore, che esprime tutte le sue perplessità. Perché lo trovo intelligente? Perché si discute, perché si cerca di capire, si esprime evidentemente anche un disaccordo, che non è quindi aprioristico. Ma che entra nel merito e, proprio perché entra nel merito, c’è anche il disaccordo. Io trovo questo atteggiamento importantissimo, perché costringe gli uni e gli altri a entrare nel contenuto».

Quindi la chiara conclusione: «Sono andato a vedere la risposta di Avvenire, che riprendeva la risposta di Cesare Mirabelli, che mi è sembrata una risposta intelligente con dei punti di forte perplessità, senza per questo scatenare le apocalissi. A contare sono la comprensione e il confronto. Se poi si crede che il dialogo significhi cedevolezza, allora auguri. L’Avvenire ha fatto un grandissimo lavoro di consapevolezza e anche difesa della posizione della Chiesa al riguardo con le sue perplessità».

Francesco incorona Zuppi: un uomo di dialogo per la Cei. Fabio Marchese Ragona il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il cardinale eletto presidente della Conferenza episcopale: "La mia missione per una Chiesa che parla a tutti".

La nomina è avvenuta in tempo record, nel giro di un'ora: il Papa non ha fatto attendere i vescovi riuniti in assemblea e ha subito comunicato la sua decisione: il cardinale Matteo Maria Zuppi è nominato Presidente della Conferenza Episcopale Italiana. I presenti sono rimasti spiazzati, questa volta per la velocità con cui il presidente uscente, il cardinale Bassetti, ha comunicato la decisione del Papa: pensavano che, come accaduto cinque anni fa, passassero 24 ore prima di sapere chi fosse il prescelto tra quelli della terna proposta dai vescovi. Nessuna sorpresa invece sul nome dell'arcivescovo di Bologna, Zuppi: qualche settimana fa, in un colloquio pubblicato sul Corriere della Sera il Papa aveva detto che per la guida della Conferenza Episcopale Italiana «preferisco che sia un cardinale, che sia autorevole. E che abbia la possibilità di scegliere il segretario, che possa dire voglio lavorare con questa persona».

Parlando a porte chiuse ai vescovi, due giorni fa in aula Paolo VI in Vaticano, aveva poi precisato: «So che circola il nome di monsignor Castellucci, l'arcivescovo di Modena, come possibile candidato presidente. È un bravo professore e un brav'uomo. Io ho detto che preferisco un cardinale, ma ovviamente voi potete votare per chi volete, ci mancherebbe che pretendo una porpora per la guida della Cei». I riflettori si erano comunque subito accesi sull'arcivescovo di Bologna, prete di strada dallo stile pastorale molto vicino a Papa Bergoglio. E infatti, nelle votazioni di ieri mattina, Zuppi è risultato subito il più votato, seguito da un altro cardinale, l'arcivescovo di Siena, Paolo Lojudice (anche lui prete di strada e creato cardinale da Francesco) e da monsignor Nino Raspanti, vescovo di Acireale. Per Zuppi 108 le preferenze, 41 per Lojudice e 21 per Raspanti, entrato in terna come outsider essendo l'unico dei tre senza porpora. Anche Castellucci, nella prima votazione, aveva ottenuto una quarantina di voti, tutti poi dirottati, a partire dalla seconda votazione e su richiesta del diretto interessato, sugli altri candidati.

Romano, 66 anni, dal 2015 alla guida della chiesa di Bologna e dal 2019 cardinale, Zuppi è anche un'esponente di spicco della Comunità di Sant'Egidio: fu, negli anni Novanta, insieme ad Andrea Riccardi, tra i fautori degli accordi di pace in Mozambico. Uomo di mediazione e di dialogo, «don Matteo», da presidente avrà però più oneri che onori: dovrà impostare una forte azione di governo interna alla Cei e far sentire la voce della Chiesa Italiana nei rapporti con la politica in modo ancora più incisivo rispetto al passato. Ma dovrà affrontare, soprattutto, quella che è considerata la principale sfida della nuova presidenza: la piaga della pedofilia. La Cei, come sta già accadendo in varie diocesi del mondo, dovrà avviare un'indagine approfondita sul fenomeno, senza fermarsi però ai soli abusi su minori avvenuti negli ambienti ecclesiastici ma realizzando una mappatura di tutti i contesti (da quello familiare a quello scolastico) in cui questi delitti sono avvenuti.

Il nuovo presidente della Cei, qualche ora dopo la nomina, ha voluto incontrare anche i giornalisti a Fiumicino per rilasciare una dichiarazione: «C'è stata un'accelerazione improvvisa», ha detto il cardinale Zuppi, «devo quindi ringraziare il Papa che mi ha scelto e i vescovi che mi hanno indicato nella terna. Durante il mio mandato mi accompagneranno tre dinamiche: l'obbedienza al Papa, la collegialità e la sinodalità. Questo mi conforta. La missione della Chiesa», ha aggiunto il porporato, «è quella di sempre: una Chiesa che parla a tutti e con tutti. La responsabilità fa misurare anche la propria piccolezza e inadeguatezza. Questa c'è sempre e spero di restarne pienamente consapevole».

Una nomina che, secondo molti osservatori internazionali, consolida la figura di «don Matteo», anche come papabile italiano per un eventuale futuro conclave. Discorso, questo, affrontato a porte chiuse tra molti dei vescovi presenti due giorni fa all'apertura dell'Assemblea Generale della CEI, dopo che Papa Francesco, dialogando sempre con loro, aveva affermato: «Ho sempre questo dolore alla gamba, piuttosto che operarmi mi dimetto!». Frase che ha subito messo in allerta alcuni tra i pastori più intraprendenti ma che in realtà è stata pronunciata in un contesto gioviale e scherzoso.

Francesco sceglie Zuppi: chi è il "progressista" che guiderà la Cei. Francesco Boezi il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il Pontefice pesca il nome dalla lista stilata dall'assemblea dei vescovi. Scelto l'arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi che succede al cardinale Bassetti.

Il cardinale Matteo Maria Zuppi, che è anche l'arcivescovo di Bologna e che è stato creato porporato da papa Francesco nel corso dell'ultimo concistoro, è il nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana.

La decisione è arrivata dopo l'assemblea dei vescovi che, come da tradizione, ha individuato una terna di nomi da sottoporre al pontefice, che ha poi scelto. Il tutto è arrivato in tempi brevi rispetto alla prassi. Si era ipotizzato che si dovesse arrivare agli inizi di giugno.

Zuppi succede così a Gualtiero Bassetti, cardinale che aveva raggiunto i limiti d'età e che si è fatto da parte. Il nuovo presidente della Cei è considerato per lo più un "progressista", anche se la definizione può non essere esaustiva, e proviene dalla Comunità di Sant'Egidio.

Il messaggio che il neo vertice dei presuli ha voluto inoltrare per la sua nomina è stato riportato dal sito della Sir: "Comunione e missione sono le parole che sento nel cuore. Cercherò di fare del mio meglio, restiamo uniti nella sinodalità", ha dichiarato, rilanciando sul concetto di "sinodalità", che è caro all'ex arcivescovo di Buenos Aires e che dovrà accompagnare la Chiesa italiana in questi anni proprio in virtù del Sinodo nazionale che Bergoglio ha richiesto e che la Cei sta organizzando.

In chiave ecclesiastica si potrebbe dire che Zuppi sia una figura molto caratterizzata. Nel corso delle settimane che hanno preceduto l'assemblea dei presuli del Belpaese, il nome dell'arcivescovo di Bologna era rimbalzato sulla stampa in qualità di possibile nuovo vertice. Ma sono anni, a dire il vero, che si parla dell'arcivescovo di Bologna come futuro (e ora presente) della Cei.

Intanto stanno arrivando le prime congratulazioni. Tra i primi Matteo Salvini, che ha pure ringraziato l'ex presidente Bassetti: "Un doveroso e sentito ringraziamento al cardinale Bassetti. Rivolgo i miei più fervidi auguri di buon lavoro al cardinale Zuppi", ha twittato il leader della Lega.

"Gli auguri più sentiti di buon lavoro al nuovo Presidente della Cei, Cardinale Matteo Zuppi", ha scritto invece il segretario del Partito Democratico Enrico Letta, sempre via Twitter, subito dopo l'emersione della notizia, che è stata battuta anche dall'Ansa. Nel frattempo, stanno fuoriuscendo anche alcuni particolari relativi alla nomina. I vescovi italiani avevano - come da tradizione - segnalato tre nominativi al Santo Padre: oltre a Zuppi, erano stati indicati anche l'arcivescovo di Siena, il cardinal Augusto Paolo Lojudice, e monsignor Antonino Raspanti.

Jorge Mario Bergoglio, in un'intervista al Corriere della Sera, aveva in qualche modo orientato l'avvenire della Cei, dichiarando che avrebbe preferito che il presidente fosse stato un cardinale. E così è stato.

La Cei, la nomina di Zuppi e il futuro del Papato: il retroscena. Francesco Boezi il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.

A Roma, città originaria del cardinal Matteo Maria Zuppi, è partito il tam-tam dopo la nomina a presidente Cei. Quali interpretazioni circolano sul futuro del papato.

Il cardinal Matteo Maria Zuppi è il nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana ma il porporato italiano è anche uno dei nomi che vengono riportati più spesso quando si scrive del futuro del papato.

E questo perché l'arcivescovo di Bologna, come peraltro la nomina di papa Francesco per la Cei dimostra, è di sicuro uno di quegli altri ecclesiastici in grado d'incarnare il concetto di "Chiesa in uscita", che è centrale per la pastorale di Jorge Mario Bergoglio e che già dice molto sul futuro della Chiesa cattolica. Ma pronosticare chi sarà il prossimo successore di Pietro è un esercizio - come abbiamo ribadito più volte - che rischia d'essere inutile.

Comunque sia, a Roma, città originaria dell'arcivescovo di Bologna, è già partito il tam-tam interpretativo. Le letture che circolano sono due: c'è chi pensa che, con la presidenza della Cei, Zuppi possa essere stato "bruciato" per il soglio di Pietro. E questo viene ventilato allegando due motivazioni. La prima: nessun presidente della Cei è mai stato eletto Papa.

Poi c'è un altro motivo che gira soprattutto sulle chat di chi si occupa di "cose vaticane": durante questo pontificato, si è più volte ipotizzato che il presidente della Cei venisse unificato, come figura, con il vicario generale della diocesi di Roma, com'è stato ad esempio nel caso del cardinal Camillo Ruini. Per Zuppi, significherebbe sì lasciare Bologna ma anche avere molto più "potere" ecclesiastico concentrato nelle sue mani. E per qualche addetto ai lavori questa potrebbe essere un'altra causa di distanza probabilistica dalla successione papale.

Esistono tanti "però". Anzitutto la Cei è stata istituita di recente in confronto alla storia millenaria della Chiesa cattolica. Dunque è normale che un Papa non sia mai passato dalla presidenza dei presuli italiani. L'altro punto interrogativo, che è poi quello più rilevante, può essere semplificato così: davvero la prassi e la tradizione ecclesiastica, considerato quanto è cambiato nel corso dell'ultimo decennio (dalle dimissioni di Benedetto XVI alla "rivoluzione" di papa Francesco,) possono essere elementi utili per comprendere se un presidente della Cei possa o no divenire vescovo di Roma?

Certo è che una parte di quella che viene chiamata "destra ecclesiastica", ora come ora, ritiene che la nomina di Zuppi possa inficiare sulle future logiche del Conclave. Ma si tratta appunto di una interpretazione che può assomigliare ad una congettura.

E infatti dai limitrofi della "sacre stanze" ci arriva una smentita secca: "Questo è del tutto irrilevante - ci dice un sacerdote che conosce molto bene cosa accade in Vaticano, in relazione al fatto che la presidenza Cei "bruci" Zuppi per il papato - . Sono stati eletti pontefici da cardinali di Curia, da segretari di Stato, da capi di Dicastero...". Insomma, il fatto che l'arcivescovo di Bologna sia stato scelto come capo dei vescovi italiani - questa è la versione che va per la maggiore - non può influire sull'avvenire. Una postilla: al netto di tutte le cose che verranno dette in merito alla novità di queste ore, sembra palese come la Chiesa italiana stia tornado centrale nel contesto universale.

LA CHIESA FA SQUADRA, IL SUD NO. CHE COSA INSEGNA LA NOMINA DI ZUPPI ALLA GUIDA DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (CEI). ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 24 Maggio 2022.

Ha scelto Francesco di mettere alla testa della nostra Chiesa una persona che fa leadership e che, fuori dal clericalismo, deve dare una mano a rimettere in sesto questo Paese in un mondo in crisi dove i cattolici sono in grado di contribuire per tornare a fare squadra in tutto. Nella politica come nell’economia, nella società, tra ricchi e poveri, aree metropolitane e periferie, nei ceti produttivi e nel sindacato, a partire dalla scuola e dall’università. Dovrebbero essere tutti concentrati a giocare e vincere la partita del Pnrr che è la scommessa del futuro, fatta di riforme di struttura e di investimenti pubblici, e, allo stesso tempo, l’opportunità storica, non ripetibile, offerta dall’Europa al Sud d’Italia. Che, purtroppo, non riesce a fare squadra. Si può salvare un Sud dove la ministra per il Mezzogiorno, Mara Carfagna, va a Salerno per avviare l’iter del contratto istituzionale di sviluppo e non si presentano né il sindaco di Salerno, né il presidente della Provincia, né alcuno dei sindaci deluchiani della provincia di Salerno di cui il Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, è da sempre feudatario assoluto? I grandi dirigenti della Dc si odiavano molto di più di adesso, ma non hanno fatto mai mancare la loro presenza in tutte le riunioni ufficiali.

MATTEO Zuppi è il nuovo presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei). Papa Francesco ha scelto e dimostra, con questa scelta, che la Chiesa ha capito che bisogna fare squadra e tornare in campo. Sono in troppi a non averlo capito. La presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, ad esempio, che mentre milioni di nordafricani rischiano la fame e gli europei sanno di dovere pagare prezzi stellari per pane e pasta, dichiara a Davos: non siamo in modalità panico. Frase che detta dalla presidente della BCE è quanto meno inopportuna e ci fa molto interrogare sulla capacità esiziale di cogliere la differenza tra l’inflazione europea e quella americana.

Potremmo proseguire con chi tra i capi partito italiani senza percepirne neppure il ridicolo, in un mondo che teme una nuova stagione di recessione e sta riscrivendo tutti i suoi equilibri senza riuscire a capire che la partita è se comanderanno le autocrazie o le democrazie, fa crociate indecorose sui balneari che ricordano battaglie altrettanto indecorose in epoche molto diverse contro la liberalizzazione delle farmacie. Che, come si è visto, non ha peraltro prodotto nessuno dei disastri paventati. O le voci che si sovrappongono tra Capi di Stato europei e Presidente e vicepresidenti della Commissione europea senza che nulla accada di concreto dopo il Next Generation Eu, e invece si produca molto rumore dannoso perché divisivo e inconcludente. Per non parlare delle missioni asiatiche di Biden dove nessuno tra Stati Uniti e Cina dice nulla di diverso da quello che potrebbe dire, ma lo dice in pubblico ora e evidenzia plasticamente quanto sarebbe più utile al cessate il fuoco e alla pace da costruire un silenzio operoso.

Papa Francesco ha scelto l’arcivescovo di Bologna e, quindi, ha scelto “il prete e vescovo del Vangelo in ascolto di tutti”, parole della comunità di Sant’Egidio, ma soprattutto ha scelto, a nostro avviso, una personalità che sa stare in pubblico, che non  fa moralismi ma dialoghi, che ha ricostruito la storia dei vescovi fustigatori della Bologna sazia e delusa e che ha la consapevolezza che ora bisogna ricompattare il Paese. Scegliendo Zuppi, Papa Francesco ha dimostrato di capire che oggi non basta più neanche il discorso importantissimo della carità ben rappresentato da altri autorevoli candidati, ma che è addirittura più urgente riprendere in mano la crisi intellettuale del Paese.

Un discorso che vale pari pari sull’Europa e, quindi, su una realtà che ha sorpreso positivamente tutti con gli eurobond della pandemia ma è subito ritornata in una crisi profonda. Che impone l’urgenza di ritrovare la saldezza di una guida collegiale che la conduca velocemente a un’Europa federale compiuta. Arriveremo a dire che Francesco ha fatto con Zuppi per la Chiesa italiana  il parallelo della scelta di Mattarella con la chiamata di Draghi alla guida del governo nazionale. Ha scelto Francesco di mettere alla testa della nostra Chiesa una persona che fa leadership e che, fuori dal clericalismo, deve dare una mano a rimettere in sesto questo Paese in un mondo in crisi dove i cattolici, riconoscendo di fare parte di questa crisi, sono in grado di dare una mano per tornare a fare squadra in tutto. Nella politica come nell’economia, nella società, tra ricchi e poveri, aree metropolitane e periferie, nei ceti produttivi e nel sindacato, a partire dalla scuola e dall’università. Dovrebbero essere tutti concentrati a giocare e vincere la partita del Piano nazionale di ripresa e di resilienza che è la scommessa del futuro, fatta di riforme di struttura e di investimenti pubblici, e, allo stesso tempo, l’opportunità storica, non ripetibile, offerta al Paese dall’Europa solidale dei giorni terribili della pandemia globale.

Su questo punto, consentiteci di fare una riflessione amara che riguarda il nostro Sud e chi ha impegnato tre anni di lavoro per stimolare un dibattito culturale prima di verità e poi di operatività per correggere le storture dei diritti negati e cogliere con spirito nuovo le opportunità offerte da scelte nuove di bilancio pubblico e dalla storia che combatte perché il Sud diventi l’hub energetico del Paese e il territorio di maggiore attrattività per mettere in sicurezza le filiere produttive europee e fare rivivere l’economia privata dei suoi territori.  

Siamo costretti a chiederci, ma si può salvare un Sud in cui non si sa fare squadra? Si può salvare un Sud dove la ministra per il Mezzogiorno, Mara Carfagna, va a Salerno per avviare l’iter del contratto istituzionale di sviluppo e non si presentano né il sindaco di Salerno, né il presidente della Provincia, né alcuno dei sindaci della provincia di Salerno di cui il Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, è da sempre feudatario assoluto? Dove si ritrovano lei e il prefetto intorno al tavolo e in sala tutti i sindaci della provincia che non sono di fede deluchiana?

Si può arrivare dentro a una macchina pubblica che deve fare sforzi giganteschi per evitare di ripetere le figuracce storiche nell’utilizzo dei fondi di coesione e sviluppo anche con il Pnrr e le sue scadenze di giugno, a simili plateali manifestazioni di dissenso politico nel cui merito non entriamo, ma che vanno così spudoratamente contro gli interessi dei cittadini della comunità salernitana boicottando un’iniziativa che vale centinaia di milioni? Si ricordino tutti che i grandi dirigenti della Dc si odiavano molto di più di adesso, ma non hanno fatto mai mancare la loro presenza in tutte le riunioni ufficiali. Anche questo bruttissimo episodio di questa giornata salernitana è una faccia rivelatrice della situazione “apocalittica” che segna il passaggio italiano alla post modernità.

A nostro modo di vedere, è anche la più subdola perché si rifugia dietro paraventi formali e nasconde il tasso di nepotismo familistico a cui si è ridotta la politica in certi territori. Sono cose a cui non vorremmo assistere e, tanto meno, scriverne perché ci producono imbarazzo.

·        La Pontificia Accademia per la Vita.

Preti, tecnologie, vita. Un viaggio dietro le quinte della Pontificia Accademia per la Vita. Fabrizio Mastrofini,  Giornalista e saggista, su Il Riformista il 26 Aprile 2022.

Che ci fa un prete nel mondo (virtuale e reale insieme) fagocitante, pervasivo, luccicante, dell’intelligenza artificiale e delle mille diramazioni che legano la tecnologia alla vita di tutti i giorni? Un prete ci sta bene, se si chiama don Andrea Ciucci, e lavora alla Pontificia Accademia per la Vita, impegnato come è a portare avanti  e coordinare (dietro le quinte) il progetto che collega l’etica e la difesa e promozione della vita, agli sviluppi delle tecnologie emergenti e convergenti, come le ha definite una volta Papa Francesco. Don Andrea ha pubblicato un libro in cui racconta gli incontri, i dibattiti, i viaggi, che in questi anni hanno consentito alla Pontificia Accademia per la Vita di entrare con impegno sapienza nel mondo della tecnologia più di frontiera: robotica e intelligenza artificiale.

In poco più di 100 pagine si sviluppa un racconto fatto di incontri e riflessioni in cinque continenti,  con addentellati nelle più poderose organizzazioni internazionali, dalle Nazioni Unite alla Fao. Senza mai dimenticare che l’obiettivo del lavoro è di entrare nelle questioni tecnologiche con un approccio etico, sottolineando in che modo le tecnologie impattano i problemi concreti. Ad esempio le tecnologie quando riguardano la salute (maggiori possibilità per chi può permetterselo, crescente esclusione – un digital divide brutale – per chi non ha o ha minori possibilità economiche); oppure le tecnologie in relazione alla produzione agricola e quindi con riflessi immediati sull’alimentazione: illuminanti le pagine che raccontano gli incontri e l’impegno della Fao in questo settore.

Obiettivo del libro è di presentare il lavoro che ha portato alla firma della Carta di impegno per un approccio etico all’Intelligenza Artificiale – la cosiddetta Rome Call, promossa dalla Pontificia Accademia per la Vita (con il suo presidente mons. Vincenzo Paglia) e firmata il 28 febbraio 2020 da Microsoft, Ibm, Fao e governo italiano. Un lavoro che continua per allargare la platea dei firmatari e degli aderenti.

Tuttavia il libro è anche occasione per cogliere due aspetti centrali di tali attività. A partire dalla domanda che è anche il titolo: Perché lei è qui? Per l’autore la domanda vuol dire: cosa c’entra un sacerdote nei tavoli di lavoro sulla tecnologia? Per noi la domanda è diversa: perché la Chiesa si occupa di tecnologie? La risposta ha due aspetti.

Il primo: la tecnologia impatta sulla qualità della vita di ogni donna ed uomo. Come ha detto Papa Francesco proprio alla Pontificia Accademia per la Vita nel 2019: vi dovete occupare delle tecnologie emergenti e convergenti. “Esse includono le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le biotecnologie, le nanotecnologie, la robotica. Avvalendosi dei risultati ottenuti dalla fisica, dalla genetica e dalle neuroscienze, come pure della capacità di calcolo di macchine sempre più potenti, è oggi possibile intervenire molto profondamente nella materia vivente. Anche il corpo umano è suscettibile di interventi tali che possono modificare non solo le sue funzioni e prestazioni, ma anche le sue modalità di relazione, sul piano personale e sociale, esponendolo sempre più alle logiche del mercato. Occorre quindi anzitutto comprendere le trasformazioni epocali che si annunciano su queste nuove frontiere, per individuare come orientarle al servizio della persona umana, rispettando e promuovendo la sua intrinseca dignità” (Lettera Humana Communitas, paragrafo 12).

Secondo: questo impegno è parte di un approccio più ampio che si chiama “bioetica globale”. Come spiega bene don Andrea Ciucci. “se si vuole riflettere sulla qualità delle scelte che ognuno di noi compie ordinariamente non si può non pensare in chiave globale” in quanto “abbiamo imparato sulla nostra pelle l’assoluta interdipendenza delle nostre vite (ce lo ha insegnato un microscopico virus cinese) e il feroce impatto che esse hanno sul pianeta in cui viviamo”. Dunque è indispensabile “pensare in chiave globale” e in chiave globale ragionare sulle scelte etiche. “Per questo in Accademia il tema è stato esplicitato e quotidianamente ci si confronta con donne e uomini di tutte le nazioni, di tutte le culture, di tutte le fedi”.

La lettura del libro consente di saperne di più, entrando con l’occhio dell’osservatore privilegiato dietro le quinte di un affascinante, complesso, delicato, universale scenario, che cambierà non solo il mondo ma le vite quotidiane di ognuno di noi.

Andrea Ciucci, Scusi, ma perché lei è qui?. Storia di intelligenze umane e artificiali, Terre di Mezzo Editore, Milano, 125 pagine, 14 euro. Da segnalare la prefazione della prof.ssa Maria Chiara Carrozza, Accademica della Pontificia Accademia per la Vita ma soprattutto Presidente del Consiglio nazionale delle Ricerche.

In un passaggio della prefazione – un vero e proprio approfondimento che introduce il lettore nelle problematiche del volume – sottolinea che il valore aggiunto del progetto della Pontificia Accademia per la Vita raccontato nel libro è nell’essere “una spinta a cercare di cambiare i  destini dell’umanità, studiando come le tecnologie abilitanti, l’intelligenza artificiale, la data science, il quantum tech, la robotica, possano contribuire a rendere migliore la nostra esistenza, lottare contro la disuguaglianza, essere uno strumento di pace piuttosto che una causa di sofferenza”.

·        Le Riforme.

Fumata bianca. Papa Francesco è irremovibile: il suo "no" alle donne prete. In una recente intervista, Jorge Mario Bergoglio ha chiuso la porta all'ordinazione femminile. E non è la prima volta che lo fa, nonostante le aperture su alcuni fronti. Nico Spuntoni il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Lo scorso 22 novembre Papa Francesco ha ricevuto in Vaticano una delegazione di redattori della rivista dei gesuiti statunitensi America Magazine. Si tratta di uno dei giornali più progressisti nel mondo dell'informazione religiosa e senz'altro uno dei più autorevoli. Il botta e risposta tra il Pontefice e i giornalisti è stato pubblicato a fine novembre e ha fatto discutere soprattutto per le dichiarazioni papali sulla guerra in Ucraina.

Ma l'intervista è degna di nota anche per un altro dei temi toccati: l'ordinazione femminile. Sarà stato il clima informale a Casa Santa Marta e le risposte gradite alle domande critiche sulla Conferenza episcopale Usa, ma ad un certo punto l'editorialista Kerry Weber ha provato il 'colpaccio' ed ha chiesto al Papa cosa si sentirebbe di dire a tutte le donne addolorate perché non possono essere ammesse al sacerdozio.

Una domanda volutamente "di parte" dal momento che la giornalista in passato si è dimostrata più volte favorevole all'ipotesi delle diaconesse e della riapertura della discussione sull'ordinazione femminile. Tuttavia, Francesco deve aver deluso - almeno su questo punto - la sua intervistatrice, sostenendo che "il principio petrino non ha spazio" per l'accesso delle donne al ministero ordinato.

Bergoglio ha motivato il "no" ricordando al tempo stesso ciò che ha fatto per aprire alle donne gli organi decisionali della Chiesa. Non solo in ambito ecclesiale, dove ha recentemente nominato due donne nel Dicastero per i vescovi e suor Raffaella Petrini come segretario generale del Governatorato dello Stato di Città del Vaticano: Francesco ha anche affermato che "quando una donna entra in politica o gestisce le cose, generalmente se la cava meglio". Il Papa ha spiegato, inoltre, che l'esclusione delle donne dal ministero ordinato "non è una privazione".

Non saranno contenti in Germania

Nel 2019, in un'udienza concessa in Vaticano alle rappresentanti dell'Unione Internazionale delle Superiore Generali, Francesco aveva gelato una suora tedesca che gli aveva chiesto di riprendere la riflessione sul diaconato femminile non limitandosi a consultare "solamente le fonti storiche e dogmatiche". Bergoglio aveva risposto dicendo che bisogna mantenersi sulla linea tracciata dalla Rivelazione: "Se non c'era qualcosa, se il Signore non ha voluto il ministero, il ministero sacramentale per le donne non va".

Ancora più perentorio era stato sulla possibilità di aprire alle donne-prete. Nel 2016, sul volo di ritorno da Malmoe, Francesco aveva osservato che sull'ordinazione di donne nella Chiesa cattolica "l'ultima parola chiara" si doveva a San Giovanni Paolo II e "questa rimane". Il riferimento del Pontefice argentino era la Lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis del 1994 a cui si è appellato anche il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale gesuita Luis Ladaria in un testo del 2018.

Il 'no' ribadito dal Papa farà rumore soprattutto in Germania dove l'episcopato tedesco, impegnato in un Cammino Sinodale che ha ricevuto l'ammonimento dei capi dicastero della Curia per l'agenza troppo rivoluzionaria, appare determinato a portare avanti la discussione sull'ordinazione delle donne.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 5 settembre 2022.

Il 22 agosto è stato pubblicato un rescriptum ex audentia Sanctissimi, un atto sovrano con il quale il Papa risponde a una richiesta. Quella che gli è stata sottoposta era tesa a superare i qui pro quo che le confuse statuizioni della Praedicate Evangelium avevano prodotto, inducendo a credere che lo Ior fosse stato declassato al rango di tesoreria dell'Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica). 

In futuro, ha deciso il Papa, «l'attività di gestore patrimoniale e di depositario del patrimonio mobiliare della Santa Sede e delle Istituzioni collegate con la Santa Sede compete in via esclusiva all'Istituto per le Opere di Religione». Se ne deduce che l'Apsa vede il suo ruolo di banca centrale e fondo sovrano (dello Stato del Vaticano o della Santa Sede?) riaffermato, e lo Ior (che gestisce l'amministrazione finanziaria di qualunque ente sia Vaticano sia della Santa Sede) verrebbe considerato una sorta di merchant bank.

A metà anni Ottanta, dopo lo scandalo del Banco Ambrosiano lo Ior smise di produrre utili e i grandi ordini e le congregazioni religiose (a cominciare dai gesuiti) ritirarono i loro fondi per farli migrare verso investitori più redditizi. Anche gli organismi vaticani smisero di tenere i soldi nella cassaforte del Torrione di papa Niccolò V e iniziarono a sfruttare vere merchant bank per fare utili da distribuire sia agli enti istituzionali sia a coloro che depositavano fondi presso "la banca del Papa". Così i clienti aumentarono di numero e consistenza. 

Gli abusi scoperti dagli enti internazionali verranno evitati? Una cosa è certa: tutta la liquidità della Santa Sede (forse, pure quella dello Stato della Città del Vaticano che non pubblica i suoi bilanci dal 2015) sarà sotto il manto dello Ior. Se la storia è maestra di vita, i ladri del futuro saranno più facilitati.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì - la Repubblica” il 5 agosto 2022.

Chiesa in uscita, Chiesa ospedale da campo, Chiesa con l'odore delle pecore, Chiesa sinodale Le definizioni abbondano, ma quella che durante il Giubileo del 2000 l'allora cardinale Joseph Ratzinger chiamò "la Chiesa di carta", non ha cessato di prosperare: slogan tanti, risultati quasi zero. In un Continente europeo, con l'Italia capolista, dove la popolazione invecchia e il declino demografico aumenta, nascita e morte dovrebbero essere i luoghi privilegiati per dialogare sinceramente con la cultura e la società contemporanee.

Dopo le chiesastiche insensatezze dottrinali e scientifiche degli anni Ottanta e Novanta sulle novità della medicina in materia di salute riproduttiva, i 202 consultori familiari di ispirazione cristiana presenti in Italia sono tutti affidati alla Provvidenza, mentre cliniche e ospedali cattolici sono merce di scambio con i potentati finanziari della sanità privata.

E cosa fa la Chiesa per coloro che, pur volendo, non riescono ad avere un figlio? In un Paese carente di asili nido, quelli residui delle comunità religiose hanno costi economici al di sopra delle possibilità della maggioranza dei fedeli.

E dove sono solo 21 gli hospice cattolici e di ispirazione cristiana in cui, in teoria, applicare ai malati terminali quelle cure palliative che vengono annunciate ogni volta che la società civile tenta un passo in avanti. È dal 2020 che la Cei propone alle diocesi sia la creazione di hospice sia la loro caratterizzazione come "presenza" sul territorio, aperti alle comunità e persino disposti a «prendersi cura di quelli che curano, giacché il contatto quotidiano con il dolore è un difficile peso per gli operatori». Con tutti i conventi, le canoniche, le opere che si chiudono, pensare, prima di metterle sul mercato a pochi euro, ad un loro utilizzo sociale non sarebbe cattolico?

R. Dim. per “Il Messaggero” l'8 giugno 2022.

Il Papa attrezza la banca del Vaticano - l'Istituto per le opere di religione (Ior) - secondo la best practice di governance delle moderne società quotate e dà una stretta sui conti correnti. Francesco fa intendere che passa da qui la sua rivoluzione oltre Tevere. 

Nelle more della riorganizzazione totale della Curia Romana, come previsto dalla Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium entrata in vigore tre giorni fa, il primo passo di Bergoglio riguarda proprio il settore più nel mirino, con il processo sul palazzo di Sloan Avenue di Londra, entrato ormai nel vivo.

In parallelo la Santa Sede, però, è alle prese con i conti - del nuovo bilancio dello Ior che si è praticamente dimezzato, passando dai 36,4 milioni del 2020 ai 18,1 del 2021. E secondo i dettami della Costituzione Apostolica, viene istituito il comitato per gli Investimenti che deve «garantire la natura etica degli investimenti mobiliari della Santa Sede secondo la dottrina sociale della Chiesa e, nello stesso tempo, la loro redditività, adeguatezza e rischiosità». 

Un organo di governance che, quindi, dovrà vigilare su acquisti e vendite del Vaticano, per evitare - di conseguenza - un nuovo caso Londra. Per questo, a capo del comitato, la Santa Sede ha nominato un fedelissimo di Bergoglio, il cardinale statunitense Kevin Joseph Farrell, vescovo cattolico irlandese naturalizzato statunitense già prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita ma soprattutto membro dell'Ufficio dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica.

Cioè della Apsa considerata la «banca centrale» vaticana e guidata dal vescovo Nunzio Galantino, nominato nel 2018 proprio da Francesco.

I membri del neonato comitato, che resteranno in carica cinque anni, sono «professionisti di alto profilo», come sottolineato nella stessa Costituzione Apostolica. Si tratta di profili internazionali - tutti uomini - legati al mondo della finanza provenienti da tutto il mondo: il britannico Jean Pierre Casey, fondatore e ad di RegHedge, azienda che utilizza l'intelligenza artificiale per ricavare dalle politiche governative informazioni significative per gli investimenti; il tedesco Giovanni Christian Michael Gay, ad di Union Investment Privatfonds GmbH e uno dei responsabili di Union Investment Group; lo svedese David Harris, gestore di portafoglio e partner di Skagen Funds, esperto di mercati azionari globali; John J. Zona (Usa), responsabile dell'ufficio investimenti del Boston College.

Intanto ieri lo Ior ha pubblicato - per il 10° anno consecutivo - il bilancio, che segna un utile di 18,1 milioni. 

Dati «in linea con le aspettative» ma che segnano un dimezzamento rispetto all'anno passato, quello della pandemia, dove gli utili erano stati di 36,4 milioni, anche in quel caso in calo rispetto al 2019.

All'epoca pesarono i mancati introiti derivanti dai Musei Vaticani chiusi per la pandemia. Il post-pandemia, riparte con il piede giusto per la Santa Sede che, nonostante l'impegno verso un modello di investimenti prudente, registra una curva dei profitti proiettata verso il basso. Dal rendiconto emerge che sono stati chiusi 400 conti «a seguito di controlli periodici sempre più frequenti e granulari», ha scritto il dg Gian Franco Mammì.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” l'8 aprile 2022.

Da una decina d'anni, è in corso un processo contro la Chiesa. Riguarda il segreto confessionale, il "sigillo sacramentale" che impedisce al prete, pena la scomunica e la dimissione dallo stato clericale in diritto canonico, o un anno di carcere e multa per il diritto penale italiano, di rivelare quanto appreso. 

Secondo gli accusatori, tale "sigillo" è correo nella maggior parte dei silenzi caduti sugli abusi compiuti da preti. In una decina di Paesi, anglosassoni e non come Spagna e Francia, le assemblee legislative hanno votato, o stanno per farlo, leggi che obbligano chi riceve la confessione di un abusatore di un minore a denunciarlo.

In Italia, secondo una sentenza della Cassazione, la 6912 del 14 gennaio 2017, il dettato del nostro codice penale (il 622 c.p. e il 200 c.p.p.), cioè l'obbligo del segreto, resta valido quando il penitente è l'autore di un crimine, non quando ne è la vittima. 

Tradotto: se non è zuppa, è pan bagnato. Il 25 marzo scorso, concludendo il 32° corso sul Foro interno organizzato dalla Penitenzieria apostolica, Francesco è intervenuto sulla vexata quaestio senza se e senza ma: «Il sigillo è dal momento in cui si comincia al momento della fine. Ma se a metà avete parlato di quella cosa? Niente, tutto è sotto sigillo», sia per il peccatore, sia per la vittima. Solo che non ha fatto cenno ai soliti "nemici di Gesù e della Chiesa".

Ha solo parlato di «qualche associazione» cattolica nella quale «sta entrando una relativizzazione del sigillo sacramentale: il sigillo è il peccato, ma poi tutto quello che viene dopo il peccato o prima del peccato, il confessore lo dice ai superiori». Cosa si intende per "qualche associazione", nella Chiesa è noto. E se lo sa anche il Papa, il Vaticano potrebbe smettere di far finta di non sapere.

Riformare è impossibile con questo clero. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista l'8 Aprile 2022.  

Le Edizioni Dehoniane di Bologna (EDB), storica casa editrice cattolica in procedura di fallimento ma forse salvabile, proseguono le pubblicazioni – poche uscite ma ben scelte, per ora – e annunciano la pubblicazione di un libro importante, certo, però a mio avviso abbastanza inutile. Ed è un volume di ben 268 pagine, ora tradotto in italiano, pubblicato in originale francese il 2 aprile 2020 postumo, perché il suo autore, Loïc de Kerimel, saggista molto noto, è morto il 24 marzo, pochi giorni prima. In italiano il libro si intitola “Contro il clericalismo”, e l’autore, docente di filosofia per lunghi anni, cattolico militante, dice chiaramente che senza cambiare in profondità la mentalità clericale, non cambierà nulla.

Ora, dirlo in 268 pagine è davvero una lunga argomentazione per un dato di fatto che si può riassumere molto in breve. La mentalità clericale comincia dalla formazione in seminario. Quindi occorre cambiare il sistema di reclutamento prima e di formazione poi, e quindi intervenire sul tipo di relazioni vigenti nella Chiesa, dove basta avere il “colletto bianco” da prete per avere ragione o per avere sempre l’ultima parola. E occorre farla finita con le idealizzazioni più irritanti, sbagliate, fuori luogo. Prendiamo ad esempio l’ultimo documento della Congregazione per l’educazione cattolica. E’ un ampio e articolato testo che evidenzia il valore culturale dell’insegnamento e dell’istruzione, a tutti i livelli della Chiesa, soprattutto nel dialogo e nel rapporto con la società. Ed è un grande merito aver sottolineato l’importanza della cultura nel mondo di oggi, e la necessità di un lavoro culturale proposto da docenti preparati, seri, coerenti. Tuttavia in tutto il testo non c’è una frase su quanto debba venire retribuito questo lavoro! E’ cruciale, ma di stipendi non si parla. Come al solito: grande idealità però al momento di vedere gli stipendi, andiamo a fare le nozze con i fichi secchi.

Oppure prendiamo la Riforma della Curia romana. Documento fondamentale di questo pontificato, pubblicato il 19 marzo, che segnerà le modalità di lavoro per molti anni. Anche qui: professionalità è la parola d’ordine, al servizio della Chiesa. Sì, ma gli stipendi? Questo personale così importante, preparato, coinvolto, sapiente, riceve stipendi adeguati? Non si sa, non ce lo dicono. Anzi, probabilmente nemmeno li vogliono dare (gli stipendi).

Ecco perché libri come quello pubblicato ora da EDB servono a poco. Modestamente serve molto di più un libretto concreto come le 10 Regole per un Vaticano felice, che mette a tema in che maniera c-o-n-c-r-e-t-a si possa davvero cambiare. Non teologia, ma realismo (profetico) e una buona dose di umorismo. E buona lettura!

·        Comunione e Liberazione.

Il Papa a Comunione e Liberazione: «È tempo di unità, basta contrapposizioni» NICOLA BRACCI su Il Domani il 15 ottobre 2022

Oltre 60mila aderenti hanno riempito piazza San Pietro. Occasione dell’incontro il centenario della nascita di don Luigi Giussani, che nel 1954 diede vita al movimento

Il riferimento al concetto di crisi è forse quello più ricorrente nel discorso che papa Francesco ha tenuto oggi, 15 ottobre, di fronte ai membri di Comunione e Liberazione, ricevuti in udienza.

Oltre 60mila aderenti hanno riempito piazza San Pietro. Occasione dell’incontro è stato il centenario della nascita di don Luigi Giussani, che nel 1954 diede vita al movimento – fino al ‘68 noto come Gioventù studentesca - tra le fila degli studenti cattolici di Milano. 

IL DISCORSO

Al centro del confronto un’analisi su problemi, divisioni e “impoverimento” all’interno dell’organizzazione, con l’invito a una sintesi critica dei motivi di conflitto.

Un anno fa il cambio dei vertici in Cl con le dimissioni di Julián Carrón, che era subentrato alla guida del movimento nel 2005, proprio alla morte del padre fondatore. Dimissioni volute dal Vaticano per l’eccessivo personalismo del sacerdote spagnolo.

Carrón oggi ha incassato i ringraziamenti del Pontefice «per aver mantenuto fermo il timone della comunione con il pontificato». 

E Bergoglio è partito da qui per ricordare quanto siano complessi i “periodi di transizione”, ricordando che le difficoltà attraversate ora da Comunione e Liberazione sono comuni a quelle sperimentate da «tante fondazioni cattoliche nel corso della storia». 

Tornando a commemorare don Giussani, “padre e maestro”, il papa ha ricordato le origini di Cl che nacque, per come è conosciuta oggi, in mezzo alle tensioni sociali del 1968.

Francesco ha poi voluto rimarcare che la crisi apre a tempi di “discernimento critico” e che «non va ridotta al conflitto, che annulla». L’invito si è fatto poi diretto ai suoi interlocutori: «Non sprecate il vostro tempo prezioso in chiacchiere, diffidenze e contrapposizioni». 

NICOLA BRACCI. Ha 25 anni. È nato e cresciuto a Pesaro e si è poi trasferito a Milano. Legge e scrive di tematiche sociali e geopolitica per interesse, di sport per passione

·        Comunità di Sant’Egidio.

Andrea Riccardi: «I miei sei Pontefici, dai silenzi di Pio XII all’urlo di Wojtyla». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio: «Per far funzionale la Capitale non basta un sindaco, ci vorrebbe un governatore»

Andrea Riccardi, lei è del 1950. Se lo ricorda Pio XII?

«È il mio primo ricordo pubblico. Mia nonna mi raccontava di lui, della tempesta che aveva attraversato. Morì che avevo otto anni, e parve la fine di un mondo».

Il suo nuovo libro «La guerra del silenzio» si apre con l’incontro tra papa Pacelli e il suo futuro successore Angelo Roncalli. Vaticano, 10 ottobre 1941.

«Roncalli annotò: “Il Papa mi chiese se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male”. È proprio Pio XII il primo a usare la parola-chiave: silenzio».

Appunto: perché tante esitazioni prima di condannare apertamente le atrocità dei nazisti?

«Innanzitutto bisogna capire due cose. Il Vaticano era molto diverso da oggi: nella diplomazia contava poco, il Pontefice non era un personaggio mediatico internazionale. E Pacelli era una persona molto diversa da come pensiamo che fosse».

Com’era in realtà?

«Mite, cortese, timido, insicuro. Aveva un tratto ieratico, mitigato dalla bonomia romana: poliglotta, parlava tutte le lingue con un lieve accento della sua città. Ed era indeciso. C’è una storia che non si trova negli archivi…».

Chi gliel’ha raccontata?

«Il cardinale Traglia, che era vicegerente di Roma. Alla vigilia del Natale 1943, i tedeschi e la banda Koch violarono il Seminario lombardo, che era pieno di ebrei, militari, antifascisti nascosti. Molti avevano avuto dai religiosi l’abito ecclesiastico. Così i fascisti li costringevano a recitare le preghiere per scoprirli e portarli nei lager. Un turpe sacrilegio».

Guardi che non è di moda dire così, bisogna contestualizzare...

«Un turpe sacrilegio».

Come finì?

«Qualche ebreo aveva imparato l’Ave Maria e il Padre Nostro, e si salvò. Altri furono presi e deportati. Il Papa si indignò, e per protesta diede ordine di non celebrare le messe natalizie di mezzanotte, che per via del coprifuoco erano fissate nel pomeriggio. Ma poi cambiò idea, e mandò Traglia ad avvertire i parroci di dire messa lo stesso…».

Perché?

«Temeva di inasprire l’occupante. Il Papa era un diplomatico, e voleva sempre tenere aperta una via di mediazione. Anche se Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, non avrebbe mai potuto organizzare la rete di protezione degli ebrei e degli antifascisti senza il consenso di Pio XII. Alcuni storici obiettano che manca l’ordine scritto. Ma sarebbe stato un grave rischio metterlo per iscritto».

Pacelli era il segretario di Stato di Pio XI. Insieme avevano preparato un’altra, dura enciclica di condanna del nazismo (dopo la Mit Brennender Sorge). Perché alla morte di Pio XI rimase nel cassetto?

«Pio XI aveva un carattere molto diverso. Imperioso. Aveva creduto che Mussolini avrebbe trasformato il fascismo in un regime cattolico. Quando capì che non era così, che il regime anzi perseguitava i giovani dell’Azione cattolica, protestò con vigore. Pio XII era più prudente. Era stato in Germania, parlava tedesco, ma con Hitler il rapporto era pessimo».

Lei scrive che nel Conclave il vero rivale di Pacelli era stato Elia Dalla Costa, che a Firenze aveva sbarrato l’arcivescovado in faccia a Hitler.

«Ma fu considerato un pastore privo di esperienza internazionale».

Il primo Paese aggredito fu la Polonia.

«E i polacchi, in particolare il governo in esilio a Londra, fecero molta pressione sul Papa: “Ma come, la Polonia semper fidelis, il baluardo cattolico contro l’Est ortodosso, viene straziata, gli ebrei vengono massacrati, e il capo della cristianità non dice una parola?”».

Appunto: perché?

«Non perché fosse antisemita. Anzi, aveva simpatia per gli ebrei, e si prodigò in silenzio per proteggerli, come si vide durante l’occupazione nazista di Roma. Ma, appunto, in silenzio. “Ad mala maiora vitanda”, per evitare guai peggiori. Anche ai cristiani».

Nel 1940 l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Dino Alfieri, fu trasferito a Berlino.

«E Pio XII, nel congedarlo, si confidò. Gli disse che aveva riletto le lettere di Santa Caterina da Siena a Gregorio XI, in cui la santa avvisava il Papa che il giudizio di Dio sarebbe stato severo con lui se non avesse reagito al male. “Sono pronto a essere deportato in un campo di concentramento, ma non a fare alcunché contro coscienza” proclamò Pio XII».

Quindi il Papa temeva di essere deportato?

«Era pronto ad affrontare il prelevamento e furono bruciati alcuni documenti. Non fu per questo che non intervenne per salvare gli ebrei razziati nel ghetto il 16 ottobre 1943».

Lei negli archivi vaticani ha trovato una lettera della principessa Enza Pignatelli, che avverte Pio XII della retata imminente.

«La principessa aveva saputo che i tedeschi avevano chiesto ai fascisti la lista degli ebrei romani. Alle 6 del mattino del 16 ottobre, avvisata da un’amica, Enza Pignatelli andò al ghetto, oltretutto su un’auto di un diplomatico tedesco, vide tutto, e si precipitò dal Papa».

Come reagì Pio XII?

«Fu sorpreso. Sapeva che i nazisti avevano chiesto cinquanta chili d’oro, si era impegnato con la comunità a fornire lui stesso dodici chili. Pensava che gli ebrei fossero al sicuro».

Ma non si mosse.

«Era stato a San Lorenzo dopo il bombardamento: un gesto storico, il Papa con la veste macchiata di sangue, i romani commossi. Avrebbe potuto non dico andare alla stazione Tiburtina a fermare i convogli, come ha scritto Rosetta Loy, ma recarsi tra gli ebrei arrestati al Collegio militare a poche centinaia di metri dal Vaticano. Non lo fece».

Perché?

«Si illuse di poterli liberare per altre vie. Si fidò dell’ambasciatore tedesco Weizsäcker, che gli fece perdere tempo. Ma poi si batté per dare asilo ai ricercati. Il governatore del Vaticano, il cardinal Canali, che aveva simpatie fasciste, protestò. Ma il Papa si schierò con Montini. Fu il tempo in cui “metà Roma nascondeva l’altra metà”. E l’azione diplomatica di Pio XII salvò altre vite, ad esempio quella di Giuliano Vassalli».

Ma il silenzio continuò.

«Il Papa riteneva di non doversi schierare tra i belligeranti, perché dall’altra parte c’era l’Unione Sovietica. Citò le persecuzioni legate alla “stirpe”. Ma in sostanza il silenzio proseguì anche dopo la guerra. E qui francamente non riesco a dare una spiegazione».

La famiglia Riccardi da che parte stava?

«Mio padre dopo l’8 settembre si unì alla Resistenza antitedesca in Albania. Finì in un lager nazista vicino a Colonia. Suo fratello Tommaso era fascista. La madre, mia nonna, lo mandò nel campo nazista a riprendere l’altro figlio deportato».

Ci riuscì?

«No. Per convincerlo lo portò al ristorante, seguito dal piantone tedesco. Mio padre fu irremovibile: aveva giurato fedeltà al re, non al Duce. Il fratello lo riportò al lager; ma prima di salutarlo si tolse il cappotto e glielo lasciò. Papà lo scambiò con il cibo per passare l’inverno».

Si riconciliarono?

«Sì. Ma ogni volta riprendevano a litigare sul re e sul Duce».

Papa Giovanni lei come lo ricorda?

«Una meravigliosa sorpresa. La Curia lo scelse come Papa di transizione. Pensava di poterlo gestire: “Quel pacioccone di Roncalli” diceva Tardini. Lo vidi a San Giovanni, acclamato dalla folla: in pochi mesi aveva cancellato Pio XII, che era stato un Papa popolarissimo. Il primo a dettare messaggi alla radio, il primo ad apparire in tv in America…».

Lei era amico di monsignor Capovilla, il segretario di Roncalli.

«Che mi ha raccontato episodi rivelatori. Il nuovo Papa si insedia, madre Pascalina, la donna forte del pontificato precedente, lo accompagna a visitare l’Appartamento, e a un tratto cade in ginocchio: “Qui è dove il Santo Padre ha visto Gesù…”. E Roncalli, quasi spazientito: “Va be’, andiamo avanti”».

Poi venne Paolo VI.

«Era molto legato alla figura di Pacelli. Nel suo storico viaggio in Terrasanta lo difese presso le autorità israeliane. Tenne il punto, ricordò che Pio XII aveva salvato molti ebrei».

Lei è stato vicino a Giovanni Paolo II, di cui è anche biografo.

«Di Pacelli, Wojtyla non parlava mai. Forse non aveva accettato i silenzi sulla sua Polonia. E poi amava gli ebrei. Li considerava i parenti di Gesù. Nel testamento nomina solo due persone: Stanislao, il suo segretario che era come un figlio, e Toaff, il rabbino capo di Roma. Alcuni critici tradizionalisti sostengono che la mamma di Karol Wojtyla fosse di lontana origine ebraica…».

Lei ci crede?

«Se lo si dimostrasse, non me ne stupirei».

Come lo conobbe?

«Era il 1978, venne in visita alla Garbatella. Noi lo chiamammo dal convento di monache cappuccine, dove avevamo aperto un asilo per i figli delle ragazze madri che vivevano in strada, uno era stato morso dai topi e aveva rischiato di morire. Il Papa entrò, si sedette tra banchi, si fece fotografare con i bambini. Trovava la Chiesa di Roma un po’ spenta, ebbe simpatia per noi di Sant’Egidio. E ci invitò in Vaticano».

Com’era in privato? Si arrabbiava?

«Una volta sola l’ho sentito alzare la voce con Stanislao, che voleva convincerlo a non andare a Sarajevo: “Metterebbe in pericolo il suo seguito...”. “Andrò da solo!”. “Ma non c’è elettricità, non funzionano i microfoni...”. “Urlerò!”. Poi però ebbe parole di tenerezza: “Stanislao è con me da sempre, non avrei accettato l’elezione se non avessi avuto lui al mio fianco...”».

Come passerà alla storia Wojtyla?

«Come l’ultimo Papa uscito vincitore. Si alleò con Reagan, liberò i polacchi quasi come un Mosè che aveva liberato gli ebrei. Il primo viaggio lo fece ad Assisi. Un fedele gli gridò: viva la Chiesa del silenzio! E lui, prontissimo: “Non c’è più la Chiesa del silenzio. Ora è qui; e parla”. Un gigante. Convinto che l’Italia avesse una missione nel mondo».

Quale?

«Preservare la sede di Pietro. Conciliare la cristianità e l’umanesimo».

Lei come ha accolto le dimissioni di Ratzinger?

«Male. Quasi come un atto di freddezza. Credo che la storia debba ancora chiarirle. Parve quasi che il Papa non avesse più la forza e la volontà di fare quel che sapeva di dover fare».

A quale successore pensava Ratzinger?

«A Scola. Ma in Conclave prevalse la scelta di non puntare sugli italiani».

Francesco sta per compiere dieci anni di pontificato. Qual è il bilancio?

«Ha trovato una situazione difficilissima, una depressione generale. Il formidabile inizio fece pensare che i mali della Chiesa fossero guariti d’incanto. Non poteva essere così. Francesco ha avuto il merito di mettere i poveri al centro. Su alcune riforme, come la comunione ai risposati, è stato fermato. La Chiesa europea è in decadenza, le cattedrali sono vuote di giovani, sembra che il prete sia un mestiere che gli europei non vogliono più fare. Eppure…».

Eppure?

«Questo è in potenza il tempo della Chiesa. La Chiesa è cultura e sentimento: dona la fede alle persone e ha una visione globale. È la sola a dare speranze per questa vita e per la vita futura».

Che tipo è il cardinale Zuppi, il presidente dei vescovi italiani?

«Lo conosco da quando avevo 19 anni e lui 14: molto magro, molto appassionato, con il cappotto appartenuto ai suoi fratelli. Non è cambiato: sa entrare in empatia con le persone. Sa ridere. È un costruttore».

Cosa pensa di Giorgia Meloni?

«Ha vinto le elezioni; la giudicheremo dai fatti. Il passato ci insegna che l’Italia si governa dal centro. Allargando e coinvolgendo. E puntando sulla priorità assoluta: la scuola. Non funziona più, va ricostruita».

Dicono che lei sia indulgente con Putin.

«Sono stato in Ucraina la prima volta negli Anni ’80, quando c’era l’Unione Sovietica. Sono diventato amico dei patrioti che volevano fare di Leopoli la Torino d’Ucraina, la culla dell’indipendenza dall’impero russo. Non ho cambiato parte: sono con loro. Proprio per questo non voglio che la guerra in Ucraina diventi infinita, come in Siria e in Libia. Serve la diplomazia».

Roma come la trova?

«Non si riesce a farla funzionare, a far trovare i taxi in stazione, a ripristinare la legalità sulle strade, a umanizzare le periferie. Capitale depressa, nazione sperduta. Servono nello stesso tempo più cura e più visione. E strumenti istituzionali nuovi: il sindaco deve contare di più, diventare una sorta di governatore di Roma».

Ogni tanto la candidano a sindaco, e pure a presidente della Repubblica…

«Se è per questo, ho letto che mi avrebbero proposto pure la presidenza della Regione... Mi è bastato fare il ministro della Cooperazione con Monti. Un premier che ha avuto molti meriti: ha raccolto un Paese sull’orlo del fallimento. Siamo tornati in Africa, dove eravamo assenti, e abbiamo dimostrato che si possono integrare i migranti senza farne un’emergenza».

Come immagina l’Aldilà?

«Finalmente una grande pace. Il Signore ci ha seguiti per tutta la vita; non ci abbandonerà proprio nel momento supremo».

·        Scandali Vaticani.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 6 maggio 2022.  

In San Pietro, come in ogni chiesa cattolica, l'acqua santa viene benedetta durante la veglia di Pasqua. La birra però, e solo in San Pietro, si benedice dopo la domenica di Resurrezione. La consuetudine dura dal 1878, quando l'archiatra pontificio Giuseppe Lapponi dovette occuparsi del neo pontefice Leone XIII eletto a 68 anni, cagionevole di salute e abituato ad un regime alimentare strampalato: brodo ristretto e tuorli d'uovo con il marsala al mattino; un'ala di pollo a pranzo e la sera mezzo petto sempre di pollo. 

Secondo il dottor Lapponi, i disturbi del paziente potevano essere alleviati con il consumo di una birra pilsener non filtrata e prodotta a Praga. Da allora la Pilsener Urquell, capostipite di tutte le chiare e prima pilsener al mondo, entra in Vaticano con la sua "birra benedetta". La spedizione avviene per la Pasqua, mentre la quantità è calcolata in base al numero dell'anno in corso: questa volta, 2022 bottiglie.

Non si sa se i Pontefici succeduti a papa Leone, grati per il tradizionale dono (mantenuto anche durante il regime comunista) fossero estimatori della birra come papa Pecci. Certo lo sono coloro che partecipano alla tradizionale degustazione che l'ambasciata della Cechia organizza alla consegna del dono. Il 20 aprile c'erano il cardinale Czerny, l'arcivescovo Gallagher, un folto gruppo di ecclesiastici che, in attesa di promozioni, bevono birra con il vescovo Pawlowski e i diplomatici presso la Santa Sede residenti a Roma.

In realtà, il Lapponi faceva bere a Leone XIII anche tre dosi di Vino tonico Mariani: ognuna, 30 ml, conteneva l'11 per cento di alcol e 6,5 milligrammi di cocaina.

La cura sembra aver giovato all'anziano pontefice che regnò 25 anni, fino alla fine con memoria e vista perfette, scrisse 86 encicliche e compose preghiere e poemi latini. E gli piaceva pure informarsi e leggere i giornali.

ABUSI. Da leggo.it il 25 novembre 2022. 

Giallo in Svizzera per la scomparsa di Daniel Anrig che per cinque anni è stato comandante delle Guardie Svizzere in Vaticano e che era stato congedato dallo stesso Papa nel 2014. Allora si parlò di comportamenti troppo bruschi nei confronti dei sottoposti ma di fatto il mandato quinquennale, al momento della decisione del Papa, era scaduto e non fu rinnovato. Ora invece non si hanno sue notizie e non risponde né al telefono né alle mail.

È segretario comunale a Zermatt ma ora il municipio avrebbe messo un annuncio per la ricerca di un nuovo funzionario che possa prendere il suo posto. Il rapporto di lavoro era stato sciolto a fine ottobre ma Anrig avrebbe dovuto lavorare al Comune fino a fine dicembre e invece non si è più presentato in ufficio. È stato cercato anche nella sua abitazione che risulta invece vuota. Sparito nel nulla.

La stampa svizzera online parla di «mistero». Secondo il «Walliser Bote», Romy Biner-Hauser, il sindaco di Zermatt, cittadina ai piedi del Cervino nota per le sue piste da sci, spiega solo che Anrig sta «cercando un riorientamento professionale». Ma il fatto che non sia raggiungibile fa ipotizzare anche - secondo quanto scrive «Nau.ch» - che «la sua partenza sia dovuta a procedimenti penali a suo carico al di fuori del Cantone Vallese».

Quando Anrig fu congedato da Papa Francesco, diverse furono le voci che circolarono al riguardo del comandante. Il fatto di aver sistemato per lui un grande appartamento sopra la caserma, che non ha proprio il massimo dei confort e che infatti da anni dovrebbe essere ristrutturata, non era una cosa ben vista.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 17 novembre 2022

È una storia di violenza e di bambini. Bambini vittime di violenza, ma anche bambini che quella violenza l'hanno denunciata e fatta scoprire. Ischia, Istituto religioso Santa Maria della Provvidenza, comunità educativa che ospita soprattutto bimbi in attesa di adozione o in affidamento a seguito di provvedimenti giudiziari.

È un posto gestito e governato da suore, e le suore sono le protagoniste di quegli episodi di violenza denunciati da una bambina, confermati da altri, accertati dai carabinieri e sui quali la Procura di Napoli ha aperto un'inchiesta che ieri ha portato all'arresto di una delle suore dell'istituto e al divieto di dimora in Campania per altre tre, compresa la madre superiore, Angela De Bonis. Sono tutte accusate di aver picchiato in più occasioni i piccoli a loro affidati. Schiaffi sul viso e alla nuca, calci, capelli tirati, colpi dati con le pantofole sulle manine, nello stile delle bacchettate di un secolo fa. 

I bambini avevano paura, ma non avevano a chi chiedere aiuto. Anche chi non viveva nella comunità, ma la frequentava soltanto durante il giorno per poi tornare a casa nel pomeriggio, e quindi poteva parlarne in famiglia, ha avuto difficoltà a essere creduto. E proprio questa difficoltà ha spinto una bimba di 9 anni a industriarsi affinché la madre la ascoltasse, anziché liquidarla ogni volta che lei le raccontava di come si comportavano quelle suore.

E così, quando in un giorno del luglio scorso suor Maria Georgette Rahasimalala, cinquantacinquenne del Madagascar che all'istituto aveva mansioni di lavapiatti, si è accanita contro un bambino di cinque anni perché le aveva tirato il velo, e poi anche con il fratellino di otto che tentava di fermarla, colpendolo con tale violenza da fargli sanguinare il naso, la bambina ha filmato tutto, ogni attimo di quel comportamento selvaggio andato avanti nonostante ognuno dei piccoli presenti urlasse di smetterla.

Ma le suore se ne sono accorte e le hanno sequestrato il cellulare, restituendoglielo soltanto dopo averle imposto di cancellare le immagini, convinte che questo bastasse per nascondere anche quell'ennesimo episodio di violenza. Perciò ora sono ritenute tutte complici: oltre a suor Angela, anche Noeline Razanadraozy, 52 anni, pure lei del Madagascar, e la filippina quarantottenne Alice Albaracin Curay. Non immaginavano che la bambina avesse installato una app in grado di recuperare i file eliminati.

Così quel video ha potuto farlo vedere alla madre che a sua volta si è confidata con una amica, inviandole le immagini e confessandole di aver paura di denunciare tutto, ma anche di continuare a mandare sua figlia da quelle suore. L'amica invece dai carabinieri ci è andata eccome. E ha raccontato tutto.

Durante le indagini le suore hanno scoperto le videocamere installate dagli inquirenti nell'istituto e le hanno rimosse. Ma non è bastato a tirarle fuori dai guai. Come a suor Georgette non è bastato andare a nascondersi a Roma. Così come ignorava l'esistenza delle app che recuperano i file, ignorava anche che esiste la geolocalizzazione. Che ha permesso ai carabinieri di rintracciarla rapidamente. 

(ANSA il 16 novembre 2022) - Una suora arrestata, la madre superiora ed altre due sottoposte al divieto di dimora in Campania: è questo il bilancio di un'indagine dei carabinieri e della sezione "Fasce deboli" della Procura di Napoli sfociata in un'ordinanza a cui hanno dato ieri sera esecuzione i militari dell'arma della compagnia di Ischia. 

Teatro della vicenda l'Istituto religioso Santa Maria della Provvidenza, a Casamicciola Terme, molto conosciuto sull'isola, che ospitata minori in attesa di affidamento, adozione o in affido a seguito di provvedimenti giudiziari nonché minori ospiti esterni, a seguito di corrispettivo pagato privatamente dai genitori.

Il giudice ha emesso la misura cautelare del carcere nei confronti di Marie Georgette Rahasimalala, 55enne nata in Madagascar, che si occupava del servizio mensa nell'istituto religioso Santa Maria della Provvidenza di Casamicciola. 

I divieti di dimora in Campania, invece, riguardano la madre superiora Angela De Bonis, 81 anni, Noeline Razanadraozy, 51 anni, anche lei del Madagascar e anche lei addetta alla mensa, e Alice Albaracin, quasi 48 anni, nata nelle Filippine, consorella addetta al servizio doposcuola.

A luglio di quest'anno i carabinieri di Ischia hanno ricevuto una segnalazione di maltrattamenti all'Istituto religioso Santa Maria della Provvidenza di Casamicciola - dove i carabinieri hanno notificato quattro misure cautelari ad altrettante consorelle - accompagnata da un filmato - girato da una ragazza minorenne ospite della struttura - in cui si vedeva una suora cha schiaffeggiava e tirava più volte con forza i capelli a un bambino di 4 anni, disperato, alla presenza di altri bambini che la invitavano a fermarsi; la suora colpiva con uno schiaffo anche il fratello di 8 anni intervenuto per difenderlo, procurandogli una fuoriuscita di sangue dal naso.

I militari, coordinati dal capitano Laganà, hanno portato avanti le indagini per quattro mesi ascoltando i bambini in modalità protetta ed arrivando ad identificare quali autrici dei reati la madre superiora e le tre consorelle in servizio presso l'istituto ed a ricostruire ulteriori episodi di sofferenze fisiche nei confronti dei minori, consistite in atti di violenza quali tirate di capelli, schiaffi alla nuca, calci, ciabattate sulle mani; le suore imponevano il silenzio sulle violenze ai bambini privandoli dei telefoni cellulari per impedire riprese foto e video, con le aggravanti di abusare della condizione di inferiorità fisica e psichica determinata dall'età delle vittime nonché di commettere i reati all'interno di istituto di educazione e formazione.

Sono stati questi gli elementi che hanno portato il gip di Napoli, su richiesta della Procura della Repubblica di Napoli, precisamente della IV Sezione "tutela delle fasce deboli della popolazione", coordinata dal procuratore aggiunto Raffaello Falcone, a emettere l'ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti della suora ripresa nel filmato e a decidere per il divieto di dimora per le altre tre consorelle, tra cui la madre superiora.

Titti Beneduce per corriere.it il 18 novembre 2022.

Suor Georgette, l’unica delle quattro religiose arrestate a Casamicciola per le violenze sui bambini, si difende e ammette di avere perso la pazienza solo una volta, lo scorso luglio in 18 anni di permanenza nell’istituto Santa Maria della Misericordia. 

Le testimonianze raccolte dagli inquirenti (le indagini sono coordinate dal procuratore aggiunto Raffaello Falcone) sono però univoche. È toccante quella della madre dei bambini picchiati mentre il cellulare di una loro compagna riprendeva la scena: la struttura ospita i suoi quattro figli e la donna, cui è stata sospesa la potestà genitoriale, può incontrarli per due ore al giorno.

«I bambini mi hanno segnalato che ogni qualvolta commettono qualche errore vengono picchiati o colpiti con il lancio di oggetti. Mimano gli schiaffi con il pugno chiuso e il dito medio piegato e sporgente rispetto agli altri, ovvero tale da colpire la testa dei bambini con l’osso. A volte sono stati colpiti anche con la scopa. Diverse volte ho lamentato tali circostanze a suor Edda (la superiora, ndr), la quale mi ha sempre detto che i bambini sono bugiardi e che vengono trattati bene».

A dire della donna, in una circostanza suor Edda percosse uno dei bambini addirittura davanti a lei. Il piccolo era stato accusato da un altro bambino di averlo picchiato: «In tale circostanza suor Edda, che mi aveva diffidato ad intromettermi, lo ha schiaffeggiato più volte, colpendolo al volto e facendolo piangere. Poiché mi hanno sospeso la potestà genitoriale non me la sono sentita di intervenire, anche perché suor Edda in passato mi ha detto che se avessi lamentato qualcosa che riguardava il suo ente mi avrebbe impedito di far visita ai bambini».

ABUSI SESSUALI. Pedofilia, il mea culpa della Cei. "Sono 89 le vittime in due anni". Il report accusa preti e catechisti. Negli archivi altri 600 fascicoli. Primo passo per la trasparenza voluta dal Papa. Fabio Marchese Ragona il 18 Novembre 2022 su Il Giornale. 

Un primo passo verso la verità e la giustizia, nel segno di quella trasparenza spesso invocata da Papa Francesco. La Conferenza Episcopale Italiana ha pubblicato ieri il primo report nazionale sugli abusi sessuali nella Chiesa con i dati relativi agli ultimi due anni, dal 2020 al 2022. L'inizio di un cammino permanente per combattere questa piaga che ha coinvolto nel mondo migliaia di vittime. 

Ai centri di ascolto delle diocesi italiane, secondo il report rilasciato alla vigilia della giornata italiana di preghiera per le vittime di abusi, sono arrivate 89 segnalazioni, soprattutto da parte di donne, riguardanti nella maggior parte dei casi bambini e adolescenti tra i dieci e i diciotto anni, ma anche adulti vulnerabili. «Segnalazioni fatte via telefono o magari online, anche solo per ricevere informazioni» ha spiegato monsignor Giuseppe Baturi, Segretario Generale della Cei. 

I dati dei vescovi italiani però sono chiari: tra queste 89 segnalazioni ci sono denunce che riguardano 68 presunti pedofili, per lo più preti e religiosi, ma anche laici: catechisti, sagrestani, insegnanti di religione, animatori e responsabili di associazioni. Nelle segnalazioni alle diocesi vengono denunciati linguaggi inappropriati da parte degli abusatori, seguiti da molestie o addirittura rapporti sessuali, esibizione di pornografia o adescamenti online. 

Un terzo dei casi segnalati si sarebbe consumato in parrocchia o nelle sedi di associazioni italiane. E se da un lato c'è la vicinanza alle vittime e l'accompagnamento da parte della Chiesa, attenzione viene rivolta anche ai «predatori»: per i presunti pedofili le diocesi hanno proposto percorsi di riparazione e conversione, compresi l'inserimento in comunità di accoglienza e attività di accompagnamento psicoterapeutico. Ma non è tutto: la Conferenza Episcopale Italiana, lo scorso ottobre ha firmato un accordo con la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori per creare una rete globale di centri per accoglienza, ascolto e guarigione delle vittime. 

Ci sarà anche un secondo rapporto in collaborazione con il Dicastero per la Dottrina della Fede che riguarderà gli ultimi vent'anni, dal 2000 ad oggi. Secondo i dati rivelati dal Segretario Generale della Cei, sono oltre seicento i fascicoli riguardanti denunce di atti di abusi sessuali perpetrati da sacerdoti in Italia contenuti negli archivi della Santa Sede. «Bisognerà trattare questi dati con un'analisi qualitativa e quantitativa - ha spiegato monsignor Baturi - per accedere a questi archivi sarà firmato un Protocollo tra la Chiesa Italiana e il Vaticano. È la prima volta che un simile passo viene compiuto ed è di una importanza fondamentale perché ci consentirà di conoscere i contesti e le circostanze in cui sono maturati questi eventuali abusi. Attraverso l'accesso a questi fascicoli depositati presso il dicastero vaticano, ha continuato Baturi, sarà possibile studiare e valutare tutti i casi riportati, con l'ausilio anche dei centri indipendenti». 

«I numeri riportati dai vescovi italiani nel report che riguarda gli ultimi due anni sono significativi - afferma Francesco Zanardi, responsabile di Rete l'Abuso -«Se in due anni le diocesi hanno ricevuto 89 denunce vuol dire che il problema c'è ed è grosso. Il 34% dei presunti colpevoli sono laici».

Pedofilia, il primo report della Cei di Zuppi prova ancora a negare e insabbiare il problema. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 17 novembre 2022 • 11:17Aggiornato, 17 novembre 2022 • 17:53

Dietro un titolo promettente, “Proteggere, prevenire, formare”, ci sono 40 paginette che rivelano soltanto due cose: la volontà di coprire e minimizzare il problema, e una certa ignoranza statistica (nel migliore dei casi, nel peggiore un grossolano tentativo di manipolare i pochi numeri offerti).

Basta vedere i numeri. Ci sono 226 diocesi in Italia. L’analisi del report ne riguarda 166, ma a rispondere sono state 158. Perché? Quali sono rimaste fuori? Non si sa. E se fossero rimaste fuori quelle con il maggior numero di casi di molestie?

Alla fine, l’unica cosa interessante è la tabella 3.14 che riguarda le “azioni di accompagnamento alle presunte vittime”. Riguarda soltanto 57 casi, ma registriamo comunque i dati: soltanto 3 casi su 57 rientrano nella categoria “altro”, quella che include, tra le azioni offerte alle vittime, la denuncia penale

Pedofilia e Chiesa, la Cei ha escluso dall’indagine diocesi con preti sotto processo. FEDERICA TOURN su Il Domani il 17 novembre 2022

Dati scarni e confusi, di scarsa leggibilità, che tra l'altro riguardano solo 158 diocesi su 22.

Fra quelle che non hanno risposto, quasi un quarto del totale, c'è anche la diocesi di Piazza Armerina, che vede uno dei suo sacerdoti, don Giuseppe Rugolo, sotto processo per violenza sessuale su minori.

Quale può essere la credibilità di un dossier che non prende nemmeno in esame le diocesi con casi noti?

L’8 per mille ai preti pedofili, i soldi dei fedeli usati per aiutare il sacerdote accusato di molestie. FEDERICA TOURN su Il Domani il 14 novembre 2022

I vescovi italiani usano i fondi statali dell'8 per mille anche per tutelare i sacerdoti accusati di pedofilia, come se si dovessero difendere da una persecuzione contro la Chiesa cattolica, pagando anche gli avvocati.

È quanto sta emergendo al processo in corso a Enna contro don Giuseppe Rugolo, imputato per violenza sessuale su un minore. Il vescovo di Piazza Armerina lo ha coperto per anni. 

Lo ha ammesso durante una drammatica udienza del processo. Anni fa, quando gli fu chiesto un commento sul caso del prete pedofili, rispose: «Non ho capito di chi si parli. Abbiamo tanti casi». 

Questa inchiesta è realizzata grazie al sostegno dei lettori di Domani: contribuisci anche tu. Per ogni euro versato, noi ne aggiungiamo un altro fino al raggiungimento dell’obiettivo.

Estratto dell’articolo di Iacopo Scaramuzzi per “la Repubblica” il 18 novembre 2022.

Per la prima volta i vescovi italiani hanno pubblicato numeri precisi, ancorché incompleti, relativi agli abusi sessuali subiti dai minorenni. Si tratta di una stima al ribasso, «una prima fotografia» di un fenomeno che da anni scuote la cattolicità in tutto il mondo. Ma, come ha detto monsignor Lorenzo Ghizzoni, presidente del servizio nazionale per la tutela dei minori, «si sta uscendo, forse lentamente, dall'idea che i panni sporchi si lavano in famiglia». […]

Due le fonti utilizzate. La prima riguarda i fascicoli inviati dalle 226 diocesi italiane al dicastero vaticano per la Dottrina della fede, l'ufficio responsabile per i processi canonici dei preti. Dal 2001 è obbligatorio, quando si apre un processo ecclesiastico, comunicarlo a Roma. 

Ora la Cei, guidata dal cardinale Matteo Zuppi, ha reso noto che nel ventennio 2001-2021 sono stati trasmessi 613 fascicoli relativi a abusi avvenuti dagli anni 50 in poi. Ciò non significa necessariamente 613 abusi: in alcuni casi una denuncia può essere stata archiviata, in altri casi può essere relativa a multipli abusi compiuti da un solo prete, e dunque, come ha spiegato il segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, gli abusi veri e propri «possono essere di più o di meno» di 613. 

Numero che, ad ogni modo, non tiene conto degli abusi che non sono arrivati alla celebrazione di un processo ecclesiastico, che non sono stati denunciati tout court, o che sono stati denunciati prima del 2001. La Cei pubblicherà uno studio dettagliato di questi casi. […]

In oltre la metà dei casi l'abusatore è un maschio tra i 40 e i 60 anni, per lo più un prete (44,1% dei casi), ma anche un laico, ad esempio insegnante di religione, sagrestano, animatore di oratorio (33,8%), o un frate (22,1%). Nel 94,4% l'abuso è avvenuto in parrocchia, a scuola, in una sede di un movimento, nel 5,6% online. Secondo Francesco Zanardi, sopravvissuto agli abusi di un prete e animatore della Rete l'abuso, il rapporto è «vergognosamente» limitato, ma «anche in difetto i dati sono comunque allarmanti». Per la Cei è comunque «un primo passo per fare verità e giustizia».

Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 17 novembre 2022

«La prima volta che ha abusato di me avevo 9 anni. Mi ha violentato a casa sua». È drammatico il racconto di G., un giovane di 21 anni che ha deciso di andare lontano dalla Sicilia per sfuggire agli incubi che lo inseguivano. «Le violenze di quel sacerdote sono andate avanti fino a tre anni fa», sussurra. Ora, c'è un'inchiesta della procura e della squadra mobile di Siracusa contro un cappellano militare oggi in pensione, che spesso tornava nel suo paese di origine, Francofonte.

Come ha trovato la forza di denunciare, nel marzo dell'anno scorso?

«Non è stato davvero facile, ho vissuto anni terribili, in cui ho subito anche ricoveri in ospedale. Mi aveva plagiato psicologicamente, mi aveva comprato con tanti regali. E solo quando sono diventato grande ho capito che non potevo tenermi dentro tutto quel malessere che provavo. Così ho mandato una mail al vescovo di Siracusa». 

L'ha convocata in curia?

«Due giorni dopo, sono stato chiamato da monsignor Lomanto». 

Ieri, il vescovo ha dichiarato che al termine di un procedimento canonico, il 31 ottobre, l'ex cappellano, che dipende dall'Eparchia di Piana degli Albanesi, è stato interdetto dall'esercizio pubblico del ministero.

«A me risulta che continui a dire messa, nella Chiesa madre di Francofonte». 

Come riuscì quel sacerdote a carpire la fiducia di un bambino?

«Avevo perso da poco mio padre. E mia mamma era andata via da casa. Così, la nonna aveva accolto me e mio fratello. Qualche tempo dopo, conobbi quel cappellano. Un giorno, mi invitò a casa: mi colpì subito il lusso della sua villa». 

Poi cosa accadde?

«Ripeteva che mi avrebbe aiutato in ogni cosa, io mi sentivo protetto. Ma presto si approfittò di me, la prima volta fu in piscina». 

Vi vedevate spesso?

«Sì, mi invitava a restare a casa sua. E a dormire con lui. Era la scusa per approfittare ancora di me. Intanto, mi riempiva ancora di regali». 

Cosa le diceva?

«Mi spiegava che apparteneva agli ortodossi e che poteva esercitare liberamente la sua sessualità». 

Cercò mai di reagire?

«A 14 anni, mi fece vedere come funzionavano alcune app di incontri fra omosessuali. Mi utilizzava come esca. Lì, iniziai ad avere le prime reazioni. E trovai il modo di andare via dalla Sicilia, per qualche tempo ho vissuto a Milano, ero in cura da uno psichiatra del San Raffaele che mi prescriveva degli psicofarmaci. Ma il prete mi ha raggiunto anche lì. Poi sono dovuto tornare in Sicilia».

Gli abusi proseguirono?

«Mi convinse a fare delle videochat erotiche con un prete di Chieti». 

Adesso, qual è il suo sogno?

«Vorrei tornare ad essere ragazzo, senza la schiavitù di quell'uomo. Ma non è possibile. Vorrei allora aiutare tutti i giovani che non hanno ancora trovato la forza di denunciare. Vorrei dire loro: non abbiate paura, non tutta la Chiesa è marcia». 

Cosa dovrebbe fare la Chiesa per essere davvero vicina ai giovani abusati dai sacerdoti?

«Non bisogna vittimizzare chi ha subito violenze, ma ascoltare. Sempre. Un ruolo importante dovrebbero averlo le famiglie: tanti ragazzi non hanno ancora trovato il coraggio di confidarsi». 

Le sue parole sono già un punto di riferimento importante per le vittime che rimangono ancora in silenzio.

«Io a fatica ho trovato un equilibrio. Anche perché intanto quell'uomo provava a screditarmi, dicendo che ero un ragazzo inaffidabile. Ma ho guardato avanti, anche con il sostegno della fede. La vera Chiesa è quella mia e di tante persone perbene, non certo la sua. Ci sono ancora uomini di Chiesa che lo proteggono». 

(ANSA il 9 novembre 2022) - La procura di Colonia ha aperto un'inchiesta a carico del cardinale Rainer Maria Woelki. Lo ha scritto il Koelner Stadt Anzeiger. Il prelato è sospettato di aver dichiarato il falso rispetto alla tempistica con cui fu informato delle accuse di pedofilia rivolte contro Winfried Pilz, che era alla guida dei giovani cantori cosiddetti "Sternsinger", e che è deceduto nel 2019.

Il cardinale francese Ricard ammette: abusò di una 14enne quando era parroco. Iacopo Scaramuzzi Meli su La Repubblica il 7 novembre 2022.

È tuttora membro del dicastero vaticano per la Dottrina della fede, quello responsabile dei processi per pedofilia. Il presidente della conferenza episcopale commenta: "Siamo sotto choc". Prima di lui denunce di abusi solo a tre cardinali, Groer, O’Brien e McCarrick, questi ultimi due sanzionati da Papa Francesco. Sono 11 i vescovi francesi, in funzione o in pensione, sotto indagine penale o canonica 

Un nuovo terremoto scuote la Chiesa cattolica francese: il potente cardinale Jean-Pierre Ricard, tuttora membro del dicastero vaticano per la Dottrina della fede – quello responsabile, tra l’altro, dei processi canonici per pedofilia – per due volte presidente della conferenza episcopale d’Oltralpe, ha reso noto di avere abusato di una quattordicenne quando, 43enne, era parroco. 

(ANSA il 7 novembre 2022) - Nove vescovi o ex vescovi francesi sono oggetto di una procedura giudiziaria o di una procedura interna alla Chiesa per presunte violenze sessuali su minori: è quanto annunciato dal presidente della Conferenza episcopale francese, Eric de Moulins-Beaufort, nel corso di una conferenza stampa a Lourdes.

Tra questi, figurano personalità come Monsignor Michel Santier, ex vescovo di Créteil, e Monsignor Ricard, ex vescovo di Bordeaux. Quest'ultimo riconosciuto di avere avuto una condotta "riprovevole" su una minorenne 35 anni fa, ha aggiunto Moulins-Beaufort.

(ANSA il 7 novembre 2022) - Sale a undici il numero di vescovi o ex vescovi sotto inchiesta in Francia per violenze sessuali. Dopo aver parlato di nove vescovi, l'agenzia France Presse parla ora di un totale di undici alti prelati oggetto di una procedura giudiziaria o di una procedura di diritto canonico interna alla Chiesa.

Dati raccolti sulla base delle informazioni fornite oggi in conferenza stampa a Lourdes dal presidente della conferenza episcopale francese, Eric de Moulins-Beaufort. Tra questi, ha precisato Moulins-Beaufort, c'è anche l'ex cardinale Jean-Pierre Ricard, ex vescovo di Bordeaux, che ha riconosciuto un atteggiamento "riprovevole" su una minore di 14 anni, 35 anni fa nonché l'ex vescovo di Créteil, Michel Santier, già sanzionato nel 2021 dalle autorità del Vaticano per "abusi spirituali che hanno condotto a del voyeurismo su due uomini maggiorenni" negli anni Novanta.

Il silenzio intorno alla sanzione dell'alto prelato ha causato in queste ultime settimane le proteste del mondo cattolico e delle associazioni in aiuto alle vittime degli abusi nella Chiesa.Senza entrare nello specifico, Moulins-Beaufort, ha insistito "sulla grande diversità delle situazioni, dei fatti perpetrati o imputati" agi undici vescovi d'Oltralpe.

 I 120 membri della CEF sono riuniti da giovedì a Lourdes nel quadro dell'assemblea plenaria d'autunno. Tra gli obiettivi, quello di lavorare a "proposte concrete" per migliorare la comunicazione e la trasparenza delle misure canoniche (di diritto ecclesiastico) assunte contro i prelati coinvolti in fatti di violenze sessuali.

(ANSA il 22 agosto 2022) - Almeno 39 vescovi spagnoli hanno ricevuto accuse — secondo sentenze o inchieste civili o canoniche, documenti e denunce — di aver celato casi di abusi sessuali commessi all'interno delle loro diocesi: è quanto svela il quotidiano El País, da tempo impegnato in un'inchiesta giornalistica su questo argomento. 

La testata spagnola ha raccolto diverse testimonianze che raccontano di casi in cui, di fronte a denunce da parte di presunte vittime di abusi, i vescovi responsabili delle diocesi in cui sarebbero stati commessi hanno evitato di indagare o celato tali accuse senza agire né adottare provvedimenti. Alcuni vescovi indicati da El País sono ancora in attività o hanno ricoperto alte cariche all'Interno della Conferenza Episcopale Spagnola (Cee). Attualmente, aggiunge il quotidiiano, sia il Vaticano sia la stessa Cee sono al corrente di tali accuse. In Spagna sono in corso sulla questione degli abusi nella chiesa un'inchiesta incaricata dallo Stato e una, parallela, incaricata dalla stessa Cee. 

(ANSA il 22 giugno 2022) - Una vittima degli abusi commessi dal prete pedofilo, Peter H, ha sporto denuncia contro il papa emerito Joseph Ratzinger. Lo riportano Correctiv, die Zeit e la Beyrische Rundfunk. Benedetto XVI "aveva conoscenza della situazione e ha perlomeno preso in considerazione alla leggera che questo sacerdote potesse ripetere i suoi reati", si legge nella denuncia. 

L'autore della denuncia, che colpisce Ratzinger e altri alti rappresentanti della Chiesa, accusa l'ex pontefice del fatto che, negli anni 80, in qualità di arcivescovo, avesse accolto Peter H. nella sua diocesi di Monaco e Frisinga, nonostante gli abusi sessuali precedentemente commessi dal prete pedofilo.

E in Baviera, il sacerdote continuò a commetterne. I reati sono in gran parte prescritti, ma l'avvocato della vittima che ha sporto denuncia e che si è costituita parte civile, ha intentato un'azione per ottenere una sentenza di colpa della chiesa. Se il tribunale riconoscesse i reati del sacerdote, "la chiesa potrebbe essere costretta a risarcirgli il danno", scrivono i media tedeschi. La causa è stata depositata presso il tribunale regionale di Traunstein. Nei mesi scorsi Ratzinger ha ammesso a nome di tutta la chiesa "la grandissima colpa" di aver trascurato il grande male che da anni dissesta la chiesa cattolica.

Ratzinger debole ma deciso: vuole dimostrare la sua innocenza. Settimana intensa per il Papa emerito denunciato in Germania dalla vittima di un prete pedofilo. Questa volta Benedetto XVI ha deciso di difendersi dopo una lunga battaglia in cui sa di non avere colpe. Nico Spuntoni il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.

Quella appena trascorsa è stata una settimana intensa per Joseph Ratzinger. La sua immagine è ricomparsa pubblicamente attraverso le fotografie di due incontri che ha avuto in questi giorni: quello nei Giardini Vaticani con il cardinale Gerhard Ludwig Müller accompagnato da due suore e quello nel Monastero Mater Ecclesiae con Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kiev.

Dalle foto si notano il corpo fragile ed il volto provato ma traspare anche l'attenzione che riserva al racconto del suo interlocutore, il capo della Chiesa greco cattolica ucraina. Ad affiancarlo, come sempre, c'è monsignor Georg Gänswein, ormai tornato ad essere suo segretario particolare a tempo pieno dopo essere finito "a riposo" come prefetto della Casa Pontificia.

Alle notizie terribili riportate da Shevchuk sulla sofferenza del popolo ucraino in guerra, si sono aggiunte quelle sgradevoli dalla Germania che lo riguardano direttamente. Nemo propheta in patria, un'espressione piuttosto calzante per la storia di Ratzinger che ha sempre subìto attacchi da politici, media e persino vescovi tedeschi.

Martedì l'agenzia Dpa ha rivelato che il Papa emerito è pronto a difendersi in tribunale dall'accusa di negligenza nei confronti di un prete pedofilo. Il tribunale competente è quello di Traunstein presso il quale una vittima ha presentato una denuncia contro Ratzinger e contro il suo successore alla guida dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga, il cardinale Friedrich Wetter. Oltre ai due prelati, l'uomo ha sporto denuncia anche contro il suo aggressore e contro l'arcidiocesi. La causa è civile perché sul piano penale è scattata la prescrizione, ma potrà avere luogo proprio grazie alla disponibilità del Papa emerito che non si è tirato indietro pur potendolo fare.

Per quanto riguarda la questione abusi, Benedetto XVI non vuole ombre sul suo conto ed intende applicare quella linea della trasparenza che ha contraddistinto il suo pontificato. Da qui la decisione di difendersi, affidandosi allo studio legale Hogan Lovells. Lo farà con ogni probabilità con una memoria difensiva che potrebbe riprendere quanto già spiegato nelle 82 pagine inviate mesi fa al team legale a cui l'arcidiocesi bavarese aveva affidato l'incarico di redigere un rapporto su abusi e insabbiamenti a Monaco e Frisinga tra il 1945 ed il 2019.

La presunta vittima avrebbe subito molestie sessuali da Peter Hullermann - questo il nome del prete protagonista della vicenda - nel suo periodo a Garching dove il religioso fu trasferito come parroco dall'arcivescovo Wetter nel 1987 nonostante fosse stato condannato l'anno precedente per pedofilia.

Le strade del futuro Benedetto XVI e di Hullermann si incrociano nel gennaio 1980 quando, nel corso di una riunione dei vertici dell'arcidiocesi, l'allora cardinale Joseph Ratzinger che la guidava diede il suo assenso alla richiesta del prete di risiedere per un periodo a Monaco per seguire un trattamento psicoterapeutico. Il permesso fu accordato ma non ci fu alcun via libera del futuro Pontefice a far sì che il prete svolgesse attività pastorale.

Sebbene non avesse ancora condanne, Hullermann si era già reso responsabile di un abuso sessuale ai danni di un undicenne nel 1979 ad Essen. Il suo vescovo di allora, informato dai genitori della piccola vittima, dispose che avrebbe dovuto seguire una terapia a Monaco. A seguito di ciò, dunque, la richiesta di alloggio fatta all'arcidiocesi all'epoca guidata da Ratzinger che però non sapeva assolutamente il motivo per cui Hullermann avrebbe dovuto iniziare quella terapia.

I problemi arrivarono pochi mesi dopo, quando il vescovo ausiliare di Monaco, monsignor Gerhard Gruber, autorizzò il prete a svolgere incarichi pastorali. Lo fece, come chiarito in una dichiarazione del 2010, senza informare Ratzinger.

Le ammissioni degli stessi protagonisti di questa triste vicenda sarebbero dovuti bastare a fugare ogni dubbio sul comportamento del Papa emerito, l'uomo che per primo denunciò "la sporcizia nella Chiesa" e che tanto ha fatto per perseguire la linea della tolleranza zero contro i preti pedofili. Ma il clamore provocato dal rapporto abusi relativo all'arcidiocesi di Monaco e Frisinga e la riproposizione dei sospetti su Ratzinger hanno portato poi all'avvio di questa causa civile che, però, il novantacinquenne ex Pontefice regnante ha scelto di non schivare: si difenderà nell'eventuale processo.

Domenico Agasso per “la Stampa” il 9 novembre 2022.

Il 95enne papa emerito Benedetto XVI si difenderà in un processo nella «sua» Baviera dall'accusa di avere coperto, quando era arcivescovo di Monaco, un prete pedofilo. La denuncia a suo carico è stata sporta al tribunale provinciale di Traunstein, nell'ambito dell'inchiesta sugli abusi del clero locale. Joseph Ratzinger, accettando di andare a giudizio, consente al procedimento di proseguire: si tratta di un'azione civile, sul piano penale la vicenda non ha più valore, ma il dibattimento potrà essere prezioso per ricostruire la storia. 

L'ex Pontefice si tutelerà con una memoria difensiva. Se non fosse stato disposto alla difesa sarebbe andato incontro a una sentenza in contumacia. L'annuncio della difesa di Papa Benedetto per ora «non presenta elementi di contenuto», ha spiegato la portavoce del tribunale.

La vittima (oggi 38enne) che ha intentato la causa ha riferito di avere subito a 12 anni violenze sessuali da parte del prete - recidivo - Peter Hullermann («padre H.»), nella località di Garching an der Alz. Sono quattro le notifiche presentate: oltre che contro il sacerdote già condannato e l'ex pontefice, sono coinvolti anche il cardinale Friedrich Wetter, successore di Ratzinger alla guida dell'arcidiocesi, e la diocesi stessa.

L'avvocato del querelante, Andreas Schulz, ha commentato all'agenzia Dpa: «Se la Chiesa e gli imputati - con l'eccezione del noto recidivo H. - si attengono a quello che è costantemente affermato, cioè di mantenere il proprio impegno cristiano e di riconoscere l'ingiustizia commessa, la causa avrà successo. Se non lo fanno, il danno alla loro reputazione sarà ancora più grave e la Chiesa accelererà l'erosione della fede».

Secondo la Dpa, Benedetto XVI si è affidato allo studio legale Hogan Lovells. I quattro denunciati hanno chiesto una proroga, ha spiegato la portavoce all'Ansa, e hanno tempo fino al 24 gennaio per argomentare sul piano contenutistico la difesa. 

Il caso di «padre H.» è riemerso in modo dirompente nel gennaio scorso dal rapporto sugli abusi sessuali nell'arcidiocesi bavarese, che Ratzinger guidò dal 1977 al 1982. In quei giorni di inizio anno che hanno rovinato la quiete dell'ex monastero Mater Ecclesiae, in Vaticano, l'autodifesa del Papa emerito è inciampata, costringendolo a correggere una dichiarazione cruciale rilasciata per il dossier. 

Una «svista», avrebbe poi detto in seguito. Contrariamente a quanto sostenuto nel suo precedente resoconto, infatti, Ratzinger partecipò alla riunione del 15 gennaio 1980, durante la quale si parlò di un prete della diocesi di Essen che aveva abusato di alcuni ragazzi ed era giunto a Monaco per una terapia. Era Hullermann.

Tuttavia, ha precisato il segretario particolare di Benedetto, monsignor Georg Gaenswein, nell'incontro «non fu presa alcuna decisione circa un incarico pastorale del sacerdote». La richiesta venne accettata per «consentire una sistemazione per l'uomo durante il trattamento terapeutico a Monaco». 

Restava però in piedi il fatto che Ratzinger sapesse del prete accusato di pedofilia. E a padre H. successivamente furono affidati compiti pastorali, e il prete continuò con le molestie. Benedetto XVI a febbraio ha pubblicato un mea culpa storico, chiedendo perdono, parlando di «grandissima colpa» per chi compie abusi ma anche per chi non li affronta. Ha usato il «noi», assumendosi le proprie responsabilità.

Ma sulle coperture specifiche di cui è accusato ha assicurato di non essere a conoscenza degli abusi, di non essere un «bugiardo», e ha affidato ai suoi periti la smentita del suo coinvolgimento. Nel documento dei collaboratori si leggeva che «in nessuno dei casi analizzati dalla perizia Ratzinger era a conoscenza di abusi sessuali commessi o del sospetto di abusi sessuali commessi dai sacerdoti». E il report «non fornisce alcuna prova in senso contrario».

Un Papa in tribunale. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l’8 novembre 2022.

Un anziano leader che ha dominato le cronache degli ultimi decenni ed è stato raggiunto da un’accusa infamante ha deciso a sorpresa di difendersi nel processo anziché dal processo, come avrebbe potuto fare richiedendo la prescrizione. Non so a chi stiate pensando voi, ma immagino non a lui: . Nel 1980 un prete pedofilo tedesco, don Peter Hullermann, fu trasferito da Essen a Monaco di Baviera per tacitare lo scandalo. Una delle vittime di quel prete accusa l’allora vescovo di Monaco di avere avallato l’operazione. Ratzinger conferma di avere dato l’assenso al trasferimento, ma nega di essere stato a conoscenza delle ragioni che lo avevano determinato: gli era stato detto che in Baviera don Peter avrebbe dovuto sottoporsi a una non meglio precisata «terapia». Una versione che, scagionandolo, confermerebbe però come già all’epoca questo raffinatissimo frequentatore di libri si fidasse troppo degli uomini per trovarsi a suo agio nel governarli. Ma dell’innocenza o colpevolezza di Ratzinger si occuperà il tribunale. Per adesso noi non possiamo che restare stupefatti di fronte allo spettacolare rovesciamento del luogo comune. Proprio il Papa che per verdetto unanime è considerato il capofila dei conservatori, secondo qualcuno addirittura dei reazionari, ha compiuto i due gesti più rivoluzionari nella storia bimillenaria della Chiesa: non solo dimettersi, ma accettare di sottoporsi al giudizio degli uomini prima ancora che a quello di Dio. Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. La si può leggere qui. Chi non è ancora abbonato può trovare qui le modalità per farlo, e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale.

(ANSA l’8 novembre 2022) - Il Papa emerito Benedetto XVI, intende difendersi di fronte a una denuncia sporta al tribunale provinciale di Traunstein, nella Baviera tedesca, nell'ambito dell'inchiesta sugli abusi dei preti pedofili. Lo ha confermato all'ANSA la portavoce dello stesso tribunale. 

L'annuncio della difesa di Joseph Ratzinger per ora "non presenta elementi di contenuto", ha spiegato la portavoce. La denuncia era stata sporta da un uomo, che ha affermato di aver subito abusi da un prete pedofilo, e coinvolge Ratzinger che era arcivescovo di Monaco e Frisinga, quando il religioso fu trasferito nella sua diocesi.

Ratzinger pronto a testimoniare a Monaco contro l'accusa di aver coperto abusi sessuali. Redazione su Il Giornale il 9 novembre 2022.

Una notizia clamorosa, mentre intanto esplode in Francia il caso degli 11 vescovi sotto inchiesta per casi di abusi sessuali, una che coinvolge addirittura il Papa emerito Benedetto XVI, arriva dalla Germania. Il 95enne Joseph Ratzinger, che dalla sua storica rinuncia del febbraio 2013 vive nella quiete dell'ex monastero Mater Ecclesiae, in Vaticano, intende difendersi di fronte a una denuncia sporta al tribunale provinciale di Traunstein, nella Baviera tedesca, nell'ambito dell'inchiesta sugli abusi dei preti pedofili. Lo ha confermato all'Ansa la portavoce dello stesso tribunale

L'annuncio della difesa di Benedetto XVI per ora «non presenta elementi di contenuto», ha spiegato la portavoce. La denuncia era stata sporta da un uomo, che ha affermato di aver subito abusi da un prete pedofilo, e coinvolge Ratzinger che era arcivescovo di Monaco e Frisinga, quando il religioso fu trasferito nella sua diocesi. Si tratta della nota vicenda del cosiddetto «padre H.», che ora approda nella sede giudiziaria. L'uomo, che ha riferito di aver subito gli abusi dal prete recidivo H. nella località di Garching an der Alz, ha sporto quattro denunce: oltre al prete già condannato e al Pontefice emerito, sono coinvolti il cardinale Friedrich Wetter, successore di Ratzinger alla guida dell'arcidiocesi, e l'arcidiocesi stessa. Si tratta di un'azione civile, sul piano penale la vicenda non ha più valore.

«Se la Chiesa cattolica e gli imputati - con l'eccezione del noto recidivo H. - si attengono a quello che è costantemente affermato, cioè di mantenere il proprio impegno cristiano e di riconoscere l'ingiustizia commessa, la causa avrà successo», ha dichiarato alla Dpa l'avvocato del querelante, Andreas Schulz. «Se non lo fanno, il danno alla loro reputazione sarà ancora più grave e la Chiesa cattolica accelererà l'erosione della fede», ha aggiunto.

Se l'ex pontefice non si fosse dichiarato disposto alla difesa sarebbe andato incontro a una sentenza in contumacia. I 4 denunciati hanno chiesto una proroga e hanno tempo fino al 24 gennaio, per argomentare la difesa.

Di accuse a Ratzinger su «comportamenti erronei» nel gestire casi di preti pedofili a Monaco si parlò già nel corso del pontificato, quando le responsabilità sulla vicenda di «padre H.» vennero poi attribuite a un sottoposto. E sono riemerse con più forza nel gennaio scorso dal rapporto indipendente sugli abusi sessuali nell'arcidiocesi bavarese, che lui guidò dal 1977 al 1982. Tra l'altro in quei giorni l'autodifesa del Papa dovette correggere una dichiarazione rilasciata in relazione al dossier. Contrariamente al precedente resoconto, Ratzinger partecipò alla riunione dell'Ordinariato il 15 gennaio 1980, durante la quale si parlò di un prete della diocesi di Essen che aveva abusato alcuni ragazzi ed era venuto a Monaco per una terapia. In seguito, al prete fu affidata la cura delle anime e continuò nei suoi comportamenti. L'accusa che viene rivolta all'allora arcivescovo Ratzinger è di non aver preso alcun provvedimento affinché ciò non accadesse.

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 27 maggio 2022.

Il primo «Report» annuale sugli abusi su minori nel clero e le attività di prevenzione in Italia sarà pubblicato «entro il 19 novembre». E per quella data si conta anche di definire la ricerca sui casi «custoditi dalla Congregazione per la Dottrina della Fede» tra il 2000 e il 2021. «Sugli abusi abbiamo scelto una strada nuova, una strada italiana». Il cardinale Matteo Zuppi parla per la prima volta dalla sua nomina a presidente della Cei. 

Riceve i giornalisti in un istituto di religiose accanto a piazza San Pietro, «qui ci ho fatto l’asilo», e parla delle «priorità» dei vescovi in Italia: il Sinodo e la Chiesa che «si mette ad ascoltare le domande di tutti, ascoltare davvero, facendosi ferire dalle domande»; gli anziani come «vittime principali delle pandemie che stiamo vivendo, il Covid e la guerra, la Caritas è davvero preoccupata, qui si tratta di aiuto e assistenza domiciliare come protezione, di supporto medico, medicine, disagio abitativo»; e ancora i giovani, «le fragilità, le difficoltà di relazione, e quindi il potenziamento dei centri estivi, dei doposcuola»; «le morti sul lavoro, la violenza sulle donne»: e infine l’impegno per la pace in Ucraina «senza dimenticare gli altri pezzi della guerra mondiale, le altre guerre», e «un’accoglienza dei profughi che duri nel tempo» oltre l’emozione del momento, perché ad esempio «rischiamo non ci colpisca più la tragedia dell’Afghanistan» e «ieri ci sono stati altri settanta dispersi nel Mediterraneo».

Insomma le emergenze sono tante ma c’è poco da fare, la crisi degli abusi sui minori si addensa da anni sulla Chiesa italiana, le domande si concentrano su quello. Il cardinale Zuppi si sofferma sulle «cinque linee di azione per una più efficace prevenzione del fenomeno degli abusi sui minori e sulle persone vulnerabili». Le associazioni di vittime chiedono da anni un’indagine indipendente sugli abusi, come avvenuto in Paesi come la Francia, la Germania o la Spagna.

La via italiana sarà differente, non affidata ma «in collaborazione» con istituti indipendenti. Così la prima obiezione arriva dalle vittime: perché una ricerca storica solo dal 2000 e non dal 1945 o da almeno 50 anni? «Moltissimi casi, come il mio, rimarrebbero tagliati fuori», dice Francesco Zanardi, fondatore di Rete l’Abuso. 

Il cardinale Zuppi, anzitutto, replica: «Incontriamoci, molto volentieri». Poi spiega: «Perché dal 2000? Perché ci sembra molto più serio e per certi versi ci fa molto più male, ci coinvolge direttamente. Uno potrebbe dire: ve la cantate e ve la suonate da soli. No: la ricerca sarà sempre supportata da centri indipendenti. Non c’è nessuna volontà di copertura, non vogliamo sfuggire, ci prenderemo le botte che dobbiamo prenderci e le nostre responsabilità, ce le siamo già prese».

Il presidente della Cei insiste sulla «serietà» di un’indagine che sia «qualitativa e non solo quantitativa». Parla dei «dubbi» che hanno accompagnato l’indagine in Francia e le sue elaborazioni numeriche. Di qui quella che Zuppi definisce la via italiana: «Ci possono essere due rischi, quello di minimizzare per non rendersi conto oppure, all’opposto, di amplificare: in questo casi è quando lo ius diventa iniuria. Sarà una cosa seria. Anche nel “Report” sugli ultimi due anni, un istituto indipendente di criminologia e uno di vittimologia raccoglieranno ed elaboreranno i dati». Gli altri punti del piano Cei sugli abusi riguardano il rafforzamento dei centri diocesani per la tutela dei minori, «la maggior parte degli operatori sono professionisti laici, nella mia diocesi in maggioranza sono donne e la presidente è una psichiatra» e della rete dei «Centri di ascolto» che ora coprono il 70 per cento delle diocesi italiane, «aperti a tutti, e per tutti, considerata la gravità del problema abusi non ci occupiamo solo dei nostri, ma del fenomeno in sé». Da ultimo, il cardinale Zuppi parla della «piena collaborazione con il ministero della Famiglia all’interno dell’ Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile».

"Giustizia alle vittime di preti pedofili". Fabio Marchese Ragona il 28 Maggio 2022 su Il Giornale. Il neopresidente Cei dà l'ok al testo anti abusi: "Chiarezza e vicinanza a chi soffre".

Lotta agli abusi, impegno per la pace e appoggio al piano dell'Italia, fine vita e contributo per il lavoro. Il nuovo presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi parla a tutto campo e racconta a il Giornale le sfide che la Chiesa italiana dovrà affrontare nei prossimi mesi.

Cardinale Zuppi, partiamo dalla questione degli abusi su minori: quale sarà la priorità adesso per la Conferenza Episcopale Italiana?

«La chiarezza. E la giustizia, avere insomma dei meccanismi che diano sicurezza alle vittime. Ci sia davvero giustizia! Anzitutto ascoltando e facendo propria la sofferenza e prevenendo. L'altra grande priorità. Ma anche continuando a essere ciò che siamo: un luogo dove ci vogliamo bene e dove voler bene non deve significare per forza qualcosa di ambiguo o legato agli abusi».

Un occhio di riguardo ovviamente deve andare alle vittime

«È la nostra priorità e la nostra preoccupazione! Il pensiero è sempre per loro e per la loro sofferenza. Ce la metteremo tutta per presentare entro il 18 novembre un report nazionale riguardante le segnalazioni arrivate alle diocesi negli ultimi due anni, dati che saranno analizzati da un centro accademico di ricerca. E poi siamo grati anche alla Congregazione per la Dottrina della Fede che nel rispetto della riservatezza ci apre i suoi archivi per analizzare i casi avvenuti in Italia dal 2000 al 2021. L'analisi sarà condotta in collaborazione con degli istituti di ricerca indipendenti. Vogliamo capire il fenomeno e affrontarlo seriamente».

Cos'altro farà la Cei contro gli abusi?

«Vogliamo promuovere ambienti sicuri, a misura dei più piccoli e dei più vulnerabili. Potenziare la rete dei referenti diocesani su questo tema, implementare la costituzione di centri d'ascolto per accogliere e ascoltare chi vuole segnalare abusi recenti o passati».

Toccando il tema della pace in Ucraina, c'è un piano dell'Italia. Quale sarà il ruolo della Chiesa se ci sarà una vostra disponibilità a dare un contributo?

«La disponibilità c'è, lo ha detto il Papa, lo ha confermato il Segretario di Stato, la Chiesa farà di tutto per aiutare la pace. Se c'è un piano italiano lo appoggeremo sicuramente. La Chiesa cercherà di arrivare quanto prima alla pace, il tempo non è secondario con la gente che muore e che soffre. La Chiesa cercherà di fare tutto ciò che può. Quando si cerca il dialogo va sempre bene. Spero che non si continui a ragionare solo nella logica delle armi».

In Italia però la Chiesa sembra essere sempre meno ascoltata, come deve parlare oggi alla gente?

«Deve parlare com'è! Perché a volte parliamo un po' come non siamo. La Chiesa è una madre, e dovrebbe parlare e soprattutto ascoltare come una madre. E aggiungo: qualche volta dovrebbe stare anche un po' zitta!»

Una delle grandi preoccupazioni in Italia è per il lavoro. Cosa può fare la Chiesa?

«Dare un contributo alla sicurezza, all'ambiente, una delle tante preoccupazioni che l'enciclica di Papa Francesco Laudato Sì ha messo in evidenza e poi la garanzia del lavoro. C'è troppo precariato, troppo lavoro nero. È incredibile che ci sia ancora il caporalato e peraltro in regioni insospettabili».

C'è anche il tema del fine vita, in Italia se ne discute da tempo, non c'è ancora una legge. Qual è la posizione della Chiesa in questo dibattito?

«La posizione della Chiesa è che la vita va difesa. Ma deve esserci anche la difesa contro il dolore. Qualcuno pensa che la Chiesa voglia la sofferenza, ma non è così. La Chiesa difende e incentiva le cure palliative, che possono e che devono essere garantite per togliere il dolore. Ma sempre nel rispetto della vita».

Clero e pedofilia, parte l’inchiesta dei vescovi italiani ma sarà un esame obiettivo?La Cei avvia il suo primo Report sulle attività dei Servizi Regionali, dei Servizi Diocesani/Interdiocesani e dei Centri di ascolto per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Armando Fizzarotti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Giugno 2022

«Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!». Ma per secoli e anche negli ultimi anni chi ha rappresentato ai livelli più alti l’istituzione, la comunità umana che dice di seguire i dettami del Vangelo, ha ritenuto di applicare una qualche sanzione, anche minima, mettendo in pratica quanto raccomandato da Gesù di Nazareth, così come riporta l’evangelista Matteo al capitolo 18. Altro che macina! Pietre tombali sono state messe su troppi casi, mettendo a tacere scandali che avrebbero macchiato l’immagine e la reputazione della Chiesa.

Ora pare arrivare una prima «rivoluzione» nell’ambito della Chiesa italiana, per iniziativa del nuovo presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Matteo Zuppi. La Cei avvia il suo primo Report sulle attività dei Servizi Regionali, dei Servizi Diocesani/Interdiocesani e dei Centri di ascolto per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Valutiamo in una parentesi il dettato evangelico: l’«anatema» è rivolto a tutti coloro che si macchino di tali delitti. Sì: delitti, non semplici reati, perché un abuso subito nell’infanzia o anche nell’adolescenza, anche non grave, può segnare il futuro di una persona per il resto della sua vita.

Ma è doppiamente orribile, e quindi da punire con maggiore rigore, nei confronti di chi si comporti da «lupo» travestito con la «pelle d’agnello» di un abito talare, approfittando della fiducia che il suo ruolo e la sua funzione ispirano nelle persone che dovrebbe educare alla fede e accompagnare nella vita spirituale. Ora torniamo all’iniziativa della Cei. Tra le misure, è stata annunciata anche una Analisi quantitativa e qualitativa dei dati custoditi presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, facenti riferimento a presunti o accertati delitti perpetrati da chierici in Italia nel periodo 2000-2021, condotta in collaborazione con Istituti di ricerca indipendenti. Nella ricerca saranno coinvolti 16 coordinatori per i Servizi regionali, 226 referenti per quelli diocesani e 96 responsabili dei Centri di ascolto: saranno somministrati questionari specifici per ciascun ambito da compilare online, garantendo la massima riservatezza.

I dati raccolti verranno esaminati da ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, specializzati in economia, statistica, sociologia con esperienza specifica in analisi di politiche di tutela dei minori, che sono richieste a livello europeo a tutte le organizzazioni operanti con minori ai fini di garantire loro ambienti sicuri in termini di prevenzione, contrasto e protocolli di segnalazione abusi, e che rappresentano il quadro delle Linee guida della Chiesa che è in Italia del 2019.

«Gli esperti avranno il compito «non solo di presentare una radiografia dell’esistente, ma di trarre suggerimenti e indicazioni per implementare l’adeguatezza dell’azione preventiva e formativa delle Chiese che sono in Italia». Quello che è uno dei primi passi della «via italiana» dei vescovi nell’analisi e nella lotta del fenomeno degli abusi sui minori. scontenta però il fronte delle associazioni delle vittime, che reclamano un’indagine indipendente.

Questi sono anni particolari per la Chiesa e per il Vaticano che la guida. È l’epoca tutta particolare dei «due Papi», i due «Soli» della fede, l’emerito Benedetto XVI (Ratzinger) tramontato per aver gettato la spugna ancora in vita, e Francesco (Bergoglio), pontefice in carica da 9 anni. Il primo da molti tacciato di omertà, ma forse con troppa leggerezza, sul gravissimo problema della pedofilia nel clero (recentemente anche denunciato in Germania da una vittima di abusi sessuali subiti in gioventù) e il secondo invece visto come «paladino» del «facciamo piazza pulita in casa nostra» sul problema. Il tedesco, magari visto come un professore di teologia un po’ snob rispetto alla banalità dei problemi quotidiani, il secondo individuato come il gesuita «rivoluzionario» che vuole dare finalmente una scossa decisiva al palazzo delle falsità e dei sistemi di potere di alcuni prelati.

Forse sulla piaga pedofilia è questo un confronto troppo semplicistico fra i due pontificati, ma non è da trascurare che con papa Francesco e con il predecessore del cardinale Zuppi, il cardinale Gualtieri Bassetti, già tre anni fa per i vescovi è stato introdotto «l’obbligo morale di denuncia alle autorità civili dei casi di abuso sessuale su minori commessi da sacerdoti».

Ma la strada per sanare le ferite è ancora lunga e difficoltosa.

Lucetta Scaraffia per “La Stampa” il 9 giugno 2022. 

Hanno veramente delle buone ragioni i vescovi italiani a rifiutare un'inchiesta indipendente sugli abusi del clero? Noi - un gruppo di donne in maggioranza nonne - pensiamo di no e spieghiamo perché. Cominciamo con un esempio. 

Per quanto accertato dai giudici di merito, Riccardo Seppia è stato un delinquente comune part-time: per il tempo restante era parroco della chiesa di Santo Spirito a Sestri Ponente. Il caso che lo riguarda è scoppiato nel 2011, quando il prete è stato arrestato nella sua abitazione, accusato di aver abusato sessualmente, in cambio di droga, di adolescenti in situazioni di particolare disagio. 

Le indagini erano partite dalle intercettazioni di alcuni pusher milanesi, condotte dai Nas per investigare su un giro di cocaina in palestre e locali frequentati principalmente da omosessuali, dei quali sembra che l'allora sacerdote fosse un assiduo frequentatore.

Le registrazioni che lo hanno portato all'attenzione degli investigatori riguardano alcune conversazioni con il suo complice, spacciatore e procacciatore di ragazzi, con il quale don Seppia si esprimeva così: «Mi serve un negretto, un bel moretto, quelli che mi fanno eccitare da pazzi, e mi raccomando non superi i 14 anni e meglio se si tratta di uno con problemi, di droga o senza famiglia, sai»; «ho tanta roba e ci possiamo divertire»; «e mi raccomando l'età, perché sedicenni sono già troppo vecchi procurami un ragazzo dal collo tenero»; «quel ragazzino me lo farei sull'altare».

Tanto per dare un'idea. Fino a quel momento, sembra che nessuno dei suoi confratelli o superiori se ne fosse accorto. Anzi, secondo l'arcivescovo Bagnasco, «è descritto come prete inflessibile, ligio al suo dovere». 

Alla carcerazione hanno fatto seguito un processo di primo e uno di secondo grado, rispettivamente nel 2012 e nel 2013; in entrambi i casi la pena inflitta è stata di 9 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione, e una sanzione economica di 28 mila euro, per violenza sessuale su minori, tentata induzione alla prostituzione minorile, offerte plurime di droga e cessione di cocaina.

Una volta in carcere, pare che abbia subito un'accoglienza un po' rude da parte dei detenuti comuni - nelle carceri la pedofilia non è ben vista - e per questo è stato trasferito a scontare la pena in una casa circondariale nota per essere più comprensiva verso i sex-offenders. Con il codice etico dei carcerati non si scherza.

Nelle motivazioni della sentenza di condanna si legge tra l'altro: «Nonostante il ruolo ecclesiastico rivestito, ha frequentato abitualmente locali trasgressivi, ha partecipato ad orge, usa un linguaggio blasfemo e volgare, predilige rapporti sessuali non protetti nonostante la sua condizione di soggetto affetto da Hiv e, circostanza ancor più grave, ha più volte cercato o scelto le sue vittime approfittando della loro condizione di marginalità sociale».

La vicenda giudiziaria non è finita con i giudizi di merito: il condannato ha fatto ricorso in Cassazione, denunciando errori nella formulazione dei capi di imputazione al fine di ottenere uno sconto di pena, e nel 2015 è tornato libero. 

Chiaramente, Seppia ha potuto contare su un buon avvocato, cosa che purtroppo non capita alla grande maggioranza delle vittime. All'indomani della condanna, in un'intervista a Il Secolo XIX, il responsabile delle comunicazioni della curia di Genova, don Silvio Grilli, ha dichiarato che la pronuncia non modificava la decisione canonica a suo tempo assunta circa la dimissione dallo stato clericale e la conseguente impossibilità di esercitare il ministero pastorale.

Ma ha aggiunto che, per ragioni di umanità e pastorali, Seppia, una volta libero, non sarebbe stato lasciato solo, ma avrebbe potuto essere accolto in una delle case dove soggiornano preti che vivono particolari momenti di difficoltà. Lì gli sarebbe stata offerta accoglienza fraterna di conforto e di ripresa. Per le vittime non era previsto alcun aiuto. 

Non si tratta di un caso eccezionale: se analizziamo, come abbiamo fatto noi, l'unico archivio degli abusi di cui disponiamo nel nostro Paese - cioè quello, purtroppo imperfetto dal punto di vista statistico, raccolto sin dal 2010 dal sito dell'associazione «Rete L'Abuso», fondato e diretto da una vittima, Francesco Zanardi - di casi simili ce ne sono in abbondanza.

Le vittime sono sempre ragazzi poveri, appartenenti a famiglie marginali aiutate dalle parrocchie, quindi poco disponibili a denunciare. I sacerdoti accusati godono di un'ottima assistenza legale, pagata dalle diocesi, a differenza delle vittime. 

E la copertura degli abusi da parte delle gerarchie costituisce un vero sistema, che funziona ovunque allo stesso modo. Uno dei principali ostacoli a una presa di coscienza all'interno della Chiesa è l'incapacità di mettere in relazione il potere con questioni di sessualità. Il potere del clero è mascherato sotto forma di servizio, la sessualità è affrontata nel quadro di coppie sposate stabili, in vista della procreazione.

La cultura del segreto conferma infine la fortissima chiusura del clero su sé stesso - i sacerdoti possono venire giudicati solo da altri sacerdoti e i vescovi soltanto dal Papa - mentre, sulle questioni della sessualità, le lotte che l'istituzione ecclesiastica combatte verso l'esterno hanno anche l'effetto di far tacere persone all'interno. 

I provvedimenti per gli abusi presi finora dalla Chiesa non sono sufficienti a contrastarli, e non solo perché spesso non diventano prassi concreta. Il vero scandalo infatti non sono solo gli abusi in sé - sappiamo che questi crimini abominevoli si verificano ovunque - ma le modalità in cui sono stati, e purtroppo sono tuttora, coperti, manipolati, insabbiati. 

Questo sistema di mettere in pratica l'ingiustizia e l'alleanza contro i deboli, con l'evidente appoggio dell'istituzione stessa, hanno costituito per i fedeli una scoperta terribile e sconcertante e contribuito a danneggiare l'immagine della Chiesa anche davanti a chi, pur non confessandosi cristiano, la rispettava.

Lucetta Scaraffia per “la Stampa” il 29 maggio 2022.

L'elezione di un presidente giovane e progressista quale è il cardinale Zuppi ha galvanizzato l'opinione pubblica, che spera in una ventata di cambiamento - finalmente - da parte di una conferenza episcopale come quella italiana, sclerotizzatasi nel tempo. E poi, come si fa a non sperare in un Presidente che per la prima volta nella sua conferenza stampa inaugurale, interrogato sullo scandalo degli abusi, dice frasi forti e chiare come «dobbiamo serietà alle vittime» e «vogliamo prenderci la nostra responsabilità»? Vogliamo disperatamente credergli.

Il problema degli abusi, infatti, è nella Chiesa italiana drammatico e gravissimo. Esso avvelena tutta la vita ecclesiale attraverso il meccanismo ovunque imperante del depistaggio e dell'omertà, messo in atto contro le vittime. Vogliamo credere che da oggi in poi tutto cambierà, come sta cambiando ad esempio nella Chiesa francese, che ha avuto il coraggio di una commissione indipendente la quale ha ascoltato la voce delle vittime e ha messo in atto un sistema di riconoscimenti e d indennizzi per cicatrizzare ferite ancora aperte dopo decenni. 

Ma Zuppi ha dichiarato che la via francese da noi non è praticabile, da noi bisogna procedere in un altro modo.

Quale? Egli promette un rapporto annuale pubblico che dia conto delle denunce raccolte dai Centri di ascolto aperti negli ultimi due anni dalle diocesi, o meglio dal 70% delle diocesi. Il primo rapporto dovrebbe arrivare a novembre. Ma purtroppo un tale rapporto ci dirà sicuramente poco o niente di quella che è la realtà degli abusi del clero nel nostro Paese, dal momento che nei Centri di ascolto le denunce vengono raccolte da esperti, anche laici, scelti dalle gerarchie, quindi in un certo senso considerati a priori "di parte". 

Non sono molte le vittime che si fidano di tali Centri, la maggioranza preferisce denunciare al vicariato e/o alla giustizia civile. Di queste ultime denunce si terrà conto nel Rapporto? Pare di no. Senza contare che il lasso di tempo esaminato nell'indagine è molto breve: dal 2000, anno di apertura dei centri, al 2021. E tutti gli altri? La raccolta dei dati verrà fatta, promette la Cei, da centri accademici di ricerca: ma chi li seleziona? E in che modo? Saranno veramente indipendenti da chi commissiona loro la ricerca?

C'è poi il problema del passato: si pensa solo al futuro e alla prevenzione, ma si sa bene che nessuna prevenzione è efficace se prima i colpevoli non vengono individuati e puniti. L'indulgenza verso i colpevoli non fa che moltiplicare gli abusi. Ma qui i colpevoli da punire non sono solo quelli degli ultimi anni. Sono quelli che anche molto tempo fa hanno ferito persone tuttora viventi, da risarcire del trauma sofferto attraverso un riconoscimento pubblico e un risarcimento tangibile. Certo, nel nostro Paese sono talmente numerose le vittime che non sarà facile per la Cei progettare un passo simile.

Ma se si vuole davvero capire il fenomeno, cogliere il suo radicamento nella realtà italiana, bisogna farsi un'idea vera e concreta di cosa è accaduto. Chi e quante sono state vittime? Come mai i colpevoli hanno potuto usufruire di ottimi avvocati difensori pagati dalle diocesi mentre le vittime non hanno mai goduto di un simile privilegio? Erano veramente tutti pedofili congeniti, quindi in un certo senso malati, gli abusatori? E la risposta delle diverse diocesi qual è stata? Simile o diversificata? Ancora: è lecito continuare a parlare di casi singoli o si è trattato di un sistema complesso che in un modo o nell'altro coinvolge tutta l'istituzione ecclesiastica?

Per rispondere a queste domande bisogna ascoltare le vittime, che sono riunite in vivaci associazioni e hanno tanto da dire e sono depositarie di un'infinità di notizie e di dati. Noi speriamo, speriamo vivamente, che il nuovo presidente, Zuppi, il quale ha affermato che «il dolore delle vittime è la nostra priorità» sarà pronto a questo ascolto. In fondo, davanti alle resistenze di molti vescovi, non c'è niente di più utile, per chi vuole veramente bene alla Chiesa italiana, dell'esistenza di un'opinione pubblica capace di spingere a guardare finalmente la verità. Con una indagine vera, che parta dagli archivi vescovili, che tenga conto dei processi civili, che dia la parola alle vittime. È da tutto ciò che si misurerà il nuovo corso del cardinale Zuppi.

Il senso d’impunità del prete e lo scaricabarile dei vescovi. FEDERICA TOURN su Il Domani il 23 maggio 2022

Il sacerdote campano Livio Graziano, arrestato a ottobre scorso, è già a processo per una violenza sessuale su un bambino di 12 anni avvenuta meno di un anno fa. Rischia fino a 12 anni di carcere.

L’imputato è imprudente, come se avesse un senso di impunità. Manda whatsapp alla vittima a tutte le ore, anche di notte, pieni di chioccioline che – spiega il bambino – significano “ti amo”.

Le diocesi di Avellino e Aversa sapevano solo di “voci”. Don Vitaliano Della Sala: «Purtroppo i vescovi, invece di interrompere ogni rapporto fra il prete e i ragazzi, lo trasferiscono. Aggravando il problema». 

Quando apre la porta ai carabinieri, don Livio non sospetta nulla. Conosce già quella coppia, era venuta a chiedere informazioni per mandare il figlio nella comunità Effatà Apriti che il sacerdote gestisce a Prata Principato Ultra, in provincia di Avellino. Invece era la copertura di due investigatori dell'indagine per violenza sessuale su un bambino di dodici anni. Per don Livio Graziano, 56 anni, scatta l'arresto: l'ordine di custodia cautelare viene firmato ad Avellino il 22 ottobre 2021 dalla gip (giudice per le indagini preliminari) Francesca Spella.

Quattro giorni dopo viene perquisita la sede della comunità: «Nell'armadietto del bagno vengono trovati preservativi, vaselina e lubrificanti, oltre a 107 mila euro in due scatole chiuse a chiave», racconta l'avvocato Giovanni Falci, che assiste il padre della vittima – i genitori, infatti, si sono costituiti parte civile in proprio e in rappresentanza del figlio minorenne. Il processo è già nella fase dibattimentale: l'imputazione è violenza sessuale, secondo l'articolo 609 bis del codice penale, aggravata dall'età della vittima, minore di 14 anni; il sacerdote rischia da sei a dodici anni di reclusione.

Originario della provincia di Caserta, don Livio è un prete sui generis. Le sue messe sono perturbanti, pervase da spirito carismatico: impone le mani e i fedeli si accasciano a terra. I malati vanno da lui per essere guariti. 

È anche un educatore: si dedica ai bambini senza famiglia, va nelle periferie per cercare chi è rimasto ai margini. Nel 2002 fonda ad Avellino la Fidde, Fraternità i Discepoli di Emmaus, una onlus che in breve tempo si ramifica in tutta la regione, aprendo ambulatori, attività per disabili, gruppi di auto aiuto per chi soffre di ansia, ludopatie, disforie di genere. A Castel Volturno dal 2004 al 2020 il sacerdote gestisce anche una comunità educativa a gestione famigliare, dove accoglie decine di ragazzi in difficoltà.

ESPERTO DI PEDOFILIA

Nel 2015 la onlus si costituisce in cooperativa sociale con il nome di Effatà Apriti, specializzata in disturbi alimentari e convenzionata con il Servizio sanitario nazionale e con il Tribunale di Avellino. Fra le vocazioni del versatile sacerdote non manca, tragica ironia, la lotta contro la pedofilia: nel 2012 lo troviamo come esperto a un convegno sulla pedopornografia patrocinato dall'Ordine degli avvocati di Benevento, con un intervento sul “recupero del minore vittima di abusi”. Per il suo impegno sociale e umanitario, due anni dopo riceve addirittura il premio “Padre Pio da Pietrelcina”.

Andrea (nome di fantasia) ha una famiglia normale; va a scuola, ha la passione per il calcio e da tifoso del Napoli sogna di incontrare Insigne.

Da un rapporto con un coetaneo si prende un'infezione e i genitori, disorientati, lo affidano proprio a don Livio, nella speranza che possa aiutarlo a mettere ordine nei suoi turbamenti preadolescenziali. Andrea resta per tutta l'estate 2021 nella grande casa di Prata Principato Ultra, dormendo su un materasso ai piedi del prete: secondo il padre del ragazzo, già dopo cinque giorni dal suo arrivo don Livio abusa di lui con il pretesto di “visitarlo”. «Le violenze da quel momento si ripeteranno per tutto il periodo della sua permanenza nella comunità», conferma l'avvocato Falci.

Il programma della “rieducazione di Andrea” è organizzato in una rigida griglia di impegni giornalieri, monitorata da un'équipe di specialisti.

«Don Livio mi aggiornava su come proseguiva il soggiorno e mi mandava foto del ragazzo impegnato in diverse occupazioni», racconta il padre. Ma è soltanto una messinscena: «Mio figlio mi ha detto in seguito che il prete lo metteva in posa apposta per le foto». Nella relazione finale consegnata ai genitori, si legge che Andrea è molto migliorato e «mostra una serenità e una pace interiore. Quella serenità che è la scoperta di esserci, di vivere l'istante intensamente».

A settembre, Andrea torna a casa. «Mi sono insospettito perché mio figlio era silenzioso e se ne stava sempre in disparte con il telefono – racconta il padre – gli ho chiesto a chi scrivesse continuamente e mi ha risposto: “A padre Livio, se non gli rispondo subito poi mi stressa”». 

Dalla chat fra i due vengono fuori centinaia di messaggi: quelli del prete sono incalzanti, si lamenta che il ragazzino non lo considera, che senza di lui la sua vita non ha più senso. Don Livio è inarrestabile e, alla luce del successivo rovescio giudiziario, assai imprudente: manda whatsapp a tutte le ore, anche di notte, pieni di chioccioline che – gli spiega Andrea – significano “ti amo”. «Gli scriveva anche mentre celebrava la messa», rimarca il padre del ragazzo. «Durante l'esame del contenuto dell'iphone di don Livio sono emerse alcune fotografie di Andrea mentre dorme, in pose inequivocabili – dichiara l'avvocata della madre della vittima, Benedetta Falci – foto cancellate dal sacerdote ma recuperate dagli inquirenti nella memoria dei file eliminati».

Segno inequivocabile del delirio di onnipotenza in cui vive il sacerdote che, mentre fa la parte dell'amante con un bambino, sciorina su Facebook massime sull'amore e l'accettazione di sé, sostenuto dall'adorazione e dagli emoticon dei suoi seguaci. La storia di don Livio rappresenta bene il senso d'impunità radicato nei preti abusanti, che oscillano indisturbati fra adescamenti ed esercizi spirituali, al riparo di gerarchie ecclesiastiche che perlopiù giocano a scaribarile. Sulla pelle delle vittime. 

SENTIVANO PARLARE DI LUI

La Chiesa, alla notizia dell'arresto di don Livio Graziano, ha preso le distanze, in senso proprio. La diocesi di Aversa, alla quale il sacerdote è incardinato, si è limitata a precisare che don Livio da ormai molti anni operava fuori dalla diocesi. Arturo Aiello, vescovo di Avellino dal 2017, a sua volta alza le mani e scarica la questione sul suo predecessore Francesco Marino che a più riprese aveva chiesto al sacerdote di non esercitare il ministero pastorale nel territorio diocesano.

Marino conferma: l'attività terapeutica di Graziano lo preoccupava, «agiva senza controllo, la situazione a me non convinceva, sia perché sganciata da ogni riferimento ecclesiale, sia perché in campi tanto delicati ci sarebbe stato bisogno di discernimento e competenza che non mi risultava avesse. Non mi sembrava avere un retroterra psicologico personale equilibrato e adeguato».

Comunque Marino sottolinea che Graziano operava sotto la responsabilità del vescovo di Aversa Angelo Spinillo il quale ribatte che l'imputato da ormai quindici anni manteneva con la sua diocesi «un rapporto molto occasionale». Il predecessore di Spinillo, Mario Milano, aveva però ingiunto a don Livio un periodo di discernimento e di recupero spirituale nella comunità monastica di Montevergine.

Don Vitaliano Della Sala, vicedirettore della Caritas di Avellino, ha conosciuto il sacerdote proprio a Montevergine. Lo ricorda come una specie di santone («incoraggiava la superstizione della gente e a volte ho avuto l'impressione che confondesse la fede con la magia») e non è sorpreso dallo scandalo: «Che io sappia è stato allontanato da Aversa per sospetti di pedofilia. Purtroppo i vescovi, in questi casi, invece di fare un'indagine seria e interrompere subito ogni rapporto fra il prete e i ragazzi, lo trasferiscono da un'altra parte, aggravando il problema».

Proprio ad Aversa, secondo Della Sala, lo stesso vescovo Milano nel 2011 era stato costretto a dare le dimissioni a pochi mesi dal pensionamento proprio per avere spostato un altro prete sospettato di pedofilia. Decisioni che hanno conseguenze drammatiche, tanto più se, come nel caso di don Livio, il sacerdote si occupa di minori a rischio, anche in convenzione con il servizio pubblico: «Se avessero avuto una denuncia in mano, forse le istituzioni ci avrebbero pensato due volte ad affidargli dei ragazzini», chiosa don Vitaliano.

GLI STA MONTANDO LA RABBIA

Andrea, intanto, ha lasciato gli amici e a calcio non parla con nessuno. «È sempre da solo, gli sta montando la rabbia», dice il padre, desolato. «Il ragazzo ha subito un'esperienza di abuso continuativa che il sacerdote ha qualificato come amore – spiega lo psichiatra Egidio Errico, che ha fatto una perizia su richiesta dell'avvocato Falci – i danni, già evidenti, purtroppo tenderanno a peggiorare con il tempo».

Lo scorso dicembre don Graziano è uscito dal carcere in seguito a uno sciopero della fame e ora si trova agli arresti domiciliari in una struttura di proprietà della Chiesa. È stato sospeso dal ministero sacerdotale e il Tribunale ecclesiastico ha avviato un processo che procede su un binario parallelo e indipendente da quello dello Stato.

La pedofilia dei preti. LA VIOLENZA NELLA CHIESA ITALIANA. La pedofilia dei preti italiani che i vescovi vogliono tenere nascosta. FEDERICA TOURN su Il Domani il 28 aprile 2022.

Sappiamo tutto di ciò che è accaduto nel mondo, nulla sull’Italia. Eppure negli ultimi 15 anni si contano 325 sacerdoti denunciati per pedofilia. Ecco l’inchiesta per la quale chiediamo il sostegno dei lettori: SOSTIENI LA SUA REALIZZAZIONE! Per ogni euro versato, noi ne aggiungiamo un altro fino al raggiungimento dell’obiettivo

Lo chiamavano don Mercedes. A Crema era un pezzo grosso di Comunione e Liberazione il parroco Mauro Inzoli; gli piacevano il lusso e le belle macchine, lo si vedeva spesso nei ristoranti alla moda, un sigaro cubano all'angolo della bocca.

Aveva amicizie politiche importanti e poco senso del pudore: nel gennaio 2015 applaudiva insieme a Roberto Formigoni al convegno sulla famiglia tradizionale organizzato dalla Regione Lombardia, eppure già da anni molestava i ragazzini, come conferma la condanna definitiva per pedofilia del 2018. Li toccava persino durante la confessione, per rinnovare l'alleanza fra Abramo e Isacco descritta nell'Antico Testamento, diceva. La più piccola delle sue vittime aveva 12 anni.

Una storia non certo unica. Secondo i dati raccolti dalla Rete L'Abuso, che monitora i casi di violenza sessuale nella Chiesa cattolica, nel nostro paese negli ultimi 15 anni si contano 325 sacerdoti denunciati per pedofilia, di cui 161 condannati in via definitiva.

Questi numeri rappresentano solo piccola parte di un fenomeno sommerso e pervasivo, eppure non sembrano scuotere le istituzioni e la stampa. Ed è questa la ragione per cui chiediamo ai lettori di sostenere la grande inchiesta su "La violenza nella Chiesa italiana".

Nel paese che ospita il Vaticano, infatti, né il Parlamento né la Chiesa prendono iniziative per andare a fondo del problema. Il presidente della Conferenza episcopale Gualtiero Bassetti butta acqua sul fuoco assicurando che in Italia gli strumenti messi in campo a tutela dei minori funzionano bene e che presto sugli abusi sarà condotta un'indagine ma, sia chiaro, «gestita dall'interno della Chiesa».

La società civile, però, non ha più voglia di aspettare: di fronte al silenzio ecclesiastico si è costituito Italy Church Too, un coordinamento di associazioni contro gli abusi nella Chiesa, che chiede subito una commissione d'inchiesta indipendente, come quelle che si sono appena formate in Spagna e in Portogallo.

L'iniziativa nasce da donne impegnate in ambito cattolico e laico, determinate a rompere anche nel nostro paese il muro di omertà e a ottenere giustizia e risarcimenti per le vittime: sono scesi in campo l'Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, Donne per la Chiesa, Noi siamo Chiesa, Rete L'Abuso, Comitato vittime e famiglie, Voices of Faith, Comité de la Jupe, le Comunità cristiane di base e i periodici Adista, Tempi di Fraternità e Left. Tra loro anche Erik Zattoni, figlio di un prete (anche) pedofilo mai ridotto allo stato laicale nonostante l'esame del dna e le sue ammissioni.

GLI SCANDALI DEGLI ULTIMI ANNI

L'idea ha preso vigore dallo scandalo che all'inizio dell'anno ha coinvolto persino il papa emerito Benedetto XVI: un report dalla Baviera ha infatti rivelato che nella sola diocesi di Monaco e Frisinga, nell'arco di 74 anni sarebbero stati abusati 500 bambini e bambine fra gli 8 e i 14 anni e che Joseph Ratzinger, da cardinale, ne sarebbe stato al corrente.

I dati di Monaco seguono quelli, talmente eclatanti da suscitare dubbi, del rapporto della commissione indipendente sugli abusi nella chiesa francese: dal 1950 si conterebbero 216 mila minori vittime di tremila preti, a cui si aggiungono altri 114 mila abusati da laici all'interno delle istituzioni ecclesiastiche. In Nuova Zelanda la pedofilia riguarderebbe addirittura il 14 per cento del clero.

Dallo scoop del Boston Globe, celebrato nel 2015 dal film Il caso Spotlight, che nel 2002 ha inchiodato la chiesa americana alle sue responsabilità, fino al Rapporto Ryan in Irlanda, che ha individuato ben 30 mila minori abusati negli oltre cento istituti cattolici nel paese, sono almeno vent'anni che la pentola è stata scoperchiata. L'Italia però rimane un buco nero. Le denunce vengono ignorate dalla Chiesa e le vittime finiscono inghiottite dal silenzio.

Una storia simbolo è quella dell'Istituto religioso per sordomuti Provolo di Verona: nel 2010 67 ex ospiti accusano numerosi sacerdoti della congregazione di averli sottoposti a molestie e violenze quando erano bambini, a partire dagli anni '50.

Tra i fatti denunciati c'è la dichiarazione di Gianni Bisoli, che afferma di essere stato abusato tra i 9 e i 15 anni da ben 16 fra preti e fratelli laici; sostiene anche di essere stato lasciato “a disposizione” di monsignor Giuseppe Carraro, all'epoca vescovo di Verona, e per il quale, a 32 anni dalla morte, è in corso il processo di beatificazione, dopo che nel 2015 è stato dichiarato “venerabile per l'eroicità della sua virtù” dalla Congregazione per le cause dei santi.

Una commissione conoscitiva promossa dal Vaticano nello stesso 2010 non rileva (quasi) nulla dei reati denunciati, ormai comunque prescritti. Ma il responsabile dell'Istituto, don Nicola Corradi, trasferito nella sede argentina del Provolo, nel 2019 verrà condannato laggiù a 42 anni «per gravi e ripetuti abusi» di minori.

MELE MARCE O SISTEMA CHE COPRE GLI ABUSI?

I pedofili nella chiesa non sono “mele marce” come dicono le gerarchie ecclesiastiche. Quando si mettono insieme i tasselli del mosaico, dispersi nelle cronache locali e poi dimenticati, emerge un quadro di violenza endemica che riguarda ogni ambito della vita della Chiesa.

Troviamo preti che approfittano del loro potere per allungare le mani sui ragazzini in sacrestia, durante le lezioni di catechismo o le prove del coro, in campeggio o nei centri estivi; alcuni sono guru di comunità di recupero e centri di ascolto, altri guidano scuole cattoliche.

Molti sono i molestatori seriali in attesa di giudizio per induzione alla prostituzione minorile e violenza privata: sacerdoti che promettono cocaina in cambio di prestazioni sessuali e offrono pochi spiccioli e una ricarica del telefono in cambio di una marchetta o di un video hard. Con i cassetti o i pc pieni di materiale pedopornografico, circuiscono ragazzini non ancora adolescenti, meglio se con problemi psichici o provenienti da famiglie disagiate perché più indifesi: fanno loro credere che la mano che li fruga è una mano benedetta, che l'amore di Dio si esprime con lo spirito e con il corpo, che sono dei privilegiati.

Gli stupri non di rado si protraggono per anni, a volte anche per decenni, lasciando segni indelebili nelle vittime, costrette spesso a fare i conti con le conseguenze fisiche e psicologiche delle violenza per il resto della vita.

E la Chiesa istituzionale come reagisce? Cura, sostiene, protegge. Non le vittime ma i preti. La prassi consolidata quando viene segnalato un caso di pedofilia è sempre la stessa: non denunciare alle autorità ma evitare lo scandalo spostando il prete in un'altra parrocchia o ricoverandolo per un periodo in una delle inavvicinabili strutture per la riabilitazione dei preti sparse per l'Italia. Le autorità ecclesiastiche non hanno l'obbligo giuridico di denunciare gli abusi, tantomeno devono rendere conto degli esiti dei processi interni, così si trincerano dietro al silenzio.

C'è addirittura chi, dopo una denuncia per pedofilia, riprende a fare il parroco sotto falso nome in un altro posto, come don Silverio Mura, prete della diocesi di Napoli, diventato don Saverio Aversano a Montù Beccaria, in provincia di Pavia.

Lo denuncia la Rete L'Abuso nell'esposto in cui spiega che il sacerdote viene trasferito dopo una querela per pedofilia e che, grazie alla complicità della curia, continua a occuparsi di bambini e a ricevere la posta al nuovo indirizzo.

La stessa associazione sottolinea che sono almeno 29 i vescovi coinvolti nell'occultamento dei reati: nel caso di don Giuseppe Rugolo, per esempio, dalle intercettazioni emerge che il vescovo di piazza Armerina Rosario Gisana avrebbe provato a comprare il silenzio della famiglia della vittima con i soldi della Caritas. Ancora: monsignor Mario Delpini, oggi arcivescovo di Milano, informato delle attenzioni che uno dei suoi parroci, don Mauro Galli, riserva a un ragazzo di 15 anni, ammette in interrogatorio di essersi limitato a spostarlo di sede per ben due volte.

Il prete di Rozzano è stato condannato l'anno scorso dalla Corte d'Appello di Milano a cinque anni e sei mesi; il suo caso è stato anche posto all'esame della Congregazione per la dottrina della fede, dopo che il processo di primo grado al Tribunale ecclesiastico regionale si era risolto con un nulla di fatto per insufficienza di prove ma a oggi nulla si sa dell'esito. Scontato il debito con la giustizia dello Stato, don Galli potrebbe quindi tornare in parrocchia.

NON SOLO PEDOFILIA

Non ci sono soltanto gli abusi sui minori ma anche quelli sulle religiose. Già a metà degli anni Novanta due suore di ritorno dall'Africa inviano al Vaticano rapporti in cui sostengono che molte suore vengono stuprate da sacerdoti timorosi di prendere l'Aids dalle donne indigene; e se restano incinte vengono costrette ad abortire.

Raccontano anche di un prete che officia il funerale di una donna morta in seguito all'aborto che lui stesso le ha procurato. Nel documento si sottolinea che la violenza sulle religiose non è soltanto una questione africana ma riguarda ben 23 paesi, fra cui l'Italia.

In anni più recenti, la teologa Doris Wagner ha accusato il capo ufficio della Congregazione per la Dottrina della Fede padre Hermann Geissler (poi assolto dal Tribunale della Segnatura apostolica, il supremo tribunale di diritto canonico della Santa Sede) di averla violentata quando era suora dell'Opus Spiritualis Familia a Roma: «Ero giovane, credente e idealista: ero la vittima ideale per un prete», ricorda oggi. Dipendenti economicamente dalla congregazione a cui appartengono, costrette a tagliare i ponti con la famiglia, le suore sono schiacciate da un sistema clericale fondato sull'omertà; in Italia, chi prova a denunciare non ottiene nulla se non di essere discriminata o addirittura allontanata dalla comunità. Ancora una volta, in caso di una segnalazione di abuso, a venire protetto è il prete.

La Chiesa italiana, che è riuscita fino ad oggi a non reagire alla crisi che la minaccia dall'interno, rimanendo fedele a una casta maschile sorda ai richiami sulle discriminazioni di genere e restia a cedere parte del suo potere, come risponderà alla richiesta di istituire finalmente un'indagine indipendente sugli abusi?

A fine maggio si terrà l'assemblea generale della Cei per il rinnovo dei vertici, e il cardinale Bassetti pare avere tutte le intenzioni di passare la patata bollente al suo successore.

(ANSA il 22 aprile 2022) - La Nunziatura in Polonia informa che "la Santa Sede ha esaminato la documentazione consegnata dal card. Angelo Bagnasco, arcivescovo emerito di Genova, raccolta durante la sua vista in Polonia avvenuta nei giorni 17-26 giugno 2021, il cui scopo era la verifica di alcune questioni legate alle attività del card. Stanislaw Dziwisz durante il suo ministero in qualità di arcivescovo metropolita di Cracovia (2005-2016). L'analisi della documentazione raccolta ha permesso di valutare queste attività del card. Dziwisz come corrette e pertanto la Santa Sede ha stabilito di non procedere oltre".

Lo afferma una nota diffusa da Cracovia. Il Vaticano aveva dunque istituito una Commissione per fare chiarezza rispetto alle denunce di vittime di abusi e pedofilia da parte del clero polacco. Le accuse investivano anche il card. Stanislaw Dziwisz, lo storico segretario di Giovanni Paolo II, accusato di insabbiamenti da parte di alcune vittime. La Commissione rispondeva alle richieste avanzate dall'episcopato polacco e anche dallo stesso Dziwisz.

In un docufilm, che ha fatto scalpore in Polonia, si puntava il dito contro l'ex segretario di Wojtyla, accusato da vittime di aver coperto alcuni fatti in cambio di offerte per la Chiesa. Fu in quell'occasione che Dziwisz invocò appunto una commissione indipendente che potesse fare chiarezza sui fatti da lui sempre respinti come "calunnie". A guidare la commissione è stato il card. Angelo Bagnasco, ex arcivescovo di Genova e ex presidente Cei. 

Da axios.com l'1 aprile 2022.

Papa Francesco si è scusato per gli abusi subiti dai bambini indigeni nelle scuole canadesi gestite dalla Chiesa cattolica e da altre sette cristiane dal XIX secolo fino agli anni '70. 

Perché è importante: Si crede che quasi 150.000 bambini indigeni siano stati costretti a lasciare le loro famiglie per frequentare queste scuole, che sono state istituite per convertirli al cristianesimo e integrarli nella società. 

La Commissione canadese per la verità e la riconciliazione ha descritto il programma educativo come una sorta di "genocidio culturale".

Cosa si dice: L'appello di Francesco al perdono è arrivato dopo l'incontro di questa settimana con i membri delle comunità Metis, Inuit e First Nations, che si sono recati a Roma in cerca di scuse e della promessa che la Chiesa avrebbe aiutato a riparare i danni. 

"Per la deplorevole condotta di quei membri della Chiesa cattolica, chiedo perdono al Signore", ha detto Francesco. "E voglio dirvi dal mio cuore che sono molto addolorato. E mi unisco ai vescovi canadesi nel chiedere scusa", ha aggiunto, promettendo anche di visitare il Canada.

Il quadro generale: Le condizioni nelle scuole sono diventate evidenti l'anno scorso dopo che centinaia di resti, soprattutto di bambini indigeni, sono stati scoperti in tombe senza nome nei siti delle ex scuole residenziali in British Columbia e Saskatchewan.

Da rainews.it  l'1 aprile 2022.

Quella barbarie venuta alla luce qualche mese fa in Canada, scosse il mondo cattolico e l'opinione pubblica internazionale. Oggi Papa Francesco chiede scusa. Davanti a lui in udienza oggi in Vaticano le delegazioni di Inuit, First Nations e Metis, tre gruppi di indigeni canadesi. 

Il Pontefice ha espresso "indignazione e vergogna" e anche "dolore per il ruolo che diversi cattolici hanno svolto in tutto quello che vi ha ferito". "Chiedo perdono a Dio" per quello che è successo alle popolazioni native americane e ai loro figli nelle scuole cattoliche residenziali canadesi nelle cui vicinanze sono state ritrovate fosse comuni con un migliaio di corpi di bambini percossi e abusati.

Agli autoctoni canadesi, messi a dura prova da quei tragici avvenimenti, che questa settimana in Vaticano gli hanno raccontato quello che per loro è stato un vero e proprio "genocidio culturale" avvenuto nell'ultimo secolo e mezzo, il Papa ha confidato e mostrato la propria sofferenza: "i trattamenti discriminatori, le varie forme abuso in particolare nelle scuole residenziali". 

"Quello che è avvenuto nelle scuole residenziali, dove venivano trasferiti con la forza i figli dei nativi per ricevere trattamenti talvolta inumani e sempre per essere privati della loro identità culturale, è "agghiacciante".

È agghiacciante vedere come si è cercato si "istillare un senso di inferiorità" in quei ragazzi, spesso provocando "traumi irrisolti divenuti traumi intergenerazionali". "Mi unisco ai vescovi canadesi nel chiedervi scusa", ha proseguito il Papa, "l'umiliazione della Chiesa è fecondità e nell'umiltà si vede lo spirito del Signore". 

Motivi, questi ultimi, per cui ha avuto anche parole di ringraziamento ai vescovi canadesi "per il coraggio nell'umiltà" che hanno dimostrato nell'affrontare la questione, esplosa quando sono stati rinvenuti i resti di decine e decine di ragazzi sepolti in modo anonimo a pochi metri dagli istituti dove di fatto erano stati rinchiusi.

Bergoglio ha puntato il dito contro la persistente idea di "una colonizzazione ideologica" che, attraverso "programmi studiati a tavolino" agisce spinta da "avidità e voglia di profitto". "Una mentalità molto coloniale molto diffusa anche oggi", ha accusato.

Il Papa avrebbe preannunciato anche una visita in Canada per la fine di luglio: quando ha ricordato che la devozione popolare dei nativi è particolarmente rivolta a Sant'Anna, che si festeggia il 26 di quel mese. "Vorrei essere con voi in quei giorni", ha detto ricordando che la riconciliazione "richiede azioni concrete in spirito di fraternità e ricerca trasparente della verità". Si arrivi così alla "rivitalizzazione della vostra cultura", ha detto ancora, "vorrei dirvi che la Chiesa è dalla vostra parte, che cammina con voi". Per questo Bergoglio invoca "su di voi la benedizione del Creatore", perché "la vostra lingua, la vostra cultura le vostre tradizioni appartengono a tutta l'umanità". Questo anche se "il vostro albero ha subito una tragedia, uno sdradicamento: è stato spezzato da una colonizzazione il cui scopo era uniformarvi ad un'altra identità". Di conseguenza "molte famiglie sono state separate, molti ragazzi sono stati vittime di una azione colonizzatrice". E per questo, provando indignazione, dolore e vergogna, Papa Francesco chiede perdono a Dio e scusa alle vittime.

Oltre alle delegazioni dei Popoli Indigeni del Canada Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza tra gli altri anche i Membri della Fondazione Italiana Autismo, in occasione della Giornata Mondiale della Consapevolezza dell'Autismo, Andrzej Duda, Presidente della Repubblica di Polonia e Padre Frèdèric Fornos Direttore Internazionale della Rete mondiale di preghiera del Papa.

Domenico Agasso per lastampa.it il 5 marzo 2022.

Il pastore emerito della diocesi di Oran è stato ritenuto colpevole di pedofilia. In Argentina il tribunale ha condannato monsignor Gustavo Zanchetta, in passato con un ruolo in Vaticano - dove adesso è sotto processo canonico alla Congregazione per la Dottrina della Fede - a quattro anni e mezzo di carcere per abusi sessuali aggravati nei confronti di due ex-seminaristi. Lo riporta l'agenzia di Stato argentina Telàm. 

La sentenza accoglie le richieste dell'accusa, avanzate ieri, con argomenti basati sulle perizie psicologiche e psichiatriche fatte all'ex vescovo. Durante il processo Zanchetta ha testimoniato e negato tutte le accuse contro di lui, mentre le due vittime hanno ribadito le loro accuse.

Zanchetta si era dimesso da vescovo di Oran il 31 luglio 2017, per problemi di salute, aveva lasciato l'Argentina e si era stabilito in Spagna. Papa Francesco, quando apparentemente non erano ancora emerse le accuse di abusi sessuali, lo aveva poi chiamato Oltretevere nominandolo assessore dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede apostolica (Apsa), fino al 2021. Ma poi il Pontefice ha dato il via a un processo a carico di Zanchetta presso la Congregazione per la Dottrina della Fede. 

Il quotidiano La Nación riporta che il presule resterà in detenzione per il momento in un commissariato di polizia di Oran fino a quando non si libererà una cella nel carcere della città. Non si sa per adesso se il difensore di Zanchetta, Enzo Giannotti, che aveva chiesto l'assoluzione, presenterà ricorso. 

(ANSA il 2 marzo 2022) - Il cardinale di Colonia Rainer Maria Woelki ha offerto al Papa le sue dimissioni. Lo ha annunciato l'arcidiocesi della città renana. Per ora l'alto prelato riprende la sua attività oggi come previsto dopo una lunga pausa. Il cardinale è coinvolto nelle accuse di occultamento dei casi di pedofilia nella chiesa tedesca.

Franca Giansoldati per "Il Messaggero" il 15 febbraio 2022.

Si collega via Zoom e racconta la sua choccante storia di figlio di un prete pedofilo e di una mamma abusata quando aveva appena 14 anni. Una vita trascorsa in una zona grigia, sotto una cappa di omertà e vergogna e tanto dolore.

È il volto di una Chiesa feroce quella che descrive Erik Zattoni quando inizia a parlare al seminario delle vittime italiane organizzato da diverse associazioni. Appare dal salotto di casa sua, ha la voce calma ma a tratti si intuisce che deve prendere fiato e fare un bel respiro: «Ho 40 anni, vivo in provincia di Ferrara, sono figlio del prete pedofilo Pietro Tosi. Mia madre fu abusata nel 1981.

Mi è stato detto dalla mia famiglia che naturalmente cercarono di denunciare l'episodio al vescovo dell'epoca, monsignor Franceschi, il quale suggerì subito di non dire nulla a nessuno.

Allora mia madre e suo fratello andarono da un avvocato per fare causa al prete ma la risposta della diocesi fu una minaccia. All'epoca vivevano in una casa di proprietà della curia. La minaccia era lo sfratto, cosa che poi avvenne. Buttarono fuori casa mia mamma e anche me».

Erik Zattoni, una storia di violenza

Solo molto tempo dopo la famiglia Zattoni si rivolse al tribunale. Era il 2010. In quegli anni anche in Italia si cominciava a parlare apertamente di abusi grazie all'onda delle inchieste americane, al film Spotlight e agli articoli della stampa. Il reato del 1981 era però prescritto e non c'era più niente da fare.

«Mi sono sottoposto all'esame del DNA, lo stesso dovette fare il prete al quale seguì la sua confessione. Nonostante questo ha continuato a fare il prete, non è mai stato sospeso da nessun vescovo, anche se tutti ovviamente sapevano. 

Solo dopo altre insistenze da parte mia, quando ero già adulto e potevo difendermi, venne allontanato. Nel frattempo sono passati tre Papi, 5 vescovi di Ferrara, diversi cardinali alla Congregazione della Fede, compreso Ratzinger che ovviamente sapeva benissimo che era accaduto a Ferrara.

Nessuno ha mai fatto nulla per sanare questo crimine. Sono stato cresciuto dalla mia mamma, una madre bravissima nella quale leggo ancora il trauma, la condizione di vittima, di persona abbandonata a se stessa. Era solo una ragazzina». 

Alla testimonianza di quest'uomo segue quella di Francesco Zanardi, fondatore della Rete l'Abuso, quella di una altra vittima di un prete di Enna (del quale è in corso un processo civile). 

Il settimanale Left annuncia che metterà a breve on line il primo database dei casi di pedofilia accertati in Italia. Si basa sui dati incrociati provenienti dalla stampa e dalle procure. 

Al momento il fenomeno da parte della Chiesa italiana è quasi sconosciuto perché la Cei non ha mai voluto fornire una fotografia reale e complessiva e, tuttora, si rifiuta di aprire gli archivi diocesani (come hanno fatto altre conferenze episcopali in Europa) per conoscere a fondo e misurare storicamente il fenomeno.

Le vittime, durante il collegamento Zoom, hanno definito irricevibile la proposta avanzata di recente dal cardinale Gualtiero Bassetti di avviare una commissione di inchiesta. A loro parere la commissione di inchiesta proposta non è imparziale e realmente indipendente, visto che si basa solo sui dati (recenti) dei centri di ascolto diocesani.

«Sarebbero troppo di parte e non obiettivi. Questi centri non hanno il carattere della terzietà. Per questo motivo la proposta di Bassetti è irricevibile».

Mentre la Cei continua a rimandare una analisi (anche storica) del fenomeno della pedofilia su tutto il territorio nazionale, frenando ogni possibile ricerca all'interno dei propri archivi diocesani, un gruppo di associazioni si è così mosso  per mappare la piaga degli abusi, raccogliendo, catalogando, classificando tutto il materiale finora disponibile. Un lavoro incrociato immenso che ha dato vita al primo database realizzato dal settimanale Left in collaborazione con Rete L'Abuso.

L'archivio sarà messo on line venerdì 18 febbraio su mostrando - per ora - i primi 50 casi censiti e accertati, con più di 140 vittime. Man mano che la mole enorme di carte verrà lavorata il sito sarà aggiornato in tempo reale. Al momento sono oltre 300 le vicende già sottoposte a verifica e in via di pubblicazione.

Nel database figurerà il nome del sacerdote (laddove è stato reso noto) specificando se è stato condannato o è ancora sotto inchiesta, il tipo di reato contestato, il numero conosciuto delle vittime, l'anno in cui è stato compiuto il reato contestato, la data in cui il caso è divenuto noto, la diocesi di appartenenza. 

A questo aspetto viene collegata anche l'eventuale sanzione canonica subita dall'ecclesiastico (sanzione che non sempre è stata fatta dalla Chiesa).

Un numeratore terrà aggiornato il conteggio degli ecclesiastici coinvolti e delle loro vittime, mentre una parte del sito sarà dedicata all'archiviazione delle fonti giornalistiche e dei documenti che certificano la denuncia, l'inchiesta, l'eventuale iter processuale e l'eventuale condanna in via definitiva del reo. 

La prima mappatura del genere è stata fatta da Francesco Zanardi nel 2010, una ex vittima di un prete pedofilo di Savona. Da vittima  ripete che «la violenza di un adulto su un bambino è definita da psichiatri e psicoterapeuti un omicidio psichico».

Da la7.it il 14 febbraio 2022.

“Nel 2015, il Cardinale Ladaria spiegò al Vescovo di Lione Barbarin come comportarsi con l’orco seriale Preynat”. Fittipaldi anticipa il documento esclusivo de il Domani: “Gli scrisse: ‘Prendete adeguati provvedimenti, evitando lo scandalo pubblico”

Emiliano Fittipaldi per "Domani" il 14 febbraio 2022.  

Il cardinale Ladaria è un fedelissimo di Bergoglio, diventato nel 2017 prefetto della Congregazione della dottrina della fede, il dicastero-chiave nella lotta alla pedofilia ecclesistica.

In due lettere-fotocopia che evidenziano un “sistema del silenzio” Ladaria dice a vescovi italiani e cardinali francesi che su due preti molestatori si deve «evitare lo scandalo pubblico». 

L’orco Preynat fu così arrestato solo nel 2016: ha ammesso di aver «violentato 4-5 bambini a settimana». Don Trotta, una volta spretato nel 2012, ha potuto abusare indisturbato di altri 10 bambini. 

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 14 febbraio 2022.  

«Il problema nella Chiesa italiana era ed è sistemico. Io l'ho sperimentato come mamma di un figlio abusato da un prete, e in seguito anche ascoltando altre vittime. Il meccanismo di insabbiamento non è cambiato». Cristina risponde al telefono dalla sua casa nell'hinterland milanese. Ha una voce pacata e gentile. È ora di cena, sta cucinando, una famiglia normale, cattolicissima, lei caposala, il marito cuoco, due figli che studiano e un calvario alle spalle. 

Naturalmente ha letto a fondo la lettera-testamento di Papa Ratzinger nella quale, in un passaggio, emergono le falle e di come troppo spesso le autorità ecclesiastiche hanno dormito, proprio come fecero gli apostoli quando Cristo era nell'Orto degli Ulivi, ignorando il grido sofferente di chi chiedeva aiuto. Un po' come è accaduto a suo figlio quando era un adolescente e frequentava gli scout alla parrocchia di Rozzano. 

I fatti mamma Cristina li ha raccontati senza tregua decine di volte, li ha persino sviluppati per iscritto, verbalizzando il dolore sordo di chi non viene creduta. Più volte si è trovata di fronte ad un muro di gomma. «Noi davamo per scontato che loro' sapessero cosa fare e inizialmente non avevamo nessun dubbio. Siamo cattolici praticanti e avevamo una fiducia incrollabile nelle autorità ecclesiastiche». Il loro' a cui fa riferimento la signora sono i vertici della diocesi di Milano, al quale lei e il marito si rivolsero immediatamente dopo l'episodio di violenza. 

Era il 2011. «A distanza di tempo, con il senno di poi, non denuncerei più il fatto alla Chiesa ma andrei subito alla polizia. Alle mamme lo dico sempre: prima la denuncia va fatta in Procura e poi, eventualmente, si parla con il parroco, ma mai viceversa come facemmo io e mio marito. Fu un errore, un patimento inutile». Cristina fu costretta a rivolgersi alle autorità civili, quattro anni dopo i fatti, venendo a conoscenza da amici comuni che il prete che aveva violentato il figlio in oratorio, era stato spostato in una altra parrocchia, situata a trenta chilometri di distanza, ed era stato messo di nuovo a contatto con dei ragazzini. 

«Non abbiamo avuto alcuna incertezza sul da farsi. Abbiamo capito che la Chiesa non avrebbe fatto nulla e così ci siamo rivolti alla polizia. Non lo facemmo subito perché pensavamo da buoni cattolici di avere giustizia attraverso le strutture canoniche. Fu una via crucis. Subito dopo la violenza io e mio marito contattammo il parroco, il quale avvertì l'allora vescovo vicario della zona, l'attuale arcivescovo di Milano, Mario Delpini che venne a far visita alla nostra parrocchia. Poco dopo il prete fu allontanato da Rozzano. Parlammo anche con un altro funzionario della diocesi, monsignor Tremolada, attuale vescovo di Brescia che ci ringraziò per non essere andati dalla polizia. All'epoca avevamo fiducia e non coltivavamo dubbi, fino a quando non abbiamo saputo che don Galli era stato trasferito e rimesso a gestire oratori. Per farla breve, capimmo che fino a quel momento non era stata fatta nessuna indagine previa come avrebbe prescritto il codice canonico. Era il 2014». 

Don Mauro Galli, in seguito, fu condannato in primo e secondo grado dal Tribunale di Milano per violenza sessuale nei confronti di un minore. Il ragazzino ha dovuto affrontare una lunga psicoterapia, tra alti e bassi, e ha persino tentato di togliersi la vita. 

 «Il nostro caso è emblematico e dimostra che nonostante i proclami enfatici alla Chiesa non importa tanto delle vittime, semmai preferisce difendere la reputazione della istituzione. Basti dire che l'indagine previa la diocesi di Milano la ha iniziata solo dopo che noi ci siamo rivolti alla Questura, nel 2014, e non prima. Inoltre io e mio marito abbiamo scritto lettere accorate prima a Benedetto XVI e poi a Francesco ma nessuno ci ha mai risposto. Voglio aggiungere che il mio non è affatto un discorso giustizialista. Non sono mai uscita dalla Chiesa. Semmai voglio rimanerci ma in una Chiesa diversa. Mi auguro che la lettera-testamento di Ratzinger dia una scossa, è davvero l'ultima occasione per la Chiesa italiana».

Da Tangentopoli a Pedofilopoli. I Torquemada all’amatriciana e il clericalismo populista ammantato di modernità. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 10 Febbraio 2022.

La sete di giustizialismo ha sempre rischiato di portare il popolo italiano a processi sommari che somigliano a vendette. Bisogna evitare che i mondi che si desidera ripulire finiscano per sbriciolarsi da dentro, come è successo per la politica

La gogna in mondovisione cui il Papa emerito è stato sottoposto, culminata nell’addolorata lettera di scuse e discolpa di Benedetto XIV, sembra confermare che la “Pedofilopoli” che travolge la Chiesa e che ha investito le diocesi di tutto il mondo è una sorta di Tangentopoli sessuale, un’operazione di potere travestita da opera di pulizia.

Un’operazione che nasce dentro, non fuori il sistema del potere clericale – non nella libera opinione, non nella fantomatica società civile – come Tangentopoli nacque dentro e non contro quel coacervo di poteri politico-giudiziari indivisi, che il precipitare della Prima Repubblica portò al tutti contro tutti, alla ricerca di una nuova e moralissima primazia popolare.

Non che non esista lo sporco all’interno della Chiesa, come la corruzione esisteva di certo all’interno della politica, e che i campioni della rivoluzione togata usarono come predellino per innalzarsi visibili davanti al popolo plaudente, eccitato dal gusto della vendetta.

È che nell’uno e nell’altro caso, quando la richiesta di legalità instaura un sistema di giustizia sommaria, più adeguata alle urgenze della rivoluzione – nella politica allora, nella Chiesa ora – al male si aggiunge semplicemente altro male e non se ne estingue neppure un’oncia.

La storica e diffusa tolleranza nei confronti degli abusi contro i minori, non solo nella Chiesa, ma nell’intera società, diventa oggi l’alibi per una giustizia ridotta a decimazione, un colpire in un mucchio che si dà per scontato contenga un mucchio di colpevoli – forse tutti.

È lo stesso meccanismo usato rispetto alla corruzione politica, che portò alla conclusione che in realtà non ci fossero innocenti, ma solo colpevoli che non erano ancora stati scoperti. Le colpe, peraltro, in questo schema non vanno dimostrate perché sono sempre presupposte e vanno semplicemente associate a un colpevole. I politici sono corrotti o complici dei corrotti. I preti sono pedofili o insabbiatori degli abusi. E i colpevoli migliori non sono quelli più indiziati, ma quelli più succulenti.

In questo caso il colpevole perfetto è Ratzinger, che al vertice della Chiesa universale, prima da Prefetto dell’ex Sant’Uffizio e poi da Pontefice, aveva ricondotto il dilagare degli abusi nella Chiesa alla secolarizzazione del costume sessuale e in particolare alla tolleranza verso l’omosessualità.

Insomma, la pedofilia come effetto collaterale del ’68. Un’analisi storicamente e culturalmente grottesca, che tentava difensivamente di ricacciare il peso dell’accusa nel campo degli accusatori, cioè i fautori di una Chiesa modernista e pure disponibile a mettere in discussione il tabù del celibato ecclesiastico. È Ratzinger nel 2005 a decretare il divieto dell’ordinazione sacerdotale per gli omosessuali, (accettato e ribadito da Bergoglio) e ad accreditare l’equiparazione morale e psichiatrica tra omosessualità e pedofilia.

È Ratzinger a negare che la tolleranza per l’abuso verso minori impuberi era particolarmente diffusa proprio nella famiglia e nella società tradizionale e che solo il sovvertimento culturale di quei mondi chiusi ha consentito di riconoscere nei bambini degli autonomi portatori di diritti e non delle mere propaggini incompiute del mondo degli adulti.

Ora contro Ratzinger viene ritorta la violenza di un pregiudizio ideologico uguale e contrario. La Chiesa – ecco il teorema colpevolisticamente capovolto – non è minacciata dall’esterno dagli iconoclasti della cosiddetta sessualità naturale, ma è occupata dall’interno da un’organizzazione di pedofili, che finisce per coincidere con essa. Basta leggere l’intervista dell’accusatore di Ratzinger che chiede di processare il Papa emerito e i vertici della Chiesa tedesca per crimini contro l’umanità.

In questa guerra senza esclusione di colpi in nome delle vittime innocenti, la prima vittima è lo stato di diritto. Proprio come accadde in Italia ai tempi di Tangentopoli. Ratzinger non poteva non sapere che il sacerdote giunto nella sua diocesi fosse un abusatore. Non sono i suoi accusatori a dovere provare che ne fosse a conoscenza, ma lui a dovere dimostrare il contrario. Se Ratzinger ha dimenticato di avere partecipato a una riunione tenutasi quarant’anni prima, ha qualcosa da nascondere. Se Ratzinger si è dimesso da Pontefice all’inizio dell’indagine sulla pedofilia nella Chiesa tedesca questo dimostra la sua corresponsabilità negli abusi.

Conosciamo benissimo in Italia questo repertorio di dicerie, deduzioni e sospetti eletti ad anticamere della verità e sappiamo benissimo dove porta: alla rovina sia della giustizia che della politica. E non c’è dubbio che, così proseguendo, i Torquemada dell’inquisizione antipedofila porteranno anche alla rovina della Chiesa e al trionfo di un clericalismo populista ammantato di modernità. 

Da lastampa.it l'11 febbraio 2022.

Il Codacons ha chiesto ufficialmente alla testata satirica Lercio di smentire l'esistenza di un comunicato, postato dalla testata satirica, con il quale Lercio fingeva un duro attacco dell'associazione contro il Papa e la sua intervista da Fabio Fazio a Che tempo Che Fa. 

Sembrerebbe uno scherzo, frutto della nota ironia di Lercio, ma non lo è. Lo rivelano, dagli account social della testata, gli stessi autori della notizia burla.

«Il Codacons ci invita formalmente a smentire l'esistenza del loro comunicato ufficiale citato nell'articolo, cosa che facciamo subito: il comunicato è falso – scrive Lercio –. Ne approfittiamo anche per rivelare che pure tutte le news che abbiamo pubblicato finora sono false. Scusateci».

Insieme al commento, Lercio posta su Facebook anche lo screenshot della richiesta di rettifica che il presidente del Codacons Carlo Rienzi ha inviato alla testata satirica. «Trattandosi di un argomento estremamente delicato e considerati i rapporti che la nostra associazione intrattiene col Pontefice - si legge nella richiesta di rettifica del Codacons - vi diffidiamo a dare smentita dell'esistenza del comunicato Codacons da voi citato. In caso contrario saremo costretti a proporre querela nei vostri confronti per i reati ravvisabili». 

Inutile dirlo: molti i commenti divertiti e ironici dei follower di Lercio. Eccone alcuni. «Volete dirmi che in tutti questi anni ho letto degli articoli falsi? Fortunatamente c'è il Codacons che ci protegge», scrive un utente. 

Seguito a ruota da un altro: «Io, modestamente, avevo già capito che si trattasse di satira, e non di informazioni. Non era facile ma io so' bravo». «Impossibile battere il Codacons quanto a satira», chiosa un altro ancora.

La maschera di Zoro. Per una volta ha ragione il Codacons: viviamo nell’era della fine del contesto. L'Inkiesta il 10 Febbraio 2022.

L’associazione dei consumatori ha minacciato di querelare il sito di satira Lercio per una battuta su Papa Francesco che rischiava di essere fraintesa. Ha fatto bene: la maggioranza non capisce niente di niente. E comunque è impossibile capire ogni ammiccamento e riconoscere ogni codice.

Questa è la storia di come il Codacons non abbia – magnanimamente – stigmatizzato una bestemmia del Papa; oppure è la storia di come il Codacons – un po’ meno magnanimamente – abbia minacciato di querela il sito di satira Lercio; oppure è la storia di come io faccia quella che capisce lo spirito del tempo, il declino del senso del tono, la fine del contesto, quando in realtà è provato che Walter Veltroni lo capisce assai meglio di me.

Nove anni fa trovai un commento contro Diego Bianchi, Zoro, sotto il link d’una sua performance televisiva. Dal mio archivio dei souvenir inutili, ricopio il commento: «Non sono mai stato un fan di Bianchi e pertanto non lo seguo, se non quando proditoriamente ci viene imposto nel mezzo di altre trasmissioni. Lo ritengo un semplice burino capace di qualche battutina ad uso interno di un partito politico, buono per YouDem e nulla più. Imporlo al pubblico nazionale mi sembra una violenza al proverbiale buongusto degli Italiani, oltre che una grave mancanza di rispetto nei confronti della loro intelligenza. È vero che il canone bisogna pagarlo anche se usiamo il televisore come una cuccia per cani o un acquario o un barbecue, ma per favore non esageriamo».

Converrete fosse un commento stupendo: la doppia imposizione, il semplice burino, proditoriamente, italiani maiuscolo, il proverbiale buongusto, gli utilizzi alternativi dell’apparecchio televisivo. Perdipiù, era firmato “Walter”.

Lo spirito di patate mi possedeva persino più di ora, e perdipiù era in corso la direzione nazionale del PD. Feci un tweet dicendo che era un duro attacco di Veltroni a Zoro, e Veltroni smentì. Scrisse «trattasi di fake», io sbuffai che era una battuta, e lui replicò rassegnato «Vallo a far capire».

Un suo amico con un mestiere pubblico mi disse che aveva ragione: nessuno capiva i toni di niente mai. (La gente famosa aveva capito che era l’era della suscettibilità prima che ci arrivassi io; la gente famosa entra in contatto con molti più picchiatelli di noialtri civili).

Ci ho ripensato ieri, quando il Codacons ha scritto a Lercio che l’articolo satirico che li riguardava conteneva un’informazione falsa (altrimenti non sarebbe satirico) e che siccome loro hanno rapporti con la Chiesa se Lercio non smentiva avrebbero querelato. Lercio ovviamente ha pubblicato la lettera, ovviamente gongolando. Come reso evidente martedì sera da Luca e Paolo che, da Floris, hanno fatto scompisciare il pubblico raccontando la storia della senatrice Leone e del suo cappotto perduto, quando la realtà supera la comicità, o i comici si disperano, o si rilassano e incassano i proventi di testi che la cronaca ha scritto per loro.

Se un giornale satirico scrive che un’associazione consumatori ha attaccato il papa per aver detto «Dio Cristo» mentre era ospite di Fazio, e l’associazione diffida il giornale «trattandosi di un argomento estremamente delicato», siamo tutti d’accordo che l’associazione sia ridicola, no? No.

Perché se qualcuno può pensare che Veltroni lasci commenti cafoni su un personaggio televisivo; se qualcuna può pensare che le abbiano rubato il cappotto mentre eleggeva Mattarella; se qualcuno può credere che il caicco da cui scende il rapper di Zalone sia una nave di immigrati; se accade uno qualunque dei casi d’incomprensione del testo e del tono che accadono cento volte al minuto, allora abbiamo due scelte.

Quella facile è dire che no, tutti devono cogliere al volo i toni e i contesti e nessuno si può preoccupare della propria reputazione o di essere frainteso (come se tutti fossero Zalone, come se tutti ne avessero il potere contrattuale e l’annessa possibilità di fottersene dei cretini).

Alla mozione facile appartengono coloro che si sdegnano ogni volta che qualcuno prende sul serio un comunicato del comune di Bugliano, che pare sia nostro dovere sapere sia un comune inventato per burla da gente dell’internet. Puoi avere letto ogni volume della Pléiade, ma se non capisci che Bugliano è finto allora sei scemo, se non conosci ogni pizzaefichi satirico inventato ogni minuto devi vergognarti, se non sai a memoria tutto ciò che è moderno sei, in frasifattese, un orrido boomer: magari cogli le citazioni da Delitto e castigo, ma se ignori i riferimenti a Squid Game che campi a fare.

La scelta difficile è dire che, se coloro che non capiscono niente di niente sono la maggioranza, e se comunque è impossibile conoscere tutto, capire ogni ammiccamento, riconoscere ogni codice, avere un dossier costantemente aggiornato sui siti che non dicono sul serio, o addirittura sulle rubriche di parodia all’interno dei giornali seri (il New Yorker ha una rubrica di satira scritta come un serio articolo di commento, The Borowitz Report: se sai che è satira, tutto bene; se sei un povero redattore italiano che ci incappa per la prima volta e la prende sul serio – è capitato – allora tutti i saperlalunghisti ti irrideranno: che cos’avevi di meglio da fare che imparare a memoria il timone del New Yorker?); se tanto prima o poi qualcuno ci cascherà, allora se il tuo pubblico sono i fessi devi curarti della credulità di quel qualcuno, mica dell’eventuale irrisione delle chattering classes.

La scelta difficile è dire quel che mai avrei pensato di dover dire: il Codacons ha ragione.

Dom. Ag. Per "la Stampa" il 9 febbraio 2022.

Anche se in varie Sacre Stanze è molto temuta, la Chiesa italiana proverà a realizzare un'inchiesta interna sugli abusi sessuali commessi dai preti negli ultimi decenni (si parla di 70 anni indietro). Se riuscirà ad avviarla, la ufficializzerà dopo maggio, quando sarà eletto il nuovo presidente della Conferenza episcopale (Cei) al termine del mandato quinquennale di Gualtiero Bassetti, cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve. E soprattutto dopo che si saranno convinti i prelati contrari e indifferenti, e si sarà trovato un accordo sulla modalità di realizzazione. Sul tema infatti le gerarchie sono divise.

«C'è chi sostiene che non serva; o che non debba essere affidata a una commissione esterna, come è avvenuto per esempio in Germania e in Francia, ma che invece bisognerebbe utilizzare i servizi diocesani per la tutela dei minori», svela un alto prelato. Reticenze che si registrano nonostante i segnali di papa Francesco tradotti in particolare da padre Hans Zollner, presidente dell'Istituto di Antropologia della Pontificia Università Gregoriana, a cui Bergoglio ha affidato la prevenzione degli abusi sessuali nella Chiesa.

In una recente intervista a La Stampa ha affermato che «queste indagini condotte in modo oggettivo e pubblicate servono assolutamente. E servirebbe anche in Italia, così si guarderebbe in faccia la realtà e non si continuerebbe a negare qualcosa che viene continuamente smentito, e cioè che in Italia non ci sono abusi sessuali nella Chiesa». Il peso di questa decisione che potrà scuotere molte diocesi e parrocchie graverà dunque sul prossimo capo dei vescovi. 

In questo momento sono tre i presuli considerati favoriti per la corsa in direzione via Aurelia: monsignor Erio Castelluci, 51enne arcivescovo-abate di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi e vicepresidente della Cei; il cardinale Augusto Paolo Lojudice, romano, 57 anni, arcivescovo di Siena-Colle di Val d'Elsa-Montalcino; e il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, 66 anni, romano, figura storica della Comunità di Sant' Egidio. Ma da qui a maggio tutto può cambiare, a maggior ragione con un pontefice come Bergoglio che spesso ha optato per nomine sorprendenti per incarichi importanti.

Nel frattempo non pochi fedeli pressano le gerarchie, e il 15 febbraio prenderà vita il «Coordinamento delle associazioni contro gli abusi nella Chiesa cattolica in Italia». Sigle di rilievo si riuniscono per andare «Oltre il grande silenzio» e lanciano l'hastag #ItalyChurchToo. Partecipano tra le altre la Rete l'Abuso di Francesco Zanardi, l'Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne, Donne per la Chiesa, Adista, il Comitato vittime e famiglie, Voices of faith.

«Don Euro», l’ex parroco Luca Morini condannato a 7 anni e mezzo: festini con i soldi delle offerte. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 02 febbraio 2022.

Il tribunale di Massa Carrara ha riconosciuto la semi infermità di mente. La sentenza anche per estorsione nei confronti dell’ex vescovo

I parrocchiani lo avevano conosciuto come don Luca e all’inizio sembrava anche un’anima pia quel prete bonaccione di Pontasserchio, in provincia di Pisa. Ma presto erano arrivati i dubbi e al sacerdote, al secolo Luca Morini, era stato affibbiato il nome di «don Euro» per «i soldi della provvidenza» che riusciva a recuperare con le offerte degli ignari fedeli e spendere non per opere pie, come pensavano i parrocchiani, ma per feste e festini, cene e soggiorni di lusso e vacanze con escort di ogni tipo e persino incursioni in club per scambisti.

Ieri, dopo quattro anni di processi e scandali che avevano messo a soqquadro la curia di Massa Carrara (nelle indagini era entrato anche l’ex vescovo Giovanni Santucci poi risultato estraneo), l’ex prete, che era stato sospeso a divinis ma per un certo periodo aveva continuato ad essere mantenuto dalla curia, è stato condannato a 7 anni e mezzo di carcere. Il tribunale di Massa ha riconosciuto all’ex religioso la semi infermità di mente. La pm, Giancola, aveva chiesto 8 anni e mezzo di reclusione. Mentre la difesa aveva chiesto l’assoluzione.

Nel dettaglio della sentenza, Morini è stato riconosciuto colpevole di estorsione nei confronti del suo ex vescovo e anche di sostituzione di persona. L’ex parroco è stato invece assolto dall’accusa di estorsione nei confronti di una suora e dalle accuse di cessione di droga e autoriciclaggio.

Il tribunale ha anche condannato l’ex parroco a risarcire 4 parti civili, giovani con i quali avrebbe avuto relazioni, per una somma complessiva di 14mila euro. Al di là dei reati riconosciuti, resta il giudizio morale per un ex prete che, nel momento del suo uffizio, aveva ingannato i suoi fedeli ai quali continuamente chiedeva contributi per poveri, malati ma anche per recitare messa, funerali e benedizioni varie.

Denaro che poi Morini spendeva a destra e a manca accompagnando i suoi amanti, per lo più ragazzi, in locali di gran classe dove sfoderava le sue carte di credito e non badava a spese. Forte di un tesoro che custodiva in alcune banche. Nel 2018 il Tribunale di Genova aveva scoperto e confiscato al prete polizze assicurative, un conto corrente e persino diamanti per 1 milione di euro. I parrocchiani, truffati, non hanno mai presentato denuncia.

PEDOFILIA: RAPPORTO MONACO, ALMENO 497 VITTIME DI ABUSI.

(ANSA il 20 gennaio 2022) - Sono almeno 497 le persone che hanno subito danni nell'ambito degli abusi pedofili nell'arcidiocesi di Monaco. Lo ha spiegato Martin Pusch leggendo il rapporto a Monaco. Per lo più si tratta di giovani vittime di sesso maschile, il 60% dei quali in età compresa fra 8-14 anni. 

PEDOFILIA: RAPPORTO MONACO, ALMENO 235 GLI AUTORI DI ABUSI

(ANSA il 20 gennaio 2022) - Le persone coinvolte negli abusi sessuali come artefici sono almeno 235, fra cui 173 preti, 9 diaconi, 5 referenti pastorali, 48 persone dell'ambito scolastico. Lo ha detto Martin Pusch., leggendo il rapporto sul fenomeno della pedofilia nell'arcidiocesi di Monaco, fra il 1945 e il 2019. 

PEDOFILIA: RAPPORTO MONACO, ERRORI RATZINGER IN 4 CASI 

(ANSA il 20 gennaio 2022) - Nel rapporto sui casi di pedofilia nell'arcidiocesi di Monaco e sull'occultamento il Papa emerito Josef Ratzinger viene accusato di comportamenti erronei in 4 casi, relativamente al periodo in cui era arcivescovo. 

PEDOFILIA: RATZINGER RESPINGE ACCUSE SU ERRORI

(ANSA il 20 gennaio 2022) - Nel rapporto sui casi di pedofilia nell'arcidiocesi di Monaco e sull'occultamento, il Papa emerito Josef Ratzinger ha affermato di non aver commesso errori di comportamento per tutti i 4 casi indicati nel rapporto. Lo ha detto Martin Pusch a Monaco. Ratzinger ha rilasciato una dichiarazione scritta, allegata al rapporto.

PEDOFILIA: MONACO; ERRORI IN 21 CASI DA CARDINALE WETTER

(ANSA il 20 gennaio 2022) - Nel rapporto sui casi di pedofilia nell'arcidiocesi di Monaco e sull'occultamento, l'ex cardinale di Frisinga, Friedrich Wetter, ha fatto errori di comportamento in 21 casi. È quello che ha affermato Martin Pusch, leggendo il rapporto a Monaco. Wetter non nega che vi siano stati i casi, ma nega di essersi comportato in modo sbagliato.

PEDOFILIA: MONACO; ERRORI IN 2 CASI DA CARDINALE MARX

(ANSA il 20 gennaio 2022) - Al cardinale Reihnard Marx sono da attribuire errori di comportamenti relativamente a 2 casi di abusi nel 2008. Lo ha detto Martin Pusch, in conferenza stampa a Monaco, presentando il rapporto sugli abusi sessuali nell'arcidiocesi di Monaco. "Il cardinale Reinhard Marx non è presente a questa conferenza. Lo abbiamo invitato ma ha deciso di non venire. Naturalmente deploriamo questa scelta". Lo ha detto Marion Westpahl, presentando a Monaco il rapporto sugli abusi sessuali sui minori nell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga.

PEDOFILIA: MONACO; "POCO CREDIBILE" SMENTITA RATZINGER

(ANSA il 20 gennaio 2022) - I legali del rapporto di Monaco sulla pedofilia nell'arcidiocesi ritengono "poco credibile" la smentita del papa emerito Joseph Ratzinger, che ha sostenuto di non essere presente ad una seduta importante nel 1980, nella quale si decise di prendere un prete pedofilo nell'arcivescovado di Monaco e impiegarlo nella cura delle anime. Lo ha detto Ulrich Wastl a Monaco presentando il rapporto.

PEDOFILIA: MONACO; S.SEDE, VERGOGNA E RIMORSO PER ABUSI

(ANSA il 20 gennaio 2022) - "La Santa Sede ritiene di dover dare la giusta attenzione al documento, di cui al momento non conosce il contenuto. Nei prossimi giorni, a seguito della sua pubblicazione, ne prenderà visione e potrà opportunamente esaminarne i dettagli. Nel reiterare il senso di vergogna e il rimorso per gli abusi sui minori commessi da chierici, la Santa Sede assicura vicinanza a tutte le vittime e conferma la strada intrapresa per tutelare i più piccoli garantendo loro ambienti sicuri". Lo ha detto ai giornalisti il portavoce vaticano Matteo Bruni, interpellato sul rapporto sugli abusi nell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga.

(ANSA il 24 gennaio 2022) - Il Papa emerito Benedetto XVI ha corretto una dichiarazione essenziale sul rapporto sugli abusi di Monaco. Contrariamente al suo precedente resoconto ha preso parte alla riunione dell'Ordinariato il 15 gennaio 1980, come dichiara oggi all'agenzia cattolica Kna, ripresa da Vatican News sul canale tedesco. Durante quella riunione si parlò di un prete della diocesi di Essen che aveva abusato alcuni ragazzi ed era venuto a Monaco per una terapia. Ratzinger spiega che l'errore "non è stato commesso in malafede" ma "il risultato di un errore nell'elaborazione editoriale della sua affermazione". È "molto dispiaciuto" per questo e si scusa.

Tuttavia, nell'incontro in questione "non è stata presa alcuna decisione circa un incarico pastorale del sacerdote interessato". Piuttosto, la richiesta è stata avanzata solo per "consentire una sistemazione per l'uomo durante il trattamento terapeutico a Monaco di Baviera". La dichiarazione integrale inviata dal segretario personale di Joseph Ratzinger, mons. Georg Gaenswein, dice che "da giovedì pomeriggio, il papa emerito Benedetto XVI si è fatto inviare lo stesso giorno il rapporto dallo studio legale di Monaco Westpfahl Spilker Wastl come file Pdf. Attualmente sta leggendo con attenzione le dichiarazioni ivi contenute, che lo riempiono di vergogna e dolore per le sofferenze inflitte alle vittime".

"Anche se cerca di leggerlo velocemente prosegue Gaenswein -, chiede la vostra comprensione che a causa della sua età e salute, ma anche per le grandi dimensioni, ci vorrà del tempo per leggerlo per intero. Ci sarà un commento sulla relazione". Tuttavia, "desidera ora chiarire che, contrariamente a quanto affermato in udienza, ha partecipato all'assemblea dell'Ordinariato del 15 gennaio 1980". 

"L'affermazione contraria era quindi oggettivamente errata - spiega -. Ci tiene a sottolineare che ciò non è stato fatto in malafede, ma è stato il risultato di un errore nella redazione della sua dichiarazione. Spiegherà come ciò sia avvenuto nella dichiarazione in sospeso. È molto dispiaciuto per questo errore e si scusa".

"Tuttavia - continua la dichiarazione di mons. Gaenswein -, l'affermazione che l'incarico pastorale del sacerdote in questione non è stato deciso in quella riunione rimane oggettivamente corretta, come documentato dagli atti. Piuttosto, la richiesta è stata accolta solo per l'alloggio durante il suo trattamento terapeutico a Monaco". "Benedetto XVI è vicino alla sua ex arcidiocesi e diocesi di origine in questi giorni - conclude - ed è molto vicino ad essa nei suoi sforzi per chiarire. Pensa soprattutto alle vittime che hanno subito abusi sessuali e indifferenza". 

Le lettere del Vaticano sui pedofili, papa Francesco e il "sistema del silenzio". EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani l'11 febbraio 2022.

Il cardinale Ladaria è un fedelissimo di Bergoglio, diventato nel 2017 prefetto della Congregazione della dottrina della fede, il dicastero-chiave nella lotta alla pedofilia ecclesistica.

In due lettere-fotocopia che evidenziano un “sistema del silenzio” Ladaria dice a vescovi italiani e cardinali francesi che su due preti molestatori si deve «evitare lo scandalo pubblico».

L’orco Preynat fu così arrestato solo nel 2016: ha ammesso di aver «violentato 4-5 bambini a settimana». Don Trotta, una volta spretato nel 2012, ha potuto abusare indisturbato di altri 10 bambini 

Ratzinger, il gelo dei vescovi tedeschi sulla lettera. Papa Francesco fu avvertito. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

 Forse non è un caso che l a lettera di Benedetto XVI in risposta alle accuse del rapporto di Monaco sugli abusi sia arrivata, per evitare polemiche o sospetti di interferenze, soltanto dopo la conclusione dell’assemblea «sinodale» della Chiesa tedesca, sabato. Di certo, in Germania, lo scandalo degli abusi nella diocesi bavarese - con relative contestazioni a Ratzinger per il periodo in cui era arcivescovo, dal ‘77 all’82 - si accompagna alla spinta riformatrice della Chiesa tedesca. Era stato lo stesso cardinale Reinhard Marx, attuale arcivescovo di Monaco, a parlare delle «cause sistemiche» alla base di silenzi e coperture sugli abusi e invocare la «sfida» di una «necessaria riforma della Chiesa negli atteggiamenti e nelle strutture». Così il «cammino sinodale» della Chiesa tedesca ha approvato a larga maggioranza un documento nel quale tra l’altro si chiede la possibilità di ordinare diaconi donne e, pur esprimendo «apprezzamento» per «il valore del celibato sacerdotale», si propone di chiedere al Papa un «ripensamento» del celibato obbligatorio, come aveva già osservato Marx: «Per alcuni preti, sarebbe meglio se fossero sposati». Faccenda delicata, perché nel frattempo papa Francesco ha convocato un Sinodo mondiale già iniziato in tutte le diocesi del pianeta e che si riunirà in Vaticano nel 2023. Il presidente dei vescovi tedeschi, Georg Bätzing, ha annunciato all’assemblea che Francesco ha accolto la proposta di creare un «gruppo di lavoro misto» tra le presidenze del sinodo tedesco e di quello mondiale «per confrontarci e informarci sui cammini».

Le accuse di pedofilia nella Chiesa: le ultime notizie e gli approfondimenti

Dopo il sinodo sull’Amazzonia, scandito da polemiche tra la parte più progressista e quella più conservatrice, il Papa non aveva risposto alla richiesta di ordinazione dei preti sposati, «non ho sentito che ora lo Spirito Santo stesse lavorando a questo», trovare un punto di equilibrio è assai difficile. Ma è in questo clima che, in Germania, la lettera di Ratzinger è stata accolta per lo più dalle critiche o dal gelo di giornali e tv e dal silenzio dei vescovi. Tra le rare eccezioni, il vescovo Franz-Josef Overbeck di Essen: «Temo che la dichiarazione possa aiutare poco le persone colpite». Il cardinale Marx si è limitato a dire: «Accolgo con favore il fatto che il mio predecessore nell’ufficio di arcivescovo di Monaco e Frisinga, il papa emerito Benedetto XVI, abbia commentato la pubblicazione della perizia in una lettera personale». L’arcivescovo Georg Gänswein, segretario personale di Ratzinger, aveva parlato al Corriere «di una corrente che vuole distruggerne la persona e l’operato». Ieri ha raccontato al Tg1 che «è arrivata a Benedetto XVI una bellissima lettera di papa Francesco, una lettera in cui parla da pastore, da confratello e anche da persona che di nuovo ha espresso la sua piena fiducia, il suo pieno sostegno e anche la sua preghiera». Benedetto XVI, quando decise la rinuncia, promise subito «obbedienza» al successore. Prima di renderla pubblica, filtra dal Vaticano, il Papa emerito ha inviato il testo a Francesco perché lo leggesse. Nell’udienza di ieri, mentre parlava del senso del morire, il Pontefice ha citato a braccio la lettera: «Papa Benedetto diceva, alcuni giorni fa, parlando di se stesso, che “è davanti alla porta oscura della morte”. È bello ringraziare il papa Benedetto che a 95 anni ha la lucidità di dirci questo: “Io sono davanti all’oscurità della morte, alla porta oscura della morte”. Un bel consiglio che ci ha dato».

Nuova accusa dal Die Zeit, Ratzinger sapeva degli abusi sessuali in una sua diocesi. ANSA Germania il 4 Gennaio 2022: Die Zeit, Ratzinger sapeva di abusi sua diocesi. Nuova accusa per il Papa emerito Benedetto XVI di non aver messo fine agli abusi di un sacerdote della sua diocesi. E' quanto riferisce il settimanale tedesco Die Zeit. Secondo nuove ricerche esisterebbe un "decreto extragiudiziale" del tribunale ecclesiastico dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga del 2016 con critiche al comportamento degli alti prelati che non avrebbero fermato l'operato di un ecclesiastico, Peter H., accusato di 23 casi di abusi sessuali di minori tra gli 8 e i 16 anni tra il 1973 e il 1996. Tra questi alti prelati figurerebbe anche Joseph Ratzinger, arcivescovo di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1982. Secondo il documento, Ratzinger e i vicari generali dell'arcidiocesi, non sarebbero stati "all'altezza delle loro responsabilità verso i giovani e i bambini affidati alle loro cure pastorali". Nel testo si scrive che il sacerdote Peter H. si sarebbe macchiato di abusi nella diocesi di Essen, proseguendo poi in quella di Monaco dove era stato accettato. Die Zeit pubblica anche una risposta di monsignor Georg Gaenswein che, alla richiesta di un commento alla notizia, ha risposto fra l'altro che "l'affermazione che egli (Joseph Ratinger, ndr) fosse a conoscenza degli antefatti (accuse di abusi sessuali) al momento dell'ammissione del padre H. è falsa. Di tali fatti precedenti non aveva alcuna conoscenza". La vicenda di 'Padre H' era già stata portata alla luce oltre 10 anni fa dal settimanale Der Spiegel che, parlando di "omissioni", sostenne che il coinvolgimento dell'allora arcivescovo Ratzinger fosse stato "più forte" di quanto emerso. Ma nel novembre del 2010 dalla Santa Sede si fece sapere che sul caso non c'era "nessuna vera novità". La vicenda che torna sotto i riflettori è quella di Peter Hullermann, il prete che il Papa emerito, quand'era arcivescovo di Monaco e Frisinga aveva accettato nella diocesi nel 1980. Nonostante le accuse di pedofilia, il religioso fu anche impiegato in attività pastorali in un'altra parrocchia, dove commise altri abusi. Lo Spiegel scrisse che, secondo informazioni raccolte nella sua ex comunità parrocchiale, padre Hullermann, quand'era cappellano, avrebbe chiesto una promozione "direttamente a Ratzinger", il 31 luglio 1980. Allegate alla domanda, prosegue il giornale, c'erano lettere della parrocchia sul suo "attaccamento" ai bambini nella comunità di S.Giovanni Evangelista, a Monaco. In una di queste, Padre H aveva scritto di avere organizzato un pellegrinaggio con «20 o 25 bambine e maschietti» e un incontro nella sua comunità con «150 chierichetti». La posizione del Vaticano allora fu che «Ratzinger non sapeva della decisione di reinserire il sacerdote nell'attività pastorale parrocchiale» e che «ogni altra versione» è «mera speculazione».

Dal "Corriere della Sera" il 5 gennaio 2022. Un decreto del tribunale ecclesiastico dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga, emesso nel 2016, accusa il papa emerito Benedetto XVI di non aver agito contro un sacerdote autore di abusi su diversi minori, mentre era titolare dell'arcivescovado fra il 1977 e il 1982. Nel 1980, secondo quanto rivela il settimanale tedesco Die Ziet , il religioso si trasferì all'arcidiocesi di Monaco e Frisinga, allora guidata da Ratzinger: il futuro Papa, pur a conoscenza della vicenda, «lo accettò e lo insediò». Il segretario privato di Benedetto XVI, l'arcivescovo di Urbisaglia Georg Gaenswein, ha negato la ricostruzione. «Non ne era a conoscenza», ha detto.

Ratzinger «non agì» di fronte a 4 casi di pedofilia quando era arcivescovo di Monaco, secondo un report. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 20 gennaio 2022.

Il Papa emerito: «Turbamento e vergogna». L’accusa contenuta in un report pubblicato oggi, che riguarda accuse di pedofilia tra il 1945 e il 2019. Il rapporto è stato commissionato dalla Chiesa tedesca a uno studio legale. Benedetto aveva presentato una memoria difensiva.

L’indagine sugli abusi pedofili nella diocesi di Monaco chiama in causa l’allora arcivescovo Joseph Ratzinger «per quattro casi» nel periodo nel suo episcopato in Baviera, dal 1977 al 1982. «In quei casi q uei sacerdoti hanno continuato il loro lavoro senza sanzioni. Ratzinger era informato dei fatti. La Chiesa non ha fatto nulla», ha detto l’avvocato Martin Pusch in una conferenza stampa a Monaco di Baviera. 

Ratzinger ha parlato attraverso il suo segretario particolare, l’arcivescovo Georg Gänswein: «Benedetto XVI fino a oggi pomeriggio non ha conosciuto il rapporto, che ha più di mille pagine. Nei prossimi giorni esaminerà con la necessaria attenzione il testo. Il Papa emerito, come ha già più volte ripetuto durante gli anni del suo pontificato, esprime il turbamento e la vergogna per gli abusi sui minori commessi dai chierici, e manifesta la sua personale vicinanza e la sua preghiera per tutte le vittime, alcune delle quali ha incontrato in occasione dei suoi viaggi apostolici». 

Il Papa emerito, 94 anni, ha inviato una memoria difensiva di 82 pagine in cui smentisce ogni accusa. «Lui sostiene che non sapeva di certi fatti, anche se noi crediamo che non sia così , secondo quello che sappiamo», dice il legale. L’indagine è stata condotta dallo studio legale Westpfahl Spilker Wastl su incarico, dal 2010, della stessa arcidiocesi di Monaco guidata dal cardinale Reinhard Marx, uno degli uomini di punta della Chiesa, membro del Consiglio dei cardinali che affianca il Papa e coordinatore del Consiglio per l’Economia della Santa Sede.

Il 4 giugno fu lo stesso Marx a parlare di «catastrofe» nella gestione degli abusi e di «scacco istituzionale e sistemico» di una Chiesa «giunta a un punto morto» nella lettera di dimissioni a Francesco, poi respinta Papa, in cui si assumeva la «responsabilità istituzionale» per i «fallimenti nel passato», coperture, insabbiamenti, spostamenti di preti pedofili da una parrocchia all’altra, il repertorio senza scuse che è stata la regola per decenni. 

Il rapporto chiama in causa anche Marx per «condotta scorretta» nel gestire due casi da arcivescovo, e il predecessore di Ratzinger a Monaco, il cardinale Friedrich Wetter, che avrebbe trattato «scorrettamente» altri ventun casi. 

L’indagine copre l’intero dopoguerra, 74 anni dal 1945 al 2019. E quindi comprende anche il periodo, dal 1977 all’inizio del 1982, in cui fu arcivescovo Joseph Ratzinger, prima di essere chiamato a Roma come prefetto dell’ex Sant’Uffizio.

Naturale, trattandosi del Papa emerito, che fosse al centro del rapporto e delle polemiche.

Già noto è il caso di quello che nel rapporto viene chiamato «padre H.», ovvero Peter Hullermann, oggi 74 anni, che tra il 1973 e il 1996 ha abusato di almeno 23 ragazzi dagli 8 ai 16 anni. 

Nel 1980 Hullermann fu inviato da Essen a Monaco con una diagnosi di «disturbo narcisistico di base con pedofilia ed esibizionismo» per seguire una psicoterapia . L’allora arcivescovo Ratzinger, in una riunione del 15 gennaio 1980, accolse la richiesta di trasferimento e alloggio. 

Il caso è noto, la polemica scoppiò nel 2010 dopo un articolo pubblicati da Der Spiegel ed è stata ripresa nei giorni scorsi da Die Zeit. 

Già nel 2010 la diocesi di Monaco replicò che la diocesi di Essen aveva disposto il trattamento di psicoterapia a Monaco e Ratzinger aveva dato il suo consenso al trasferimento ma non al suo ritorno all’attività pastorale; un mese più tardi però l’allora vicario generale Gerhard Gruber aveva dato Hullerman un incarico da assistente in una parrocchia, e questo senza che l’arcivescovo Ratzinger lo sapesse e contro ciò che aveva stabilito. 

L’arcivescovo Georg Gänswein, segretario particolare di Benedetto XVI, aveva replicato a Die Zeit: «L’affermazione che egli fosse a conoscenza degli antefatti al momento dell’ammissione del padre H. è falsa. Di tali fatti precedenti non aveva alcuna conoscenza». 

Il rapporto sulla diocesi di Monaco registra almeno 497 vittime di violenza sessuale dal 1945 al 2019. Secondo gli autori, 247 vittime sono maschi e 182 femmine. Il 60 per cento delle vittime aveva tra gli otto e i 14 anni.

Per la Chiesa tedesca è un’altra scossa, dopo il rapporto indipendente pubblicato a marzo dall’arcidiocesi di Colonia su abusi e coperture dal 1975 al 2018: 313 vittime di abusi sessuali su ragazzini e 212 responsabili, «nel 63 per cento dei casi sacerdoti». 

Oggi Benedetto XVI, dopo la «rinuncia» al pontificato nel 2013, vive nel monastero «Mater Ecclesiae», in Vaticano. 

Le accuse, già emerse durate il suo pontificato, sono un amaro paradosso rispetto alla sua storia, come cardinale prima e Papa poi. Quand’era prefetto dell’ex Sant’Uffizio aveva cercato di processare un criminale pedofilo come padre Macial Maciel Decollado, potente fondatore dei Legionari di Cristo, ma fu bloccato da una parte della Curia nel crepuscolo del pontificato di Wojtyla. Eletto Papa, è andato fino in fondo su Maciel e sul resto. 

È stato il primo pontefice a chiedere «perdono» pubblicamente e in modo esplicito per la pedofilia nel clero, in piazza San Pietro, l’11 giugno 2010, davanti a quindicimila sacerdoti di tutto il mondo. Il 19 marzo 2010 aveva scritto una lettera storica ai cattolici irlandesi, con parola durissime contro i preti pedofili: «Dovrete rispondere davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti». Ha incontrato più volte le vittime di abusi. 

E soprattutto, il 21 maggio 2010, ha firmato le nuove norme che hanno segnato il punto di non ritorno della Chiesa nella lotta agli abusi, l’inizio della trasparenza e della «tolleranza zero»: definiscono il reato di pedopornografia, la possibilità di procedere per «via extragiudiziale» nei casi più clamorosi, il potere del Papa di spretare direttamente i colpevoli quando le prove sono schiaccianti.

Benedetto XVI ha allungato la prescrizione da 10 a 20 anni, a partire dal diciottesimo compleanno della vittima, il che ha permesso di punire anche i casi più remoti, spesso già prescritti dalle leggi secolari: negli anni successivi sono stati spretati centinaia di sacerdoti. 

L’arcidiocesi di Monaco aveva già deciso che commenterà il rapporto tra una settimana, con una conferenza stampa il 27 gennaio. Intanto è arrivata una dichiarazione del portavoce vaticano, Matteo Bruni: «La Santa Sede ritiene di dover dare la giusta attenzione al documento di cui al momento non conosce il contenuto. Nei prossimi giorni, a seguito della sua pubblicazione, ne prenderà visione e potrà opportunamente esaminarne i dettagli. Nel reiterare il senso di vergogna e il rimorso per gli abusi sui minori commessi da chierici, la Santa Sede assicura vicinanza a tutte le vittime e conferma la strada intrapresa per tutelare i più piccoli, garantendo loro ambienti sicuri».

Da lastampa.it il 4 febbraio 2022.

La Chiesa deve cambiare la propria valutazione sull'omosessuali à. Lo ha detto il cardinale Jean Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze episcopi dell'Unione europea nonché relatore generale del Sinodo dei Vescovi, in una intervista alla Kna, nella quale gli è stato chiesto di valutare una campagna in cui circa 125 dipendenti della Chiesa cattolica in Germania, inclusi alcuni sacerdoti, si sono dichiarati LGBTQ e sugli insegnamenti della Chiesa sull'omosessualità. 

«Credo che il fondamento sociologico-scientifico di questo insegnamento non sia più vero», ha detto a Hollerich. «Penso che sia ora di fare una revisione fondamentale della dottrina». 

Hollerich, senza approfondire quali aspetti dell'insegnamento della Chiesa ritenga necessario rivedere, ha detto: «Credo anche che stiamo pensando al futuro in termini di dottrina. Il modo in cui il Papa si è espresso in passato può portare a un cambiamento nella dottrina".

Si ricorda che il Pontefice ha inviato messaggi di apprezzamento a sacerdoti e suore che prestano servizio ai cattolici gay e ha detto che i genitori di bambini omosessuali non dovrebbero mai condannarli, ma il Vaticano, con il placet di Bergoglio, ha anche affermato che i sacerdoti non possono benedire le coppie gay.

Dagotraduzione da Ap News il 15 febbraio 2022.

I parrocchiani della chiesa cattolica di St. Charles Borromeo ad Harlem vengono accolti da un ritratto incorniciato di Martin Luther King Jr., un ministro battista che prende il nome da un prete tedesco ribelle del XVI secolo scomunicato dalla Chiesa cattolica. 

Il Reverendo Bryan Massingale, che a volte predica a St. Charles, persegue il suo ministero in modi che riecheggiano entrambi Martin Lutero. Come King, Massingale denuncia il flagello della disuguaglianza razziale negli Stati Uniti. In qualità di professore alla Fordham University, insegna approcci religiosi afroamericani all'etica.

Come il tedesco Martin Lutero, Massingale è spesso in contrasto con l'insegnamento cattolico ufficiale: sostiene l'ordinazione delle donne e il rendere facoltativo il celibato per il clero cattolico. E, come uomo gay, è apertamente in disaccordo con la dottrina della chiesa sulle relazioni omosessuali, e sostiene invece la piena inclusione dei cattolici LGBTQ all'interno della chiesa. 

Il Vaticano sostiene che gay e lesbiche dovrebbero essere trattati con dignità e rispetto, ma che il sesso gay è «intrinsecamente disordinato» e peccaminoso.

Nella sua omelia di una di queste domeniche, Massingale - che ha reso pubblico l'essere gay nel 2019 - ha immaginato un mondo «in cui la dignità di ogni persona è rispettata e protetta, dove tutti sono amati». 

Ma questo è un messaggio di uguaglianza e tolleranza «a cui si resiste anche all'interno della nostra stessa famiglia di fede», ha aggiunto. «Predicare!» ha gridato in risposta un fedele. 

Massingale è nato nel 1957 a Milwaukee. Sua madre era una segretaria scolastica e suo padre un operaio la cui famiglia emigrò dal Mississippi per sfuggire alla segregazione razziale. Ma anche in Wisconsin, il razzismo era comune. Massingale ha detto che suo padre non poteva lavorare come falegname a causa di una regola che impediva agli afroamericani di unirsi al sindacato dei falegnami.

I Massingales hanno subito il razzismo anche quando si sono trasferiti alla periferia di Milwaukee e si sono avventurati in una parrocchia prevalentemente bianca. «Questa non è una parrocchia molto comoda di cui far parte per te», ricorda che gli ha detto il prete. Successivamente, la famiglia ha fatto il pendolare in una chiesa prevalentemente cattolica nera. 

Massingale ha ricordato un altro incidente, come sacerdote appena ordinato, dopo aver celebrato la sua prima messa in una chiesa prevalentemente bianca. «Il primo parrocchiano che mi ha salutato alla porta mi ha detto: “Padre, mandarti qui è l'errore peggiore che l'arcivescovo potesse fare. Le persone non ti accetteranno mai”».

Massingale dice di aver preso in considerazione l'idea di lasciare la Chiesa cattolica, ma ha deciso che era necessario. «Non lascerò che il razzismo della chiesa mi derubi del mio rapporto con Dio», ha detto. «Considero la mia missione rendere la chiesa ciò che dice di essere e l'istituzione che credo che Gesù voglia che sia: più universale». 

Per Massingale, il razzismo all'interno della Chiesa cattolica statunitense è una delle ragioni dell'esodo di alcuni cattolici neri; dice che la chiesa non sta facendo abbastanza per affrontare il razzismo all'interno dei suoi ranghi e nella società più ampia.

Secondo un sondaggio del 2021 del Pew Research Center, quasi la metà degli adulti neri statunitensi che sono stati cresciuti come cattolici non si identifica più come tale, e molti sono diventati protestanti. Secondo il sondaggio, circa il 6% degli adulti neri statunitensi si identifica come cattolico e quasi l'80% crede che opporsi al razzismo sia essenziale per la loro fede. 

La Chiesa cattolica degli Stati Uniti ha avuto una storia a scacchi con la razza. Alcune delle sue istituzioni, come la Georgetown University, erano coinvolte nella tratta degli schiavi e ha lottato per reclutare sacerdoti afroamericani.

Al contrario, le scuole cattoliche furono tra le prime a desegregare e alcuni funzionari governativi che si opponevano all'integrazione razziale furono scomunicati. Nel 2018 i vescovi statunitensi hanno emesso una lettera pastorale in cui denunciavano «la persistenza del male del razzismo», ma Massingale è rimasto deluso. 

«La frase “nazionalismo bianco” non è contenuta in quel documento; non parla del movimento Black Lives Matter”, ha detto. «Il problema con gli insegnamenti della chiesa sul razzismo è che sono scritti in un modo che è calcolato per non disturbare i bianchi».

Alla Fordham, un'università dei gesuiti, Massingale tiene un corso sull'omosessualità e l'etica cristiana, usando testi biblici per sfidare l'insegnamento della chiesa sulle relazioni omosessuali. Ha detto di aver fatto i conti con la propria sessualità a 22 anni, riflettendo sul libro di Isaia. 

«Mi sono reso conto che, qualunque cosa dicesse la chiesa, Dio mi amava e mi accettava come un gay nero», ha detto. 

La sua ordinazione nel 1983 avvenne nei primi anni dell'epidemia di HIV/AIDS che colpì in modo sproporzionato uomini gay e neri americani. Tra i suoi primi funerali da prete c'era quello di un omosessuale la cui famiglia non voleva menzionare la sua sessualità o la malattia. 

«Avrebbero dovuto essere in grado di rivolgersi alla loro chiesa nel momento del dolore», ha detto Massingale. «Eppure non potevano perché quello stigma esisteva in larga misura a causa di quanti ministri parlavano dell'omosessualità e dell'AIDS come punizione per il peccato».

Papa Francesco ha chiesto una pastorale compassionevole per i cattolici LGBTQ. Tuttavia, ha descritto l'omosessualità tra il clero come preoccupante e la legge vaticana rimane chiara: le unioni omosessuali non possono essere benedette all'interno della chiesa. Alcune diocesi hanno licenziato apertamente dipendenti LGBTQ. 

Massingale ha una visione diversa della Chiesa: quella in cui i cattolici godono degli stessi privilegi indipendentemente dall'orientamento sessuale. 

«Penso che si possa esprimere la propria sessualità in un modo che sia responsabile, impegnato, vivificante e un'esperienza di gioia», ha affermato. Massingale ha ricevuto il riconoscimento per la sua difesa da organizzazioni che la pensano allo stesso modo come FutureChurch, che afferma che i sacerdoti dovrebbero potersi sposare e le donne dovrebbero avere più ruoli di leadership all'interno della chiesa.

«È uno dei leader più profetici, avvincenti, stimolanti e trasformatori della Chiesa cattolica», ha affermato Deborah Rose-Milavec, co-direttore dell'organizzazione. «Quando parla, sai che viene detta una verità molto profonda». 

Insieme ai suoi numerosi ammiratori, Massingale ha alcuni critici veementi, come il notiziario cattolico conservatore Church Militant, che descrive la sua difesa LGBTQ come peccaminosa. 

Alla Fordham, Massingale è molto rispettato dai colleghi ed è stato insignito dall'università di una prestigiosa cattedra. Nella misura in cui ha dei critici tra i docenti di Fordham, tendono a mantenere i loro dubbi fuori dalla sfera pubblica. 

Dice di ricevere molti messaggi di speranza e sostegno, ma diventare pubblico sulla sua sessualità ha avuto un costo. «Ho perso alcuni amici sacerdoti che trovano difficile essere troppo legati a me perché se sono miei amici, 'cosa dirà la gente di loro?'», ha detto.

Massingale rimane ottimista sul graduale cambiamento nella Chiesa cattolica per via di papa Francesco e dei recenti segnali dei vescovi inEuropa che hanno espresso il desiderio di cambiamenti, inclusa la benedizione delle unioni omosessuali. 

«Il mio matrimonio da sogno è quello in cui due uomini o due donne sono in piedi davanti alla chiesa, si sposano come un atto di fede, e posso essere lì come testimone ufficiale per dire: "Sì, questo è di Dio"», ha detto dopo una recente lezione a Fordham. «Se fossero anche neri, sarebbe meraviglioso».

Il cardinale Marx. "Sì alle nozze per molti preti". Redazione su Il Giornale il 3 Febbraio 2022.

Detta così ha un effetto rivoluzionario anche se della cosa si discute da tempo. «Per molti preti sarebbe meglio se fossero sposati». L'arcivescovo di Monaco e Frisinga, Reinhard Marx, la cui diocesi è stata al centro di un recente dossier sugli abusi sessuali nei confronti dei minori da parte del clero, si è detto favorevole all'abolizione del celibato per i sacerdoti. Lo ha spiegato in una intervista sul quotidiano Sueddeutsche Zeitung e ha scelto un momento molto particolare per esternare il suo parere.

«Non solo per motivi sessuali - ha sottolineato l'arcivescovo -, ma perchè sarebbe meglio per le loro vite e non sarebbero soli. Abbiamo bisogno di queste discussioni. Penso che le cose così come sono non possono continuare» ha aggiunto. «Lo dico sempre ai giovani sacerdoti: vivere da soli non è così facile. E se qualcuno dice: senza l'obbligo del celibato, si sposeranno tutti! La mia risposta è: e allora? Se si sposassero tutti, sarebbe almeno un segno che le cose attualmente non funzionano». Insomma sposarsi per non vivere in un mondo a parte.

Secondo il report sono almeno 497, di cui il 60 per cento minori tra gli 8 e i 14 anni di età, le vittime di abusi sessuali da parte di 235 persone, tra cui 173 sacerdoti, nell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga, tra il 1945 e il 2019. Il dossier era stato commissionato dalla stessa arcidiocesi allo studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl. Oltre a mettere in rassegna l'operato dei ministeri di Michael von Faulhaber, Joseph Wendel, Julius Doepfner, Friedrich Wetter e Reinhard Marx, getta pesanti ombre sulla gestione del Papa emerito, Joseph Ratzinger, che fu arcivescovo di Monaco dal 1977 al 1982 per poi diventare Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede (1982-2005), organismo vaticano che si occupa proprio di casi di delicta graviora. Il momento non poteva essere più delicato.

Pedofilia, quasi 500 vittime nella diocesi di Monaco. Accuse a Ratzinger che commenta: "Turbamento e vergogna". Paolo Rodari su La Repubblica il 20 gennaio 2022.

Il rapporto commissionato dalla Chiesa tedesca riguarda gli abusi commessi a Monaco di Baviera dal 1945 al 2019. Il Papa emerito afferma in una dichiarazione scritta di non aver commesso errori in nessuno dei casi indicati. Joseph Ratzinger, che da prefetto dell’ex Sant’Uffizio provò a processare padre Maciel Degollado, pedofilo fondatore dei Legionari di Cristo, e poi da Papa chiese per la prima volta perdono alle vittime della pedofilia aprendo la strada alla «tolleranza zero», è oggi chiamato in causa per non aver agito in quattro casi di abusi commessi da preti quando era arcivescovo di Monaco e Frisinga, dal 1977 al 1982.

Il Tempo il 20 gennaio 2022. Benedetto XVI esprime "turbamento" e "vergogna" per gli abusi sui minori commessi nella arcidiocesi di Monaco e Frisinga e manifesta la "sua personale vicinanza e la sua preghiera per tutte le vittime". Così il segretario particolare di Joseph Ratzinger, monsignor Georg Gaenswein, riguardo al dossier choc presentato oggi 20 gennaio dallo studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl e commissionato dalla stessa arcidiocesi nel febbraio 2020. Il rapporto, che copre un periodo di quasi 74 anni (dal 1945 al 2019), getta ombre sull’operato del Papa emerito, arcivescovo di Monaco dal ’77 all’82. "Benedetto XVI fino a oggi pomeriggio non ha conosciuto il rapporto dello Studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl, che ha più di 1000 pagine", ha detto monsignor Gaenswein, secondo quanto riferito da Vatican News. "Nei prossimi giorni esaminerà con la necessaria attenzione il testo. Il Papa emerito, come ha già più volte ripetuto durante gli anni del suo pontificato, esprime il turbamento e la vergogna per gli abusi sui minori commessi dai chierici, e manifesta la sua personale vicinanza e la sua preghiera per tutte le vittime, alcune delle quali ha incontrato in occasione dei suoi viaggi apostolici".

Joseph Ratzinger, pedofilia e abusi: "La lettera che prova tutto". Fango e accuse-choc contro il Papa Emerito. Libero Quotidiano il 09 gennaio 2022.

Ancora attacchi a Joseph Ratzinger, il Papa emerito. Ancora fango, accuse, che piovono dal fronte che ha sempre contestato il teologo bavarese. L'ultima offensiva riguarda una presunta consapevolezza sul delicatissimo fronte degli abusi sessuali interno alla Chiesa in Germania, la sua terra natale. Secondo gli accusatori, Benedetto XVI sarebbe stato al corrente delle accuse di pedofilia che avevano colpito un sacerdote incaricato presso la diocesi di Monaco-Frisniga, quella in cui Ratzinger mossi i primi passi all'inizio della carriera.

La notizia e le accuse piovono in seguito alla pubblicazione di una mail da parte della rivista tedesca Die Ziet sul comportamento di Peter Hullermann. Stando ad alcune ricerche, un "decreto extragiudiziale" del tribunale ecclesiastico dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga del 2016 conterrebbe aspre critiche contro alti prelati per non aver fermato Hullerman, accusato di 23 casi di abusi nei confronti di minorenni, avvenuti tra il 1973 e il 1996. E come detto tra le figure di spicco della diocesi figurerebbe anche Ratzinger, il quale di Monaco e Frisinga fu arcivescovo dal 1977 al 1982. 

A tempo record, è piovuto il secco commento di Georg Gaenswein, monsignore e segretario particolare di Ratzinger, che ha spazzato via le accuse della rivista tedesca: "L'affermazione che egli (Joseph Ratzinger, ndr) fosse a conoscenza degli antefatti (accuse di abusi sessuali) al momento dell'ammisione del padre H. è falsa. Di tali fatti precedenti non aveva alcuna conoscenza", così come riportato dall'Ansa. Per inciso, il Der Spiegel già 10 anni fa aveva accusato Ratzinger di un "forte coinvolgimento" in questa vicenda. Ma ovviamente non si trovarono prove. E così, a distanza di dieci anni, ecco che l'offensiva riprende...

L'ultimo assedio a Ratzinger. Francesco Boezi su Il Giornale il 9 Gennaio 2022.  

Gli attacchi a Joseph Ratzinger non conoscono fine. Nonostante la distanza temporale dalla fine del pontificato, il teologo bavarese continua ad essere sottoposto ad un fuoco di fila che riguarda non solo il suo periodo alla guida della Chiesa, ma anche quello precedente.

L'ultima offensiva in ordine di tempo riguarda una presunta consapevolezza sul delicatissimo fronte degli abusi sessuali interno alla Chiesa. E per di più in Germania, terra natale del pontefice emerito. Benedetto XVI, dicono i suoi accusatori, sarebbe stato al corrente delle accuse di pedofilia mosse nei confronti di un sacerdote incaricato presso la diocesi di Monaco-Frisinga. Quella in cui il professore di Tubinga è stato incaricato agli inizi della sua carriera.

La notizia è balzata agli onori delle cronache, dopo la pubblicazione di una mail da parte della rivista tedesca Die Ziet sul comportamento di Peter Hullermann. Secondo ricerche, un "decreto extragiudiziale" del tribunale ecclesiastico dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga del 2016 conterrebbe delle forti critiche nei confronti di alti prelati per non aver fermato il sacerdote accusato di 23 casi di abusi nei confronti di minorenni avvenuti tra il 1973 e il 1996. Tra le figure di spicco dell'arcidiocesi, ci sarebbe anche Ratzinger, che fu arcivescovo di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1982.

Il segretario particolare di Benedetto XVI, monsignore Georg Gaenswein, ha impiegato poco tempo a replicare a queste accuse della rivista tedesca. "L'affermazione che egli (Joseph Ratzinger, ndr) fosse a conoscenza degli antefatti (accuse di abusi sessuali) al momento dell'ammisione del padre H. è falsa. Di tali fatti precedenti non aveva alcuna conoscenza", ha fatto presente il vescovo, così come riportato da Ansa. Ma il caso sembra destinato a produrre ulteriori problemi all'interno della Chiesa tedesca e specialmente nei confronti di Benedetto XVI. Anche un altro quotidiano tedesco, Der Spiegel, già dieci anni fa aveva accusato il teologo di un coinvolgimento "più forte" nella vicenda. E a distanza di un decennio le accuse riaffiorano.

Secondo i difensori di Benedetto, le accuse sarebbero già spente sul nascere. Tuttavia, il pontefice emerito, che ha rinunciato al soglio di Pietro ormai da diversi anni, non sembra essere stato dimenticato dai suoi avversari, specie in Germania, che non perdono occasione per provare a mettere in discussione la figura un consacrato che ha previsto buona parte dell'avvenire ecclesiologico e non solo.

Il genere dell'"attacco a Ratzinger", del resto, era già divenuto di moda durante il pontificato. Dalla prima parte di Vatileaks, che in relazione all'opera di Benedetto XVI rappresentò un vero e proprio assalto combinato, passando per l'antipatia espressa da molti media che lo hanno spesso etichettato a "pastore tedesco" o a "consacrato oscurantisca" ed incapace - pensano ancora alcuni - di affrontare le sfide del futuro con categorie nuove: il "mite teologo" di Tubinga non ha avuto "un mandato" semplice, né ha potuto contare su una "buona stampa". La stessa che a volte facilita i compiti di chi è chiamato a gestire le istituzioni del mondo.

Dalla stroncatura per la posizione espressa sull'utilizzo dei preservativi in Africa al caso eclatante del discorso di Ratisbona: l'elencazione - si capisce bene - sarebbe troppo lunga e non potrebbe che non essere esaustiva. Conviene così soffermarsi su quanto accaduto negli ultimi tempi: è stato lo Benedetto XVI a tuonare sull'esistenza di una strategia teutonica volta a far sì che l'ex Papa si silenziasse. "Mi vogliono mettere a tacere", disse Ratzinger qualche anno fa, riferendosi a certe offensive provenienti dalla sua nazione d'origine.

Contestualizzando, dunque, diviene forse più semplice comprendere qualche "perché" in più: nella Chiesa cattolica esistono guerre più o meno lapalissiane che spesso vengono combattute con armi simili a quelle che vengono utilizzate in politica. C'è chi attacca e chi si difende. E a rimetterci può essere la verità.

Ma il Papa emerito respinge le accuse. Scandalo pedofilia nella Chiesa, quasi 500 vittime nella diocesi di Monaco: “Ratzinger sapeva di 4 casi ma non agì”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.  

Tra il 1945 e il 2019 sono almeno 497 le persone vittime di violenza sessuale da parte del clero dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga. È questo il risultato di un rapporto commissionato dalla diocesi tedesca allo studio legale Westpfahl Spilker Wastl e reso noto quest’oggi dai media teutonici.

Il dossier era stato commissionato dall’arcidiocesi nel febbraio 2020 ma verrà commentato ufficialmente soltanto il prossimo 27 gennaio.

Secondo gli esperti che hanno lavorato al rapporto 247 vittime sono maschi e 182 femmine: il 60% dei ragazzi colpiti aveva tra gli otto e i 14 anni. Le persone coinvolte negli abusi sessuali come artefici sono almeno 235, fra cui 173 preti, 9 diaconi, 5 referenti pastorali, 48 persone dell’ambito scolastico.

Ma la notizia che più ha fatto scalpore è quella di un presunto coinvolgimento Joseph Ratzinger, vescovo dal 1977 al 1982, poi diventato Pontefice nel 205 come Papa Benedetto XVI fino alle clamorose dimissioni del 2013, restando poi ‘Papa emerito’.

Ratzinger viene accusato in particolare di comportamenti erronei e lacunosi in almeno in quattro casi durante il periodo in cui era vescovo dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga: il futuro Pontefice non avrebbe fatto nulla contro i religiosi accusati di abusi. Accuse negate dal Papa emerito, oggi 94enne, che ha smentito “rigorosamente” la sua responsabilità.

“Ratzinger era informato dei fatti. La Chiesa non ha fatto nulla», ha detto l’avvocato Martin Pusch in una conferenza stampa a Monaco di Baviera. Il Papa emerito “sostiene che non sapeva di certi fatti, anche se noi crediamo che non sia così, secondo quello che sappiamo”, ha ribadito il legale.

Già la scorsa settimana Ratzinger, che dopo la rinuncia vive nel monastero ‘Mater Ecclesiae’ in Vaticano, era stato accusato in una inchiesta pubblicata dal giornale tedesco Die Zeit: il quotidiano aveva pubblicato un decreto extragiudiziale del tribunale ecclesiastico del 2016 nel quale si accusa Ratzinger di non aver fermato l’operato di un prete, accusato di 23 casi di abusi sessuali su minori tra gli 8 e i 16 anni commessi tra il 1973 e il 1996.

Anche in questo caso il Papa emerito, tramite il suo segretario particolare Georg Gänswein, aveva seccamente smentito di esser stato a conoscenza degli abusi commessi da “padre Peter H.”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Pedofilia, la difesa di Ratzinger: il rapporto «pura propaganda». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

Joseph Ratzinger che accusa gli esperti di «Stimmungsmache», propaganda, e «pura speculazione» contro di lui. E gli esperti che considerano «irritanti» le sue spiegazioni. Contiene passaggi durissimi, il rapporto indipendente di 1.893 pagine, redatto dallo studio legale Westpfahl Spilker Wastl, che ricostruisce dal dopoguerra e accusa il Papa emerito di «comportamenti erronei» per non aver agito in «quattro casi» quando guidava la diocesi bavarese, .

Una settantina di pagine, in particolare, sono dedicate ai casi contestati all’allora arcivescovo e definiti dai numeri 22, 37, 40 e 42. Ratzinger, si legge, ha premesso che «ogni singolo caso di aggressione sessuale e ogni trattamento scorretto è terribile e non può essere riparato», espresso «la sua più profonda simpatia per le vittime di abusi sessuali». E chiarito che la sua memoria, a 94 anni, «è ancora oggi molto buona» e quando dice di «non ricordare una certa persona o un certo evento» non significa incertezza ma la convinzione «di non aver incontrato la persona o di non aver conosciuto i fatti o il documento».

Contestazioni, risposte citate dalla memoria difensiva di 82 pagine, uno scambio di «sospetti» e repliche spesso aspro. Come quando i legali contestano a Ratzinger di aver conosciuto «caso 22», un sacerdote condannato per pedofilia anni prima, perché aveva trascorso «decenni» nella zona dov’era stato in parrocchia ed era amico del successore. E Ratzinger replica di essere andato in vacanza là «una sola volta, nell’agosto 1982», e che il titolo di «parroco» dato «era una procedura di routine» e non significava che lo conoscesse o sapesse della condanna.

È a questo punto che trapela l’irritazione riportata dal rapporto: il Papa emerito ha replicato ai legali che «l’ipotesi è falsa e diffamatoria» e «testimoniava un notevole grado di parzialità da parte degli esperti che hanno abbandonato il loro ruolo di neutralità e obiettività e sono scesi al livello di valutazione soggettiva, se non addirittura propaganda e di pura speculazione, si sono squalificati».

Le considerazioni dei legali su Ratzinger, che spesso si è riferito alle norme mancanti e allo «spirito del tempo» diverso dalla sensibilità attuale, non sono più tenere: «L’ignoranza costantemente rivendicata contraddice la pratica che potrebbe essere stabilita dagli esperti sia con i predecessori che con i successori».

Benedetto XVI replicherà ancora nei prossimi giorni. Ieri mattina, rivolto all’assemblea plenaria dell’ex Sant’Uffizio, papa Francesco ha scandito: «La Chiesa, con l’aiuto di Dio, sta portando avanti con ferma decisione l’impegno di rendere giustizia alle vittime degli abusi operati dai suoi membri, applicando con particolare attenzione e rigore la legislazione canonica prevista». Intanto a Monaco la relazione avrà conseguenze penali: la Procura ha disposto delle verifiche su «42 casi» di comportamenti «inappropriati» segnalati della ricerca, i preti ancora vivi o rintracciabili.

Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 21 gennaio 2022.  

Alla fine, è sempre una questione di apostrofi e accenti. E' grave e infame l'accusa rivolta a Joseph Ratzinger di aver coperto quattro sacerdoti pedofili quand'era arcivescovo a Monaco tra il 1977 e il 1982. Per la prima volta nella storia recente della Chiesa addirittura un papa, seppur emerito, è accusato del peggior dei mali, aver coperto chi abusa dei piccoli del gregge. Il mondo è sconvolto e indignato perché conosciamo le battaglie condotte contro la pedofilia di Benedetto XVI, la statura di uno dei più raffinanti teologi viventi e sorprende e disorienta che anche lui possa aver saputo e taciuto. Ma abbiamo tutti la memoria corta. 

Dimentichiamo, ad esempio, che in quei sei anni si alternano ben tre pontefici in vaticano: Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. E, sospesa l'analisi su Luciani perché Albino regnò solo 33 giorni, di certo non possiamo attribuire a Montini e a Wojtyla alcun merito nella lotta contro la pedofilia all'interno della Chiesa. Ogni scandalo veniva taciuto, ogni vittima messa in silenzio, ogni sacerdote indifendibile al massimo trasferito. In questo clima va contestualizzato l'agire attribuito a Ratzinger.

E la prova plastica ne è che l'indagine che accusa il papa emerito non è stata avviata da qualche movimento agnostico insurrezionalista, da qualche entità anticlericale ma dalla chiesa tedesca. In particolare è Reinhard Marx, il cardinale al vertice della stessa diocesi che fu di Ratzinger a disporre questi approfondimenti. Ed è noto che Marx è forse il porporato tedesco più vicino a Bergoglio, tornato in Germania dopo anni in curia a presidiare le riforme vaticane dalle mani e manine restauratrici.

Insomma quanto sta accadendo oggi è uno dei riflessi della rivoluzione del gesuita che vuole innanzitutto non vuole più subire passivamente gli scandali ma diventare promotore delle inchieste. Un conto è difendersi con imbarazzo da un'indagine avviata da altre autorità e stati, cosa diversa è partire d'iniziativa. 

E' accaduto nell'inchiesta sulla compravendita del palazzo a Londra che ha investito il cardinale Angelo Becciu, con Bergoglio che rivendicava ai collaboratori stretti proprio la peculiarità di questa prima indagine che parte dagli uffici giudiziari vaticani e si ripete ora sul fronte incerto dei reati sessuali ai danni di minori. 

Tornando a Ratzinger si accerterà ora ruolo e responsabilità, c'è chi strumentalizzerà la vicenda riducendo tutto al solito presunto scontro tra papa regnante e papa emerito ma non si può dimenticare che quella Chiesa è diversa da quella di oggi. Immaginare che all'epoca in Europa un vescovo avviasse una campagna di pulizia per cacciare e punire i sacerdoti pedofili della sua diocesi è drammaticamente irrealistico. 

Oggi invece, in quella corsa contro il nichilismo che indebolisce la Chiesa e di recupero di credibilità, si arriva persino a puntare l'indice contro un pontefice. E questo è un monito che nei sacri palazzi fa tremare i lucchetti di chi conserva troppi scheletri negli armadi. 

Domenico Agasso per "la Stampa" il 21 gennaio 2022.

Joseph Ratzinger non avrebbe agito in modo corretto di fronte a quattro casi di pedofilia del clero quando era arcivescovo di Monaco e Frisinga. Lo scrive il report sugli abusi sessuali che ha provocato un terremoto nelle Sacre Stanze bavaresi, inquietando la Chiesa universale per il coinvolgimento del Papa emerito. Sono almeno 497 le persone che hanno subito violenze sessuali nella diocesi tedesca in un periodo di quasi 74 anni (dal 1945 al 2019). Per lo più si tratta di giovani vittime di sesso maschile, 247, mentre 182 sono di sesso femminile, il 60% dei quali in età compresa fra gli 8 e i 14 anni. 235 invece gli autori degli abusi, tra cui 173 preti, 9 diaconi, 5 collaboratori pastorali, 48 persone dell'ambito scolastico.

Sono questi i dati del rapporto realizzato dallo studio legale Westpfahl Spilker Wastl, incaricato dalla stessa arcidiocesi, oggi guidata dal cardinale Reihnard Marx. Secondo il dossier, Ratzinger potrebbe essere caduto nella prassi ecclesiale del passato: coprire, sottovalutare, spostando gli abusatori altrove - dove poi magari ripetevano le molestie - solo per difendere l'immagine della Chiesa. 

Stando ai risultati dell'inchiesta, Ratzinger tra il 1977 e il 1982 non avrebbe intrapreso nulla nei confronti di quattro religiosi accusati di abusi, in due casi documentati da tribunali statali. I due preti sono rimasti attivi, senza subire provvedimenti sul profilo del diritto ecclesiastico. Inoltre, un interesse per le vittime da parte dell'arcivescovo Ratzinger «non è stato ravvisabile». I quattro episodi di «comportamenti erronei» sono stati respinti «rigorosamente» dallo stesso Pontefice emerito in una memoria allegata al dossier.

Una smentita che i legali ritengono «poco credibile», avendo papa Benedetto sostenuto di non essere stato presente a una seduta importante nel 1980, nella quale si decise di ammettere un prete pedofilo nell'arcivescovado di Monaco e impiegarlo nella cura delle anime. Dalla natia Baviera ombre pesanti come macigni oscurano dunque la quiete nell'ex Monastero Mater Ecclesiae, dove Benedetto XVI, oggi quasi 95enne, si è ritirato dopo la rinuncia al pontificato.

Lo stupore deriva anche dalla storia dello stesso Ratzinger, considerato, soprattutto dai tempi in cui era prefetto dell'ex Sant' Uffizio, l'alto prelato che più ha denunciato la «sporcizia» nella Chiesa, scoperchiando così il fenomeno della pedofilia nel clero e iniziando a interrompere la consuetudine degli insabbiamenti. E poi da Papa ha scomunicato il potentissimo abusatore seriale Marcial Maciel Degollado. Per adesso Benedetto XVI replica attraverso il suo segretario particolare, monsignor Georg Gänswein: «Fino ad oggi (ieri, ndr) pomeriggio non ha conosciuto il rapporto dello Studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl, che ha più di 1000 pagine. Nei prossimi giorni esaminerà con la necessaria attenzione il testo».

Gänswein comunica che «il Papa emerito esprime il turbamento e la vergogna per gli abusi sui minori commessi dai chierici, e manifesta la sua personale vicinanza e la sua preghiera per tutte le vittime, alcune delle quali ha incontrato in occasione dei suoi viaggi apostolici». Anche l'ex cardinale di Frisinga, Friedrich Wetter, avrebbe compiuto errori in 21 vicende di violenze sessuali. Invece a Marx sarebbero da attribuire negligenze in due situazioni di abusi nel 2008. 

L'Arcivescovo chiede scusa «a nome dell'Arcidiocesi per la sofferenza inflitta alle persone nello spazio della Chiesa. Sono scioccato e mi vergogno». Il porporato nel giugno 2021 aveva presentato al Papa le sue dimissioni proprio in relazione alla «catastrofe» degli abusi del clero. Dimissioni respinte da Francesco. Il Vaticano affida un primo commento al portavoce Matteo Bruni: «La Santa Sede ritiene di dover dare la giusta attenzione al documento, di cui al momento non conosce il contenuto».

Domenico Agasso per "la Stampa" il 21 gennaio 2022.  

«Siamo sotto choc per il report sulla pedofilia nell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga». Queste inchieste «servono, e ne occorrerebbe una anche in Italia». Anche se «ormai il fenomeno è chiaro: nel mondo in ogni regione tra il 3 e il 5% dei preti è un abusatore. Abbiamo dei criminali fra noi. Per questo dobbiamo ancora fare passi avanti per purificare la Chiesa». È l'analisi del gesuita tedesco padre Hans Zollner, teologo e psicologo, presidente del Centro per la protezione dei minori della Pontificia Università Gregoriana, a cui papa Francesco ha affidato la prevenzione degli abusi sessuali nella Chiesa.

Qual è stata la sua reazione al dossier di Monaco di Baviera?

«Come dopo le altre pubblicazioni di dati del genere siamo choccati. Siamo devastati dalla dimensione numerica e dal proseguimento nel tempo, per decenni, di queste violenze». 

Che cosa la inquieta in modo particolare?

«L'occultamento e le coperture dei casi, le omissioni e l'indifferenza da parte delle gerarchie e dei responsabili delle diocesi, i quali non hanno compiuto gli interventi che il Diritto canonico prevedeva e prevede». 

Il coinvolgimento di Joseph Ratzinger nel report che significato assume?

«Aggrava l'immagine della vicenda». 

La Chiesa che cosa sta facendo concretamente per debellare questa piaga al suo interno?

«Sta lavorando molto nell'ambito della prevenzione. Innanzitutto nella formazione di sacerdoti, religiosi, religiose, catechisti e altri collaboratori. Però dobbiamo imparare a essere più responsabili».

In che senso?

«Le nostre strutture non hanno ancora cambiato metodo e sistema rispetto alla trasparenza sulle responsabilità: mentre diventa chiaro chi abusa, non è altrettanto semplice far assumere la responsabilità a chi lo ha coperto per "salvare la faccia dell'istituzione", a chi avrebbe dovuto vigilare, a chi avrebbe dovuto intervenire secondo le indicazioni delle varie leggi e anche secondo la nostra missione di uomini di Chiesa: l'atteggiamento evangelico di proteggere i più deboli».

Inchieste come quella di Monaco possono portare a qualcosa di buono? Ne occorrerebbe una così anche in Italia?

«Sì queste indagini condotte in modo oggettivo e pubblicate servono assolutamente. E servirebbe anche in Italia, certo, così si guarderebbe in faccia la realtà e non si continuerebbe a negare qualcosa che viene continuamente smentito, e cioè che in Italia non ci sono abusi sessuali nella Chiesa. 

Anche se in generale paradossalmente ormai tutto è chiaro dal punto di vista della diffusione del fenomeno: nel mondo il numero di preti abusatori si aggira tra il 3 e il 5% in ogni regione. Dopo l'uscita di queste inchieste bisognerebbe innanzitutto avviare un'opera di ascolto delle vittime. E poi, modificare i rapporti di potere nella Chiesa, che dovrebbero essere più condivisi e meno autoritari, e aprirsi alle verifiche con la possibilità di essere giudicati anche da altri esperti fuori dal recinto cattolico. E poi dovremmo porci un interrogativo cruciale».

Quale?

«È più importante l'immagine che non corrisponde alla realtà, o ammettere che non siamo santi, che abbiamo peccato e che abbiamo tra noi anche criminali? Disse Gesù: la verità vi renderà liberi. Solo dopo la confessione può arrivare l'assoluzione e il perdono».

Abusi, il capo dei vescovi tedeschi: «Ratzinger chieda perdono». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022. «Benedetto XVI deve pronunciarsi, non tener conto di quello che dicono i suoi consulenti e in sostanza dire la semplice frase: “Ho delle colpe, ho fatto degli errori, prego chi è rimasto coinvolto di perdonarmi”». Parlando ad una trasmissione televisiva, il presidente della conferenza episcopale tedesca, Georg Bätzing, vescovo di Limburgo, non ha usato eufemismi a proposito di Joseph Ratzinger. La ricerca indipendente sulla pedofilia nella diocesi di Monaco ha registrato 497 abusi su minori compiuti dal dopoguerra e accusato il Papa emerito di «comportamenti erronei» per non aver agito in «quattro casi» quando guidava la diocesi bavarese, dal 1977 al 1982. Benedetto XVI si era difeso con una memoria di 82 pagine e ha fatto sapere che risponderà alle accuse, il tempo di leggere il rapporto di quasi duemila pagine. Ma intanto il capo dei vescovi tedeschi usa toni molto duri verso il Papa emerito che «deve» scusarsi e i suoi collaboratori, fino ad aggiungere: «Io credo che possa farlo, se riesce a prendere le distanze da chi gli dà i consigli. Questo è davvero un punto debole di Benedetto, di Joseph Ratzinger, quello di non attorniarsi sempre dei consiglieri migliori».

La settimana scorsa, il Papa emerito aveva ammesso di aver commesso «un errore», seppure «non in malafede», nel rispondere ad una richiesta dei legali che hanno condotto la ricerca. Riguardava un punto considerato importante dagli autori del rapporto, citato come esempio della «scarsa credibilità» della difesa. Attraverso suo segretario particolare, l’arcivescovo Georg Gänswein, Ratzinger aveva ammesso che sì, era presente alla riunione del 15 gennaio 1980 in cui si diede il via libera al trasferimento di padre Peter Hullermann dalla diocesi di Essen a Monaco. Hullermann aveva precedenti, fu inviato da Essen a Monaco con una diagnosi di «disturbo narcisistico di base con pedofilia ed esibizionismo» per seguire una psicoterapia ma finì a lavorare come assistente in una parrocchia. Nella sua difesa di 82 pagine, Ratzinger aveva negato di avervi partecipato. Dopo la pubblicazione del rapporto, Benedetto si è detto «molto dispiaciuto per questo errore» e ha chiesto di «essere scusato».

Però ha chiarito che la sostanza non cambia: «Oggettivamente corretta, invece, e documentata dagli archivi, è l’affermazione che in questa riunione non è stata presa alcuna decisione circa l’assegnazione pastorale del sacerdote». Piuttosto «è stata accolta solo la richiesta di dare alloggio all’uomo durante il suo trattamento terapeutico a Monaco». Nella sua memoria difensiva, del resto, aveva anche parlato di «Stimmungsmache», propaganda, e «pura speculazione» contro di lui. Nel frattempo, dal monastero Mater Ecclesiae, ha fatto sapere che risponderà al rapporto, il tempo di leggere le quasi duemila pagine che compongono, ha spiegato Gänswein: «Nei prossimi giorni esaminerà con la necessaria attenzione il testo. Il Papa emerito, come ha già più volte ripetuto durante gli anni del suo pontificato, esprime il turbamento e la vergogna per gli abusi sui minori commessi dai chierici, e manifesta la sua personale vicinanza e la sua preghiera per tutte le vittime, alcune delle quali ha incontrato in occasione dei suoi viaggi apostolici».

Joseph Ratzinger "da distruggere". Padre Georg, il più drammatico dei sospetti: nomi e cognomi, chi c'è dietro agli attacchi. Libero Quotidiano l'11 febbraio 2022

Georg Gänswein ha già commentato gli attacchi al papa emerito Benedetto XVI sul tema degli abusi sessuali. "C’è una corrente che vuole proprio distruggerne la persona e l’operato. Non ha mai amato la sua persona, la sua teologia, il suo Pontificato. E adesso c’è un’occasione ideale di fare i conti, come la ricerca di una damnatio memoriae", aveva detto al Corriere della Sera. Le parole del segretario personale di Benedetto XVI sono pesanti. 

Il nuovo attacco avviene nel momento di massima pressione per promuovere l’agenda Lgbt nella Chiesa, sull’asse Germania-Roma. C'è stato il coming out di 125 sacerdoti e funzionari ecclesiastici tedeschi, sostenuti di fatto dal Sinodo tedesco che ha messo nero su bianco, tra le altre cose, anche la benedizione delle unioni omosessuali.

Poi le dichiarazioni del cardinale Jean Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea (COMECE) ma anche relatore generale del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità. Poi a dicembre la segreteria del Sinodo aveva fatto propria la documentazione presentata dal più noto gruppo LGBT cattolico statunitense, New Ways Ministry, organizzazione che ha anche avuto nel frattempo la benedizione di papa Francesco malgrado i vescovi americani nel 2010 avessero stabilito che non possa essere definita una organizzazione cattolica.

Riccardo Cascioli per lanuovabq.it l'11 febbraio 2022.

«C’è una corrente che vuole proprio distruggerne la persona e l’operato. Non ha mai amato la sua persona, la sua teologia, il suo Pontificato. E adesso c’è un’occasione ideale di fare i conti, come la ricerca di una damnatio memoriae». Così nell’intervista al Corriere della Sera pubblicata il 9 febbraio, monsignor Georg Gänswein commentava gli ultimi attacchi al papa emerito Benedetto XVI sul tema degli abusi sessuali.

Parole pesanti, quelle del segretario personale di Benedetto XVI, che confermano autorevolmente quanto è già sotto gli occhi di chi vuol vedere. Già, ma a che corrente si riferisce monsignor Gänswein, e perché questo odio e questa determinazione a distruggere la persona e l’operato del papa emerito? Nell’intervista non si dice, ma possiamo cercare di capirlo mettendo insieme le diverse tessere del puzzle. 

Anzitutto la tempistica: questo nuovo attacco avviene nel momento di massima pressione per promuovere l’agenda Lgbt nella Chiesa, sull’asse Germania-Roma. Abbiamo visto nelle scorse settimane il coming out di 125 sacerdoti e funzionari ecclesiastici tedeschi, sostenuti di fatto dal Sinodo tedesco che ha messo nero su bianco, tra le altre cose, anche la benedizione delle unioni omosessuali.

A seguire sono arrivate le dichiarazioni del cardinale Jean Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea (COMECE) ma anche relatore generale del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità. Due uscite clamorose che non hanno avuto alcuna risposta o correzione da Roma, anzi: si ricorderà che a dicembre la segreteria del Sinodo aveva fatto propria la documentazione presentata dal più noto gruppo LGBT cattolico statunitense, New Ways Ministry, organizzazione che ha anche avuto nel frattempo la benedizione di papa Francesco malgrado i vescovi americani nel 2010 avessero stabilito che non possa essere definita una organizzazione cattolica.

Addirittura all’inizio di gennaio papa Francesco ha anche scritto una significativa lettera di encomio alla co-fondatrice di New Ways Ministry, suor Jeannine Gramick, già bandita da qualsiasi attività pastorale dal 1999 proprio per le sue idee sull’omosessualità diametralmente opposte a quelle della Chiesa. Da notare che la Nota del 31 maggio 1999 porta proprio la firma dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

A tutto questo si aggiunga che proprio oggi a Colonia si apre il processo a un sacerdote polacco, don Dariusz Oko, che è anche docente all’Università Cattolica di Cracovia, accusato di «incitamento all’odio» per un suo articolo apparso sulla rivista Thelogisches intitolato “Sulla necessità di resistere alle lobby omosessuali nella Chiesa”. Don Oko è da molti anni impegnato a denunciare l’omoeresia nella Chiesa e la lobby che la sostiene, e ha recentemente pubblicato il libro “The Lavender Mafia”, (la mafia lavanda è appunto quella Lgbt).

La denuncia nei suoi confronti è stata presentata da un sacerdote della diocesi di Colonia che appare come un manifesto vivente del clero omosessuale, don Wolfgang Rothe, noto militante Lgbt, che lo scorso 4 novembre è stato protagonista di una benedizione di coppie omosessuali in una sauna per gay a Monaco di Baviera. Di don Rothe, che non risulta sospeso dal ministero, sono pubbliche anche foto in cui bacia un seminarista sotto a un ramo di vischio. 

Se questo è il contesto attuale (ovviamente è solo un piccolo saggio della corruzione morale nella Chiesa), c’è poi una questione di fondo che riguarda lo scandalo degli abusi sessuali. Si ricorderà che nel febbraio 2019 papa Francesco convocò a Roma un vertice dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo sul tema degli abusi sui minori, e fu l’occasione in cui emersero due letture completamente diverse della crisi.

Papa Francesco volle che il vertice si focalizzasse sul tema del clericalismo, considerato la causa dello scandalo pedofilia, ma nell’aprile successivo vennero resi noti degli “Appunti” che papa Benedetto aveva messo in precedenza a disposizione come contributo per il vertice. Benedetto leggeva invece lo scandalo come una terribile crisi di fede, l’allontanamento da Dio, che a sua volta aveva provocato il crollo della teologia morale, ormai pesantemente influenzata dalla cultura del mondo, stravolta dalla rivoluzione sessuale.

Sulla linea di papa Benedetto si erano messi anche i cardinali Raymond Burke e Walter Brandmüller, che alla vigilia del vertice firmarono una lettera aperta in cui denunciavano «l’agenda omosessuale» diffusa nella Chiesa e «promossa da reti organizzate e protetta da un clima di complicità e omertà». Stesso concetto espresso per l’occasione anche dal cardinale Müller; non sorprendentemente visto che tutti i rapporti finora pubblicati sugli abusi, dagli Stati Uniti alla Francia, ci dicono che oltre l’80% degli abusi di cui è protagonista il clero sono frutto di comportamenti omosessuali.

L’argomento però venne rigorosamente tenuto lontano dal vertice vaticano, a voler dimostrare che abusi sessuali del clero e omosessualità non sono correlati. Così è successo che in questi tre anni, mentre da una parte si sono fatti proclami contro gli abusi, dall’altra si sono viste diverse conquiste nella Chiesa da parte dei gruppi Lgbt, fino alle vicende di queste ultime settimane già accennate in apertura. Non solo, appare ormai sempre più chiaro che proprio il Sinodo sulla sinodalità nelle intenzioni sarà l’occasione per legittimare definitivamente l’agenda Lgbt nella Chiesa. 

Si può ben capire dunque come Benedetto XVI (così come chi segue il suo Magistero) sia un ostacolo come persona e come giudizio sulla crisi della Chiesa, e si voglia perciò distruggerlo per poter consentire il trionfo indisturbato della nuova Chiesa arcobaleno. Può sembrare paradossale ma a cercare di incastrarlo sugli abusi sessuali sono proprio coloro che li favoriscono e li promuovono.

Pedofilia, Lupi: su Ratzinger accuse infamanti senza prove. Il Tempo il 21 gennaio 2022.

Le accuse a Ratzinger, secondo cui avrebbe coperto abusi sessuali a Monaco, hanno suscitato sconcerto da più parti. E in molti sono scesi in campo per difendere l'ex Pontefice. "L'attacco a Benedetto XVI per presunte coperture date a quattro sacerdoti pedofili negli anni in cui era arcivescovo di Monaco è evidentemente pretestuoso, senza prove e basato solo sul personale convincimento degli avvocati che hanno curato il dossier, i quali peraltro lanciano accuse molto vaghe. Ma tanto basta per una campagna stampa diffamatoria nei confronti di Joseph Ratzinger, il cui operato contro la piaga della pedofilia è universalmente noto. Facciamo sentire la nostra vicinanza al Papa emerito". Così Maurizio Lupi, presidente di Noi con l'Italia", all'indomani del dossier presentato da uno studio legale secondo il quale sarebbero almeno 497, di cui il 60 per cento minori tra gli 8 e i 14 anni di età, le vittime di abusi sessuali da parte del clero, nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga, tra il 1945 e il 2019. Il dossier era stato commissionato dalla stessa arcidiocesi che lo ha definito «una pietra miliare nell’ulteriore processo di gestione degli abusi sessuali».

Joseph Ratzinger, abusi e pedofilia? Vergogna in Vaticano, da dove arriva il fuoco amico: indiscrezioni, chi lo vuole far fuori. Libero Quotidiano il 21 gennaio 2022.

Perché l’hanno abbandonato come il Nazareno sul Golgota? Di tutta questa vicenda l’aspetto che dice lo stato rovinoso della Santa Chiesa è la solitudine in cui sono stati lasciati l’anima buona e il corpo inerme del Papa emerito, 95 anni, che avvolto nelle sue bianche vesti, sul seggiolone con grandi ruote, pare proprio un bambinetto in fasce. Dichiara di avere il cuore spezzato per gli abusi che di certo hanno subito molti ragazzini da parte di sacerdoti infami. Ma lui mai e poi mai ha favorito con il silenzio, o la distrazione, lo sfregio profondo e irreparabile inflitto a chierichetti e ragazzini. Lo dice senza titubanze. Ma allora perché la notizia di prima pagina appare ovunque, forcaiola senza alcun dubbio, niente presunzione di innocenza, e lui solo, un corpo morto e vilipeso.

Ma la domanda che ci facciamo è: perché non sono accorsi intorno al piccolo monastero dedicato alla Madonna dove vive in Vaticano delegazioni di fedeli, manipoli di cardinali, guardie svizzere, e una parola semplice semplice del Papa: «Di Benedetto mi fido. Benedetto non è uomo che menta». Niente di tutto questo. La sala stampa vaticana ha diffuso un comunicato dove non si spende una parola per questo "nonno della Chiesa" (definizione di Francesco). Si scrive che nei prossimi giorni «si esaminerà il voluminoso incartamento», manca una frasetta: «Noi crediamo al Papa emerito, la sua vita è chiara come acqua di fonte».

Povero Ratzinger, stupisce che regga. Da cardinale e poi da papa non ha mai avuto o un attimo di tregua da attacchi d'ogni genere. Un tribunale texano lo voleva estradare. Ci sono rapporti della CIA in cui si esplicita la volontà di fomentare e inventare accuse di pedofilia nei suoi confronti, perché non andava bene per gli assetti del mondo graditi ai progressisti. Dunque: gonfiare i casi di abusi in America, imputarne la responsabilità al «pastore tedesco» (titolo del Manifesto), scrivere e diffondere libri scandalistici contro di lui fingendo di difenderlo, in realtà usando documenti procurati dai servizi segreti (lo scrive il suo biografo ufficiale, Peter Seewald nel recente Benedetto XVI - Una vita, 1400 pagine, di cui alcune centinaia sono dedicate alle aggressioni subite da quest' uomo delicato e candido), per indebolirlo e privarlo delle forze necessarie a guidare la Chiesa.

Insistono ancora. Vero è che papa Benedetto ha nel suo stemma un orso. Ma non dovrebbe essere vietata nei Paesi civili e in Vaticano la caccia all'orso? Niente da fare. Devono aver concesso ai predatori tedeschi una licenza speciale. E così ieri è stato diffuso un dossier, preannunciato per tempo e amplificato in una solenne conferenza stampa, scritto e presentato da avvocati che si sono auto definiti «commissione indipendente». Hanno appeso, senza alcuna possibilità di difesa, già stecchito e imbalsamato, il trofeo del vecchio pontefice. Una reputazione immacolata è stata ridotta a poltiglia servita con oculata lentezza e trangugiata dai golosi giornalisti come fosse il giudizio di Dio. L'anziano pontefice, 95 anni, inchiodato a una carrozzella, inerme come un bambino, ha provato a diramare una "smentita", in essa nega «rigorosamente ogni responsabilità». L'ha inviata a questa congrega di accusatori. L'avvocato Martin Pusch ha risposto che la posizione di Ratzinger «non è credibile».

Scrive Le Figaro lasciandoci cadere le braccia: «Gli esperti hanno detto di essere convinti che Ratzinger fosse a conoscenza del passato pedofilo di don Peter Hullermann, arrivato in Baviera nel 1980, dove ha continuato ad abusare di bambini per decenni senza essere perseguito». Ecco, gli accusatori «sono convinti» ma che razza di prova è mai questa? Vale di più della parola di un Papa che tra poco dovrà rendere conto a Dio? Del resto questa faccenda è vecchia come il cucco. L'avevano già lanciata i giornali tedeschi nel 2010. Finì lì, davanti all'evidenza della classica calunnia che resta però appesa sulla testa dell'innocente, finché qualcuno alla fine taglia il filo e la fa precipitare su chi ormai non ha chi lo difenda.

Stavolta hanno rifatto l'operazione con un apparato scenico, e una dotazione di numeri e tabelline statistiche, che rendono mediaticamente impossibile evitare la crocifissione di chi viene tirato in ballo, anche se questa sentenza è un orrore morale, una scarnificazione dei diritti umani, un saggio di barbarie anticristiana perpetrata a giudizio di chi scrive da mandanti frequentatori dei Palazzi Apostolici e delle Curie che sono stufi di quella presenza ormai silenziosa ma le parole e gli atti del quale sono incisi nel granito. Tattica antica. Una volta scorticata la credibilità di Benedetto anche i suoi insegnamenti sarebbero marchiati come opera di un protettore di pedofilia. Incredibile questa storia della pedofilia.

Quando nel 2019 ci fu il sinodo dedicato a questo tema, il Papa emerito, avendone informato la Segreteria di Stato e Francesco, pubblicò pagine di "appunti" sul Corriere della Sera. Spiegò con un racconto minuzioso di fatti ed episodi come la pedofilia fosse stata sdoganata nei seminari specie tedeschi dal trionfo ideologico e pratico del 1968, con la liberazione sessuale per cui in amore nulla è vietato. La classica mossa dei rapaci ne accusano come colpevoli l'innocente che li ha denunciati. Fu attaccato allora per la settantasettesima volta. Lui perdona settanta volte sette. Noi, come nei film di Sergio Leone, no, noi no. 

Franca Giansoldati per “Il Messaggero” il 22 gennaio 2022.

«In Vaticano continuano a dire bugie. Mi rincresce ripeterlo ma sono testimone del fatto che l'allora cardinale Ratzinger conosceva benissimo quello che a noi vittime di padre Maciel Marcial Degollado era accaduto già negli anni Novanta. Così come Giovanni Paolo II e i suoi collaboratori a cominciare dall'allora segretario di Stato, cardinale Sodano. Le regole che applicava allora la Chiesa erano di spostare, coprire, insabbiare i pedofili. Delle vittime importava poco.

Nel 1998 ho fatto avere alla Congregazione della Fede, allora guidata proprio da Ratzinger, un pacco di documenti, compreso prove registrate da un notaio. Insomma certificazioni. Le carte pesavano un chilo e mezzo, ancora me lo ricordo, perché per spedirle dal Messico le dovetti pesare. Posso provare quello che dico. E sempre nel 1998 parlammo con l'allora numero 3 della Congregazione implorando l'apertura di processo canonico (che non fu mai aperto)». 

José Barba-Martin parla da Città del Messico, oggi ha 82 anni, è un ex professore che ha insegnato ad Harvard. E' stato un ex seminarista violentato per anni da padre Maciel, potentissimo fondatore dei Legionari di Cristo. «Era il Male assoluto quell'uomo».

Documentare decenni di abusi sessuali e psicologici non è stato facile, né per lui, né per gli altri ex legionari che scoperchiarono la vita criminale del capo di uno degli ordini religiosi più potenti, amico personale di Wojtyla al quale mandava fiumi di denaro per la Polonia. Un violentatore seriale che non risparmiò nemmeno i figli avuti da una donna messicana alla quale fece credere di essere un agente della Cia sotto copertura. In Vaticano ebbe ottime coperture a suon di dollari. 

PRASSI Josè Barba Martin ripercorre gli ultimi fatti mettendo in evidenza che solo nel 2005 il cardinale Ratzinger fece fare una indagine. «C'era un evidente tappo più in alto. Giovanni Paolo II non volle fare nulla. Conservo ancora la ricevuta postale del 2002 relativa ad un plico di documenti consegnati al cardinale Stanislaw Dziwisz, nel Palazzo Apostolico. Altri documenti furono inoltrati dalla nostra avvocatessa. Sentire che l'allora Papa Giovanni Paolo II non ha mai saputo nulla, così come non sapeva nulla Ratzinger di quello che accadeva attorno lo ritengo una offesa assai dolorosa».

Davanti ai casi di pedofilia la Chiesa in passato preferiva guardare altrove calpestando le vittime. Vi è una lettera inviata nel 1982 da un vescovo americano, John Cummins, alla Congregazione della fede, per denunciare un prete della sua diocesi che aveva commesso abusi e che, di conseguenza, andava rimosso. Cummins ricevette una risposta solo tre anni dopo, il 6 novembre 1985. Portava la firma dell'allora Prefetto Ratzinger che lo informava che il tribunale non riteneva di rimuovere il prete nonostante gli argomenti presentati, che si riteneva necessario considerare il bene della Chiesa Universale, che occorreva più tempo per valutare.

La lettera terminava con questa frase: «Nel frattempo l'eccellenza vostra non dovrà mancare di fornire al denunciante la maggior cura paterna possibile e spiegare allo stesso la logica di questo tribunale, che è abituato a procedere tenendo in considerazione il bene comune». La logica era chiara: prima si doveva proteggere l'istituzione. «Le vittime come me erano dei fantasmi».

SANTITÀ Il caso mostruoso di Maciel ciclicamente affiora e ancora oggi è soggetto ad una sorta di cortina fumogena poiché tira in ballo Wojtyla, nel frattempo proclamato santo da Papa Francesco forse troppo in fretta. Maciel fu punito ma in modo molto soft solo da Papa Benedetto XVI nel 2006. Visto che era ottantenne e malato non venne mai dimesso dallo stato clericale. Fu solo invitato a ritirarsi a vita privata e non fare celebrazioni in pubblico.

Nel 2008 è morto in una clinica in Florida circondato da alcuni sacerdoti, dalla seconda moglie Norma e dalla figlia Normita. Il suo curriculum resta spaventosamente nero, una macchia notevole per la Chiesa. «Una sessantina di vittime accertate, tra cui io e gli altri miei compagni con i quali intraprendemmo questa dolorosa operazione verità negli anni Novanta». 

"Ratzinger coprì i pedofili persino in Italia. Non fermò un prete di Savona: ecco le carte". Serena Sartini il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il presidente della Rete L'Abuso: "Basta con le scuse, chiediamo inchieste serie".

L'allora cardinale Joseph Ratzinger avrebbe coperto casi di pedofilia e abusi sessuali commessi da uomini della chiesa anche in Italia. E precisamente a Savona. «Ratzinger non intervenne e proprio nell'anno in cui diventava Papa, uno dei sacerdoti pedofili savonesi a lui denunciati, don Nello Girando stupra un altro adolescente a un campo scout». La denuncia arriva da Francesco Zanardi, vittima di un abuso da parte di un sacerdote e presidente dell'Associazione Rete L'Abuso che raccoglie le testimonianze di decine e decine di vittime. Il documento che pubblichiamo è una lettera inviata dall'allora vescovo di Savona, oggi cardinale Domenico Calcagno - nominato da Ratzinger - che, secondo Zanardi «incastra Ratzinger». «Nessuno, né dalla diocesi di Savona, né dal Vaticano - dice Zanardi - fermò quel prete. Chiese lui stesso la riduzione allo stato laicale, ma 5 anni dopo, nel 2010, trascinando nell'indagine della procura non solo Ratzinger, ma anche chi per anni lo aveva protetto».

Cosa pensa dell'inchiesta in Germania che ha portato alla luce quasi 500 casi? E del possibile coinvolgimento di Ratzinger?

«Non stupisce ciò che è emerso in Germania. Il coinvolgimento di Ratzinger non è una novità. È avvenuto anche in Italia. Non solo a Savona. Ma anche all'istituto Provolo per sordomuti di Verona. In quel caso, la Commissione d'inchiesta nel 2010 fu proprio voluta da Ratzinger. Peccato che su 27 preti indagati, gli unici due condannati erano in fin di vita. Gli altri vennero insabbiati e furono in grado di fare altri danni. Come don Nicola Corradi che nel 2016 verrà indagato e condannato a 42 anni. C'è poi il caso di Erik Zattoni di Ferrara, figlio di un prete pedofilo. Malgrado un esame del Dna che confermava la paternità del prete, Ratzinger non intervenne».

Dopo Francia, Spagna e Germania, quando avremo un'inchiesta sugli abusi anche in Italia?

«La stiamo chiedendo a gran voce da tempo, anche tramite le Nazioni Unite. Stiamo sollecitando un intervento sia al cardinale Bassetti sia allo stato. Purtroppo il Papa da solo non può muoversi. Anche se lui inserisse l'obbligo di denunciare da parte dei vescovi, non c'è un automatismo. E in questo senso credo ci sia una reticenza da parte dei vescovi italiani».

La vostra associazione riceve ogni giorno segnalazioni di casi. Quanti sono quelli in Italia?

«Documentati almeno quattro: oltre a Savona e il Provolo di Verona, abbiamo documenti su Napoli e Ferrara. Ma i casi sono purtroppo tantissimi: ci arrivano segnalazioni ogni giorno. Ratzinger è stato 25 anni a capo della Congregazione per la dottrina della Fede, prima di diventare Papa. È inverosimile pensare che non sia coinvolto ovunque. Nel 2004 fu portato alla sbarra anche negli Usa dall'avvocato Daniel Shea, che assisteva una vittima. Fu accusato di aver insabbiato dei casi, da prefetto dell'ex sant'Uffizio. Si salvò chiedendo l'immunità».

Come mai ieri nemmeno una parola di Bergoglio in difesa del Papa emerito?

«C'è poco da difendere. I dati parlano. Non era il caso di intervenire».

Vi aspettate delle scuse da Ratzinger?

«Lo dico da vittima e da rappresentante dell'associazione: non ci bastano più le scuse. Sono arrivate tante volte. Vogliamo i fatti, i processi, che i preti non siano più difesi. Ci sono 23 comunità, in Italia, dove i preti pedofili sono curati. La chiesa ha avuto questa sensibilità verso i suoi criminali, non mi sembra però tanto pentita con le vittime». Serena Sartini

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 25 gennaio 2022.

Il novantaquattrenne Papa Emerito dal monastero Mater Ecclesiae, sul colle vaticano, osserva con sofferenza la bufera che lo ha investito personalmente sulla pedofilia. Sembra quasi un paradosso: lui che da Papa, durante il periodo di regno, dal 2005 al 2013, ha effettivamente inasprito come nessun altro le leggi canoniche, avviando (finalmente) quel percorso di tolleranza zero auspicato, sbriciolando la prassi consolidata che garantiva coperture agli orchi. 

Regole sistemiche fino a quel momento usate un po' ovunque nelle diocesi. Anche a Monaco. Con l'onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto Joseph Ratzinger ha preso carta e penna e ha affidato al suo segretario una nota ammettendo di essere stato effettivamente presente a una riunione nell'arcivescovado di Monaco, in data 15 gennaio 1980.

All'epoca era arcivescovo e quel giorno veniva discusso il caso di un prete della bassa Renania che aveva molestato dei ragazzini e che dalla diocesi di Essen doveva essere trasferito per seguire le cure di un noto psichiatra bavarese. Inizialmente Ratzinger aveva affermato di non essere stato presente a quella riunione, di non conoscere il caso. 

I fatti in questione sono lontani nel tempo e forse non è nemmeno tanto facile ricostruirli. Ma davanti alle incongruenze che sono emerse dopo la pubblicazione del dossier choc sulla diocesi di Monaco, Ratzinger non ha avuto difficoltà ad ammettere l'errore, correggendo una dichiarazione inviata a suo tempo agli investigatori dello studio Westpfahl Spilker Wastl (WSW) che la settimana scorsa hanno reso noto il rapporto choc, rivelando che nell'arco di 70 anni ci sono stati 497 casi di abusi sul territorio bavarese commessi da ecclesiastici, casi spesso insabbiati e mai denunciati dalle autorità.

L'ammissione del Papa Emerito è contenuta in una lettera pubblicata dal suo segretario privato, monsignor Georg Gaenswein e citata dall'agenzia di stampa cattolica tedesca KNA. Ratzinger ha sostanzialmente affermato che le sue dichiarazioni iniziali erano «oggettivamente errate», che non ha mai parlato in «malafede». Si sarebbe, invece, trattato di un errore, «risultato di un'omissione nella redazione delle sue dichiarazioni». Ha anche aggiunto di essere «dispiaciuto» chiedendo «di essere perdonato».

Il dossier in questione è particolarmente interessante perché offre l'ennesimo spaccato di come sono sempre andate le cose nella Chiesa, a qualsiasi latitudine, Italia compresa. La brutta storia del prete tedesco Peter Hullermann è la seguente: una volta arrivato a Monaco anche nella nuova sede la diocesi lo rimette a contatto con i bambini in una parrocchia causando altre vittime. 

Più che per il Papa Emerito il caso è un macigno per la Chiesa intera poiché mostra le regole che tutti i vescovi seguivano sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Basti pensare che negli anni Novanta l'allora prefetto della Congregazione del Clero, Castrillon Hoyos, inviò una lunga lettera di elogi e stima a un vescovo francese che si era rifiutato di denunciare un pedofilo conclamato e collaborare con le autorità giudiziarie. In linea di massima i casi di abuso si affrontavano trasferendo gli orchi nella speranza che si raddrizzassero, spesso con cure psichiatriche. Raramente venivano espulsi o denunciati come invece doveva essere. Il nodo era sistemico.

Quanto al caso di Monaco, conoscendo le normali dinamiche gestionali all'interno di una diocesi (dove tutto è piramidale e gerarchico), sembra irragionevole pensare che un Vicario Generale abbia potuto stabilire in totale autonomia rispetto al vescovo titolare, l'assegnazione di un pedofilo conclamato e in cura da uno psichiatra ad una parrocchia, senza l'autorizzazione del superiore. 

In un rapporto del 2010 l'allora Vicario Generale monsignor Gerhard Gruber affermò che fu lui personalmente a decidere di inserire il prete abusatore Hullermann in una parrocchia. Sempre in quella occasione Ratzinger dichiarò che «non era presente» alla riunione in cui si decise lo spostamento ma dalle carte che la commissione ha avuto modo di consultare e studiare risultavano incongruenze e da qui la necessità oggi di rettificare. E chiedere scusa. 

L'addio al celibato e l'ombra della scissione. Felice Manti il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.

"Dietro le accuse a Ratzinger di aver sottovalutato quattro casi di pedofilia quando guidava l'arcidiocesi di Monaco c'è la manina di chi nella Chiesa tedesca è fin troppo impaurito di perdere potere e prestigio".

«Dietro le accuse a Ratzinger di aver sottovalutato quattro casi di pedofilia quando guidava l'arcidiocesi di Monaco c'è la manina di chi nella Chiesa tedesca è fin troppo impaurito di perdere potere e prestigio in patria a vantaggio della Chiesa protestante». Il sospetto di una volontà «scissionista» Oltretevere è concreto, come conferma al Giornale un alto prelato che preferisce rimanere anonimo. Da Martin Lutero a oggi Nihil sub sole novi, dice la Bibbia (Ecclesiaste 1,9), nulla di nuovo sotto il Sole. Sono stati (per ora) scongiurati gli assalti ai «valori non negoziabili» come aborto e eutanasia, che - rivelò Il Giornale in esclusiva - al pari della dottrina gender restano «crimini che nessuna legge può pretendere di legittimare», scrisse il 1 ottobre 2021 la Congregazione della Dottrina della Fede a Toni Brandi e Jacopo Coghe di Pro Vita & Famiglia, che sollevavano dubbi sul ddl Zan. In ballo non c'è solo la quasi conclamata volontà dei vescovi tedeschi di aprire alla comunità Lgbtq+. Chi ne ha preso le distanze, come il cardinale Rainer Maria Woelki, ne è uscito con le ossa rotte («da false accuse»). La Chiesa guarda ai gay nell'interpretazione più genuina del passo evangelico in cui Dio dice a Pietro «Pascola le mie pecore». Papa Bonifacio VIII riconosce che tutte gli sono state affidate, non questa o quella. L'obiettivo vero è l'addio al celibato dei preti, considerato dall'ala liberal la soluzione più facile per scongiurare la crisi di vocazioni e al tempo stesso limitare la pedofilia. «Ma i giovani preti di oggi hanno sete di Gesù, non sono ideologizzati come chi negli anni Sessanta si era abbeverato al Vaticano secondo». C'è davvero bisogno di abolire il celibato? Il sacerdote è convinto. «Papa Francesco non lo farà: Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato, disse citando Paolo VI tornando da Panama». Ma chi è che ostacola questo disegno e quindi va infangato? Benedetto XVI. «Basta ricordarsi cosa disse nel libro del cardinale Sarah sul legame sacramentale tra celibato e sacerdozio dopo il Sinodo sull'Amazzonia». Chi ha letto davvero il dossier contro Ratzinger si è accorto che è un bluff, «orchestrato dai modernisti che già spaventavano San Pio X cento anni fa», commenta un osservatore di cose vaticane, che ricorda il libro di padre Jean Baptiste Lemius, quando l'allora Papa parlò di «sacerdoti riformatori» come «i più dannosi tra i nemici della Chiesa». «Ma non praevalebunt, non prevarranno», assicura. Felice Manti

Da Ansa il 26 gennaio 2022.

"Penso ai genitori di fronte ai problemi dei figli", "genitori che vedono orientamenti sessuali diversi nei figli: come gestire questo e accompagnare i figli e non nascondersi in un atteggiamento condannatorio". Lo ha detto il Papa nell'udienza generale.

Papa: genitori non condannino i figli per orientamenti sessuali. (ANSA il 26 Gennaio 2022. ) "Penso ai genitori di fronte ai problemi dei figli", "genitori che vedono orientamenti sessuali diversi nei figli: come gestire questo e accompagnare i figli e non nascondersi in un atteggiamento condannatorio", "mai condannare un figlio". Lo ha detto il Papa nell'udienza generale al termine della quale ha invitato "a pregare per la pace in Ucraina". "Chiediamo con insistenza al Signore che quella terra possa veder fiorire la fraternità e superare ferite, paure e divisioni". "E' un popolo che merita la pace". "Le preghiere e le invocazioni che oggi si levano fino al cielo tocchino le menti e i cuori dei responsabili in terra, perché facciano prevalere il dialogo e il bene di tutti sia anteposto agli interessi di parte. Per favore mai la guerra!".

Domenico Agasso per "la Stampa" il 27 gennaio 2022.

I genitori non condannino i figli omosessuali. È l'appello, il consiglio a gran voce di papa Francesco, che incoraggia madri e padri a non deplorare i propri ragazzi e ragazze. Mai. L'ha chiesto all'udienza generale di ieri nell'Aula Paolo VI in Vaticano. Quella di Bergoglio è una nuova apertura verso la galassia Lgbt che conferma la linea dell'accoglienza del Pontefice argentino, seguita da varie diocesi nel mondo - a cominciare dalla Germania - che si stanno mostrando più sensibili e pronte al coinvolgimento delle persone gay nelle parrocchie, non senza polemiche nei circoli cattolici. Ieri il Vescovo di Roma ha detto di pensare ai genitori che si trovano «davanti ai problemi dei figli. Figli ammalati, anche con malattie permanenti: quanto dolore lì».

E poi, proseguendo nell'elenco delle situazioni che gli stanno a cuore, «genitori che vedono orientamenti sessuali diversi nei figli»: Francesco ha riflettuto su come «gestire questo» e come «accompagnare i figli» senza «nascondersi in un atteggiamento condannatorio». E ancora, papà e mamme «che vedono i figli che se ne vanno, muoiono, per una malattia e anche - ed è più triste - ragazzi che fanno delle ragazzate e finiscono in incidente con la macchina». 

O i genitori dei «figli che non vanno avanti a scuola». E ai padri e madri che soffrono per i propri figli il Papa dice: «Non spaventatevi. Sì, c'è dolore. Tanto», però, ribadisce Francesco, «mai condannare un figlio». Il Pontefice rivela che «provavo tanta tenerezza a Buenos Aires quando in bus passavo davanti al carcere: c'era la coda di persone che dovevano entrare per visitare i carcerati. E c'erano le mamme: davanti a un figlio che ha sbagliato, non lo lasciavano solo».

Le parole di Francesco seguono di pochi giorni il coming out compiuto in terra teutonica da preti, insegnanti di religione, impiegati amministrativi delle diocesi, ma anche medici di istituzioni confessionali e direttori di associazioni giovanili: 125 collaboratori della Chiesa tedesca si sono dichiarati apertamente «queer», ossia non eterosessuali che a livello sessuale non si identificano nella suddivisione tra uomo e donna. Una sorta di «manifesto» veicolato attraverso un sito internet intitolato #OutInChurch in cui si chiede apertamente «la fine delle discriminazioni» nei loro confronti.

Tra le richieste c'è la cancellazione dall'insegnamento della Chiesa di «affermazioni diffamatorie sul genere e la sessualità», e poi l'accesso ai sacramenti così come ai vari ambiti professionali ecclesiastici. Un sostegno agli animatori dell'iniziativa è giunto a sorpresa dall'arcivescovo di Amburgo, monsignor Stefan Hesse, che esprime «rispetto» per l'azione: «Una Chiesa in cui è necessario nascondersi a causa del proprio orientamento sessuale non può esserci nel segno di Cristo».

Nel frattempo l'associazionismo gay italiano - in particolare Arcigay e Gaynet - reagisce all'intervento papale riconoscendo a Bergoglio un approccio più inclusivo rispetto ai precedenti pontificati. Però resta tiepido, parlando di «ambiguità», «paternalismo» e soprattutto non approvando l'accostamento con le persone problematiche, riferendosi ai passaggi del discorso in cui sono messe insieme malattie, ragazzate, detenzione in carcere e omosessualità. 

Papa Francesco: «I genitori non condannino i figli per l’orientamento sessuale». su Il Dubbio il 26 gennaio 2022. In udienza generale, Papa Francesco ha lanciato un messaggio ai genitori sui possibili conflitti con i figli, come un diverso orientamento sessuale.

«Penso ai genitori di fronte ai problemi dei figli», «genitori che vedono orientamenti sessuali diversi nei figli: come gestire questo e accompagnare i figli e non nascondersi in un atteggiamento condannatorio». Lo ha detto Papa Francesco nell’udienza generale.

«Mai condannare un figlio», ha detto il Papa, nell’udienza generale, nella quale ha proseguito le catechesi su San Giuseppe e ha pregato in particolare per i genitori. «Penso ai genitori di fronte ai problemi dei figli», «figli ammalati, anche con malattie permanenti, quanto dolore». «Ai genitori che vedono i figli che se ne vanno per una malattia», «è triste», ai genitori di «ragazzi che fanno delle ragazzate e finiscono in incidenti con la macchina», «genitori che vedono i figli che non vanno avanti nella scuola». Ci sono «tanti problemi dei genitori, pensiamo come aiutarli».

«A questi genitori dico: non spaventarti, c’è dolore, tanto» ma si può pregare, come ha fatto San Giuseppe, e chiedere l’aiuto di Dio. Il Pontefice ha ricordato quando era arcivescovo di Buenos Aires e provava «tanta tenerezza» quando «andavo nel bus e passavo davanti al carcere e c’era la coda delle persone che dovevano entrare per visitare i carcerati e c’erano le mamme lì e mi faceva tanta tenerezza», «la mamma non lo lascia solo». «È il coraggio delle mamme e dei papà che accompagnano i figli sempre». «Chiediamo al Signore che dia questo coraggio», ha concluso il Papa.

Elena Tebano per corriere.it il 25 gennaio 2022.

È il più grande coming out del cattolicesimo: 100 fedeli lesbiche, gay, bisessuali e transgender, tutti attivi come dipendenti o collaboratori nella Chiesa tedesca, hanno fatto coming out in uno straordinario documentario realizzato dal primo canale della tv pubblica tedesca, Ard.

Tra loro ci sono preti, monaci, suore, educatori ed educatrici, insegnanti, dottoresse e infermiere che lavorano per le cliniche cattoliche, referenti della Caritas, impiegati della curia. Chiedono alla Chiesa di cui fanno parte che smetta di escluderli. Rischiano moltissimo, perché possono essere tutti licenziati: l’autonomia garantita dalla Costituzione tedesca permette alla Chiesa di stabilire le sue regole interne.

Tra queste c’è la clausola di lealtà che obbliga i dipendenti della Chiesa cattolica a vivere e comportarsi secondo la sua dottrina. Vivere apertamente la propria omosessualità, stringere un’unione civile o essere transgender vengono considerate altrettante violazioni di quell’obbligo di lealtà (in Italia la legge è diversa: la discriminazione sul lavoro è sempre vietata).

Mai nella storia del cattolicesimo c’era stata una tale sfida alla dottrina della Chiesa sulle persone lgbt, che vede nell’omosessualità (e nella transessualità) una «predisposizione patologica incurabile». 

Tra i cattolici che hanno partecipato al coming out di gruppo c’è il prete gesuita Ralf Klein, che vive nella Foresta Nera ed è parroco di due chiese. Secondo il Vaticano non sarebbe mai dovuto diventare sacerdote: lo è da trent’anni. «Se tu taci, porti al contempo anche gli altri a tacere» dice della sua scelta di fare coming out.

«La scoperta del proprio orientamento sessuale è spesso legata alla sensazione di essere l’unico» aggiunge. Per Klein l’omosessualità non dovrebbe cambiare niente rispetto alla sua vocazione. 

«Se io come prete prometto di non avere relazioni sessuali, la questione se io sia etero o omosessuale diventa irrilevante» spiega. «Io voglio far parte della Chiesa, non permetto che mi si costringa a uscire». 

Non è il primo coming out della sua vita: racconta di averlo fatto anche quando era a Berlino, di fronte a una riunione con circa 200 membri della sua diocesi. La reazione all’epoca lo lasciò senza fiato: «Un enorme applauso. Una madre mi si avvicinò e mi abbracciò» ricorda con le lacrime agli occhi.

Gli autori del documentario, che hanno seguito i fedeli lgbt+ tedeschi per dieci anni, hanno intervistato almeno altri 5 preti, che parlano per la prima volta della loro omosessualità. «L’obbligo di nascondersi ti rende solo» dice Fratello Norbert, un francescano, ora che finalmente non deve più osservarlo. Le loro parole riecheggiano quelle del monsignore e teologo vaticano Krzysztof Charamsa quando nel 2015 fece coming out sul Corriere: «Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità. Sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana» disse Charamsa allora.

«Naturalmente mi può essere revocata la missio canonica e dunque anche l’autorizzazione a insegnare la religione cattolica. Ciononostante penso che sia importante far vedere il proprio volto, far sentire la propria voce e dire che ci siamo, che ci sono» dice Lisa Reckling, insegnante di religione cattolica di Goch. 

«Ogni giorno c’è il pericolo che qualcuno segnali che vivo in una relazione “irregolare” con un uomo. E che le autorità ecclesiastiche lo verifichino» dice Maik Schmiedeler, insegnante di religione di Münster, che da oggi non deve aver più paura di una «delazione» perché ha scelto di dichiararsi in tv, in nome di quella coerenza tra pensiero e azioni che è uno dei tratti più forti del carattere tedesco.

Anche Theo Schenkel, un ragazzo trans del Baden Wüttenberg, rischia di non poter insegnare religione. Ha iniziato la sua transizione nel 2020, mentre studiava per diventare docente. Ora sta facendo il tirocinio, perché a garantirlo è lo Stato (nelle scuole tedesche ci sono insegnanti di confessioni diverse), ma per avere l’abilitazione deve essere autorizzato dalla Chiesa cattolica, per cui è ancora una donna. Non succederà. 

Chi ha perso l’impiego è Carla Bielieng, per 13 anni referente per i giovani cattolici in Saarland: le è stato detto dai responsabili per il personale della sua diocesi che avendo stretto un’unione civile con la compagna non poteva più lavorare per la Chiesa, ma che se l’avesse sciolta avrebbe potuto mantenere il contratto di lavoro. Quando glielo hanno proposto era incinta: lei e la moglie aspettavano il loro secondo figlio. Mancavano 14 giorni all’entrata in vigore del divieto di licenziamento per le donne in gravidanza.

Poi ci sono Monika Schmelter e Marie Kortenbusch, due ex suore che si sono conosciute e innamorate in convento: stanno insieme da 40 anni. Hanno lasciato l’ordine ma continuato a lavorare per la Chiesa e hanno dovuto nascondersi per una vita intera: «Abbiamo fatto in modo di lavorare molto lontano da dove abitavamo: facevo 130 km al giorno andata e ritorno» racconta Monika. «La mia vita lavorativa è stata condizionata dal fatto che dovevo sempre controllarmi. E questo rende la vita, anche la vita lavorativa, un peso enorme» aggiunge.

Molte delle persone intervistate fanno il loro coming out con le lacrime agli occhi: sono lacrime di commozione, per la «paura» che hanno dovuto superare, e la consapevolezza che il rischio che corrono è necessario se vogliono cambiare un’istituzione che amano e di cui si sentono parte. Ma anche di sollievo, perché non doversi più nascondere è «una libertà». 

Le parole più dirompenti del documentario, però, sono quelle del vescovo di Aquisgrana, Helmut Dieser, l’unico dei 27 vescovi cattolici della Germania che ha accettato di farsi intervistare (e anche uno dei più trasparenti nella lotta alla pedofilia nella Chiesa tedesca). Dieser dice che la richiesta di cambiare il diritto canonico per permettere a gay, lesbiche, bisessuali e transgender di lavorare per la Chiesa è «giustificata».

Che lui è stato il primo a cambiare il suo atteggiamento: prima «accettava gay» e lesbiche, ma pensava che avessero «qualche forma di minorità, di mancanza». Ora ha fatto «un passo più in là», dice: «l’omosessualità è un orientamento di base che appartiene agli esseri umani». Il vescovo Dieser, infine chiede scusa: «Mi scuso a nome della Chiesa per le persone che sono state ferite o non comprese nei loro incontri pastorali — scandisce —. Mi scuso perché la Chiesa non era pronta». 

La sua presa di posizione non è l’unica apertura nella Chiesa su questi temi: il mese scorso Papa Francesco ha scritto a suor Suor Jeannine Gramick, 79 anni , da cinquant’anni si occupa negli Stati Uniti delle persone lgbt+ e l’ha ringraziata personalmente per il suo impegno.

“Basta con il silenzio”. La svolta di Benedetto dettata dal clero tedesco. Paolo Rodari su La Repubblica l'8 febbraio 2022.  

Pressioni del cardinale Marx per un testo di scuse circostanziate. Ma i teologi vicini all’ex pontefice hanno edulcorato il testo finale deludendo molti. La richiesta del cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e consigliere del Papa sui temi economici, rivolta a Benedetto XVI affinché si decidesse a scuse esplicite in merito agli errori commessi quando era arcivescovo in Baviera sono state ascoltate nei giorni scorsi al Mater Ecclesiae, la dimora di Joseph Ratzinger nei giardini vaticani da quando nel 2013 ha rinunciato definitivamente al soglio di Pietro.

Benedetto XVI confessa le colpe della chiesa, ma smonta le accuse contro di lui. MARCO GRIECO su Il Domani l'8 Febbraio 2022.

È una difesa, ma anche un testamento, la lettera di papa Benedetto XVI pubblicata a tre settimane dalla divulgazione del dossier accusatorio relativo agli abusi pedofili nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga.

Malgrado l’ammissione di una svista nella deposizione su una riunione avvenuta nel 1980 a proposito di un prete pedofilo, i quattro difensori canonici di Ratzinger smontano le accuse mossegli dal pool di legali che ha redatto il rapporto sugli abusi.

Durante il suo pontificato, Benedetto XVI si è sempre messo in ascolto delle vittime, come dimostra il forte messaggio inviato nel 2010 ai cattolici d’Iralnda, tramortiti dalla rivelazione pubblica dei primi abusi.

MARCO GRIECO. Giornalista freelance, ha scritto per l'Osservatore Romano e per il quotidiano digitale In Terris.

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 9 febbraio 2022.

La lettera di Benedetto XVI sembra un testamento spirituale, è così?

«È giusto, sono d’accordo. È l’immagine del suo pensiero, dei suoi sentimenti, della sua sincerità morale e intellettuale. Mentre la scriveva, pensava alle vittime degli abusi. E di fronte a sé, davanti ai suoi occhi, aveva Dio stesso. Vede, un uomo può ingannare le altre persone, ma non si può ingannare Dio».

L’arcivescovo Georg Gänswein, segretario personale di Joseph Ratzinger, parla nel monastero Mater Ecclesiae, dove ha seguito e vive con il Papa emerito dopo la rinuncia al Pontificato del 2013. Proprio in questi giorni è uscito un suo libro, «Testimoniare la Verità. Come la Chiesa rinnova il mondo» (Edizioni Ares), un’antologia di 21 scritti che inevitabilmente riguarda in modo essenziale anche il pensiero e la personalità di Ratzinger. 

«Ci sono stati momenti caratterizzati da un insieme di incomprensione e aggressione, che si addensava sopra di lui ed era volta a indebolire, distruggere la persona di Benedetto XVI», ricorda in un passaggio. «Era uscito in Germania due anni fa. La nuova edizione in Italia era prevista l’anno scorso, poi ha tardato. E sì, forse c’è qualcosa di provvidenziale che sia pubblicato proprio ora, in questi giorni così burrascosi dal punto di vista mediatico...».

Eccellenza, nel libro scrive: «Qualche volta una vicenda o l’altra è stata dolorosa e l’ha fatto soffrire. Soprattutto quando ci si doveva chiedere: ma qual è la ragione per questa osservazione così feroce? È chiaro che ciò era umanamente doloroso. Però, sapeva anche con assoluta certezza che il criterio non è il plauso, ma l’intrinseca correttezza, il criterio è il Vangelo stesso». È quello che sta accadendo anche in questi giorni?

«È proprio così. Io non sono certo un profeta, ma c’è qualcosa di profetico in tutto questo, anche se me lo sarei risparmiato e avrei preferito che così non fosse». 

Benedetto XVI ha quasi 95 anni: come sta?

«Fisicamente è un uomo molto debole, come è naturale alla sua età. Noi viviamo con lui, preghiamo con lui, fra poco reciteremo come ogni giorno il rosario e i Vespri. E la debolezza fisica non toglie nulla alla sua presenza spirituale e intellettuale». 

Nel libro scrive: «La Verità è il grande tema nella vita di Benedetto».

«Chi lo conosce sa che l’accusa di aver mentito è assurda. Si deve distinguere tra commettere un errore e mentire. Sull’Osservatore Romano, il cardinale Fernando Filoni ha scritto della “sua profonda e altissima onestà morale e intellettuale” e spiegato che “mai ho trovato in lui alcuna ombra o tentativo di nascondere o minimizzare alcunché”. Benedetto XVI ha letto l’articolo, che non è stato sollecitato o chiesto. Ma le cose stanno proprio così. 

Chi gli è stato vicino sa bene che cosa ha detto e ha fatto Joseph Ratzinger-Benedetto XVI riguardo a tutta la questione della pedofilia. È stato il primo ad agire da cardinale e poi ha continuato la linea di trasparenza da Papa. Già durante il Pontificato di Giovanni Paolo II ha cambiato la mentalità corrente e impostato la linea che papa Francesco sta proseguendo. Questa è la realtà ed è molto diversa da quella che circola in molti mass media». 

Qual è il filo conduttore del libro?

«L’editore tedesco mi aveva chiesto, non io, di pubblicare dei miei scritti, non c’era un disegno preciso. Però, certo, se si deve cercare un filo, è nello studio e nella riflessione del pensiero di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Già negli ultimi anni da liceale e poi da seminarista, avevo letto l’Introduzione al cristianesimo. E quel filo conduttore teologico è rimasto e si è arricchito: fin dal ‘96, quando mi chiamò alla Congregazione per la Dottrina della fede, mi sono nutrito e mi sto nutrendo alla sua teologia, è ovvio che mi abbia permeato il cuore e la mente, come la pioggia». 

Lei come si spiega gli attacchi di queste settimane?

«C’è una corrente che vuole proprio distruggerne la persona e l’operato. Non ha mai amato la sua persona, la sua teologia, il suo Pontificato. E adesso c’è un’occasione ideale di fare i conti, come la ricerca di una damnatio memoriae. Molti purtroppo si lasciano ingannare da questo attacco vile, c’è tanto fango. Una cosa triste». 

Ci furono polemiche anche contro di lei, perché una volta parlò di ministero petrino «allargato»...

«La polemica si riferisce alla mia presentazione del libro di Roberto Regoli sul Pontificato di Benedetto XVI alla Gregoriana, nel 2016. Alcune mie osservazioni sono state interpretate in modo erroneo. Ho chiarito subito. Purtroppo ci sono persone che volevano, anzi vogliono strumentalizzare le mie parole per seminare zizzania fra papa Francesco e il suo predecessore. Basta prendere atto del mio chiarimento e si capisce o non si vuole capire... Per evitare qualsiasi fraintendimento, ho tolto quelle frasi dalle pubblicazioni successive». 

Hanno contestato a Ratzinger di «non essere credibile» per aver risposto di non essere stato presente alla riunione del 1980.

«L’analisi dei fatti, insieme con la lettera, dà una risposta chiarissima: sì, c’è una piccola squadra di persone qualificate che aiuta Benedetto, c’è stato questo errore e purtroppo nessuno di noi se ne è reso conto. Si è trattato chiaramente di un errore redazionale, non intenzionale, Benedetto ne era molto dispiaciuto. Ma resta il fatto che un errore e una bugia sono due realtà diverse. E la sostanza non cambia. Gli stessi autori del rapporto hanno risposto che non ci sono “prove”. Non possono esserci». 

E ora?

«Benedetto XVI spera che si legga la lettera con quella sincerità di intelletto e di cuore con la quale è stata scritta, lo sguardo rivolto al Signore».

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 9 febbraio 2022. 

«Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito)». 

Suona come un testamento spirituale, la lettera che Benedetto XVI ha scritto in risposta alle contestazioni che gli sono state rivolte nel rapporto sugli abusi sui minori a Monaco, l’accusa di «comportamenti erronei» per non aver agito in «quattro casi» quando guidava, dal 1977 all’inizio del 1982, la diocesi bavarese. 

«In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte», scrive il Papa merito. Alle contestazioni risponde, punto per punto, una «analisi dei fatti» affidata a quattro collaboratori, esperti di Diritto canonico.

Ma Benedetto XVI va oltre . E la sua lettera, meditata «in questi giorni di esame di coscienza» e destinata a diventare un documento storico, diventa una «confessione» pubblica fino ad assumere su di sé «la grandissima colpa» della Chiesa. Il Papa emerito ricorda i suoi incontri con le vittime di abusi commessi da preti: «Ho imparato a capire che noi stessi veniamo trascinati in questa grandissima colpa quando la trascuriamo o quando non l’affrontiamo con la necessaria decisione e responsabilità, come troppo spesso è accaduto e accade».

E scrive: «Come in quegli incontri, ancora una volta posso solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono. Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi. Ogni singolo caso di abuso sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime degli abusi sessuali va la mia profonda compassione e mi rammarico per ogni singolo caso». E certo colpisce leggere un pontefice emerito di quasi 95 anni che riflette sull’espressione «grandissima colpa», come i fedeli la confessano all’inizio della Messa, e osserva: «Ogni giorno mi domanda se anche oggi io non debba parlare di grandissima colpa. E mi dice in modo consolante che per quanto grande possa essere oggi la mia colpa, il Signore mi perdona, se con sincerità mi lascio scrutare da Lui e sono realmente disposto al cambiamento di me stesso».

Lo stesso Ratzinger, d’altra parte, si dice «profondamente colpito» che una «svista» dei collaboratori nella memoria difensiva «sia stata utilizzata per dubitare della mia veridicità, e addirittura per presentarmi come bugiardo». Questo no. Tra i casi contestati, c’era quello di un sacerdote, Peter Hullermann, oggi 74 anni, che tra il 1973 e il 1996 ha abusato di almeno 23 ragazzi dagli 8 ai 16 anni. Nel 1980 Hullermann fu inviato da dalla diocesi di Essen a Monaco con una diagnosi di «disturbo narcisistico di base con pedofilia ed esibizionismo» per seguire una psicoterapia, ma finì a lavorare come assistente in una parrocchia.

I legali che hanno redatto il rapporto di Monaco lo hanno citato come esempio della scarsa credibilità della difesa di Ratzinger: «Ha negato di essere stato presente alla riunione del 15 gennaio 1980 che decise il trasferimento, dal protocollo risulta non fosse assente». E in effetti, dopo la pubblicazione del rapporto, dal Monastero Mater Ecclesiae dove vive il Papa emerito si era ammesso «l’errore» che «non è stato intenzionalmente voluto e spero sia scusabile», scrive lo stesso Ratzinger. 

Ma questo, scrivono i suoi collaboratori, non cambia l’essenziale: «Joseph Ratzinger, al contrario di quanto da lui sostenuto nella memoria redatta in risposta ai periti, era presente alla riunione dell’Ordinariato del 15 gennaio 1980 nella quale si parlò del sacerdote X. Si sostiene che il cardinale Ratzinger avrebbe impiegato questo sacerdote nell’attività pastorale, pur essendo a conoscenza degli abusi da lui commessi, e con ciò avrebbe coperto i suoi abusi sessuali».

Ma questo non è vero, scrivono: «Joseph Ratzinger non era a conoscenza né del fatto che il sacerdote X fosse un abusatore, né che fosse inserito nell’attività pastorale. Gli atti mostrano che nella riunione dell’Ordinariato del 15 gennaio 1980 non si decise l’impiego del sacerdote X per un’attività pastorale. Gli atti mostrano anche che nella riunione in questione non si trattò del fatto che il sacerdote aveva commesso abusi sessuali. Si trattò esclusivamente della sistemazione del giovane sacerdote X a Monaco di Baviera, perché lì doveva sottoporsi a una terapia. Si corrispose a questa richiesta. Durante la riunione non venne menzionato il motivo della terapia. Nella riunione non venne perciò deciso di impiegare l’abusatore in alcuna attività pastorale».

Paolo Rodari per “la Repubblica” il 9 febbraio 2022.

La richiesta del cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e consigliere del Papa sui temi economici, rivolta a Benedetto XVI affinché si decidesse a scuse esplicite in merito agli errori commessi quando era arcivescovo in Baviera sono state ascoltate nei giorni scorsi al Mater Ecclesiae, la dimora di Joseph Ratzinger nei giardini vaticani da quando nel 2013 ha rinunciato definitivamente al soglio di Pietro.

La sua lettera di perdono diramata ieri dalla Santa Sede, infatti, è figlia anche della pressione di Marx e insieme del mondo ecclesiale tedesco e della stampa internazionale. Ratzinger fatica a parlare, a novantaquattro anni porta sul proprio corpo i segni indelebili della vecchiaia che avanza, ma è lucido e comprende ogni cosa. 

Le sue parole, lette in video dal suo segretario e primo consigliere Georg Gänswein, segnano un primo cambiamento di rotta dopo la decisione di qualche settimana fa seguita alla pubblicazione del report esterno alla diocesi di Monaco di rimandare al mittente tutte le accuse. Adesso il Papa emerito e il suo entourage si sono resi conto che un atteggiamento auto-assolutorio non può più reggere.

E agiscono di conseguenza. Per questo, fra l'altro, in via ufficiale è il Vaticano stesso a riconoscere l'importanza dell'uscita. Lo fa Andrea Tornielli con un editoriale su Vatican News nel quale spiega che le parole di Benedetto sono quelle «di un "umile lavoratore nella vigna del Signore" che chiede sinceramente perdono senza sfuggire alla concretezza dei problemi e invita tutta la Chiesa a sentire come propria la ferita sanguinante degli abusi». 

E lo fa il suo ex portavoce, il gesuita padre Federico Lombardi, che commenta come in Ratzinger «il servizio della verità è stato sempre al primo posto. Egli - dice - non ha mai cercato di nascondere quello che poteva essere doloroso riconoscere per la Chiesa; non ha mai cercato di dare una bella immagine falsa della realtà della Chiesa o di quello che avviene. Quindi io ritengo assolutamente che non si possa dubitare in nessun modo della sua veridicità ». La lettera di ieri è un primo passo importante, dunque.

Di fronte al quale, tuttavia, ancora non tutti sono soddisfatti. Come spiega Hans Zollner, teologo e psicologo tedesco, professore presso la Pontificia Università Gregoriana, preside dell'Istituto di Antropologia e uno dei maggiori esperti mondiali nel campo della salvaguardia e della prevenzione degli abusi sessuali, prima di tutto «andrebbe chiesto alle vittime se della lettera di Ratzinger sono contente oppure no». 

Dice: «Non sono il giudice del Papa emerito, ma colpisce che abbia ringraziato prima gli amici e solo dopo le vittime. E che, in una visione più teologica che altro, non ammetta nessuna responsabilità personale e non entri nel dettaglio delle accuse che il rapporto tedesco gli muove in modo particolareggiato».

In sostanza, la scelta di Benedetto XVI di redigere un testo spiritualizzante, in un quadro escatologico sulle soglie dell'ultimo miglio della sua lunga e intensa esistenza, non ha colpito positivamente quel mondo tedesco che chiedeva sì delle scuse ma ben circostanziate, punto per punto. 

Se da una parte Marx ha portato il Papa emerito a uscire allo scoperto con una dichiarazione pubblica, probabilmente coloro che gli sono più vicini, fra questi anche i teologi tedeschi esperti di diritto canonico che hanno redatto per lui una difesa a beneficio degli avvocati bavaresi, l'hanno invece convinto a rimanere sul generale, a trattare il tema dall'alto senza entrare nel merito.

Un approccio che sembra essere ancora figlio di una reticenza mista a impreparazione che ha caratterizzato le vicende ecclesiali in merito ai casi di abusi per tutto il Novecento e oltre, fino al pontificato di Giovanni Paolo II compreso nel quale lo stesso Ratzinger ha giocato un ruolo di primo piano come prefetto dell'ex Sant' Uffizio. Benedetto XVI va oggi per i novantacinque anni. Riceve ancora diverse persone, presuli che gli sono più amici. La strategia difensiva che ha adottato è figlia anche dell'influenza che subisce da queste persone.

 Recentemente, ad esempio, è stato il cardinale conservatore tedesco Gerhard Müller a dire che «contro Benedetto» è in atto «una campagna di "character assassination" ». E ancora: «Non sono proprio quelli che lo beffavano all'epoca come un panzerkardinal che ora criticano invece la sua mancanza di durezza nei confronti dei criminali, sebbene questi casi non forniscano prove, nemmeno deboli, di cattiva e negligente condotta?»

Da liberoquotidiano.it il 9 febbraio 2022.

Dopo la lunga lettera di scuse di Joseph Ratzinger, il tema "abusi sessuali" in Vaticano arriva fino a Fuori dal Coro. 

A raccontare unico scandalo tenuto segreto ci pensa una suora abusata a lungo da un prete. "Mi chiedeva di urinare su di lui, il prete mi diceva che ero un dono di Dio e che gli servivo per sfogare le sue pulsioni sessuali - spiega davanti alle telecamere di Mario Giordano su Rete 4 -. Vorrei solo che questo orrore finisse".

L'uomo infatti è libero e ancora prete, mentre la suora ammette senza mezzi termini che "dopo tutto quello che ha subito, gli abusi e le violenze, questo posto non mi rappresenta più". 

Un amaro sfogo che sembra riferirsi alla Chiesa e al mondo cattolico. Ma la suora non è l'unica a raccontare la più terrificante delle esperienze.

Come lei c'è una cittadina spagnola, il cui calvario ha avuto inizio all'età di otto anni, quando è stata ricoverata in un ospedale religioso. "Il prete che diceva la messa era l'unico affettuoso con noi, mentre ci raccontava delle storielle ci incominciava ad accarezzare le gambe. Poi - prosegue - arrivava ai genitali, era come una lama che ti stava tagliando". 

Il papa emerito affida una lettera alla Chiesa. Il commiato di Ratzinger: “Chiedo perdono per gli abusi, ma non ho colpa”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

Abusi contro i minori? Grandissima colpa, scrive Joseph Ratzinger, Papa emerito. Abusi nella diocesi di Monaco da parte di quattro sacerdoti negli anni Ottanta in cui era arcivescovo? Profonda vergogna, grande dolore e richiesta di perdono. Le espressioni del Papa emerito sono contenute in una lettera pubblicata ieri e seguita da una documentazione firmata da alcuni esperti, per dimostrare che a suo tempo Benedetto XVI (cioè l’arcivescovo di Monaco Joseph Ratzinger) ha fatto tutto quel che poteva e dei casi oggi pubblici, dopo il rapporto diffuso tre settimane fa, lui all’epoca non conosceva i dettagli.

La questione di cui si dibatte è stata avviata dal Rapporto pubblicato il 20 gennaio sulla pedofilia del clero a Monaco, secondo cui tra il 1945 e il 2019 ci sono 497 minori vittime e coinvolgono 235 persone: 173 preti, 9 diaconi, 5 referenti pastorali e 48 addetti dell’ambito scolastico. Secondo il rapporto in 4 casi ci furono errori da parte del Papa emerito Joseph Ratzinger nei cinque anni in cui è stato arcivescovo; soprattutto fa discutere la vicenda di un sacerdote trattata in una riunione avvenuta nel 1980. Immediatamente il Papa emerito aveva smentito ogni coinvolgimento e il Rapporto allegava una dettagliata ricostruzione. In seguito è emerso che il Papa emerito era presente alla riunione alla quale sembrava non dovesse esserci, e il dettaglio, non da poco, ha avviato molte illazioni.

Adesso con la lettera pubblicata ieri e con le successive tre pagine di un gruppo di esperti di diritto, si ribadisce punto per punto l’estraneità di papa Ratzinger. Quest’ultimo scrive che gli abusi sono una “grandissima colpa” per chi li commette e anche per chi non li affronta. Negli incontri con le vittime, avuti nel corso dei viaggi da Pontefice, «ho guardato negli occhi le conseguenze di una grandissima colpa e ho imparato a capire che noi stessi veniamo trascinati in questa grandissima colpa quando la trascuriamo o quando non l’affrontiamo con la necessaria decisione e responsabilità, come troppo spesso è accaduto e accade». «Come in quegli incontri, ancora una volta posso solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono. Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi.

Ogni singolo caso di abuso sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime degli abusi sessuali va la mia profonda compassione e mi rammarico per ogni singolo caso». Nella parte finale del documento Ratzinger cambia tono e in maniera più confidenziale e intima parla della morte che sente avvicinarsi (è nato nell’aprile 1927). «Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico». «In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte», confida Joseph Ratzinger.

Il documento, reso noto ieri dalla Sala Stampa della Santa Sede, dimostra una volta di più come la questione degli abusi sia diventata, negli anni, il segno di una crisi profonda che attraversa tutta la Chiesa. Dire, come hanno fatto alcuni commentatori, che la sensibilità di allora – la seconda metà del Novecento – era ben diversa dallo sguardo intransigente e scandalizzato di oggi, non ha portato ancora a mettere la parola fine. E non hanno sortito gli effetti sperati neanche i duri provvedimenti presi da papa Francesco, il primo a rimuovere due cardinali e vescovi colpevoli di aver coperto tanti abusatori.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Ratzinger, la mossa gigantesca: cosa ci sta dicendo realmente, perché cita "papa Francesco". Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 09 febbraio 2022.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Fino a un paio di settimane fa, chi digitava su Google “Benedetto XVI” si vedeva spuntare il sottotitolo “Papa emerito”. Da qualche giorno invece, “qualcuno” ha chiesto a Google di modificare quella dicitura in “EX PAPA”. Controllate voi stessi. Come mai proprio adesso? Sono quelle cose che fanno tenerezza: i bergogliani pensano che non se ne accorga nessuno.

Goffaggini disastrose, insomma, un po’ come quando Vatican News cita il nome del fotografo di Bergoglio che lo incrocia CASUALMENTE all’uscita dal negozio di dischi e gli scatta una foto QUI; oppure, come quando spacciano per una “diretta” il collegamento con Fabio Fazio ampiamente preparato ore, o forse giorni prima, come si vede – divina ironia– dall’orologio dello stesso Bergoglio QUI.

Attenzione: “Dio si nasconde nei dettagli”, diceva van der Rohe.

Fanno però altrettanta tenerezza quei titoli di giornale di ieri e oggi del tipo “Ratzinger confessa le sue colpe!”, “Ratzinger ammette tutto!” e così via, con dei toni che Maramaldo, in confronto, sembra Lancillotto. Amici e colleghi: fate un attimo mente locale.

Infatti, con la lettera pubblicata ieri, Benedetto XVI ha compiuto una mossa gigantesca: non solo ha chiarito un’imperfezione nel memoriale di difesa messo a punto dai suoi legali, prendendo in contropiede i suoi accusatori, ma si è fatto carico di tutto il male degli abusi nella Chiesa, così come Gesù Cristo si è fatto carico di tutti i mali del mondo.

Leggendo quella lettera si rimane senza fiato. Da una parte, lui non ammette un bel niente a livello di responsabilità personale, anzi, non si spiega come qualcuno possa solo pensare di dargli del bugiardo.

(Peraltro, non si capisce in base a quale legge fisica il prelato che più si è battuto contro la pedofilia nella Chiesa, pur contrastato dalle solite lobby, avrebbe dovuto “coprire un pedofilo”. E’ come pensare che Falcone possa aver volontariamente favorito un mafioso, no? Che senso ha? Ma tanto, qui la Logica è andata in vacanza).

Dall’altro lato, Benedetto XVI si assume, con un coraggio indomito, a 94 anni (!), ogni responsabilità, ma come PAPA, rappresentante di tutto il clero: “In tutti i miei incontri, soprattutto durante i tanti Viaggi apostolici, con le vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, ho guardato negli occhi le conseguenze di una grandissima colpa e ho imparato a capire che noi stessi veniamo trascinati in questa grandissima colpa quando la trascuriamo o quando non l’affrontiamo con la necessaria decisione e responsabilità, come troppo spesso è accaduto e accade”.

Benedetto è, poi, profondamente addolorato per quanto si è verificato NEL TEMPO DEL SUO MANDATO, che non specifica affatto essere finito, anche se parla - al passato - di sue grandi responsabilità nel governo della Chiesa: infatti egli non governa più perché, da otto anni, ha effettivamente rinunciato al suo ministero-ministerium, cioè all’esercizio del potere, essendosi ritirato in sede impedita.

Assolutamente fantastica poi la seguente frase: “Sono particolarmente grato per la fiducia, l’appoggio e la preghiera che Papa Francesco mi ha espresso personalmente”.

Evidentemente Bergoglio gli avrà mandato un biglietto, o gli avrà fatto una telefonata, e papa Benedetto lo ringrazia per questo gesto, sottolineando l’assoluta verità, cioè che questo è stato fatto SOLO A LIVELLO PERSONALE e quindi NON PUBBLICO, come sarebbe stato doveroso.

Perfino i giornali bergogliani si sono scandalizzati, in questi giorni, del fatto che Bergoglio non abbia speso UNA SOLA PAROLA per difenderlo davanti al mondo.

Lo aveva fatto però alcuni anni fa, in tempi non sospetti, come vedete in questo video QUI, dove Bergoglio stesso difendeva Benedetto sull’affare del presbitero abusatore Marcial Maciel, dicendo che il card. Ratzinger aveva fatto tutto quello che aveva potuto, lottando contro le resistenze interne al clero stesso e alla fine, piano piano era riuscito ad arrivare a scomunicare Maciel. Bergoglio poteva concedersi questo beau geste alcuni anni fa, quando non si era scoperta la sede impedita. Oggi non può permetterselo più perché tutto è venuto fuori e Ratzinger deve essere distrutto a livello di immagine dato che, a livello canonico, non si può fare niente per risolvere la situazione.

Anzi! A tal proposito è importante notare come all’università di Bologna stiano lavorando alacremente per sistemare la giurisprudenza proprio fra “PAPA EMERITO” e “PAPA IMPEDITO”. Giusto giusto eh? Leggete l’agenzia QUI.

I canonisti hanno capito benissimo che Benedetto è il papa impedito, ma la cosa comica è che stanno tentando di mettere una pezza giuridica a posteriori: se Benedetto è impedito, È ANCORA LUI IL PAPA, ergo Bergoglio non potrebbe mai e poi mai approvare un nuovo diritto canonico perché non ne ha alcuna autorità.  A Bologna stanno, quindi, facendo i classici “conti senza l’oste”.

Qualcuno sarà poi rimasto turbato dal fatto che Benedetto ha citato Bergoglio chiamandolo “Papa Francesco”. Facciamo chiarezza: questo è già avvenuto altre volte, ma è del tutto ininfluente, perché, come noto, il titolo di papa è usato anche dal  Papa e Patriarca di Alessandria e tutta l'Africa, - l’attuale Papa Teodoro II, che è copto-ortodosso. Così Benedetto potrebbe anche ringraziare “papa Teodoro” se questi gli mandasse gli auguri per Natale, pur essendo Teodoro né romano, né cattolico.

Ecco perché l’unica frase da parte di Ratzinger  che i media bergogliani anelano da otto anni QUI è quella definitiva: “IL PAPA E’ UNO (cioè quello romano) ED E’ FRANCESCO”. E Benedetto, invece, da otto anni ribadIsce solo che “il papa è uno” senza specificare quale.

Ma per capire la cordialità e l’amicizia che Benedetto XVI riserva a Bergoglio, dobbiamo innanzitutto ricordare che Gesù raccomanda di amare i propri nemici, e Benedetto, che è il suo unico Vicario in terra, non può esimersi da questo. Ma soprattutto, bisogna approfondire il concetto di “ministero allargato” già espresso da Mons. Gaenswein nel 2016: il papa legittimo è UNO, ma ci sono DUE successori di san Pietro viventi e si vedono due papi in Vaticano. Ergo, uno è legittimo e l’altro no. Leggete QUI. Infatti, Mons. Gaenswein non ha MAI DETTO che SBAGLIA chi parla di un papa legittimo e di uno illegittimo.

Il papa illegittimo è funzionale (sebbene suo malgrado) a un disegno escatologico di Verità. Quando sarà ufficializzata la sede impedita, ci sarà uno scisma purificatorio che è stato da Benedetto auspicato con la frase “separare i credenti dai non credenti” (cfr. intervista all’Herder Korrespondenz di questa estate). In tal modo trionferà la Verità di Cristo con una Chiesa cattolica purificata dal modernismo e dall’eresia e per questo il papa illegittimo Francesco è un inconsapevole cooperatore della Verità.

Molto interessante, infine, la foto di Benedetto XVI fatta circolare, da ieri, sui social che riproponiamo in testata: per la prima volta, si vede il papa emerito (da emereo, colui che “merita” di essere papa) indossare una casula rossa, simbolo del martirio. Infatti, qualche giorno fa, si sono celebrate le messe per i martiri giapponesi. Egli stesso cita, nella lettera, il fatto di stare vivendo “lo stesso ribrezzo e paura di Cristo sul Monte degli Ulivi”, (torna in mente il motto che gli è stato assegnato dalla cosiddetta Profezia di San Malachia: “de gloria olivae”) mentre “i suoi discepoli DORMONO”.

Ma attenzione: il rosso non è simbolo solo del martirio, ma anche della REGALITA' DI PONTEFICE: viene dalla porpora degli imperatori romani e fino a San Pio V almeno è stato il colore caratteristico dei papi.

Preoccupa quella certezza di papa Benedetto di trovarsi presto davanti al Giudice ultimo: chi lo circonda farà bene a vegliare ancora più attentamente su di lui.  

Il coraggio di Benedetto. Padre Enzo Fortunato il 9 Febbraio 2022 su La Stampa.

Benedetto XVI con una lettera chiede ancora perdono per gli abusi accaduti nell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga. Il Papa emerito esprime profonda compassione per ogni singolo caso ed è esplicito nella sua presa di posizione: «In tutti i miei incontri, soprattutto durante i tanti Viaggi apostolici, con le vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, ho guardato negli occhi le conseguenze di una grandissima colpa e ho imparato a capire che noi stessi veniamo trascinati in questa grandissima colpa quando la trascuriamo o quando non l’affrontiamo con la necessaria decisione e responsabilità, come troppo spesso è accaduto e accade». Ratzinger ricorda il momento nel quale Cristo sul Monte degli Ulivi comprese ciò che di terribile avrebbe dovuto vivere. «Che in quel momento i discepoli dormissero rappresenta purtroppo la situazione che anche oggi si verifica di nuovo e per la quale anche io mi sento interpellato». Benedetto e la Chiesa tutta chiedono perdono per non aver vegliato e per aver permesso che il dolore di quegli abusi, troppe volte, passasse inosservato. Esistono alcune colpe che sono «grandissime». Limpidissimo quindi. Già in una via Crucis del 25 marzo 2005 parlò di «sporcizia nella Chiesa» e di una Chiesa che «ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti». Affermazioni che di fatto crearono sconcerto e stupore. E aprirono la strada ad una profonda e dolorosa verifica interna alla chiesa. Senza se e senza ma. È impossibile ripercorrere le volte in cui Benedetto XVI si è scagliato contro il «male spirituale» che arriva a contagiare anche la Chiesa. Ricordo un suo discorso ai vescovi irlandesi del 2006: senza nessuna reticenza definì gli abusi sessuali «crimini abnormi». Nel 2010 parlò di «sacerdoti che hanno sfigurato il loro ministero». Nel 2011 sottolineò «dell’inadeguatezza dei messaggeri» del Vangelo. E si potrebbe, di anno in anno, ripercorrere le denunce del Papa emerito. Dobbiamo ringraziare il cielo che Benedetto abbia potuto, in quest’ultima lettera, rispondere e argomentare in modo completo e immediato testimoniando attraverso gli atti, la sua assoluta estraneità. Dai documenti si evince che non sta proteggendo o coprendo nessuno, tanto meno il suo operato. La lettera dell’8 febbraio non è insomma che l’ultimo atto di una lunga battaglia che ha combattuto e sta combattendo con tutte le sue esigue forze e con una serenità ammirevole. Anche in questa circostanza Ratzinger e Francesco camminano insieme e indicano con chiarezza, in un mare in tempesta, la rotta della barca di Pietro.

Pedofilia nella Chiesa, monsignor Camisasca: «Una trama anti Ratzinger, ma Francesco non c’entra». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2022.

L’ex vescovo di Reggio Emilia: «Ratzinger fu il primo a evidenziare la gravità degli abusi. Perché allora questo accanimento? Sbagliato usare per ieri i parametri di oggi» 

«È una manovra contro Ratzinger. E viene da dentro la Chiesa». Così monsignor Massimo Camisasca — 75 anni, fino a pochi giorni fa vescovo di Reggio Emilia, autore di settanta libri tra cui la storia di Comunione e Liberazione — giudica l’accusa rivolta al Papa emerito di aver coperto, negli anni in cui era arcivescovo di Monaco di Baviera, casi di pedofilia.

Perché ne è così convinto?

«Mi lasci fare una premessa. Tutti noi vescovi italiani, naturalmente me compreso, siamo profondamente convinti che gli abusi sessuali compiuti su minori, oltre a quelli morali e di autorità, siano un gravissimo delitto. Tanto più grave se compiuto da una persona consacrata, da un religioso, da un educatore».

Ci mancherebbe altro.

«Certo. Ma dell’estensione numerica di questi delitti la Chiesa ha preso coscienza, sempre più ampiamente, durante gli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Fu proprio il cardinal Ratzinger a evidenziarne per primo la gravità — solo tra i leader mondiali, politici e culturali — e a prendere provvedimenti».

Quali?

«Rafforzando la sezione giuridica della Congregazione per la dottrina della Fede da lui presieduta. Divenuto Papa, compì atti di grande determinazione: la lettera durissima nei confronti della Chiesa irlandese, la richiesta di penitenza e conversione, l’aperta solidarietà verso le vittime. Inasprì le pene e diede alla Congregazione della Fede poteri inquirenti, nuovi ed ampi. Nessuno ha fatto come lui, prima di lui».

E Papa Francesco?

«Ha continuato questa linea con numerosi interventi e mostrando la sua vicinanza alle vittime, chiedendo alle Chiese locali di dotarsi di una commissione diocesana di ascolto delle vittime e di formazione degli educatori. Nessun organismo mondiale ha fatto quanto sta facendo la Chiesa cattolica. È una coscienza nuova che si è imposta lungo i decenni. Non solo la Chiesa, anche la società civile deve compiere un lungo cammino. Gli abusi avvengono soprattutto nelle famiglie, nel mondo dello sport e dell’associazionismo giovanile. Perché allora questo accanimento contro Ratzinger, su fatti accaduti quasi 40 anni fa?».

Appunto. Perché, secondo lei?

«L’unica ragione mi sembra l’insofferenza dei settori liberal della Chiesa e della società».

Quali sono i «settori liberal della Chiesa»?

«Coloro che si rispecchiano nelle derive del sinodo tedesco. Coloro che non hanno mai accettato il pontificato di Benedetto XVI, la sua umiltà, la sua chiarezza, la sua teologia profondamente aperta e nello stesso tempo radicata nella tradizione, l’acutezza della sua lettura del presente, la sua battaglia contro la riduzione della ragione, la sottolineatura del valore sociale della fede, l’apertura del diritto a un fondamento etico e veritativo».

Resta il fatto che sono accuse gravi. Lei è certo che non siano supportate da fatti, da prove?

«Non capisco perché la Chiesa francese e quella tedesca abbiano scelto la strada di commissioni “indipendenti”, che in realtà indipendenti non sono, perché viziate, almeno in alcuni loro membri, da un pregiudizio anticattolico. Nello stesso tempo, non bisogna mai misurare gli atteggiamenti di decenni fa con quelli che sarebbero doverosi oggi, a partire dalla coscienza più matura della gravità dei fatti e la conseguente sensibilità che si è sviluppata a ogni livello della società. Quando io ero piccolo certe punizioni corporali, ad esempio, non erano ritenute abusi ed erano viste come assolutamente normali. Per fortuna oggi non è più così».

Qual è il ruolo di papa Francesco in tutto questo?

«Assolutamente nessuno. Non c’è nessuna trama di papa Francesco contro Benedetto. Francesco ha una profonda stima e affetto per il suo predecessore».

Come sarà ricordato Ratzinger, secondo lei?

«Come un padre della Chiesa. Sarà ricordato come Leone Magno e Gregorio Magno per la sua capacità di parola, profonda e semplice. I secoli futuri si nutriranno del suo insegnamento».

E Bergoglio?

«Come un Papa che ha richiamato tutta la Chiesa a prendere coscienza di essere una minoranza, ma una minoranza attiva, in ascolto dell’urlo disperato dei poveri, degli emarginati, degli uomini di ogni condizione a cui solo Cristo può rispondere».

Non crede che un giorno la Chiesa riconoscerà ai sacerdoti il diritto di sposarsi?

«Non c’è nessun legame tra celibato e pedofilia. Purtroppo molti pedofili sono sposati. Il celibato non è la rinuncia alla sessualità, ma al suo esercizio genitale. La luminosità del celibato viene a noi dal Vangelo, dalla vita di Gesù stesso. È la scelta di vivere come lui. Esige una maturità affettiva che va verificata nel corso dell’iter seminaristico. Occorrono superiori di seminari ed educatori all’altezza di questo compito. La sessuofobia dell’800 ha generato preti immaturi e perciò incapaci di valutare la maturità dei candidati».

Quindi il matrimonio dei preti non risolverebbe nulla?

«La crisi che stiamo vivendo esige la riscoperta, non la negazione del valore del celibato. Il cuore dell’uomo è un abisso che non sempre si riesce a scrutare. La verginità per il Regno, per usare il linguaggio dei Vangeli, oggi è insidiata fortemente dall’erotismo che invade la società, dalla solitudine e dalla nostra stessa fragilità. Ma le cadute di alcuni non sono un’obiezione alla verità e alla luce che il celibato rappresenta non solo per il popolo cristiano, ma per l’umanità tutta».

Vaticano, Renato Farina e il fango gettato su Ratzinger per lo scandalo pedofilia e quel silenzio di Papa Francesco. Renato Farina su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2022.

La lapidazione prevista dalla sharia è malvagia, sassi aguzzi spaccano la testa, sfondano il petto. Eppure è più onesta di quella praticata in queste ore contro un Papa di 95 anni, colpevole di essere ormai senza potere, salvo quello inestimabile tipico dei senza potere: l'inermità, la buona fede, in fin dei conti la verità. La sua lapidazione è stata praticata tirandogli contro un malloppo di carte elaborate da uno studio legale di Monaco di Baviera che improvvisamente è emerso dal nulla come uno Zeus tonitruante: secondo questi avvocati auto certificatisi come "Commissione indipendente" Joseph Ratzinger quattro volte, da arcivescovo metropolita della capitale della Baviera, ha saputo e tollerato la presenza di preti pedofili, straziatori di bambini. Li conosceva, e ne ha lasciato sfregiare l'innocenza. Le prove? Zero. Non una. È solo il confronto serrato - secondo qualunque manuale dei diritti umani e della deontologia giornalistica che trasforma le dicerie in prove, a sua volta da vagliare. Niente di tutto questo.

Dichiarazioni raccolte, deduzioni. Inutilmente da anni Ratzinger con un poderoso dossier di 84 pagine ha fornito le prove, esse sì rigorose, della menzogna pesante come un macigno che gli è stata tirata contro. Nessun dubbio. È uno dei piaceri dell'umanità quella di poter mostrare l'anima nera di un angelo finalmente spogliato delle sue candide veste. Ah, tagliargli le alucce, arrostirlo allo spiedo. Potersi sentire persino migliori di un santo venerato da tutti e sbugiardarlo gettando nel panico i suoi fedeli e nella pattumiera i suoi insegnamenti. E così alla massa di carte fornita dai legulei tedeschi i giornalisti di tutto il mondo hanno aggiunto carta a carta, inchiostro a inchiostro. La vera notizia di ieri non è lo scandalo della presunta pedofilia di un Papa, ma il rito tribale del linciaggio contro un uomo buono e mite. Questo è il vero documento che dice la verità sui tempi che viviamo.

Non ci credete? I titoli di prima pagina dedicati ieri dai più diffusi quotidiani italiani a Joseph Ratzinger propinano le certezze dei quotidiani afghani al popolo con il sasso in mano per tirarlo contro il reo. Com' era il titolo di quel vecchio film? Ah sì: "Sbatti il mostro in prima pagina". I giornaloni e i giornaletti italiani, ma non solo, hanno sposato con trasporto le accuse infamanti contro il Papa emerito, pedofilo nell'oscurità delle navate barocche. Ci aspettiamo nei prossimi giorni una bella lettera di 700 intellettuali all'Espresso, sul modello di quella che inchiodò 50 anni fa il Commissario Luigi Calabresi al palo della fucilazione. Potrebbe funzionare come titolo: "Il pedofilo emerito". Esageriamo? Mano, è il sarcasmo che alza le mani e si arrende all'evidenza: le affermazioni colpevoliste, pronunciate in assenza di controparte, sono state bevute come vin santo dai giornalisti, i quali a sua volta l'hanno versato come nettare ai lettori. Ed ecco allora questi titoli. Hanno infatti la perentorietà alata dei versetti del Vangelo, anzi più che altro delle sure del Corano, e potrebbero candidarsi per un premio di giornalismo a Kabul intitolato al Mullah Omar. In pole position è La Stampa, il cui titolista crede di essere Padre Pio e legge la coscienza di Ratzinger come un libro stampato, scoprendola putrida: "Il peccato di Benedetto" (Domenico Agasso). La Repubblica è più oggettiva,: "Preti pedofili a Monaco. Ratzinger coprì 4 casi" (Paolo Rodari). Questo è il famoso garantismo progressista. E così non si accenna alla «rigorosa smentita» di Benedetto XVI, il quale mette in gioco la sua parola contro quella di sconosciuti avvocati bavaresi.

Il Corriere della Sera elude anch' esso la difesa di Ratzinger, che pure perla prima volta in vita sua ha impugnato la spada per difendersi dall'ignominia: "Abusi, Ratzinger non agì su 4 casi. Choc in Vaticano" (Gian Guido Vecchi). Lo choc, sia chiaro, non è provocato dall'indignazione per la temerarietà di un'accusa contro chi conserva il nome di Papa sia pure emerito, e dovrebbe essere difeso con l'alabarda delle parole e il tuono dell'anatema da chi ne ha l'autorità, ma lo choc è perché in fondo in fondo piace credere che davvero Ratzinger sapesse e abbia lasciato fare. Ci risulta che nessuno, da dentro le mura vaticane, abbia osato mostrare la faccia e levarsi lo zucchetto per lanciarlo a mo' di sfida per duellare contro chi offende il Vicario di Cristo in terra, che è tale anche se emerito, silenzioso, e vicino alla morte, povero agnello candido che rischia di bagnarsi del sangue dello sgozzamento rituale della calunnia. Abbastanza solitario è intervenuto il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione scrivendo: «La personalità e l'opera di Benedetto XVI smentiscono le accuse infamanti alla sua persona. Siamo vicini al Papa emerito e preghiamo insieme con lui per una Chiesa più vera, più unita e più libera».

L'unanimità, o quasi, dei vaticanisti, nel dare credito a pugnalate a tradimento, dice molto di più dell'opinione dei singoli giornalisti. Essi infatti esprimono il pensiero dominante del circolo stretto di consiglieri del Papa. Il quale di sicuro non crede alle accuse contro il predecessore. Ma per difendere la Chiesa dall'attacco generalizzato per lo scandalo degli abusi sui minori da parte di preti e vescovi, forse persino d'accordo con Benedetto, preferisce sottolineare la volontà purificatrice della Chiesa. Ieri ha trattato in pubblico la questione davanti alla plenaria dell'ex Sant' Uffizio. Ha detto: «La Chiesa, con l'aiuto di Dio, sta portando avanti con ferma decisione l'impegno di rendere giustizia alle vittime degli abusi operati dai suoi membri». Nessun cenno a Benedetto. Dura la vita dei Papi. Quelli emeriti di più. 

Dai pro Bergoglio pestaggio mediatico su Ratzinger, il vero papa Benedetto XVI: un boomerang per il sedicente papa Francesco. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2022.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

E insistono. Ma lo fanno in un modo talmente greve e maldestro che l’attacco mediatico-giudiziario, promosso - guarda caso - proprio dall’arcinemico di papa Benedetto, il supermodernista cardinale Marx, si sta ritorcendo contro i bergogliani. Infatti, da numerose parti di un mondo cattolico che, pure, continua in buona fede a ritenere Bergoglio il legittimo papa, si sono levate voci di SDEGNO.

“Dal Vaticano scaricano Ratzinger”; “Perché nessuno difende Benedetto?”; Vergogna in Vaticano; fuoco amico su Ratzinger” etc.

La riprovazione è naturale, sia per l’attacco inutile e cattivo a un uomo di 94 anni, sia per il fatto che tutti sanno che Ratzinger è stato l’ecclesiastico che più si è speso, considerato il suo ruolo di cardinale e - ancora attuale - di papa, per contrastare la piaga degli abusi. Lo ammetteva perfino Bergoglio qualche anno fa, in questo video.

E adesso come mai il sedicente "papa Francesco" NON SPENDE UNA PAROLA PER DIFENDERE il suo "nonno saggio", come lo definiva in modo irriverente in una intervista di qualche anno fa?

Anzi, Bergoglio calca brutalmente la mano invocando demagogicamente “giustizia per le vittime degli abusi”, quelle stesse vittime che lui, da arcivescovo di Buenos Aires, non volle ricevere, come testimoniato dal documentario “Il Codice del silenzio”.

Quelle stesse vittime che, nel memoriale in 4 volumi “Studio sul caso Grassi”, commissionato da Bergoglio (c’è scritto nel testo) per condurre la magistratura argentina ad assolvere il prete pedofilo Julio Caesar Grassi furono accusate di essersi inventate tutto, messe alla gogna come bugiarde e perfino di dubbio orientamento sessuale.

Il cambio di passo e le incoerenze sono talmente evidenti che davvero non si riesce a capire come in Vaticano non se ne rendano conto. Ma chi le gestisce queste operazioni? Non hanno uno spin doctor? 

Infatti, un ulteriore disastro è avvenuto con l’annuncio, appena “un filo” tendenzioso, di una prossima inchiesta simile anche in Italia, per tentare di colpire Ratzinger anche dal versante italiano.

Perché non promuovere un'inchiesta anche IN ARGENTINA, a questo punto?

L’obiettivo dell’intera operazione è evidente: quello di screditare talmente il vero papa Benedetto XVI, da delegittimarlo agli occhi del mondo in modo da giustificare il golpe vaticano usando una base emozionale-mediatica, secondo quello che è il tipico modus operandi di Bergoglio.

Potremmo giusto ricordare la FARSA della visita al negozio di dischi di qualche giorno fa, messa in piedi con l’aiuto del fotografo Javier Brocal che lo segue da vicino, da sempre. Hanno voluto ribadire, offendendo l’intelligenza di 1 mld e 285 mln di persone, che l’incontro fra i due era stato casuale, ma grazie all’aiuto di un matematico abbiamo calcolato che le probabilità erano dello 0,000000062%.  Leggete QUI.

L’operazione contro il vero papa Benedetto, tuttavia, ha avuto il merito di scavare altre decine di metri nel fossato che già divide le due chiese, quella vera, da quella falsa. Ha riportato l’attenzione sul papa emerito, che si chiama così non perché è l’ex papa, ma in quanto è l’unico che “merita” di essere papa, l'unico che ha diritto, come dal verbo latino “emereo” . 

Il pestaggio mediatico crudele e inconsistente su Benedetto ha suscitato grandi simpatie verso l’anziano, vero papa che sembrava ormai dimenticato e che adesso appare esattamente per quello che è: la vittima di un’usurpazione.

Questa attenzione mediatica presto consentirà al pubblico, emotivamente richiamato su papa Ratzinger, di approfondire razionalmente il fatto che Benedetto XVI non ha mai abdicato, ma che si è ritirato in sede impedita (canone 412) facendo in modo che Bergoglio si rendesse da solo un antipapa e che tutti i modernisti  ci rimasero allo stesso modo. Infatti la logica non perdona: nel fondo della mente delle persone già sta fiorendo un legittimo dubbio: ma perché questo accanimento contro il 94enne papa Benedetto? Cosa c’è sotto? 

Per leggere tutta l’inchiesta che dimostra come il vero papa è solo benedetto XVI cliccare QUI e leggere in fondo, soprattutto i capitoli 1,2,5.

Perché tutti i media, asserviti a Bergoglio - presunto papa Francesco - aggrediscono il vero papa Benedetto XVI Ratzinger. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 21 gennaio 2022.

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Ma guarda che coincidenza: proprio ora che è venuto fuori che il vero papa è solo Benedetto XVI, che NON HA MAI ABDICATO, ma si è AUTOESILIATO IN SEDE IMPEDITA (canone 412), restando quel solo papa di cui parla da otto anni, parte una campagna di discredito verso di lui,  pur essendo 94enne.

Come abbiamo visto QUI, il fango che si è andati a recuperare sfrutta reperti di archeologia giornalistica di 40 anni fa, già cassati dieci anni or sono. Stranamente, la nuova indagine è stata commissionata a uno studio legale dall'arcidiocesi di Monaco, cioè da quella stessa Chiesa tedesca, che, passata in blocco al modernismo più spinto, odia ferocemente papa Ratzinger.

Ora, per notare la goffaggine dell’operazione mediatica, basta un clic: nel 2017, fu pubblicato in Francia il documentario “Codice del Silenzio”, di Martin Boudot, mandato poi in onda sulla ZDF tedesca nel 2018, che documenta come Bergoglio commissionò al noto avvocato Sancinelli una monumentale difesa in 4 volumi del prete pedofilo argentino Julio Caesar Grassi. Questi libri, che, pure,  infierivano sui bambini abusati accusandoli di essere falsi e menzogneri, furono inviati con furbo tempismo ai magistrati della Corte d’Appello e miravano a far assolvere il sacerdote, che fu poi condannato ugualmente a 15 anni di galera.

Carta canta: l’iniziativa fu presa per volontà del Card. Bergoglio, c’è scritto negli stessi volumi. I giornalisti di Boudot chiesero direttamente al presunto “papa Francesco” durante un’udienza pubblica, se lui avesse mai ordinato la controinchiesta su padre Grassi e il vescovo biancovestito negò recisamente: “Para nada”.

Pensate che in Italia sia trapelato qualcosa di tale faccenda? Tranne che per questa minuscola agenzia QUI, da noi non se ne è saputo mai nulla. Omertà totale.

Due giorni fa abbiamo anche pubblicato per la prima volta il documentario sottotitolato in italiano QUI. Forse qualche grande giornale se ne è interessato? No.

Ora invece, che arriva dalla Germania la spazzatura di queste accuse verso l’allora card. Ratzinger, tutti i media, perfino i telegiornali di stato, si avventano come cani famelici sull’osso. La macroscopica sproporzione è imbarazzante: da un lato abbiamo Ratzinger che, secondo alcuni avvocati “non avrebbe vigilato abbastanza”, dall’altro Bergoglio che commissiona di proposito un memoriale in 4 volumi per far assolvere un pedofilo. Da un lato, Benedetto XVI, il primo papa nella storia che ha ricevuto le vittime di abusi sessuali, dall’altro, il card. Bergoglio che ignorò le richieste di aiuto da parte di sette vittime della sua diocesi, come si vede nel mai smentito documentario. La pagliuzza (falsa) e la trave (vera).

Ora, sarebbe facile citare un video QUI in cui lo stesso Bergoglio, qualche anno fa, dichiarava alle telecamere: “Mi permetto di rendere un omaggio all’uomo che ha lottato in momenti in cui non aveva la forza per imporsi, finché ebbe la forza per imporsi (un applauso per lui) il card. Ratzinger era un uomo che aveva tutto nelle sue mani: ha fatto le indagini ed è arrivato, arrivato, arrivato. […]  E nella messa Pro eligendo pontifice Ratzinger sapeva che era candidato e non gli importò di dire che bisognava pulire la sporcizia nella Chiesa. Lo voglio dire perché talvolta ci dimentichiamo di questi lavori nascosti che hanno preparato il terreno per scoperchiare la pentola”.

Perché adesso, invece, dal Vaticano non proviene nessuna difesa del papa emerito, come si chiede giustamente oggi Renato Farina su Libero? Almeno una mossa si poteva fare, no? Non c’è nessuno che gestisce queste operazioni con un po’ di oculatezza?

Circa l’inconsistenza delle accuse verso il Santo Padre Benedetto XVI, vi lasciamo a questo articolo QUI de La Nuova Bussola Quotidiana. Circa l’insieme delle azioni messe in campo da Ratzinger contro la pedofilia, sia come cardinale che come papa, QUI un elenco esaustivo. Probabilmente mai nessuno nella storia della Chiesa ha mai fatto tanto in questo senso. 

Una parola definitiva spetta a don Fortunato Di Noto, il prete in prima fila da anni con la sua associazione per combattere la pedofilia, che il 5 maggio 2012 così dichiarò a Radio Vaticana: "Credo che scopriremo sempre di più la grandezza di Benedetto XVI per aver, con paternità, con fermezza e lucidità, affrontato veramente il problema. Un problema che non è legato solo allo scandalo con il quale alcuni sacerdoti hanno macchiato il volto bello della Chiesa e quindi il volto stesso di Cristo e così i bambini stessi coinvolti in questo turpe abuso. Credo che l’intenzione non sia solo quella, ma sia anche nel dire che la Chiesa, nata dalla Croce di Cristo – nata in un certo senso da un Bambino “crocifisso” – ancora ribadisce la forza pedagogica, la forza risanatrice di un possibile cammino di redenzione e di liberazione. La forza del nostro Pontefice è la forza che nasce veramente dalla verità: è una verità che ci sta rendendo liberi, è la verità che afferma che il sacerdozio è un dono straordinario, grande, che non possiamo assolutamente strumentalizzare per alcun fine, se non soltanto per ribadire la bellezza di una fede che può generare nuovi uomini, nuove donne. Soprattutto attraverso i bambini, la Chiesa si sta totalmente rinnovando".

Poi, se, per completezza, volete sapere di quali personaggi si circondi il presunto “papa Francesco”, leggete “Galleria neovaticana” di Marco Tosatti. QUI Scoprirete in quale posti di potere ha posizionato prelati oggetto addirittura di mandati di cattura internazionale per abusi sessuali.

Ma, al di là della questione, ciò che è davvero importante per inquadrare l’operazione in corso è comprendere PERCHE’ STA SUCCEDENDO tutto questo.

Ve lo ripetiamo per la milionesima volta, se volete ricostruire tutta la vicenda, leggete l’inchiesta riportata QUI in fondo.

Nei capitoli 1,2,4,5 apprenderete come e perché Benedetto XVI non HA MAI ABDICATO e ha detto sempre la VERITA’. Egli è il solo e unico Papa e Vicario di Cristo, autoesiliatosi in SEDE IMPEDITA (canone 412), una situazione canonica contigua, ma profondamente diversa rispetto alla rinuncia al papato. Nella sede impedita il papa è prigioniero, ma resta sempre il papa. Il Vaticano non ci ha mai smentito, nemmeno lo stesso Benedetto XVI, quando ci ha risposto per lettera QUI.

Papa Benedetto è EMERITO non perché è in pensione, o è un ex- papa, ma perché, rispetto all’usurpatore, è l’unico papa legittimo: emerito viene dal verbo “emereo”, cioè è l’unico che merita, che ha diritto di essere PAPA.

Mons. Bergoglio è un vescovo e antipapa, tutto quanto da lui fatto nell’arco di otto anni non ha alcuna validità e verrà cancellato dalla storia.

Visto che la situazione è canonicamente irrisolvibile, l’unica strada è, per i bergogliani, quella di puntare su fumogeni mediatico- emozionali: da un lato "Francesco" indulge in messinscene facilmente propagandistiche, come abbiamo dimostrato con la farsa della “visita a sorpresa” al negozio, QUI assolutamente organizzata insieme al suo fido fotografo Javier Martinez Brocal. Dall’altro lato occorre scatenare i media sulla delegittimazione a furor di popolo del vero papa. Tentativi miserabili che, con l’accanimento verso un 94enne, non fanno che confermare in modo ancora più visibile la realtà di questa situazione.

Ma quando la sede impedita verrà ufficializzata, addio tutto.

Il documentario sulla tedesca ZDF: papa Francesco ignorò gli abusati e difese il pedofilo. Bergoglio nega, ma “carta canta”. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.  

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Nel 2018, la tv di stato tedesca ZDF ha mandato in onda uno sconvolgente documentario di Martin Boudat intitolato “Il Codice del Silenzio”, mai arrivato in Italia. Ora, il canale Youtube Domina Tv Multilingual ha provveduto a sottotitolarlo in italiano e ve lo proponiamo in esclusiva.

Cliccare QUI per vedere il filmato. 

Il video afferma che Bergoglio, da Arcivescovo di Buenos Aires, non solo abbia del tutto ignorato e rifiutato di ricevere sette persone abusate da preti, ma abbia anche promosso – tentando di orientare il giudizio della Corte d’Appello argentina - una potente difesa del prete pedofilo Julio Caesar Grassi, (QUI  la sua biografia) condannato a 15 anni di reclusione per abusi su minori dai 9 ai 17 anni di età. Grassi è tuttora recluso in Argentina.

Fino ad oggi, nonostante il documentario e una petizione, Bergoglio non ha mai risposto ufficialmente. Perché la Sala stampa vaticana, invece di allestire “visite a sorpresa” preparate, come abbiamo dimostrato QUI, non si occupa di tali scottanti questioni?

Lo spezzone di documentario comincia con un’intervista a padre Zollner, consigliere di Bergoglio in materia di abusi, evidenziando come “papa Francesco” non abbia preso provvedimenti abbastanza severi con i cardinali “distratti” verso fenomeni di abuso, “forse perché – commenta lo speaker - anche lui è stato accusato nella sua terra d’origine, l’Argentina, molto prima della sua elezione”.

Si cita un passo del libro-intervista "Il cielo e la terra" realizzato da Bergoglio insieme al rabbino Abraham Skorka. Abbiamo verificato sulla versione italiana, a pag. 38, dove Bergoglio affronta la questione della pedofilia e assicura: “Che il celibato abbia come conseguenza la pedofilia è escluso. Oltre il settanta per cento dei casi di pedofilia si verificano in contesti familiari o di vicinato: nonni, zii, patrigni, vicini di casa. Il problema non è legato al celibato. Se un prete è pedofilo, lo è prima di farsi prete. Ebbene, quando accade, non bisogna mai far finta di non vedere. Non si può stare in una posizione di potere e distruggere la vita a un’altra persona. NON È MAI ACCADUTO NELLA MIA DIOCESI, ma una volta mi telefonò un vescovo per chiedermi che cosa doveva fare in una situazione del genere, e gli dissi di togliere le licenze al soggetto in questione, di non permettergli più di esercitare il sacerdozio, e di intentare un processo canonico nel tribunale di pertinenza della sua diocesi”.

Siamo sicuri? I documentaristi di Boudat si sono così recati a Buenos Aires dove hanno incontrato sette persone vittime di abusi da parte di preti dell’Arcidiocesi: cinque donne e due uomini. Interrogati sulla dichiarazione di Bergoglio sopra citata, rispondono: “Vuole che la gente lo creda. Ma è una bugia”. Chiede il giornalista: “Chi di voi ha provato a contattare Bergoglio quando era arcivescovo?” , “Tutti noi – rispondono - E chi ha ricevuto risposta? Nessuno. Riceve tutte le celebrità come Leonardo Di Caprio, apre loro le porte e per noi nemmeno una letterina per dirci che gli dispiaceva”. “Non mi aspetto niente da lui – commenta una donna - non credo in lui. Ho sofferto molto e sono molto delusa”. Una giovane sui 35 confessa fra le lacrime: “Tutti mi dicevano: «Scrivigli! E’ obbligato a rispondere», ma niente, ho sofferto e ora sono molto delusa”.  

“Come arcivescovo di Buenos Aires – prosegue il documentario – papa Francesco era apparentemente sordo all’angoscia di queste vittime, ma a quanto pare è peggio in un altro caso riguardante altre vittime dove alcuni credono che abbia cercato volontariamente di deviare il corso della giustizia. Il caso di padre Julio Caesar Grassi, il più grande scandalo di pedofilia in Argentina”.

Questo Grassi, personaggio mediatico sempre sotto i riflettori, gestiva un enorme orfanotrofio finché dei bambini presentarono denuncia contro di lui per abusi sessuali. Grassi fu condannato a 15 anni di carcere ed è ancor oggi dietro le sbarre.

La Conferenza episcopale argentina si mobilitò in difesa del sacerdote abusatore e, come spiega l’avvocato difensore dei bambini, Gallego, nel 2010 questa commissionò al famoso avvocato Sancinelli di Buenos Aires una mega controinchiesta in 4 volumi dalla copertina accattivante, per un totale di 2800 pagine, al fine di difendere Grassi. Nei quattro tomi del lavoro, intitolato “Studio sopra il caso Grassi” i bambini venivano accusati di bugia, inganno,  falsificazioni, di dubbio orientamento sessuale e quindi il prete doveva essere assolto in appello.

Un paragrafo parla chiaro: il lavoro fu commissionato nel 2010 "per iniziativa della Conferenza episcopale argentina, in particolare dal suo allora presidente S.E.R. il card. Jorge M. Bergoglio, oggi Sua Santità Papa Francesco”.

“Quindi il papa – prosegue il documentario - ha commissionato una controinchiesta per far assolvere un prete che era stato condannato per pedofilia e Bergoglio, il futuro papa, l’ha inviata con astuto tempismo poco prima delle varie udienze di appello di padre Grassi”.

La cosa viene confermata dall’ex magistrato della corte d’appello Carlos Mariquez, oggi giudice della corte suprema, che ammette: “Sì ho ricevuto questa controinchiesta. E’ una sorta di romanzo poliziesco, parziale in alcune aree ed estremamente parziale in altre, chiaramente a favore di Padre Grassi. Stavano cercando di esercitare una subdola forma di pressione sui giudici”.

Uno dei ragazzi vittima di abusi racconta di aver subito minacce, furti e intrusioni in casa, tanto che è stato messo sotto programma di protezione. Il giovane afferma: “Non scorderò mai quello che diceva padre Grassi al processo:  «Bergoglio non mi ha lasciato la mano». Ora Bergoglio è papa Francesco, non è mai andato contro le parole di Grassi, quindi sono certo che non ha mai lasciato la mano di Grassi”.

Per otto mesi i documentaristi hanno cercato di essere ricevuti da Bergoglio, senza successo, così lo vanno a incontrare direttamente in Piazza San Pietro, durante un’udienza pubblica. Gli chiedono: “Santità, ha cercato di influenzare la giustizia argentina sul caso Grassi? Perché ha commissionato una controinchiesta?”.

“Para nada”, risponde Bergoglio negando tutto e tirando dritto.

Insomma, un documentario davvero notevole che è stato infatti mandato in onda dalla tv pubblica tedesca.

C’è un unico errore, (che forse consolerà i fedeli), ma i colleghi, all’epoca, non potevano saperlo: Bergoglio non è il papa, ma un vescovo usurpatore perché Sua Santità Benedetto XVI si è auto esiliato in sede impedita (canone 412) e resta l’unico pontefice romano, come potrete verificare dalla nostra inchiesta di 60 capitoli.  

No dei vescovi all'indagine in Italia: l'ira del Papa. Fabio Marchese Ragona il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L'ipotesi di una commissione come Spagna, Francia e Germania respinta dai porporati.

«È inutile fare i mea culpa istituzionali, dobbiamo concentrarci realmente sulle vittime di pedofilia, altrimenti non faremo altro che continuare a morderci la coda». Nei palazzi del Vaticano non si parla d'altro: si respira rabbia, vergogna, ma si usa anche un tono polemico, come chi deve lottare contro l'immobilismo di troppe persone che sulla questione degli abusi stanno ancora a braccia incrociate.

Dopo l'ennesima bufera sulla Chiesa, questa volta quella tedesca che con una commissione indipendente ha scoperchiato 497 casi di pedofilia nella diocesi di Monaco e Frisinga tra il 1945 e il 2019, tra la residenza di Papa Francesco e i vari uffici preposti della Santa Sede, si studiano i prossimi passi in avanti da fare, per evitare che sul tema «Chiesa e abusi», tutto rimanga ancora fermo per troppo tempo. Le parole d'ordine su cui il Pontefice chiede di concentrarsi sono «vicinanza e tenerezza», soprattutto verso chi è stato abusato. Con una raccomandazione importante: non siano parole da utilizzare soltanto in un sermone, ma che siano messe in pratica davvero, senza indugi. Soprattutto da quei preti che pubblicamente parlano di pedofilia come una piaga ma poi non fanno nulla per combatterla. «A che cosa serve che il Santo Padre continua a invocare questi atteggiamenti teneri e vicini se poi questi non vengono esplicitati in gesti concreti verso chi ha subito abusi?», si interroga un alto prelato vicino a Bergoglio, «Dobbiamo passare a una sorta di «Fase 2», in cui le vittime diventano il centro di tutto e non siano viste soltanto come delle persone da cui scappare e di cui aver paura».

In effetti, dicono in Vaticano, che c'è ancora tanto lavoro da fare, soprattutto perché, anche in Italia, si fatica a seguire il cammino intrapreso da Francia e Germania per tirare finalmente fuori i propri scheletri dell'armadio. La proposta di istituire una commissione indipendente sugli abusi anche per la Chiesa italiana era stata sollevata nel corso dell'Assemblea Generale straordinaria dei vescovi del novembre 2021 ma la maggioranza dei presenti ha espresso parere negativo: niente commissione per il momento, con grande rammarico, raccontano, del presidente del Servizio Nazionale per la Tutela dei Minori, monsignor Lorenzo Ghizzoni. «Forse è successo per una questione di paura o forse perché ancora non siamo pronti, come lo sono i confratelli francesi e tedeschi, ad affrontare un peso così importante», confida adesso a Il Giornale uno dei vescovi che era presente a quella riunione, «è chiaro che dobbiamo scrollarci di dosso ogni possibile tentazione a essere omertosi e scoprire cosa è successo anche in passato; il Papa e soprattutto i fedeli sarebbero felici se lo facessimo».

In effetti Francesco, da diverso tempo, ha chiesto e sta ancora chiedendo che si faccia pulizia, che si dialoghi con le vittime e che si possa lavorare insieme a loro per scoperchiare il marcio che ha colpito la Chiesa.

In occasione della pubblicazione del rapporto sugli abusi in Francia, lo scorso ottobre, il Pontefice aveva usato parole molto chiare, incoraggio e invitando i vescovi e i superiori religiosi a continuare a compiere tutti gli sforzi «affinché drammi simili non si ripetano». E aveva parlato di «prova salutare», invitando i cattolici francesi ad assumersi le proprie responsabilità per garantire che la Chiesa sia una casa sicura per tutti. Per quanto riguarda il rapporto pubblicato ieri in Germania, Papa Francesco, da quanto spiegano in Vaticano, attenderà la prima occasione utile per manifestare vicinanza alle vittime.

Intanto alcune copie del dossier che conta mille pagine ed è suddiviso in tre tomi, sono già state recapitate in Vaticano, anche perché il 94enne Papa emerito Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, tirato in causa nel report, possa analizzarlo e fare tutte le valutazioni del caso. Fabio Marchese Ragona

Bassetti (Cei): «Anche in Italia un’indagine sugli abusi nella Chiesa. Nelle Diocesi centri di ascolto». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.

Il cardinale Gualtiero Bassetti, 79 anni, presidente della Conferenza episcopale italiana: serve un cambiamento autentico, ma no al giustizialismo. 

«Per la tutela dei minori, è iniziato da diverso tempo un cammino progressivo e inarrestabile in cui le Chiese che sono in Italia sono impegnate con forza e convinzione». Il cardinale Gualtiero Bassetti, 79 anni, presidente della Cei, misura con attenzione le parole. È la prima volta che interviene in risposta alle domande nate, anche nel nostro Paese, dopo la pubblicazione dei rapporti sugli abusi sessuali su minori in vari Paesi europei.

Eminenza, da ultimo la diocesi di Monaco ha presentato un rapporto indipendente che era stato commissionato dallo stesso arcivescovo, il cardinale Marx. Ci sono stati altri report in Germania, in Francia e altrove, sempre commissionati dalla Chiesa. Come mai in Italia non è stato fatto? Ne avete parlato, è prevedibile ci sia un’inchiesta indipendente anche in Italia?

«Già da qualche tempo stiamo riflettendo sull’avvio di una ricognizione approfondita e seria della situazione italiana. Nell’esaminare le possibilità e le modalità di esecuzione dell’indagine, non possiamo non tener conto della differenza strutturale, culturale ed ecclesiale del nostro Paese rispetto ad altri, a partire dal numero molto elevato di diocesi. Per questo, oltre ai dati numerici che sono fondamentali per guardare la realtà con obiettività, pensiamo sia importante impostare un’indagine anche qualitativa che aiuti a determinare, ancora di più e meglio, l’attività di prevenzione e di formazione dei nostri preti e dei laici. Intanto, vogliamo raccogliere le informazioni che arrivano dai nostri Servizi diocesani per la tutela dei minori, per avere un riscontro dell’attività di questa rete del tutto nuova in Italia. Questo tipo di approccio metodologico “dal basso” ci consentirà di avere un quadro che non fa leva su proiezioni o statistiche, ma sul vissuto delle Chiese locali. Il nostro intento, nel segno della presa di coscienza e della trasparenza, è infatti quello di arrivare ai numeri reali».

Qualche mese fa aveva detto che «è pericoloso affrontare la piaga della pedofilia in base a proiezioni statistiche». Che cosa intendeva? C’è qualcosa che non la convince nei report come quelli presentati in Francia e Germania?

«Ribadisco: noi vorremmo arrivare a fornire dati ed elementi effettivi e, soprattutto, far emergere la consapevolezza di un cambiamento autentico che ci renda credibili nella nostra vicinanza rispettosa alle vittime, nella loro accoglienza. L’obiettivo è non ripetere errori e omissioni del passato e rendere giustizia agli abusati. Ma giustizia non è giustizialismo, e non si renderebbe un buon servizio né alla comunità ferita né alla Chiesa se si operasse in maniera sbrigativa, tanto per dare dei numeri. La Chiesa che è in Italia sta lavorando da anni sulla prevenzione e sull’ascolto. L’impegno c’è, e il futuro si costruisce fondando buone pratiche nel presente: i nostri Centri di ascolto, ormai piuttosto diffusi, sono disponibili ad accogliere chi sente il bisogno di trovare un luogo in cui raccontare la sua sofferenza e a ricevere segnalazioni. Non sarà facile né rapido cambiare mentalità e modo di operare in questo ambito, ma è la sfida principale in questo momento storico: c’è di mezzo la fiducia delle famiglie e l’integrità dei ragazzi».

Che idea si è fatto della situazione in Italia? In Germania Marx ha parlato di una «catastrofe». Da noi sarebbe diverso o è inevitabile che le proporzioni si ripetano?

«Non è una questione di proporzioni, perché stiamo parlando della vita di una persona che si porterà sempre dentro le ferite per gli abusi subiti. Dobbiamo tener conto degli abusi avvenuti e agire di conseguenza, con fermezza, nel presente e per il futuro perché non si ripetano più. Quello che è sicuramente cambiato in questi anni è che si va imponendo la coscienza della gravità del reato oltre che del peccato: da un lato i vescovi e gli ordinari religiosi fanno molte più indagini e processi canonici, dall’altro, chi subisce un abuso trova una comunità più preparata ad ascoltarlo e a sostenerlo».

Come procedono i Centri per la tutela dei minori aperti nelle diocesi?

«È iniziato da diverso tempo un cammino progressivo e inarrestabile in cui le Chiese che sono in Italia sono impegnate con forza e convinzione. Tutte le diocesi italiane hanno costituito il proprio Servizio diocesano per la tutela dei minori, con un referente dedicato: sono 56 donne e 47 uomini, in prevalenza professionisti preparati in campo giuridico, psicologico, medico-psichiatrico, assistenziale, educativo, e 124 presbiteri o religiosi. Il referente diocesano è affiancato da un’équipe di esperti che progettano iniziative di sensibilizzazione e prevenzione, anche in collaborazione con le associazioni e le istituzioni del territorio. Accanto alla rete dei Servizi diocesani e interdiocesani, coordinati per ogni Regione ecclesiastica da un coordinatore regionale e un vescovo delegato, stanno sorgendo i Centri di ascolto, diocesani e interdiocesani, che sono presenti in circa il 40 per cento delle Diocesi, in attesa, nel minor tempo possibile, di essere istituiti in ogni comunità diocesana».

E come funzionano?

«Ricordiamo che i Centri di ascolto non sono sportelli, perché non si tratta di uffici burocratici, ma di strutture predisposte che si avvalgono di volontari formati all’ascolto e all’accoglienza di persone che portano con sé le ferite di traumi psicologici e non solo. Sono laici, sacerdoti, religiosi e religiose; uomini e donne che sanno andare incontro al dolore delle vittime e dei sopravvissuti accogliendoli con competenza e delicatezza. I responsabili degli sportelli di prima accoglienza, inoltre, non sono sostitutivi né dell’azione della magistratura né dell’eventuale accompagnamento psicologico. Abbiamo tante belle figure, molti professionisti, che stanno rendendo un grande servizio per la sicurezza dei minori e che ci fanno ben sperare per il futuro». 

Bullismo, dispetti, scontri: il Papa commissaria la Caritas. Carenze nelle procedure di gestione accertate in un'indagine indipendente: il Papa nomina un commissario alla Caritas Internationalis. Nico Spuntoni su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Il Papa commissaria la Caritas Internationalis. La decisione è stata comunicata tramite un comunicato stampa del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale nel quale è stato spiegato che il commissariamento temporaneo è scaturito al termine di un lavoro di valutazione realizzato da una commissione indipendente.

Nelle conclusioni della commissione a cui ha contribuito anche il nuovo Commissario straordinario, il signor Pier Francesco Pinelli, non sarebbero emersi problemi di carattere finanziario o legati a comportamenti inappropriati di natura sessuale. Tuttavia, nel comunicato si fa riferimento a "carenze relative alle procedure di gestione con effetti negativi anche sullo spirito di squadra e sul morale del personale". Non solo. Il quadro desolato emerso dall’inchiesta interna che ha condotto Francesco alla decisione di commissariare Caritas Internazionalis parla anche di bullismo, dispetti, scontri personali che ingolfavano la macchina degli aiuti.

Vengono dunque azzerati tutti gli attuali incarichi nella confederazione competente su 162 organizzazioni caritative. Fino ad oggi il presidente di Caritas Internationalis era il cardinale Luis Antonio Tagle, eletto nel 2015 e che era succeduto ad uno dei porporati più vicini a Francesco, il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga.

Carenze nelle procedure di gestione

Tagle è anche il pro-prefetto del Dicastero per l'evangelizzazione, il più importante dopo la riforma della Curia voluta dal Papa che, non a caso, ha assunto in prima persona il ruolo di prefetto. Il porporato filippino non viene esautorato del tutto ma rimarrà nella fase di transizione per affiancare il Commissario straordinario. Tagle ci ha tenuto a precisare pubblicamente che la decisione del Papa non si deve a casi di molestie sessuali o di cattiva gestione finanziaria.

Il comunicato è stato emanato dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale perché è l'organismo competente nelle attività relative al ministero verso i poveri. Guidato dal cardinale gesuita Michael Czerny, è proprio da questo Dicastero che è partita l'iniziativa di commissionare un'indagine che hanno evidenziato le carenze nelle procedure di gestione.

ABUSI FINANZIARI. Processo Becciu, il mistero del memoriale d’accusa «suggerito» dall’esterno. Storia di Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022.

Arrivato alla trentanovesima udienza, si complica il processo in Vaticano per gli investimenti della Segreteria di Stato, che vede tra gli altri imputato il cardinale Angelo Becciu. Il «pm» vaticano Alessandro Diddi ha annunciato di aver aperto «un nuovo fascicolo» processuale legato al memoriale del «grande accusatore», monsignor Alberto Perlasca, che almeno in parte sarebbe stato suggerito dall’esterno. Nel corso degli interrogatori, Perlasca aveva da principio affermato di aver scritto il memoriale autonomamente; dopo una serie di «non ricordo», ha infine dichiarato in aula: «Le risposte sono tutte mie, i temi formulati da Ciferri», ovvero da Genoveffa Ciferri, già indicata come una «amica di famiglia», la quale «mi aveva detto che il suo interlocutore era un consulente giuridico, un anziano magistrato che si era reso disponibile». Dopo l’udienza di venerdì scorso, Perlasca ha detto di aver chiamato Ciferri la quale ha sostenuto che in realtà il suo famoso interlocutore «era la Chaouqui», ovvero Francesca Immacolata Chaouqui, l’ex consigliera della commissione economica vaticana «Cosea» che fu implicata nello scandalo Vatileaks e condannata nel 2016 a 10 mesi, con pena sospesa, per concorso in divulgazione di documenti riservati. Gli avvocati di Becciu, Fabio Viglione, Maria Concetta Marzo, commentano: «Oggi, a conclusione dell’esame di Monsignor Perlasca in aula, si è avuta la prova che quando il cardinale Becciu, nel luglio 2021, non appena conosciute le accuse, evocava oscure macchinazioni in suo danno, affermava la verità».

Durante l’udienza è stata letta parte di un lungo messaggio inviato il 26 novembre da Genoveffa Ciferri al promotore di giustizia Diddi, nel quale, a proposito degli scambi con Francesca Chaouqui, dice al «pm» vaticano che «millantava una stretta collaborazione con lei riguardo alle indagini, col promotore Milano, con la Gendarmeria e il Santo Padre stesso; i riscontri che forniva e le informazioni su di lei e gli altri, erano così puntuali e dettagliate che non facevo fatica a crederle». Diddi ha riferito di aver ricevuto nella notte tra sabato e domenica, sulla sua «utenza privata», una «lunghissima serie di chat, 126 messaggi», con messaggi tra le due donne. Dopo un’ora e venti minuti di camera di consiglio, il presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, ha respinto le richieste di sospensione e rinvio del processo delle difese, e annunciato che le due donne saranno sentite in aula: l’interrogatorio di Ciferri, inizialmente previsto per domani, slitta al nuovo anno e avverrà insieme a quello di Chaouqui.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it l’1 Dicembre 2022.

«Professor Diddi, sono la dottoressa Genevieve Ciferri. La sodale della famiglia Perlasca e di monsignor Alberto Perlasca. Mi inginocchio davanti a lei e la imploro di aiutare il monsignore, che oggi sotto l’incalzare delle difese ha fatto suo malgrado, la figura del testimone (nel processo contro il cardinale Angelo Becciu, ndr) non credibile...i suggerimenti di quel memoriale a cui oggi Perlasca non ha saputo rispondere in merito a chi li avesse forniti, sono stati suggeriti dalla signora Francesca Immacolata Chaouqui a me, come provenienti da lei professor Diddi».

Inizia così il messaggio WhatsApp che potrebbe cambiare il corso del processo contro Angelo Becciu e altri imputati che si sta tenendo in Vaticano da qualche mese. Lo manda al promotore di giustizia Alessandro Diddi la misteriosa Ciferri, amica di quello che molti considerano il supertestimone che con le sue confessioni ha dato il la alle accuse formali dei pm del papa contro il cardinale di Pattada.

Si tratta come è noto di Alberto Perlasca, per anni braccio destro dell’ex sostituto in segreteria di Stato, che – dopo essere stato anche lui indagato – a fine agosto 2020 scrive un memoriale che contiene accuse gravissime contro il cardinale sardo.

Denunce su denari girati alla diocesi di Ozieri che dovevano andare alla cooperativa Spes dei fratelli, sul business della birra di famiglia, sui rapporti con Cecilia Marogna e la società in Slovenia dell’esperta in intelligence accusata di peculato che hanno convinto papa Francesco, prima ancora dell’inizio del processo, a levare a Becciu tutti i diritti cardinalizi.

Ora secondo Ciferri i tanti "non so" e "non ricordo" che Perlasca qualche giorno fa ha ripetuto in una difficile udienza agli avvocati del cardinale che domandavano alcune stranezze del memoriale sono dovuti a un fatto specifico: la decisione di Perlasca di cominciare a collaborare con la giustizia vaticana inchiodando Becciu sarebbe stata indotta da terzi.

Cioè dalla Chaouqui, l’ex consigliera della Cosea finita sulle cronache di mezzo mondo per la fuga di notizie di Vatileaks II (anche chi scrive finì a processo) e condannata nel 2017 a un anno, con sospensione della pena. Sarebbe stata lei, dice la Ciferri, a convincere Perlasca a confessare i presunti peccati di Becciu.

E a organizzare una cena tra lo stesso Becciu e Perlasca al ristorante Lo Scarpone nel quale lo stesso Perlasca – su richiesta della Chaouqui che sembra dunque partecipare alle indagini non si capisce bene con quale ruolo – ha registrato il cardinale.

Ciferri scrive: «Pur non conoscendola personalmente, per lunghi mesi (nel 2020, ndr) ho intrattenuto con lei un’intensa messaggistica via telefono. Perché lei millantava una stretta collaborazione con lei riguardo alle indagini, col il promotore Gian Piero Milano, la gendarmeria e il Santo Padre stesso. I riscontri che forniva e le informazioni su di lei e gli altri erano così puntuali e dettagliati che non facevo fatica a crederle....mi faceva puntuali domande che credevo venissero da lei, Diddi, e che giravo a Perlasca.

Mi diceva pure che lei mi ringraziava per la collaborazione e perfino il papa avrebbe detto: «Per fortuna abbiamo questa cara signora che ci aiuta nelle indagini», Ciferri dice che Perlasca non sapeva che dietro i suggerimenti su come scrivere il memoriale ci fosse la Chaouqui, perché le due donne si erano accordate sul fatto che il misterioso consigliere era un fantomatico «magistrato in pensione».

Scrive ancora la donna al pm: «L’incontro tra Becciu e Perlasca il 6 settembre 2020 al ristornate Lo Scarpone fu completamente organizzato e pilotato dalla stessa, passo dopo passo...subito dopo l’incontro lei ne chiede immediatamente una relazione scritta, ed un’audio, mettendo a pretesto che così il professor Milano ne avrebbe potuta avere conoscenza immediata. Monsignor Perlasca diligentemente lo fa, convinto di aver reso un servizio d’informazione a voi inquirenti. Sotto potrà ascoltare gli audio in questione».

Caferri in effetti gira a Diddi messaggi della Chaoqui e alcuni audio di Perlasca, presumibilmente le registrazioni dell’incontro tra lui e il cardinale. Mentre alcuni scambi tra Genoveffa detta Genevieve e la comunicatrice vicina a Matteo Salvini, in cui si discute di come Perlasca dovrà portare con Becciu la conversazione su specifici argomenti, e di come «Perlasca farà "il depresso" da consolare».

Non è tutto. Leggendo le carte depositate ieri si scopre che nel marzo di quest’anno anche Perlasca ha deciso di denunciare la Chaouqui, con una lettera ai magistrati in cui si segnala come «la signora all’inizio delle attività di indagine sul mio conto mi inviava via telefono messaggi minatori, sottolineando che ero nelle sue mani, e solo lei poteva salvarmi da carcere certo, facendo chiaramente intendere di poter esercitare influenze sugli inquirenti».

Ora, Caferri decide probabilmente di dare a Diddi nuove informazioni sul memoriale per levarsi un peso che portava da tempo, e per aiutare l’amico in difficoltà con il contro-esame delle difese.

Ma è certo che le dichiarazioni sono rilevantissime. I promotori (che sottolineano come il memoriale abbia dato informazioni poi confermate da bonifici e prove documentali) hanno già aperto un fascicolo contro ignoti immaginando manipolazioni e complotti, ma saranno in molti a dovere chiarire se la Chaoqui si è mossa in autonomia nell’operazione Perlasca organizzata per colpire le presunte colpe di Becciu, oppure se è stata consigliata da altri.

Se davvero avesse rapporti nelle altissime gerarchie o fossero solo, come crede Ciferri, millanterie. Perché delle due l’una: o Chaoqui per motivi ignoti ha macchinato contro Becciu all’insaputa di tutti gli inquirenti, oppure è ingranaggio di una partita più grande. Tutta ancora da raccontare.

(ANSA il 24 novembre 2022) - In un filone d'indagine aperto dal promotore di giustizia vaticano parallelamente al processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, il cardinale Angelo Becciu risulta indagato con altre persone per associazione a delinquere. 

Lo ha confermato oggi ai giornalisti il promotore di giustizia Alessandro Diddi, che, in apertura della 37/a udienza del processo, ha riferito dell'esito della rogatoria per l'ipotesi di reato associativo, nell'ambito della quale il Tribunale di Sassari ha trasmesso in Vaticano i risultati degli accertamenti condotti sulla Cooperativa Spes di Ozieri, guidata dal fratello di Becciu, Antonino.

Domenico Agasso per “La Stampa” il 26 novembre 2022.

Il Papa «vuole la mia morte. Non pensavo arrivasse a questo punto». Il cardinale Giovanni Angelo Becciu, imputato Oltretevere nel processo per la compravendita del palazzo di lusso al centro di Londra e per la gestione di alcuni fondi della Santa Sede, si esprime così sul Pontefice in una chat con amici e familiari, finita nell'informativa della Guardia di Finanza di Oristano su rogatoria del Vaticano (resa nota dall'agenzia Adnkronos). Il porporato riceve anche consigli come «un colpo in testa al Papa».

L'esistenza delle conversazioni via chat - che contengono soprannomi e frasi ostili contro il Vescovo di Roma - è stata comunicata dal Promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi. Becciu usava il termine «Zizzu» («Ciccio», abbreviazione di Francesco) riferito al Papa, o «Puzzinosos», parola sarda «di senso dispregiativo», per indicare chi ha condotto indagini e processo. 

Nello scambio di messaggi del 13 luglio 2021 il cardinale - ora indagato anche per associazione a delinquere in un nuovo filone del procedimento giudiziario - esordiva con un «Buongiorno! Un bel programma per oggi». Qualcuno scriveva in chat: «Un colpo in testa al Papa», e Becciu ribatteva: «Non ci riesco»; allora «lo facciamo noi», rispondeva l'interlocutore.

«Vuole la mia morte. Mai avrei immaginato (che) non un Papa ma (che) un uomo arrivasse a tanto», scriveva il porporato alla parente Giovanna Pani, il 22 luglio 2021, due giorni prima di registrare di nascosto una telefonata a Jorge Mario Bergoglio, con l'aiuto della figlia di Pani e nipote di Becciu, Maria Luisa Zambrano. 

La donna lo invitava ad avere coraggio, «vedrai che la verità trionferà». E Becciu: «Per ora sono loro a trionfare e trafiggerci!», «ma la vittoria sarà degli onesti». Pani attaccava: «È cattivo, vuole la tua fine», riferendosi a «su Mannu», «il maggiore», appellativo riferibile al Papa.

Il prelato sosteneva: «Non vuole fare brutta figura per la condanna iniziale che mi ha dato». Per la familiare «è un grande vigliacco, ma tu combatti e fai risplendere la verità, è dura lo so, coraggio vinceremo in pieno; c'è del marcio in Vaticano». Becciu in un altro passaggio commenta l'inchiesta vaticana: «E come ne uscirà la Chiesa? A me le ossa le hanno già rotte e quindi non farò più notizia». E parla di «politica di falsa e inopportuna trasparenza».

Da rainews.it il 29 novembre 2022.

Il cardinale Giovanni Angelo Becciu è stato "ricevuto in udienza dal Santo Padre nel pomeriggio di sabato scorso". Lo riferisce lo stesso cardinale all'Ansa. Becciu ha sottolineato che "è stato, come sempre, un incontro cordiale. Oltre a fornirgli i chiarimenti che ho ritenuto necessari, gli ho manifestato e rinnovato la mia devozione assoluta. Egli mi ha incoraggiato rinnovandomi l'invito a continuare a partecipare alle celebrazioni cardinalizie". Becciu ha poi aggiunto: "Il Santo Padre mi ha autorizzato a rendere noto" questo.

"In relazione alle notizie apparse sulla stampa e, in particolare, a un'indagine per delitto associativo a carico del card. Angelo Becciu e altre persone, tra cui il prof. Tonino Becciu e la dott.ssa Maria Luisa Zambrano, gli avvocati Paola Balducci e Ivano Lai comunicano quanto segue: non risulta a carico degli interessati alcuna indagine per il reato di associazione per delinquere. Risultano in corso di svolgimento, invece, indagini preliminari condotte dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Sassari". 

Lo hanno dichiarato in una nota i legali di Tonino Becciu e Maria Luisa Zambrano, rispettivamente fratello e nipote del cardinale Angelo Becciu, secondo quanto riferito dall'Ansa sabato scorso.

Da adnkronos.com il 30 novembre 2022.

L'Adnkronos pubblica l'audio integrale della conversazione con Papa Francesco registrata (all'insaputa del pontefice) dal cardinale Angelo Becciu il 24 luglio 2021, solo pochi giorni dopo le dimissioni di Bergoglio dall'ospedale dove aveva subito una complessa operazione

Ecco le parole del Papa sofferente. L'Adnkronos pubblica in esclusiva sul sito www.adnkronos.com l'audio integrale della conversazione con Papa Francesco registrata (all'insaputa del pontefice) dal cardinale Angelo Becciu il 24 luglio 2021, solo pochi giorni dopo le dimissioni di Bergoglio dall'ospedale dove aveva subito una complessa operazione.

Una telefonata rintracciata dalla Guardia di Finanza di Oristano su due telefoni e un tablet appartenenti a Maria Luisa Zambrano, amica di famiglia di Becciu, indagata nell'inchiesta della procura di Sassari sulla Caritas di Ozieri. Una conversazione delicata, che, secondo gli investigatori, è stata fatta registrare a una terza persona (la Zambrano, appunto), pur avendo il cardinale ripetutamente invocato il Segreto di Stato durante le fasi di indagine e del processo.

Si tratta, come si può ascoltare nell'audio pubblicato in esclusiva dall'Adnkronos, di cinque minuti e trentasette secondi di conversazione in cui si sente la voce affaticata del Papa rispondere alle sollecitazioni dell'ex Sostituto della Segreteria di Stato Vaticano, che gli chiede, tra l'altro, se ricorda di averlo autorizzato ad "avviare le operazioni per liberare la suora".

Il riferimento è al denaro versato a Cecilia Marogna (mai menzionata nella telefonata con Francesco), imputata nel processo vaticano in concorso con Becciu in relazione ai 575mila euro versati dalla segreteria di Stato alla società di lei per attività di intelligence tra cui, appunto, la liberazione della suora rapita in Mali dai jihadisti. Soldi che invece, secondo l'accusa, sarebbero stati spesi dall'ex collaboratrice del cardinale in beni di lusso.

Nella registrazione - un file generato alle 14.25.555 del 24/07/2021 da un dispositivo geolocalizzato in piazza del Sant'Uffizio - si sente, a parere della Gdf, anche la Zambrano, che, secondo i finanzieri, avrebbe svolto "un ruolo attivo nella realizzazione delle operazioni di registrazione": sarebbe la sua la voce che si può ascoltare all'inizio della traccia subito prima della conversazione tra il Papa e Becciu, avvenuta verosimilmente, secondo gli investigatori, tra due telefoni di rete fissa. Nella registrazione a un certo punto si sente anche una voce maschile in sottofondo, che sembra affermare "Mi faccia sentire". Non è chiaro a quale dei due interlocutori sia vicino il quarto partecipante.

Ecco la trascrizione integrale della registrazione.

Cardinale Becciu: Oh, sei pronta?

Zambrano: Pronta

(minuto 00.05) si sente un rumore verosimilmente corrispondente all'attivazione dell'apparato telefonico del chiamante.

Papa: Pronto?

Cardinale Becciu: Si pronto, Santo Padre.

Papa: Come sta?

Cardinale Becciu: Ehh cosi cosi, Lei come sta? Si sta riprendendo?

Papa: Ehh riprendendomi da poco eh.

Cardinale Becciu: Eh lo immagino, il cammino sarà lungo, un pochino, della ripresa eh.

Papa: Si si.

(minuto 00:26) si sente una voce maschile in sottofondo, che sembra affermare "Mi faccia sentire". Non è chiaro a quale dei due interlocutori sia vicino il quarto partecipante.

Cardinale Becciu: Si, senta Santo Padre io Le sto telefonando come ehh con grande sofferenza …ehhh, cioè, io per me quasi non dovrei andare più a processo, perché, mi spiace, ma la lettera che mi ha inviato è una condanna... è una condanna... ehh perché ...io Le volevo solo chiedere se alcuni dati.... Cioè, la cosa è questa, che io non posso chiamarLa in Tribunale come testimone, non mi permetterei mai, però ci deve essere una Sua dichiarazione. Eeh i due punti sono questi: cioè, mi ha dato o no l'autorizzazione ad avviare le operazioni per liberare la suora? Eh, io mi pare glielo chiesi guardi dovrei andare a Londra eeeh eeeh emmmh ...contattare questa agenzia che si darebbe da fare, poi le dissi...ehhh che le spese che ci volevano erano 350 mila euro per le spese di questa agenzia, questi che si dovevano muovere, e poi per il riscatto avevamo fissato 500 mila, dicevamo non di più perché mi sembrava immorale dare più soldi alla… aaa... che andavano nelle tasche dei terroristi ….ecco io mi pare che l'avevo informato su tutto questo... si ricorda?

Papa: Quello si mi ricordo ehh vagamente ma ricordo si ce l'avevo si.

Cardinale Becciu: Eh...

Papa: Ma per essere preciso ….eh ho voluto…. eh... chiedere bene bene come erano le cose... eh ho scritto quello no?

Cardinale Becciu: Si, però mi ha scritto le accuse cioè ... è la teoria degli accusatori dei magistrati, cioè loro mi accusano che ho imbrogliato Lei, che non era vero che io ero stato da Lei autorizzato a fare queste opere, e quindi Lei condivide le accuse di ques... dei magistrati ed io come posso difendermi lì se Lei già mi accusa così ...eh ...mi hanno scritto cioè la lettera è proprio giuridica in cui sono le stesse frasi, stesse idee che mi trovo nell'atto di giudizio che mi porta in processo e quindi Lei condivide quelle.. quelle accuse eh... Lei mi ha sempre detto che è al di sopra non vuole interferire…

Papa: lo sono al di sopra, facciamo una cosa...

Cardinale Becciu: Si...

Papa: Su questo perché non mi invia uno scritto perché io devo consultare prima di scrivere, no? Mi invia uno scritto, si narra tutto questo e facendo un'altra relazione, eh?

Cardinale Becciu: Si perché io gliele avevo mandate quella dichiarazioni, forse non sono piaciute, non lo so; perché a me basterebbe che mi annullasse questa lettera, poi, se mi vuol dare delle dichiarazioni, bene... cioè dire "ecco, io ho autorizzato monsignore Becciu quando era Sostituto a fare queste operazioni" a me basterebbe quello…

Papa: Mi scriva tutto questo mi fa il favore perché.

Cardinale Becciu: Eh...

Papa: lo non conosco tutte queste procedure.

Cardinale Becciu: Infatti infatti li hanno preso la mano perché si vede che non è scritto da Lei tutto giuridico.

Papa: No no questo è vero.

Cardinale Becciu: E vero è tutto è tutto diritto, ci conosciamo Santo Padre eh...

Papa: Sì sì.

Cardinale Becciu: Mancava il padre che mi scrive, li è tutto è tutto diritto, come anche sul segreto di Stato... basta che Lei dica "lo osserviamo? No, non lo osserviamo", va bene, siamo liberi di parlare... "Lo osserviamo? Si" ma questa è una decisione Sua Santo Padre, io non La obbligo se non lo osserviamo il segreto di Stato…eeeeeh siamo liberi di dire tutto quello che dobbiamo dire, ecco poi...

Papa: Ho capito.

Cardinale Becciu: Ehh quindi..

Papa: Si, mi invii un po' queste spiegazioni bene e cosa Lei vorrebbe che io scrivessi.

Cardinale Becciu: Va bene allora io gliele mando, eh?

Papa: E io vedo domani lo vedrò, eh?

Cardinale Becciu: Sì sì sì e certo però se lo fa redigere da chi è dalla parte contraria…chiaro che mi... che...

Papa: No capisco capisco, no cercherò un altro consiglio, eh?

Cardinale Becciu: Va bene. Le sono grato Le sono grato davvero Santo Padre.

Papa: Grazie.

Cardinale Becciu: Prego prego prego.

Papa: Grazie preghi per me eh? Grazie.

Cardinale Becciu: Sì sì reciprocamente.

Papa: Grazie.

Cardinale Becciu: Grazie.

La chat di famiglia con giudizi taglienti su Bergoglio. Papa Francesco spiato, il cardinale Becciu e la telefonata registrata per incastrare il Pontefice (che non ci casca). Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 27 Novembre 2022

Tra soldi (grandi quantità di trasferimenti con rendicontazioni difettose), presunte intromissioni dei servizi segreti, indagini vere (italiane), tentativi reiterati di discolparsi e depistare, il processo che vede coinvolto il cardinale Angelo Becciu merita un supplemento di analisi. Ogni giorno arrivano nuovi colpi di scena. Prima la telefonata al Papa di Becciu, registrata all’insaputa del Pontefice. Ora la chat di famiglia con giudizi taglienti anche sul Papa, come accerta l’indagine che si sta svolgendo in Sardegna.

Gli inquirenti parlano di una “sostanziale ostilità dei familiari e conoscenti di Becciu verso le autorità giudiziarie vaticane e verso il pontefice”. E poi il culmine. Becciu scrive del Papa: “Non pensavo arrivasse a questo punto: vuole la mia morte”. Che dire? Intanto il processo non solo prosegue ma è destinato a protrarsi, visto che l’ultimo sviluppo, in attesa della prossima udienza del 30 novembre, vede la conferma che il cardinale risulta ora indagato per associazione a delinquere insieme ad altre persone. Il filone d’indagine è parallelo al processo in corso sulla gestione dei fondi della Segreteria di stato, sia per il palazzo di Sloane Avenue a Londra, sia per i finanziamenti alla cooperativa Spes di Ozieri, gestita da uno dei fratelli del cardinale. E veniamo alla telefonata del 24 luglio 2021. Papa Francesco all’epoca era convalescente per l’operazione subita all’intestino. E Becciu, alla ricerca di un’assoluzione che poteva venire solo da papa Francesco, al quale l’ha chiesta insistentemente, ha pensato bene di registrare la conversazione, all’insaputa (ovviamente) dell’interlocutore.

L’agenzia stampa Adnkronos ha potuto accedere ai 5 minuti e 37 secondi di dialogo, contenuti in un’informativa della Guardia di Finanza di Oristano. La telefonata è stata rintracciata dalla Gdf, nell’ambito dell’inchiesta della procura di Sassari sulla Caritas di Ozieri su due telefoni e un tablet appartenenti a una degli indagati, Maria Luisa Zambrano, amica di famiglia dei Becciu. Il porporato parla anche dei soldi versati su indicazione di Cecilia Marogna ad un’agenzia britannica per la liberazione della suora colombiana rapita dai jihadisti in Mali. «Per il riscatto – ha riferito il Procuratore Diddi – Becciu chiede al Papa di confermargli che c’era stata la sua autorizzazione a versare i soldi. Nelle sue dichiarazioni, il cardinale ha detto che il Papa era al corrente, invece nella telefonata il Santo Padre resta perplesso. D’altra parte era da poco uscito dal suo ricovero, era affaticato». In concreto il cardinale chiede insistentemente al Papa di confermare che sapeva del trasferimento dei fondi per il riscatto della suora rapita in Mali (si parla di 500mila euro, parte dei quali sarebbero andati a Cecilia Marogna, la consulente presentatasi come persona in grado di avviare operazioni umanitarie segrete). Durante l’udienza dell’altro giorno, oltre alla telefonata, si è parlato dei documenti di trasporto del pane della Coop Spes alle parrocchie.

Si tratterebbe di 928 bolle di consegna che sarebbero servite a giustificare le somme erogate dalla diocesi alla cooperativa. Il procuratore generale Alessandro Diddi ha parlato di una falsificazione delle bolle di consegna di 18 mila chilogrammi di pane. Secondo la ricostruzione della Gdf sarebbero state realizzate poche settimane prima del processo. Anche se le consegne risalgono al 2018. Le Fiamme Gialle sono andate parrocchia per parrocchia a cercare i destinatari del pane e nessuno ha riconosciuto la propria firma sui documenti di trasporto. Di sicuro nelle udienze in calendario usciranno fuori altri particolari. Sull’opacità del sistema già si è detto e basta la sommaria ricostruzione di queste righe per evidenziarlo. Chiaramente la difesa di Becciu è tirare in ballo papa Francesco: se il Papa sapeva e dava una sorta di benestare al telefono, il cardinale si sarebbe sentito scagionato. Così non è avvenuto. Povero Papa, c’è da dire: da un lato tutto il sistema vaticano fa riferimento a lui, dall’altro – evidentemente – non può conoscere tanti dettagli, tanto avrà da fare nelle sue giornate, dovendosi fidare di collaboratori sui quali, poi, chi potrà mai certificare che abbiano compreso bene le questioni? O che lo informino per bene?

Ed arriviamo allo snodo di tutte le questioni: il sistema messo in piedi nei decenni, in Vaticano, per far funzionare tutta la macchina gestionale ed organizzativa. Organizzazione che a quanto pare presenta delle falle vistose, se la magistratura vaticana deve intervenire e poi, per l’osmosi che esiste con l’Italia, alle forze dell’ordine del nostro paese spetta sbrogliare parte delle indagini. In mezzo questa volta abbiamo il vescovo di Ozieri, con le mani legate, nella vicenda in questione, perché se un cardinale di Curia come Becciu dispone, un semplice vescovo non può far altro che abbozzare e mettere da parte eventuali sospetti (qualora ne abbia). Insomma abbiamo a che fare con un sistema di potere che gestisce i soldi come fossero proprietà privata, in tanti casi vengono da fondi di cui non si devono rendicontare i movimenti. E proprio nella estrema discrezionalità del sistema stesso si annidano malaffare, corruzione, vie brevi per arrivare a risultati che riguardano piuttosto interessi privati o privatissimi (leggi: familiari).

La questione non è semplicemente finanziaria, ma ha un connotato teologico molto importante. Forse sarebbe la volta buona di far fare alla Santa Sede un passo avanti, rendendo il Papa il capo spirituale della Chiesa cattolica, e scorporando il potere esecutivo e giudiziario – attualmente uniti, in barba a Montesquieu – per tutte le questioni riguardanti problematiche amministrative. Si tratterebbe di modernizzare lo Stato della Città del Vaticano, scorporandolo dalla Santa Sede, lasciando a cardinali e arcivescovi un potere di indirizzo e per tutto il resto inserire dei laici davvero autonomi e competenti a capo dei settori amministrativi, finanziari, gestionali. Ovviamente con un sistema efficiente, trasparente, certificato, di valutazione dei risultati operativi ottenuti di anno in anno. Solo così la riforma della Curia sarebbe non solo efficace, ma veleggerebbe bene in un mondo dove la Chiesa fa la parte opaca di un sistema poco chiaro. Ad esempio lo stesso Becciu nel 2018, in tempi non sospetti (sembrava un cardinale in ascesa), dichiarava che «non è facile riformare la Curia perché c’è in atto un peso di secoli e la complessità della struttura stessa. Non è regolata da un semplice regolamento né solo dal punto di vista della legislazione canonica. C’è anche la complessità della tradizione».

Quattro anni dopo, a riforma dei Dicasteri varata da qualche mese, vediamo che già fa acqua nella misura in cui non sono stati messi in discussione i fondamenti teorici su cui si basa e seguire “la complessità della tradizione” produce danni. Uno Stato efficiente e moderno – anche con la finalità di annunciare il Vangelo – dovrebbe discutere a fondo sulla tenuta o sull’anacronismo del primo comma dell’articolo 1 della legge fondamentale del Vaticano: “Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario”. In Vaticano il potere temporale non è terminato, anzi gode di ottima salute. In realtà, vedendo tutti i guasti gestionali, si capisce che lo stato di salute è pessimo. E andrebbero messi in campo dei rimedi veri. Altrimenti si persevera nell’errore, come sanno bene gli psicologi cognitivo-comportamentali: vanno intaccate e discusse le premesse, per cambiare davvero.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Vaticano, Becciu il 22 luglio 2021 sul Papa: «Non pensavo arrivasse a questo punto: vuole la mia morte».  Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.

Nella chat riportata nell’informativa dei finanzieri di Oristano - resa nota dall’agenzia Adnkronos - la donna invita il porporato ad avere coraggio, «vedrai che la verità trionferà»

Angelo Becciu, il suo clan familiare, i preparativi per registrare di nascosto la telefonata a Papa Francesco, «prova memo vocale, prova, prova...», e fargli dire qualcosa che servisse a scagionarsi. E le chat vernacolari con i parenti: l’informativa della Guardia di Finanza di Oristano, con tanto di glossario sardo-italiano per aiutare la comprensione - tipo «Zizzu», ovvero «Ciccio» per il pontefice, e «puzzinosos», o «fetenti» e pure «demoni», a indicare chi conduce le indagini - mostra un cardinale Becciu che, sempre più preoccupato alla vigilia del processo iniziato il 25 luglio 2001, e che lo vede imputato in Vaticano per la compravendita del palazzo londinese e l’uso dei fondi della Segreteria di Stato, arriva a scrivere a Giovanna Pani, compagna del fratello, a proposito del Papa: «Non pensavo arrivasse a questo punto: vuole la mia morte».

È il 22 luglio 2021, due giorni prima della telefonata a Francesco registrata da Becciu con l’aiuto della nipote Maria Luisa Zambrano, figlia di Giovanna Pani. Gli stessi finanzieri, nell’informativa trasmessa su rogatoria del Vaticano e pubblicata dall’AdnKronos, annotano che le conversazioni, recuperate dal sequestro dei cellulari, mostrano «un regime condiviso di sostanziale ostilità nutrito da costoro verso le autorità giudiziarie vaticane e il pontefice». Come quando, il 13 luglio, Becciu saluta in chat i suoi: «Buongiorno! Un bel programma per oggi», e uno scrive: «Un colpo in testa al Papa», al che il cardinale replica «non ci riesco» e l’altro risponde: «Lo facciamo noi», prima che un’altra dica: «Dio ha il controllo di tutto, non c’è nulla da temere, basta credere, fidarsi e rigranziarLo».

Il cardinale e i suoi si sentono isolati. Dopo lo scandalo, il 24 settembre 2020 il Papa aveva tolto a Becciu i «diritti e le prerogative del cardinalato»; con un motu proprio, il 20 aprile 2021 ha permesso che per la prima volta un cardinale fosse processato in Vaticano. Becciu dice di avere avuto le autorizzazioni dal Papa, deve giustificare i fondi che sostiene siano stati spesi per la liberazione di una suora colombiana, 575 mila euro versati a Cecilia Marogna e usati, secondo l’accusa, per spese personali. Così, il 22 luglio, Becciu scrive che il Papa «vuole la mia morte» e Giovanna Pani: «Vedrai che la verità trionferà». Il cardinale replica: «Per ora sono loro a trionfare e trafiggerci!», e lei: «Ma la vittoria sarà degli onesti». A proposito del Papa, «su Mannu» («il maggiore»), Pani dice a Becciu: «È cattivo, vuole la tua fine». Il cardinale risponde: «Non vuole fare brutta figura per la condanna iniziale che mi ha dato». E aggiunge: «Mai avrei immaginato, non (che) un Papa ma un uomo arrivasse a tanto». E l’altra: «È un grande vigliacco, ma tu combatti e fai risplendere la verità, è dura lo so, coraggio vinceremo in pieno...C’è del marcio in Vaticano».

Becciu scrive ancora: «E come ne uscirà la Chiesa? A me le ossa le hanno già rotte e non farò più notizia...Che razza di responsabilità si è assunto chi ha adottato questa politica di falsa e inopportuna trasparenza. Tutti come pere cotte ne scendiamo. Credibilità zero». La telefonata al Papa del 24 luglio («Mi ha dato o no l’autorizzazione?»), registrata con l’aiuto della nipote e un altro uomo - di qui l’accusa di associazione a delinquere -, non ottiene nulla. Il processo va avanti, ieri la trentottesima udienza con l’ interrogatorio all’accusatore Alberto Perlasca e tanti «non ricordo». Il mese scorso il presidente, Giuseppe Pignatone, è sbottato: «Così arriviamo al 2070».

Vaticano, audio choc di Becciu con il Papa sofferente: il cardinale indagato per associazione a delinquere. Laura Martellini su Il Corriere della Sera il 24 Novembre 2022.

Cinque minuti e trentasette secondi di conversazione, protagonista il cardinale Becciu ora indagato per associazione a delinquere in un filone d’indagine aperto dal promotore di giustizia vaticano 

Cinque minuti e trentasette secondi di conversazione. Tanto dura la telefonata del 24 luglio 2021 con papa Francesco che il cardinale Angelo Becciu avrebbe registrato all’insaputa del pontefice. La trascrizione integrale della registrazione del colloquio - avvenuto solo dieci giorni dopo le dimissioni di Bergoglio dall’ospedale dove aveva subito una complessa operazione - è contenuta in un’informativa della Guardia di finanza di Oristano, esaminata dall’AdnKronos. La registrazione - un file generato alle 14.25 del 24 luglio da un dispositivo in piazza del Sant’Uffizio - è stata rintracciata dalla Guardia di finanza, nell’ambito di un’inchiesta della procura di Sassari sulla Caritas di Ozieri su due telefoni e un tablet appartenenti a Maria Luisa Zambrano, indagata, amica di famiglia dei Becciu.

La voce della Zambrano, che avrebbe svolto «un ruolo attivo nella realizzazione delle operazioni di registrazione», si sente anche sulla traccia, pochi minuti prima dell’inizio della conversazione tra il papa, chiaramente sofferente per i postumi dell’intervento, e Becciu. Scambio avvenuto verosimilmente tra due telefoni di rete fissa. Nella registrazione a un certo punto si sente anche una voce maschile in sottofondo, che sembra dire «mi faccia sentire». Non è chiaro a quale dei due interlocutori sia vicino il quarto partecipante.

A riferire la conversazione privata è stato il promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi, in apertura della trentasettesima udienza del processo sulla vendita del palazzo di Londra, dedicata all’ascolto della testimonianza di monsignor Alberto Perlasca (ex capo dell’ufficio amministrativo della segreteria di Stato vaticana, uno dei testi-chiave del processo in Vaticano). Agli atti il colloquio telefonico nei suoi dettagli. Il cardinale Becciu: «Sì, senta Santo Padre, io le sto telefonando con grande sofferenza, cioè io per me quasi non dovrei andare più a processo perché mi spiace ma la lettera che mi ha inviato è una condanna... è una condanna perché ...io...Le volevo solo chiedere se alcuni dati, cioè la cosa è questa, che io non posso chiamarla in Tribunale come testimone, non mi permetterei mai, però ci deve essere una sua dichiarazione.. i due punti sono questi cioè, mi ha dato o no l’autorizzazione ad avviare le operazioni per liberare la suora? Eh, io mi pare glielo chiesi. Guardi dovrei andare a Londra. ...contattare questa agenzia che si darebbe da fare, poi le dissi ..che le spese che ci volevano erano 350 mila euro. Persone che si dovevano muovere e poi per il riscatto avevamo fissato 500 mila. Dicevamo non di più perché mi sembrava immorale dare più soldi alla... che andavano nelle tasche dei terroristi ….ecco io mi pare che l’avevo informato su tutto questo... si ricorda?».

Il papa: «Quello si mi ricordo vagamente ma ricordo sì, ce l’avevo sì». Becciu: «Eh...». Il papa: «Ma per essere preciso ….ho voluto…. eh... chiedere bene bene come erano le cose... ho scritto quello no?» Il cardinale Becciu: «Sì, però mi ha scritto le accuse cioè ...eh la teoria dei magistrati, cioè loro mi accusano che ho imbrogliato lei, che non era vero che io ero stato da lei autorizzato a fare queste opere, e quindi lei condivide le accuse dei magistrati ed io come posso difendermi se lei già mi accusa così ...Mi hanno scritto cioè la lettera e proprio giuridica in cui sono le stesse frasi, stesse idee che mi trovo nell’atto di giudizio che mi porta in processo e quindi lei condivide quelle quelle accuse eh... Lei mi ha sempre detto che è al di sopra non vuole interferire…». Il papa: «Lo sono al di sopra, facciamo una cosa...». Becciu: «Sì... ». Il papa: «Su questo perché non mi dà un testo scritto, perché io devo consultare prima di scrivere, no? Mi invia uno scritto, si narra tutto questo e facendo un’altra relazione». Becciu: «Sì, perché io gliele avevo mandate quella dichiarazioni, forse non sono piaciute non lo so; perché a me basterebbe che mi annullasse questa lettera, poi se mi vuol dare dichiarazioni, bene ... cioè dire "ecco, ho autorizzato monsignor Becciu quando era sostituto a fare queste operazioni", a me basterebbe quello… ». Il papa: «Mi scriva tutto questo, mi fa il favore perché..». Il cardinale Becciu: «Eh...».

Il contesto della telefonata è stato spiegato da Diddi, il quale ha riferito che il cardinal Becciu con altre tre persone, una delle quali la nipote dello stesso porporato, Maria Laura Zambrano, nella giornata del 24 luglio 2021, a venti giorni dall’uscita di papa Francesco dall’ospedale, telefonò direttamente al pontefice per chiedergli sostegno e soprattutto la conferma che era stato lui ad autorizzarlo a pagare il riscatto per la liberazione della suora colombiana Cecilia Narvaez Angori rapita il 7 gennaio 2017 in Mali e liberata il 9 ottobre del 2021. Nel corso di quella telefonata, riprodotta in aula, ma senza i giornalisti, il papa — secondo Diddi — sarebbe rimasto «perplesso» a proposito delle richieste di rassicurazione del porporato. Il contenuto della conversazione non sarebbe il frutto di una intercettazione telefonica, ma registrato sul cellulare della Zambrano, e in seguito sequestrato dai magistrati sardi.

Da una chat del 23 giugno 2021, ha riferito sempre Diddi, emergerebbe l’attesa del cardinale Becciu — indagato per associazione a delinquere in un filone d’indagine aperto dal promotore di giustizia vaticano parallelamente al processo sulla gestione dei fondi della segreteria di Stato — per una telefonata, o un gesto distensivo del papa, che però non arriva. In una chat del 13 luglio, ha riferito sempre Diddi, Giovanni Palma, amico della nipote del cardinale, dice: «Bisognerebbe dare un colpo in testa al Santo Padre». Il 24 luglio, da casa Becciu, arriva la telefonata registrata con il papa che dura alcuni minuti. Il presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone ha dichiarato ammissibile la richiesta di ascoltare in un secondo tempo in aula la telefonata, concedendo tempo alle difese fino al 30 novembre per tessere una strategia difensiva.

Iacopo Scaramuzzi per repubblica.it il 25 novembre 2022. 

"Vuole la mia morte", "non pensavo arrivasse a questo punto": così il cardinale Giovanni Angelo Becciu, imputato in Vaticano in un processo per la compravendita-truffa di un palazzo al centro di Londra, parla di Papa Francesco in una chat con amici e famigliari. 

Il processo, iniziato il 27 luglio 2021, fu preceduto dalla decisione di Bergoglio, il 24 settembre 2020, di sollevarlo dall'incarico di prefetto della congregazione dei Santi e di togliergli i diritti legati al cardinalato.

Al momento di essere eletto Papa, Francesco aveva già trovato Becciu nella posizione di Sostituto agli affari generali, ossia numero due della Segreteria di Stato, e lì lo aveva tenuto fino al 2018, quando lo elevò alla dignità cardinalizia collocandolo alla testa del dicastero responsabile dei processi di beatificazione e canonizzazione. 

Prima dell'inizio del processo, Francesco ha anche trasferito i fondi dalla Segreteria di Stato all'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica (Apsa) ed ha modificato l'ordinamento giudiziario vaticano per far sì che anche un cardinale possa essere processato dal tribunale vaticano: prima, anche se rinviati a giudizio, comparivano davanti alla Corte di Cassazione presieduta da un porporato parigrado.

Di recente, però, pur non essendo ancora concluso il processo, il Papa ha permesso a Becciu di tornare a frequentare le cerimonie pubbliche come il Concistoro dello scorso agosto. 

La rogatoria vaticana in Sardegna

L'esistenza e i contenuti delle chat sono stati resi noti nel corso dell'udienza di mercoledì da parte del promotore di giustizia, ossia il procuratore del tribunale vaticano, Alessandro Diddi, e sono il frutto di una indagine svolta dalla Guardia di finanza di Oristano, su rogatoria del Vaticano, trasmessa ora a Roma. 

I messaggi che il cardinale sardo si scambia con i suoi amici e famigliari 2022 "seppur non appaiano fornire fonti di prova di fatti costituenti reato, descrivono l'habitat (maturato nella cerchia dei familiari e dei più stretti congiunti degli odierni indagati) nel quale l'argomento del processo vaticano al cardinale Angelo Becciu viene trattato, restituendo una serie di commenti e valutazioni che dimostrano l'esistenza di un regime condiviso di sostanziale ostilità nutrito da costoro verso le autorità giudiziarie vaticane e verso il pontefice", scrivono le stesse Fiamme gialle in una informativa ora pubblicata dall'Adnkronos. 

"E' cattivo, vuole la tua fine"

"Non pensavo arrivasse a questo punto: vuole la mia morte", scrive Becciu in un messaggio a Giovanna Pani il 22 luglio dello scorso anno, due giorni prima che, con l'aiuto della figlia di questa, Maria Luisa Zambrano, registrasse una telefonata con Papa Francesco, colpo di scena emerso nel corso dell'udienza in Vaticano. Nella chat, riportata nei dettagli nell'informativa dei finanzieri di Oristano, la donna lo invita ad avere coraggio, "vedrai che la verità trionferà", gli dice.

E lui: "Per ora sono loro a trionfare e trafiggerci!", "Ma la vittoria sarà degli onesti". Pani, di nuovo, scrive a Becciu: "E' cattivo, vuole la tua fine", riferendosi a "su Mannu", che tradotto significa "il Papa". A quel punto il cardinale risponde: "Non vuole fare brutta figura per la condanna iniziale che mi ha dato". E ancora: "Mai avrei immaginato (che) non un Papa ma (che) un uomo arrivasse a tanto". Pani allora gli risponde: "E' un grande vigliacco, ma tu combatti e fai risplendere la verità, è dura lo so, coraggio vinceremo in pieno", "c'è del marcio in Vaticano". 

"E come ne uscirà la Chiesa? A me le ossa le hanno già rotte e quindi non farò più notizia", scrive Becciu in un'altra chat. "Che razza di responsabilità si sono assunti chi ha adottato questa politica di falsa e inopportuna trasparenza", continua il cardinale che nella chat scrive in sardo. "Tutti come pere cotte ne scendiamo", continua concludendo: "credibilità zero".

Zizzu, Mannu, Puzzinosos

In un altro scambio, il 13 luglio dello scorso anno, il cardinale Angelo Becciu, esordisce: "Buongiorno! Un bel programma per oggi". Un utente della chat scrive: "Un colpo in testa al Papa", e il card. Becciu ribatte: "Non ci riesco". "Lo facciamo noi", la risposta dello stesso utente. Ma un'altra componente della chat sottolinea: "Dio ha il controllo di tutto, non c'è nulla da temere, basta credere, fidarsi e rigranziarLo sempre".

La Guardia di finanza di Oristano fornisce anche una sorta di vocabolario dal sardo all'italiano, per interpretare le chat della famiglia Becciu. "Per fare qualche esempio, quando si leggerà: 'Zizzù o semplicemente dovrà intendersi il Papa (Francesco, nome che viene comunemente abbreviato in 'Ciccio', che tradotto in sardo si scrive 'Zizzu'); 'Su Mannu', dovrà intendersi il Papa; detta allocuzione in sardo significa 'Il Grandè (inteso, nella chat, in senso gerarchico, non in senso apprezzativo), 'Il Capo', 'II Principale'". E ancora, "Puzzinosos', dovranno intendersi coloro i quali hanno condotto le indagini e il processo; si evidenzia che la parola sarda 'Puzzinosù (al plurale 'Puzzinosos') assume molteplici significati in italiano tutti di senso dispregiativo, ossia può essere tradotta con gli aggettivi 'puzzolente', 'fetido', 'maleodorante', ma anche con i sostantivi 'diavolo', 'demonio'", si legge nell'informativa.

Maria Antonietta Calabrò per justout.org il 25 novembre 2022. 

Il cardinale Angelo Becciu è indagato in Vaticano per associazione a delinquere per aver fatto registrare a una sua parente Maria Luisa Zambrano una telefonata con Papa Francesco, alla presenza anche di un altro  soggetto, un uomo, ancora non identificato.  Questa registrazione - di cui il Papa non venne messo a conoscenza - doveva in sostanza precostituire la prova che il Pontefice sapesse delle trattative per la liberazione di  una suora colombiana.

 Nella telefonata Becciu dice al Papa: "... i due punti sono questi cioè, mi ha dato o no l'autorizzazione ad avviare le operazioni per liberare la suora? Eh, io mi pare glielo chiesi guardi dovrei andare a Londra eeeh eeeh emmm ...contattare questa agenzia che si darebbe da fare, poi le dissi ..ehhh che le spese che ci volevano erano 350 mila euro per le spese di questa agenzia, questi che si dovevano muovere e poi per il riscatto avevamo fissato 500 mila, dicevamo non di più perché mi sembrava immorale dare più soldi alla… aaa... che andavano nelle tasche dei terroristi ….ecco io mi pare che l'avevo informato su tutto questo... si ricorda?" 

Come si vede nella telefonata  non una parola Becciu dice invece relativamente ai 575  mila euro arrivati nella disponibilità di Cecilia Marogna, sedicente esperta di relazioni internazionali e presunta agente del DIS, grazie a bonifici della Segreteria di Stato su un conto corrente intestato a una società slovena e che vennero spesi completamente dalla donna nell’arco di due anni per spese personali e acquisto di beni di lusso. Movimenti di  denaro segnalati già nel 2020 dall’Interpol al Vaticano.

Un’udienza lunga e a tratti drammatica  quella di ieri in cui il Promotore di Giustizia Alessandro Diddi ha depositato una serie di atti (tra cui appunto anche il file audio della telefonata registrata tra Becciu e Papa Francesco) provenienti  dalla Procura del Tribunale di Sassari che aveva sequestrato iPhone, IPad e altri dispositivi elettronici dei parenti di Becciu nell’ambito di un procedimento penale autonomamente aperto in Sardegna (numero 2494/21) che riguarda la cooperativa SPES di Ozieri.

Il procuratore Giovanni Caria ha inviato al Promotore di giustizia vaticano cinque documenti del suo procedimento, contenuti in cinque Dvd, per rispondere alla richiesta di rogatoria internazionale avanzata il 28 giugno 2022. 

Caria nella lettera di invio, data 26.10.2022, sottolinea che la richiesta di assistenza giudiziaria (che afferma essere reciproca) non deve considerarsi ancora chiusa (quindi ci potrebbero essere nuovi sviluppi) e che tuttavia il materiale inviato in Vaticano " è da considerare non più coperto da segreto investigativo".

La registrazione della telefonata è avvenuta sabato 24 luglio  2021, cioè a tre giorni dall’inizio del processo contro Becciu e altri 9 imputati davanti al Tribunale presieduto da Giuseppe Pignatone il 27 luglio e a soli 10 giorni dalla dimissione del Santo Padre dal Policlinico Agostino Gemelli, dopo che aveva subito un  serio intervento chirurgico con l’asportazione di 34 cm di colon. Come ha detto il Promotore Diddi in Aula la voce del Papa è quella di un uomo ancora molto sofferente. 

Come mai il cardinale Becciu aveva urgenza di parlare con Papa Francesco?  Perchè nei giorni precedenti, presumibilmente il 21 luglio, aveva ricevuto una lettera del Papa in cui Francesco prendeva le distanze dalle tesi difensive del cardinale relative ai denari spesi  asseritamente per la liberazione della suora e gli ribadiva per iscritto quanto emerso nelle indagini.

Solo due giorni prima, il 19 luglio  2021 quando comparvero per Roma manifesti contro il Papa: "A’ France’…. Ma ‘ndu sta la tua misericordia?" Becciu commenta ai parenti entusiasti dell’iniziativa :"Lassadelu in pace: prima mi salva da e poi I di us ite faghere!!!! "Lasciatelo in pace : prima mi salva e poi vediamo cosa fare". 

E invece arriva la doccia fredda. La lettera "che è stata firmadda" come annuncia uno dei fratelli che evidentemente aveva qualche sua fonte a Santa Marta , non risponde alle aspettative. 

Lo si comprende da altre chat sequestrate sui dispositivi dei parenti di Becciu. In chat con Giovanna Pani (compagna del fratello Mario) Becciu sostiene infatti il 22 luglio: "Non pensavo che arrivasse a questo punto: vuole la mia morte". E Pani risponde "E’ cattivo vuole la tua fine Su Mannu "che tradotto dal sardo, scrive il comandante della Nucleo di Polizia economico-finanziaria di Oristano, tenente colonnello Pasquale Pellecchia "il Grande ",  cioè il Papa. E il cardinale risponde "Sì, proprio così". 

La Pani sostiene che Francesco agisce come Ponzio Pilato e lui approva e dice: "Brava".

Riproduciamo qui la trascrizione  di una dell’audio effettuata dalla Guardia di finanza, in cui si comprende bene che  la telefonata è stata registrata dalla Zambrano ed è presente un altro uomo.  E la copia delle pagine dedicate alla trascrizione nell’ informativa della Guardia di finanza. 

Come si può leggere il Papa cerca di dire il meno possibile, dà l’impressione di dare ragione a Becciu. Mai viene fatto il nome della Marogna nè i soldi finiti a lei. Il Pontefice chiede al cardinale di scrivergli ancora la sua versione. Questo rincuora Becciu che fa preparare un comunicato dai suoi avvocati in cui si dice sicuro che tutto verrà chiarito.

Ma è una illusione che dura pochi giorni perchè una nuova lettera del Papa arriverà a Becciu, se possibile più dura della prima. 

Il fatto che la telefonata sia stata registrata da persone estranee alla Santa Sede, sia stata da loro ascoltata non solo il giorno della registrazione, ma anche il giorno successivo  25 luglio nella casa romana del fratello di Becciu, Mario, e quando ancora la questione delle trattative per la liberazione della suora, secondo lo stesso Becciu , era  coperta dal più stretto segreto di Stato potrebbe costituire violazione dell’articolo 116 bis del codice penale vaticano: una norma anti Vatileaks  introdotta l’11 luglio 2013 dopo lo scandalo del maggiordomo di Benedetto XVI , che  punisce la rivelazione "di notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede o dello Stato" viene punita  con la pena della reclusione da quattro ad otto anni".

Silvia Mancinelli per adnkronos.com il 24 novembre 2022.  

Cinque minuti e trentasette secondi di conversazione. Tanto dura la telefonata del 24 luglio 2021 con Papa Francesco che il cardinale Angelo Becciu avrebbe registrato all'insaputa del pontefice. 

La trascrizione integrale della registrazione della telefonata - avvenuta solo dieci giorni dopo le dimissioni di Bergoglio dall'ospedale dove aveva subito una complessa operazione - è contenuta in un'informativa della Guardia di Finanza di Oristano, che l'Adnkronos ha potuto visionare.

La registrazione - un file generato alle 14.25.555 del 24/07/2021 da un dispositivo geolocalizzato in piazza del Sant'Uffizio - è stata rintracciata dalla Gdf, nell'ambito di un'inchiesta della procura di Sassari sulla Caritas di Ozieri, su due telefoni e un tablet appartenenti a una degli indagati, Maria Luisa Zambrano, amica di famiglia dei Becciu. 

La voce della Zambrano, che, secondo quanto si legge avrebbe svolto "un ruolo attivo nella realizzazione delle operazioni di registrazione", si sente anche sulla traccia, pochi minuti prima dell'inizio della conversazione tra il Papa, chiaramente sofferente per i postumi dell'intervento, e Becciu, avvenuta verosimilmente tra due telefoni di rete fissa. Nella registrazione a un certo punto si sente anche una voce maschile in sottofondo, che sembra affermare "Mi faccia sentire". Non è chiaro a quale dei due interlocutori sia vicino il quarto partecipante.

Ecco la trascrizione integrale della registrazione. 

Cardinale Becciu: Oh, sei pronta? 

Zambrano: Pronta 

(minuto 00.05) si sente un rumore verosimilmente corrispondente all'attivazione dell'apparato telefonico del chiamante. 

Cardinale Becciu: Si pronto, Santo Padre. 

Papa: Come sta? 

Cardinale Becciu: Ehh cosi cosi, Lei come sta? Si sta riprendendo?

Papa: Ehh riprendendomi da poco eh. 

Cardinale Becciu: Eh lo immagino, il cammino sarà lungo, un pochino, della ripresa eh. 

Papa: Si si. 

(minuto 00:26) si sente una voce maschile in sottofondo, che sembra affermare "Mi faccia sentire". Non è chiaro a quale dei due interlocutori sia vicino il quarto partecipante.

Cardinale Becciu: Si, senta Santo Padre io Le sto telefonando come ehh con grande sofferenza …ehhh, cioè io per me quasi non dovrei andare più a processo perché mi spiace ma la lettera che mi ha inviato è una condanna... è una condanna ehh perché ...io Le volevo solo chiedere se alcuni dati, cioè la cosa è questa, che io non posso chiamarLa in Tribunale come testimone, non mi permetterei mai, però ci deve essere una Sua dichiarazione ehh... i due punti sono questi cioè, mi ha dato o no l'autorizzazione ad avviare le operazioni per liberare la suora? 

Eh, io mi pare glielo chiesi guardi dovrei andare a Londra eeeh eeeh emmm ...contattare questa agenzia che si darebbe da fare, poi le dissi ..ehhh che le spese che ci volevano erano 350 mila euro per le spese di questa agenzia, questi che si dovevano muovere e poi per il riscatto avevamo fissato 500 mila, dicevamo non di più perché mi sembrava immorale dare più soldi alla… aaa... che andavano nelle tasche dei terroristi ….ecco io mi pare che l'avevo informato su tutto questo... si ricorda?

Papa: Quello si mi ricordo ehh vagamente ma ricordo si ce l'avevo si. 

Cardinale Becciu: Eh... 

Papa: Ma per essere preciso ….eh ho voluto…. eh... chiedere bene bene come erano le cose... eh ho scritto quello no? 

Cardinale Becciu: Si, però mi ha scritto le accuse cioè ...eh la teoria degli accusatori dei magistrati, cioè loro mi accusano che ho imbrogliato Lei, che non era vero che io ero stato da Lei autorizzato a fare queste opere, e quindi Lei condivide le accuse di ques...dei magistrati ed io come posso difendermi li se Lei già mi accusa così ...eh ...mi hanno scritto cioè la lettera e proprio giuridica in cui sono le stesse frasi, stesse idee che mi trovo nell'atto di giudizio che mi porta in processo e quindi Lei condivide quelle accuse eh... Lei mi ha sempre detto che è al di sopra non vuole interferire… 

Papa: lo sono al di sopra, facciamo una cosa... 

Cardinale Becciu: Si... 

Papa: Su questo perché non mi dà uno scritto perché io devo consultare prima di scrivere, no? Mi invia uno scritto, si narra tutto questo e facendo un'altra relazione, eh? 

Cardinale Becciu: Si perché io gliele avevo mandate quelle dichiarazioni, forse non sono piaciute non lo so; perché a me basterebbe che mi annullasse questa lettera, poi se mi vuol dare delle dichiarazioni, bene ... cioè dire "ecco, ho autorizzato il Monsignore Becciu quando era Sostituto a fare queste operazioni" a me basterebbe quello… 

Papa: Mi scriva tutto questo mi fa il favore perché. 

Cardinale Becciu: Eh... 

Papa: lo non conosco tutte queste procedure. 

Cardinale Becciu: Infatti infatti li hanno preso la mano perché si vede che non è scritto da Lei tutto giuridico. 

Papa: No no questo è vero. 

Cardinale Becciu: E vero è tutto è tutto diritto, ci conosciamo Santo Padre eh... 

Papa: Si si. 

Cardinale Becciu: Mancava il padre che mi scrive, li è tutto è tutto diritto, come anche sul segreto di Stato basta che Lei dica "lo osserviamo? No, non lo osserviamo" va bene, siamo liberi di parlare... "Lo osserviamo? Si" ma questa è una decisione Sua Santo Padre, io non La obbligo se non lo osserviamo il segreto di Stato…eeeeeh siamo liberi di dire tutto quello che dobbiamo dire, ecco poi... 

Papa: Ho capito. 

Cardinale Becciu: Ehh quindi.. 

Papa: Si, mi invii un po' queste spiegazioni bene e cosa Lei vorrebbe che io scrissi scrivessi. 

Cardinale Becciu: Va bene allora io gliele mando, eh? 

Papa: E io vedo domani lo vedrò, eh? 

Cardinale Becciu: Sì sì sì e certo però se lo fa redigere da chi è dalla parte contraria…chiaro che mi... che... 

Papa: No capisco capisco, no cercherò un altro consiglio, eh? 

Cardinale Becciu: Va bene va bene Le sono grato Le sono grato davvero Santo Padre. 

Papa: Grazie. 

Cardinale Becciu: Prego prego prego. 

Papa: Grazie preghi per me eh? Grazie. 

Cardinale Becciu: Sì sì reciprocamente. 

Papa: Grazie. 

Cardinale Becciu: Grazie.

Registrazione terminata

(ANSA il 23 novembre 2022.) - Con l'acquisto e la successiva vendita del Palazzo di Sloane Avenue 60, a Londra, la Santa Sede ha perso in tutto 89 milioni di sterline. E' quanto emerso per la prima volta nel processo in corso in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. 

"Nel dicembre 2018 dissi che se l'immobile era stato acquisito per 275 milioni non era stato fatto un buon affare - ha riferito in aula il testimone d'accusa Luciano Capaldo, esperto di valutazioni immobiliari -. Anzi fu un pessimo affare, considerando che a fine giugno di quest'anno è stato rivenduto (al fondo americano Bain Capital, ndr) per 186 milioni di sterline" 

Capaldo, cittadino britannico, ingegnere ed esperto di valutazioni immobiliari, era stato chiamato il 16 dicembre 2018 dalla Segreteria di Stato che voleva da lui consigli sulle migliori opportunità per uscire dall'impasse del palazzo londinese dopo l'acquisto attraverso il fondo Gutt di Gianluigi Torzi. 

"C'era stata la deliberata volontà da parte della Segreteria di Stato di riacquistare l'immobile, poi trasferito alla società lussemburghese in cui Torzi aveva mille azioni con diritto di voto e la Segreteria di Stati ben 30 mila ma senza diritto di voto - ha ricordato -. Spiegai che se non hai diritto di voto, in assemblea non hai alcun potere decisionale, pur avendo la maggioranza numerica delle azioni".

Nell'Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, in particolare da parte di Fabrizio Tirabassi, si mostrò molta sorpresa. C'era anche preoccupazione sulla scadenza del finanziamento. "Il sostituto mons. Pena Parra - ha detto ancora Capaldo - aveva timore che questo asset venisse venduto e che a lui rimanesse il debito". Torzi, infatti, aveva il potere di farlo.

Si è ricordato in aula come Torzi, per cedere alla Segreteria di Stato le mille 'golden share', chiese dapprima 20 milioni e poi 15 milioni di euro, "valutando in 5 milioni complessivi la gestione e la mancata gestione". Successivamente, da metà maggio 2019, Capaldo fu nominato 'nominee director' della società di Jersey che aveva la gestione dell'immobile, attraverso la catena di società 60SA.

"Non ho fatturato un centesimo alla Segreteria di Stato dal 16 dicembre a quando sono stato nominato direttore della 60SA", ha tra l'altro affermato. L'esame di Capaldo, venuto appositamente da Londra, proseguirà da parte delle difese in una data ancora da destinarsi. Domani, nella 37/a udienza del processo, comincerà l'esame del testimone-chiave, mons. Alberto Perlasca, ex capo dell'Ufficio amministrativo.

Al termine dell'udienza di oggi, il presidente Giuseppe Pignatone ha letto una lunga ordinanza in cui ha respinto quasi integralmente le eccezione di nullità dei verbali resi in istruttoria da Perlasca e la sua utilizzabilità come testimone (il testimone era stato dapprima indagato e poi la sua posizione archiviata): inutilizzabile solo in parte il suo interrogatorio del 31 agosto 2020.

Una curiosità: nel motivare le sue decisioni di rigettare le eccezioni di nullità di interrogatori in cui sarebbe stata necessaria la presenza di un legale, Pignatone ha fatto riferimento, in via giurisprudenziale, all'utilizzo che fu dichiarato legittimo di certe dichiarazioni rese durante gli 'anni di piombo' da esponenti delle Brigate Rosse.

(ANSA l’11 novembre 2022) - Il Tribunale di Como ha condannato il card. Angelo Becciu a risarcire mons. Alberto Perlasca, ex capo dell'Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, e l'amica di quest'ultimo Genoveffa Ciferri, rilevando nei confronti del porporato un "abuso dello strumento processuale" nella causa intentata contro i due per danno non patrimoniale da reato (atti persecutori), istanza che il Tribunale ha rigettato.

Becciu è stato condannato a rifondere le spese processuali a Perlasca e alla Ciferri (oltre 20 mila euro ciascuno) e a risarcire per il danno subito Perlasca, testimone-chiave nel processo sui fondi della S.Sede, per 9 mila euro.

Fausto Gasparroni per l’ANSA il 10 novembre 2022.

 "Nei giorni scorsi abbiamo depositato degli atti presso il Tribunale dello Stato vaticano con l'intento di chiarire quanto ci è accaduto e per ottenere un giusto ristoro per i danni subiti". E' quanto annunciano l'ex revisore generale dei conti vaticani e della Santa Sede, Libero Milone, e l'ex revisore aggiunto Ferruccio Panicco, entrambi drasticamente estromessi dal loro ruolo nel giugno 2017, due anni dopo la nomina di Milone, contestando alla radice le ragioni per cui furono costretti alle dimissioni (aver fatto 'spiare' autorità di governo vaticane).

La richiesta presentata in sede civile ammonta complessivamente per i due a 9.278.000 euro di danni. La "domanda giudiziale" datata 19 ottobre scorso, presentata al Tribunale d'Oltretevere tramite gli avvocati Romano Vaccarella e Giovanni Merla, è diretta contro la Segreteria di Stato, nella persona del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, e dello stesso Ufficio del Revisore generale, nella persona dell'ex aggiunto poi promosso al posto di Milone, Alessandro Cassinis Righini.

In sostanza, i due ex 'auditor' vaticani chiedono che il Tribunale, "accertata l'invalidità per vizio di volontà (violenza) e la conseguente inefficacia delle dimissioni estorte" il 19 giugno 2017 a Milone e il giorno dopo a Panicco, condanni la Segreteria di Stato - quale legale rappresentante della Santa Sede - e/o, quanto a Panicco, anche l'Ufficio del Revisore "alla corresponsione del compenso pattuito fino all'esaurimento dell'incarico a tempo determinato loro conferito", ed inoltre "al risarcimento del danno per la lesione subita dalla loro immagine professionale a causa del carattere calunnioso del loro allontanamento".

Panicco, ancora, "ha subito un gravissimo, quanto odiosamente gratuito, danno alla salute", poiché "una delicata documentazione medica strettamente personale", risultato di un lungo percorso diagnostico presso il Fas della Città del Vaticano "quale paziente potenzialmente oncologico", è sparita all'atto della perquisizione del suo ufficio e da lui mai più rinvenuta, nonostante le ripetute richieste di restituzione alla Gendarmeria e le sollecitazioni arrivate fino al card. Parolin.

L'aver dovuto poi ripetere l'iter medico a Torino ha ritardato la diagnosi e pregiudicato la curabilità della malattia, un cancro alla prostata. "Statisticamente non ho speranze di guarigione - dice in un incontro con alcuni giornalisti insieme a Milone e ai legali -. Penso che loro (il Vaticano) siano colpevoli, non dolosamente, di avermi condannato a morte senza motivo dopo una lenta e significativa sofferenza. Mi hanno tolto dai 10 ai 15 anni di vita". 

Milone, oltre a rivendicare l'assoluta correttezza del suo operato secondo i compiti di revisione contabile assegnatigli dal Papa, ribadisce di non aver mai fatto spiare nessuno ("in Vaticano hanno confuso la revisione con lo spionaggio") e spiega che l'agenzia Falco Investigazioni di Arezzo che aveva ingaggiato doveva solo svolgere verifiche fuori dai confini vaticani (anagrafe, catasto, ecc.) nonché sulla sicurezza dell'ufficio, esso stesso fuori dalle Mura Leonine: nel quale peraltro c'era stato lo scasso del suo computer, trovato uno spyware in quello della segretaria, scoperta una microspia impiantata nelle pareti.

L'ex revisore generale ne ha anche per l'indagine per spionaggio e peculato cui era stato sottoposto insieme a Panicco, sulla quale dapprima aveva saputo fosse stata "congelata", poi che non cerano più pendenze a loro carico, quindi che vi era stata apposto il "segreto pontificio", e che infine la rimozione di quest'ultimo ha avuto l'effetto di farla ripartire, "quindi la beffa e il danno". 

"Siamo stati convocati di nuovo per ulteriori approfondimenti il 14 novembre", annuncia. Ma soprattutto Milone - allegando alla citazione civile anche una serie di casi "di mancanza di rispetto delle regole" portati alla luce nei due anni di lavoro, tutti "diligentemente riferiti al Santo Padre" e a Parolin - vede il suo siluramento legato al "groviglio di interessi e di assetti di potere nel quale l'Ufficio era chiamato a mettere le mani" e alle relative resistenze e insofferenze incontrate.

Senza dimenticare che della sua cacciata si assunse la paternità il cardinale Angelo Becciu quando dichiarò, nel settembre 2017, che "Milone è andato contro tutte le regole e stava spiando le vite private dei suoi superiori e dello staff, incluso me. Se non avesse accettato di dimettersi, lo avremmo perseguito in sede penale". "Quello che non è mai stato chiarito - osserva ora l'ex revisore - è perché il Promotore di Giustizia abbia consentito di barattare il mio arresto con le mie dimissioni. Secondo il Codice penale vaticano avrebbero dovuto arrestarci, ma hanno cercato di barattare le nostre forzate dimissioni con il silenzio".

(ANSA il 10 novembre 2022) - "Con riferimento alle dichiarazioni attribuite al dottor Milone, si tratta di ricostruzioni completamente infondate e che, inevitabilmente, provocheranno immediate azioni legali a tutela della verità e dell'onore del Cardinale". 

E' quanto annunciano gli avvocati Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo, difensori del cardinale Angelo Becciu. "Questi i fatti, rappresentati dal Cardinale Becciu in Tribunale, già all'udienza del 18 maggio 2022, dopo aver ricevuto dal Sommo Pontefice l'autorizzazione a riferirne al Tribunale - spiegano i legali -. Il Cardinale ha chiarito che si limitò esclusivamente ad eseguire un ordine del Santo Padre, il Quale lo informò direttamente che il dottor Milone non godeva più della Sua fiducia, e lo invitava a rassegnare quindi le proprie dimissioni". 

"In relazione alle motivazioni, che nulla hanno a che vedere con la volontà del Cardinale Becciu, né con sue personali iniziative - proseguono -, è stato richiamato il comunicato pubblicato dalla Sala stampa Vaticana del 24 settembre 2017. In esso si legge che era stata rilevata un'attività di sorveglianza illegale commissionata dal dottor Milone ad una società esterna, per sorvegliare la vita privata di esponenti della Santa Sede". 

"Si ricorda, infine - concludono gli avvocati Viglione e Marzo -, che la revoca dell'incarico a PwC fu assunta formalmente dal Cardinale Segretario di Stato, per dubbi circa 'alcune clausole del contratto e le sue modalità di esecuzione', come affermava la Sala stampa vaticana il 26 aprile 2016".

Fausto Gasparroni per l’ANSA il 10 novembre 2022.

"A dimostrazione di come l'Ufficio del Revisore generale, sotto la guida del dott. Milone, abbia svolto il compito affidatogli, nel più rigoroso rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni, ma con l'impegno e la convinzione derivante anche dalla promessa di costante e vigilante appoggio del Santo Padre", alla loro domanda di citazione con la richiesta di risarcimento danni alla Santa Sede per l'indebito allontanamento - consegnata a un gruppo di giornalisti in presenza dei legali -, lo stesso Libero Milone e l'ex aggiunto Ferruccio Pannicco allegano una serie di casi di presunte anomalie e irregolarità finanziarie portate alla luce nei due anni di lavoro, in attesa di depositare all'udienza preliminare, quando sarà convocata, la relativa documentazione, con i nomi e i cognomi.

Una nuova "bomba" pronta ad esplodere, quindi, con dentro anche un altro palazzo comprato a Londra dalla Santa Sede. Tra i principali risultati del lavoro di revisione contabile svolto da Milone in enti e Dicasteri vaticani, tutti riferiti al Papa, la scoperta di un presunto occultamento di fondi - dai soldi ricevuti dai donatori a livello mondiale - da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, con 250 mila euro che sarebbero stati versati in un conto Ior, non del Dicastero bensì dell'allora prefetto, e altri 250 mila euro in banconote trovati in una busta di plastica nell'ufficio del prefetto. 

Poi asserite distrazioni di fondi da parte del Pontificio Consiglio per la Famiglia, e gravi conflitti di interesse, sempre secondo l'ex revisore generale, di importanti esponenti della Prefettura degli Affari economici. Ancora, l'ostruzionismo opposto dai vertici dell'Apsa ad ogni controllo e, soprattutto, alla verifica dei conti. 

Ancora per quanto riguarda l'Apsa, una asserita distrazione di fondi, con possibile peculato, nei rapporti con un terzo gestore di una tenuta agricola, per circa 800 mila euro. Il presunto "finanziamento illegale" di 50 milioni - dice Milone - da parte dell'ospedale Bambino Gesù alla Fondazione Monti, "in evidente conflitto di interesse", con coinvolgimento della Congregazione dei Figli dell'Immacolata Concezione per la vicenda Idi. 

Gli indebiti prelievi da parte di un monsignore del Pontificio Consiglio della Famiglia. Il fatto che l'Ufficio del Revisore, spiega, trasmise all'Aif 13 segnalazioni documentate ma nessuna di queste fu approfondita, e analogamente 9 denunce all'ufficio del Promotore di Giustizia, tutte senza risposta. I "gravissimi rischi" connessi al sistema di pagamento Swift adottato dall'Apsa, ritenuto "manipolabile", riferisce l'ex revisore. 

Come pure "le gravissime e non rimediate criticità" dell'Apsa nella gestione "di enormi somme nonché di un ingentissimo patrimonio immobiliare, proprio e di terzi" (ad esempio il Capitolo di San Pietro cui non venivano versati gli affitti riscossi sulle proprietà). La sparizione di 2,5 milioni di euro donati dalla Fondazione Bajola Parisani all'ospedale Bambino Gesù - afferma - per la realizzazione di un nuovo padiglione, realizzazione "sostituita" dall'apposizione di una targa di ringraziamento all'ingresso di un vecchio padiglione. 

Un bonifico di 500 mila euro dello stesso Ospedale pediatrico alla Fondazione Bambino Gesù asseritamente per una "campagna di marketing", in realtà sarebbe stato destinato, secondo Milone, al finanziamento di partiti politici italiani prima delle elezioni del 2013. La ristrutturazione dell'appartamento del cardinale con i lavori pagati due volte, sia dal Bambino Gesù che dal Governatorato, spesa per metà veicolata all'estero.

E ancora, l'illecito utilizzo di fondi della Gendarmeria - secondo l'ex revisore - per coprire la quota delle spese di ristrutturazione (170 mila euro) a carico del comandante Giani. L'acquisto di un prestigioso immobile a Londra, in High Street Kensington, tramite un Trust di Jersey, in cui un cardinale, provvedendo all'acquisto nella duplice qualità di presidente dell'Apsa - per il 50%, pari a 90 milioni - e del Fondo Pensioni Vaticano - per l'altro 50%, altri 90 milioni - non solo violava la legge antiriciclaggio ma illegalmente ignorava l'esplicita contrarietà all'acquisto espressa dal prefetto della Segreteria per l'Economia, cui spettava la decisione finale.

Esisterebbe addirittura una lettera - sempre secondo Milone - in cui il porporato, in veste di presidente del Fondo Pensioni, approva l'investimento indirizzandola a sé stesso in quanto presidente Apsa. Infine, indicata da Milone l'opaca gestione del Giubileo 2015 da parte di un monsignore. E i rapporti contrattuali anomali, tra cui la locazione ad un notissimo giornalista di un sontuoso appartamento nel centro di Roma. 

Eloquente l'annotazione: "Ne emergerà un'immagine dei vertici della Santa Sede assai poco compatibile con la missione ad essa affidata dalla Provvidenza e la convinta sensazione della impossibilità, allo stato, che l'incrostazione di potere di cui molti degli amministratori della Santa Sede erano, e sono, fedele espressione sia anche solo scalfita - mentre ogni concreta iniziativa è sabotata - da velleitari (ed irrisi) appelli ai doveri di ogni buon cristiano", conclude il testo.

Vaticano, la denuncia dell’ex revisore: «Buste con contanti e soldi ai partiti». Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 10 Novembre 2022.

«Poi in Vaticano giravano buste con denaro contante; nell’ufficio di un cardinale ne abbiamo trovata una di plastica, di quelle della spesa, con mazzette di banconote per 500mila euro. Al Bambin Gesù abbiamo analizzato le donazioni della vecchia gestione, fino al 2015, e verificato che 500mila euro destinati alla Fondazione erano poi finiti, attraverso società di dipendenti, a finanziare partiti politici per le elezioni del 2013». Dopo cinque anni dal suo siluramento con le accuse mai formalizzate di peculato e spionaggio, l’ex revisore generale del Papa, Libero Milone, 74 anni, abbandona i giri di parole e apre l’armadio degli scheletri del Vaticano. Vecchie inedite storie che si saldano con fatti nuovi.

«Dieci milioni di risarcimento»

A Roma, nello studio dell’avvocato Romano Vaccarella, insieme all’ex collega vice-revisore Ferruccio Panicco, 63 anni, collegato in videoconferenza, l’ex numero uno in Italia della Deloitte annuncia di aver citato per danni la Santa Sede. Chiedono, con un atto depositato al tribunale del Papa, 9,6 milioni di risarcimento, «anche per i 20 anni di vita che il Vaticano mi ha tolto - afferma Panicco - privandomi delle carte sanitarie sequestrate in ufficio con il resto e non più riconsegnate: avevo tutto lì, mi hanno impedito di diagnosticare in tempi più rapidi un cancro alla prostata che ora è al quarto stadio».

L’inchiesta penale

Gli scheletri sono quelli che Milone ha visto (e sistematicamente denunciato al Papa, sostiene) quando da 007 finanziario (2015-2017) ha bussato a molte porte dentro le sacre mura: alcune si sono aperte altre no. Ha indagato troppo e gli hanno fatto terra bruciata intorno, a cominciare dall’allora arcivescovo Angelo Becciu come lui sostiene? Resta la sua versione a cui si contrappongono le accuse di spionaggio e peculato che ora si sono concretizzate in un’inchiesta penale a suo carico. È l’altra novità: da alcuni mesi Milone è formalmente sotto inchiesta per peculato e abuso d’ufficio in quella che sembra la riesumazione di un fascicolo «in sonno» sottoposto ufficialmente a «segreto pontificio». Lunedì sarà interrogato per la seconda volta.

Il redde rationem

Insomma siamo a un redde rationem durissimo, che matura evidentemente, dopo il fallimento di una conciliazione con il Segretario di Stato, Pietro Parolin. Si è rotto l’argine e ora Milone è pronto ad allegare tutte le carte nel procedimento civile avviato presso il tribunale del papa con la citazione per danni («con il falso marchio addosso di spioni non abbiamo più lavorato») depositata il 4 novembre. Ma cosa racconta Milone dei suoi due anni a spulciare bilanci e fatture nelle decine di enti del Vaticano? Bisogna tener conto che i fatti non sono recenti e nel frattempo il sistema economico vaticano si è radicalmente evoluto (complice anche la scandalosa vicenda del Palazzo di Londra) compiendo passi da gigante verso la trasparenza e le più moderne prassi internazionali. L’approccio di Milone era quello del revisore con esperienza di grandi aziende (Fiat) tra Europa e Stati Uniti. Suoi interlocutori/controparti, invece, erano i preti con le stellette, abituati a logiche e prassi decisamente fuori dall’ordinario, dal tempo e spesso anche dalle regole.

La lettera riservata al Papa

«Nel mio periodo ho esaminato fatture e pagamenti che riguardavano prelati, cardinali, vescovi. Questo è il lavoro tipico del revisore, non è spionaggio». In una lettera riservata al Santo Padre del 6 ottobre 2015 Milone, arrivato da pochi mesi già segnalava situazioni assai critiche:

1) «L’illegale coinvolgimento dell’Ospedale Bambin Gesù - si legge nell’atto di citazione, sottoposto al vaglio del tribunale con i documenti allegati - nell’acquisizione dell’Idi e dell’Ospedale San Carlo»;

2) «L’occultamento di fondi da parte della Congregazione della dottrina della fede»;

3) «Le distrazioni di fondi da parte del Pontificio consiglio per la famiglia»;

4) «I gravi conflitti di interesse di importanti esponenti della Prefettura degli affari economici»;

5) «L’ostruzionismo dell’Apsa ad ogni controllo e verifica dei conti». In un’altra nota riservata (sono tutte allegate alla citazione) l’ex revisore segnalava «l’illegale finanziamento da parte dell’ Ospedale Bambin Gesù alla Fondazione Monti di 50 milioni in evidente conflitto di interesse …conflitto segnalato, come sempre senza seguito alcuno, al promotore di giustizia», cioè la Procura del Papa.

«Ostentato disinteresse» dei pm

Tra i documenti depositati dal professionista vi è anche una lettera del novembre 2015 di Mariella Enoc, neopresidente del Bambin Gesù, «che segnala l’anomalo impiego di cospicui fondi per il restauro dell’appartamento di un cardinale». Lettera e risposta del cardinale sono state spedite «come sempre invano» al promotore di giustizia. A fine 2015 in un memo riservato al segretario particolare del Papa, Lahzi Gaid veniva segnalata, tra l’altro, «l’insufficiente collaborazione - ovvero ostentato disinteresse - da parte del promotore di giustizia e dell’Aif (l’ente antiriciclaggio, ndr), per le iniziative in chiaro odore di riciclaggio».

Il Bambin Gesù e i soldi nel 2013 ai partiti

Nel marzo 2017 viene redatta - ed è oggi agli atti - una dettagliata relazione sui conti allo Ior dell’Ospedale Bambin Gesù relativa al periodo 2009-2015. Secondo Milone sarebbero «spariti 2,5 milioni di euro donati dalla Fondazione Bajola Parisani per la realizzazione di un nuovo reparto». Al suo posto è stata messa una targa all’ingresso di un vecchio reparto. Poi c’è il caso di un bonifico da 500mila euro dall’Ospedale alla sua Fondazione, in teoria per una campagna di marketing «in realtà destinati al finanziamento illecito di partiti» nelle politiche del 2013 dopo il transito attraverso società di dipendenti.

L’appartamento di Giani

Sempre nella relazione del marzo 2017 sui conti dello Ior viene segnalato «l’illecito utilizzo di fondi della Gendarmeria per coprire la quota delle spese di ristrutturazione (170mila euro) a carico del comandante Domenico Giani». Mons Carlos Nannei dell’Opus Dei, amico del Papa, voleva chiarimenti - racconta Milone - sulla questione dell’allora capo della Gendarmeria, «ci siamo incontrati e io gli ho consegnato la relazione da dare al Santo Padre».

La busta della spesa (da 500mila euro) del cardinale

Un capitolo riguarda la Congregazione Dottrina della Fede che, secondo l’ex revisore, «riceveva soldi molto spesso in contanti o assegni e una parte venivano versati su un conto allo Ior. Quando abbiamo fatto la revisione abbiamo visto che quel conto era del Prefetto e non dell’ente, si trattava di 250mila euro». Prefetto allora era il cardinale tedesco Gherard Müller. Ma non sappiamo, e Milone non dice, se il cardinale utilizzasse per sé quel conto o era totalmente al servizio della Congregazione. Quindi potrebbe essere solo una prassi contabile da terzo mondo, «padronale». Milone ricorda un altro episodio, ovvero il ritrovamento «nell’ufficio di Müller di una busta di plastica della spesa dove c’erano mazzette di banconote per 500mila euro, Panicco ha visto il sacchetto: tutto ciò è stato scritto in una relazione al Papa che sarà allegata come le altre all’atto di citazione». Nello Stato vaticano il potere di chiunque si ferma dove comincia quello, assoluto, del Papa. Il revisore ha segnalato ma il Papa non risulta che sia intervenuto. Forse c’era una spiegazione banale alla presenza di così tanto denaro contante. E comunque nelle prassi felpate del potere vaticano spesso pene e punizioni si nascondono dietro promozioni e cariche onorarie.

L’Apsa e il trust a Jersey

Nella Società Agricola San Giuseppe controllata dall’Apsa c’era un buco di «800mila euro per mancato pagamento degli affitti e prestiti fatti a varie società e mai restituiti», denuncia Milone sostenendo che la gestione familistica, riconducibile al cardinale Domenico Calcagno, avrebbe danneggiato l’azienda. Puntando la lente sull’Apsa («esplicita richiesta del Santo Padre di far chiarezza sull’intero patrimonio») emerge il caso dell’acquisto di un prestigioso immobile a Londra-Kensington per 90 milioni «attraverso un trust di Jersey, dietro al quale non abbiamo mai capito chi ci fosse». Il cardinale Calcagno «provvedendo all’acquisto nella duplice qualità di presidente dell’Apsa, per il 50% e del Fondo Pensioni vaticano, altro 50%, non solo aveva violato la legge antiriciclaggio ma aveva illegalmente ignorato l’esplicita contrarietà all’acquisto espressa dal Prefetto della segreteria per l’Economia, al quale spettava la decisione finale». Anche le fatture pagate per le consulenze sono state oggetto di segnalazioni del revisore. Si va dai quasi tre milioni pagati all’avvocato americano Jeffrey Lena, storico legale Usa della Santa Sede, ai 10 milioni di Promontory. «Si tratta di una sommarissima e parzialissima elencazione della miriade di (eufemisticamente) “irregolarità” rilevate dal Revisore Generale man mano che, superando ostruzionismi e resistenze di ogni tipo, acquisiva documentazione di una gestione quanto mai opaca e allegra del patrimonio della Santa Sede».

La geolocalizzazione di Mammì

Intanto su richiesta dei legali di Milone direttamente a Parolin è stato tolto il segreto Pontificio dagli atti della vecchia indagine su Milone che sembrava “morta” dopo le dimissioni del giugno 2017. Contestualmente con numero di registro 13/2022 è stato riattivato il procedimento con nuovi atti di indagine. E risulta ai legali di Milone che sia stato interrogato anche Carlo Nencioli della Falco Investigazioni di Arezzo, la società ingaggiata da Milone per acquisire informazioni anagrafiche «per esempio sulla famiglia Calcagno in relazione alla società Agricola San Giuseppe» e altre operazioni simili. «Ma anche per il lavoro di verifica e bonifica del nostro ufficio quando ci fu intrusione (senza scasso qualcuno aveva le chiavi) e introdussero uno spyware nei pc». Riferiscono i legali che Nencioli - interrogato dai pm vaticani - ha detto che il suo lavoro in realtà è stato anche quello, su mandato di Milone (che nega), di geolocalizzare tre personaggi del Vaticano: Gian Franco Mammì, direttore generale dello Ior dal 2015, l’ex direttore dell’Aif (2016-2021) Tommaso Di Ruzza e Danny Casey, segretario di George Pell. all’epoca Prefetto della segreteria per l’Economia.

Mattia Ferraresi e Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it l’11 novembre 2022.

Un ennesimo terremoto si è abbattuto sul Vaticano. Per capire la magnitudo della scossa bisognerà attenderne gli sviluppi, ma l’azione legale contro la segreteria di Stato di Libero Milone, ex revisore generale di papa Francesco licenziato cinque anni fa perché accusato di peculato e spionaggio, aprono un nuovo scandalo dentro la città santa. 

È l’ennesima testimonianza delle difficoltà di Bergoglio, dopo quasi dieci anni di pontificato, di portare a termine alcune delle riforme sistemiche che aveva pubblicizzato all’inizio del suo mandato, in primis quella economica e finanziaria. Con il superamento di modus operandi illeciti e la conseguente trasformazione del Vaticano in una «casa di vetro».

La denuncia di Milone rende manifesto ancora una volta che le best practice esaltate dalla stampa amica come cosa fatta siano ancora di là da venire. E dimostra che Oltretevere impera l’improvvisazione e il caos, figlio di lotte intestine tra le varie cordate ecclesiastiche, le cui divisioni intossicano (come ha evidenziato anche il processo intentato contro l’ex braccio destro del papa Angelo Becciu) quasi tutte le istituzioni principali della Santa sede.

La denuncia di Milone e del suo allora collaboratore Ferruccio Panicco, che con un esposto al tribunale vaticano chiedono 9,3 milioni di danni per «l’ingiusto licenziamento» e per il «complotto» attraverso cui sono stati professionalmente e mediaticamente annientati, si può dividere in due parti distinte. 

Nella prima l’ex revisore elenca le presunte nefandezze che avrebbe scoperto, riferendole direttamente al papa e ai suoi magistrati nei due anni in cui ha lavorato per la Santa sede, dal 2015 al 2017. Illeciti che sarebbero stati sistematicamente coperti sotto il tappeto «da un vero e proprio nido di vipere». 

Il paradosso è che Milone stesso era stato chiamato da Francesco per fare pulizia: l’ex revisore denuncia di essere stato isolato «in primo luogo dal Santo Padre, che gli aveva promesso la sua vicinanza e appoggio e che invece, prima ancora di ogni artificioso sospetto sul suo operato, gli ha costantemente rifiutato udienza affidandolo alle “cure” del suo entourage». Milone nell’esposto fa intendere che proprio il suo attivismo contro illeciti e presunti crimini sarebbe stato motivo del suo allontanamento. 

E fa un compendio di quello che avrebbe scoperto. Il consulente ha raccontato nell’incontro con alcuni giornalisti che ha anticipato la diffusione della domanda giudiziale come avrebbe trovato, nell’ufficio di un cardinale, «una busta di plastica della spesa con mazzette di banconote per 250mila euro», mentre lo stesso prefetto avrebbe restituito «sua sponte», si legge nell’esposto, «500mila euro di spettanza dell’ente, finiti sui suoi conti personali per “errore”».

La denuncia non fa il nome del cardinale, ma il Corriere della Sera e altri media dicono che si tratti di Gerhard Müller, ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. 

Fonti del Vaticano spiegano a Domani che non c’è mai stata alcuna inchiesta su Müller, che l’errore sarebbe stato solo materiale, e che i soldi in contanti erano al tempo «del tutto legali perché ogni prefettura aveva disposizione fondi fuori bilancio per spese varie». Consuetudine poi vietata da norme varate in seguito dal papa.

Milone sostiene di aver individuato poi illeciti milionari nell’acquisto da parte del Bambino Gesù dell’ospedale romano dell’Idi (che rischiava il fallimento). 

E spiega di aver girato «invano» al promotore di giustizia una lettera del presidente del Bambino Gesù Mariella Enoc, fedelissima di Parolin, in merito «all’anomalo impiego di cospicui fondi per il restauro della appartamento di un cardinale».

Milone anche stavolta non fa nomi, ma si tratta certamente dei soldi che una fondazione dell’ospedale investì per l’attico dell’ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che furono però svelati non dalla Enoc, ma da un’inchiesta pubblicata nel novembre 2015 dall’Espresso. 

Il reportage portò all’apertura di un processo contro Giuseppe Profiti, ex presidente del nosocomio e amico di Bertone, che è stato condannato in secondo grado per abuso d’ufficio (la Cassazione vaticana non si è ancora espressa sul ricorso del manager).

Milone svela poi di aver segnalato nel 2017 «la sparizione di 2,5 milioni donati al Bambino Gesù dalla fondazione Bajola Parisani per la realizzazione di un nuovo reparto, realizzazione “sostituita” dall’apposizione di una targa di ringraziamento all’ingresso del vecchio reparto!». 

Mentre avrebbe scoperto come nel 2013 sempre la Fondazione del Bambino Gesù – stavolta in epoca Enoc - avrebbe investito «500mila euro per il finanziamento illecito di partiti politici italiani».

L’accusa è smentita a Domani dall’entourage di Parolin, che dice inoltre che i soldi della Bajola Parisani «sono stati spesi per lavori edili in altri reparti e non certo distratti». Insomma, Milone avrebbe preso fischi per fiaschi. 

Nel cahiers de doléances dell’esperto contabile ci sono pure gli investimenti per l’acquisto del palazzo di Sloane Avenue voluta da parte della segreteria di Stato guidata al tempo da Parolin e Angelo Becciu (lo scandalo è poi scoppiato nel 2019) e operazioni spericolate (alcune inedite, altre note come quella della tenuta romana “Laurentina”) dell’ex presidente dell’Apsa, il cardinale Domenico Calcagno.

Ma pure la storia della ristrutturazione della casa in cui viveva Domenico Giani, l’ex capo della gendarmeria che nel 2017 ha condotto le indagini che hanno portato alla cacciata di Milone. 

Secondo quest’ultimo, la quota delle spese spettante al «comandante Giani», pari a 170mila euro, sarebbe stata coperta «illecitamente» dai conti correnti dello Ior del corpo di polizia.

 Un’accusa grave che uomini vicino all’attuale presidente della fondazione Eni smentiscono, spiegando che «l’appartamento è un alloggio di servizio in uso all’allora e all’attuale comandante. La destinazione è ovviamente decisa dai superiori del Governatorato. 

Trattandosi di un alloggio di servizio e di un immobile demaniale la ristrutturazione che fu fatta e le relative spese furono gestite direttamente dalla direzione competente dei servizi tecnici». 

Insomma, nulla di irregolare. Come nulla di strano, dicono fonti della Propaganda Fide, ci sarebbe per un’altra storia raccontata ai giornalisti da Milone: quella di «un sontuoso appartamento nel centro di Roma» affittato dall’ente a «un notissimo giornalista Rai», i cui «rapporti contrattuali» con la Congregazione secondo l’ex revisore sarebbero «anomali».

In pratica, il noto giornalista pagherebbe troppo poco: appena «50mila euro l’anno», secondo Milone, mentre la differenza rispetto ai valori di mercato più alti sarebbe coperta da somme in beneficienza versate dal giornalista a Propaganda Fide: versamenti che Milone non avrebbe però trovato. 

L’economista non ha fatto esplicitamente il nome del giornalista. L’unico giornalista Rai di cui è noto il rapporto con Propaganda Fide è però Bruno Vespa, che vive un un’attico vicino a piazza di Spagna di poco meno di duecento metri quadri con una delle più belle terrazze di Roma.

Sentito da Domani, Vespa dice: «Io pago poco meno di 11mila euro al mese, tutto documentato. Altro che 50mila euro all’anno, sarebbe bello. In più ho pagato io i lavori di ristrutturazione, oltre mezzo milione. E forse Milone non ha trovato i bonifici della mia beneficenza perché non li giro alla Congregazione, ma agli enti che lei mi indica di volta in volta: da quando sto nell’appartamento ho versato circa un milione di euro complessivi extra. Anche questi sono documentati al centesimo. Insomma, credo che pago di più di quanto vale la casa».

Al netto delle tante accuse tutte da dimostrare e che qualcuno pensa già possano essere «pelose», la guerra di Milone e Vaticano rappresenta bene il clima da wrestling che domina ancora in Vaticano. 

Un tutti contro tutti che spacca anche le coalizioni, con il paradosso che due nemici giurati come Becciu e Milone, entrambi esautorati dai loro incarichi per volontà di papa Francesco, si trovano oggi d’accordo nell’accusare direttamente o indirettamente i vertici della chiesa e i promotori di giustizia che li avrebbero perseguitati. 

Fino ad arrivare, denuncia Panicco anche malato di tumore, a rifiutarsi di restituire i documenti medici personali che conservava quando è stato perquisito. Diniego che avrebbe ritardato di almeno un anno la diagnosi, evento che gli avrebbe fatto perdere tra i 15 e i 20 anni di speranza di vita, secondo la denuncia depositata.

Secondo i detrattori di Milone, la maxi richiesta di risarcimento danni non solo non sarà accolta in Vaticano perché spedita oltre il tempo massimo dei cinque anni dal licenziamento. 

Ma sarebbe solo una «risposta suicida» alla decisione di Parolin di interrompere la trattativa per una mediazione in bonis della vicenda. Mediazione che, come dice lo stesso ex revisore, durava da anni. Un’interruzione della negoziazione che – chissà se è un caso o meno – la scorsa primavera ha pure portato alla riapertura dell’inchiesta su Milone per un presunto peculato e abuso d’ufficio, indagine che era stata congelata nel 2017 per la decisione - da parte del papa o di Parolin, si presume, visto che gli avvocati di Becciu spiegano a Domani che Becciu non ne sa nulla - di porre sul fascicolo il segreto di stato. 

«Non c’è alcun complotto: semplicemente il promotore Alessandro Diddi ha potuto studiare le carte solo adesso, quando Parolin ha tolto il segreto. Solo dopo aver letto i documenti dell’inchiesta il promotore ha potuto formulare l’accusa di peculato contro l’ex revisiore», spiegano da Oltretevere. «Crediamo che andrà presto a processo, le prove ci sono». Si vedrà.

Come dimostra anche l’andamento del processo sul palazzo di Londra e sui presunti reati commessi da Becciu è un’evidenza che la giustizia vaticana sembra muoversi con libertà ignote ad altri ordinamenti, con rescritti papali che possono cambiare le carte in tavola in qualsiasi momento, mentre segreti di stato messi o tolti all’improvviso possono congelare inchieste o colpire nemici a seconda delle convenienze vaticane. 

La vicenda Milone insegna che la strada della riforma dell’economia è ancora lunga, ma quella della giustizia non è nemmeno iniziata.

Gianluigi Nuzzi per “La Stampa” l’11 novembre 2022.

Manomissioni, depistaggi, insabbiamenti, microspie e minacce per bloccare le indagini avviate sui conti del Vaticano per ordine di papa Francesco e che portarono a evidenziare distrazioni di denaro, pacchi di banconote in contanti infilate in borse della spesa di cardinali, pagamenti indebiti, dubbie compravendite immobiliari. 

L'ex revisore generale dei sacri palazzi Libero Milone - nato all'Aja nel 1938, uomo finora defilato, cresciuto a numeri e relazioni dopo aver fondato Deloitte Italia e aver lavorato in quel gruppo per 32 anni - dopo meline tra diplomazia e mezzi silenzi svela un'inquietante trama che avrebbe portato alla sua estromissione nel giugno del 2017. «Mi dissero o se ne va o l'arrestiamo».

All'epoca si disse che era indagato per peculato, spionaggio, ma l'indagine forse mai nemmeno esistita non partorì nulla. Oggi, invece, saputo che l'inchiesta è stata riaperta, decide di andare in contropiede. Chiede, insieme al suo vice dell'epoca Ferruccio Panicco, 9.278.000 euro di danni in sede civile, una «domanda giudiziale» diretta contro la segreteria di Stato, nella persona del cardinale Pietro Parolin, e dello stesso ufficio del Revisore. 

Panicco - in più - addita al Vaticano il peggioramento della sua malattia, un cancro alla prostata, perché il fascicolo medico gli venne sequestrato con l'estromissione, e mai riconsegnato, ritardando le cure: «Statisticamente non ho speranze di guarigione - dice in videoconferenza -. Penso che loro siano colpevoli, non dolosamente, di avermi condannato a morte senza motivo dopo una lenta e significativa sofferenza. Mi hanno tolto dai 10 ai 15 anni di vita».

Tra gli stucchi dello studio del loro avvocato, il professor Romano Vaccarella, per tre ore Milone spiega cosa avrebbe scoperto da quando nel giugno 2015 Bergoglio lo incontrò nella saletta d'attesa a piano terra della residenza di Santa Marta. «Non si faccia mai impressionare - mi disse il santo padre - ma di fronte a quanto emergeva... Davamo troppo fastidio a quel groviglio di interessi e di assetti di potere sui quali avevamo messo le mani. Ci hanno trattato nel peggiore dei modi, persino sputato in faccia». 

In una chiavetta usb consegna 15 documenti. Tra questi, «Traccia per i giornalisti» accende un faro su due aspetti: da una parte i depistaggi con tanto di manomissione del suo pc, introduzione dello spyware Mirror in quello della segretaria, e la scoperta di una microspia infilata nella parete alle spalle della scrivania, dall'altra quanto via via emergeva tra anomalie, irregolarità e presunti fondi neri.

Convitato di pietra è certamente il cardinale Angelo Becciu, al quale Milone attribuisce molte responsabilità, il quale ha già annunciato tramite legali che querelerà il manager per le «ricostruzioni completamente infondate» visto che, a suo dire, «Milone non godeva più della fiducia del Papa». 

Il caso più eclatante potremo chiamarlo «Londra 1», si tratta dell'acquisto di un palazzo nella capitale inglese messo a bilancio dell'Apsa - la cassa centrale vaticana - per 96 milioni, proposto dalla Cb Richard Ellis dopo che era stato attivato mister Barroweliff, consulente dell'immobiliare Grolux controllata da Oltretevere.

L'affare per Milone è opaco, il palazzo sovrastimato, l'acquisto - tramite trust del Jersey - senza il parere necessario della segreteria per l'Economia. Storia che ricorda molto lo scandalo per un'altra compravendita sempre a Londra e che poi ha portato a un processo contro Becciu ancora in corso. Nel settore immobiliare Milone evidenzia «una distrazione di fondi di 800 mila euro - accusa sempre l'ex revisore - su una proprietà agricola alle porte di Roma, in via Laurentina 1351, dove avevano casa il cardinale Domenico Calcagno e il cardinale Nicora», «tra prestiti dell'Apsa presieduta da Calcagno non restituiti» e mancati pagamenti.

Indice puntato per un presunto occultamento di fondi di somme ricevute da donatori a livello mondiale alla parte Congregazione per la Dottrina della Fede: 250 mila euro versati su un conto Ior, dell'allora prefetto, e altrettanti trovati in mazzette di banconote in una busta di plastica nell'ufficio del prefetto: «Ogni tanto quella busta se la portava a casa», ripete Milone. 

La lista è ancora lunga e Milone ripete sempre senza mezzi termini che quanto emerso all'epoca lo condivise con il Santo Padre o con il segretario di Stato. Presunte distrazioni di fondi nel Pontificio Consiglio per la Famiglia, conflitti d'interesse in Apsa e alla Prefettura degli Affari economici sino ai 2,5 milioni arrivati all'ospedale Bambino Gesù dalla fondazione panamense Bajola Parisani per costruire un padiglione: «Abbiamo trovato solo una targa appesa su un muro», dice Milone, ma dal nosocomio fanno sapere che quei soldi sono stati impegnati in lavori edili in diversi corpi della struttura.

Sempre lì emerge poi la storia di un bonifico da 500 mila euro destinato in parte a una società di marketing di un dipendente che avrebbe svelato come una tranche da 240 mila euro «andava a partiti politici», prima delle elezioni del 2013. Secondo l'ex revisore l'allora capo della gendarmeria, Domenico Giani, avrebbe fatto utilizzare nel giugno del 2016 fondi del suo ufficio per pagare la quota da 176 mila euro di ristrutturazione della casa dove viveva di proprietà del Vaticano, ma persone a lui vicine dicono che l'ex militare è tranquillo, convinto della regolarità della scelta. 

Senza dimenticare i prezzi irrisori di una locazione nel contratto a un noto giornalista che avrebbe garantito di pagare la differenza con il valore di mercato tramite beneficenza «ma ho controllato - chiosa - e non lo ha fatto». Ma questo nome e molti altri non vengono fatti.

Veleni in Vaticano: "Bustarelle ai partiti". La denuncia: "Mezzo milione in contanti". Chiesti danni per 9 milioni. Serena Sartini l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

Una nuova bomba pronta a esplodere e nuovi veleni in Vaticano. L'ex revisore generale dei conti, Libero Milone e il suo principale collaboratore, Ferruccio Panicco, entrambi defenestrati nel giugno 2017, fanno causa al Vaticano, chiedendo 9 milioni e 278mila, contestando le ragioni per cui furono costretti alle dimissioni (aver fatto «spiare» autorità di governo vaticane). Vogliono non solo chiarire quanto è accaduto, ma far accertare l'invalidità delle dimissioni estorte e far condannare la Segreteria di Stato a pagare quello che sarebbe stato il compenso pattuito fino all'esaurimento del loro incarico, oltre al risarcimento per il danno alla loro immagine.

Panicco, inoltre, «ha subito un gravissimo, quanto odiosamente gratuito, danno alla salute», poiché «una delicata documentazione medica strettamente personale, quale paziente potenzialmente oncologico», è sparita all'atto della perquisizione del suo ufficio e da lui mai più rinvenuta. «Statisticamente non ho speranze di guarigione - dice Panicco -. Penso che il Vaticano sia colpevole, non dolosamente, di avermi condannato a morte senza motivo dopo una lenta e significativa sofferenza. Mi hanno tolto dai 10 ai 15 anni di vita». Milone ricollega la sua cacciata a un ordine impartito dal cardinale Angelo Becciu, che - tramite i suoi legali - si difende. «Si tratta di ricostruzioni completamente infondate - spiegano gli avvocati -. Il cardinale ha chiarito che si limitò esclusivamente ad eseguire un ordine del Santo Padre, il quale lo informò direttamente che il dottor Milone non godeva più della Sua fiducia».

Ma l'ex revisore torna alla carica e informa di avere allegato alla citazione civile una serie di casi «di mancanza di rispetto delle regole», convinto che il suo siluramento sia legato al «groviglio di interessi e di assetti di potere nel quale l'Ufficio era chiamato a mettere le mani». Tra i principali, la scoperta di un presunto occultamento di fondi da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, con 250 mila euro che sarebbero stati versati in un conto Ior, non del Dicastero bensì dell'allora prefetto. «Poi in Vaticano giravano buste con denaro contante - spiega - nell'ufficio di un cardinale ne abbiamo trovata una di plastica, con mazzette di banconote per 500mila euro. Al Bambin Gesù abbiamo analizzato le donazioni della vecchia gestione, fino al 2015, e verificato che 500mila euro destinati alla Fondazione erano poi finiti, attraverso società di dipendenti, a finanziare partiti politici per le elezioni del 2013». Ci sarebbero poi, secondo Milone, distrazioni di fondi da parte del Pontificio Consiglio per la Famiglia, conflitti di interesse e l'acquisto del prestigioso immobile a Londra.

Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 17 ottobre 2022.

«Abbiamo provato a intervistare qualche rappresentante del Vaticano ma nessuno ha accettato. È come se su Emanuela sia stata scelta per sempre la strada del silenzio. Eppure credo che saranno in tanti tra quelle mura a vedere la serie, e siamo sicuri che la apprezzeranno molto». In questo Paese di molti misteri ma nessun segreto (il copyright è di Kissinger), il caso Orlandi non sarà più soltanto una faccenda di casa nostra. Ora se n'è interessata Netflix (International, non Italia), che sul tema ha commissionato alla casa di produzione Raw una docu-serie originale.

Presentata a Roma negli scorsi giorni per il «Mia» (il Mercato Internazionale Audiovisivo), articolata in quattro episodi, Vatican Girl. The Disappearance of Emanuela Orlandi sarà disponibile in tutto il mondo a partire da giovedì. Nell'attesa, in molti Paesi del Nord e Sud America è già in trend sui social network.

«Questo fatto così doloroso credo meritasse l'attenzione di un pubblico globale - racconta Mark Lewis, regista, sceneggiatore e produttore -. Fuori dall'Italia l'informazione l'ha coperto poco, almeno fino al clamoroso episodio del 2019, quando per cercare il corpo di Emanuela gli investigatori hanno scoperchiato due tombe del cimitero Teutonico in Vaticano, trovandole vuote. In questa vicenda s' intrecciano tantissime piste, dalla cospirazione ecclesiastica alle spie bulgare, dai terroristi turchi alla banda della Magliana fino al Kgb. È una storia vera, eppure sembra un thriller politico scritto da Robert Ludlum, Thomas Harris o Dan Brown».

La serie riavvolge il nastro della narrazione ripartendo da zero, esaminando con estremo rigore tutti i tasselli del puzzle investigativo. Un'operazione non nuova per Raw, che con Netflix si è specializzata nel proporre alle platee di tutto il mondo casi locali di cronaca nera. «Abbiamo scavato in tonnellate di documenti d'archivio, foto, articoli di giornale», rivela la produttrice Chiara Messineo, italiana da tempo residente a Londra.

«Credevamo che la famiglia Orlandi non avesse altro, finché un giorno Pietro - l'eroico fratello che da quarant' anni non ha mai smesso di cercare la verità - si è presentato a noi con una borsa di plastica arancione. Dentro c'erano tantissime fotografie e filmini di famiglia mai mostrati prima, con Emanuela a tutte le età. Siamo rimasti a bocca aperta. Li abbiamo portati a Londra per lavorarli, sentendoci addosso una responsabilità enorme, visto il loro valore».

Tenuta insieme dalla voce in inglese di Andrea Purgatori, Vatican Girl contribuisce a dipanare la matassa con testimonianze nuove, a volte esplosive. Come quelle di Marco Fassoni Accetti (il sedicente Amerikano, il telefonista del rapimento), del capo degli investigatori dell'epoca, di chi sa ma ha preferito parlare mantenendo l'anonimato. Oltre all'incredibile racconto a volto scoperto di Sabrina Minardi, al tempo amante del boss della Banda della Magliana Enrico Depedis, che ha ricostruito nel dettaglio il rapimento di Emanuela.

Il fatto che la ragazza non fosse una cittadina italiana si è rivelato un ostacolo per le ricerche. «Il Vaticano è lo stato più piccolo del mondo - spiega Messineo -. Il numero di civili che ci vivono è ridottissimo, meno di duecento. La maggior parte di loro appartengono a famiglie che lavorano per la Santa Sede da generazioni, come gli Orlandi. Il padre Ercole era messo all'anticamera papale, tra i vari incarichi consegnava la posta del mattino a Papa Wojtyia. Lui è morto qualche tempo fa, i figli se ne sono andati, ma a 92 anni la mamma di Emanuela vive ancora in quello stesso appartamento, dove l'abbiamo incontrata».

Nell'approccio visivo, Vatican Girl è molto più cinema che tv. Dopo la visione, allo spettatore resta incollata addosso la Roma lugubre e mortifera pennellata da Stefano Ferrari, il direttore della fotografia. «Ha fatto un lavoro incredibile - si entusiasma il regista -. Prima di iniziare ci siamo incontrati e abbiamo concordato le referenze estetiche, in particolare thriller come Il caso Spotlight e Seven».

R.I. e F.P. per silerenonpossum.it il 17 ottobre 2022.

“Una triste pagina della storia” così viene e verrà definito il procedimento penale Sloane Avenue all’interno dello Stato della Città del Vaticano. Nei giorni scorsi si sono celebrate la 28, 29 e 30 udienza di questo processo che ha come coimputato, per la prima volta innanzi al tribunale, un porporato. Durante queste udienze il protagonista è stato il Commissario Stefano De Santis. Durante la trentesima udienza, celebrata il 14 ottobre 2022, sono stati sentiti anche Marco Simeon e Andrea Pozzi, due testimoni chiamati dall’Accusa. 

Testimonianza di De Santis

Sulla testimonianza del Commissario De Santis vogliamo soffermare la nostra attenzione. La testimonianza della Polizia Giudiziaria, non solo all’interno dello Stato della Città del Vaticano ma ovunque, è qualcosa di assolutamente superfluo. Gli operatori, infatti, devono limitarsi a riferire su ciò che hanno fatto e appurato durante le indagini, ciò che hanno da dire, quindi, bisognerebbe riscontrarlo semplicemente negli atti. In sostanza, nel dibattimento non dovrebbero entrare le considerazioni personali, le insinuazioni, i sentimenti o altro.

A maggior ragione, questo principio dovrebbe valere all’interno del nostro Stato che ha come fonte principale il diritto canonico, ovvero la ricerca della Verità. Stefano De Santis ha invece dimostrato che la Verità non è certo il principio che ha guidato nè le sue attività nè quelle del Promotore di Giustizia. 

“Quella sera del tre ottobre, lui non ci chiese quali fossero i comportamenti della donna. Era solo preoccupato che il nome di lei non venisse fuori” ha riferito in aula il Gendarme. In aula il gendarme ha riferito di un incontro avvenuto la sera del 2 ottobre 2020, una settimana dopo che il Pontefice lo aveva obbligato a dimettersi, all’interno dell’abitazione del Cardinale Angelo Becciu.

“Gauzzi – ha detto De Santis – aveva ricevuto un sms dal cardinale, mi chiese di accompagnarlo nell’abitazione. Non vedendo segni di sorpresa del cardinale pensai che l’incontro era concordato e che era stato lui a chiederlo”. Ha poi precisato: “Non risponde a verità la circostanza di tenere segreto quell’incontro. Mai abbiamo chiesto al cardinale di non parlarne, mai, anche perché in Vaticano una circostanza del genere sarebbe comunque trapelata con grande facilità. E mai ho sentito che bisognava preservare Cecilia Marogna perché era incaricata di un’attività a conoscenza solo del card. Becciu e del Papa. Mai è stata fatto riferimento a questo, se non in seguito, quando il cardinale fu interrogato dal promotore di giustizia Milano e dall’aggiunto Diddi”. 

Il Cardinale Angelo Becciu, nell’udienza del 12 ottobre 2022, aveva infatti replicato, con delle dichiarazioni spontanee, al racconto fornito da De Santis.

«Vorrei precisare alcuni aspetti di quanto ha detto il commissario De Santis, ha esordito il Porporato. Lo ringrazio per aver ricordato i miei attestati di affetto e stima verso la Gendarmeria. Tengo a manifestare la mia riconoscenza e il mio affetto per il servizio che i gendarmi fanno per la Santa Sede. Venendo in merito alla narrazione dell’incontro che ci fu con il comandante Gauzzi e commissario De Santis. Quell’incontro non fu richiesto da me. 

Quel giorno esasperato dal titolo del Corriere della Sera che riferiva: “Becciu ha inviato in Australia 700 mila euro per finanziare i testimoni contro il cardinale Pell”, telefonai al comandante per esprimergli tutta la mia amarezza e chiedergli come mai vengono pubblicate cose false. Al che il comandante mi disse: “aspetti”. Poi mi richiamò e disse: “Voglio venire con il commissario De Santis e ad esporle la situazione. Vennero, e la prima cosa che mi dissero fu: “Questo incontro deve rimanere segreto, non lo deve dire a nessuno, perché sentiamo di venire meno al nostro dovere professionale”. Per cui sono sorpreso che se ne parli ora.

Vero, mi sono messo le mani ai capelli quando mi parlarono della signora Marogna. Le misi perché c’era il rischio che questa notizia venisse pubblicata perché era una operazione di cui eravamo al corrente solo il Santo Padre ed io. Non era per i miei famigliari. Mi stavo preoccupando per tutto quello che dicevano sui miei famigliari per soldi dati alla SPES, soldi per cui si dice che avevo fatto del peculato, come ho già dichiarato che non sussistono queste accuse. Quando mi dissero che i soldi utilizzati dalla Signora Marogna non erano stati utilizzati per finalità proprie ho detto: “Sono pronto a dare quello che ho io e rifondere la Segreteria di Stato, perché se i soldi sono stati utilizzati male è colpa mia”. Mi bloccò il comandante: “lei non ha colpa, lei è stato truffato”. Io i soldi li ho procurati, sono stati dati alla signora perché incaricata di mandare avanti un’operazione di cui erano a conoscenza il Santo Padre e il sottoscritto. Volevo precisare questi punti».

Il racconto di De Santis è chiaramente smussato di alcuni elementi che andrebbero a ledere l’onore suo e della Gendarmeria. Non possiamo aspettarci che Gauzzi o De Santis ammettano in aula di aver minacciato un porporato. L’esito di quell’invito è chiaro: se Lei se ne va, nessuno la processa e tutto finisce bene. Non vi ricorda qualcosa? Questo sistema è stato utilizzato con diverse persone, ecclesiastici e non, il più eclatante e conosciuto fu quello di Libero Milone. Non dimentichiamo però Ettore Gotti Tedeschi e molti altri. Si tratta di un sistema che in Vaticano viene utilizzato spesso e soprattutto per far fuori coloro che hanno potere, quando diventano scomodi.

Ciò che deve destare attenzione, proprio ricordando ciò che fecero a Libero Milone, è che oggi Becciu si trovava dall’altro lato del tavolo. Con Milone fu lui a fare l’ambasciatore della volontà del Papa, oggi è lui a subirne gli umori. Questo deve far comprendere, anche a coloro che oggi fanno parte del cerchio magico di Francesco, che con questo Papa si finisce facilmente dalle stelle alle stalle. 

Di una cosa bisogna dar atto, nel processo stanno emergendo molte cose che probabilmente era molto meglio rimanessero qui dentro. Una scelta, quella di Francesco, che è diventata un boomerang. Eppure la determinazione di Bergoglio è stata inscalfibile sin dall’inizio, quando decise di firmare e tenere segreti quei Rescritti che oggi fanno tremare tutto l’impianto processuale. 

Poi sorgono alcune domande: il Papa “che vuole tanto bene a Becciu”,era informato di questa richiesta di esilio in Sardegna? L’ha voluto lui? Inoltre, come mai De Santis e Gauzzi offrono a Becciu dei particolari che sono coperti dal segreto istruttorio? Forse su questo e molto altro ancora non avremo mai delucidazioni.

Una deriva preoccupante

Il fine non giustifica affatto i mezzi, questo deve essere chiaro. I mezzi utilizzati, soprattutto il modus operandi, non è ammissibile. Una preoccupazione ora riguarda l’atteggiamento che il Corpo della Gendarmeria sta avendo negli ultimi anni. La Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, e tutti i membri del Collegio Cardinalizio, debbono necessariamente rideterminare i compiti della Gendarmeria Vaticana e ristabilire ordine.

Con Domenico Giani, infatti, il Corpo ha preso una piega che non è assolutamente ammissibile. Le persone all’interno dello Stato non sono libere di parlare, muoversi o rapportarsi con altri perchè gli occhi di questi uomini sono sempre su tutti. Dossieraggio, telecamere, intercettazioni illegali e pedinamenti sono all’ordine del giorno. Soggetti che non si fermano neppure di fronte al dolore delle famiglie, basti pensare che Domenico Giani mandava dei gendarmi a presenziare alle manifestazioni di Pietro Orlandi. 

Persone spietate a cui è stato dato un potere che in realtà non hanno. Il loro compito deve essere quello di servire lo Stato Vaticano e il Papa con il Collegio cardinalizio e tutta la Santa Sede. Negli ultimi anni sembra che questo sia stato dimenticato. Addirittura i gendarmi si sono presi la libertà di entrare nel Palazzo Apostolico, luogo che è a loro assolutamente precluso perchè di competenza della Guardia Svizzera Pontificia. Monitoraggio costante delle telecamere, le quali furono installate per la sicurezza dello Stato e delle persone, non di certo per fare gossip sui porporati e gli ecclesiastici. La vita privata delle persone deve essere tutelata, ancor di più se si parla di Principi della Chiesa.

Nello Stato della Città del Vaticano da qualche tempo a questa parte i diritti umani fondamentali non sono garantiti: denunce che fanno la muffa nell’ufficio del Promotore di Giustizia, processi strumentali, minacce e leggi ad personam. Questi atti non sono più tollerabili. 

La vicenda raccontata in aula che vede Becciu minacciato da questi uomini è emblematica e deve far riflettere in particolare i porporati.

(ANSA il 14 ottobre 2022) - "Neanche un centesimo è finito nelle tasche di mio fratello". E' un passo della dichiarazione spontanea resa oggi dal card. Angelo Becciu nella 30/a udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. 

Becciu ha detto di non vedere "alcun reato", non negando il suo "interessamento" per farli avere, nei sussidi della Cei (600 mila euro) a favore della Caritas di Ozieri, devoluti poi alla Cooperativa Spes, guidata dal fratello Antonino. "Ho aiutato una settantina di persone ad avere un lavoro: non mi vergogno di essermi dato da fare per ottenere finanziamenti a un ente a carattere sociale, anzi ne vado orgoglioso".

(ANSA il 14 ottobre 2022) - A proposito di quanto detto dal commissario della gendarmeria Stefano De Santis a proposito del suo interessamento presso la Cei per l'ottenimento di sussidi finiti alla Spes, Becciu ha detto che questa "è una prassi normale nella Chiesa, quella di aiutarsi reciprocamente. Ricordiamocelo: noi non siamo un'azienda e neppure un ufficio municipale, in cui ogni atto è regolato dalla norma. No! Nella Chiesa regna la legge dell'amore e del disinteresse, ove il legalismo non deve tarpare le ali dello spirito creativo". 

"Aiutare a creare opere di bene è il massimo che un cristiano, un sacerdote e ancor più un Vescovo deve fare", ha proseguito. E nel caso specifico, "avevo fatto tesoro del consiglio dell'allora Segretario della Cei, mons. Nunzio Galantino, il quale un giorno mi disse 'incoraggi il suo vescovo e altri vescovi a chiedere aiuti per opere sociali perché vi sono le somme a disposizione per tali finalità'".

"Qui però - ha continuato Becciu - la domanda che penso ci dobbiamo porre è un'altra: ma i soldi ricevuti dalla Cei sono stati utilizzati nel rispetto della loro finalità istituzionale sì o no? Erano stati chiesti per un panificio: il panificio esiste? sta funzionando sì o no? Vi sono sedici impiegati: sì o no? I responsabili hanno rendicontato quanto ricevuto alla Cei, sì o no? Come mai dalla Cei i responsabili della Cooperativa non hanno mai ricevuto alcun sollecito e tantomeno un rimprovero? E questo a prescindere dal fatto che non sia io ad essermene mai occupato. In nessuna forma".

"Non so se posso sostituirmi ai miei Avvocati e fare una domanda al sig. De Santis - ha detto ancora -: sappiamo bene che avete fatto accertamenti sui vari conti bancari della diocesi di Ozieri e li avete fatti anche sui miei conti bancari, su quelli dei miei fratelli e soprattutto di mio fratello Antonino. Ci dica: ha mai trovato un'entrata irregolare in tutti questi conti? Perché non dice davanti a tutti quanti soldi ha trovato nel conto di mio fratello, Tonino? Lo dica! La autorizzo io a dirlo!".

Secondo il porporato sardo, "è provato ampiamente che, malgrado tutto quello che si è detto sul cosiddetto conto promiscuo, la Cei e la Caritas Nazionale non hanno smesso di versare i loro sussidi su tale conto. Segno che quelli della Caritas di Ozieri hanno sempre rendicontato quanto hanno ricevuto fino all'ultimo centesimo e gli Organismi nazionali mai hanno avuto di che dire sul loro operare". ;Quel conto "era stato aperto dal direttore della Caritas su delega del vescovo del tempo e che gli altri vescovi succedutisi ne erano al corrente". E a proposito del direttore della Caritas, "non è mia colpa se egli è mio cugino e se egli fu nominato nel 2003, quando io ero Nunzio in Angola, ben lontano dunque dalle questioni della diocesi di Ozieri".

Becciu contesta anche l'uso di slide con una statistica dei sussidi dell'Obolo di San Pietro distribuiti a varie diocesi e da cui emerge che Buenos Aires o qualche altra grande diocesi avesse ricevuto meno della diocesi di Ozieri. "Quel riepilogo è errato nel metodo, è inattendibile: i sussidi erogati dalla Segreteria di Stato non erano destinati solamente alle Diocesi, ma a qualunque ente territoriale ritenuto meritevole di aiuto".

Ecco perché "non ha senso scegliere, arbitrariamente, di comparare le sole Diocesi; si sarebbe dovuto comparare tutti gli Enti. Allora si sarebbe visto che i sussidi erogati sono stati, nel mio settennato quale Sostituto, molte decine di più di quelli mostrati, e che vi furono enti che ricevettero somme ben maggiori di centomila euro". Sempre secondo Becciu, "a questo punto, è giusto chiedersi perché tanta attenzione da parte dell'autorità giudiziaria vaticana verso la Cooperativa della Caritas di Ozieri?

Ieri è stata menzionata la Cooperativa "Simpatia" di Como ove lavora il padre di mons. Perlasca e che, a detta dello stesso monsignore, ha ricevuto la somma di 60 mila di euro dall'Obolo di San Pietro. Non penso che il finanziamento fatto avere a quell'ente sia passato tramite il vescovo o la Caritas, ma esso è stato inviato direttamente al responsabile dell'Ente, come si era soliti fare". "Mi chiedo - ha aggiunto -: sono stati fatti accertamenti su quel conto o sui tanti altri? Perché Ozieri è stata indagata e Como no? Perché Ozieri ha provocato tutto questo gran can mediatico?". 

"La ragione è risaputa - ha allora osservato -: si è sospettato che i miei familiari si fossero arricchiti e che io li abbia voluti arricchire, ma è stato dimostrato il contrario. La mia famiglia è stata messa al centro di un clamore negativo pesantissimo. E ci tengo a rimarcare e questo mi consola e mi incoraggia che gli unici ad essersi trovati bene dalle elargizioni della Cei sono stati i poveri, i disoccupati, gli emarginati".

(ANSA il 14 ottobre 2022) - Il card. Becciu ha smentito oggi in aula di essere stato a conoscenza delle spese personali di Cecilia Marogna con soldi ottenuti dalla Segreteria di Stato. Avvertito da mons. Perlasca di quanto dicevano i magistrati su tale aspetto "rimasi male" perché "non ero affatto al corrente che si fossero iniziati a spendere soldi di quella somma destinata a ben determinati scopi. Rimasi irritato e mi ripromisi di chiarire subito con la Signora. Cosa che feci e lei mi assicurò totalmente che non era vero. Non mancai di dirle che qualora avesse attinto da quei soldi non per le operazioni concordate, li doveva assolutamente rimettere a posto".

(ANSA il 14 ottobre 2022) - Il cardinale, in una lunga dichiarazione spontanea, ha risposto così alle affermazioni fatte ieri in aula dal commissario della Gendarmeria Stefano De Santis, testimone dell'accusa nel processo in corso in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. De Santis aveva riferito in particolare di un incontro avuto il 3 ottobre 2020 in casi di Becciu, presente anche il comandante della gendarmeria Gianluca Gauzzi Broccoletti.

"Quando il sig. De Santis - ha spiegato - informò delle risultanze investigative in modo generico, io, come dice lui stesso, mi misi le mani ai capelli ma non per i danni che sarebbero derivati ai miei familiari qualora venisse stata pubblicata la notizia (non vedo cosa ci entrassero i miei familiari), evidentemente confondeva con il danno reputazionale della Spes, ma perché rimasi scioccato che i soldi erano stati spesi nella maniera nella quale egli la descriveva e soprattutto perché un'iniziativa che doveva rimanere segreta, della quale ripeto sapevano l'esistenza solo il Santo Padre, il sottoscritto, mons. Perlasca e ultimamente anche mons. Pena Parra, venisse pubblicizzata con grave danno per l'operazione in corso e anche mettendo in pericolo i molti missionari nei territori a rischio". 

Infine, "quanto all'operazione umanitaria affidata alla Gendarmeria, su cui mi sorprendo ancora una volta di averne sentito parlare pubblicamente, all'udienza di ieri, dichiaro di sentirmi ancora vincolato al segreto e pertanto, posso per ora soltanto affermare che effettivamente essa fu espletata con modalità analoghe a quella successiva. Modalità che ritengo mio preciso dovere non dover ulteriormente dettagliare". 

"La ragione per la quale, in successiva occasione, fu decisa una forma operativa ancora più ristretta - ha aggiunto Becciu - , è molto semplice: nella precedente occasione fu sventata, solo all'ultimo secondo, una fuga di notizie, che avrebbe messo in pericolo l'immagine della Santa Sede e la sicurezza delle missionarie e dei missionari impegnati in territori difficili". Per questo, "solo per questo, nella vicenda che riguarda la signora Marogna, fu ritenuto, d'intesa col Santo Padre, di non parlarne neanche con la Gendarmeria".

A Cecilia Marogna, ha riferito lei stessa in un memoriale, essendosi accreditata con l'allora sostituto mons. Becciu quale esperta di intelligence e di mediazioni internazionale, era stato affidato il compito di cercare vie di mediazione per la liberazione della suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez, rapita in Mali nel 2017 e rimasta per quattro anni nelle mani dei sequestratori. Marogna, attraverso la sua società Logsic di Lubiana, ricevette bonifici della Segreteria di Stato per un totale di 575 mila euro, finiti però, secondo gli inquirenti, in gran parte in spese personali e voluttuarie.

Da ansa.it il 30 Agosto 2022.

"Ho la fondata speranza che la verità emergerà e che tutto il fango gettato su di noi si scioglierà come neve al sole. Il gesto del Santo Padre ci conforta e alimenta la nostra fiducia". 

Lo scrive il cardinale Angelo Becciu in una lettera pubblicata dal vescovo di Ozieri (Sassari), mons. Corrado Melis, in cui giustifica la sua assenza alla festa locale in onore di Santa Sabina a causa dell'invito di Papa Francesco a partecipare al Concistoro e all'incontro con i cardinali di tutto il mondo.

"Oggi sarei dovuto essere con voi a celebrare la nostra grande festa in onore di Santa Sabina e ringraziare il Signore per i 50 anni della mia ordinazione sacerdotale. Era il 27 agosto 1972 e da allora, ad eccezione di una o due volte, non sono mai mancato all'appuntamento", scrive alla diocesi di Ozieri il cardinale coinvolto nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato e privato tre anni fa dal Papa della carica in Curia e dei diritti connessi al cardinalato.

"La ragione della mia assenza di quest'anno la conoscete e mi immagino ne siate tutti contenti. Eccola: il Santo Padre, riconoscendomi il diritto di partecipare al Concistoro, mi ha invitato a prendervi parte e così sono dovuto venire a Roma contrariamente ai miei programmi", prosegue Becciu, firmandosi "il vostro cardinale, Don Angelino".

 "È stata una bella sorpresa, direi una grande grazia del Signore - commenta -. Mi sono sentito riabbracciato dalla Chiesa e ierlaltro nel Basilica di San Pietro è stato commovente vedere il Papa farmi dall'altare cenni di gioia per la mia presenza e sentire i confratelli Cardinali dirmi_ ben tornato a casa! Sono stati in tanti, tra prelati, religiosi, religiose e laici a manifestarmi la loro gioia".

Secondo Becciu, "questa è la bellezza della Chiesa la quale sa andare oltre le vicende dolorose e sa offrire motivi di speranza che fanno superare i momenti bui della vita". Parlando infine della sua devozione a Santa Sabina, "mi sono rivolto a lei nelle immancabili difficoltà della vita e anche nelle situazioni complesse che spesso ho dovuto affrontare nei vari Paesi lontani nei quali ho servito la Chiesa", dice Becciu. E "a lei mi sono rivolto e continuo a rivolgermi anche nell'ultima tempesta che si abbattuta su di me e che ha coinvolto dolorosamente la mia famiglia e la stessa diocesi. Lei ci aiuterà!", conclude.

DAGOREPORT il 23 agosto 2022.

Il Becciu reintegrato personalmente dal Papa al Concistoro è il "grazie" di Bergoglio a chi gli ha fatto lo ‘’scherzo’’ di ritrovarsi, mercoledì scorso in udienza benedicente, la ‘’papessa” Immacolata Chaouqui che gli baciava la mano? 

In Vaticano molti ne sono convinti. Non solo: il “reintegro” di Angelo Becciu - dopo due anni gli riconosce la presunzione di innocenza in attesa della sentenza - è anche un sonoro segnale di guerra del Papa nei confronti della Curia romana che ha trascinato il suo ex numero due della Segreteria di Stato a processo per l’acquisto nel 2013 dell’immobile londinese di Sloane Square. Il fumantino pontefice argentino ha sempre considerato l’”opaco affaire londinese” un attacco personale da parte della Curia romana che lo vede come Belzebù agli occhi.

Su “La Verità” tale François de Tonquédec, dopo aver sottolineato che la vispa Chaouqui è uno dei più grandi accusatori del cardinale sardo, aggiunge un altro inedito tassello delle guerre vaticane: 

“Il Papa potrebbe essere stato tirato per la tonaca nella guerra tra Becciu e la Chaouqui. 

Secondo altre fonti, invece, l'invito sarebbe legato a un terzo possibile motivo, che non riguarderebbe né le nozze d'oro di Becciu con la Chiesa, né la Chaouqui. 

Il Concistoro del 27 agosto è stato indetto per la creazione di 20 nuovi cardinali e tra questi c'è Arrigo Miglio, arcivescovo emerito di Cagliari. 

‘’Miglio è molto legato a Becciu, a cui avrebbe presentato la controversa esperta di geopolitica Cecilia Marogna. Lo stesso cardinale nelle sue dichiarazioni spontanee del 5 maggio ha detto: “Infine, voglio ulteriormente precisare - sotto il profilo delle referenze ricevute - che la signora Marogna godeva della fiducia dell'allora arcivescovo di Cagliari, monsignor Arrigo Miglio. Quest'ultimo mi chiese di presentarla al cardinale Mambertì (Dominique, ndr), prefetto della Segnatura apostolica, per esporgli un caso della sua diocesi”, conclude il giornale di Belpietro.

Il controverso perdono papale a Becciu - fonti della Santa Sede citate dalla agenzia di stampa Ascanews hanno fatto notare che si tratta solo di un invito ad una cerimonia - anticipa quello che ormai è chiaro, e che diranno i giudici di Londra che hanno incardinato la causa che il finanziere Mincione fa al Vaticano: se il Papa e un suo consigliore italo-argentino non avessero interferito e lasciato lavorare in pace la Segreteria di Stato, le cose sarebbero andate diversamente.

Negli atti del processo risulta che mentre discutevano la cifra per liquidare Mincione (3 milioni) è entrato il Papa con il suo consigliori e, voilà, i 3 milioni sono diventati 30. Ma a quel punto Becciu era già stato da tempo sostituito dall’arcivescovo Pena Parra.

Luigi Accattoli per il “Corriere della Sera” il 23 agosto 2022.

Nuovo gesto di benevolenza del Papa verso il cardinale Angelo Becciu che è sotto processo in Vaticano, gesto che prelude a una riabilitazione che possiamo immaginare relativamente prossima: Francesco l'ha invitato a partecipare al Concistoro di fine mese al quale - nei giorni 27, 29 e 30 agosto - sono stati chiamati i cardinali di tutto il mondo. Il Papa gli avrebbe anche promesso una piena reintegrazione nelle funzioni delle quali fu privato nel settembre del 2020, ma in Vaticano fanno osservare che quella reintegrazione ci sarà solo se il processo che lo riguarda avrà una conclusione a lui favorevole.

È stato lo stesso cardinale a dare la notizia sia dell'invito al Concistoro sia della promessa del Papa. Lo ha fatto informandone la comunità parrocchiale sarda di Golfo Aranci presso la quale sta passando le vacanze: «Sabato mi ha telefonato il Papa per dirmi che sarò reintegrato nelle mie funzioni cardinalizie e per chiedermi di partecipare a una riunione con tutti i cardinali che si terrà nei prossimi giorni a Roma. Per questo domenica prossima non potrò essere presente alla messa essendo impegnato a Roma».

«Sono molto emozionato per questo gesto del Papa», ha detto poi il cardinale all'Ansa: «Lo ringrazio di cuore e riconfermo la mia piena comunione con lui».

L'invito al Concistoro costituisce una seconda e più impegnativa mano tesa del Papa nei confronti di Becciu, dopo che Francesco il Giovedì Santo del 2021 aveva celebrato la messa nell'appartamento del cardinale: quel gesto segnalava che Bergoglio continuava a nutrire verso di lui un'affettuosa amicizia, nonostante il provvedimento di privazione dei «diritti connessi al cardinalato» con cui l'aveva colpito sei mesi prima.

Quel provvedimento era stato preso con riferimento a presunte responsabilità del cardinale in usi irregolari di fondi della Segreteria di Stato dei quali aveva avuto piena disponibilità fino ad allora in quanto Sostituto. Nel luglio 2021, poi, il cardinale era stato rinviato a giudizio - insieme ad altri - nel processo per l'acquisto del famoso immobile di Londra, con l'accusa di peculato e abuso d'ufficio, nonché di «subornazione», ovvero di aver cercato di far ritrattare Alberto Perlasca, già suo collaboratore e poi suo accusatore. Processo che è ancora in corso. 

«Desidero con tutto il cuore che sia innocente», aveva detto il Papa di Becciu in un'intervista del settembre 2021: «È stato un mio collaboratore e mi ha aiutato molto e il mio desiderio è che ne esca bene. Ma è un modo affettivo di presumere l'innocenza. Ora, sarà la giustizia a decidere».

Rispetto alla celebrazione papale nell'appartamento di Becciu, l'invito al Concistoro è un gesto che più direttamente prelude alla riabilitazione del cardinale, perché lo riguarda non solo in quanto persona ma anche specificamente come cardinale, in quanto gli permette di partecipare a un incontro di cardinali al quale non avrebbe potuto accedere a seguito della sanzione del 2020. Che tuttavia la reintegrazione di Becciu nei diritti del cardinalato - il primo dei quali è la partecipazione al Conclave - non sia da dare ancora per scontata, in quanto subordinata all'esito del processo, lo richiamavano ieri varie indiscrezioni provenienti dal Vaticano.

Una raccolta da AscaNews affermava che «i diritti del cardinalato non si riferiscono alla partecipazione alla vita della Chiesa. I cristiani sono sempre chiamati a prendervi parte, secondo il proprio stato: nel caso dei cardinali questo può includere l'invito - talvolta personale - a partecipare ad alcune riunioni a loro riservate». Come a dire che tra l'invito a un Concistoro e la piena riabilitazione la differenza è di sostanza.

Dagospia il 9 agosto 2022. Notizia esclusiva: la giustizia inglese condanna lo Stato della Città del Vaticano per la vicenda del palazzo in Sloane Avenue, in quanto ha perso la sua "estraneità" e "neutralità" grazie a tutte le (strampalate) azioni che ha posto in essere, la maggioranza delle quali sono totalmente illegittime (vedi le perquisizioni ad Ozieri contro Becciu). 

La condanna è a 200.000 sterline (immediatamente esecutiva), hanno 28 giorni per pagare. I termini decorrono dal 26 luglio. 

PAPA FRANCESCO HA AUTORIZZATO LE INTERCETTAZIONI SEGRETE SUL FINANZIERE CHE HA FRODATO IL VATICANO. Da tebigeek.com il 25 luglio 2022. 

Secondo quanto riferito da documenti trapelati, papa Francesco avrebbe autorizzato le intercettazioni segrete sull’intermediario finanziario italiano Raffaele Mincione, accusato di aver frodato il Vaticano di centinaia di milioni di dollari. Papa Francesco ha permesso agli investigatori di intercettare i telefoni, intercettare e-mail e arrestare chiunque senza dover attendere l’approvazione dei giudici britannici. 

Questi poteri sono stati utilizzati dall’Ufficio del Promotore di Giustizia del Vaticano per prendere di mira Mincione, un gestore di fondi che avrebbe truffato il Vaticano nel mezzo di un’impresa immobiliare di circa 350 milioni di dollari. Lo scandalo è legato a un ingente investimento vaticano in un ex magazzino di Harrod’s a Londra, che avrebbe dovuto essere convertito in appartamenti di lusso.

Raffaele Mincione ha fondato nel 2009 il Gruppo WRM, il cui sito web afferma che il suo “ethos è quello di ottenere risultati stabili e di lungo termine per i propri investitori attraverso un approccio pratico, adottando così una strategia attivista e orientata al valore nella gestione di i suoi investimenti. Il Gruppo è ben posizionato per accedere, gestire e creare valore da asset illiquidi, turnaround e situazioni distressed e adotta strategie che cercano di ottimizzare le asimmetrie di mercato o il mispricing temporaneo, investendo sull’intera struttura del capitale delle società target”.

“Con oltre 20 anni di esperienza nella gestione degli investimenti e nel settore bancario, Raffaele ha iniziato la sua carriera in Goldman Sachs International presso il desk vendite Italian Fixed Income”, afferma il gruppo di Mincione. “Si è poi trasferito a Nomura International e successivamente negli uffici di Merrill Lynch a Londra e New York, dove è stato responsabile della copertura europea e latinoamericana”. Negli ultimi dieci anni ha inoltre ricoperto il ruolo di senior advisor e consigliere di amministrazione di primarie società di investimento, tra cui banche e primari gruppi industriali.

Ora sotto processo nella Città del Vaticano per reati finanziari, Mincione ha precedentemente intentato una causa contro la banca svizzera che ha organizzato con lui l’investimento del Vaticano. Il gruppo WRM ha affermato che Credit Suisse e Citco “non hanno divulgato informazioni cruciali sull’origine del denaro che hanno utilizzato per sottoscrivere il comparto WRM Group, al fine di nascondere l’esatta origine dei fondi nel quadro del rapporto tra Credit Suisse, Citco e il Vaticano”. È stato accusato di reati finanziari. Il gestore degli investimenti, che ha venduto al Vaticano l’edificio al 60 di Sloane Avenue, ha affermato che le perdite sull’investimento immobiliare sono colpa del Vaticano.

La legge vaticana è stata modificata dal papa nell’aprile 2021, consentendo a leader religiosi come cardinali e vescovi di essere processati davanti ai tribunali vaticani a guida civile. In seguito Francesco avrebbe ordinato “l’adozione di strumenti tecnologici idonei all’intercettazione di dispositivi fissi e mobili, nonché qualsiasi altra comunicazione, anche elettronica”, affermano i documenti trapelati. “Tali poteri possono essere esercitati nei confronti di soggetti le cui attività di comunicazione siano ritenute utili allo svolgimento delle indagini”. 

Le autorità vaticane e la polizia italiana hanno sequestrato i telefoni e il computer di Mincione settimane dopo, in un hotel a Roma dove era in vacanza. Il suo avvocato ha affermato di essere stato messo sotto sorveglianza.

Mario Gerevini per corriere.it l'1 luglio 2022.

Il Vaticano ha venduto il palazzo di Londra, il peggior affare nella storia recente della Santa Sede. I soldi persi sono tanti ma gli effetti secondari, a partire dal processo penale e dal crollo di equilibri secolari, sono stati dirompenti. 

L’Apsa, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, ha comunicato di aver concluso la procedura di vendita a Bain Capital dell’ex sede di Harrods in Sloane Avenue a Londra per 186 milioni di sterline. «Le perdite riscontrate — è detto in una nota — rispetto a quanto speso per l’acquisto dell’immobile sono state conferite alla riserva della Segreteria di Stato, senza che in nessun modo in questa circostanza sia toccato l’Obolo di San Pietro, e con esso le donazioni dei fedeli».

La vicenda

Complessivamente l’investimento era stato di 300 milioni di sterline. Quindi si tratta di una perdita molto consistente. Ma non era stata la Segreteria di Stato ad acquistare il palazzo? Già da questo passaggio tecnico si intuiscono gli effetti collaterali di quel surreale quinquennio (2014-2019) durante il quale l’ingente cassa (600 milioni) del più importante dicastero vaticano, la Segreteria di Stato, è stata gestita come se fosse un hedge fund. Se oggi è l’Apsa a occuparsi del palazzo è perché papa Francesco ha di fatto esautorato la Segreteria di Stato nella gestione delle sue finanze, chiudendo i conti svizzeri e trasferendo il patrimonio in mani più capaci dentro il perimetro delle istituzioni vaticane. 

Ma perché il palazzo di Londra ha fatto scandalo? In fondo non è un investimento immobiliare come tanti fatti dalla Chiesa? È proprio così: un investimento come tanti. Ma il modo in cui sono stati investiti i soldi fa la differenza. Basta mettere in fila i fatti. E ricordarsi che si tratta di denaro “con l’anima”, cioè la cassa della Segreteria alimentata anche dall’Obolo di San Pietro, ovvero le offerte annuali dei fedeli al papa. Nel 2014 la Segreteria di Stato (numero uno Pietro Parolin, numero due Angelo Becciu) investe 200 milioni di dollari nel fondo Athena gestito dal finanziere Raffaele Mincione. Il fondo acquista dallo stesso Mincione il 45% del palazzo e un’altra parte dei capitali viene indirizzata dallo stesso finanziere su operazioni speculative: le scalate in Borsa alla Banca Popolare di Milano e alla Carige per esempio.

Se all’epoca si fosse saputo che le incursioni di Mincione in Piazza Affari erano finanziate anche con capitali vaticani ci sarebbe stato uno scandaletto e si sarebbe fermato tutto lì. Ma era tutto blindato, coperto, riservato, patrimonio informativo di pochissimi. Tra questi, due uomini chiave nella gestione delle risorse del papa: monsignor Alberto Perlasca e il laico Fabrizio Tirabassi, dipendenti della Segreteria. Quando finalmente si è compreso che il matrimonio d’affari Vaticano-Mincione era insensato, la Segreteria a fine 2018 ha preso come consulente per la separazione Gianluigi Torzi, abile broker di valute ma una figura tutt’altro che istituzionale.

Il contenzioso con Torzi

Nel frattempo l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra aveva preso il posto di Becciu come Sostituto per gli affari generali, cioè l’ufficio che, tra l’altro, gestisce la cassa. La Segreteria, che aveva il 45% del palazzo, trova l’accordo con Mincione: rileva il restante 55%, esce dal fondo e paga 40 milioni di sterline di conguaglio. Nasce però un contenzioso con Torzi per la governance del palazzo che si conclude, dopo estenuanti trattative, versando 15 milioni al broker nel maggio 2019. In questo lungo periodo (2014-2019) il Vaticano ha pagato provvigioni a Mincione, Torzi e altri per almeno 100 milioni.

Ma loro sono finanzieri, fanno questo di professione. Il processo penale dirà se lecitamente o meno, così come saranno giudicati anche i protagonisti interni al Vaticano. Ma al netto dei codici, chiunque rileggendo la storia del quinquennio 2014-2019 arriva alla conclusione che la gestione del patrimonio della Segreteria è stata indiscutibilmente scandalosa. A partire dal palazzo di Londra. Che ora per fortuna è stato venduto. Resterà il suo fantasma, per un bel po’.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 2 luglio 2022.

Il famoso palazzo di Londra di Sloane Ave è stato venduto dal Vaticano il 30 giugno 2022. Esattamente un anno dopo la firma del rinvio a giudizio di dieci imputati per vari reati che sarebbero stati commessi per comprarlo. Il fatto sostanziale è che la cifra di vendita a 186 milioni di sterline certifica le accuse. Perché il valore stimato dell’immobile da una perizia già nel settembre 2013, era di 173,5 milioni di sterline, come si vede molto prossimo al valore di vendita attuale.

“Come si fa a perdere comprando un palazzo al centro di Londra” si era chiesto uno dei grandi operatori immobiliari della capitale inglese, citato a gennaio 2022 dal Financial Times? Gli imputati hanno dimostrato che si può: tra prezzo gonfiato, commissioni milionarie, rendimenti negativi per anni e anni, pagamento degli interessi su un prestito garantito dal tesoretto dell’Obolo di San Pietro (di 454 milioni) e successivo riacquisto a pezzi (sborzando altri 55 milioni). Il caso di Sloane Ave sarà ricordato dagli annali come il peggiore affare immobiliare della storia della City. L’ufficio del Promotore di giustizia vaticano di recente ha quantificato le perdite in 217 milioni di euro.

Qualcosa che fa impallidire la storia della svendita degli immobili dello Ior (per cui gli imputati sono stati condannati in primo grado a svariati anni di carcere) e che ha riportato il Vaticano ai fasti (si fa per dire) dello scandalo del Banco Ambrosiano che costò alla segreteria di Stato 250 milioni di dollari di transazione versati alla liquidazione della banca di Calvi. 

Anche questa volta le perdite di Sloane Ave sono state “caricate“ sulla contabilità della segreteria di Stato, i cui vertici amministrativi sono finiti nel processo. Ecco perché la vendita del palazzo a Bain Capital non chiude la vicenda, non mette una pietra sopra al pasticciaccio brutto di Sloane Ave, anzi, semmai (una volta recuperato il recuparabile) la scoperchia definitivamente.

Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 2 luglio 2022.

Deve essere stato pesante quanto un macigno, quel palazzo a Londra. Pesante sui pensieri del Papa, vistosa macchia allargata sul Vaticano, un tassello, e importante, del complicato puzzle delle sue vicende finanziarie, finito al centro di un clamoroso processo di corruzione. Francesco ha detto basta, qualcosa va fatto. 

Senza contare che l'investimento ha drenato enormi risorse della Segreteria di Stato e creato un danno di immagine difficilmente quantificabile alla Santa Sede. E qualcosa è stato fatto: ieri è arrivata la comunicazione ufficiale che il Vaticano ha venduto il palazzo degli scandali a Bain Capital, per la somma di 186 milioni di sterline.

«Nei giorni scorsi l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ultimato la vendita a Bain Capital del palazzo in 60 Sloane Avenue a Londra, con un incasso complessivo di 186 milioni di sterline», si legge in un comunicato diffuso dalla stessa Apsa. La Segreteria per l'Economia del Vaticano «ha seguito l'intera procedura nelle sue varie fasi», e «le perdite riscontra te rispetto a quanto speso per l'acquisto dell'immobile sono state conferite alla riserva della Segreteria di Stato, senza che in nessun modo in questa circostanza sia toccato l'Obolo di San Pietro, e con esso le donazioni dei fedeli».

Per garantire la trasparenza e l'indipendenza del processo di valutazione - si legge ancora nella nota-, la Santa Sede si è avvalsa dell'assistenza del broker immobiliare Savills, selezionato al termine di una procedura digara avviata nel gennaio 2021 sotto la vigilanza di advisor immobiliari. 

Le questioni economiche (con scandali annessi) sono state fonte continua di preoccupazione. Così da oltre un anno il Pontefice ha dirottato la gestione dei fondi alla Segreteria di Stato, concentrandoli (insieme ad altri enti) nell'Apsa e sotto il controllo della Segreteria per l'Economia, guidata dal prefetto Juan Guerrero Alves.

Acquistato per oltre 300 milioni di sterline (l'equivalente di 347 milioni di euro), rivenduto (o forse sarebbe meglio dire svenduto) per 186 milioni (215 milioni di euro). Con una perdita di almeno 115 milioni. Del resto, è la dura legge del mercato immobiliare. Se si ha fretta di vendere... Anche se il Vaticano rassicura che la perdita non intaccherà le donazioni e l'Obolo, il danno appare evidente.

L'edificio, che si trova nel quartiere londinese di Knightsbridge, è al centro dell'inchiesta del Vaticano per il quale è in corso il processo a carico del cardinale Angelo Giovanni Becciu, di alti prelati e funzionari della Segreteria di Stato nonché dei finanzieri esterni al Vaticano Raffaele Mincione, Gianluigi Torzi ed Enrico Crasso (per Mincione e per altri, nonché per alcuni capi di imputazione a carico di altri soggetti, gli atti sono stati restituiti al promotore perché compia atti a loro garanzia; di conseguenza non sono più «imputati» nel processo, pur restando indagati). 

L'affare in questione era iniziato nel 2014, con l'acquisto di circa metà del controllo del palazzo; a fine 2018 il Vaticano aveva rilevato l'intera proprietà. La vicenda è degna di un thriller di alta finanza. Nel 2013 Mincione vende l'immobile, diventa il gestore di 200 milioni di dollari di fondi riservati della Segreteria di Stato attraverso il fondo Athena. Lui stesso convince il Vaticano a investire 100 milioni di dollari per acquistare circa metà del palazzo, che lui stesso possiede.

Nel 2018 il Vaticano esce dal fondo Athena rilevando da Mincione l'intero palazzo, con un conguaglio a favore del finanziere di 44 milioni di euro. Poi è arrivato il processo, e orala vendita londinese. Un intreccio che lascia sul campo una consistente quantità di soldi e di ombre. Ma non bisogna dimenticare che l'economia vaticana sostiene migliaia di opere di assistenza e sostegno, scuole, missioni, mense. Non ci sono solo scandali e palazzi milionari.

Da imputato in Vaticano Monsignor Carlino diventa parroco della Basilica a Lecce. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Giugno 2022.

Era stato sospeso dall'incarico da papa Francesco dopo il suo coinvolgimento nell'acquisto di un palazzo a Londra che avrebbe prodotto perdite per 217 milioni di euro alla Santa Sede

Monsignor Mauro Carlino, imputato nel processo in corso davanti al Tribunale della Santa Sede per la vicenda dell’acquisto da parte del Vaticano di un lussuoso palazzo londinese su Sloane Avenue, è diventato parroco della basilica di Santa Croce, chiesa simbolo di Lecce, . Carlino, 46 anni, leccese di nascita, all’epoca dei fatti funzionario del Vaticano, fu sospeso dall’incarico da Papa Francesco dopo il suo coinvolgimento nell’affare finanziario-immobiliare che avrebbe prodotto perdite per 217 milioni di euro in danno della Santa Sede.

Carlino, dopo avere avvertito la vocazione al sacerdozio, ha studiato al Seminario Romano e alla Pontificia Università Lateranense, per poi conseguire il dottorato in Storia della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana. È stato ordinato presbitero il 28 marzo 2001 ed ha fatto ritorno nella diocesi di Lecce fino alla chiamata all’Accademia Pontificia di piazza della Minerva, a Roma, dove si è specializzato in Diritto canonico e si è preparato alla carriera diplomatica. Fu anche segretario personale dell’arcivescovo di Lecce, Cosmo Francesco Ruppi.

Rientrato nella sua città d’origine, monsignor Carlino venne nominato dall’arcivescovo Michele Seccia suo segretario personale. Ieri è arrivata anche l’ufficializzazione della sua nomina a parroco della basilica di Santa Croce, icona del Barocco leccese, vanto della curia locale e dell’intero Salento. A dare l’annuncio è stato lo stesso arcivescovo Seccia nel corso della Giornata sacerdotale di fine anno pastorale, davanti al clero diocesano riunito a Roca, una località nelle vicinanze del capoluogo salentino. Il nome di monsignor Mauro Carlino figura nell’elenco dei parroci di nuova nomina diffuso nella stessa occasione.

È noto che negli ambienti ecclesiastici leccesi Carlino goda di grande stima, così come è assai diffusa l’idea che nel processo possa emergere la sua assoluta innocenza. La vicenda giudiziaria che vede coinvolto Carlino riguarda fatti avvenuti quando il sacerdote leccese era segretario dei sostituti per gli Affari generali, il cardinale Angelo Becciu (tra i principali imputati) e monsignor Edgar Peña Pena Parra.

Sotto la lente dei giudici è finita la gestione dei fondi della Segreteria di Stato, con particolare riferimento all’operazione finanziaria finalizzata all’acquisto del palazzo di Londra. La sua prima destinazione è stata alla segreteria della nunziatura apostolica in Nicaragua, cui è seguito l’incarico nella segreteria di Stato, in Vaticano. Appassionato di calcio, monsignor Carlino è un grande tifoso del Lecce, di cui segue tutte le partite. Redazione CdG 1947

Mario Gerevini per corriere.it il 10 Giugno 2022.

È vero che nei magazzini della Federal Reserve americana ci sono centinaia di lingotti d’oro dello Ior? E che nel caveau della banca vaticana sono custodite medaglie e monete preziose per milioni di euro? Chi sono i clienti dello Ior? Qual è lo stipendio del direttore generale? Quanti soldi hanno sul conto i cinque cardinali che rappresentano il papa? Che cos’è il «Fondo Sante Messe»?

Nel comunicato sul bilancio 2021 dell’Istituto per le Opere di Religione diffuso martedì 7 giugno questi argomenti di dettaglio non sono stati affrontati. Si dava conto di un utile netto a 18,1 milioni (36 milioni nel 2020), della crescita del margine d’interesse (+15%) e delle masse gestite (+4%). Ma le risposte a tutte le domande iniziali si trovano, ufficiali e precise, nelle 130 pagine del Rapporto annuale dello Ior (pubblicato sul sito) che è un modello di trasparenza per le istituzioni economiche vaticane.

I lingotti d’oro, per esempio. È una voce dell’attivo («Oro») e un valore («22,8 milioni»). Il metallo prezioso è «prevalentemente depositato presso la U.S. Federal Reserve», spiega il bilancio. Con il lingotto da 1 chilogrammo quotato attualmente intorno ai 55 mila euro vuol dire che ci sono oltre 400 lingotti targati Ior negli immensi e impenetrabili depositi della Fed che custodiscono migliaia di tonnellate del nobile metallo (1.061 tonnellate solo di Banca d’Italia). Non si tratta di finanza «vuota», di trading speculativo ma di fondamenta che contribuiscono a garantire la solidità dell’istituto che ha un patrimonio netto di 650 milioni. E così anche le medaglie e monete preziose sotto chiave nel caveau che complessivamente valgono 10,6 milioni. Sono riserve di utili non distribuibili create negli anni e sostanzialmente inalterate da molto tempo.

Alla voce investimenti lo Ior sottolinea le sue «scelte di gestione prudenti e coerenti con i principi della Dottrina sociale della Chiesa e investe solo in imprese e Stati che rispettano tali principi». Esattamente ciò che dovrà garantire, vigilando sugli investimenti mobiliari della Santa Sede, il neonato Comitato per gli investimenti, introdotto dalla Costituzione apostolica «Praedicate evangelium» che delinea la nuova architettura della Curia romana. Lo scandalo del palazzo di Londra e gli investimenti speculativi, in passato, della Segreteria di Stato restano una ferita aperta, almeno finché non si chiude il processo penale in corso, nel quale, tra l’altro, lo Ior è stato ammesso come parte civile.

I clienti dello Ior a fine 2021 erano 14.519, cioè 472 in meno dell’anno precedente. Il calo «include sia i conti chiusi da seminaristi o chierici rientrati nel proprio Paese — si legge nel rendiconto — sia quelli chiusi dall’Istituto … per il venir meno dei requisiti di titolarità, l’inosservanza delle norme contrattuali o il mancato utilizzo» per lungo tempo. Insomma «pulizia», che continuerà. Ma chi sono i clienti, o meglio, di chi sono i 5,2 miliardi di risorse affidate allo Ior? La metà sono ordini religiosi, il 23% dicasteri della curia romana, uffici della Santa Sede e dello Stato Città del Vaticano e nunziature apostoliche, il 9% conferenze episcopali, diocesi e parrocchie, l’8% cardinali, vescovi e clero, il 7% dipendenti e pensionati vaticani, il 3% fondazioni e altri enti di diritto canonico. Lo Ior «non accetta come clienti istituzioni o persone fisiche che non abbiano una stretta relazione con la Santa Sede e la Chiesa Cattolica», garantisce il presidente del consiglio di sovrintendenza Jean-Baptiste Douville de Franssu.

A gestire l’operatività dello Ior è Gian Franco Mammì, direttore generale dal 2015. Il suo stipendio nel 2021 è stato di 205mila euro, come nel 2020. L’organo collegiale di indirizzo gestionale è il consiglio di sovrintendenza, in pratica un consiglio di amministrazione. È composto da 6 membri laici (nessun italiano) nominati dalla Commissione cardinalizia e ha ricevuto emolumenti complessivi per circa 300mila euro. Niente compenso, invece, ai cinque cardinali della commissione, nominati dall’«azionista» ovvero dal Papa: lo spagnolo Santos Abril y Castelló, presidente, Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, il filippino Luis Antonio Gokim Tagle, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il polacco Konrad Krajewski, Elemosiniere apostolico e Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’ Aquila.

A fine 2021 presso lo Ior «il saldo dei depositi dei membri della Commissione cardinalizia era pari a 1,6 milioni di euro». È una cifra globale che, facendo la media, corrisponderebbe a poco più 300mila euro a testa. Ordinaria amministrazione. I cardinali, ovvero i più alti membri della gerarchia cattolica dopo il papa, nella curia romana guadagnano 4.500-5.000 euro (i vescovi 3.000-4.000) al mese, al lordo del provvedimento con cui papa Francesco nel marzo 2021 decise un contenimento delle spese per il personale, compreso un taglio del 10% ai porporati.

E il «Fondo Sante Messe»? Nel bilancio dello Ior ha una consistenza di 2,2 milioni. Da lì si pesca per «elargizioni a sacerdoti» allo scopo di celebrare messe. I fondi vengono da numerosissime piccole elargizioni «vincolate allo scopo». Le donazioni e le modalità con cui vengono distribuite «sono direttamente registrate nel fondo».

L'ultima scure del Vaticano su Enzo Bianchi: i vescovi rinuncino a invitarlo a parlare. Paolo Rodari su La Repubblica il 4 maggio 2022.  

La richiesta del segretario di Stato Pietro Parolin in una lettera pubblicata dal Domani.

Sono passati due anni dal decreto emesso dal Vaticano che ha portato all'allontanamento da Bose di Enzo Bianchi e nuovi dettagli svelano come sull'ex priore della Comunità - oggi accasatosi in un nuovo cascinale a pochi chilometri da Bose - la scure della Santa Sede riguardi anche la sua attività di conferenziere in giro per le diocesi italiane. Una lettera del segretario di Stato vaticano Pietro Parolin inviata ai vescovi italiani, datata gennaio 2020 e pubblicata dal Domani, infatti, contiene un invito esplicito a considerare se sia opportuna la presenza di Bianchi nelle iniziative diocesane di formazione e predicazione.

Il decreto con il quale la Santa Sede aveva estromesso Bianchi dalla sua comunità spiegava che "dopo le dimissioni spontanee dalla carica di priore" lo stesso Bianchi "ha mostrato di non aver rinunciato effettivamente al governo, interferendo in diversi modi, continuamente e gravemente sulla conduzione della medesima comunità e determinando una grave divisione nella vita fraterna". E ancora: "Si è posto al di sopra della regola della comunità e delle esigenze evangeliche da esse richieste, esercitando la propria autorità morale in modo improprio, irrispettoso e sconveniente nei confronti dei fratelli della comunità provocando lo scandalo". Ma nella sua lettera Parolin va oltre, affermando che "nel tempo intercorso dal Decreto singolare a oggi, sono giunte alla segreteria di Stato ulteriori testimonianze e documentazioni che hanno consentito di avere un quadro complessivo della gestione dell'autorità e dei comportamenti in vari ambiti di Fr. Enzo Bianchi, ancor più grave di quanto già verificato in sede di visita apostolica". Quali siano esattamente i comportamenti più gravi, tuttavia, non viene specificato.

Soltanto pochi giorni fa Bianchi ha annunciato il trasferimento definitivo in un cascinale ad Albiano d'Ivrea per "vivere da monaco cenobita e non eremita". Ha spiegato: "Trascorsi poco meno di due anni di esilio dalla comunità alla quale ho dato inizio e nella quale ho vissuto per cinquantacinque anni e non potendo tornare a Bose per finire i miei giorni da monaco nella vita fraterna, ho acquistato con l'aiuto di amici e attraverso un mutuo decennale un cascinale nel comune di Albiano, dove poter vivere nella pace gli ultimi anni della mia vita". E ancora: "Terminati i necessari lavori di ristrutturazione al fine di renderlo abitabile, questo cascinale sarà una casa che accoglierà chi vorrà vivere con me, gli amici e gli ospiti che cercheranno un luogo di silenzio, di dialogo e di ospitalità".

Bianchi, che negli ultimi mesi ha girato alcune diocesi italiane per delle conferenze, ha spiegato il senso dell'apertura di questa nuova casa: "Chi genera un figlio non può rigenerarlo né farlo nascere di nuovo", ha detto. E ancora: "Ogni figlio è in un certo senso unico ed io non intendo rifare la comunità che da me ha avuto inizio, né fondare una nuova comunità religiosa canonicamente riconosciuta. Voglio solo vivere da monaco cenobita e non eremita come ho sempre vissuto. Cammin facendo vedremo cosa ci riserverà il Signore e cosa ci suggerirà lo Spirito Santo".

Di certo la lettera di Parolin non ammette dubbi su cosa pensi il Vaticano sul suo immediato futuro. L'auspicio della Santa Sede sembra essere di un ritiro sostanzialmente eremitico, lontano dall'attività a lungo perseguita di conferenziere stimato dai vescovi e amato da moltissimi fedeli.

Marco Grieco per editorialedomani.it il 4 maggio 2022.

Valutate se sia opportuno affidare a Enzo Bianchi la predicazione e la formazione per clero, religiosi e laici». Dopo oltre un anno dall’allontanamento vaticano dell’ex priore dalla comunità da lui fondata a Bose negli anni Sessanta, la Santa sede lancia un duro ultimatum ai vescovi italiani più renitenti alle disposizioni vaticane, invitandoli a considerare seriamente se sia opportuna la presenza di Bianchi nelle iniziative diocesane di formazione e predicazione. 

Recita pressappoco così la perentoria esortazione alla Conferenza episcopale italiana (Cei) datata gennaio 2022 e firmata dal cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, ottenuta da Domani. 

Una nota lunga due pagine che rompe i rapporti fra l’episcopato cattolico e l’ex priore amico personale di ben tre pontefici, consultato come esperto in diversi sinodi dei vescovi: «Ciò va detto per avere un quadro realistico della situazione, nel rispetto della verità, delle persone coinvolte e in particolare della comunità, che si sta riprendendo nel perseguimento dei suoi ideali di vita monastica, dopo il difficile tempo vissuto. E che ha bisogno, naturalmente, del sostegno il più possibile concorde di tutta la chiesa», puntualizza Parolin nel documento.

Per la Santa sede è tempo che la comunità di Bose, che deve al suo fondatore il merito di aver tracciato i passi dell’ecumenismo post conciliare intessendo legami con l’ortodossia slava, la chiesa greca o le chiese riformate, adesso cammini con le proprie gambe. 

Per farlo, però, la segreteria di Stato invita anche i vescovi italiani noncuranti del decreto pontificio ad adeguarsi alla decisione di Roma e valutare se sia ancora opportuno affidarsi a un ex priore allontanato su ordine del papa per essersi «posto al di sopra della regola della comunità e delle esigenze evangeliche da esse richieste, esercitando la propria autorità morale in mondo improprio, irrispettoso e sconveniente nei confronti dei fratelli della comunità, provocando lo scandalo», come recita il provvedimento di due anni fa.

Il cardinale Pietro Parolin è il firmatario del decreto singolare approvato in forma specifica da papa Francesco il 13 maggio 2020, con cui sono stati disposti l’allontanamento di Bianchi in modo permanente da Bose e di altri tre membri della comunità – Goffredo Boselli, Lino Breda e Antonella Casiraghi – per almeno cinque anni. 

Il provvedimento ha fatto seguito alla visita del delegato scelto dal papa, il religioso e psicologo Amedeo Cencini, che ha raccolto testimonianze di membri e fuorisciti da Bose dopo l’allontanamento di Bianchi. 

Il documento pontificio è stato pubblicato un anno fa da un blog gestito da studiosi del fenomeno religioso e del diritto, Silere Non Possum, «senza alcuna autorizzazione del delegato pontificio», spiega il porporato. 

Eppure, grazie alla sua diffusione è stato possibile capire che le misure ad personam a carico di Bianchi e degli altri tre membri siano un provvedimento per azioni valutate come gravi dalla Santa sede.

Il cardinale Parolin lo ricorda anche nell’attuale nota ai vescovi: «A distanza di oltre 18 mesi dall’emanazione del decreto singolare contente i provvedimenti per la comunità monastica di Bose, si ritiene opportuno evidenziare alcuni aspetti relativi al suo contenuto», spiega il porporato, puntualizzando che «la decisione è stata presa in base a motivi ritenuti gravi, comunicati ai diretti interessati, ma non resi pubblici». 

La gravità dei fatti, messa in discussione dai sostenitori dell’ex priore, sarebbe tale da assumere contorni sempre più vasti, al limite dell’accettabile: «Nel tempo intercorso dal Decreto singolare a oggi, sono giunte alla segreteria di Stato ulteriori testimonianze e documentazioni che hanno consentito di avere un quadro complessivo della gestione dell’autorità e dei comportamenti in vari ambiti di Fr. Enzo Bianchi, ancor più grave di quanto già verificato in sede di visita apostolica».

La nota alla Conferenza episcopale italiana è datata 22 gennaio scorso, pochi giorni dopo che Domani aveva reso nota la fitta agenda dell’ex priore malgrado le perentorie disposizioni della Santa sede.

Nel corso del 2021, infatti, Bianchi ha mantenuto un’agenda fitta di appuntamenti, forte del fatto che non ne è stata intaccata la sua attività di predicatore e di pubblicista: il Festival delle religioni a San Miniato, la tavola rotonda alla Fondazione per le scienze religiose di Bologna, l’apertura dell’Assemblea diocesana di Pescara, il Convegno ecclesiale diocesano di Ariano Irpino sono solo alcuni dei numerosi eventi ai quali ha partecipato nel 2021, con il sostegno di alcuni vescovi, che hanno così continuato ad ospitare Bianchi come conferenziere presso le loro diocesi.

Aveva fatto discutere la presenza di monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes, a un incontro dove era stato invitato anche l’ex priore, così come la presenza di Enzo Bianchi e Goffredo Boselli tra i relatori al convegno di Ariano Irpino, ospiti di monsignor Sergio Melillo. 

Ma non è mistero che Bianchi sia conosciuto anche fra i cardinali, alcuni dei quali suoi amici. I porporati Gianfranco Ravasi e Giuseppe Versaldi, per esempio, nei mesi scorsi si sono prodigati per trovare una soluzione accomodante per l’ex priore, proponendo il suo trasferimento a Cellole, la pieve volterrana della comunità, che in un primo momento sarebbe stata concessa in comodato d’uso gratuito per consentirne l’allontanamento. 

Secondo Repubblica, fra i sostenitori della proposta v’era anche il cardinale Matteo Maria Zuppi, legato da un solido rapporto con Bianchi. 

Oggi, se alcuni cardinali preferiscono mantenere assoluto riserbo, l’arcivescovo di Bologna se n’è smarcato rafforzando il suo sodalizio con la comunità e invitando il nuovo priore fresco di elezione, Sabino Chialà, a predicare gli esercizi spirituali ai vescovi dell’Emilia-Romagna.

Alla luce della nota di gennaio della segreteria di Stato, infatti, oggi il sostegno a Bianchi rischia di essere una patata bollente in vista delle prossime nomine alla presidenza della Cei.

Se la linea di Parolin è netta, un diverso atteggiamento ha finora avuto papa Francesco. formalmente, il pontefice ha nominato il delegato Cencini e autorizzato l’allontanamento definitivo di Bianchi, ma si ha la sensazione di un atteggiamento poco chiaro.

Ciò emerge con evidenza nelle due lettere scritte da Bergoglio il 9 febbraio e il 18 marzo 2021, indirizzate rispettivamente all’ex priore e alla comunità di Bose. Se al nuovo priore e a tutta la comunità Bergoglio ha ribadito «la vicinanza e il sostegno in questo periodo di dura prova che state attraversando per vivere con fedeltà la vostra vocazione» questi, rivolgendosi a Bianchi, parla di prova: «Caro Enzo, questo è l’essenziale della tua vita di oggi: sei in croce, come Gesù. Questo è il tuo tempo della lotta, del buio, della solitudine, del faccia a faccia con la volontà del padre».

In una fase in cui una comunità rischia di essere seriamente provata dalla condotta del suo fondatore al punto da richiedere un duro intervento della Santa sede verso la Cei, cosa intende il papa quando traccia la personale via crucis di Bianchi? 

Se di croce si tratta, chi ne sarebbero i carnefici, visto che l’allontanamento è stato autorizzato da lui stesso? Nell’ennesima zona grigia del pontificato di Francesco, Bianchi ha acquistato una cascina a Albiano d’Ivrea, a 15 chilometri da Bose, da lui ribattezzata casa della madia: «Non potendo tornare a bose per finire i miei giorni da monaco nella vita fraterna, ho acquistato con l’aiuto di amici e attraverso un mutuo decennale un cascinale nel comune di Albiano, dove poter vivere nella pace gli ultimi anni della mia vita», ha scritto l’ex priore sulla landing page della raccolta fondi. 

Per sostenere questo nuovo progetto, che alcuni hanno già ribattezzato l’anti-Bose, è stato costituito un comitato con nomi di spicco: dall’ex sindaco di Torino, Valentino Castellani, al pioniere dei trapianti di fegato, Mauro Salizzoni, al manager Corrado Colli. Un nuovo inizio per Bianchi, che dopo la nota della Santa sede faticherà a trovare l’appoggio dei vescovi.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 15 aprile 2022.

Venerdì Santo molti sardi saranno tentati di associare la Passione di Cristo alla valanga di contumelie che "il Vaticano", o chi per esso, sta riversando da oltre un anno sulla diocesi di Ozieri. In effetti, sembra di assistere alla stessa pantomima pseudo giudiziaria tra il Sinedrio e Pilato, quando si doveva escogitare un capo d'accusa per crocifiggere Gesù Cristo.

Durante il cosiddetto "processo Becciu" (relativo alla gestione dei fondi della segreteria di stato per vicende commesse tra Roma, Londra e Ginevra), è stato aperto un procedimento giudiziario vaticano sui finanziamenti della Conferenza episcopale italiana alla diocesi di Ozieri.

Cei e diocesi sono, per la legge 222 del 1985, enti ecclesiastici con sede in Italia, civilmente riconosciuti (quindi, di diritto italiano) perché costituiti o approvati dall'autorità ecclesiastica (cioè a norma del diritto canonico): cosa c'entri la giurisdizione dello Stato della Città del Vaticano, lo intendono solo le lucernae juris che si litigano il ruolo di primo attore in quello che ci si ostina a chiamare "processo del secolo".

«Non mi voglio abituare a leggere sui giornali che la Diocesi di Ozieri ha usato i soldi dei poveri per arricchire singole persone», ha scritto il vescovo Corrado Melis. Gli hanno fatto eco tutti i preti della diocesi che, dopo un anno e mezzo, hanno esaurito la pazienza per sopportare quello che appare «un immotivato e pretestuoso accanimento», inspiegabile nel merito e nel metodo.

Resta incomprensibile l'acquiescenza con cui la nostra autorità giudiziaria accetta l'intromissione di una giurisdizione straniera su fatti che riguardano, nel caso, enti e cittadini italiani. Che i "giudici" vaticani godano nel fare gli anticlericali è piuttosto strano. Ma che la nostra magistratura faccia finta di essere ignorante è molto, molto strano.

Felice Manti per ilgiornale.it il 21 giugno 2022.

Il canovaccio era già scritto: il cardinale Angelo Becciu è colpevole e va condannato. Ha dato soldi al fratello, ha sottratto fondi all'Obolo di San Pietro, ha dissanguato le casse vaticane con azioni spregiudicate come l'operazione sull'ex magazzino di Harrod's nel palazzo di Sloane Avenue 60 a Chelsea, quartiere posh di Londra. 

Un «marcio sistema predatorio e lucrativo» messo in piedi da «soggetti improbabili se non improponibili» per attingere alle risorse della Santa Sede grazie anche a «limitate ma assai incisive complicità e connivenze interne».

Quali? Bisognerebbe chiederlo agli attori sul palco del processo in Vaticano, che avrebbero dovuto recitare bene le loro battute, come da copione. La commedia dell'arte, si sa, riserva sempre qualche sorpresa a chi come il Giornale, a scapito di un finale già scritto, si è seduto in poltrona a guardare lo spettacolo. 

Così ciò che doveva essere, non è stato. Chi doveva dire, non ha detto. Chi doveva provare, non ha provato nulla. Chi doveva confermare, ha smentito. È come quando in un giallo di Agatha Christie l'io narrante è il colpevole.

Quanto è costato, ad esempio, il palazzo di Londra a Sloane Avenue? La causa del più clamoroso processo mai fatto in Vaticano è priva di un'informazione fondamentale. Tutte le difese degli imputati già tre mesi fa hanno fatto richiesta di accesso agli atti. Risposta: nessuna. E sentendo parlare i protagonisti delle vicende (sul Palazzo di Londra e non solo) la nebbia, anziché diradarsi, si infittisce. 

Chi conosce le segrete stanze vaticane ammette che anche Papa Francesco è rimasto sorpreso. Lui che con «un'azione tanto eclatante e praticamente senza precedenti», come ricorda il vescovo francescano Gianfranco Girotti, chiese e ottenne il 24 settembre di due anni fa la rinuncia di Becciu ai diritti connessi al cardinalato sulla base di presunte «informazioni precise e riservatissime».

Ora, con le novità emerse dal processo in corso da quasi un anno, il Pontefice «adesso sa» che l'ex potente monsignore aveva un rapporto fondato sulla fiducia delle indicazioni degli uffici tecnici della Segreteria di Stato guidati da monsignor Alberto Perlasca. Capo ufficio, vero e proprio decisore su ogni profilo di merito secondo la difesa di Becciu, Perlasca però è rimasto fuori dal processo. 

Più le udienze offrono contributi, meno si spiega perché non sia al banco tra gli imputati. Con l'andare avanti dell'istruttoria, insomma, il racconto dell'accusa sembra faccia sempre più acqua. Da tutte le parti.

Il presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, magistrato di esperienza ultradecennale (le cui intuizioni sulla Mafia Capitale a Roma hanno trovato conferme solo «postume», ed è un peccato), deve fare i conti in aula con le frequenti e a volte stizzite reazioni del Promotore di Giustizia Alessandro Diddi e alle veementi proteste degli avvocati che spesso costringono il Tribunale a frequenti interruzioni per placare gli animi. 

La colpa è tutta dei giornaloni: avevano già preparato la croce per inchiodare Becciu, ingannando i propri lettori. Ma oggi tacciono, forse di vergogna. Se guardiamo al famoso Palazzo, Becciu non può certo pagare gli errori commessi dopo che era stato sostituito alla Segreteria di Stato. Nessuno dice che nella vendita del Palazzo di Londra tutto sia stato fatto nel migliore dei modi. Né che la gestione degli investimenti fosse irreprensibile (ma anche il contrario è tutto da dimostrare).

C'è stata una perdita? Non ci sono elementi di fatto documentati. E non sarebbe comunque sufficiente a dimostrare il reato. Mentre resta il mistero: chi aveva intavolato l'operazione, come Perlasca, avvalendosi di consulenti e mediatori sconosciuti a Becciu, è stato prosciolto da tutte le accuse. 

E si continua a parlare del «caso Angola». C'è voluta la deposizione del finanziere Raffaele Mincione per scoprire quello che si sapeva già. Becciu aveva chiesto all'Ufficio di valutare l'eventuale convenienza dell'operazione relativa allo sfruttamento di un giacimento petrolifero.

Ricevuto un report negativo, decise di non dar luogo all'operazione. «Tutto provato documentalmente» dicono i legali Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo. Eppure l'Espresso, per primo a sparare su Becciu («un'inchiesta giornalistica che farà epoca»), aveva promesso la rivelazione di uno squarcio di verità «sullo scontro di potere gigantesco nel cuore della Chiesa, sul tradimento del messaggio di Papa Francesco, sul tentativo di un gruppo di sodali di impossessarsi di quanto c'è di più caro ai fedeli». Cosa resta di queste roboanti promesse? Nulla.

Anche Report, che ha seguito il solco del settimanale, ha impasticciato veline e veleni in una narrativa preconcetta e unilaterale che ha ignorato le plurime ricostruzioni, accostando Becciu a fatti mai avvenuti e ampiamente smentiti come le fantomatiche richieste di denaro dalla Congregazione per le cause dei Santi nel giugno del 2018 (il cardinale, tanto per dirne una, arriverà solo a settembre).

E guarda caso proprio il Papa in questi giorni ha voluto mandare un messaggio ai giornali «convulsi, nelle mani di tutto un mondo di comunicazione, che o dice la metà, o una parte calunnia l'altra, o una parte diffama l'altra, o una parte sul vassoio offre degli scandali perché alla gente piace mangiare scandali, cioè mangiare sporcizia». A giorni si tornerà in aula, a inseguire i fantasmi e le maldicenze, mentre la verità la sanno in pochi. O forse solo il Papa.

In questa infinita Vatileaks, come la chiama Andrea Mainardi, ci sono anche gli scontri tra Becciu e George Pell, accusato ingiustamente di pedofilia ma mai umiliato pubblicamente come Becciu. Ci sono le faide con lo Ior, i Cavalieri di Malta, la «vecchia guardia» e i «bergogliani». Canovacci buoni per un film alla Dan Brown. Non per un processo infinito senza prove. Con un colpevole già scritto. Che magari è pure innocente.

Processo Vaticano, il Papa libera il cardinale Angelo Becciu dal segreto pontificio: può testimoniare. Valeria Di Corrado su Il Tempo il 30 marzo 2022.

Papa Francesco libera Angelo Becciu dal segreto pontificio in vista dell’interrogatorio che l’ex sostituto alla segreteria di Stato vaticana dovrà sostenere nell’ambito del processo che lo vede imputato.

La notizia della dispensa è stata data dal presidente del tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, all’inizio dell’udienza di questa mattina, l’undicesima del procedimento avviato per il caso della compravendita del palazzo di Sloane Avenue, nel cuore di Londra. Il segreto pontificio era stato invocato nell'udienza dello scorso 17 marzo dallo stesso Becciu, privato delle prerogative cardinalizie dal Papa ancor prima del rinvio a giudizio. Pignatone gli aveva chiesto direttamente se sui suoi rapporti con Cecilia Marogna, anche lei imputata, intendesse mantenere il segreto pontificio e il cardinale aveva risposto affermativamente, pur aggiungendo di essere «disposto ad accettare ciò che sarà deciso dalle autorità competenti». Di conseguenza il Tribunale aveva chiesto alla Segreteria di Stato se sussistesse ancora l’attualità del segreto.

Oggi Pignatone ha letto la risposta al quesito. A vergarla lo stesso cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, che ha scritto di averne parlato direttamente con Bergoglio e che questi dispensava il cardinal Becciu dal segreto pontificio. Riprenderà quindi il 7 aprile l’interrogatorio del prelato, che un paio di settimane fa definiva «assurde, incredibili, grottesche, mostruose» le accuse mossegli e denunciava il danno che esse gli avevano causato. Ma senza evitare di aggiungere che il suo desiderio era «che la verità venga al più presto proclamata».

Il resto dell’udienza odierna ha visto la prima parte dell’interrogatorio di un altro imputato, monsignor Mauro Carlino: quattro ore e più di racconto inframezzato da ripetuti richiami alla propria probità e alla volontà di essere testimone di fede e vita sacerdotale. Interpellato dal Promotore di giustizia Alessandro Diddi, se fosse a conoscenza della cooperativa sarda Spes, Carlino ha risposto affermativamente dicendo anche che «il cardinale Becciu gli diceva che la diocesi di Ozieri era povera. Sapevo anche che il fratello del cardinale lavorava nella Spes». Carlino ha detto anche di essere a conoscenza del fatto che «la Cei elargiva somme alla Caritas di Ozieri». Su questo punto non si è proceduto nell’interrogatorio perché si è saputo che è stato aperto un altro procedimento.

Nel gennaio del 2019, riferisce Carlino, Pena Parra «ebbe quasi uno sfogo» parlando di un «grande errore»: nel tentativo di rientrare nel pieno possesso del palazzo di Sloane Avenue a Gianluigi Torzi, uno degli accusati, era stato permesso di trattenere mille azioni con diritto di voto. Una circostanza che di fatto esautorava il Vaticano da ogni possibilità di far valere i propri diritti sull’immobile. Addirittura si temeva che Torzi potesse vendere il palazzo ad altri. Si aprono le trattative, nelle quali Carlino dice di aver svoto solamente un ruolo di collegamento tra il finanziere e la Segreteria. «Non ho mai mosso un dito senza autorizzazioni superiori», dice e ribadisce rispondendo alle domande di Pignatone, Diddi e delle parti civili, «è una vicenda in cui io mi sono trovato catapultato».

Il Papa, nel frattempo, «ogni martedì alle 18» riceveva la visita di Pena Parra che lo teneva informato tra le altre cose anche dell’andamento della trattativa, e l’atteggiamento del Pontefice era riassumibile nel desiderio di pagare il meno possibile per riappropriarsi del palazzo di Sloane Avenue e chiudere la questione. Su questo e sui rapporti con Cecilia Marogna potrebbe tornare a parlare Becciu, il 7 aprile prossimo. Il cardinale, due settimane fa, aveva toccato anche l’argomento degli aiuti finanziari fatti pervenire ad alcune iniziative sociali della diocesi di Ozieri e alla cooperativa Spes che in questo ambito operava.

(ANSA il 18 maggio 2022) - Sull'ex manager sarda Cecilia Marogna, in particolare sul pernottamento di lei a casa sua di cui si parla nelle carte d'accusa, il card. Angelo Becciu ha dato oggi la sua versione: "Sono un fedele lettore del Manzoni. 

Ricordate Fra Cristoforo che accoglie Lucia al Monastero e alle contestazioni risponde 'Omnia munda mundis'? Lei alla sera venne da me, dovevamo parlare. Si fece tardi. Quando stava uscendo le suore che mi assistono in casa mi dissero: 'la signora ha paura d'andare in albergo perché c'è il Covid. Possiamo alloggiarla noi?' Io dissi di sì. L'ho ritrovata la mattina dopo a colazione e poi è andata via. La cosa andò così"

Fausto Gasparroni per l’ANSA il 18 maggio 2022.  

All'inizio dell'odierna udienza del processo in Vaticano, il card. Angelo Becciu ha voluto chiarire di non aver avuto alcun ruolo nelle dimissioni, il 19 giugno 2017, dell'allora revisore generale dei conti vaticani Libero Milone. La volta scorsa, sulla questione, Becciu si era avvalso della facoltà di non rispondere, "per salvaguardare il Santo Padre". "In questi giorni ho chiesto al Papa se potevo parlare liberamente e lui ha detto di sì - ha quindi riferito -. Voglio quindi chiarire sinteticamente quanto a mia conoscenza. Non ho alcuna responsabilità sulle dimissioni del dott. Milone. Diedi solo corso all'ordine del Santo Padre".

"Il Papa mi chiamò - ha proseguito Becciu -: 'eccellenza, le chiederei di chiamare il dott. Milone e dirgli che non gode più della fiducia del Santo Padre e deve rendere le dimissioni'. Chiamai al mattino lo stesso Milone e gli comunicai la decisione del Papa. Le motivazioni erano quelle che poi furono scritte nel comunicato del 24 settembre 2017, dopo dichiarazioni di Milone alla stampa. Insomma, Milone, 'esulando dalle sue competenze, ha incaricato illegalmente una Società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede'. Ribadisco con forza di non aver avuto alcun ruolo nella decisione del Santo Padre".

Nel processo farsa a Becciu spuntano pure due emissari russi. Felice Manti il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Dall’accusa illazioni e ammiccamenti, il cardinale: "Io umiliato dalle domande". Il giallo sul conto Ior.

Se il Palazzaccio piange, il Vaticano non ride. Mentre in Italia si discute di giustizia, Oltretevere va in scena un processo imbarazzante contro il cardinale Angelo Becciu, accusato di una raffica di reati senza uno straccio di prova. Ieri si è concluso il secondo round dello scontro tra il cardinale e il Promotore di giustizia aggiunto, l’avvocato Alessandro Diddi. Ma più Becciu dimostrava per tabulas l’innocenza anche con qualche comprensibile “non ricordo” motivato con lo stress e la distanza dai fatti, più il Promotore lo incalzava con illazioni e provocazioni («lei finge di non ricordare»), scatenando l’irritazione non solo dei suoi legali Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo ma anche del presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, più volte costretto a redarguire l’accusatore per l’interrogatorio, pieno di sentito dire, di considerazioni personali e temi estranei alle imputazioni. Ben lontano dall’ortodossa applicazione del canone giuridico vaticano, tanto che Becciu se ne è dogliato: «Le domande hanno leso la mia dignità sacerdotale e la mia onestà personale». Alcune si basavano infatti su documenti non riconducibili al cardinale, tese solo a screditare il porporato. Ma nonostante si sia andato a scandagliare nei documenti più periferici non ci sono prove che né Becciu né alcun suo familiare si sia intascato un euro dell’Obolo di San Pietro, né tanto meno che i fondi alla diocesi di Ozieri siano stati destinati ad altro che non fossero opere di carità, (un panificio e a un centro polifunzionale a vocazione sociale). Quanto all’operazione Sloane Avenue e alla compravendita del palazzo londinese, Becciu ha ribadito di aver controllato «sempre con il massimo rigore» i documenti «analizzati e istruiti da monsignor Alberto Perlasca», costituitosi parte civile perché sarebbe stato subornato da Becciu, che invece ha ribadito sul tema la «assoluta infondatezza dell’accusa». Infatti facevano capo proprio a Perlasca, il responsabile dell’ufficio amministrativo, unico della Segreteria di Stato titolato a istruire, valutare e conferire o meno validità a un’ipotesi di investimento, tutte le decisioni strategiche di investimento, che Becciu si sarebbe limitato a sottoscrivere. Tra l’altro la Segreteria di Stato è completamente autonoma dal punto di vista finanziario. Sbugiardato dunque il revisore generale Libero Milone, altro accusatore di Becciu, esautorato direttamente dal Papa per aver svolto attività investigative non autorizzate. «Ma se Perlasca è stato indagato e poi scagionato - ragionano i legali - e se era lui a istruire pratiche, individuare affari e presentarli infiocchettati per la firma, come può restare in piedi l’accusa contro Becciu?». Ieri poi lo stesso Perlasca, presentatisi in aula nella nuova veste di parte civile, è stato allontanato dall’aula perché testimone. Ma perché si è presentato? Forse voleva assistere all’interrogatorio del suo antico superiore? Quanto alla pruriginosa questione dei rapporti tra Becciu e Cecilia Marogna, il cardinale ha chiarito la natura istituzionale dell’incarico legato alla liberazione di una suora, spazzando illazioni anche sul pernottamento presso la sua residenza romana: l’ex manager sarda che collaborava con i servizi («ma sull’operazione non posso dire di più», dice Becciu) si fermò su richiesta delle suore che assistono il cardinale in casa. «“Ha difficoltà con gli alberghi”, mi dissero. Eravamo in piena pandemia. L’ho ritrovata la mattina dopo a colazione e poi è andata via». Anche se il Papa lo ha liberato dal segreto vaticano Becciu non ha voluto dire altro «a tutela del Santo Padre, della Santa Sede e di molte missionarie in posti pericolosi nel mondo». Ieri i difensori della Marogna hanno depositato una memoria dalla quale sembrerebbero spuntare un conto Ior fantasma e due fantomatici emissari russi, Goloschchapov Konstantin Veniaminovich e Lukjanov Vladimir Nikolayevich che avrebbero incontrato Becciu per ricevere in dono le reliquie di San Nicola di Bari, prestato per oltre due mesi alla Chiesa ortodossa dopo un accordo tra Bergoglio e Kirill. Altro fumo per distrarre l’opinione pubblica dall’assenza di prove.

Marogna: emissari russi in Vaticano per conto allo Ior e reliquie San Nicola. Redazione su Avvenire il 19 maggio 2022. 

Si è concluso nella sedicesima udienza, quella di oggi 19 maggio, l'interrogatorio del cardinale Angelo Becciu al processo vaticano originato dalla compravendita di un immobile londinese. E si trattao di un'udienza ancora molto tesa, con frequenti battibecchi tra il promotore di giustizia, Alessandro Diddi, e le difese. Lo stesso cardinale Becciu, interrogato complessivamente per più di 20 ore in tre distinte udienze, ha letto in aula una dichiarazione in cui è detto «umiliato» per il trattamento riservatogli in alcuni passaggi dell'interrogatorio. «Mi duole dirlo, ma sono state avanzate domande, da parte dell’Ufficio del Promotore, che hanno leso la mia dignità sacerdotale e la mia onestà personale», ha sottolineato, l'ex sostituto della Segreteria di Stato. "Sono stato platealmente apostrofato di far finta di non intendere o non ricordare - ha lamentato -, si è addirittura dubitato sulla mia rettitudine nel gestore offerte ricevute dai fedeli, si è cercato di carpire la mia buona fede presentandomi documenti non firmati o di dubbia attribuibilità con premesse nocive per il mio sforzo mnemonico, esulando così dai fatti su cui sono chiamato a difendermi".

"Io non sono certamente un esperto di diritto - ha aggiunto il porporato sardo -, ma non posso consentire che si espongano, strumentalizzandoli, fatti ed argomenti, che ritengo assolutamente estranei alle accuse e che offendono la mia dignità cardinalizia e, tramite essa, la Chiesa tutta". Pertanto, ha concluso, "mi limiterò a rispondere esclusivamente - per quanto riguarda l'accusa relativa alla Spes - alle domande afferenti i due pagamenti effettuati nel 2015 e nel 2018 (rispettivamente 25 mila e 100 mila euro, ndr). Rimango ovviamente a disposizione del Tribunale e delle parti esclusivamente per le accuse sulle quali sono stato chiamato

chiamato a rispondere nel processo". Per quanto riguarda la compravendita del palazzo di Sloane Avenue a Londra, il cardinale ha ribadito che nessuna segnalazione di criticità gli era stata fatta dall'ufficio amministrativo diretto da monsignor Alberto Perlasca. E che se queste criticità gli fossero state sottoposte, avrebbe immeditamente convocato una riunione per cercare di trovare una soluzione.

Proprio Perlasca, che nel procedimento è stato arciviato e ha chiesto e ottenuto di costituirsi parte civile nei confronti di Becciu per il reato di subornazione di testimone, ha fatto la sua comparsa in aula, ma il presidente del tribunale, Giuseppe Pignatone, ne ha disposto l'allontamento, in quanto la sua presenza era incompatibile con la veste di possibile testimone. Perlasca ha manifestato platealmente la sua contrarietà alla decisione, prima di allontanarsi protestando.

Ma il fatto più nuovo riguarda una memoria di Cecilia Marogna depositata dal suo avvocato (ma non letta in aula) in cui si dice che alcuni emissari russi, che le erano stati presentati dall'imprenditore romano Piergiorgio Bassi, vicino - sempre secondo quanto afferma Marogna ad alcuni generali italiani - e che chiesero di incontrare l'allora sostituto Becciu. I due si presentarono come delegati per le questioni estere del presidente Putin e tramite Marogna e Bassi chiesero informazioni su un conto denominato "Imperial", che asserivano essere presente presso lo Ior. Marogna chiese a Becciu di verificare e lui (è sempre la versione della donna) "si rese disponibile ad interfacciarsi direttamente con il direttore generale dello Ior, il dott. Gian Franco Mammì". La risposta ricevuta qualche giorno dopo riportava l'inesistenza del trust" di cui Bassi "fornì solo il nome e non ulteriori dati per poter eventualmente approfondire una ricerca più specifica".

L'incontro con Becciu avvenne invece in seguito all'altra richiesta dei due, addirittura quella di ricevere in dono le reliquie di San Nicola che nel 2017 erano state portate in Russia per la venerazione dei fedeli. Atto molto apprezzato sia da Kirill, che da Putin, che secondo Marogna è devoto del santo. Tuttavia fu lo stesso sostituto a riferire che chi poteva donare le reliquie era solo il loro custode, l'arcivescovo di Bari-Bitonto, all'epoca Francesco Cacucci. Il quale si disse indisponibile a donare le reliquie "in modo permanente", un atto che a Bari "sarebbe stato considerato inopportuno". L'imprenditore Bassi, secondo Marogna, ne rimase contrariato. Gli fu comunque suggerito di far inviare direttamente, tramite appunto i suoi "partner russi", una lettera ufficiale del patriarca Kirill alla Segreteria di Stato vaticana. Ma "l'ipotizzata lettera non arrivò mai alla Segreteria di Stato, sollevando così alcuni dubbi sull'iniziativa portata avanti da Bassi e dalla sua 'delegazionè russa'.In merito alla vicenda, alla fine dell'udienza il cardinale Becciu ha detto ai giornalisti che quello con i russi era "un incontro riservato" e non ne ha voluto "fare menzione".

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 maggio 2022.  

Ieri all'ombra del Cupolone è proseguito l'interrogatorio del cardinale Angelo Becciu. A condurlo per 8 ore è stato il promotore di giustizia (cosi in Vaticano è chiamato il pubblico ministero), professor Alessandro Diddi. 

Il quale, dopo aver menato un po' il can per l'aia, si è atteggiato a Torquemada, e improvvisamente se n'è uscito con un quesito che non c'entra con l'obolo di San Pietro: «Conosce Renato Farina, che ha fatto una serie di articoli su Libero? Lo ha ricevuto a casa sua?». Interviene il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone, che lo blocca: «La domanda non è ammessa perché non connessa coi fatti di prova». Insomma: che un cardinale conosca un giornalista e magari cerchi di parlargli non è ancora un reato.

In realtà il pm Diddi è riuscito, senza nemmeno aver bisogno di una risposta, a esercitare una pressione degna della Bielorussia per condizionare chiunque osi distanziarsi dalla versione accreditata dagli accusatori e fatta propria quietamente dalla stragrande maggioranza dei giornali. Il pm insomma vuole indagare sul dissenso, un po' come si usa da Putin.

Libero infatti, e i lettori lo sanno, si è occupato, non solo a firma di Renato, della defenestrazione improvvisa e senza prove di Becciu. Un caso di gogna di ampiezza mondiale. Nessuno prima di questo giornale aveva alzato il dito sollevando dei dubbi. Che si sono rivelati fondati. Tant' è che le prove si sono sbriciolate. Confesso: il primo a scriverne in serie sono stato io. Lesa maestà del promotore di giustizia?

Nell'aula del processo mi dicono sia appeso un grande ritratto di Papa Francesco, sotto i cui occhi ieri il pm da lui dipendente si è permesso un attacco alla libertà di stampa magari pedinando chi cerca notizie. Insinuando che cosa, non si capisce bene. O forse sì.

Già Report nella primavera dello scorso anno, siccome Farina si era permesso di uscire dal corteo degli accusatori, ne ha sparato la fotografia durante la trasmissione a scopo un pochino intimidatorio. Fin lì, amen, era la Rai: di tutto e di più.

Ma che questo metodo penetri dentro la giustizia papale, sorprende persino un ateo come il sottoscritto. Piuttosto Diddi spieghi se ha indagato, e magari ha trovato qualche indizio, sulla fuga di documenti in violazione del segreto istruttorio finiti all'Espresso, e sbugiardati proprio da Libero. Ha qualche idea sulla manina o manona che si è prestata al gioco turpe di far fuori i cardinali prima del processo, ingannando anche il Pontefice?

Vaticano, si sgretolano tutte le accuse contro Becciu. Felice Manti il 7 Aprile 2022 su Il Giornale.

Chi ha gestito la compravendita lo scagiona, il cardinale parlerà senza l'obbligo del segreto.

E in Vaticano ad accusare Becciu alla fine sembra non rimanga più nessuno. Nessuna voce, nessun documento, nessun giornalone. Non è un giallo alla Agatha Christie ma quanto è finora emerso a processo per la vendita del palazzo di Sloane Avenue somiglia più al copione di un film sconclusionato.

Nei giorni scorsi alcune deposizioni hanno forse messo una pietra tombale sulle speranze di far condannare il cardinale. Sia monsignor Mauro Carlino (l'ex segretario di monsignor Edgar Peña Parra, successore di Becciu), accusato di aver firmato documenti senza autorizzazione, sia l'avvocato svizzero René Brülhart hanno escluso qualsiasi ruolo di Becciu nell'affare gestito dal finanziere Raffaele Mincione e dal broker Gianluigi Torzi («era lui a mettere fretta per chiudere la trattativa», dice Carlino), sottolineando anche l'insussistenza delle accuse mosse dal Promotore di Giustizia. Secondo quanto testimoniato dal Brülhart in veste di ex presidente dell'Autorità d'informazione finanziaria della Santa sede, sia il Papa sia monsignor Pietro Parolin erano perfettamente a conoscenza dei rischi legati all'operazione di compravendita per averli incontrati entrambi e più volte. Brülhart avrebbe suggerito di non terminare l'operazione, comunque «benedetta» dal successore di Becciu, Peña Parra, per evitare un «rischio reputazionale» per uno scandalo che sarebbe poi scoppiato.

È spuntato anche la richiesta di archiviazione formulata dal Promotore e la conseguente archiviazione del ruolo di monsignor Alberto Perlasca, all'epoca in cui era Sostituto agli Affari generali era Becciu, capo ufficio amministrativo della prima sezione della Segreteria di Stato. Colui che sovrintendeva all'ufficio tecnicamente in grado di proporre gli investimenti e di curare l'istruttoria. Al monsignore l'accusa vaticana ha riservato un trattamento «speciale» nonostante la sua conclamata (e confessata) negligenza nella gestione dell'operazione londinese, la cui colpa è stata invece ingiustamente scaricata su Becciu, «sfiduciato» dal Papa anche per le false accuse (già smontate al processo) di aver dirottato soldi della Caritas nelle tasche del fratello a Ozieri. Soldi in realtà serviti a realizzare opere caritatevoli attraverso la Caritas, la Diocesi e la cooperativa Spes per dare lavoro ai più fragili. La comunità è oltraggiata da queste accuse e ha rinnovato la fiducia al vescovo Corrado Melis che ha sempre rivendicato e documentato la correttezza dell'impiego dei contributi. La carità non è reato. La calunnia sì. Il Papa lo sa e ha autorizzato Becciu - il prossimo 5 maggio - a astenersi dal segreto vaticano pur di difendersi. Lo farà? Tra un mese l'ardua sentenza.

Monsignor Carlino al processo: «Sul Palazzo di Londra decisero i superiori». Mimmo Muolo su Avvenire il 30 marzo 2022.

Le mille azioni con diritto di voto date a Gialuigi Torzi, con le quali poteva continuare a controllare il palazzo di Sloane Avenue a Londra, nonostante la proprietà fosse della Santa Sede, furono «un grave errore dell’Ufficio Amministrativo». Lo ha detto ieri monsignor Mauro Carlino, uno degli indagati della vicenda, nell’undicesima udienza del procedimento in corso in Vaticano.

Secondo la dichiarazione spontanea resa in aula, il sacerdote - che si è dichiarato inesperto di questioni finanziarie e che è stato segretario del cardinale Angelo Becciu (quando era sostituto della Segreteria di Stato) e poi incaricato dal suo successore nell’incarico, l’arcivescovo Edgar Pena Parra, di tenere i rapporti con Torzi, per cercare di risolvere il problema - neanche sapeva di quel palazzo. Fino a quando, nel gennaio del 2019, Pena Parra si sfogò con lui, rappresentandogli il problema e temendo addirittura che Torzi potesse vendere l’immobile.

«Dopo vari tentativi andati a vuoto – ha riferito Carlino – la volontà di papa Francesco era fare la trattativa, spendere il meno possibile e farsi restituire le azioni».

Carlino, sempre secondo il racconto del presbitero, agì con il contributo di tre esperti, il consulente Nicola Dal Fabbro, l’ingegnere Luciano Capaldo che stava a Londra e il funzionario interno Fabrizio Tirabassi (co-imputato nel processo). Pena Parra invece aveva emarginato monsignor Alberto Perlasca «perché – parole testuali di Carlino nel riferire il pensiero di sostituto - si era manifestato infedele e disubbidiente». E questo perché, come Carlino stesso ha riferito, fu Perlasca a concludere il contratto che dava a Torzi le famose mille azioni, anche se poi, ha precisato il sacerdote, quel contratto «fu ratificato».

La trattativa con Torzi, che nel processo deve rispondere di estorsione, si concluse con il versamento allo stesso Torzi di 15 milioni di euro (dai 20 chiesti inizialmente). In ogni caso, ha sottolineato più volte Carlino, di tutti i passaggi, fino all’accordo raggiunto il 2 maggio del 2019, «il sostituto ha informato costantemente il segretario di Stato e il Santo Padre: ogni decisione era del sostituto e del segretario di Stato. E per quanto mi riguarda - ha aggiunto -, io non ho mosso un dito senza avere l’autorizzazione dei superiori. D’altra parte le decisioni non possono mai essere prese dai dipendenti, solo dai superiori».

La «grave infedeltà» di Perlasca - la cui posizione è nel frattempo stata archiviata - sarebbe consistita proprio dall’aver firmato contratti senza l’autorizzazione superiore (ma con successiva ratifica, come già detto). Carlino, a tal proposito, ha anche riferito che il sostituto monsignor Pena Parra aveva detto che il Papa era contento che si potesse finalmente chiudere la questione».

Nel corso dell’udienza il presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, ha anche reso noto che il Papa ha dispensato il cardinale Becciu dal segreto pontificio sulla vicenda di Cecilia Marogna e dunque egli potrà rispondere sulla vicenda nell’udienza fissata il 7 aprile (il processo riprenderà comunque il 5, con l’interrogatorio di altri imputati). Carlino ha riferito anche sull’improvviso dietrofront dello Ior rispetto al prestito chiesto dalla segreteria di Stato (prima sì, poi no, secondo l’imputato per volontà soprattutto del direttore Gian Franco Mammì) e sulla volontà di Pena Parra di vederci chiaro, anche attraverso un’attività di indagine affidata all’allora comandante della Gendarmeria, Domenico Giani.

Per quanto riguarda infine i fondi alla Caritas di Ozieri e, in particolare alla cooperativa Spes (che ha tra i suoi dirigenti il fratello di Becciu) secondo Pignatone e il promotore di giustizia Alessandro Diddi, è stato aperto un procedimento anche sul finanziamento dato dalla Cei (Becciu deve rispondere invece dei 125 mila euro mandati dalla Segreteria di Stato).

Becciu smonta l'accusa di peculato: "Sono innocente, lo sa anche il Papa". Felice Manti il 18 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il cardinale parla in aula per la prima volta: "Altro che fondi sottratti al Vaticano, era un prestito per finanziare una coop".

Polvere sei e polvere ritornerai. Alla decima udienza si sgretolano come un castello di sabbia le accuse di peculato al cardinale Angelo Becciu, a processo in Vaticano per una presunta mala gestio dei fondi della Segreteria di Stato. Tanto che persino il Papa si sarebbe convinto della sua innocenza, già emersa per tabulas da una serie di documenti che il Giornale ha visionato. Davanti al presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone lo ribadisce lo stesso Becciu, seduto nelle prime file con cappotto, cappello e croce pettorale: «Il Pontefice crede alla mia innocenza», dice parlando per la prima volta, «a testa alta e con la coscienza pulita», da quando è iniziato il suo calvario giudiziario. Snocciola tutta la sua amarezza per il «massacro mediatico senza precedenti», ricorda quali infamie sono state insinuate «sull'integrità della mia vita sacerdotale», punta il dito contro chi (anche sui mezzi di informazione) lo ha ingiustamente descritto come un uomo corrotto, avido, sleale verso il Papa. Essere stato descritto come «proprietario di pozzi di petrolio o di paradisi fiscali», financo coinvolto ingiustamente assieme a faccendieri e finanzieri nella compravendita di un palazzo a Sloane Avenue a Londra, costato alle casse vaticane 200 milioni e deciso quando il responsabile era monsignor Alberto Perlasca, fuori dal procedimento non senza polemiche e misteri, «mi ha ferito e colpito nel mio essere sacerdotale e nei miei affetti ma non mi ha piegato».

E se Bergoglio scioglierà il segreto pontificio al quale l'altro prelato è tenuto, Becciu avrà modo di difendersi apertamente dalle altre accuse «assurde, incredibili, grottesche, mostruose» e potrà finalmente chiarire i suoi veri rapporti con Cecilia Marogna, l'esperta di relazioni internazionali legata ai servizi segreti incaricata dalla Segreteria di Stato per il pagamento dei riscatti dei missionari rapiti in Africa. Quella di ieri è una svolta che arriva dopo mesi di fango, dossieraggi, maldicenze e veleni, alimentati anche da una farraginosa burocrazia del rito giuridico vaticano, che finora impediscono di fare piena luce sui tanti buchi neri nell'inchiesta, con una mole di documenti in mano all'accusa che - in nome del diritto vaticano che glielo consente - la difesa ha chiesto di condividere. Ma anche il Promotore della giustizia Alessandro Diddi, incalzato da Pignatone a mettere a disposizione il materiale, ha dovuto incassare il colpo, dicendosi indisponibile all'interrogatorio (rimandato al 6 aprile), lamentando causa Covid un sovraccarico di lavoro e una conseguente «impreparazione» al confronto. È toccato all'ex procuratore capo di Roma fare tre domande sui 125mila euro di cui si sarebbe impossessato ingiustamente Becciu, sottraendoli dai fondi dell'Obolo di San Pietro. Centomila euro sono ancora nella piena disponibilità della Caritas di Ozieri. Gli altri 25mila euro gli furono richiesti dal vescovo locale per ricomprare un panificatore andato distrutto in un incendio. Questa è carità operosa, tangibile che mette al centro la dignità dell'uomo e combatte l'emarginazione. Altro che raggiro alle spalle del Pontefice, come qualcuno ha malignamente sussurrato a Papa Francesco per demonizzarlo e distruggerlo, ma un prestito personale consegnato come atto caritatevole nei confronti della cooperativa sarda Spes, dove lavorano 60 persone, 16 tra immigrati e persone socialmente molto fragili nel solo panificio.

«Il cardinale ha dimostrato in aula con la forza dell'assoluta evidenza, il corretto impiego delle somme gestite dalla Segreteria di Stato, con finalità uniche ed esclusive di carità. Eliminando anche solo il sospetto di irregolarità», dicono i legali di Becciu Marica Concetta Marzo e Fabio Viglione. Il processo riprenderà il 30 marzo. E chissà che prima il Papa non abbia in mente qualche sorpresa.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 4 marzo 2022.  

Da otto mesi, un manipolo di legali e poliziotti ha deciso di dare spettacolo in Vaticano. Letteralmente. L'affaire giudiziario che riguarda il cardinale Angelo Becciu, innescato dall'immobile di Sloane Square a Londra, si è attorcigliato su un busillis che un tribunale serio avrebbe risolto in dieci minuti: il rifiuto dell'accusa di consegnare alle difese l'integrità delle registrazioni audio e video, "omissando" quelle contenenti le principali affermazioni del "grande accusatore", monsignor Alberto Perlasca.

Mentre i dottori della legge discutono, i giornalisti che hanno avuto la pazienza di visionare "il prodotto" di così tanto impegno (52 dvd) sono rimasti perplessi. Contro Becciu gli inquirenti rovesciano una sventagliata di sghignazzi e sospetti, mettendo in scena una brutta imitazione di alcune serie poliziesche americane. 

In questo caso fioccano battute sulla non longilinea corporatura del porporato, sulle sue origini sarde, che lo trasformerebbero automaticamente in esperto di sequestri di persona per via della Barbagia (in realtà Sua Eminenza è di Pattada, quindi logudorese del Monteacuto).

E, partendo da una prova "inconfutabile" come la mancata querela dell'accusato per le insinuazioni fatte da Maurizio Crozza in una sua satira, alludono con insistenza e senza alcun rispetto a presunte relazioni che Becciu avrebbe avuto con una signora. 

Il riassunto di questo "storico" processo che dura da mesi? Un ritorno agli scoop di un giornale anticlericale di fine Ottocento e inizio Novecento. Si stampava a Roma e si chiamava L'asino.

Via al processo Becciu. "È l'ora della verità". Ecco cosa non torna. Felice Manti il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'accusa "nasconde" carte e verbali, vano il pressing di Pignatone. Udienza il 17. 

Dopo più di due anni «finalmente arriva l'ora di dire la verità». Il cardinale Giovanni Angelo Becciu non allontana da sé il calice amaro del processo che da almeno sette mesi lo vede alla sbarra con accuse pesantissime, comunicategli personalmente dal Papa il 24 settembre 2020.

Ieri era l'unico non contumace dei dieci imputati - gli altri sono Enrico Crasso, Tommaso di Ruzza, Cecilia Marogna, Gianluigi Torzi, Renè Brulhard, don Mauro Carlino, Nicola Squillace, Raffaele Mincione e Fabrizio Tirabassi - anzi, ai legali e ai giornalisti dice di essere pronto a rispondere a tutte le domande davanti al Tribunale presieduto dall'ex Procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatore. Vuole quanto prima che si chiarisca la sua innocenza. Sarà lui il primo a parlare il prossimo 17 marzo alla prima udienza, a chiarire perché non esiste alcun peculato sui 125ma euro che sarebbero stati inviati alla diocesi di Ozieri, in Sardegna e alla cooperativa Spes. Secondo l'accusa furono sottratti indebitamente dalle casse vaticane per spartirle coi familiari di Becciu, in qualità di sostituto alla Segreteria di Stato aveva anche l'incarico papale di gestire i fondi riservati e l'Obolo di San Pietro. Ma le carte che la difesa non si stanca di esibire e che il Giornale ha consultato dicono il contrario. Centomila euro sono un prestito chiesto da Becciu per finanziare un'opera meritoria, altri 100mila sono in un conto della Caritas e finanzieranno un forno sociale dove far lavorare persone svantaggiate, gli altri 25mila servono ad acquistare un macchinario andato distrutto in un incendio. Ma tant'è.

Le prove che dimostrano il contrario? Andrebbero chieste ai Promotori di Giustizia, l'ufficio che secondo il rito vaticano conduce l'accusa. Pignatone ha dovuto rigettare tutte le reiterate richieste delle difese perché le prove documentali sequestrate non sono mai state depositate nella loro interezza ma sono in una sorta di limbo, nonostante non una ma due precedenti ordinanze dello stesso Pignatone. Niente da fare. Di fatto, si conferma per l'accusa l'insindacabile potere di giudizio e di valutazione senza contraddittorio su cosa depositare tra verbali e brogliacci stranamente difformi, e cosa non mostrare - tra cui, forse, alcune dichiarazioni dello stesso Papa Bergoglio mai verbalizzate - in nome di non meglio precisate «esigenze di segreto investigativo su altre indagini» o di una presunta «estraneità alle imputazioni». Una sorta di atto di fede, a dispetto dei Santi e del giusto processo che Oltretevere segue evidentemente altri comandamenti.

Per gli altri due filoni ci sarà tempo. Ma in entrambe le vicende molte cose non tornano. La sciagurata compravendita del famoso palazzo di Londra di Sloane Avenue fu portata a compimento quando Becciu era ormai fuori dalla Segreteria di Stato, la presunta subornazione di monsignor Alberto Perlasca, dal 2009 al 2019 a capo dell'Ufficio amministrativo in forza alla Prima sezione della Segreteria di Stato, regista della compravendita immobiliare ma scagionato da ogni accusa dal 18 novembre 2021 perché «raggirato» dai broker - troverebbe fondamento solo nella percezione di Perlasca. Peraltro, almeno quattro interrogatori di quest'ultimo sarebbero a rischio nullità per l'assenza del suo legale, nonostante Pignatone scriva il contrario.

Tutta da decifrare anche la vicenda dei rapporti del cardinale con l'esperta di politica internazionale Cecilia Marogna, reclutata dal Vaticano per i suoi collegamenti con i nostri servizi segreti a gestire i pagamenti dei riscatti dei missionari rapiti dall'Isis in Africa, che ha opposto un «vincolo di segretezza Nato» a Pignatone perché teme per la sua incolumità, vista la sua esposizione mediatica e il ruolo di femme fatale frettolosamente cucitole addosso da una stampa più a caccia del facile titolo che di una difficile e complessa verità.

Gianluca Paolucci per Lastampa.it il 21 Febbraio 2022.  

Obolo di San Pietro, le donazioni dei fedeli di tutto il mondo alla Santa Sede, accanto ai soldi di dittatori, narcotrafficanti, evasori fiscali, trafficanti di esseri umani. C’è anche la Segreteria di Stato del Vaticano tra i “clienti speciali” di Credit Suisse svelati dall’inchiesta Suisse Secrets. Clienti per i quali non valgono le regole e i controlli standard e le cui procedure di gestione non seguono i canali standardizzati di una prudente attività bancaria.

Grazie a questa investigazione è anche possibile ricostruire il ruolo della banca svizzera – che secondo gli accertamenti del Vaticano ha gestito fino al 77% dei fondi della Segreteria id Stato - nella vicenda del palazzo di Londra al centro dello scandalo dei fondi del vaticano.

Un ruolo rimasto fuori dalle indagini e dal processo attualmente in corso in Vaticano, ma tutt’altro che secondario, che va al di là delle responsabilità di Enrico Crasso, il funzionario della banca svizzera gestore delle finanze della Segreteria di Stato. 

Un po’ di storia: il conto a Credit Suisse viene aperto dal Vaticano nel 1930. Inizialmente, ad alimentarlo – lo spiega una nota dell’Apsa in risposta alle richieste di chiarimenti formulate per questa inchiesta – sono le “compensazioni” dello Stato italiano alla Santa Sede decise con i Patti lateranensi.

La stessa nota spiega come “il conto è utilizzato per la prudente gestione del patrimonio della Santa Sede (liquidità e investimenti) per perseguire la missione del Santo Padre”. 

Secondo Wrm Group, la holding del finanziere Raffaele Mincione che gestiva i fondi Athena dove erano investiti i soldi del Vaticano, nei documenti del fondo Athena “l’investitore era Credit Suisse Ag e il titolare delle quote Credit Suisse London Nominees”, la fiduciaria londinese del gruppo bancario.

Inoltre, rispondendo alle richieste di chiarimenti formulate dai giornalisti del consorzio, Wrm ha spiegato che negli stessi documenti del fondo Athena è scritto che “Credit Suisse Ag conferma di aver adempiuto a tutti gli obblighi applicabili di due diligence (…) nessuno dei nostri clienti investiti nel fondo attraverso la fiduciaria è una persona politicamente esposta (Pep, ndr.), una persona o società con legami familiari o personali o di affari con Pep”.

Solo che secondo la definizione di Pep, tanto Angelo Maria Becciu che Alberto Perlasca e Fabrizio Tirabassi, tutti con potere di firma nel conto di Credit Suisse, per quanto “a basso rischio” secondo la normativa europea in materia sono senz’altro Pep anche nell’esercizio delle loro funzioni per conto della Segreteria di Stato. 

Indicazioni sul ruolo di Credit Suisse si trovano anche nei vari atti dell’indagine della Gendarmeria vaticana. Crasso, l’uomo che per conto di Credit Suisse ha tenuto i rapporti con la Segreteria fin dagli anni ‘90, spiega che furono due manager di Credit Suisse – Alessandro Noceti e Andrea Negri, entrambi poi usciti dalla banca – a introdurre nell’affare dei fondi della Santa Sede il finanziere Mincione, per trovare alternative all’investimento nel petrolio angolano voluto dal cardinale Becciu.

Negri non è proprio un manager di secondo piano: è stato a capo dell’investment banking a Londra. Di Noceti e dei suoi rapporti con il Vaticano c’è invece un’altra traccia nelle carte dell’indagine sul palazzo di Londra. A Becciu e Tirabassi, ex funzionario della Segreteria, viene infatti contestato anche il “tentativo di bonifico” da una società di Jersey a una società delle Isole vergini britanniche riferibile allo stesso Noceti.

Il bonifico viene bloccato, ma qualche giorno dopo, il 9 gennaio 2018, mentre Oltretevere la vicenda degli investimenti fatti con i fondi dell’Obolo è già arrivata fino al Papa, il bonifico va buon fine. A incassare è la Ruby Red, sede a Londra e anche questa secondo gli inquirenti riconducibile a Noceti.

Da adnkronos.com il 16 febbraio 2022.

A quanto apprende l'Adnkronos, eseguite alcune perquisizioni nei confronti di uno dei fratelli del cardinale Angelo Becciu e della sede della Spes. I provvedimenti, disposti dalla procura della Repubblica di Sassari, sono stati eseguiti dalla Guardia di finanza. Il filone di indagine dei magistrati sardi non sarebbe direttamente collegato a quello dei promotori di giustizia vaticani.

LEGALI BECCIU: "CARDINALE ESTRANEO A DIOCESI OZIERI" - "Siamo massimamente sereni. Il cardinale, ancorché del tutto estraneo alle iniziative ed alla gestione assunte dalla Diocesi e dagli enti assistenziali, ha sempre agito condividendone le finalità umanitarie perseguite meritoriamente nel tempo.

Sulla scorta delle conclusioni degli investigatori vaticani - che riteniamo platealmente infondate - la Procura di Sassari ha assunto una iniziativa consequenziale, avente ad oggetto i medesimi fatti che, va ricordato, dovranno ancora essere esaminati dal Tribunale vaticano". Lo fanno sapere i difensori del cardinale Angelo Becciu, avvocati Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo, dopo le perquisizioni effettuate questa mattina.

AVVOCATO DIOCESI OZIERI - Dopo la notizia della nuova perquisizione, interviene l’avvocato Ivano Iai: “In nome e nell’interesse della Diocesi di Ozieri, rappresentata da monsignor Corrado Melis, nel manifestare formale rispetto verso l’Autorità Giudiziaria procedente ma anche dolore e rammarico per un’iniziativa così incomprensibile e destabilizzante, si rappresenta che l’attività investigativa in corso appare ‘prima facie’ infondata, consistendo in accertamenti peraltro eseguiti nello scorso mese di luglio a seguito di contestazioni già smentite sul piano contabile e documentale”.

“Sarà, quindi, dimostrata - osserva Iai - la piena legittimità dell’operato della Diocesi, della Caritas e della Spes, le cui finalità e concrete attività hanno esclusiva natura solidale e di carità istituzionalmente proprie di tali enti”. 

Il legale riafferma “per l’ennesima e, si confida, ultima occasione, che la Diocesi di Ozieri ha sempre operato nel rispetto delle finalità religiose e solidali anche sul piano economico, impegnando le proprie risorse nello spirito di interventi mai affrancati da comprovate situazioni di disagio individuale, familiare o lavorativo.

E nell’apprestare siffatti interventi, la Diocesi che si identifica nell’operato della Caritas locale e, con essa, si avvale della preziosa collaborazione della cooperativa solidale senza fini di lucro Spes, suo concreto e reale braccio operativo, cui sono state destinate somme regolarmente documentate, contabilizzate e rendicontate nell’inequivocabile e incontestabile assenza di interferenze o condizionamenti da parte di alcuno, men che meno del cardinale Angelo Becciu, del tutto estraneo alle iniziative dell’ente religioso”.

Da justout.org il 16 febbraio 2022 - notizie, analisi e retroscena di Maria Antonietta Calabrò 

Nei tre mesi di tempo che il Tribunale vaticano presieduto da Giuseppe Pignatone ha dato alle difese degli indagati e ai promotori di giustizia per chiarire alcuni degli aspetti del pasticciaccio brutto del Palazzo di Londra che ha causato un ingente danno alle casse del Vaticano, hanno portato alla luce altre prove a carico di monsignor Angelo Becciu e degli altri indagati a partire da Raffaele Mincione. 

Tutti gli indagati che ad ottobre sono stati stralciati, il 25 gennaio 2021 sono stati nuovamente rinviati a giudizio. E quindi adesso sono nuovamente imputati nel processo  le cui udienze riprendono dopodomani 18 febbraio 2022.  

Ecco le novità contenute nella nuova richiesta di citazione  a giudizio (132 agine ) di cui Justout ha disponibilità e che hanno sostanziato la motivazione delle perquisizioni scattate in tuta Italia nei confronti  del fratello e di altre persone vicine a Becciu.

Nel documento dei Promotori di giustizia si mette in evidenza che la Conferenza episcopale italiana ha effettuato, “contrariamente a quanto affermato dal Cardinale “ nella famosa conferenza stampa della fine settembre 2020, ben due bonifici ( il 6.12.2013 e il 21.1.2015 ) per un totale di 600 mila euro  a favore di un conto (1000/60478)  solo formalmente intestato alla Diocesi di Ozieri, e invece nella piena disponibilità della cooperativa SPES e del suo amministratore Antonino Becciu, fratello del cardinale. 

Un conto “utilizzato per finalità del tutto privatistiche”- secondo i Promotori vaticani, come emerso a seguito anche delle indagini delle forze di polizia italiane, ed in particolare dalla Guardia di Finanza.

Ed era un conto gestito al di fuori della contabilità della Diocesi dal cugino di mons. Becciu che non aveva potere di firma della Diocesi, e da una signora , madre di una “persona accreditata  in Vaticano come propria nipote”  dall’ex cardinale Becciu, destinataria di una parte dei soldi con cui acquistò una abitazione privata a Roma. 

Il resto venne utilizzato per sostenere “le attività commerciali “( e non caritative ) della cooperativa del fratello di Becciu e “ la sottoscrizione in fondi comuni di investimento”  per circa 400 mila . La Diocesi di Ozieri aveva altri conti correnti per le opere di carità e non erano vuoti, anzi, pieni per milioni di euro e quindi in grado di sostenere qualsiasi opera caritativa.

I fondi gestiti  anche da un cugino di primo grado dell’alto  prelato non è’ affatto servito per pagare i lavori per il panificio della Cooperativa .Gli accecamenti su questi bonifici sono scattati dopo che il 27 settembre 2021  (quindi dopo il rinvio a giudizio di quest’estate )  il vescovo di Fermo, monsignor Rocco Pennacchio, Economo della CEI, ha reso una circostanziata dichiarazione ai Promotori di giustizia, da cui è scaturita il 30 dicembre scorso (2021) una Relazione della Gendarmeria “che evidenzia una serie di elementi di sicuro interesse investigativo che tuttavia , non possono essere approfonditi, soprattutto in ragione di esigenze di economia processuale, nell’ambito del presente procedimento”. 

In sostanza la questione è stata stralciata, e le indagini proseguono. In ogni caso  è emerso che  Becciu  sollecitava per lettera don Pennacchio economo della CEI a “ venire incontro alla menzionata istanza”, cioè al primo finanziamento giustificato per riparare i danni di un incendio nel panificio del fratello di Becciu.

Il 3 ottobre 2013 l’amministratore apostolico di Ozieri, Sanguinetti scrisse al vescovo Nunzio Galantino , segretario generale della CEI e in essa si apprende che il 25.9.2013, la segreteria generale della CEI aveva comunicato l’elargizione del primo contributo di 300 mila euro. In ogni caso il 4 ottobre 2014, mons. 

Becciu scriveva nuovamente a Galantino premurandosi “ di accompagnare e raccomandare vivamente l’acclusa richiesta… mi permetto di chiedere che venga presa in seria considerazione la presente istanza! E nelle conversazioni whatsapp intercorse tra l’11 novembre 2014 e il 15 gennaio 2015 monsignor Pennacchio, economo della CEI in risposta a precise domande del segretario di Becciu, monsignor  Carlino, afferma che la Presidenza della CEI ha anche deciso un secondo finanziamento in poco più di un anno , quello di 300 mila euro versato il 21 gennaio 2015.

Nelle ultime indagini bancarie, infine, è emerso, e si tratta di una storia singolare anche un bonifico -donazione di altri 100 mila euro  a favore del fratello di Becciu , avvenuto nel 2013,  la cui provenienza hanno verificato i Promotori di giustizia,  non originava dai fondi della Segreteria di Stato. 

Quindi  l’accusa  di peculato relativa a questo finanziamento è stata stata “diminuita “  dagli stessi Promotori di giustizia (Zannotti, Diddi e Perone) dal reato di peculato indicato sotto il capo di imputazione jj del procedimento penale 45/19.

Una decisione ,quella dei Promotori,  quindi  a favore dell’imputato  Becciu in relazione ad un fatto, “non evidenziato dalla difesa del Cardinale”, cioè che né  gli avvocati di Sua Eminenza  né la consulenza tecnica  per suo conto depositata di recente,  avevano prodotto a parziale discolpa dell’ex cardinale . 

Visto che questo specifico peculato contestato a Becciu di fatto si  è dimezzato (mentre ce ne sono in piedi altri due, compreso quello delle migliaia di euro inviati a Cecilia Marogna).

Come mai questa svista della difesa di Becciu ?  Perché il bonifico in questione era stato effettuato grazie ad un prestito di 100 mila  euro richiesto il 13 giugno 2013 con lettera dell’ex sostituto   all’allora direttore generale dello IOR Paolo Cipriani. Quindi i soldi provenivano dallo IOR. 

Anche questa vicenda  è stata stralciata, perchè indagini sono in corso per verificare la  presunta anomalia del bonifico effettuato . Sta di fatto che i soldi vennero inviati sul conto 1000/60478, gestito dal fratello di Becciu  il 24 giugno 2013. Solo sei giorni prima che il direttore generale dello IOR, Cipriani e il suo vice, Tulli dovettero dimettersi dalla cosiddetta banca vaticana ( 1 luglio 2013).

LA SUBORNAZIONE DI TESTIMONE. Il reato più grave per cui il 28 febbraio di fatto inizierà ex novo il processo contro il cardinale Becciu (sollevato dagli incarichi nella Curia romana, escluso da un eventuale Conclave, e impedito di presenziare a concistori e alle altre occasioni in cui siano presenti gli altri cardinali) è la subornazione di testimone,   che prevede anni di carcere. 

Ciò sarebbe avvenuto in danno di Monsignor Alberto  Perlasca, prima indagato , poi archiviato dalle accuse di aver creato danni alle finanze della Segreteria di Stato.

Nella richiesta di rinvio a giudizio di mons. Becciu per questo reato i Promotori scrivono che “ Perlasca è stato sottoposto ad un comportamento che non può  che essere considerato minatorio”, “ teso ad incidere sulla capacità di autoderminazione” del prelato.  Becciu “ ha coltivato il suo obbiettivo di ottenere la ritrattazione delle dichiarazioni agendo sia direttamente che indirettamente su monsignor Perlasca”. 

Il Vescovo di Como, superiore gerarchico di Perlasca, era stato  infatti contattato da Becciu  per  indurlo a far  ritrattare le  deposizioni accusatorie nei suoi confronti, prospettandogli , se non avesse ritrattato,  una condanna a sei mesi di  carcere,  “una conseguenza ingiusta, tenuto conto della correttezza del suo comportamento”, si legge nel documento.

Perlasca aveva informato dell’accaduto il Promotore di giustizia  professor  Milano l’11 marzo 2021 , dichiarazioni confermate  “integralmente” dal vescovo di Como , ascoltato nella sede del Palazzo del Vescovado il 3 aprile 2021. 

 La difesa del cardinale - che  a fine novembre 2021  non si è voluto sottoporre ad interrogatorio da parte dei promotori - in una memoria depositata il 23 novembre 2021  ha respinto le accuse. Ma  la Suprema Corte di Cassazione, in varie sentenze “ha ritenuto configurabile la minaccia, anche solo quando si prospetta la presentazione di una denuncia, di una querela , o anche solo di un’azione giudiziaria  quando appunto si traduce in un male ingiusto nel caso di pretestuosità della stessa”.

Becciu del resto non solo ha prospettato guai giudiziari a Perlasca, ma  proprio il 3 luglio 2021, il giorno stesso del suo primo  rinvio a giudizio, aveva anche   presentato un ricorso civile in Italia , presso il Tribunale di Como,  contro monsignor Perlasca a cui sono stati chiesti i danni asseritamente provocatigli  con le dichiarazioni rese alla giustizia vaticana , che hanno cambiato il suo status di vita. Il giudice di Como ha già respinto perché infondata la richiesta  di Becciu di sequestro preventivo  di  beni per 500 mila euro. Nel merito il procedimento è in corso.

Le accuse infondate contro l’ex segretario di Stato della Santa Sede sul palazzo acquistato a Londra. L'ex segretario di Stato della Santa Sede era implicato in un'inchiesta vaticana sull'acquisto di un Palazzo a Londra. Il giudice ha archiviato il caso. Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

Il giudice istruttore del Vaticano ha disposto l’archiviazione del procedimento aperto a carico di Vincenzo Mauriello, ex dirigente della Segreteria di Stato della Santa sede che era indagato per peculato, abuso di autorità e corruzione. Su Mauriello, 57 anni, che all’epoca era «dipendente della sezione Affari generali della Segreteria di Stato» vaticana, il giudice istruttore aveva aperto un fascicolo per gli investimenti da parte della Santa Sede in un fondo del finanziere italo-svizzero Raffaele Mincione tramite il quale la Santa Sede aveva acquistato un palazzo in Sloane Avenue a Londra.

Nell’operazione erano stati investiti fondi dell’Obolo di San Pietro. Mauriello, difeso dall’avvocato David Brunelli, è l’unico indagato per il quale è stato emesso decreto di archiviazione. A suo carico il giudice istruttore vaticano ha ritenuto che «non siano stati raccolti gli elementi necessari per poter esercitare l’azione penale».

Dopo le prime fasi dell’inchiesta, voluta da Papa Francesco nel 2019, Mauriello era stato sospeso con altri 4 dirigenti vaticani. Nel corso delle indagini, però, è emerso che il suo ruolo nella vicenda è stato limitato. L’ex dirigente infatti, era stato incaricato nel 2013-2014 dal cardinale Angelo Becciu, all’epoca numero due della Segreteria di Stato, «di assumere informazioni su Raffaele Mincione in vista degli investimenti che la Segreteria di Stato aveva in animo di avviare con il finanziere italo-svizzero» e dopo una serie di accertamenti aveva detto al cardinal Becciu che Mincione «non sembrava una persona moralmente adatta ad avere rapporti con la Santa Sede».

Mauriello, come scrive il giudice nel decreto di archiviazione, «all’infuori dell’acquisizione delle informazioni sul conto di Raffaele Mincione non ha poi avuto alcun ruolo nella fase deliberativa degli investimenti nel fondo gestito da quest’ultimo».

 IL PROCESSO. Caso Becciu, il testimone chiave mons. Perlasca si costituirà parte civile. Il Domani il 05 maggio 2022.

Monsignor Alberto Perlasca, capo ufficio della segreteria di Stato vaticana e testimone chiave nello scandalo di Sloane Avenue a carico dell’ex cardinale Becciu, si costituirà parte civile.

Monsignor Alberto Perlasca, capo ufficio della segreteria di Stato vaticana e testimone chiave nel processo a carico dell’ex cardinale Angelo Becciu, già Sostituto agli Affari generali della Santa sede caduto in disgrazia nell’ambito dell’inchiesta legata alla compravendita del palazzo londinese a Sloane Avenue, si è costituito parte civile.

A rappresentarlo sarà l’avvocato Angelo Alessandro Sammarco. È l’ultimo atto del processo che coinvolge – oltre al porporato sardo – Enrico Crasso, Fabrizio Tirabassi, Gianluigi Torzi e Nicola Squillace, protagonisti dell’affaire che ha svuotato le casse del Palazzo apostolico. Così questa mattina, in occasione della quattordicesima udienza processuale, è arrivato il colpo di scena di mons. Perlasca.

Lo scorso dicembre, Angelo Becciu aveva richiesto un sequestro conservativo dell’entità di 500mila euro al vescovo comasco e a una sua stretta conoscente, Genoveffa Ciferra, per una presunta «condotta dannosa» a carico dell’ex Sostituto.

La richiesta è stata poi respinta dal giudice Lorenzo Azzi. Allora il legale di Becciu, Natale Callipari, aveva presentato ricorso perché i principali elementi a carico dell’ex cardinale sarebbero basati su dichiarazioni di Perlasca. L’ex collaboratore di Becciu aveva riferito agli inquirenti vaticani di aver subito una «gravissima pressione per il tramite del vescovo di Como, Oscar Cantoni» dall’ex porporato. Prima che fosse rinviato a giudizio, infatti, Becciu è stato privato delle prerogative cardinalizie da papa Francesco stesso. 

Becciu al pm: "Tormentato per le accuse infondate". Redazione il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

«Da più di un anno e mezzo sono tormentato da una domanda: perché sono state riportate al Santo Padre queste false accuse?».

Il cardinale Angelo Becciu ieri ha parlato per 7 ore davanti al procuratore Alessandro Diddi, nel corso dell'interrogatorio nella 14esima udienza del processo in corso in Vaticano per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato, che ruota intorno alla compravendita del palazzo di lusso a Londra. E ha ribadito «con forza» la sua «assoluta innocenza» rispetto a quanto gli viene contestato indicando «alcuni eventi» che lo hanno «particolarmente turbato», dicendosi «dilaniato da un profondo dissidio interiore». Ha descritto la famosa udienza in cui Papa Francesco, il 24 settembre 2020, lo invitò ad abbandonare l'ordine cardinalizio perché accusato di peculato. «Il Santo Padre - scrive Becciu nelle dichiarazioni spontanee, 50 pagine - mi disse che in seguito a indagini svolte ad hoc Gli era stato riferito che le somme dell'Obolo di San Pietro da me inviate alla Caritas della mia diocesi di Ozieri erano servite ad arricchire i miei fratelli, in particolare mio fratello Tonino. Rrimasi senza parole. Ma lo storno dei 125 mila euro era l'unica accusa che mi faceva. Il Santo Padre mi disse espressamente che non ne aveva altre». Nelle dichiarazioni Becciu si concentra sulle singole contestazioni contenute nei capi di accusa che sono stati ipotizzati nei suoi confronti e cerca di chiarire i vari punti: dal ruolo del fratello Tonino nella cooperativa Spes, all'Obolo di San Pietro, agli investimenti durante i sette anni alla Segreteria di Stato nel ruolo di Sostituto, al rapporto con l'allora capo ufficio monsignor Alberto Perlasca, alle presunte agevolazioni a Cecilia Marogna. Sottolinea che il suo ruolo di sacerdote lo porta a perdonare, ma in ottemperanza a quanto chiesto da Papa Francesco darà invece il suo contributo nell'accertamento della verità. Ribadisce che le somme che nei sette anni vennero elargite dalla Segreteria di Stato hanno avuto una destinazione caritativa. Parlando poi del rapporto con la manager sarda Cecilia Marogna ha detto che non l'agevolò in alcun modo ad appropriarsi di somme di denaro, ma che con lei avviò solo una collaborazione professionale apprezzandone «la competenza in materia di geopolitica e di intelligence».

Becciu si difende: «Solo false accuse. E l’Obolo non è stato toccato». Mimmo Muolo su Avvenire il 5 maggio 2022.

Due ore e mezza per leggere 50 cartelle di dichiarazione spontanea. E più o meno lo stesso tempo per rispondere alle domande del promotore di giustizia, Alessandro Diddi (che non ha neanche finito il suo interrogatorio; si proseguirà il 18 maggio).

Così il cardinale Angelo Becciu ha respinto ieri tutte le accuse a suo carico nel processo in corso in Vaticano che lo vede imputato a vario titolo. Peculato per i 125mila euro inviati alla diocesi di Ozieri? «Non un centesimo è andato a mio fratello Tonino». Finanziamento degli investimenti come l’acquisto del Palazzo di Londra con i soldi destinati ai poveri? «L’Obolo di San Pietro non c’entra. Erano fondi riservati della Segreteria di Stato». Perché proprio l’immobile londinese? «Perché l’ufficio aveva magnificato la proposta d’investimento e la sua convenienza era stata avallata anche dal capoufficio monsignor Alberto Perlasca». 

Inoltre, a che scopo furono date somme di denaro a Cecilia Marogna? Il cardinale, ringraziando il Papa per averlo dispensato dal segreto pontificio, ha detto che erano dirette per il tramite della donna a un’agenzia inglese di intelligence, Inkerman, che poteva interessarsi alle sorti della suora colombiana Gloria Cecilia Navaes Goti, rapita in Malì il 7 febbraio 2017 e rilasciata lo scorso 10 ottobre. Lo stesso porporato, dopo aver ottenuto il permesso del Papa che lo vincolò appunto alla massima riservatezza («dobbiamo saperlo solo io e te», gli disse secondo quanto riferito ieri in aula dall’imputato), si recò a Londra per un incontro con gli emissari di Inkerman, presente Marogna. Non si tratta però di un compenso alla signora, che eventualmente avrebbe ricevuto un premio a liberazione avvenuta.

Becciu ha anche smontato l’addebito di aver finanziato «false testimonianze in danno del cardinale Pell (accusato in Australia di pedofilia e poi riconosciuto innocente, ndr), con i soldi della Segreteria di Stato». E a tal proposito ha citato una lettera del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in cui si testimonia che i 2,3 milioni di dollari australiani servirono in realtà all’acquisto del dominio Internet “.catholic”. E che «ad autorizzare il pagamento di detta somma fu proprio il cardinale Pell, con una lettera datata 11 settembre 2015».

Infine il porporato ha respinto l’accusa di subornazione, cioè di aver fatto pressioni per far ritrattare monsignor Perlasca. «Ho solo chiamato monsignor Cantoni, vescovo di Como (la diocesi di origine di Perlasca, ndr), esprimendogli tutto il mio dispiacere nell’apprendere che quegli raccontava falsità e dicendogli che se veramente Perlasca aveva detto quanto leggevo sui giornali, sarei stato costretto, con profondo dolore, a tutelare la mia onestà, e quindi, mio malgrado, denunciarlo per calunnia».

Il quale Perlasca, descritto da Becciu come «irascibile ma competente» (allo scoppio del caso pensò anche al suicidio, ha detto il porporato, che subito si attivò per scongiurare l’ipotesi) ieri si è costituito parte civile. Contro Becciu per la subornazione e contro gli imputati Tirabassi, Torzi, Crasso e Squillace per truffa, avendolo «indotto in errore» nella firma dell’accordo sulle 1.000 azioni di controllo del Palazzo di Londra. Le difese si sono opposte, ritenendo fuori tempo massimo la mossa. Il Tribunale si è riservato di decidere.

Rispondendo alle domande di Diddi, Becciu è poi tornato sull’udienza del 24 settembre 2020 nella quale il Papa gli disse che in base alle indagini dei magistrati le somme inviate alla diocesi di Ozieri erano state sottratte «dalla manina» del fratello, che questa era l’unica accusa che gli faceva e che stava per uscire un articolo di un giornale italiano sull’argomento (L’Espresso, ndr). In realtà, ha ribadito il cardinale, 25mila euro servirono all’acquisto di un macchinario per produrre pane da parte di una cooperativa che dà lavoro a soggetti svantaggiati e 100mila sono ancora sul conto della diocesi e verranno utilizzati per la Cittadella della Carità, la cui costruzione è appena iniziata.

Quanto poi alle somme dell’Obolo di San Pietro Becciu ha detto che anche volendo sarebbe stato impossibile investirle, perché l’Obolo, oltre che per la carità, è impiegato per sostenere il ministero del Papa. «Nel 2011, quando io divenni Sostituto - ha spiegato - la raccolta si attestava sui 45-50 milioni di euro. Di questi, ogni mese la Segreteria di Stato doveva trasferire 5 milioni di euro all’Apsa per il fabbisogno della Curia, per un totale di 60 milioni annui. Questo contributo aumentò poi ad 8 milioni al mese grazie alle riforme del Cardinale Pell». Ecco la necessità di investire i soldi del fondo sovrano della Segreteria di Stato, che ammontava a circa 600 milioni e che fruttava una decina di milioni all’anno.

«Contro di me - ha concluso Becciu - c’è stata una gogna di proporzioni mondiali» e per quanto riguarda il rapporto con Marogna, esso «è stato distorto con illazioni offensive, di infima natura, lesive - anche - della mia dignità sacerdotale».

Da lastampa.it il 6 maggio 2022.

Da quella sera del 24 settembre 2020, in cui in un'udienza-shock papa Francesco lo privò della carica di Curia e dei diritti del cardinalato, «iniziò per me una gogna pubblica di proporzione mondiale: addirittura in Angola, ove ero stato nunzio per sette anni e mezzo, mi hanno riferito che la tv nazionale dedicò all'argomento una settimana di dibattiti; fui sbattuto sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo; privato di ogni ufficio ecclesiastico; relegato ai margini della Curia e della Chiesa. Mi addolorava e continua ad addolorarmi, poi, aver esposto la mia famiglia ad una sofferenza lacerante quanto ingiusta».

Oltre che una ricostruzione dettagliata dei fatti su cui vertono le accuse a suo carico - da lui integralmente respinte -, sono state anche un lungo sfogo le due ore e mezza di «dichiarazioni spontanee» pronunciate dal card. Angelo Becciu nella 14/a udienza del processo in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Seguite poi, nel pomeriggio, da altre due ore e mezza di interrogatorio da parte del promotore di giustizia Alessandro Diddi.

Becciu ha ripercorso dettagliatamente la sua vicenda lungo i sette anni (2011-2018) in cui è stato sostituto per gli Affari generali, prima di diventare prefetto per le Cause dei santi, e non si è sottratto neanche a dare la sua versione sul caso Marogna, su cui finora aveva opposto il «segreto pontificio», da cui però il Papa lo ha dispensato. Anzi, ha ringraziato il Pontefice per avergli consentito «così di poter parlare liberamente e difendermi con totale trasparenza». 

Tra l'altro, anche sulla sua conoscenza della ex manager sarda ha espresso «una forte e vibrata indignazione per come questo rapporto è stato distorto con illazioni offensive, di infima natura, lesive - anche - della mia dignità sacerdotale. Credo che questo atteggiamento tradisca altresì una scarsa considerazione nei confronti della donna in generale, e mi sento obbligato a chiedermi se un simile trattamento sarebbe stato riservato ad un uomo».

Becciu ha ricordato comunque come conobbe la donna che gli chiese un'udienza per proporre una collaborazione nel campo della sicurezza e dell'intelligence, e apprezzandone le capacità decise - autorizzato passo dopo passo dal Papa - di avvalersi della sua consulenza in occasione del rapimento in Mali nel febbraio 2017 della suora colombiana Gloria Cecilia Navaes Goti, poi tornata libera quattro anni e mezzo dopo. Ecco quindi l'entrata in campo dell'agenzia londinese Inkermann, e anche i bonifici disposti nei confronti della Marogna (575 mila euro), che lei garantiva finalizzati alla liberazione di suor Gloria, finiti invece in buona parte in beni di lusso.

Becciu ha negato comunque di aver utilizzato per i vari investimenti, anche per il Palazzo di Sloane Avenue a Londra, l'Obolo di San Pietro, bensì «i fondi di riserva della Segreteria di Stato». E ha ribadito come i 125 mila euro bonificati alla Caritas di Ozieri, tramite la Cooperativa Spes retta dal fratello Tonino, avevano esclusivamente una «destinazione caritativa»: «da prete arrossisco quando penso all'impegno di Tonino per i poveri e per la comunità». E pensare che proprio quell'accusa, di «arricchire i miei familiari», »è stata la madre di tutte le mie disgrazie!». 

Al centro proprio di quell'udienza del Papa, dopo la quale, la mattina successiva, si affrettò a convocare una conferenza stampa, poiché - ha spiegato - «il comunicato emesso era così asettico, la sera mi tempestavano di telefonate chiedendomi se mi dimettevo per 'crimini sessuali', una cosa che mi indignava». Ce n'è anche per i vari movimenti finanziari finiti nel fascicolo d'accusa, per i rapporti con gli altri imputati («avrei abusato dei miei poteri, non per lucro personale ma per far arricchire persone a me sostanzialmente sconosciute»). E sempre «ribadendo con forza la mia assoluta innocenza».

Becciu ha smentito anche la «vergognosa accusa», la «gravissima insinuazione» di aver addirittura finanziato con i soldi della Segreteria di Stato false testimonianze contro il card. George Pell, poi assolto in patria dagli abusi sui minori. Intanto oggi, all'inizio dell'udienza, il testimone-chiave mons. Alberto Perlasca, si è costituito parte civile proprio contro Becciu per la «subornazione di testimone», e contro altri quattro imputati per truffa, per averlo «indotto in errore» nella firma dell'accordo sulle 1.000 azioni di controllo del Palazzo di Londra. Il Tribunale si è riservato.

Dossier e cimici, così il Vaticano ha chiesto aiuto ai servizi segreti italiani. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 16 febbraio 2022

Il funzionario della Segreteria di Stato Mauriello, indagato e poi archiviato nello scandalo immobiliare di Londra, scrive un memoriale in cui racconta di quattro incontri avvenuti tra il sostituto Peña Parra e agenti dell’Aisi

Il fedelissimo di Francesco «ha chiesto di effettuare delle bonifiche ambientali dei suoi uffici e informazioni su soggetti che erano entrati in affari con la Santa Sede». Il mistero del dissuasore telefonico

Gli incontri con Tineri, il caporeparto Del Deo e il generale Parente. Dall’agenzia: «Solo bugie e imprecisioni, con Peña Parra solo normali interlocuzioni istituzionali»

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Pacco, doppio pacco e contropaccotto. Report Rai PUNTATA DEL 31/01/2022

di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara 

Attraverso gli interrogatori inediti dei protagonisti, interviste ai principali imputati e documenti esclusivi, Report ricostruisce uno dei più grandi scandali della storia recente del Vaticano.

Doveva essere un affare sicuro e vantaggioso, si è trasformato in uno dei più grandi scandali della storia recente del Vaticano. L’acquisto dei prestigiosi ex magazzini Harrods a Londra ha generato finora perdite superiori ai 100 milioni di euro. Secondo i magistrati si tratta di una colossale truffa in cui sarebbero rimasti impigliati cardinali, monsignori, funzionari della Santa sede e spregiudicati uomini d’affari. I soldi dei fedeli sono finiti, infatti, in un grottesco schema fraudolento che ricorda molto da vicino la trama del film “Pacco, doppio pacco e contropaccotto”. Attraverso gli interrogatori inediti dei protagonisti, interviste ai principali imputati e documenti esclusivi, Report ricostruisce l'intera vicenda. 

“PACCO, DOPPIO PACCO E CONTROPACCOTTO”

di Giorgio Mottola

collaborazione Norma Ferrara

Immagini Alfredo Farina – Andrea Lilli

Montaggio e grafica Giorgio Vallati 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO

Allora parliamo di uno scandalo finanziario in vaticano che non ha precedenti, se non addirittura ai fatti risalenti allo Ior. Riguarda le donazioni che i fedeli fanno direttamente al Papa che vengono gestite da un ufficio particolare che si trova all’interno della segreteria di stato vaticana, cioè l’Obolo di San Pietro.

Queste donazioni sarebbero state utilizzate per un investimento di 300 milioni di euro e 100 milioni sarebbero andati male. Questo avrebbe fatto infuriare il Papa che addirittura ha chiesto alla magistratura vaticana di fare chiarezza perché si sospetta una truffa che ruota intorno ad un palazzo di Londra che il Vaticano aveva comprato e che poi sul quale aveva investito. È stato rivenduto pochi giorni fa a poco più della metà dell’intero investimento. L’abbiamo detto, il Papa si è arrabbiato, ed è arrivato addirittura a degradare un cardinale importante come Angelo Becciu che oggi è accusato di peculato, abuso d'ufficio e subornazione. E poi sono stati indagati anche per truffa i vari broker che hanno gestito questo palazzo di Londra cioè Crasso, Mincione e Torzi. È  finito anche indagato per corruzione e per concorso in peculato un funzionario delle segreteria di Stato vaticana, Tirabassi. Il nostro Giorgio Mottola ha avuto la possibilità di visionare questi interrogatori. Cos’è che ha fatto infuriare così tanto il Papa? 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

L’Obolo di San Pietro è il fondo in cui confluiscono i soldi che i fedeli ogni anno donano alla Chiesa cattolica e al Santo Padre nei giorni di San Pietro e Paolo. E proprio con il denaro dell’obolo di San Pietro è stato acquistato questo prestigioso palazzo situato nel cuore di Londra. Doveva essere un affare sicuro e vantaggioso, ma si è rivelato uno dei più grandi scandali della recente storia vaticana. Secondo le accuse, i soldi dei fedeli sono finiti al centro di una vera e propria truffa che sembra ripercorrere lo schema fraudolento reso celebre dal cinema: pacco, doppio pacco e contropaccotto. 

ALBERTO MELLONI - STORICO DELLE RELIGIONI

Il cardinale Silvestrini che era stato Sostituto alla Segreteria di Stato diceva che dare dei soldi ai preti era sconsigliabile perché i preti buoni si fidano dei delinquenti perché loro sono buoni e quelli delinquenti si fidano dei delinquenti perché sono come loro. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

La storia inizia nel 2014, quando la segreteria di Stato, che gestisce l’Obolo di San Pietro, senza commissionare alcuna valutazione indipendente sul valore dell’immobile, decide di investire sul palazzo di Londra 205 milioni di euro, facendo così la fortuna di Raffaele Mincione, un discusso broker di Pomezia, che appena 18 mesi prima lo aveva pagato 150 milioni.  

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

Noi, eh ci siamo cascati dentro, ci abbiamo creduto, ci abbiamo… non lo so io. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

L’uomo in clergyman seduto al tavolo degli interrogatori della gendarmeria vaticana è Monsignor Alberto Perlasca, ex capo dell’ufficio amministrativo, la cassaforte della Segreteria di Stato. È lui ad aver avviato l’operazione della compravendita del palazzo di Londra.  

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

Certamente, non l’abbiamo fatto né perché era Mincione, né perché... perché purtroppo nella vita si sbaglia anche e io qui devo riconoscere che ho sbagliato.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Ma di sbagli in questa storia ne sono stati fatti davvero troppi. E si sa, se errare è umano, preservare ha sempre un che di diabolico. Tanto più che in segreteria di Stato la puzza di zolfo avrebbero potuta sentirla fin dall’inizio, quando la gendarmeria vaticana presentò ai monsignori questa relazione riservata in cui elencava tutte le imprese fallimentari e le inchieste giudiziarie a carico di Mincione, sconsigliando qualsiasi collaborazione.  

STEFANO DE STANTIS – COMMISSARIO GENDARMERIA VATICANA

Perché all’esito di questo minimo accertamento su Mincione, che era tutt’altro che positivo, è stato comunque deciso di intraprendere un tipo di investimento con lui? Chi lo ha deciso? 

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

Chi lo ha deciso? insieme l’abbiamo deciso.  

STEFANO DE STANTIS – COMMISSARIO GENDARMERIA VATICANA

Insieme a chi? 

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

Io, Tirabassi e il superiore… 

STEFANO DE STANTIS – COMMISSARIO GENDARMERIA VATICANA

Becciu? 

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

Becciu.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Il cardinale Giovanni Angelo Becciu è oggi tra i principali imputati del processo Vaticano. All’epoca era il numero due della Segreteria di Stato, che prima benedice l’acquisto del palazzo di Londra, sebbene a prezzi fuori mercato, e poi lascia a Raffaele Mincione la gestione totale dell’immobile. Una decisione che si rivela presto disastrosa. 

ENRICO CRASSO - BROKER

Il problema è che poi quello alla fine si è fottuto un sacco di soldi. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Enrico Crasso  era all’epoca il broker di fiducia della segreteria di Stato. È lui a introdurre Mincione entro le mura vaticane. 

ENRICO CRASSO – BROKER

Lui prendeva i soldi sul mutuo. Non hai mai pagato una rata di mutuo, accumulava sempre il debito. In più nella gestione dell’immobile, abbiamo scoperto che metteva gli affitti a metà prezzo e si faceva pagare in nero. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

A Enrico Crasso la segreteria di Stato vaticana dà il compito di vigilare sulle attività di Mincione ma secondo alcuni imputati, Crasso avrebbe intascato dal broker di Pomezia anomali versamenti attraverso conti offshore. Quando gliene avevamo chiesto conto, ci aveva risposto così.   

ENRICO CRASSO – BROKER

Non c’è nulla di più falso, ritengo che nessuno possa credere a una cosa di questo genere. 

GIORGIO MOTTOLA

Non avevate società in Dubai che triangolavano con la Repubblica Domenicana? 

ENRICO CRASSO – BROKER

Assolutamente. No, nel modo più assoluto.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Ma eccole le prove inedite dei versamenti. Questo è un estratto conto della Aspigam, una società di Raffaele Mincione schermata a Dubai, che nel 2016 fa partire bonifici per 739mila euro verso la Divanda Investement, una società della Repubblica Domenicana riconducibile a Enrico Crasso e al figlio. Risulta perciò ancora più sospetto che in Segreteria di Stato nessuno si accorga che, in quel periodo, Raffaele Mincione stesse usando i soldi dei fedeli investiti dal Vaticano per le sue personali speculazioni in borsa e per scalare Bpm e Banca Carige che comporteranno enormi perdite per la Santa Sede.  

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

Noi, più e più volte, gli abbiamo detto che non volevamo l’investimento nella Banca Popolare di Milano, che non volevamo l’investimento in Carige, perché non erano in linea con gli investimenti della Segreteria di Stato.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Ma le affermazioni di Perlasca sono platealmente smentite da questi messaggi che all’epoca della scalata bancaria il monsignore scrive al suo funzionario informandolo che Mincione sta per acquistare azioni di Carige e che gli avrebbe chiesto di comprarne anche per la Segreteria di Stato. 

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

Dobbiamo riconoscere tutti insieme di aver sbagliato, ma abbiamo sbagliato probabilmente per ingenuità. 

GIAN PIERO MILANO – PROMOTORE DI GIUSTIZIA VATICANO

Che a lei sia sfuggita una cosa del genere è la favola che lei può raccontare a dei bambini che non si sono mai trovati a passare, non dico in Vaticano, ma nemmeno nei dintorni.  

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

E lo so, lo so.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

L’operazione Carige è la classica goccia che fa traboccare il vaso. Perciò nel 2018 dopo che il cardinale Becciu è stato già rimosso dal ruolo di sostituto della Segreteria di Stato si decide di far fuori dalla gestione del palazzo di Londra il recalcitrante Raffaele Mincione. Per convincerlo a fare un passo indietro, la Segreteria di Stato si rivolge a Gianluigi Torzi, un semisconosciuto broker molisano, emigrato a Londra dopo le difficoltà economiche delle sue aziende. 

GIUSEPPE MILANESE – IMPRENDITORE

Torzi come lo vedevi… si presentò con un maglioncino che non gli arrivava neanche a coprire tra la pancia e il pantalone. 

GIORGIO MOTTOLA

Però è stato coinvolto in un affare da milioni e milioni di euro. 

GIUSEPPE MILANESE – IMPRENDITORE

Eh, io non gli avrei dato neanche un euro.    

GIORGIO MOTTOLA

Ma com’è possibile però che venga agganciato proprio Torzi? 

GIUSEPPE MILANESE – IMPRENDITORE

C’è una continuità di sistema. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Eppure, la segreteria di Stato affida a Gianluigi Torzi la trattativa con Raffaele Mincione per la rinuncia alla gestione del palazzo. A Mincione il Vaticano dà una buona uscita di 40 milioni di euro. Una cifra considerata spropositata anche da Enrico Crasso che per conto della Segreteria di Stato ancora una volta avrebbe dovuto vigilare sull’accordo.  

ENRICO CRASSO – BROKER

Torzi non appare per caso. Secondo me tra Mincione e Torzi potrebbe esserci una specie di accordo. Tu vai giù, parli con loro, li convinci a tirar fuori 40 milioni per riprendersi il palazzo. E dopodiché 40 milioni ce li rimettiamo in tasca.    

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

E in effetti è poi emerso che il rapporto fra Mincione e Torzi all’epoca della trattativa era strettissimo. Insieme avevano fatto vari investimenti, fra cui la scalata a banca Carige in cui entrambi perdono una valanga di soldi, ma a salvarli arriva la provvidenza, il cambio di gestione del palazzo di Londra. Dalla trattativa con il Vaticano Mincione ottiene 40 milioni di euro per lasciare l’immobile e a Torzi invece riesce un colpo da maestro: convince infatti la Segreteria di Stato a trasferire la proprietà dell’immobile a un fondo lussemburghese, Gutt, di cui il Vaticano detiene il 97 per cento e Torzi il restante 3 per cento. Ma in base allo statuto, sottoscritto da Monsignor Perlasca, le uniche azioni con diritto di voto sono quelle del broker molisano. Il che significa che Torzi, con sole 1000 azioni su 31mila può gestire il palazzo senza dover rendere conto alla Segreteria di Stato. 

ALBERTO PERLASCA – CAPO AMMINISTRATIVO SEGRETERIA DI STATO 2009-2019

Io avevo detto subito: ma queste mille azioni da che parte saltano fuori? Per quello che a me avevano detto, era che queste mille azioni servivano per creare la base giuridica affinché il signor Torzi potesse poi fungere da amministratore dell’immobile. Dopo è saltato fuori che invece quelle mille azioni avevano un valore enorme rispetto a tutta l’operazione. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Insomma, la Segreteria di Stato passa dalla padella di Mincione alla brace di Gianluigi Torzi. Stavolta però, il Vaticano decide di correre subito ai ripari. Alberto Perlasca viene estromesso dalla gestione dell’affare londinese e il mandato passa a un altro monsignore, Mauro Carlino che deve convincere Torzi a rinunciare alla gestione dell’immobile e il broker pretende una lauta liquidazione: 22 milioni di euro per meno di 4 mesi di gestione del palazzo. 

GIANLUIGI TORZI - BROKER

Quando tu dai bene in gestione a un fondo, soprattutto se è Real Estate paghi una quota annuale fissa al di là del rendimento che è del 2 per cento, 3 per cento, 1 e mezzo per cento, a seconda dell’accordo che fai. Quindi il conteggio finale di tutta questa somma era di circa 23 milioni.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Tuttavia, secondo i magistrati, nessun contratto obbligava la Segreteria di Stato a versare soldi a Torzi, le sue mille azioni, avevano infatti il valore simbolico di 1 euro. Stando alle accuse si sarebbe trattato di una palese estorsione, ma invece di denunciarlo don Mauro Carlino si limita a chiedere uno sconto e così Torzi si trova ad incassare 15 milioni di euro. 

GIORGIO MOTTOLA

Don Mauro buongiorno, sono Giorgio Mottola di Report, Rai3. 

MAURO CARLINO – MONSIGNORE

Ah, buongiorno. 

GIORGIO MOTTOLA

Volevo farle qualche domanda sulle vicende vaticane, sulla vicenda del palazzo di Londra. 

MAURO CARLINO – MONSIGNORE

Purtroppo, non posso rispondere a queste domande perché c’è un procedimento in corso, pertanto non so se posso rispondere o meno. 

GIORGIO MOTTOLA

Perché veramente per me è incomprensibile riuscire a capire come mai voi vi siate messi al servizio di quell’operazione. 

MAURO CARLINO – MONSIGNORE

Ma io sono stato stralciato dal procedimento! 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

In realtà, ad oggi Monsignor Carlino risulta tra i principali imputati. Infatti Torzi non aveva nessun titolo per ricevere i 15 milioni di euro e per questo viene prodotto in Segreteria di Stato, un documento falso. Ve lo mostriamo in esclusiva: in questo contratto c’è scritto che Torzi ha diritto a una commissione del tre per cento sul valore stimato dell’immobile. E dunque 15 milioni sarebbe la cifra congrua. Ma nel documento originale che era indirizzato a Monsignor Perlasca, questo rigo non è mai esistito. 

GIORGIO MOTTOLA

È stata falsificata la lettera di Perlasca? 

MAURO CARLINO – MONSIGNORE

Ma sta registrando? 

GIORGIO MOTTOLA

Certo, registro sempre. 

MAURO CARLINO – MONSIGNORE

No, guardi allora le chiedo cortesemente di cancellare la registrazione. 

GIORGIO MOTTOLA

No, guardi sono un giornalista, mi sono presentato come giornalista. 

MAURO CARLINO – MONSIGNORE

No, no lei non si è presentato… a questo punto chiamo la polizia, abbia pazienza.

 GIORGIO MOTTOLA

Certo, lei ha il diritto di chiamare la polizia. Assolutamente. 

MAURO CARLINO – MONSIGNORE

No, no. Nel senso che… 

GIORGIO MOTTOLA

Però dal momento che sono accuse gravi e lei aveva un ruolo importante in Segreteria di Stato… 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO

Allora, Monsignor Carlino ci scrive attraverso il suo legale e ci dice che tutte le sue azioni erano concordate e autorizzate da Monsignor Pegna Parra. Insomma, è evidente l’imbarazzo. Anche perché Gianluigi Torzi era subentrato a Mincione, aveva convinto i prelati a pagargli anche una buonuscita da 40 milioni di euro solo che i prelati scopriranno dopo che Torzi era in affari con Mincione. Addirittura, avevano anche realizzato alcune operazioni speculative insieme, come le scalate delle banche. Poi Gianluigi Torzi compie anche un piccolo capolavoro perché convince i prelati, ad un certo punto, di spostare la proprietà del palazzo londinese in un fondo lussemburghese. I prelati mantengono il 97 per cento delle azioni ma lui con il solo tre percento, grazie allo statuto, riesce a gestire il palazzo in maniera autonoma. Poi, insomma, quando si tratta di far uscire pure lui, chiede una buona uscita milionaria, inizialmente di 22 milioni di euro, poi successivamente si accontenterà di 15 milioni di euro.  Eppure, Torzi aveva incontrato personalmente il Papa e - secondo chi era presente a quell’incontro - aveva addirittura promesso di non chiedere delle buone uscite esose. Quando i prelati cercano di condurre questa trattativa e portarla a buon fine sostituiscono anche monsignor Perlasca con monsignor Carlino che però poi è quello che condurrà a termine la trattativa dei 15 milioni. Insomma, Torzi può sorridere almeno sino a quando l'autorità inglese apre una segnalazione per operazione sospetta. Ecco, perché hai preso questi 15 milioni di euro, a che titolo gli chiedono? E lui tira fuori dal cilindro una fattura con una intestazione che vi mostriamo in esclusiva, questa fattura ha come oggetto: “consulenze per attività immobiliare”. Bello, peccato che queste consulenze non sono mai avvenute e addirittura a suggerire l’oggetto della fattura di questa operazione inesistente sarebbe stato proprio Monsignor Carlino. La dimostrazione è in questo messaggio, questo sms, che vi mostriamo sempre in esclusiva, dove suggerisce proprio l’oggetto della fattura. Poi sempre grazie a Monsignor Carlino, Torzi può incassare i 15 milioni di euro di buona uscita, che però non avrebbe diritto di incassare. Almeno, a vedere il contratto originale. Quello che aveva depositato e visto monsignor Perlasca. Sarebbe stato realizzato dunque, all’insaputa di Carlino, così dice, un nuovo contratto, aggiunto un rigo. Forse sarebbe stato fatto all’interno della Segreteria di Stato vaticana. Questo è un mistero che dovrà risolvere la magistratura. Intanto, abbiamo provato a seguire la pista dei 15 milioni di euro. Dove conducono?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO

Bentornati, stiamo parlando degli investimenti fatti con le donazioni dei fedeli direttamente al Papa, i soldi gestiti dalla segreteria di Stato vaticana con l’ufficio dell’Obolo di San Pietro. Bene, ci sono 300 milioni di euro che sarebbero stati investiti dei quali 100 sarebbero stati persi. Ecco questo ha fatto infuriare il Papa che ha chiesto alla magistratura vaticana di indagare su una sospetta truffa. Sono coinvolti un potente cardinale, Angelo Becciu e alcuni broker che hanno fatto, gestito, gli investimenti. Tra questi c’è Gianluigi Torzi, il quale per uscire dalla gestione di un palazzo londinese di proprietà del Vaticano ha chiesto 15 milioni di euro, 15 milioni che non gli erano dovuti. Che fine hanno fatto? Seguendo la pista dei soldi, si arriva ai politici.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Seguendo le tracce dei 15 milioni di euro incassati da Torzi, scopriamo che i primi 5 finiscono a Mincione, anche se il broker smentisce. Altri bonifici partono invece verso la galassia societaria di Gianluigi Torzi. Tre milioni vanno alla Jci Holding e 125 mila alla sua partecipata la Jci Capital. Una società di investimenti, riconducibile sempre a Torzi, del cui advisory board c’erano l’ex sottosegretario alla comunicazione Giancarlo Innocenzi Botti, l’ex ministro delle finanze Giulio Tremonti e l’ex ministro degli esteri e attuale presidente del consiglio di Stato, Franco Frattini. Torzi li aveva cooptati poco prima della chiusura dell’accordo con il Vaticano, circostanza che impensierisce  Monsignor Carlino, il quale viene informato della presenza dei 3 politici della società di Torzi, da un ex agente segreto, Giovanni Ferruccio Oriente, ex autista di Riccardo Malpica che è stato capo del Sisde degli anni ’90, coinvolto nello scandalo dei fondi neri.   

INTERCETTAZIONE

GIOVANNI FERRUCCIO ORIENTE

Io guidavo la macchina di Malpica. Malpica era il direttore dei servizi segreti. Nel cofano della macchina noi avevamo due casseforti. In una avevamo le armi e nell’altra c’era un miliardo. Non è mai mancato un euro.  

GIORGIO MOTTOLA

Dopo aver avuto l’incarico da Monsignor Carlino, l’ex agente segreto lo informa sui rapporti costruiti da Torzi con Tremonti e Frattini.  

INTERCETTAZIONE

MAURO CARLINO - MONSIGNORE

Il nostro Torzi che sta combinando? 

GIOVANNI FERRUCCIO ORIENTE

Adesso ha allargato il giro e secondo me ha fatto peggio. Più allarghi il giro e più bucce di banana ti puoi trovare davanti.  

MAURO CARLINO - MONSIGNORE

Questo è pazzo. 

GIOVANNI FERRUCCIO ORIENTE

Il fatto che si era avvicinato sia a Tremonti che a Frattini. Lui pensa che era meglio ma per me è molto peggio. È gente osservatissima, specialmente Frattini. 

GIORGIO MOTTOLA

Che ci faceva nella Jci Capital di Gianluigi Torzi? 

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI STATO

Mi chiesero di partecipare a un gruppo che doveva fare analisi internazionali su alcune aree di crisi nel mondo. 

GIORGIO MOTTOLA

Ma lei conosceva Gianluigi Torzi quando entra…? 

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI STATO

No, io francamente io non lo conobbi, ma chi mi invitò, questo ex sottosegretario del governo, il dottor Innocenzi, lui mi disse questo è Torzi. E mi mostrarono tre fotografie di questo signore insieme al Papa e io dissi beh se il Papa gli dà questo tipo di fiducia, tre conferenze internazionali gliele posso anche fare. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Come compenso per la sua partecipazione all’advisory board della Jci Capital, nell’ottobre del 2019, Franco Frattini riceve 30 mila euro dalla Lighthouse, la società di Torzi che pochi mesi prima ha incassato i soldi dalla Segreteria di Stato.  

GIORGIO MOTTOLA

Questi soldi proverrebbero dai 15 milioni di euro che il Vaticano versa a Torzi. 

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI STATO

Io queste indagini non le conosco. Sono rimasto ovviamente sconcertato, come credo siano rimasti sconcertati al Vaticano.  

GIORGIO MOTTOLA

Per questo suo impegno nell’advisory board della Jci lei ha chiesto l’autorizzazione al Consiglio di Stato? 

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI STATO

Queste sono attività relative alla politica estera, svolte all’estero, per le quali non è previsto che si chieda in quanto sono totalmente indipendenti dall’attività istituzionale. 

GIORGIO MOTTOLA

Perché Torzi ha anche molte attività qui in Italia, quindi la possibilità che si potesse trovare di fronte al consiglio di Stato era concreta. 

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE CONSIGLIO DI STATO

Cosa che ovviamente io non sapevo all’epoca e che ovviamente immediatamente dopo le mie dimissioni ha eliminato in radice il problema. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Dopo aver passato all’incasso in Vaticano, Torzi paga le consulenze anche di un altro illustre advisor della sua Jci Capital, il presidente della Croce Rossa Internazionale, Francesco Rocca. 

GIORGIO MOTTOLA

In tutto quanto ha ricevuto dalla Jci, se posso permettermi di chiederglielo? 

FRANCESCO ROCCA – PRESIDENTE CROCE ROSSA INTERNAZIONALE

Credo intorno ai 60 mila euro. Circa. 60, 70 mila euro. 

GIORGIO MOTTOLA

Nella ricostruzione dei flussi finanziari di Torzi, è emerso che i soldi che sono arrivati alla Jci e i soldi che sono stati usati per pagarla vengono in realtà da quella che è la presunta truffa che Torzi avrebbe fatto al Vaticano. 

FRANCESCO ROCCA – PRESIDENTE CROCE ROSSA INTERNAZIONALE

Se ha fatto questo, lui è stato un abile giocatore, come si dice. Col senno di poi tutto diventa sconveniente. Con il senno di poi per me.. è proprio una lezione…anzi una bastonata forte. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Ed è una bastonata anche perché nel 2020, Francesco Rocca porta Gianluigi Torzi dentro alla sua organizzazione umanitaria con tutti gli onori, conferendogli il prestigioso incarico di advisor della presidenza della Croce Rossa Italiana.  

GIORGIO MOTTOLA

Come mai nomina Gianluigi Torzi suo advisor per il fundraising? 

FRANCESCO ROCCA – PRESIDENTE CROCE ROSSA INTERNAZIONALE

Perché c’aveva mille relazione e tant’è che grazie a lui abbiamo avuto due donazioni importanti. 

GIORGIO MOTTOLA

Ed è un ruolo che ha ricoperto con uno stipendio? 

FRANCESCO ROCCA – PRESIDENTE CROCE ROSSA INTERNAZIONALE

No, no, volontario. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Il presidente Rocca lo definisce “volontario” ma durante la prima ondata di contagi

Gianluigi Torzi vende a Croce Rossa 100 mila mascherine a 320 mila euro e altre 200 mila a maggio a 490 mila. A emettere fattura in entrambi casi è la Lighthouse, la società che ha incassato i 15 milioni dal Vaticano e ha pagato gli stipendi a Rocca e Frattini. 

GIORGIO MOTTOLA

Lei dice volontario, però maliziosamente potrei pensare che poi il suo tornaconto lo ha avuto perché vende a Croce Rossa un milione di euro in mascherine praticamente. 

FRANCESCO ROCCA – PRESIDENTE CROCE ROSSA INTERNAZIONALE

Un po’ meno… 

GIORGIO MOTTOLA

900 mila, perché sono 300 mila l’altra 600mila.  

FRANCESCO ROCCA – PRESIDENTE CROCE ROSSA INTERNAZIONALE

Ora, noi ci ritroviamo a parlarne perché c’è stata la vicenda vaticana, ma in realtà noi abbiamo pagato le mascherine il 2 aprile 2020, 3 euro e venti. E le offerte che noi avevamo, documentate, erano di 5, 6, 7 euro. Quindi comunque era un’offerta estremamente vantaggiosa. 

GIORGIO MOTTOLA

Il 2 aprile del 2020 fate il primo ordinativo a Torzi e il 6 aprile lei viene nominato direttore di Jci.  

FRANCESCO ROCCA – PRESIDENTE CROCE ROSSA INTERNAZIONALE

Se lei ci vuole vedere malizia, non so che fare… 

GIORGIO MOTTOLA

Il problema è che quando si mescolano affari e volontariato, diciamo qualche domanda è anche legittima, no? 

FRANCESCO ROCCA – PRESIDENTE CROCE ROSSA INTERNAZIONALE

Certo, però non è che io sono andato a guadagnare più soldi o meno soldi, era soltanto una formalizzazione del board of director. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Ma nonostante avesse incassato i 15 milioni di euro, le mire di Torzi sul palazzo di Londra non sembrano essersi quietate.  

ALESSANDRO DIDDI – PROMOTORE DI GIUSTIZIA VATICANO

È vero noi che in questi giorni lei sta cercando di prendere in mano questo immobile? 

GIANLUIGI TORZI - BROKER

Io no. 

ALESSANDRO DIDDI – PROMOTORE DI GIUSTIZIA VATICANO

E chi? 

GIANLUIGI TORZI - BROKER

Persone… sono stato avvicinato da persone che conosco. A me… mi dovete tenere fuori da questo immobile al costo che perdo soldi, non voglio sapere niente. Perché’ tanto la reputazione, da quel punto di vista, me la sono già tutta giocata. Io non toccherò questo immobile nemmeno se…. solo se gratis. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Dopo aver dato questa risposta al promotore di giustizia, Gianluigi Torzi è stato immediatamente arrestato. Qualche giorno prima dell’interrogatorio era arrivata infatti in Vaticano una misteriosa proposta di acquisto del Palazzo di Londra attraverso l’intermediazione di un giovane manager, vicino all’ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e all’ex sostituto Angelo Becciu. Marco Simeon.  

MARCO SIMEON – MANAGER

Tante speculazioni, no? Dunque, io sono figlio di un benzinaio e forse questa è la cosa che non mi è stata mai perdonata. Perché in questo paese devi essere figlio di qualcuno per ottenere successo. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Nell’aprile del 2020, Marco Simeon fa da intermediario in Vaticano per una proposta di acquisto del palazzo di Londra, che viene presentata da due membri dell’advisory board della JCI Capital di Gianluigi Torzi: l’ambasciatore Giovanni Castellaneta e l’ex sottosegretario Carlo Innocenzi. 

MARCO SIMEON – MANAGER

L’onorevole Innocenzi mi fece il nome di un gruppo americano, che faceva riferimento a Davide Bizzi che poi ho scoperto, io non lo conoscevo all’epoca, essere un grande investitore negli Stati Uniti e quindi sulla base di questi nomi ho pensato che potesse essere seria ed affidabile la proposta. 

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

L’offerta viene avanzata a nome del gruppo immobiliare di Davide Bizzi che gode di ottima reputazione in tutto il mondo. La proposta apre fin troppo generosa: vengono offerti 330 milioni di sterline, quando la valutazione fatta dal Vaticano arrivava a fatica a 200 milioni. 

MARCO SIMEON – MANAGER

Ma lei sa anche che il valore lo fa l’acquirente e non il venditore. 

GIORGIO MOTTOLA

Però la proposta che fate è addirittura 150 milioni di euro è addirittura superiore a quello che è il valore che l’eventuale venditore aveva stabilito. 

MARCO SIMEON – MANAGER

Sì, probabilmente oggi per metratura e struttura può valere meno, ma con un ampliamento tra l’altro già approvato da Londra poteva raggiungere dei valori ben superiori.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Ma è tutto troppo bello per essere vero. Presto si scopre infatti che dietro all’affare si cela Gianluigi Torzi. Dopo l’arresto, il broker molisano ammette ai magistrati di essere stato lui l’estensore della proposta scritta e sempre lui ha messo a disposizione, persino la Spv, il veicolo societario con cui viene fatta l’offerta al Vaticano. 

MARCO SIMEON – MANAGER

Queste sono vicende che sono state poi verificate successivamente. 

GIORGIO MOTTOLA

Quindi lei al momento non lo sapeva? 

MARCO SIMEON – MANAGER

Assolutamente no. Io ho ricevuto sempre informazioni condivise con il cardinale e poi trasmesse all’interno della Santa Sede, che andavano in una direzione opposta.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Inizialmente la proposta aveva ricevuto la benedizione del Cardinale Giovanni Angelo Becciu che, pur non avendo più alcun ruolo in Segreteria di Stato, ne aveva parlato personalmente con il Papa. Ma quando in Vaticano si scopre chi c’è veramente dietro la cordata, l’offerta di acquisto non viene nemmeno presa in considerazione. 

GIORGIO MOTTOLA

Lei è da tutti considerato un uomo d’affari capace e scaltro. 

MARCO SIMEON – MANAGER

Sì. 

GIORGIO MOTTOLA

In questa vicenda ha fatto la figura del fesso. 

MARCO SIMEON – MANAGER

Beh, a volte capita.  

GIORGIO MOTTOLA

Ma lei fesso non è, al punto che i promotori di giustizia sostengono che il suo interesse non fosse la proposta, ma il fine ultimo fosse quello di depistare le indagini. 

MARCO SIMEON – MANAGER

È abbastanza avvilente questa accusa e spero che sia chiarita nella maniera più limpida possibile.  

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO

Nel momento in cui è arrivata la proposta, l’intera inchiesta del Tribunale Vaticano rischiava di essere spazzata via. Un’offerta così generosa e vantaggiosa era infatti la dimostrazione empirica che quello del palazzo di Londra era stato in realtà un ottimo affare. Conclusione che avrebbe immediatamente scagionato Becciu e tutti gli altri imputati, salvandoli dal processo.   

MARCO SIMEON – MANAGER

Il depistaggio non aiuta Becciu. Il depistaggio aiuta Torzi e io con Torzi non avevo nessun interesse a collaborare. 

GIORGIO MOTTOLA

Però avvantaggia Becciu perché … una proposta economica così generosa sarebbe stato scagionato Becciu dall’accusa di aver fatto un pessimo affare con Mincione. 

MARCO SIMEON – MANAGER

Assolutamente no, per una ragione. Perché il Santo Padre è stato chiarissimo con il cardinale Becciu. Vendete il palazzo se è una buona operazione economica, ma chiarite le vostre responsabilità. 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO

Ora fra le cose che dovrebbe chiarire Becciu c’è sicuramente questo presunto ruolo nel contropaccotto. Becciu fa recapitare all'ex sottosegretario alle comunicazioni, Innocenzi, una lettera che Report vi può mostrare in esclusiva, dove si legge: "conferiamo il mandato ad agire come nostro interlocutore per la formalizzazione della proposta" dietro la quale sappiamo esserci Torzi. Ora perché Becciu invia questa lettera pur essendo stato tolto dalla segreteria di Stato vaticana da Bergoglio? Ora noi sappiamo da una chat che Becciu avrebbe incontrato il Santo Padre e che il Santo Padre però da quello che risulta a Report gli avrebbe detto: va bene, lascia che di questa cosa se ne occupi la segreteria di Stato. Invece lui avrebbe disobbedito. Perché? Secondo i magistrati avrebbe tentato di depistare e nel depistaggio poi di sgonfiare il processo. E durante gli accertamenti i magistrati hanno anche registrato alcuni tentativi di Becciu di fare pressioni sul testimone, l’accusatore, monsignor Perlasca, cercando di fargli pressioni psicologiche perché contenesse le sue dichiarazioni. Poi è stato anche registrato un tentativo, da parte dei magistrati, di intervenire su Torzi. Ma questo attraverso il suo uomo, Simeon. C’è un messaggio che Report vi può mostrare in esclusiva, un messaggio inviato ancora una volta a Innocenzi dove Simoen scrive: "Mi ha scritto ora il Cardinale. Qualunque giustificazione è ritenuta valida... fate presente che oltre ad essere a Londra lui è diabetico e rientra nelle categorie a rischio, questo ci servirà anche per un eventuale ulteriore rinvio". E infatti l’interrogatorio di Torzi, questo era l’obiettivo, salterà con la giustificazione che lui è a Londra e ha il Covid. Invece i magistrati scopriranno attraverso dei controlli sul telefono che Torzi è in Italia. Il cardinale Becciu ci scrive attraverso i suoi legali dicendo che ha sempre operato con grande fedeltà nei confronti del Santo Padre, e d’intesa con i suoi superiori. Bene ne diamo atto. Anche perché l'ottavo comandamento proibisce di falsare la verità nelle relazioni con gli altri.

R.E. per "la Stampa" il 23 febbraio 2022.

Nuovi guai giudiziari per il broker Gianluigi Torzi, indagato dalla magistratura vaticana nell'inchiesta sul palazzo londinese di Sloane Anevue, da quella romana e ora, per la seconda volta, da quella milanese. Dopo le accuse mosse dalla Procura di Milano per il caso del maxi raggiro ai danni della società di mutuo soccorso "Cesare Pozzo", figura anche tra i cinque indagati per una presunta truffa da 1 miliardo di euro su operazioni di cartolarizzazione di crediti cosiddetti sanitari.

Ieri su delega dei pm Cristian Barilli e Carlo Scalas e dell'aggiunto Maurizio Romanelli, il Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf ha effettuato perquisizioni e acquisizioni in Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte nei confronti di persone fisiche e società nell'ambito di una indagine, nata da quella sulla Cesare Pozzo, in cui sono ipotizzati a vario titolo i reati di associazione per delinquere, truffa e corruzione tra privati. Indagine in cui oltre a un manager legato al mondo bancario, ci sono altri tre indagati assieme a Torzi, attualmente a Londra e rimesso in libertà dal Tribunale del Riesame della capitale.

Secondo gli accertamenti, sarebbe stato architettato un meccanismo complesso ma ben oliato e che richiama quello al centro di inchieste giornalistiche sui cosiddetti «mafia bond». In sostanza, il sistema ricostruito in seguito agli approfondimenti delle Fiamme Gialle si sarebbe basato su imprese operative nel settore sanitario che vantavano dei crediti nei confronti di Asl calabresi, campane e laziali.

Crediti, però, «inesigibili» perché relativi a prestazioni effettuate fuori dal budget e, dunque, non rimborsabili dalle azienda sanitarie locali. Le imprese, che presentavano anche «criticità» fiscali e economico-finanziarie tanto da rientrare per l'appunto nello schema dei cosiddetti «mafia bond», vendevano quei crediti al gruppo di Torzi, che attraverso una «piattaforma» societaria li rimetteva in circolo, attraverso la creazione di prodotti obbligazionari che avevano «in pancia» i crediti ritenuti «fantasma», e tramite «cartolarizzazioni». 

Prodotti sottoscritti da diversi investitori istituzionali quotati in borsa, tra cui gruppi bancari, che avrebbero puntato a notevoli guadagni e al recupero del capitale impiegato con tanto di interessi. Nell'inchiesta Banca Generali è parte lesa e sta collaborando senza nessun coinvolgimento nel provvedimento.

Estratto dell'intervista di Andrea Tornielli al Prefetto della Segreteria per l'Economia (SPE), Padre Juan Antonio Guerrero Alves il 28 gennaio 2022 su Dagospia.

Come si è conclusa la questione del palazzo di Sloane Avenue a Londra?

È stata un'operazione condotta in piena trasparenza e secondo le nuove regole dei contratti vaticani. Sono stati assunti un broker a Londra e uno studio legale, entrambi con una gara ristretta, così come una persona di fiducia a Londra per accompagnare il processo e rappresentare i nostri interessi. 

Il processo è stato accompagnato da un team della Santa Sede con alcuni aiuti professionali esterni da Roma. Sono state ricevute sedici offerte, quattro sono state selezionate, dopo una seconda tornata di offerte, è stata scelta la migliore. Il contratto di vendita è stato firmato, abbiamo ricevuto il 10% del deposito e tutto sarà concluso nel giugno 2022.

La perdita della presunta truffa, di cui si è parlato molto e che ora è sottoposta al giudizio dei tribunali vaticani, era già stata presa in considerazione nel bilancio. L'edificio è stato venduto al di sopra della valutazione che avevamo in bilancio e della valutazione fatta dagli istituti specializzati. 

Sia il trasferimento dei beni della SdS all'APSA che la vendita di Sloane 60, così come altre operazioni economiche speciali della Santa Sede, hanno rappresentato e rappresentano un lavoro di squadra interno con degli aiuti di professionisti esterni di cui abbiamo avuto bisogno. Abbiamo imparato molto gli uni dagli altri e abbiamo trovato un metodo di lavoro di squadra che non era molto praticato nella Santa Sede. E questo aiuta. 

(ANSA il 25 gennaio 2022) - Il Tribunale vaticano, su richiesta del promotore di giustizia, ha oggi nuovamente rinviato a giudizio i quattro imputati del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, nato dall'acquisto del palazzo di Londra, per i quali gli atti erano stati rinviati allo stesso ufficio dell'accusa: sono mons. Mauro Carlino, ex segretario del card. Angelo Becciu, il finanziere Raffaele Mincione, l'avv. Nicola Squillace e il funzionario vaticano Fabrizio Tirabassi, per tutti i reati contestati. Il troncone di processo con questi quattro imputati sarà riunito a quello con gli altri sei, intanto proseguito, il prossimo 18 febbraio.

(ANSA il 21 gennaio 2022) - E' stata confermata in appello la condanna degli ex amministratori dello Ior Paolo Cipriani e Massimo Tulli. La Corte di Appello ha pienamente riconosciuto le ragioni dell'Istituto per le Opere di religione e ha condannato Cipriani e Tulli -rispettivamente ex direttore e vicedirettore generale della 'banca vaticana' - a risarcirgli circa 40 milioni di euro. Lo comunica lo Ior.

Vaticano, 007 in campo sul palazzo di Londra: spie nei telefoni e pranzi registrati. Mario Gerevini e Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.

Spy story, talvolta caserecce, si sono affiancate per quasi due anni alle indagini dei magistrati del Papa sul patrimonio dell’Obolo di San Pietro e sul palazzo di Londra. Dai file audio-video degli interrogatori, di cui il Corriere pubblica in esclusiva alcuni stralci significativi, emergono diversi esempi di questa intelligence parallela. Il numero tre del Vaticano, Edgar Peña Parra, che entra in possesso di foto tratte indebitamente dalle videocamere di un ufficio di Londra. Un monsignore che è stato ai vertici della Segreteria di Stato, Mauro Carlino, a contatto con maneggioni dell’intelligence. Il giallo del microfono nascosto durante il pranzo tra il grande pentito monsignor Alberto Perlasca e il cardinale Angelo Becciu, che di lì a pochi giorni sarà sfiduciato dal Papa. Il processo sullo scandalo, intanto, è appena ricominciato. E ieri padre Juan Antonio Guerrero, Prefetto per l’economia, ha annunciato la vendita («in perdita») del palazzo di Sloane Avenue e un deficit atteso di 33 milioni per il bilancio 2022 del Vaticano.

Le foto dell’ufficio di Torzi

Intorno a Natale 2018, nello studio del Palazzo Apostolico il Sostituto Pena Parra, numero tre del Vaticano, osserva sullo schermo del telefonino Gianluigi Torzi al lavoro nel suo ufficio londinese, con alcuni ospiti. Torzi è il broker che per conto del Vaticano ha rilevato il palazzo di Sloane Avenue da Raffaele Mincione e che a maggio 2019 riceverà 15 milioni dalla Segreteria di Stato. Ma come fa il Sostituto a controllare Torzi? Grazie a un accesso al sistema di videosorveglianza. Lo smartphone connesso è di Luciano Capaldo, l’ingegnere che aveva realizzato l’impianto delle telecamere. «In Segreteria di Stato e monsignor Carlino in particolare — ha confermato Capaldo ai magistrati — volevano informazioni su Torzi… (Le immagini) le abbiamo viste insieme anche con il Sostituto».

Il mistero Capaldo

L’ingegnere italo-britannico è una figura misteriosa: a lungo partner di Torzi, rompe con lui e subito dopo viene ingaggiato proprio dalla Segreteria per gestire l’immobile costato 300 milioni. Perché la rottura? Carlino, ex segretario di Becciu e poi di Pena Parra, la spiega così ai magistrati: «Perché non gli piaceva il modus operandi di Torzi», anche su suggerimento di «una persona legata all’intelligence, non so se servizi segreti o investigatore privato», tale Gianni O. (non lo citiamo perché estraneo alle indagini, ndr).

Il monsignore con il pallino dell’intelligence

Così, quando nel 2019 Carlino teme di avere telefono e mail sotto controllo, a chi chiede aiuto? A Capaldo. Che ha pronta la soluzione: sempre Gianni O. «Ho introdotto questo soggetto a monsignor Carlino — sostiene Capaldo — . Passa qualche giorno e il monsignore mi manda un numero di telefono e mi dice “puoi passarlo a Gianni”. Il numero è del direttore dello Ior», Gianfranco Mammì. I magistrati sono perplessi: «Ma non è che siccome O. era così esperto poteva in qualche modo intercettare il direttore dello Ior?». «Questo non lo so, non ho mai avuto la possibilità di verificare le competenze di O.», replica Capaldo. In quei mesi la Segreteria di Stato tentò, invano, di ottenere un prestito di 150 milioni dallo Ior per sistemare l’affare di Londra: Mammì si oppose e denunciò al Papa i suoi sospetti di reati, dando inizio così all’inchiesta.

Perlasca e il pranzo con Becciu

Anche il grande “pentito”, monsignor Perlasca finisce in un gioco di intelligence parallela: misteriosi emissari che nell’estate 2020, prima dell’inizio della sua collaborazione, lo avrebbero a lungo interrogato informalmente. Ce n’è traccia indiretta nel suo memoriale consegnato a fine agosto 2020 ai magistrati. Più volte scrive, fuori contesto, «Già risposto» o «Non saprei cosa dire». Come se il suo memoriale seguisse un canovaccio suggerito dal confronto con altri. Ma a chi stava rispondendo? Secondo alcune fonti si sarebbe trattato di una sorta di indagine autonoma del Papa attraverso persone di sua strettissima fiducia.

Una settimana dopo Perlasca invita il cardinale a un pranzo al ristorante Scarpone a Roma. È il 5 settembre. Il colloquio sarebbe stato registrato di nascosto. Ne fa cenno Genoveffa Ciferri Putignani detta Geneviève, amica di Perlasca e autodefinitasi ex agente segreto di base a Londra, in un’intervista a La Verità. Ma ciò che più conta è che lo stesso Perlasca, nell’interrogatorio del 31 novembre 2020 a un certo punto afferma: «...Comunque tutto questo è nella registrazione, su … dello Scarpone». Gli inquirenti non reagiscono, anzi lo correggono come se fosse un argomento scabroso: «Monsignore, lì non c’è nulla eh?, cioè sia ben chiara questa cosa qui». «Come, no?», si sorprende Perlasca. «No, voglio dire — incalza un gendarme — allo Scarpone c’è stato un incontro tra di voi qualcuno ha paventato l’idea che ci fosse una videoregistrazione ma non è stato fatto nulla, sia ben chiaro. Cioè noi in Italia non andiamo a fare alcun tipo di attività, nel modo più assoluto». «Ah, sì sì», annuisce Perlasca. Resta il giallo.

La lettera anonima nel Palazzo Apostolico

Racconta Peña Parra nella sua memoria ai magistrati in un passaggio dedicato al banchiere svizzero della Segreteria, Enrico Crasso: «Vorrei allegare, nonostante che la forma non si confà al nostro stile, una lettera anonima pervenutami in febbraio 2019, nella quale, in modo interessante, si parla del “sistema Enrico Crasso”. La lettera mi fu fatta trovare sotto la porta del mio ufficio». E non si è mai saputo chi l’abbia infilata.

Il “controspionaggio” di Torzi

Marco Simeon, manager vicino a Becciu e ben introdotto nella Santa Sede, viene sentito come persona informata sui fatti il 7 agosto 2020. Al termine aggiunge una confidenza «off the record»: «Siccome io ho dei rapporti abbastanza buoni con il mondo dell’intelligence italiano, come li abbiamo un po’ tutti qua… Il signor Torzi è intervenuto su un carabiniere che fa parte di un servizio e gli ha detto che voleva informazioni su un certo Crasso, un certo Simeon, un certo Becciu… Quando la persona gli ha detto “perché lo vuoi sapere?” lui ha risposto “perché io lavoro per il Santo Padre”. E io sono rimasto molto perplesso».

Da magister.blogautore.espresso.repubblica.it il 3 gennaio 2021. Tra le carte in possesso del tribunale vaticano chiamato a giudicare il cardinale Giovanni Angelo Becciu e altri imputati, con la prossima udienza fissata al 25 gennaio, c’è una Nota informativa in testa alla quale c’è scritto che “durante l’udienza di tabella dello scorso 6 aprile il Santo Padre ha dato l’autorizzazione di rendere pubblica la suddetta Nota”. Firmato: Edgar Peña Parra, sostituto segretario di Stato.

È quello che Settimo Cielo fa in questo post: fornire ai lettori i tratti essenziali di questo documento finora inedito, consegnato da Peña Parra al tribunale vaticano per descrivere la situazione della Segreteria di Stato nel momento della sua entrata in carica come sostituto, il 15 ottobre 2018, “nonché alcuni aspetti dell’operato della Segreteria di Stato riguardanti il Palazzo 60 Sloane Avenue a Londra”.

Il dossier è di 322 pagine, con numerosi allegati, ma le pagine chiave sono le prime venti con la Nota di Peña Parra. Nelle quali compare tra l’altro un’informazione che potrebbe creare un incidente diplomatico niente meno che con la Cina. 

Vi si legge infatti di “alcune notizie fornite dall’arcivescovo di Vilnius (Lituania) riguardanti l’insicurezza” del sistema informatico vaticano. Con Peña Parra che specifica così: “Un nipote dell’arcivescovo, esperto in materia, aveva l’evidenza dell’intromissione della Cina nel nostro sistema informatico e ne abbiamo avuto la prova”.

Vulnerabilità informatica a parte, il quadro che Peña Parra tratteggia della Segreteria di Stato e in particolare del suo ufficio amministrativo diretto all’epoca da mons. Alberto Perlasca è decisamente critico. 

“Il Santo Padre – vi si legge – aveva indetto una revisione contabile dell’ufficio amministrativo e dei fondi della Segreteria di Stato, che sarebbe dovuta essere completata prima dell’arrivo in sede del nuovo sostituto”, cioè di Peña Parra al posto del suo predecessore Becciu.

Ma niente di ciò fu fatto. Perlasca – scrive Peña Parra – giustificava l’inadempienza sostenendo che “la Segreteria di Stato aveva vissuto negli ultimi anni un tempo molto difficile con la Segreteria per l’Economia, a causa delle pretese del cardinale George Pell di prendere il controllo di tutta l’amministrazione della Santa Sede, il che voleva dire interferire nelle competenze proprie della Segreteria di Stato in ambito amministrativo.

In secondo luogo, sempre mons. Perlasca era dell’idea che sia il precedente revisore generale, il dott. Libero Milone, che l’attuale revisore generale, il dott. Alessandro Cassinis Righini, non fossero persone degne di fiducia”. 

Peña Parra scrive che sia lui, sia il revisore, hanno più volte insistito perché la volontà del papa fosse adempiuta. Ma senza alcun risultato. L’ufficio amministrativo faceva “sciopero bianco”, senza modificare di una virgola il suo sistematico “modus operandi”, descritto così: “Si tratta di un meccanismo nel quale si mette il superiore sotto pressione, spingendolo ad agire in fretta, prospettando eventi ‘catastrofici’, del tipo: ‘Se non si firma subito si rischia di perdere molti soldi’. […] Molte volte ero inaspettatamente interrotto anche quando ricevevo ambasciatori, vescovi, ecc., per firmare documenti urgenti che, a loro detta, non potevano attendere la fine dei colloqui. […] Il Leitmotiv continuo era che non conoscevo la ‘macchina’ e quindi che le incertezze da me avanzate erano immotivate e rallentavano solamente il lavoro dell’ufficio amministrativo”.

La cattiva gestione riguardava anche i soldi in possesso della Segreteria di Stato, depositati in tre fondi di investimento e in ben tredici banche, con i rispettivi contratti “quasi sempre stipulati in favore delle controparti”. Per non dire dei “seri errori” di contabilità, che “gonfiavano ingiustificatamente il valore del patrimonio gestito dalla Segreteria di Stato”, ritenuto a una certa data pari a 603 milioni di euro quando invece era di 425 milioni. 

Insomma, “la gestione complessiva era finalizzata alla speculazione finanziaria e non alla preservazione conservatrice e sicura del patrimonio della Segreteria di Stato”.

E il disastroso affare di Londra? A giudizio di Peña Parra è stato “l’opera maestra dell’ufficio amministrativo, nella quale si verificano tutte le criticità suddette e tante altre che l’immaginazione umana farebbe difficoltà a mettere in atto. Per esempio andando a cercare il peggio della finanza internazionale ed entrare con loro in business”.

La seconda parte della Nota di Peña Parra riguarda appunto gli sviluppi dell’operazione di Londra dalla fine di novembre del 2018 in poi, di cui si occuparono non solo lui, il sostituto, ma anche il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e papa Francesco in persona. 

Il 22 novembre 2018, sollecitato da mons. Perlasca a dare il via libera a un’iniziativa finanziaria definita “urgentissima” per raddrizzare l'operazione d’acquisto del palazzo di Londra, Peña Parra gli ordinò di redigere un “memorandum utile a presentare l’istanza al cardinale segretario di Stato e al Santo Padre per la loro valutazione in merito”.

A questo scopo, domenica 25 novembre il sostituto chiese e ottenne “un incontro urgente con il Santo Padre”, il cui responso fu un “sì” con cautela: “Egli mi ha chiesto di tenere presente due cose, che poi ha ripetuto in vari momenti: (i) ‘cerchiamo di perdere il meno possibile’ e (ii) ‘noi dobbiamo voltare pagina e ricominciare da capo’”.

Il giorno dopo, lunedì 26 novembre, anche il cardinale Parolin diede la sua approvazione, restituendo a Peña Parra il memorandum con in calce questa annotazione scritta a penna in un italiano un po’ zoppicante: “Dopo aver letto questo memorandum, alla luce delle spiegazioni fornite ieri sera da mons. Perlasca e dott. Tirabassi, avute assicurazioni sulla solidità dell’operazione (che porterebbe vantaggi alla Santa Sede), la sua trasparenza e l’assenza di rischi reputazionali (che, anzi, verrebbero superati quelli legati alla gestione del Fondo GOF) sono favorevole alla stipulazione del contratto”.

Il Fondo GOF, Global Opportunity Fund, al quale il cardinale Parolin allude, era uno dei tre fondi di investimento nel quale la Segreteria di Stato aveva investito denari, per l’esattezza 200 milioni di dollari in precedenza depositati presso le banche svizzere BSI e UBS, con le quali nel 2014 l’allora prefetto della Segreteria per l’Economia cardinale George Pell aveva ordinato di chiudere i conti. Il Fondo GOF, utilizzato per investire nell’affare di Londra, era gestito dal finanziare Raffaele Mincione.

L’operazione fu dunque compiuta. “Con il benestare del Santo Padre e del cardinale segretario di Stato – scrive Peña Parra – siamo andati avanti a perfezionare l’operazione di riacquisto della società proprietaria del palazzo, firmando la ratifica in data 27 novembre 2018”. 

Restavano però ancora da riscattare mille azioni in possesso di un altro finanziere, Gianluigi Torzi, il quale chiedeva, per cederle, 10 milioni di euro.

Le ipotesi alternative inizialmente valutate in Segreteria di Stato erano le seguenti: “1) iniziare un contenzioso contro il Torzi; 2) riacquistare il pieno controllo dell’asset (quindi quantificare il valore delle mille azioni)”. 

La soluzione adottata fu la seconda, non solo perché “considerata più economica e con rischi più contenuti”, ma soprattutto perché “prettamente allineata con la Superiore volontà”, cioè con la volontà del papa. Il quale non solo incoraggiò la Segreteria di Stato a procedere per questa strada, ma diede lui stesso l’impulso al negoziato con l'aiuto di un suo amico di vecchia data, come riferito da Peña Parra nella Nota: “Sabato, 22 dicembre 2018, il Santo Padre mi ha chiesto di recarmi a Santa Marta dove mi ha presentato il dott. Giuseppe Milanese, […] che ho conosciuto per la prima volta, nonché il dott. Manuele Intendente, […] di cui ho saputo dopo essere uno degli avvocati del Torzi, mentre il Milanese era una conoscenza del Santo Padre. […] Il giorno successivo ho ritenuto opportuno chiedere chiarimento all’ufficio amministrativo circa quanto appreso durante l’incontro a Santa Marta. […] Non trovandosi in sede mons. Perlasca, già partito per le vacanze di Natale, ho convocato il Tirabassi nel mio ufficio”. Fabrizio Tirabassi, anche lui tra gli imputati del processo, era il numero due dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato.

Pochi giorni dopo, il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, papa Francesco ricevette di nuovo Torzi a Santa Marta, con i famigliari, facendosi anche fotografare con lui (vedi sopra), e ne riferì a Peña Parra, che nella Nota registra così la consegna ricevuta da Francesco: “Il mio agire […] era ed è tutt’ora motivato dal desiderio di mettere in pratica la volontà Superiore, manifestata anche in sede d’incontro con il Torzi il 26 dicembre 2018, cioè di ‘perdere il meno possibile e ripartire da capo’”. 

Un terzo incontro tra il papa e Torzi fu di poco successivo, così riferito da Peña Parra: “I primi giorni del mese di gennaio 2019, il Santo Padre ha ricevuto in udienza il Torzi insieme all’Intendente, al prof. Renato Giovannini e al Milanese e il sottoscritto. Durante un breve incontro, papa Francesco ha voluto ribadire al Torzi che apprezzava quanto egli aveva fatto per la Segreteria di Stato, e che aveva dato al sostituto il mandato di riorganizzare per esteso la gestione patrimoniale e finanziaria della Segreteria di Stato e che la Sua volontà era di ‘voltare pagina e ricominciare da capo’, Questa Superiore volontà è diventata per noi il punto di forza nel negoziato con il Torzi, il quale non ha potuto mai negare il volere espresso dal Santo Padre”. 

Le mille azioni furono effettivamente rilevate dalla Segreteria di Stato  il 2 maggio 2019, al prezzo di 10 milioni di euro. Ma ciò non trattiene Peña Parra dallo scrivere, nella Nota, d’essere “arrivato alla convinzione che la Segreteria di Stato è stata vittima di una truffa”, per come il capo dell’ufficio amministrativo aveva operato in precedenza, “costringendo di fatto la Segreteria di Stato, in sede di risoluzione contrattuale, a pagare al Torzi” quella somma cospicua: “Con la firma prematura e comunque non autorizzata dai superiori, mons. Perlasca aveva ceduto al Torzi non soltanto le mille azioni, ma soprattutto il diritto esclusivo di gestione del palazzo, […] creando un ingente danno patrimoniale alla Segreteria di Stato, per non parlare del danno reputazionale per il Santo Padre e tutta la Chiesa”. 

Sta di fatto che il ricupero delle mille azioni è stato negoziato e concluso con Francesco come primo attore, stando a ciò che è scritto nella Nota informativa di Peña Parra resa pubblica per volontà dello stesso papa.

Interrogato nella fase istruttoria del processo contro Becciu e altri imputati, Perlasca ha confermato questo coinvolgimento del pontefice, venendo però aspramente zittito dal promotore di giustizia Alessandro Diddi: “Monsignore, questo che dice non c'entra niente! Noi prima di fare questo che stiamo facendo siamo andati dal Santo Padre e gli abbiamo chiesto che cosa è accaduto, e di tutti posso dubitare fuorché del Santo Padre”. 

Reso pubblico da un avvocato difensore nell’udienza del processo del 17 novembre scorso, questo passaggio dell’interrogatorio di Perlasca ha indotto Diddi a smentire se stesso, negando di aver interrogato il papa. 

Ma che Francesco sia stato tra i protagonisti della vicenda finita sotto processo in Vaticano è ormai assodato. E se gli imputati lo chiamassero in giudizio? La grande incognita sarà come sciogliere questo nodo.

·        Le Donne dei Papi.

STEFANO LORENZETTO per il Corriere della Sera il 10 aprile 2022.

Cherchez la femme! È destino che siano sempre le giornaliste francesi a intersecare le vite dei pontefici. Va così dai tempi di Leone XIII, il primo nella storia a concedere un’intervista. Uscì il 4 agosto 1892 su Le Figaro con la firma di Séverine, pseudonimo di Caroline Rémy: il 31 luglio, una domenica, era stata a colloquio con lui per 70 minuti. 

Guarda caso lavora al Figaro anche Bénédicte Lutaud, da poco nelle librerie con Le donne dei papi (Guerini e associati), un saggio di 280 pagine in cui ricostruisce la storia di cinque figure femminili che hanno avuto ruoli di rilievo in Vaticano negli ultimi 90 anni. Come Pascalina Lehnert, la suora tedesca soprannominata «la papessa», segretaria, governante e infermiera di Pio XII: in una delle 20 foto scattate di nascosto dall’archiatra pontificio Riccardo Galeazzi Lisi, e poi vendute a Paris Match, si vede lei, la religiosa tedesca che fu assistente di Eugenio Pacelli dal 1917 e lo accompagnò fino alla morte, seduta accanto al letto dell’augusto infermo in agonia, mentre gli infila in bocca la cannula della bombola di ossigeno. 

Figlia di Christian Lutaud, un agnostico già docente di letteratura alla Sorbona, la giornalista, 33 anni, è stata educata al cattolicesimo dalla madre Elisabeth, logopedista. Si allontanò dalla Chiesa durante il master di giornalismo a Sciences Po, l’istituto parigino di studi politici. Si riavvicinò nel 2014. 

«Nella mia vita c’era un vuoto di senso. Cercavo di colmarlo con lo yoga, ma fuggii imbarazzata dalle lezioni quando m’imposero un canto religioso che mischiava Buddha, divinità indiane e Gesù». Ha un figlio nato l’anno scorso. L’ha battezzato Timothée, «colui che onora Dio», come il martire di Efeso convertito da san Paolo. 

Strano, la sua ricognizione sulle donne dei papi comincia da una tomba.

«Sì, dal Cimitero Teutonico in Vaticano. Lì c’è una modesta stele, con un epitaffio in lettere rosse: “Leben ist Liebe”, la vita è amore. Più in piccolo, un nome, Hermine Speier, le date di nascita e di morte, 1898 e 1989, e una sola altra parola in tedesco: “Archäologin”». 

Archeologa.

«Era donna, era straniera, era ebrea anziché cattolica. Eppure fu la prima assunta in Vaticano. L’onore di seppellirla lì, benché fosse deceduta a Montreux, in Svizzera, ha rari precedenti. Quando Rosa, Maria e Anna Sarto, le tre sorelle nubili vissute con Pio X, gli espressero il desiderio di finire nel Camposanto Teutonico per stare più vicine alle Grotte vaticane dove sarebbe stato inumato, lui rispose in dialetto: “Tose, xe mejo che andè co’ vostra mare”. Infatti furono sepolte a Riese, accanto alla madre. Lo racconta Nello Vian, figlio di un confidente del papa veneto, nel libro Avemaria per un vecchio prete». 

Che ha di speciale la storia di Speier?

«Lavorava all’Istituto archeologico tedesco di Roma. Salito al potere Adolf Hitler, aveva il destino segnato. Il suo superiore, Ludwig Curtius, chiese aiuto all’amico Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei Vaticani. Il quale ne parlò con Pio XI, che da quel momento la protesse. E lo stesso fece il successore, Pio XII». 

L’archeologa seppe sdebitarsi.

«Eccome. Organizzò gli archivi fotografici della Biblioteca Apostolica. E ritrovò nelle cantine la testa di uno dei dodici cavalli che ornavano i frontoni del Partenone di Atene, smarrita da secoli». 

Come fece suor Pascalina Lehnert a guadagnarsi il titolo di «papessa»?

«Eugenio Pacelli, nunzio a Monaco di Baviera, la conobbe nel 1917, quando lei aveva 23 anni. Era altera e avvenente. Ne rimase colpito. 

L’anno dopo la reclutò come sua governante. Lei dimostrò subito di saperci fare, difendendo il futuro papa da due bolscevichi spartachisti che, pistole in pugno, avevano fatto irruzione nella nunziatura. Nel 1920 Pacelli perse la mamma, cui era legatissimo. Trattenuto in Germania, non poté partecipare ai funerali. Cadde in depressione. A tirarlo fuori fu lei, l’infermiera Pascalina». 

Più madre che sorella.

«Promosso nunzio a Berlino, la portò con sé. Con piglio marziale, mise in riga un assistente, un maggiordomo, un cameriere, un cuoco, un autista e due consorelle dedite alle faccende domestiche. Finché la più anziana pose un ultimatum: “Monsignore, o lei o noi!”. Pacelli scelse lei. Nominato segretario di Stato vaticano, la portò con sé in Italia». 

Dove diventò la prima e unica donna in conclave nella storia della Chiesa.

«Quello del 1939, da cui Pacelli uscì con il nome di Pio XII. Per lei l’extra omnes non valse: doveva dare le medicine al cardinale segretario di Stato». 

Caroline Pigozzi, vaticanista di «Paris Match», in un recente articolo ha ipotizzato che fra i due vi fosse del tenero.

«Non ci credo. Così come non credo alla storia della “relazione intima” fra l’arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit, e Laetitia Calmeyn. Sono pettegolezzi. Stiamo parlando di una stimata teologa belga, vergine consacrata. La sua vita non era un segreto per nessuno». 

E allora perché Aupetit si è dimesso?

«C’entra la politica, non la sottana. Si era fatto molti nemici su molteplici dossier, scontentando destra e sinistra con i suoi modi ruvidi, di sicuro non più ruvidi di quelli che a volte dimostra papa Francesco. In molti erano diventati gelosi dell’ascendente che Calmeyn aveva sul presule come sua fedele consigliera».

Ricorda il rapporto fra Karol Wojtyla e la psichiatra polacca Wanda Póltawska.

«Delle cinque donne su cui ho investigato, lei, oggi centenaria, è la più interessante. Una storia di amicizia durata più di 50 anni, la loro. Era nella stanza di Giovanni Paolo II al Policlinico Gemelli dopo l’attentato del 1981. 

Era accanto a lui in Vaticano a controllare ogni farmaco e a prescrivergli rimedi naturali nei 143 giorni della convalescenza, con grande scandalo dei cardinali, furiosi perché un’estranea passeggiava in ciabatte nel Palazzo Apostolico. 

Era certamente al suo capezzale quando il Papa morì, ma il suo nome fu depennato dal comunicato ufficiale della Santa Sede. Nulla di nuovo: la stessa sorte era toccata a suor Pascalina Lehnert e a suor Vincenza Taffarel, governante e infermiera di Giovanni Paolo I. Negli atti sulla morte di papa Luciani si citano solo il segretario don Diego Lorenzi e altre figure maschili».

Wojtyla era il confessore di Póltawska.

«Fu il primo a capire il dramma di questa donna della Resistenza polacca, deportata diciannovenne a Ravensbrück. Per cinque anni i medici nazisti la usarono come cavia in esperimenti pseudoscientifici, fino a procurarle danni permanenti a una gamba. 

La sua scelta di dedicarsi alla psichiatria e alla difesa della vita nasce dagli orrori visti nel lager, che da allora la tormentano: bimbi appena partoriti dalle recluse gettati ancora vivi nei forni crematori. Il 22 novembre 1962 Póltawska era pronta a subire un intervento chirurgico all’intestino per l’asportazione di un cancro. Dalla sera alla mattina il tumore sparì per miracolo. Il suo amico Karol aveva scritto a padre Pio, supplicandolo di salvare quella giovane madre di quattro figli». 

Gli ultimi tre papi, benché stranieri, hanno puntato su donne italiane.

«La più potente era madre Tekla Famiglietti, un’irpina che fu per 37 anni badessa generale delle suore brigidine. La migliore alleata di Giovanni Paolo II in campo diplomatico. Strappò a Fidel Castro il permesso di aprire un convento a L’Avana e rese possibile la storica visita a Cuba del Papa polacco nel 1988. Invece Benedetto XVI affidò il compito di fondare e dirigere Donne Chiesa Mondo, supplemento mensile dell’Osservatore Romano, a Lucetta Scaraffia». 

Detta «la femminista del Vaticano».

«Molto apprezzata anche da Francesco, che ha scritto la prefazione di un suo libro e la chiamava al cellulare». 

Qualcosa fra loro pare essersi rotto.

«Prima Scaraffia ha pubblicato il saggio Dall’ultimo banco, in cui raccontava la sua lunare esperienza di donna convocata al sinodo sulla famiglia e isolata in fondo alla sala. Fino a lì il pontefice argentino l’aveva difesa. Ma poi il Vaticano è insorto per le sue tremende accuse, molto documentate, di abusi compiuti dal clero sulle religiose, spesso costrette ad abortire, e sulle suore ridotte a inservienti senza paga di cardinali e vescovi». 

In Vaticano non regna il Santo Padre?

«No, comanda la curia romana». 

Ora Scaraffia è critica con Bergoglio.

«L’ho incontrata. È molto delusa, direi indignata. Ma continua ad amare il Papa e la Chiesa. Le nostre storie sono molto simili. Lei, ex sessantottina, femminista, comunista, atea, apprendista buddista, tornò alla fede entrando per caso a Santa Maria in Trastevere durante la festa per il ritorno di un’icona restaurata della Madonna e sentendo intonare l’Akathistos bizantino; io in Saint-Nicolas-des-Champs, a Parigi, un mercoledì delle Ceneri, ascoltando la frase di Paolo ai Corinzi: “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza”. Lì ho capito che non erano solo le parole di un libro: era Dio che mi parlava». 

Si arriverà al sacerdozio femminile?

«Non penso. Due millenni di teologia deviata hanno reso la Chiesa misogina». 

Allora come spiega la leggenda della papessa Giovanna fiorita nel IX secolo?

«Proprio con l’angoscia atavica di vedere una donna che sale al trono di Pietro fingendosi uomo e partorisce in pubblico durante una processione dal Vaticano al Laterano. Donde il grottesco rituale del diacono incaricato di confermare, attraverso una sedia forata, la presenza dei testicoli nel pontefice appena eletto: “Duos habet et bene pendentes”. 

I preti si sono posti sul piedistallo. Invece restano peccatori, come tutti. Vedono la donna come Eva la tentatrice, anziché come Maria Maddalena, la prima testimone della resurrezione di Cristo».

·        I Preti e le Suore.

Giulia Villoresi per “il Venerdì di Repubblica” il 28 novembre 2022.

Nel 2010 ebbe un certo successo negli Stati Uniti il libro di un accademico, Craig A. Monson, fino a quel momento noto solo agli studiosi di musicologia. Non parlava di polifonie barocche, ma di monache finite davanti all'Inquisizione, cioè di Suore che si comportano male, ora tradotto in Italia dal Saggiatore. In che modo un musicologo diventi un esperto di monache dell'Italia barocca è materia non secondaria di questo strano libro. Che non inizia neppure dalle monache, ma da un ritratto antropologico dell'Archivio segreto vaticano (e del suo bar) alla fine degli anni Ottanta, cioè quando Monson vi è approdato per la prima volta. 

In questo «grande impasto caotico», i novellini vagano a tentoni, i frati puzzano, le giovani ricercatrici stanno sul chi vive, gli americani adorano prendere caffè con un erudito romano noto come "il conte" e la lobby dei veterani tace sui veri segreti dell'Archivio, per esempio che la sala lettura non chiude affatto per pranzo come dice il cartello: ma questo il vero ricercatore deve scoprirlo da sé.

Monson potrà fregiarsi di questo titolo. A portarlo all'Archivio vaticano, in quel lontano 1989, era l'interesse per un certo tipo di canto corale: quello fiorito nei conventi femminili a partire dal Cinquecento. L'argomento non è privo di fascino. Se il coro è stato per secoli appannaggio degli uomini, a partire dal XVI secolo cominciano a cantare anche le monache. I vescovi si arrabbiano. Proibiscono. Ma le monache fanno orecchie da mercante. 

Pretendono permessi speciali e persino maestri di musica. Suonano. Compongono. E non solo musica sacra, ma canzoni e madrigali. Per non violare la clausura si esibiscono alle grate dei parlatori. Spesso, quando cantano nella loro cappella, attorno al convento si creano assembramenti da concerto rock. Le voci femminili offrono una sonorità nuova, una musica più seducente. 

Al punto che i cori conventuali diventano una delle massime attrazioni delle città italiane. Non sembra un caso che questo fenomeno coincida con l'epidemia delle monacazioni forzate, cioè quando le famiglie italiane cominciano a ricorrere al convento per liberarsi delle femmine in eccesso (una dote matrimoniale costa molto di più di una dote monastica). Per molte ragazze (e bambine) i conventi diventano centri di detenzione a vita. E la musica un potente mezzo di evasione.

A cui si associa, puntuale, una nuova fattispecie di reato: comportamenti inadeguati in ambito musicale. È seguendone il filo che Monson si è imbattuto nelle storie da cui nasce questo libro. Non tutte parlano di musica. Tutte raccontano una specifica reazione alla vita claustrale. Caterina Bavona, educanda al convento della Santissima Annunziata a Lecce, nel 1646 chiede al vescovo locale di poter ballare la tarantella come cura alla malattia «della tarantola», e propone anche di ingaggiare dei musicisti per «due giorni» di balli di gruppo, visto che altre consorelle soffrono dello stesso male. 

Giovanna Vittoria Ottoni e Maria Francesca Cavalupi, quando le altre suore dormono, imbandiscono banchetti nel parlatorio del convento e poi - travestite da uomo - fanno degli spettacolini per i loro ammiratori. Le monache di Santa Chiara in Acquapendente, nel Lazio, si lamentano con i superiori dello smisurato affetto che la loro badessa nutre per una certa cagnolina; la questione è degenerata, dicono, da quando in convento è arrivato anche un cagnolino maschio «di cui sarebbe troppo lungo raccontare gli scandali». Se gli animali, specie maschi, sono vietati nei monasteri da tempo immemore, ora vengono banditi anche gli strumenti. Pare che il convento di San Lorenzo a Bologna ne avesse un arsenale: liuti, viole, violini, contrabbassi, arpe e strumenti a fiato.

Nel 1583 il padre generale dei Canonici Lateranensi ordina che vengano requisiti, proibisce la musica, pena la scomunica, e raccomanda discrezione su una certa «faccenda della viola». Su questa faccenda, nei mesi successivi, l'Inquisizione avrebbe interrogato più di cento monache. Nel convento era scomparsa una viola. Per ritrovarla, le suore si erano viste costrette a rivolgersi al diavolo. 

E, già che c'erano, gli avevano chiesto dei favori extra, come ottenere l'amore di certi uomini che frequentavano il parlatorio, o imparare l'arte di cantare e suonare. Nulla, tuttavia, di fronte all'audacia di Cristina Cavazza. All'alba del 27 giugno 1708 la madre portinara di Santa Cristina della Fondazza a Bologna trovò la catena del convento aperta. Si pensò a dei ladri. Qualche notte dopo, però, la sconcertante verità venne a galla.

Una monaca professa, suor Cristina, nota per le sue potenzialità da cantante solista, aveva preso l'abitudine di sgattaiolare fuori dal convento di notte, travestita da abate, per recarsi all'opera. Parliamo di una donna che, entrata in convento bambina, metteva il piede fuori per la prima volta dopo quindici anni di clausura, e lo faceva da sola, di notte, travestita da uomo. Un complice la attendeva al teatro Malvezzi: don Antonio Giacomelli, sacerdote del vicino paese di Piancaldolo. È degno di interesse che i due, probabilmente, non avessero neppure una relazione carnale. 

Se è vero, siamo davanti a un secondo livello di ribellione: libertà delle relazioni umane in spregio alle rigide aspettative del mondo. Il processo a Cristina Cavazza si svolse in segreto perché la vicenda rompeva troppi schemi. La Curia temeva meno gli scandali sessuali di una così smisurata fantasia. E a proposito di fantasia, meritano una menzione le domenicane di San Niccolò di Strozzi, a Reggio Calabria.

Non erano una comunità come le altre, ma un'intera famiglia di aristocratiche, quasi tutte sorelle e cugine, che per volontà testamentaria del capofamiglia nel 1644 erano state destinate al velo. Quel gregge di bambine, venticinque anni più tardi, avrebbe dato fuoco al convento per non vederne più le mura. Un crimine «non ancora succeduto in altra parte della Cristianità».

Cristina Scuccia: «Sono andata in Spagna perché non volevo che mi riconoscessero: in discoteca mi facevo scortare». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022

Lasciate le Orsoline dopo 15 anni, oggi vive in Spagna dove va anche a ballare con i colleghi. "Ho trovato nuovi amici attraverso i quali forse ho capito che non stavo facendo niente di male. Non si può scappare dal proprio passato" ha detto a Sorrisi

«Non pongo limiti alla provvidenza, di sicuro non nascondo che mi piacerebbe tornare a cantare, quindi vediamo. Chi lo sa»: sono queste le parole, rilasciate a Tv Sorrisi e Canzoni da Cristina Scuccia, che nel 2014 ha vinto "The Voice" come Suor Cristina, dopo che si era confessata al Corriere. Dopo 15 anni, complice un’inquietudine di fondo, ha lasciato la congregazione delle Orsoline e ora la sua vita è cambiata. E vive fuori dall’Italia: «Sono andata in Spagna perché volevo vivere quest’anno lontano da chi poteva riconoscermi, non volevo giustificarmi. Chiaramente in questo periodo ho messo in pausa la musica a certi livelli, ma l’ho vissuta con più intimità. Ho "abbracciato" la chitarra, altra compagna di viaggio, ho scritto tantissimo, tirato fuori cose mie personali...».

Sempre a Sorrisi, Cristina ha raccontato la sua nuova vita con i colleghi spagnoli: "La prima volta che siamo andati a ballare c’era sempre qualcuno che controllava dove fossi perché sapevano il mio disagio in un ambiente nuovo. Ho trovato nuovi amici attraverso i quali forse ho capito che non stavo facendo niente di male. Sono come tutti loro e vado avanti. Non si può scappare dal proprio passato, che comunque mi ha reso quella che sono oggi. Ho scoperto il valore dell’amicizia, in questi anni mi ero un po’ chiusa in me stessa. E dunque rifarei tutto. Dalla vita consacrata a oggi».

Andrea Fagioli per “Avvenire” il 22 novembre 2022.

Suor Cristina non è più suora. Ha lasciato la vita consacrata. Adesso è solo Cristina Scuccia. Vive in Spagna e fa la cameriera. Lo ha rivelato lei stessa a Verissimo, il talk show di Canale 5 condotto da Silvia Toffanin. Era diventata famosa come cantante dopo aver vinto The voice of Italy nel 2014 e aver partecipato anche a Ballando con le stelle nel 2019, sempre rigorosamente vestita con l'abito sacro delle Orsoline, che aveva scelto di indossare a 19 anni, nel 2008, dopo aver interpretato in un musical la figura di Rosa Roccuzzo, la fondatrice della Congregazione. 

Per cui vederla sbucare domenica pomeriggio da dietro le quinte dello studio di Verissimo, vestita con un tailleur pantalone rosso acceso, tacchi a spillo, capelli lunghi sciolti, trucco accentuato, grandi orecchini e piercing al naso, ha suscitato un moto di sorpresa, non sembrava lei.

A quel punto il colpo televisivo era fatto. Scattava l'allerta nelle agenzie di stampa e nelle redazioni internet, mentre sui social si scatenavano agnelli e leoni da tastiera. La Toffanin, soddisfatta dello scoop, lasciava di fatto il microfono all'ospite limitandosi a poche considerazioni e non sempre appropriate.

La Scuccia raccontava così la sua scelta, motivata soprattutto da un bisogno di libertà. In qualche modo si sentiva limitata persino dall'«eccesso di protezione» delle consorelle, dalle quali ieri non è stato possibile avere un commento, sia dalla Casa madre di Siracusa che dalle orsoline della Sacra Famiglia a Milano dove Cristina ha chiuso la sua esperienza di consacrata dopo «un percorso complesso e difficile», senza rinnegare i quindici anni passati in convento («I più belli della mia vita»), senza perdere la fede («Credo ancora di più nella vita e in Dio, perché Dio è vita»), rimanendo comunque attaccata alla sua passione per la musica.

Un racconto che farà discutere anche i nostri lettori, che già si erano schierati su fronti opposti ai tempi di Ballando con le stelle e ora saranno perplessi per la scelta della ex suora di ripresentarsi in questo modo in tv, di andare a Verissimo, e di tentare di rilanciarsi così come personaggio dello spettacolo (cosa non facile senza quel velo che la rendeva così particolare) raccontando una scelta di vita sulla quale avrà giocato un ruolo non indifferente l'euforia del successo. Lei lo nega e ribatte: «Il successo non è stato facile, ma non ha messo in crisi la vocazione.

C'è stato piuttosto un cambiamento interiore davanti alla responsabilità enorme di essere una testimone di Dio. È questo che mi ha fatto fare i conti con me stessa». Determinante dice sia stato lo stop dovuto al Covid e la dolorosa scomparsa di suo padre: «Ho chiesto l'aiuto di una psicologa, perché non riuscivo a capire chi fossi, ma Dio non l'ho mai messo in discussione». 

Resta però innegabile che le luci della ribalta quando addirittura si accendono a livello mondiale, come nel suo caso (cento milioni di visualizzazioni sui social per la sua interpretazione di No one di Alicia Keys), possano mettere in difficoltà chiunque, figuriamoci chi deve fare i conti con una vita impostata sui ritmi comunitari e sulle rinunce.

Suor Cristina, addio alla tonaca: «Continuo con la musica». Storia di Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2022.

«Si faceva chiamare , oggi è semplicemente ». Così ha annunciato ieri a l’ospite specialissima del suo , Cristina Scuccia, 34 anni, , invitata a raccontare la sua scelta diper seguire il cuore. Cristina ha fatto il suo in studio in tailleur pantalone rosso, i lunghi capelli neri sciolti, un sorriso luminoso che ispira immediata simpatia. Un’immagine lontana da quella che l’aveva fatta conoscere al . «Suor Cristina è dentro di me — chiarisce subito a Toffanin —, se oggi sono quella che sono è anche grazie a lei. Ho fatto un , anche se difficile, complesso. Ma oggi ho il sorriso. Non ho perso la fede».

I quindici anni di sono stati, prosegue, «i della mia vita, un’ che mi ha fatto crescere tantissimo». Il cammino per prendere i voti, racconta, passa inizialmente attraverso al musical che le stanno organizzando per celebrare la nascita della fondatrice della congregazione, (1882-1956), che lei è chiamata a interpretare. Il 2 febbraio 2008 sale per la sul palco, e avverte «che qualcosa in me». La «chiamata» avviene il : «Ricordo le date perché è come , o il ». Segue il «periodo di , un tempo che la Chiesa accorda a chi intende prendere i voti per meditare sulla rinuncia a tutto per ».

Durante i due anni di , «dove vedere sul palco religiose e religiosi che cantano è , quando si incontra Dio si ha voglia di cantare, ballare, lodare», Cristina decide, in accordo con le consorelle, di partecipare a . È un trionfo. Le sue canzoni fanno il giro del mondo, la sua colpisce il pubblico internazionale: Suor Cristina conquista i palcoscenici, le prime pagine e perfino l’. Le consorelle cercano di dall’incredibile esposizione mediatica che la vittoria le ha portato. Ma lo sotto cui le suore cercano di ripararla comincia a . Nel frattempo, il suo babbo si ammala e la mamma gli sta accanto in . La giovane comincia a sperimentare una libertà a cui non è più abituata.

«Mi sono rivolta a una psicologa — rivela a Toffanin —, quando vedi solo il buio ti serve qualcuno a cui chiedere aiuto. Non riuscivo più a capire chi fossi. Non ho mai messo Dio in discussione, ma la mia crescita non riusciva più a stare dentro le regole. Poi è morto mio papà, ho deciso di prendere un anno sabbatico, un anno di silenzio, di viaggiare». I suoi genitori ne hanno sempre appoggiato le scelte. «Se oggi sorrido è anche grazie a loro, ho seguito il mio cuore cercando di non restare intrappolata nei giudizi altrui». Oggi Cristina fa la cameriera in Spagna e, dice, «vivo col sorriso». E l’amore, le domanda Toffanin? «Non è una priorità ora. Se poi dovesse arrivare, non lo allontanerei. Credo nell’amore, sono innamorata della vita e di me stessa. Bisogna curarsi e amarsi per riuscire ad amare gli altri»

Verissimo, "non sono più Suor Cristina". La metamorfosi lascia tutti di stucco. Il Tempo il 20 novembre 2022

Non è più Suor Cristina: l’ex star di The Voice oggi è semplicemente Cristina Scuccia. La cantante siciliana vincitrice nel 2014 del talenta ha infatti abbandonato l'abito religioso e ha iniziato una nuova vita. Lo ha raccontato nel corso della puntata di domenica 20 novembre idi Verissimo, il programma condotto da Silvia Toffanin su Canale 5.  “La mia è stata una scelta coraggiosa. Ho scelto di seguire il mio cuore senza pensare a ciò che le persone avrebbero detto di me. Ho fatto un salto nel vuoto ed ero preoccupata di finire sotto un ponte, lo ripetevo sempre alla mia psicologa" ha detto l'ex religiosa.

Ma cosa fa adesso Cristtina Scuccia? "Oggi vivo in Spagna e faccio la cameriera”, racconta a Toffanin spiegando come "il successo non abbia messo in crisi la vocazione ma abbia piuttosto favorito un percorso di crescita". L'addio alla vita religiosa e la morte del padre, durante la pandemia, hanno caratterizzato gli ultimi anni della sua vita. Nell'intervista viene toccato anche l'argomento della vita sentimentale della donna, ora che non ha più i vincoli legati ai voti religiosi. “Credo sempre nell’amore, non è una cosa che stiamo considerando adesso, non è la mia priorità al momento. Bisogna curarsi, amarsi, prima di riuscire ad amare gli altri", ha detto. 

"Mia mamma ha seguito tutto il percorso, non mi vedeva stare bene, non ho fatto i conti solo con la congregazione, la famiglia, ho chiesto aiuto, non riuscivo più a capire chi fossi. Dio non l’ho mai messo in discussione. Il mio cambiamento evolutivo non era più nel mio abito" ha detto riguardo la decisione di non essere più una suora. L'intervista a Verissimo ha sorpreso tantissimi telespettatori che si sono trovati davanti una nuova Cristina Scuccia, anche nell'aspetto. Truccata con i capelli sciolti e un tailleur giacca-pantalone rosso fiammante, ha attirato tantissimi complimenti sui social. 

Cristina Scuccia: «Un figlio? Un senso di maternità c’è, se un giorno arriverà perché no. Ma step by step». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2022.

La ex Suor Cristina è tornata ospite a «Verissimo» e ha raccontato la sua ultima settimana: «Come se mi fossi tolta un peso di dosso»

È tornata a «Verissimo» una settimana dopo aver raccontato di aver abbandonato gli abiti religiosi, di non essere più Suor Cristina, ma semplicemente Cristina Scuccia . La 34enne vincitrice di «The Voice of Italy» nel 2014 si è detta «piacevolmente sorpresa dall’affetto» di cui è stata circondata negli ultimi giorni: «Temevo di deludere tutte le persone che avevano creduto in me, invece tanti mi hanno augurato “buona vita”, una cosa bellissima».

Scuccia, che oggi fa la cameriera in Spagna, ha detto a Silvia Toffanin di essersi sentita libera dopo aver raccontato pubblicamente il suo cambio di vita: «È come se mi fossi tolta un peso di dosso, temevo di dover dare spiegazioni, ma mi sono sentita accolta e anche protetta». Una volta tolto il velo, sono arrivate tante cose nuove: «Affittare una casa, vedere se riuscivo ad arrivare a fine mese, era tutto un mettermi alla prova — ha raccontato —. Ho degli amici con cui sono andata a bere per la prima volta, a ballare tutti insieme... Anche il piercing al naso, fatto qualche mese fa, fa parte di quelle prime volte. Mi ha aiutato a esprimere la mia determinazione ed è un segno di questo momento delicatissimo di cambiamento».

La sua trasformazione ha rivelato una donna bellissima, ha osservato Toffanin: «Io ho un’autostima bassissima, non mi sento bella — ha replicato lei —, ma il mio viso è molto rilassato adesso. Si vede una bellezza che viene da dentro». Scuccia ha aggiunto che oggi vive «ogni attimo senza la paura del mio passato». Incalzata dalla conduttrice sul sogno di un fidanzato o dei figli, ha detto di non essere ancora pronta: «Un senso di maternità c’è, semmai un giorno arriverà, perché no, ma step by step, ancora devo adattarmi». I pretendenti, però, non mancano: «Ci sono delle persone che ci provano in qualche modo, ma io non mi sento ancora al cento per cento pronta, forse perché non è arrivato l’amore, chissà».

Cristina Scuccia, l’ex suora: «Non riuscivo più a capire chi fossi, Papa Francesco capirebbe. La prima cosa senza la tonaca? Una corsa in bicicletta». Pasquale Elia su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2022

L’ex suora, vincitrice di «The Voice of Italy» nel 2014, si racconta: «Non ho sensi di colpa per aver lasciato la tonaca, voglio tornare a cantare»

Mai provato sensi di colpa per la scelta fatta, ma la paura di deludere sì. E anche tanto. «Ho sempre avvertito una grande responsabilità nell’indossare l’abito monacale e quando ho capito che avrei lasciato per sempre quella tonaca ho temuto che qualcuno sarebbe rimasto deluso dalla mia decisione», ragiona con serenità Cristina Scuccia, 34 anni , l’ex suora che però ex non lo sarà mai. Perché, sottolinea con sicurezza, «la mia fede non è crollata e continuerò a diffondere il messaggio evangelico anche senza il velo».

Oggi, della «sorella» pop che sbalordì milioni di persone con la sua cover di «No One» di Alicia Keys, resta intatta quella grinta che tirò fuori quando nel 2014 si presentò sul palco di «The Voice of Italy » lasciando dietro di sé tutti gli altri concorrenti di parecchie lunghezze. Poi arrivarono gli impegni per i musical «Sister Act» e «Titanic», per il programma tv «Ballando con le stelle» e per la registrazione di due album.

Insomma, un ottovolante di emozioni sul quale era difficile restare in equilibrio. E allora le sicurezze di una tranquilla esistenza condotta tra le mura dell’Istituto religioso delle suore Orsoline della Sacra Famiglia sono iniziate a vacillare: «Non riuscivo più a capire chi fossi. Non ho mai messo Dio in discussione, ma la mia crescita non riusciva più a stare dentro le regole. Poi è morto il mio papà ho deciso di prendere un anno sabbatico, un anno di silenzio».

Ma di queste sue inquietudini, le consorelle se ne erano accorte?

«Certo, è con loro che ho iniziato a esternare il mio malessere. E a quel punto ho sentito la necessità di consultare una psicologa per risolvere i miei tormenti interiori».

La madre generale delle Orsoline, Carmela Distefano, ha detto che comprende e rispetta la sua decisione e le augura «tutto il bene possibile per il suo cammino»…

«Quella congregazione resterà per sempre la mia famiglia religiosa. Con tutte le suore dell’Istituto non è mai mancato il dialogo e anche adesso so che posso contare su di loro».

Però nel mondo cattolico non sempre ha trovato comprensione e solidarietà: in passato è stata criticata dai vescovi italiani per aver inserito la cover di «Like a Virgin» nel suo album d’esordio «Sister Cristina».

«Mi piacerebbe incontrarli personalmente, condividere con loro questo cammino che è stato molto difficile, un travaglio continuo alla ricerca di me stessa. È facile giudicare quando non si conosce bene una persona. E invece avrei preferito che mi avessero chiamato dicendomi: ma che stai facendo, vieni qua, parliamone. Io sono tranquilla, non sto facendo nulla di male. E comunque dovrebbero sentire cosa mi ha confidato Billy Steinberg, uno degli autori di quel brano».

Cioè?

«Che grazie alla mia interpretazione, quella canzone ha riacquistato il suo significato originale. Steinberg mi ha confessato che per il testo si era ispirato al vissuto della moglie, una donna molto cattolica. Poi il pezzo finì nelle mani di Madonna e fu stravolto diventando un brano ambiguo e provocatorio».

Ai tempi di «The Voice» ci fu un alto prelato che a differenza dei vescovi non esitò a manifestare via Twitter la sua gioia per il successo che stava ottenendo in tv.

«Sì, era il cardinale Ravasi, che incontrai in seguito. Tra le cose che mi disse, ce n’è una che mi colpì particolarmente: ricordati che la tua missione di suora puoi esercitarla in ogni modo. Ecco, quelle parole rafforzarono ancor di più la mia convinzione sul canto che allora, come adesso, io percepisco come una lode al Signore».

Ma secondo lei, cosa direbbe Papa Francesco della sua scelta di togliersi il velo?

«Credo che capirebbe perché vuole attorno a sé pastori che puzzano di pecore, non di muffa. Lui è il pontefice che preferisce perdere per strada un sacerdote, una suora appunto, purché seguano la loro autenticità. Con Sua Santità ho già scambiato qualche parola quando gli regalai il disco, ma adesso mi piacerebbe tanto parlare con lui del mio percorso».

Nell’opera lirica «I dialoghi delle Carmelitane» di Poulenc, c’è la priora che dice ad una giovane che desidera entrare in convento: «Quello che Dio vuole non è provare la tua forza, ma la tua debolezza». Nel decidere di abbandonare la tonaca, si è sentita più forte o più debole?

«Ho attraversato tutta la mia fragilità per trasformarla in forza. Grazie anche ad una professionista che è stata capace di tirarmi fuori cose che ancora non riuscivo a vedere. Perché paradossalmente, quando nel 2014 il mio nome iniziò a d essere conosciuto nel mondo, io feci il processo inverso: mi chiusi per evitare di farmi travolgere da un successo inimmaginabile».

Da persona «civile», qual è stata la prima cosa che ha fatto in totale libertà?

«Ho preso una bicicletta ed ho pedalato per ore ed ore sul lungomare della mia città in Sicilia. È lì che ho provato la strana sensazione di respirare la vita a pieni polmoni. E poi con i miei colleghi di lavoro sono anche andata a ballare».

C’è qualcosa che le manca delle giornate in convento?

«Tante cose: i bambini della scuola, le maestre e ovviamente Suor Agata. Lei mi è sempre stata vicina, era con me anche nel backstage del talent: prima di entrare in studio mi faceva il segno della croce sulla fronte».

Scegliere un vestito, truccarsi, andare dal parrucchiere: quanto tempo è stato necessario per riuscire a sentire questi gesti come totalmente naturali?

«Direi un bel po’, anche perché all’inizio andare in giro senza il velo è stato piuttosto strano. Le prime volte però non me la sono sentita di passeggiare da sola: mi sono fatta “scortare” dalle studentesse universitarie ospiti del convento di Milano, alle quali peraltro avevo già affidato i miei dubbi esistenziali. E loro mi sono state vicinissime prestandomi anche dei vestiti “normali” che ovviamente non avevo. Ma dopo 15 anni di vita consacrata, l’abito monacale l’ho tolto piano piano, a tappe, non in un colpo solo».

C’è stato chi le ha sconsigliato di compiere questo passo?

«In qualche modo mia madre. Ma non in maniera diretta, perché più che altro lei era terrorizzata dal giudizio degli altri. Ma io ormai ero pronta ad affrontare tutte le difficoltà del caso. Mi ero già posta troppi perché che ti fanno perdere l’attimo».

È contraria o favorevole ai matrimoni gay?

«Chi sono io per giudicare... Dio predica solo l’amore e se due persone si vogliono bene cosa c’è di male?».

Pensa che sarebbe utile eliminare il voto di castità per avvicinare più giovani alla vita ecclesiastica?

«Dipende da come si vive questa “promessa” perché non si può limitarla ad una semplicistica formula “niente sesso”. È una questione molto più ampia. Si può essere puri nei pensieri, nelle intenzioni. Credo che se si sceglie una vita in convento non è la prima mancanza che si avverte. Però durante la formazione la fragilità umana va affrontata eliminando qualsiasi tabù. Mi è successo di vedere sorelle che cambiavano canale se in tv c’era un film con la scena di un bacio: non sono assolutamente d’accordo perché le suore consacrate sentono pure qualcosa, ma la bellezza sta nel donare agli altri ciò che si avverte a livello emozionale».

Quando era suora, a quale forte tentazione si è dovuta sottrarre?

«Come segno zodiacale sono un Leone, ho un carattere forte, e a parte qualche peccato di gola (ride), non ricordo di aver mai avuto un problema con le tentazioni. Piuttosto ho dovuto fare i conti con la mia voglia di osare, che a volte andava in contrasto con la mentalità un po’ conservatrice di qualche consorella. Senza voler dare giudizi di valore, io credo però nella Chiesa che deve stare in mezzo alla gente, che deve sporcarsi le mani».

Lei ora lavora come cameriera in Spagna, ma il suo desiderio è quello di tornare a cantare: ha già qualche canzone pronta per un eventuale nuovo album?

«Durante tutto questo periodo ho scritto tanto mettendo tutto nero su bianco. Sto iniziando a lavorare ad un progetto discografico e non mi dispiacerebbe se questa mia recente esperienza finisse in qualche brano».

Cristina Scuccia, nel suo futuro c’è il desiderio di diventare madre?

«Una donna è madre in tanti modi, non necessariamente partorendo il proprio figlio. Tendenzialmente tutte le donne sentono la voglia di portare in grembo un bambino, e anche nella vita consacrata io mi sentivo predisposta alla maternità. Ma adesso, pensare di avere un piccino tutto mio, un po’ mi disorienta. Vediamo il Signore cosa vuole da me».

Suor Cristina e gli altri veli: storie di nozze e divorzi in tv. Beatrice Dondi su L’Espresso il 28 Novembre 2022

Altro che incentivo ai matrimoni in Chiesa: ci si scambiano più fedi davanti alle telecamere che all’altare. E a volte ci si lascia

Se il senatore leghista Furgiuele avesse dato un’occhiata a quanto passa il convento, più che proporre il bonus per i matrimoni in chiesa avrebbe potuto dirottare il suo “incentivo wedding” sui programmi dedicati alle nozze, risparmiandosi probabilmente le critiche piovute da manca e persino da destra. Perché in un Paese ormai specchio della tv ci si sposa più nel piccolo schermo che davanti all’altare.

Matrimoni talmente laici ai limiti dell'irriverenza, dove non solo ti conosci a pochi secondi dalla fede al dito ma addirittura, ed è il caso di quest'ultima edizione di “Matrimonio a prima vista”, a tenere in piedi il gioco non ci provi nemmeno.

Così in un capolavoro di quadrature del cerchio una delle tre coppie, dopo una manciata di puntate, ha mostrato una tale insofferenza reciproca da mollare la presa e salutare la produzione con tanto di pubblica sgridata, intercettazione di una richiesta di accordo e cacciata dal programma in grande stile. Insomma, una disfatta plateale dei cosiddetti esperti al punto che il programma in onda ora su Real Time meriterebbe di essere ribattezzato divorzio al primo sguardo.

Senza contare poi che si è appena concluso “Quattro matrimoni,” in cui le spose in barba al romanticismo duellano con le colleghe per portarsi a casa il viaggio premio sotto lo sguardo critico del conduttore costretto per contratto a fare le pulci alle torte multipiano.

Intanto mentre i contadini cercavano mogli e le suocere sceglievano gli abiti bianchi, si è arrivati all’ardire di proporre una seconda stagione dell'insostenibile “Chi vuole sposare mia mamma”, quel progettino capitanato da Caterina Balivo che in uno slancio di modernità ha aggiunto in corsa anche i padri in cerca di compagnia, con la complicità di altrettanto insostenibili figli.

Sino a che nel Paese delle nozze infrante da telecomando, che ha cavalcato neanche fosse un Palio il naufragio Totti-Blasi, persino Suor Cristina ha divorziato, niente meno che da Gesù. Dopo quindici anni di amore altissimo, intervallato dai microfoni di “The Voice” e dai ritmi di “Ballando con le stelle”, la vita con le Orsoline aveva fatto il suo tempo. E rigorosamente in uno studio, l’ex religiosa ha dichiarato di aver gettato il velo alle ortiche, pronta a ricominciare una nuova vita, possibilmente in diretta. Perché no, le nozze religiose non pagano. E sì, se il senatore leghista avesse guardato la tv se ne sarebbe accorto subito.

Suor Cristina Scuccia vinse The Voice, oggi lascia la vita consacrata. Andrea Pascoli su La Repubblica il 20 Novembre 2022.

Aveva partecipato anche a Ballando con le stelle, oggi è Cristina Scuccia. L'annuncio durante Verissimo

Suor Cristina, la vincitrice di The Voice Of Italy 2014, ha deciso di intraprendere un nuovo percorso di vita, lasciando la vita consacrata e continuando a pensare alla musica. Ora è Cristina Scuccia. "Se mi volto indietro guardo il mio percorso con un profondo senso di gratitudine - afferma Cristina Scuccia - Il cambiamento è un segno di evoluzione ma fa sempre paura perché è più facile ancorarsi alle proprie certezze piuttosto che rimettersi in discussione. Esiste un giusto o sbagliato? Credo che con coraggio si debba soltanto ascoltare il proprio cuore".

La suora con la voce più famosa d'Italia ha raccontato, per la prima volta, in studio a Verissimo, programma in onda domenica pomeriggio su Canale 5 condotto da Silvia Toffanin, che non intende abbandonare il suo cammino di fede e che è grata per tutto ciò che ha vissuto fino ad ora. 

Il successo

Balzata agli onori della cronaca dopo la sua partecipazione e vittoria a The Voice of Italy nel 2013, Suor Cristina Scuccia era diventata una celebrità della scena discografica italiana, duettando con i big della musica internazionale, incidendo due album e partecipando a svariate trasmissioni televisive. Dopo anni di grandi successi, però, un periodo lontana dalle scene, e le ultime notizie su Cristina risalivano a poco prima della pandemia con la sua partecipazione a Ballando con le stelle nel 2019. Nello stesso anno la notizia di aver preso i voti perpetui, l'entrata in modo definitivo nell'ordine religioso delle Suore orsoline della Sacra Famiglia.

Cristina Scuccia nello studio di Verissimo Oggi le cose sono cambiate e, ospite nella puntata di domenica 20 novembre di Verissimo, il talk di Canale 5 condotto da Silvia Toffanin, Cristina è tornata per la prima volta sotto i riflettori con una veste nuova o, meglio, senza veste. In una lunga intervista faccia a faccia con la conduttrice la donna, oggi trentaquattrenne, ha infatti rivelato di aver definitivamente abbandonato i voti: "Sono stati quasi quindici anni di vita religiosa, credo gli anni più belli della mia vita, perché comunque è un'esperienza di vita importante e intensa che mi ha fatto crescere tantissimo, e credo che ciò che sia successo non è niente di particolare, non c'è stato qualcosa in particolare ma è stato un cambiamento mio, una crescita".

La religione

Un percorso, quello all'interno del mondo religioso, iniziato da giovanissima: "Ho fatto la scelta della vita consacrata che avevo diciannove anni, quando ho incontrato le suore orsoline interpretando il ruolo di Suor Rosa, la fondatrice della congregazione, nel musical organizzato in occasione del loro centenario. Mia mamma seppe di questa possibilità e, per la voglia di riavvicinarmi alla Chiesa, mi propose questa cosa. In un primo momento le dissi no, non volevo avere a che fare con suore e preti, con nessuna figura ecclesiastica, poi in un secondo momento ho pensato che, non facendo niente in quel momento, poteva essere un'opportunità per cantare e imparare cose nuove. Quando presentammo per la prima volta il musical nel 2008 in me si accese qualcosa, guardavo le suore e ho sentito che qualcosa in me stava cambiando. Poi è arrivata la chiamata".

Cristina Scuccia con Silvia Toffanin nelo studio di Verissimo Nel 2013 la decisione, presa di comune accordo con le altre sorelle, di partecipare al talent di Rai 2, dove venne scelta da J-Ax nella sua squadra per poi aggiudicarsi la vittoria. Da lì poi televisione e successo: "Non ho mai visto il conflitto tra queste due realtà, perché ho fatto il noviziato in Brasile e lì vedere suore, sacerdoti, religiosi che cantano sul palco è molto naturale, anche perché quando incontri Dio hai voglia di ballare, cantare, lodare, ringraziarlo. Il Brasile ha un po' purificato quella mia passione, è diventato quel dono da donare. Ci credo ancora oggi nel potere della musica per trasferire messaggi importanti come questo".

Due mondi opposti che, nonostante i tentativi per conciliarli, l'hanno più volte messa in difficoltà: "Le suore hanno provato a proteggermi, però probabilmente l'eccesso di protezione per me iniziava a trasformarsi in una limitazione nei confronti di quell'idea che avevo io della vita religiosa. Il successo non è stato facile, ma non ha messo in crisi la vocazione. A farlo è stato un cambiamento mio interiore, come se tutta questa esposizione al successo mi avesse posta davanti alla responsabilità enorme di essere esposta in tutto il mondo come una testimone di Dio. Questo mi ha fatto fare i conti con me stessa e fare un passaggio alla vita adulta. Per me The Voice ha aperto la strada a un mio cambiamento di crescita".

La decisione maturata durante il Covid

Da qui la decisione di abbandonare il velo, presa proprio durante la pandemia: "Il Covid mi ha fermata, è stato quel momento in cui adesso ti fermi, ti guardi allo specchio e ti dici se stai bene oppure no. Questa paura di deludere mi lasciava intrappolata, nei confronti delle suore, di mia madre, dei miei genitori. Non è stato semplice, anche perché non ho fatto solo i conti con la congregazione e la mia famiglia, ma anche con il mondo intero in qualche modo. Ho avuto l'aiuto di una psicologa, ho avuto soprattutto il coraggio di chiedere aiuto, perché secondo me una cosa fondamentale quando vedi solo il buio è chiedere aiuto".

E ancora: "Non riuscivo più a capire chi fossi. Dio non l'ho comunque mai meso in discussione, non l'ho mai rinnegato. Non ero più felice, probabilmente il mio cambiamento evolutivo non riusciva più a stare all'interno del mio abito, all'interno magari anche di regole. Non sono uscita in modo netto, ho chiesto un anno sabbatico e, quando mio padre era ricoverato in ospedale poco prima di morire sono tornata a casa e mi sono trovata sola: la solitudine, banalmente il farmi da mangiare a un orario diverso o il poter mangiare in pigiama mi ha ridonato qualcosa che non capivo cosa fosse, mi ha chiarificato che avevo bisogno di stare da sola con me stessa, capirmi, prendermi un anno di silenzio, viaggiare. Al funerale di mio padre però ho indossato l'abito, proprio per tutelarmi e non espormi al giudizio delle persone, però non mi sentivo coerente, avevo preso una decisione".

Cristina è insomma oggi una donna nuova, che non rinnega il suo passato ma che è pronta ad andare avanti con la sua vita: "Ho cambiato l'abito ma l'essenza è sempre quella. Oggi vivo in Spagna e faccio la cameriera, vivo con il sorriso. L'amore? Dopo Gesù ci credo sempre".

"Cambiamento interiore". Suor Cristina lascia il convento: la rivelazione choc. L'ex vincitrice di The Voice of Italy ha lasciato la vita religiosa. "Ho seguito il mio cuore, a un certo punto non stavo più bene". Oggi vive in Spagna e fa la cameriera. Marco Leardi il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Ho seguito il mio cuore". Così suor Cristina Scuccia ha lasciato la vita consacrata e il convento. Per sempre. La vincitrice di The Voice of Italy 2014 non è più una religiosa: a rivelarlo è stata lei stessa durante l'ultima puntata di Verissimo. Nel programma Mediaset condotto da Silvia Toffanin, la 34enne di origini siciliane si è presentata in abiti civili e senza il velo scuro che un tempo le copriva il capo. Un'immagine del tutto inedita, che ha suscitato stupore nel pubblico e agitato all'istante i commentatori social. Ora la giovane ha intrapreso un nuovo percorso e si è trasferita in Spagna, dove lavora come cameriera.

Cristina Scuccia, perché non è più suora

Con un tailleurino rosso e dei tacchi argentati ai piedi, Cristina Scuccia ha fatto il suo ingresso negli studi del programma di Canale5. Lontani (ma non lontanissimi) i tempi in cui si era mostrata al pubblico come religiosa amante della musica e del canto. "La mia è stata una scelta coraggiosa. Ho scelto di seguire il mio cuore senza pensare a ciò che le persone avrebbero detto di me. Ho fatto un salto nel vuoto ed ero preoccupata di finire sotto un ponte, lo ripetevo sempre alla mia psicologa", ha raccontato la 34enne in tv, spiegando la propria decisione di spogliarsi degli abiti sacri a soli tre anni dalla professione dei voti perpetui (un passo definitivo per chi intraprende la vita religiosa).

Il successo a The Voice

"Se mi volto indietro guardo il mio percorso con un profondo senso di gratitudine. Il cambiamento è un segno di evoluzione ma fa sempre paura perché è più facile ancorarsi alle proprie certezze piuttosto che rimettersi in discussione. Esiste un giusto o sbagliato? Credo che con coraggio si debba soltanto ascoltare il proprio cuore", ha affermato la giovane, che nel 2014 si era fatta conoscere al pubblico come concorrente e poi vincitrice del talent show The Voice of Italy. Nel programma tv, in particolare, attirò attenzioni e apprezzaenti intonando un brano di Alicia Keys: il video della suora canterina ottenne più di 90 milioni di visualizzazioni su YouTube in una settimana. Nel corso dell'edizione che poi la vide trionfare, l'allora religiosa duettò anche artisti del calibro di Ricky Martin e Kylie Minogue.

La vocazione in crisi, il cambiamento

"La decisione di andare a The Voice è stata presa con le sorelle. Eravamo tutti d'accordo e lo stesso per ciò che è arrivato dopo. Poi quello che è arrivato ci ha sorpreso, ero impreparata io e lo stesso loro. Le sorelle hanno cercato di proteggermi. Però l'eccesso di protezione è diventata quasi limitazione per me. Erano troppo protettive diciamo. Il successo però non ha messo in crisi la mia vocazione", ha raccontato a Verissimo l'ex suora, arrivando poi la propria trasformazione. "C'è stato un cambiamento mio interiore. Tutto questo successo mi ha fatto fare i conti con me stessa. Non c'è stato un evento particolare ma un percorso. A un certo punto non stavo più bene. È come se la mia maturazione personale stesse stretta nell'abito e nelle sue regole. The Voice ha aperto la strada ad un mio cambiamento di crescita, evolutivo", ha detto.

Suor Cristina Scuccia, cosa fa oggi

La 34enne ha abbandonato il convento ma non la passione per la musica. "Vivo col sorriso", ha affermato a Verissimo, spiegando di vivere in Spagna e di lavorare come cameriera. E all'inevitabile curiosità sui sentimenti, la giovane ha risposto: "L'amore? Non è la mia priorità in questo periodo anche se ammetto che qualcuno si è avvicinato".

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 7 novembre 2022.

I primi ad occuparsene sono stati i vescovi francesi: dal 2015 al 2020, avevano assistito ad una serie di suicidi. Erano preti ed erano giovani: 38, 46, 47 anni… In realtà, notizie di preti che si tolgono la vita arrivano anche da altri Paesi. In Italia (dove la Cei nulla sa, nulla vede, nulla dice) negli ultimi tre lustri sarebbero stati almeno in 16. 

L'ultimo suicidio il 29 settembre scorso, quando un prete che studiava a Roma si è impiccato al cancello del cimitero di Cormano, nel Milanese. Prima in Francia e ora negli Stati Uniti, le Conferenze episcopali hanno fatto studiare questa emergenza da gruppi di esperti e hanno pubblicato i rapporti.

Per le Chiese di entrambi i Paesi, la parola chiave è burnout, sindrome che secondo l'Oms è «derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo, che non riesce ad essere ben gestito». Stress diventato quasi endemico a causa dell'enorme pressione, anche mediatica, scaturita dalle denunce (vere o presunte) sugli abusi sessuali e dai quiproquò di una Chiesa che pretende di fare la moralizzatrice politica soprattutto nel campo dei "nuovi diritti".

In entrambi i Paesi coloro che hanno risposto alle domande degli studiosi hanno affermato che, quando vanno in crisi, lo stress aumenta perché credono (o sono certi) che il loro vescovo non li sosterrà neanche di fronte ad una falsa accusa. Le cifre fanno impressione: negli Usa, il 60 per cento dei preti di età inferiore ai 45 anni dicono di sentire i primi segni: cinismo, vuoto emotivo, psiche esausta dopo una giornata di ministero.

I ricercatori hanno però scoperto che il livello di fiducia tra un sacerdote e il suo vescovo è "un fattore importante" per il benessere generale dell'individuo. E che questo antidoto al burnout è più efficace nelle piccole diocesi. C'è da scommettere, che sia così anche in Italia.

Alessio Ribaudo per il “Corriere della Sera” il 5 ottobre 2022. 

Bonassola non ci sta e si schiera al fianco del suo parroco don Giulio Mignani al quale, lunedì scorso, è stata notificata la sospensione a divinis dal Tribunale ecclesiastico della Spezia per le tesi a favore dell'eutanasia, dell'aborto e delle famiglie arcobaleno. Domenica, contro il provvedimento firmato dal vescovo Luigi Ernesto Palletti, è stata indetta una manifestazione dal neonato comitato #IostoconDonGiulio «per mostrare solidarietà, vicinanza, affetto e riconoscenza per un grande uomo, attento ai bisogni di tutti, intriso di grande senso di libertà, umanità e rispetto».

Don Giulio, i suoi parrocchiani sembrano aver scelto da che parte stare: la sua.

«Sono dispiaciuto per la vicenda e invito i fedeli a esternare il disappunto con rispetto per chi non è d'accordo». 

La sospensione è ingiusta?

«No, perché le mie posizioni non sono conformi all'insegnamento della Chiesa. Sono stato accusato di aver turbato i fedeli ma penso sia più esatto che solo alcuni lo siano rimasti in qualche modo».

Farà appello?

«No, il vescovo ha applicato il codice di diritto canonico». 

Cosa pensa delle coppie omosessuali?

«Dove c'è amore, quello vero, c'è l'amore di Dio e questo prescinde dal sesso. Per questo ho protestato contro un documento della Congregazione per la dottrina della fede che vieta la benedizione delle unioni di coppie omosessuali. In Chiesa si benedice di tutto ma non l'amore vero tra omosessuali».

E sull'eutanasia?

«Lo scorso marzo dissi a un convegno a Genova con Marco Cappato che la vita è un dono di Dio e se diventa insopportabile, l'eutanasia è un atto d'amore perché c'è un'autodeterminazione e, quindi, spiritualità. In questo caso non è una svalutazione della vita ma una scelta difficile che va rispettata. Abbiamo il dovere di riflettere senza tabù sulle ipotesi di leggi che la regolamentano. Allo stesso modo, nella mia esperienza pastorale non ho mai visto donne che hanno abortito con leggerezza. Non è che cancellando una legge non si praticherebbe più ma, anzi, verrebbe meno la sicurezza sanitaria perché aumenterebbero quelli clandestini». 

Si aspettava conseguenze?

«Sì e mi dispiace se qualcuno si è scandalizzato per le mie parole, tutto si supererebbe se si desse possibilità di camminare insieme pur nella diversità». 

Lascerà l'abito talare?

 «No, sarebbe ammettere che c'è un solo modo di vivere la fede. Sono sereno perché gran parte dei parrocchiani apprezza le mie idee, traendone motivo di crescita e rimotivazione spirituale. Sono gli stessi che si sono scandalizzati ma per alcuni documenti del Magistero e per l'immagine di una Chiesa ferma in uno scoraggiante immobilismo, non disposta a un dibattito. C'è un fiume carsico che scorre nel popolo di Dio, in parte sotterraneo ma in cerca di punti di emersione e di un bacino di raccolta».

 Gli altri preti che le dicono?

«Ho ricevuto email, messaggi, telefonate di solidarietà ma non si espongono perché sarebbero sospesi». 

Se incontrasse papa Francesco che cosa gli direbbe?

 «Che non intendevo polemizzare o offendere. Ero preoccupato di non far considerare la Chiesa meno credibile nella società di oggi in cui sono cambiate conoscenze e sensibilità. Credo che alla base della decisione del vescovo ci sia la convinzione di possedere la verità escludendo ogni possibilità di dialogo. Invece dovrebbe essere normale quando si riflette su ciò che è più grande di noi ma al contempo ci contiene: come il mistero della vita o di Dio». 

Anticipazione da “Le Iene” il 5 ottobre 2022.

Stasera, venerdì 2 aprile, a “Le Iene”, in prima serata, su Italia 1, andrà in onda l’incontro di Giulio Golia con Don Giulio Mignani, il parroco di Bonassola (La Spezia) di cui si è parlato molto in questi giorni per via della protesta contro la Santa Sede per il divieto di benedire le coppie omosessuali. 

“Se non posso benedire le coppie formate da persone dello stesso sesso, allora non benedico neppure palme e ramoscelli d'olivo”, aveva dichiarato il prete durante l’omelia della messa della Domenica delle Palme. Nel corso di una lunga intervista il parroco spiega alla Iena la sua disapprovazione nei confronti del documento della Congregazione per la dottrina della fede, organo ufficiale del Vaticano incaricato di promuovere e tutelare la dottrina della Chiesa cattolica.

Sulla Chiesa Don Giulio Mignani dichiara: “Mi sento a disagio nei confronti di una Chiesa che dice di no anche a una semplice benedizione di persone omosessuali. In alcuni passaggi è duro quel documento in cui si dice che si può benedire il peccatore, ma non il peccato, cioè l’unione. Così la coppia omosessuale viene subito connotata come qualcosa di negativo”. 

Parlando del clamore che le sue parole pronunciate durante l’omelia della Domenica delle Palme hanno suscitato, afferma: “Perché l’ho detto? Da una parte ho pensato alle persone omosessuali che sono dentro la comunità cristiana e a come loro possano aver avvertito questo. È come se un figlio si sentisse dire da sua madre che il suo modo di vivere la propria sessualità fa schifo.

Allo stesso modo è per le persone credenti che dalla madre Chiesa si sentono dire questo. Un dolore enorme. Dall’altra parte ho pensato ai genitori che fanno più difficoltà ad accogliere i figli che fanno coming out. Mi hanno chiamato in tanti per ringraziarmi, dicono che le mie parole hanno dato una ventata di freschezza, acceso una speranza”. 

Sul Disegno di legge Zan (il DdL in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere, ndr.) al centro dell’attenzione di questi giorni e su cui si sono espressi diversi personaggi del mondo dello spettacolo, il prete afferma: “Purtroppo incide la posizione della Chiesa sulla legge contro l’omotransfobia”. “Desidero che la Chiesa cambi e che la mia protesta sia un gesto di attenzione”.

E aggiunge: “Non chiamatemi prete delle famiglie arcobaleno, perché sono il prete di tutti”. Spiega poi che poche ore fa ha avuto modo di parlare della sua scelta di non benedire le palme anche con il Vescovo: “Mi ha invitato a rileggere il documento per cogliere cose positive. 

Si è accorto che queste critiche le può fare uno che vuole distruggere la Chiesa, ma anche chi la ama”. Quindi conclude: “È la Chiesa che ha bisogno di aprirsi non gli omosessuali. Loro la benedizione la ricevono comunque da Dio. Io non sono nato prete, se a un certo punto la Chiesa mi dice che non ha più bisogno del mio contributo, posso tornare a fare altro”.

Non mancano delle riflessioni personali sul Pontefice: “Ho molta stima del Papa. Su alcune cose faccio difficoltà a capire quale sia il suo vero pensiero. Io sono tenuto a credere che lui accetti tutte queste parole, nella Chiesa purtroppo sono i documenti che contano, non le parole dette così. 

Quella famosa frase che ha fatto il giro del mondo in cui (il Papa, ndr.) dice «Chi sono io per giudicare un gay?» a me non è che sia piaciuta tantissimo. Se vado in un supermercato, vedo una mamma che sta rubando da mangiare e so che quella mamma ha dei bambini che non riescono a mangiare penso che quello che sta facendo è oggettivamente sbagliato, ma soggettivamente no.

Negli omosessuali non c’è niente di oggettivamente sbagliato: tu Papa a una coppia eterosessuale diresti «Chi sono io per giudicare?» No. E allora perché devi dirlo a una coppia omosessuale? Io penso che, avendo lui controfirmato, la pensi effettivamente così. Spero di no, ma come si dice? «Verba volant, scripta manent». È quello che alla fine conta e conterà nella storia, andando avanti, quando lui non ci sarà più. Poi comprendo anche che per un Papa non deve essere facile, ci sono argomenti effettivamente divisivi. Lui dice non lo faccio perché altrimenti metto in pericolo l’Istituzione. Ma a quale costo?”. 

Riguardo la figura di Gesù, dice: “Io sono convinto che questo mio atteggiamento sia in sintonia con lo spirito di Gesù. Lui era uno che sul piatto della bilancia, se da una parte c’era la legge religiosa e dall’altra parte il bene della persona, era totalmente per il bene della persona. Se ci fosse una persona che riuscisse a dimostrarmi con certezza assoluta che Gesù, se fosse qui, la penserebbe diversamente da me, io non avrei dubbi, non Lo seguirei, non sarei fedele a Lui.

In merito all’uso del preservativo, dice: “Non vedo nessuna contrarietà nell’utilizzarlo”. Infine, ricordando il suo passato e il suo avvicinamento alla vita ecclesiale, racconta: “Non mi hanno mai obbligato a frequentare la Chiesa, ho fatto i sacramenti, e come tutti, al momento della cresima, non m’interessava. Al catechismo preferivo il dentista anche se c’era da massacrare i denti! Il catechismo per me era più qualcosa di dovuto. Poi la mia vita è andata avanti”.

Don Giulio Mignani, prete sospeso per il sostegno alle coppie Lgbt: «Se si calpestano i diritti umani bisogna schierarsi». Parla il parroco di Bonassola che non potrà più celebrare messa in pubblico né predicare per le sue posizioni su aborto, fine vita ma soprattutto amore omosessuale. «Non si può parlare di accoglienza e poi escludere la dimensione affettiva: l’unione non è peccato». Marco Grieco su L'Espresso il 5 Ottobre 2022.

Per il Vaticano lo scandalo ha un nome: si chiama don Giulio Mignani, parroco di Bonassola, Montaretto, Framura e Castagnola, sospeso dal suo ministero con una notifica firmata dal vescovo di La Spezia, monsignor Luigi Ernesto Palletti su decisione diramata dal Vaticano stesso: «Tecnicamente con la sospensione a divinis, rimango un prete, ma posso celebrare messa da solo, senza predicazioni pubbliche né catechesi».

Che la parola avesse avuto un peso importante nella sua vita, don Giulio lo aveva già intuito quando aveva stracciato un contratto a tempo indeterminato come dipendente bancario per passare a ben altri talenti da investire. E così, con le sue parole, è arrivato dove la Parola con la maiuscola chiede di andare, «alla fine del mondo», anche quando ha l’estensione di una parrocchia di 1.500 abitanti.

Per la Santa Sede, invece, le sue posizioni rappresentano la fine di un mondo sedimentato per secoli e l’inizio di una Chiesa che si lascia interpellare da domande esistenziali, come quella sul fine vita, che lo ha visto partecipe di un convegno a Genova con Marco Cappato.

Lo scandalo sull’amore Lgbt

Eppure, raggiunto al telefono, don Giulio puntualizza: «Considerato che tutto è partito dalla mia posizione sulle coppie omosessuali, che poi ha avuto una certa eco mediatica, devo evincere che l’argomento che li ha scandalizzati maggiormente sia stato quello. Il precetto penale, infatti, è stato emanato a dicembre, quando io non avevo ancora fatto esternazioni sull’eutanasia e sull’aborto. È stato il vescovo stesso a dirmi che l’eco mediatica aveva dato loro fastidio e hanno ritenuto necessario intervenire. Visto che tutto è partito prima, è stato quello l’argomento che ha dato più fastidio».

Tutto nasce dopo la domenica delle Palme del 2021, quando don Giulio decide di non benedire le piante come forma di protesta verso il responsum con cui la Congregazione per la dottrina della fede ha vietato le benedizioni alle coppie omosessuali: «Negli incontri, il vescovo mi aveva già richiamato verbalmente. Poi a dicembre scorso c’è stato un richiamo scritto, che mi ha notificato quello che tecnicamente si chiama precetto penale: se avessi continuato a fare esternazioni contrarie al Magistero della Chiesa, sarei incorso nella sospensione a divinis. E così è stato».

Don Giulio, però, non ci sta. Nei mesi precedenti al processo presso il tribunale ecclesiastico diocesano, ha avuto modo di contestare ciò che per la chiesa cattolica rimane intoccabile: il Magistero, in base a cui l’omosessualità è considerata peccato, ammettendo implicitamente che alcune relazione fra persone siano contrarie all’ordine di creazione voluto da Dio: «Il vescovo mi ha richiamato ai documenti del Magistero, dove si distingue tra persona omosessuale e atti omosessuali, ma io l’ho contestato: che accoglienza è quella in cui si accoglie a parole una persona ma poi la si strappa da una dimensione importante della persona umana, cioè l’affettività, la sessualità? E poi, secondo me, si deve uscire dal paradigma di considerare che l’unione sia un peccato. Perché è bello che il Papa parli di accoglienza, ma se poi parla di accoglienza del singolo, e non di coppia, anche lui è dentro questo paradigma».

La lettera al Papa

Qualche anno fa, don Giulio ha scritto una lettera a papa Francesco, ma non ha mai ricevuto una risposta: «Ho apprezzato la lotta del Papa contro il potere clericale, allora gli scrissi che il passo da fare come Chiesa era smetterla di riconoscere che noi possediamo la verità. Perché, se pensiamo di essere i detentori di questa verità, ci sentiamo di imporla agli altri, anche se in buona fede. E in passato molte persone sono state ammazzate per questo. È anche quello che accade con me: mi si dice che la verità e questa altrimenti devo stare con la bocca chiusa. Finché non c’è questo passo, la Chiesa non può essere una democrazia, ma resta una struttura gerarchica». Ma c’è un’altra chiesa, quella dal basso che in questi giorni sta mostrando a don Giulio la sua vicinanza: «Molti sacerdoti mi sostengono in privato, anche riguardo alle unioni omosessuali. Però mi confessano che evitano di manifestare pubblicamente perché, così, possono aiutare chi viene escluso come pastore. E poi, vogliono evitare di fare la fine che ho fatto io. Rispetto la loro posizione, però credo anche che, quando ci sono dei diritti della persona che vengono calpestati, occorre schierarsi pubblicamente».

È il pastore che parla, il parroco che si fa prossimo alla gente e che vede nel processo sinodale della Chiesa avviato da papa Francesco l’occasione per ascoltare le inquietudini spirituali dei fedeli oggi: «Per il Sinodo, ho inviato un questionario a 434 parrocchiani su temi come le unioni Lgbt, l’eutanasia e l’aborto. Quasi il 90 per cento è favorevole alle coppie omosessuali. Questo dimostra che nella Chiesa c’è grande fermento, c’è un sostegno notevole alla base. Ma non è sufficiente una spinta dal basso se dall’alto non se ne prende atto. Perché come credente devo imporre la mia visione? Io sono prete e sono a favore del matrimonio egualitario e dell’adozione per le coppie dello stesso sesso. Perché lo vedo dal vivo: a Bonassola conosco due donne che hanno due figli, ma che sono considerati tali solo per una di due. Perché?».

Essere al loro fianco

Dopo la sua presa di posizione a favore delle coppie Lgbt, don Giulio ha accolto e continua ad essere vicino a molti della comunità che si sentono ancora esclusi dalla Chiesa: «Tempo fa ho ospitato una coppia di donne in un cammino di fede. La lettera che mi hanno scritto mi ha commosso: “Quando ci hai accolto, ci hai preparato una stanza matrimoniale. Per noi ha voluto dir tanto, essere state accolte come coppia“».

Da quel giorno, la pastorale di don Giulio è nel solco di una trincea dove la Chiesa che deciso di servire lo considera una minaccia al suo status quo: «Ho partecipato alla cerimonia di unione di due cari amici di Bonassola: volevo essere lì come prete, dire loro sono con voi. Penso che quando i diritti umani vengono calpestati, chi ha autorità deve schierarsi anche pubblicamente. È importante esserci». Oggi don Giulio è nell’occhio di un ciclone che potrebbe strappargli quella veste talare, per lui diventata sinonimo di accoglienza: «Io sono sereno, ma c’è una sola cosa che mi rattrista. Che la Chiesa parli di scandalo, ma non tiene conto dei frutti positivi, dei genitori che mi ringraziano perché sostengo i loro figli, delle lettere di anonimi che ringraziano per sentirsi finalmente accolti. Se i frutti sono questi, allora perché tagliare l’albero?».

Il parroco di Bonassola non potrà più celebrare messa. Don Giulio Mignani, il parroco sospeso ‘a divinis’ per aver difeso coppie gay, eutanasia e aborto. Fabio Calcagni su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Un parroco diverso, che ha sostenuto nel tempo “posizioni non conformi all’insegnamento della Chiesa Cattolica”, come scrive nel provvedimento del tribunale ecclesiastico della diocesi di La Spezia il vescovo, monsignor Luigi Ernesto Palletti.

Da lunedì don Giulio Mignani, parroco del piccolo centro da 800 anime di Bonassola, è stato sospeso ‘a divinis’: rimarrà sacerdote ma non potrà più confessare i fedeli, predicare in pubblico e celebrare la messa.

Una decisione presa con un procedimento amministrativo penale canonico a causa delle sue posizioni distanti da quella della Chiesa, in particolare su temi ‘sensibili’ come aborto, famiglie arcobaleno ed eutanasia.

Temi su cui don Giulio era intervenuto nelle sue messe ma anche in diverse interviste. Per questo nel provvedimento preso dal tribunale ecclesiastico della diocesi di La Spezia viene evidenziato come “il tenore sereno e consapevole con il quale sono state rilasciate porta ad escludere la presenza di fattori che possano avere influenzato la capacitando libera espressione del chierico, lui stesso ha riconosciuto sue le affermazioni”.

Anche perché, come si legge nel documento pubblicato dal Corriere della Sera, “ogni volta è stato ammonito e richiamato all’osservanza degli impegni pastorali e canonici” ma “gli episodi però hanno continuato a ripetersi nel tempo, suscitando sempre più grave scandalo tra i fedeli”.

Proprio al quotidiano don Giulio difende le sue posizioni, che “non hanno mai voluto essere offensive né polemiche nei confronti della Chiesa”, anzi ciò che lo ha mosso, racconta, “è la preoccupazione che la Chiesa possa essere considerata sempre più marginale e sempre meno credibile nella società contemporanea”. Il parroco smentisce anche il presunto “grave scandalo” trai fedeli per le sue posizioni: per don Giulio anzi “una gran parte di fedeli ha apprezzato quanto da me condiviso traendone motivo di crescita e rimotivazione spirituale“.

Tante le manifestazioni di solidarietà per il parroco. A Bonassola è nato anche un comitato popolare, #iostocongiulio, composto essenzialmente dai parrocchiani del sacerdote sospeso dalla Curia. Un comitato sorto “per contestare questa infausta decisione e manifestare la nostra solidarietà e supporto nei confronti di don Giulio Mignani”. Per mostrare la vicinanza al loro parroco, gli ‘attivisti’ hanno già organizzato una manifestazione sul piazzale della chiesa di Bonassola “per dimostrare la nostra solidarietà, vicinanza, affetto e riconoscenza nei confronti di un grande uomo quale è don Giulio, attento ai bisogni di tutti, intriso di grande senso di libertà, umanità e rispetto”, si legge sul ‘manifesto’ del comitato. 

La manifestazione si terrà domenica 9 ottobre, proprio durante la Festa patronale della Madonna del Rosario che si celebrerà a Bonassola: questa volta però vedrà anche una sorta di ‘sciopero’ da parte dei portatori della statua della Madonna, in solidarietà con la manifestazione a favore del parroco.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Crotone, la messa in mare del viceparroco milanese: «Non sapevamo dove andare, faceva troppo caldo. Ma non lo rifarei». Alessio Di Sauro su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.

Dopo il richiamo della Curia calabrese, parla don Mattia Bernasconi: «Ho commesso un’ingenuità, ma non volevo offendere. Ogni luogo va bene per diffondere il verbo del Signore»

Un materassino a uso altare, la stola sostituita dal costume da bagno. Don Mattia Bernasconi, 36 anni, viceparroco di San Luigi Gonzaga (vicino a Porta Romana a Milano), domenica è salito agli onori delle cronache per avere detto messa a mollo fino alla vita, nelle acque della spiaggia calabra Alfieri, nel Crotonese. Ma, tiene a precisare, «il mio non voleva assolutamente essere un gesto di protagonismo».

E allora di che cosa si è trattato?

«Di una situazione di emergenza: non siamo riusciti a trovare un altro posto per celebrare».

Si aspettava tutto questo clamore?

«Sono sorpreso. La cerimonia doveva solo rappresentare un ringraziamento alla terra che ci aveva ospitato. Non volevamo di certo urtare la sensibilità di qualcuno».

Come le è venuto in mente?

«Ci trovavamo da una settimana in Calabria per un campo della legalità organizzato dall’associazione antimafia Libera, con 21 studenti delle superiori. Volevamo trascorrere l’ultimo giorno in spiaggia: era domenica, si poneva il problema della messa, che celebriamo sempre. All’inizio avevo pensato a una pineta, ma era già occupata. Erano le dieci e mezza di mattina, il sole era cocente: allora abbiamo deciso di virare verso l’unico posto confortevole: in acqua».

E poi?

«Dovevamo essere un gruppo ristretto, ma molte persone si sono aggiunte alla liturgia. Qualcuno ha scattato delle foto che hanno iniziato a circolare sul web: mi dispiace che qualcuno si sia sentito offeso».

Non pensa di essere stato un po’ fuori luogo?

«Mi rimprovero forse un po’ di ingenuità: la cosa è stata fraintesa, forse anche giustamente. Però una signora mi ha ringraziato, dicendomi che si era sentita raggiunta dalla Chiesa anche in spiaggia. Ogni luogo va bene per diffondere il verbo del Signore».

Come vi siete organizzati?

«Non abbiamo avuto nessun problema logistico, per fortuna il mare era calmo e senza onde. Una famiglia ci ha offerto un materassino che abbiamo usato come altare: io avevo portato tutto, dalle ostie, al calice, al vino. Anche la stola, che non ho usato per ovvie ragioni. È stata una messa normalissima, con tanto di eucarestia e omelia».

C’è stato il giusto raccoglimento?

«Assolutamente sì, i ragazzi sono abituati ad ascoltare la messa ovunque».

Alcuni però non l’hanno presa benissimo

«È vero, ho ricevuto dei messaggi molto risentiti. I genitori dei ragazzi però hanno capito e mi hanno manifestato la loro vicinanza. Però di una cosa mi dispiace molto».

Quale?

«Che il clamore suscitato da questo fuori programma abbia fatto passare in secondo piano il nostro “campo della legalità”. Abbiamo visitato le terre confiscate al clan Arena (cosca della ‘ndrangheta di Isola Capo Rizzuto, ndr), incontrato imprenditori che si sono ribellati al pizzo, parlato con la madre di Dodò Gabriele, il bambino di 11 anni ucciso da un proiettile vagante a Crotone, nel 2009. Non si può ridurre questa esperienza a una messa celebrata in mare».

Eppure anche la Curia di Crotone l’ha richiamata a una maggiore sobrietà.

«Condivido il richiamo. I simboli hanno una loro importanza, e io sono forse stato imprudente».

Lo rifarebbe?

«Eviterei».

Sara Gandolfi per corriere.it il 5 maggio 2022.

«Sorella ti credo», dice il cartello della dimostrante fuori dal convento di San Bernardo a Salta, nel nord dell’Argentina. All’interno dell’edificio vivono isolate dal mondo diciotto monache di clausura dell’ordine delle Carmelitane Scalze, che il 12 aprile hanno accusato l’arcivescovo della provincia, Mario Antonio Cargnello, e altri funzionari della Chiesa di violenza psicologica e fisica di genere. 

L’udienza in tribunale era fissata per martedì ma è stata annullata alla vigilia perché l’arcivescovo doveva partecipare ad una riunione della Conferenza episcopale argentina. Il Vaticano ha incaricato il vescovo Martin de Elizalde di esaminare le denunce, ma è diventato lui stesso un imputato nel caso. L’avvocato delle monache sostiene che si è trattato di «un disperato grido di aiuto» perché «si sentono violate come donne». L’arcivescovo nega ogni accusa. 

Cargnello contesta la fede delle suore nella «Madonna del Cerro», figura popolare che sarebbe apparsa in visione a una donna del posto negli anni Novanta. Secondo una ricostruzione del caso, l’arcivescovo e padre Ajalla avrebbero colpito la priora durante una veglia funebre perché stava riprendendo con una telecamera la preghiera alla Madonna del Cerro. Le monache accusano anche l’arcivescovo di danni economici, perché starebbe bloccando la nomina di una nuova priora, rendendo così difficile la gestione del monastero.

A marzo un tribunale ha condannato Gustavo Zanchetta, vescovo dal 2013 al 2017 nella cittadina di Oran, sempre nella provincia di Salta, a più di 4 anni di reclusione per abusi sessuali su due ex seminaristi.

(ANSA il 17 febbraio 2022) - "Lì dove funziona la fraternità sacerdotale e ci sono legami di vera amicizia, lì è anche possibile vivere con più serenità anche la scelta celibataria. Il celibato è un dono che la Chiesa latina custodisce, ma è un dono che per essere vissuto come santificazione necessita di relazioni sane, di rapporti di vera stima e vero bene che trovano la loro radice in Cristo. Senza amici e senza preghiera il celibato può diventare un peso insopportabile e una contro-testimonianza alla bellezza stessa del sacerdozio". Lo ha detto papa Francesco nel discorso d'apertura del simposio internazionale "Per una teologia fondamentale del sacerdozio".

(ANSA il 17 febbraio 2022) - "Molte crisi sacerdotali hanno all'origine proprio una scarsa vita di preghiera, una mancata intimità con il Signore, una riduzione della vita spirituale a mera pratica religiosa". Lo ha detto papa Francesco aprendo nell'Aula Paolo VI i lavori del Simposio internazionale "Per una teologia fondamentale del sacerdozio", promosso da oggi a sabato dal cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, e dal Centro di Ricerca e di Antropologia delle Vocazioni.

La prima raccomandazione rivolta ai presbiteri, la prima delle "colonne costitutive" e delle "fondamenta solide" indicate dal Pontefice per la vita sacerdotale, in base alla sua esperienza di "questi più di 50 anni di sacerdozio", è stata la "vicinanza a Dio". "Senza una relazione significativa con il Signore il nostro ministero è destinato a diventare sterile", ha affermato. 

"Ricordo momenti importanti della mia vita nei quali questa vicinanza al Signore è stata decisiva per sostenermi, nei momenti bui - ha spiegato -. Senza l'intimità della preghiera, della vita spirituale, della vicinanza concreta a Dio attraverso l'ascolto della Parola, la celebrazione eucaristica, il silenzio dell'adorazione, l'affidamento a Maria, l'accompagnamento saggio di una guida, il sacramento della Riconciliazione, senza queste 'vicinanze' concrete un sacerdote è, per così dire, solo un operaio stanco che non gode dei benefici degli amici del Signore".

"Troppo spesso, ad esempio, nella vita sacerdotale si pratica la preghiera solo come un dovere - ha proseguito Francesco -, dimenticando che l'amicizia e l'amore non possono essere imposti come una regola esterna, ma sono una scelta fondamentale del nostro cuore". Secondo il Pontefice, "un prete che prega rimane, alla radice, un cristiano che ha compreso fino in fondo il dono ricevuto nel Battesimo. Un prete che prega è un figlio che fa continuamente memoria di essere figlio e di avere un Padre che lo ama. Un prete che prega è un figlio che si fa vicino al Signore". 

"Ma tutto questo è difficile - ha avvertito - se non si è abituati ad avere spazi di silenzio nella giornata". Per il Papa, "si fa fatica a rinunciare all'attivismo, che tante volte può essere una fuga, perché quando si smette di affaccendarsi non viene subito nel cuore la pace, ma la desolazione; e pur di non entrare in desolazione, si è disposti a non fermarsi mai". "Ma è proprio accettando la desolazione che viene dal silenzio, dal digiuno di attività e di parole, dal coraggio di esaminarci con sincerità - ha osservato -, che tutto assume una luce e una pace che non poggiano più sulle nostre forze e sulle nostre capacità". "Si tratta di imparare a lasciare che il Signore continui a realizzare la sua opera in ciascuno e poti tutto ciò che è infecondo, sterile e che distorce la chiamata", ha aggiunto Francesco.

(ANSA il 17 febbraio 2022) - "Come Chiesa troppo spesso, e anche oggi, abbiamo dato dell'obbedienza un'interpretazione lontana dal sentire del Vangelo", ha detto papa Francesco nel discorso d'apertura del simposio internazionale "Per una teologia fondamentale del sacerdozio", indicando ai presbiteri l'importanza della "vicinanza al vescovo". 

"L'obbedienza non è un attributo disciplinare ma la caratteristica più profonda dei legami che ci uniscono in comunione - ha spiegato -. Obbedire significa imparare ad ascoltare e ricordarsi che nessuno può dirsi detentore della volontà di Dio, e che essa va compresa solo attraverso il discernimento. L'obbedienza quindi è l'ascolto della volontà di Dio che si discerne proprio in un legame". Secondo il Pontefice, "tale atteggiamento di ascolto permette di maturare l'idea che nessuno è il principio e il fondamento della vita, ma ognuno deve necessariamente confrontarsi con gli altri".

"Questa logica delle vicinanze - in questo caso con il vescovo, ma vale anche per le altre - consente di rompere ogni tentazione di chiusura, di autogiustificazione e di fare una vita 'da scapolo', o da 'scapolone' - quando i preti si chiudono diventano 'scapoloni, con tutte le manie degli 'scapoloni', e non è bello -; e invita, al contrario, a fare appello ad altre istanze per trovare la via che conduce alla verità e alla vita", ha aggiunto. Per il Papa, "il vescovo non è una vigilante di scuola, è un padre". 

"Il vescovo, chiunque egli sia, rimane per ogni presbitero e per ogni Chiesa particolare un legame che aiuta a discernere la volontà di Dio - ha sottolineato -. Ma non dobbiamo dimenticare che il vescovo stesso può essere strumento di questo discernimento solo se anch'egli si mette in ascolto della realtà dei suoi presbiteri e del popolo santo di Dio che gli è affidato".

"Non a caso - ha osservato - il male, per distruggere la fecondità dell'azione della Chiesa, cerca di minare i legami che ci costituiscono. Difendere i legami del sacerdote con la Chiesa particolare, con l'istituto a cui appartiene e con il vescovo rende la vita sacerdotale affidabile". "L'obbedienza - ha aggiunto Francesco - è la scelta fondamentale di accogliere chi è posto davanti a noi come segno concreto di quel sacramento universale di salvezza che è la Chiesa. Obbedienza che può essere anche confronto, ascolto e, in alcuni casi, tensione, ma non si rompe". 

"Questo - ha aggiunto - richiede necessariamente che i sacerdoti preghino per i vescovi e sappiano esprimere il proprio parere con rispetto e sincerità. Richiede ugualmente ai vescovi umiltà, capacità di ascolto, di autocritica e di lasciarsi aiutare. Se difenderemo questo legame procederemo sicuri nel nostro cammino".

Papa Francesco: «Tra preti invidia e bullismo, non siate “scapoloni”». Il Santo Padre in Sala Nervi: «Molte crisi sacerdotali hanno all'origine proprio una scarsa vita di preghiera, una mancata intimità con il Signore». Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Non solo le quattro «vicinanze» – a Dio, al vescovo, agli altri presbiteri, al popolo – indicate come coordinate, come «fondamenta solide» e «colonne costitutive» della vita sacerdotale, Ma anche una serie di bacchettate su ciò che non va, sulle carenze e inadeguatezze nelle comunità di presbiteri: dall’invidia al bullismo, dall’essere «scapoloni» fino alle «calunnie, la maldicenza, il chiacchiericcio».

C’è tutto questo nell’ampio discorso che Papa Francesco pronuncia nella Sala Nervi in apertura del simposio internazionale «Per una teologia fondamentale del sacerdozio», promosso da oggi a sabato dal prefetto dei Vescovi, card. Marc Ouellet, insieme al Centro di Ricerca e di Antropologia delle Vocazioni per affrontare temi cruciali nell’attuale crisi del sacerdozio, come l’emergenza-abusi, il calo vocazionale, il celibato. lo stesso ruolo da dare alla donna. E proprio sul celibato è lo stesso Francesco a dire cose “trancianti”: «Il celibato è un dono che la Chiesa latina custodisce, ma è un dono che per essere vissuto come santificazione necessita di relazioni sane, di rapporti di vera stima e di vero bene che trovano la loro radice in Cristo. Senza amici e senza preghiera il celibato può diventare un peso insopportabile e una contro-testimonianza alla bellezza stessa del sacerdozio».

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Per il Papa, «la crisi vocazionale che in diversi luoghi affligge le nostre comunità» spesso è dovuta «all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva». Mentre «molte crisi sacerdotali hanno all’origine proprio una scarsa vita di preghiera, una mancata intimità con il Signore, una riduzione della vita spirituale a mera pratica religiosa», dice portando l’esperienza di «questi più di 50 anni di sacerdozio», di cui non nasconde i «momenti bui». «Senza una relazione significativa con il Signore il nostro ministero è destinato a diventare sterile», avverte, e «troppo spesso, ad esempio, nella vita sacerdotale si pratica la preghiera solo come un dovere».

La vicinanza al vescovo, invece, consente «di rompere ogni tentazione di chiusura, di autogiustificazione e di fare una vita “da scapolo”, o da “scapolone”. Quando i preti si chiudono, si chiudono…, finiscono “scapoloni” con tutte le manie degli “scapoloni“, e questo non è bello». Un’altra denuncia tocca «l’incapacità di gioire del bene altrui, degli altri, è l’invidia – voglio sottolineare questo – che tanto tormenta i nostri ambienti (…). È tanto presente l’invidia nelle comunità sacerdotali. E la Parola di Dio ci dice che è l’atteggiamento distruttore: per invidia del diavolo è entrato il peccato nel mondo. È la porta per la distruzione. E su questo dobbiamo parlare chiaro, nei nostri presbitéri c’è l’invidia. Non tutti sono invidiosi, no, ma c’è la tentazione dell’invidia a portata di mano. Stiamo attenti. E dall’invidia viene il chiacchiericcio».

Ma il Papa va oltre, poiché «per sentirci parte della comunità», «non abbiamo bisogno di “vantarci”, né tanto meno di “gonfiarci” o, peggio ancora, di assumere atteggiamenti violenti, mancando di rispetto a chi ci è accanto. Ci sono anche forme clericali di bullying», rivela. E sempre dall’invidia ha origine la prassi di «attentare alla verità e alla dignità dei fratelli attraverso le calunnie». «Si arriva a questo, anche alle calunnie, per arrivare a un posto… E questo è molto triste – lamenta -. Quando da qui si chiedono informazioni per fare vescovo qualcuno, tante volte riceviamo informazioni ammalate di invidia. E questa è una malattia dei nostri presbitéri. Tanti di voi siete formatori nei seminari, tenetene conto».

Secondo Francesco, infine, «il posto di ogni sacerdote è in mezzo alla gente», poiché «il Popolo di Dio spera di trovare pastori con lo stile di Gesù – e non “chierici di stato” o “professionisti del sacro”». Quindi la strigliata conclusiva: «Il clericalismo è una perversione, e anche uno dei suoi segni, la rigidità, è un’altra perversione», e «quando penso al clericalismo, penso anche alla clericalizzazione del laicato». Ed è proprio nel «clericalismo» che il card. Ouellet, nel saluto inaugurale, riunisce «un insieme di fenomeni: abusi di potere, abusi spirituali, abusi di coscienza, di cui gli abusi sessuali non sono che la punta dell’iceberg, visibile e perversa, che emerge da deviazioni più profonde da identificare e smascherare».

Con l’«umiliazione» che «peccati e crimini di ministri indegni sono sulle prime pagine della stampa internazionale, per aver tradito il loro impegno o per aver vergognosamente coperto i colpevoli di simili depravazioni». E così l’occasione è propizia, conclude, «per esprimere il nostro sincero rammarico», «per domandare ancora perdono alle vittime» e «per unire la nostra voce a quella di coloro che reclamano verità e giustizia».

·        Il matrimonio.

Niente sesso prima del matrimonio: l’appello del Papa ai fidanzati. Redazione online su Il Corriere della Sera il 15 giugno 2022.

Il documento del Dicastero per i laici che traccia le nuove linee per la preparazione alle nozze: «Per le coppie in crisi a volte la separazione è inevitabile. Sia però estremo rimedio, se è stato vano ogni altro tentativo». 

«Molte volte capita che l’attenzione dei giovani sposi si concentri sulla necessità di guadagnare e sui bambini, smettendo di lavorare sulla qualità del mutuo rapporto e dimenticando la presenza di Dio nel loro amore. Vale la pena di aiutare i giovani sposi a saper trovare il tempo per approfondire la loro amicizia e per accogliere la grazia di Dio. Certamente la castità prematrimoniale favorisce questo percorso, perché dà tempo ai nuovi sposi di stare insieme, di conoscersi meglio, senza pensare immediatamente alla procreazione ed alla crescita dei figli». È quanto si legge nel documento «Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale» del Dicastero per i laici che rilancia le parole dell’Amoris Laetitia di papa Francesco.

«La castità — si legge nel documento — va presentata come autentica “alleata dell’amore”, non come sua negazione. Essa, infatti, è la via privilegiata per imparare a rispettare l’individualità e la dignità dell’altro, senza subordinarlo ai propri desideri. La castità insegna ai nubendi i tempi e i modi dell’amore vero, delicato e generoso, e prepara all’autentico dono di sè da vivere poi per tutta la vita nel matrimonio». 

Anche nel caso di coppie conviventi, prosegue Bergoglio, «non è mai inutile parlare della virtù della castità. Tale virtù insegna a ogni battezzato, in ogni condizione di vita, il retto uso della propria sessualità, e per questo, anche nella vita da sposati, è di somma utilità». L’attenzione del Pontefice è rivolta anche alle coppie che «hanno sperimentato il fallimento del loro matrimonio e che vivono in una nuova unione o sono risposate civilmente».

Paolo Rodari per “la Repubblica” il 17 giugno 2022.

Il Vaticano vara nuove linee guida per la preparazione al matrimonio: percorsi più lunghi e suddivisi in vari step, catechesi che si prolunga anche dopo le nozze e una maggiore attenzione alle coppie in crisi. L'obiettivo è quello di evitare che una persona per sposarsi in chiesa impieghi poche settimane e poi vada incontro ad un «fallimento», come dice il Papa, introducendo un vero e proprio «catecumenato » e ricordando che per diventare sacerdoti sono necessari invece anni e anni di seminario. Sul rapporto uomo-donna, parlando in un altro contesto, quello dell'udienza generale a Piazza San Pietro, Papa Francesco ha sottolineato che il servizio non è «una faccenda di donne». 

Il documento vaticano, che sarà pubblicato in forma cartacea da Libreria editrice vaticana, non dice nulla di nuovo rispetto a quanto il Catechismo afferma da sempre: i rapporti pre-matrimoniali non sono ammessi, la castità è una strada verso la santità della coppia.

Tuttavia, le parole della Santa Sede calate nel contesto odierno dove anche diversi credenti hanno rapporti prima delle nozze provocano dibattito ed anche qualche polemica. Scrive il teologo Vito Mancuso: «Il fidanzamento serve alla conoscenza e i rapporti sessuali sono un grande e decisivo momento di conoscenza: di sé, del partner, e dell'armonia di coppia. Escluderli, come da sempre fa la dottrina cattolica, compreso l'attuale Papa, è un grave errore di natura etica».

Spiega ancora un altro teologo, padre Alberto Maggi: «Nel Vangelo Gesù lascia agli uomini la sapienza dello Spirito. Documenti come questo non rappresentano passi in avanti alla luce dello Spirito ma passi indietro in contesti che ormai sono del tutto nuovi. Servirebbe più ascolto della realtà dei giovani d'oggi, di come vivono, prima di riproporre la dottrina di sempre». 

Francesco ha sempre confermato l'importanza della castità. Per lui la dottrina ha valore e non si cambia.La sua rivoluzione della misericordia non ha intaccato fino ad ora la base della dottrina, seppure il modo di proporla sia stato del tutto innovativo. «Il servizio evangelico della gratitudine per la tenerezza di Dio non si scrive in nessun modo nella grammatica dell'uomo padrone e della donna serva», ha detto. 

 Per arrivare al matrimonio servono sì cammini rinnovati, ma confermando la linea della Chiesa cattolica, a partire dalla castità: «Non deve mai mancare il coraggio alla Chiesa di proporre la preziosa virtù della castità, per quanto ciò sia ormai in diretto contrasto con la mentalità comune», si legge nel documento del Dicastero per i laici che traccia le nuove linee per la preparazione al matrimonio.

E ancora: «Vale la pena di aiutare i giovani sposi a saper trovare il tempo per approfondire la loro amicizia e per accogliere la grazia di Dio. Certamente la castità prematrimoniale favorisce questo percorso ». E «anche nel caso in cui ci si trovasse a parlare a coppie conviventi, non è mai inutile parlare della virtù della castità». Astinenza che - sempre secondo il documento del Vaticano - può essere praticata in alcuni momenti anche nello s tesso matrimonio. 

Per i ragazzi e i giovani, al di là della preparazione del matrimonio, si parla poi di educazione sessuale da ricevere nello stesso contesto di catechesi nelle parrocchie. Quanto invece alle coppie che già convivono, la Chiesa apre le porte al sacramento ma pensando a percorsi di catechesi ad hoc. «L'esperienza pastorale in gran parte del mondo mostra ormai la presenza costante e diffusa di "domande nuove" di preparazione al matrimonio sacramentale da parte di coppie che già convivono, hanno celebrato un matrimonio civile e hanno figli.

Tali domande - sottolinea il Dicastero per i laici - non possono più essere eluse dalla Chiesa, né appiattite all'interno di percorsi tracciati per coloro che provengono da un cammino minimale di fede; piuttosto richiedono forme di accompagnamento personalizzate ». Il dopo-matrimonio dovrebbe prevedere un accompagnamento da parte della Chiesa sia perché permangono questioni importanti come «la regolazione delle nascite o l'educazione dei figli», ma anche per aiutare la coppia a non entrare in crisi anche se, in alcuni casi, sono «inevitabili », ammette il Vaticano.

Serena Sartini per “il Giornale” il 17 giugno 2022.

Il sesso prima del matrimonio è «un semplice dato di fatto». Il documento del Papa sulla sessualità per i fidanzati cristiani, se letto bene, è «rivoluzionario» perché non nega il sesso prima del matrimonio ma invita a una «sessualità responsabile, di qualità». «I tempi sono cambiati, e il Papa si prende cura dei nostri legami d'amore perché diventino stabili e forti. Il sesso non è un peccato». 

A spiegare il documento di Francesco è monsignor Riccardo Mensuali, autore di libri sul tema della natalità e della famiglia. (L'ultimo è Leggero come l'amore per San Paolo). Don Riccardo, facciamo chiarezza. Cosa intende dire il Papa con il documento «Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale»? «Il documento è ricco ed è quanto meno molto superficiale ridurlo al tema della sessualità prima del matrimonio, che pare solo esigenza mediatica.

È in sintonia con la preoccupazione del Papa di prendersi cura dei nostri legami d'amore, perché diventino forti e stabili e siano fonte di una vita buona e pacifica. Viene avanzata la proposta di un cammino di preparazione non alla cerimonia in sé, ma alla vita intera in famiglia che è lunga e complessa. Il Papa, in sostanza, dice che se vuoi bene devi spendere del tempo per coloro che ami. Ecco, il cuore del documento è: dedichiamo tempo, cuore e mente a creare, col matrimonio, un progetto grande e buono per la singola famiglia e per la società intera». 

Quindi il sesso prima del matrimonio, se inteso come percorso serio e non «occasionale», è ammesso?

«Il sesso non è peccato, anzi. I figli, che ormai tutta la società nel suo insieme ha compreso che mancano, come si fanno? Si può sintetizzare che di sesso ce ne servirebbe di più, non di meno, ma «di qualità», direbbe qualcuno. E cioè collocato al servizio del legame duraturo, del progetto fecondo e alto del matrimonio. Poi, quando una coppia è seria e ben fondata, sceglierà con coscienza e libertà la dimensione più adatta alla propria relazione. Il sesso è il piacere di realizzare un dovere, quello di essere responsabili del legame». 

Eppure, sembrerebbe che la posizione della Chiesa in tema di sessualità non sia mai cambiata.

«In uno tempo dove tutto sembra sfasciarsi e liquefarsi, dobbiamo solo dire grazie alla Chiesa che mantiene lucida una visione alta dell'umano e della sua natura. Non è vero che è la mentalità mondana ad essere moderna. La monogamia e la fedeltà si imposero come passi di progresso e più moderni, nella storia antica dell'uomo, rispetto alla giungla della mancanza di relazioni personali che precedeva. Il vero progresso è un legame fedele. Fra l'altro parole come «senza» o «attesa» non sono state cancellate dall'umanità, anche se svilite dal nostro mondo nevrotico. Direi piuttosto che la chiesa è rivoluzionaria». 

C'è però un grosso problema di denatalità, come risolverlo?

«I figli non li fanno più i soldi, anche se è bene che i governi sostengano con fantasia creativa la natalità. I figli li fa un amore forte, fonte di un progetto di responsabilità. Questo è il fine del Documento e di tutto il magistero del Papa. Direi che è il fine della formazione cristiana, quello di accompagnare col Vangelo e la vita della chiesa giovani ragazzi a sognare cammini alti, belli e, per questo, esigenti e impegnativi». 

Ci sono casi in cui anche per la Chiesa la separazione è l'unica via.

«Nella Lettera agli Sposi Francesco afferma che vivere insieme non è una penitenza. Perché sa bene che a volte lo è. C'è, in questo, profonda comprensione di quanto sia impegnativo camminare insieme. Ma mai perdere la speranza. L'arte di stare insieme si impara, non è spontanea». 

Da leggo.it il 17 giugno 2022.

Paolo Brosio dà ragione a papa Francesco e si pente dei suoi trascorsi. All'indomani della pubblicazione del documento «Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale» del Dicastero per i laici che rilancia le parole dell’Amoris Laetitia del Santo Padre, Paolo Brosio si espone sul delicato tema della castità prima del matrimonio. 

A pochi giorni dal decimo Incontro mondiale delle famiglie, che si terrà a Roma dal 22 al 26 giugno, il giornalista invita i giovani a seguire i dettami del Pontefice. «Chi è cattolico non può fare come gli pare e piace. Dio ci chiede delle cose e la Chiesa fa da tramite tra noi e Dio, poi uno se non condivide le cose che dice il Papa può fare quello che vuole ma non dica che è cattolico» ha detto Paolo Brosio ai microfoni di Adnkronos.

Secondo il giornalista, convertito alla fede cattolica da alcuni anni, l’unica eccezione sarebbe rappresentata da quelle coppie prossime alle nozze. «Se due giovani si amano veramente e sono in procinto di sposarsi e si lasciano andare una volta si possono andare a confessare con la loro guida spirituale». 

Come ha fatto lo stesso Brosio, che a proposito dell'astinenza dal sesso ha riconosciuto le proprie mancanze: «Siamo tutti peccatori anche io ho ceduto al peccato io non vengo dal mondo della Chiesa perciò è ovvio che ho difficoltà ad attuare quello che dice il papa, ma ho sempre cercato di coinvolgere le mie fidanzate verso un cammino di fede. 

Poi ovvio che non ci sono sempre riuscito». Come nel caso della sua ultima fidanzata Maria Laura De Vitis, la quale già in passato aveva rivelato di avere avuto dei rapporti carnali con il giornalista. «Con lei abbiamo inizialmente intrapreso un percorso di fede poi lei non ce l’ha fatta perché era arrabbiata con Dio per la perdita del padre avvenuta quando aveva appena 8 anni perciò non è stato facile». Insomma nessuno è perfetto, nemmeno Paolo Brosio.

Da today.it il 19 giugno 2022.

"Amici Vaticani. Se non potete giocare al gioco, almeno non fate le regole. Scop*te amici, scop*ate più che potete (se vi va). Perché la vita è troppo breve per ascoltare il Vaticano". Così Fedez attraverso le sue Stories di Instagram si pronuncia su uno dei temi che sta più scaldando il dibattito sull'attualità, ovvero la pubblicazione del documento del Vaticano che torna a battere sulla castità prematrimoniale. "Non fate sesso prima del matrimonio, solo se vi fa arrivare tardi alla cerimonia", aggiunge poi in un secondo post l'artista milanese, marito dell'imprenditrice Chiara Ferragni e padre dei piccoli Leone e Vittoria.

Niente sesso prima del matrimonio per i fidanzati. Il documento vaticano che propone gli Itinerari Catecumenali per la vita matrimoniale torna infatti su un precetto antico ricordando che "non deve mai mancare il coraggio alla Chiesa di proporre la preziosa virtù della castità, per quanto ciò sia ormai in diretto contrasto con la mentalità comune. La castità va presentata, sottolinea il documento curato dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita che rilancia le parole dell’Amoris Laetitia del Papa - come autentica "alleata dell’amore", non come sua negazione. Essa, infatti, è la "via privilegiata per imparare a rispettare l’individualità e la dignità dell’altro, senza subordinarlo ai propri desideri".

Da tg24.sky.it il 19 giugno 2022.

Il Papa torna a parlare dell'informazione condannando le fake news. "Se noi prendiamo i mezzi di comunicazione di oggi: manca pulizia, manca onestà, manca completezza. La dis-informazione è all'ordine del giorno: si dice una cosa ma se ne nascondono tante altre" ha detto Papa Francesco nel discorso consegnato ai Paolini, nell’udienza nella quale ha scelto di parlare a braccio e a porte chiuse. 

Papa: “Far sì che comunicazione venga dal Vangelo”

"Dobbiamo far sì che nella nostra comunicazione di fede questo non succeda, non accada, che la comunicazione venga proprio dalla vocazione, dal Vangelo, nitida, chiara, testimoniata con la propria vita", ha aggiunto rivolgendosi ai religiosi esperti di comunicazione.

·        Il Vaticano e l’Aborto.

Daniele Dell'Orco per “Libero quotidiano” il 5 luglio 2022.

Il Nancy Pelosi-gate continua a dividere la Chiesa cattolica. La speaker della Camera dei rappresentanti Usa lo scorso 29 giugno ha fatto la comunione durante la messa in parte presieduta da papa Francesco nella Basilica di San Pietro. E questo nonostante poche settimane prima l'arcivescovo Salvatore Cordileone di San Francisco, la diocesi natale della Pelosi, le avesse vietato di ricevere la comunione per il suo esplicito sostegno all'aborto. 

«Dopo numerosi tentativi di parlare con lei per aiutarla a capire il grave male che sta perpetrando, lo scandalo che sta causando e il pericolo per la propria anima che sta rischiando, ho stabilito che è giunto il punto in cui devo dichiarare che non è ammessa alla Santa Comunione a meno che e fino a quando non ripudi pubblicamente il suo sostegno ai "diritti" dell'aborto e confessi e riceva l'assoluzione perla sua collaborazione in questo male nel sacramento della penitenza», così aveva motivato duramente la sua scelta Cordileone.

Il diktat del vescovo californiano era stato aggirato dalla Pelosi durante il soggiorno Roma per una vacanza in famiglia (anche se i ben informati sostengono non si trattasse affatto di villeggiatura ma della concreta possibilità che possa diventare il prossimo ambasciatore americano in Italia), quando aveva partecipato alla liturgia per la festa dei Santi Pietro e Paolo nella Basilica vaticana e avrebbe ricevuto l'ostia. 

Non dal Papa in persona che, per il dolore al ginocchio, ha presieduto solo la prima parte della messa e la liturgia della parola, lasciando poi la guida della liturgia eucaristica al cardinale decano Giovanni Maria Re. Il sacramento eucaristico è stato celebrato da un altro sacerdote di cui non si conosce la nazionalità e non è nemmeno chiaro se sapesse chi aveva di fronte. 

Ma dalle parole di Papa Francesco, riportate in una intervista alla Reuters, il Pontefice ha in un certo senso comunque «rivendicato» il gesto, difendendo la possibilità di dare la comunione a quei politici che hanno posizioni pro-choice (come pure lo stesso presidente Usa Joe Biden) e sostengono progetti di legge abortisti.

In America la questione è tutt' altro che chiara, e ha spaccato in due l'episcopato: da una parte coloro che fanno valere il magistero e si rifiutano di dare la comunione ai politici abortisti e dall'altra chi, invece, fa prevalere il dialogo e la misericordia. Papa Francesco ha in qualche modo dettato la linea in un passaggio in cui dice che «quando la Chiesa perde la sua natura pastorale, quando un vescovo perde la sua natura pastorale, questo causa un problema politico. Questo è tutto ciò che posso dire».

Allo stesso tempo però, mentre non si placano le proteste e i tentativi di correre ai ripari negli Stati Uniti dopo la sentenza della Corte Suprema, il Papa, interrogato sulla sentenza della che ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, che nel 1973 stabilì il diritto di una donna a interrompere la gravidanza, ha affermato di rispettare la decisione ma di non poter dire, da un punto di vista giuridico, se (la Corte) abbia fatto "bene o male". Il Pontefice, però, nell'intervista ha ribadito la sua visione antiabortista, paragonando l'interruzione di gravidanza all'assunzione di un sicario. 

La Chiesa cattolica insegna che la vita inizia al momento del concepimento, ha detto in sostanza, affidandosi infine alla domanda retorica: «Chiedo: è legittimo, è giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema?».

·        La Chiesa e gli Lgbtq.

Belgio, strappo dei vescovi: "Benedizione a coppie gay". Se non è uno strappo in piena regola, poco ci manca. I vescovi del Belgio hanno pubblicato una liturgia per la benedizione delle coppie gay. Redazione il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Se non è uno strappo in piena regola, poco ci manca. I vescovi del Belgio hanno pubblicato una liturgia per la benedizione delle coppie gay. Una benedizione che non ha «dignità» di sacramento vero e proprio come lo è invece il matrimonio tra uomo e donna, ma rappresenta comunque una novità forte rispetto alla linea tracciata dal Vaticano. È infatti la prima volta nel mondo che viene creata una benedizione specifica per le coppie omosessuali. «La differenza deve rimanere chiara con ciò che la Chiesa intende per matrimonio sacramentale», specificano a Buxelles, ma lo strappo è potenzialmente esplosivo. O semplicemente del tutto innovativo.

Il portavoce dell'arcidiocesi di Mechelen-Bruxelles Geert de Kerpel spiega che in effetti la liturgia pubblicata non è stata presentata in anticipo al Vaticano. La liturgia, oltre alla preghiera e alla lettura della Bibbia, prevede un passaggio in cui si sottolinea «l'impegno" delle due persone interessate che esprimono insieme davanti a Dio come si impegnino l'uno verso l'altro, vogliono esserci l'uno per l'altro in ogni circostanza della vita con la forza di essere fedeli». Il promotore dell'iniziativa Willy Bombeek, nominato dai vescovi coordinatore del progetto su omosessualità e fede, spiega che i vescovi fiamminghi vogliono rendere «strutturale la pastorale e la guida delle persone omosessuali» allo scopo di avere una «Chiesa ospitale che non esclude nessuno».

Il Vaticano fino a questo momento si è sempre espresso negativamente riguardo la legittimazione religiosa delle unioni omosessuali definendola «non lecita» ma i vescovi promotori dell'iniziativa spiegano «Ogni relazione può essere fonte di pace e felicità condivisa per le persone coinvolte». Il caso è aperto, il caos è appena cominciato.

 Domenico Agasso per “la Stampa” il 10 maggio 2022.

La Chiesa è «madre», perciò non può rifiutare i cattolici Lgbtq, che sono «figli di Dio». Anzi, per papa Francesco «una Chiesa "selettiva", di "sangue puro", sarebbe una setta». Il Pontefice lo afferma in una mini-intervista di tre interrogativi realizzata dal padre gesuita James Martin - noto non solo negli Stati Uniti per il suo attivismo a favore dell'apertura ecclesiastica alle persone Lgbtq - pubblicata sul sito Outreach creato dallo stesso prelato. Il 5 maggio «ho chiesto a papa Francesco se fosse disposto a rispondere ad alcune delle domande più comuni che mi vengono poste dai cattolici Lgbtq e dalle loro famiglie», racconta Martin sul portale.

Tre giorni dopo «ho ricevuto una nota scritta a mano con le sue risposte» in spagnolo. Jorge Mario Bergoglio garantisce che «Dio è Padre e non rinnega nessuno dei suoi figli. E "lo stile" di Dio è "vicinanza, misericordia e tenerezza"». E ai cattolici omosessuali rifiutati in qualche modo dalle Sacre Stanze, il Vescovo di Roma dice che quell'abbandono «vorrei che lo riconoscessero non come "il rifiuto della Chiesa", ma piuttosto di "persone nella Chiesa". La Chiesa è una madre e chiama insieme tutti i suoi figli». 

E poi Francesco sentenzia: «Una Chiesa "selettiva", di "sangue puro", non è la Santa Madre Chiesa, ma piuttosto una setta». In altre parole, per il Pontefice argentino nessuno può permettersi di sostenere che gli omosessuali non siano «figli di Dio e della Chiesa». Si tratta dunque di una nuova apertura di Papa Bergoglio nei confronti dei gay. Già nel luglio dello scorso anno il Papa aveva inviato a padre Martin una lettera autografa in spagnolo, in cui si leggeva che il Signore «si avvicina con amore ad ognuno dei suoi figli, a tutti e ad ognuno di loro. Il suo cuore è aperto a tutti e a ciascuno. Lui è Padre».

Bergoglio manifestò la sua approvazione all'impegno di Martin per la causa omosessuale: «Pensando al tuo lavoro pastorale» con le persone Lgbtq, «vedo che cerchi continuamente di imitare questo stile di Dio. Tu sei un sacerdote per tutti e tutte, come Dio è Padre di tutti e tutte. Prego per te affinché tu possa continuare in questo modo, essendo vicino, compassionevole e con molta tenerezza». E il Papa assicurò di pregare anche «per i tuoi fedeli, i tuoi "parrocchiani", tutti coloro che il Signore ha posto accanto a te perché tu ti prenda cura di loro, li protegga e li faccia crescere nell'amore di nostro Signore Gesù Cristo».

Il prete degli Lgbt che sfida la chiesa: “Per vivere non si chiede permesso”. Ridotto allo stato laicale, sposa anche sacerdoti e suore. Le gerarchie gli hanno imposto il silenzio. Ma dal 1971 la sua comunità a Pinerolo è un punto di riferimento. “L’ascolto di un coetaneo in seminario mi ha guarito dal pregiudizio” (foto di Simone Cerio). Marco Grieco su L'Espresso il 20 Giugno 2022.

La rivoluzione di don Franco Barbero, sacerdote di 83 anni, gli ultimi venti dei quali fuori dalla gerarchia cattolica romana, è tutta racchiusa nella sua biblioteca: «Ho contato 14mila libri in tutto», ammette. Non c’è metonimia più calzante degli scaffali vertiginosi in cui si alternano i commenti ai Salmi di Gianfranco Ravasi alla “teologia ribelle” di Hans Küng per descrivere la vita vorticosa del primo presbitero italiano che ha prestato ascolto e dato una casa ai cristiani Lgbt+, orfani non solo di genitori troppo intransigenti, ma della chiesa stessa. Dal 1971, anno di fondazione della prima comunità di base per credenti omosessuali, don Franco dice loro che Dio, il padre dei padri, non li ha mai abbandonati, «malgrado il vescovo ci definì una comunità di “fuori posto” quando, nel 1988, chiedemmo di incontrarlo». Le frizioni con la gerarchia arriveranno, però, dopo: «Negli anni Sessanta, la parola gay era innominabile. Per questo, quando decisi di trovare uno spazio in cui poterci incontrare, all’affittuaria dissi che avrei accolto ragazzi un po’ particolari», spiega, pensando alla prudenza di allora quale sorella stretta del coraggio. 

Presto il piccolo appartamento in corso Torino, nel cuore di Pinerolo, sarebbe diventato l’occhio di un ciclone che avrebbe scosso anche il Vaticano. Il 25 gennaio 2003, con un provvedimento della Congregazione per la dottrina della Fede firmato dall’allora prefetto Joseph Ratzinger, papa Giovanni Paolo II ridusse don Franco allo stato laicale, con una sentenza che escludeva la possibilità di appello: «Mi temevano perché io, in coscienza, avrei continuato a fare il prete. Ai funzionari che mi giudicarono, anzi, rivelai che, nel giro di una settimana, avrei sposato due donne».

Vent’anni dopo, don Franco non ha perso quell’ironia ai limiti del provocatorio, che ammette di ereditare da Cristo: continua a sposare coppie Lgbt+ e spesso è invitato in gran segreto a matrimoni fra preti cattolici: «Alcuni di loro continuano ancora il ministero di parroci. E io li ammiro, perché hanno il coraggio di vivere in libertà di coscienza unendo la missione sacerdotale alla loro vita affettiva e sessuale».

Sessant’anni fa per lui, formatore in seminario, non era così scontato: «Era il 7 dicembre 1963, e un ragazzo, mio coetaneo, mi confessò con coraggio di amare un altro uomo. Sarà il primo dei nostri incontri, conoscerò il suo compagno, e l’ascolto della loro esperienza di autentico amore mi guarirà dal pregiudizio». È il primo incontro a cuore aperto che don Franco fa con la vita incarnata nella quotidianità di vite sospese, quelle che lo porteranno, venti anni più tardi, ad organizzare con Ferruccio Castellano il convegno europeo su “Fede cristiana e omosessualità”. 

Nel 1964 negli Usa il titolo VII del Civil rights act sancisce il divieto di discriminazione sessuale, ma al di qua dell’Atlantico, nel «lago di Tiberiade del Mediterraneo», società e cultura sono ancora inibiti dal colpo di frusta del fascismo. Don Franco, però, si mette in ascolto e decide di incontrare un giovane Franco Basaglia, fresco di nomina a direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia: «Io gli parlavo del Vangelo di Marco e lui m’invitava a curare l’ascolto degli altri». Si respirano i prodromi di quel cammino che portò allo smantellamento dei manicomi e a un ripensamento dei servizi territoriali per la salute mentale grazie alla legge 180/1978. Ma il percorso non è semplice se, poco prima dell’entrata in vigore della Legge Basaglia, sulle colonne de La Repubblica si racconta dello studente partenopeo Carlo Di Marino che, uscito dal manicomio di Villa Chiarugi dove era stato sottoposto a elettroshock per la sua omosessualità, denunciava famiglia ed équipe medica per i trattamenti disumani a cui era stato sottoposto: «Essere omosessuali non vuol dire essere pazzi», disse.

Laddove la società internava, don Franco creava uno spazio di accoglienza, e lo fa mostrando i libri di Edward Schillebeeckx, Karl Rahner e Marie-Dominique Chenu, i teologi protagonisti del cammino di rinnovamento di quella «chiesa coraggiosa» che volle conoscere personalmente a Nimega, dove tra 1964 e 1965 erano in corso i lavori preparatori per la stesura del catechismo della chiesa olandese: «Lì ho visto una chiesa che metteva le persone al centro, che discuteva con libertà su tutto, compresa la presenza di donne nel ministero. Io venivo dalla chiesa del dogma e ho trovato una chiesa dell’ascolto, che non parlava di infallibilità, ma di ricerca; non di potere, ma di servizio».

Al di qua delle Alpi, però, non c’è quel vento di rinnovamento per lui, che comincia a vedere nella chiesa di Roma l’atteggiamento intransigente dei padroni delle fabbriche. Nel 1967 paga le sue aperture in campo dottrinale con il divieto d’insegnamento e il trasferimento in una parrocchia periferica. Due anni dopo sarà processato per la sua militanza accanto agli operai: «Avevo preso le parti degli emarginati delle fabbriche. Erano gli anni della migrazione dal sud Italia e trovavo Gesù fra gli esclusi». Sono passati anni dall’ascolto di quel ragazzo e al suo volto se ne sono aggiunti altri, inclusi quelli di sacerdoti e suore che lo contattano in anonimato: «Avvertivo nei loro occhi un disagio, che poi diventava anche il mio. Poi trovavano un luogo in cui parlare con franchezza di tutto, senza essere condannati dalla comunità. Noi non facevamo distinzione tra omosessuali o eterosessuali, separati o divorziati, uomini o donne» puntualizza lui, che alla parola coming out preferisce il verbo riflessivo «svelarsi», più idoneo a descrivere quel guizzo dello sguardo contemplativo verso se stessi che rivela la sindone della nostra identità, come il Cristo dormiente all’alba della sua risurrezione. 

Don Franco è ancora presbitero quando si avvicina al dramma di chi, dall’interno della chiesa cattolica, gli chiede aiuto: «Ho accolto preti, suore, religiosi impauriti: alcuni mi hanno confidato i loro dolori, altri si sono tolti la vita. La cosa che mi ha rattristato di più è stato vedere che dovevano vivere nascosti, controllati, indotti a fare il doppio gioco. Ma che senso ha avere un amore nascosto?».

Nel cuore dell’epidemia di Aids, si occupa di alcuni sacerdoti ammalatisi dopo aver avuto rapporti non sicuri. Eppure, quanto più si avvicina alla carne sanguinante della chiesa, tanto più lo allontanano le gerarchie ecclesiastiche: «Nessuno ti tocca se ti occupi di tossicodipendenza, di mafia, di lotta non-violenta. La gerarchia scatta quando vai a toccare la sacralità del suo potere, quando si trasgrediscono le regole ecclesiastiche che escludono i divorziati o i gay e le lesbiche dalle nozze cristiane». Alcune tra queste testimonianze sono venute alla luce, confluite nel volume “Amori consacrati” (Gabrielli editori): «C’è tanto coraggio in loro, che hanno scelto di mettere al primo posto Dio e la preghiera e sono andati oltre le barriere poste dall’istituzione. La persona possiede una libertà che va oltre qualsiasi istituzione, e la libertà è come un mattone che si sottrae al palazzo». Molti di loro sono ancora dentro la chiesa, si ghettizzano, sviluppano una schizofrenia che permette loro di vivere in una realtà ecclesiale dove la sessualità è ancora l’elefante nella stanza.

Negli Usa, Andrew Sullivan, giornalista naturalizzato americano, ne ha trattato ampiamente sul New York Magazine. Secondo Sullivan, le inchieste indipendenti riportano che, nel 2019, il 15 per cento dei 37mila sacerdoti statunitensi si è dichiarato omosessuale: «Dalle mie ricerche emerge che sono intorno al 30-40 per cento tra i diocesani e molti di più – almeno il 60 per cento – in ordini religiosi come i francescani e i gesuiti». In Italia mancano i dati. Andrea Grillo, il teologo dell’Ateneo Sant’Anselmo di Roma che ha aiutato Papa Francesco nella recente riforma liturgica, autore del recente saggio “Cattolicesimo e (omo)sessualità” (Morcelliana editore), spiega: «Di fronte alle vite omoaffettive che mettono radici e che vivono la fedeltà, la stabilità e la generosità, la chiesa deve precisare la propria disciplina e la propria dottrina, deve superare anzitutto la lettura della omosessualità come negazione della differenza e della trascendenza e uscire da una lettura del fenomeno come “vizio della castità”. Il resto verrà di conseguenza», evidenziando il paradosso di una chiesa che accoglie tutti, ma che nei suoi documenti ecclesiali - come la lettera Persona Humana del 1975 - qualifica l’orientamento omosessuale «una minaccia per la vita e il benessere di un gran numero di persone».

Per aver parlato di «dono dell’omosessualità» al Giubileo del Duemila, don Franco è invitato a ritrattare: «Non l’ho fatto, anzi ho risposto che bisogna vivere la propria vita senza chiedere permesso». Alle proposte avanzategli dalla chiesa cattolica e ortodossa in cambio del suo silenzio, ha risposto con un sereno diniego: «La mia chiesa è dei poveri, invece nelle gerarchie vaticane ho visto una chiesa che badava a farmi tacere piuttosto che ascoltarmi». Oggi don Franco non conta le norme a cui ha trasgredito. Per lui conta solo l’amore. Lo riafferma con l’entusiasmo di un giovane prete nel cuore di Pinerolo, divenuta l’ombelico di un mondo nuovo.

·        Il Vaticano e l’Immigrazione.

La svolta confessionale in Inghilterra e Galles. Adesso i cristiani non sono più maggioranza. Per la prima volta sotto il 50% della popolazione. Aumentano gli islamici. Erica Orsini il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Inghilterra e Galles non sono più Paesi a maggioranza cristiana. Per la prima volta infatti, i nuovi dati del censimento 2021 rivelano una riduzione del 17% nel numero di persone che si definiscono cristiane, pari a 5.5 milioni di abitanti. Aumenta invece il numero dei credenti islamici, che va dal 4,9% al 6,5%, portando la popolazione musulmana a 3.9 milioni. Nelle due Nazioni del Regno, che costituiscono circa il 90% della popolazione pari a 67 milioni di soggetti, i cristiani osservanti raggiungono ora il 46,2% degli abitanti rispetto al 59,2 rilevato dieci anni fa. Il 37,2% dei soggetti dichiara infine di non avere religione facendo registrare un aumento del 22% nell'ultimo decennio. Un risultato che fotografa una società da una parte sempre più multietnica e multiculturale e dall'altra sempre più distante dalle pratiche religiose.

«Questi ultimi dati ci invitano a fare la nostra parte nel far conoscere Cristo - ha commentato ieri l'arcivescovo di York, Stephen Cottrell - ci siamo lasciati alle spalle l'era in cui la maggioranza delle persone si definivano automaticamente come Cristiani, ma altri studi mostrano in modo consistente come queste stesse persone siano ancora alla ricerca di un verità una saggezza spirituale e di una serie di valori a cui ispirarsi e secondo cui vivere». «Uno degli aspetti più eclatanti che emergono dal censimento - ha sottolineato il direttore esecutivo di Humanist UK, Andrew Copson - è quanto siano in contrasto i dati con il nostro Stato. Nessuno stato in Europa ha un'impostazione religiosa come la nostra in termini di legislazione eppure allo stesso tempo abbiamo un rilevante fetta di popolazione non religiosa». Una seconda analisi fatta dal quotidiano Guardian mostra come le aree con una proporziona più alta di minoranze etniche risultano essere anche quelle più religiose mentre le zone dove la popolazione bianca è la maggioranza hanno anche una prevalenza di atei e si trovano tutte nel sud del Galles e, per quanto riguarda l'Inghilterra, nelle aree di Brighton, Hove e Norwich.

In luoghi come Bristol e Hastings più della metà della popolazione dichiara di non essere religiosa e le zone dove si concentra la maggior parte dei credenti, con una percentuale vicina ai due terzi della popolazione appartenente alle minoranze etniche, sono Harrow,Redbridge e Slow. L'ultimo censimento prende in considerazione differenti gruppi di età, combina indici diversi (fertilità, mortalità, migrazione) e indica un serie di fattori possibili che possono aver contribuito all'inversione di tendenza nel profilo religioso del Paese. In Inghilterra e in Galles, attualmente la popolazione di maggioranza bianca, anche quella non britannica, appare in leggera discesa mentre risultano in aumento le minoranze etniche che in alcune grandi città inglesi hanno ormai preso il sopravvento. Ne è un esempio Leicester, dove il 59,1% della popolazione appartiene a gruppi di minoranza etnica, un cambiamento enorme rispetto al 1991 quando questi gruppi costituivano appena un quarto dei residenti. La stessa cosa accade anche a Luton e a Birmingham dove le percentuali si sono rovesciate e le minoranze sono divenute maggioranze.

Strumentalizzate le parole di Bergoglio. Papa Francesco strumentalizzato: che faccia tosta chi lo mette tra gli anti migranti. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista l’8 Novembre 2022

Soldato Bergoglio, abile e arruolato nelle file di chi lo tira verso politiche di chiusura nei confronti dei migranti? In realtà le facili strumentalizzazioni o semplificazioni (anche giornalistiche, soprattutto nei titoli) devono fare i conti con il ragionamento portato avanti sull’aereo, nel volo di ritorno dal Bahrein, anche questa volta pienamente coerente con la linea della Santa Sede, umanitaria ed evangelica. Con la differenza che stavolta il Papa ha dato un’apertura di credito al governo italiano da poco insediato. Ma lo ha fatto da buon gesuita, e pertanto – a saper leggere tra le righe – le sue frasi suonano in effetti molto abili nel restringere ogni campo di manovra se ci fosse chi vorrebbe lasciare – letteralmente – i migranti in mare.

E dunque di fronte alla domanda su quale valutazione verso le politiche sul trattamento dei disperati in mare e sul nuovo governo, Papa Francesco ha esordito ricordando il principio di fondo: “I migranti vanno accolti, accompagnati, promossi e integrati. Se non si possono fare questi quattro passi, il lavoro con i migranti non riesce ad essere buono. Accolti, accompagnati, promossi e integrati, arrivare fino all’integrazione”. Secondo: il ruolo dell’Europa. “Ogni governo dell’Unione Europea deve mettersi d’accordo su quanti migranti può ricevere. Al contrario sono quattro i paesi che ricevono i migranti: Cipro, la Grecia, l’Italia e la Spagna, che sono quelli più vicini al Mediterraneo, nell’entroterra ce ne sono alcuni, come la Polonia, la Bielorussia”. Dalla geopolitica, il Papa è tornato al principio: “Parlando dei tanti migranti del mare: la vita va salvata”. E sul Mediterraneo ha ribadito l’idea già espressa nel 2013 nel primo viaggio, a Lampedusa: “È un cimitero”. Anzi di più: “Forse il cimitero più grande del mondo”. Ed ha citato una sua lettura personale e toccante: il racconto “Hermanito”(“Fratellino”), dove Ibrahima Balde, guineano (a quattro mani con Amets Arzallus Antia), racconta la sua storia di ragazzo africano che arriva in Spagna per seguire le tracce del fratello che aveva cercato di raggiungere l’Europa e racconta le sevizie e le forme di schiavitù cui è stato sottoposto prima di raggiungere la sua méta.

“Dittatura della schiavitù, e rischio di morire in mare”, ha sintetizzato Papa Francesco che già in un’altra occasione si era riferito alla vicenda raccontata nel volume. E quindi, ha aggiunto, “la politica dei migranti va concordata fra tutti i paesi, non si può fare una politica senza consenso, e l’Unione Europea deve prendere in mano una politica di collaborazione e di aiuto, non può lasciare a Cipro, Grecia, Italia e Spagna, la responsabilità di tutti i migranti che arrivano alle spiagge”. Nella seconda parte della risposta – già abbastanza ampia – il Papa ha dato un’apertura di credito al governo italiano. “La politica dei governi fino a questo momento è stata di salvare le vite, questo è vero. Fino ad un certo punto si è fatto così e credo che questo governo italiano abbia la stessa politica”. E si riferisce “a quello che ho sentito dire”, cioè la decisione di far sbarcare i profughi più deboli, come poi è accaduto in Sicilia. Ma, ha aggiunto ancora il Papa, la politica di un governo sul tema non può prendere una strada in solitaria. E qui il Papa gesuita ha indicato la rotta di una visione comune, senza la quale non si può procedere.

“L’Italia, questo governo, non può fare nulla senza l’accordo con l’Europa, la responsabilità è europea, e poi vorrei citare un’altra responsabilità europea sull’Africa, credo che questo lo ha detto una delle grandi donne statiste che abbiamo avuto e abbiamo, la Merkel, ha detto che il problema dei migranti va risolto in Africa, ma se pensiamo l’Africa con il motto: l’Africa va sfruttata, è logico che la gente scappi. Dobbiamo, l’Europa deve cercare di fare dei piani di sviluppo per l’Africa. Pensare che alcuni Paesi in Africa non sono padroni del proprio sottosuolo, che ancora dipende dalle potenze colonialiste. È un’ipocrisia risolvere il problema dei migranti in Europa, no andiamo a risolverli anche a casa loro”. Va ricordato che già nell’Ottocento il vescovo missionario Daniele Comboni con il motto “l’Africa agli africani” esortava a una collaborazione tra popoli, criticando da antesignano il colonialismo europeo. Tornando a Papa Francesco, sul governo in carica ha espresso un’idea precisa: “Incomincia adesso, gli auguro il meglio. Sempre auguro il meglio ad un governo perché il governo è per tutti e gli auguro il meglio perché possa portare l’Italia avanti e a tutti gli altri che sono contrari al partito vincitore che collaborino con le critiche, con l’aiuto, ma un governo di collaborazione, non un governo dove ti fanno cadere se non ti piace una cosa o l’altra”.

Commentando le parole del Papa, mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha osservato che “si riferiscono alla più antica legge del mare: salvare, curare e prendersi cura dell’altro. Nello stesso tempo c’è il diritto dell’Italia a venire aiutata dall’Europa, ed il dovere europeo di aiutare a salvare. Ma il diritto-dovere non deve pesare sulle spalle dei migranti. Battiamo i pugni sul tavolo, come paese, per farci sentire laddove ci fossero governi che non vogliono ascoltare. Mai però sulle spalle dei migranti. È questa la saggezza del Papa”. D’altro canto, come si vede, il ragionamento di Papa Francesco è articolato e complesso e va seguito per la sua intera lunghezza. Se viene tagliato qualche elemento per finalità particolari, si cade in un meccanismo di disordine informativo, oggi molto caro alla destra cattolica (soprattutto negli Usa, ma con frange rilevanti in Italia ed in Europa), che manipola Papa Francesco per presentarlo contiguo alla politica e non al Vangelo. Come ha commentato ancora mons. Paglia, “Papa Francesco insiste che la terra è una casa comune e non va danneggiata ed i popoli sono tutti fratelli. Vedo poca consapevolezza sul fatto che i popoli sono una famiglia unica, plurale, e così si impedisce il diffondersi di quella visione universale che Papa Francesco continua a impersonare e proclamare ovunque si trovi”.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Vescovi "rossi" spiazzati dalla svolta del Papa. La Cei frena dopo il sostegno al governo sui migranti: "Nessuna copertura politica". Stefano Zurlo il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.

La parola esatta è: spiazzati. I vertici della Cei forse non si aspettavano quelle parole del Papa sul volo di rientro dal Bahrein. Quel richiamo all'Europa: «L'Italia non può fare da sola» davanti al dramma dei profughi. Certo, Francesco ha ricordato che il Mediterraneo «è forse il cimitero più grande del mondo», ma poi con realismo ha interpretato la difficile posizione del governo italiano, stretto fra i doveri umanitari e la difesa dei nostri confini.

Così, ieri il vicepresidente della Cei, monsignor Francesco Savino, esprime in qualche modo il disagio di parte dell'episcopato con una frase mirata: «Non utilizziamo Papa Francesco come copertura di scelte politiche». E monsignor Giancarlo Perego, presidente della fondazione Migrantes, organismo della Cei, attacca esplicitamente l'esecutivo a proposito di quanto sta accadendo a Catania: «La situazione è drammatica, anticostituzionale, non rispetta le famiglie che sono su queste navi, non rispetta il diritto fondamentale al soccorso della Convenzione di Ginevra». Evidentemente, il discorso del pontefice viene filtrato attraverso la sensibilità dei vertici della Cei che difendono una linea tradizionale.

Nessuno è così sprovveduto da appiccicare, come pure si è fatto spesso in passato da una parte e dall'altra, etichette ai ragionamenti di Bergoglio. C'è però qualcosa di inatteso nelle risposta che Francesco ha dato ai giornalisti. La Cei e la sua leadership in particolare hanno sempre privilegiato alcuni tasti, ora Bergoglio sembra svolgere un ragionamento polifonico, più complesso, capace di tenere insieme diverse esigenze. È così anche quando a sorpresa dichiara: «La povertà non si combatte con l'assistenzialismo». Un concetto che i giornali traducono subito in un titolo facile: il Papa scomunica il reddito di cittadinanza.

La Cei registra con qualche affanno la predica in volo di Bergoglio. «Il 70% dei miei colleghi - spiega al Giornale un vescovo che vuole mantenere l'anonimato - ha un'impostazione di sinistra, ma la sinistra ha perso la connessione con il popolo e dunque anche i capi della Chiesa italiana vivono questa difficoltà culturale e pastorale. Bergoglio invece ha un'altra matrice: è un gesuita, attaccato in passato perché ritenuto di destra, e come tale ha frequentato il potere. È più pragmatico: in questo momento il popolo italiano ha scelto la destra, dopo anni di governi nati fuori dalle urne, e lui dà credito a questa soluzione, senza pregiudizi».

Può sembrare quello di Bergoglio un ritratto inedito, per chi lo ha frettolosamente catalogato come un pontefice progressista. Ma la realtà è più sfumata; Francesco ha un temperamento forte e dà molta importanza agli incontri e al fattore umano: ci sono in lui elementi cosiddetti di sinistra, se si adotta il solito metro manicheo, e altri più tradizionali. Un mix non incasellabile, antiideologico, che sfugge alle classificazioni: c' è in lui grande attenzione al tema incandescente della povertà - e il povero per il Cristiano è Cristo che bussa - ma poi ci sono le riflessioni che allineano la solidarietà e la capacità dello Stato di governare.

La Chiesa, maestra di realismo - basta pensare all'antiutopismo del peccato originale - sta con gli ultimi ma Bergoglio non dimentica le ragioni degli esecutivi, in particolare di quello che si è appena insediato a Palazzo Chigi. E prova a pesarlo sul campo nella capacità di affrontare i problemi. Per la Chiesa italiana, in parte prigioniera di schemi datati, si apre una stagione nuova, fuori dai canoni del passato.

·        Il Vaticano e l’Italia.

"Vi svelo come è nata la crisi tra Italia e Vaticano". L'ex direttore del TG2 racconta la crisi del rapporto fra Stato e Chiesa nel suo ultimo saggio Lo Stivale e il Cupolone. Italia - Vaticano una coppia in crisi edito da Il Timone. Roberto Vivaldelli il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

"Quella tra Stivale e Cupolone è davvero, oggi, una coppia in crisi. La separazione - più giudiziale che consensuale - è un dato di fatto. Con l’aggravante della necessità - o costrizione - di dover convivere comunque sotto lo stesso tetto. La crisi italiana si specchia in quella di tutta Europa, ormai priva d’identità morale, culturale e religiosa; povera di rappresentatività democratica; succube dei poteri economici e finanziari; nelle mani di una tecnocrazia che pretende d’indicare la rotta e di scrivere il futuro". È l’analisi di Mauro Mazza, giornalista ed ex direttore del TG2, riportata nel suo ultimo saggio Lo Stivale e il Cupolone. Italia - Vaticano una coppia in crisi edito dalla rivista Il Timone, libro che in 239 pagine esplora - e ricostruisce, con retroscena e dovizia di particolari - il complesso e sfaccettato rapporto tra Vaticano e Stato italiano. Lo abbiamo raggiunto per porgli qualche domanda sul suo ultimo, importante, lavoro.

Caro direttore, partirei subito dalla tesi centrale di questo saggio, cioè la crisi profonda tra Italia e Vaticano. Un rapporto che è sopravvissuto a grandi tensioni, ma negli ultimi 20 anni sembra essere entrato in una crisi morale e politica che sembra quasi irreversibile. Cos’è successo?

È venuta meno da alcuni decenni quella che Papa Wojtyła chiamava l’eccezione italiana. Come se l’Italia, forte della sua tradizione, del suo aver ospitato il cuore della Chiesa, per 20 secoli, potesse essere immune all’egemonia del relativismo etico. Invece, negli ultimi decenni c’è stata esattamente quest’omologazione. L’Italia ha rinunciato a una parte importante, essenziale per la sua identità. Cultura, civiltà, bellezza, quello che ha fatto dell’Italia l’Italia. Il risultato è uno smarrimento che è sotto gli occhi di tutti.

Un passaggio molto significativo è quando lei scrive che, ancor più che altrove, l’Italia pare essere dominata da un pensiero unico assoluto e indiscutibile, da un potere intollerante gestito da sedicenti tolleranti. A che cosa si riferisce, di preciso?

Sono i nipoti e pronipoti dell’illuminismo, di Voltaire, della Rivoluzione francese. Perché dietro quei principi immortali di uguaglianza, libertà e fratellanza, si sono commessi tanti delitti. Oggi questi sedicenti tolleranti danno prova di intolleranza quotidianamente. Basta riflettere sull’aborto come diritto, com'è stato fatto in America dalla Corte Suprema Usa, per scatenare un putiferio o accennare all’impossibilità di omologare, ovvero di trasformare in famiglia, delle unioni tra persone dello stesso sesso. Coppie che legittime, per carità, ma si pretende che siano omologate alla famiglia, che è soltanto una ed è formata da uomo e donna. E questo non è cattolicesimo, è diritto naturale. È legge scritta nell’animo di ciascun essere umano.

Cioè?

Basta fare ragionamenti di buon senso per essere aggrediti e messi ai margini. E questo è un sistema d’intolleranza da parte dei tolleranti. La violenza dei non violenti. È come se avesse vinto, in Italia, il radicalismo Pannelliano. Si è imposto un pensiero unico e questo messaggio si declina in modi diversi.

Un’ondata di politically correct che proviene dagli Stati Uniti e dal mondo anglosassone e che noi stiamo importando, non trova?

Attribuisco al ’68 di essere stato la fucina di due distinte strade. La prima è quella che è poi sfociata nel terrorismo, la versione estrema della rivoluzione politica, che si affermava con la violenza. L’altra è quella della rivoluzione all’interno del soggetto, dell’essere umano: e quindi divorzio breve, aborto facile, pillola del giorno dopo, commercio dei feti, utero in affitto, suicidio assistito, tutti i passaggi rivoluzionari che partono dal filone “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Oggi questa rivoluzione estrema porta al post-umanesimo. Al passaggio in cui l’intelligenza artificiale prenderà il posto dell’essere umano. L’uomo creatura che diventa l’uomo creatore che si suicida.

È il dominio della Tecnica.

Esattamente. Che è stata creata dall’uomo ma l’uomo, che è essere pensante e intelligente, e che riconoscerà un giorno di aver creato qualcosa che gli è "superiore" e quindi gli cederà il posto. Anche il rapporto tra Vaticano e Unione Europea non gode di grandissima salute.

Un altro passaggio significativo è quando lei sottolinea che l’Unione europea è succube dei poteri economici e finanziari, finita nelle mani di una tecnocrazia che pretende d’indicare la rotta e di scrivere il futuro. La guerra in Ucraina ha messo a nudo questa pochezza.

È la tecnocrazia che si è fatta tecnoscienza. È diventa un potere forte dinanzi al quale l’uomo, che ha rinunciato alla sua componente spirituale, è succube e costretto all’obbedienza. Forse è il potere forte per eccellenza, che ha dominato anche durante l’emergenza della pandemia, senza che nessun altro potere possa fare nulla. La politica e la stessa religione hanno ceduto: quando si sono chiuse le chiese e si sono impedite le estreme unzioni e i funerali, vuol dire che si è abdicato alla “dittatura scientifica”, in forme anche estreme.

Nel saggio parla di una peculiarità tutta italiana, rappresentata dalla Democrazia Cristiana. Il rapporto con il Vaticano, però, non è sempre stato così idilliaco...

Sì, ma c’è un però. Il Vaticano fu costretto nel Dopoguerra a scegliere di sostenere e appoggiare la Dc in funzione anticomunista e che l'Italia fosse conquistata elettoralmente a una sinistra legata all’Urss di Stalin. Questa scelta obbligata di Pio XII con De Gasperi ha in qualche modo relativizzato la Chiesa in Italia.

Si spieghi meglio.

Mentre nel secolo precedente, dopo la Breccia di Porta Pia, il Papa disse Non Expedit, la Chiesa rimase comunque radicata nella stragrande maggioranza del popolo italiano. Nell’Italia democratica del Dopoguerra l’appoggiare in maniera quasi esclusiva la Dc ha in qualche modo fatto sì che i cattolici fossero una maggioranza relativa. Si è “partitizzata” e questa ha impedito alla Chiesa di convincere e parlare a tutti gli italiani.

Parliamo un po’ dell’ultima fase della Prima Repubblica, è lì che comincia la crisi?

Il Caso Moro è l’inizio della fine della Prima Repubblica. È il punto più esposto di unità e simbiosi quasi tra Chiesa e vertici politici italiani: ma la morte di Aldo Moro e quella di Paolo VI da lì a tre mesi, segnano l’inizio della fine, poi sancita da Tangentopoli, referendum elettorali e quant’altro.

Con la scomparsa di Giovanni Paolo II e la nomina di Benedetto XVI, lei sostiene che in quella fase esplose la rabbia degli anticattolici che Wojtyla aveva saputo in qualche modo contenere.

Per più di un quarto di secolo, dal 1978 al 2005, questo Pontificato, questa prorompente personalità di Giovanni Paolo II, hanno quasi costretto gli avversari della Chiesa che non erano rassegnati, ma solo timorosi di essere troppo concorrente e di non essere in sintonia con la maggioranza della pubblica opinione, di farsi un po' da parte. Sono poi esplosi con l’elezione di Papa Ratzinger. Mai, nella storia della Chiesa, c’è stato un attacco così violento e diretto nei confronti di un Pontefice. Violentissimo. Mai, però, come in quegli anni, la Chiesa ha sofferto una crisi così profonda al suo interno da costringere il Papa alle dimissioni clamorose nel 2013.

Dinanzi a questo scenario poco incoraggiante, quale dovrebbe essere la risposta della Chiesa e dei fedeli?

Il Vaticano deve chiarire al suo interno cosa fare. È ancora diviso da spinte contrapposte. Nel libro accenno una cosa: c’è una cultura laica e liberale che si rende conto che questo mondo che ha rinunciato alla religione, alla spiritualità, alla moralità, all’etica, che ha calpestato il diritto naturale, laica si rende contro che è necessario un supplemento d’anima, che soltanto il dialogo con la religione può dare. Nutro la speranza che un dialogo con questa cultura liberale, attenta alla gravità della rinuncia che si è compiuta, possa tornare a dialogare fino a dare quel supplemento d’anima senza il quale l’umanità va incontro al burrone senza nemmeno rendersene conto. Significa avere come bussola il bene comune, che si persegue con il dialogo. Servono uomini di buona volontà che perseguano quest’obiettivo.

Gli incontri epocali dell'inviato Gawronski con i grandi del mondo. L'intervista a Wojtyla che valse "tre encicliche", l'ironia di Castro e la fermezza della Thatcher. Francesco Perfetti il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Non mi è mai capitato di incrociare Jas Gawronski, ma ho avuto il piacere (e la fortuna) di conoscere, intervistare e frequentare, sia pure episodicamente, la madre. Si trattava di Luciana Frassati, figlia del mitico fondatore e direttore del quotidiano torinese La Stampa. Ebbi modo di incontrarla nel 1978 in occasione della pubblicazione del primo tomo della sua ponderosa opera dedicata al padre. Ne conservo il ricordo di una donna eccezionale, di grande vivacità intellettuale e fascino umano. Aveva conosciuto tante importanti personalità culturali - da Franz Werfel ad Alma Mahler, da Wilhelm Furtwängler ad Arturo Toscanini e via dicendo - e, moglie di un diplomatico polacco, si era impegnata per salvare, da nazisti e bolscevichi, tante vite. Avevo letto un suo libro di memorie, Il destino passa per Varsavia, che racconta dei suoi incontri con Mussolini e che, oltre ad essere coinvolgente, è anche storicamente importante, tant'è che Renzo De Felice, anni dopo, volle farlo ripubblicare.

All'epoca di quell'incontro, Jas Gawronski, il più noto dei suoi figli, era già un personaggio di successo: un grande giornalista, inviato speciale in tanti Paesi e poi corrispondente della Rai a New York e Parigi. Quel che colpiva, nei suoi servizi, era la capacità di raccontare gli avvenimenti e soprattutto di spiegarli attraverso i loro stessi protagonisti. Non si era ancora convertito alla politica che lo avrebbe visto più volte parlamentare e per qualche tempo portavoce di Silvio Berlusconi. Il giornalismo, insomma, era la sua vita. E, credo di poter dire, le sue doti di analista politico e di ritrattista erano il retaggio di una tradizione familiare.

Un suo bel libro appena uscito per i tipi di Aragno, dal titolo Da Giovanni Paolo II a Giovanni Agnelli. Dialoghi del '900 (pagg. 198, euro 18), testimonia la passione di Gawronski per il giornalismo. Vi sono raccolte interviste a uomini e donne che in qualche misura hanno lasciato una traccia nella storia, profili di uomini politici e non solo, nonché reportage da territori lontani e poco conosciuti, ovvero da zone particolarmente calde. Un piccolo campionario, insomma, dell'attività (e delle «avventure») di un cronista di razza, scrupoloso e attento.

Gawronski appartiene, come precisa lui stesso, a quella schiera di giornalisti i quali, più che descrivere i fatti, si dedicano ai personaggi, perché «in fondo sono gli individui che determinano gli avvenimenti» e il «ricercare ed esplorare i protagonisti della storia è un po' come andare alla fonte delle vicende umane, piuttosto che analizzarne l'evoluzione». L'esempio più conosciuto, e certo più clamoroso, del suo modo di fare giornalismo è una celeberrima intervista a Giovanni Paolo II pubblicata in contemporanea da molti giornali in tutto il mondo. Fu davvero uno scoop perché mai prima di allora un pontefice aveva rilasciato un'intervista su temi politici a un giornalista.

A rileggerlo, oggi, quel colloquio risalente alla prima metà degli anni Novanta, ha non solo un valore di testimonianza storica, ma contiene anche chiarimenti sulla posizione della Chiesa di fronte alla guerra e sull'idea della possibilità di una «guerra giusta». Sotto questo profilo, appare di sorprendente attualità in un momento nel quale il mondo è percorso dai venti di guerra provocati dall'aggressione russa all'Ucraina. Giovanni Paolo II, riferendosi alla guerra di Bosnia, disse che «in caso di aggressione bisogna togliere all'aggressore la possibilità di nuocere» e precisò che «secondo la dottrina tradizionale della Chiesa la guerra giusta è solamente quella di difesa» perché «ogni popolo deve avere il diritto di difendersi». Il colloquio tra Gawronski e Giovanni Paolo II toccò tanti altri temi: dall'analisi della crisi del sistema comunista al parallelismo fra Stalin e Hitler, dalla situazione dei Balcani alla decadenza del mondo occidentale, dal giudizio su Gorbacev al confronto fra comunismo e capitalismo con una celebre battuta sul «nocciolo di verità» presente nel marxismo e via dicendo. Una intervista a tutto campo, insomma che, come disse un illustre prelato vaticano, valeva «tre encicliche».

Dell'intervista a Giovanni Paolo II si trovano echi in colloqui che Gawronski ebbe con altre figure importanti del Novecento. Quando, per esempio, incontrò Fidel Castro, con quella sua faccia «mimica, espressiva» e la voce «leggermente stridula, quasi felliniana» che stonava con il «corpo possente» dal quale ci si sarebbero attese «note da basso», Gawronski si sentì rispondere, alla domanda sul perché indossasse sempre l'uniforme da guerrigliero, con questa battuta: «Lei, al Papa, glielo ha chiesto perché porta sempre quel vestito bianco?». Tutt'altro che spiritosa fu la risposta che Gawronski ebbe da Margaret Thatcher alla domanda se anche lei, come Giovanni Paolo II, scorgesse qualche «seme di verità» nel comunismo: «non riesco a trovare aspetti positivi in un'ideologia che ha come obiettivo di privare la gente della libertà e non concede né dignità umana né prosperità. Il comunismo è semplicemente il credo di pseudo-intellettuali, per il potere di pseudo-intellettuali che si credono al di sopra del popolo. Una delle più grandi tragedie che sia capitata al mondo». Parole che spiegano il carattere della Lady di ferro.

Nel volume di Gawronski ci sono altre interviste - al filosofo marxista György Lukács, per esempio, allo scienziato Albert Sabin o allo storico Arthur Schlesinger, forse la più celebre delle cosiddette «teste d'uovo» di John Fitzgerald Kennedy - ma anche ritratti come quelli del reverendo Malcom X, paladino islamico degli afro-americani, o del generalissimo Chiang Kai-shek o, infine, di Giovanni Agnelli, l'avvocato che non avrebbe mai voluto investire nell'auto. E non mancano corrispondenze dalla Corea del Nord, dal Kazakistan, dal Laos e via dicendo, tutte scritte con un linguaggio scarno ma coinvolgente e dettate da quello scrupolo per la ricerca della verità che contraddistingue il vero giornalista. Quale è Jas Gawronski.

·        Le Sette.

Il suicidio, l'Apocalisse, gli estremismi: "Cosa c'entrano le sette". Rosa Scognamiglio il 27 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'esperto a ilGiornale.it: "Assisteremo a un aumento delle tensioni sociali e a una sempre più ampia presenza di frange religiose estremiste".

Il doppio suicidio a Spinello di Santa Sofia, dove una coppia di coniugi sessantenni si è tolta la vita, ha riaccesso il dibattito sulle sette apolicattiche. Sebbene il rappresentante legale della "Scuola d'Illuminazione Ramtha", Mike Wright, abbia precisato con una nota inviata a Repubblica che "la scelta tragica" dei due pensionati, Paolo Neri e Stefania Platania, "non rispecchia la filosofia della scuola", gli inquirenti indagano a tutto campo.

Ma cosa sono le sette apocalittiche? C'è il rischio di una deriva sociale? "Temo che in taluni casi questo rischio esista. soprattutto nel caso delle sette apocalittiche, c'è una tendenza a interpretare le crisi sociali, spesso esagerandole", spiega alla nostra redazione il professor Andrea Molle, docente di Scienze Politiche alla Chapman University di Orange, California, ricercatore presso Start InSight, tra i massimi esperti del complotto di QAnon nel panorama internazionale e di nuovi movimenti religiosi.

Professor Molle, cos'è la “Scuola d'Illuminazione Ramtha”?

"È una setta religiosa apocalittica fondata nel 1988 da J.Z. Knight a Yelm, nello stato americano di Washington, con lo scopo di insegnare ai suoi aderenti presunte tecniche di illuminazione e per acquisire poteri sovrumani. J.Z. Knight afferma di essere il veicolo terreno dello spirito di Ramtha, uno guerriero Lemuriano di circa 35.000 anni, che secondo la ricostruzione della donna dichiarò guerra alla mitica città di Atlantide. La setta è conosciuta dagli studi di movimenti religiosi per i suoi contenuti e il messaggio escatologico oltre che per il suo tono estremamente aggressivo e razzista".

Come mai è tornata alla ribalta?

"La setta è recentemente tornata alla ribalta da quando ha iniziato a incorporare contenuti di QAnon nella sua dottrina".

Quali sono i precetti su cui si basa la teoria QAnon?

"QAnon è la famigerata teoria del complotto pro-Trump QAnon, che ha raccolto un numero sorprendente di fan negli ultimi anni e che si basa sull' idea di una guerra incessante del popolo 'illuminato' contro i potenti pedofili cannibali di Hollywood e del Partito Democratico statunitense".

Cosa sono, in generale, le sette apocalittiche?

"Per sette apocalittiche, in generale, si intendono quei gruppi caratterizzati da una forte dimensione escatologica e che viene messa al centro del proprio messaggio religioso. In altre parole si tratta di gruppi solitamente di dimensione contenuta e i cui membri sono legati tra loro da intensi rapporti personali, che promuovono l’idea della fine del mondo e/o del passaggio traumatico ovvero violento verso una nuova Era".

Cioè?

"Naturalmente, nella dottrina del movimento, questa Era vede i suoi membri risultare in una posizione di vantaggio, che va dall’essere gli unici a sopravvivere all’evento apocalittico a trarne i maggiori benefici spirituali, rispetto ai non iniziati. Anche se quest’ultimo aspetto non caratterizza tutte le sette apocalittiche, in rari casi abbiamo assistito alle azioni criminali di gruppi che in qualche modo dal loro punto di vista hanno cercato di causare l’inizio di un’apocalisse. Ad esempio l’attacco terroristico alla metropolitana di Tokyo da parte di Aum Shinrikyo nel Marzo del 1995".

Qual è la differenza tra una setta e un nuovo movimento religioso?

"Nel linguaggio scientifico italiano i termini sono spesso utilizzati come sinonimi, anche se si preferisce evitare il termine 'setta', mentre nel linguaggio comune si tende a dare un’accezione positiva, o comunque neutrale, a 'movimento religioso' laddove per 'setta' si intende spesso una sua forma deviata o deviante. A mio avviso, esistono comunque delle differenze tra i due termini che determinano, almeno nel mondo accademico anglosassone, una distinzione terminologica molto utile tra sect e religious movement".

Può fare un esempio?

"Per fare un esempio: una distinzione molto comune vede le sette come caratterizzate da una leadership verticista e da una struttura organizzativa rigida e in molti casi abusiva nei confronti dei membri. In secondo luogo sono quasi sempre presenti percorsi iniziatici, essenziali per la mobilità interna, che invece non sempre caratterizzano un movimento religioso. Infine una setta è più propriamente strutturata in modo da imporre ai propri aderenti una sorta di 'incapsulamento sociale' e ciò per il fatto che venga loro richiesto di limitare le relazioni sociali - per lo meno quelle emotivamente importanti - all’interno dei reticoli sociali dell’organizzazione eliminando invece progressivamente il contatto con l’esterno".

Vale anche per le sette apocalittiche?

"In particolare nelle sette apocalittiche, l’incapsulamento è ritenuto fondamentale per preservare il movimento da contaminazioni esterne e viene normalmente concepito solo come funzionale a reclutare nuovi membri. Per questo, sotto il profilo quantitativo, le sette tendono a essere più piccole dei movimenti religiosi".

Secondo lei, perché una persona decide di far parte di una comunità settaria?

"Le ragioni sono molte. C'è in primo luogo chi nasce in una setta, quando quest’ultima ha già una certa storia. Invece chi decide di aderire spesso lo fa perché è alla ricerca alla ricerca di qualcosa di eccitante, diverso o comunque mancante nella propria vita o esperienza religiosa".

C'è dell'altro?

"Sono molto importanti anche i reticoli sociali che, molto spesso, agiscono come gatekeeper per la setta. Esiste inoltre un’ampia letteratura psicologica sull’importanza di eventi traumatici, come una malattia o una crisi finanziaria, che possono fungere da catalizzatori avvicinando il potenziale aderente al gruppo. In altri casi questi gruppi si servono di veri e propri front, cioè attività che servono da momento di intermezzo tra la vicinanza alla setta e la piena appartenenza. Questo accade spesso con i gruppi di origine asiatica, che si appoggiano a organizzazioni o individui che operano nel settore delle discipline alternative della salute. Ma anche attività ricreative come arti marziali o, più recentemente, la cucina vegana".

Qual è il confine tra libertà di culto e manipolazione?

"In realtà il confine è molto chiaro. La libertà di culto implica una scelta autonoma dell’individuo di aderire, o meno, a un pensiero religioso e di praticare secondo le sue preferenze. Esiste però un problema relativo al confine tra socializzazione e manipolazione laddove però ogni percorso di socializzazione include un certo livello di manipolazione da parte di soggetti terzi. Dipende dunque da cosa intendiamo per manipolazione".

Che intende dire?

"Se adottiamo una definizione molto ampia, allora ogni esperienza religiosa è di per sé una manipolazione. Chi nasce in una società cattolica, ad esempio, venendo educato come individuo cattolico ha realmente scelto di esserlo? Ma qui entriamo in un paradosso che non è facile da affrontare. Pertanto io preferisco adottare una definizione molto stretta e dunque intenderla solo come una forma di abuso: quando l’individuo è fisicamente o psicologicamente orientato ad abbracciare un sistema di credenze e comportamento che altrimenti non avrebbe scelto volontariamente e non gli viene data alcuna possibilità di rinunciarvi se non a un prezzo elevato".

Quale prezzo?

"In economia della religione si parla propriamente di costly behaviour intendendo sia quelle pratiche costose sotto il profilo fisico che sociale (pensiamo ad esempio alla circoncisione o al velo), ma anche il costo di uscita da un gruppo altamente integrato. In questo senso andiamo sia dalla perdita di relazioni sociali e affettive, all’ostracismo, fino ad arrivare alle minacce fisiche in caso di apostasia".

Gli Stati Uniti sono spesso culla dei nuovi movimenti religiosi. Perché?

"Mutuando ancora il linguaggio dell’economia della religione, gli Stati Uniti sono da sempre caratterizzati da un mercato religioso molto attivo e pluralista. Ciò dipende da molti fattori. Innanzitutto gli Stati Uniti garantiscono la libertà di religione nella loro costituzione e prevedono agevolazioni fiscali per gli enti religiosi. Sono poi un Paese storicamente molto religioso e a maggioranza cristiana protestante e dunque non ha avuto l’esperienza di una Chiesa centralizzata e verticistica".

Come si regolano nel mondo protestante americano le comunità religiose?

"Nel mondo protestante americano le comunità religiose, con esclusione delle grandi organizzazioni come la Chiesa Cattolica, sono fondamentalmente molto autonome anche dal punto di vista dottrinale. Esistono ovviamente delle federazioni (conventions in inglese), ma hanno un ruolo diverso. Pertanto nel tempo si è creata una grande pluralità che ha finito per dare vita a un vero e proprio mercato dove i diversi pastori sono anche imprenditori religiosi che devono attirare fedeli. E gli individui possono scegliere dove andare in base alle loro preferenze".

E poi?

"A questo aggiungiamo un secondo elemento e cioè che gli Stati Uniti sono un Paese di grande immigrazione nel quale le comunità immigrate, nonostante i processi di assimilazione, mantengono anche urbanisticamente una grande coesione e visibilità. Negli anni si sono dunque strutturate delle reti che hanno permesso a diverse esperienze religiose di radicarsi e anche di sperimentare".

Il fenomeno settario ha fatto registrare negli ultimi anni un aumento delle affiliazioni. Come lo spiega?

"Anche in questo caso non esiste una spiegazione semplice. Da un lato vi è una crisi delle organizzazioni religiose tradizionali che, da più parti, vengono accusate di avere perso il contatto con la realtà dei propri aderenti. Dall’altra l’aumento della diversità etnica e del metissage culturale ha esposto molti individui a tradizioni religiose prima del tutto sconosciute o difficili da raggiungere. Aggiungiamo poi che le nostre società stanno vivendo un momento di crisi epocale. Per questo, ad esempio, oltre a quello che lei evidenzia come un aumento delle affiliazioni a sette religiose stiamo assistendo alla nascita di correnti ipertradizionaliste, quasi radicali, all’intero delle religioni universali come il Cattolicesimo, l’Ebraismo e l’Islam".

Ritiene che la pandemia abbia inciso sul numero crescente di adesioni?

"Certamente. Sia per l’inasprimento della crisi sociale e delle tensioni sociali, sia per aver offerto a molti un’occasione per guardarsi attorno. Molti di questi gruppi cui accennavo prima sono estremamente attivi su internet e hanno avuto un boom di richieste di informazioni durante il lockdown".

Quali sono le implicazioni religiose del progresso scientifico e tecnologico?

"Come accennavo prima, un primo vantaggio offerto dalla tecnologia è proprio quello di rendere possibile un contatto 'remoto' o 'virtuale' tra le organizzazioni religiose e il bacino dei potenziali aderenti che non è più sempre rigidamente limitato dalla prossimità. Rispetto al discorso più ampio del progresso, la classica teoria della secolarizzazione che abbiamo studiato in università ci anticipava la morte della religione, o al massimo il suo diventare un fatto privato, schiacciata dal peso delle prove scientifiche".

Ma?

"Oggi sappiamo che non è vero e dovremmo smettere di studiare la secolarizzazione come se fosse una sorta di teoria dell’evoluzione sociale. Anzi stiamo proprio assistendo a un ritorno della religione nello spazio pubblico sia per utilità politica, sia perché proprio la religione - paradossalmente - offre una risposta alla crisi esistenziale data dalla velocità del progresso scientifico che molto spesso confonde le persone e le priva di sicurezze".

Vale anche per le sette?

"Le sette religiose o in generale i movimenti religiosi offrono invece delle risposte che hanno grande presa: o perché contestualizzano il progresso, accettandolo ma definendolo in modo da appagare le necessità ontologiche degli individui, o perché lo rifiutano in toto come ad esempio i movimenti radicali". 

C'è il rischio di una deriva sociale? 

"Temo che in taluni casi questo rischio esista. Come dicevo prima, esistono gruppi che rifiutano il progresso, sia scientifico che tecnologico ma anche sociale (per esempio si battono contro l’inclusione di genere). Questi gruppi in genere reagiscono in due modi. Da un lato abbiamo gruppi che si isolano più o meno definitivamente dalla società anche adottando pratiche anacronistiche – pensiamo agli Amish, agli ebrei ultraortodossi o alle sette mistiche orientali. Dall’altro abbiamo invece quei gruppi che decidono di impegnarsi per cambiare quella società che vedono corrotta e oltre ogni possibilità di recupero. In questo estremo dello spettro religioso troviamo certamente i gruppi terroristici religiosi e le sette apocalittiche".

Nel caso delle sette apocalittiche?

"Consideriamo anche che, soprattutto nel caso delle sette apocalittiche, c'è una tendenza a interpretare le crisi sociali, spesso esagerandole, come conferma della propria visione escatologica. Con il già elevato livello di tensione sociale e politica che caratterizza gli anni in cui viviamo, e grazie alle opportunità per questi gruppi di connettersi fra di loro e con altri gruppi estremisti con cui condividono una sostanziale visione del mondo, è sempre più possibile che si creino le condizioni per un aumento dell’espressione violenta".

Quale sarà l'evoluzione delle sette nei prossimi anni?

"Fare previsioni è sempre difficile, soprattutto quando le si deve fare sul futuro. A mio avviso assisteremo a un aumento delle tensioni sociali e a una sempre più ampia presenza di frange religiose estremiste".

La psico-setta new age nata negli Usa. L'illuminazione promessa dalla medium Jz. Tiziana Paolocci su Il Giornale il 23 maggio 2022.

Il mondo sarebbe dovuto finire il 21 dicembre 2012. O almeno questo credevano alcuni adepti della Scuola di Illuminazione Ramtha (Ramtha's School of Enlightenment) che hanno preso parte negli anni agli eventi organizzati a Spinello, nell'Appennino romagnolo, dalla setta americana con sede a Yelm, nello Stato di Washington. Questa doveva essere anche la convinzione di Paolo Neri e Stefania Platania, la coppia che si è tolta la vita sabato sera nel Forlivese.

Per loro e per tutti i seguaci di Ramtha, Spinello era quel «posto benedetto» che sarebbe sopravvissuto alla fine del mondo, anche se la Scuola parla di mondo che cambia, non che finsce. E Ramtha the Enlightened One, è un saggio guerriero di 35.000 anni, che durante la sua incarnazione nell'antica Atlantide aveva brillato per conquiste militari, sperimentando l'«illuminazione». Poi, nel 1977 era tornato dal passato per parlare unicamente attraverso la discussa medium americana, JZ Knight, 76 anni, ex compagna di classe del guerriero ai tempi di Atlantide. Del rapporto privilegiato con Ramtha la donna, che in realtà di chiama Judith Darlene Hampton, ha fatto una fortuna, creando una scuola, scrivendo libri e partecipando a talk show. A Spinello i suoi seguaci hanno addirittura costruito case bunker per salvarsi dalla fine del mondo. Ma cosa è la Scuola di Illuminazione Ramtha? «Un'accademia della mente, che offre ritiri e laboratori a persone di tutte le età e culture», recita il sito. Le lezioni includono bere vino, fumare la pipa e ballare musica rock 'n' roll. Per gli adepti l'ossido nitrico del vino rosso e del tabacco da pipa aiuta a facilitare i cambiamenti nel cervello. Così per JZ Knight gli studenti, seguendo vari percorsi di meditazione, possono diventare «illuminati» e alterare la realtà a loro piacimento come sciamani. Poi un giorno potranno lievitare, predire il futuro, resuscitare i morti e anche far apparire l'oro nelle loro mani. Lo scopo finale porta all'ascensione del «corpo fisico» nel «corpo di luce». Purtroppo oggi in Italia ci sono circa 500 tra psicosette e gruppi pseudo religiosi, che conquistano con promesse seducenti, per poi condurre spesso alla schiavitù. Una stima degli adepti è difficile, ma oscillerebbero tra uno e due milioni. Tra le vittime a finire in trappola sono più uomini che le donne, nel 55 per cento dei casi professionisti. Le psicosette sono le più diffuse (41%). Ci sono poi un 30% di culti estremi, tra satanismo e spiritismo, e un 16% di sette magico esoteriche. Le vittime arrivano a subire abusi sessuali, allontanamenti da famiglie e amici e spesso un impoverimento economico che si traduce in fatturato di 8 miliardi di euro.

Filippo Fiorini per “la Stampa” il 24 maggio 2022.

Una voce autorevole per far luce su un universo di nuovi culti non privo di zone d'ombra: Massimo Introvigne, uno dei sociologi delle religioni più noti nel mondo, ex rappresentante per la lotta contro razzismo e discriminazioni dell'Osce, autore o coautore di decine di pubblicazioni, tra cui un'enciclopedia dedicata, ci aiuta a capire che cosa ruoti attorno al mondo delle nuove religioni in Italia, considerata l'ipotesi che il suicidio di due coniugi romani, in una villetta a prova di Apocalisse sulle colline di Forlì, possa essere legato alla loro appartenenza al culto New Age di Ramtha.

Professore, quanti sono i seguaci delle sette in Italia?

«Io non uso la parola sette, presuppone un giudizio di valore su movimenti diversissimi. Si va da movimenti che commettono crimini ad altri totalmente innocui. Li definisco nuovi movimenti religiosi. Coinvolgono più o meno l'1% della popolazione italiana, forse meno». 

E i Ramtha, quanti sono?

«Qui parliamo di un fenomeno tipico del cosiddetto New Age. In Italia sono un centinaio, di cui 70 vivono a Spinello (dove si è consumato il duplice suicidio, ndr). Il centro sono gli Usa, da noi c'è una piccola filiale».

E tra gli altri, qual è quello maggioritario?

«Se uno vuole considerare nuovi i Testimoni di Geova, che esistono dalla fine dell'Ottocento, allora i più numerosi sono loro che sono 400 mila. Se parliamo di comunità fondate nel XX secolo, c'è la chiesa di Scientology, che ha un nucleo duro di 10 mila seguaci e circa 80 mila persone che girano intorno». 

Che cosa spinge una persona ad abbracciare questi culti?

«Si tratta di un fenomeno minoritario, ma esistono persone che rifiutano la spiritualità maggioritaria della Chiesa Cattolica, senza nemmeno essere convinte dall'ateismo e dall'agnosticismo, quindi, cercano delle alternative e le trovano in questa pletora di proposte». 

Alcuni gruppi commettono crimini. Quali sono i casi italiani?

«Io uso l'espressione movimenti religiosi criminali. Si trovano sia all'interno delle grandi religioni, pensiamo ai network di preti pedofili cattolici o pensiamo ai gruppi terroristi dell'Islam, sia all'interno di religioni nuove, come le Bestie di Satana, che erano un piccolissimo nuovo movimento religioso. I torinesi poi ricorderanno la cosiddetta Setta del Rosario, dove ci furono anche dei sacrifici umani. Operavano tra Torino e la Calabria. Purtroppo, inoltre, ci sono gruppi guidati da santoni che si rendono colpevoli di gravi abusi sessuali e truffe».

In genere il New Age è estraneo a questi fenomeni?

«Il New Age annunciava l'avvento di un nuovo mondo di pace, amore e felicità, poi questo mondo non è venuto e il movimento è entrato in una fase un po' cupa di involuzione distopica. Io non so nulla del caso di Forlì, ma in termini generali, questa involuzione può spiegare perché ogni tanto ci siano persone che entrano in depressione e dei suicidi».

Spinello, dove la setta Ramtha degli «illuminati» aspetta l’apocalisse. Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 23 Maggio 2022.

Vent’anni fa l’arrivo di 70 persone che seguivano le lezioni della Scuola Ramtha. I timori per la fine del mondo nel 2012 e le villette con i bunker. 

Se Spinello è diventata la terra eletta di chi segue gli insegnamenti dell’antico guerriero Ramtha , non è solo perché è un luogo lontano «dall’acqua di mare, di fiume e di lago», come indica il maestro, ma forse molto più prosaicamente perché qui era sorto il centro Sportilia, che aveva anche ospitato il ritiro degli azzurri prima di Italia 90. Centro congressi immerso nella natura dell’Appennino Forlivese, tra la valle del Bidente e quella del Savio, dove si ritrovavano gli studenti della Scuola di illuminazione Ramtha «per imparare a fare cose meravigliose con la mente».

Siamo agli inizi degli anni Duemila, scampati i timori per il cambio del millennio, le nuove paure prendono in prestito le profezie Maya e una fine del mondo annunciata con giorno, mese e anno: 21 dicembre 2012. E Spinello era un posto bellissimo, ideale per scampare all’apocalisse. Così molti «studenti» decisero di trasferirsi qui o di comprare una seconda casa da raggiungere prima della fine, dotandola di bunker o almeno di cantina con cemento rinforzato, e accumulando generi di prima necessità.

Il Natale di dieci anni fa trascorse poi tranquillo senza il temuto blackout mondiale o il rovesciamento del campo magnetico. Ma alcuni «studenti», una settantina, rimasero comunque a Spinello, integrandosi perfettamente con il resto della popolazione. «Mai nessun problema con loro» assicura il sindaco Daniele Valbonesi. «All’inizio c’era stata un po’ di diffidenza verso i nuovi arrivati, ma poi tutto è filato liscio» conferma Lorenzo Vignali, presidente della Consulta della frazione .

Tutto questo almeno fino a due giorni fa, alla scoperta della morte dei coniugi Neri, anche loro arrivati fino a qui perché convinti che Ramtha, vissuto 35 mila anni fa, era tornato negli anni Settanta grazie alla medium statunitense Judith Darlene Hampton, conosciuta come Judy Zebra «JZ » Knight. È stata lei a trascrivere i suoi insegnamenti, a guadagnare popolarità in tv e registrare subito i marchi per diffondere il verbo. I seguaci in tutto il mondo non sono pochi, compresa l’attrice Shirley MacLaine, che addirittura sostiene di essere stata in una precedente vita la sorella di Ramtha.

A Spinello la piccola comunità degli «studenti» adesso si sente davvero minacciata. «Abbiamo deciso di non rilasciare dichiarazioni — dice una signora che chiede di non pubblicare il suo nome —. Ma per carità, non scrivete che siamo una setta. Quello che è successo è purtroppo un fatto doloroso, ma privato ».

Venerdì sera nella frazione c’è stata un’assemblea pubblica per affrontare quella che è una delle preoccupazioni dei residenti: gli smottamenti dell’inverno che hanno aperto crepe in diverse villette. Dovevano esserci pure Paolo Neri e Stefania Platania, ma non sono mai arrivati, probabilmente a quell’ora avevano già posto fine alle loro esistenze. E adesso, a Spinello, nessuno pensa più alle frane.

Ramtha, viaggio a Spinello, fra i seguaci della setta: passeggiate a occhi bendati e porte a prova di atomica. Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 24 maggio 2022.

Forlì, nel paese della coppia suicida. la setta smentisce l’Apolcalisse.

Per la prima volta le villette con bunker sono servite al loro scopo. Non per proteggerli dalla fine del mondo, che doveva esserci dieci anni fa e invece siamo ancora tutti qui, ma dalla tempesta di telecamere e giornalisti. Qui su a Spinello, 800 metri sull’Appennino forlivese, aria fine e distese verdi, i seguaci dell’antico guerriero Ramtha, gli «studenti della Scuola di Illuminazione» come preferiscono essere chiamati, si sentono sotto assedio. Due della loro comunità, i coniugi Paolo Neri e Stefania Platania, che anche loro si erano costruiti il loro bel rifugio a prova di catastrofe, venerdì scorso si sono tolti la vita sparandosi nello stesso momento un colpo in bocca. Nessuno del gruppo, con cui condividevano incontri e serate, vuole parlare. Diffondono invece un comunicato che arriva dagli Stati Uniti, dal portavoce della medium Judy Zebra «Jz» Knight, la fondatrice della Scuola, colei che assicurando di «canalizzare» lo spirito di Ramtha, morto 35 mila anni fa, ha messo su un business mondiale.

Il dolore

Un testo in cui si esprime «dolore per la perdita», e si fanno tutta una serie di puntualizzazioni. Prima di tutto: «Paolo Neri e Stefania Platania hanno frequentato i nostri corsi tra il 2003 e il 2012» e la Scuola «non ha avuto contatti con loro dall’ultima volta che hanno partecipato a un seminario 10 anni fa». E ancora: «I concetti fondamentali insegnati nella Scuola sottolineano la sacralità della vita umana. La scelta fatta dalla coppia è tragica e non rispecchia assolutamente la nostra filosofia». E anche le profezie sulla fine del mondo, che doveva cadere il 21 dicembre 2012, vengono liquidate come «infondate e mostrano un malinteso sulle raccomandazioni della Scuola». Eppure Spinello si è popolata dei seguaci di Ramtha proprio per sfuggire all’annunciata apocalisse. In verità si erano prima ritrovati qui per seguire gli incontri della Scuola tenuti al centro Sportilia, che ospitò anche gli azzurri di Sacchi. Un’oasi di tranquillità, presto consacrata come terra eletta. «In quegli anni qui si vendeva qualunque pezzo di terra, anche un pollaio» ricorda un residente. Molti acquistarono, alcuni presero in affitto, un trentina rimasero per sempre, altrettanti l’hanno mantenuta come seconda casa. Tutti si fecero costruire un bunker. «Avevano anche porte a prova di atomica — ricorda un artigiano che ha lavorato in diverse villette —. Dentro erano pieni di viveri, si preparavano a una lunga resistenza».

«Brava gente»

La fine del mondo non ci fu. «In quei giorni una mia vicina mi faceva notare i nuvoloni neri che secondo lei stavano coprendo il cielo. Poi quando passò tutto ci rimase un po’ male. “Con tutti i soldi che abbiamo speso”, mi disse» ricorda una signora che scongiura di restare anonima, «perché è brava gente, e io li incontro tutti i giorni». A Sportilia la Scuola ha tenuto i suoi incontri almeno fino a due anni fa, prima della pandemia. Con lezioni su «visione remota del passato, presente, o futuro», telepatia o «guarigione con il Corpo blu». Li vedevano aggirarsi in fila, con gli occhi bendati, alla ricerca dell’orientamento. Qualcuno ci ha riso su, ma tutto è sempre filato liscio. «Non abbiamo mai avuto problemi — ribadisce Daniele Valbonesi, il sindaco di Santa Sofia da cui dipende la frazione di Spinello— . Negli anni si sono integrati benissimo. Molti sono diventati santasofiesi, anche se nessun santasofiese è diventato Ramtha». Ieri, alle sei del pomeriggio, i due figli dei coniugi Neri sono stati accompagnati dai genitori nella villetta dei genitori. Prima ai militari avevano detto che «non riescono a spiegarsi quello che è successo», che «papà e mamma avevano sofferto l’isolamento durante il Covid», ma che «adesso sembravano sereni». Poi il figlio Lamberto è uscito e ha chiesto ai giornalisti rispetto: «Abbiamo un immenso dolore. Vorremmo rimanere in pace».

Da tgcom24.mediaset.it il 22 maggio 2022.

Attorno alle 20 di sabato a Spinello, frazione di Santa Sofia in provincia di Forlì-Cesena, sono stati trovati senza vita due pensionati Paolo Neri e Stefania Platania, rispettivamente di 67 e 65 anni, nella camera da letto della loro abitazione. 

I carabinieri del posto, insieme ai colleghi del nucleo operativo e radiomobile di Meldola, sono intervenuti insieme ai vigili del fuoco. A dare l'allarme i figli, che non riuscivano ad avere notizie da un paio di giorni. A loro sarebbe stato lasciato un biglietto dai genitori prima di suicidarsi. Si indaga sulla loro appartenenza ad una setta.

La lettera di addio e le teorie della setta - I due anziani, ex dipendenti del Senato trovati morti ieri sera sull'Appennino forlivese, si sarebbero dunque suicidati, ognuno con un'arma diversa. A quanto appreso, i due cadaveri sono stati trovati sul letto. Fatale, per entrambi, sarebbe stato un colpo di pistola in bocca. 

Accanto ai corpi due pistole, regolarmente detenute. Sulle motivazioni del duplice gesto spunta l'ombra di una setta: in camera da letto sarebbe stata trovata una lettera che i due avrebbero scritto ai figli, in cui si adombra l'appartenenza a un gruppo che preannunciava come imminente la fine del mondo.

"Avevano una casa con bunker per l'apocalisse" - "Erano dei Ramtha, di quel gruppo lì", una decina di anni fa "si pensava alla fine del mondo, tutti si erano fatti casa col bunker". È la testimonianza raccolta da TgR Emilia-Romagna da alcune vicine dei due coniugi trovati morti sabato sera. 

I due pensionati non sarebbero stati gli unici a compare casa a Spinello una decina di anni fa: come loro, diversi altri seguaci della comunità Ramtha', secondo la quale il borgo sarebbe sopravvissuto a una eventuale fine del mondo secondo la profezia di apocalisse dei Maya. Una teoria circolata soprattutto nel 2012. 

"A fatti così non siamo abituati" - Daniele Valbonesi, sindaco di Santa Sofia, ha appreso con sconcerto la notizia del ritrovamento dei cadaveri. "Non li conoscevo personalmente ma so che non erano residenti a Santa Sofia, lo sono stati in passato, e ora qui avevano una seconda casa da diversi anni". La stessa in cui sabato sera carabinieri e vigili del fuoco avrebbero dovuto forzare la serratura per entrare.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 24 maggio 2022.

Ci avevano creduto davvero alla montagna incantata, Paolo Neri e Stefania Platania, 67 e 65 anni, i coniugi che si sono suicidati sparandosi un colpo in testa all'unisono. Ex dipendenti del Senato, in pensione anticipata da qualche anno. Lui a Palazzo Madama se lo ricordano ancora nella livrea di commesso, lei addetta al centralino. Mai una sbavatura, sempre precisi, con un rovello interiore, però: la convinzione che la fine del mondo era vicina, anzi vicinissima. 

Seguaci della setta Ramtha, sicuri che i Maya avessero predetto l'apocalisse del genere umano per il 21 dicembre 2012, sinceramente in ansia per i loro amici, tentavano di mettere in guardia conoscenti e colleghi. «La salvezza è a Spinello, tra le montagne dell'Appenino romagnolo». E così non solo frequentavano i corsi della leader spirituale, l'americana JZ Knight, ma si erano comprati casa nel comprensorio di Spinello e avevano fatto grandi lavori per creare un bunker anti-apocalisse.

Poi però il 2012 era passato senza colpo ferire. Quelli di Ramtha ci erano rimasti male. Anche i coniugi Neri-Platania. «Si diceva che forse c'era stato un errore di comunicazione e che l'apocalisse sarebbe arrivata nel 2021 e non nel 2012. Ma anche invertendo i numeri, siamo ancora qua...», dice il signor Paolo, arzillo nel suoi settant' anni, dal forte accento cesenate, vicino di casa. E lo dice con arguzia bonaria, alla Tonino Guerra. 

Loro che inseguivano di notte le energie positive della montagna, con la mano destra aperta a mo' di radar e la sinistra a pugno chiuso, la profezia li aveva traditi. Il mondo intero li aveva traditi. E così sembra che fossero caduti in una profonda depressione.

Lo hanno scritto pure nel biglietto ai figli, ora straziati dal dolore, che per trovare un posto migliore dovevano lasciare questa terra. 

Eppure Spinello è uno spicchio di paradiso. Una montagna verde, di pascoli e boschi, incastonata tra Romagna, Marche e Umbria. La gente ci viene a passare l'estate. Qualcuno ci vive. Saranno duecento case, ma pochissimi sono i residenti fissi. Tra questi, una trentina di persone anziane, chiuse nel loro mondo, ovvero i resti di Ramtha, quella che fu una setta con un certo seguito.

«A un certo punto - racconta la signora Nana, che ben li conosce perché lavorava al palazzetto dello sport dove si tenevano i raduni - ne arrivavano mille a botta. Si accampavano con tende e camper per una o due settimane. Si lavorava come pazzi». Già, i Ramtha. Convinti che la fine del mondo fosse dietro l'angolo. Con la santona che s' era proposta come il «canale» attraverso cui un antico guerriero di Atlantide aveva preso a parlare al mondo. Il suo messaggio era semplice quanto efficace: preparatevi al nuovo diluvio universale! E Neri e Platania l'avevano preso sul serio.

Il signor Paolo aveva affidato ai social anche alcune indicazioni per non sbagliare: niente mobili di truciolato perché poi respirate la formaldeide; serve un buon sistema di areazione; munitevi di lampade solari perché l'elettricità ve la scordate. Sentivano di poter dare consigli perché erano stati tra i primi a munirsi di bunker, pieno di scorte. Ed erano rimasti talmente convinti da Ramtha, da aver messo dappertutto il giglio che è il suo simbolo. 

La profezia, però, li aveva delusi perché il 2012 era passato senza sconquassi. Dopo essersi dimessi dal lavoro, ed essersi inutilmente rintanati in montagna, avevano immaginato una nuova vita. Avevano preso pure la residenza e i figli, sui vent' anni, avevano tentato di gestire un minimarket nel comune vicino. Poi però avevano mollato ed erano tornati tutti a Roma.

Da quel momento, i coniugi pencolavano un po' qui, un po' lì, ma non si sentivano realizzati. E anche i legami con la setta si erano molto allentati. La stessa setta ne prende ora le distanze. «Hanno frequentato i corsi della RSE (Ramtha School of Enlightenment, Scuola di Illuminazione, ndr) tra il 2003 e il 2012», afferma il portavoce Mike Wright. 

«Gli insegnamenti della RSE celebrano la vita. Forniamo informazioni e tecniche alle persone per affrontare e superare le sfide della loro vita, e non evitarle. La scelta fatta dalla coppia è tragica e non rispecchia assolutamente la filosofia della scuola». Sì, ormai la coppia seguiva un proprio percorso, al cui termine c'è stato il doppio colpo di pistola. «Ora noi lasciamo questa terra sperando di trovare delle possibilità in un mondo migliore», hanno scritto nel biglietto di addio ai figli. Addio.

Val. DiC. Per “il Messaggero” il 23 maggio 2022. 

Guerrieri blu, simboli esoterici, insegnamenti su come usare la telepatia, citazioni del Signore degli Anelli e teorie sull'esistenza degli Ufo. Ci sono queste e molte altre stranezze nella Scuola di Illuminazione di Ramtha a cui avevano aderito i coniugi romani Paolo Neri e Stefania Platania che si sono tolti la vita sparandosi un colpo di pistola in bocca nella loro seconda casa di Spinello, in provincia di Forlì-Cesena.

Avevamo comprato la villetta perché una medium americana (conosciuta con il nome di JZ Knight) aveva indicato Spinello come un luogo benedetto, in cui trascorrere il giorno profetizzato dai Maya come fine del mondo: il 21 dicembre 2012. Una settantina di persone si erano trasferite lì, costruendo pozzi e serre, facendo scorte di legna, acqua e cibo, scavando bunker come rifugio. Anche i coniugi Neri ne avevano uno: si erano fatti fortificare il seminterrato. La profezia dei Maya non si è realizzata e così, negli anni seguenti, molti seguaci hanno svenduto le case.

Secondo questa sorta di filosofia New Age, «Ramtha visse come essere umano 35.000 anni fa sull'antico continente di Lemuria. A causa dei drammatici cambiamenti che stavano avvenendo sulla Terra, molti Lemuriani emigrarono dall'attuale Nordovest del Pacifico attraverso il Messico fino al bacino atlantico (quella che allora era Atlantide)». Ramtha parlerebbe attraverso il corpo di JZ Knight, ossia una donna bionda di 76 anni che vive a Tacoma, nello Stato di Washington e all'anagrafe si chiama Judith Darlene Hampton.

Tra i suoi seguaci ci sono anche dei vip: l'attrice messicana Salma Hayek e le più anziane colleghe statunitensi Shirley MacLaine e Linda Evans. Gli insegnamenti di Ramtha «non sono una nuova religione, né costituiscono le basi di una nuova chiesa», ma «offrono una straordinaria prospettiva da cui considerare il mistero della vita».

Le quattro pietre angolari della filosofia di Ramtha sono: «l'affermazione Voi siete Dio; il mandato di rendere conosciuto lo sconosciuto; il concetto che Coscienza ed Energia creano la natura della realtà; la sfida di conquistare se stessi». La Scuola di Illuminazione è frequentata da studenti di tutto il mondo, dai 6 anni in su. Tra le discipline insegnate ci sono: la guarigione con il corpo blu, il lavoro nel campo (ossia la capacità di focalizzarsi su un pensiero per creare un nuovo destino), la visione remota di passato, presente e futuro, che avrebbe permesso a due adepte di vincere un premio alla lotteria.

Sul sito vengono riportati articoli in cui si parla di guarigioni da gravi malattie senza trattamenti medici e di intelligenza che viaggia sugli ufo. I simboli che ricorrono - entrambi con rimandi magici - sono: il pentagramma e un triangolo con al suo interno un cerchio. I prossimi raduni in programma sono previsti per il 28 e 29 maggio a Les Llosses, in provincia di Girona (in Spagna) e a Santa Isabel, nello stato messicano di Chihuahua. La quota di iscrizione è di 150 dollari. Mentre per un evento video on demand si spende 720 dollari, più 90 euro per la traduzione dall'inglese. Insomma, la cura spirituale, secondo Ramtha, ha un prezzo; e non è nemmeno per tutte le tasche.

Filippo Fiorini per “la Stampa” il 23 maggio 2022.

Mistica new age, profezie sulla fine del mondo e la convinzione di poter raggiungere un luogo migliore dopo la morte: sembrerebbe proprio questo il cocktail ideologico che ha portato una coppia di pensionati romani, ex dipendenti del Senato della Repubblica e seguaci della cosiddetta filosofia Ramtha, ad acquistare una seconda casa sull'Appennino forlivese, prepararla per resistere all'apocalisse e farla diventare il teatro del loro suicidio. 

Paolo Neri, classe '55, e la moglie Stefania Platania, del '57, sono stati trovati senza vita sabato sera nel letto della loro residenza di Spinello, comune di Santa Sofia. Accanto, avevano lasciato un post-it con alcune parole di commiato indirizzate ai figli, che recitano: «Vogliamo trovare altrove la nostra pace e la nostra libertà».

Il gesto estremo, compiuto con due diverse pistole, che ognuno dei coniugi ha usato contro se stesso sparandosi al volto, è avvenuto in un momento imprecisato tra giovedì e venerdì scorso. Mercoledì avevano infatti incontrato degli amici, senza dare loro segnali preoccupanti, mentre gli esami medici sui corpi, realizzati nella notte di sabato, hanno stabilito che il decesso era avvenuto da più di 24 ore. 

A dare l'allarme è stato uno dei figli, che non riusciva a raggiungerli telefonicamente. I carabinieri hanno quindi chiesto l'aiuto dei Vigili del fuoco per poter forzare l'ingresso della loro villetta, trovandoli quando ormai non c'era più nulla da fare.

L'abitazione è situata in una località remota, ma circondata da altre case indipendenti. Fa parte di un piccolo sistema di villette-bunker, costruite a Spinello dai seguaci italiani del Ramtha. All'apparenza solo accoglienti residenze per la villeggiatura, questi edifici sono dotati di rifugi sotterranei, sistemi per l'autonomia elettrica ed idrica, scorte di cibo e legna. 

Spinello diventò nel 2012 la località scelta da costoro che si definiscono «canalizzati», per preparsi alla data del 21 dicembre di quello stesso anno, indicata da alcuni interpreti della cultura Maya come il giorno dell'apocalisse. Nessuna congiunzione astrale eccezionale su questo cielo romagnolo, ma solo alcuni requisiti fondamentali. Spinello è lontana dalle coste (e la profezia Ramtha indica il mare come uno dei principali pericoli dell'Armageddon), è un posto tranquillo ed è dotata di un grande centro in disuso, dove si sarebbero potuti realizzare eventi pubblici: Sportilia, la sede del ritiro della Nazionale durante i Mondiali di Italia '90.

Quello che per esteso si chiama Scuola d'Illuminazione Ramtha, non è che uno dei tanti culti minori sorti negli Stati Uniti mettendo insieme concetti che comprendono l'elevazione spirituale, il contatto con la natura, l'ufologia, la reincarnazione e la parapsicologia. Fu fondato negli Anni Settanta da Judy Zebra Knight, donna di umili origini arricchitasi con apparizioni televisive nel ruolo di guru.

La Knight sostiene di essere in contatto con Ramtha, un guerriero vissuto migliaia di anni fa in un continente ipotetico sprofondato negli abissi, che manda profezie ai contemporanei attraverso di lei. Con i propri discorsi, la Knight si è guadagnata anche seguaci famosi, come Linda Evans (Kristle nella soap opera Dinasty) o Shirley MacLaine, Oscar come migliore attrice in Voglia di Tenerezza. Sempre nei suoi discorsi, sono stati però anche rilevati toni antisemiti, razzisti e omofobi da alcuni osservatori. 

Per quanto riguarda il capitolo italiano della setta, il loro esordio avviene nell'agosto del '99, con un meeting presso Borgo Priolo, in provincia di Pavia, a cui avrebbero partecipato 300 persone. Da lì incomincia il proselitismo attraverso la Scuola di Illuminazione (oggi solo online) e i preparativi per il giorno del giudizio.

I residenti di Spinello dicono che i Ramtha del posto non socializzano e si vedono poco. Li quantificano in poche decine e aggiungono che Sportilia non è mai stata usata per realizzare loro eventi. Anche una carrellata sui social mostra numeri molto esigui di persone che nei rispettivi profili postano messaggi No Vax, filo Putin e sulle scie chimiche. I coniugi che si sono tolti la vita non avevano problemi economici e non soffrivano di malattie gravi, per questo le ipotesi investigative puntano il dito contro il culto, per cercare un motivo.

Tiziana Paolucci per “il Giornale” il 23 maggio 2022. 

Il mondo sarebbe dovuto finire il 21 dicembre 2012. O almeno questo credevano alcuni adepti della Scuola di Illuminazione Ramtha (Ramtha' s School of Enlightenment) che hanno preso parte negli anni agli eventi organizzati a Spinello, nell'Appennino romagnolo, dalla setta americana con sede a Yelm, nello Stato di Washington. Questa doveva essere anche la convinzione di Paolo Neri e Stefania Platania, la coppia che si è tolta la vita sabato sera nel Forlivese.

Per loro e per tutti i seguaci di Ramtha, Spinello era quel «posto benedetto» che sarebbe sopravvissuto alla fine del mondo, anche se la Scuola parla di mondo che cambia, non che finisce. E Ramtha the Enlightened One, è un saggio guerriero di 35.000 anni, che durante la sua incarnazione nell'antica Atlantide aveva brillato per conquiste militari, sperimentando l'«illuminazione». Poi, nel 1977 era tornato dal passato per parlare unicamente attraverso la discussa medium americana, JZ Knight, 76 anni, ex compagna di classe del guerriero ai tempi di Atlantide.

Del rapporto privilegiato con Ramtha la donna, che in realtà di chiama Judith Darlene Hampton, ha fatto una fortuna, creando una scuola, scrivendo libri e partecipando a talk show. A Spinello i suoi seguaci hanno addirittura costruito case bunker per salvarsi dalla fine del mondo. Ma cosa è la Scuola di Illuminazione Ramtha? «Un'accademia della mente, che offre ritiri e laboratori a persone di tutte le età e culture», recita il sito. Le lezioni includono bere vino, fumare la pipa e ballare musica rock 'n'roll.

Per gli adepti l'ossido nitrico del vino rosso e del tabacco da pipa aiuta a facilitare i cambiamenti nel cervello. Così per JZ Knight gli studenti, seguendo vari percorsi di meditazione, possono diventare «illuminati» e alterare la realtà a loro piacimento come sciamani. Poi un giorno potranno lievitare, predire il futuro, resuscitare i morti e anche far apparire l'oro nelle loro mani. Lo scopo finale porta all'ascensione del «corpo fisico» nel «corpo di luce». Purtroppo oggi in Italia ci sono circa 500 tra psicosette e gruppi pseudo religiosi, che conquistano con promesse seducenti, per poi condurre spesso alla schiavitù.

Una stima degli adepti è difficile, ma oscillerebbero tra uno e due milioni. Tra le vittime a finire in trappola sono più uomini che le donne, nel 55 per cento dei casi professionisti. Le psicosette sono le più diffuse (41%). Ci sono poi un 30% di culti estremi, tra satanismo e spiritismo, e un 16% di sette magico esoteriche. Le vittime arrivano a subire abusi sessuali, allontanamenti da famiglie e amici e spesso un impoverimento economico che si traduce in fatturato di 8 miliardi di euro.

La smentita della setta Ramtha. "Paolo e Stefania non più adepti". Tiziana Paolocci il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.

La coppia non aveva problemi economici o di salute. La medium prende le distanze: "Noi celebriamo la vita".

Non ha un senso logico la morte di Paolo Neri e Stefania Platania, i due coniugi romani trovati senza vita sabato sera nella stanza da letto della loro seconda casa a Spinello di Santa Sofia, nell'Appennino romagnolo. E non ha nemmeno una spiegazione illogica o spirituale, perché marito e moglie da tempo si erano allontanati dalla setta Ramtha o Ramthàs School of Enlightenment (Scuola di Illuminazione di Ramtha), come preferisce chiamarla la fondatrice, la medium JZ Knight.

La Procura di Forlì-Cesena ha aperto un fascicolo, ma senza ipotesi di reato. Escluso il plagio delle menti, la truffa e l'istigazione al suicidio. Non è stata disposta, tra l'altro, l'autopsia sui due cadaveri perché, in base ai rilievi del medico legale, non c'è dubbio sul fatto che si sia trattato di duplice suicidio e che Paolo e Stefania abbiano fatto fuoco contemporaneamente dopo aver infilato la pistola in bocca. Ma da cosa fuggivano? Difficile allo stato delle indagini dirlo. In un biglietto hanno spiegato «lasciamo questa terra per un posto migliore, verso un luogo di pace».

I carabinieri di Meldola, coordinati dalla Procura di Forlì-Cesena, hanno sequestrato gli ultimi accertamenti clinici della coppia, per capire se a spingerla a compiere il passo verso la morte potessero esserci motivi di salute. «Al momento lo escludiamo ed escludiamo problemi economici - sottolinea il comandante Rossella Capuano -. Abbiamo parlato con il figlio e non aveva alcun sentore della tragedia che poi s è verificata. I suoi genitori non avevano mai espresso preoccupazioni. Il motivo del suicidio probabilmente non lo sapremo mai: lo hanno portato con loro nella tomba».

JZ Knight, la fondatrice della scuola Ramtha, ieri ha fatto avere una comunicazione al sindaco di Santa Sofia, unendosi al dolore della famiglia. «Paolo Neri e Stefania Platania hanno frequentato i corsi della Rse tra il 2003 e il 2012 - spiega in una nota il portavoce Mike Wright -. Non abbiamo più avuto contatti con loro dall'ultima volta che hanno partecipato a un seminario, dieci anni fa. I nostri insegnamenti celebrano la vita. Forniamo informazioni e tecniche alle persone per affrontare e superare le sfide della loro esistenza e non a evitarle. I concetti fondamentali insegnati nella scuola sottolineano la sacralità della vita umana». «La scelta fatta dalla coppia è tragica e non rispecchia assolutamente la nostra filosofia - ribadisce Wright -. Anche le voci sulle profezie sulla fine del mondo sono infondate e mostrano un malinteso sulle raccomandazioni della scuola di essere sovrani».

Di dramma umano e familiare parla il sindaco di Santa Sofia Daniele Valbonesi. «C'è anche un po' di incredulità ed è una situazione surreale per un paesino così piccolo - spiega -. Io non conoscevo i due coniugi, forse di vista, ma non sono sicuro. So che erano persone attive nella comunità pur non vivendo nel paese, dato che erano residenti a Roma. Negli anni scorsi spesso erano presenti alle iniziative organizzate nella frazione. Tra l'altro venerdì scorso avrebbero dovuto partecipare ad un'assemblea pubblica. Non si sono presentati. Forse la tragedia era già accaduta». Con la comunità Ramtha il primo cittadino, in carica solo dal 2014, non ha avuto mai avuto problemi. «Difficile commentare - sottolinea - e anche fare valutazioni, perché in merito alla cosiddetta setta è una cosa da cui credo la coppia si fosse staccata negli ultimi anni o fosse comunque meno partecipe».

«Sono a conoscenza della presenza di diversi membri di questa setta - dichiara Don Giorgano Milanesi -. Diversi anni fa hanno costruito delle villette con dei bunker e Spinello era un punto di riferimento. Era molto attiva qui, anche con grandi adunate. Ma da tempo non ci sono più e credo facciano tutto attraverso internet». Nel paese, infatti, secondo gli abitanti, oggi i seguaci di Ramtha sono rimasti solo una decina. E non sanno spiegarsi i motivi del duplice suicidio.

Spinello, l'ultimo agghiacciante biglietto lasciato dalla coppia suicida della setta Ramtha. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 23 maggio 2022

Due cadaveri e anche due pistole regolarmente registrate. Un biglietto destinato (forse) ai figli e che, però, non spiega molto. E poi quel sospetto: di una setta che temeva la fine del mondo, che venerava un guerriero morto 35mila anni fa, che si era costruita un villaggetto-bunker arroccato sull'Appennino forlivese. Spinello, frazione di Santa Sofia, provincia di Forlì - Cesena. Poco più che 220 abitanti. Sabato scorso. È ancora l'imbrunire, sono circa le 20 di una calda serata di fine primavera. Paolo Neri e Stefania Platania sono due pensionati, prima facevano i dipendenti al Senato, vivevano a Roma. Lui ha 67 anni, lei 65. Da più di un giorno non rispondo al telefono. Diversi amici provano a contattarli, ma parte sempre la segreteria telefonica.

Tu-tu-tu. È per questo che uno dei loro figli chiama una vicina, le chiede di controllare. Lei esce dal suo appartamento e suona il campanello. Niente, ancora nessuna risposta. Casa Neri è chiusa dall'interno, pure gli scuri alle finestre sono serrati. Come se non ci fosse nessuno, come se i proprietari se ne fossero andati.

IN CAMERA

A questo punto parte l'allarme, arrivano i carabinieri e i vigili del fuoco che faticano non poco a entrare: devono forzare un vetro e la serratura del portone per introdursi nella villetta. E li trovano lì, marito e moglie, stesi sul letto della loro camera, morti con due colpi di pistola in pieno volto. Le armi (entrambe detenute con tanto di bolli regolari) accanto ai due corpi. Vicino a un post-it che, stando alle indiscrezioni, si limiterebbe a qualche frasedi commiato. Sembrerebbe, cioè, ci sia scritto sopra: «Vogliamo trovare altrove la nostra pace e altre possibilità per noi». Il nucleo operativo della compagnia dei carabinieri di Meldola si mette al lavoro.

Le prime ore - si sa sono quelle decisive. A coordinare l'indagine c'è il pm della procura di Forlì Francesca Rago: mentre apre un fascicolo sul caso, le sirene si rincorrono sui colli romagnoli. Risuonano quelle del comando provinciale, quelle delle ambulanze che portano le salme di Paolo e Stefania all'ospedale Morgagni-Pierantoni per l'autopsia che verrà disposta nei prossimi giorni, quelle della scientifica.

Inizialmente si pensa a un omicidio-suicidio, ma alcuni dettagli non tornano. Uno, su tutti: perché ci sono due pistole? Quella di Paolo viene ritrovata dopo che si procede alla rimozione del corpo. Qualcosa non torna. A meno che non si cambi base di partenza, a meno che non si opti per un'altra ipotesi: e se si trattasse di un doppio suicidio? Se Paolo e Stefania si fossero tolti la vita assieme, nello stesso istante, sparandosi contemporaneamente?

Già, ma perché? «Erano di quel gruppo lì, si erano fatti la casa col bunker». A Spinello la gente non è abituata alle telecamere che curiosano per strada. La vita è di quelle di provincia, qui: scorre sonnacchiosa.

L'ALTRA STORIA

Qualcuno, tuttavia, si lascia andare ai microfoni del Tg regionale dell'Emilia Romagna e comincia a venir fuori un'altra storia. È dal 2001 che Spinello viene considerato un "borgo benedetto" per gli adepti di Ramtha, una delle sette New age nate negli anni Novanta in America. Il nome completo è "Scuola di Illuminazione Ramtha": l'ha fondata J. Z. Knight 34 anni fa e ne ha pure registrato il marchio. Qualsiasi cosa voglia dire. I seguaci di Ramtha credono nell'Apocalisse e che, per salvarsi, l'unica via sia quella di rintanarsi a Spinello, il paese che verrà risparmiato. Nel 2012 (quando ha fatto discutere la fantomatica profezia catastrofista dei Maya) le vendite di case, cascine e villette in questo fazzoletto di Appennino sono aumentate a dismisura. In molti hanno acquistato immobili e si sono costruiti un bunker dove potevano. Spesso sottoterra. 

L'hanno riempito di scorte alimentari. Pane, pasta e acqua. Poi la fine del mondo non è arrivata, ma quei bunker in aperta campagna son rimasti dov' erano. «A fatti del genere non siamo abituati», è scioccato il sindaco di Santa Sofia, Daniele Valbonesi: «Non li conoscevo personalmente, ma so che non erano residenti in paese. Lo sono stati in passato, adesso qui avevano una seconda casa da diversi anni». 

Dario Salvatori per Dagospia il 22 maggio 2022.

Su “Robinson” di ieri, Luca Valtorta intervista Andrea Valcarenghi (oggi Majid), storico direttore di “Re Nudo”, a proposito del mito dell’India, dell’esperienza mistica e di una nuova spiritualità. 

Oggi Valcarenghi vive in Toscana vicino all’istituto Osho Miasto, che ha contribuito a fondare. La cronologia ogni tanto lo tradisce (e l’intervistatore non lo corregge). Alle volte sembra Gianni Minà quando ricorda: “Eravamo io, Beppe Savoldi, Maradona, Cassius Clay e De Niro.”

Valcarenghi  ricorda la Comune di Terrasini, la prima a nascere in Sicilia. “Sarà stato il 1964. C’ero io, Claudio Rocchi, Eugenio Finardi, Alberto Camerini, Carlo Silvestro, Mauro Rostagno, Paola Pitagora,Terry Ann Savoy”. 

Alle volte i bambini prodigio ti beccano in castagna. Finardi, Camerini e Rocchi nel 1964 avevano dodici anni e la Savoy soltanto nove. La portò da Londra Carlo Silvestro (presentandola a tutti come fidanzata), fotografo e giornalista underground, e  a Trastevere l’adolescenziale bellezza della ragazza (16 anni) non passò inosservata.

Mentre Silvestro declamava al “Beat 72” la sua poesia monoverso (“La mia ragazza è andata a S.Francisco/ ed io vorrei avere un cazzo lungo da qui a S.Francisco”), che poteva andare avanti anche un’ora, Alberto Lattuada fece debuttare Ann Savoy nel suo film “Le farò da padre”(1974). 

La spiaggia di Terrasini costituiva appena una parte dei possedimenti siciliani di Francesco Cardella, giornalista, editore, mecenate e profeta della cultura alternativa.

Quando Valtorta chiede lumi riguardo Osho a proposito dei centinaia di Rolex e  delle famose 99 Rolls Royce, Majid glissa: “La prima la donò un sanyasi tedesco, e Osho capì che quello poteva diventare un mezzo potente per far parlare  media e ottenere finanziamenti per costruire il Ranch nell’Oregon.” 

Urca! Benedetti anni Settanta: poteva bastare parcheggiare una mezza dozzina di Rolls davanti una banca ed ottenere fidi e finanziamenti. Poi dicono che sono stati anni di merda. Del resto Osho non amava i poveri: “I poveri devono trovare i mezzi per vivere  e mangiare, non possono pensare all’anima”.  Forse è per questo che i suoi ashram venivano definiti “Club Mediterranèe dell’anima.

Luca Valtorta per “Robinson – la Repubblica” il 22 maggio 2022.

 «E dopo il quindici giugno il tempo dell'utopia/ Fra poco il vecchio mondo lo spazzeremo via/ Si occupavano le case dalla radio si parlava/ Si faceva qualsiasi cosa con un'energia nuova / Ma all'ora del '76 il mito era crollato / Perso nei calci ad un pollo surgelato/ Tra fiumi di cazzate nella foga del momento/ Ci si prende a sprangate anche dentro al movimento/ Adesso Andrea è stato in India ed ha cambiato nome/ Si chiama Majid e si veste da Arancione». 

Così cantava Eugenio Finardi in Zerbo. Era il 1979 e la stagione della Musica ribelle cantata nel 1976 era già finita: Zerbo era il nome di una cittadina in provincia di Pavia dove nel giugno 1972 si era tenuto il secondo festival di Re Nudo, la rivista "alternativa" fondata nel 1970 da Andrea Valcarenghi, quello che «adesso si chiama Majid e si veste d'arancione».

Il riferimento ai polli surgelati è legato agli espropri durante l'ultimo festival di Re Nudo al Parco Lambro di Milano, quattro giorni pieni di contraddizioni dopo i quali Valcarenghi, stanco delle mille polemiche, intraprese un viaggio in India. Oggi vive in Toscana vicino all'Istituto Osho Miasto che ha contribuito a fondare. È una persona intelligente e gentile. Chiede subito di dargli del tu. 

"Siddhartha" per te è stata una lettura importante?

«All'epoca lo leggevano tutti ma per me non è stato il libro fondamentale: mi è piaciuto, mi ha incuriosito ma non mi ha cambiato la vita mentre quando ho letto La rivoluzione interiore di Osho, lì sì, è scattato qualcosa di diverso». 

Perché sei andato in India allora?

«Per un motivo molto banale e legato al mio ego: la mia fidanzata di allora c'era appena stata e mi aveva sfidato perché diceva: "Sì tu parli parli ma non ti muoverai mai da Milano".

Dopo tre mesi ero là e la mia vita è cambiata. Nel frattempo avevo letto appunto quel libro che, pur tradotto malissimo, mi aveva acceso la curiosità perché c'erano molti riferimenti di Osho e anche alla componente laica della spiritualità a Eraclito, Pitagora e perfino Nietzsche». 

Così tu diventasti un "arancione" mentre Claudio Rocchi, anche lui sulla base di una sua ricerca spirituale, preferì gli Hare Krishna. Avete mai discusso delle vostre scelte?

«Ai tempi dicevo che era come rapportare un comunista e un nazista: gli Hare Krishna erano un gruppo ultratradizionalista all'interno della religione induista. Osho invece era contro qualsiasi tipo di dogma. Una volta Claudio lo ha definito "un mago diabolico ( ride)». 

"Volo Magico" però, che è un disco stupendo, non ha niente a che fare con gli Hare Krishna

 «No, era nato molto prima, al tempo della Comune di Terrasini, dove c'eravamo io, Eugenio Finardi, Alberto Camerini, Claudio Rocchi, Mauro Rostagno, la cantante Donatella Bardi, Paola Pitagora, l'attrice Terry Savoy a casa del poeta e giornalista Carlo Silvestro. 

Sarà stato il '64-'65: lì sono nate le prime canzoni di Claudio, di Eugenio e di Alberto. Per loro quello è stato uno spazio creativo molto interessante». 

Che cosa era il "Volo Magico"?

«È difficile dare una definizione, diciamo che si trattava di una ricerca con elementi spirituali, mistici e poetici che nasceva all'interno di quel gruppo, soprattutto da parte di Claudio mentre per Eugenio, Alberto, Donatella si trattava di una ricerca più di tipo esistenziale». 

Proprio in questi giorni è morto Matteo Guarnaccia, un altro protagonista della scena underground di quel tempo

«Non ci vedevamo da tanto. L'ultima volta eravamo stati invitati insieme a parlare a Torino proprio sul tema della controcultura e poi abbiamo passato una bella serata insieme. Lui è stato sempre distante da Re Nudo perché più vicino a un'idea poetico-attivistica e forse lo considerava un po' troppo politico, non puro. Questo non toglie che ci fosse una sintonia, ma c'era un vissuto diverso. Anche se con il tempo certe sfumature appunto sfumano ( ride) ». 

Qual è la tua visione della morte?

«Un grosso punto interrogativo. L'insegnamento che più mi è piaciuto di Osho a riguardo è che il modo migliore per affrontarla è vivere al meglio». 

In questo è molto diverso dall'insegnamento di Siddhartha

«Osho è diverso da tutti. Diciamo che tendeva a non alimentare molto questa problematica puntando invece sull'importanza del vivere nel modo più totale, più ricco, possibile il che non significa meno spirituale perché se uno riesce a vivere così, poi il passaggio attraverso la morte sarà più leggero. 

Mi piace questa cosa perché porta l'energia sul presente, evitando di legarsi troppo al passato, alla nostalgia o al futuro, il paradiso e così via. L'unico tempo reale è il presente ed è quello che va vissuto». 

Forse è questa la risposta a una delle criticità di Osho, quella per cui possedeva le famose 99 Rolls Royce

«Lui queste Rolls Royce non le usava mai: quando un ricco tedesco gli ha regalato la prima tutti i media hanno iniziato a parlarne e così lui ha capito che era un mezzo potente per ottenere delle cose. Ma non gliene importava nulla. 

Grazie a questo simbolo di ricchezza però ha potuto ottenere i finanziamenti per costruire nell'Oregon Rajneeshpuram, la città dei sannyasin, perché le banche hanno dato prestiti enormi basandosi su quei simboli di estrema opulenza. Quindi si trattava di un fatto in realtà molto pragmatico». 

Avresti mai immaginato che ci saremmo trovati in una guerra come questa?

«Ho rivisto qualche sera fa il processo di Norimberga che si proponeva come messaggio attraverso un atto concreto e al tempo stesso simbolico per evitare che certe cose potessero ripetersi e invece, eccoci di nuovo qui». 

Il pacifismo vacilla di fronte a questo.

«Io non sono mai stato pacifista anche quando mi dichiaravo "non violento". Su Re Nudo ho sempre scritto che il valore più alto è la giustizia. Se non c'è giustizia non ha senso avere la pace».

Claudia Osmetti per “Libero Quotidiano” l'11 febbraio 2022.

Ventotto imputati, (almeno) nove vittime, 10mila pagine di atti e la prima udienza fissata per il 26 aprile prossimo. A Torino va a processo la "psicosetta delle bestie" e alla sbarra ci finiscono davvero tutti. Gianni Maria Guidi (77enne milanese), il "dottore" o "re bis" o "pontefice". Cioè il capo supremo. 

Poi Sonia Martinovic, la "mami" che fino al 2013 ha seguito le sue adepte riducendole addirittura - dice la procura piemontese - in stato di schiavitù. E i loro collaboratori, un esercito di insospettabili.

L'insegnante di danza e la psicologa, l'autore di libri e il manager. A far emergere l'orrore è Giulia, una donna di 35 anni di Novara che, un giorno, anni dopo quell'incubo, decide di parlare. 

Lo fa con gli uomini della polizia che restano increduli mentre lei riferisce che nella setta, in quella psicosetta, c'è entrata che era bambina, a sette anni, per colpa di una zia. 

Pensava fosse un mondo fiabesco, Giulia. Invece si è ritrovata in un vortice di abusi, torture, violenze. Tutti fatti che risalgono tra il 1990 e il 2010. Come lei altre otto ragazze hanno il coraggio di denunciare.

Denunciano una struttura a piramide, col "dottore" in cima che impartisce ordini tramite un "portavoce" e i "reclutatori" che fanno il lavoro sporco. Col "messere" che si occupa degli aspetti economici (pure alle sette servono i contabili), con i "guardiani" che fanno (letteralmente) da palo agli edifici dove avvengono gli incontri. Tutti a sfondo sessuale: orge, penetrazioni con oggetti, con animali, pratiche che fan venire la pelle d'oca solo a pensarci.

Le "puni-premiazioni", le chiama il "dottore": sono giovani bendate e legate, frustate, bruciate nelle parti intime con la cera, tatuate senza precauzioni igieniche. Queste cose succedono a Milano, a Vigevano, a Rapallo. Mica solo a Novara. 

Quando qualcuna non ce la fa più, è costretta a fare adescamento. Guidi avrebbe approfittato di loro, del loro "stato di soggezione", tanto che per loro aveva scelto ogni cosa: perfino il corso di laurea al quale dovevano iscriversi. 

Niente più rapporti con amici o famigliari, chi ha osato ribellarsi è stata minacciata di "malattie e disgrazie". Cala il sipario, però, sulla "psicosetta delle bestie" di Novara. Tra qualche settimana il tribunale di Torino accoglierà l'udienza preliminare e, se non verranno chiesti riti alternativi o abbreviati, il "dottore" e gli altri 27 finiranno a processo.

Secondo uno studio del Cesap, il Centro studi abusi psicologici, in Italia ci sarebbero circa cinquecento "comunità spirituali" che avrebbero al loro interno migliaia di affiliati. Fare un computo preciso è pressoché impossibile perché senza una Giulia che denuncia, molte di queste sono ancora nell'ombra.

L'ultimo rapporto ufficiale del Viminale sull'esoterismo risale al 1998: una vita fa. Da allora il fenomeno è cambiato, è diventato più psicologico: oggi le sette, i gruppi (chiamiamoli così) "mistici" propongono un messaggio più sottile, più intimo, più mentale. 

Solo nel 2017 ci sono state 339 denunce da parte di parenti preoccupati se non terrorizzati, è quasi una al giorno. Chi si avvicina a questo mondo, generalmente, ha tra i trenta e i cinquant'anni, un grado di cultura medio-alto e si sta ponendo delle domande di carattere esistenziale.

·        Il Panteismo.

"È il panteismo la religione del nostro tempo smarrito". Il filosofo del "naturalismo critico" avverte: "Prevalgono dogma, mito e superstizione". Giancristiano Desiderio il 28 agosto 2022 su Il Giornale. 

Deus sive Natura è il motto che riassume la filosofia di Baruch Spinoza. Oggi per noi tutto è natura ma niente è Dio e così abbiamo smarrito l'idea stessa di natura. Sul tema abbiamo interpellato Sossio Giametta che non solo vede nel panteismo la «religione del nostro tempo» ma ha la grande capacità di riformulare la filosofia di Spinoza per comprendere Dio, uomo e mondo nel nostro tempo.

Tu dài una grande importanza al pensiero di Spinoza, sia per la tua personale vita, sia per lo sviluppo del pensiero moderno. Puoi spiegare perché?

«Spinoza è il punto centrale dell'età moderna, che è, dopo l'età classica, pagana (tesi), e il Medioevo religioso (antitesi), con scale di valori diversi e contrastanti, l'età della secolarizzazione e del panteismo che ne consegue (sintesi), la religione (dipendenza dei viventi dalla natura) essendo irrinunciabile. Preceduto dai filosofi rinascimentali della natura: Telesio, Campanella, Pomponazzi, Cardano, Bruno e Vanini, che innescarono la reazione alla decadenza della Chiesa e della religione, e seguito da Feuerbach, Schopenhauer e Nietzsche, Spinoza ha fatto una rivoluzione che è seconda, in senso inverso, solo a quella di Gesù Cristo. Si tratta in effetti di una rivoluzione doppia: una negativa: la soppressione della religione antropomorfica appunto, come il cristianesimo e le altre due religioni monoteistiche: ebraismo e islam; e una positiva, conseguente all'altra, il panteismo, come sola e necessaria religione del nostro tempo (sul panteismo, come tale religione, Emanuele Dattilo ha scritto un potente trattato apparso nel 2021 per i tipi di Neri Pozza, Il Dio sensibile).

Ho definito il tuo pensiero «naturalismo critico». Ti ritrovi in questa definizione?

«Mi ci ritrovo. Il mio motto è: Nihil nisi ex natura: non c'è niente che non provenga dalla natura e non sia natura. Ma la natura, nel panteismo, è fatta per l'uomo di due degli infiniti attributi della sostanza, la res extensa e la res cogitans, cioè la materia e il pensiero. La scienza tende a dare il primato alla materia, pensa che la materia produca il pensiero, che il cervello produca la coscienza, e la filosofia tende a far discendere tutto dallo spirito, dall'idea; ma né il pensiero dipende dalla materia, né la materia dipende dal pensiero: materia e pensiero sono una sola e medesima cosa. Perfino la formazione di Gesù Cristo può essere spiegata laicamente come trasfigurazione fidiaca dell'umanità, dunque sempre con origine naturale, come ho fatto nel mio libro Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Tuttavia io ho nominato la mia filosofia essenzialismo-organicismo perché la quantità, su cui si basa la scienza, non ha senso nella natura: un atomo e l'intero sistema solare sono la stessa cosa, e tutto poi si deve concepire organicamente nell'ambito dell'organismo universale, dunque le varianti dell'universo sono tra loro non in rapporto di relatività, come in Einstein, ma come gli organi del corpo umano, in rapporto di connessione organica».

Non credi che oggi ci sia un abuso del concetto di natura?

«Certo. Anzitutto perché non si sa che cos'è la natura. La natura è la realtà, l'essere, ma appunto non è affatto facile parlare della realtà, dell'essere. Anche perché giustamente Spinoza ha distinto la natura naturans dalla natura naturata, la prima inaccessibile, la seconda esplorabile. Ma allora ci sono due nature? No, ce n'è una sola, la naturans. Ma essa è di una tale infinita potenza e splendore che, se noi potessimo contemplarla direttamente, il contatto ci incenerirebbe all'istante. Dobbiamo accontentarci di percepirla tramite la natura naturata, che è appunto la percezione antropomorfica della naturans. Non possiamo fissare il sole, ma dobbiamo accontentarci di vedere le cose illuminate dal sole».

Tu sostieni che il panteismo è la religione del nostro tempo. Tuttavia, il panteismo è una critica continua di dogmi, miti, illusioni mentre il nostro tempo appare come l'esaltazione dei dogmi, dei miti, delle illusioni.

«Proprio per questo il panteismo è la religione del nostro tempo, per quanto sia difficile da capire. È la religione della verità, che nega dogmi, miti, superstizioni, di cui il nostro tempo appare come l'esaltazione (Mala tempora currunt), e dogma, mito, superstizione appare spesso l'idea di natura, nei fanatici ed esaltati seguaci di Greta Thunberg».

La tua «religione del nostro tempo» è una laica religione della libertà dove si trovano insieme Vanini, Bruno, Spinoza, Nietzsche e anche Croce, del quale si ripete proprio la formula «religione della libertà».

«Croce è l'ultimo grande filosofo spinoziano, anche se lui avrebbe trovato strano questo aggettivo. Ma che cos'è il suo saggio Non possiamo non dirci cristiani, che non è stato inteso o è stato frainteso, se non la dichiarazione della modernità come sintesi dei due evi precedenti e contrapposti, quello pagano e quello cristiano? Il panteismo è la religione della libertà, che ha il più grande precursore nell'antico Plotino».

A proposito di Cristianesimo. Per Hegel era la religione più alta dell'umanità, per Nietzsche era platonismo per il popolo. Ma oggi cos'è? Conserva la sua natura o si è snaturato e va verso quel vago sentimento naturalistico di cui abbiamo qui discusso?

«Hegel pretese di far rivivere il cristianesimo razionalizzandolo. Ma per la fondamentale eterogeneità di filosofia e religione, oppostagli anche da Goethe, ottenne l'effetto contrario: la strumentalizzazione della filosofia. Bruno Bauer lo smascherò col suo La tromba dell'ultimo giudizio contro Hegel ateo e anticristo. Il centauro Agostino, metà pagano e metà cristiano, traghetta la civiltà antica: regno della carne, della sete di dominio, della superbia, dell'amore di sé che disprezza l'amore di Dio, nella civiltà cristiana: regno di Dio, dell'interiorità, dello spirito, della carità. La sua santa gesta fu di interiorizzare l'essere di Parmenide e Plotino, farne un Dio padre provvidente, amorevole, misericordioso. Il cristianesimo è dunque l'interiorizzazione dell'uomo. Ma questa è anche la critica principale da rivolgergli. Noli foras ire, in interiore homine habitat veritas, dice Agostino. E nell'interiorità l'individuo scava i suoi tesori. Ma la sua vita è nel vasto universo esterno, in cui deve lottare per mantenersi e potenziarsi contro le avverse condizioni di esistenza. Tutti gli esseri sani vivono verso l'esterno, e verso l'interno solo in funzione della vita esterna. Ciò fa e ha fatto anche la Chiesa, e le ha fruttato un dominio in Europa più potente e duraturo dell'impero romano, di cui essa è stata l'erede. A questo dominio, conquistato e mantenuto con la dialettica della potenza, noi dobbiamo la civiltà in cui viviamo ancora. Ma le civiltà e le religioni hanno un ciclo vitale limitato, e dopo 1600 anni il cristianesimo è stato sostituito come religione dal panteismo, anche se la legge della carità resta il vertice della moralità».

L'ambientalismo è politica. E fa male all'ambiente. Il ritorno al futuro o all'Arcadia del piccolo mondo antico impedisce di risolvere i problemi del pianeta. Giancristiano Desiderio il 28 agosto 2022 su Il Giornale.   

Cosa ne è oggi della serietà dell'ecologia come la intese Ernst Haeckel? È stata risucchiata nel vortice demagogico dell'ambientalismo. La prima - l'ecologia - ha statuto di scienza e, come tale, è controllabile. Il secondo - l'ambientalismo - è un'attività politica e, come tale, tende a sfuggire al controllo e a degenerare nella propaganda e nel proselitismo. L'ambientalismo - per usare parole recenti di Federico Rampini - è una religione talebana del nostro tempo che ha una dea nella ragazzina svedese Greta Thunberg e moltitudini di giovani adepti che, sulla base del loro edonismo garantito dalla civiltà occidentale che denigrano, adorano la natura.

Proprio qui c'è il tasto dolente: non c'è cosa più difficile da definire della natura. Per i Greci è physis e per i Latini è natùra: ossia ciò che nasce e cresce spontaneamente senza perché. Come la rosa di Angelo Silesio. Ma gli ambientalisti, mischiando desideri, illusioni e dati, confondo il loro antropomorfismo - umano, troppo umano, umanissimo dice Nietzsche - con la physis e credono di essere niente di meno che i padroni della natura, capaci di regolamentarne temperature, clima, stagioni: come se la natura non fosse un eco-sistema vivo e variabile, ma un sistema razionale regolabile a piacere con una manopola. Così gli ambientalisti, che scambiano la natura con le teorie provvisorie della scienza, credono di essere progressisti anti-moderni e, naturalmente, anti-capitalisti, mentre sono il frutto dello stesso metodo moderno di indagine e della stessa produzione capitalistica che, però, beatamente ignorano e avversano.

L'ambientalismo è (anche) un affare editoriale. Basta dare uno sguardo agli scaffali, fisici e virtuali, delle librerie: è tutto un fiume librario che sfocia nel mare magnum della salvezza del mondo e della salvezza del pianeta. Esempi: Stefano Nespor, La scoperta dell'ambiente. Una rivoluzione culturale; Edward O. Wilson, Metà della Terra. Salvare il futuro della vita; Donatella Della Porta e Mario Diani, Movimenti senza protesta? L'ambientalismo in Italia; Giulia Settimo, Piccoli ambientalisti crescono: come insegnare l'ecologia ai bambini; Carlo Petrini, Terrafutura. Dialoghi con Papa Francesco sull'ecologia integrale. L'elenco sarebbe lunghissimo e questi sono i primi titoli a portata di mano e di clic.

L'ambientalismo, come si vede, si coniuga al futuro e al passato remoto: una sorta di ritorno al futuro o all'Arcadia del piccolo mondo antico di una volta. E, strano ma vero, entrambi questi due sentimenti, giacché di sentimenti e passioni si tratta, albergano nel campo progressista e non riguardano l'attualità e le sue concrete possibilità, bensì ciò che è lontano e remoto, impossibile, ma che si ritiene realizzabile facendo leva su un senso illimitato del potere: lo statalismo (ora indigeno, ora internazionale). Le «politiche verdi» - l'ultima delle quali è la cosiddetta «transizione ecologica» - enfatizzando oltre misura le fonti di energia rinnovabile confondono tra energia e potenza energetica: la prima è, ad esempio, la dinamo della bicicletta che è un trasformatore, mentre la seconda è il muscolo che fa girare i pedali. La nostra civiltà, per come è fatta e conosciuta, ha bisogno della potenza energetica, di cui la più compiuta espressione è il nucleare, mentre l'ambientalismo punta sull'energia rinnovabile, con la quale non riscaldiamo nemmeno le nostre abitazioni e ci espone alla dipendenza da potenze straniere, come il caso della guerra in Ucraina dimostra senza possibilità di smentita.

L'ambientalismo ha una sua pendenza a sinistra. È il caso di dirlo: è naturale. Non perché la sinistra difenda l'ambiente, ma perché è rimasta orfana del marxismo. Così l'ambientalismo è diventato la nuova lotta di classe, facendo fare ai progressisti o post-comunisti un vero e proprio salto quantico dalla pseudoscienza di Hegel e di Marx della filosofia della storia all'altra pseudoscienza di Hegel, Marx ed Engels della filosofia della natura: come un tempo gli intellettuali e i politici di sinistra credevano di essere la coscienza della necessità della Storia, così oggi credono di essere la coscienza della necessità della Natura. Come se un secolo di epistemologia, da Popper a Feyerabend, e un secolo e passa di fallimenti e catastrofi del marxismo non avessero insegnato nulla.

Come in effetti è: perché ogni generazione deve riprendere sulle spalle, secondo il realistico mito di Sisifo, la fatica di appropriarsi del sapere. Ma l'ambientalismo, in quanto è una sorta di tentativo di rivincita verde della sinistra rossa che è uscita sconfitta dalla storia del secolo scorso, evita per sua natura il confronto con l'umiltà del sapere e con la verifica dei risultati.

In questa inconsapevole teologia secolare si perdono le salutari differenze tra Dio, uomo e mondo e si alimenta una sensibilità ideologica e fanatica che, pur cantando le lodi dell'inclusione, esclude chiunque sollevi dubbi ed eserciti la santa critica. Il mondo dell'informazione, in senso lato, in quanto veicola dati senza analisi e senza storia porta acqua al mulino del pregiudizio positivo di cui gode l'ambientalismo nella società di massa in cui - come già sapeva e scriveva Ortega y Gasset un secolo fa in La ribellione delle masse - domina la boria del competente-ignorante. Un ambientalismo di tal fatta, che non sa distinguere natura e teoria, fisica moderna e physis, non è utile a difendere l'ambiente ed è il primo impedimento per conservare e custodire una buona eco-logia come discorso intorno alla casa che abitiamo.

Non a caso con l'ambientalismo ideologico si perdono i termini del discorso eco-logico: in luogo del logos, ossia del serio argomentare razionale, si ha il logo, al posto dell'inquinamento, sul quale si può intervenire si ha il clima che è indipendente dalle volontà umane, e si rifiuta la sempre faticosa libertà umana sostituendola con l'idoleggiamento di una natura non meglio definita della quale, però, la volontà di potenza ambientalista crede di essere la naturale regolamentazione. L'ambientalismo, come si vede, è il corto-circuito della cultura moderna che ignora o forse nasconde le sue radici e i suoi limiti.

·        I Testimoni di Geova.

Religione: Testimoni Geova, storica sentenza contro Russia. ANSA l'8 giugno 2022. 

La Corte europea dei diritti dell'uomo "ha emesso una sentenza storica contro la Russia a favore dei Testimoni di Geova. La Cedu ha dichiarato, 6 voti contro 1, che era illegale per la Russia bandire i Testimoni di Geova. La Corte ha anche affermato che era illegale vietare le loro pubblicazioni, i periodici e il sito web ufficiale dei Testimoni di Geova. Ha ordinato dunque alla Russia di interrompere tutti i procedimenti penali pendenti contro i Testimoni di Geova, di rilasciare tutti coloro che sono in prigione, nonché di restituire tutte le proprietà confiscate o di pagare un risarcimento adeguato". Lo riferiscono gli stessi Testimoni di Geova secondo i quali la Russia sarebbe stata condannata a pagare ai ricorrenti un totale di 59.617.458 euro "per danni materiali, principalmente beni sequestrati" e 3.447.250 euro "in relazione al danno morale".

Jarrod Lopes, portavoce dei Testimoni di Geova, afferma: "I Testimoni di Geova di tutto il mondo sono soddisfatti per l'esauriente giudizio contro la Russia. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha sentenziato che i Testimoni di Geova sono cittadini rispettosi della legge che, a causa della discriminazione religiosa, sono illegalmente perseguitati e incarcerati in Russia. Ci auguriamo che la Russia rispetti le indicazioni della Corte - afferma ancora il portavoce - e fermi la persecuzione a livello nazionale e rilasci tutti i 91 Testimoni in prigione. I Testimoni di Geova in Russia attendono l'opportunità di praticare la loro fede liberamente nella loro patria, come fanno milioni di compagni di fede in oltre duecento altri Paesi". (ANSA).

·        Scientology.

«Paga e ti risolvo i problemi»: ecco come Scientology cerca nuovi adepti. Luca Scarcella su L'Espresso il 22 settembre 2021. Attirati da un finto evento al Celebrity Centre di Los Angeles: test della personalità e grandi promesse per unirsi alla religione di Tom Cruise. Una testimonianza in prima persona. «Il test dice che sei depresso, instabile e poco concentrato: così non riuscirai a raggiungere i tuoi obiettivi. Quanti soldi hai con te? Per 75 dollari il nostro corso ti aiuterà a superare i problemi». Queste le parole ascoltate, pronunciate da un giovane funzionario di Scientology, in una serata particolare. Scientology è il movimento religioso fondato nel 1954 da Lafayette Ron Hubbard, ma a Los Angeles è qualcosa in più. Rappresenta una via sfavillante per centinaia di giovani attrici e attori, sbarcati a Hollywood da tutto il mondo, incantati dalla promessa di realizzare i propri sogni, abbandonando finalmente i turni nei ristoranti per arrivare a fine mese. Nella città californiana stavamo conducendo un’indagine sulla creatività, intervistando artisti di ogni tipo. Così, ci imbattemmo nell’annuncio Facebook di un evento: un workshop tenuto da un importante regista al Manor Hotel, su Franklin Avenue, a circa 1 chilometro dalla celebre Walk of Fame di Hollywood. Arrivammo a destinazione con un po’ di anticipo, accolti ai cancelli da una giovane donna che ci scortò nella hall. Lì iniziò la serata che non ci aspettavamo. Capimmo subito di trovarci in un centro Scientology: oltre alle insegne tutt’altro che sobrie (questo è il Celebrity Centre!), scaffali pieni di libri - in vendita - a firma del fondatore della Chiesa amata da Tom Cruise  e schermi alle pareti che pubblicizzavano le attività del movimento. Un ragazzo, sulla trentina, ci portò in una stanza, spoglia di qualsiasi arredamento al di fuori di due scrivanie, con sveglie, fogli e penne. Ci disse che prima dell’evento avremmo dovuto compilare un questionario, un test della personalità, in un tempo prestabilito. Avviò le sveglie e lasciò la stanza. «Scientology avvicina i potenziali nuovi membri attraverso la somministrazione gratuita del "test della personalità" (Oxford Capacity Analysis, ndr) finalizzato a descrivere lo "stato vitale" del rispondente e a identificare i punti di forza e debolezza della sua personalità» - spiega Nicola Pannofino, ricercatore e professore di sociologia all’Università della Valle d’Aosta, che con il professor Mario Cardano ha trattato Scientology nel libro “Piccole apostasie. Il congedo dai nuovi movimenti religiosi”, edito Il Mulino. Il test - disponibile anche sul sito di Scientology dopo registrazione gratuita - è composto da 200 domande, che vanno dall’innocua "Canti spesso o fischietti?", alla stranamente specifica "Ti capita di avere spasmi muscolari occasionali senza motivo apparente?". Finito il questionario, veniamo informati sul workshop: cancellato, il regista ha avuto un contrattempo. Ci divisero e portarono in altre stanze per analizzare le risposte al test, processate da una macchina che come risultato propone un grafico. «Come può notare anche lei, ci sono molti picchi verso l’alto, e altrettanti verso il basso: questo significa che non ha una vita stabile, e soffre spesso di depressione - spiegò con pacatezza il giovane adepto del movimento -. Ha dei contanti con sé? Il nostro corso sulla personalità costa solo 75 dollari, e grazie a esso non avrà più problemi di questo tipo, centrando finalmente i suoi obiettivi e realizzando ogni suo sogno». Il corso di cui parla si chiama Dianetics, soluzione a tutti i deficit e carenze riscontrati col test sulla personalità: «In questo modo, Scientology mostra la sua duplice natura, terapeutica e religiosa: da un lato si presenta infatti come organizzazione che offre servizi e metodi pratici per lo sviluppo del potenziale umano, con la vendita di corsi che il neofita può acquistare in base alle proprie esigenze per migliorare, per esempio, le abilità comunicative, le relazioni interpersonali, le performance di studio e di lavoro - spiega il professor Pannofino -. Dall'altro lato, man mano che il praticante avanza nel percorso previsto dalla Chiesa, detto "Ponte verso la libertà totale", impara a conoscere gli aspetti strettamente spirituali di Scientology, accedendo agli insegnamenti di tipo esoterico, ai miti e ai rituali su cui è tenuto a mantenere il segreto».  Dopo circa due ore, tra test e tentata vendita di corsi e libri, ecco una nuova sala con una signora, sui sessant’anni, che si è presentata come assistente del regista che avrebbe dovuto tenere il workshop. Qui la conversazione si è fatta più amicale, discutendo di lavoro e vita privata, e di come Scientology poteva aprire ogni porta, dalla carriera alle relazioni sentimentali. «Sono stati molto abili nell’affiancarci e dedicarci moltissimo tempo, facendoci sentire importanti e ascoltati - racconta Matteo di Pascale, co-fondatore della casa editrice indipendente Sefirot, che era con noi in Scientology -. Con questo approccio è normale che in una città come Los Angeles abbiano enorme successo». Dopo tre ore, e i nostri ripetuti “no, grazie”, finalmente uscimmo dall’hotel.

Carlo Nordio per “Il Messaggero” il 20 marzo 2021. Centodieci anni fa, il 13 marzo 1911, nasceva a Tilden, nel Nebraska, Lafayette Ronald Hubbard, meglio noto come Ron Hubbard, il fondatore di Scientology: una dottrina che, nella progressiva scristianizzazione della civiltà occidentale, ha introdotto un surrogato di religione accattivante e tentacolare.

LA CONVERSIONE. Ha convertito centinaia di migliaia di adepti (tra cui molte star del calibro di Tom Cruise e John Travolta), ne ha ricevuto somme immense con versamenti più o meno spontanei, e si è scontrata con la Giustizia di mezzo pianeta. Le accuse si fondavano sempre su un concetto: la subordinazione della mente del neofita alla volontà del precettore. Da qui le varie imputazioni di truffa, circonvenzione d'incapace, violenza privata, esercizio abusivo della professione, pubblicità ingannevole ecc ecc. Tra assoluzioni e condanne son fiorite le polemiche sul carattere religioso del movimento, soprattutto a fini fiscali, perché in molti Stati le proprietà delle Chiese godono di agevolazioni tributarie. Nel frattempo Scientology non ha conquistato la terra, come auspicava il fondatore, ma non è nemmeno sparita. In Italia si calcola che abbia alcune migliaia di affiliati. Difficile individuare, e soprattutto riassumere, i caratteri di questa filosofia. In sintesi, essa si propone di attuare un clearing, cioè una pulizia dell'anima, attraverso un'educazione progressiva sotto la regia di un maestro. Peccato che queste sedute siano costosissime, e spesso orientate a ottenere dall'adepto la cessione parziale o totale dei propri beni. È stato questo depauperamento a orientare molti parenti a rivolgersi ai tribunali per bloccare l'allarmante emorragia.

LE FAMIGLIE. Ma nemmeno l'aspetto psicologico va sottovalutato. Le famiglie hanno lamentato il cambiamento, spesso convertitosi in ostilità, del congiunto assorbito da questa nuova pratica mentale, e parecchi matrimoni sono naufragati. A queste accuse Hubbard e compagni hanno risposto, e uno scettico potrebbe concordare, che questo è l'effetto di tutte le nuove fedi, più o meno ardite, più o meno escatologiche. Il Cristianesimo lacerò migliaia di famiglie, e secondo Gibbon contribuì in modo determinante alla caduta dell'Impero romano. Il marxismo, nella sua visione apocalittica, fece la stessa cosa. Quanto ai tribunali, anch'essi si sono comportati, nei secoli, in modo difforme. Plinio il Giovane, sia pur con la riluttanza ispiratagli dalla sua mitezza e con la cautela suggeritagli da Traiano, spediva gli irriducibili cristiani al patibolo per il solo rifiuto di sacrificare all'Imperatore, e l'Inquisizione mandava gli eretici al rogo anche senza addebiti specifici. La tolleranza religiosa è figlia dell'Illuminismo, ma nipote dell'incredulità. Quanto a Scientology, negli Stati Uniti, il giudice Breckenridge, al termine di un lungo processo, definì l'organizzazione «decisamente schizofrenica e paranoica, una bizzarra combinazione che sembra essere un riflesso del suo autore, un bugiardo patologico». In Italia, forse per la minore diffusione della setta, le sentenze sono state più blande, salvo i casi conclamati di abusi o raggiri. Hubbard morì il 24 gennaio 1986, in circostanze mai del tutto chiarite. I suoi affiliati proclamarono che «aveva deliberatamente lasciato il suo corpo per svolgere ricerche spirituali al più alto livello». Ma le denunce continuarono.

IL GIUDIZIO. A parte l'aspetto giuridico, il giudizio su Scientology riflette, come sempre, i pregiudizi di chi lo esprime. Chi si vede sottrarre l'affetto di un parente o un'allettante aspettativa ereditaria, lamenterà il plagio o magari la violenza di una intrusione da parte di spregiudicati accaparratori. Il convertito, oltre a invocare la libertà di scelta, vanterà il seducente privilegio di una riconquistata elevazione spirituale. L'incredulo, a sua volta, citerà le fantasie di un'immaginazione vagabonda, e trarrà dal suo bagaglio erudito gli esempi più significativi: Seneca credeva nella divinazione, Plinio il Vecchio derideva i miracoli degli dei ma raccomandava il coito contro la raucedine, la lombaggine, e la vista debole, aggiungendo che in Lusitania le cavalle sono fecondate dal vento dell'Ovest, e che sotto il consolato di Acilio piovvero latte e sangue. Una persona di buon senso non cadrà in nessuno di questi tranelli. Conoscendo i ristretti limiti della nostra ragione, e le sterminate distese della nostra emotività, tenderà piuttosto a spiegare la nascita di queste singolari teorie. In realtà ci sono sempre state. La concezione di un'anima preesistente, la cui purezza sia stata degradata dalla sua carcerazione corporea, e possa esser riconquistata con un procedimento di decantazione catartica è vecchia di millenni. Noi la conosciamo attraverso Platone, nella purezza della prosa attica, ma in realtà nasce nella torbida misteriosofia persiana e forse caldea. Essa contaminò anche il cristianesimo: nel secondo secolo il movimento gnostico fu un precursore, anche nel nome, della Scientology che letteralmente significa, come la gnosi, scienza della conoscenza. I padri della Chiesa ne intuirono il pericolo, e reagirono con Ireneo, Clemente e Tertulliano alle stravaganze di Carpocrate, di Valentino e di Marcione, che predicavano teorie non molto diverse da quelle di Ron Hubbard. Qualcuno di questi eretici esagerò, e sconfinò nella licenza sessuale: anticipando Oscar Wilde, Isidoro, figlio di Basilide, sosteneva che se non riesci a pregare perché sei distratto dagli impulsi carnali devi darvi immediata soddisfazione, «per poterti poi accostare a Dio con animo lieto». Molti santoni oggi predicano le stesse cose: non c'è nulla di nuovo sotto il sole.

L'ORDINE. A quel tempo, uno dei meriti della Chiesa fu proprio quello di metter ordine in quelle sfrenate fantasie. Il culto dei santi non fu affatto, come sostennero gli illuministi, un alimento alla superstizione, ma piuttosto una forma di controllo al caotico sincretismo di mitologie grezze e di suggestioni enfatiche. Poiché, come tutti sappiamo, ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne conosca la nostra filosofia, ognuno di noi, soprattutto nel momento del bisogno o della disperazione è tentato di affidarsi a forze superiori. In modo efficace, Churchill disse che in certi momenti anche gli atei pregano. E in effetti, durante l'invasione nazista, le chiese moscovite si riempirono anche di militanti leninisti. Sfruttando queste fragilità, Scientology ha spesso superato l'incerto confine tra la soccorrevole comprensione delle nostre debolezze e il loro sfruttamento ingannevole. Dimostrando il detto attribuito a Chesterton che chi smette di credere in Dio, finisce per credere a tutto.

Scientology. Pierfrancesco Carcassi su Il Corriere della Sera il 3 gennaio 2021. Impossibile non notarla. La mole di Villa Francesconi Lanza salta agli occhi di chiunque passi esca dalla tangenziale nord di Padova all’altezza dell’Arcella. Così come la scritta “Scientology” che da quasi 12 anni campeggia sulla facciata. Di notte, si accende di un alone luminoso. È una delle 12 strutture in Italia in cui si riunisce l’organizzazione religiosa fondata dallo scrittore statunitense Ron Hubbard, finita sotto i riflettori nel corso degli anni tanto per i volti di Hollywood che ne hanno fatto parte – due fra tutti, Tom Cruise e John Travolta – quanto per le critiche di ex membri raccolte da libri e documentari. «Siamo stati esposti alla gogna mediatica troppo a lungo – rivendica Tiziana Bonazza, responsabile delle relazioni con i media della chiesa padovana – e ingiustamente. Per anni dicevano che Scientology prende le persone e non le fa più uscire, ma qui è tutto aperto: chi vuole esce. Ci chiamavano setta solo perché lo facevano i media; invece noi siamo una chiesa».

In Veneto 18mila seguaci

Quella della Città del Santo è stata una delle ultime chiese costruite. Un punto di riferimento per circa 3mila praticanti. I simpatizzanti sono attorno agli 11mila. Oltre 3.500 fedeli ruotano attorno alla sede di Verona, senza contare le missioni, gruppi più piccoli, come quelli di Vicenza e Treviso. Insieme, portano a quasi 20mila il totale dei seguaci nella regione. Tra loro anche diversi imprenditori importanti che preferiscono non esporsi, ci spiegano. «Come collaboratori negli ultimi dieci anni siamo raddoppiati, e direi che i fedeli siano cresciuti del 50%», calcola Bonazza, che ci porta a visitare la sede. Per mantenere in funzione la chiesa di Padova servono 150 persone, organizzate in due turni. Sono loro che aprono le porte di Villa Lanza la mattina e le chiudono attorno alle 23, sette giorni su sette. Fedeli che diventano segretari, contabili, impiegati, addetti alle pulizie, e ministri del culto. Mentre passiamo per i corridoi tutti mi salutano con un sorriso. «Siamo qui per fare servizio gratuitamente — prosegue Tiziana Bonazza — chi può copre il turno diurno; chi invece ha un lavoro che lo impegna tutto il giorno viene la sera e nei fine settimana». Lei di mestiere fa la consulente autonoma di una nota rete di vendita di prodotti per il benessere: lavora quando non è in servizio a Villa Lanza. Ricorda con entusiasmo il suo ingresso nell’organizzazione, quasi 35 anni fa: «Ero massaggiatrice ma non riuscivo a curare i dolori psicosomatici della gente. Nel 1987 ho conosciuto un libro di Ron Hubbard: lì ho trovato le risposte per aiutare le persone. Ma mi vengono sempre nuove domande per cui non mi stufo mai di studiare».

Sul modello di Hubbard

E davvero nella Chiesa di Scientology non si finisce mai. Hubbard vanta il record mondiale di scrittore più prolifico: 1.084 libri pubblicati, cui si aggiungono migliaia di conferenze e altri testi. Nella libreria interna a Villa Lanza sono sistemati negli scaffali o impilati a formare piccole piramidi come nei negozi. Alla parete c’è una mappa per orientarsi tra i testi: sembra una tavola periodica degli elementi. Il fondatore è morto nel 1987 ma è una presenza costante nella chiesa, le sue copertine su calti e mensole, la sua foto all’ingresso, le sue citazioni alle pareti su cartelli bianco e oro. Ne notiamo: «Rimani calmo quando gli altri si agitano». Il “sancta sanctorum” è una riproduzione del suo ufficio, con tanto di targa a suo nome sullo stipite della porta. «Ce n’è uno in ogni chiesa perché qui tutto è improntato alla persona di Hubbard, anche il sistema di amministrazione».

Un percorso «iniziatico»

La villa ha una cappella: ospita battesimi, matrimoni, funerali, oltre al sermone domenicale sui testi di Ron Hubbard. Onnipresente la croce a otto bracci. «Non è una croce – precisa Bonazza – le otto punte simboleggiano le otto dinamiche di sopravvivenza (gli otto aspetti fondamentali della vita umana secondo Hubbard, ndr): il sé, la creatività, il gruppo, la specie, le altre forme di vita, la spiritualità e l’infinito, che alcuni chiamano dio». E dio si raggiunge con il “ponte”, un percorso a livelli che promette una purificazione verso uno stato di piena coscienza, in gergo «clear». «Il percorso è individuale e nessuno può stabilire dove si può arrivare, come ognuno può decidere dove andare dopo la morte del corpo». Siamo entrati nella barchessa. Parliamo su un divanetto mentre un televisore riproduce filmati sulla dottrina di Scientology: nelle animazioni dio è rappresentato con un simbolo dell’infinito, un “otto” dall’aspetto rarefatto e luminescente. «Le persone sono scettiche verso ciò che non conoscono», illustra Bonazza. «Qui è tutto aperto e si può vedere tutto. Collaboriamo con diverse parrocchie e con la comunità islamica, portiamo beni per i bisognosi a Natale, facciamo attività nelle case di riposo e lavoriamo con il Centro servizi di volontariato».

Niente droghe né psicologia

Niente professione di fede, dogmi o regole: dentro Scientology tutto è ritagliato su misura. Non ci sono dottrina bioetica né tabù sessuali. «Non entriamo nella sfera dell’individuo, neanche per i trattamenti sanitari, come il vaccino: ci atteniamo alle regole ma ognuno può decidere». Eppure, nelle vaste praterie delle scelte individuali un’eccezione c’è: le sostanze stupefacenti, che Scientology combatte nei centri di recupero Narconon: «Abbiamo una forte campagna antidroga, l’uomo è libero solo se decide: tutto il resto è compulsione che obbliga», chiarisce Bonazza. «Per noi anche gli psicofarmaci sono droghe, crediamo che le difficoltà si possano risolvere diversamente, a meno che una persona faccia del male a sé o agli altri». I metodi di Hubbard prendono il posto della psicologia: «Consigliamo di non rivolgersi allo psicologo mentre si fa il percorso; se si mischia con il metodo di Scientology si rischia di far sfumare i risultati». E addio allo stato di “clear” con annessa scalata verso il divino.

L’elettropsicometro

Per Scientology la libertà dai traumi del passato si raggiunge in due modi: con lo studio degli scritti del fondatore (obbligatorio essere lucidi: niente alcool nelle 24 ore precedenti), tramite corsi a pagamento – 30 euro per quelli base, fino a mille per quelli professionali – ma anche con la consulenza spirituale. E qui entrano in gioco i ministri della Chiesa di Scientology. Gli “auditor” che ascoltano e “auscultano” i fedeli attraverso una “tecnologia religiosa” (sic) chiamata elettropsicometro (e-meter). Si tratta di una macchinetta con lancetta e manopole che ricorda un tester per la corrente elettrica. Loris, uno dei ministri, ce lo fa provare. Mette in ognuno dei miei palmi uno degli elettrodi cilindrici dell’apparecchio. «Ora le darò un pizzicotto e mi dirà quando sente il dolore», avvisa. Il ministro stringe gradatamente la pelle del mio braccio tra le dita. Il tempo di percepire un leggero fastidio e dare voce alle parole «ora lo sento», e la lancetta inizia a muoversi. Loris sorride: «Ecco, vede?», chiede. «È un sistema che aiuta l’auditor (chi ascolta, ndr) a individuare le aree di sofferenza fisica o mentale su cui lavorare». Così l’auditor guida il fedele verso questi nodi allo scopo di renderli inerti. «Alla fine la persona potrà ricontattare quegli episodi senza che l’energia negativa condizioni l’esistenza».

I «confessionali» per l’auditing

Loris vive a Padova, è diventato ministro dieci anni fa dopo due anni di studio. Prima faceva tutt’altro: «Lavoravo come barista, sono originario di Rimini». Tutta la sua famiglia fa parte della Chiesa di Scientology: «Me l’ha fatta conoscere mio suocero. Ora mi occupo di questo a tempo pieno – sempre servizio a titolo gratuito, ndr - mia moglie invece fa un altro lavoro». All’auditing è dedicato tutto il piano superiore di Villa Lanza: persone che forse aspettano il proprio turno per parlare ai ministri delle proprie ferite più profonde ci squadrano diffidenti; non lontano, un poster mostra le foto dei “clear” dell’anno, i fedeli che hanno avuto successo nel percorso di purificazione. Nei corridoi si aprono stanzette a metà strada tra confessionali e piccoli uffici, con scrivania, citazioni di Ron Hubbard, e codice etico dell’auditor alla parete – tra cui non rivelare le confidenze ricevute dai fedeli. Mentre passiamo, diversi hanno la porta chiusa. “Auditing in corso”, avvertono i cartelli. Attenzione: come la palestra, il rito dell’auditing non funziona se si va una volta ogni tanto. «Per vedere risultati ci vogliono almeno 12 ore e mezza a settimana», specifica Tiziana Bonazza. Costo: circa 400 euro. Ma chi regala il proprio tempo alla chiesa ha delle agevolazioni.

«I miei amici non mi giudicano»

In un’ala del piano inferiore occupata dagli uffici dell’amministrazione conosciamo Nicola, 33 anni, padovano. «Mi sono formato per alcuni mesi alla sede di Los Angeles, la sede amministrativa principale», racconta. Ci illustra un altro strumento messo a punto da Scientology per individuare i punti deboli delle persone su cui lavorare: «L’Oxford Capacity Analysis, un test di 200 domande che poi viene elaborato da un software e crea un grafico che evidenzia le aree di sofferenza». Anche il suo arrivo in Scientology è passato attraverso una persona cara: «Mia moglie. L’ho incontrata in un ristorante: prima facevo lo chef, cucinavo per persone importanti, giravo il mondo. Poi ho capito che volevo aiutare gli altri e da sette anni facciamo tutti e due servizio qui». Nicola e sua moglie trascorrono le loro giornate alla chiesa: «Ci manteniamo attraverso una rete di vendita di energia elettrica e gas che ho sviluppato negli anni, è la mia ditta e la devo curare molto poco, giusto qualche ora al giorno». Hanno una bimba di otto anni. La tengono i nonni, che non sono seguaci di Hubbard: «Ma vengono lo stesso qui ad aiutarci. I miei amici? Sanno che faccio parte di Scientology ma non mi hanno mai giudicato. Mi hanno preso sempre sul serio». Nessuno di loro ha mai messo in dubbio la sua appartenenza: «In genere mi ritengono una persona di successo».

·        L’Ebraismo.

Le buone misure del potere. Luigino Bruni su il 4 giugno 2022.

Ciò che distingue in modo particolare il Dio degli ebrei è che è un Dio che parla. Per questo i profeti sono preminenti nella tradizione giudaica

La profezia è mistero di una infinita libertà e di una altrettanto infinita non-libertà. È l’esperienza più libera di fronte agli uomini che ci possa essere sulla terra perché è l’esperienza meno libera di fronte alla voce che abita il profeta e gli parla. Dovendo, a tutti i costi, obbedire a quella voce diversa, i profeti devono, a tutti i costi, disubbidire a tutte le altre voci che cercano costantemente di manipolare la loro voce, gratuita perché libera. Ogni fedeltà assoluta e perfetta è infedeltà assoluta e perfetta a tutto ciò che corrompe quella fedeltà vocazionale prima. I profeti sono questo intreccio vitale inestricabile di obbedienza e disubbidienza, di fedeltà e infedeltà, di gratuità e obbligo. Quindi di amore per i doni e odio per i regali. Perché i regali sono espressione di rapporti di potere che rafforzano il potere (regalo proviene da rex, regis: re). Nella Bibbia i regali sono, quasi sempre, doni senza gratuità, offerte al (o dal) re e ai (o dai) capi al solo o primo scopo di consolidare la gerarchia, per dire – con il linguaggio muto e potente delle cose – chi comanda davvero e chi è servo/a, magari circondato/a da regali-lacci.

«Fu allora introdotto Daniele alla presenza del re ed egli gli disse: "Sei tu Daniele, un deportato dei Giudei, che il re, mio padre, ha portato qui dalla Giudea?... Se quindi potrai leggermi questa scrittura e darmene la spiegazione, tu sarai vestito di porpora, porterai al collo una collana d’oro e sarai terzo nel governo del regno"» (Daniele 5,13-16).

I sapienti e i maghi caldei non erano riusciti, neanche questa volta, a leggere né tantomeno a interpretare le parole che una misteriosa mano, forse la mano di Dio, aveva scritto sul muro durante un banchetto – «e il re vide il palmo di quella mano che scriveva» (5,5). Questa visione di Baldassàr della mano di Dio è un "luogo" dove la Bibbia ha influenzato le scienze sociali moderne, per l’uso che ne ha fatto, sulla scia di Calvino (Institutio, 1536), l’economista scozzese Adam Smith, che ha centrato, nel 1759, la sua teoria del mercato attorno all’immagine della «Mano» (invisibile), già usata nel 1751 dall’economista napoletano Ferdinando Galiani: «La suprema Mano».

Rivelativa di una dimensione essenziale della profezia biblica è la risposta di Daniele: «Daniele rispose al re: "Tieni pure i tuoi doni per te e dà ad altri i tuoi regali: nondimeno io leggerò la scrittura al re e gliene darò la spiegazione"» (5,17). Il profeta non rivela i misteri per denaro, non risponde a incentivi monetari né di potere. Opera per vocazione, e basta – «nondimeno io...». È questo un elemento-chiave per distinguere i profeti veri da quelli falsi, i filosofi per vocazione (Socrate) dai filosofi per profitto (i sofisti). Una separazione che continua ad attraversare il nostro mondo secolarizzato, dove Daniele e i maghi caldei lavorano ancora gli uni accanto agli altri; ma noi non abbiamo più gli strumenti per distinguerli e così finiamo quasi sempre per interpretare l’alto prezzo delle loro fatture come segnale di qualità dei "profeti", il loro onorario come segno del loro onore.

Dà ad altri i tuoi regali: molte volte nella Bibbia troviamo una forte critica ai doni, ma per capirla dovremmo tradurre doni con regali. Per poter fare il suo dono al re, Daniele deve sgombrare il campo etico dai regali del re. Questa è una operazione essenziale tutte le volte che qualcuno vuole fare un dono-gratuità a chi si trova, oggettivamente, su di un piano gerarchico superiore: il dono diventa possibile se chi dona riesce a mettersi in una condizione di libertà che gli consente di poter vivere la gratuità (non c’è gratuità senza libertà, e viceversa). Sta qui la ragione per cui i doni dei poveri ai potenti sono quasi impossibili, e perché aiutare le persone a uscire dalla miseria significa aiutarli a liberarsi dai regali e poter iniziare a fare doni – gesti che sono quasi impossibili, ma non impossibili sempre, perché qualche volta possiamo essere, in ogni contesto, più grandi del nostro destino.

Ora Daniele, libero grazie alla fedeltà alla sua vocazione, può finalmente interpretare la misteriosa frase che la mano ha vergato sulla parete. La prima parte del discorso di Daniele fa uso solo della memoria. Ricorda a Baldassàr la vicenda di suo padre Nabucodònosor (che forse era il nonno) che nonostante la sua iniziale alterigia, che gli costò la riduzione allo stato bestiale, alla fine si convertì e riconobbe «che il Dio altissimo domina sul regno degli uomini» (5,21). Baldassàr, invece, «non hai umiliato il tuo cuore, sebbene tu fossi a conoscenza di tutto questo» (5,22), e «hai reso lode agli dèi d’argento, d’oro, di bronzo, di ferro, di legno, di pietra, i quali non vedono, non odono e non comprendono» (5,23), e così dal Dio vero «fu mandato il palmo di quella mano che ha tracciato quello scritto» (5,24). Un verdetto chiaro e netto di colpevolezza, che non lasciava molte speranze sul significato di quella scritta. Eccoci finalmente arrivati allo svelamento del mistero: «Questa è la scritta che è stata tracciata: "Mene mene tekel upharsin"» (5,25).

Daniele risolve subito il primo enigma: i maghi e i sapienti caldei non erano riusciti né a leggere né a interpretare la scritta, Daniele legge invece le parole sul muro. Ma quella frase non diceva nulla di comprensibile, neanche al lettore biblico. Doveva suonare simile al dantesco «pape satàn pape satàn aleppe». Daniele quindi svela anche il senso di quelle parole misteriose: «Questa ne è l’interpretazione. Mene: Dio ha contato il tuo regno e gli ha posto fine; Tekel: tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato insufficiente; Upharsin: il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani"» (5,26-28).

Questo verso di Daniele è tra i più commentati della Bibbia, perché tra i più controversi. Rabbini antichi e moderni, Padri della Chiesa, teologi ed esegeti hanno offerto diverse letture (anche per le lievi differenze tra il testo ebraico e quello greco dei Settanta). Il libro di Daniele spiega dunque le parole "mene", "tekel" e "upharsin" come: "contato", "pesato" e "diviso". Alla luce di alcune iscrizioni rinvenute a fine Ottocento, questi riferimenti a contare, pesare e dividere fecero avanzare una ipotesi che oggi convince buona parte degli studiosi: le parole del graffito murale erano in origine delle monete babilonesi. E per un economista (come me) non è poco; anzi è molto. Mene era la mina, tekel lo shekel, cioè il siclo, upharsin sono le due parti di una mina spezzata. Ecco svelato l’arcano: mina, mina, shekel, due mezze mine. Monete che potrebbero dire al re Baldassàr: tuo padre Nabucodònosor era una mina, tu sei uno shekel (cioè un cinquantesimo di mina), ovvero vali poco, e il regno babilonese è una mina destinata a essere spezzata in due e spartita tra Medi e Persiani. Gli antichi rabbini erano soliti usare l’espressione «una mina figlio di una mezza mina», per indicare un figlio eccellente di un padre modesto. Nell’antichità le monete nascevano come misure di volume e di peso – uno shekel pesava attorno ai dieci grammi, la libra latina significava in latino bilancia. Quindi: contati (i giorni di Nabucodònosor), pesato (il valore infimo di Baldassàr), diviso (il regno del padre tra Medi e Persiani).

La presenza molto probabile di monete nella misteriosa scritta divina ci dice molte cose. Babilonia era una superpotenza economica e finanziaria, e quindi il linguaggio delle monete era universale e comprensibile al vasto pubblico. In quel mondo anche Dio per mandare messaggi usava monete. Per dirci che in una società dove l’economia e la finanza sono molto importanti (a Babilonia esistevano molte banche), Dio deve imparare a parlare il linguaggio delle monete e dell’economia. Almeno lo devono imparare i profeti. E quando Dio e i profeti non sanno parlare di economia, o non vogliono parlarne perché la considerano troppo bassa, è la fede che diventa troppo bassa per riuscire a guardare lontano e in profondità il cuore della gente vera.

Il linguaggio delle monete non è linguaggio estraneo alla Bibbia, Antico e Nuovo testamento. Perché non tutti siamo esperti di teologia, ma tutti capiamo, inclusi gli analfabeti, la lingua diversa delle monete – mio zio Domenico non sapeva leggere, ma quando vendeva i polli non sbagliava mai un calcolo di un prezzo. La Bibbia ha usato molto le monete: i 400 sicli d’argento per la tomba di Sarah, i 17.000 del campo di Geremia in Anatot, i due denari pagati all’albergatore, i trenta denari di Giuda, i trecento denari della donna del profumo versato. La Bibbia ha contato, pesato, diviso, per dirci che la vita della gente non può non passare dal contare, pesare, dividere. Forse lo ha fatto persino troppo, quando, in qualche pagina, ha voluto leggere anche i sacrifici nel tempio come pagamenti registrati in una partita doppia tra gli uomini e Dio, e la morte e passione di Gesù Cristo come pagamento del prezzo della salvezza.

Ma nell’usare misure di valore e di peso per dare un messaggio a un re, Daniele ci dice qualcosa, forse, di ancora più importante. Il giorno dopo il banchetto, il 12 ottobre del 539 a.C., l’impero cadde occupato dai persiani. Baldassàr viene assassinato. Quella festa e quella mano misteriosa furono l’ultimo atto dell’impero Babilonese: «In quella stessa notte Baldassàr, re dei Caldei, fu ucciso» (5,30). Baldassàr aveva sbagliato il rapporto con le monete, non aveva saputo contare e misurare: soprattutto aveva sbagliato la misura del suo potere. Il buon governo è sempre questione di misura, saper misurare fin dove spingere le sue forze quando appaiono onnipotenti: ogni potere smisurato è perverso e perverte.

Daniele fece il suo dono al re, gli svelò l’enigma. Fu però un dono tremendo, fu l’annuncio della sua fine, ma in cambio ottenne dal re ricompense e doni – che non erano più il prezzo della sua prestazione profetica. Questi doni del re che arrivano a fronte dello svelamento di un destino di morte è il saluto del libro di Daniele a Baldassàr, un sovrano poco amato dai babilonesi. E così ci lascia un ultimo messaggio prezioso: i doni non sono sempre carini, non ci portano sempre buone notizie. Qualche volta un dono – una parola vera, un incontro inatteso – può ferirci, può essere tremendo, annunciarci un passato, un presente e un futuro che non vorremmo. Il dono resta dono anche quando non ci piace, ci può far bene mentre ci fa male. Daniele fece il suo dono a Baldassàr offrendogli un ultimo momento di verità nell’ultimo giorno della sua vita, e, grazie alla Bibbia, quel dono, tremendo e vero, resta per sempre.

·        Lo Zoroastrismo.

Iran, conversioni-sfregio contro Maometto: qualcosa di impensabile. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2022

«La più grande impresa degli ayatollah sarà quella di restituire la Persia a Zoroastro. Ci sono conversioni occulte anche al Cristianesimo». L'apparente provocazione viene via Social da Germano Dottori; consigliere scientifico di Limes, già docente di Studi Strategici presso la Luiss-Guido Carli, e noto commentatore tv. Ma Dottori spiega che si tratta di mera constatazione. La protesta sempre più dura contro il regime della Repubblica Islamica sta infatti mostrando in modo sempre più insistito un tipo di simbologia che fa riferimento all'identità persiana, più antica, risalente all'epoca pre-islamica. In particolare, nelle manifestazioni vengono spesso accesi fuochi. Servono a bruciare gli hijiab, ma sono anche l'antico simbolo del dio del bene Ahura Mazda, venerato appunto nei templi del fuoco: un collegamento fatto espressamente nei Social, in cui si invoca anche la liberazione della Persia dopo oltre un millennio e mezzo di occupazione e oppressione islamica.

RELIGIONE MILLENARIA

Già religione ufficiale dell'impero persiano, dopo la conquista araba lo zoroastrismo fu ridotto col tempo ai minimi termini. Nel 2012 il numero totale di zoroastriani nel mondo fu stimato tra i 111.691 e 121.962, il primo Paese di presenza degli zoroastriani non è neanche l'Iran ma l'India, dove la comunità dei Parsi è discendente di rifugiati che scapparono per non sottomettersi all'islam. Sono solo 69.000, ma rappresentano una élite estremamente importante, sa da punto di vista economico che culturale. In Iran secondo l'ultimo censimento erano, nel 2011, 25.271. Sono riconosciuti come minoranza tollerata e hanno diritto a uno dei cinque seggi riservati alle minoranze religiose in parlamento, ma è severamente vietato loro fare proselitismo. C'è poi una diaspora zoroastriana che conta ad esempio su 14.405 negli Stati Uniti, 6442 in Canada, 5500 nel Regno Unito o 2577 in Australia, che viene in gran parte da immigrati da India e Iran. Ma ad esempio 15.000 zoroastriani nel Kurdistan Iracheno, 7000 in Uzbekistan, 2700 in Tagikistan e 2000 in Azerbaigian sono invece soprattutto gente di stirpe iranica che a un certo punto ha deciso che lo zoroastrismo era vicino alle loro radici più dell'islam, e si sono convertiti negli ultimi anni. Nel Kurdistan Iracheno, in particolare, è stata una reazione alla violenza dell'Isis, e alcuni fonti affermano che gli zoroastriani vi avrebbero ormai addirittura oltrepassato la cifra di 100.000. Sicuramente 3000 curdi si sono convertiti allo zoroastrismo in Svezia. Anche in Iran c'è un movimento del genere proprio in reazione all'oppressione clericale degli ayatollah, ma finora si era tenuto nascosto, appunto perché abiurare l'islam in Iran è punito dalla legge. «Ci sono molte conversioni più o meno occulte» conferma Dottori, che aggiunge: «avendo parecchi contatti nella diaspora iraniana e anche qualcuno nella loro madrepatria ho contezza di questi fenomeni».

LAICITÀ DELLO STATO

«Zarathustra, come Gesù, è compatibile con una visione laica dello Stato. E non è che uno degli importanti contatti che ci sono tra zoroastrismo e cristianesimo». «I persiani ritengono l'islam una religione straniera, araba. Ovvero giunta da un popolo nei confronti del quale nutrono un forte complesso di superiorità culturale», conferma Dottori. Ma Dottori ricorda che anche il cristianesimo per gli iraniani che non ne possono più degli ayatollah «ha molte attrattive». «Le iraniane che migrano in Occidente spesso lo abbracciano, perché è una religione che attraverso la monogamia afferma un principio di eguaglianza tra uomini e donne». Lo storico Danel Pipes nel 2021 su Newsweek ricordò varie testimonianze sulla crescita di questo cristianesimo catacombale, che prega senza clero e edifici ecclesiastici, ma con discepoli efficienti e una rete di piccole chiese domestiche di quattro o cinque membri ciascuna. La sua leadership laica, in netto contrasto con i mullah che governano l'Iran, è costituita principalmente da donne. Data la natura clandestina di questo movimento, le stime sulle sue dimensioni sono inevitabilmente vaghe. Ma, ricorda sempre Pipes, «nel 2013, la ong Open Doors rilevò la presenza di 370.000 cristiani ex musulmani e 720.000 nel 2020; Duane Alexander Miller si avvicina a 500 mila, Hormoz Shariat parla almeno di 1 milione di Mbb e la fondazione Gamaan anche di più». Ciò anche se nel 2008 il governo ha presentato una legge per imporre la pena di morte a chiunque nato da genitori musulmani si converta a un'altra fede religiosa. «Adesso è in atto una lotta nuova», spiega Dottori. «Non si discute più di riforme, ormai è in contestazione la legittimità dell'islam politico. Se viene sconfitto in Iran, si chiude la breccia aperta nel 1979-80».

·        L’Islam ed il Terrore.

L’addio del Paese ai caduti di Nassiriya. I funerali delle vittime dell’attentato in Iraq. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Novembre 2022.

È il 19 novembre 2003: «La Gazzetta del Mezzogiorno» racconta il dolore del Paese per l’addio ai caduti della strage di Nassiriya. Circa una settimana prima, il 12 novembre 2003, la città irachena è stata teatro di un attentato suicida contro la base del contingente militare italiano: si tratta del più grave attacco subito dalle truppe italiane durante una missione di pace. Il nostro Esercito, infatti, è impegnato in quei mesi in Iraq in una spedizione di peacekeeping per la missione «Antica Babilonia».

Un’autobomba carica di 150 kg di esplosivo riesce a introdursi nella base «Maestrale» dopo che un camion cisterna ha forzato il posto di blocco: una potentissima esplosione distrugge la palazzina del dipartimento logistico italiano e incendia il deposito delle munizioni.

Perdono la vita 28 persone: 19 italiani (tra cui 12 Carabinieri, 5 soldati dell’Esercito e 2 civili) e 9 iracheni: altre 58 persone vengono ferite. Insieme ai militari, dunque, è coinvolta anche una troupe da poco arrivata in Iraq per girare un documentario sul lavoro svolto dall’Esercito: il regista Stefano Rolla perde la vita, insieme ad un altro civile, il cooperante internazionale Marco Beci.

Nel Sacrario delle Bandiere del Vittoriano, dopo l’arrivo delle salme in Italia, è allestita la camera ardente, meta di pellegrinaggio di cittadini. Il 18 novembre 2003, dunque, si svolgono i funerali di Stato nella basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma, officiati dal cardinale Camillo Ruini, alla presenza delle più alte cariche dello Stato: quel giorno è proclamato il lutto nazionale. «Un applauso scrosciante e commosso ha accolto le 19 bare dei caduti all’uscita del Vittoriano e un altro, altrettanto fragoroso e toccante, le ha accompagnate mentre uscivano dalla Basilica di San Paolo, a cerimonia conclusa. Non tutti sono riusciti ad entrare, ma un maxischermo sistemato nel piazzale antistante la basilica ha permesso di seguire la messa anche agli esclusi per mancanza di spazio», si legge sulla «Gazzetta».

Tra i soldati caduti c’è anche il caporale Alessandro Carrisi: nato a Campi Salentina, ma cresciuto a Trepuzzi, al momento della strage aveva 23 anni ed era arrivato in Iraq solo un mese prima. Alla cerimonia partecipano anche i militari superstiti: «Hanno insistito, nei giorni scorsi, quando le condizioni ancora non lo permettevano, chiedendolo ai vertici militari, ai rappresentanti delle istituzioni che sono andati a trovarli, l’ultimo, lunedì, il presidente della Repubblica Ciampi. «Certo che dovevamo esserci – hanno detto ieri dopo la cerimonia – potevamo esserci noi in quelle bare».

Lafarge ha pagato l'Isis, dopo i sospetti arriva l'ammissione. Stefano Piazza  il 19 Ottobre 2022 su Panorama.  L'azienda pagherà 778 milioni di dollari per aver versato tangenti alle organizzazioni terroristiche in Siria. Le attività industriali di Lafarge, rivelate da un articolo di Le Monde nel 2016, erano servite a garantire la continuità della produzione presso il cementificio di Jalabiya, nel nord della Siria, inaugurato nel 2010, proprio un anno prima dell'inizio della rivoluzione nel paese.

Uno dei più grandi gruppi produttori di cemento la francese Lafarge, che oggi fa parte della multinazionale svizzera Holcim, ha annunciato martedì 18 ottobre di aver «accettato di pagare una multa di 778 milioni di dollari (790,9 milioni di euro) negli Stati Uniti e di dichiararsi colpevole di aiuto alle organizzazioni terroristiche in Siria, inclusa l'organizzazione dello Stato Islamico, tra il 2013 e il 2014». Lafarge «ha accettato la responsabilità delle azioni dei singoli dirigenti coinvolti, il cui comportamento è stato in flagrante violazione dei codici di condotta ed esprime profondo rammarico per questi atti».

Il gruppo del cemento in una nota ha sottolineato che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha preso atto che l'azienda ha posto in essere adeguate procedure di controllo per rilevare ed evitare d'ora in poi comportamenti di questo tipo, e ha quindi ritenuto che non fosse necessario nominare un sistema di monitoraggio indipendente. Lafarge ha aggiunto che continua «a collaborare pienamente con le autorità francesi sullo stesso argomento», ma si è detta pronta a «difendersi da qualsiasi azione legale che ritenga ingiustificata». Il 18 maggio scorso la Corte d'Appello di Parigi ha confermato l'incriminazione di Lafarge per «complicità in crimini contro l'umanità». Il procuratore federale di Brooklyn Breon Peace ha così definito la scelta che la società francese fece all’epoca: «Si è trattato di un patto con il diavolo. É impensabile di collaborare con l'Isis, una delle organizzazioni terroristiche più barbare al mondo, per continuare a vendere cemento». La vicenda venne alla luce grazie ai giornalisti di Le Monde che nel 2016 scoprirono che Lafarge venne a patti con le organizzazioni terroristiche per evitare che la fabbrica (nel sito industriale di Jalabiya, il più grande del Medio Oriente, aveva investito 700 milioni di euro) finisse nelle mani dei ribelli. La produzione di cemento continuò grazie al fatto che Lafarge versò diversi milioni di euro, pagati nel 2013 e nel 2014 a gruppi terroristici, come il Fronte al-Nusra e lo Stato Islamico, che avevano preso il controllo di alcune dighe nella zona. I pubblici ministeri statunitensi hanno affermato che Lafarge e la sua controllata siriana Lafarge Cement Syria hanno pagato allo Stato Islamico e al Fronte al-Nusra, tramite intermediari, l'equivalente di circa 5,92 milioni di dollari tra il 2013 e il 2014 per consentire a dipendenti, clienti e fornitori di passare attraverso i posti di blocco dopo lo scoppio del conflitto civile in Siria. Nonostante i pagamenti e dopo diversi rapimenti di dipendenti rilasciati dopo aver pagato il riscatto a gruppi armati, la fabbrica ha chiuso i battenti nell'autunno del 2014 e a quel punto, secondo i pubblici ministeri, lo Stato Islamico si è impossessato del cemento rimanente e lo ha venduto per l'equivalente di 3,21 milioni di dollari. Il titolo Holcim è stato temporaneamente sospeso dalla borsa svizzera martedì dopo la pubblicazione delle prime informazioni sull'accordo con il Dipartimento di Giustizia americano. Poi è risalito fino al 3,2% dopo la ripresa delle negoziazioni anche perché gli investitori generalmente apprezzano quando una società chiude un procedimento legale. Magali Anderson, presidente di Lafarge, ha dichiarato in tribunale martedì che «dall'agosto 2013 al novembre 2014 gli ex dirigenti della società hanno consapevolmente e volontariamente accettato di partecipare a una cospirazione per effettuare e autorizzare pagamenti destinati a beneficio di vari gruppi armati in Siria». In una dichiarazione, Holcim ha osservato che nessuno dei comportamenti ha coinvolto l’azienda svizzera che «non ha mai operato in Siria, né alcuna operazione o dipendente di Lafarge negli Stati Uniti, ed è in netto contrasto con tutto ciò che Holcim rappresenta». Holcim, che si è fusa con Lafarge nel 2015 per creare un gigante globale del cemento, era originariamente chiamata LafargeHolcim ma il nome Lafarge è stato eliminato dal nome aziendale nel 2021.

"Rushdie ha perso un occhio e non ha più l'uso di una mano". Valeria Robecco su Il Giornale il 24 ottobre 2022.  

Salman Rushdie ha perso la vista da un occhio e l'uso di una mano dopo l'attacco subito due mesi fa mentre teneva una conferenza nello stato di New York. L'autore 75enne, che ha ricevuto minacce di morte dall'Iran negli anni Ottanta per il suo libro Versi Satanici, è stato aggredito lo scorso 12 agosto poco dopo essere salito sul palco per un discorso sulla libertà artistica a Chautauqua, cittadina nella zona occidentale dell'Empire State che d'estate offre una vasta programmazione artistica e letteraria.

Da tempo non si avevano notizie sulle condizioni di Rushdie, ma ora il suo agente in un'intervista al Pais, rilanciata dal New York Times, ha spiegato che «le sue ferite sono profonde e ha perso la vista da un occhio». «Aveva tre ferite gravi sul collo - ha aggiunto Andrew Wylie - Una mano è immobilizzata perché i nervi del braccio sono stati recisi. E ha circa altre 15 ferite sul petto e sul torso. È stato un attacco brutale». L'agente non ha voluto rivelare se lo scrittore sia ancora in ospedale, sottolineando come la cosa più importante è che vivrà. Wylie ha poi affermato che la possibilità di un'aggressione era qualcosa di cui lui e Salman avevano «discusso in passato». «Il pericolo principale che ha dovuto affrontare così tanti anni dopo l'imposizione della fatwa è stato quello di una persona a caso che esce dal nulla e lo attacca - ha affermato - E non puoi proteggerti da questa cosa perché è totalmente inaspettata e illogica. È stato come l'omicidio di John Lennon». L'attentatore di Rushdie, il 24enne del New Jersey Hadi Matar, arrestato subito dopo l'attacco, si è dichiarato non colpevole e ha sostenuto di aver tentato di ucciderlo perché ha attaccato l'Islam. «Non è una brava persona, non mi piace quell'uomo - ha detto a una settimana dal gesto estremo dalla prigione nella contea di Chautauqua - Ha attaccato le credenze degli islamici, il loro sistema di valori». Il giovane, in un'intervista esclusiva al New York Post, si è definito «sorpreso» che lo scrittore fosse ancora vivo. Matar non ha rivelato se è stato ispirato dal defunto leader supremo iraniano, l'Ayatollah Ruhollah Khomeini, che ha emesso una fatwa, un editto, chiedendo la morte di Rushdie nel 1989 a causa del suo libro Versi Satanici.

«Rispetto l'Ayatollah, penso che sia una persona fantastica, questo è quanto posso dire a riguardo», ha proseguito, precisando di aver «letto solo un paio di pagine» del controverso romanzo. Il 24enne ha anche negato di essere stato in contatto con i pasdaran iraniani, ammettendo tuttavia di essersi «ispirato» per l'attacco guardando video di Rushdie su YouTube: «Ho visto molte conferenze, non mi piacciono le persone che sono false in quel modo». Lo scrittore di origine indiana naturalizzato britannico, che nelle sue opere unisce mito e fantasia con la vita reale, ha vissuto nascosto per quasi un decennio sotto la protezione della polizia dopo la fatwa dell'Ayatollah. Dietro di lui operava infatti una rete di sicari pronti ad ucciderlo e nell'agosto del 1989 una bomba scoppiata in anticipo in un albergo londinese vicino alla stazione di Paddington uccise uno degli attentatori, Mustafa Mahmoud Mazeh. Solo nel 2005 un giornalista del Times scoprì in un cimitero di Teheran una lapide che commemorava Mazeh come «il primo martire morto in una missione per uccidere Salman Rushdie». Due anni dopo, nel luglio del 1991, il traduttore italiano dei Versetti, Ettore Capriolo, fu picchiato e ferito a coltellate nella sua casa milanese. L'aggressore voleva conoscere l'indirizzo di Salman. Nello stesso mese fu poi assassinato il suo traduttore giapponese, Hitoshi Igarash. Anche l'editore norvegese del libro, William Nygaard, e il traduttore Kari Risvik, furono minacciati dalla rete anti-Rushdie. Nonostante fossero messi sotto protezione, Nygaard venne ferito a colpi di pistola l'11 ottobre del 1993. 

Massimo Basile per repubblica.it il 16 ottobre 2022.

Salman Rushdie sta guarendo "molto lentamente" dall'"attacco selvaggio" di cui è rimasto vittima il 12 agosto al festival letterario di Chautauqua, New York, dove avrebbe dovuto tenere una lezione. Tra le pieghe del dramma emerge una novità che riguarda la vita privata dello scrittore: a seguirlo ogni giorno ci sarebbe la poetessa americana Rachel Eliza Griffiths, di 31 anni più giovane, indicata come la quinta moglie dello scrittore. La piccola rivelazione non arriva dai tabloid ma da un amico di Rushdie, il romanziere inglese Ian McEwan, il primo a parlare della presenza di Griffiths in ospedale. A un evento ad Amsterdam, McEwan ha detto: "Sua moglie, Eliza, è con lui tutto il tempo". 

Riguardo le condizioni di salute, lo scrittore ha aggiunto: "E' estremamente malato. È stata un'aggressione molto, molto selvaggia". "Ho avuto qualche contatto diretto con lui - ha continuato - lui tornerà tra noi, è una persona forte, è un uomo molto coraggioso. Ha ancora molto da dire, e sono sicuro che lo sentiremo direttamente dalla sua voce". McEwan non ha fornito altri dettagli. E non lo ha fatto neanche il figlio maggiore di Rushdie, Zafar: "Temo di non poter commentare i fatti privati di mio padre", ha risposto alla domanda di un giornalista del Daily Mail. 

"Le ferite - ha poi aggiunto - sono gravi ma il suo senso dell'humor è rimasto intatto". La poetessa, indicata mesi fa come l'ultima fidanzata, sarebbe la quinta moglie, dopo il divorzio tra lo scrittore e Padma Lakshmi, nel 2007. In precedenza, Rushdie era stato sposato alla scrittrice Elizabeth West, la romanziera americana Marianne Wiggins e alla sua agente letteraria, Clarissa Luard.

Rushdie, 71 anni, è l'autore dei Versi Satanici, il libro che gli ha procurato nel 1989 la fatwa, la condanna a morte da parte dell'ayatollah Ruhollah Khomeini. Ad agosto, lo scrittore è stato aggredito sul palco di un festival letterario, dove si stava apprestando a fare un discorso sulla libertà di pensiero. A distanza di due mesi, alla British Library di Londra è andata in scena una lettura collettiva di riflessioni firmate da autori, giornalisti, produttori e poeti come, tra gli altri, Mona Arshi, Melvyn Bragg, Mariella Frostrup, Kathy Lette, Philippe Sands e Alan Yentob.

Erano presenti all'evento gli autori Monica Ali, Hanif Kureishi, Julian Barnes e Nigella Lawson. I lettori di Rushdie si aspettano di ricevere notizie positive dall'ospedale dove lo scrittore è ricoverato. L'attentatore, Hadi Matar, 24 anni, era riuscito ad accoltellarlo dieci volte, in vari punti del corpo: al collo, all'addome, all'occhio destro, torace e gamba destra. Arrestato, Matar si è dichiarato non colpevole. Quando è nato, "Versi Satanici" era già stato bandito dai musulmani. Lui ha raccontato di non averlo neanche letto.  

L’attentato a Salman Rushdie. (ANSA il 12 agosto 2022) -Lo scrittore Salman Rushdie è stato trasportato in un ospedale locale a bordo di un elicottero dopo essere stato accoltellato al collo mentre si apprestava a parlare a un evento pubblico nella cittadina di Chautauqua, nello Stato di New York. Lo riferisce la Bbc online. Nell'aggressione, anche il moderatore ha riportato ferite ma le prime informazioni indicano che non sono gravi. (ANSA).

(ANSA il 12 agosto 2022) - Lo scrittore Salman Rushdie, 75 anni, è riuscito ad alzarsi da solo dal palco al Chautauqua Institution, nello Stato di New York, dopo essere stato aggredito, secondo quanto scrive l'Independent online. 

L'Ap riferisce che è stato accompagnato in ospedale per accertamenti sulle ferite riportate. Una foto scattata subito dopo l'aggressione mostra un agente della sicurezza con le mani sul petto di Rushdie mentre un altro gli tiene le gambe sollevate in aria.

(ANSA il 12 agosto 2022) - Salman Rushide è "vivo e sta ricevendo le cure di cui ha bisogno in ospedale". Lo ha detto la governatrice di New York Kathy Hochul parlando con la stampa a proposito dell'aggressione subita dallo scrittore.

(ANSA il 12 agosto 2022) - L'uomo che ha aggredito Salman Rushdie indossava una mascherina nera. Lo riferiscono testimoni ai media americani. Secondo il racconto di chi era presente a Buffalo l'aggressore si è alzato dalla platea e si è avventato sullo scrittore. Subito dopo una decina di persone è corsa in aiuto di Rushdie.

Da lavocedinewyork.com il 12 agosto 2022.

Lo scrittore Salman Rushdie, i cui scritti hanno provocato minacce di morte da parte del regime teocratico iraniano negli anni ’80, è stato aggredito venerdì mentre stava per tenere una conferenza a Chautauqua, nello Stato di New York. 

Mentre Rushdie veniva presentato al pubblico, un uomo è salito sul palco della Chautauqua Institution e ha iniziato a colpire o accoltellare l’autore, che è stato gettato a terra mentre l’aggressore veniva bloccato.

Non sono ancora note le condizioni di salute di Rushdie. 

L’Iran ha messo fuori legge “I versetti satanici” di Rushdie dal 1988 perché molti musulmani lo considerano irrispettoso nei confronti del profeta Maometto. L’Ayatollah Ruhollah Khomeini, il defunto presidente dell’Iran, chiese l’esecuzione di Rushdie in una fatwa emanata nel 1989. 

(ANSA il 13 agosto 2022) - Hadi Matar, l'uomo di 24 anni del New Jersey che ieri nello stato di New York ha aggredito a coltellate lo scrittore Salman Rushdie, ha origini libanesi, ma non ha mai messo piede in Libano. Lo scrive il quotidiano di Beirut in lingua francese L'Orient le Jour, citando il sindaco di Yarou, il villaggio da dove proviene la sua famiglia, nel sud del Paese. 

Il sindaco, Ali Kassem Tehfe, ha affermato che i genitori di Hadi Martar sono divorziati e risiedono negli Stati Uniti "da 30 anni" e che ormai non hanno più parenti in Libano. Il direttore della sicurezza generale libanese, Abbas Ibrahim, citato dallo stesso giornale, ha dal canto suo detto di non sapere "per il momento" se Hadi Matar sia di origine libanese o meno. "Non sappiamo in questo momento se è di origine libanese.

Abbiamo bisogno di maggiori informazioni su di lui per determinare la sua identità. Gli americani non ci hanno ancora contattato in merito". Ma "in linea di principio", ha aggiunto, "questo incidente non dovrebbe interessare il Libano". 

L'Orient le Jour cita poi l'islamologo francese Romain Caillet che presenta su Twitter Matar come "uno sciita libanese di obbedienza khomeinista", affermando inoltre che Matar "usava una patente falsa e la scelta del nome è eloquente per chi conosce l'islamismo sciita e Hezbollah: Hassan Mughniyah...". Ovvero Moghniyé come Imad Moghniyé, il comandante militare degli Hezbollah ucciso nel 2008 a Damasco

(ANSA il 13 agosto 2022) - Hadi Matar, l'uomo di 24 anni che ha accoltellato Salman Rushdie, è stato accusato di tentato omicidio di secondo grado e aggressione. Lo ha dichiarato il procuratore distrettuale della contea, Jason Schmidt secondo quanto riportato dalla Reuters sul suo sito.

(ANSA il 13 agosto 2022) - "Gli Stati Uniti e il mondo hanno assistito a un attacco orribile contro lo scrittore Salman Rushdie. Questo atto di violenza è spaventoso". Lo scrive il Consigliere per la sicurezza nazionale americana, Jake Sullivan, in una nota sull'attacco all'autore ieri nello stato di New York. "Tutti noi nell'amministrazione Biden-Harris preghiamo per la sua pronta guarigione", si legge ancora nella nota, nella quale si esprime anche gratitudine ai "bravi cittadini e soccorritori che hanno aiutato così velocemente Rushdie dopo l'attacco e alle forze dell'ordine per il loro lavoro efficace". 

(ANSA il 14 agosto 2022) - Salman Rushdie è "sulla via della guarigione". Lo ha detto il suo agente, Andrew Wylie, in un comunicato al Washington Post. "Le ferite sono gravi ma le sue condizioni sono avviate sulla strada giusta", ha sottolineato. 

La guarigione, ha sottolineato ancora l'agente di Rushdie, "sarà un processo lungo". Nessun aggiornamento sullo stato dell'occhio destro, colpito da una coltellata e che, secondo quanto riferito da Wylie, lo scrittore rischia di perdere. 

Nella notte si era diffusa la notizia che l'autore dei 'Versi Satanici', vittima di un attacco nello stato di New York venerdì, fosse stato staccato dal respiratore e avesse iniziato a parlare. L'aggiornamento era stato dato su Twitter dallo scrittore Aatish Taseer che poi ha cancellato il tweet scusandosi per aver "dato informazioni che non era mio compito fornire".

(ANSA il 14 agosto 2022) - Il procuratore distrettuale che si sta occupando dell'attacco a Salman Rushdie ha lasciato intendere che il motivo per cui non è stata fissata una cauzione per l'aggressore è la fatwa dell'Iran. 

"Anche se questo tribunale dovesse stabilire una cauzione da un milione di dollari, corriamo il rischio che possa essere pagata", ha dichiarato Jason Schmidt. "Non importa quale sia la disponibilità economica" di Hadi Matar. "Dietro l'operazione che è stata portata ci sono gruppi e organizzazioni più grandi ben oltre i confini giurisdizionali della contea di Chautauqua", ha dichiarato il procuratore.

Estratto dell’articolo di Marco Ventura per “il Messaggero” il 13 agosto 2022.  

Provate a immagine che cosa significhi vivere, o non vivere, da trentatré anni avendo alle costole una masnada di sicari che vogliono ucciderti, o per fanatismo religioso o per intascare una taglia che supera i 3 milioni di dollari.

[…] Nell'agosto 1989, tale Mustafa Mahmoud Mazeh si fece saltare in aria per sbaglio in un albergo di Paddington, su una bomba destinata a Rushdie. Nel 2005, un giornalista di Times scoprì in un cimitero di Teheran una lapide che lo commemorava come «il primo martire morto in una missione per uccidere Salman Rushdie». 

[…] Il 3 luglio 1991, Ettore Capriolo, traduttore italiano dei Versi satanici, viene picchiato e ferito a coltellate da un sicario entrato in casa con la scusa di voler tradurre un libro per l'Ambasciata iraniana. In realtà, voleva da Capriolo l'indirizzo di Rushdie. 

 Passano otto giorni e il traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, viene crivellato di colpi nel suo ufficio. Fatwa eseguita. Fallisce per un soffio l'assassinio dell'editore norvegese, per alcuni anni presidente degli editori del suo Paese, Willian Nygaard: sopravvive a tre colpi d'arma da fuoco che lo colpiscono l'11 ottobre 1993. 

 In Pakistan esce un film, International guerrillas, in cui Rushdie viene ucciso. Nel '98, il regime iraniano fa sapere di non tramare più per eseguire la Fatwa di Khomeini. Ma singoli e associazioni islamiste portano il premio per chi lo giustizierà dai 3 milioni di dollari promessi dagli Ayatollah a 3 e 300mila. Nel 2012, lo scrittore azzarda: «Le taglie su di me? Solo retorica, nessun pericolo concreto». Ma la scia di sangue e odio non si ferma. Marco Ventura

Salman Rushdie, lo scrittore aggredito sul palco: panico a New York. La fatwa per "I versi satanici". Il Tempo il 12 agosto 2022

Sarebbe stato accoltellato più volte lo scrittore Salman Rushdie, lo scrittore  indiano naturalizzato britannico de "I versi satanici". L'agguato è avvenuto sul palco di un convegno organizzato a Chautauqua, a New York. Un uomo è salito sul palco e ha attaccato Rushdie poco prima che questi parlasse. Alcuni dei tanti testimoni presenti parlano di pugni e di "coltellate multiple" con cui è stato colpito lo scrittore. Numerose immagini postate sui social lo mostrano a terra, soccorso dal personale dell'evento della Chautauqua Institution. Un video, fa sapere la BBC, mostra il personale di sicurezza correre sul palco dopo l'agguato. Alcune fonti parlano di "pugni" e non di coltellate. Al momento non sono chiare le condizioni dello scrittore.  L’assalitore sarebbe stato bloccato. 

Rushie è noto soprattutto per la condanna ricevuta dal mondo islamico dopo la pubblicazione nel 1988 de "I versi satanici (The Satanic Verses)", una storia di finzione con riferimento alla figura di Maometto. Lo scrittore l'anno successivo  aveva ricevuto una fatwa di Khomeini che decretò la "condanna a morte" del suo autore per blasfemia. Da allora l'autore viveva sotto protezione.

Salman Rushdie, in Iran celebrano l'aggressore. Chi è Hadi Matar, accusato di tentato omicidio. Il Tempo il 13 agosto 2022

Tentato omicidio di secondo grado. È l'accusa nei confronti di Hadi Matar il 24enne del New Jersey che ieri ha accoltellato lo scrittore Salman Rushdie nel corso di un evento nello Stato di New York. Lo ha reso noto il procuratore distrettuale della contea di Chautauqua, Jason Schmidt, precisando che Rushdie resta "in condizioni gravi" dopo l'attacco. Sul movente dell'aggressione restano ancora molti punti da chiarire. "Qualsiasi teoria al momento sarebbe pura speculazione" ha spiegato il procuratore. Matar si trova attualmente nel carcere della contea, dove gli è stata negata la possibilità di uscire su cauzione.

Ma chi è Hadi Matar? L'attentatore sarebbe un simpatizzante degli estremisti sciiti e delle Guardie della rivoluzione islamica, secondo quanto riferito da fonti investigative riportate da Nbcnews. Non c’è ancora nessuna dichiarazione ufficiale dell’Iran sull’attacco a Salman Rushdie, lo scrittore contro cui ha emesso una fatwa di morte nel 1989, ma alcuni giornali conservatori iraniani esaltano Hadi Matar, che l’ha pugnalato, ferendolo gravemente. "Mille volte bravo alla persona coraggiosa e coscienziosa che ha attaccato l’apostata ed il malvagio Salman Rushdie a New York", si legge sul giornale Kayhan, il cui direttore viene nominato dal leader supremo Ali Khamenei. "Le mani dell’uomo che hanno torto il collo al nemico di Dio devono essere baciate", si aggiunge. La fatwa, emessa dall’ayatollah Khomeini, esortava i musulmani di tutto il mondo ad uccidere l’autore de "I versi satanici" considerato blasfemo, costringendo lo scrittore anglo indiano a vivere nascosto e sotto protezione per 10 anni.

Mario Baudino per lastampa.it il 12 agosto 2022. 

Tra poco, saranno trent’anni, e non solo dalla caduta del Muro di Berlino, per la quale bisognerà aspettare novembre: il giorno di San Valentino si potrà infatti celebrare degnamente l’anniversario della “Fatwa” lanciata dall’Ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie, lo scrittore che aveva pubblicato, senza rendersi conto delle conseguenze, I versi satanici, romanzo destinato a diventare celeberrimo, a dargli una solida fama e a costringerlo a una vita blindata per almeno due decenni. 

Il libro era uscito nel settembre dell’anno precedente, e subito scoppiò il putiferio: manifestazioni di piazza, incitamenti all’odio, accuse di blasfemia. Fu subito bandito in India, Paese natale dell’autore, fu bruciato in pazza nella civile Inghilterra da un gruppo di fanatici, arrivarono le prime minacce di morte, e infine l’Iran, probabilmente anche per motivi di politica interna, si intestò la guida del linciaggio: venne emessa una condanna a morte da parte del leader politico religioso, con l’invito rivolto a ogni buon musulmano del mondo di eseguire la sentenza.

Rushdie dovette essere sottoposto a una stretta sorveglianza, gli fu data una nuova identità, spesso venne respinto sui voli anche della British Air per “ragioni di sicurezza” 

Le conseguenze furono immediate. Da quel momento Rushdie dovette essere sottoposto a una stretta sorveglianza, gli fu data una nuova identità, spesso venne respinto sui voli anche della British Air per “ragioni di sicurezza”. 

All’inizio degli anni Novanta fu pugnalato, per sua fortuna non a morte, il traduttore italiano, Ettore Capriolo, mentre quello giapponese venne assassinato, e qualcuno sparò al suo editore norvegese. 

Il libro aveva la “colpa” di affrontare temi ritenuti tabù dall’Islam religioso, come appunto alcuni versi successivamente espunti dal Corano, che la tradizione considera ispirati da Satana. Per il resto è un romanzo fantastico, che comincia con due personaggi caduti da un aereo e in picchiata verso la terra, e intreccia storie di meraviglia intorno al tema del confronto tra Bene e Male. Anche in modo umoristico. 

Trent’anni fa si scoprì che su certi argomenti era proibito non solo scherzare, ma proprio di esercitare il diritto di ogni scrittore a raccontare storie 

Trent’anni fa, proprio mentre sembravano aprirsi prospettive di nuova libertà, si scoprì invece, e all’improvviso, che su certi argomenti era proibito non solo scherzare, ma proprio di esercitare il diritto di ogni scrittore a raccontare storie, dovunque vivesse, anche nell’Occidente pluralista e secolarizzato. I Versi satanici ci hanno aperto le porte di un nuovo mondo, quello degli attentati e dei sottili distinguo sulle “responsabilità” dello scrittore – o di chi fa satira, si pensi a Charlie’s Hebdo. Oggi, è stato osservato, nessun editore pubblicherebbe un libro del genere, la paura ha vinto.

Va da sé che mancano le prove per affermarlo con certezza. Nel frattempo tuttavia, benché la “fatwa” non sia stata ufficialmente mai ritirata, l’Italia, tanto per fare un esempio, è stata graditissima ospite alla Fiera del libro di Teheran (dove esiste la censura preventiva: nel 2017 eravamo il Paese ospite, con una spedizione che comprendeva autori come Alessandro Barbero, Melania Mazzucco, Valerio Magrelli, Michele Serra, Valerio Massimo Manfredi e Michela Murgia); e proprio l’anno scorso si è ipotizzato che l’Iran sia a sua volta l’ospite d’onore al Salone del libro torinese del 2020. Tra favorevoli e contrari, non è che ci sia poi tutta quella discussione. I primi sostengono che è sempre meglio aprire le porte piuttosto che chiuderle. Molto bene. E allora, perché non invitare nell’occasione – sostenendo tutto l’apparato di sicurezza, indubbiamente costoso - anche Salman Rushdie?

Salman Rushdie: “Dopo la fatwa ho sbagliato a fuggire”. ANDREA MALAGUTI su La Stampa il 12 agosto 2022.

Mercoledì 12 settembre, Bloomsbury, il quartiere degli intellettuali londinesi. L’uomo che esce dal portoncino di The Wylie Agency, in Bedford Square, è stato condannato a morte da una fatwa dell’ayatollah Khomeini il giorno di San Valentino del 1989 per avere scritto un romanzo dal titolo: I versi satanici. Si chiama Salman Rushdie, il Grande Blasfemo, ed è un signore indiano naturalizzato inglese cresciuto in una famiglia musulmana di Bombay. Oggi, a 65 anni, vive prevalentemente a New York ed è convintamente ateo. Forse lo è sempre stato. «Ma nei luoghi da cui provengo è difficile persino immaginare di non credere Dio».

È stato lui a decidere il luogo e il giorno dell’intervista. Una settimana prima della pubblicazione del suo nuovo libro che esce oggi in tutto il mondo. Si chiama Joseph Anton (in Italia lo pubblica Mondadori) ed è la sua storia. Il padre, la famiglia, la religione, gli studi, ma soprattutto una lotta e una fuga che durano da oltre vent’anni. Fissando l’incontro non poteva ovviamente sapere che l’appuntamento sarebbe arrivato poche ore dopo l’assalto all’ambasciata americana di Bengasi. Scontri apparentemente innescati da un film sacrilego girato negli Stati Uniti. La pellicola, che ridicolizza il Profeta, non ha nulla a che vedere con i Versi satanici, ma impicca i suoi autori alla stessa accusa di empietà.

«La mia vicenda personale non è stato l’innesco, ma soltanto il prologo del grande disastro che sarebbe arrivato l’11 settembre». Anche la violenza di questi giorni rientra nel quadro. Rushdie, in grande forma, non ha nessuna scorta. E tanto meno armi. In questi anni non ha mai indossato una parrucca per nascondersi o un giubbotto antiproiettile per difendersi. Ha un viso tondo, un vestito blu, il pizzetto, occhi che scavano. Sembra in pace con se stesso, ma reagisce alla notizia arrivata dalla Libia come se gli piombasse addosso, al centro della fronte, con la forza di una sassata. Signor Rushdie, dopo l’attacco di Bengasi il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha detto: «Deploriamo ogni tentati­vo intenzionale di denigrare il cre­do religioso di altri, ma voglio es­sere chiara: non esiste nessuna giustificazione per atti violenti di questo tipo».

Che ne pensa?

«Penso che la seconda parte della dichiarazione sia giusta». E la prima?

«Dettata da motivi di equilibrio. Ma è ovvio che le provocazioni deliberate – penso al reverendo Terry Jones che vuole bruciare il Corano – sono sbagliate. Ciò detto che cosa c’entra l’assassinio dell’ambasciatore Stevens con il film? Di certo non l’aveva fatto o prodotto lui. Scivolando su questa china bisognerebbe cancellare metà delle opere intellettuali».

Si è mai pentito di avere scritto i Versi satanici?

«Sono 23 anni che rispondo allo stesso modo: no. Credo anzi che sia uno dei libri migliori che ho fatto. La gente lo apprezza». Con il clima di oggi riuscirebbe ancora a farlo accettare dal mercato?

«Probabilmente no, il lato negativo della primavera araba è stato che molti liberali occidentali si sono inchinati di fronte alla sensibilità dei musulmani più estremisti». Chi era per lei Khomeini?

«Nessuno in verità. Un anziano signore. Certo, conoscevo la sua storia e lui era anche uno dei personaggi dei Versi satanici, ma io ero indiano, venivo da un altro mondo, non avrei mai immaginato che le nostre strade si sarebbero incrociate». La sua famiglia era musulmana.

«È vero. Però ha sempre avuto un senso religioso molto blando, anche se mio padre era un grande studioso dell’Islam. Nel libro parlo molto di lui. Mi ha influenzato profondamente».

Perché abbiamo bisogno della reli­gione?

«All’inizio dei tempi l’uomo non conosceva le risposte a quasi nulla e perciò si affidava a entità eterne. Con il passare dei secoli la scienza ci ha dato parte di quelle risposte. E l’esigenza di Dio tende a diminuire».

Come ha scelto il titolo Joseph An­ton?

«Era il mio pseudonimo nei giorni della fuga».

Joseph come Conrad e Anton come Cechov.

«Conrad fa dire a un marinaio de Il Negro del Narciso: devo vivere finché non morirò. È diventato il mio motto».

E Cechov?

«Cechov è la malinconia. Di certo quelli non sono stati momenti felici per me». 14 febbraio 1989, San Valentino. Che cosa succede?

«Ricevo una telefonata da una giornalista della Bbc. È una splendida giornata di sole. La donna mi dice: come commenta la fatwa di Khomeini? Io cado dalle nuvole. La notizia è del tutto inaspettata. Mi hanno condannato. Fino a quel momento avevo ricevuto due o tre minacce, niente di più. Resto choccato».

Quanto ci ha messo lo choc a diventa­re paura?

«Poco. Però il mio ricordo non è quello di un corpo che trema, ma di una testa che pensa: presto sarò morto. Una cosa piuttosto curiosa su cui riflettere».

 Come reagì?

«Cercando di rispettare i miei appuntamenti. Andai prima alla Cbs per un’intervista. Poi al funerale del mio amico Bruce Chatwin».

 Perché?

«Glielo dovevo. Fu una cerimonia lunga, noiosa, per giunta in greco. Ero di fianco a Martin Amis. Un collega mi disse: la prossima settimana saremo qui per te».

Fu lei a rivolgersi alla polizia o la cerca­rono loro?

«Loro. Alle nove di sera andai a trovare mio figlio Zafar a casa della madre. Lì c’era un agente che mi disse: signor Rushdie, la stiamo cercando da ore. Mi offrirono protezione».

Come si comportò con suo figlio?

«Aveva nove anni, ma decisi di dirgli tutto quello che era possibile. Non mi andava che ricevesse notizie da altri, magari a scuola. È diventato un uomo incredibilmente equilibrato. Allora non c’erano sms o Skype. Mi misi d’accordo con la madre: chiamo ogni sera alle sette».

Funzionò?

«Quasi sempre».

Quasi?

«Una sera telefono e non trovo nessuno. Insisto. Niente. Mi agito e le mie guardie del corpo mi chiedono che succede. Glielo spiego e loro decidono di mandare un’auto a Londra a controllare. Io ero nascosto in Galles. Dopo quaranta minuti la pattuglia ci chiama: siamo davanti alla casa, le luci sono accese e la porta aperta».

Che cosa pensò?

«Che li avessero ammazzati. Immaginavo il sangue e i cadaveri sulle scale. Scoltand Yard tardava a intervenire. Servivano rinforzi. Mi dissero che prima di un’ora non sarebbero entrati. Credevo di impazzire. Rifacevo il numero di casa automaticamente».

Poi?

«Dopo un’ora mio figlio risponde. Mi dice: papà c’è qui un poliziotto. E fuori ce ne sono altri quaranta. Gli chiedo dove fossero stati e lui mi risponde: alla recita scolastica, la mamma si è dimenticata di avvisare, abbiamo fatto tardi. Sento un sollievo pazzesco. Ancora non capisco perché la porta fosse aperta e le luci accese. Zafar mi dice: veramente era tutto chiuso. La polizia aveva sbagliato casa. Le due ore peggiori della mia vita».

Come agiva la paura? Riusciva a dor­mire di notte?

«Vuole sapere una cosa ridicola? Ho sempre dormito perfettamente. Profondamente. Senza incubi. E non so perché. Forse perché avevo troppi problemi da risolvere. Cambiavo alloggio in continuazione. E dovevo essere io a scegliere il posto. La polizia chiarì che non potevo tornare a casa: troppi rischi per i vicini e troppe spese per noi. Sbagliai ad accettare».

Cosa avrebbe potuto fare?

«Avrei dovuto dire: io non mi muovo. Mi proteggete qui. Sono l’unico cittadino inglese ad avere ricevuto questo trattamento».

La sua era una situazione speciale.

«No. Era solo un problema economico. Tanto che un giorno glielo dissi: ma se, invece di essere un romanziere con un po’ di soldi, fossi un poeta squattrinato, come farei a trovare rifugio?».

Che cosa le risposero?

«Che non ero un poeta squattrinato e dunque il problema non si poneva. Peraltro all’inizio erano tutti convinti che la cosa si sarebbe risolta in un paio di giorni».

Com’era la sua giornata tipo?

«Non c’era. Mi spostavo sempre. E quando potevo incontravo gli amici. O magari andavo al cinema quando veniva buio». Ha sentito l’appoggio della Gran Bre­tagna?

«Della gente comune sì. Della politica molto meno».

Che cosa significava per lei la parola li­bertà?

«Era un obiettivo da conquistare gradualmente. Anche la polizia ha capito a un certo punto che non mi poteva tenere in una scatola. Cercavo dei piccoli spazi. La libertà vera ho cominciata a riassaporarla negli Stati Uniti, dopo che arrivò l’accordo tra Iran e Gran Bretagna».

La fatwa non è mai stata ritirata.

«È vero, ma non importa. Quello che importa è che l’Iran disse che non ero più un obiettivo».

Che c’entrano gli Usa?

«Le cose si sbloccarono dopo un intervento di Clinton. A quel punto anche altri Paesi trovarono più facile sostenermi».

Che cosa cambiò quando andò a New York?

«La prima volta che camminai solo per Central Park mi sentii inebriato. Dopo dieci anni potevo decidere per me stesso. Scegliere. Guidare la macchina. Fu come uscire da una bolla».

Si ricorda dov’era l’11 settembre?

«A Houston, in Texas, in tour con il mio ultimo libro». Che cosa provò?

«Rabbia. Come se avessero attaccato casa mia. Gli amici mi dicevano: stai lontano da New York, io pensavo solo a tornarci».

In India hanno appena arrestato un vignettista satirico per avere disegnato il Parlamento come una cloaca.

«In India è in atto un vero attacco alla libertà d’espressione. Occuparsi di arte, cinema e letteratura negli ultimi anni è diventato pericoloso».

Perché?

«La leadership è debole, autoritaria e corrotta. Il problema della corruzione è gigantesco. Uno Stato debole pensa sempre che ogni forma di critica o di satira sia terribilmente pericolosa». Chi è oggi Salman Rushdie?

«Una persona che sta bene al mondo».

Quanto sono importanti le donne nel­la sua vita?

«Molto. Come per chiunque. Su di me è stata fatta molta letteratura. Ogni amica viene trasformata in una fidanzata».

Oggi è single?

«Assolutamente single».

Perché i giornali inglesi al tempo della fatwa la descrivevano come un odioso egomaniaco?

«Non lo so. L’ho sempre trovato assurdo. I tabloid di destra possono fare cose di questo tipo solo in Inghilterra. Non ho mai capito perché si accanissero contro un uomo che stava combattendo una battaglia per la vita. È per questo che nel mio libro c’è un giornale che si chiama Daily Insult». Una volta disse che aveva dentro di sé un buco a forma di Dio.

«Adesso Dio è una necessità che non sento più».

Dunque non c’è niente dopo la vita?

«Niente».

E allora perché siamo qui?

«Per vivere finché moriamo». Quarantotto ore fa una fondazione iraniana ha nuovamente aumentato la taglia sulla testa di Salman Rushdie di 500mila dollari, portando a3,3 milioni la ricompensa per chi gli farà la pelle.

Jacopo Iacoboni e Giordano Stabile per lastampa.it il 13 agosto 2022.

Si chiama Hadi Matar, ha 24 anni e, forse, ha lasciato tracce sui social delle sue simpatie politiche, Che vanno alle autorità iraniane e ai Guardiani della rivoluzione”. 

Il giovane uomo che ieri ha accoltellato a New York Salman Rushdie, secondo le prime indagini riferite dal New York Post, ha pubblicato sui social post di sostegno all’Iran e ai Guardiani della Rivoluzione, e anche manifestato sostegno a forme varie di estremismo sciita. 

Sul quotidiano conservatore iraniano Kayhan oggi si legge il suo elogio solenne, che già di suo fa abbastanza rabbrividire: «Congratulazioni a quest’uomo coraggioso e consapevole del dovere che ha attaccato l’apostata e vizioso Salman Rushdie. Baciamo la mano di colui che con un coltello lacerò il collo del nemico di Dio». Il direttore di Kayhan è nominato direttamente dalla suprema guida spirituale iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei. 

Per l’islamologo Romain Caillet non ci sono dubbi: Matar «è uno sciita libanese di obbedienza khomeinista». Lo dimostrerebbe il fatto che sul suo profilo Twitter foto del comandante dei Pasdaran Qassem Soleimani e di Khomeini.

Il Partito di Dio libanese è stato fondato su direttiva della prima guida suprema dell’Iran all’inizio degli Anni Ottanta, e addestrato alla guerriglia contro le forze israeliane dalle guardie rivoluzionarie nella valle della Bekaa. Sempre secondo Caillet, Hadi Matar ha utilizzato una patente falsificata con il nome di Hassan Mughniyah, comandante militare di Hezbollah ucciso da un raid israeliano in Siria, a Damasco, nel 2008, uno dei più duri colpi subiti dall’ala militare del Partito di Dio.

L’ordine di uccidere Rushdie venne emesso dall’ayatollah Khomeini il 14 febbraio del 1989. Il regime iraniano non ha mai ritirato l’ordine. Dopo l’attentato, Il principale quotidiano conservatore, Kayhan, ha elogiato l’uomo che «ha attaccato l’apostata e vizioso Salman Rushdie».

 Mohammad Marandi, uno dei negoziatori del nucleare etichetta lo scrittore come «un pilastro dell’impero» americano. La settimana prossima dovrebbero riprendere i colloqui a Vienna e l’assalto a Rushdie torna a gettare una luce sinistra sulla Repubblica islamica.

Nonostante non ci siano collegamenti diretti tra Matar e i Guardiani della Rivoluzione, al momento, secondo quanto sta trapelando dalle indagini, in una sua app di messaggistica trovata sul telefonino ci sono immagini del comandante iraniano Qassem Solemani, assassinato nel 2020.

I federali credono che Matar abbia agito da solo, tuttavia sula scena del delitto c’erano oggetti che potrebbero fornire tracce di un qualche elemento organizzativo. Gli investigatori hanno ottenuto «mandati di perquisizione per vari oggetti. C’era uno zaino situato sulla scena. E c’erano anche dispositivi elettronici», di cui le autorità americane non hanno specificato numero e natura. Matar veniva da Fairview, New Jersey. Ma non è ancora chiarissima al momento la sua nazionalità, o almeno, gli investigatori ci stanno ancora guardando, poiché come dicevano ci sono elementi di complicazione su questo.

L'avvocato di Matar, Nathaniel Barone, non ha confermato nessuna delle indiscrezioni. Certo è che l’aggressione a Rushdie arriva in un momento piuttosto teso delle relazioni Usa-Iran, dopo che la national security americana ha svelato un complotto contro l'ex consigliere per la sicurezza nazionale (di Trump) John Bolton, per il quale l’amministrazione Biden ha formalmente accusato un esponente dei Guardiani della Rivoluzione, e dopo un tentato attentato alla vita di un giornalista iraniano-americano a Brooklyn. 

La scrittrice Taslima Nasreen aggiunge altri interessanti dettagli. L’account Facebook di Hadi Matar conteneva immagini dell'ayatollah Khomeini ma anche del suo successore, l’ayatollah Khamenei. «Ora potete indovinare – scrive – il motivo dell’attacco». 

DAGONOTA il 13 agosto 2022.

Il regime iraniano ha reagito come prevedibile all’attentato contro Salman Rushdie: celebrando come un eroe l’assalitore, Hadi Matar! I media di Stato iraniani hanno celebrato il ferimento di Rushdie, definendolo "scrittore eretico depravato" e "autore apostata che ha insultato il Profeta". Apostata è il termine con cui si indica chi volontariamente si allontana dal suo credo religioso, un comportamento che nella teologia islamica è punibile con la morte.

Il quotidiano iraniano ultraconservatore Kayhan, il cui capo Hossein Shariatmadari è uno stretto confidente dell'attuale Guida Suprema, Ali Khamenei, ha elogiato il presunto attentatore di Rushdie, Hadi Matar, che secondo gli inquirenti sarebbe un simpatizzante del regime iraniano e della Guardia Rivoluzionaria Islamica. 

In un editoriale, Shariatmadari ha scritto: "Bravo a quest'uomo coraggioso e consapevole del proprio dovere che ha attaccato l'apostata e depravato Salman Rushdie a New York. Baciamo le mani di colui che ha strappato il collo del nemico di Dio con un coltello". 

Il regime iraniano ha a lungo sostenuto e ribadito la fatwa, pronunciata nel 1989 da Khomeini: nel 2019 Khamenei ha twittato che "è basata sui versetti divini e, proprio come i versetti divini, è solida e irrevocabile". 

(ANSA il 13 agosto 2022) - In assenza per ora di reazioni ufficiali dalle autorità iraniane, l'agenzia Fars pubblica un editoriale sul ferimento di Salman Rushdie, augurandosi che "tiri le cuoia". "Anche se finora non c'è nessuna notizia sulla sua morte - si legge nel commento - auguriamo che tiri le cuoia e con la morte di questo autore satanico il cuore ferito dei musulmani possa guarire dopo tutti questi anni".

Salman Rushdie: gli esordi, il Booker Prize, la fatwa. La Repubblica il 12 Agosto 2022.  

Il primo libro nel 1975, il successo con "I figli della mezzanotte" e poi le minacce per i suoi "Versi satanici". Ritratto dello scrittore indiano naturalizzato britannico

Si trovava a un evento letterario, alla Chautauqua Institution, nello stato di New York, quando è stato improvvisamente aggredito, ferito al collo con un coltello. Così Salman Rushdie, lo scrittore e saggista indiano naturalizzato britannico, 75 anni, famoso per i suoi Versi satanici per i quali ha ricevuto minacce di morte dall'Iran negli anni Ottanta, si è accasciato a terra ed è stato trasportato in ospedale.

Nato a Bombay nel 1947 da una famiglia musulmana originaria del Kashmir, si trasferisce giovanissimo a Londra, all'età di 14 anni, e studia al King's College di Cambridge. Nel 1964 ottiene la cittadinanza britannica. Tra i suoi primi libri, dove si distingue per la capacità di amalgamare realismo e invenzione fantastica, il romanzo d'esordio Grimus nel 1975, poi I figli della mezzanotte con cui nel 1981 vince il Booker Prize e raggiunge il successo internazionale - il titolo si riferisce ai bambini nati nella notte in cui l'India ottenne l'indipendenza, il 15 agosto del 1947 - e Vergogna (1983) sul conflitto onore/disonore e moralità/immoralità nella società pakistana dilaniata da feroci rivalità politiche.

Ma è nel 1988 con Versi satanici, romanzo considerato blasfemo per alcune allusioni considerate irrispettose al profeta Maometto e al Corano, che viene portato al centro dell'attenzione mondiale dopo essere stato colpito da una fatwa emanata dall'Ayatollah Khomeini. A nove giorni dalla pubblicazione, il libro viene bandito in India. Seguono le prime minacce di morte e il rogo del libro nella città inglese di Bolton. A meno di sei mesi dall'uscita, nel febbraio del 1989, Khomeini, guida suprema dell'Iran e autorità per tutti i musulmani sciiti, emette una fatwa chiedendo la morte di Rushdie e dei suoi editori. Inizia da allora per lo scrittore un lungo periodo in clandestinità, più di dieci anni passati nascondendosi, viaggiando su auto blindate, sotto scorta, e divenendo un caso internazionale, simbolo dell'intolleranza religiosa di fine millennio. Anni durante i quali Rushdie continua a scrivere - romanzi ma anche saggi e libri per ragazzi - il più recente è Quichotte pubblicato in Italia per Mondadori nel 2020, mentre l'uscita del nuovo libro, Victory City, è prevista da Penguin per febbraio 2023.

Origini libanesi, simpatie per il regime iraniano e una casetta a schiera in New Jersey. Chi è l'accoltellatore di Rushdie. Anna Lombardi su La Repubblica il 13 agosto 2022.  

Hadi Matar non era neanche nato quando il 14 febbraio del 1989 l'Ayatollah Ruhollah Khomeini emise una fatwa - la sentenza di morte secondo i dettami islamici  - contro lo scrittore angloindiano Salman Rushdie per aver "insultato" l'Islam con i suoi Versi satanici. Classe 1997, l'uomo che ieri mattina ha assaltato armato di coltello lo scrittore Salman Rushdie dopo essere entrato con regolare biglietto alla Chautauqua Institution - vero tempio della cultura americana, nell'omonimo villaggio nei pressi di Jamestown, a sud ovest dello stato di New York - avrebbe origini libanesi. Almeno così sostengono certi siti estremisti, pro-Iran e pro-Hezbollah come iranarabic.com che ieri sera, via Twitter, hanno associato l'immagine del suo arresto al volto dello scrittore colpito.

Un tweet, successivamente cancellato - ma già rimbalzato in rete tanto da essere stato copiato, descrive dunque il giovane uomo come "l'eroe libanese che ha insultato il Profeta, Maometto, messaggero di Dio". E pure diversi altri post in lingua araba e farsi hanno "festeggiato" l'attentatore (compreso un account con la foto di Hassan Nasrallah, sì insomma, il leader sciita di  Hezbollah). 

Matar, secondo le prime ricostruzioni, ha agito da solo, dopo aver compiuto un viaggio lungo sette ore (non si sa con quale mezzo) arrivando nel villaggio a 100 chilometri da Buffalo, dal New Jersey. Sì, perché il giovane, che secondo un profilo Facebook che alcuni siti americani riconoscono come suo, sarebbe nato ad Aain Qana, nel sud del Libano. E dopo aver trascorso almeno un periodo in California dove avrebbe numerosi parenti, si è trasferito nella cittadina di Fairview, dall'altro lato del fiume ma ad appena 25 minuti da Manhattan, New York.

In una semplice casetta a schiera a due piani situata al 417 di Morningside Avenue, dove viveva, sempre secondo ricostruzioni non confermate, con la madre e un fratello. Insomma, in quella "suburbia" industriale da dove già in passato sono partiti giovani estremisti. Come l'afgano Ahmad Khan Rahami che nel settembre 2016 si spostò da Elizabeth, sempre in New Jersey, con una pentola a pressione ripiena di esplosivo che fece poi esplodere a Chelsea, nel cuore mondano della Grande Mela, ferendo 29 persone. 

Ieri sera la casa di Fairview, sorvolata da decine di elicotteri, circondata da agenti e da curiosi tenuti lontano coi nastri gialli ad isolare l'intera area, è stata accuratamente perquisita da agenti dell'Fbi, che hanno pure interrogato famiglia e vicini. Dai suoi account social sono emerse chiaramente le sue simpatie per l'estremismo sciita e le Guardie della Rivoluzione Islamica, ma per chi viveva a pochi metri da lui, era un ragazzo come tanti. Magari solo più schivo. 

Rushdie, Paty, Mahfouz la lunga scia di sangue del fanatismo ispirato dagli ayatollah iraniani. Tahar Ben Jelloun su La Repubblica il 14 Agosto 2022.

La fatwa di Khomeini  fu un segnale a tutti gli intellettuali musulmani e ha armato la mano di diversi attentatori

Ricordo di aver chiacchierato con Salman Rushdie, quando venne a Nancy nel settembre 2018 per partecipare al festival del libro "Le livre sur la place". Con la sua consueta flemma, mi disse: "Io non ho niente contro l'Islam. Sono cresciuto in una famiglia sunnita che praticava un Islam moderato. Non capisco tutto questo odio dopo la pubblicazione del mio romanzo I versi satanici.

Antonello Guerrera per repubblica.it il 14 agosto 2022.

"Non preoccuparti, la prossima a morire sarai tu". L'agghiacciante avvertimento è stato recapitato a J.K. Rowling, su Twitter, dopo che la "madre" di Harry Potter aveva postato un messaggio di solidarietà a Salman Rushdie, accoltellato nello stato di New York l'altro giorno dal 24enne Hadi Matar. 

La polizia britannica si è subito attivata e sta collaborando con Rowling. La scrittrice nel suo tweet aveva scritto, riguardo alla notizia di Rushdie: "Terribile. Spero che Salman stia bene". 

Subito dopo, tra le migliaia di messaggi in risposta, uno ha attirato l'attenzione di Rowling, che ha segnalato tutto a Twitter: "Non preoccuparti, la prossima a morire sarai tu", twittato da un utente, tale Meer Asif Aziz, che si definisce uno "studente pachistano nato a Karachi nel 1999 e attivista politico" e che già in passato si era distinto per commenti estremisti.

Già in passato, Rowling ha ricevuto minacce di morte, in quel caso da attivisti estremisti trans che avevano criticato le sue posizioni su donne, femminismo e gender.

"Dovrebbero invece riflettere", fu la replica di Rowling, "sul fatto che ho ricevuto così tante minacce di morte che potrei rivestirci le pareti di casa ma non per questo ho cambiato idea. L'unico modo per dimostrare che il vostro movimento non è una minaccia per le donne", aveva scritto rivolta agli attivisti per i diritti trans, "è quello di dire basta allo stalking, alle intimidazioni e alle minacce contro di noi".

Ai Weiwei: "Rushdie ha sempre lottato. Ma ora l'Occidente deve difendere la sua libertà e gli intellettuali”. Antonello Guerrera su La Repubblica il 14 Agosto 2022.

L'artista e attivista cinese in esilio parla a Repubblica nell'indomani dell'accoltellamento dello scrittore

Undici anni fa, Salman Rushdie pubblicò un appello mondiale - anche sulle pagine di Repubblica - per la liberazione di Ai Weiwei, appena arrestato dal regime di Pechino per le sue idee. “Quello è stato il nostro primo contatto”, dice adesso a Repubblica il 63enne artista dissidente cinese ora trasferitosi a Cambridge, “e l’ennesima conferma: Salman è sempre stato leader della libertà di espressione nel mondo. Per questo spero per tutti che continui a vivere”.

Immagino lo shock e l’orrore, Ai, saputa la notizia. A distanza di un giorno, cosa prova?

“Siamo una società molto aperta, purtroppo anche alla violenza. Atti brutali come questi ci ricordano quanto sia vitale la libertà di espressione e quanto rischino ogni giorno persone coraggiose come Rushdie, che costantemente perseguono la verità e la libera espressione delle idee. Spero che questo tragico episodio rammenti a noi tutti quanto è dura la lotta per difendere costantemente i propri diritti”.

Simili episodi di violenza possono instillare ancora più paura nei cittadini e negli intellettuali liberi e ribelli, come lei?

“No. Anzi, personalmente mi danno ancora più coraggio. Perché espandono la nostra lotta al resto della società, che spesso in casi come questo comprende quanto sia preziosa la libertà di espressione e quanta forza positiva possano avere le idee di uno scrittore o di un artista. Che questi assassini ricorrano alla violenza è un altro segno della loro terribile debolezza”.

Personalmente, lei teme che un giorno possa accadere anche a lei? O alla sua famiglia?

“Il pericolo c’è sempre, perché la libertà di espressione e di pensiero sono un bene troppo prezioso, e dunque continuamente esposto. Tuttavia, anche dopo eventi drammatici come quello capitato a Salman, non mi sento più debole o vulnerabile. Una singola vita può essere fragile, ma in questo caso fa parte di un’umanità più ampia da difendere. E poi nessuno potrà mai uccidere le idee dentro di te”.

Inizialmente il putiferio che scatenarono “I Versi Satanici” di Rushdie irritò l’establishment britannico. Crede che oggi l’Occidente sia in una nuova fase auto-censoria?

“È un momento estremamente delicato. Perché oramai ci sono diversi temi di cui non si può più discutere, e alcune idee devono dominare sulle altre. Tutto questo per me è molto pericoloso. Mi pare un’altra “rivoluzione culturale” (quella cinese, ndr)”.

Cosa intende nello specifico? 

“Se l’Occidente dimostra di non riuscire a proteggere la sua libertà di espressione, anche quando può risultare controversa, non solo divide ancora di più la propria società ma offre tragicamente il fianco agli estremisti e agli alfieri della violenza fisica che si annidano in essi. Per questo, è essenziale essere irremovibili sulla libertà di espressione, da parte di uno Stato o governo occidentale”.

La spaventa il fenomeno della “cancel culture”, ossia rimuovere passaggi ed episodi della propria Storia e Cultura se controversi o offensivi?

“È la dimostrazione di quanto il pensiero intellettuale sia stato devastato negli ultimi decenni in Occidente, soprattutto dalla politica. È una lotta di potere, non di ideologia. L’istruzione, sin dalle scuole superiori, è diventata autocompiacente e si sforza sempre di meno di confrontarsi, o anche di scontrarsi intellettualmente, con l’altro, o con un aspetto scomodo di un argomento. Così la società e i cittadini sono sempre meno stimolati ad avere pensiero e dibattito critici. Mi pare una generazione debolissima dal punto di vista intellettuale. Di conseguenza, la cultura ha messo la retromarcia in Occidente”.

Ma le idee sono ancora più forti delle azioni?

“Non c’è modo di stoppare la violenza, non c’è mai stato. Ma c’è modo di prevenirla dimostrando di sposare completamente la libertà di espressione, cosa che purtroppo non sempre accade, e questo è inquietante. Anche perché ciò rende il libero pensatore una vittima ancor prima che questo diventi obiettivo degli estremisti”. 

La libertà vincerà alla fine?

“La libertà non è qualcosa di astratto, o di finito. La libertà è una battaglia continua, che attraversa continuamente le generazioni e che dà valore all’umanità. Salman è uno di coloro che si è sempre preso la responsabilità di combattere. Ma nella battaglia non possiamo essere soli”. 

LETTERATURA E TERRORE. I fanatici odiano Rushdie perché si è sottratto alla logica del potere. EDOARDO BRUGNATELLI su Il Domani il 13 agosto 2022

Nel settembre 1988 venne pubblicato il suo romanzo I versi satanici ispirato alla vita del profeta Maometto che ottenne ottime recensioni e che venne selezionato tra i finalisti del Booker Prize. Sfortunatamente, però, alcuni esponenti islamici bollarono il romanzo di blasfemia.

Nel novembre 1988 il libro fu bandito in Pakistan, nel febbraio del 1989 ci fu una protesta contro Rushdie a Islamabad nel corso della quale furono uccisi sei manifestanti, poi il libro fu bandito in India e boicottato nel Regno Unito.

Rushdie forse rappresenta oggi una delle voci più limpide, colte, affascinanti e divertenti di questo universo che non conosce confini, che non è sottoposto alle leggi del potere, della politica o delle religioni: da decenni lavora con coraggio e stupefacente energia a esplorare i mille angoli della Storia e a restituirceli in forma di narrazioni. Forse Rushdie paga il fatto che l’universo della Letteratura spesso si trova in rotta di collisione con l’altro universo, quello della politica e del Potere.

Quando, sul finire degli anni Settanta, Salman Rushdie cominciò a metter mano all’opera che sarebbe diventata il suo capolavoro, I figli della mezzanotte, aveva per la mente – tra l’altro - i grandi romanzi russi del XIX secolo, i romanzi inglesi del XVII e del XVIII secolo, Rabelais, Gunther Grass, Gabriel Garcia Marquez, i Buddenbrock di Thomas Mann, ma anche il Mahabharata e Le mille e una notte, l’epica e la grande tradizione orale indiana. E, visto che quello che stava scrivendo era un romanzo ambientato a Bombay e su Bombay, sarebbero stati inevitabili richiami a Bollywood e ai suoi film. Per cui alle influenze di carattere letterario si sommarono anche quelle cinematografiche.

Il libro voleva raccontare un pezzo importante della storia recente, ovverossia la caotica, tragica transizione dell’India da colonia a nazione indipendente e la catastrofe della Partizione. La mezzanotte cui il titolo si riferiva è quella del 14 agosto 1947, data ufficialmente prestabilita per il passaggio dei poteri, e alla quale aveva fatto cenno uno dei padri dell’India indipendente - Jawaharlal Nehru - in un suo famosissimo discorso: «Allo scoccare della mezzanotte mentre il mondo dorme l’India si sveglierà alla vita e alla libertà».

Insomma, quello che Rushdie aveva in mente era un romanzo ambiziosissimo nel quale memoria e politica, amore e odio si mescolavano praticamente in ogni pagina. Il guaio fu che a quei tempi (parliamo del finire degli anni Settanta) era ancora un autore alle prime armi, poco conosciuto, circondato da quel malcelato scetticismo che di solito costituisce il pane quotidiano degli aspiranti scrittori: insomma, non fu un’impresa per nulla facile e per portarla a termine ci mise parecchi anni.

SUCCESSO TRAVOLGENTE

Poi, finalmente, nel 1981 il libro venne pubblicato in Gran Bretagna da Jonathan Cape e il successo arrivò immediato e travolgente: oltre un milione di copie vendute solo nel Regno Unito, decine di edizioni nelle più svariate lingue del mondo, riconoscimenti letterari di altissimo livello, tra i quali il prestigioso Booker Prize. All’improvviso quel trentaquattrenne semiesordiente, nato nel 1947 a Bombay da una famiglia colta di musulmani originari del Kashmir, formatosi nelle migliori scuole del Regno Unito, si trovò – come si suol dire – catapultato al centro della ribalta.

Per nulla frenato dalla fama e dalla notorietà di cui godeva, nel giro di pochi anni Rushdie scrisse La vergogna (un romanzo che per certi versi raccontava la stessa vicenda de I figli della mezzanotte, ma dal punto di vista pakistano), e Il sorriso del giaguaro – una sorta di diario di un viaggio di tre settimane nel Nicaragua sandinista dell’epoca.

Nel settembre 1988 venne pubblicato il suo romanzo I versi satanici ispirato alla vita del profeta Maometto che ottenne ottime recensioni e che venne selezionato tra i finalisti del Booker Prize. Sfortunatamente, però, alcuni esponenti islamici bollarono il romanzo di blasfemia. Ai loro occhi molte delle sue pagine contenevano gravi offese nei confronti della religione e del profeta dell’islam. E purtroppo, come vuole la logica della comunicazione globalizzata – già in auge all’epoca – nel giro di poco tempo il caso divenne una specie di valanga che col passare delle settimane e dei mesi assunse dimensioni sempre più terribili, rimbalzando tra i quattro angoli del mondo.

Nel novembre 1988 il libro fu bandito in Pakistan, nel febbraio del 1989 ci fu una protesta contro Rushdie a Islamabad nel corso della quale furono uccisi sei manifestanti, poi il libro fu bandito in India e boicottato nel Regno Unito. Il culmine di questa escalation si ebbe nel febbraio del 1989 quando la guida politica e spirituale dell’Iran, l’ayatollah Khomeini emise una fatwa con la quale si condannavano a morte in contumacia l’autore e i suoi editori.

ESISTENZA CLANDESTINA

Rushdie si trovò costretto ad accettare di vivere una esistenza semiclandestina sotto la protezione della polizia.

Nel luglio del 1991 dapprima il suo traduttore italiano, Ettore Capriolo, venne gravemente ferito a casa sua a Milano, poi il traduttore giapponese di Rushdie fu ucciso a coltellate nei dintorni di Tokyo. Altri terribili episodi di violenza in Norvegia e in Turchia colpirono persone legate alla pubblicazione de I versi satanici.

Nel giugno 1989 morì l’ayatollah Komehini. Salman Rushdie continuò a vivere al riparo e a pubblicare romanzi, raccolte di saggi e di racconti, storie per bambini e nel 2000 si trasferì a New York per poter condurre una esistenza meno claustrofobica. Poi ci fu l’11 settembre del 2001.

Poi nel gennaio 2015 ci furono i morti di Charlie Hebdo.

Poi il tempo passò. E la Storia parve andare avanti. Più o meno.

E arriviamo a ieri, giornata in cui Salman Rushdie è stato accoltellato ad un evento nello stato di New York. Perché? Perché Rushdie?

Da sempre l’universo della letteratura è altro rispetto al mondo della politica e del potere. Ogni opera letteraria ci racconta di uomini, di paesi e di epoche diversissimi tra loro, e ogni storia nella sua unicità e particolarità mira a restituire in qualche modo al lettore il senso della universalità dell’esperienza umana.

Per questo la letteratura non conosce confini, se non quelli linguistici che - a differenza di quelli geopolitici - sono occasioni per consentire a tradizioni diverse di venire a maturazione per poi provare a incontrarsi e chissà? anche mischiarsi tra loro. L’opera di Rushdie, tutta l’opera di Rushdie è una testimonianza di questo: le sue opere non solo sono sospese in equilibrio tra continenti e culture assai lontani tra loro (dal Mahabarata ai Buddenbrock, da Rabelais a Garcia Marquez), ma sono anche ricchissime di suggestioni provenienti dal cinema, dall'arte e da molti altri campi.

IL LINGUAGGIO È CORAGGIO

Rushdie forse rappresenta oggi una delle voci più limpide, colte, affascinanti e divertenti di questo universo che non conosce confini, che non è sottoposto alle leggi del potere, della politica o delle religioni: da decenni lavora con coraggio e stupefacente energia a esplorare i mille angoli della Storia e a restituirceli in forma di narrazioni. Forse Rushdie paga il fatto che l’universo della Letteratura spesso si trova in rotta di collisione con l’altro universo, quello della politica e del Potere. Ne i versi satanici, Rushdie scrive: «Il linguaggio è coraggio: la capacità di concepire un pensiero, di tradurlo in parole, e così facendo di dargli verità».

Forse Rushdie ha pagato questo coraggio. Forse anche lui come Saleem, il protagonista de I figli della mezzanotte «è ammanettato alla storia». Ma – come scrive in un recente intervento su “LitHub” – «la storia non è scritta nella pietra. Non è né inevitabile né inesorabile. La storia è la conseguenza fluida, mutevole e cangiante delle nostre scelte e quindi la responsabilità, anche morale, è nostra. Dopotutto: se non è nostra, di chi è? Non c’è nessun altro qui. Ci siamo solo noi». 

EDOARDO BRUGNATELLI.  Edoardo Brugnatelli è l'editor che si è occupato della edizione italiana dei libri di Rushdie. 

UN ALTRO ATTENTATO. La blasfemia globale e il dilemma della tolleranza. MARTINO DIEZ su Il Domani il 13 agosto 2022

Quello di Salman Rushdie allunga la lista di attentati che hanno insanguinato la cronaca degli ultimi decenni ed è solo l’ultimo in ordine cronologico. Il filo conduttore è sempre lo stesso: la critica nei confronti dell’islam. In Europa vengono in mente le vignette di Charlie Hebdo e, più recentemente, il caso del professore francese Samuel Paty, ma in realtà la questione è mondiale.

Con il crescere dell’interconnessione è cresciuta esponenzialmente la possibilità di incidenti, riproponendo il dilemma tra libertà di creazione artistica e rispetto del sentimento religioso. I Versetti satanici di Salman Rushdie si collocano in questo solco.

L’opera di Rushdie può vantare un primato: quello di primo caso di blasfemia globalizzata. Fino a quel momento, quello che si pubblicava a Londra, Parigi o Roma passava inosservato nel mondo musulmano, e viceversa. MARTINO DIEZ

Salman Rushdie accoltellato nello stato di New York a un evento pubblico: «Lo colpiva come una furia». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

Lo scrittore nel mirino dei fanatici islamici è stato aggredito davanti al pubblico durante un convegno. Operato, è in rianimazione. «Rischia di perdere un occhio, ha i nervi del braccio recisi e danni al fegato». 

Le notizie non sono buone. Salman Rushdie perderà probabilmente un occhio, i nervi di un braccio sono stati recisi, il fegato è stato danneggiato dalle coltellate», annuncia l’agente Andrew Wylie, quando ormai scende la sera di quella che era iniziata come un’ordinaria giornata di eventi letterari per il celebre scrittore. Alle 10:47 di ieri mattina, venerdì 12 agosto, Rushdie era salito sul palco dell’anfiteatro di Chautauqua e si era accomodato su una delle due poltroncine beige disposte sul tappeto persiano. Il moderatore del festival di quel paesino nella campagna dello Stato di New York lo stava presentando. Scrittore settantacinquenne, nato in India in una famiglia musulmana e naturalizzato britannico, costretto per dieci anni a vivere nascosto, sotto scorta, dopo la fatwa dell’ayatollah Khomeini che dall’Iran invitò i musulmani a ucciderlo...

Ma l’esistenza di Rushdie era diversa ormai, era rientrato nella società. Quando gli chiedevano delle minacce di morte, diceva: «Devo vivere la mia vita» Cittadino americano, casa a New York, aveva già partecipato a quel festival. Atmosfera rilassata, niente metal detector, si controllava solo che i 2.500 spettatori avessero il biglietto. Stava per parlare di come gli Stati Uniti diventino, appunto, una casa per gente come lui, che cerca la libertà dell’arte, quando un uomo è corso sul palco e ha iniziato a colpirlo. Rushdie è caduto al suolo. Gli spettatori atterriti hanno iniziato a gridare. «Lo colpiva al torace, pugni ripetuti al torace e al collo», ha detto un testimone. Altri hanno parlato di coltellate: dieci, quindici. La polizia ha confermato che è stato pugnalato almeno una volta al collo e una all’addome.

Per qualche secondo, qualcuno ha confessato di aver creduto che fosse tutta una messinscena per rendere lo scrittore ancora controverso. Poi un gruppetto di persone ha avuto la prontezza di salire sul palco e bloccare l’assalitore. «Neanche in cinque erano in grado di tenerlo immobile — ha raccontato una di loro, Linda Abrams —. Era una furia». Altri hanno circondato lo scrittore, sollevandogli le gambe, mentre il sangue che ora imbrattava la poltrona beige formava una pozza sotto di lui. Henry Reese, il moderatore, ha riportato una lieve ferita alla testa. L’assalitore è stato identificato come Hadi Matar, 24 anni, di Fairview in New Jersey: è entrato con un regolare biglietto.

La governatrice di New York Kathy Hochul ha sottolineato che è stato un poliziotto assegnato alla protezione dell’evento a salvare la vita a Rushdie. Ma pare che spettatori e organizzatori siano intervenuti per primi: molti si chiedono se non dovesse essere previsto qualcosa di più per la sicurezza di un uomo con una taglia sulla testa. Trasportato in elicottero , Rushdie è stato sottoposto a un intervento chirurgico. «Non può parlare, è attaccato a un ventilatore», ha aggiunto in serata il suo agente, mentre da tutto il mondo letterario — Ian McEwan, Neil Gaiman, J.K. Rowling, Stephen King, solo per citarne alcuni — e politico arrivavano messaggi di solidarietà.

«Non ci intromettiamo», si è limitata a commentare la rappresentanza dell’Iran negli Usa, mentre alcuni siti della Repubblica Islamica nel dare la notizia lo descrivevano come «autore blasfemo». Il Consiglio per le relazioni americano-islamiche, invece, ha condannato fermamente la violenza. La modalità dell’aggressione riporta a quel lontano 1991 in cui Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese dei «Versi satanici» fu pugnalato a morte nell’ufficio della sua università e il traduttore italiano Ettore Capriolo ferito a coltellate nella sua casa milanese. Rushdie ha continuato a essere critico degli estremismi religiosi e dell’oppressione. Ma confidava di voler essere uno scrittore, non un simbolo. «Il mio problema è che le persone continuano a vedermi attraverso un unico prisma, quello della fatwa ».

Salman Rushdie, chi è l’autore dei «Versi satanici» che ama ripetere: «Sfido il presente come un matador». Cristina Taglietti su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

Dopo l’uscita della sua opera più celebre, «I versi satanici» (1988), sono piovute critiche di «blasfemia» e proteste in India e Pakistan. La fatwa lo ha reso un caso unico nel mondo culturale 

«L’ultima estate innocente» ha definito Salman Rushdie quella del 1988, una vita fa. Prima che, a settembre di quello stesso anno, il suo quarto romanzo, I versi satanici (pubblicato in Italia da Mondadori), ispirato al profeta Maometto, arrivasse nelle librerie suscitando l’indignazione rabbiosa di una parte dei lettori musulmani, che lo bollò come «una bestemmia contro l’islam, il Profeta e il Corano», e la fatwa dell’ayatollah Rudollah Khomeini, allora leader supremo dell’Iran, che decretò la condanna a morte dello scrittore. Rushdie apprese la parola fatwa dalla telefonata di un giornalista della Bbc : lanciata il giorno di San Valentino del 1989, la condanna venne ribadita da Ali Khamenei nel 2005, rinnovata nel 2017 e nel 2019 via Twitter.

Ex pubblicitario, brillante, polemico, la battuta pungente sempre pronta , lo scrittore indiano naturalizzato britannico (è nato a Bombay/Mumbai nel 1947 da una famiglia di fede islamica) non ha mai sottovalutato le minacce, che portarono, tra l’altro, all’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Gran Bretagna e Iran. 

Nelle interviste ha spesso raccontato che esistono ancora frange di fondamentalisti che ogni anno, a San Valentino, gli mandano un biglietto per dirgli che non hanno dimenticato. La condanna a morte ha trasformato Rushdie in una figura unica nel mondo culturale, facendo spesso dimenticare che già prima dei Versi satanici aveva scritto altri tre libri, tra i quali I figli della mezzanotte, romanzo sulla storia della sua generazione, ragazzini con poteri magici nati il 15 agosto 1947, quando l’India e il Pakistan cacciarono gli inglesi e, con la «Partition», conquistarono l’indipendenza. Il romanzo gli è valso il Booker Prize e ancora oggi resta forse il suo migliore.

Per 13 anni, prima di trasferirsi negli Stati Uniti, Rushdie ha vissuto in Gran Bretagna sotto protezione e con una falsa identità. Joseph Anton, il nome fittizio che aveva scelto in onore di due scrittori molto amati, Joseph Conrad e Anton Cechov, diventerà il titolo di uno straordinario memoir in terza persona uscito nel 2012 in cui intreccia la sua vicenda di braccato con aneddoti, retroscena e riflessioni sulla libertà di espressione, sulla creatività, sull’officina della scrittura, su mogli, compagne, fidanzate che gli sono state accanto. È la storia di «un uomo senza eserciti costretto a combattere continuamente su più fronti: il fronte privato della sua vita segreta, fatta di appostamenti, nascondigli, paura degli idraulici e degli operai, affannose ricerche di case e rifugi, orribili parrucche; e il fronte editoriale, dove, nonostante tutto il suo lavoro, non poteva dare nulla per scontato, nemmeno la stessa pubblicazione».

Non poteva essere diversamente, d’altronde, considerato che la fatwa di cui è stato vittima, e che lo ha costretto a vivere sotto scorta, si è estesa a traduttori ed editori: il giapponese Hitoshi Igarashi, ucciso nel suo ufficio nel 1991; l’italiano Ettore Capriolo, aggredito e accoltellato nell’abitazione milanese lo stesso anno da un uomo che aveva finto di voler parlare di una traduzione per conto dell’ambasciata iraniana; il norvegese William Nygaard che, dopo averlo pubblicato con la sua casa editrice, venne ferito da tre colpi di arma da fuoco davanti a casa nel 1993.

Come narratore Rushdie ha frequentato spesso una forma di realismo magico, a volte fantastico, messo al servizio di un’idea della letteratura che deve dire qualcosa sul presente. In una conversazione con l’amico Ian McEwan per la Lettura, paragonava lo scrittore al matador secondo Hemingway: il migliore è quello che si avvicina di più al toro. «Se il toro è lontano due metri non è così eccitante, non ci vogliono particolari qualità. Ma se il toro sta per incornarti, ogni movimento deve essere perfetto, altrimenti finisci male. Ho sempre pensato in questo modo all’attualità: cerco di catturarla, di avvicinarmi al toro. È pericoloso ma entusiasmante». 

Lo ha fatto, con alterne fortune, nei libri successivi, schiacciati inevitabilmente dal peso dei Versi e anche nel più recente, Quichotte (Mondadori 2020), romanzo picaresco in cui frulla insieme la situazione politica nell’era Trump, il mondo mediatico, la strage di oppioidi che da anni sconvolge l’America scaraventando il cavaliere «dalla triste figura» creato da Miguel de Cervantes in un mondo survoltato che annulla la differenza tra realtà e reality. 

A febbraio 2023 uscirà in inglese il nuovo romanzo, Victor City , un fantasy ambientato in India con al centro un’eroina che lotta contro un mondo patriarcale, ma da qualche mese Rushdie ha aperto sulla piattaforma Substack una newsletter intitolata «Salman’s Sea of Stories» (che evoca un suo libro per bambini, Harun e il mare delle storie), dove pubblica «ogni tipo di storia: storie che mi hanno toccato, o commosso, o impressionato, annoiato o perfino rivoltato e che ho trovato su libri, film, tv, teatri, oppure storie create da me». Forse ci sarà anche quella che sta vivendo. 

Roberto Saviano racconta Salman Rushdie: «Contro tutti i fanatici si è ripreso la vita». Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Ha deciso di non essere un recluso. Per anni si è nutrito di incontri, cene, amori, felicità. Ha già vinto, con la sua vita libera, libertina e intensa

Le coltellate che hanno tagliato la carne di Salman Rushdie hanno colpito un uomo libero. Salman il rischio che accadesse ciò che è avvenuto a New York l’aveva messo in conto anche se lo riteneva improbabile ormai. Ha deciso di combattere contro il fanatismo islamico non con proclami o libelli ma scegliendo di vivere un fanatico amore per la vita e la libertà . Nei decenni dopo la condanna, la fatwa del 1989 ciò che lo ha liberato dalla persecuzione è stata la scelta di vivere lontano dalle pressioni della persecuzione. Ha amato, si è sposato più volte, ha viaggiato in ogni festival letterario possibile, ha deciso di non essere in nessun modo costretto da chi lo odiava a vivere nascosto, blindato, monitorato. Dopo i primi anni in cui era letteralmente scomparso in una bolla di protezione totale cambiando di continuo indirizzo, vivendo tra poliziotti e macchine blindate Salman decise di riprendersi la vita.

Voglia di libertà

E come ci riuscì? Scappando letteralmente dai poliziotti che lo proteggevano e rifuggendo ogni richiesta di intervenire con commenti riguardanti le vicende del terrorismo islamico o del fanatismo religioso. La fatwa l’aveva costretto a vivere nell’ossessione della morte , le persone avevano paura ad andare a un suo evento, ma soprattutto gli stavano togliendo ciò che più di ogni altra cosa conta per uno scrittore: il suo sguardo sul mondo, la lingua attraverso cui raccontarlo e inventarlo. Così ha deciso di tornare alla vita.

Il suo fanatismo vitale si è nutrito di incontri, di cene, di felicità di dibattiti letterari. Ha scelto di non essere condannato ad essere simile a se stesso, a scrivere solo quello che si aspettavano da lui, ha scritto romanzi ambientati nel rinascimento, storie futuristiche, famiglie newyorkesi devastate dal potere e dall’ambizione, racconti di figure mitiche in intrecci satirici mitologici e surreali, fiabe. 

È andato in tv, a teatro, a partecipato a video musicali a film. Rushdie si è salvato con la letteratura, ossia praticando il mondo del possibile, creando mondi, scandagliando le relazioni, diventando se stesso: uno uomo che sperimenta la vita e non un martire. Non si è fatto determinare dalla dichiarazione di un morente Khomeini né terrorizzare da una presunta ricompensa milionaria che sedicenti organizzazioni vicine al regime di Teheran promettevano a chi lo avrebbe colpito. Questo gli è costato molto in termini di credibilità, compresi gli attacchi da parte della comunità di giornalisti e scrittori pronti a leggere qualsiasi cosa capiti a un autore in base all’effetto che avrà sulle copie e sulla fama: «Ma come, hai tutta la umma che vuole ammazzarti e te ne vai in giro alle feste?» oppure «ecco il furbo che usa la persecuzione per sedurre donne bellissime» o persino direttamente da colleghi «dovresti portare un mazzo di fiori sulla tomba di Khomeini che ti ha reso così celebre, nessuno avrebbe comprato i tuoi libri incomprensibili».

Un mondo di immagini

Rushdie sceglie di ignorare, lasciare nella cloaca delle maldicenze il continuo sospetto che tutto fosse finto, esagerato, perché un condannato a morte non poteva vivere una vita così libera, libertina e intensa e provare persino a spassarsela. Ha deciso di determinare lui stesso il perimetro di ciò che era, non permettendo che a disegnarlo fosse il fanatismo religioso che strumentalmente ha usato la condanna di Rushdie per lanciare una condanna a tutte le intellettuali e gli intellettuali di origine islamica che non difendevano il regime iraniano. Che ha usato la fatwa per mandare un chiaro messaggio: loro gli scrittori islamici liberi non sono più ascoltabili, non sono più leggibili, e anzi come vedete «insultano il Corano, sporcano il profeta, portano vergogna nella nostra casa». Rushdie e i Versetti Satanici sono utilizzati per creare un fronte di attacco e di delegittimazione: chi non difende il regime non appartiene alla comunità. È l’atto ufficiale di guerra (mai ritirata) ad ogni tipo di interlocuzione con il mondo intellettuale di formazione islamica e la dichiarano vestendola di una argomentazione teologica. Non si discute con gli scrittori che non difendono il regime, li si condanna. 

Salman Rushdie non immaginava che questo potesse accadere, la sua è una scrittura immaginifica, fantasiosa, la trama è solo un palco su cui accadono poi vicende d’ogni tipo che non seguono altro che il flusso della sua scrittura. Versi Satanici non ha nulla a che vedere con la critica all’islam né con la religione, è ambientato in epoca contemporanea e ha come protagonisti due emigrati indiani di origine musulmana, uno attore di grande successo a Bollywood, l’altro un mediocre doppiatore che mal sopporta le sue radici. Il fulcro del romanzo riguarda il loro sopravvivere (in modo del tutto surreale) a un incidente aereo e la successiva trasformazione dei due, l’uno in una sorta di angelo, l’altro in un demone. Il romanzo è una corposa costruzione onirica, in un delirio di immagini e narrazioni dove i protagonisti vengono continuamente spinti a essere il contrario di quello che avevano scelto di voler essere. 

Proprio da questo percorso Rushdie decide di affiancare una storia della tradizione islamica che sarà poi il motivo della condanna. L’attore di Bollywood fa un sogno ed è qui che Rushdie si ispira all’episodio della tradizione coranica, un famoso «racconto espunto» dal Corano perché racconta di un momento di debolezza di Maometto, quando il profeta proprio alla Mecca dichiara dinanzi ai fedeli che le tre figlie di Allah, Allat, Al Uzza e Manat, sono venerabili. Sta sostanzialmente dicendo che non esiste un solo Dio e dando legittimità al paganesimo. Ma il profeta è stato ingannato da Satana e quindi resosene conto cancella questa sua dichiarazione. Allah è il Dio creatore, tutti sono suoi figli ed è l’unico Dio, ma la storia dei versetti satanici fa riferimento alla tradizione preislamica e le tre figlie sono antiche dee arabiche. Gli storici ci dicono che era una strategia islamica per convertire le popolazioni, prenderne le divinità locali e associarle ad Allah, ma a Rushdie non interessa questa dinamica, tutto quanto è utilizzato per mostrare nel romanzo come continuamente viviamo nel contrario di ciò che siamo; il demone in Versetti Satanici troverà redenzione, l’angelo al contrario tormento e dannazione, bene e male sono indefinibili, ancor più quando crediamo, mentre noi invece ci illudiamo di riconoscerli e capirli, di poterli misurare e gestire.

Il coraggio

La pressione costante della vita è talmente costante da non permettere nessuna scelta univoca, nessuna visione unica, e l’illusione e l’inganno sono nemici che possono divenire alleati se considerati nella fallibilità umana come passi inevitabili. Questo è il peregrinare della scrittura rushdiana che tutto assorbe del continuo mutare dell’esistenza. 

Il mio primo pensiero quando ho saputo che era stato accoltellato non è stato simile a quello di molti altri amici che hanno dannato la scelta di Salman di non avere scorta, perché se fosse stato protetto non sarebbe accaduto. Ma, al contrario, ho pensato al suo coraggio di vivere la vita pienamente e la ferita di questa lama è il dolore di qualche momento a fronte di anni di vita che è riuscito a sottrarre dalla condanna del fanatismo e dalle minacce dei bigotti religiosi. Salman ha già vinto, il fanatico amore per la vita è riuscito a far indietreggiare il fanatismo di morte che lo voleva recluso, prudente e silenziosamente uguale a se stesso. Qualunque cosa accada questa è la verità ultima del suo trionfo.

Samuele Finetti per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2022.

«Sto ancora tremando», dice Carl Levan alla Bbc . Non è passata neppure un'ora dall'aggressione a Salman Rushdie quando Levan, che era seduto a una quindicina di file dal palco, risponde alle domande del network britannico: «È stata una scena assolutamente orrenda. 

Ho visto l'attentatore colpire ripetutamente e con forza Rushdie, che poi è crollato a terra. Un orribile atto d'intolleran-za». Altri testimoni sottolineano che non c'era alcuna misura di sicurezza agli ingressi. 

L'attacco, racconta Rabbi Savenor, è avvenuto pochi secondi dopo l'inizio della conferenza: «Quell'uomo è salito sul palco e ha cominciato ad accanirsi su Rushdie. All'inizio pensavo: "Cosa sta succedendo?". Ma c'è voluto poco per capire che lo stava accoltellando». Venti secondi, tanto è durato l'assalto allo scrittore. 

Nel frattempo era scattata la confusione, tra chi urlava: «Lo sta pugnalando», chi si fiondava verso le uscite e chi scattava le foto e girava i video poi diffusi su internet. Tra il pubblico c'era anche Sam Peters, diciannove anni. 

Dice di non aver mai letto le opere dell'autore di origini indiane: «Sapevo che era stato minacciato di morte, quindi volevo capire perché qualcuno voglia uccidere uno scrittore per ciò che scrive». Ora riesce a farsi una sola domanda: «Perché non era protetto meglio?».

Guido Olimpio e Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2022.  

Un uomo in maglietta, carnagione scura, capelli corti. Sono le prime immagini dell'assalitore di Salman Rushdie, descritto dai testimoni come «una furia», balzato sul palco indossando una mascherina nera e capace di infierire sulla vittima e di lottare con gli agenti. La sera la polizia diffonde il suo nome: Hadi Matar, 24 anni, residente a Fairview, in New Jersey. 

Nulla ancora si sa ufficialmente delle motivazioni. Il New York Post, citando fonti nelle forze dell'ordine, afferma che i primi indizi suggeriscono che Hadi simpatizzi con il governo iraniano e i pasdaran. Lo indicherebbero, se confermati, anche alcuni post a lui attribuiti sui social in cui appaiono immagini dell'ayatollah Khomeini, dell'attuale Guida suprema Ali Khamenei e del generale Qassem Suleimani. Gli inquirenti credono che abbia agito da solo, hanno chiesto un mandato per perquisire uno zaino e «dispositivi elettronici». È prematuro indicare una pista, anche se sappiamo che Salman Rushdie rappresenta il bersaglio «perfetto».

Lo è per l'estremista che obbedisce alla fatwa lanciata dall'imam Khomeini nell'89.

Lo è per chi vuole diventare famoso assalendo una celebrità. Una volta il terrore era marcato, oggi può essere più sfumato. Il fanatismo si mescola all'opportunismo: ecco l'autore, l'evento pubblico, la possibilità di avvicinarsi ad una personalità inseguita da una «condanna di morte» irrevocabile. A Hadi è bastato il pass per un festival.

C'era chi, a ripetizione, chiedeva ai mullah se la sentenza religiosa contro lo scrittore fosse sempre valida e qualcuno da Teheran rispondeva che la «freccia ormai era stata scoccata», «il proiettile che non si fermerà fintanto che non raggiungerà il target», a poco sarebbero servito un ordine contrario. 

Formula per evitare di prendersi la responsabilità diretta, anche se era evidente la complicità morale di un eventuale attacco. Poi è stato l'attuale leader Khamenei a ribadire la validità della maledizione lasciando ampia autonomia a chi avesse voluto portarla fino in fondo. Gli ayatollah hanno creato le condizioni per presentare un gesto violento come la reazione «spontanea» alle offese dei Versi satanici . E ciò vale per il militante, per l'estremista fai-da-te, per l'instabile suggestionato.

Un paio di giorni fa il Dipartimento della Giustizia Usa ha incriminato un esponente dei pasdaran iraniani ad oggi latitante. Shahram Poursafi, 45 anni, è accusato di aver incaricato un killer di uccidere l'ex consigliere di Trump, John Bolton. Un piano in risposta all'eliminazione del generale Qassem Soleimani a Bagdad da parte di un drone statunitense.

Secondo le indagini Poursafi, nell'ottobre 2021 ha contatto via web una persona negli Stati Uniti ed ha offerto una ricompensa di 250 mila dollari a missione compiuta. Solo che il suo contatto avrebbe accettato di collaborare con l'Fbi e ha permesso di prevenire l'operazione. Il pasdaran ha poi cercato di allargare la rete di complici fornendo dettagli precisi su una serie di bersagli: sembra che il secondo dovesse essere l'ex segretario di Stato Mike Pompeo.

Un progetto forse velleitario ma che rientra in un modus operandi adottato da cellule sciite: invece che agire con propri uomini si affidano a persone già presenti nell'area. Più incerta la cornice della vicenda emersa alla fine di luglio. La polizia ha fermato un uomo, Khalid Mehdiyev, nei pressi dell'abitazione a Brooklyn della giornalista in esilio iraniana Masih Alinejad. Aveva un Kalashnikov e molti caricatori. Il nome della reporter era emerso nel 2021 in un'indagine dove non era stato escluso che volessero rapirla per trasferirla in patria. 

Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2022.

«Le notizie non sono buone. Salman Rushdie perderà probabilmente un occhio, i nervi di un braccio sono stati recisi, il fegato è stato danneggiato dalle coltellate», annuncia l'agente Andrew Wylie, quando ormai scende la sera di quella che era iniziata come un'ordinaria giornata di eventi letterari per il celebre scrittore.

Alle 10:47 di ieri mattina, Rushdie era salito sul palco dell'anfiteatro di Chautauqua e si era accomodato su una delle due poltroncine beige disposte sul tappeto persiano. Il moderatore del festival di quel paesino nella campagna dello Stato di New York lo stava presentando. Scrittore settantacinquenne, nato in India in una famiglia musulmana e naturalizzato britannico, costretto per dieci anni a vivere nascosto, sotto scorta, dopo la fatwa dell'ayatollah Khomeini che dall'Iran invitò i musulmani a ucciderlo... Ma l'esistenza di Rushdie era diversa ormai, era rientrato nella società.

Quando gli chiedevano delle minacce di morte, diceva: «Devo vivere la mia vita» Cittadino americano, casa a New York, aveva già partecipato a quel festival. Atmosfera rilassata, niente metal detector, si controllava solo che i 2.500 spettatori avessero il biglietto. 

Stava per parlare di come gli Stati Uniti diventino, appunto, una casa per gente come lui, che cerca la libertà dell'arte, quando un uomo è corso sul palco e ha iniziato a colpirlo.

Rushdie è caduto al suolo.

Gli spettatori atterriti hanno iniziato a gridare. «Lo colpiva al torace, pugni ripetuti al torace e al collo», ha detto un testimone. Altri hanno parlato di coltellate: dieci, quindici. La polizia ha confermato che è stato pugnalato almeno una volta al collo e una all'addome.

Per qualche secondo, qualcuno ha confessato di aver creduto che fosse tutta una messinscena per rendere lo scrittore ancora controverso. Poi un gruppetto di persone ha avuto la prontezza di salire sul palco e bloccare l'assalitore. «Neanche in cinque erano in grado di tenerlo immobile - ha raccontato una di loro, Linda Abrams - Era una furia». Altri hanno circondato lo scrittore, sollevandogli le gambe, mentre il sangue che ora imbrattava la poltrona beige formava una pozza sotto di lui. Henry Reese, il moderatore, ha riportato una lieve ferita alla testa.

L'assalitore è stato identificato come Hadi Matar, 24 anni, di Fairview in New Jersey: è entrato con un regolare biglietto. La governatrice di New York Kathy Hochul ha sottolineato che è stato un poliziotto assegnato alla protezione dell'evento a salvare la vita a Rushdie. Ma pare che spettatori e organizzatori siano intervenuti per primi: molti si chiedono se non dovesse essere previsto qualcosa di più per la sicurezza di un uomo con una taglia sulla testa.

Trasportato in elicottero, Rushdie è stato sottoposto a un intervento chirurgico.«Non può parlare, è attaccato a un ventilatore», ha aggiunto in serata il suo agente, mentre da tutto il mondo letterario - Ian McEwan, Neil Gaiman, J.K. 

Rowling, Stephen King, solo per citarne alcuni - e politico arrivavano messaggi di solidarietà. «Non ci intromettiamo», si è limitata a commentare la rappresentanza dell'Iran negli Usa, mentre alcuni siti della Repubblica Islamica nel dare la notizia lo descrivevano come «autore blasfemo». Il Consiglio per le relazioni americano-islamiche, invece, ha condannato fermamente la violenza.

La modalità dell'aggressione riporta a quel lontano 1991 in cui Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese dei «Versi satanici» fu pugnalato a morte nell'ufficio della sua università e il traduttore italiano Ettore Capriolo ferito a coltellate nella sua casa milanese. Rushdie ha continuato a essere critico degli estremismi religiosi e dell'oppressione. Ma confidava di voler essere uno scrittore, non un simbolo. «Il mio problema è che le persone continuano a vedermi attraverso un unico prisma, quello della fatwa».

Salman Rushdie staccato dal respiratore. Ora è in grado di parlare. Il procuratore: gesto pianificato. Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2022.

Salman Rushdie è stato staccato dal respiratore ed è ora di nuovo in grado di parlare. Lo annuncia la Bbc. A confermare la notizia è stato anche l’agente di Rushdie, Andrew Wylie. Dopo le gravi ferite riportate nell’attentato di venerdì mattina, sul palco di un evento culturale, lo scrittore ha lottato per la vita. Il suo agente letterario ha fatto sapere l’altro ieri che «probabilmente perderà un occhio» e ha riportato danni ai nervi di un braccio e al fegato.

Venerdì mattina, nell’anfiteatro del festival di Chautauqua, paesino di quattromila anime nello Stato di New York, Hadi Matar ha pugnalato Rushdie 10 volte, al collo e all’addome. Lo ha detto ieri il procuratore locale durante l’udienza preliminare, in cui Matar è stato incriminato per tentato omicidio di secondo grado e aggressione armata, ed è stato rinviato in custodia cautelare senza cauzione. Il procuratore ha descritto l’attacco come premeditato e mirato: Matar è arrivato in autobus e ha acquistato un biglietto per l’evento di Rushdie. Con le manette ai polsi, in tuta bianca e nera, scarpe arancioni e mascherina bianca, il ventiquattrenne californiano di origini libanesi non ha detto una parola; attraverso il suo avvocato si è dichiarato «non colpevole». La prossima udienza è prevista il 19 agosto.

«Sono grato al personale di soccorso e ai coraggiosi individui che sono intervenuti subito in aiuto di Salman Rushdie e per bloccare l’assalitore — ha dichiarato il presidente Joe Biden in una lunga nota diffusa ieri —. Salman Rushdie, con il suo intuito sull’umanità, il suo senso impareggiabile per la storia, il suo rifiuto di essere intimidito o zittito, rappresenta valori essenziali, universali. Verità. Coraggio. Resilienza. L’abilità di condividere le idee senza paura. Questi sono gli elementi costitutivi di ogni società libera e aperta».

Mentre i quotidiani conservatori dell’Iran hanno celebrato l’attentato (l’agenzia Fars gli ha augurato di «tirare le cuoia»), auguri di pronta guarigione continuano a giungere dai leader occidentali, come il premier britannico uscente Boris Johnson, il presidente francese Emmanuel Macron, il canadese Justin Trudeau, l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.

I lettori hanno scelto di mostrare solidarietà in un altro modo: ieri sera tre edizioni de il libro del 1988 per il quale Rushdie ha ricevuto la fatwa dell’imam Ruhollah Khomeini che lo condannava a morte, hanno scalato il «barometro» delle vendite di Amazon (che monitora i titoli in crescita nelle ultime 24 ore). I figli della mezzanotte, il primo bestseller di Rushdie, era invece al quarto posto. Anche Strand Bookstore, la celebre libreria indipendente newyorchese, ha registrato molti visitatori, Tante persone cercavano gli scritti di Rushdie, tante altre volevano semplicemente parlare di come si sentivano e di ciò che era successo.

Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2022.  

La fatwa emessa dall'ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie nel 1989 vale ancora oggi, 33 anni dopo?

«C'è stato un momento di apertura e moderazione in cui le autorità iraniane volevano sospenderla, ma c'erano divisioni tra gli ayatollah e alla fine ha prevalso l'ala più conservatrice - considera il politologo francese Dominique Moïsi, alle prese con la stesura del secondo volume della sua Geopolitica delle emozioni , atteso per la prossima estate -. 

Nel 1998 il governo iraniano dichiarò che non avrebbe mai appoggiato un tentativo di assassinio verso Rushdie, ma la fatwa non venne comunque ritirata. Per gli islamisti radicali la fatwa vale per sempre, a meno che non venga ritirata dall'autorità religiosa che l'ha emessa. In questo caso quindi solo Khomeini avrebbe potuto abrogarla. 

Con la sua morte nel 1989, l'editto è stato reso immutabile. Ancora nel 2019 la stessa guida suprema, l'ayatollah Khamenei ha definito "irrevocabile" il verdetto di Khomeini perché si basa su "versi divini"». 

Del resto nel 2015 l'Iran ha boicottato la fiera di Francoforte perché gli organizzatori avevano invitato Rushdie, definito «una persona odiata nel mondo islamico». E nel 2016 una nuova ricompensa era stata messa a disposizione per chiunque lo uccidesse.

A cosa ha pensato quando ha appreso dell'attacco all'autore dei Versetti satanici ?

«Non sappiamo ancora molto dell'aggressore, quindi la cautela è d'obbligo. La mia impressione è che non si tratti comunque del gesto isolato di un folle, per "bucare" le misure di sicurezza a New York ci vuole un professionista». 

Se fosse l'esecuzione di una condanna a morte, perché 33 anni dopo, perché ora?

«Potrebbe essere la risposta degli islamisti alle parole pronunciate da Biden dopo l'uccisione del numero uno di al Qaeda, al Zawahiri. Il presidente Usa ha scandito "giustizia è fatta, era uno dei responsabili dell'11 Settembre, ha seminato una scia di sangue americano". Potrebbe avere una portata simbolica questo attacco, per lanciare il messaggio che "anche noi possiamo aspettare molto tempo ma prima o poi giustizia è fatta". Non è certo l'unica ipotesi».

A che cosa sta pensando?

«Ai recenti attacchi israeliani contro gli islamisti della Jihad islamica, storica alleata di Teheran. Ma anche all'iraniano accusato negli Usa del complotto per uccidere l'ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. 

Potrebbe essere che l'Iran vuole mandare un segnale forte in pieno negoziato sul nucleare, ripreso dopo una lunga fase di stallo». 

Chi può trarre vantaggi da questo attacco?

«A un anno dalla salita al potere a Teheran del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, la situazione economica è catastrofica per effetto soprattutto della pesante politica sanzionatoria inaugurata da Washington nel 2018 dopo l'abbandono dell'accordo sul nucleare; le opposizioni sono più forti, e per quanto insidiato da più parti il regime si può giocare la carta dell'estremismo per mostrare invece che riesce a essere efficace».

Guido Olimpio e Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2022.

L'indagine sull'assalitore di Salman Rushdie si divide su molti sentieri. Non può essere diversamente: serve tempo per raccogliere i tasselli. 

Il profilo

Nato in California 24 anni fa, trasferitosi a Fairview, in New Jersey, Hadi Matar ha origini libanesi. La famiglia viene da Yaroun, villaggio vicino al confine con Israele, una comunità divisa tra musulmani sciiti e cristiani, un'area che ha sofferto per le molte guerre. Infatti tanti abitanti sono emigrati per tornare solo durante le vacanze. Hadi - afferma il sindaco - non vi avrebbe mai messo piede e non avrebbe alcun parente.

Un ex compagno di scuola americano lo ricorda molto religioso, osservante, infatti in qualche occasione si sarebbe infuriato per commenti non appropriati. Per il resto un percorso anonimo e la passione per la boxe. Il setaccio dell'Fbi, però, è solo all'inizio. 

Le simpatie

I suoi profili social «parlano», rivelano l'appoggio alle figure della Repubblica islamica, ai pasdaran, al generale Qassem Soleimani, ucciso da un drone americano a Bagdad nel 2020. E l'attenzione di Matar per queste icone è ricambiata dal sostegno dei media conservatori iraniani. 

«Congratulazioni a quest' uomo coraggioso e consapevole del dovere che ha attaccato l'apostata e vizioso Salman Rushdie - scrive il giornale Kayhan -. Baciamo la mano di colui che con un coltello ha lacerato il collo del nemico di Dio».

«Il collo del diavolo» è stato «colpito da un rasoio», aggiunge un altro quotidiano mentre su Twitter uno dei negoziatori nucleari, Mohammad Marandi, definisce lo scrittore «una pedina dell'impero che si atteggia a romanziere postcoloniale». Non sono assunzioni di responsabilità dirette, tuttavia l'approvazione è totale per chi ha reso realtà la fatwa dell'imam Khomeini. Il mantello degli ayatollah si stende come una bandiera sull'aggressore. 

Chiusi a riccio gli Hezbollah libanesi, trinceratisi dietro un «non abbiamo nulla da commentare e non abbiamo informazioni». Linea preventiva in risposta a chi ipotizza un legame con la fazione basandosi su precedenti episodi e su un dettaglio emerso venerdì sera.

Hadi, giunto in autobus sul luogo dell'attentato un giorno prima, aveva una falsa patente americana intestata a Hassan Mughniyah, lo stesso cognome di Imad, il capo militare dell'Hezbollah che fu liquidato da un bomba piazzata dal Mossad nel 2008 a Damasco. Semplice coincidenza? Dedica a un simbolo? E perché girava con una patente taroccata? 

I documenti

Il documento riporta ad un altro attentato, quello nel luglio del 2012 a Burgas, in Bulgaria, contro un bus di turisti israeliani. Due dei terroristi avevano patenti statunitensi falsificate in modo approssimativo. 

Particolari che rientrano nel modus operandi dell'Hezbollah e dell'intelligence khomeinista: usano, quando è possibile, cittadini occidentali oppure forniscono «carte» che facciano da schermo. A volte sono ben confezionate, prova di professionalità, in altre occasioni meno. 

Almeno 8 gli episodi dove si sono appoggiati a complici con la doppia nazionalità, un segnale di una tattica considerata affidabile. Alcuni erano degli agenti in sonno, già presenti in Occidente, pronti ad obbedire a un ordine. C'era chi era stato «allevato», preparato con soggiorni in Libano, e chi invece agganciato via web dal reclutatore.

La cornice

Gli investigatori vogliono capire se Matar ha agito di sua iniziativa o se, invece, sia stato attivato da qualcuno. Magari è un mix delle due componenti: considera lo scrittore un nemico, vuole colpirlo e chiede consiglio. Per questo studiano la vita digitale, analizzano il telefonino, ricostruiscono suoi eventuali viaggi all'estero, non necessariamente in zone a rischio. 

Una visita turistica in un Paese «terzo» può essere l'occasione di un meeting con il referente. Restiamo solo nelle supposizioni, in quanto al momento non sarebbero emersi rapporti operativi con gruppi di militanti, con l'Iran, con i Guardiani della rivoluzione. Gli agenti sono davanti a un quadro fluido, devono considerare ogni ipotesi. Lo scenario A: niente link, l'attentatore condivide la visione dei mullah. Lo scenario B: ci sono, però sono stati mascherati.

Masih Alinejad: «Sono stati gli ayatollah ad armare la mano dell’attentatore di Rushdie. Io vivo nascondendomi». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

La dissidente iraniana Masih Alinejad: «Io e Rushdie vogliamo una vita normale: non abbiamo altre armi oltre alle parole e alla voce. Usa e Ue devono punire Teheran»

Masih Alinejad è un potenziale bersaglio. A fine luglio l’Fbi è intervenuta per la seconda volta dalla scorsa estate in un caso che riguarda la giornalista iraniana dissidente che vive a Brooklyn, popolare sui social e famosa per la lotta contro l’obbligo del velo. «La scorsa settimana, quando un uomo è stato arrestato con un fucile carico di fronte a casa mia, l’Fbi mi ha detto di trasferirmi: ora mi trovo in un nascondiglio sicuro — dice Alinejad al telefono —. L’anno scorso l’Fbi ha fermato un piano del regime iraniano per rapirmi e recentemente è diventata più rigida nel mandarmi in “case sicure”. La mia vita è stata ribaltata, è così da due anni, ma immaginate che cosa ha passato Salman Rushdie. Credo che fosse stanco di vivere nascondendosi. Meritiamo una vita normale. Vogliamo esprimerci, non abbiamo armi al di là delle nostre parole e voci».

Diversi dissidenti iraniani, inclusa lei, dicono che Teheran è comunque responsabile di questo attentato a Rushdie. Perché?

«Credo fermamente che la fatwa di Khomeini del 1989, ripetuta dall’attuale Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, sia la fonte e il fondamento dell’attacco terroristico contro Salman Rushdie. Quello che è vergognoso è che una fatwa che essenzialmente è una condanna a morte sia stata giustificata da parlamentari, professori, ministri iraniani. Ataollah Mohajerani, che fu vicepresidente negli anni Novanta, ha scritto un libro in difesa della fatwa e ha fornito le argomentazioni legali e intellettuali perché “altri” uccidano Rushdie. L’uccisione degli oppositori viene giustificata dalla Repubblica Islamica chiamandoli apostati. Un ex ambasciatore alle Nazioni Unite, che ora insegna all’Oberlin College negli Stati Uniti, nei suoi scritti e discorsi ha fornito argomentazioni per giustiziare gli apostati. Una fondazione religiosa in Iran ha messo una taglia di 3 milioni di dollari sulla testa di Rushdie e ogni anno tiene eventi per incoraggiare i giovani estremisti a ucciderlo. Ieri un parlamentare ha elogiato l’aggressione, dicendo che dovrebbe servire da monito. Dovremmo ritenere complici coloro che hanno incoraggiato gli attacchi contro di lui».

Lei sostiene che i governi democratici dovrebbero agire in modo più determinato. In che senso?

«I governi occidentali, che siano di destra o di sinistra, devono capire che non possono usare la logica per persuadere chi è motivato dall’ideologia religiosa e dovrebbero prendere misure concrete. Negli anni Novanta ci fu una serie di attacchi contro i dissidenti iraniani in Europa che si fermò quando l’Ue avvertì la Repubblica Islamica che ci sarebbero state gravi conseguenze. Oggi dovremmo prendere misure come espellere diplomatici della Repubblica Islamica dagli Stati Uniti e negare al presidente Raisi il visto d’ingresso. In secondo luogo, ci sono innocenti cittadini americani, francesi, britannici e di altre nazionalità in prigione in Iran; alcuni di loro rischiano di essere giustiziati: vengono usati come ostaggi da scambiare con terroristi e spie arrestati negli Usa e in Europa. I Paesi democratici dovrebbero unirsi nel declassare le relazioni diplomatiche fino a quando questi ostaggi non vengono rilasciati e l’Iran non risponde delle azioni terroristiche sul suolo straniero. È stato un errore non discutere di diritti umani durante i negoziati nucleari».

Uno dei negoziatori iraniani sul nucleare chiede «perché proprio adesso?». Pare suggerire che l’attacco a Rushdie sia stato attuato per ostacolare i negoziati.

«È un tentativo di confondere le acque e fingere che ci sia una cospirazione. Il mio caso non è nuovo: le indagini iniziarono due anni fa, anche se non ero autorizzata a parlarne. I casi di dissidenti iraniani con doppia nazionalità non sono nuovi. Due anni fa agenti del regime hanno rapito Ruhollah Zam, portandolo dalla Francia in Iraq e poi in Iran, dove è stato messo a morte. Cercano di farci paura e di imporci l’autocensura. Ma voglio continuare a lottare per la dignità degli iraniani. Gli iraniani condannano l’attacco terroristico contro Salman Rushdie, anche se la Repubblica Islamica lo celebra».

L’attacco a Rushdie: odio, sangue e la libertà di inventare. Etgar Keret su Il Corriere della Sera il 16 agosto 2022.

Ho conosciuto Salman Rushdie soprattutto attraverso i suoi romanzi. Dopo la pubblicazione de I versi satanici, il libro che aveva scatenato la contro di lui, ero rimasto sorpreso nel constatare quanti organi di informazione avevano cominciato a definire «coraggiosa» la straordinaria scrittura di Rushdie. Non ho mai condiviso l’idea che la letteratura possa essere coraggiosa. Ogni volta che mi accingo a scrivere, accedo all’ambito dell’immaginazione, e persino quando escogito trame provocatorie o rischiose, non entra mai in ballo il concetto di coraggio, perché altro non faccio che raccontare una storia mai accaduta, in un mondo di personaggi inventati, in un libro che sfoggia il termine «finzione» sin dalla copertina. Ma chiedere al tizio seduto davanti a me nel cinema di smettere di chiacchierare al telefono nel bel mezzo di una proiezione? Quella sì che è una storia diversa, da far venire la pelle d’oca.

Grande talento

Venerdì sera, quando ho appreso la notizia che Rushdie era stato accoltellato, il mio dispiacere è stato duplice: da una parte, il dolore per le gravi ferite inflitte a uno scrittore di grandissimo talento, di cui conoscevo la mente e l’immaginazione attraverso i suoi scritti; e dall’altra, la tristezza per il mondo in cui viviamo, un mondo in cui si va rapidamente sgretolando quell’immunità diplomatica che dev’essere garantita ad ogni ambasciatore creativo del regno dell’immaginazione, che fino a quel momento avevo dato per scontata.

Quando le facoltà letterarie si rifiutano di insegnare Lolita, o cancellano le conferenze su Dostoevskij a motivo dell’invasione russa in Ucraina, o quando i vincitori di premi Oscar non sanno trattenersi dal prendere a ceffoni un comico in diretta televisiva, e giornalisti e caricaturisti vengono uccisi per aver pubblicato un pensiero o una battuta che offende i lettori, ciò vuol dire che il mondo è diventato un luogo pericoloso tanto per gli artisti che per l’arte stessa. È una strada a doppio senso: uno scrittore viene accoltellato a causa di idee e fantasie espresse in un’opera di finzione letteraria, mentre la condotta problematica di un artista creativo in campo religioso, morale o politico viene punita attraverso il boicottaggio di una forma d’arte che non nuoce a nessuno. E, a differenza del passato, quando era sanzionata dai regimi totalitari e dai movimenti religiosi, oggi la libertà artistica si ritrova sotto attacco da tutti i fronti, compresa la comunità liberale, che si affretta a vigilare sull’arte attraverso il boicottaggio e l’umiliazione. In una simile realtà, nessun creatore, nessuna creazione artistica ne esce indenne. L’arte non è più la città rifugio, sganciata da ogni vincolo di pragmatismo o interesse di parte, e si trasforma invece in un campo di battaglia dove gli artisti, nell’esprimere idee che potrebbero suscitare l’indignazione di qualcuno, rischiano di ritrovare sé stessi, o la loro opera, grondanti sangue.

Il ricorda dell’Olocausto

Devo ammetterlo, sono una persona ansiosa. Potrei dire tante altre cose su di me: che trovo difficile rilassarmi, che sono un po’ vigliacco, e anche leggermente paranoico — diciamo che «ansioso» è il termine più educato, e non siamo qui per scagliare insulti. La verità è che ho le mie buone ragioni per essere ansioso: due genitori sopravvissuti all’Olocausto, pronti ad ammonirmi che il mondo potrebbe rivoltarmisi contro da un momento all’altro; una tipica infanzia israeliana, piena zeppa di armi e terrorismo; tre anni di servizio militare obbligatorio, quanto di più deprimente si possa immaginare. Tutte queste cose mi hanno insegnato che il mondo può essere un luogo crudele e violento, e di conseguenza faccio di tutto per procedere con cautela. Dovunque io mi trovi — al bar, dal calzolaio, su un treno — sono sempre all’erta, sempre a scrutare il mio prossimo, sempre alla ricerca dell’uscita, a tutela della mia sicurezza. Non si sa mai quello che potrebbe accadere.

Le conferenze

Ma il solo luogo dove mi sento abbastanza sicuro per abbassare le mie difese è proprio, guarda caso, sul palco durante le mie conferenze, e quando scrivo. Non è una decisione razionale, quanto piuttosto una voce interna rassicurante che mi dice: «La vita è piena di pericoli, strade, virus, relazioni. Ognuna di queste cose potrebbe scoppiarti tra le mani da un momento all’altro. Ma oggi sei fortunato, ti trovi in una città rifugio: questo palco è un porto sicuro, protetto dai muri invalicabili dell’immaginazione e delle emozioni. Un luogo che ti offre una panoramica spettacolare sulla vita, eppure rimane al di fuori della sua giurisdizione. Un luogo dove puoi pensare, scrivere e condividere i tuoi timori e i tuoi desideri con tutti coloro che vorranno riunirsi attorno a te per ascoltarti». Non passa giorno che non provi gratitudine per l’esistenza di questi luoghi. Perché se, mettiamo, dovessi confessare al preside della mia facoltà un sogno ricorrente nel quale vado a caccia di cuccioli di koala azzoppati per poi divorarli, ecco che rischio di pregiudicare le mie possibilità di un rinnovo contrattuale. E se dovessi rivelare questo sogno al mio amico vegano, la cosa potrebbe finire con un rimbrotto o uno schiaffo.

Ma se racconto quel sogno in una storia o lo rivelo su un palco, so già che non ci saranno conseguenze. Perché il palco, come le parole che scrivo quando compongo una storia, non fa parte del nostro mondo, ma rappresenta una zona cuscinetto tra il mondo reale, fisico, pragmatico e legalistico, e il regno dell’immaginazione. E all’interno di questa terra di nessuno che separa la realtà dall’invenzione, non esistono leggi, non esistono profitti né perdite, ma solo libertà.

Preghiere per Rushdie

Se credessi in Dio, pregherei per la pronta guarigione di Salman Rushdie. A dire il vero, anche senza essere un uomo di fede, mi ritrovo a pregare per lui senza sosta, nella speranza che nel giro di qualche giorno mi venga recapitata una nuova newsletter di Rushdie dall’eccellente piattaforma Substack. Mentre prego per la sua guarigione, non posso fare a meno di aggiungere un’altra supplica agnostica: la preghiera per un mondo dove le pagine dei libri, i cinema e i palcoscenici dei teatri possano ridiventare i luoghi in cui è lecito, in tutta tranquillità e sicurezza, pensare, immaginare e scrivere dei nostri timori e debolezze, attraverso storie irrequiete, ambigue, strane e inquietanti. Sì, strane e inquietanti.

Perché, in fin dei conti, anche dopo aver letto qualcosa che ci fa andare su tutte le furie, o che ci lascia sgomenti, o scuote la nostra visione del mondo, sappiamo che non è realmente accaduto. È solo una storia.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.  

Salman Rushdie ha ripreso conoscenza e sta parlando con gli investigatori, mentre si trova ancora ricoverato in ospedale. Continuano intanto le indagini sul movente di Hadi Matar, che ha accoltellato lo scrittore venerdì scorso a Chautauqua, nello Stato di New York.

Un viaggio può cambiare la vita. In peggio. Dipende dal protagonista e da chi incontra. La madre di Matar è convinta che il figlio abbia intrapreso un sentiero diverso dopo aver passato un mese in Medio Oriente. In un'intervista al Daily Mail , Silvana Fardos, musulmana libanese, ha raccontato che nel 2018 Hadi è partito per il Libano, voleva incontrare il padre che si era stabilito nel villaggio natio di Yaroun dopo aver divorziato.

Quel ritorno alle origini avrebbe inciso sull'esistenza del giovane: le cose sono andate male - ha sostenuto la donna - i rapporti con il genitore sono stati conflittuali e lui mi ha telefonato quasi subito sostenendo di voler rientrare negli Stati Uniti. 

Invece si è fermato per 28 giorni: non è noto, al momento, se abbia avuto contatti con ambienti politici o estremisti. Di certo c'è che Matar, una volta tornato a casa, è parso molto più religioso e si è chiuso in sé. Criticava la madre perché non era osservante, passava gran parte del suo tempo nel seminterrato della casa, non aveva contatti diretti e preferiva cucinarsi da solo i suoi pasti. Una sorta di reclusione - interrotta dalle puntate in palestra a tirare di boxe - che ricorda quella di alcuni sparatori di massa statunitensi.

È durante questa forma di isolamento che il futuro assalitore ha «scoperto» il suo target? L'Fbi ha sequestrato del materiale, incluso il computer del ventiquattrenne. Il sito Vice , citando ambienti di intelligence, introduce una pista: vi sarebbero stati dei contatti via web, con elementi della Divisione Qods, l'apparato clandestino dei pasdaran iraniani.

Ma sono riferimenti piuttosto vaghi, privi di riscontri precisi. E dunque si continua a guardare al contesto personale.

I media di Teheran non hanno nascosto la soddisfazione per l'attacco contro l'autore dei Versi satanici , facendo riferimento esplicito alla vendetta. Il governo di Teheran ha negato qualsiasi rapporto con il gesto di violenza, però lo ha presentato come una risposta naturale all'offesa verso il Profeta. Una posizione in linea con gli anni di minacce nei confronti di Rushdie, un incitamento all'odio continuato nella consapevolezza che, alla fine, qualcuno avrebbe raccolto l'appello.

Guido Olimpio,Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.

«Quando ho saputo che era sopravvissuto, sono rimasto sorpreso», dice Hadi Matar in un'intervista al New York Post nella prigione di Chautauqua nello stato di New York. Parla di Salman Rushdie, che lo scorso venerdì ha pugnalato almeno dieci volte. 

L'assalitore ha spiegato al tabloid newyorkese di ammirare l'ayatollah Ruhollah Khomeini, che nel 1989 emanò la fatwa che condannava a morte lo scrittore dei Versi satanici («Rispetto l'ayatollah, penso che fosse un grand'uomo») e ad ascoltare la sua versione si dovrebbe immaginare che sia bastato questo, insieme a qualche video in cui ha sentito parlare lo scrittore su YouTube, a spingerlo all'attacco.

«Non mi piaceva, non pensavo fosse una brava persona. Ha attaccato l'islam, la loro fede, il loro sistema di credenze», ha aggiunto ammettendo, però, di aver letto solo «un paio di pagine» dei Versi satanici . Casuale - sempre secondo le sue affermazioni - il modo in cui ha appreso in inverno della partecipazione di Rushdie al festival: un semplice post su Twitter. Così ha preso un autobus da Fairview a Buffalo il giorno prima dell'evento, poi ha usato il servizio di auto Lyft per arrivare a Chautauqua.

Il giovane ha negato di essere in contatto con i Guardiani della rivoluzione iraniani e ha rifiutato di rispondere alle domande sul viaggio in Libano nel 2018 che, secondo la madre, «lo ha cambiato» e che potrebbe essere alla base della sua radicalizzazione. Da allora si era isolato nel seminterrato della casa, cucinando da solo. Anche in prigione a Chautauqua, lamenta nell'intervista, «non mi danno il cibo che la mia religione mi permette di mangiare».

La narrazione di Matar prova a portare avanti la tesi del lupo solitario, il musulmano che agisce non perché istigato, ma che reagisce all'offesa. Non conosce il libro, se non superficialmente, però gli basta la fatwa. Dunque c'è l'idea e l'ispirazione lontana di Khomeini, quindi l'odio verso l'apostata, infine una finestra d'opportunità, con il bersaglio a portata di mano. La cornice dell'aggressore si specchia in quella presentata in questi giorni dalle autorità di Teheran: l'attacco è il gesto spontaneo di rabbia di un islamico, non servono ordini o cellule d'appoggio. Tocca agli investigatori verificare il racconto e cercare eventuali legami con apparati clandestini khomeinisti, come suggerito in modo vago da qualche fonte.

Da open.online il 16 agosto 2022.

Sono passati tre giorni dall’aggressione allo scrittore Salman Rushdie avvenuta nella città di Chautauqua, Stato di New York. Tre giorni in cui il governo di Teheran non ha pubblicato nessun commento ufficiale, nonostante tutte le ricostruzioni che riconducevano l’attacco alla fatwa emessa l’ayatollah Ruhollah Khomeini che nel 1989 aveva chiesto la morte dello scrittore. 

Solo ora il governo iraniano ha diffuso una nota in cui ha negato «categoricamente» ogni legame con l’aggressore Hadi Matar. Nasser Kanani, portavoce del ministro degli Esteri, ha aggiunto: «Nessuno ha il diritto di accusare la Repubblica islamica dell’Iran». 

Queste parole arrivano dopo la presa di posizione del Segretario di Stato americano Antony Blinken: «Le istituzioni iraniane hanno incitato alla violenza contro lo scrittore per anni e i media statali in questi giorni hanno esultato per l’attentato contro di lui. Tutto questo è spregevole».

Antonio Bonanata per rainews.it 

È uno scambio di accuse continuo, che va avanti da almeno 24 ore, tra Iran e Stati Uniti in merito alla “responsabilità morale” dell’aggressione a Salman Rushdie, l’autore indiano dei Versetti satanici accoltellato venerdì scorso durante un festival letterario nello Stato di New York.

Ultime in ordine di tempo, le dichiarazioni del portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, che ha definito “ripugnanti” le parole del suo omologo iraniano, Naser Kanani, secondo il quale “Salman Rushdie deve incolpare solo se stesso per l'attentato all'arma bianca che ha subito”. In conferenza stampa, Price ha infatti detto che “incolpare di questo attacco la vittima, Salman Rushdie, è qualcosa di deplorevole, è ripugnante, lo condanniamo”. 

Il rimpallo di accuse

Il funzionario statunitense ha ricordato che l'Iran ha giocato un “ruolo centrale” nelle minacce ricevute dallo scrittore indiano in seguito alla pubblicazione del suo romanzo più controverso e ha definito “assolutamente scandaloso” il “gongolare” di alcuni settori della politica e della società iraniane per la violenta aggressione.

In mattinata era arrivato il deciso rifiuto di Teheran ad accettare qualsiasi legame con l'attacco all'autore. “Neghiamo categoricamente” qualsiasi legame con Hadi Matar, “nessuno ha il diritto di accusare la Repubblica islamica dell'Iran”, aveva dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri. Quella di stamane era la prima reazione ufficiale all'accoltellamento di venerdì scorso. 

La risposta delle autorità iraniane avevano fatto seguito a quanto dichiarato ieri sera dal segretario di Stato americano Antony Blinken, che aveva esplicitamente accusato l'Iran di aver quantomeno “ispirato” il gesto: “Le istituzioni iraniane hanno incitato alla violenza contro lo scrittore per anni e i media statali in questi giorni hanno esultato per l'attentato contro di lui. Tutto questo è spregevole”.

E Bernard-Henri Lévy propone: “Diamogli il Nobel per la letteratura”

“Dobbiamo fare in modo che all'autore dei Versi satanici venga assegnata la più alta delle onorificenze. Dobbiamo far sì che, in nome di tutti i suoi e a suo nome, quest'anno, ovvero tra poche settimane, gli sia assegnato il premio Nobel per la letteratura. Non riesco a immaginare, oggi, nessun altro scrittore che abbia l'audacia di meritarlo più di lui” scrive il filosofo francese Bernard-Henri Lévy in un intervento sul quotidiano La Repubblica.

Estratto dell’articolo di Stefano Piazza per “La Verità” il 14 agosto 2022.  

[…] Come è potuto accadere che nella sala che ospitava la conferenza di un uomo che vive semi-blindato dal 1988 per paura di essere ucciso dagli estremisti islamici, sia sciiti che sunniti (anche i talebani ne hanno chiesto la morte), le misure di sicurezza siano state così inadeguate?

Matar è entrato dall'ingresso principale con regolare biglietto ed è addirittura arrivato alle spalle di Rushdie, riuscendo a pugnalarlo «da dieci a quindici volte», come descritto da alcuni testimoni. Come è possibile che nessuno gli abbia controllato lo zainetto che indossava dove c'era il coltello utilizzato nell'attacco? Domande che restano ancora senza riposta. 

Intanto, mentre una parte della stampa liberal americana evita accuratamente di parlare delle possibili motivazioni religiose che hanno spinto Hadi Matar a tentare di uccidere Rushdie, in ossequio alla fatwa che nel 1989 l'ayatollah Ruhollah Khomeini emise contro di lui e tutti coloro che collaborarono alla stesura de I versi satanici, chi è riuscito come noi a consultare (prima che venisse oscurato) il profilo Facebook dell'attentatore libanese ha le idee chiare su come la pensasse. 

Come foto di profilo aveva utilizzato l'immagine di Khomeini, dell'attuale guida suprema Ali Khamenei e del generale Qassem Soleimani, terrorista globale, capo della Niru-ye Qods (l'unità delle Guardie della Rivoluzione), ucciso da un missile lanciato da un drone nei pressi dell'aeroporto di Baghdad il 3 gennaio 2020.

[…] Ma chi è davvero questo fanatico libanese? Un lupo solitario che ha puntato al bersaglio grosso per diventare famoso? Oppure il braccio armato del temibile servizio segreto iraniano Vezarat-e Ettela' at va Amniat-e Keshvar (Vevak), responsabile di decine omicidi di scrittori, intellettuali e politici iraniani dissidenti, sia all'interno che all'esterno del Paese? L'ipotesi non è certo da scartare visto il costante attivismo dell'intelligence di Teheran anche negli Usa. 

Lo scorso 10 agosto il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha accusato Shahram Poursafi, membro delle Guardie rivoluzionarie iraniane, la forza militare più potente dell'Iran, di aver tentato di uccidere tra l'ottobre 2021 e il marzo 2022, John Bolton, politico repubblicano ed ex consigliere per la sicurezza nazionale statunitense tra il 2018 e il 2019, noto per le posizioni durissime contro il regime degli ayatollah. 

Per uccidere Bolton, secondo il dipartimento di Giustizia, Poursafi, attualmente latitante, avrebbe ingaggiato alcuni killer ai quali avrebbe versato una prima tranche di 300.000 dollari. Dopo Bolton la cellula aveva intenzione di colpire l'ex segretario di Stato Mike Pompeo ma una talpa ha fatto saltare tutti i piani. 

Nel luglio 2021 venne scoperto un piano per rapire e riportare in Iran Masih Alinejad, autrice ed attivista per i diritti umani, iraniano-americana che vive da 12 anni a New York e che riuscì a fuggire dall'Iran nel 2009 dopo la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad che ne aveva chiesto l'arresto. Poco prima che Masih Alinejad venisse rapita gli uomini dell'Fbi arrestarono nei pressi della sua casa di Brooklyn un uomo armato di kalashnikov e con molte munizioni, identificato come Khalid Mehdiyev.

Possibile che Hadi Matar sia stato facilmente reclutato dal Vevak che, facendo leva sul fanatismo espresso sui social, gli abbia prospettato la gloria eterna che attende chi obbedisce ad una fatwa lanciata dall'ayatollah Khomeini. D'altronde a chi negli anni chiedeva a Teheran di annullare la fatwa veniva data sempre la stessa riposta: «La freccia ormai è stata scoccata e il proiettile non si fermerà fintanto che non raggiungerà il target». In attesa della gloria eterna, Hadi Matar passerà il resto dei suoi giorni in un penitenziario di massima sicurezza come l'Adx-Florence (Colorado) che per la sua posizione e l'impenetrabilità è stata soprannominata l'Alcatraz delle Montagne rocciose.

Lo scrittore Salman Rushdie accoltellato sul palco a New York. È stato fermato poco dopo l'assalitore dello scrittore Salman Rushdie, accoltellato a New York durante un evento: è oggetto di una fatwa. Francesca Galici il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Lo scrittore Salman Rushdie è stato aggredito da uno sconosciuto mentre parlava sul podio di un evento a New York. Testimoni riferiscono di aver visto un uomo che si è lanciato contro Rushdie. Inizialmente non era chiaro se lo avesse colpito con un pugno o un coltello ma successivamente la polizia dello Stato di New York ha annunciato che Salman Rushdie è stato ferito al collo da un'arma da taglio. Rushdie è stato portato in sala operatoria dopo aver ricevuto diverse coltellate al collo e anche al torace. Contro di lui, la leadership religiosa iraniana lanciò anni fa una fatwa condannandolo a morte per il libro "I versetti satanici", considerato blasfemo dai religiosi più integralisti. Lo scorso luglio si trovava in Umbria per presentare il suo ultimo libro.

Un brevissimo video è stato condiviso sui social. Nei pochi secondi della clip si vedono diverse persone accorrere sul palco subito dopo che Rushdie è stato colpito mentre alcuni spettatori urlano e cercano di scappare. L'aggressione è avvenuta ad un evento letterario alla Chautauqua Institution, di Chautauqua, nello stato di New York. L'aggressore sarebbe stato fermato sul posto dai presenti, che hanno immediatamente soccorso lo scrittore, sollevandogli le gambe, prima che venisse trasportato in un ospedale locale a bordo di un elicottero, per essere preso in carico dai medici che hanno ritenuto opportuno procedere a un intervento, come riferito dal suo agente. Nell'aggressione, anche il moderatore ha riportato ferite ma le prime informazioni indicano che non sono gravi. Pare che il moderatore abbia riportato un trauma cranico.

"I versetti satanici", il libro di Salman Rushdie che venne bandito in Iran nel 1988 perché considerato blasfemo. L'ayatollah Khomeini, l'anno dopo la pubblicazione del libro, lanciò una fatwa contro lo scrittore indiano offrendo una ricompensa da 3 milioni di dollari a chi lo avesse ucciso. La guida suprema Ali Khamenei ha rinnovato la fatwa nel 2017, e nel 2019 via Twitter.

Una sconfitta per la libertà e l'Occidente. Fiamma Nirenstein il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'attentato a Salman Rushdie è una sconfitta generale dell'Occidente. È una vergogna, una responsabilità collettiva che sia stato colpito dopo decenni di agguati lo scrittore più platealmente minacciato, da più tempo, con più pubblicità, con più violenza, con più ripetuta insolenza, con dichiarato spregio verso il diritto democratico fondamentale della libertà di espressione da parte della leadership di un Paese dell'Onu, l'Iran, e che è sempre stato complice nella condanna a morte di Rushdie.

Ci sono molte lezioni che non impareremo neppure questa volta e tuttavia è il caso di esprimerle chiaramente: la fatwa dell'ayatollah Khomeini il 14 febbraio 1989 che imponeva ai credenti musulmani di uccidere l'autore de I versi satanici, come sostennero molti clerici e politici iraniani, non è in realtà una fatwa, ordine religioso-politico che si conclude con la morte di chi l'ha promanata, ma un hukm, una scelta permanente, inequivocabile, un decreto che non può cambiare finché non viene eseguito.

Ci furono nel corso degli anni vari melensi strumentali distacchi del governo iraniano dalla fatwa. Anche Rushdie stesso volle crederci per un momento, ma la cifra della ricompensa (per carità, erogata da una fondazione «privata») crebbe a 3 milioni di dollari, e addirittura un'organizzazione di studenti piamente ne raccolse altri 330mila perché fosse più attraente, il Parlamento votò a maggioranza la sua permanenza.

La verità è che davvero l'Islam è una religione dalla lunga memoria, specie quando si tratta di attaccare il nemico. Quando parla e minaccia fa sul serio, quando dichiara intenzioni omicide segue la sua strada senza deviare per decenni. Non ha fretta. Gli esempi sono tanti, personali e politici: tutti ricordano l'omicidio del regista Theo Van Gogh che aveva osato fare un film sulla condizione della donna islamica. Tutti sanno che quando l'Iran minaccia Israele di distruzione finanzia davvero la Jihad islamica e gli Hezbollah e prepara l'atomica. L'Iran è un nemico molto serio e di lunga lena. Nel caso di Rushdie l'accanimento a uccidere ha avuto esplosioni drammatiche e cali di attenzione, ma chi doveva occuparsene ha seguitato a farlo.

Hanno scritto i due maggiori storici del Medio Oriente Bernard Lewis e Fouad Adjami che l'islam dopo la sua ascesa non ha mai potuto accettare il susseguirsi di una serie di sconfitte che considera ingiuste offese. L'Iran più di tutti i Paesi islamici si è assunto il ruolo di vendicatore, minaccia l'Occidente in maniera diretta e costante, si arma alla luce del sole minacciando di attaccarlo, dimostra con evidenti simboli come la persecuzione e l'attacco a Rushdie la sua corsa verso lo scontro. Quanto più piegheremo la testa, tanto più questo atteggiamento sarà esaltato alla ricerca di nuove soddisfazioni.

"Per anni l'incubo della fatwa ha congelato la mia vita". Così l'autore raccontava a "il Giornale" un'esistenza sotto scorta e sotto falso nome. Il pericolo è tornato. Matteo Sacchi il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Dieci anni fa nel 2012 Salman Rushdie presentava in Italia Il suo nuovo libro Joseph Anton ( Mondadori). Era stato concepito per chiudere i conti con il passato. Per andare oltre una paura durata più di un decennio. Racconta tutti quei terribili anni passati a sfuggire alla fatwa dell'ayatollah Khomeini, che decise che i Versi satanici erano un motivo più che sufficiente per condannarlo a morte. Era anche il tentativo di uscire da un pezzo di vita difficile e sofferto, quello passato appunto sotto lo pseudonimo di Joseph Anton. ecco alcune delle cose ci aveva detto, parole impressionanti visto quello che è accaduto ieri.

Signor Rushdie per anni non ha avuto molta voglia di parlare della fatwa, ora come mai l'ha fatto?

«Per anni mi ha dato fastidio che qualsiasi cosa io scrivessi o facessi, le persone continuassero a riportarmi indietro, a voler discutere solo dei Versi satanici... E poi quello seguito alla condanna da parte del governo iraniano era stato un periodo molto difficile, non ero riuscito a metabolizzarlo a guardarlo con distacco. Ora ad anni di distanza era il momento giusto. E così ho scritto tutto e almeno i giornalisti non avranno più domande da farmi». La condanna a morte contro uno scrittore da parte di uno Stato fu qualcosa di inaspettato.

Come descriverebbe la reazione dell'Occidente?

«Il governo inglese ovviamente si attivò per proteggermi. Ma non manifesto una vera volontà di risolvere il problema. Non fecero grosse pressioni verso il governo iraniano. Si limitarono a sperare che la situazione venisse dimenticata, non volevano guai. Come molti altri governi occidentali. Si è dovuto aspettare il primo governo laburista di Tony Blair perché ci fosse una presa di posizione forte. Se la stessa energia fosse stata dimostrata prima chissà, forse le cose si sarebbero risolte molto più velocemente».

E gli intellettuali occidentali come hanno reagito?

«Alcuni intellettuali hanno fatto molto, e in fretta. Se non fosse stato per loro poteva finire molto male. Gli scrittori inglesi si sono stretti attorno a me. Da questo punto di vista la questione dei Versi Satanici ha contribuito a trasformarci in una vera comunità. Ian McEwan una volta mi ha detto: Lottare per te è stato importante per tutti noi. E anche la solidarietà internazionale è stata tanta. In Italia si mobilitarono anche Umberto Eco e Roberto Calasso. Eco mi commosse, io avevo appena stroncato malamente il suo libro Il Pendolo di Focault, ma mi difese lo stesso. Poi ci siamo incontrati in Francia e lui è corso ad abbracciarmi urlando: Ciao, sono quella merda di Eco. Siamo diventati amici».

A più di vent'anni di distanza le sembra che sia più facile scrivere in modo libero?

«La situazione è stata complicata dal terrorismo. E io vedo una certa paura nei giovani scrittori, c'è un alto livello di autocensura. Però negli ultimi mesi mi è capitato di incontrare un certo numero di giovani scrittori islamici che vogliono rompere gli schemi, reinterpretare la cultura islamica e questo mi sembra positivo».

Nel libro hanno un ruolo chiave la figura di suo padre, Anis Rushdie, che era un musulmano poco osservante e la sua famiglia, in cui si respirava un Islam tollerante...

«Mio padre studiava la religione soprattutto dal punto di vista storico, più che un credente era uno studioso vero e proprio, da lui mi è derivato l'interesse per il Corano. Altri membri della mia famiglia erano decisamente più devoti, ma in casa si è sempre potuto parlare di tutti i temi relativi alla religione senza preconcetti o veti».

Cosa pensa del recente film su Maometto che ha provocato violenti moti di piazza? In quali casi è ammissibile la censura?

«Quasi mai è ammissibile. Perché esista la libertà artistica deve esistere anche la libertà di produrre un certo quantitativo di spazzatura. E non si deve mai cedere alle proteste violente, svendere la libertà. È come cedere al bullismo scolastico, non se ne esce più».

"Offese Maometto". Così Salman Rushdie finì nel mirino degli islamici. Dopo la pubblicazione di un romanzo ritenuto blasfemo, l'Ayatollah Khomeini lo condannò la morte. Da quel momento, tra attentati scampati e aggressioni, Salman Rushdie vive sotto scorta. Marco Leardi il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Colpito da una "fatwa" con l'accusa di aver offeso Maometto. Da quel momento, Salman Rushdie vive da osservato speciale. Costantemente nel mirino degli integralisti islamici, lo scrittore di origini indiane si muove sotto scorta e a ogni suo spostamento rischia la vita. L'accoltellamento subito oggi - 12 agosto - a New York è solo l'ultimo allarmante episodio di violenza subito dall'autore. Tutta "colpa" di un suo libro del 1988, I versetti satanici (The satanic verses), storia di fantasia nella quale Rushdie alludeva però alla figura del profeta musulmano. Un'offesa insopportabile e "blasfema", secondo i fanatici del Corano.

Nato in India, il 19 giugno 1947, Rushdie si è trasferito a Londra quando aveva 14 anni. Per quel suo romanzo, fu oggetto di una "fatwa", una condanna a morte, da parte dell'Ayatollah Khomeini, leader dell'Iran. Il pronunciamento ostile del capo religioso - mai ritirato né ritrattato - avvenne il 14 febbraio del 1989, con una conseguente rottura delle relazioni diplomatiche tra Regno Unito e Iran. Da quel momento Salman Rushdie divenne un obiettivo degli integralisti islamici. Lo stesso anno della "fatwa", una bomba scoppiata anzitempo in un albergo londinese vicino alla stazione di Paddington uccise l'attentatore, Mustafa Mahmoud Mazeh. L'ordigno deflagrò nelle vicinanze di una libreria, in una zona frequentata da molti turisti. Il fondamentalista - come scoperto in seguito dal Times - era stato celebrato in un cimitero di Teheran come il "primo martire a morire in una missione per uccidere Salman Rushdie".

Per gli estremisti islamici, però, andava annientato non solo lo scrittore ma anche chi gli stava accanto. Nel luglio del 1991, il traduttore italiano dei "Versetti", Ettore Capriolo, fu picchiato e ferito a coltellate nella sua casa milanese. Nello stesso mese fu assassinato anche il traduttore giapponese del romanzo. E pure l'editore norvegese del libro, William Nygaard e il traduttore furono minacciati. Nonostante fossero messi sotto protezione, Nygaard venne aggredito a colpi di pistola. Lo stesso Rushdie, nel corso degli anni, ha più volte rischiato di essere colpito da aggressioni e attentati. Nel 2012, ad esempio, lo scrittore annullò all'ultimo la propria partecipazione a un programma tv, spiegando di essere stato allertato dall'intelligente sulla presenza di assassini pronti a eliminarlo.

E la condanna a morte in nome di Allah, ricorda sempre lo stesso autore, è ancora valida. Sulla sua testa è stata posta anche una taglia di 3,3 milioni di dollari da parte di una fondazione religiosa iraniana. Rushdie racconta inoltre che ogni anno, nel giorno in cui si "ricorda" la promulgazione della fatwa, riceve un particolare biglietto dall'Iran che gli rammenta la minaccia. La brutale aggressione a New York - definita "orribile" da un testimone - è stato forse un promemoria dagli estremisti islamici. L'ennesimo tentativo di ammazzarlo.

Non solo i "Versetti": un autore che racconta una realtà magica. Il suo libro migliore è "I figli della mezzanotte".  Matteo Sacchi il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Una vita passata sotto il segno del pericolo quella di Salman Rushdie, almeno dal 1988 quando lo scrittore pubblicò I versetti satanici nel 1988. Il libro conteneva una rivisitazione, romanzata e in chiave onirica, dell'episodio dell'ispirazione diabolica di Maometto, narrata nel Corano. Valse all'autore una fatwa di Khomeyni, che ne decretò la condanna a morte per bestemmia. Finirono feriti e uccisi anche traduttori ed editori esteri del libro. Tra cui anche il traduttore italiano Ettore Capriolo (ferito a coltellate).

Eppure Rusdhie ha sempre rifiutato di farsi intimorire o di accettare di veder schiacciare la sua attività letteraria soltanto ai Versetti. Nato a Bombay il 19 giugno 1947, e trasferito a Londra all'età di 14 anni, Rushdie è cresciuto in una famiglia mussulmana ma lontana da ogni radicalismo. Ha condotto i suoi studi all'Università di Cambridge. Ha iniziato a scrivere da giovanissimo all'età di dodici anni. La sua prima pubblicazione iniziò con Grimus (1974), una narrazione a metà tra la fiaba e la fantascienza che non ebbe molto successo. Seguirono I figli della mezzanotte (1981) e La vergogna (1983). Con I figli della mezzanotte (prima Garzanti poi Mondadori), complesso e strutturato romanzo costruito a incastro attorno alle vicende di Saleem Sinai e altri mille bambini nati appunto attorno alla mezzanotte del 15 agosto 1947 (giorno della dichiarazione dell'indipendenza dell'India), vinse il Booker Prize nel 1981 e ottiene un inaspettato successo popolare e critico. È meno noto dei Versetti ma è considerato dalla critica il suo libro migliore. È nella classifica dei 100 libri del secolo di le Monde e ha vinto il James Tait Black Memorial Prize e il Booker Prize. In Vergogna, ha invece delineato i tumulti politici in Pakistan basando i suoi personaggi su Zulfikar Ali Bhutto ed il Generale Muhammad Zia-ul-Haq.

Rushdie è sempre riuscito a caratterizzare le sue narrazioni per una sorta di realismo magico capace di mischiare la prospettiva del migrante in Europa con una vena profondamente letteraria. Ne è un esempio uno dei suoi libri più stravaganti. La terra sotto i suoi piedi (sempre Mondadori), romanzo che fa rivivere, con una sciarada che passa per Bombay, l'Inghilterra e gi Usa, il mito di Orfeo ed Euridice. «Reincarnati» nelle due popstar Vina e Ormus. E questa è solo una parte della sua varia e poliedrica produzione. Schiacciata dal fatto che il fanatismo, armato di coltello fa parlare purtroppo solo d'altro.

L'islam radicale e quel "verdetto eterno" che ha condannato Rushdie. Valentina Dardari per Il Giornale il 13 agosto 2022.

Nel 1989 l’ayatollah Khomeini lanciò una fatwa contro Salman Rushdie condannandolo a morte per il libro I versetti satanici, che era considerato irriverente, blasfemo, dai religiosi più integralisti. La fatwa è ancora valida, anche se il politologo francese Dominique Moïsi, intervistato dal Corriere della Sera, ha spiegato che c’era stato un momento di apertura e moderazione durante il quale le autorità iraniane erano intenzionate a sospenderla, ma che vi erano divisioni tra gli ayatollah e che alla fine aveva vinto l'ala maggiormente conservatrice.

"Nel 1998 il governo iraniano dichiarò che non avrebbe mai appoggiato un tentativo di assassinio verso Rushdie, ma la fatwa non venne comunque ritirata. Per gli islamisti radicali la fatwa vale per sempre, a meno che non venga ritirata dall'autorità religiosa che l'ha emessa. In questo caso quindi solo Khomeini avrebbe potuto abrogarla. Con la sua morte nel 1989, l'editto è stato reso immutabile. Ancora nel 2019 la stessa guida suprema, l'ayatollah Khamenei ha definito ‘irrevocabile’ il verdetto di Khomeini perché si basa su versi divini”, ha precisato Moïsi.

Nel 2015 l’Iran aveva boicottato la fiera di Francoforte in quanto gli organizzatori avevano invitato Rushdie, che era stato definito come una persona odiata nel mondo islamico. Da non dimenticare che l’anno seguente, nel 2016, era stata emessa una nuova ricompensa per chiunque lo avesse ucciso. Ancora non si sa molto dell’aggressore che ha accoltellato Salman Rushdie mentre parlava sul podio di un evento a New York, ma l’impressione di Moïsi è che non si sarebbe trattato del gesto isolato di un pazzo, soprattutto perché riuscire a infiltrarsi e sorpassare le misure di sicurezza nella Grande Mela non è affatto una impresa semplice, ma richiede l’intervento di professionisti.

Una risposta all'uccisione di al-Zawahiri

Il politologo ipotizza che potrebbe essere stata la risposta degli islamisti alle parole che ha pronunciato il presidente degli Stati Uniti in seguito all'uccisione di Ayman al-Zawahiri, leader formale di al-Qaeda. Il presidente Biden aveva affermato che giustizia era stata fatta, in quanto era uno dei responsabili dell'11 Settembre che ha seminato una scia di sangue americano. “Potrebbe avere una portata simbolica questo attacco, per lanciare il messaggio che ‘anche noi possiamo aspettare molto tempo ma prima o poi giustizia è fatta’. Non è certo l'unica ipotesi”, ha sottolineato Moïsi. 

Il politologo ha poi pensato agli attacchi israeliani recenti contro gli islamisti della Jihad islamica, la storica alleata di Teheran. Oltre che all'iraniano che è stato accusato negli Stati Uniti del complotto per uccidere Joun Bolton, l'ex consigliere per la sicurezza nazionale. L’Iran potrebbe voler mandare un segnale forte proprio mentre è in atto il negoziato sul nucleare dopo un lungo fermo. “A un anno dalla salita al potere a Teheran del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, la situazione economica è catastrofica per effetto soprattutto della pesante politica sanzionatoria inaugurata da Washington nel 2018 dopo l'abbandono dell'accordo sul nucleare; le opposizioni sono più forti, e per quanto insidiato da più parti il regime si può giocare la carta dell'estremismo per mostrare invece che riesce a essere efficace”, ha infine asserito Moïsi.

Da “il Giornale” il 14 agosto 2022.

«La religione non dimentica mai perché vuole essere eterna e non ha nulla a che fare con le nostre vili emozioni terrene», ma «niente, assolutamente niente giustifica una fatwa, una condanna a morte». 

Così l'omaggio allo scrittore Salman Rushdie del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, la cui redazione nel 2015 era stata vittima di un attentato terroristico nel quale morirono dodici lavoratori della testata. 

In quell'occasione i terroristi islamici avevano preso di mira i giornalisti francesi per delle vignette sul profeta Maometto considerate blasfeme da molti musulmani. 

«Nel momento in cui scriviamo, non conosciamo le motivazioni dell'autore dell'accoltellamento a Salman Rushdie», si legge nell'editoriale. «Si sarà ribellato al riscaldamento globale, al calo del potere d'acquisto o al divieto di annaffiare i vasi di fiori a causa dell'ondata di caldo?», hanno scherzato gli autori satirici dell'irriverente settimanale. 

«Corriamo allora il rischio di dire che probabilmente si tratta di un credente, che è altrettanto probabilmente un musulmano e che ha commesso il suo atto ancor più probabilmente in nome della fatwa lanciata nel 1989 dall'ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie».

«La stessa sera» dell'attentato «abbiamo sentito dei commentatori spiegare che la fatwa contro Salman Rushdie era tanto più rivoltante perché ciò che aveva scritto nel suo libro, I versetti satanici, non era assolutamente irrispettoso dell'islam. 

Ragionamento di grandissima perversione perché induce che, al contrario, osservazioni irrispettose nei confronti dell'islam giustificherebbero una fatwa e una punizione, anche se fatale. Ebbene no, dobbiamo ripetere ancora e ancora che niente, assolutamente niente giustifica una fatwa, una condanna a morte». 

Jerusalem Post: il Mossad dietro l'attentato a Salman Rushdie? Piccole Note il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.

Si sono placate le onde sismiche causate dall’aggressione subita da Salman Rushdie alcuni giorni fa, ma evidentemente qualcosa cova sotto la cenere. Lo indica il titolo di un articolo del Jerusalem Post che riportiamo: “‘Probabilmente’ c’è il Mossad dietro l’accoltellamento di Salman Rushdie, afferma un professore di Denver”.

Vendetta iraniana o false flag?

All’indomani dell’aggressione – da cui l’autore dei “Versetti satanici” che avevano attirato la fatwa dell’ajatollah Khomeini è uscito senza eccessivi danni – si era ipotizzato che ad armare la mano del giovane che l’aveva colpito fossero stati i Guardiani della rivoluzione iraniani per vendicarsi dell’assassinio del generale Qassem Soleimani.

Una tesi riproposta anche da Nader Hashemi, direttore del Center for Middle East Studies dell’Università di Denver, interpellata appunto dal Jerusalem Post. E però la Hashemi ha dato anche un’altra lettura dell’aggressione, riferita sempre dal giornale israeliano, che riportiamo di seguito.

Così la Hashemi: “L’altra possibilità, che penso sia molto più probabile, è che questo ragazzino, Hadi Matar, fosse in comunicazione con qualcuno online che affermava di essere un membro o un sostenitore dei Guardiani della Rivoluzione e lo abbia indotto ad attaccare Salman Rushdie e così… ma la persona che l’ha contattato online e che si era qualificato come un cittadino della Repubblica islamica dell’Iran, in realtà avrebbe potuto essere un agente del Mossad”.

“Ma perché il Mossad dovrebbe colpire Rushdie?” Ha chiesto l’intervistatore. “La Hashemi – prosegue il JP – ha spiegato tale tesi suggerendo che il motivo per cui Israele avrebbe realizzato un’operazione sotto falsa bandiera sarebbe quello di alimentare l’opposizione all’impegno diplomatico che le potenze mondiali stano dispiegando per rilanciare l’accordo sul nucleare del 2015 [tra Stati Uniti e Iran ndr]”.

“Israele, infatti, ha preso una posizione molto forte contro il ripristino dell’accordo nucleare iraniano”, ha continuato la Hashemi. “Si era giunti in un momento molto delicato delle trattative, tanto che l’accordo sembrava imminente, e proprio in quel momento si è verificato l’attacco a Salman Rushdie. Penso che questa sia una possibile interpretazione e lo scenario che potrebbe spiegare la tempistica di quanto accaduto”.

Al di là dei tanti possibili moventi – semmai ci siano stati e non si sia trattato solo del gesto di un folle -, che difficilmente saranno provati, quel che colpisce è che una tesi del genere sia stata esposta su un media israeliano, per di più il media mainstream per eccellenza, con tanto di richiamo niente affatto implicito nel titolo.

Non è usuale che in Israele si riveli, anche solo come ipotesi, un’operazione false flag dell’intelligence israeliana, peraltro su un tema tanto dirompente a livello geopolitico.

I contrasti in Israele e la prospettiva di una guerra

Ciò può essere spiegato, però, dalla lacerazione che sta vivendo Israele a causa delle trattative sul nucleare iraniano, che hanno dato luogo a una lotta sorda quanto feroce all’interno degli apparati di intelligence e nella Difesa.

Una lotta feroce perché sul tappeto non c’è solo un potenziale accordo tra Stati Uniti e Iran, ma quanto sottende la riuscita o meno degli sforzi diplomatici in tal senso.

A tema, infatti, è se aprire o meno il vaso di pandora di una guerra regionale, più che probabile nel caso in cui le trattative fallissero.

Perché parte della Difesa e dell’intelligence israeliana è ben conscia che una guerra regionale contro l’Iran, pur se supportata dagli Stati Uniti, presenta incognite molto più che drammatiche per la stessa Israele, che non potrebbe evitare tutti i missili di Teheran o di Hezbollah.

Anche se sicuramente vincente, ne risulterebbe martoriata. Peraltro, tale funesta prospettiva potrebbe spingere Tel Aviv a usare l’atomica, con conseguente ecatombe e tanto di nubi radioattive cui cieli del medio oriente e oltre (Israele compresa). Decisione che potrebbe innescare un’eventuale risposta di Teheran contro la centrale nucleare di Dimona, come adombrato da un video diffuso lo scorso anno dagli iraniani.

Tale l’importanza cruciale della trattativa in corso. Tale la drammaticità del momento.

Il simil-attentato a Bolton e l'aggressione a Salman Rushdie. Piccole Note il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Ieri un ragazzo di 24 anni, Hadi Matar, ha pugnalato Salman Ruhsdie, l’autore del libro “Versetti satanici” che nel 1989 aveva attirato i fulmini dell’ajatollah Khomeini, il quale lo aveva condannato con una Fatwa che lo ha inseguito per anni.

La Fatwa annullata e l’ordine mondiale

Troppo giovane, il ragazzo non sapeva che la Fatwa era stata annullata nel 1998 dal presidente iraniano Mohammad Khatami e con essa la connessa condanna a morte, come spiega il New York Times, che però si perita di aggiungere, in base a un’informazione anonima, che questa sarebbe stata conservata, con tanto di taglia sul capo di Salman, da una fondazione religiosa iraniana non meglio specificata (particolari tanto importanti andrebbero specificati, se si vuole evitare di suscitare scetticismo sulla veridicità dello scritto).

Per puro caso, ovviamente, nello stesso giorno, il New York Times pubblica un lungo articolo di Karim Sadjadpour ferocemente avverso all’Iran di cui riportiamo il nocciolo: “Sotto la guida di Khamenei [l’attuale ajatollah ndr], l’antiamericanismo è diventato centrale nell’identità rivoluzionaria dell’Iran; e in effetti poche nazioni hanno speso una percentuale maggiore del loro limitato capitale politico e finanziario per cercare di rovesciare l’ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti rispetto all’Iran. Praticamente su ogni problema riguardante la sicurezza nazionale americana contemporanea, comprese l’invasione russa dell’Ucraina, le minacce cinesi contro Taiwan, la proliferazione nucleare e la guerra informatica, Teheran definisce i propri interessi in opposizione agli Stati Uniti”.

Ci vuole tanta immaginazione a reputare che l’Iran ambisca a rovesciare “l’ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti”, ma tant’é. Mentre se è vero che l’Iran ha perseguito i suoi interessi spesso in contrasto con Washington è vero anche il contrario.

Le trattative per il nucleare iraniano

Il punto della questione, però, è che ribadire tali concetti nei giorni cruciali in cui si sta decidendo il destino dell’accordo sul nucleare iraniano, suona bizzarro, perché proprio tale accordo, siglato da Obama, aveva creato una distensione tra i due acerrimi nemici e, se ripristinato, potrebbe ripetere l’incanto (pur nelle usuali contraddizioni di questo mondo).

Ma andiamo con ordine. Alcuni giorni fa, a Vienna, si è concluso l’ennesimo round di negoziati tra Ue, Stati Uniti e Iran per ripristinare l’accordo sul nucleare iraniano siglato a suo tempo da Obama e stracciato sotto l’amministrazione Trump.

Le trattative si sono concluse con esiti positivi, nel senso che, dopo mesi di stallo, finalmente è stato stilato un testo definitivo che è stato portato dalle rispettive delegazioni a Washington e Teheran per il placet finale prima della firma ufficiale.

L’Agenzia stampa dello Stato iraniano, Irna, ha fatto trapelare la notizia che secondo le autorità iraniane il testo è “accettabile” (Reuters). Per ora gli Stati Uniti hanno osservato il silenzio, ma è un silenzio indicativo di un interesse reale (le fughe di notizie fanno sempre male alla diplomazia).

Ma tre giorni fa è arrivata la notizia che l’Fbi ha arrestato un tale che, per conto dell’Iran, avrebbe cercato di arruolare un killer per uccidere l’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa John Bolton.

Attentati improbabili e vittime sacrificali

Notizia invero fantasmagorica, se si pensa a un tizio intento a incontrare persone per proporgli di uccidere, in America, una delle persone più influenti nell’ambito delle Agenzie di intelligence…  Teheran ha smentito la notizia con l’ironia del caso, e la vicenda, nonostante i tentativi di Bolton di rilanciare, sembrava dovesse sgonfiarsi. Ma ieri, a complicare tutto, è arrivata l’aggressione a Salman Rushdie, che ovviamente alimenta l’ostilità verso Teheran.

In questa situazione, Biden può dare il placet a un accordo con l’Iran? Verrebbe sommerso di critiche da parte dei tanti feroci avversari di Teheran che si annidano nella politica americana e nei ranghi della sua stessa amministrazione.

Così Salman Rusdie appare l’ennesima vittima sacrificale immolata sull’altare della guerra santa all’Iran, che da anni viene brandita in tali ambiti. Rushdie, per fortuna solo ferito, se la caverà, il mondo no, perché non firmando l’accordo, lo scontro armato con Teheran sarà solo questione di tempo.

E se degenererà in una guerra di ampia scala. Come è nelle intenzioni di chi sta alimentando questo caos, farà sembrare il conflitto ucraino un bisticcio tra ragazzi. 

Ps. L’inviato per l’Afghanistan iraniano, Hassan Kazemi Qomi, si è incontrato con i talebani per coordinare la guerra all’Isis, le cui cellule terroristiche ancora infestano il territorio controllato da Kabul. L’Iran è stato il vero protagonista nella lotta all’Isis, come hanno riconosciuto anche gli Stati Uniti (anche se hanno vantato la primazia in questa opera, nonostante il fatto che l’unica altra zona al mondo in cui sono ancora attive le cellule dell’Isis è la regione della Siria sotto il loro controllo).

Un dettaglio, ma se i macellai dell’Isis non fanno più stragi in Europa, lo dobbiamo soprattutto a Teheran. È bene ricordarlo. E sperare che riescano ad aiutare l’Afghanistan a sradicare la mala pianta, prima che essa possa riprendere vigore e riattivare la sua macelleria anche altrove.

L'attentatore di Rushdie parla dal carcere: "L'ho aggredito perché ha attaccato l'islam". Valeria Robecco su Il Giornale il 18 agosto 2022.  

«Ho aggredito Salman Rushdie perché ha attaccato l'Islam, non credevo sarebbe sopravvissuto». Il 24enne del New Jersey che la settimana scorsa ha accoltellato lo scrittore ferendolo gravemente ha rivelato in un'intervista esclusiva al New York Post le motivazioni che lo hanno spinto al gesto estremo. «Non è una brava persona, non mi piace quell'uomo - ha affermato Hadi Matar dalla prigione nella contea di Chautauqua - Ha attaccato le credenze degli islamici, il loro sistema di valori». Il giovane, che si è scagliato contro Rushdie mentre stava iniziando il suo intervento ad una conferenza nello stato di New York, si è detto «sorpreso» che sia ancora vivo: Matar non ha rivelato se è stato ispirato dal defunto leader supremo iraniano, l'Ayatollah Ruhollah Khomeini, che ha emesso una fatwa chiedendo la morte dell'autore nel 1989 a causa del suo libro «Versi Satanici». «Rispetto l'Ayatollah, penso che sia una persona fantastica, questo è quanto posso dire a riguardo», ha proseguito, sottolineando che ha «letto solo un paio di pagine» del controverso romanzo.

Il 24enne, che si è dichiarato non colpevole delle accuse di tentato omicidio e aggressione, ha poi negato di essere stato in contatto con i pasdaran iraniani ma ha ammesso di essersi «ispirato» per l'attacco guardando video dello scrittore su YouTube: «Ho visto molte conferenze, non mi piacciono le persone che sono false in quel modo». Quindi ha raccontato di essere arrivato a Buffalo il giorno prima dell'attacco con un autobus, poi ha preso un Lyft (uno dei servizi di auto con conducente) per Chautauqua: «Sono stato in giro, non ho fatto nulla di particolare, sono stato fuori tutto il tempo e giovedì notte ho dormito su un prato». Nato negli Stati Uniti da genitori libanesi, Matar non ha risposto alle domande su un viaggio di un mese nel 2018 nel paese mediorientale per visitare suo padre. Sua madre però, che lo ha rinnegato per l'aggressione, ha riferito che la visita lo ha «cambiato», e dopo il suo ritorno è diventato più religioso e solitario. «Mi aspettavo che tornasse motivato, che completasse la scuola, che prendesse la laurea e cercasse un lavoro, invece si è rinchiuso nel seminterrato di casa», ha detto ai media la donna, Silvana Fardos.

Rushdie, nel frattempo, secondo quanto rivelato dal suo agente Andrew Wylie, «non è più attaccato al respiratore, parla e scherza». Ma rimane in ospedale con gravi ferite: è stato pugnalato almeno dieci volte, ha danni al fegato e i nervi recisi di un braccio e di un occhio. Mentre il moderatore della conferenza, rimasto ferito nel tentativo di difendere lo scrittore, ha parlato in video alla Bbc dalla sua casa di Pittsburgh, mostrando profondi lividi intorno all'occhio e molti punti di sutura sul sopracciglio: «Sto abbastanza bene - ha sottolineato Henry Reese - La nostra preoccupazione è per Salman, e intendo sia per lui come persona che per ciò che significa nel mondo. È importante per il mondo».

Paura e panico a New York. Aggredito a una conferenza Salman Rushdie, lo scrittore condannato a morte dall’Iran: “È stato accoltellato”. Redazione su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

Lo scrittore Salman Rushdie è stato aggredito a un evento a Chautauqua, nello stato di New York. Appena prima di prendere parola un uomo è salito sul palco della Chautauqua Institution. Le ricostruzioni al momento arrivano contrastanti: alcune riportano che lo scrittore sarebbe stato accoltellato, altri che sarebbe stato preso a pugni. A riportare la notizia, mentre sui social si rincorrono foto e video dell’aggressione, è l’agenzia Ap.

Era in corso la presentazione di Rushdie quando un uomo è salito sul palco. Un breve video sui social mostra i pochi attimi dell’aggressione con diverse persone accorrere sul palco e gli spettatori a urlare di paura. Lo scrittore è caduto a terra sotto i colpi, si sarebbe alzato da solo dopo l’aggressione secondo l’Ap. Secondo altre ricostruzioni Rushdie è stato soccorso dagli spettatori che gli hanno alzato le gambe, presumibilmente per far arrivare più sangue al cervello.

Lo scrittore è stato accompagnato in ospedale in elisoccorso per accertamenti sulle ferite riportate. Non ci sono altre notizie sulle sue condizioni al momento. La sala nel frattempo è stata evacuata da tutti i presenti dopo l’aggressione dopo l’aggressione. Secondo France Presse la polizia della contea di Chautauqua ha confermato che una persona è stata accoltellata alla Chautauqua Institution. Le forze dell’ordine non hanno confermato l’identità della persona aggredita. Come non è stata resa nota l’identità dell’aggressore, che è stato catturato.

E a tornare è la paura del terrorismo: lo scrittore e saggista indiano naturalizzato britannico, 75 anni, era stato minacciato di morte dall’Iran negli anni Ottanta a causa dei suoi scritti. Il suo libro I Versi Satanici era stato bandito dall’Iran dal 1988, considerato blasfemo in quanto è una storia fantastica ma chiaramente allusiva della figura di Maometto. Il leader iraniano, l’ayatollah Ruholla Khomeini, un anno dopo la pubblicazione, emise una fatwa chiedendo la sua morte.

La condanna era stata reiterata nel 2008. L’Iran aveva offerto una ricompensa di oltre tre milioni di dollari per uccidere Rushdie. Lo scrittore 75enne ha vissuto per anni sotto scorta. Da anni aveva rinunciato alla protezione.

Fermato l’assalitore, indossava una maschera nera. Chi è Salman Rushdie, lo scrittore della fatwa per i “Versi satanici”: accoltellato sul palco a New York. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

Tutto si è consumato nel giro di pochi concitati istanti. Salman Rushdie è stato accoltellato più volte prima che parlasse a un evento pubblico a Chautauqua nello stato di New York. Erano le 11 del mattino. Secondo il racconto fatto da un giornalista dell’Ap, un uomo con la maschera nera sarebbe salito sul palco della Chautauqua Institution e avrebbe iniziato a colpirlo più volte. È caduto a terra e intanto l’aggressore veniva fermato dalla polizia. La governatrice di New York, Kathy Hochul, ha confermato che lo scrittore è vivo ed è sottoposto a cure in ospedale.

È dal 1989 che sullo scrittore incombe la fatwa, la condanna a morte, da parte dell’ayatollah Khomeini, leader dell’Iran. Il motivo sono i suoi “Versi Satanici”, l’opera che gli ha dato il successo nel 1988 ma che irritò Khomeini tanto da volerne la morte per blasfemia. Si tratta di una storia di fantasia in cui però l’autore alludeva alla figura di Maometto. Nonostante, dopo le prime proteste scoppiate nel mondo musulmano, Rushdie avesse definito Maometto in un articolo su The Observer come uno dei “grandi geni della storia mondiale”, Khomeini pronunciò la condanna il 14 febbraio del 1989 (il caso portò poi alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Regno Unito e Iran). Da allora Rushdie vive sotto scorta. Rushdie è nato a Bombay nel 1947 e si è formato in Inghilterra.

‘I Versi Satanici’ oltre a condizionare la vita al suo autore ha anche causato la morte di molte persone in tutto il mondo: cinquantanove, secondo Bbc News, tra traduttori assassinati e persone rimaste uccise durante le manifestazioni di protesta e le contromanifestazioni di sostegno, nonchè quelle di condanna per la censura imposta al volume in alcuni Paesi.

Nell’agosto del 1989 una bomba scoppiata in un albergo londinese uccise l’attentatore, Mustafa Mahmoud Mazeh. Solo nel 2005 un giornalista del Times scoprì in un cimitero di Teheran una lapide che lo commemorava come “primo martire a morire in una missione per uccidere Salman Rushdie”. In Italia nel 1991 venne pugnalato nella sua abitazione milanese Ettore Capriolo, traduttore del libro, fortunatamente non a morte. Nello stesso mese fu assassinato il traduttore giapponese, Hitoshi Igarash. E, ancora, l’editore norvegese del libro, William Nygaard e il traduttore Kari Risvik furono minacciati. Nonostante fossero messi sotto protezione, Nygaard venne ferito a colpi di pistola l’11 ottobre del 1993.

Secondo quanto riportato dall’Ansa, dopo la fatwa Rushdie, che si dichiara ateo, si è abituato a vivere sotto scorta, nascosto al resto del mondo per circa un decennio. Poi, a poco a poco ha iniziato a riemergere. Nel 2004 si è nuovamente sposato, per la quarta volta, con la modella ed attrice indiana Padma Lakshmi, dalla quale però si è separato nel 2007. Nel 2015 ha aperto la Fiera del libro di Francoforte, evento che ha provocato il boicottaggio da parte dell’Iran.

Il governo iraniano, in maniera ambigua nel 1998 aveva affermato che non avrebbe più sostenuto la fatwa, ma molte organizzazioni iraniane hanno invece continuato a raccogliere fondi per una ‘taglia’ sulla sua testa, da aggiungere ai circa 3 milioni di dollari originariamente offerti da Khomeini nel 1989 per la sua esecuzione. E le cose non sono poi cambiate dopo la morte di Khomeini. L’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema iraniana, ha infatti rinnovato la fatwa nel 2017, e nel 2019, in occasione del ‘trentennale’, via Twitter ha scritto: “Il verdetto dell’Imam Khomeini riguardo a Salman Rushdie si basa su versi divini e, proprio come i versi divini, è solido e irrevocabile”.

Dal 2000 vive a New York. È l’autore, fra l’altro, di I figli della mezzanotte (vincitore del Booker Prize nel 1981), L’ultimo sospiro del Moro, La terra sotto i suoi piedi, Shalimar il clown, L’incantatrice di Firenze e Joseph Anton, del reportage sul Nicaragua Il sorriso del giaguaro e dei volumi di saggi Patrie immaginarie e Superate questa linea, tutti pubblicati in Italia da Mondadori.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Scrittori minacciati di morte, c’è un mondo che ha paura di condannare. Orhan Pamuk su Il Corriere della Sera il 17 Agosto 2022.

Per gli ultimi 15 anni la mia vita pubblica è stata tutelata grazie alla scorta. Nei Paesi musulmani i cittadini manifestano il loro rammarico a porte chiuse. 

Negli ultimi vent’anni ho avuto modo di intrattenere molte lunghe conversazioni con svariati scrittori minacciati di morte, specie da «islamisti» o «estremisti islamici». Oppure con scrittori che, per i motivi più diversi, si ritrovano a vivere sotto tale minaccia nei Paesi islamici e meritano di usufruire della protezione delle guardie del corpo. Sono anch’io uno di loro.

Per gli ultimi quindici anni, la mia vita pubblica è stata tutelata grazie alla scorta assegnatami dal governo turco. Tuttavia, per quanto siano simpatiche e premurose le guardie del corpo, e per quanto si sforzino di non dare nell’occhio, la loro presenza non è mai piacevole. Per esperienza, so benissimo che dopo i primi cinque anni, quelli più pericolosi, lo scrittore sotto protezione si convince che «il peggio è passato», che forse può fare a meno della scorta e tornare alla sua vecchia, bella vita «normale».

Nella maggior parte dei casi, però, non è una decisione realistica e pertanto università, organizzazioni, fondazioni, enti e comuni che decidono di invitare quegli scrittori che non sono disposti a lasciarsi intimorire, hanno il dovere, automaticamente, di tutelare la loro sicurezza, a prescindere da quanto gli scrittori stessi possano pensare o sostenere riguardo la loro condizione.

Ogni qualvolta uno scrittore subisce un’aggressione fisica, subito ci si lamenta che alle parole occorre rispondere con le parole, ai libri con altri libri.

Ma questo antiquato principio ha ancora senso ai nostri giorni? Solitamente, tutti coloro che premono il grilletto o impugnano il coltello hanno letto assai pochi libri nel corso della loro vita. Ne avessero letti di più, o magari ne avessero scritto uno per proprio conto, sarebbero stati capaci di simili gesti di violenza? Sarebbero riusciti a far pubblicare la loro opera?

Pur riconoscendo il ruolo svolto dalle disuguaglianze sociali in questo genere di brutale aggressione contro scrittori, libri e libertà di parola — l’umiliazione di sentirsi cittadini di seconda o terza classe, di apparire invisibili, senza rappresentanza e senza la minima importanza — ciò nulla toglie alla nostra difesa della libertà di espressione. Al contrario, ricordare le disuguaglianze sociali e culturali e i rancori nazionalistici, che spesso covano dietro queste minacce e questi attacchi, deve servire a rafforzare il nostro impegno per mantener viva la libertà di espressione.

È inoltre assai deprimente vedere come questa vergognosa aggressione sia stata accolta con approvazione, applauso ed evidente soddisfazione non solo in Iran, ma in molti altri Paesi musulmani.

I cittadini dei Paesi musulmani, che sinceramente deplorano e condannano l’attacco a Rushdie, manifestano il loro rammarico solo a porte chiuse e tra gli amici più stretti. Perfino i paladini della libertà di espressione non osano manifestare la loro disapprovazione.

Alcuni amici, al corrente di queste mie poche righe, mi hanno già ammonito a prendere le dovute cautele, pur sapendo che godo della protezione di una scorta.

Salman Rushdie, i suoi “Versetti satanici” romanzo rivoluzionario: per questo fa paura. Filippo La Porta su Il Riformista il 17 Agosto 2022. 

Tre anni prima della fatwa dell’ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie, Milan Kundera aveva celebrato in un aureo libretto le virtù di un genere letterario tipico della modernità: L’arte del romanzo (Adelphi, 1986). In particolare il romanzo rappresenta per lui l’eco della risata di Dio. Una origine teologica che le religioni monoteistiche avrebbero qualche difficoltà ad approvare: l’immagine stessa di Dio che ride ne verrebbe giudicata impropria o perfino blasfema. Eppure questa immagine è il migliore antidoto contro qualsiasi cupo, dogmatico, austero integralismo (religioso o in generale ideologico).

Ci ricorda una verità fondamentale: la nostra povera condizione – ilarotragica – non può che smuovere il riso del suo stesso creatore, e mal sopporta liturgie troppo seriose. È bene ricordarlo nel momento in cui Rushdie ha subito una aggressione brutale (solo per un soffio senza esito mortale), con ogni probabilità premeditata, da un americano arabo che ha voluto eseguire la celebre fatwa, rinnovata dall’imam Khamenei nel 2019, e mai ritirata dalle autorità religiose dell’Iran (i media popolari di quel paese hanno festeggiato in questi giorni l’aggressione stessa!). Ma quale fu la colpa imperdonabile di Rushdie, pubblicando i Versetti satanici? Non semplicemente di aver scritto un libro che dissacra l’islam e la figura di Maometto. Di saggi, pamphlet, manifesti, articoli, etc. contro l’islam, anche molto più blasfemi, ce ne sono a centinaia. Piuttosto: di aver scritto un romanzo in tal senso.

Il genere del romanzo, che nasce con Don Chisciotte nel ‘600 (anzi un tantino prima con Rabelais), e poi fiorisce in Inghilterra nel ‘700, non solo mescola stili opposti ma si alimenta di molteplici eredità e innesti: Dialoghi di Platone, Vite parallele di Plutarco, satira menippea, romanzo greco di età ellenistica (riscoperto nel ‘500) e romanzo latino (Satyricon), racconti picareschi e cavallereschi, tradizione epica e comica, e ovviamente narrazioni orientali (specie India, Cina e Giappone, dove il Genij monogatari nell’XI secolo è da alcuni considerato il primo vero romanzo dell’umanità). Fin dall’inizio, sottolinea Kundera, afferma l’ironia come unica relazione possibile con un mondo sfaccettato, plurale, spesso inafferrabile, che non va tanto giudicato quanto esplorato, indagato nella rete infinita delle sue possibilità. Un mondo fatto non di una verità unica ma di tante verità tra loro contraddittorie e incompatibili.

Ora, a differenza di un saggio – e perciò I versetti satanici erano un’opera “irricevibile” per gli ayatollah – un romanzo non si limita a discutere e commentare le idee, ma ce le mostra in situazione, sempre incarnate in personaggi, in destini concreti, in storie. Non ci dice solo che quel tale ha quella visione del mondo, ma ci fa vedere, tangibilmente, come vive quel tale, come mangia, fa l’amore, sogna, educa i figli, esorcizza la morte. Introduce un dubbio, sottile ma potenzialmente deflagrante, nell’esistenza che noi facciamo. Ci chiede se il nostro stile di vita sia basato sull’autoinganno, sulla menzogna, sul tradimento di sé. Ci propone sempre nuovi punti di vista, nuove, dissonanti verità. In questo senso è davvero l’autocoscienza laica della allora nascente borghesia (per Hegel l’equivalente borghese dell’epica) e si trova anche all’origine della democrazia.

Sappiamo anche che il romanzo occidentale si è poi diffuso in tutto il mondo – anche attraverso guerre di rapina e colonialismo, s’intende – diventando una forma simbolica planetaria, ma in tale diffusione si è spesso fuso con tradizioni narrative locali, riuscendo a innovarsi creativamente (è un genere costituzionalmente spurio, flessibile, meticcio), tanto che negli ultimi decenni i romanzi più interessanti sono venuti dall’America Latina, dall’Asia e dall’Africa. Insomma la fatwa iraniana ci ricorda che il romanzo è un genere letterario sovversivo. Ce ne eravamo dimenticati!

Ma a proposito dell’aggressione a Rushdie si pone per le democrazie occidentali una questione delicata, che riguarda il cosiddetto paradosso di Popper (La società aperta e i suoi nemici, del 1945): i tolleranti hanno il diritto di essere intolleranti con gli intolleranti quando è in gioco la propria sopravvivenza? può una società aperta difendere sé stessa con mezzi tipici di una società chiusa, senza perciò snaturarsi?. Per Popper la libertà individuale – di pensiero, parola e azione – è il fondamento della società, ma non può diventare un assoluto (neanche la libertà del mercato può esserlo). Si pensi al cosiddetto hate speech (parole di incitamento all’odio) largamente presente in Rete: deve essere regolamentato, e censurato, dalle stesse piattaforme dei social o dall’autorità pubblica? Dove mettere il limite alla libertà di espressione? Nel caso di Rushdie pare evidente: quando una parola promuove direttamente violenza non dovrebbero esserci dubbi sulla opportunità di limitarla.

Ora, verosimilmente nessuno stato etico può obbligare i singoli islamici residenti in Italia a condannare la fatwa, pena l’espulsione: sarebbe una ingerenza abusiva e autoritaria. La coscienza individuale è inviolabile. Però le comunità islamiche – organizzate, strutturate nei propri luoghi e nei propri organi di rappresentanza, etc. – sono un soggetto collettivo, costituiscono un momento di razionalità pubblica. E se si chiedesse loro (e anzi si pretendesse!) una presa di posizione netta, una condanna inequivocabile della fatwa? Si tratterebbe di un importante gesto simbolico. Dimostrerebbe che, al di là di differenze religiose, etniche, culturali, etc., l’umanità è pur sempre unita da un codice di valori comune e “universale”.

Credo infine che uno strumento indispensabile di mediazione culturale sia offerto proprio dal romanzo. Proviamo a leggere gli innumerevoli romanzi contemporanei del mondo arabo ( a volte declinati in senso lirico-elegiaco, fiabesco, altre volte calati ruvidamente dentro le nevrosi contemporanee): ci presentano un islam molto eterogeneo, differenziato, in alcun modo riducibile all’integralismo. Chissà che il genere del romanzo, pur nato in Europa – ma non prerogativa dell’Europa (ai suoi albori, come prima accennavo, se ne trovavano tracce ad ogni latitudine: la nostra cultura ha solo accelerato un processo di formazione) – possa diventare il vero terreno comune. La democrazia non si può esportare, l’abbiamo capito. Però possiamo esportare e importare romanzi, con la loro rappresentazione sempre polifonica, ironica, problematica della complessità umana. Per parafrasare una celebre frase di Dostoevskij, ormai finita su T-shirt e spot pubblicitari: solo il romanzo ci salverà! Filippo La Porta

Fatwa satanica. L’accoltellamento di Rushdie e quei versetti femministi che l’Islam ha cancellato. Carlo Panella su L'Inkiesta il 13 Agosto 2022.

Lo scrittore era stato condannato a morte dall’ayatollah iraniano Ruollah Khomeini per aver ricordato che il Corano consentiva il culto pre islamico delle figlie di Allah, ma che le autorità religiose successivamente hanno disconosciuto perché dettato dal diavolo

Salman Rushdie, accoltellato da un fanatico nello stato di New York durante un dibattito pubblico, è il simbolo di molte cose, innanzitutto del suo coraggio intellettuale e morale, della sua capacità letteraria, ma anche della violenza prevaricatrice dell’islamismo politico e non solo dell’ayatollah Ruollah Khomeini e, infine, della pavidità di un Occidente che a fronte del ricatto petrolifero ha ceduto su tutti i piani alla violenza jihadista che colpisce ancora una volta.

Il 14 febbraio 1989 l’ayatollah iraniano Ruollah Khomeini emette una Fatwa con chi incita i musulmani a uccidere Salman Rushdie per blasfemia nei confronti del profeta compiuta nel libro “I Versetti Satanici”. Il governo iraniano si incarica formalmente di eseguire la Fatwa e promette una taglia di 21.500 dollari per chi uccida lo scrittore. 

La Fatwa è illegittima per lo stesso diritto islamico, come attesta il grande islamista Gilles Kepel, perché la supposta blasfemia è avvenuta al di fuori del Dar al Islam, del territorio dei credenti in cui vige la sharia, ma in Inghilterra che è sede del Dar al Harb, il territorio della guerra nel quale vige la legge dei non credenti. Ma questa estrema forzatura della legge coranica è specificamente voluta da Khomeini proprio per affermare l’universalità mondiale della sua Sharia e dell’islamismo radicale ben al di là e addirittura contro quanto prescrive il diritto coranico.  

Manifestazioni violente contro Rushdie scoppiano in tutto il mondo islamico. Pavida è la reazione del mondo intellettuale europeo, che in molti casi accusa Rushdie di essersela andata a cercare, e ancor più quella della stessa Margaret Thatcher (Rushdie è cittadino britannico) che si rifiuta di rispondere a tono, con sanzioni contro l’Iran, alla provocazione di Khomeini. 

Sta di fatto che nel giro di poche settimane il traduttore giapponese dei Versetti, Hitoshi Igarashi, viene ucciso da sicari armati da Khomeini, il traduttore italiano Ettore Capriolo viene accoltellato e quello norvegese William Nygaard ferito a rivoltellate. Rushdie viene comunque protetto dalle autorità britanniche e vive sotto scorta da allora.

Ogni anno, per anni, la Fatwa viene rivalutata all’inflazione e si arriva alla farsa del 1998 quando l’ayatollah Khatami, presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, annuncia che il governo iraniano non si ritiene più obbligato ad applicarla. Khatami però si guarda bene dall’annullarla o di chiedere ai Grandi Ayatollah di cancellarla. Si limita a dire che non verrà applicata dal solo governo iraniano, ma nulla fa perché non venga applicata da un credente. Sempre valida dal punto di vista shariatico, è probabile che ieri sia stata eseguita.

È importante peraltro andare al merito dell’accusa di blasfemia lanciato da un Khomeini che palesemente non ha letto il libro e allo stesso titolo Versetti Satanici. Il riferimento di Rushdie ai versetti 19 e 20 della 53a Sura del Corano occupa infatti solo tre paragrafi del libro che dipana avvenimenti e avventure letterarie. 

Ma coglie però un punto fondamentale dell’Islam perché, in quei due versetti, in un primo momento Maometto dichiara che è lecito ai musulmani il culto delle tre figlie di Allah venerate dal culto pre islamico: Allat, Uzza e Manat (simili alle caratteristiche di Demetra, Artemide e Venere dell’Olimpo greco).

Ma, racconta due secoli dopo al Tabari, autore di Hadit, episodi della vita di Maometto non rispecchiati nel Corano, riconosciuti in pieno dalla Sunna e dalla tradizione islamica, passata una notte, Maometto decide di negare questo culto delle tre divinità donne perché quei Versetti erano stati ammorbati da Satana.

Una scelta, una negazione, di importanza cruciale per l’evoluzione dell’Islam perché con essa Maometto espelle ogni principio, ogni presenza dell’essenza e della specificità del femminile, della donna, dalla teofania e dalla teologia islamica. Una scelta cruciale per un Islam che riconosce solo il principio divino maschile e nega e annulla quello femminile e che la sensibilità di Salman Rushdie ha saputo cogliere nella sua fondamentale rilevanza. Ma che gli è costata la condanna a morte.

Il relativismo dei cancelletti. Le parole non sono violenza, la violenza è violenza, è violenza, è violenza. Guia Soncini su L'Inkiesta il 13 Agosto 2022.

L’accoltellamento di Rushdie, il corteggiamento ruandese su TikTok e altri segni del nostro tempo. Prometto di non stigmatizzare le altre culture, in cambio le altre culture potrebbero promettere di non stuprarmi, accoltellarmi, spararmi, quando manco loro di rispetto?

Evelyn Sukali ha 34 anni, vive a Monza, viene dal Congo, e su TikTok, dove ha 107mila follower, si presenta come «Immigrazione, cultura e storia dell’Africa, attualità, politica». L’altro giorno mi è comparso un suo video in cui, col tono con cui si racconta una fiaba romantica, spiegava che «il corteggiamento ruandese batte il corteggiamento di tutto il mondo».

Procedeva poi a illustrare questa romantica usanza, e la descrizione era quella d’uno stupro. Non è una valutazione secondo la mia sensibilità: è l’unica sinossi possibile di quel che riferiva, e che immagino sia vero (non m’intendo di Ruanda).

Lui, ci spiega la signora Sukali, quando decide che lei gli piace inizia a seguirla. «La prima reazione della donna è di scappare, quindi inizierà un inseguimento, l’uomo cercherà di correre più veloce, una volta raggiunta la donna inizierà una sorta di lotta, e il più forte vince. L’uomo dev’essere più forte e riuscire a buttare giù per terra la donna e deve riuscire ad assaggiarla. Se riesce ad assaggiare in quel momento lì, il fidanzamento può iniziare».

Ho visto levarsi grida di «cultura dello stupro» per episodi assai più blandi, e per la verità per episodi che non erano mai stupri effettivi, come quello narrato, ma sempre storie di parole, di approccio alle cose, di immagini pubblicitarie o cinematografiche. «Words are violence» è il concetto più fesso del presente, e lo si applica a più non posso.

Perché nessuno accusa la signora Sukali di cultura dello stupro? Perché nessuno vuole sembrare impresentabilmente di destra e convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili, nel più evoluto occidente (dove stuprarti per strada è reato e non rituale di corteggiamento, almeno non dai tempi di Franca Viola).

Lei stessa concludeva il suo video dicendo «Vi vedo già arrivare con dei commenti tipo “animali, incivili”. No, è solo un altro modo di vivere, altre usanze che vanno rispettate». Rispettiamo la cultura dello stupro nei luoghi in cui si svolge, sperando però di non importarla qui: ci manca solo di doversi mettere a correre per strada perché un disadattato ci reputa fidanzabili, con questo caldo.

Quello del rispetto delle culture differenti – un argomento che ovviamente ha un valore, contestualizzato – è l’alibi per puttanate che ci trasciniamo da un secolo all’altro, e l’accoltellamento di Salman Rushdie, la cui fatwa risale agli anni Ottanta, fa tornare in mente quelli che dicevano che, insomma, però, pure lui, ci vuole rispetto per le altre culture, sapeva che i musulmani si sarebbero offesi.

Chi pensa che «se l’è cercata» venga detto solo delle stuprate in minigonna non è stato attento quando Rushdie ha dovuto vivere decenni sotto scorta (e a giudicare dall’accoltellamento di ieri avrebbe dovuto continuare) o quando nella redazione parigina del giornale di satira Charlie Hebdo, che fa vignette maleducatissime su tutti sempre, sono entrati dei terroristi islamici facendo una strage.

Prometto di non stigmatizzare le altre culture, in cambio le altre culture potrebbero promettere di non stuprarmi, accoltellarmi, spararmi, quando manco loro di rispetto. Il problema culturale è però doppio.

L’islamico che ritiene che la tua vignetta o il tuo romanzo siano blasfemi e quindi si sente legittimato a ucciderti (o a tentare di) è la versione estremista d’un ragionamento, quello secondo cui words are violence, che in questi anni si porta molto tra i pensatori intellettualmente scarsi ma socialmente presentabili d’occidente. Era il 2015 quando ci prodigavamo in cancelletti #jesuisCharlie, era il 2016 quando quelli – impietosi come sempre – facevano vignette sul terremoto di Amatrice. Non siamo andati a sparargli perché non è una nostra usanza culturale (o lo è un po’ meno), ma eravamo quasi altrettanto offesi e pronti a cambiare idea, forse quei terroristi non avevano poi così torto, words are violence e words in fumetti non ne parliamo proprio.

È la base su cui Will Smith prende a schiaffi Chris Rock che ha fatto una battuta: sì, lui gli ha dato uno schiaffo, ma la battuta sua faceva altrettanto male (scusa non accampata da Smith, va detto: come sempre, i commentatori sono più scemi dei protagonisti).

Tra l’altro le migliori battute su questa falsa equivalenza le ha fatte proprio Rock, che in un monologo di qualche anno fa sbuffava esasperato «se parli di cyberbullismo significa che non t’hanno mai rovesciato un secchio di piscio in testa nei corridoi della scuola».

Ogni giorno sui social c’è qualcuno (di solito un maschio che tenta di accreditarsi come colui che sta dalla parte giusta della storia presso donne di sinistra che tenta di sedurre con metodi non ruandesi) che riferisce qualche gravissima conversazione origliata al bar o nello spogliatoio della palestra, tra uomini che dicono che a quella le farei questo e quest’altro (ma poi non lo fanno, trovandosi in un contesto culturale in cui non s’insegue la femmina per strada).

Ogni giorno quel qualcuno dice che sono discorsi così che legittimano la violenza (sì, buonanotte), e ogni giorno nei commenti qualcuno rilancia: quei discorsi sono già violenza. Ecco, no. I discorsi sono discorsi, la violenza è violenza. Sarebbe bene riuscire a ricordarsene anche senza bisogno che qualcuno si ritrovasse con un coltello in gola e pronto a fare da esempio a noialtri il cui ingrato lavoro è ribadire concetti che dovremmo dare per scontati.

Fobia, per piccina che tu sia. Rushdie, il delirio in cui siamo precipitati e la civiltà di rispondere alle parole con le parole. Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Agosto 2022

In un mondo civile tutti possono essere criticati e presi in giro. Eppure è passata questa idea che la cosa più grave che ci possa accadere è che ridano di noi

La differenza tra la civiltà e i barbari, ha scritto Bari Weiss nella newsletter con cui ha commentato l’attentato a Salman Rushdie, è che la civiltà alle parole risponde con le parole. Era una cosa che chi si ritiene civile sapeva, fino a non molto tempo fa: provate a immaginarla qualche anno fa come la descrizione di altro da un fanatismo religioso, l’istanza «voglio ammazzare Tizio perché Tizio scrive romanzi».

La differenza, dico io, non è mica più tra islamici e non islamici. Quando un non musulmano sale su un palco – anche lui con un coltello, fortunatamente inutilizzato – e prende a testate un comico musulmano perché quello ha osato fare delle battute, chi è barbaro e chi è civile? L’episodio l’avevamo già raccontato qui, il comico si chiama Dave Chappelle, ed è sempre Bari Weiss a ricordarci che è uno dei due ad aver mostrato una qualche spina dorsale di fronte alla dittatura della suscettibilità: a non stare zitti per non avere scocciature, a non annacquare quel che gli va dire per evitare di passare dalla parte degli impresentabili, negli ultimi anni sono stati lui e l’autrice di Harry Potter.

J.K. Rowling e Dave Chappelle hanno un’altra cosa in comune: sono multimilionari. E quindi è questo che è diventata, la libertà d’espressione: un privilegio da ricchi. Forse vi ricordate di Too big to fail, l’intuizione di Andrew Ross Sorkin sul disastro finanziario del 2008: gli Stati Uniti avevano soccorso le banche perché se fallivano loro falliva tutto il sistema. Erano troppo ingombranti per lasciarle fallire.

Il traslato odierno è: puoi dire quel che ti pare – prendere posizioni impopolari, fare battutacce, fare quel che se sei un intellettuale è il tuo lavoro fare – solo se sei troppo ingombrante perché i cancelletti ti sfiorino. Se sei Fiorello o Zalone, possiamo contare sul fatto che continui a fare il tuo mestiere. Se sei Michela Giraud, dovrai profonderti in scuse per la più innocua delle battute su Demi Lovato.

Riassunto della crisi isterica collettiva precedente. La cantante Demi Lovato decide d’essere non binaria, e perciò chiede ci si riferisca a lei col pronome neutro, che in inglese è they, loro. Giraud twitta «come il mago Otelma». Apriti suscettibilità, Giraud si copre il capo di cenere e promette di studiare (l’identità di genere, e forse anche l’esistenza di babbo Natale) e di fare in futuro battute persino più innocue di quella (una nazione condannata a «si vede il marsupio?»).

Avanzamento veloce, Lovato cambia idea, dà il permesso alla collettività di tornare a chiamarla «lei», nessuno si scusa con Giraud. La quale non è abbastanza ingombrante da diventare domani Ricky Gervais; magari non ne avrebbe comunque il talento, ma in un’epoca in cui si pretende eroismo e sprezzo della pubblica opinione per fare una battuta sui pronomi plurali del mago Otelma capite bene che difficilmente verrebbe pubblicato un romanzo che critica non dico il Corano ma anche solo il fatto che chiamare «donne» le partorienti sia considerato transescludente.

(Meglio: transfobico, che è il nuovo «islamofobico». Commentando l’attentato a Rushdie venerdì sera, Bill Maher ha detto una grande verità: «fobico» è il suffisso che butti lì quando non vuoi, sai, puoi discutere di un tema. Nello sport conta solo il corpo e se hai una muscolatura maschile non dovresti gareggiare con le donne. Ah, sei transfobico, con te non ci discuto, puntesclamativo).

È interessante che, come indotto dell’attentato a Rushdie, i giornali finalmente si accorgano che J.K. Rowling viene minacciata di morte. Sotto un suo tweet sull’attentato, un Carneade le ha scritto «Tu sei la prossima». Se ne sta occupando la polizia, ci ha informato Rowling, che immagino si occupi anche di quelli che l’hanno minacciata di morte per aver scritto, ohibò, che «donne» sarebbe una dicitura più appropriata, per le femmine umane adulte, rispetto a «persone che mestruano» (che viene usata da chi teme l’accusa di transfobia).

I giornali sono talmente timorosi dell’accusa di transfobia, e del suo ricatto «quindi vuoi morte le transessuali», che le minacce a Rowling finora non le avevano ritenute una notizia. Ma magari erano solo distratti, o convinti (convinzione che condivido) che quello che poi t’accoltella perlopiù non te lo anticipa sui social.

La questione è che chi ride di te, o dubita della sensatezza della tua istanza, o ritiene che se hai il cazzo tu non debba stare negli spogliatoi femminili, non ti vuole morto. Morto ti vuole chi, quando tentano di ammazzare qualcuno, ti scrive «tu sei il prossimo».

La questione è, lo ha spiegato un milione di volte proprio Rushdie, che tutto deve poter essere oggetto di scherno e di critica. E noi annuiamo gravi e diciamo certo, l’islam è brutto e cattivo perché ti appioppa la fatwa se lo irridi; ma poi facciamo titoli di giornale dolenti riferendo il grave episodio dello scrittore italiano il quale ha raccontato che, ohibò, hanno riso di lui per strada. In quanto omosessuale, ha desunto lui. Quale che sia la ragione (in quanto vestito strano, in quanto sosia del cognato antipatico di quello che rideva, in quanto Pippo Pippo non lo sa), com’è passata questa idea che la cosa più grave che ci possa accadere è che ridano di noi? Quand’è che abbiamo introiettato il regime teocratico, elevandoci al tempo stesso a dèi?

Su YouTube c’è una vecchia puntata di Question Time, talk show inglese, il cui tema è il fatto che la regina ha deciso di fare cavaliere Rushdie, dopo la fatwa. Tralasciamo chi dice che Rushdie ha offeso i musulmani, e il modo prevedibilmente tagliente in cui Christopher Hitchens demolisce tali argomentazioni. A un certo punto interviene Boris Johnson, che all’epoca è portavoce del ministero dell’istruzione. E dice che lui obietta al cavalierato su basi puramente letterarie: Rushdie scrive dei libri incomprensibili, io non riesco mai ad arrivare alla fine, perché non facciamo cavaliere Le Carré?

Fa molto ridere, ed è al tempo stesso l’obiezione più fessa e l’unica dignitosa. Fessa perché farlo cavaliere era chiaramente un gesto simbolico, di sostegno dello Stato a un tizio condannato a morte per un romanzo, un’enormità di cui allora non ci sfuggiva l’insensatezza. Nella fessaggine, Johnson non è solo; in questi giorni ho letto varie obiezioni alla difesa dei Versi satanici da parte di gente che dice: evidentemente non l’avete letto, altrimenti sapreste quant’è brutto. Se dovessimo accoltellare tutti gli autori di romanzi brutti, figli miei, ci vorrebbe un milione di posti di lavoro per arrotini.

È l’unica obiezione dignitosa perché di questo si dovrebbe parlare. Non dell’ideologia d’uno scrittore, delle sue posizioni politiche, della sua presentabilità sociale: di come siano i suoi libri. Mentre, con dieci anni di ritardo, leggevo Joseph Anton, il memoir di Rushdie sulla sua vita prima e dopo la fatwa, pensavo prima: sì, ma questa terza persona, non so mica; e poi: in effetti come facevi a tenere questo tono in prima persona. Ed era con un gran sollievo che mi accorgevo di valutarlo ancora come scrittore, e non come vittima.

Perché, a parte casi estremi di sciroccati con coltello, la cosa peggiore che fa questo nuovo schema mentale e sociale è privarti del tuo diritto a essere giudicato per lo stile, e costringerti ad arroccarti sui contenuti, e sulla tua libertà di pensarla come ti pare. È per evitarlo che Rushdie ha spesso detto di aver voluto continuare a scrivere come niente fosse accaduto (e probabilmente anche: è per questo che, quando ha scritto di quel che è accaduto, l’ha fatto con una distaccata terza persona).

Non so se potrà continuare a evitare l’attualità, forse no, e la ragione la spiega proprio lui in Joseph Anton (non ho l’edizione italiana, quindi la traduzione dilettantesca è colpa mia): «Il politico e il personale non potevano più essere tenuti separati. Non era più l’epoca di Jane Austen, che poteva scrivere la sua intera opera durante le guerre napoleoniche senza mai farne menzione, e per la quale il ruolo principale dell’esercito britannico era vestirsi in alta uniforme e far bella figura alle feste».

Il prossimo libro, Rushdie lo aveva annunciato poco prima dell’attentato. Esce a febbraio, s’intitola Victory City, e ha per protagonista una bambina indiana del quattordicesimo secolo attraverso la quale si esprime una dea. Chissà se, sotto sette strati di metafore, è già questo il romanzo in cui Rushdie usa il personale per raccontare il politico e il delirio in cui siamo precipitati, o se dobbiamo aspettare quello successivo.

Chiara Valerio per “La Repubblica” il 15 agosto 2022.

Quando nel 1989, escono i Versi Satanici di Salman Rushdie, nella traduzione di Ettore Capriolo, il direttore editoriale di Mondadori è Gian Arturo Ferrari. Lo chiamo.

Stiamo lavorando al suo prossimo libro che uscirà in novembre per Marsilio, si intitola Storia confidenziale dell'editoria italiana , e in quelle pagine, tra tante altre cose - preziose e misere, come misera e preziosa è l'editoria, frivola e capace di produrre permanenza - Ferrari racconta della vicenda di Rushdie e l'origine di quella fatwa che ha rischiato di compiersi lo scorso 12 agosto. 

I Versi Satanici è il primo libro che Rushdie pubblica con Mondadori

«Sì, i precedenti due erano usciti per Garzanti». 

Perché ha cambiato editore?

«Per i soldi, naturalmente, del tutto sproporzionati al libro». 

Molti?

«Sì. Ci viene in soccorso, quanto mai inaspettato, l'ayatollah Khomeyni che giudica il libro blasfemo e invita a reagire». 

Una condanna a morte?

«No, una esortazione a uccidere Rushdie e tutti coloro che hanno contribuito alla pubblicazione. Infatti, quando i Satanic Verses vengono pubblicati in Gran Bretagna da Penguin nell'autunno '88, si verificano agitate manifestazioni pubbliche e assalti alle librerie. Il libro viene bruciato tra grida di giubilo, che non è mai un bel vedere».

E gli editori?

«Il coraggio fisico non rientra tra le virtù richieste a chi lavora in editoria». 

Quindi?

«Peter Meyer, capo di Penguin, ritira il libro in Gran Bretagna e cancella la pubblicazione negli Stati Uniti. Lo stesso fa Naven Dumont di Kiepenheuer in Germania». 

La Germania è il paese in cui la presenza islamica è forte.

«Sì, e la situazione italiana da questo punto di vista è più semplice, ma per un altro più complessa. Non siamo un paese a forte immigrazione islamica ma abbiamo già stampato il romanzo. Rushdie e il suo agente Wylie lo sanno». 

Come fa Rushdie a saperlo?

«Io e Giancarlo Bonacina, l'editor che aveva acquisito il libro, siamo andati a Londra per mostrargli la prima copia, durante un pranzo». 

Era soddisfatto?

«Molto». 

Quindi?

«In editoria non c'è niente di puro, le intenzioni più nobili sono sempre mescolate agli interessi più bassi. Nel nostro caso non c'era dubbio che le vendite con un simile frastuono comunicativo sarebbero state grandiose».

La libertà di stampa non c'entra?

«La difesa della libertà di stampa non è una foglia di fico o uno svolazzo retorico. Chi lavora in editoria lo sa. Se si cede, se ci si fa imporre che cosa pubblicare e che cosa no, tutto si immiserisce, l'editoria perde senso ed è meglio cambiar mestiere». 

Come va il libro?

«Esaurito il primo giorno». 

Conseguenze della pubblicazione?

«La più drammatica è l'aggressione a Ettore Capriolo. Due anni dopo la pubblicazione. Una mattina di luglio, un tale che gli vorrebbe far tradurre un libro per conto dell'ambasciata iraniana, suona al citofono, Capriolo apre. L'uomo estrae un coltello e lo colpisce. Per fortuna senza ucciderlo, come era successo al traduttore giapponese». 

E lei?

«Mi danno una scorta». 

Conseguenze meno sanguinarie?

«Calvino passa alla Mondadori». 

In che senso?

«Durante un pranzo Carlo Fruttero, grande amico di Calvino, mi informa che la situazione dei diritti di Calvino si sta muovendo. Nel 1984, Calvino aveva lasciato l'Einaudi, la sua casa editrice - da autore e funzionario - per quasi quarant' anni. Era andato da Garzanti, e Garzanti, dopo la morte nel 1985, aveva pubblicato Sotto il sole giaguaro e le Lezioni americane. Con grande e duraturo successo». 

Da come racconta, sembra però che il matrimonio tra l'opera di Calvino e Garzanti sia felice.

«Sì, ma Chichita, la vedova, vuole una casa editrice che dimostri di difendere i principi di libertà in cui crede e da cui non intende derogare. La vicenda Rushdie l'ha colpita ed è rimasta impressionata dal comportamento di Wylie, che già conosceva come agente e difensore di figure quali Sontag e Roth... Non c'è bisogno di chiedersi chi sia in Italia l'editore prediletto di Wylie. L'affaire Rushdie ha fruttato a Mondadori un bel salto nella sua reputazione internazionale»

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 17 agosto 2022.

È stato un viaggio compiuto in Libano nel 2018 a cambiare per sempre Hadi Matar, il giovane di 24 anni che venerdì scorso ha inferto dieci coltellate allo scrittore angloindiano Salman Rushdie, ferendolo gravemente. «Al suo ritorno era introverso, diverso da com' era prima. Era diventato un fanatico», racconta sua madre Silvana Fardos, 46 anni. Anche se non sa spiegarsi cosa sia esattamente successo: «Cominciò a sgridarmi, lamentandosi di non aver ricevuto un'educazione religiosa da piccolo e chiedendomi perché mi preoccupavo più della sua educazione scolastica che della sua anima», ha raccontato al quotidiano inglese Daily Mail.

Spiegando che nella casetta a due piani di Fairview, New Jersey, i loro rapporti erano minimi: «Viveva nel sottoscala, interdetto a me e alle sorelle. Lo vedevamo poco, dormiva di giorno, mangiava di notte. Ora se la vedrà da solo. Io ho due figli minori di cui preoccuparmi, spaventati e arrabbiati per ciò che ha combinato il fratello». 

Separata dal marito dal 2004, era stata proprio Silvana a convincere il ragazzo a raggiungere il padre, tornatosene in Libano. Ma il viaggio era andato male: «Si sentiva molto solo con il padre, all'inizio chiamava chiedendo di tornare. Ma rimase lì 4 settimane. Al rientro si chiuse in camera e da allora ha sempre vissuto isolato». 

Se in quel mese qualcuno lo abbia adescato e radicalizzato, Fardos non lo sa: «Il più del tempo mi ignorava». Lei è convinta che non sapesse niente dello scrittore: «Non credo abbia letto i suoi libri. E nessuno di noi aveva mai sentito parlare di Rushdie, prima». Insomma, l'Fbi in casa non se l'aspettava: «Ero al lavoro, mi ha chiamato mia figlia, terrorizzata». Di rapporti con l'Iran, neanche a parlarne: «Mai avuto a che fare con iraniani».

In effetti, nonostante i giornali conservatori di Teheran abbiano esaltato l'attacco, tramite il ministero degli Esteri gli ayatollah hanno categoricamente negato ogni legame con Matar: «Non lo conosciamo». Aggiungendo però che Rushdie «coi suoi insulti si è esposto all'ira di tutti i musulmani» (affermazione «ripugnante» ha commentato il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price).

Chiave sembra essere proprio Yaroun: cittadina conservatrice dove vive suo padre, al confine con Israele, considerata avamposto di Hezbollah, con le foto dei "martiri" lungo le strade e gli stendardi gialli dell'organizzazione un po' ovunque. La famiglia paterna - ci ha provato il Guardian - tace. E pure il sindaco che aveva detto che il ragazzo lì «non ci aveva mai messo piede». Se qualcuno l'ha "arruolato" o se Hadi ha fatto tutto da solo non si sa. Ma certo al centro di Yaroun troneggia un murales con il volto del generale iraniano ucciso da un drone americano Qassem Soleimani. La stessa effige trovata nel suo cellulare. 

E ora leggiamo e riportiamo in classifica Salman Rushdie, figlio della mezzanotte delle religioni. Lo scrittore angloindiano accoltellato negli Usa non è solo un autore perseguitato dai musulmani intolleranti. È un grande della letteratura. Da riscoprire romanzo dopo romanzo. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 17 Agosto 2022.

Alla violenza si risponde con la cultura. All’intolleranza con la conoscenza. Al terrorismo con la civiltà. L’attentatore di Chautauqua, nello stato di New York, ha riacceso le luci su Salman Rushdie, uno dei migliori scrittori viventi, che la fatwa lanciata nel 1989 dall’ayatollah Khomeini non solo ha condannato a morte, ma ha costretto nel recinto degli scrittori famosi perché perseguitati: un recinto che a Rushdie, un vero genio della letteratura, sta particolarmente stretto. E allora noi facciamogli sentire il calore della nostra ammirazione di lettori. Leggiamo, prendiamo in prestito, riportiamo nelle classifiche di vendita i suoi bellissimi romanzi.

Mentre lo scrittore si rimette nel suo letto di ospedale e mentre l’attentatore (che si è dichiarato “non colpevole” perché evidentemente sente di aver obbedito a un dovere religioso) affronta un processo che cercherà di dare una punizione da XXI secolo ad un crimine medievale, noi riprendiamoli in mano, i libri di Rushdie. A partire da quel “Figli di mezzanotte” che molti anni prima della fatwa lo aveva fatto conoscere come uno dei migliori autori della sua generazione. E che oggi sembra avere un titolo profetico: perché il genio letterario di Rushdie si nutre della notte buia dello scontro tra religioni, dell’intolleranza che ha messo e mette ancora oggi uno contro l’altro, nell’India in cui è nato, indù e musulmani. Uscito nel 1981, ha vinto in quell’anno il Booker Prize e in seguito per due volte il “Booker dei Booker”, record che porta a poterlo definire il più bel romanzo del Novecento in lingua inglese. È un mix geniale di fiaba e storia: protagonisti sono i mille e uno bambini nati nel momento esatto della partizione tra India e Pakistan decisa dall’impero britannico, alla mezzanotte del 15 agosto 1947. E il romanzo riesce a far vivere al lettore una critica spietata del colonialismo europeo mentre segue le avventure di questa nidiata di supereroi belli, forti, invincibili e capaci di viaggiare nel tempo.

La stessa capacità di mescolare temi scottanti e narrativa fantastica, Rushdie la mostra nei “Versi satanici”, che alterna le vicende di due musulmani sopravvissuti a un disastro aereo a una ricostruzione della religione islamica centrata sui versetti del Corano a cui si riferisce il titolo. L’Iran reagì al romanzo condannando a morte Rushdie e invitando tutti i musulmani a sentirsi autorizzati a eseguire la sentenza: una reazione medievale che apparve da subito molto pericolosa, come fu confermato dagli attentati di cui furono vittima i traduttori del libro in Giappone, dove Hitoshi Igarashi fu ucciso, e persino in Italia (Ettore Capriolo fu ferito gravemente a Milano). Anche uno dei suoi editori, il norvegese William Nygaard, fu ferito in un attentato.

Costretto a una vita sotto scorta, Rushdie ha continuato a scrivere moltissimo, anche se non ha più toccato temi scottanti che riguardassero la sua religione d’origine. A volte le sue trame sono state giudicate troppo cervellotiche, e i suoi personaggi troppo strani per sembrar veri: però passare da un qualsiasi romanzo di Rushdie a quello di un autore normale dà l’impressione di uscire da un mondo a tre dimensioni per entrare in un mondo che ne ha soltanto due. “L’ultimo sospiro del Moro”, il primo romanzo scritto dopo la fatwa, ricostruisce i rapporti tra India e Spagna con una malinconia chiaramente autobiografica. “La terra sotto i suoi piedi”, a cui ha reso omaggio una canzone degli U2, rilegge il mito di Orfeo ed Euridice nella storia d’amore tra due popstar. “Shalimar il clown” è un’incursione nella spy story dalla trama intricatissima, “L’incantatrice di Firenze” un omaggio all’Italia del Rinascimento, alla sua cultura e ai suoi grandi viaggiatori, “La caduta dei Golden” un’epopea di nuovi ricchi dalle radici oscure nella New York di oggi.

Il romanzo più recente ha una trama meno pirotecnica e personaggi più crepuscolari. Si intitola “Quichotte” ma il protagonista non è l’eroe di Cervantes: è il personaggio ideato da un mediocre scrittore di spy stories. E lo scrittore si ritrova ad affrontare una serie di imprevisti proprio mentre inventa per il suo personaggio avventure picaresche che, come accadeva nel romanzo di Cervantes, lo portano in giro per gli Stati Uniti in cerca di prove che lo rendano degno della sua amata. Un omaggio alla grande letteratura di ieri firmato da una grande della letteratura di oggi: la scorpacciata di libri in sostegno di Salman Rushdie può cominciare da qui.

DA PAUL AUSTER A GAY TALESE: GLI SCRITTORI DI NEW YORK SCENDONO IN CAMPO PER SALMAN RUSHDIE. Anna Lombardi per repubblica.it il 17 agosto 2022.  

S’incontreranno alle 11 di venerdì mattina sulle scale della New York Public Library, la biblioteca nel cuore di Manhattan con i due celebri leoni di pietra a far da guardia alle porte, per leggere brani scelti dalle opere di Salman Rushdie.

Un appuntamento organizzato dal Pen America – l’organizzazione no-profit che opera per difendere e celebrare la libertà di espressione negli Stati Uniti e nel mondo di cui proprio lo scrittore angloindiano è stato a lungo presidente – in collaborazione con Penguin Random House e la NYPL esattamente una settimana dopo l’accoltellamento dello scrittore sul palco dalla Chautauqua Institution: e alla stessa ora.

«Perché quel giorno a Salman è stato impedito di parlare. E ora tutti gli scrittori del mondo devono prenderne il testimone» ti dice Elizabeth Levy, la scrittrice di libri per bambini che con la collega Patricia Lakin per prima ha dato linfa all’evento, ipotizzandolo davanti ad un hamburger vegetariano nel cortile di una brownstone nell’Upper West Side alla vigilia di Ferragosto (cui era presente anche chi vi scrive) e subito dando via a un tam tam già il giorno dopo che in poche ore si è concretizzato in una prima risposta eloquente.

Dal celebrato autore de la Trilogia di New York Paul Auster all’ex direttrice del New Yorker Tina Brown, dall’autore di Questo bacio vada al mondo intero Colum McCann, fino al pioniere del New Journalism Gay Talese, in tanti hanno risposto alla chiamata: accettando di alternarsi sulla scalinata della biblioteca per leggere appunto brani di libri dell’amico ferito, Versi Satanici compresi. 

«Gli scrittori di tutto il mondo esprimono solidarietà a Salman Rushdie: e celebrano i suoi straordinari successi letterari, indomito coraggio, e l’instancabile impegno in favore della libertà d’espressione e degli autori in pericolo ovunque» scrivono infatti nel comunicato che annuncia l’evento. 

Invitando i lettori ad affacciarsi numerosi sulla Fifth Avenue dove appunto troneggia la Library per dimostrare sostegno e affetto a Rushdie «anche con cartelli fatti in casa». L’intero evento sarò comunque trasmesso in livestreming e potrà essere seguito via Twitter. 

Invitando anche chi non potrà essere a Manhattan quel giorno a dimostrare sostegno ugualmente, organizzando pubbliche letture dei brani di Rushdie, ovunque si voglia: anche da soli. Per poi postare i propri contributi con l’hashtag #StandWithSalman avendo la cura di taggare @PENamerica: «Inondiamo la rete con le parole di Salman» ti dice ancora Liz Levy: «Non diamola vinta a chi ci vuol mettere a tacere».

Dagospia il 17 agosto 2022. Prima parte del racconto del 2012 “The Disappeared. How the fatwa changed a writer’s life” di Salman Rushdie pubblicata da “la Stampa”

Più tardi, quando il mondo gli esplose attorno, si irritò con sé stesso per aver dimenticato il nome della giornalista della BBC che gli aveva detto che la sua vita di sempre ormai era finita e che per lui stava per iniziare un'esistenza nuova, più cupa. Gli aveva telefonato a casa, sulla sua linea privata, senza spiegargli in che modo avesse ottenuto il numero. «Che cosa si prova - gli chiese - a sapere che è appena stato condannato a morte dall'Ayatollah Khomeini?». 

A Londra era un martedì di sole, ma quella domanda portò il buio. Senza sapere davvero che cosa stesse dicendo, rispose soltanto: «Non è una bella sensazione». Questo è quello che disse, ma stava pensando: sono un uomo morto. Si chiese quanti giorni gli restassero, e immaginò che la risposta si potesse leggere sulle dita di due mani al massimo. Riagganciò la cornetta e corse giù per le scale dalla sua stanza di lavoro, in cima alla stretta casa a schiera di Islington dove viveva. Le finestre del soggiorno avevano le persiane di legno e, assurdamente, le sprangò con il chiavistello. Poi chiuse a chiave la porta di ingresso.

Era San Valentino, ma da qualche tempo non andava d'accordo con sua moglie, la scrittrice americana Marianne Wiggins. Cinque giorni prima, lei gli aveva detto di sentirsi infelice in quel matrimonio, di non sentirsi più bene accanto a lui. Benché fossero sposati soltanto da un anno, anche lui percepiva che quel matrimonio era stato un errore. 

In quel momento lei si mise a fissarlo mentre lui si muoveva nervosamente per casa, chiudendo le tende, controllando i chiavistelli delle finestre, con tutto il corpo elettrizzato dalla notizia, come se una corrente elettrica gli stesse passando attraverso, e dovette spiegarle quello che stava succedendo. Lei reagì bene e iniziò a discutere di quello che dovevano fare. Usò il pronome noi. Fu un gesto coraggioso.

Davanti casa, arrivò una macchina inviata dalla Cbs Television. Aveva un appuntamento agli American network' s studios, a Bowater House, Knightsbridge, per comparire live, grazie al collegamento via satellite, nel suo show mattutino. «Dovrei andare, adesso» disse. «É un programma dal vivo. Non posso non presentarmi». Più tardi, quella stessa mattina, presso la Chiesa greco-ortodossa sulla Moscow Road a Bayswater, doveva svolgersi il servizio funebre del suo amico Bruce Chatwin, morto di Aids. Sua moglie gli chiese: «E per il funerale, cosa pensi di fare?». 

Non aveva una risposta da darle. Aprì la porta d'ingresso, uscì fuori, entrò in macchina, e lo condussero via. Anche se in quel momento non lo sapeva - il momento in cui usciva di casa di solito non era così carico di significato - non avrebbe fatto ritorno in quella casa, al 41 di St. Peter' s Street, dove aveva abitato per cinque anni circa, se non tre anni più tardi, quando ormai non gli sarebbe neanche più appartenuta. Negli studi della CBS, la notizia del giorno era lui. In redazione e sui vari monitor la gente stava già usando quella parola che ben presto si sarebbe sentito pendere al collo come una pietra: fatwa. 

«Comunico al glorioso popolo musulmano di tutto il mondo che l'autore del libro Versi satanici, che è contro l'Islam, il Profeta e il Corano, e tutti quelli che sono coinvolti nella sua pubblicazione e consapevoli del suo contenuto, sono condannati a morte. Chiedo a tutti i musulmani di giustiziarli ovunque li trovino». 

Qualcuno gli consegnò il testo stampato mentre lo accompagnavano in studio per l'intervista. Il suo vecchio sé avrebbe voluto discutere della parola "condannato". Quella che aveva in mano non era una condanna emessa da un tribunale che lui riconosceva o che aveva una qualche giurisdizione su di lui.

Sapeva anche, però, che le abitudini del suo vecchio sé non sarebbero più servite. Adesso era una persona nuova. Era una persona nell'occhio del ciclone, non più il Salman che conoscevano gli amici, ma il Rushdie autore dei Versi satanici, titolo acutamente distorto dall'omissione dell'articolo iniziale: "I" "I versi satanici" era un romanzo. "Versi satanici" erano versi satanici, e lui ne era l'autore satanico. Quanto era facile cancellare il passato di un uomo e costruirne una nuova versione, una versione sconvolgente, contro la quale sembrava impossibile lottare. 

Osservò i giornalisti che lo stavano fissando e si chiese se quello fosse il modo in cui la gente guardava gli uomini portati al patibolo o sulla sedia elettrica. Uno dei corrispondenti stranieri gli si avvicinò per dimostrarsi cordiale. Chiese a quell'uomo che cosa pensasse della dichiarazione di Khomeini. Era soltanto un plateale sfoggio di retorica o qualcosa di davvero pericoloso?

«Oh, non si preoccupi troppo, Khomeini condanna a morte il presidente degli Stati Uniti ogni venerdì pomeriggio!», rispose il giornalista. In onda, quando gli fu chiesto di rispondere a quella minaccia, disse: «Vorrei aver scritto un libro più critico». Fu orgoglioso, in quel momento e sempre, dopo di allora, di averlo detto. Era la pura verità. 

Non pensava che il suo libro fosse critico dell'Islam in modo particolare, ma come disse alla televisione americana quella mattina, una religione i cui leader si comportavano in quel modo probabilmente avrebbero potuto usare un po' di spirito critico. Quando l'intervista terminò, gli dissero che sua moglie aveva telefonato. Lui chiamò casa e lei disse: «Non tornare. Ci sono almeno duecento giornalisti ad attenderti sul marciapiede». 

«Andrò all'agenzia» disse. «Prepara una borsa e vediamoci lì». Il suo agente letterario, Wylie, di Aitken & Stone, aveva gli uffici a Chelsea, in un edificio con la facciata di stucchi bianchi su Fernshaw Road. Fuori non c'erano giornalisti in attesa: evidentemente, la stampa aveva ritenuto improbabile che facesse visita al suo agente proprio quel giorno.

Quando entrò nell'edificio, però, tutti i telefoni stavano squillando e ogni telefonata riguardava lui. Gillon Aitken, il suo agente britannico, lo scrutò con enorme stupore. 

Si rese conto di non poter pensare d'anticipo, di non avere idea di come sarebbe diventata la sua vita da quel momento in poi. Riusciva a concentrarsi soltanto sull'immediato e l'immediato era il funerale di Bruce Chatwin. «Mio caro - disse Gillon - credi proprio di doverci andare?». Bruce era stato un suo caro amico. «Chi se ne fotte - disse - andiamo».

Marianne arrivò, con un aspetto leggermente sconvolto in viso, seccata di essere stata presa d'assalto dai giornalisti quando era uscita di casa.

Non disse granché. Nessuno di loro disse granché. Entrarono in macchina, una Saab nera, e lui guidò attraversando il parco fino a Bayswater, con Gillon che aveva un'espressione preoccupata in viso, e il suo lungo e languido corpo era ripiegato sul sedile posteriore. «Sarai sempre un eroe, ma non sarai mai un supereroe». 

Sua madre e la più giovane delle sue sorelle vivevano a Karachi, in Pakistan. Che cosa sarebbe accaduto loro? La sorella di mezzo aveva preso da tempo le distanze dalla famiglia, viveva a Berkeley in California. Sarebbe stata al sicuro lì? La sorella maggiore Sameen, la sua "gemella irlandese", si trovava a Wembley con la sua famiglia, non lontana dallo stadio. Che cosa andava fatto per proteggerle? Suo figlio Zafar, di appena nove anni e otto mesi, si trovava con la madre Clarissa nella loro casa nei pressi di Clissold Part. In quel momento, il decimo compleanno di Zafar sembrava molto lontano, lontanissimo.

Il servizio funebre alla Cattedrale di Santa Sofia dell'Arcidiocesi di Thyateira e Gran Bretagna - costruita e sontuosamente decorata un secolo e dieci anni prima per assomigliare a una delle grandi cattedrali della vecchia Bisanzio - era tutto un chiassoso e misterioso parlottare in greco. Bla-bla-bla Bruce Chatwin, intonavano i preti, Chatwin bla-bla. Si alzarono in piedi, si sedettero, si inginocchiarono, si alzarono e si risedettero. L'aria era satura dell'odore del fumo santo. 

Lui e Marianne erano seduti accanto a Martin Amis e sua moglie Antonia Phillips. «Siamo in pensiero per te» gli disse Martin abbracciandolo. «Io sono in pensiero per me» rispose lui. Bla Chatwin bla Bruce bla. Paul Theroux era seduto nella panca dietro la sua. «Immagino che la settimana prossima torneremo qui per te, Salman», gli disse.

Quando era arrivato, sul marciapiedi fuori dalla chiesa c'era una coppia di fotografi. Di solito, gli scrittori non attiravano folle di paparazzi. A mano a mano che il servizio funebre proseguiva, tuttavia, i giornalisti iniziarono a entrare in chiesa. Al termine della funzione, si fecero strada verso di lui. Gillon, Marianne e Martin cercarono di creare dei diversivi. 

Un tipo grigio ostinato (abito grigio, capelli grigi, faccia grigia, voce grigia) solcò la calca, gli spinse vicino un registratore e gli formulò l'ovvia domanda. «Mi scusi - rispose lui - sono qui per il funerale di un caro amico. Non mi sembra opportuno fare interviste». «Non capisco», disse il tipo grigio, sconcertato. «Sono del Daily Telegraph. Mi hanno mandato qui apposta». «Gillon, ho bisogno dei tuo aiuto», disse lui. Gillon si sporse sul giornalista con tutta la sua incredibile altezza e con fermezza, e con l'accento più maestoso che riuscì a usare gli disse: «Fuori dai piedi!».

«Non può rivolgersi a me in questo modo» disse l'uomo del Telegraph. «Ho frequentato università private». Dopo, non ci furono altre sceneggiate. Quando uscì su Moscow Road, i giornalisti sciamavano come fuchi alla ricerca della loro regina, i fotografi si arrampicavano gli uni sulle spalle degli altri per formare montagnole vacillanti e guizzanti di flash. Se ne stava lì, sbattendo le palpebre senza fissare nessuna direzione precisa, perso per un attimo. Non c'era possibilità alcuna che riuscisse a camminare fino alla macchina, parcheggiata a un centinaio di metri più giù lungo la strada, senza essere seguito dalle telecamere e dai microfoni e da uomini che avevano frequentato vari tipi di università ed erano stati mandati lì appositamente.

Fu salvato dal suo amico Alan Yentob, filmaker e senior executive presso la Bbc. L'automobile della Bbc di Alan si accostò al marciapiede, proprio di fronte alla chiesa. «Sali», disse e così li condussero lontano dai giornalisti schiamazzanti. Girarono attorno a Notting Hill per un po', fino a quando la ressa fuori dalla chiesa non si disperse e poterono tornare dove era parcheggiata la Saab. Lui e Marianne entrarono in macchina e all'improvviso si ritrovarono soli. «Dove andiamo?», chiese lui, anche se tutti e due conoscevano già la risposta. 

Da qualche tempo Marianne aveva preso in affitto un piccolo appartamento nel seminterrato di un edificio sull'angolo sudovest di Lonsdale Square, a Islington, non lontano dalla casa di St. Peter Street, ufficialmente per usarlo per lavoro, ma in verità a causa delle crescenti tensioni tra loro. Pochissime persone erano a conoscenza del fatto che lei aveva quell'appartamento. Adesso avrebbe potuto offrire loro lo spazio e il tempo di fare il punto della situazione e prendere delle decisioni. Guidarono verso Islington in silenzio. Sembrava che non ci fosse niente da dire. 

Era metà pomeriggio, ma quel giorno le loro difficoltà coniugali erano irrilevanti. Quello stesso giorno c'erano folle di persone che sfilavano per le strade di Teheran indossando maschere di carta con il suo volto e con gli occhi svuotati, così che lui sembrava uno dei cadaveri del film Gli uccelli, con le loro cavità oculari annerite, insanguinate, svuotate a colpi di becco dai volatili. Quello era il tema del giorno, quel giorno: il suo Valentino, tutt' altro che divertente, era indossato da quegli uomini barbuti, quelle donne velate, e quell'anziano uomo letale, agonizzante nella sua stanza, faceva la sua ultima scommessa per una sorte di gloria assassina. 

Adesso che la giornata scolastica si era conclusa, doveva incontrare Zafar. Chiamò la sua amica Pauline Melville e le chiese di tenere compagnia a Marianne mentre era via. Pauline - attrice dallo sguardo vivace, dai gesti teatrali, dal cuore affettuoso, di sangue misto, piena di storie sulla Guyana - era stata sua vicina di casa a Highbury Hill all'inizio degli anni Ottanta. Arrivò subito, senza proferire parola, anche se era il suo compleanno.

Quando arrivò a casa di Clarissa a Zafar, la polizia era già lì. «Eccola», disse un agente.

«Ci stavamo chiedendo dove fosse finito».

«Che cosa sta succedendo, papà?». Suo figlio aveva uno sguardo che non dovrebbe mai comparire sul volto di un bambino di nove anni. «Gli stavo appunto dicendo - disse con tono brioso Clarissa - che ti sorveglieranno accuratamente fino a quando tutto questo non si sgonfierà. Andrà tutto bene». Poi abbracciò il suo ex marito come non aveva mai fatto nei cinque anni da quando si erano separati. 

«Dobbiamo sapere quali potrebbero essere i suoi piani per l'immediato», disse un agente.

Prima di rispondere, lui rifletté. «Probabilmente andrò a casa» disse infine, e le posture irrigidite degli uomini in uniforme confermarono i suoi sospetti. «No, signore, le sconsiglierei di farlo». Allora riferì loro, come fin dall'inizio sapeva che avrebbe fatto, del seminterrato di Lonsdale Square dove lo stava aspettando Marianne. «Si tratta di un luogo che in genere lei non frequenta, signore?». «Esatto, agente».

«D'accordo. Quando rientra, signore, per stasera non esca più, se non le dispiace. Sono in corso alcune riunioni e domani verrà informato delle decisioni prese, prima possibile. Fino ad allora, dovrebbe stare chiuso in casa». Parlò con suo figlio, lo strinse a sè, decidendo all'istante che avrebbe raccontato al bambino il più possibile, dando a quanto stava accadendo la sfumatura più positiva che potesse; e decidendo che il modo di aiutare Zafar ad affrontare la situazione era farlo sentire quanto più possibile a conoscenza di essa, dargli una versione genitoriale alla quale potesse aggrapparsi quando l'avrebbero bombardato con ben altre versioni nel cortile della scuola o in televisione. «Tornerai a trovarmi domani, papà?».

Scosse la testa. «Però ti chiamerò - gli disse - Ti telefonerò ogni sera alle sette. Se tu dovessi andare altrove- disse a Clarissa - per favore lasciami un messaggio in segreteria telefonica a casa e dimmi dove ti dovrò chiamare». Era l'inizio del 1989. Parole come pc, telefono cellulare, internet, WiFi, sms, e-mail, erano ancora da inventare o molto nuove. Lui non possedeva né un computer né un cellulare. Però possedeva una casa, e in quella casa c'era una segreteria telefonica alla quale lui poteva telefonare per 'interrogarla', nuovo uso di una vecchia parola, e ottenere, anzi no, 'recuperare' i suoi messaggi. «Le sette in punto - ripeté - Ogni sera, d'accordo?».

Zafar annuì, solennemente. «D'accordo, papà». «Sì, figlio, è vero. Tu sei stato adottato». Guidò verso casa, solo in auto. Le notizie alla radio erano tutte pessime. Khomeini non era soltanto un religioso molto potente. Era anche un capo di stato, che aveva ordinato l'omicidio di un cittadino di un altro stato, sul quale non aveva alcun tipo di giurisdizione. Oltretutto, al suo servizio aveva parecchi assassini, che in precedenza erano già stati usati contro i "nemici" della Rivoluzione iraniana, compresi quelli che vivevano fuori dall'Iran. 

Una volta Voltaire aveva detto che per uno scrittore sarebbe stata una buona idea vivere vicino a una frontiera internazionale così che se mai avesse fatto arrabbiare degli uomini potenti, gli sarebbe bastato attraversare la frontiera per essere al sicuro. Voltaire stesso lasciò la Francia per l'Inghilterra, dopo aver offeso un aristocratico, il Chevalier de Rohan, e rimase in esilio quasi tre anni.

Tuttavia, vivere in un Paese diverso da quello dei propri persecutori non era più garanzia di sicurezza. Ormai esistevano gli "interventi extraterritoriali". In parole povere, ti venivano a cercare. La notte a Lonsdale Square fu fredda, buia, e chiara. In piazza c'erano due agenti. Quando lui scese dalla macchina, finsero di non accorgersi di lui. Erano di pattuglia nel quartiere, perlustrarono la strada accanto all'appartamento per un centinaio di metri in ogni direzione. Lui sentì i loro passi anche mentre si trovava all'interno. 

Si rese conto, in quello spazio dove risuonava il rumore dei passi, di non riuscire più a capire la propria vita o quello che la sua vita avrebbe potuto diventare. E pensò, per la seconda volta quel giorno, che avrebbe potuto non esserci molta più vita da comprendere.

Marianne si coricò presto. Lui le si infilò accanto nel letto, lei si girò verso di lui e si abbracciarono, rigidamente, come la coppia infelicemente sposata che erano. Poi, distesi separatamente e ciascuno con i suoi pensieri, non riuscirono ad addormentarsi.

"Il capo dell'Isis ucciso in battaglia". È giallo. Storia di Fausto Biloslavo su Il Giornale l’1 dicembre 2022.

Il califfo, Abu al-Hassan Al-Qurashi, dopo meno di un anno alla guida dello Stato islamico, è stato ucciso in battaglia. Almeno così sostiene il portavoce dell'Isis. «Sono dispiaciuto di annunciare ai musulmani e ai soldati del Califfato islamico la morte del principe dei credenti durante una battaglia in cui stava combattendo i nemici di Allah», ha dichiarato Abu Omar al-Mohajer con un audio messaggio su Telegram. E subito è stato annunciato il nome del successore, Abu al-Hussain al-Hussaini al-Qurashi, nome di battaglia che nasconde la sua vera identità. Il titolo «Qurashi» si riferisce alla tribù di Maometto, profeta dell'Islam. È il quarto califfo dopo Abu Bakr al Baghdadi, fondatore dell'Isis, ucciso come il successore, Abu Ibrahim Hashimi al Qurashi, in blitz americani nel nord ovest della Siria.

La notizia della morte in battaglia dell'iracheno Abu al-Hassan Al-Qurashi, probabilmente fratello maggiore di al Baghdadi, sembrerebbe smentire la notizia del suo arresto a maggio in Turchia.Il Comando Centrale Americano in una nota fa sapere che al Qurashi è stato ucciso a metà ottobre «dall'esercito libero siriano nella provincia di Daraa». In pratica gli Stati Uniti chiariscono che non sono stati lor.

La nomina del quarto califfo fa pensare che Abu al-Hassan Al-Qurashi sia morto veramente, ma i suoi giustizieri potrebbero essere una sorpresa. La Casa Bianca «accoglie con favore» la notizia senza confermarla e tantomeno attribuendosi la paternità. «È un bene che un altro leader dell'Isis non sia più sulla faccia della Terra» ha commentato il portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale, John Kirby.

Lo scorso mese, lo Stato islamico aveva rivendicato l'attacco a un santuario a Shiraz, in Iran, 15 vittime. I sunniti estremisti del Califfato considerano gli sciiti nemici giurati e traditori dell'Islam. Il gruppo aveva già colpito obiettivi di alto valore in Iran come il parlamento e la tomba dell'ayatollah Khomeini. Dopo la strage di Shiraz il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha promesso vendetta.

Anche se i califfi muoiono velocemente e l'Isis non controlla più vasti territori fra Siria e Irak è sempre una minaccia anche in altri paesi come l'Afghanistan. Ieri almeno 15 bambini sono saltati in aria in una scuola coranica nel nord del paese. La bomba potrebbe essere stata piazzata dall'Isis.

Giordano Stabile per "la Stampa" l’1 Dicembre 2022.

Sono lontani i toni epici del discorso di Abu Bakr al-Baghadi dalla moschea Al-Nouri di Mosul. Il califfato era appena risorto, sembrava inarrestabile in quell'estate del 2014. Poi è stato schiacciato, a fatica, in cinque anni di battaglie che hanno devastato la Mesopotamia, distrutto intere città e alla fine cancellato la macchia nera fra Siria e Iraq.

Al-Baghdadi è stato braccato e poi ucciso dai Navy Seal nel suo rifugio, una modesta casa a due piani al confine con la Turchia, il 27 ottobre 2019. Il califfato, non più territorio organizzato e governato nel segno della più feroce delle sharia, è diventato virtuale. Propaganda sul Web e cellule nel deserto, con metastasi più o meno attive nel Maghreb, Corno d'Africa, fino al Mozambico.

Qualche migliaio di irriducibili agli ordini della «guida dei credenti», uno dei titoli del capo dell'Isis o meglio dello Stato islamico. Guide sempre più evanescenti però. Dopo il primo, anche il secondo, e adesso il terzo califfo, sono stati uccisi. Ieri i vertici ne hanno nominato un quarto.

Prima un turkmeno che aveva assunto il nome di Abu Ibrahim al-Hashemi al-Qurashi, in riferimento alla tribù e alla famiglia stessa del Profeta. La «mente organizzativa» durante l'ascesa di Al-Baghdadi, capace di attrarre decine di migliaia di jihadisti da tutto il mondo islamico, fruttare il contrabbando di petrolio e beni archeologici per rimpinguare la casse a Mosul e Raqqa e condurre la guerra santa contro tutti: americani, russi, iraniani.

Il secondo califfo ha resistito per due anni mezzo, braccato dalle forze speciali americane. Prima nel deserto, poi in quell'angolo fra Siria e Turchia, dove aveva trovato la sua fine, poco gloriosa, il suo predecessore. Anche Al-Qurashi è stato circondato nel suo rifugio, assieme ai famigliari, e alla fine si è fatto esplodere per non farsi catturare.

Poco dopo è arrivato il terzo, Abu al Hassan al-Hashimi al-Qurashi, stesso riferimento alla tribù e alla famiglia del Profeta, e stessa fine, dopo un anno e mezzo al comando. I servizi iracheni avevano accennato alla sua morte nelle settimane scorse, ieri c'è stato l'annuncio ufficiale. Anche la Casa Bianca ha confermato: «Siamo contenti che non ci sia più», ha detto il portavoce John Kirby.

L'ultimo califfo è stato ucciso nel Sud della Siria, da ribelli alleati degli Usa. Il quarto, senza molta fantasia, si chiama Abu al-Hussein al-Husseini al-Quraishi A differenza delle altre volte, l'Isis ha annunciato oggi la nomina del successore in concomitanza con la diffusione della notizia della morte del predecessore, senza lasciare spazio a voci sulle lotte di potere ai vertici dell'organizzazione.

Che resta al lumicino ma nutre una speranza. Una prossima invasione turca nel Nord della Siria, dove Recep Tayyip Erdogan è deciso a dare il colpo di grazia alle Forze democratiche siriane, cioè le Ypg curde, protagoniste della liberazione di Raqqa. I guerriglieri hanno spostato forze verso Kobane, roccaforte minacciata. E la sorveglianza nell'immenso campo di Al-Hol, dove sono rinchiusi jihadisti prigionieri e migliaia di donne e bambini, è già allentata.

Ecco chi ha ucciso l’ultimo leader dell’Isis. Mauro Indelicato il 3 Dicembre 2022 su Inside Over.  

Mercoledì sera sui canali social del califfato è stata diffusa la notizia della morte di Abu al Hasan al Hashimi al Qurashi. Secondo gli stessi islamisti, si trattava del loro capo. Aveva preso il posto di Abu al Hussein al Hussayni al Qurashi, ucciso in un blitz delle forze Usa nel nord della Siria a febbraio. Una storia controversa quella di Abu al Hasan. Discussa la sua identità, misteriosa la sua scalata all’interno dell’Isis.

Ma è stata un mistero anche la sua morte. A maggio il presunto leader dello Stato Islamico era stato dato per arrestato dalle forze turche a Istanbul. Non si è però avuta alcuna conferma. Poi, subito dopo la diffusione della notizia relativa alla sua uccisione, sono emersi alcuni dettagli apparentemente contraddittori: da Washington infatti, fonti di intelligence Usa hanno dichiarato di ritenere effettivamente morto Abu al Hasan, ucciso da forze ribelli siriane del Freedom Syrian Army (Fsa) nel sud della Siria. Una zona però quest’ultima da anni non più controllata dalla sigla in questione. Come sono andate quindi realmente le cose?

Il blitz di ottobre

C’è un altro dettaglio importante specificato dall’intelligence Usa: il leader dell’Isis non è morto nel giorno dell’annuncio della sua uccisione. Al contrario, Abu al Hasan sarebbe stato eliminato non prima di novembre, in un blitz avvenuto nella provincia meridionale di Daraa, in Siria. Forse la data più plausibile è una compresa tra il 10 e il 20 ottobre. Il presunto capo dell’Isis avrebbe fatto la stessa fine dei suoi più illustri predecessori: così come Abu Bakr Al Baghdadi nell’ottobre 2020 e Al Qurayshi nello scorso mese di febbraio, Abu al Hasan si sarebbe fatto esplodere non appena convinto di essere braccato dalle forze avversarie.

Ma da chi, nello specifico? É qui, come detto, che la ricostruzione statunitense rischia di entrare in contraddizione. Gli Usa hanno specificato che il blitz è stato effettuato da forze dell’Fsa. Queste ultime quindi avrebbero individuato il nascondiglio di Abu al Hasan nelle campagne attorno la cittadina di Jassem, non lontano da Daraa e dal confine con la Giordania. La sigla Fsa però non è più presente in zona da molto tempo. Con questa sigla venivano indicati, all’inizio della guerra in Siria, i gruppi ribelli anti Assad. Gruppi poi “inghiottiti” dalle forze più estremiste e spariti sotto i colpi del Fronte Al Nusra, la filiale locale di Al Qaeda, e dell’Isis. Gli unici territori considerati in mano a milizie legate all’Fsa sono quelli del nord della Siria, controllati da gruppi filoturchi addestrati da Ankara in funzione anti curda. Si tratta quindi di altre fazioni, diverse da quelle entrate in scena a inizio conflitto.

La situazione nella zona del blitz

La provincia di Daraa è stata una delle prime a essere coinvolta dalla guerra civile. É qui che nel marzo del 2011 sono scoppiate le prime proteste contro il governo di Assad, convogliate poi nel conflitto tutt’ora in corso. Per diversi anni la città di Daraa è stata divisa in due: da una parte c’erano i quartieri controllati dai governativi, dall’altro quelli invece in mano all’Fsa. Uno stallo durato parecchio tempo. Anche nel resto della provincia per lungo tempo la divisione tra governativi e anti governativi è stata ben evidente. La situazione poi qui è rientrata con la mediazione dei russi.

Le forze di Mosca, impegnate direttamente a sostegno di Assad dal 2015, hanno portato avanti una serie di trattative per il reintegro dei gruppi ex Fsa tra i ranghi governativi. Trattative difficili, ma in gran parte riuscite. Dal 2019 in poi, Daraa viene ritenuta interamente nelle mani di Damasco. Anche se, ad accordi firmati, non sono mancati scontri interni tra ex rivali. Ad ogni modo, la cittadina di Jassem risulta pienamente sotto controllo del governo centrale. Impossibile quindi, come sottolineato dalle fonti Usa riprese anche dai media panarabi, che il blitz contro il leader dell’Isis possa essere stato portato avanti dai ribelli siriani.

Molto probabilmente l’intelligence Usa si è voluta riferire a gruppi attivi nella zona un tempo anti governativi, ma ad oggi nuovamente integrati tra i ranghi delle forze di Damasco. Quindi è possibile pensare come in realtà il blitz, rivelatosi fatale per Abu al Hasan, sia stato condotto dall’esercito siriano coadiuvato dalle forze di Mosca. A riprova di ciò emergono peraltro molte testimonianze sui social circa importanti operazioni, compiute nella zona di Daraa proprio tra settembre e ottobre, di russi e siriani contro personaggi di spicco legati all’Isis. Forse è proprio in una di queste operazioni che è stato individuato il terzo leader dello Stato Islamico ucciso in tre anni.

Cosa vuol dire l’operazione compiuta nel sud della Siria

Come Al Baghdadi e Al Qurayshi, anche Abu al Hasan è stato scovato in Siria. Segno di come il Paese ad oggi sia ancora un rifugio ideale per i jihadisti. Questa volta però il numero uno dell’Isis non era nel nord della Siria ma nel sud. E questo non è un dettaglio di poco conto. Sembra quasi che statunitensi e russi si siano divisi il numero dei blitz tenuti contro i leader islamisti. Due operazioni sono state compiute in zona non occupata dai governativi, dove quindi le forze di Washington hanno potuto operare “in proprio” per catturare Al Baghdadi e Al Qurayshi, un’operazione invece è stata portata a termine nel sud della Siria, in una regione sotto controllo siriano (sotto influenza russa).

Così come gli Usa hanno sicuramente avvertito i russi nel 2020 e nel 2022 per le “loro” operazioni, visto che Mosca ha il totale controllo dello spazio aereo della regione occidentale della Siria, è possibile pensare che dal Cremlino sia partita una telefonata verso Washington per avvertire del blitz contro Abu al Hasan. Questo spiegherebbe come mai gli Usa erano a conoscenza della morte del “nuovo califfo”, anche se hanno fornito informazioni errate sugli autori del blitz. Non sarebbe la prima volta di un “filo rosso” attivato tra Mosca e Washington in Siria. In nome della comune lotta al terrorismo, è possibile aspettarsi simili scambi di informazioni anche in futuro.

Tooba e le dodici spose: vita da reclutatrice dell’Isis. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 17 Agosto 2022.

La donna britannica procurava mogli ai miliziani. Su di lei un documentario della giornalista Benedetta Argentieri: «The Isis Matchmaker». 

«Ho provato tutto, la discoteca, il piercing, a bere, fumare, avere un fidanzato ma alla fine non ero felice». Tooba Gondal ha solo 21 anni quando scappa da Londra per unirsi all’Isis. Avanti veloce fino al 2019, Tooba — che nel mentre è diventata una delle più famose jihadiste britanniche, ha aperto una cinquantina di profili su Twitter sotto vari pseudonimi, si è sposata tre volte e ha avuto due bambini — siede di fronte a Benedetta Argentieri, documentarista e giornalista italiana.

Chiede di poter indossare il suo hijab rosa, e di non essere ripresa mai senza, questa ragazza nata in Francia e cresciuta in Gran Bretagna, che l’autrice ha rintracciato in un campo del Nordest siriano e che racconta nel suo ultimo film documentario, «The Isis Matchmaker», fuori concorso alla prossima Mostra del Cinema di Venezia e prodotto da Fandango. «Tooba è accusata di aver reclutato almeno una dozzina di donne occidentali, tra cui delle minorenni, partite dall’Occidente per sposarsi in Siria con dei miliziani dell’Isis. Da qui il soprannome “Matchmaker”», spiega la regista. Nonostante ciò, ribadendo il suo pentimento, rinchiusa nel campo di Aïn Issa, si racconta mentre supplica il governo britannico di farla rientrare.

Tooba, partita alla ricerca di un mondo migliore e più puro, si trova di fronte gli orrori dello Stato Islamico, compresa la tratta delle schiave yazide, gestita per lo più dalle donne. E racconta — sempre declinando ogni responsabilità — di battaglioni femminili e di uomini, come il suo secondo marito, pronti a farsi saltare in aria in nome del dawla, lo Stato islamico. Ma quali sono le sue responsabilità? È vittima come afferma quando sostiene di aver subito il lavaggio del cervello o è ancora la carnefice che twittava gioendo per i morti degli attentati di Parigi? Darle voce non è una scelta comoda. «Avevo la sensazione di essere manipolata ma allo stesso tempo non volevo giudicarla», spiega la regista. L’obiettivo per l’autrice è invece rispondere alla domanda più difficile — ossia perché? Perché una ragazza proveniente da una famiglia benestante, che studia letteratura inglese al college in Gran Bretagna e che non ha particolari disagi, decide consapevolmente di unirsi al gruppo terroristico più temuto e odiato? Primo passo per raccontare Tooba è liberarsi dei pregiudizi. «Tacciare queste donne di ignoranza o farne delle vittime è un errore». Tooba, così come molte altre donne dell’Isis, non è stata costretta a partire bensì ha scelto una strada che l’ha portata nella miseria dei campi, senza acqua, medicine e con pochissimo cibo. Ma cosa fare allora di lei e delle migliaia di donne occidentali ancora bloccate nel Nordest siriano prigioniere senza un processo? In «The Isis Matchmaker» emerge la miopia di un Occidente che preferisce girare la testa dall’altra parte e lasciare nell’oblio i propri cittadini, anche qualora si tratti di donne e bambini. Così come irrompe tutta la violenza dei campi di prigionia, dove l’Isis trova terreno fertile per tornare ad essere una minaccia. A iniziare proprio da quelle donne e da quei bambini che — conclude Benedetta Argentieri — «sono a loro volta facili prede di nuovi reclutatori. E reclutatrici». Come The Isis Matchmaker.

Chiamate il terrore col suo nome. Fiamma Nirenstein su Il Giornale l'11 settembre 2022.

Molto è cambiato da quel giorno di orrore in cui attoniti, precisamente 21 anni fa, e sembra ieri, guardammo alla tv morire tremila persone a New York City, Washington DC e a Shanksville, Pennsylvania. Fu l'11/9. Ma ancora siamo preda dell'incubo terrorista e della sua astutissima costruzione teoretica, inchiodati davanti agli schermi tv a seguirne le gesta in tutto il mondo, con qualsiasi sigla si presenti; siamo avviluppati con le sedi di decisione internazionale, specie l'Onu, le Corti internazionali, le Ong e i suoi derivati, nell'adottare una concettualizzazione dubitosa e timida della parola stessa «terrorismo» e dei suoi feroci perpetratori, preferendo spesso immaginare squilibrati e disadattati miserevoli, per timore che siano alla fine «combattenti delle libertà». Questo ha anche indotto il giudiziario alla cautela estrema per timore di ferire la libertà religiosa ed epitome della vicenda, dopo tanti anni di combattimento, ha spinto l'America l'anno scorso a fuggire nella vergogna dall'Afghanistan, nido in cui Bin Laden aveva trovato rifugio e conforto. Si è ripetuta la storia irachena che ha generato l'Isis; dopo che tante vite di soldati americani vi erano state perdute.

Al Qaida però e l'Isis non somigliano a ciò che erano. Bin Laden è morto, e anche tutti gli altri capi delle due organizzazioni non esistono più. Ma esistono un numero pari a quattro volte i gruppi salafisti-jihadisti che esistevano 21 anni fa. Al Qaida è molto cresciuta in Africa, si è installata e poi rarefatta in Siria, è presente in molte province afghane e il suo rapporto coi talebani risulta fiorente. Nel frattempo è vivo anche lo Stato Islamico, per abbattere il quale (e non definitivamente) ci sono voluti cinque anni e una coalizione di 83 Paesi. L'Isis ha agito con grossi attacchi in tante città importanti, Parigi, Bruxelles, Nizza, New York. Al Qaida si è rifatta viva con il volo Egitto Russia (29 vittime). Ma l'Isis è stata nel 2021 il gruppo terrorista più letale, con gli attacchi nel Niger.

Oggi la vera epidemia è nelle zone di conflitto; lo sforzo dei Paesi Occidentali dall'11/9 ha fatto diminuire gli attacchi dell'82%. E tuttavia, la pulsione terrorista è sempre micidiale e anche la guerra in Ucraina influenzerà probabilmente la crescita del terrore in Europa, mentre il cyberterrore russo avanza, dice il «Global Terrorism Index» del 2022.

Chi scrive ha visto morire a marzo, aprile e maggio nelle città israeliane per mano terrorista di Hamas, della Jihad Islamica e di appartenenti ad al Fatah, giovani genitori, donne ai caffè, ragazzini che passeggiavano. Ciò che alimenta il terrore è la incessante ripetizione propagandistica di slogan che sporcano dalla più tenera infanzia le scuole e i mezzi di comunicazione talebani, o iraniani, o palestinesi, che incitano all'odio e alla violenza contro immaginari aggressori della vera fede, la loro.

La guerra contro il terrorismo può avvenire solo con una autentica rivoluzione culturale e di deterrenza che superi le pure ottime forme di organizzazione e l'alleanza internazionale. Occorre una cultura che sappia con fermezza chiamare il terrorismo col suo nome, che fermi chi lo alimenta sotto mentite spoglie (sono miliardi quelli che finiscono nelle casse terroriste sotto forma di aiuti a organizzazioni umanitarie) e controlli l'uso mortale dei social media.

Alberto Simoni per “La Stampa” il 12 settembre 2022.

Lui non si affibbierebbe mai l'etichetta, ma per gli americani Mark Lewis è "un eroe" dell'11 settembre. Di quelli silenziosi, trovatosi in una mattina di sole di 21 anni fa a raccogliere le vite degli altri, travolte, tramortite e recise nell'attacco al Pentagono da parte di Al Qaeda.  

Quando ieri, parlando alla cerimonia al Pentagono, il segretario della Difesa Lloyd Austin ha citato i colleghi che hanno portato sulle spalle gli altri, che si sono sostenuti in quel giorno, pensava anche a Lewis. E sugli eroi che «hanno protetto l'America» ha puntato pure Biden sottolineando che «continueremo a difendere gli Usa dal terrorismo» e che quel giorno se «ha cambiato la Storia Usa», non ne ha però alterato il carattere. 

Veterano della 82esima divisione aviotrasportata, missioni a Granada e in altre zone di crisi, grado di colonnello nel 2001, Mark Lewis siede a capotavola di un tavolo di legno nel suo ufficio nell'E-Ring del Pentagono. Per arrivare nella zona più esclusiva del palazzo-fortezza, si cammina quasi dieci minuti. Sempre scortati.

In quest' angolo dell'edificio ci sono gli uffici della leadership della super potenza. Da qui, la mattina dell'11 settembre del 2001, l'allora segretario della Difesa, Donald Rumsfeld se ne uscì impolverato, gli occhiali storti sul naso e si mise nel piazzale antistante a muovere soccorsi e aiutare i feriti. 

Ma prima di lui, lungo i corridoi del secondo piano della facciata occidentale nel cuneo 5, Mark Lewis aveva trasformato l'istinto alla sopravvivenza del soldato in una spinta irrefrenabile all'aiuto degli altri. Ricorda due cose di quel giorno. «Sono freschi nella mia mente il fumo e il fuoco». Il racconto del colonnello tornato al Pentagono con un incarico nella catena di comando civile, però si ferma dopo pochi minuti.

Serve la scenografia, serve vedere, immaginare quel che fu. «Dove siamo seduti io e lei si conficcò il corpaccione del volo 77». Lewis si alza e si accosta alla finestra, l'aereo passò sopra una collinetta e si buttò dentro il Pentagono. «Sono appena cinque piani, colpirlo così... » sospira lasciando capire quanto quei kamikaze fossero preparati per la missione. Quel giorno Lewis aveva una riunione con il generale Maude, il più alto ufficiale in grado morto l'11 settembre. 

Era lui ad occupare l'ufficio dove oggi c'è quello dell'ex colonnello, quello di Lewis distava qualche decina di metri. Mentre camminava nel corridoio verso l'appuntamento, arrivò il botto poi il buio e il fuoco.«C'era puzza di cherosene, fiamme e fumo ovunque. Un silenzio spettrale, le porte antincendio si erano chiuse come da procedura». Una trappola per chi era dentro. «L'unico riferimento era il pavimento, si poteva toccare, sentire», ricorda Lewis. 

Andò a ritroso, recuperò le persone negli uffici, la t-shirt sulla bocca per non inalare fumo. Per aggirare le porte sbarrate, Lewis condusse alla cieca i superstiti, feriti e terrorizzati, lungo un corridoio che portava a una piccola porticina sconosciuta ai più. È diventata la porta per la salvezza. L'aereo si schiantò alle 9,37; 40 minuti dopo Lewis era sul prato del Pentagono fra il frastuono delle sirene, il via vai dei soccorritori.

L'angoscia però era per chi era rimasto indietro. «Quanti? E Chi? Quale ufficio è vuoto». Prese - e con lui altri - ogni telefono possibile, compose ogni numero per rintracciare dispersi. All'appello non tutti risposero. Durò fino alle due di notte questo straziante rito. Allora Lewis tornò a casa: 125 persone al Pentagono erano morte, 184 in totale contando quelle sull'aereo proiettile. 

Inutile chiedere se dormì, l'America si era già messa in modalità guerra, le unità operative dovevano avviarsi. «E così si fece, bisogna andare avanti». Per cinque mesi fu così, avanti a far girare la macchina già protesa sull'Afghanistan.  

Gli occhi di Lewis diventano lucidi. «Accadde a San Francisco, in hotel, qualche mese dopo. La famiglia a fare shopping, io in camera a guardare la Cnn. Un lungo servizio sugli attentati del 11 settembre». E lì lo strazio, il dolore, la presa di coscienza di quel che era successo scoppiarono fragorosi. Il ricordo degli amici. 

Lewis cammina lungo il corridoio dell'E-Ring. Fuori dal suo nuovo ufficio c'è una mappa del piano e vi è disegnata la traiettoria dell'aereo. A fianco le foto delle vittime di quella sezione. Lewis li conosce quasi tutti: la soldatessa che doveva sposarsi a giorni; l'amico generale e Max Beilke, fu l'ultimo soldato a lasciare il Vietnam. «Great and honest men», brave persone. Qualcuno anche un eroe americano. 

Il particolare 11 settembre a un anno dal ritorno dei talebani a Kabul. Mauro Indelicato l'11 settembre 2022 su Inside Over.

Oggi a Manhattan suona di nuovo quella campana che ricorda i minuti in cui, oramai 21 anni fa, si è consumata la tragedia dell’11 settembre. Un suono riprodotto lì dove oggi sorge il memoriale dedicato alle vittime della strage del 2001, a pochi passi da dove sorgevano le Torri Gemelle. Vengono letti i nomi di tutti coloro che qui hanno perso la vita, un elenco di quasi tremila persone cadute mentre erano a lavoro oppure perché ritrovatesi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

Quest’anno la commemorazione ha un sapore diverso. Nel 2021 a pesare maggiormente sul cerimoniale è stato il raggiungimento del ventennale dalla strage. Adesso invece pesa il fatto che mentre oltreoceano si commemorano le vittime, lì da dove è partito l’ordine dell’attacco terroristico la situazione è tornata uguale a com’era l’11 settembre 2001. A Kabul, bersagliata il mese successivo l’attentato per via della presenza dei talebani accusati di dare ospitalità a Bin Laden, gli studenti coranici sono di nuovo al potere. E nel centro della capitale afghana appena un mese fa è stato ucciso il braccio destro di Bin Laden, ossia quell’Ayman Al Zawayri ritenuto tra gli ideatori dell’11 settembre.

I minuti che hanno cambiato gli Stati Uniti

Una chiamata per una fuga di gas in una strada del quartiere sud di Manhattan, in un normale martedì mattina. Poi il rumore di un aereo, lo sguardo che istintivamente si alza verso il cielo e quindi il boato. Sono le ore 8:46 dell’11 settembre 2001, la scena è ripresa da un cameraman che segue una squadra dei Vigili del Fuoco. E si vede per l’appunto un pompiere che abbandona le sue attività per girarsi verso il luogo dell’esplosione. L’immagine diventa una delle più iconiche della giornata. Segna il passaggio dalla normale quotidianità di New York e degli Stati Uniti a uno dei momenti più tragici della storia recente. Il boato è prodotto dallo schianto di un aereo su una delle due torri gemelle di Manhattan. Sembra un incidente, uno dei più clamorosi. E subito la Cnn e gli altri network portano sul posto altri cameraman e degli elicotteri per riprendere la scena dall’alto.

A questo punto i riflettori sono tutti puntati sulle torri gemelle. E alle 9:01 l’arrivo di un altro aereo sull’altra delle due torri gemelle è ripreso in diretta. Appare chiaro ormai che non si tratta di un incidente, ma di un’azione terroristica. Non solo gli Usa, ma tutto il mondo guarda verso New York.

Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, in quel momento si trova a Sarasota, in Florida. Sta parlando in una scuola, quando il consigliere Andy Card lo avvicina per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Anche questa scena è ripresa dalle telecamere e diventa anch’essa emblema della giornata. Ore che ancora non sono finite, perché alle 9:37 c’è un terzo aereo a cadere. Non a New York, bensì davanti il Pentagono a Washington, sede della Difesa Usa. Il Paese è sotto attacco e scattano tutte le misure di emergenza, sia a livello locale che federale. Lo spazio aereo viene chiuso, tutti i soccorsi vengono puntati sulle due città colpite e nella capitale tutti gli uffici più importanti vengono evacuati.

C’è poi un altro velivolo che cade, anche se in campagna. A Shanksville, in Pennsylvania, altre persone muoiono in quello che, pochi giorni dopo, risulta essere un altro dei mezzi dirottati per portare a termine l’azione terroristica. Il terrore quindi passa dai cieli. Il primo aereo a schiantarsi sulle torri gemelle è il volo Boston-Los Angeles dell’American Airlines, il secondo aereo invece serve la stessa rotta ma per la United Airlines. L’aereo che si schianta sul Pentagono è invece decollato da Washington con destinazione California ed è dell’American Airlines. Il quarto aereo, questa volta della United Airlines, è partito da Newark e secondo le indagini non riesce a raggiungere uno degli obiettivi prefissati dai dirottatori per via di una ribellione interna dei passeggeri.

Il terrore però non si esaurisce con lo schianto degli aerei. Alle 9:59 crolla infatti la torre sud delle torri gemelle, la seconda ad essere stata colpita in precedenza. Alle 10:28 cede la torre nord. Le “twin towers” di Manhattan non ci sono più e, con esse, vengono trascinate giù verso la morte migliaia di persone in quel momento intrappolate. Il bilancio ufficiale parla ancora oggi di dispersi: a distanza di 21 anni ci sono 24 cittadini di cui non si sa più nulla. Sono 2.996 le vittime ufficiali, compresi i 19 dirottatori kamikaze.

L’avvio della “guerra al terrore”

Le conseguenze politiche di quell’attentato non si fanno attendere. Il dito viene subito puntato contro Al Qaeda, il gruppo terroristico fondato da Osama Bin Laden già protagonista negli anni precedenti di altri attacchi islamisti contro obiettivi Usa, pur se all’estero. La formazione jihadista ha la propria base in Afghanistan. Qui governano i talebani dal 1996, anche se per la verità Bin Laden è nel Paese da prima dell’avvento a Kabul degli studenti coranici. I talebani predicano un’ideologia estremista, un’interpretazione radicale della visione islamica. Le donne devono girare con il burqa e non vanno a scuola, i maschi devono portare la barba lunga. Hanno già isolato l’Afghanistan da quasi tutto il resto del mondo, ma ad ogni modo soldi e sostegno al gruppo non mancano. Dal Pakistan in primis, in passato dagli stessi Usa quando i gruppi islamisti servono negli anni ’80 ad ostacolare la presenza sovietica nel Paese.

Dopo l’11 settembre i talebani diventano il principale bersaglio di Washington. Sono accusati di dare ospitalità a Bin Laden. E il 7 ottobre, dopo aver incassato il sostegno di Islamabad, Bush fa partire le operazioni militari volte a spodestare gli studenti coranici. Gli Stati Uniti bombardano Kabul, Jalalabad, Kandahar e le principali città afghane. Spianano così la strada all’Alleanza del Nord, l’opposizione ai talebani. I miliziani avanzano e nel giro di poche settimane entrano a Kabul ponendo fine all’emirato.

Secondo Bush questo è solo il primo atto della cosiddetta “guerra al terrore”. Una dottrina però che negli anni è destinata a mostrare ampie lacune. In Afghanistan si pensa a insediare un nuovo Stato e a organizzare, nel giro di pochi anni, delle elezioni. Due anni dopo l’11 settembre la guerra al terrore è combattuta contro l’Iraq di Saddam Hussein. Deposto quest’ultimo, in medio oriente si apre un vaso di pandora che in realtà fa uscire fuori una miriade di gruppi terroristici che nel decennio successivo sconvolgo l’intero medio oriente. Nello stesso Afghanistan la situazione è tutt’altro che rosea: viene inviata una missione Nato, a cui partecipa l’Italia, per dare manforte alle nuove istituzioni di Kabul. Soldi, vite umane perse, soldati caduti, un bilancio cruento che però serve a poco se non addirittura a nulla.

Afghanistan, un anno dopo

Mentre infatti a New York si commemorano le vittime dell’11 settembre 2001, a Kabul i padroni di oggi sono quelli di allora. I talebani il 15 agosto 2021 riconquistano la capitale afghana e ridanno vita all’emirato. Ritornano i burqa, ritornano le barbe, ritornano i divieti e ritornano le scuole precluse alle donne. Possibile che da quell’11 settembre non è cambiato nulla? Una domanda a cui rispondere è difficile. Solo stando nel nuovo-vecchio Afghanistan si può realmente trovare risposta. Il quesito è di quelli in grado di scuotere dalle fondamenta le dottrine occidentali delle ultime due decadi: per davvero l’11 settembre è una data destinata a rimanere unicamente nel novero degli annali e delle cerimonie di commemorazione, ma senza lasciare tracce evidenti nella storia nonostante quanto accaduto dopo le tremila vittime di quella giornata?

 A 20 anni dall'11 settembre confermata la profezia della Fallaci. Riccardo Mazzoni Libero Quotidiano il 11 settembre 2021

Il ventesimo anniversario delle Torri Gemelle si incrocia col quindicesimo della morte di Oriana Fallaci, che cade il 15 settembre, e le due date sono legate a filo doppio, perché fu dopo l’attentato di New York che la più grande scrittrice italiana smise di curare il suo cancro – l’Alieno - per dedicarsi, anima e corpo, a contrastare quello cosmico del fondamentalismo islamico. Dopo la sua morte Franco Zeffirelli scrisse: «Noi non potremo né dovremo seppellirti nell’oblio, cara Oriana, perché tu avevi visto prima il pericolo che ci sovrastava e l’avevi urlato con tutta la tua forza a un mondo di sordi, di ciechi, di vigliacchi».

Oggi che l’Afghanistan è di nuovo in mano ai talebani, col rischio di ridiventare un santuario del terrorismo, il messaggio della Fallaci riacquista una terribile attualità. Già, perché anche solo ipotizzare un abbozzo di dialogo con un premier iscritto nella lista Onu dei terroristi più pericolosi e col ministro dell’Interno ricercato dall’Fbi, pare più un sogno da anime belle che un trattato di Realpolitik. Per Oriana, l’Islam è un’unica immensa palude: «Continua la fandonia dell’Islam moderato, la commedia dell’intolleranza, la bugia dell’integrazione» – scrisse dopo la strage di Londra. Un monito a non illudersi che ci sia un jihadismo “buono” e uno “cattivo”, come invece sembrano credere (ancora!) certi commentatori che, dopo l’attentato dell’Isis all’aeroporto di Kabul, si sono cimentati in una distinzione secondo cui, in fondo, i talebani sarebbero diventati “moderati”, e che la vera minaccia per l’Afghanistan sia ora da individuare nei loro nemici interni, più estremisti di loro. Ma è solo una folle illusione».

Lo scomposto ritiro dell’Occidente, in realtà, ha messo in moto un Risiko che, oltre a sfregiare in modo irreparabile l’immagine e la credibilità degli Stati Uniti, avrà inevitabilmente ricadute anche in un’Europa disorientata e divisa. L’Occidente ha bandito da tempo la parola «guerra», ormai imperversa la dottrina politicamente corretta secondo cui esportare la democrazia con le armi è stato solo un tragico abbaglio storico. Come se la libertà non fosse una conquista da difendere ogni giorno con le unghie e con i denti, anche in patria, ma una quieta eredità, un diritto immutabile delle nuove generazioni. Come se il «Risveglio islamico» nato con la rivoluzione khomeinista del ’79 non si proponesse di risvegliare la moltitudine islamica nel mondo da un letargo lungo trecento anni per affrancarla dalle imitazioni contaminanti dell’Occidente secolarizzato e decadente. L’unico strumento per la rinascita sarebbe dunque il ritorno alla fede e alla disciplina originaria del primo Islam.

La lunga consuetudine col socialismo arabo ha insegnato agli ideologi del terrore l’arte dell’organizzazione attraverso cellule segrete altamente disciplinate e ben addestrate. Ebbene, Oriana Fallaci conosceva profondamente l’Islam fondamentalista, le sue regole, la sua insopprimibile voglia di morte, e sapeva che troppe moschee vengono trasformate «in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi». Fino alla morte, non si è mai stancata di ripeterlo, incurante dell’isolamento culturale e del disprezzo dell’intellighenzia occidentale.

Eppure apparve subito evidente, dopo la spaventosa carneficina dell’11 settembre che nulla sarebbe più stato come prima. Invece ha prevalso il giustificazionismo, il pentitismo storico di un’Europa arcobaleno e senza più identità, secondo cui il terrorismo sarebbe solo il frutto avvelenato degli inevitabili risentimenti nei confronti dell’Occidente sopraffattore. Nulla importava se l’Internazionale del terrore era guidata da un club di miliardari che avevano studiato nei college, o se chi organizzò l’attacco alle Torri Gemelle proveniva da una famiglia facoltosa di Amburgo. La colpa era solo della fame e della povertà a cui erano stati condannati i Paesi arabi, del Satana amerikano e di Israele che difende il suo diritto ad esistere. Quella dei terroristi è invece solo una colpa riflessa e dunque attenuata. Da questa narrazione nasce il mito imperituro del «dialogo». Lo vogliono i pacifisti e lo pretende la sinistra, senza rendersi conto che il dialogo a senso unico significa solo la resa.

Un manuale di addestramento di Al Qaeda trovato a Londra nel ’93 diceva testualmente: «Il confronto che si vuol aprire con i regimi apostati non è fatto di dibattiti socratici, né di dialoghi platonici o di diplomazia aristotelica. Conosce solo il dialogo delle pallottole, gli ideali dell’assassinio, delle bombe e della distruzione e la diplomazia delle mitragliatrici e del cannone».

Ecco: la parola d’ordine della vittoria talebana in Afghanistan «Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo» è solo il sinistro complemento del motto di tanti terroristi islamici: «Voi amate la vita e noi amiamo la morte». Una dichiarazione di guerra all’Occidente in ritirata.

L'uccisione di al-Zawahiri. Piccole Note il 4 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il 1 agosto gli Stati Uniti hanno annunciato al mondo di aver ucciso Ayman al-Zawahiri, la sfuggente primula rossa del Terrore. Il leader di al Qaeda, hanno dichiarato, è stato ucciso con un drone killer mentre era affacciato sul balcone di casa sua, al centro di Kabul, in Afghanistan.

Intelligence e lame rotanti

Contro la casa di al Zwahiri sarebbe stato inviato un drone che gli avrebbe sparato contro due missili Hellfire l’R9X, una nuova tipologia di missili, i quali non sarebbero armati da testate esplosive, ma “presentano una serie di sei lame rotanti che emergono dal proiettile nel suo approccio finale a un bersaglio”, come ha spiegato Klon Kitchen, ricercatore presso l’American Enterprise Institute ed ex analista dell’intelligence all’Associated Press.

Questi proiettili a lame rotanti sarebbero frutto di un’alta tecnologia americana, i cui ingegneri forse si sono ispirati a Goldrake, e servirebbero a limitare le vittime collaterali, com’è avvenuto nel caso specifico. Questi strani missili sono soprannominati “bomba a coltello” o “Ginsu volante”.

Armi mai utilizzate prima, tale spiegazione è però l’unica che permetta di giustificare le immagini relative al raid, dove si vede molto bene  la casa che avrebbe ospitato il capo di al Qaeda, che risulta praticamente intatta, tranne il balcone attaccato, che invece presenta gravi lesioni.

Ci permettiamo di rilevare che due missili lanciati a centinaia di chilometri all’ora, che estraggono sei lame rotanti ciascuna e impattano su un uomo dovrebbero praticamente maciullarlo, con schizzi di sangue un po’ dappertutto. Invece, stranamente, né attorno alla finestra, né sulle strutture pencolanti si intravede la benché minima traccia di sangue.

Forse un’analisi più ravvicinata potrebbe mostrare ciò che non si vede, ma stranamente, la casa, come si vede nel filmato, successivamente è stata ricoperta con dei teloni (particolare davvero strano, mai visto prima una cosa del genere. Servono a coprire cosa?).

Nonostante il chiarimento riguardo all’arma fantasmagorica utilizzata nell’occasione, alcuni giornalisti sia della Reuters che della Cnn, e altri più o meno mainstream, per avvalorare l’attacco riferiscono di testimoni anonimi che hanno sentito un’esplosione al momento dell’impatto (una fonte dice che questa avrebbe scosso anche casa sua). Cosa che appunto non può esser vera, date le lame rotanti e le immagini inequivocabili della casa che non presentano segni di esplosione (un testimone interpellato ha dichiarato che la casa “era vuota”, ma questa è un’altra storia).

La Cnn, in base a fonti ufficiali, racconta nel dettaglio l’operazione e di come l’intelligence Usa avrebbe saputo già ad aprile che al Zawahiri si trovava a Kabul e in quale casa si nascondesse.

Quindi la Cnn racconta di come i vertici dell’intelligence si fossero incontrati con Biden, al quale avrebbero portato anche un plastico della casa-obiettivo. E con lui avrebbero elaborato un piano che minimizzava i rischi di vittime civili, come voleva il presidente, il quale avrebbe dato l’ok alla missione il 25 luglio.

Racconto dettagliato, che però lascia perplessi: avendo la possibilità di eliminare il ricercato numero uno al mondo, si sarebbe ritardato per mesi l’attacco, rischiando di perderlo, come accaduto tante volte in passato per altri leader del Terrore…

I patti di Doha e la (non) conferma del dna

Al di là delle domande del caso, l’attacco ha scatenato polemiche tra i talebani, che governano l’Afghanistan, e Washington: i primi hanno dichiarato che la controparte ha violato i patti di Doha, che prevedevano la fine dei raid Usa nel Paese (per evitare che si perpetuasse lo stillicidio di vittime civili), con gli americani ad accusare Kabul di dar rifugio ai terroristi.

Oggi, come scrive i Timesofisrael, i leader dei talebani “hanno rotto il silenzio” successivo al raid e hanno affermato che “Il governo e la leadership [dei talebani, ndr] non erano a conoscenza di ciò che viene affermato, né hanno visto tracce” di al Zawahri in loco, contraddicendo nettamente le dichiarazioni statunitensi.

Per quanto riguarda l’identificazione del leader di al Qaeda, queste le dichiarazioni di John Kirby, portavoce della Sicurezza nazionale della Casa Bianca: “Non abbiamo la conferma del DNA, né otterremo tale conferma. Francamente, sulla base di molteplici informazioni raccolte […], non ne abbiamo bisogno”. Al solito, si chiede all’opinione pubblica di fidarsi, come altre volte in passato.

Detto questo, l’eliminazione del leader del Terrore avrebbe dovuto essere accolta con esultanza dal mondo, invece ha suscitato qualche annoiato commento. E se Biden sperava di risollevare la propria immagine, non è andata così: i sondaggi, purtroppo, lo castigano sempre più.

Afghanistan, Al Zawahiri ucciso in raid Usa: il leader di Al Qaeda colpito in un attacco con i droni. Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, su Il Corriere della Sera l'1 Agosto 2022.

Operazione della Cia in Afghanistan, a Kabul: su Al Zawahiri pendeva una taglia da 25 milioni di dollari del Dipartimento di Stato Usa. Aveva preso il posto di Bin Laden

Alle 6,30 di domenica 31 luglio, un drone sorvola una casa di Kabul in Afghanistan. È lì che si nasconde Ayman Al-Zawahiri il numero uno di Al-Qaeda dopo l’uccisione di Osama bin Laden. Da una base americana gli specialisti della Cia manovrano il velivolo e lo dirigono verso il bersaglio. Un lampo e Al-Zawahiri è colpito a morte. Il presidente Joe Biden lo ha annunciato ieri sera agli americani con queste parole: «Giustizia è fatta. Ho autorizzato l’operazione, pianificata per sei mesi, per togliere dal campo di battaglia uno dei più pericolosi nemici del popolo americano. E ho un messaggio per tutti i terroristi. Non importa dove vi nascondiate, noi vi troveremo e vi elimineremo». Per il presidente americano è indubbiamente un successo importante, solo un gradino inferiore all’incursione che nel maggio del 2011, con Barack Obala alla presidenza e lo stesso Biden alla vice presidenza, uccise Bin Laden ad Abbottabad in Pakistan.

Il leader americano ha anche sottolineato come «non ci siano vittime civili».

Un portavoce dei talebani, al potere in Afghanistan, ha protestato, sostenendo che gli accordi di Doha, quelli che hanno spianato la strada al cambio della guardia a Kabul, vietino gli attacchi condotti dagli americani. Da Washington, invece, si osserva che gli Stati Uniti hanno messo in chiaro che perseguiranno i terroristi rimasti sul territorio afghano. Inoltre i servizi segreti segnalano come Al Zawahiri si fosse nascosto in un edificio che appartiene a una figura di spicco del regime talebano, Sirajuddin Haqqani. Secondo alcune fonti nell’attacco sarebbero morti anche il figlio e il genero di Haqqani. Il blitz segna un cambio di passo nella strategia anti-terrorismo degli americani. Il Pentagono ha deciso di non usare le forze speciali, come era accaduto per colpire Bin Laden. L’intero piano sarebbe stato preparato e gestito dalla Cia, naturalmente con la collaborazione del Dipartimento della Difesa e con la supervisione del Consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan. Gli Stati Uniti davano la caccia dal Al-Zawahiri almeno da trent’anni, prima ancora che il «dottore» pianificasse con Bin Laden l’attacco alle Torri Gemelle, l’11 settembre del 2001.

Lo stesso Biden ha ricordato il «percorso» dell’ideologo-terrorista: dall’attività sovversiva al Cairo, la sua città natale, fino alla «dichiarazione di guerra universale» contro tutti «i nemici dell’Islam». In prima fila Israele e «il nemico lontano», gli Stati Uniti. Da ultimo il nuovo numero uno di al Qaeda aveva perso influenza nella costellazione dell’islamismo radicale. Ma il presidente americano ha detto che restava comunque «un fattore di minaccia» per la sicurezza degli Stati Uniti. Su di lui pendeva ancora una taglia da 25 milioni di dollari. L’operazione di sabato ha comunque un grande valore simbolico e sicuramente avrà un impatto profondo sull’opinione pubblica. Proprio l’altro giorno l’associazione delle vittime dell’11 settembre ha protestato rumorosamente perché Donald Trump ha ospitato un torneo di golf sponsorizzato dai sauditi nel suo club del New Jersey. Un segnale di come la ferita delle Torri Gemelli sia ancora viva nella società americana.

L’uccisione di Al-Zawahiri è quindi anche un modo per aggiungere una quota di giustizia, per lenire il trauma più grave patito dall’America nel Dopoguerra. Le tv stanno ripercorrendo il suo ruolo nella pianificazione degli attacchi. L’astuzia diabolica. L’idea di mandare i piloti-kamikaze furono mandati ad addestrarsi nelle scuole di volo americane. Il progetto folle e sanguinario di fare una strage di civili, perché per Al-Zawahiri «nessun occidentale» era innocente. Vedremo se questa operazione contribuirà a chiudere una stagione. Certamente sul piano politico è un risultato importante per l’Amminisltrazione Biden. Lo scorso anno il presidente fu sommerso dalle critiche per il modo in cui i soldati Usa abbandonarono precipitosamente Kabul. Le immagini delle persone precipitate dagli aerei in fuga turbarono, indignarono gli americani. Molti analisti, non solo repubblicani, accusarono il presidente di aver non solo tradito gli afghani che avevano collaborato con gli Stati Uniti per anni, ma di aver anche compromesso la possibilità di contrastare sul campo le formazioni di terroristi. Biden e i servizi segreti hanno risposto sul campo, con un’operazione di nuova concezione, dimostrando nello stesso di aver mantenuto le «antenne» necessarie per andare a colpo sicuro. «Non ci fermeremo, non finisce qui. Faremo tutto ciò che occorre per garantire la sicurezza del popolo americano», ha concluso Biden, in una serata che resterà nella storia.

Il chirurgo diventato profeta del terrore. Dalle Torri gemelle agli appelli sanguinari. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022. 

Cerebrale e sanguinario. Ideologo cavilloso e organizzatore pragmatico. Ayman al-Zawahiri è stato uno degli uomini più pericolosi nel mondo per almeno vent’anni 

Cerebrale e sanguinario. Ideologo cavilloso e organizzatore pragmatico. Ayman al-Zawahiri è stato uno degli uomini più pericolosi nel mondo per almeno vent’anni: tra l’inizio degli anni Novanta e la morte del suo boss e fraterno amico, Osama Bin Laden, ucciso il 2 maggio del 2011. Ha contribuito in modo forse decisivo alla pianificazione del più tremendo attentato terroristico dell’epoca moderna: l’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001. Ed è stato lui a teorizzare la «guerra globale» all’Occidente. Prima a Israele e agli Stati Uniti. Poi a «tutti i nemici dell’Islam». Come scriveva in quello che è considerato il suo «manifesto» nel 1998: «Uccidere gli americani e i loro alleati, civili o militari che siano, è un dovere individuale per ogni musulmano, in qualunque Paese si trovi».

La parabola di al-Zawahiri forse era già vicina alla sua naturale conclusione. Secondo i servizi segreti americani era malato e da tempo confinato in una posizione laterale nella galassia del terrorismo di matrice islamica. I leader, i nuovi centri propulsori, nel frattempo, si erano spostati dall’Afghanistan e dal Pakistan alla Siria, all’Iraq, alla Libia. Tuttavia il «dottore» restava il leader di al-Qaeda e, di tanto in tanto, riaffiorava con qualche video o qualche scritto, incitando sempre alla violenza. È stato il tratto costante della sua vita, fin dalla sua giovinezza al Cairo, dove era nato 71 anni fa. Figlio di un professore di farmacologia e nipote della presidente dell’Università del Cairo, Zawahiri si laurea con profitto in medicina. Ma nello stesso tempo viene affascinato dall’islamismo radicale, predicato dallo zio Mafhouz Azzam, un critico severo dei governi laici alla guida dell’Egitto negli anni Settanta. Il giovane medico comincia a frequentare le riunioni carbonare dei «Fratelli musulmani» e poi fonda la sua prima organizzazione sovversiva, Jamaat al-Jihad. Obiettivo: rovesciare i leader «infedeli» e instaurare la teocrazia islamica. Oltre ai libri e agli scritti, studia anche le tecniche di guerriglia e le azioni armate.

È coinvolto nell’attentato che costa la vita al presidente Anwar Sadat, il 6 ottobre del 1981. Viene arrestato e passa tre anni nelle galere egiziane. Racconterà poi di essere stato torturato. Quando esce comincia la sua peregrinazione in cerca di un luogo da dove ripartire, ormai immerso nella logica della «guerra santa». Si avvicina ai mujahiddin afghani. Lì, al confine con il Pakistan incrocia un infuocato giovane proveniente dall’aristocrazia saudita. I due si fiutano, si riconoscono. Nasce il ticket più micidiale del terrorismo mondiale. Osama bin-Laden numero 1; Al Zawahiri, numero 2. L’egiziano decide di fondere la sua organizzazione in quella ideata da Osama: Al-Qaeda, la Base. Ricca, ambiziosa, visionaria, terrificante. I ruoli sono chiari. Bin-Laden è la figura carismatica, il catalizzatore dei consensi, il reclutatore di giovani disposti a morire per la causa. Il medico egiziano mette a punto le strategie: serve un salto di qualità. Non è più sufficiente colpire i regimi corrotti dei Paesi arabi. Bisogna spezzare l’impalcatura che li regge, bisogna annichilire gli Stati Uniti, il «nemico lontano».

Così matura l’11 settembre. E, stando alle ricostruzioni della Cia, Al-Zawahiri immaginava quella catastrofe semplicemente come il punto di partenza di una campagna di terrore mai vista. La guerra condotta dagli americani e dagli alleati in Afghanistan avrebbe interrotto il suo piano di procurarsi armi chimiche e biologiche. In realtà è proprio in quel momento che inizia il suo declino. Si rifugia con la moglie e i sei figli in Pakistan. Sfugge ad almeno un paio di blitz. In uno di questi la sua sposa resta intrappolata tra le macerie e poco dopo morirà. La coppia Obama- Al-Zawahiri comincia a perdere influenza. Emergono altri protagonisti, altri progetti. Su tutti il Califfato islamico, inseguito da Al Zarqawi. Nel frattempo la Cia continua la caccia: cade Bin-Laden. È il colpo letale per Al-Qaeda. Il numero due si ritrova al vertice, sopravvive per undici anni. Ma non c’è più spazio per un’altra controffensiva. Il «nemico lontano» lo raggiunge con un drone, lo spirito dei nuovi tempi.

Così hanno scoperto al Zawahiri: tradito dall’abitudine di stare ogni tanto al balcone. Gli 007 Usa hanno creato un modello della sua casa. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022.  

Il terrorista si nascondeva in una palazzina a Sherpoor, area residenziale di Kabul, a poche decine di metri dalle ambasciate occidentali

La morte per un terrorista inizia dal suo sentiero di vita. Ossia dai suoi comportamenti, dai suoi contatti, dai possibili rifugi. Può uscire poco o mai dalla sua tana, ma anche questo diventa un «segno» nella mappa dei «cacciatori». È accaduto con Osama, con il Califfo al Baghdadi e ora con Ayam al Zawahiri, ucciso da un raid di un drone Usa a Kabul.

L’eliminazione del leader qaedista racconta molto. Intanto il nascondiglio. Non una grotta o una casa in una zona remota, bensì una palazzina a Sherpoor, un’area residenziale di Kabul, a poche decine di metri dalle ambasciate occidentali. Bin Laden aveva compiuto una scelta analoga: il famoso compound ad Abbottabad, la cittadina pachistana sede di un’accademia militare. Entrambe le presenze hanno goduto di complicità e tolleranza. Meno dichiarata quella del Pakistan, evidente l’ospitalità talebana per Ayman. La miglior mimetizzazione è stare vicino al «cuore», non in periferia. I latitanti come al Zawahiri hanno una speranza di sfuggire ai loro inseguitori solo se restano immobili nella loro «base». Non è una scelta, sono costretti a farlo. Se decidono di cambiare aria prendono un rischio. 

L’estremista egiziano ha compiuto il passo e la Cia ha scoperto all’inizio dell’anno il suo probabile trasferimento nella capitale insieme alla sua famiglia. Da qui è iniziata la filatura, la composizione del sentiero di vita, la possibile localizzazione e l’identificazione in primavera. L’intelligence, anche se gli Usa hanno abbandonato l’Afghanistan, ha svolto il suo lavoro con efficacia: se il medico egiziano fosse rimasto nell’area tribale o in qualche gola sperduta sarebbero stato più arduo scoprirlo. Ma il bersaglio, stabilendosi in città, ha accorciato le distanze, possibile per gli informatori sul terreno agire. Sia pure con grande cautela data la vigilanza dell’apparato radicale Haqqani, da sempre protettore dei qaedisti e oggi al vertice della sicurezza afghana. Un brutto colpo anche per i mullah oltranzisti. Lo spionaggio statunitense ha poi ripetuto lo schema impiegato per liquidare Osama. 

I tecnici hanno costruito un modello dell’abitazione combinando osservazione ravvicinata, ricognizione satellitare e chissà cosa altro. Ad Obama fu mostrato un plastico perfetto della palazzina in Pakistan, una ricostruzione precisa in scala per un’operazione molto rischiosa. A Biden hanno offerto la riproduzione della casa di Kabule e gli hanno indicato il punto debole: ogni mattina Zawahiri trascorreva del tempo a leggere sul balcone e gli “occhi” che lo marcavano lo hanno registrato. Una finestra, in tutti sensi, usata dal drone per sganciare i suoi missili Hellfire: secondo gli esperti potrebbero aver usato ordigni che non esplodono ma distruggono usando delle lame rotanti, sistema già impiegato in Siria per far fuori dei qaedisti. Tutto ciò non esclude altri scenari, con le ipotesi di un tradimento da parte dei nuovi padroni dell’Afghanistan, di una soluzione meno epica e il corollario di storie alternative, una costante in questo mondo di tenebra. Ne usciranno molte. 

Infine una nota sul personaggio. Al Zawahiri è stato un ideologo importante, per anni è stato un numero due di grande peso spingendo per la linea internazionalista del jihadismo. Quando, undici anni fa, ha preso il posto di Osama non è riuscito a dimostrare la stessa rilevanza. Al Qaeda è stata superata in estremismo dallo Stato Islamico, più agile, meno paludato, basato sulla pura violenza. Le fazioni di riferimento hanno ripiegato su agende locali, allontanandosi dalla lotta globale. Ayman annoiava la platea con lunghi sermoni via web, i simpatizzanti della guerra santa criticavano i suoi abiti puliti per sottolineare con non si sporcava le mani, lo avevano persino considerato defunto a causa di una malattia. Parlava tanto e pochi lo ascoltavano. Tuttavia non è sparito, è riuscito a mantenere l’influenza sulla vecchia guardia e su alcune componenti regionali. In Somalia, nello Yemen, nel Sahel. Ora lo scettro potrebbe passare ad un altro egiziano, Seif al Adel, un veterano della prima ora, molto esperto ma con un punto debole. Secondo alcuni vivrebbe in Iran, stato nemico del radicalismo sunnita che però ha ospitato oppure per ragioni d’opportunismo diversi dirigenti di al Qaeda. In alternativa il genero di Zawahiri Abdel Rahman al Maghreb, poi Yazid Mebrak esponente del Maghreb o il somalo Ahmed Diriye degli Shebab. Chi crede ai «fantasmi» fa persino il nome di Hamza bin Laden, il figlio del fondatore. Sarebbe stato ucciso durante la presidenza Trump però qualcuno immagina una sorpresa improbabile. Costa poco affermarlo.

Afghanistan, il leader di al Qaida al Zawahiri è stato ucciso in un raid Usa. DANIELE ERLER su Il Domani il 02 agosto 2022

Dal 2011 era l’erede di Osama Bin Laden. È stato ucciso domenica mattina alle 6.48, ora di Kabul, con un attacco di droni. Esulta il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden: «Non importa quanto tempo serve, o dove ti nascondi. Se sei una minaccia, gli Stati Uniti ti trovano». I Talebani condannano l’attacco: «Violati i principi internazionali»

Undici anni dopo Osama bin Laden, gli Stati Uniti hanno ucciso in un raid il suo erede alla guida di al Qaida, Ayman al Zawahiri, 71 anni, considerato il “numero uno” del terrorismo internazionale. L’attacco è avvenuto con un raid di droni, domenica. La conferma, nella notte italiana, è stata data dal presidente Joe Biden. 

La prima svolta nella caccia al super terrorista è avvenuta a inizio anno. La conferma della Cia è arrivata ad aprile. Poi, la settimana scorsa, il briefing decisivo alla Casa Bianca con il via libera finale dello stesso presidente. Domenica mattina alle 6.48, ora di Kabul, l'attacco con i droni. «Non importa quanto tempo serve, o dove ti nascondi. Se sei una minaccia, gli Stati Uniti ti trovano», ha detto Joe Biden, per quello che è il suo primo vero successo internazionale.

IL DISCORSO DI BIDEN 

Erano le sette e mezza di sera negli Stati Uniti quando il presidente è apparso sugli schermi. «Su mio ordine, gli Stati Uniti hanno effettuato un attacco aereo su Kabul, in Afghanistan, che ha ucciso l'emiro di al Qaida, Ayman al Zawahiri», ha detto il presidente Usa. «Giustizia è stata fatta e questo leader terrorista non c'è più».

«Quando ho messo fine alla missione militare americana in Afghanistan avevo promesso agli americani che avremmo continuato a portare avanti le operazioni antiterrorismo». «La mia speranza è che i familiari delle vittime dell'11 settembre possano voltare pagina».

CHI ERA AL ZAWAHIRI 

In questa foto del 1998, Ayman al Zawahri, a sinistra, ascolta durante una conferenza stampa con Osama bin Laden a Khost, in Afghanistan (AP Photo/Mazhar Ali Khan, File)

Di origini egiziane, al Zawahiri è nato il 19 giugno 1951 da una famiglia agiata in un sobborgo del Cairo. Molto sensibile alla religione fin dall’infanzia, è stato educato nel contesto di una visione molto radicale, e violenta, della rinascita islamica sunnita.

Da giovane ha lavorato come chirurgo oculista, iniziando a viaggiare per l’Asia centrale e il medio oriente. Ha partecipato alla guerra in Afghanistan contro l’Unione sovietica e in questo contesto ha incontrato il giovane saudita Osama bin Laden e altri militanti arabi che, come lui, si stavano organizzando per combattere.

AL QAIDA

Il 6 ottobre del 1981, il presidente egiziano al Sadat è stato assassinato da Khalid al Islambuli, un esponente di un’organizzazione terroristica riconducibile al jihad islamico radicale egiziano. Subito dopo la sua morte centinaia di militanti sono stati arrestati e torturati nelle carceri egiziane: fra loro c’era anche al Zawahiri. Questa esperienza, secondo i suoi biografi, ha contribuito a radicalizzarlo.

È in questa fase che ha deciso di fondere il suo gruppo islamista egiziano con al Qaida, portando l’esperienza organizzativa affinata nel contesto locale. Ha dato un contributo fondamentale alla crescita dell’organizzazione. E alla sua prospettiva di jihad globale, attraverso l’organizzazione di una serie di cellule in varie parti del mondo.

L’11 SETTEMBRE

All'epoca degli attentati negli Stati Uniti, 21 anni fa, al Zawahiri era il numero due – dietro a bin Laden – nella lista dei 22 “terroristi più ricercati” dagli Usa. Su di lui pendeva una taglia di 25 milioni di dollari. È considerato fra gli ideatori dell’attentato alle Torri gemelle.

Il 13 gennaio 2006 è stato l’obiettivo di un attacco missilistico americano vicino al confine del Pakistan e l'Afghanistan. Sono morti quattro membri di al Qaida, ma Zawahiri si è salvato. Due settimane dopo è apparso in un video in cui avvertiva che «né Bush né tutte le potenze della terra» avrebbero anticipato di un secondo la sua morte, rispetto al destino.

E in realtà la sua morte è stata annunciata e poi smentita più volte negli ultimi vent’anni. L’ultima volta lo scorso autunno, quando era stato dato per gravemente malato e forse morto.

IN AFGHANISTAN

Il fatto che sia stato ucciso a Kabul è significativo. Da quando, un anno fa, gli Stati Uniti hanno abbandonato l’Afghanistan gli analisti si chiedevano quanto i Talebani avessero ripreso a proteggere i terroristi di al Qaida. Proprio i Talebani hanno condannato l’attacco di domenica. Il portavoce Zabiullah Mujahi lo ha definito come una «violazione dei principi internazionali».

Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha denunciato in una nota: «Ospitando e dando rifugio al leader di al Qaida a Kabul, i Talebani hanno violato in modo grave gli accordi di Doha e le ripetute assicurazioni al mondo che non avrebbero permesso che il territorio afghano fosse usato dai terroristi per minacciare la sicurezza di altri paesi».

LA RICOSTRUZIONE DELL’ATTACCO

Secondo i media americani, che citano fonti anonime accreditate, all’alba di domenica al Zawahri è uscito sul balcone di una casa a Kabul. L’intelligence americana avrebbe già notato in passato la sua abitudine ad esporsi al balcone, da solo, appena sveglio.

Questa volta un drone ha sparato due missili Hellfire che lo hanno colpito. Secondo alcuni funzionari Usa, citati da Associated Press, la moglie di al Zawahri e altri membri della sua famiglia si erano trasferiti di recente in un rifugio a Kabul.

Nei mesi scorsi gli Stati Uniti hanno lavorato per confermare la sua identità – compresa l’abitudine di stare da solo su quello stesso balcone – e hanno pianificato il raid, autorizzato da Biden.

Daniele Raineri per repubblica.it il 2 agosto 2022.

A quindici giorni esatti dal primo anniversario della caduta della capitale afghana Kabul in mano ai talebani, un drone americano ha ucciso a Sharpur - un quartiere nel centro della città - l'egiziano Ayman al Zawahiri, 71 anni, leader dell'organizzazione terroristica Al Qaeda. Nella notte ha parlato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in diretta dalla Casa Bianca. 

Al Zawahiri è il successore di Osama Bin Laden, ucciso dalle forze speciali americane durante un raid a Abbottabad in Pakistan il 2 maggio 2011. E come allora ci si chiedeva come facesse Bin Laden a vivere indisturbato a poche centinaia di metri da un'accademia militare pachistana, oggi ci si chiede: quale livello di protezione avevano assicurato i talebani afghani al capo di Al Qaeda per consentirgli di nascondersi proprio a Kabul?

Secondo le prime indiscrezioni con Al Zawahiri sarebbe stato ucciso anche il figlio di Sirajuddin Haqqani, ministro degli interni afghano, in passato ricercato per terrorismo dagli Usa. In teoria i talebani negli accordi di Doha avevano garantito agli americani la piena collaborazione contro i gruppi terroristici in cambio del ritiro delle truppe, quindi adesso i casi sono due. 

O al Zawahiri è arrivato a Kabul grazie alla protezione dei talebani oppure lo ha fatto di nascosto. La prima ipotesi è la più probabile perché i talebani hanno rapporti di lunga data con Al Qaeda e negli ultimi anni moltissimi capi di medio e alto livello sono stati trovati e uccisi in Afghanistan, prima che il paese cadesse sotto il controllo dei guerriglieri islamisti. 

L'attacco con i droni

La risposta potrebbe essere anche un misto della prima e della seconda ipotesi, perché i talebani non sono un blocco singolo e ci sono diverse fazioni in lotta tra loro - una fazione potrebbe aver portato al Zawahiri a Kabul contro il volere di altre fazioni.

Da un anno i talebani sono impegnati in una campagna di pubbliche relazioni per far accettare alla comunità internazionale il proprio governo come legittimo, ma questa pretesa si scontra con la realtà: le ragazze non possono frequentare le scuole e adesso il capo di un'organizzazione terroristica è stato trovato dagli americani a Kabul. 

Il fatto che gli americani abbiano scelto di bombardare con un drone rende improbabile l'idea di un possibile accordo sottobanco tra americani e talebani per tradire Zawahiri, altrimenti gli americani avrebbero fatto intervenire le truppe speciali come nei raid per uccidere Bin Laden oppure il capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi.

Il drone ha colpito, secondo le prime testimonianze, alle sei del mattino di sabato e avrebbe ucciso due persone. Si tratta di un raro esempio di operazione antiterrorismo cosiddetta "over the horizon", nel senso che gli americani non sono più in Afghanistan e quindi devono colpire "da oltre l'orizzonte", quindi dalle basi nel Golfo lontane molte ore di volo, con tutti gli svantaggi che ne derivano. Al Zawahiri era la guida senza più carisma di un'organizzazione che era ormai debole al centro e più forte in alcune sue divisioni all'estero, come nel Mali, in Somalia e in Siria. 

Adesso in linea di successione c'è Saif al Adel, sessant'anni, ex colonnello delle forze speciali egiziane diventato veterano di Al Qaeda. 

L'ultima cosa che si sa di lui è che era agli arresti domiciliari in Iran, ma il regime iraniano potrebbe averlo lasciato libero da tempo - perché al Adel potrebbe essere più dannoso agli interessi americani se lasciato in grado di riorganizzare il suo gruppo. Ma la catena di comando di Al Qaeda è opaca e qualcun altro potrebbe essere già stato designato come successore, senza che la notizia sia filtrata - per ora - fino al pubblico.

Uccisione al-Zawahiri: il corpo non si trova, dicono i talebani. Piccole Note l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.

“I talebani affermano di non aver trovato il corpo del leader di Al-Qaeda assassinato dagli Stati Uniti, Ayman Al-Zawahiri , a seguito di un’indagine condotta  dopo la sua uccisione”. Così su New Arab.

A darne comunicazione pubblica è stato il ministro dell’informazione del governo afghano  Zabiullah Mujahid, il quale ha detto che nella casa colpita dal missile americano “è stato distrutto tutto, ma non c’era nessun corpo”.

A proposito di missili rotanti e case disabitate

In un’altra nota avevamo notato che il raid del drone della Cia contro la casa in cui avrebbe trovato rifugio il leader di al Qaeda presentava degli aspetti singolari, a iniziare dai missili non caricati da testate esplosive ma dotati di lame rotanti, in stile Goldrake, usati nell’occasione, mai usati in precedenza, una sorta di arma segreta dell’arsenale dell’Us Army (siamo curiosi di vedere se verranno utilizzati in futuro, dal momento che a occhio tale tipo di arma non sembra di grande utilità).

E ci si interpellava anche sulla mancanza di riscontri oggettivi al raid, come da dichiarazioni ufficiali delle autorità statunitensi, le quali hanno comunicato di non avere alcun interesse a cercare ulteriori prove, essendo bastevoli quelli già in loro possesso, non rivelate alla pubblica opinione.

Inoltre, a suscitare perplessità è anche un altro aspetto della questione, che un occidentale, non avvezzo alle rivalità feroci esistenti nel mondo arabo, non può cogliere.

I pessimi rapporti tra Al Quaeda e i talebani

Tali perplessità sono esposte in un articolo di Eric Margolis ripreso dal sito del Ron Paul Institute: “Il motivo per cui al-Zawahiri vivesse liberamente a Kabul – se davvero era là – rimane un mistero. I rapporti tra al-Qaeda e talebani sono sempre stati pessimi, così come con l’Iran”.

“Eppure al-Zawahiri avrebbe scelto di vivere in un appartamento del centro, circondato da informatori, spie ed ex agenti della polizia segreta del regime con una taglia di 25 milioni di dollari in testa? Ci si chiede anche perché Osama bin Laden vivesse ad Abbottabad, un accampamento militare pakistano, liberamente e senza guardie a presidio”.

Così ci permettiamo di dare notizia anche delle conclusioni delle indagini dei talebani, che peraltro coincidono con una testimonianza da Kabul raccolta dalla Reuters citata nella nota pregressa, secondo la quale la casa sarebbe stata disabitata.

L’annuncio dei talebani, che smentisce seccamente la grandiosa narrazione Usa (a meno che non si sia polverizzato…), potrebbe essere non veritiero, ma ci sembra comunque doveroso darne notizia, lasciando al lettore le conclusioni. Riteniamo che l’importanza della vicenda non dia spazio alla censura preventiva, osservata dai media d’Occidente che hanno snobbato la comunicazione.

L’uccisione di Al Zawahiri, l’erede di Bin Laden : i talebani protestano ma non troppo. Il governo afghano formalmente reagisce ma la componente jihadista è da tempo una spina nel fianco per chi ha stretto gli accordi di Doha e incassato la smobilitazione americana dal Paese. Il sospetto di talpe che abbiano agevolato il lavoro dei droni che hanno eliminato Ayman al-Zawahiri. Giuliano Battiston su La Repubblica il 2 Agosto 2022.

Ayman al-Zawahiri, il medico egiziano a capo dell’organizzazione terroristica al-Qaeda, è stato ucciso domenica 31 luglio, intorno alle 4 del mattino ora italiana, da un attacco aereo della Cia: due missili Hellfire sparati da un drone sul balcone di un edificio di Shirpur, quartiere residenziale nel cuore di Kabul, la capitale dell’Afghanistan controllato dai Talebani.

«Giustizia è fatta». Con le stesse parole usate nel maggio 2011 dal presidente Usa Barack Obama per celebrare l’uccisione di Osama bin Laden, ieri Joe Biden ha rivendicato quella del successore dello sceicco saudita: “sabato, dietro mio ordine, gli Stati Uniti hanno condotto con successo un attacco aereo a Kabul, in Afghanistan, che ha ucciso l’emiro di al-Qaeda: Ayman al-Zawahiri”.

Alla guida di al-Qaeda dal maggio 2011, quando Bin Laden è stato ucciso da un raid dei Navy Seals nel suo compound ad Abbottabad, in Pakistan, in una cittadina simbolo dell’establishment militare, al-Zawahiri ha alle spalle una lunga militanza nell’islamismo radicale e poi jihadista. Nato nel 1951 al Cairo da una famiglia colta e ricca, la sua “carriera” inizia quando aveva soltanto 15 anni.

Joe Biden annuncia l'uccisione del terrorista Al Zawahiri: "Giustizia è fatta"

È il 1966: Sayyid Qutb – ideologo e pedagogista autore di testi cruciali per l’islamismo radicale e amico intimo di uno zio materno di Ayman – viene impiccato. Ayman al-Zawahiri dà vita a una cellula clandestina per rovesciare il governo egiziano. Sogna di realizzare quell’“avanguardia dei pionieri” descritta nei testi rivoluzionari di Qutb. La stessa idea, dopo molti anni di battaglie e di sermoni, lo porterà a Peshawar, in Pakistan, dove arriva come medico e dove negli anni Novanta consolida il rapporto con il saudita Osama bin Laden, promotore della guerriglia anti-sovietica e poi fondatore di al-Qaeda. Sarà a lui che Bin Laden, con la sua morte, lascia in eredità un’organizzazione che molti, negli anni successivi, avrebbero dato per spacciata. E che invece, proprio grazie ad al-Zawahiri, è riuscita a sopravvivere fino a oggi.

Sul breve termine, la sua uccisione è un successo per il presidente Biden. Che ieri ha rivendicato la capacità degli Usa “di difendere gli americani da chi cerca di danneggiarli”. Per i terroristi, ha dichiarato enfaticamente Biden, non c’è scampo: “non importa quanto ci vuole, non importa dove provate a nascondervi, vi troveremo”.

L’operazione della Cia rafforza in effetti la pretesa dell’amministrazione Biden di poter condurre operazioni di contro-terrorismo senza una presenza sul campo. E per il presidente è una piccola rivincita personale, rispetto alla debacle dell’agosto 2021, quando le ultime fasi del ritiro dall’Afghanistan, con i Talebani già in controllo di Kabul e dell’intero Paese, inficiarono le sue previsioni di stabilità e la sua immagine di comandante in capo delle forze armate degli Usa. Rivincita parziale, perché i Repubblicani già lo accusano: il nostro ritiro ha rafforzato al-Qaeda in Afghanistan, sostengono.

Al-Zawahiri è stato trovato, ed eliminato, in quartiere centrale di Kabul, Shirpur, dove dallo scorso agosto vivono molti dei leader dei Talebani. A ridosso del quartiere diplomatico di Wazir Akhbar Khan, per gli afghani che vivono a Kabul Shirpur è il simbolo di molti dei mali che hanno portato al collasso della Repubblica islamica: l’avidità delle classi dirigenti e dei politici, la speculazione edilizia, l’atteggiamento predatorio e cleptocratico delle elite al potere. Un quartiere fatto, almeno per metà, di grandi edifici a più piani, ville di ricchezza pacchiana ed esibita, in passato erano appannaggio dei membri più alti del ministero della Difesa e della politica afghana e che poi i Talebani hanno occupato.

Secondo alcune ricostruzioni, l’edificio in cui viveva al-Zawahiri – a lungo vissuto in clandestinità nel confinante Pakistan e poi nelle aree di confine tra i due Paesi – era controllato dagli Haqqani, una delle anime del movimento dei Talebani. E quella che tradizionalmente più e meglio ha coltivato i rapporti con i jihadisti dalla vocazione globale, come al-Qaeda. Una strategia del fondatore del gruppo, Jalaluddin, poi fatta propria anche dal successore, il figlio Sirajuddin, che è anche il ministro degli Interni dell’Emirato islamico e che, secondo alcune fonti, avrebbe lasciato Kabul, dopo l’attacco aereo.

La presenza del numero uno di al-Qaeda a Kabul, in pieno centro, solleva molti interrogativi sul rapporto tra i Talebani e al-Qaeda. Già nelle settimane scorse, gli analisti dell’Onu sottolineavano come la maggiore libertà di comunicazione da parte di al-Zawahiri coincidesse con il ritorno al potere degli eredi di mullah Omar. Che ieri hanno condannato l’operazione militare degli Stati Uniti.

“L’Emirato islamico d’Afghanistan condanna fortemente questo attacco e lo denuncia come una chiara violazione dei principi internazionali e dell’accordo di Doha. Tali azioni sono una ripetizione delle esperienze fallimentari degli scorsi anni e sono contro gli interessi degli Stati Uniti, dell’Afghanistan e della regione. La ripetizione di tali azioni danneggerà le esistenti opportunità”. Così il comunicato reso pubblico da Zabihullah Mujahid, portavoce dell’Emirato e viceministro della Cultura.

Per i Talebani, l’attacco aereo avrebbe violato l’accordo di Doha, il patto fortemente voluto dal presidente Donald Trump e firmato nella capitale del Qatar nel febbraio 2020. Presentato come un accordo di pace, quel patto serviva a garantire il ritiro delle truppe americane in sicurezza in cambio dell’impegno dei Talebani nel controterrorismo. Oltre che della disponibilità generica a sedersi al tavolo negoziale con altri politici afghani.

Oggi i Talebani accusano dunque Washington di aver violato l’accordo di Doha, violando la sovranità territoriale afghana. Washington accusa i Talebani di aver violato l’accordo di Doha, dando ospitalità al leader di al-Qaeda. Ma i toni formali e pubblici potrebbero nascondere una diversa realtà. Il movimento dei Talebani è un movimento policentrico. Il rapporto con al-Qaeda è sempre stato vissuto con fastidio da una componente dei Talebani. Tanto più ora che i Talebani sono al governo e che hanno bisogno di rafforzare i rapporti diplomatici, per uscire dall’isolamento in cui si sono ficcati con la conquista militare del potere.

Per una componente dei Talebani, aiutare segretamente gli Stati Uniti a eliminare al-Zawahiri avrebbe un doppio vantaggio: indebolire la componente pro-qaedista e accreditarsi agli occhi di Washington e della comunità euro-atlantica. Una strategia che comporta però il rischio di alimentare le divisioni all’interno dei Talebani proprio alla vigilia dei festeggiamenti per il primo anno dalla loro ri-conquista di Kabul.

Guido Olimpio per corriere.it il 3 agosto 2022.

Quando un capo jihadista viene «neutralizzato» non c’è mai una sola versione a narrare l’epilogo. Le versioni corrono veloci come il vento, mescolate a supposizioni, illazioni, teorie. Alcune fondate, altre complottiste. Fa parte del Grande Gioco. 

Il nuovo sceriffo in città

Per al Zawahiri siamo solo all’inizio e al centro del racconto c’è un drone della Cia, uno dei simboli della lotta al terrorismo a livello globale. L’intelligence ne ha fatto la sua arma principale.

Era «il nuovo sceriffo in città», come disse un alto dirigente per spiegare che era l’unico modo per poter eliminare ricercati in zone proibite agli agenti perché troppo lontane e pericolose. È un cecchino appostato che attende che la sua preda esca dal buco. In quel momento la colpisce con missili guidati, a volte «aiutati» da elementi sul terreno che possono illuminare il bersaglio. 

Dal Golfo Persico

I droni sono basati in piste nelle aree di intervento e in quelle limitrofe. In questo caso è probabile che sia partito dal Golfo Persico, vista il rifiuto di Paesi della regione di ospitarli. Il decollo è eseguito da un centro di controllo locale, quindi una volta in quota i comandi passano ad un’altra centrale, magari negli Stati Uniti, alle porte di Washington o in Stati amici.

Qui, all’interno di un cubicolo, ci sono il pilota, l’addetto alle armi, l’uomo dell’intelligence. Siedono davanti a una serie di schermi, luci basse. Guidano la missione via satellite, assistiti da telecamere e sensori. 

L’aereo guidato in remoto può stare su una zona per ore, analizza, segue, verifica. E soprattutto aspetta il momento propizio. Le immagini sono registrate e possono essere girate ai vertici militari o politici. È un blitz in diretta. Una volta riconosciuto il possibile nemico si passa all’azione, con l’ordine di tiro.

Il ritorno a casa

Chiuso l’attacco, il velivolo torna «a casa», mentre gli informatori devono trovare le prove – se possibile – che lo strike ha fatto centro. A volte solo il DNA può dare la certezza: per Zawahiri non c’è questa possibilità di verifica in quanto gli Usa non lo hanno, ma si fidano delle loro fonti (ha spiegato un portavoce). Sono stati uccisi così centinaia di militanti, dalla Somalia allo Yemen. 

I terroristi hanno accusato il colpo, preoccupati dalla minaccia costante sulle loro teste. A inseguirli la Cia, ma anche il Pentagono con il suo reticolo di installazioni. Una di queste a 40 minuti a nord di Las Vegas, con gli equipaggi diventati dei pendolari della guerra. Alla mattina nel «box» della base, alla sera a casa poco lontano dai casinò. 

La campagna è diventata una continua evoluzione della caccia all’uomo, con nuovi mezzi e altri tipi di bombe. Compreso un ordigno che invece di esplodere contiene delle lame che triturano il tetto di un veicolo e i suoi occupanti. Alcuni analisti, osservando la mancanza di deflagrazione sulla casa di al Zawahiri non hanno escluso che gli americani abbiano impiegato un sistema simile, noto come Ninja. Una soluzione per cercare di evitare danni collaterali, che purtroppo ci sono. Per molte ragioni. 

Danni collaterali

L’esplosione può investire dei passanti. Le informazioni all’origine dell’attacco sono sbagliate. L’obiettivo era insieme a innocenti. C’erano degli ostaggi. Proprio a Kabul, un anno fa, un’intera famiglia è stata scambiata per una cellula dello Stato Islamico e un drone statunitense l’ha spazzata via. Anche per Osama Bin Laden venne considerata l’opzione dell’incursione aerea, ma venne accantonata perché poteva avere conseguenze per i civili. La mano passò ai commandos della Marina. 

I plastici della Cia per colpire i nemici Dal Vietnam fino ad Al Zawahiri. Guido Olimpio Il Corriere della Sera il 3 agosto 2022.  

L’intelligence usa la tecnologia avveniristica, si affida alla manualità di un modellista. Un insieme ben raccontato dalle operazioni anti-terrorismo, compresa la fine di Ayman al Zawahiri, ucciso a Kabul da un attacco . Una foto diffusa dalla Casa Bianca ferma un momento: il direttore della Cia, William Burns, è seduto insieme ad altri funzionari al tavolo con Joe Biden. Nel mezzo una scatola in legno chiara. Vista in un altro luogo poteva sembrare una cassetta da lavoro e invece quel contenitore racchiudeva un oggetto importante: la replica, in scala, della casa-rifugio del leader di al Qaeda. Viviamo l’era digitale, però il plastico vecchia maniera è efficace, ti porta «dentro». Il metodo è antico, usato dagli eserciti e dallo spionaggio. La Cia ha un suo laboratorio di specialisti, uomini e donne che devono riprodurre bersagli, palazzi, aree. In un bando pubblico di reclutamento hanno indicato i requisiti: modelli per briefing riservati a dirigenti governativi su «questioni complesse»; addestramento di team; modellini tridimensionali di teatri difficili che possano essere compresi facilmente a prescindere dal background.

Così ne sono stati creati di famosi. Uno per aiutare i commandos che dovevano liberare dei prigionieri nel campo di Son Tay durante il conflitto in Vietnam. La National Geospatial Intelligence Agency, l’agenzia che gestisce i satelliti spia, ha invece realizzato il compound che ospitava Manuel Noriega, deposto nell’89 da un’azione statunitense a Panama, e la palazzina di Abbottabad dove si era nascosto Osama. Non meno celebre quello voluto dal generale Jim Mattis prima dell’invasione dell’Iraq. Gigantesco, ci si poteva camminate dentro, all’aperto, composto da 6 mila mattoncini Lego a rappresentare unità, snodi critici, postazioni. All’Nga il compito è svolto dal 3D Model Shop che segue alcune fasi: mappatura dell’area con dati dei satelliti e da altre fonti; disegno al computer e analisi; stampa dei pezzi in 3D; composizione manuale del plastico. I tecnici non sanno chi sia il target, tutto è top secret, possono solo provare a immaginare. A meno che una mattina guardando un Tg non riconoscano che la casa in miniatura che hanno costruito era quella del più grande ricercato sulla faccia della Terra.

Filippo Rossi per “La Stampa” il 3 agosto 2022.

Alle 6 del mattino una forte esplosione vicina. Bum. Niente si muove. È sabato mattina, Kabul si sveglia normalmente. Tutti hanno sentito. Ma ormai, una bomba in più o una in meno, a Kabul, non fa più differenza. Dopo poco il fumo comincia a salire verso il cielo dal quartiere di Sherpur, un'area sicura nella città nuova di Kabul. 

Nessuno si è posto domande fino a lunedì sera, come Khalil, un abitante del quartiere: «Abbiamo sentito l'esplosione, ma pensavamo fosse un tipico attacco contro i civili». Solamente quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato lunedì sera che l'obiettivo del bombardamento era il ricercato leader di Al-Qaeda Ayman Al-Zawahiri - una delle menti degli attentati dell'11 settembre 2001 e successore di Osama Bin Laden dopo la sua morte nel 2013 con un taglia di 25 milioni di dollari sulla sua testa - tutti hanno realizzato l'importanza dell'attacco.

«Incredibile che una persona di questa portata si nascondesse qui», continua Khalil. Fra gli abitanti c'è tensione, un po' di paura e scetticismo. «Siamo un po' preoccupati - dichiara Shahid Zadran, 29, commerciante nella strada principale del quartiere Sherpur -. Questa è una delle zone più sicure della città, dove vivono altri ranghi del governo. Se è vero che hanno ucciso al-Zawahiri, significa che avremo una nuova guerra». 

Mohammadullah, 32, studente universitario e abitante del quartiere, è più scettico: «Sono molto sorpreso di sentire che al-Zawahiri è rimasto ucciso qui vicino. Ma non ci crediamo. Vogliamo vedere il corpo». Se i taleban si attengono al silenzio stampa, nel quartiere di Sherpur controllano meticolosamente le strade. Nessuno può avvicinarsi alla casa bombardata.

Le strade sono bloccate dai mujahidin taleban vicini agli Haqqani, la frangia taleban fortemente legata ad Al Qaeda. La zona, secondo alcune informazioni, è stata evacuata completamente per far uscire i familiari, rimasti illesi, insieme alla salma del leader terrorista. Secondo molte fonti, Al-Zawahiri si sarebbe nascosto a Kabul già da tempo, ospitato in una casa di un amico stretto del ministro della difesa taleban, Serajuddin Haqqani. 

L'attacco è stato fortemente condannato dall'Emirato Islamico dell'Afghanistan, il quale, attraverso il suo portavoce Zabiullah Mujahid, ha dichiarato che «rappresenta una chiara violazione degli accordi di Doha» firmati nel 2020 fra Usa e taleban. Una cosa reciproca, visto che anche gli Stati Uniti accusano i taleban di aver ospitato terroristi su suolo afghano, uno dei punti chiave dell'accordo.

Ciononostante, il movimento taleban, dopo la dichiarazione ufficiale rilasciata lunedì sera, non ha più voluto esprimersi sulla questione. Secondo un giornalista locale, anonimo, «è nel loro interesse insabbiare la faccenda per evitare troppe domande scomode». La presenza di una personalità come al-Zawahiri fa però risorgere la questione della vicinanza fra taleban e gruppi terroristici. 

«Oggi i membri di Al Qaeda non sono liberi come lo erano negli Anni 90» - commenta il giornalista - «In realtà, negli Anni 90 potevano girare liberamente nel Paese e molti afghani hanno aderito all'ideologia del movimento. Tuttavia, da quando i taleban hanno ripreso il potere l'anno scorso, i membri di Al Qaeda, ancora presenti sul territorio, non hanno avuto molte libertà, obbligati a rimanere inosservati per essere tollerati».

Questo probabilmente perché non tutte le differenti fazioni taleban sono d'accordo con la presenza di terroristi: «Si pensa anche che membri dell'Emirato Islamico stesso abbiano aiutato gli Stati Uniti a colpire al-Zawahiri» - conclude il giornalista -. «Perché se lasciato libero di agire, avrebbe potuto diventare nuovamente una mina vagante incontrollata per il Paese». 

Al Zawahiri, leader di Al-Qaeda, era il mio vicino di casa. Guardando Google Maps, non si capisce realmente cosa significhi. La casa è all’interno di una specie di compound che non è chiuso, non ha cancelli di ingresso. Francesca Borri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Agosto 2022

Edunque il mio vicino di casa era il leader di al-Qaeda. Ma proprio la casa di fronte.

Che Ayman al-Zawahiri fosse a Kabul, invece che in un angolo sperduto dell’Afghanistan, colpisce. Ma in più, era nel centro di Kabul. E anzi: a Sherpur. Guardando Google Maps, non si capisce realmente cosa significhi. La casa è all’interno di una specie di compound che non è chiuso, non ha cancelli di ingresso: ma è l’area in cui abitavano Ashraf Ghani e i suoi ministri e fedelissimi vari, in ville in marmo e finte statue romane che ora sono occupate dai talebani. E i talebani presidiano ogni accesso. E ogni isolato. Ogni incrocio. Sono ville protette da alti muri di cemento, e da fuori, dalla strada, non si vede niente. Ma dalle case intorno, si vede tutto. Dalle finestre. Dai terrazzi.

E l’altro vicino è Wali Jan Hamza. Il nuovo comandante della polizia di Kabul.

A pochi metri poi abita Siraq Haqqani, che tra i talebani, è quello più vicino ad al-Qaeda. E ora, è il più indiziato. Ma davvero si è tenuto sul divano il numero uno dei ricercati? Proprio mentre rilasciava una lunga intervista alla CNN, e tentava di migliorare i rapporti con gli americani? Ayman al-Zawahiri è stato trovato dalla CIA, che in fondo, è stata a Kabul fino ad agosto, o è stato venduto dai talebani, o alcuni tra i talebani? La certezza è una: i talebani e al-Qaeda sono due cose diverse. I rapporti sono soprattutto rapporti personali e familiari. Tribali. Non sono rapporti strategici. Organici.

Perché ai talebani interessa solo l’Afghanistan. Ad al-Qaeda il mondo.

Per gli Stati Uniti, il successo è indubbio. Ma è simbolico. Ormai al-Qaeda è un’ideologia, più che un’organizzazione. Ispira e influenza: ma quello che conta è l’ISIS. Che è una specie di franchising. La sigla comune di jihadisti locali e radicati.

E infinitamente più pericolosi.

Più che un colpo al terrorismo, è un colpo ai talebani. Se anche avessero cooperato con la CIA per ottenere la fine delle sanzioni internazionali, o altro, ora il loro nome è legato ad al-Qaeda: a prescindere dalla realtà. E finora, ha parlato solo il ministro del Vizio e della Virtù. Ha detto che ha infine deciso quale hijab è adatto alle studentesse.

Roberto Bongiorni per “Il Sole 24 Ore” il 3 agosto 2022.

Per il presidente americano Joe Biden probabilmente non poteva esserci momento migliore. Per la leadership talebana, invece, uno peggiore era difficile da immaginare. Le commemorazioni, volute o non volute, hanno sovente bisogno di un evento che le enfatizzi. 

Nel mese che ha visto il disastroso ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan (conclusosi il 30 agosto 2021), il raid che ha portato sabato all’uccisione di Ayman Zawahiri, proprio a Kabul, rappresenta un grande successo - militare e politico - per il presidente americano. Zawahiri era l’ultimo grande terrorista in circolazione. Il chirurgo del terrore, il jihadista che aveva fondato insieme a Osama Bin Laden la rete di al-Qaeda e pianificato gli attacchi contro le Torri Gemelle. Era il pesce più grosso, per quanto la sua influenza sull’ormai frammentato network di al-Qaeda fosse di gran lunga ridotta.

Per la leadership talebana si tratta invece di un caso imbarazzante. Se non avessero saputo nulla della presenza di Zawahiri a Kabul significherebbe che non esercitano il controllo neanche sulla loro capitale. Se lo avessero saputo, allora avrebbero violato un asse portante degli accordi di pace con gli Usa. 

A 12 giorni dall’anniversario della simbolica conquista di Kabul, e quindi della creazione del loro secondo Emirato, che peraltro ha riportato indietro il Paese di molti anni, veder bombardata la propria capitale dalla potenza a cui si chiede da tempo di essere riconosciuti come Governo legittimo, da cui ci si attende lo sblocco dei fondi della banca centrale afghana (sette miliardi di dollari) custoditi presso la Federal Reserve, e da cui si spera possano arrivare presto altri miliardi di aiuti, tutto ciò è umiliante.

Biden può esultare. Gli Stati Uniti sono in grado di colpire il nemico, dovunque e in qualunque modo. Anche senza “boots on the ground”, ha rimarcato. Le elezioni di Midterm si avvicinano. Il colpo segnato può risollevare in parte la sua popolarità in un momento in cui è quasi ai minimi. 

Ogni cosa, tuttavia, può esser guardata da diverse angolazioni. Se si abbandona la retorica elettorale il caso Zawahiri segna la sconfitta di entrambi. 

Quando gli Stati Uniti iniziarono a ritirarsi la priorità era soprattutto una: che abbandonando l’Afghanistan non tornassero gruppi jihadisti decisi a creare una base per sferrare attacchi al mondo occidentale. Una delle colonne portanti negli accordi di pace di Doha era proprio l’assicurazione da parte dei talebani di non consentire a gruppi di estremisti islamici di operare sul loro territorio. Tantomeno di cooperare con loro.

La presenza di Zawahiri a Kabul, si presume protetto da almeno una parte dei talebani, è un campanello d’allarme di cui tutti devono tener conto. Se poi si considera che sulla testa del ministro degli Interni talebano, Sirajuddin Haqqani, un uomo con solidi legami con i gruppi qaedisti pakistani, pende un taglia di 10 milioni di dollari del Dipartimento di Stato Usa, e che altri membri del Gabinetto talebano coltivano relazioni pericolose con al Qaeda, l’Afghanistan che si sono lasciati dietro gli americani è decisamente peggiore rispetto a quello in cui faticosamente cercavano di garantirne la sicurezza.

E che dire dei “nuovi” talebani? Nonostante si fossero presentati in principio come un gruppo di moderati, deciso a non smantellare i progressi che il Paese aveva compiuto negli ultimi 20 anni nel campo dell’economia e soprattutto in quello dei diritti umani, mese dopo mese stanno mostrandosi per quello che sono. Ormai le ragazze non possono nemmeno più frequentare le scuole. 

Il Paese è in balia di una gravissima crisi umanitaria, la peggiore al mondo. Il 15 agosto cade l’anniversario della ri-conquista di Kabul. Ma sarà una triste commemorazione. Per gli americani, protagonisti di un disastro politico e militare. Per i talebani, ormai divisi e incapaci di amministrare il Paese. Ma soprattutto per i civili. Nel tunnel in cui si trovano non si vede alcuna luce. Anzi, potrebbe esser ancora più buio e lungo di quanto già si immaginassero.

Terrorismo, chi era Ayman al-Zawahiri, il dottore a capo di Al-Qaeda dopo Bin Laden. Il Tempo il 02 agosto 2022

Gli Stati Uniti hanno ucciso il leader di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri in un attacco con un drone in Afghanistan. L'operazione è stata condotta a Kabul dalla Cia. Al-Zawahiri, 71 anni compiuti lo scorso giugno, nasce in Egitto a Kafr al-Dawar in un'importante famiglia della borghesia del Cairo che vanta magistrati, letterati e medici. Suo zio materno fu il primo Segretario generale della Lega Araba.

La sua gioventù fu caratterizzata dallo studio. All'Università del Cairo si appassionò a psicologia e farmacologia e conseguì la laurea in medicina. Allo stesso tempo il giovane, definito dai parenti come "un timido" si appassiona alla politica e a 14 anni entra a far parte dei Fratelli Musulmani, un gruppo militante fondamentalista, e divenne uno studente e un seguace di Sayyid Qutb, importante personalità dell'islamismo radicale.

Nel 1979 entrò a far parte del gruppo islamico definito Jihad, in cui alla fine divenne uno dei principali organizzatori e reclutatori. Fu fra le centinaia di arrestati a seguito dell'assassinio del presidente Anwar al-Sadat ma le autorità egiziane non furono in grado di dimostrare alcun collegamento fra lui e l'assassinio, tanto da essere rilasciato dopo aver scontato una piccola pena per possesso illegale di armi.

Negli anni Ottanta si recò in Afghanistan per partecipare con i Mujahidin alla resistenza contro l'occupazione sovietica. Lì incontrò Osama bin Laden. I due furono poi i fondatori di Al-Qaeda.

Nel 1990 al-Zawahiri ritornò in Egitto, dove proseguì a sospingere l'organizzazione del Jihad Islamico su posizioni sempre più oltranziste, mettendo a frutto l'esperienza cumulata in Afghanistan.

Nel 1996 era considerato la più credibile minaccia e il più letale terrorista in grado di colpire gli Usa nei loro interessi. Alla fine dell'anno venne arrestato in Daghestan e incarcerato in Russia per 6 mesi dopo aver provato a reclutare combattenti jihadisti in Cecenia.

Nel 1997 fu ritenuto responsabile del massacro di 62 turisti stranieri nella città egiziana di Luxor, per il quale ricevette una condanna a morte in contumacia nel 1999 da un tribunale militare egiziano.

Il 23 febbraio 1998, emise con Osama bin Laden una fatwa dal titolo "Il Fronte Islamico Mondiale contro gli ebrei e i crociati", un importante passo per ampliare il fronte della loro lotta su scala globale. Il 25 settembre 2001, l'Interpol emise un ordine di arresto a carico di al-Zawahiri in risposta agli attacchi terroristici dell'11 settembre a New York e Washington, contro il World Trade Center e il Pentagono.

Dopo l'invasione statunitense dell'Afghanistan il 'dottore' questo il suo soprannome fra gli esperti di terrorismo è letteralmente scomparso. La sua morte era stata annunciata, e poi smentita, varie volte fino a oggi quando gli Usa hanno annunciato di averlo ucciso in seguito a un raid effettuato da un drone in un quartiere residenziale di Kabul. A partire dal 16 giugno 2011 al-Zawahiri era a capo di Al-Qaeda dopo la morte di Osama bin Laden ad opera di un commando dei Navy Seal. L'ultima apparizione in video del terrorista è avvenuta lo scorso aprile quando tramite Al-Sahab, casa di produzione che ha distribuito la maggior parte dei video dei Qaedisti, in un filmato di nove minuti dal titolo 'The Noble Woman of India' lodava una studentessa indiana che a febbraio aveva sfidato il divieto di indossare l'hijab.

Ayman al-Zawahiri è morto (e con lui si chiude un’epoca). Emanuel Pietrobon su Inside Over il 2 agosto 2022.

Ayman Muḥammad Rabīʿ al-Ẓawāhirī, più noto semplicemente come Ayman al-Zawahiri, è morto. Il medico del più famoso terrorista del XXI secolo, Osama bin Laden, ha trovato la morte in Afghanistan e ad ucciderlo, al termine di una rocambolesca caccia all’uomo durata all’incirca un ventennio, sarebbe stato un drone degli Stati Uniti.

Con la scomparsa del co-fondatore e capo di Al-Qāʿida, succeduto a Bin Laden nel 2011, si apre un nuovo capitolo dell’infinita e senza confini Guerra al Terrore lanciata dalla presidenza Bush Jr all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001. E si aprirà anche una lotta per lo scettro, a meno che il chirurgo terrorista non avesse già predisposto il testamento – il che è (più che) possibile. Una cosa è certa: insieme ad al-Zawahiri muore un’intera epoca.

Morte di un fantasma

Prima che il giornalismo definisse Bin Laden un fantasma – titolo aggiudicato dopo essere scomparso dalla battaglia di Tora Bora del 2001 –, un altro seguace del jihād globale vantava la fama di imprendibile e sfuggente terrorista da molto più tempo, cioè dai primi anni Novanta: Ayman al-Zawahiri.

Adombrato dal carisma e dalla fama di Bin Laden, l’uomo-immagine di Al-Qāʿida, al-Zawahiri aveva cominciato la sua carriera partecipando alla grande cospirazione dei Fratelli Musulmani contro Anwar Sadat ed era un contenitore vivente di segreti indicibili relativi ai peccati delle grandi potenze. Con lui, morto da qualche parte in Afghanistan tra fine luglio e inizio agosto del 2022, viene seppellita (per sempre) anche la storia oscura, e mai indagata a fondo, del suo doppiogioco con FSB e terrorismo nordcaucasico ai tempi della prima guerra cecena.

Al-Zawahiri è morto come è vissuto: avvolto dall’ignoto. Colpito in un luogo sconosciuto dell’Afghanistan – sebbene sembra che si trovasse nel ricco quartiere di Kabul, Wazir Akbar Khan, al momento della neutralizzazione –, in un giorno sconosciuto – tra il 28 e il 31 luglio –, da una bomba sganciata da un drone teleguidato da un soldato statunitense senza volto, operante da una base segreta localizzata da qualche parte degli Stati Uniti.

L’operazione è stata condotta nella massima segretezza, senza vittime collaterali – secondo la versione degli Stati Uniti –, e porterebbe la firma della Central Intelligence Agency, che avrebbe lavorato al piano per oltre sei mesi prima del via libera della Casa Bianca. Non è da escludere che l’omicidio mirato sia avvenuto con il benestare del governo talebano, controllore pressoché totale del territorio – e delle spie ivi residenti – da quasi un anno, come sembra trapelare dal suo primo comunicato, scarno e con un tono di protesta troppo formale.

Biden: “Giustizia è fatta”

Nella notte, all’1.30 ora italiana, il presidente Usa Joe Biden ha confermato l’operazione: “Giustizia è fatta, questo leader terroristico non c’è più”, ha detto affacciandosi dal balcone della Casa Bianca – dove è di nuovo in isolamento a causa del covid. “Miei concittadini americani sabato, su mio ordine, gli Stati Uniti hanno concluso un raid aereo a Kabul, nel quale è stato ucciso l’emiro di al Qaeda”. “Al Zawahiri è stato con Bin Laden tutto il tempo, era il suo numero due, il suo vice al momento degli attacchi dell’11 settembre, era profondamente coinvolto nella pianificazione, uno dei maggiormente responsabili per gli attacchi che hanno ucciso 2.977 persone sul suolo americano”. Il presidente ha citato tutti gli attacchi attribuiti al medico egiziano e ricordato i video di cui fu protagonista nei quali incitava ad attaccare l’America ed i suoi alleati. “Adesso è stata fatta giustizia, questo leader terroristico non c’è più. La gente nel mondo non deve avere più paura di questo leader feroce e determinato. Gli Stati Uniti continuano a dimostrare la loro determinazione e capacità di difendere il popolo americano contro coloro che vogliono colpirci”.

Al-Zawahiri è la fine di un’epoca

Venticinque milioni di dollari. Tanto valeva la testa di al-Zawahiri, il genio che aveva scelto il male. Genio perché, prima di e oltre che essere un terrorista, era stato uno studente modello all’università, poi un chirurgo rinomato con un record di operazioni in tutto il mondo come parte della Croce rossa e Mezzaluna internazionale, uno scrittore e anche un padroneggiatore di lingue – era poliglotta. Qualità e doti messe al servizio di un’Idea, la guerra all’Occidente e ai regimi munāfiqūn del mondo islamico, dopo aver percepito come un trauma la Guerra dei sei giorni ed essere stato esposto alle tesi di Sayyid Qutb.

Insieme ad Al-Zawahiri muore un’intera epoca, quella della generazione di jihadisti stregati dal qutbismo e plasmati dall’invasione sovietica dell’Afghanistan e dalle guerre iugoslave, e si conclude definitivamente il capitolo della War on Terror cominciato nel 2011 con l’eliminazione del suo capo, bin Laden. Ma l’epopea di Al-Qāʿida (e del jihadismo) continuerà.

Nuovi nomi sono già pronti a portare avanti la missione dei padri fondatori della Base. E alcuni di essi hanno le spalle già un ventennio di formazione sul campo, ovvero di combattimenti contro gli infedeli e di partecipazione ad operazioni di alto profilo. Tra di loro, secondo gli analisti del settore, i più papabili sarebbero Saif Al-Adel, Abdal Rahman al-Maghrebi, Yazid Mebrak e Ahmed Diriye. Nomi oggi sconosciuti, ma di cui molto presto si potrebbe sentir parlare di più.

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Chi è Ayman Al Zawahiri. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 30 maggio 2021.

Nato il 19 giugno del 1951 a Kafr el-Dawar, in Egitto, Ayman Al Zawahiri è un terrorista e, per la precisione, si tratta di uno tra i 22 più ricercati dal governo degli Stati Uniti. Medico chirurgo che ha contribuito alla fondazione della Jihad islamica egiziana, è stato uno tra gli ideatori dell’attentato dell’11 settembre del 2001 alle Torri Gemelle. Noto come braccio destro di Osama bin Laden, Al Zawahiri ne è divenuto ufficialmente il successore l’8 giugno del 2011 con la guida del gruppo terrorista islamico di al Qaeda. Preso il posto del suo predecessore, ucciso il mese prima da un commando dei Navy Seal statunitensi, ha consacrato la propria ascesa nell’islam radicale con un video in cui ha spiegato come avrebbe operato nel corso del suo mandato al comando di al Qaeda.

Gli anni della gioventù

Un’infanzia all’interno di una famiglia agiata e di prestigio quella vissuta da Ayman Al Zawahiri, il quale è stato circondato da parenti impegnati professionalmente nel campo della medicina, della magistratura e della letteratura. Il padre era uno dei più importanti dermatologi dell’Egitto, mentre il nonno materno era tra i letterati di spicco della nazione. Dulcis in fundo, lo zio materno era il primo segretario della Lega Araba. La presenza di una famiglia affermata in ambito lavorativo non poteva che fare di lui un giovane impegnato nello studio per conseguire ambiti obiettivi: “Era uno timidissimo, silenzioso. Pregava e studiava” ha detto la sorella Heba Mohamed Al Zawahiri in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera qualche anno fa.

Sin da adolescente Al Zawahiri si è avvicinato ai movimenti islamisti lasciandosi permeare dalle loro ideologie. All’età di 15 anni è stato arrestato quale membro della Fratellanza musulmana, il movimento politico-religioso islamista fondato proprio in Egitto. La formazione era, all’epoca come oggi, illegale. Tuttavia questa circostanza non gli ha impedito di portare avanti la passione per la scrittura, la poesia e gli studi in medicina. Nel 1974 Al Zawahiri ha conseguito la laurea all’Università del Cairo e nel 1978 ha ottenuto anche un master in chirurgia.

Un destino segnato dalle influenze islamiste

Una volta divenuto medico, Al Zawahiri in un primo momento si è dedicato quasi esclusivamente nell’ambito del suo settore professionale. Importante chirurgo oculista, ha aperto una clinica medica al Cairo, aggiornandosi costantemente anche sugli studi di psicologia e farmacologia intrapresi nell’ambito del suo percorso universitario. Poi però, di pari passo, ha iniziato a coltivare anche il suo impegno dentro i gruppi islamisti radicali. Un coinvolgimento che ha raggiunto l’apice soprattutto quando si è avvicinato a Sayyid Qutb, politico egiziano e cultore del Corano. Ed è stato così che nel 1979 il medico si è inserito ufficialmente dentro il contesto radicale islamico della Jihad, l’organizzazione estremista islamista egiziana che trae le sue origini dai Fratelli Musulmani, divenendone uno dei principali punti di riferimento oltre che reclutatore.

L'ascesa criminale: l'attentato a Sadat del 1981

Una parata militare in ricordo dell’inizio della guerra del Kippur, un pubblico esultante e infine un’esplosione succeduta da urla della gente e dalle sparatorie. Era il 6 ottobre 1981: l’allora presidente egiziano Anwar Sadat, sul podio delle autorità, è uno dei primi a rimanere vittime dell’attacco portato avanti nei suoi confronti dalla Jihad. Quel giorno, in quel luogo, era presente anche Ayman Al Zawahiri. Il timido ragazzino ossequioso dei principi religiosi, era divenuto oramai un vero e proprio terrorista. Per il giovane medico la partecipazione all’omicidio del presidente Sadat ha rappresentato un vero e proprio battesimo di sangue.

L’organizzazione a cui apparteneva ha rivendicato l’attentato e tra gli esecutori c’era proprio lui, arrestato assieme ad altri componenti del gruppo subito dopo l’attacco. Non c’erano prove sufficienti per incriminarlo e così Al Zawahiri è rimasto poco in carcere. Ma in quei giorni dove l’Egitto dibatteva su quanto accaduto, il medico non si mostrava più così timido. Al contrario, è emersa una personalità carismatica, capace di ergersi come tra i principali protagonisti del gruppo jihadista egiziano. L’ascesa criminale di Al Zawahiri era solo all’inizio.

L'incontro con Bin Laden

Così come accaduto a molti islamisti dell’epoca, anche per Al Zawahiri nei primi anni ’80 il “salto di qualità” criminale è stato rappresentato dalla fuga in Afghanistan. Qui il medico divenuto terrorista, si è unito a migliaia di jihadisti provenienti da tutto il mondo islamico per lottare contro l’invasione sovietica. Ed è proprio qui che Al Zawahiri ha conosciuto un giovane ingegnere saudita, anch’egli noto nell’ambiente per il suo nascente carisma: Osama Bin Laden.

Tra le montagne afghane, mentre i sovietici erano sul punto di abbandonare il Paese, Al Zawahiri e Bin Laden hanno dato vita alla loro organizzazione destinata a diventare riferimento per il terrorismo islamista: Al Qaeda. In arabo vuol dire “La Base” e l’obiettivo del nuovo gruppo era proprio quello di diventare culla di un’organizzazione ramificata in molti Paesi in cui esportare la guerra santa. 

Una delle basi ideologiche di Al Qaeda era stata presa dal takfirismo, ossia le legittimazione per i musulmani di uccidere gli infedeli. Per Al Zawahiri dunque l’omicidio diventava in tal modo anche un mezzo ideologico e politico. Ogni persona non vicina alla causa islamista, secondo la sua impostazione, poteva essere eliminata fisicamente. Da qui la progettazione di numerosi attentati in varie parti del mondo. Nel suo Egitto ha messo la firma sul massacro di 62 turisti a Luxor nel 1997.

Con Al Qaeda però il medico non è attivo solo in patria. Nel 1996 ad esempio è stato intercettato ed arrestato nella regione russa nel Daghestan. Al Zawahiri, secondo le autorità di Mosca, era impegnato a reclutare seguaci e terroristi da portare in Cecenia, lì dove la causa islamista in quegli anni stava contribuendo ancora una volta a mettere sotto scacco le forze russe. Pochi mesi dopo però è stato rilasciato. Da allora il medico egiziano, raggiunto nel frattempo da una condanna a morte nel suo Paese per l’attentato di Luxor, ha vissuto sempre in latitanza.

L'11 settembre 2001

Il suo nome sarebbe stato destinato a rimanere per sempre legato all’11 settembre 2001, giorno dell’attentato contro New York e Washington. In quanto persona tra le più vicine a Bin Laden, riconosciuto con la sua Al Qaeda quale mandante dell’attacco, Cia ed Fbi lo hanno incluso nella lista tra i terroristi più pericolosi.

Al Zawahiri in quel momento era in Afghanistan, al fianco proprio di Bin Laden. Quando gli Stati Uniti, il 7 ottobre 2001, hanno il Paese, uno degli obiettivi principali era proprio quello di catturare il medico egiziano oramai protagonista indiscusso del terrorismo internazionale.

Leader di Al Qaeda

Proprio il 7 ottobre 2001 Al Zawahiri è comparso in video. Turbante bianco in testa, occhiali spessi sul volto da cui era possibile distinguere uno sguardo serio e concentrato e proiettato verso la telecamera: è così che il terrorista si era presentato al resto del mondo, mentre accanto a sé Osama Bin Laden, vestito con una tuta mimetica, lanciava proclami contro l’occidente. Il video, comparso su Al Jazeera, non è stato l’unico. Negli anni Al Zawahiri era apparso in altre immagini, a volte sempre al fianco di Bin Laden, altre invece da solo. Sempre con l’intento di minacciare l’occidente e di lanciare moniti a chi considerava infedele.

Il suo ruolo nell’organizzazione creata da Bin Laden è cresciuto fino a diventare successore di quest’ultimo dopo la sua morte, avvenuta per mezzo di un raid Usa del 2 maggio 2011 all’interno dell’ultimo rifugio del terrorista saudita. Da allora, Al Zawahiri è leader di Al Qaeda. Ricercato numero uno da parte degli Usa, si nasconderebbe attualmente sempre in Afghanistan.

DAGONEWS l’1 Dicembre 2022.

È stato il figlio prediletto di Osama bin Laden, l'erede designato del signore della guerra di Al-Qaeda. Ora a "The Sun" Omar bin Laden racconta della sua infanzia difficile a Tora Bora, in Afghanistan, dove ha visto testare armi chimiche sui suoi amati cani. E' stato in quegli anni che gli hanno insegnato a sparare con un fucile d'assalto AK-47 nei campi di addestramento dei terroristi. Suo padre aveva tracciato la strada e lui era destinato a seguirlo.

«L'ho visto - dice a proposito degli orribili esperimenti chimici condotti dallo scagnozzo di suo padre -  L'hanno provato sui miei cani e non ero contento. Cerco solo di dimenticare il più possibile tutti i brutti momenti. È molto difficile. Si soffre sempre».

Omar, 41 anni, che prima dell'11 settembre ha voltato le spalle al padre jihadista, si considera "un'altra vittima". Oggi, con gli occhi lucidi per l'emozione, tratteggia abilmente su una tela, una catena montuosa con una spatola intrisa di olio blu vivido: «Il mio soggetto preferito sono le montagne, dopo aver vissuto in Afghanistan per cinque anni. Mi danno una sensazione di sicurezza, come se fossi intoccabile».

A guardare Omar dipingere c'è sua moglie, mentore e confidente Zaina bin Laden.

Zaina, 67 anni, sposata sei volte, descrive Omar come «la mia anima gemella. Soffre di traumi molto gravi, stress e attacchi di panico».

Il tormento di Omar per il padre lo ha portato a consultare dei terapeuti e a farsi prescrivere dei farmaci.

Zaina racconta: «Omar ama e odia Osama allo stesso tempo. Lo ama perché è suo padre, ma odia ciò che ha fatto».

Omar ha lasciato l'Afghanistan nell'aprile 2001, solo cinque mesi prima che Al-Qaeda facesse schiantare degli aerei contro le Torri Gemelle di New York, uccidendo quasi 3.000 persone. Ricordando la sua ultima conversazione con il padre, ha rivelato: «Gli ho detto addio e lui mi ha detto addio. Ne avevo abbastanza di quel mondo. Non era contento che me ne andassi». Da quel momento non si sono più parlati. 

Omar si trovava in Qatar il 2 maggio 2011 quando ha appreso la notizia che i Navy Seals statunitensi avevano assassinato suo padre in un rifugio in Pakistan. Non ha versato lacrime per lui. Ha riconosciuto il corpo di suo fratello Khalid dalle immagini su Internet del complesso preso d'assalto nella città di Abbottabad. «Pensavo che tutto fosse finito e che non avrei più sofferto, ma mi sbagliavo perché la gente mi giudica ancora oggi».

Secondo il resoconto ufficiale degli Stati Uniti, il corpo di Bin Laden è stato sepolto in mare dalla superportaerei USS Carl Vinson 24 ore dopo la sua morte.

Omar è dubbioso e aggiunge: «Sarebbe stato molto meglio seppellire mio padre e sapere dove si trovava il suo corpo. Ma non ce ne hanno dato la possibilità. Non so cosa gli abbiano fatto. Dicono che l'hanno gettato nell'oceano, ma io non ci credo. Credo che abbiano portato il suo corpo in America, perché la gente lo vedesse».

Le opere d'arte di Omar, che vende le sue opere anche per 8.500 sterline al pezzo, sono una terapia, perché l'ombra minacciosa di suo padre incombe ancora su di lui.

Quarto figlio di Bin Laden, Omar è nato in Arabia Saudita dalla prima moglie di Bin Laden, Najwa, nel marzo 1981.

Nel 1991 Bin Laden fu bandito dall'Arabia Saudita per le sue diatribe anti-statunitensi dopo aver formato Al-Qaeda per combattere l'Unione Sovietica in Afghanistan nel 1988.

La famiglia si trasferì in Sudan, in Nord Africa, dove molti dei combattenti jihadisti di Bin Laden lavoravano nelle sue attività agricole e nella costruzione di strade.

Gli Stati Uniti accusarono Bin Laden Senior di gestire campi di addestramento per terroristi in Sudan, dove le autorità gli chiesero di andarsene.

Nel maggio 1996 era di nuovo sulle montagne di Tora Bora, in Afghanistan, e scelse il quindicenne Omar per accompagnarlo.

«Sono stato in Afghanistan per cinque anni ha detto Omar - Mio padre non mi ha mai chiesto di unirmi ad Al-Qaeda, ma mi ha detto che ero il figlio prescelto per portare avanti il suo lavoro. Fu deluso quando dissi che non ero adatto a quella vita. Perché mio padre aveva scelto me? Non lo so, forse perché ero più intelligente, ed è per questo che oggi sono vivo».

Omar e Zaina hanno assistito all'ultima partita dei gironi della Coppa del Mondo del Qatar contro i Paesi Bassi martedì scorso, un'esperienza che lui ha descritto come "incredibile".

Omar sostiene i Mondiali di calcio che si tengono in Qatar, affermando: «Anche gli arabi sono esseri umani». 

Un tempo indottrinato dal padre antiamericano, Omar ora ama McDonald's, Kentucky Fried Chicken e i film di Clint Eastwood. È un anglofilo e sogna di visitare la famiglia di Zaina in Gran Bretagna.

Alla domanda se il suo famigerato cognome lo abbia aiutato a vendere le sue opere, Omar ha risposto: «Il mio nome mi ha aiutato molto». 

Il ritorno di Al Qaeda. Alberto Bellotto su Inside Over il 27 luglio 2022.

L’obiettivo primario era distruggerla. Fare in modo che non potesse più colpire e che i suoi capi fossero annientati. Eppure, dopo oltre vent’anni all’11 settembre Al Qaeda è ancora viva, e soprattutto mostra inquietanti segni di risveglio.

Mentre scorrevano i titoli di coda sull’operazione militare americana in Afghanistan ci si chiedeva se la terra dei talebani sarebbe tornata ad essere un santuario per gli jihadisti. L’amministrazione Biden, nei giorni del caos all’aeroporto di Kabul, aveva sottolineato più volte che l’obiettivo primario dell’invasione era stato raggiunto, che Osama Bin Laden era stato individuato e neutralizzato. Eppure nuovi rapporti e dossier mostrano che anche senza il suo fondatore “la base” è ancora in piena attività.

L’Afghanistan ritorna un santuario del terrore

A metà luglio un lungo e dettagliato dossier delle Nazioni Unite ha riacceso i riflettori sulle orazioni terroristiche come Al Qaeda e Stato Islamico e trovato preoccupanti linee di faglia. Per prima cosa si evidenzia che l’Afghanistan è tornato a essere un rifugio sicuro per gli uomini di Ayman al-Zawahiri, che con il ritorno dei talebani hanno riconquistato spazio di manovra. Anche perché, nota il rapporto Onu, “la leadership di Al Qaeda svolge un ruolo di consulenza presso i talebani e i due gruppi rimangono legati”. Un’unione di intenti non nuova. Già nel 2020 durante gli ultimi momenti concitati delle trattative di Doha tra talebani e Stati Uniti, gli studenti del Mullah Omar consultavano regolamento la leadership qaedista.

Stando ai dossier Al Qaeda rimane presenza nel Sud e nell’est del Paese dove il gruppo è radicato da decenni. Ma cellule si stanno spostando a che verso Ovest, nelle province di Farah e Herat, e verso Nord con lo scopo di reclutare nell’area centro asiatica grazie ai legami con altre formazioni come il Turkistan Islamic Party. Per avere un’idea del livello di commistione tra Al Qaeda e i talebani basti pensare che uno dei rami dell’organizzazione, Al Qaeda nel Sub Continente Indiano (AQIS) che può contare su circa 400 uomini serve direttamente nelle unità di combattimento talebane.

La competizione con l’Isis

Questa alleanza, ma soprattutto la ritrovata libertà di movimento, ha ridato slancio al gruppo. Lo stesso medico egiziano, che nel 2011 ha raccolto la leadership del gruppo dopo la morte di Bin Laden, è tornato a produrre più video, comunicando frequentemente con gli affiliati. Nel dossier si scrive chiamante come “il contesto internazionale sia favorevole ad Al Qaeda che punta a ritornare ad essere il leader della jihad globale dopo gli anni dell’Isis”. Oggi, notano gli esperti, la macchina della propaganda qaedista è meglio attrezzata per competere con quello che resta dello Stato Islamico. Complice anche una dura campagna contro i suoi leader, l’Isis appare in affanno, mentre al contrario Al Qaeda si mostra in ascesa, con Al Zawahiri non solo vivo, ma capace di continuare a comunicare.

Daveed Gartenstein-Ross, analista esperto di anti terrorismo del Valens Global, ha spiegato a Voa come sia evidente “che Al-Zawahiri sia stato sottovalutato e che Al Qaeda oggi sia un’organizzazione molto più forte rispetto a quando il medico ne prese le redini nel 2011 dopo la morte del fondatore”. L’intero impianto del dossier Onu mette in discussione l’efficacia delle strategie antiterrorismo degli Stati Uniti e in generale dell’Occidente. Katherine Zimmerman dell’American Enterprise Institute ha spiegato come “anche dopo 20 anni, alcuni degli agenti più anziani del gruppo rimangano in libertà e siano pronti a portare avanti la lotta”. “La panchina di Al Qaeda”, ha scritto, “è profonda nonostante la lunga guerra condotta dagli Stati Uniti in Afghanistan. La prossima generazione che guiderà il gruppo in realtà sta combattendo già da 20 anni, hanno la stessa esperienza militare che avevano Osama Bin Laden, Ayman Al-Zawahiri e Saif Al-Adel l’indomani dell’11 settembre”.

La questione della successione

È proprio da questo punto che il dossier delinea gli aspetti più significativi. La linea di successione all’organizzazione. Perché se è vero che Al Zawahiri è vivo e continua a comunicare, le sue condizioni di salute restano precarie e verrà il tempo per trovare un successore. Secondo gli analisti degli Stati membri dell’Onu che hanno partecipato alla stesura del report sono almeno quattro i papabili e ognuno di questi dà indicazioni quale potrebbe essere il destino del gruppo. Si tratterebbe di Saif Al-Adel, Abdal Rahman al-Maghrebi, Yazid Mebrak e Ahmed Diriye.

Il primo Al-Adel è l’ipotesi meno praticabile. Fuggito in Iran dopo l’11 settembre 2001, avrebbe operato tra il Paese degli Ayatollah, il Pakistan e il nord dell’Afghanistan. Oggi dovrebbe essere tornato in Iran, ma il Paese è sempre meno un porto sicuro per Al Qaeda. Nel 2020 Abu Muhammad al-Masri, una delle menti dietro agli attentati contro le ambasciate Usa di Nairobi e Dar es Salaam, numero 2 del gruppo e suocero di Hamza bin Laden, è stato raggiunto da dei sicari (forse israeliani) e freddato a colpi di pistola. Questo rende Al-Adel il prossimo della lista e quindi l’opzione meno praticabile per la successione.

Quello più papabile è Abdal Rahman al-Maghrebi, genero di Al Zawhairi e combattente di lungo corso di Al Qaeda. Nato in Marocco, ha ricoperto vari ruolo nell’organizzazione. Secondo il dipartimento di Stati Usa Al Maghrebi è il direttore di As Sahab, braccio centrale dei media del gruppo ma anche il capo dell’ufficio per le comunicazioni estere, un ruolo tutt’altro che burocratico dato che si occupa di coordinare le attività con tutti rami affiliati al gruppo nel mondo, dall’Asia all’Africa, passando per il Medio Oriente. In più dal 2021 è direttore generale di Al Qaeda per l’Afghanistan e il Pakistan. Tutti ruolo verticali che ne fanno il candidato designato.

Il futuro: l’ombra sull’Africa

Ma a dire di più sul futuro del gruppo è un altro dato: il nome degli altri due papabili. Yazid Mebrak, noto anche come Abu Ubaydah Yusuf Al-Anabi, è attivamente il capo di AQIM, Al Qaeda nel maghreb islamico, una formazione fortemente ridimensionata in Africa che mantiene il cuore delle attività in Algeria. Mebrak però ha un ruolo chiave nel coordinare le attività con JNIM (Jamaat Nusrat al Islam wa al Muslimin), emanazione qaedista molto attiva nel cuore del Sahel. 

Il quarto e ultimo in questa sorta di linea di successione, Ahmed Diriye è il capo del gruppo terroristico Al-Shabaab. Dal 2014 guida gli islamisti che controllano parte della Somalia, una formazione che nel 2012 ha giurato fedeltà proprio ad Al Qaeda. Il fatto che venga considerato come papabile qualcuno che non sia nato e cresciuto all’interno dell’organizzazione dà il segno evidente di come siano cambiati gli equilibri nel gruppo.

Il gruppo che controlla il il Corno d’Africa ha risorse quantificabili in 50-100 milioni di dollari l’anno, e di questi almeno 24 vengono spesi in armi ed esplosivi. Ma soprattutto una fetta dei fondi viene dirottata ogni anno proprio verso Al Qaeda. Al-Maghrebi, Mebrak e Diriye, tre nomi e tre storie che portano diretti all’Africa, vera terra di conquista del jihad qaedista contemporaneo.

Per il momento il continente rimane terra di conquista per le province dello Stato Islamico, ma Al Qaedia e affiliati come JNIM continuano a guadagnare terreno. Tolte le “roccaforti” libiche e somale, JNIM ha ampliato l raggio di azione oltre il Mali e i confini porosi limitrofi infilandosi anche in Burkina Faso, Costa d’Avorio, Senegal, Togo e Benin. L’espansione è il frutto di un lavoro portato avanti negli ultimi 5 anni da Iyad Ag Ghali un tuareg che guidò parte dell’insurrezione contro il governo del Mali nel 2012 e che nel tempo ha lavorato alla fusione di vari gruppi terroristici, Al Qaeda nel Magreb inclusa, arrivando alla nascita ed espansione del JNIM.

Questa virata africana si è resa necessaria per il progressivo indebolimento di un altro fiore all’occhiello di Al Qaeda, il braccio operante nella penisola arabica. AQAP, capace di rivendicare altri attacchi globali dopo l’11 settembre, come l’agguato alla sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo nel 2015 o la sparatoria nella base aerea di Pensacola in Florida nel 2019, è progressivamente passata in secondo piano. Negli anni della violenta guerra in Yemen da un lato AQAP si è concentrata sul controllo del territorio, dall’altro è stata decapitata dai droni americani che ne hanno ucciso la leadership in modo continuativo. 

L’ultimo anno ha certificato la pericolosità del rinnovato patto tra talebani e Al Qaeda che ha la possibilità di continuare a fiorire quanto meno in influenza rispetto a tutte le sue succursali. E questo perché orami il cuore afghano rimane come centro decisionale ma non come attore attivo del terrore. Il dossier Onu conclude che per il momento la leadership si asterrà dal condurre attacchi esterni almeno per due motivi. Il primo per l’assenza di “capacità operative esterne” dato che ormai le operazioni vengono condotte dagli affiatati. Il secondo è strategico, effettuare attacchi accederebbe un faro sulle attività del gruppo e soprattutto dei talebani esponendoli a rappresaglie e a ritorni di fiamma da parte dell’Occidente.

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Gli ultimi segreti di Osama Bin Laden. Mauro Indelicato su Inside Over il 25 luglio 2022.  

Al Qaeda in crisi di soldi, di prestigio e con poca reale possibilità di controllare i propri gruppi affiliati. Emerge un quadro senza dubbio diverso e tutt’altro che “gratificante”, agli occhi del mondo jihadista, per Osama Bin Laden e per l’organizzazione da lui fondata e da lui guidata fino alla morte avvenuta a seguito del blitz di Abbottabad nel maggio 2011. A rivelarlo è stato il ricercatore Nelly Lahoud nel libro “The Bin Laden Papers: How the Abbottabad Raid Revealed the Truth about al-Qaeda, Its Leader and His Family“. Un testo in cui sono stati raccolti e analizzati migliaia di file presi dal compound dove il terrorista saudita ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita. Una mole enorme di informazioni che ha permesso di ricostruire circa un decennio di storia.

I file presi ad Abottabad

Tutto è partito dagli ultimi 18 minuti impiegati dai Navy Seals che il 2 maggio 2011 si trovavano all’interno dell’abitazione di Bin Laden. Le forze speciali Usa, dopo aver individuato l’abitazione del leader di Al Qaeda, hanno attuato un blitz durato complessivamente 48 minuti. Momenti in cui il principale ricercato è stato scovato e subito dopo ucciso. Prima di abbandonare l’area, situata in una zona residenziale della città pakistana di Abbottabad, i Navy Seals hanno cercato ogni tipo di documento potenzialmente importante da portare via. Era risaputo, visto che proprio grazie a questo tipo di comunicazione che Bin Laden è stato trovato, che il fondatore di Al Qaeda dialogava con i suoi collaboratori più fidati tramite schede Sd al cui interno erano presenti file e documenti di ogni tipo.

Dal Pentagono hanno poi specificato che sono stati raccolti qualcosa come 470.000 file. Una quantità enorme e che ha richiesto tempo e pazienza per essere sapientemente esaminata. Ma, alla lunga, si è rivelata importante per capire l’organigramma di Al Qaeda e scovare altri leader dell’organizzazione. Nel corso degli anni poi buona parte dei documenti sono stati desecretati. Nelly Lahoud ha avuto modo di esaminarli e analizzarli, realizzando poi un libro con il quale ha raccontato “l’altra faccia” di Bin Laden e della sua organizzazione.

Al Qaeda in fase calante dopo l’11 settembre

Gli attacchi contro le Torri Gemelle di New York hanno dato a Osama Bin Laden e ad Al Qaeda una popolarità mondiale. Lo “sceicco del terrore” e l’organizzazione jihadista hanno assunto l’aspetto di nemico principale dell’occidente e di spauracchio più temibile. Sul versante jihadista ovviamente Bin Laden è invece diventato un riferimento, una persona capace con l’11 settembre non solo di colpire gli Stati Uniti, ma di fare proselitismo negli ambienti più radicali.

Eppure, l’attacco diretto agli Usa ha rappresentato il picco e l’apice dell’azione di Al Qaeda. Dopo è iniziata una lunga ma inesorabile fase calante. Tra i documenti analizzati da Lahoud è emerso addirittura come l’organizzazione terroristica avesse anche problemi nel finanziarsi. Nel 2004 la situazione economica di Al Qaeda era quasi allo sbaraglio, con Bin Laden preoccupato di non poter mandare avanti i propri piani. In questo periodo il fondatore del gruppo jihadista è descritto come “frustrato e inquieto“, consapevole delle difficoltà.

A pesare sulle sorti della sua organizzazione è stata in primo luogo la stessa popolarità raggiunta dal gruppo. Maggiore esposizione ha voluto significare anche maggiori attacchi da parte degli Stati Uniti, impegnati dopo l’attentato dell’11 settembre a smantellare le basi di Al Qaeda in Afghanistan. Qui Bin Laden e i suoi avevano trovato ospitalità a partire dal 1994 e hanno potuto ramificarsi maggiormente sul territorio con l’arrivo al potere nel 1996 dei Talebani. Dopo gli attacchi alle Torri Gemelle, molti leader sono stati uccisi, altri catturati, così come diverse vie di comunicazione tra i principali capi sono state intercettate e interrotte. Lo stesso Bin Laden è stato costretto a rifugiarsi tra le montagne afghane prima di trovare un alloggio più confortevole nel compound di Abbottabad.

Tuttavia non è soltanto la guerra lanciata da Washington ad aver indebolito Al Qaeda. La popolarità ha sì permesso l’avvicinamento di migliaia di jihadisti ed estremisti ma, al tempo stesso, ha fatto perdere di vista all’organizzazione la bussola ideologica. Secondo quanto trapelato dai file analizzati da Lahoud nel suo libro, Al Qaeda a un certo punto sembra essere diventata troppo “pesante” da gestire. Centinaia di nuovi gruppi al proprio interno hanno voluto significare centinaia di teste ideologicamente lontane dallo stesso Bin Laden. Quest’ultimo voleva concentrarsi soprattutto sulla jihad globale, da attuare con nuovi attentati internazionali in modo da costringere gli Usa e l’occidente, sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale, a interessarsi sempre meno del medio oriente e ad abbandonare la regione.

Al contrario, i vari gruppi di Al Qaeda sorti nei primi anni 2000 hanno avuto come principale riferimento quello di portare solo a livello locale la jihad. Erano cioè interessati unicamente alle vicende della regione di pertinenza e non avevano gli Stati Uniti come principale nemico. Circostanza che più volte, secondo i file trovati ad Abbottabad, avrebbe fatto indispettire e non poco Bin Laden.

Bin Laden impossibilitato a organizzare nuovi attacchi internazionali

É vero, come sottolineato dallo stesso Lahoud, che Al Qaeda ha rivendicato altri due attacchi contro l’occidente dopo l’11 settembre. Il primo è dell’11 marzo 2004 a Madrid, il secondo invece è quello del 7 luglio 2005 a Londra. Tuttavia, scorrendo la mole di documenti in suo possesso, il ricercatore non ha trovato chiari segnali di un’organizzazione di quegli attacchi partita direttamente dalle basi di Al Qaeda o dai nascondigli di Bin Laden. Gli attentati cioè sono stati sì ideati e portati a termine da cellule vicine ad Al Qaeda, ma probabilmente lo stesso sceicco del terrore non era direttamente al corrente dei vari piani poi attuati nelle due capitali europee. La sua organizzazione si è intestata gli attacchi, specialmente dal punto di vista ideologico. Ma, per l’appunto, non sono mai saltate prove sufficienti a dire che Bin Laden in persona abbia o meno pianificato quelle due azioni.

L’unica vera operazione internazionale organizzata dal vertice di Al Qaeda dopo l’11 settembre ha riguardato l’attacco, avvenuto nel novembre del 2002, contro obiettivi israeliani nella città keniota di Mombasa. Ma, come sottolineato dallo stesso autore del libro, quell’operazione ha iniziato a essere pianificata prima degli attentati contro New York e Washington. Questo come ulteriore prova delle difficoltà di Al Qaeda di attuare attacchi internazionali e della fase calante post 11 settembre. Tanti gruppi in varie parti del pianeta hanno indossato il “cappello” dell’organizzazione fondata da Bin Laden, ma raramente quest’ultimo è stato al corrente dei piani.

Il rapporto con i Talebani

Anche sulle intese con i Talebani non sono mancate sorprese rispetto a quanto saputo negli ultimi anni. Secondo Lahoud, il rapporto con gli studenti coranici non sempre è stato idilliaco e non sempre è stato “perfetto”. Bin Laden, in particolare, negli ultimi anni soprattutto lamentava ai suoi collaboratori più stretti una determinata “deriva” dei Talebani. Secondo il terrorista, una parte di loro è rimasta fedele ai dettami e agli schemi ideologici del Mullah Omar, fondatore del gruppo, ma un’altra a Bin Laden è sembrata essere “al soldo” esclusivo dei servizi segreti pakistani. Per questo, specialmente nella seconda metà degli anni 2000, ha sempre consigliato maggiore “discrezione” nei rapporti con i Talebani. Sul fronte dei rapporti con l’Iran, nella mole di documenti scovata ad Abbottabad non sono stati trovati riscontri significativi. Teheran, in particolare, avrebbe ospitato alcuni capi di Al Qaeda negli anni successivi alla fine del primo emirato talebano in Afghanistan, senza però fornire sostegno decisivo e significativo all’organizzazione.

In conclusione, l’immagine che emerge di Bin Laden e della sua rete di terrore è apparsa, se non ridimensionata, comunque meno potente del previsto all’interno della galassia jihadista. Al Qaeda ha sì ispirato più generazioni di fondamentalisti, ma non ha guidato l’intero mondo islamista. L’equiparazione Al Qaeda/jihadismo degli anni immediatamente successivi all’11 settembre, alla luce degli ultimi riscontri, ne è uscita oltremodo forzata. Prova ne è il fatto che, una volta ucciso Bin Laden e una volta affacciatasi alla ribalta una nuova organizzazione, quell’Isis partita come costola irachena poco controllabile della stessa Al Qaeda, il gruppo fondato dal miliardario saudita si è ulteriormente ridimensionato e ha perso anche il ruolo guida a livello ideologico.

Il "cervello operativo" degli attacchi dell'11 settembre. Chiara Clausi su Il Giornale il 3 agosto 2022.

Lo chiamavano «The Doctor». E se Osama bin Laden era «Il Principe», il leader carismatico, Ayman al Zawahiri, 71 anni, oculista di professione, e medico personale dello «sceicco del terrore» era il principale ideologo di al Qaida. Ne ha assunto la guida dopo l'uccisione del fondatore da parte delle forze statunitensi nel maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan. Era il suo braccio destro e ritenuto il «cervello operativo» dietro gli attacchi dell'11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Zawahiri è emerso poco alla volta. Prima come il più importante portavoce dell'organizzazione. È apparso in 16 video e audiocassette nel 2007, mentre il gruppo cercava di radicalizzare e reclutare musulmani in tutto il mondo. Zawahiri era pure nella lista dei 22 terroristi più ricercati annunciata dal governo degli Stati Uniti nel 2001 e aveva una taglia di 25 milioni di dollari sulla testa. Ma ha anche progettato altri atti di violenza, tra tutti l'attentato con un barchino suicida al cacciatorpediniere USS Cole ad Aden nell'ottobre 2000 che uccise 17 marinai statunitensi e gli attacchi del 1998 alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, dove morirono 223 persone.

Non era la prima volta che gli Stati Uniti cercavano di farlo fuori. Nel gennaio 2006 è stato bersaglio di un attacco missilistico vicino al confine tra Pakistan e Afghanistan. Zawahiri nato al Cairo, il 19 giugno 1951, proveniva da una rispettabile famiglia di medici e studiosi della classe media. Suo nonno, Rabia al-Zawahiri, era il grande imam di al-Azhar, il centro della cultura islamica sunnita in Medio Oriente, mentre uno dei suoi zii era il primo segretario generale della Lega Araba. Zawahiri è stato arrestato già a 15 anni per essere un membro della Fratellanza Musulmana, la più antica e più grande organizzazione islamista d'Egitto fuorilegge. Anche se è stato prosciolto dal coinvolgimento nell'assassinio di Anwar Sadat, è stato condannato per possesso illegale di armi. Secondo altri prigionieri, è stato torturato e picchiato dalle autorità durante la sua detenzione in Egitto, un'esperienza che si dice lo abbia trasformato in un estremista fanatico e violento. Zawahiri ha assunto la guida della Jihad islamica egiziana dopo che è riemersa nel 1993 e si pensa che abbia viaggiato per il mondo negli anni '90 alla ricerca di finanziamenti. Nel 1997 si è trasferito nella città afghana di Jalalabad, dove viveva anche bin Laden. Un anno dopo, la Jihad islamica egiziana si unì ad altri cinque gruppi militanti islamici radicali, tra cui al-Qaeda di Bin Laden, nel formare il Fronte islamico mondiale per la Jihad contro ebrei e crociati.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 27 maggio 2022.

Il nome di battaglia è Abu al-Hasan al-Hashimi al-Qurashi, è iracheno e a marzo era diventato il nuovo leader dell'Isis. Ieri c'è stata la svolta: alti funzionari turchi hanno fatto trapelare la notizia della sua cattura, nel corso di un blitz a Istanbul. 

Lo ha rivelato il sito web di informazione turco Odatv, che ha annunciato: gli uomini dell'antiterrorismo e gli agenti dell'intelligence hanno arrestato il nuovo numero uno dell'Isis la settimana scorsa. Il suo predecessore, Abu Ibrahim al-Qurashi, era stato ucciso nel corso di una operazione condotta dagli americani in Siria. 

La ricostruzione del sito turco, ripresa anche da Bloomberg, conferma: il presidente Erdogan è stato informato della cattura del leader dell'Isis, lui stesso dovrebbe divulgare i dettagli dell'arresto nei prossimi giorni.

L'uomo è stato preso al termine di una lunga indagine, con la polizia che ha sorvegliato per molto tempo al-Quarashi prima fare di irruzione nella casa in cui si trovava nella periferia di Istanbul. Nel corso del blitz non sono stati esplosi colpi d'arma da fuoco.

Spiega l'articolo di Odatv, il sito turco che ha anticipato la notizia (anche se ancora non ci sono conferme ufficiali da parte delle autorità): «Un presidio della polizia è stato allestito intorno alla casa in cui si nascondeva il leader dell'Isis. La scorsa settimana i team dell'Intelligence and Anti-Terrorism Branch di Istanbul hanno effettuato un'operazione di valenza mondiale. Senza che venisse sparato un solo proiettile, il nuovo leader dell'Isis, Abu Hasan al-Qurashi, è stato catturato».

L'operazione è stata svolta in gran segreto. Subito dopo la cattura, il leader dell'Isis è stato interrogato da una squadra di esperti dell'anti-terrorismo turco. «Al termine - scrive Odatv - sono state raccolte informazioni molto importanti sulle incognite dell'organizzazione. Il presidente Recep Tayyip Erdogan annuncerà i dettagli della cattura del leader dell'Isis, che diventerà un argomento molto importante per quanto riguarda la lotta della Turchia contro il terrorismo sulla scena internazionale».

Il 3 febbraio scorso, il presidente americano, Joe Biden, aveva spiegato che Abu Ibrahim al Hashimi al Qurashi, leader dello Stato islamico, era morto al termine di una operazione di un commando formato da una ventina di militari Usa, supportati da droni, caccia ed elicotteri, nel nord-ovest della Siria, nella regione di Idlib, non lontano dal confine con la Turchia.

La Casa Bianca, nelle ore successive l'operazione, aveva diffuso una nota ufficiale in cui spiegava: «Le forze militari statunitensi nel nord-ovest della Siria hanno intrapreso con successo un'operazione antiterrorismo per proteggere il popolo americano e i nostri alleati e rendere il mondo un posto più sicuro. 

Grazie all'abilità e al coraggio delle nostre forze armate, abbiamo eliminato Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi, il leader dell'Isis». Al Quarashi non era stato catturato vivo perché si era fatto esplodere insieme alla sua famiglia. All'interno della casa erano stati trovati tredici cadaveri.

Tre anni prima, invece, era stato eliminato il precedente numero uno dell'Isis, Abu Bakr al Baghdadi, sempre in seguito a una operazione di militari americani in Siria. Anche in quel caso, la versione ufficiale sostiene che al Baghdadi si fece esplodere con una cintura esplosiva. Questa è la sorte dei due predecessori. 

A marzo la nomina di Abu el Hasan al Hashimi al Qurashi (nome di battaglia, quello vero è sconosciuto) che, secondo fonti irachene, è il fratello di Abu Abkar el Baghdadi. Ieri la svolta (se sarà confermata la notizia) con l'annuncio della sua cattura in un quartiere di Istanbul. Nei giorni scorsi il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, al forum di Davos, ha spiegato che la Turchia ha «un ruolo chiave nella lotta all'Isis».

L’Isis adesso ha un nuovo leader. Mauro Indelicato su Inside Over l'11 marzo 2022.

L’Isis ha un nuovo leader: si tratta di Abu Hasan al-Hashemi al-Qurashi. L’annuncio è stato dato dai canali mediatici vicini allo Stato Islamico nelle scorse ore e, in particolare, dal network al Furqan Media. Una voce audio registrata ha ordinato a tutti i seguaci dell’Isis di prestare obbedienza al nuovo “califfo”, il quale succede ad Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, fattosi saltare in aria il 3 febbraio scorso dopo un blitz delle forze Usa in Siria. Nell’audio diffuso sui media ufficiali dello Stato Islamico peraltro è stata confermata l’uccisione dello stesso Al Qurayshi, sgombrando in tal senso ogni dubbio sull’identità della persona uccisa il mese scorso.

Cosa si sa del nuovo leader

Il nuovo califfo sarebbe un iracheno tra i 50 e i 60 anni. Ma di lui non si hanno foto recenti, né tanto meno identikit. Si conosce invece il vero nome: Bashar Khattab Ghazal al Sumaidai. A riferirlo sono stati uomini dell’intelligence irachena ad AgenziaNova. Le forze di sicurezza di Baghdad lo hanno da tempo nel mirino e il mese scorso, subito dopo la morte di Al Qurayshi, avevano parlato di Al Sumaidai come successore. Il nome Abu Hasan al-Hashemi al-Qurashi, con il quale è più noto soprattutto tra i miliziani jihadisti, gli sarebbe stato attribuito in battaglia. Del resto anche i suoi predecessori erano più conosciuti con il nome di battaglia che con quello ufficiale. Il nuovo leader sarebbe stato scelto perché tra i fedelissimi della prima ora di Abu Bakr Al Baghdadi, fondatore del califfato. Quando nel 2013 quest’ultimo si è spostato in Siria con l’intento di unire la costola irachena di Al Qaeda da lui guidata con quella siriana, Al Qurashi avrebbe subito sposato l’idea. Si è quindi schierato con Al Baghdadi prima ancora che le lotte con i jihadisti siriani e con il Fronte Al Nusra provocassero la scissione e quindi la nascita del gruppo poi noto come Isis.

Al Qurashi inoltre sarebbe originario del nord dell’Iraq e conoscerebbe quindi molto bene i territori da cui è nato il califfato. Anche questo ha contribuito a renderlo tra gli uomini più vicini al califfo. Avrebbe quindi vissuto a Raqqa, città siriana occupata dall’Isis e “capitale” dello Stato Islamico. Quando poi il califfato ha iniziato a perdere il suo territorio, Al Qurashi potrebbe essere riuscito a scappare e a rifugiarsi nel 2017 prima in Iraq e successivamente in Turchia. L’intelligence di Baghdad e quella statunitense lo avevano sotto occhio da anni e sarebbero riuscite a ricostruire i suoi spostamenti nel Paese anatolico. Sarebbe soltanto dello scorso anno il suo ritorno tra Siria e Iraq. Adesso la nomina come nuovo califfo e il compito di organizzare un gruppo, quale quello jihadista, in crisi sì e senza più un territorio controllato, ma al tempo stesso ancora molto pericoloso.

Successione immediata o lotta per il potere?

La nomina del successo di Al Qurayshi tutto sommato è stata celere. Secondo molti analisti potrebbe essere avvenuta addirittura ancora prima di marzo. Charles Lister, analista del Middle East Institute, è convinto che l’audio con cui è stata annunciata la nomina di Al Qurashi sia stato registrato subito dopo il raid contro il predecessore. Ma la sua diffusione è avvenuta soltanto adesso per due possibili motivi. In primis, un difetto di comunicazione interno al califfato. Del resto buona parte dei suoi generali e delle personalità più importanti vivono adesso nascosti tra la Siria e l’Iraq è le comunicazioni interne non sono affatto semplici, né tanto meno è semplice comunicare con l’esterno. Oppure, ed è questa l’altra ipotesi, si è volutamente tenuta nascosta la notizia per evitare malumori e scintille tutte interne alla galassia jihadista.

La morte di Al Qurayshi ha colto di sorpresa l’Isis e il gruppo probabilmente non era pronto alla successione. Se per davvero si è proceduto a una rapida nomina del nuovo leader, è possibile che non siano state consultate tutte le anime del gruppo. Da qui i timori di nuove faide tra i terroristi. Al Qurashi eredita un’organizzazione molto spezzettata e divisa in una miriade di cellule. Ma, al tempo stesso, l’Isis rispetto all’anno scorso appare molto più forte. E questo vale sia per i territori siriani e iracheni, dove gli islamisti a gennaio sono riusciti a piazzare importanti colpi contro le forze locali. Così come per il contesto africano, dove l’Isis appare in ascesa sia nel Sahel che nella parte australe del continente. Ma la vera preoccupazione oggi arriva dall’Afghanistan. Il gruppo dell’Isis-K, la costola locale del califfato, ha avviato una lotta a tutto campo contro i talebani e si è arricchito al suo interno delle adesioni di ex membri delle forze di sicurezza afghane sciolte con l’arrivo degli studenti coranici. A dimostrazione dell’ascesa nell’area dell’Isis-K anche l’attentato compiuto nei giorni scorsi a Peshawar, città pachistana vicina al confine solitamente un rifugio “tranquillo” per i talebani.

Che cos’è il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Mauro Indelicato su Inside Over il 26 dicembre 2021. Il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina è uno dei movimenti palestinesi più importanti, in passato anche organico all’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Fondato nel 1967 da George Habash, il gruppo negli anni ha ruoli di primo piano in alcuni degli attacchi di matrice palestinese compiuti soprattutto in occidente e in territorio israeliano. Nonostante una perdita di consensi nei territori, il Fronte è ancora oggi attivo.

La nascita del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina

La fondazione del Fronte è datata 1967. In quell’anno un palestinese cristiano originario di Lidda decide di fondere più movimenti. Si tratta di George Habash, il quale già nel 1953 dà vita al Movimento Nazionalista Arabo, un gruppo che concepisce la causa palestinese nella più ampia questione di rinascita del mondo arabo.

Habash matura questa convinzione durante gli anni di permanenza a Beirut, città in cui compie i suoi studi e dove si laurea in medicina presso l’Università americana nel 1952. Le sue idee hanno un orientamento marxista e laico ed è per questo che nel 1967 decide di organizzarsi assieme al Fronte di Liberazione per la Palestina, agli Eroi del Ritorno e ai Giovani Vendicatori per dare vita al nuovo movimento del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.

La presenza del termine “popolare” nel nome del nuovo gruppo indica espressamente l’adesione agli ideali marxisti e comunisti, diventando così il movimento più a sinistra all’interno dell’universo della resistenza palestinese. Habash viene riconosciuto quale leader e subito il Fronte trova agganci in diverse regioni del medio oriente per mettere in piedi le sue ramificazioni.

A livello internazionale un importante appoggio viene dato, a partire dal 1969, dalla Libia di Muammar Gheddafi. Ma sedi del gruppo vengono fondate anche in Arabia Saudita e in Kuwait, almeno secondo le indicazioni dell’intelligence israeliana di quegli anni.

L’obiettivo è promuovere i propri ideali nell’intero mondo arabo, formando anche milizie paramilitari. Si calcola che entro il 1970 il Fronte è in grado già di addestrare fino a 3.000 combattenti. Non mancano però defezioni già subito dopo la fondazione. Il Fronte di Liberazione esce nel 1968, l’anno successivo da una costola del movimento di Habash fuoriescono esponenti maoisti che danno origine al Fronte Democratico di Liberazione.

Nonostante la perdita di alcune fazioni, il Fronte comincia a diventare uno dei riferimenti tra i vari movimenti palestinesi a partire dai primi anni ’70. In quel periodo, è bene specificare, a dominare la scena politica palestinese è soprattutto Yasser Arafat, numero uno di Al Fatah.

L'ideologia del gruppo

Il primo elemento che risalta nell’ideologia del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina riguarda l’adesione alla causa palestinese. Secondo Habash e i suoi seguaci, la priorità è ridare le terre ai cittadini palestinesi fuoriusciti dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948. Contestualmente a questo principio, il Fronte nega il diritto all’esistenza dello Stato ebraico. Dunque la Palestina dovrebbe sorgere nell’intero territorio israeliano, negando la possibilità di coesistenza di due nazioni.

L’altro elemento importante dell’ideologia del Fronte è il panarabismo. La difesa della causa palestinese, secondo questa visione, passa anche da uno sguardo a tutto tondo sul mondo arabo. E, di conseguenza, su una rivoluzione da applicare all’interno di esso. Lo stesso Habash spiega questo concetto nel 1973 al giornalista John Coley: “La società scientifica d’Israele contro la nostra arretratezza nel mondo arabo – si legge nelle sue dichiarazioni – Ciò ci chiama alla totale ricostruzione della società araba, trasformandola in una società del XX secolo”. Una trasformazione che deve passare attraverso una secolarizzazione e l’emancipazione delle classi più povere, chiamate a lottare contro gli stessi Stati arabi definiti “reazionari”.

E qui si arriva al terzo punto dell’ideologia del Fronte. Il gruppo si distingue da molti altri dell’universo palestinese per essere di orientamento marxista-leninista. Circostanza che negli anni procura appoggi diretti e indiretti da parte del Kgb di Mosca.

L'adesione all'Olp

Il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina aderisce all’Olp nel 1968. Ma i contrasti con l’organizzazione, dominata al suo interno da Arafat e Al Fatah, minano il rapporto tra le parti. Nonostante l’inserimento del Fronte nel Consiglio Esecutivo dell’Olp, già nel 1974 le divergenze sono ben evidenti. In particolare, il movimento fondato da Habash contesta il tentativo di Al Fatah di accettare una soluzione binazionale della crisi palestinese. L’esistenza di uno stato di Palestina al fianco di uno israeliano non viene contemplata dal Fronte.

Per questo motivo il gruppo nel 1974 viene allontanato dal Consiglio Esecutivo dell’Olp, pur rimanendo comunque all’interno dell’organizzazione. Un riavvicinamento si ha soltanto nel 1981, ma anche negli anni successivi non mancano alti e bassi tra i vertici del Fronte e quelli dell’Olp.

I sospetti sulla strage di Bologna

La sigla del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina diventa nota in Italia con riferimento alla strage del 2 agosto 1980, attuata all’interno della stazione di Bologna. Si tratta del più grave attentato terroristico avvenuto nel nostro Paese dal dopoguerra in poi. Una bomba piazzata nella sala d’attesa dello scalo del capoluogo emiliano, uccide 85 persone.

Tra le varie piste investigative, c’è anche quella che riconduce al Fronte. A sostenerla, negli anni successivi alla strage, è anche l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Un’inchiesta in tal senso viene aperta nel 2011, ma il fascicolo è chiuso già nel 2015. L’ex capo dello Stato, in particolare, parla di “incidente della resistenza palestinese”. Secondo questa ricostruzione, l’azione risulterebbe una reazione del Fronte alla violazione, da parte dell’Italia, del cosiddetto “Lodo Moro”. Ossia il tacito accordo stipulato nel 1973 dall’allora ministro degli Esteri, Aldo Moro, con il Fronte, in cui i palestinesi garantiscono di non compiere attentati in Italia in cambio del via libera del nostro Paese al passaggio di uomini e armi.

L’arresto di tre italiani che trasportano due missili terra aria del Fronte avvenuto a Ortona nel 1979, di fatto viene visto come una cessazione dell’accordo. Da qui la ritorsione attuata a Bologna. Tra i sostenitori di questa tesi c’è chi prende come prova l’allarme più volte lanciato da Beirut dal colonnello Stefano Giovannone, tra i vertici dei nostri servizi segreti in medio oriente. Francesco Cossiga inoltre indica nella collaborazione con il terrorista venezuelano Carlos la chiave di volta dell’attacco.

Questo filone di inchiesta non viene tuttavia ritenuto veritiero. La magistratura riconosce quali esecutori materiali alcuni membri dei Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari, formazione di estrema destra. Ancora oggi i mandanti non hanno un nome, la pista che porta al Fronte non viene comunque caldeggiata.

Ad ogni modo, i sospetti sulla strage di Bologna fanno emergere uno spaccato importante dell’attività del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. È infatti accertata la collaborazione con il terrorista Carlos. Alcune delle azioni portate avanti in Europa, relative soprattutto a dirottamenti aerei e a sparatorie contro obiettivi israeliani sensibili nel Vecchio Continente, sarebbero figlie di questa intesa.

Il fronte dopo gli accordi di Oslo

Negli anni ’90 avvengono due fatti importanti destinati a incidere nella storia del Fronte. Il primo ha a che fare con la politica interna. L’Olp sigla nel 1993 ad Oslo un accordo con Israele. Viene riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato ebraico e si dà vita all’Autorità Nazionale Palestinese. L’altro evento riguarda la fine della guerra fredda e la caduta dell’Unione Sovietica. Entrambi gli avvenimenti spiazzano il Fronte.

L’accordo tra Olp e Israele emargina politicamente il movimento di Habash, da sempre contrario alla politica dei due Stati. Questo costringe il Fronte a guardare a nuove alleanze inedite, come tra tutte quella con Hamas, gruppo islamista ben lontano quindi dagli ideali secolari e marxisti. La fine dell’Urss toglie poi un ombrello a livello internazionale e un riferimento ideologico per gli attivisti.

Il Fronte va quindi in difficoltà. Inizia a essere meno radicato nella popolazione palestinese e ad avere meno peso all’estero e in seno all’Olp. Tra le classi più povere, dove tradizionalmente ha più presa, si diffonde maggiormente negli anni ’90 l’ideologia islamista ed è Hamas a diventare con il tempo il principale antagonista di Al Fatah.

Il ritiro dalla scena di George Habash

Spinto forse anche da questi eventi, il fondatore del Fronte decide di ritirarsi. È l’estate del 2000 e George Habash lascia il testimone ad Abu Ali Mustafa. Da questo momento in poi, l’oramai ex leader dell’organizzazione sparisce dai radar politici. Si ritira a vita privata e muore all’età di 81 anni ad Amman, in Giordania, a seguito di un attacco cardiaco. Dopo la notizia della sua morte, il presidente palestinese Abu Mazen ordina le bandiere a mezz’asta e il lutto nazionale di tre giorni.

La partecipazione alla seconda Intifada

Poco dopo il ritiro di Habash, nel settembre del 2000 scoppia la seconda intifada. Il successore Abu Ali Mustafa decide di rendere il Fronte tra gli attori più importanti di questa fase. Il braccio armato del movimento viene accusato dalle autorità israeliane di compiere in pochi mesi almeno dieci attentati con l’ausilio di autobomba.

Il 27 agosto 2001, come risposta, le stesse forze dello Stato ebraico uccidono in un raid Abu Ali Mustafa. Poche ore dopo, per rappresaglia, il Fronte uccide Meir Lixenberg, consigliere per la sicurezza in quattro insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Il timone del Fronte viene quindi preso da Ahmad Al Sadat. Il 21 ottobre il movimento prende di mira un esponente del governo israeliano. Viene infatti ucciso il ministro del turismo, Rehavam Zeevi. Per questo motivo Al Sadat viene arrestato poche settimane dopo e tradotto in carcere, lì dove attualmente si trova.

Fino alla fine della seconda intifada, attestata tra il 2004 e il 2005, il Fronte è protagonista di altri attacchi e altri attentati in territorio israeliano.

Il movimento oggi

Sotto il profilo politico, il Fronte è la terza forza all’interno dell’Olp e delle istituzioni palestinesi. Nelle elezioni del dicembre 2005, le ultime per il parlamento di Ramallah, le liste ottengono il 4.25% dei consensi, dietro Al Fatah e Hamas. I risultati elettorali certificano la perdita di consensi e di una certa ramificazione territoriale sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania.

A livello internazionale, oltre Israele anche Stati Uniti e Unione Europea includono il Fronte nelle liste delle organizzazioni terroristiche.

Le polemiche sulle Ong

Di recente il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina è tornato alla ribalta per una decisione, assunta dal governo israeliano, di inserire nella lista delle organizzazioni terroristiche alcune Ong ritenute molto vicine al movimento.

Si tratta, in particolare, delle Ong Adameer, Al Haq, Bisan, Difesa dei bambini-Palestina (Dci-P) Unione delle donne (Upwc) e Unione degli Agricoltori (Uawc). Dietro queste sigle, secondo Israele si nasconderebbe il Fronte Popolare. Grazie alle donazioni ricevute dalle Ong, il movimento ha potuto continuare a finanziarsi. La scelta del governo israeliano tuttavia non è stata accolta positivamente dalle Nazioni Unite.

Chi era Ahmed Yassin, il cieco che terrorizzò Israele. Pietro Emanueli su Inside Over il 3 gennaio 2021.

L’Iran è il nemico numero uno di Israele dal lontano 1979, anno della Rivoluzione islamica di Ruhollah Khomeini, ma è esistito un periodo, a cavallo tra gli anni Novanta e il primo Duemila, dove a mettere la sicurezza nazionale a repentaglio non furono né la guerriglia palestinese di stampo guerrafreddesco né i soldati dell’Ayatollah.

Quegli anni di terrore e instabilità rappresentano oramai un ricordo (quasi) sbiadito per Israele, sebbene l’insorgenza filopalestinese riemerga a cadenza periodica, e tornare su di essi è indispensabile ai fini della comprensione del presente. Perché quegli anni, bagnati dal sangue di un numero insolitamente alto di attentati e scontri interetnici, costituirono il regno di Ahmed Yassin, il co-fondatore di Hamas.

La vita prima del terrorismo

Ahmed Yassin nacque ai tempi del Mandato britannico di Palestina nell’oggi defunto villaggio di Al-Jura. Sebbene la sua carta d’identità riportasse quale data di nascita l’1 gennaio 1928, Yassin sostenne sempre di essere venuto al mondo l’1 gennaio 1937.

Orfano di padre dall’età di tre anni, Yassin crebbe con la madre, Sa’ada al-Habeel, che era una delle tre mogli del defunto genitore. In totale, complici i tre matrimoni del padre, Yassin crebbe con quattro fratelli e due sorelle. Tutti assieme, figli e mamme, furono testimoni della distruzione di Al-Jura nel corso della prima guerra arabo-israeliana, a causa della quale si spostarono a Gaza, trovando riparo nel fatiscente campo rifugiati di Shati.

Nel 1949, appena dodicenne, Yassin sarebbe diventato tetraplegico a causa di un grave trauma patito alla spina dorsale nel corso di un combattimento tra amici. Severa e irreversibile la diagnosi dei medici: quadruplegia incurabile, cioè sedia a rotelle a vita. Il possesso di una ferrea volontà, comunque, lo avrebbe aiutato a superare il trauma, a cavarsela del bene dal male, incoraggiandolo a leggere e studiare.

Tentò persino di laurearsi alla prestigiosa università di Al-Azhar, ma il dolore provato ad ogni spostamento da casa a lezione non glielo permise. Quel poco tempo trascorso all’università, comunque, sarebbe stato sufficiente a plasmarlo per sempre. Nel dopo-al Azhar, invero, Yassin avrebbe approfondito a casa, da autodidatta, tutte quelle materie alle quali era stato introdotto all’università: dagli studi sulla religione a quelli sulle relazioni internazionali, passando per sociologia ed economia.

Dotto e loquace, sebbene privo di una formazione ufficiale, Yassin riuscì ad ottenere un incarico di insegnamento presso una scuola elementare di Gaza. Nel 1960, poi, il matrimonio con una parente, che gli diede undici figli. L’ordinarietà e la lontananza dalla causa palestinese, ad ogni modo, avrebbero avuto fine di lì a breve.

La fondazione di Hamas

Le vicende sanguinose degli anni Sessanta e Settanta avrebbero gradualmente condotto Yassin sulla strada della militanza politica e sociale. Tutto ebbe inizio nel 1973, con la fondazione da parte di Yassin dell’ente caritatevole Mujama al-Islamiya – ancora oggi operante –, e continuò con l’avvicinamento alla Fratellanza Musulmana e agli ambienti del radicalismo islamico.

Yassin fu scelto, o forse si propose, per traghettare i Fratelli Musulmani nelle Terre palestinesi. L’incarico era rischioso, soprattutto perché un individuo come Yassin era facilmente monitorabile – parzialmente cieco, oltre che tetraplegico –, e gli avrebbe aperto le porte del carcere molto presto. Nel 1984, infatti, Yassin fu arrestato per aver contrabbandato armi dall’Egitto alla Striscia di Gaza e condannato a tredici anni di carcere.

La permanenza in carcere non sarebbe durata tutto quel tempo, non sarebbe durata neanche due anni. Perché Yassin, invero, fu liberato già l’anno successivo, 1985, nel contesto di uno degli scambi di prigionieri più celebri della storia: l’accordo di Jibril. Insieme a Yassin, quell’anno, avrebbero respirato nuovamente l’aria della libertà circa 1.500 detenuti, tra i quali Kozo Okamoto dell’attentato all’aeroporto di Lod, in cambio del rilascio di tre ebrei israeliani.

Yassin non perse tempo. Nel 1987, allo scoppio della Prima Intifada, insieme all’amico Abdel Aziz al-Rantissi diede vita a Hamas. Originariamente pensata per essere la costola paramilitare della Fratellanza Musulmana, quest’organizzazione avrebbe rapidamente protagonizzato lo scenario insurrezionalistico palestinese e obbligato Mossad e Shin Bet a rivedere i loro modi operandi a causa dell’impiego di uno strumento innovativo: gli attentati suicidi.

Catturato nel 1989 e condannato all’ergastolo, Yassin fu nuovamente scarcerato in anticipo, nel 1997, nell’ambito di uno scambio di prigionieri. Come già accaduto in passato, Yassin, per quanto intrinsecamente fragile, costantemente sorvegliato e praticamente immobile, avrebbe profittato della riavuta libertà per riassumere il controllo di Hamas.

Fortemente critico nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, sebbene al tempo stesso contrario ad una faida intestina, Yassin fu il capofila del movimento di opposizione alla Tabella di marcia per la pace del 30 aprile 2003. Un’opposizione che avrebbe manifestato con fragore poco più di un mese dopo, attraverso Hamas, con l’attentato al bus di piazza Davidka: 17 morti e oltre 100 feriti.

La morte

L’attentato al bus di piazza Davidka avrebbe cambiato le regole del gioco, privando Yassin di quell’immunità informale che gli era stata concessa in virtù di capo di Hamas – e dunque di negoziatore e interlocutore. Inserito nella lista nera dei servizi segreti israeliani, Yassin fu vittima di un primo tentativo di assassinio il 6 settembre 2003. Quel giorno, pur di ucciderlo, un F16 avrebbe demolito a colpi di missile un intero edificio nella Striscia di Gaza. Yassin, tuttavia, sarebbe incredibilmente sopravvissuto.

La rappresaglia per il tentativo di eliminazione subito non si fece attendere. Pochi mesi dopo, il 14 gennaio dell’anno nuovo, un attentatore suicida uccise quattro persone, ferendone dieci, al valico di Erez; era la vendetta di Yassin.

Il successivo tentativo di neutralizzazione sarebbe andato a buon fine. Il 22 marzo 2004, mentre veniva accompagnato dalle due guardie del corpo nella moschea del quartiere Sabra che soleva frequentare – era un abitudinario e neanche la consapevolezza di essere nel mirino di Israele lo persuase a rivalutare la propria quotidianità –, Yassin fu investito da una pioggia di missili Hellfire. L’attacco fu concepito per essere devastante: nessuno doveva sopravvivere. E nessuno sopravvisse: morirono Yassin, le due guardie del corpo e nove passanti, mentre altri dodici furono feriti.

La scelta di operare un bombardamento in luogo di un attacco mirato fu aspramente criticata dalla comunità internazionale. Dichiarazioni e azioni di biasimo giunsero dalle Nazioni Unite – dove la Commissione per i diritti umani approvò una risoluzione di condanna per via della morte di civili –, dalla Lega Araba e dall’Unione Africana.

I funerali di Yassin furono uno degli eventi più partecipati e sentiti della storia delle Terre palestinesi: duecentomila persone si riversarono per le strade di Gaza in segno di lutto, dando vita ad un raccoglimento collettivo. E la Seconda Intifada, la cui intensità era andata lentamente diminuendo nei mesi precedenti, nel dopo-Yassin si sarebbe aggravata al punto tale da spingere Israele ad avallare l’avvio di due maxi-operazioni di soppressione dura della sedizione: Arcobaleno e Giorni di penitenza.

Oggi, a distanza di anni da quel 22 marzo 2004, nonostante Israele sia riuscito a edificare il più grande ed efficiente stato di sorveglianza e controllo permanente del pianeta, lo spettro di quell’orbo che aveva profetizzato guerra eterna in Terra Santa continua a far paura. Lo spettro di una Terza Intifada, che gli israeliani hanno visto materializzarsi per qualche istante nel maggio 2021, continua a far paura.

Chi era Izz ad-Din al-Qassam, il primo patriota arabo. Pietro Emanueli su Inside Over il 3 gennaio 2021. Il rinascimento identitario dei popoli arabi è stato uno degli eventi più epocali del Novecento. Magistralmente sfruttato dagli strateghi di Sua Maestà per catalizzare il trapasso del boccheggiante malato d’Europa, l’Impero ottomano, il risveglio della progenie del profeta Maometto e dei Rāshidūn è stato il contesto all’interno del quale hanno avuto luogo alcuni degli accadimenti più significativi del secolo passato, come la nascita della Fratellanza Musulmana, e che ha dato i natali a dei personaggi che hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia recente, come Hasan al-Banna, Sayyid Qutb, Abdullah Azzam, Gamal Nasser, Faysal d’Arabia Saudita e Muammar Gheddafi.

Indicare dove, come e perché tutto ha avuto inizio non è semplice, e certamente non basterebbe un articolo, mentre relativamente facile è il compito di risalire ai progenitori. E tra loro – che furono tanti –, un posto centrale va riconosciuto al primo mujahid della storia: il patriota e combattente ubiquo ʿIzz al-Dīn al-Qassām.

Le origini del mito

ʿIzz al-Dīn al-Qassām, al secolo Izz ad-Din Abd al-Qadar ibn Mustafa ibn Yusuf ibn Muhammad al-Qassam, nacque in quel di Jable (Siria), la culla del mistico Ibrahim ibn Adham, un giorno del 1881 o del 1882. Figlio di una famiglia riverita e conosciuta, che serviva con lealtà la Sublime Porta e apparteneva alla confraternita Qādiriyya, al-Qassām crebbe temprato da due codici valoriali: quello ottomano e quello islamico.

Seguì le orme del padre e degli antenati, diventando un dotto della scuola hanafita e viaggiando in lungo e in largo per sfamare la sete di conoscenza dell’Islam. Da Jable andò a Costantinopoli, per poi da lì recarsi al Cairo. E una volta qui, dove giunse per studiare alla prestigiosa moschea di al-Azhar, si sarebbe distinto dai coetanei per la volontà di fare attivismo – attivismo politico.

Il soggiorno ad al-Azhar permise al giovane aristocratico di fare la conoscenza di alcuni dei più celebri ulema del tempo, come Muhammad ʿAbdu – padre fondatore del riformismo islamico e pioniere dell’anticolonialismo – e Muhammad Rashid Rida – il protosalafita che ambiva all’unificazione di tutti i popoli islamici sotto la bandiera di un califfato mondiale.

L’impatto di Abdu e Rida sul giovane al-Qassām fu forte, determinante. Era partito da Jable alla ricerca di conoscenza, di senso esistenziale. Vi fece ritorno nel 1909, vantando il titolo di ‘alim e cominciando a predicare l’imperativo di rivitalizzare l’Islam, da lui ritenuto stagnante, rielaborando il concetto di Jihād in chiave offensiva, o meglio difensiva dal colonialismo delle potenze europee.

Difensore degli arabi di tutto il Medio Oriente e il Nord Africa

L’invasione italiana della Libia fu l’evento spartiacque della vita di al-Qassām. Fu l’evento che consacrò la trasformazione di questo predicatore ardente di amore per l’Islam e per il Sultano in un combattente, nel primo mujahid del Novecento.

Dopo aver organizzato una raccolta fondi a Jable, avente quale obiettivo il finanziamento della resistenza anti-italiana in Libia, al-Qassām sarebbe passato all’azione. Nel giugno 1912, ben prima della Grande guerra e del Jihād turco-tedesco, il trentenne proclamò una guerra santa contro l’Italia, cominciando a raccogliere dei combattenti volontari coi quali recarsi sul teatro di guerra.

Fu fermato ad Alessandretta, alla testa di un piccolo esercito composto dalle sessanta alle duecentocinquanta persone, perché il neogoverno degli Ufficiali Liberatori – insediatosi nel luglio 1912 con un colpo di Stato – aveva altri piani per la Libia: l’avrebbe ceduta di lì a poco per potersi concentrare nei Balcani. Al-Qassām e i suoi mujāhidīn dovettero rientrare a Jable, delusi dal diniego ricevuto dalla Sublime Porta ma carichi per la prossima avventura: la Prima guerra mondiale.

Nel corso del primo conflitto su scala planetaria della storia dell’umanità, al-Qassām avrebbe prestato servizio principalmente in Siria, espandendo e professionalizzando il proprio circuito di mujāhidīn e svolgendo un’esperienza sostanzialmente priva di pericoli. Perché il momento della vera azione, dopo un’attesa di sei anni, sarebbe giunto soltanto nel 1918, con l’instaurazione in Siria e Libano di un regime di occupazione francese dotato di legittimazione internazionale, in quanto avallato dalla Società delle Nazioni.

Al-Qassām e i suoi mujāhidīn, che negli anni precedenti avevano accumulato armi, amicizie ed esperienza, avrebbero reso il controllo del territorio difficile per gli occupanti francesi, combattendo anche i loro sostenitori – come le milizie alawite –, rendendosi protagonisti di attacchi mordi e fuggi, imboscate e scontri di natura irregolare.

Con il tempo, complici le innumerevoli vittorie, al-Qassām sarebbe divenuto una sorta di bandito romantico nell’immaginario collettivo delle aree rurali del mandato di Siria e Libano. La sua armata sarebbe cresciuta gradualmente, toccando l’acme dell’espansione e del successo nel 1920. Quell’anno, infatti, i mujāhidīn di al-Qassām si unirono ai guerriglieri di un altro capo ribelle di alto profilo, Ibrahim Hananu, per dare vita alla più grave insurrezione dell’epoca: la rivolta di Aleppo del 1920-21.

I francesi, alla fine, forti del numero e della superiorità tecnologica, si sarebbero imposti sui guerrieri venuti dal deserto, costringendo al-Qassām e Hananu ad una rocambolesca fuga lungo le sabbie siro-libanesi. Vinti, ma tutt’altro che abbattuti, avrebbero trovato al di là del Libano una nuova causa alla quale dedicarsi: Gerusalemme.

Da Aleppo a Gerusalemme

Costretto alla fuga dai francesi, al-Qassām avrebbe terminato l’odissea sotto il Sole cocente del Medio Oriente nella Terra Santa delle tre religioni abramitiche: Israele. Si stabilì inizialmente ad Haifa, dove per qualche tempo avrebbe abbandonato l’attivismo politico e la guerriglia in favore della predicazione nelle moschee, del proselitismo nei bassifondi e dell’assistenza socio-economica ai correligionari.

Memore del fallimento della resistenza anticoloniale in Siria, ma avvolto da una crescente rabbia per via della campagna acquisti predatoria del Fondo Nazionale Ebraico (Jewish National Fund) e della progressiva esclusione dal mondo del lavoro degli arabi nel contesto dell’ebraizzazione dell’economia – il Kibbush haAvoda del futuro primo ministro israeliano David Ben Gurion –, al-Qassām avrebbe poco alla volta disseppellito l’ascia di guerra, reintroducendo il concetto del Jihād per autodifesa all’interno dei propri sermoni.

Al-Qassām avrebbe trascorso la seconda metà degli anni Venti a predicare di villaggio in villaggio, talvolta associandosi ad un altrettanto irato e carismatico reduce del Jihād turco-tedesco, Amin al Husseini, incitando le folle di disoccupati ed espropriati a sollevarsi contro gli ebrei e i britannici. Avrebbe concluso il decennio assumendo il controllo del ramo palestinese di un’organizzazione islamica con base in Egitto, l’Associazione Musulmana dei Giovani Uomini (Jam’iyyat al-Shubban al-Muslimin), che a sua volta lo avrebbe condotto da uno dei più importanti patrioti palestinesi dell’epoca: Rashid al-Hajj Ibrahim.

Il carisma di al-Qassām si sarebbe rivelato essenziale per le casse del principale partito arabo-nazionalista del Mandato di Palestina, Hizb al-Istiqlal, di cui Ibrahim era a capo. I sermoni dell’imam-guerrigliero, invero, erano portatori di iscritti e donatori. E con il tempo, come già accaduto nella nativa Siria, quella folla si sarebbe trasformata in un tutt’uno con al-Qassām. Si sarebbe trasformata in un esercito.

Reclutando nei quartieri poveri di Haifa, dove erano concentrati il malessere e la rabbia degli arabi, al-Qassām avrebbe messo su un’armata nel 1930, nomata la Mano Nera (Al-kaff al-aswad), occupandosi di professionalizzarne i membri sotto ogni punto di vista: addestramento paramilitare, alfabetizzazione, formazione religiosa.

I combattenti della Mano Nera, dal 1930 alla morte di al-Qassām, avrebbero perseguito un obiettivo – la provocazione di una rivolta interetnica su larga scala – a mezzo di operazioni altamente ostili e intelligenti contro obiettivi ebraici. Ostili perché a base di morte. Intelligenti perché esperite in maniera tale da apparire come dei crimini d’odio privi di regia: omicidi di passanti, furti in abitazioni culminanti nell’uccisione degli inquilini et similia.

Non sarebbe stata la strategia dell’accensione dei fuochi della Mano Nera ad incoraggiare gli arabi alla rivolta, comunque, quanto l’accadere di un evento fortuito il 16 ottobre 1935: la scoperta nel porto di Jaffa di un carico di armi destinato al proto-esercito israeliano, l’Haganah. L’episodio, passato alla storia come l’incidente del cemento, avrebbe giocato un ruolo essenziale nell’instillare un senso di paura generalizzata negli arabi, convincendo anche gli indecisi della necessità di imbracciare le armi prima che lo facessero i coloni ebrei.

La Grande rivolta (al-Thawra al- Kubra) sarebbe scoppiata di lì a breve, causa lo sfaldarsi del già fragile e precario equilibrio tra i due gruppi etno-religiosi. Al-Qassām, comunque, non avrebbe preso parte alla guerra civile, pur avendo contribuito in maniera determinante a farla esplodere: la polizia britannica lo uccise nel corso di un blitz il 20 novembre successivo.

L'impatto senza tempo

Più di tremila persone presero parte al funerale di al-Qassām, che da diversi storici viene ritenuto il catalizzatore della Rivolta araba. Il suo trapasso fu occasione di severo raccoglimento in Arabia Saudita, Egitto, Iraq e Yemen, e fu succeduto da un’ondata di violenze nelle terre palestinesi e siriane. Violenze come la sparatoria di Tulkarm, il preludio della guerra civile.

La storia di al-Qassām è tanto sconosciuta in Occidente quanto celebre nel Medio Oriente. Perché in quest’ultimo, invero, il suo vissuto ha costituito una fonte di ispirazione per i combattenti palestinesi sin da quel lontano 20 novembre 1935. A partire dai movimenti di liberazione della guerra fredda, in primis l’OLP di Yasser Arafat e in secundis il FPLP di George Habash, fino ad arrivare alle organizzazioni terroristiche della contemporaneità, come Hamas, al-Qassām non ha mai cessato di rappresentare l’archetipo del patriota palestinese: impavido, musulmano praticante, pronto al martirio, solidale, umile.

A lui, il primo guerrigliero palestinese, al Fatah ha eretto un vero e proprio culto – tanto che, in origine, l’organizzazione avrebbe dovuto chiamarsi Qassamiyun –, mentre Hamas gli ha dedicato un intero reggimento, le Brigate Ezzedin al-Qassām, e l’arma-tipo del proprio arsenale: il razzo Qassam. E il perché di una simile riverenza, trascendente le epoche e le ideologie, è chiaro: non avrà lasciato libri come Qutb e al-Banna, ma è stato il primo mujahid e, non meno importante, è stato il padre della causa palestinese.

Che cos’è Hamas. Giovanna Pavesi su Inside Over il 12 maggio 2020. Hamas è l’acronimo di Harakat al Muqawama al Islamiyya, che tradotto dall’arabo significa “movimento islamico di resistenza”. Ma la parola stessa, Hamas, indica anche il termine “entusiasmo“. Nel mondo, chiunque si raccolga sotto questo nome, sotto la sua bandiera e ne senta l’appartenenza fa parte di un’organizzazione palestinese di carattere politico e paramilitare che, formalmente, esiste da trent’anni. E che attraversa più di un confine geografico.

Per alcuni, Iran, Russia, Cina, Norvegia, Svizzera, Brasile, Turchia e Qatar, Hamas rappresenta soltanto un partito. Per altri, come Unione europea, Stati Uniti, Israele, Canada, Egitto e Giappone, è a tutti gli effetti un’organizzazione terroristica. Nei fatti si tratta di un movimento politico di ispirazione religiosa che controlla territori, gestisce istituzioni sanitarie e scolastiche e possiede un’ala armata, chiamata brigate al Qassam.

Per una parte di mondo, Hamas è semplicemente un pericolo. Per gran parte dei palestinesi, invece, negli ultimi decenni, il movimento si è fatto portavoce di istanze ritenute fondamentali per la sopravvivenza del concetto stesso di Palestina. Negli anni ha pagato una sorta di pensione alle famiglie dei suoi miliziani morti e ha risarcito diversi cittadini, che avevano perso l’abitazione durante i bombardamenti israeliani. Nel tempo ha schiacciato, in termini di popolarità, persino lo storico movimento di al Fatah, contro cui si è innescato un vero e proprio conflitto. Politico e sociale.

Prima delle origini

Prima della sua fondazione ufficiale, nel 1987, il gruppo formò la propria identità grazie all’intervento dei Fratelli musulmani. Fino alla Guerra dei sei giorni del 1967, Gaza era controllata dall’Egitto e il presidente Gamal Abdel Nasser contrastava fortemente i gruppi estremisti della fratellanza musulmana. Ma al termine del conflitto, quando Israele si impose sul territorio, paradossalmente, la formazione riuscì ad avere più libertà di movimento a Gaza. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il gruppo venne finanziato (direttamente e indirettamente) da Stati come l’Arabia Saudita e la Siria. All’epoca il gruppo, una sorta di semplice associazione islamica, ritenuta un ramo caritatevole della formazione che stava nascendo, venne registrato e riconosciuto in Israele. E persino Menachem Begin, appena eletto primo ministro per il partito di destra Likud, nel 1977, consentì la registrazione della formazione collegata ai Fratelli musulmani. In quegli anni, infatti, la principale preoccupazione dei politici israeliani nei territori occupati erano principalmente le organizzazioni laiche e nazionaliste (come l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Fatah).

Astenuti dalla politica

Anche se sembra impossibile crederlo oggi, almeno all’inizio il gruppo si astenne dalla politica militante durante gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, concentrandosi più su questioni sociali ed etiche, come la lotta alla corruzione, l’amministrazione degli organi di solidarietà e l’organizzazione di progetti comunitari. Il che alimentò la popolarità tra i civili palestinesi. Le cose iniziarono a cambiare verso la metà degli anni Ottanta, quando il movimento vide l’imporsi della personalità dello shaykh Ahmad Yasin, considerato padre fondatore di Hamas e uomo dal temperamento sicuramente più aggressivo e meno disposto alla diplomazia. Fu da quel momento che iniziarono gli attriti più concreti con gli altri gruppi palestinesi di ispirazione più laica. E risale al 1984 la scoperta di un deposito di armi del gruppo di Yasin, dopo una segnalazione di alcuni membri di al Fatah. In quella circostanza, lo stesso Yasin, arrestato e poi interrogato, avrebbe affermato che quelle armi non sarebbero state impiegate contro Israele, bensì contro i gruppi palestinesi antagonisti. Quella confessione accelerò i tempi della sua scarcerazione, che avvenne l’anno successivo. Il movimento, infatti, almeno all’inizio, più che una reale minaccia allo Stato ebraico venne percepito come l’avversario politico perfetto di al Fatah e di Yasser Arafat. Elemento che lo rese leggermente meno ostile a Israele, che lo percepì più come un nemico dei suoi nemici, che una minaccia concreta. Tuttavia le cose cambiarono velocemente.

Chi era Ahmad Yasin

Ma per comprendere bene l’ideologia che diede origine ad Hamas, è necessario conoscere altrettanto a fondo l’identità di una delle menti che costituì il gruppo. Perché lo sheykh Ahmad Labous Yasin non è stato soltanto il capo spirituale del movimento islamico, né un politico qualunque. Ma è stata l’immagine di un uomo capace di mutare il proprio aspetto politico nel tempo, mimetizzandolo perfettamente alla storia e al suo evolversi. Secondo Israele è stato il diretto responsabile della morte di centinaia di civili, soprattutto israeliani, in numerosi attentati terroristici. Nacque nel 1937 nel villaggio di al Jora, non lontano all’attuale Ashkelon e, secondo quanto riporta un articolo del New Yort Times, a 12 anni divenne tetraplegico a causa di un incidente sportivo. Durante il primo conflitto arabo-israeliano del 1948, si trasferì a Gaza e nonostante la sua disabilità studiò all’università al Azhar del Cairo, in Egitto. E fu proprio in quel periodo si avvicinò e aderì ai Fratelli musulmani. Hamas la fondò nel 1987 e l’organizzazione fu, a tutti gli effetti, l’ala palestinese della fratellanza musulmana. Nel 1989 fu sospettato di aver ordinato l’uccisione di alcuni cittadini palestinesi colpevoli di aver collaborato con lo Stato ebraico e venne fatto arrestare. Fu condannato al carcere a vita da Israele per il rapimento e la morte di due soldati, ma nel 1997 venne rilasciato in cambio della liberazione di due agenti del Mossad, prigionieri in Giordania (i due furono ritenuti i responsabili del tentato assassinio di Khaled Mesh’al, uno degli altri leader storici di Hamas).

Dopo il suo rilascio, guidò Hamas e invitò il popolo palestinese a una rinnovata resistenza contro l’occupazione di Israele. La guerriglia ammise anche attentati suicidi contro obiettivi civili e militari israeliani. Nel corso della sua vita e nelle varie fasi di trattativa tra le autorità palestinesi e lo Stato ebraico, Yasin fu (più volte) trasferito in carcere, posto agli arresti domiciliari e poi rilasciato (anche grazie alla pressione dei suoi sostenitori). Dichiaratamente nel mirino di Israele (ufficialmente dal giugno del 2003), riuscì  a salvarsi da diversi attacchi. Ma morì, assassinato a Sabra, il 22 marzo del 2004, mentre usciva dalla moschea dove quotidianamente aveva continuato a recarsi per pregare: in quella circostanza, due elicotteri dell’esercito israeliano decollarono da un nascondiglio e con alcuni missili lo colpirono a morte, insieme al figlio e a un gruppo di persone insieme a lui. Come riporta sempre il New York Times, dopo l’uccisione del leader del movimento islamico palestinese, Boaz Ganor, già capo dell’International Policy Institute for Counter-Terrorism in Israele, disse che Hamas, dopo aver perso il proprio padre spirituale, avrebbe avuto “una motivazione tremenda” per sferrare altri attacchi e, di fatto, vendicarlo. Ma sempre Ganor disse anche che nessuno avrebbe potuto prendere il suo posto all’interno del movimento e che nessuno sarebbe stato in grado di influenzarlo come fece lui: “La persona che impostò la politica strategica di Hamas, che li ha incitati e ha aperto la strada non c’è più ed è insostituibile”. L’appellativo “shaykh” glielo diedero i suoi seguaci, nonostante non avesse mai frequentato davvero una madrasa, cioè una scuola coranica che avrebbe potuto conferirgli questo titolo.

La nascita di Hamas

Ufficialmente nacque nel 1987, quando l’acronimo “Hamas” apparve per la prima volta in un volantino che accusava i servizi segreti israeliani di “minare la fibra morale dei giovani palestinesi” per poterli reclutare come collaborazionisti. Nel dicembre dello stesso anno, in un incidente provocato da un camion militare, morirono quattro lavoratori arabi di Gaza e questo episodio (che non fu un atto di guerra premeditato) scatenò un nuovo conflitto tra israeliani e palestinesi. Per la prima volta, gli arabi cercarono di bloccare l’ingresso ai villaggi, utilizzando come arma i loro corpi. Quello fu l’inizio della prima intifada, alla quale Israele risposte con la forza. L’anno dopo, nel 1988, da quei disordini e da quella rabbia nacque ufficialmente Hamas. L’uso della forza del movimento si concretizzò con delle “azioni punitive contro i collaborazionisti”, arrivando fino agli obiettivi militari israeliani. 

I metodi di lotta e di resistenza, che all’inizio prevedevano più una battaglia sociale e di solidarietà, mutarono con il tempo. Così come cambiò la sua retorica, anche in base al luogo di appartenenza, che contribuì a differenziare alcune correnti all’interno del gruppo stesso. L’attività di Hamas in Cisgiordania, infatti, ebbe uno sviluppo diverso rispetto a quello di Gaza. Il movimento costituì una parte integrante del movimento islamico giordano, che a lungo restò allineato con il regime hashemita. Un’altra differenza sostanziale, poi, fu che i fratelli musulmani in Cisgiordania appartenevano a una classe socio-economica più elevata, costituita da commercianti, proprietari terrieri, burocrati e professionisti della borghesia.

Lo statuto di Hamas

Alla sua nascita, venne diffuso anche un documento che ne decretò a tutti gli effetti la fondazione. Approvato nell’agosto del 1988, la Carta del movimento di resistenza islamico, non definiva in modo particolare la struttura dell’organizzazione, ma dava alcune precise indicazioni sui motivi della sua esistenza. Come, per esempio, la necessità della conquista dell’intera Palestina e il fatto che all’interno del movimento ci fosse una guida suprema, ruolo di massima autorità politica e religiosa, che poteva prendere le decisioni più importanti. Le più alte istituzioni riconosciute di Hamas sono ancora l’ufficio politico (che funziona da ministero dell’Informazione e degli Esteri) e il Consiglio. Chiamato, in arabo, shura, comprende circa 50 membri ed è composto da figure importanti del mondo religioso islamico presenti nel movimento. Esiste poi il Da’wa, parola che significa “la chiamata”, una rete che gestisce l’attività di reclutamento, di assistenza sociale e di raccolta fondi all’estero.

Le politiche sociali di Hamas

Da sempre, in particolare all’inizio della sua fondazione, l’organizzazione ha promosso diversi programmi considerati quasi di previdenza sociale e istruzione a favore della popolazione palestinese. Per i suoi oppositori, invece, quegli stessi programmi sono considerati come forme di propaganda e reclutamento. Profondamente radicati nella Striscia di Gaza, includono ancora istituti religiosi, medici e forme di solidarietà verso i ceti sociali meno abbienti. È parere di molti credere che Hamas abbia potuto contare (e conti ancora) sull’aiuto di fedelissimi non riconosciuti come membri effettivi del movimento e che possa ricevere soldi da esuli palestinesi sparsi in giro per il mondo o da benefattori provenienti da diversi Paesi arabi.

Che cosa sono le brigate al Qassam

Il nome corretto, per intero, è Brigate Ezzedin al Qassam e costituiscono il braccio armato di Hamas. Prendono il nome da ‘Izz al Din al Qassam e furono create nel 1992 sotto la direzione di Yahya Ayyash. Lo scopo principale della formazione era quello di costituire un efficace gruppo militare a sostegno di Hamas. Soprattutto all’inizio, tra i fini del movimento c’era quello di bloccare i negoziati nati dagli accordi di Oslo. Oltre a essere ritenuti i responsabili di diversi attacchi contro i civili, all’inizio della seconda intifada (cioè il 28 settembre del 2000), le brigate divennero uno dei principali obiettivi di Israele. Le brigate al Qassam, il cui comandante generale è Mohammed Deif, sono nella lista delle organizzazioni terroristiche di Unione europea, Stati Uniti, Australia, Regno Unito e Israele. Del capo della formazione esistono poche informazioni: per molto tempo è parso come una figura evanescente, come spesso accade ai leader del Medio Oriente. Di lui non ci sono foto o video recenti che lo ritraggano. In diverse circostanze è stato dato per morto, ma per ora nessuna notizia parla del suo decesso. Una decina di anni fa avrebbe perso gambe e braccia in un tentativo di assassinio da parte di Israele e nessuno può descrivere, con certezza, i tratti del suo volto.

Gli alleati e le sue fazioni interne

Dal momento della sua formazione a oggi, Hamas ha potuto godere dell’appoggio di diversi alleati nella regione. Il primo, il più vicino, è stato la Siria, che negli anni ha fornito un sostegno più che significativo al movimento, visto che molti leader di Hamas vivevano in esilio a Damasco. Ma la situazione nel Paese, tormentato da anni di guerra, ha cambiato ha cambiato i rapporti con il movimento islamico palestinese. Stessa cosa è accaduta all’Iran, dove la guerra civile non c’è ma i cambiamenti politici degli ultimi anni hanno occupato altri spazi, limitando l’attenzione verso Hamas. A sua volta, il movimento al suo interno si è diviso in altri gruppi, che come riportato da Il Post sarebbero due. La prima, quella più vicina al Qatar, è un gruppo considerato più “moderato”, i cui ideali non sono più espressi in maniera efficace dallo statuto fondativo di Hamas. La fazione, per quanto più “centrista”, non ha mai proposto una pace definitiva con il governo israeliano, ma al massimo una tregua di qualche anno. L’altra fazione è composta dagli “iraniani”, cioè dai membri di Hamas più vicini alla Repubblica islamica, meno inclini al compromesso e più favorevoli ai conflitti (soprattutto con Israele). Tra i leader di questa fazione c’è anche Deif, il capo delle Brigate al Qassem.

Il conflitto con al Fatah

Dopo anni di proselitismo, colpi mirati e dottrina diffusa, il 25 gennaio 2006, Hamas vinse con il 44% dei voti validi le elezioni legislative, avviando un nuovo corso nella storia politica palestinese. La maggior parte dei voti arrivati alla formazione islamica arrivò da Gaza, mentre quelli per Fatah (che raccolse il 41% dei consensi) si concentrarono in Cisgiordania. La vittoria del gruppo più radicale, inaspettata all’estero, e la formazione di un governo a esclusiva guida di Hamas allarmò Israele, Stati Uniti, l’Unione europea, diverse nazioni occidentali, ma anche tanti Paesi arabi. Forse consapevole di questi timori e di questa sorta di pregiudizio, come riportato dal Guardian, Hamas dichiarò (ben prima della sua vittoria) una sospensione delle sue azioni. La decisione, però, non venne sempre rispettata dalla parte più militante della formazione. Nell’aprile del 2006 ne seguì una rinuncia agli attacchi terroristici, ritenuti non più compatibili con “la nuova era” in cui era entrata l’organizzazione. La conseguenza, comunque, fu l’imposizione di alcune sanzioni e la sospensione dell’invio di aiuti internazionali diretti all’esecutivo palestinese, dai quali dipendeva il sostentamento della popolazione e che poteva essere sospeso soltanto se Hamas avesse riconosciuto l’esistenza di Israele, se avesse accettato gli accordi già stipulati dallo sconfitto partito Fatah e se avesse fermato gli attacchi terroristici contro i civili. Il movimento non accettò ma, nonostante questo, i suoi leader riuscirono a fare entrare nei territori palestinesi abbastanza finanziamenti e donazioni capaci di mantenere servizi di base, di salute e di educazione. L’azione portò all’acutizzarsi del conflitto tra le due parti, soprattutto tra il 2006 e la prima metà del 2007. Hamas e Fatah non riuscirono a raggiungere un accordo per spartirsi il potere e nel dicembre di quell’anno, Mahmud Abbas (diventato leader di Fatah dopo la morte di Arafat) convocò le elezioni anticipate, anche se il movimento islamista contestò la legalità di tenere un’altra tornata elettorale, ribadendo il proprio diritto a governare per tutto il mandato previsto dalla precedente elezione democratica (che li aveva eletti vincitori). Il conflitto tra le due parti si esasperò e Hamas definì la proposta di Abbas un tentato colpo di stato. Il capo di quell’esecutivo, nel 2006, fu il leader di Hamas Isma’il Haniyeh, rimasto oggi il leader della formazione.

La "guerra" fra palestinesi

Da marzo a dicembre 2006 le tensioni fra Hamas e Israele si fecero più dure, anche a causa dei numerosi omicidi che coinvolsero i suoi vertici. Il 15 dicembre dello stesso anno scoppiarono i primi combattimenti in Cisgiordania, dopo che le forze di sicurezza palestinesi spararono su un raduno di Hamas a Ramallah. In quella circostanza, 20 persone furono ferite nei combattimenti. L’accusa, quella di provare a uccidere il primo ministro Haniya, venne rivolta a Fatah. La lotta proseguì fino al gennaio successivo nella Striscia di Gaza: molti “cessate il fuoco” fallirono, a causa delle continue battaglie. 

Nel febbraio del 2007 i gruppi rivali palestinesi si incontrarono in Arabia Saudita, alla Mecca, e provarono a raggiungere un accordo, assicurando la fine delle ostilità. Le battaglie però non cessarono mai per davvero e si riversarono ancora una volta nelle strade di Gaza e in meno di venti giorni, decine di palestinesi persero la vita. Nessuna tregua riuscì a fermare la scia di sangue e Hamas ebbe più successo di Fatah in questa fase di conflitto. Secondo quanto riportato da un articolo della Bbc il motivo della loro forza stava nella disciplina e nell’addestramento migliore. In quel periodo, più di 100 palestinesi rimasero uccisi in quella che venne considerata una vera e propria guerra civile. Al termine di quel conflitto, i membri di Fatah furono definitivamente espulsi da Gaza. 

Hamas alla conquista di Gaza

Altri combattimenti iniziarono il 10 giugno del 2007: il giorno seguente, sempre come riportato dalla Bbc quattro palestinesi vennero uccisi quando Hamas dichiarò di essere al potere nella città settentrionale di Beit Hanun. Il 12 giugno, alcuni combattenti di Hamas circondarono il quartier generale di Fatah a Gaza, dove 500 militanti si erano asserragliati. I militanti della formazione islamista attaccarono l’edificio e dopo diverse ore di lotta presero il controllo dello stabile. Subito dopo vennero prese molte altre postazioni del movimento laico lungo tutta il territorio della Striscia di Gaza. Il 13 giugno Hamas prese il controllo del nord del territorio, dichiarandola “un’area militare chiusa” e chiedendo che tutti, incluse le forze militari di Fatah, consegnassero le proprie armi in pochi giorni. Presa la parte settentrionale, Hamas iniziò a condurre diversi attacchi anche nel sud di Gaza. Al termine di quei giorni, Khan Yunis, Rafah e la maggior parte di Gaza erano sotto il controllo di Hamas. Il 14 giugno, Hamas conquistò anche gli ultimi avamposti di Fatah del territorio, prendendo pieno controllo della città. Hamas sembrò avere la meglio, ma le forze di sicurezza di Fatah in Cisgiordania reagirono agli attacchi contro le loro istituzioni nel territorio controllato dal gruppo islamista. Il 16 giugno, gruppi militanti vicini al movimento laico fondato da Arafat, le brigate dei Martiri di al Aqsa, attaccarono il parlamento controllato da Hamas a Ramallah, in Cisgiordania.

Il controllo della Striscia

Dopo aver vinto le elezioni legislative palestinesi nel 2006 e dall’anno successivo, Hamas ha iniziato a governare Gaza, mentre Fatah ha mantenuto l’influenza in Cisgiordania. Secondo quanto riportato da un articolo del Post, Hamas nel territorio ha messo in atto diversi precetti della legge islamica, vietando di consumare bevande alcoliche e imponendo diverse limitazioni ai suoi cittadini, in particolare alle donne (come, per esempio, alcune misure relative all’abbigliamento o alla possibilità di girare accompagnate da uomini diversi da propri parenti più stretti o dal proprio marito). 

Inoltre, le organizzazioni non governative che operano nella Striscia di Gaza e che non garantiscono la segregazione dei sessi sarebbero state osteggiate nel tempo e qualcuna costretta a chiudere. Per assicurarsi che nessuna regola venga violata, Hamas ha costituito nel tempo un corpo di “polizia morale“. Una buona parte del suo successo arriva dalle politiche sociali, utili a tutti quei cittadini che non hanno un’occupazione. Nel 2017 Hamas ha annunciato una presa di distanza dalla fratellanza musulmana, senza riconoscere in alcun modo lo Stato di Israele, ma ha accettato la delimitazione del territorio dello Stato di Palestina entro i confini del 1967.

La pace con Fatah

Nel maggio del 2011, Fatah e Hamas firmarono un accordo di riconciliazione con la mediazione dell’Egitto. Nel maggio del 2014, dopo il raggiungimento di un’intesa, le due fazioni si sono accordate sulla nomina di Rami Hamdullah a primo ministro del governo transitorio di unità nazionale, che ufficialmente si insediò il mese successivo. Le sue dimissioni, rassegnate nel giugno del 2015 per l’incapacità di rendere operativo l’esecutivo all’interno della Striscia di Gaza e i continui dissidi interni, portarono al rinvio dell’appuntamento elettorale, mentre la Cisgiordania e Gerusalemme videro un aumento della violenza. Un passo importante verso la riconciliazione si compì nel settembre del 2014, con lo scioglimento dell’esecutivo di Hamas a Gaza e con l’accettazione da parte del movimento delle condizioni poste dall’Autorità nazionale palestinese (tra cui la decisione di indire elezioni generali).

I suoi leader

Dopo la morte di Ahmad Yasin, colpito mentre usciva dalla moschea insieme al figlio e ad altri familiari, venne eletto capo di Hamas a Gaza il medico pediatra Abdel al Aziz al Rantissi, esponente dell’ala più radicale del gruppo. Minacciò Israele più volte, dichiarando che i suoi cittadini sarebbero stati colpiti ovunque. Tuttavia, nell’aprile del 2004 anche lui rimase vittima di un omicidio mirato, compiuto con un missile lanciato da un aereo israeliano. Attualmente, a capo del movimento islamico c’è Haniyeh, che ha preso il posto di Khaled Mesh’al, una delle menti più radicali del gruppo, che ha passato gran parte della sua vita in esilio. Ma che, non per questo, ha avuto meno influenza tra i suoi seguaci.

·        L’Islam e le Donne.

Libere. Le storie di cinque coraggiose ragazze che hanno deciso di ribellarsi alle nozze forzate. Francesco Lepore su L’Inkiesta il 7 Novembre 2022.

Nel suo nuovo libro, la giornalista Marina Castigliani racconta le storie di giovani donne nate in Bangladesh, Afghanistan, Pakistan, India e cresciute in Italia che si sono ribellate a un destino segnato

Quasi quarantotto mesi di riflessione, scambi di vedute, lavoro. Ma a giudicare dal risultato si può dire che mai anni sono stati così bene spesi. Anche perché, ed è Seneca a ricordarcelo (De ira II, 2), «veritatem dies aperit», il tempo svela la verità. Se ne ha piena contezza leggendo le 216 pagine del libro di Martina Castigliani Libere. Il nostro No ai matrimoni forzati (PaperFIRST, Roma 2022, €17). Libro che, in distribuzione da venerdì 4 novembre, si divora in un soffio con un misto di scoramento e speranza, perché palpita della vita di Fatima, Yasmine, Zoya, Khadija, X. 

Sono cinque giovani donne, che nate in Bangladesh, Afghanistan, Pakistan, India e cresciute in Italia, si sono ribellate ai matrimoni forzati, rinunciando «alla loro identità: ora vivono lontane dalle famiglie e si stanno ricostruendo una vita» (p. 10).  Sono cinque giovani donne, di cui non si conoscerà mai «il nome, il numero degli anni o dove vivono. Non ti diremo quanto sono alte. Scordati i colori degli occhi, dei capelli, della pelle. Ogni dettaglio che può farle individuare è stato cancellato: il tono di voce, quel modo inconfondibile di gesticolare e, soprattutto, la piega delle labbra quando arriva in testa un ricordo più brutto di altri. A volte, al posto delle parole, troverai delle x: ad esempio, nel bel mezzo della storia, vedrai che una ragazza dice “xxx”. Sono le frasi più pericolose, perché rendono le storie identificabili e abbiamo dovuto cancellarle. Dovrai immaginarne il suono, ma prima di tutto la potenza» (p. 9). A catturarne la personalità, «a dare un volto a chi non può mostrarlo» (p. 13), ci ha pensato Elisabetta Ferrari con cinque illustrazioni disegnate a matita secondo le rispettive indicazioni di Fatima, Yasmine, Zoya, Khadija, X.

Sono loro le Libere, di cui parla questo libro, o meglio, le Libere che qui parlano in prima persona. Non a caso Martina Castigliani, giornalista de ilfattoquotidiano.it e già scrittrice di Cercavo la fine del mare. Storie migranti raccontate dai disegni dei bambini (Mimesis 2019), le presenta sin da subito come coautrici di un’opera, in cui esse si raccontano, e lo hanno ribadito a ogni incontro, «per le altre, perché devono sapere che si può fare». E per le altre è la dedica che si legge in esergo.

Per loro e per noi tutte è questo volume. Perché è un dato di fatto, e l’omicidio di Saman Abbas l’ha comprovato drammaticamente, che in Italia i matrimoni forzati sono al centro della comune attenzione, solo quando una ragazza viene uccisa e che si riducono per lo più in strumentalizzazioni islamofobiche da parte di esponenti della classe politica. E proprio della diciottenne d’origine pakistana, uccisa a Novellara il 30 aprile 2021, parla esplicitamente Fatima, che così conclude la sua confessione: «Vedere la fine di Saman mi ha fatto stare male, ho pensato che avrei potuto essere al suo posto. Ecco perché ho accettato di raccontare quello che è successo a me. Lo faccio per le altre. Perché devono sapere che c’è un’alternativa. A chi non ha ancora avuto il coraggio di scappare voglio dire una cosa: sarà difficile, ci saranno un sacco di ripensamenti, tanti crolli. Ma quando alla fine cominci a costruire qualcosa è una grande soddisfazione. Sei finalmente libera, che è ben diverso da quando la tua famiglia ti fa credere di essere libera» (pp. 40-41).

Postfato da Cinzia Monteverdi e arricchito d’un elenco, sia pur incompleto, di storie simili a quelle delle cinque protagoniste ma sparite troppo in fretta dalle cronache, il libro si compone di una seconda parte che guarda al futuro, aprendo i cuori alla speranza. Vi sono raccolte le testimonianze della consigliera comunale di Reggio Emilia Marwa Mahmoud, dell’insegnante online d’italiano per la comunità bengalese Tashina US Jahan, dell’attivista Lgbt+ e regista pakistano naturalizzato italiano Wajahat Abbas Kazmi. Quest’ultimo, autore del documentario Allah Loves Equality, ha avviato nel 2018 un’importante campagna di sensibilizzazione per chiedere giustizia sulla morte di Sana Cheema, che, residente da anni a Brescia ma poi costretta a rientrare in Pakistan, era stata qui sgozzata, nell’aprile di quell’anno, dal padre e dal fratello per il solo fatto di voler sposare un italiano.

Completano il tutto l’intervista a Tiziana Dal Pra, fondatrice di Trama Di Terre, associazione di donne native e migranti, e prima persona a interessarsi nel nostro Paese di ragazze che spariscono, una volta raggiunta l’età per sposarsi; la riflessione dell’educatrice e operatrice antiviolenza Alessandra Davide; la conversazione con  Angela Bottari che, deputata del PCI per tre legislature dal 1976 al 1987,  s’è battuta per l’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (risultato ottenuto nel 1981) ed è stata proponente, relatrice, promotrice della prima proposta di legge contro la violenza sulle donne. Conversazione, quest’ultima, che è un piccolo gioiello e che mette in luce la lucidità di pensiero dell’ex parlamentare messinese, che, durante il suo mandato, s’è distinta insieme con Romana Bianchi, Ersilia Salvato, Maura Vagli, Carla Nespolo, tutte componenti del Gruppo interparlamentare delle Donne comuniste, per la tutela dei diritti tanto delle donne quanto delle persone Lgbt+. Ad Angela Bottari va riconosciuto il merito d’essere stata tra le principali artefici dell’approvazione della legge 164/1982, che, recante Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, ha ridato alle persone trans una dignità a lungo misconosciuta e posto fine a un annoso calvario giudiziario per le stesse.  

È lei a ricordarci in Libere. Il nostro No ai matrimoni forzati (p. 176) che «le rivolte individuali possono riuscire oppure no. Da sole, non bastano. Serve sviluppare una relazione tra le donne e trovare la forza di reagire insieme. Per noi ha fatto la differenza. Io posso aver rappresentato, da ragazza, la rivolta individuale, ma non avrei fatto la strada che ho fatto se non avessi avuto compagne di viaggio». Che «il segreto per riuscire ad avere un cambiamento nelle società» consiste innanzitutto nel «trovare le compagne di viaggio».

Dire no al velo non è discriminazione ed è una legge di civiltà. Daniela Missaglia su Panorama il 15 Ottobre 2022.

Emile Zola scrisse, in modo iconoclastico e irriverente, addirittura oltraggioso, che “La civiltà non raggiungerà la perfezione finché l'ultima pietra dell'ultima chiesa non sarà caduta sull'ultimo prete.”. C’è da capirlo, Zola è stato uno dei più noti esponenti di quel naturalismo francese che elevava la scienza al di sopra delle fedi rivelate, sostenendo un laicismo puro ed esasperato. Zola era francese e la Francia fu la culla dell’illuminismo e del laicismo più spinto, origine della Rivoluzione e ispiratore di una società secolarizzata dove le espressioni stesse della fede erano ritenute nemiche del progresso e della civiltà.

Il mondo occidentale è andato avanti e, quantomeno in ambito cristiano, ha saputo scindere la società dalle istituzioni ecclesiastiche, garantendo a tutti i cittadini eguaglianza al riparo da ogni discriminazione. C’è voluto, purtroppo, anche l’Olocausto ma oggi le Costituzioni dei paesi più evoluti sono tutte laiche e profondamente radicate nel concetto di uguaglianza a prescindere dalla fede professata. Questo non è avvenuto nel mondo musulmano, rimasto ancorato a precetti medioevali e a società confessionali, dove può capitare, per esempio, che un gesto di culto non islamico sia cagione di morte. Come può ripararsi l’Europa da un tale rischio? Come può elevarsi a culla di tolleranza per tutte le fedi e patria delle libertà? Attraverso sentenze come quella della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella Causa C-344/20, pubblicata questa settimana. Passata un po’ in sordina tra bombardamenti russi e nomina dei Presidenti di Camera e Senato tale innovativa pronuncia è quanto mai attuale e opportuna. La sentenza, storica, coraggiosa, ha stabilito che il divieto di indossare segni religiosi, filosofici o spirituali sul luogo di lavoro non è una discriminazione diretta, se viene applicato in maniera generalizzata. In questo modo la Corte ha respinto il ricorso di una donna belga, di fede musulmana, che lamentava di aver subito una discriminazione religiosa dall’azienda che l’aveva scartata da un tirocinio per il suo rifiuto di togliersi il velo sul luogo di lavoro. Prendendo spunto dal caso in esame, la Corte di Giustizia afferma il principio secondo cui che è perfettamente lecito, per un datore di lavoro, sancire il divieto di manifestazioni esteriori di fede, purché esteso a tutte le professioni religiose, senza eccezioni di sorta.

Se il divieto non è selettivo (per esempio agli ebrei o ai musulmani piuttosto che ai buddisti o cristiani), questo non appare in contrasto con i principi generali su cui si poggia l’Europa. Oriana Fallaci si starà spellando le mani da lassù ma a chi storce il naso ricordo soltanto che, non lontano dai nostri confini, c’è chi è morto a vent’anni perché non ha indossato il velo in modo corretto lasciando un ciuffo di capelli scoperti: mi riferisco a Masha Amini, in Iran. L’Europa vuole essere più civile dell’Iran dei Pasdaran e della Polizia della Moralità? Chissà se ora gli euro-giudici finiranno nel mirino di qualche invasato e dovranno guardarsi le spalle come Salman Rushdie ma io li ringrazio per il coraggio dimostrato perché il progresso passa anche da tali piccoli, grandissimi gesti.

"L'Iran contro il velo e noi in balia della Sharia": il paradosso delle scuole francesi. Affondo di Le Figaro a pochi giorni dall'anniversario dell'uccisione di Samuel Paty: "La scuola francese continua a essere sotto minaccia islamica". Mauro Indelicato il 16 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Fra due giorni in Francia è un anniversario importante. Il 16 ottobre infatti, a nord di Parigi veniva decapitato Samuel Paty. Un professore che alcuni giorni prima aveva mostrato delle vignette su Maometto durante una lezione in classe sulla libertà di espressione.

Una ragazzina di 13 anni ha raccontato al padre di essere stata allontanata dall'aula in quel momento. Il genitore, a sua volta, un musulmano vicino ad ambienti radicali, ha aizzato la polemica sui social. E due anni fa per l'appunto un terrorista ceceno, Abdoullakh Anzorov, lo ha brutalmente decapitato a Conflans-Sainte-Honorine.

Una lezione non imparata?

A ricordare quell'evento oggi è stato il quotidiano Le Figaro. E, nel farlo, ha parlato di una scuola francese oggi ostaggio dell'islamismo. In un articolo dedicato a quella vicenda, è stato sottolineato come la morte di Samuel Paty ha posto l'accento su una crescente pressione dei gruppi dell'Islam radicale sulla società francese e sul mondo dell'insegnamento.

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Nelle scuole, secondo Le Figaro, sta crescendo il numero delle alunne che indossano il velo o che ostentano simboli di appartenenza all'Islam. Un elemento visto con sospetto dal quotidiano. Così come dalle varie associazioni francesi che negli ultimi anni hanno posto l'accento sulla crescita delle simpatie, specie tra i francesi musulmani di seconda o terza generazione, per le idee più radicali. Crescita poi che si esprime soprattutto nelle scuole e quindi, più in generale, nel mondo dell'insegnamento.

Il tutto, ha sottolineato Le Figaro, ponendosi in contrasto con le idee laiche repubblicane. "In un momento in cui le giovani donne iraniane si fanno uccidere per abbassare il velo – si legge sul quotidiano – e riconquistare la loro libertà, il Paese della laicità trema ancora davanti a quei nemici della Repubblica che sono i guardiani della Sharia e i loro devoti agenti”.

Simbolo di una scuola piegata all'Islam radicale sarebbe la scelta di non intitolare la scuola dove insegnava Samuel Paty allo stesso processore ucciso.“Si tratta – scrive ancora Le Figaro – di una vergogna da parte del ministero dell'istruzione”.

Una questione esistenziale

Non solo un affare politico, bensì principalmente sociale. La questione relativa alla diffusione dell'islamismo nella società francese ha a che fare con la tenuta stessa delle istituzioni repubblicane e con l'identità di Paese laico. E ha ovviamente risvolti relativi alla convivenza tra i cittadini francesi.

Gli attentati terroristici del 2015 e l'attacco a Nizza del 2016, nonché i vari episodi come quello riguardante Samuel Paty, hanno acceso in modo importante il dibattito sull'islamismo e su come contenere la diffusione di idee radicali all'interno della comunità musulmana.

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Nel luglio 2021 il presidente francese Emmanuel Macron, dando attuazione al suo discorso pronunciato in merito il 2 ottobre 2016 (due settimane prima l'omicidio di Samuel Paty), si è visto approvare la sua cosiddetta “legge sul separatismo”. Un testo in cui, tra le altre cose, si chiede maggiore trasparenza alle associazioni e agli enti religiosi, nonché un più rigido controllo sui testi e sui discorsi proclamati nei luoghi di culto.

Obiettivo della legge è quello di evitare una "separazione" tra la comunità musulmana e gli ideali che tengono in piedi la vita repubblicana. Il documento ha diviso e non poco. I sostenitori lo hanno visto come un primo necessario passo, i detrattori invece come una limitazione alla libertà religiosa capace di acuire le tensioni.

Ad ogni modo, il tema dell'islamismo è ancora più che mai attuale. L'anniversario dell'uccisione di Samuel Paty non mancherà di sottolineare le divisioni e i paradossi insiti nella Francia di oggi.

Omaggio alle donne coraggiose: Saman, le iraniane, e noi? Dacia Maraini su Il Corriere della Sera il 25 Settembre 2022.   

Queste donne oggi ci stanno dando un esempio di coraggio straordinario e di fede nella libertà. Dovremmo imparare da loro anziché cedere alla tentazione di una sorda e cinica passività, con la scusa che «tanto non cambia niente». Cambia invece, se veramente lo vogliamo 

Se si volesse esemplificare cosa sia il fanatismo, basterebbe raccontare la storia del padre di Saman Abbas, la ragazza pakistana di seconda generazione che è stata strangolata, poi fatta a pezzi e quindi gettata nel fiume. La madre, intercettata al telefono avrebbe detto che «anche noi siamo morti quel giorno». Morti sì, ma avendo compiuto un dovere sociale e religioso, il piu disumano e orrendo che si possa immaginare. E non si tratta di un caso di egoismo famigliare , ma di una pratica che viene legittimata da una tirannica religione di Stato.

Si possono capire le inquietudini, i malumori di chi ha una identità debole e sente il bisogno di confermarla con la violenza. La brutalità infatti nasce sempre dalla paura di perdere qualcosa dell’idea che ci si fa di se stessi. Anche i femminicidi vengono perpetrati da uomini convinti che la loro identità virile consista nel possesso della donna che hanno deciso essere «propria». L’amore è l’ultima delle preoccupazioni. Si tratta di paure ataviche e del terrore tutto nuovo di perdere i privilegi che fanno parte di una arcaica concezione di superiorità maschile.

La povera Saman voleva semplicemente vivere come le sue coetanee, libera di scegliersi il fidanzato, libera di muoversi, libera di vestirsi a modo suo. Ma queste libertà sono considerate peccaminose e illegittime da una religione che pur nascendo dall’amore , col passare del tempo si è trasformata in intolleranza, potere oppressivo e tirannia. Noi ne sappiamo qualcosa. Ci sono voluti secoli per uscire dal dispotismo di una Chiesa totalitaria che aveva tradito le parole sagge e dolcissime del Cristo per torturare e mandare al rogo coloro che considerava nemici di Dio (guarda caso quasi tutte donne), in combutta col diavolo e quindi pericolose per la collettività.

Sembra che il padre di Saman, il pio Shabbar, che aveva organizzato per ragioni famigliari il matrimonio della figlia col cugino, si sia inalberato di fronte alla pretesa della figlia di scegliersi l’uomo da amare. Una offesa alla autorità del padre, e all’onore della famiglia. E dopo essersi messo d’accordo con il fratello, i figli e i nipoti (un’altra scelta significativa: Le donne devono partecipare agli orrori di una tradizionale patriarcale, ma sempre in posizione passiva. Non possono né agire né impedire di agire). Quindi porta in campagna la ragazza con la scusa di una passeggiata, si fa raggiungere dai parenti maschi, che terranno ferma la cugina mentre lo zio la strozzerà con una corda, poi la faranno a pezzi , la chiuderanno in un sacco e la getteranno nell’acqua che scorre.

«L’ho fatto per la mia dignità e il mio onore», ha sentenziato il pakistano Shabbar. E qui si capisce la mostruosità del concetto di onore. Il nostro delitto d’onore non era la stessa cosa? Se mia moglie mi tradisce, ho il diritto di ucciderla per difendere il mio onore. Ma chi stabilisce l’onore di un uomo? Dovrebbe essere l’etica laica. Invece in questi casi l’onore viene deciso dall’alto, dai sacerdoti barbuti che rappresentano in modo meschino e violento la volontà di un Dio da loro rappresentato come intollerante e crudele. Al Dio si può disobbedire? Chiaro che no. Per questo le religioni che si identificano con lo Stato sono pericolose.

È quello che sta succedendo in Iran, dove la polizia morale ha ucciso una ragazza perché portava male il velo, ovvero non si copriva interamente e quindi con spirito religioso, i capelli. Naturalmente oggi la polizia nega. Dicono che è morta di infarto. Ma da dove vengono quelle ecchimosi, quei segni di calci, e pugni che le coprono il corpo? Le donne iraniane, pur sotto minaccia di prigione e di frustate, sono scese in piazza per protestare. Con un coraggio ammirevole, sapendo quanto rischiano. Ma il coraggio vero lo si vede in queste situazioni: quando si rischia e si protesta lo stesso per difendere le proprie idee, i propri valori.

Mi vengono in mente le difese del velo che ho sentito da tante parti anche occidentali: sono le donne che lo desiderano, è una espressione religiosa, una scelta di pudore. Non vi dicono niente queste ragazze che si tagliano i capelli in strada gettando via il velo, mostrando quanto sia isterica e repressiva la pretesa di fare sparire il corpo femminile sotto ampie vesti scure per non destare il desiderio maschile?.

Queste donne oggi ci stanno dando un esempio di coraggio straordinario e di fede nella libertà. Dovremmo imparare da loro anziché cedere alla tentazione di una sorda e cinica passività, con la scusa che «tanto non cambia niente». Cambia invece, se veramente lo vogliamo, anche se si rischia qualcosa. Tutta la mia solidarietà alle ragazze iraniane e ai giudici che hanno condannato con parole severe l’azione di un padre che ha voluto uccidere la figlia per difendere il suo vile e antistorico onore.

Ritorno al terrore della dittatura di Omar al-Bashir. Il dramma di Maryam, accusata di adulterio e condannata alla lapidazione dopo indagini sommarie. Sergio D'Elia su Il Riformista il 22 Luglio 2022. 

La caduta del regime di Omar al-Bashir nell’aprile 2019 aveva fatto ben sperare. Dopo trent’anni di regime condotto col pugno di ferro e la legge della Sharia, il colpo militare in Sudan avrebbe, se non altro, potuto segnare la fine delle punizioni coraniche. Ma il “nuovo” regime non ha cambiato registro. A fianco del Codice militare sudanese, l’esercito ha lasciato in vita il Codice penale islamico. Con esso è restata in vigore la pena capitale anche per i crimini di Hudud, considerati i più gravi, perché sono rivolti contro Allah. Apostati, ladri, rapinatori, adulteri, calunniatori e consumatori di alcolici rischiano ancora le sanzioni più arcaiche della storia dei delitti e delle pene. Dall’amputazione di mani e piedi alla fustigazione, dalla morte tramite impiccagione alla morte per lapidazione.

Tra le punizioni islamiche, la lapidazione è la più terribile. Il condannato è avvolto da capo a piedi in un sudario bianco e interrato. La donna è interrata fino alle ascelle, mentre l’uomo fino alla vita. Un carico di pietre è portato sul luogo e funzionari incaricati – in alcuni casi anche semplici cittadini autorizzati dalle autorità – eseguono la lapidazione. La morte deve essere lenta e dolorosa, per cui le pietre non devono essere così grandi da provocarla con uno o due colpi. Se il condannato riesce in qualche modo a sopravvivere alla lapidazione, sarà imprigionato per almeno 15 anni ma non verrà giustiziato. Tra i diciassette Paesi dove la lapidazione è prevista dalla legge o praticata di fatto compare anche il Sudan.

Nel sud del Paese, lo scorso 26 giugno un tribunale di Kosti, nello Stato del Nilo Bianco, ha condannato a morte tramite lapidazione Maryam Alsyed Tiyrab, una donna di 20 anni accusata di adulterio. Si sa molto poco della sua vita personale e della sua famiglia, se non che lei e suo marito si erano lasciati e lei era tornata a casa.

Grazie all’organizzazione per i diritti umani Centro africano per gli studi su pace e giustizia, si sa che le autorità sudanesi hanno compiuto diverse irregolarità che hanno contaminato anche le indagini e il processo. La polizia l’ha presa in custodia, gli inquirenti hanno indagato e interrogato, la donna avrebbe confessato. Nessun avvocato di fiducia l’avrebbe difesa davanti a poliziotti e magistrati. Nessuno l’avrebbe informata che le sue parole durante l’interrogatorio sarebbero state usate contro di lei in tribunale.

A seguito della confessione da lei resa durante l’interrogatorio, il verdetto del tribunale era solo una formalità. L’adulterio è considerato un reato grave nel Paese, un crimine contro la “morale pubblica” e la “virtù della donna”. Seduta stante, il tribunale ha emesso una condanna alla lapidazione. Una pena di morte per adulterio non veniva comminata in Sudan dal 2013, quando una donna nel Kordofan meridionale è stata arrestata per adulterio e condannata alla lapidazione. La sentenza nei confronti di Maryam segna un ritorno al passato, ai tempi del terrore politico e penale imposto dalla dittatura di Omar al-Bashir. Essa deve essere ancora approvata dalla Corte suprema, che ha una storia di ribaltamento delle decisioni di lapidazione contro le donne condannate. Ma, intanto, la donna rimane in attesa… che qualcuno scagli la prima pietra.

A coloro che gli avevano condotto un’adultera con la speranza che egli ordinasse di lapidarla – racconta il Vangelo secondo Giovanni: 8,3[1] – Gesù Cristo disse «chi tra voi è senza peccato scagli la pietra per primo». Nessuno osò scagliare pietre. Tutti, a partire da quelli più anziani, abbandonarono il proposito e si ritirarono in pace. Una parabola perfetta contro la morte per lapidazione: siano usate, le pietre, per costruire case, ponti, città, non per “fare giustizia”, “reprimere il vizio” e “promuovere la virtù”.

A ben vedere, è una parabola che va oltre la giustizia che lapida a morte. È un monito a “non giudicare” l’altro prima di aver fatto un esame di coscienza di se stesso. Ancor di più, è un invito ad abbandonare la logica manichea del diritto penale, della lotta tra il bene e il male, del delitto e del castigo. Un abisso di umanità e civiltà divide la buona novella di duemila anni fa dalla storia – non malsana, ma ordinaria – della giustizia contemporanea. Quella degli avvisi di garanzia, dei giusti processi, dei giudizi definitivi e degli umani castighi, notificati, celebrati, lanciati come se non fossero, anch’essi, pietre mortali. A volere essere umani e civili, occorrerebbe definitivamente uscire dal “sistema di lapidazione” insito nel giudizio, dal principio di diritto penale da cui tutto origina e da cui tutto consegue in una catena senza fine di violenze, sentenze, sofferenze. Sergio D'Elia

Pakistan: due giovani sorelle uccise da parenti per 'onore'. Stesso luogo omicidio Sana Cheema.  Volevano divorzio da cugini. La Repubblica il 22 Maggio 2022.

Costrette a sposarsi con i cugini, attratte con l'inganno in Pakistan dopo la richiesta di divorzio. Torturate e colpite a morte. Due sorelle pachistano-spagnole di 21 e 24 anni sono state uccise dai suoceri e altri familiari nella provincia pachistana orientale del Punjab per aver chiesto il divorzio dai loro mariti dopo matrimoni forzati.

Aneesa e Arooj Abbas sono state strangolate e poi finite a colpi di arma da fuoco venerdì sera nel villaggio di Nathia, nel distretto di Gujrat. Nuaman Hussain, portavoce della polizia locale, ha detto che entrambe le sorelle insieme alla madre erano tornate dalla Spagna lo scorso 19 maggio. Secondo lui, le giovani erano state fatte sposare con i loro cugini un anno fa e ora volevano divorziare per sposarsi di loro spontanea volontà in Europa.

La polizia ha spiegato che le due sorelle sarebbero state uccise per "onore", una pratica brutale in base alla quale una donna viene uccisa per aver disonorato la sua famiglia. Azra Bibi, madre delle vittime, ha affermato di essere stata tenuta lontana dalla scena del crimine. Tuttavia non ha presentato denuncia contro l'omicidio delle figlie. La polizia ha aperto un caso contro sette familiari delle vittime e altre due persone, tutti latitanti.

L'omicidio delle due sorelle è avvenuto nello stesso distretto del Punjab dove l'italo-pachistana Sana Cheema, 26 anni, è stata uccisa da suo padre e suo fratello nel 2019. Nata in Pakistan e vissuta a Brescia, Sana Cheema voleva sposare un italo-pachistano ma la sua famiglia si era opposta. Il padre, il fratello e lo zio di Sana sono stati arrestati in relazione al suo omicidio, ma in seguito un tribunale di Gujrat li ha assolti per mancanza di prove.

Ogni anno centinaia di donne vengono uccise con l'accusa di "disonore" in Pakistan. Nel 2021 nel paese asiatico sono stati segnalati oltre 400 casi di "delitto d'onore".

"Meglio morta che musulmana". Così Asia Bibi ha sconfitto gli estremisti. Alessandra Benignetti il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

La bracciante cristiana condannata a morte nel 2010 per blasfemia ora vive in una località segreta in Canada. Resta nel mirino dei fondamentalisti ma continua a battersi per le minoranze oppresse.

Legata con un collare e trascinata come un cane al guinzaglio lungo la strada. I vestiti che si stracciano, il sangue che esce dalle ferite che bruciano la pelle. Gli occhi asciutti dei suoi bambini, increduli, che guardano la loro madre portata via a forza dalla loro casa. Sono le ultime ore di libertà di Asia Bibi. È il giugno del 2009 e nel villaggio di Ittan Wali, nel distretto di Nankana, in Pakistan, una folla di persone si è radunata per assistere alla cattura della bracciante cristiana che ha osato offendere Maometto. Qualche giorno prima durante la raccolta delle bacche scoppia una lite con alcune donne musulmane. Asia va ad attingere l’acqua, immerge la sua tazza nel pozzo comune e la offre ad una collega, ma alcune protestano: non può farlo, è "infedele".

Il 19 giugno viene denunciata. Un imam la accusa di aver offeso la loro religione durante il diverbio. Il crimine di cui deve rispondere è quello di blasfemia. Un reato per cui, in Pakistan, si finisce dritti in prigione. E poi sulla forca. I poliziotti la picchiano, abusano di lei. Le offrono addirittura urina al posto dell’acqua quando dopo ore dal suo arresto osa dire "ho sete". Asia, che non sa leggere né scrivere, ma ha una fede incrollabile, sopporterà questo ed altro nel calvario che durerà per nove lunghi anni. Lo stesso numero dei metri quadrati della sua cella. La stessa in cui l’ha immaginata Papa Francesco nei tanti momenti in cui ha pregato per la sua liberazione.

Asia passa un anno rinchiusa lì dentro in attesa della sentenza, isolata e in condizioni al limite. Il verdetto arriva l’11 novembre del 2010. Nonostante non ci fossero prove contro di lei, il giudice del tribunale di Nankana, Naveed Iqbal, decide che la contadina di Ittan Wali deve essere condannata a morte. Sarà la stessa Asia a raccontare, qualche anno più tardi, di aver ricevuto personalmente dal magistrato un salvacondotto: la libertà in cambio della sua conversione all’Islam. Lei non ci pensa neppure un istante. Ringrazia l’uomo che in quel momento ha potere di vita e di morte su di lei e gli dice che preferisce "morire da cristiana" piuttosto che rinnegare il nome di Gesù. Asia resta in prigione nonostante l’anno successivo il suo accusatore, l’imam Qari Salam, confessi di aver portato il caso davanti ai giudici perché spinto dalle "emozioni religiose" e dai "pregiudizi personali" delle colleghe, fra cui sua moglie.

Insomma, contro Asia Bibi non c’è nessuna prova concreta. Salam, però, non ritirerà mai la sua denuncia. A fargli cambiare idea ci sono i gruppi islamici più radicali. Gli stessi fondamentalisti che nel gennaio del 2011 uccidono il governatore del Punjab, Salmaan Taseer, e due mesi dopo il ministro per le minoranze cattolico Shahbaz Bhatti. Entrambi avevano preso le difese di Asia Bibi, chiedendo la revisione delle leggi sulla blasfemia. Sulla testa di Asia i mullah mettono una taglia da 500mila rupie. Il prezzo di una casa ristrutturata e arredata con tutti i confort. Anche se uscirà dal carcere, almeno dieci milioni di pachistani sono pronti ad "ucciderla con le proprie mani". Dalla sua cella continua ad urlare la sua innocenza e presto diventa il simbolo della lotta per i diritti delle minoranze religiose. Lei, mamma di cinque figli, umile lavapiatti e bracciante, mostra al mondo il calvario dei cristiani pachistani, cittadini di serie b, relegati alle mansioni più ingrate, vittime di accuse campate in aria e detenzioni ingiuste.

Per la sua liberazione si spendono le principali organizzazioni per i diritti umani e i due papi, Benedetto e Francesco. L'ultimo che ha incontrato a Roma il marito e due delle sue figlie. "Abbracciandolo mi è sembrato di aver abbracciato mio padre", dirà una di loro, Eisham Ashiq, dopo l'udienza. Gli anni del processo sono contrassegnati da violenze e soprusi e soltanto nel 2018 arriverà la sentenza di assoluzione della Corte Suprema, tra le proteste dei principali partiti islamisti. Asia verrà scarcerata per questo soltanto un mese dopo e trasferita in una località segreta del Pakistan per sfuggire agli estremisti islamici. Nel 2019 è volata in Canada, dove ora vive con la sua famiglia sotto falso nome. Il ricordo di quegli anni è affidato ad un libro dal titolo "Finalmente Libera", scritto a quattro mani con la giornalista francese Anne-Isabelle Tollet ed uscito in Francia nel gennaio del 2020. Anche il presidente francese, Emmanuel Macron, ha voluto incontrarla all'Eliseo.

"La mia fede mi ha permesso di sopportare tutte le prove e mi ha dato la speranza. Senza la fede non sarei potuta rimanere viva”, scrive Asia che ha sempre accusato gli islamisti di essersi "servita di lei" per "seminare il panico in Pakistan". Il suo libro è un tributo a tutti quelli che ancora oggi sono in carcere con la stessa accusa mossa dai musulmani più radicali. Circa ottanta persone secondo la Commissione Usa sulla libertà religiosa nel mondo. Tra loro c’è anche Aneeqa Ateeq, 26 anni. Un’altra giovane donna pachistana imprigionata per aver diffuso vignette blasfeme su una chat di Whatsapp e condannata all’impiccagione da un giudice di Rawalpindi. Asia continua a lottare anche per lei.

Quelle 22 Saman in soli tre anni: "Il problema è l’islam fondamentalista". Francesca Bernasconi il 13 Maggio 2022 su Il Giornale.

Annalisa Chirico presenta a ilGiornale.it il suo ultimo libro, che affronta il tema del fondamentalismo islamico e racconta le storie delle donne che vi si sono ribellate: "Queste ragazze sono le vere paladine della libertà in Occidente".

Picchiata, abusata, segregata e umiliata. Fino al punto di dover subire ispezioni nelle parti intime da parte della madre, che voleva accertarne la verginità. È l'ultimo caso, che questa volta coinvolge una ragazza marocchina, di violenza ai danni di giovani donne, che fanno parte di famiglie musulmane emigrate e vogliono vivere all'occidentale. Ma questa ragazza non è l'unica a dover subire tali trattamenti dalla propria famiglia. Come lei ce ne sono altre. La loro unica colpa? Quella di aver voluto studiare, uscire con gli amici, indossare pantaloni e magliette, come i ragazzi del Paese in cui vivono. Come i giovani italiani.

Si tratta di bambine, ragazze e donne che si sono ribellate ai dettami del fondamentalismo islamico e, per questo, punite. A volte anche a costo della vita. Sono tutte le Saman senza nome che, proprio come la ragazza diciottenne che sarebbe stata uccisa dai famigliari perché voleva ribellarsi al matrimonio combinato, subiscono minacce e violenze da parte di chi dovrebbe proteggerle. A loro ha dato voce la giornalista Annalisa Chirico nel suo ultimo libro, Prigioniere. Saman e le altre (Piemme), che a ilGiornale.it ha spiegato: "Le Saman senza nome sono tante e vanno difese".

Il titolo del libro parla di “prigioniere”. Di chi o di che cosa?

"Sono prigioniere delle loro famiglie e del fondamentalismo islamico. Vivono come anime clandestine nel nostro Paese, spaccate a metà: da un lato c'è quello che vorrebbero essere e che l’Occidente promette loro, dall'altro la canea di proibizioni e divieti che le famiglie impongono loro nel nome di Allah".

Per questo vogliono ribellarsi?

"Queste ragazze sono, oggigiorno, le più tenaci paladine dell’Occidente: hanno una piena consapevolezza di quanto preziose siano le libertà di noi occidentali che forse, per abitudine, tendiamo a darle per scontate. Poter amare la persona che si vuole, indossare un paio di jeans attillati o uscire di casa con le unghie laccate di smalto sono comportamenti per noi finanche banali, eppure per queste giovani donne significa rischiare la vita".

Come Saman...

"Saman è stata una ragazza coraggiosa: sapeva che la famiglia tramava contro di lei, sapeva che tornare sotto lo stesso tetto avrebbe comportato rischi enormi, ma voleva recuperare i propri documenti per tagliare per sempre i ponti con quella realtà familiare che la teneva segregata in casa. Saman non abbiamo saputo difenderla. Se, dopo l’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo dicevamo Je suis Charlie, oggi non possiamo che dire Je suis Saman".

Video e chat: cosa sappiamo di Saman a un anno dalla scomparsa

Qual è la colpa attribuita a queste ragazze dalle loro famiglie?

"L’onore perduto, un’onta per l’intero clan familiare. Queste giovani donne hanno la colpa di voler vivere all’occidentale, secondo gli usi e i costumi degli infedeli. Nell’Islam fondamentalista, il mondo è diviso in bene e male, tra chi rispetta l’ortodossia e chi, in quanto infedele, va raddrizzato e punito. Il problema è l’Islam fondamentalista, che considera il corpo delle donne una proprietà e le donne che vogliono vivere all’occidentale come esseri corrotti e ontologicamente inferiori, meritevoli di una punizione esemplare. L’Islam è l’unica religione per cui rischi la vita per apostasia. Se parli male del Dio cristiano o del Buddha non rischi la vita. Se parli male di Allah, finisci sotto protezione".

C’è una differenza con il femminicidio?

"Negli omicidi commessi da uomini abbandonati o malati di gelosia c’è un movente passionale, psicologico. Nel caso della segregazione imposta alle giovani, che talvolta culmina nella violenza e addirittura nell’eliminazione fisica, prevale una componente religiosa. Non agisce un singolo uomo, ma un intero clan familiare che si attiva contro il componente colpevole di aver macchiato l’onore di tutti. C’è una cornice religiosa che, attraverso una interpretazione fondamentalista dei testi sacri, giustifica e addirittura supporta tali scelleratezze. Nei casi come quello di Saman, le madri sono spesso complici del regime di vera e propria prigionia, imposto dal patriarcato islamico". 

Oltre alla vicenda di Saman, ci sono altre storie di ragazze uccise?

"Negli ultimi tre anni, 22 ragazze di origine islamica sono state eliminate in contesto familiare. Quante sono le Saman senza nome, che non sanno a chi chiedere aiuto, a chi rivolgersi? C’è una tragedia di cui nessuno parla, anche perché è scomodo farlo".

Perché?

"Nessuno vuole essere accusato di omofobia e razzismo. Ma io ho voluto correre questo rischio, perché penso che si debba strappare il velo dell’ipocrisia e chiamare le cose con il loro nome. L’Islam ha un problema con le donne, punto. Nel nostro Paese, le procure, i centri antiviolenza, le case-famiglia e i servizi sociali hanno a che fare con storie di giovani e giovanissime ragazze che chiedono aiuto. Purtroppo le risorse sono sempre scarse rispetto alla domanda di intervento. Ricordiamoci che, tre anni fa, l’Italia ha dovuto approvare una legge per bandire i matrimoni forzati. Non è certo un problema delle italiane".

Questa reticenza a parlarne può essere anche dovuta al fatto che il tema è spesso percepito come lontano?

"Lo avvertiamo come lontano da noi, perché si tratta di anime clandestine, che vivono rinchiuse nelle loro case e non possono socializzare con nessuno che non sia un membro della famiglia. Talvolta vengono addirittura ritirate dalla scuola".

C’è qualcosa che potrebbe essere fatto per affrontare il problema?

"Da una parte bisognerebbe sostenere le frange modernizzatrici dell’Islam e, da questo punto di vista, aiuterebbe una maggiore trasparenza da parte dei centri di culto. Vuoi pregare? Lo fai in italiano. Dall’altra parte l’integrazione di chi vive in Italia deve essere effettiva. C’è un gigantesco problema con le sacche di immigrazione proveniente dai Paesi arabi che non si integrano e non vogliono integrarsi. Costoro pensano di poter approfittare del nostro Paese, di un’economia più florida e di salari più alti, perpetuando a Milano o a Padova i medesimi costumi dei Paesi di origine. Chi vuole stare in Italia deve rispettare la Costituzione e i suoi valori fondamentali, a partire dalla parità tra uomo e donna, altrimenti va rispedito da dove viene". 

Una relazione pacifica tra Islam e Occidente è possibile?

"È possibile. Israele, pur con non poche difficoltà, è un paese multietnico, gli arabi israeliani attualmente sono rappresentati nel governo guidato dal primo ministro Bennett. Con Trump alla Casa Bianca inoltre, il governo israeliano, all’epoca guidato da Netanyahu, ha firmato gli Accordi di Abramo, normalizzando le relazioni con diversi Paesi islamici, a partire dagli Emirati Arabi Uniti. Gli scambi tra le persone, al di là del credo religioso, favoriscono la diffusione di modi di vivere e di agire, di concepire i rapporti tra i sessi e non solo. Bisogna proseguire lungo la strada di dialogo e dell’apertura verso l’altro".

Tornando alle donne in Italia, le parole dell’imprenditrice Elisabetta Franchi dimostrano che neanche per noi le cose sono facilissime.

"Non esiste un aut aut tra l’essere madre e lavoratrice. Non siamo più nell’Età della Pietra, possiamo lavorare e occuparci dei figli, insieme ai padri. La genitorialità va condivisa. I Paesi nordeuropei sono più avanti, l’Italia soffre la carenza di asili nido e di politiche a supporto della natalità. Per il resto mi lasci dire che noi donne siamo notoriamente multitasking, possiamo metter su famiglia e lavorare anche prima degli 'anta'".

Lei però non ha raggiunto gli anta e non ha figli.

"Forse non ho trovato l’uomo giusto, chissà".

Saman Abbas, Vittorio Feltri: "Frontiere chiuse ai musulmani irriducibili". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano l’01 dicembre 2022

La tragica e disgustosa vicenda di Saman si avvia a un epilogo che con la giustizia ha poco che fare. Vero che il padre della povera ragazza è stato arrestato in Pakistan, suo paese d'origine, dove si era riparato subito dopo l'atroce delitto per sfuggire ai rigori delle leggi italiane. Tuttavia, conoscendo per esperienza le norme in vigore in certi stati islamici, temo che l'uomo rimarrà nella sua patria, in cui esiste ancora la possibilità di perdonare chi uccide per motivi discutibili di onore. Spero di sbagliare, sono però convinto che l'assassino non sarà giudicato in Italia, bensì nel luogo dove è nato e cresciuto prima di venire da noi onde campare meglio. Ma al di là delle mie convinzioni, che - ripeto - saranno smentite dai fatti, vorrei proporre un ragionamento che con il razzismo non c'entra nulla.

Noi ospitiamo migliaia di extracomunitari, molti dei quali si integrano nella nostra società assimilandone i costumi, le abitudini e perfino la cultura. E fin qui tutto va bene, a parte qualche eccezione. Però, c'è un però. Nella quantità degli immigrati non pochi sono di religione islamica, i quali non solo non rinunciano alle loro tradizioni che confliggono con la nostra mentalità, ma sono fortemente decisi a imporre a noi il loro credo, i cui dettagli contrastano con i nostri principi anche civili. È un fatto che la Costituzione che ci siamo dati a guerra finita prevede per qualsiasi cittadino la possibilità di professare i riti che gli garba. Ma nel caso dei maomettani andrei più cauto, dato che la loro fede non collima con i nostri codici, oltre che con i comportamenti diffusi da queste parti.

In sostanza, dovremmo aprire le frontiere a tutti, tranne a coloro che sono apertamente in antitesi con la civiltà che ci siamo dati. Di conseguenza, se costoro non apprezzano il modello italiano e preferiscono quello di Allah e non intendono rinunciarvi, se ne stiano a casa loro e non vengano qui a sfasciare l'ordine costituito. Teoricamente non esiste alternativa: o lo straniero invasato di islamismo si adatta al nostro modus vivendi, oppure rimanga nella sua terra. Invece l'Italia, e in genere ogni nazione europea, non solo rinuncia alla dignità culturale, ma addirittura, per un malinteso senso di superiorità, offre agli stranieri che non si piegano alla civiltà occidentale la edificazione di moschee che sono laboratori non di spiritualità, bensì di violenza terroristica, come risulta dalle cronache degli ultimi anni. Ribadisco, non si intende fare prediche ostili a chi viene qui per lavorare e guadagnarsi da vivere, ma difendere con orgoglio la nostra civiltà che è cristiana anche per chi è ateo, e non tollera gente che ammazza per antica abitudine, sapendo che massacrare una persona per presunti motivi di onore non sarà lecito ma neanche punibile severamente.

Svegliati UE il multiculturalismo chic loro non lo capiscono. Guido Igliori su Culturaidentota il 30 Novembre 2022

Quanto ci manca Oriana Fallaci. Nel vero senso del termine: quanto manca a noi giornalisticamente e letterariamente. E quanto manca all’Occidente: se non proprio lei, almeno UNA Oriana Fallaci. Era (è) uno dei Profeti inascoltati del 900, di cui si è occupato il nostro mensile e forse mai espressione fu (è) più azzeccata per lei: inascoltata allora, quando scrisse quel suo articolo dal titolo La rabbia e l’orgoglio, con cui la giornalista rompeva il silenzio successivo all’attacco terroristico al World Trade Center che sconquassò il mondo e le Twin Towers crollavano come castelli di carta. In quell’articolo ripercorreva l’orrore e condannava il fondamentalismo islamico, rivolgendo una dura critica all’Occidente per la mancanza di coraggio e passione nel difendere la propria identità e libertà. E inascoltata oggi, dopo che a Bruxelles e in altre città belghe decine di tifosi marocchini dopo la vittoria del Marocco contro il Belgio ai Mondiali in Qatar si sono scontrati con la polizia, distrutto finestre e dato fuoco a motorini e automobili: ci chiediamo che senso abbia il multiculturalismo come lo intende, guarda caso, Bruxelles cioè la UE, cioè il multiculti chic che non ha mai fatto un bagno nella realtà. Sotto le braci dell’integrazione a tutti i costi cova l’odio e quanto accaduto in Belgio e, nel recente passato, nelle banlieu francesi, ne è la dimostrazione. Se basta una partita di calcio a incendiare una città…E infatti massima allerta anche a Parigi, perché oggi si giocherà Tunisia Francia. Ma attenzione: non è, come ha twittato Paolo Gentiloni, il calcio la causa ("Il calcio fa da detonatore", ha scritto sul suo profilo Twitter): no, c’entra niente il calcio con la guerriglia urbana, al massimo può essere l’esempio lampante di quanto siano distanti certi mondi culturali. La UE dei diritti universali, che riprende l’Illuminismo guarda caso francese, considera l’identità una roba vecchia e deteriore. Lo ha detto la stessa Ursula (von del Leyen): "L’identità è passata di moda". Quando invece, a nostro giudizio, è proprio adesso che l’identità e la cultura si devono imporre. Lo dicesse ai vandali che hanno messo a ferro e a fuoco Bruxelles. Sono incidenti etnici, inutile girarci attorno e l’incendio era da tempo lì lì per scoppiare, ricordate Molenbeek? Non è una questione che interessi solo il Belgio o la Francia, interessa tutta l’Europa, anche l’Italia (ben vengano le moschee, c’è libertà religiosa, ma chi sono i finanziatori? E chi sono gli imam che le gestiscono?). La UE deve svegliarsi: avrebbe bisogno di rileggere alcuni passi di quel famoso articolo (e non solo quello) di Oriana Fallaci: in Occidente secondo la UE avere un’identità à sbagliato e fuori moda, ma pare che l’orda che ha bruciato Bruxelles invece l’identità ce l’abbia ben presente…

Uguaglianza soggettiva. Il Corano impedisce l’emancipazione delle donne islamiche italiane? Micol Maccario su L'Inkiesta il 9 aprile 2022.

Interpretazioni e fatti di cronaca in contrasto tra loro rendono difficile delineare il rapporto tra la libertà della figura femminile e l’Islam. Sottomissioni, femminismo e conservatorismo si alternano all’interno di un panorama complesso, in cui spesso non è semplice scindere religione e cultura. 

La percezione comune è che la donna islamica sia sottomessa all’uomo a causa del Corano. E questa credenza sembrerebbe essere confermata dalla cronaca recente, in cui si alternano storie di padri padroni, spose bambine, matrimoni combinati e femminicidi in nome della religione.

A Saman Abbas, pakistana di origine, trasferitasi in provincia di Reggio Emilia era stato imposto il matrimonio con un ragazzo del Pakistan, nonostante fosse fidanzata. È sparita ormai più di un anno fa, dopo essersi opposta al destino che aveva stabilito per lei la famiglia. Ma è solo una delle donne che hanno subìto (e subiscono) il radicalismo estremo. Appena due mesi fa una ragazzina di 12 anni è stata promessa in sposa dalla madre, originaria del Salento, al fratello del nuovo compagno pakistano. Nel giugno dello scorso anno una donna palermitana è stata picchiata, abusata, minacciata di morte e di essere sfregiata con l’acido dal marito tunisino. Non voleva indossare il burqa ed era costretta a seguire il Ramadan, nonostante fosse cristiana.

I fatti di cronaca sembra dimostrino che le donne islamiche arrivate in Italia non possano godere degli stessi diritti delle donne italiane. Ma in realtà la questione è più varia e complessa. Il fulcro del rapporto tra Islam e diritti femminili risiede nell’interpretazione del Corano. È una questione delicata perché, secondo la religione, il testo sacro è stato rivelato direttamente da Dio e le sue indicazioni regolano ogni ambito della vita dei fedeli.

A un’interpretazione tradizionalista, quindi, se ne oppone una più progressista. La prima legge il Corano in chiave classica, contemplando l’esistenza di disuguaglianze tra uomo e donna. La seconda ritiene che il testo debba essere analizzato tenendo conto del contesto storico e che necessiti di una costante attualizzazione.

«Tra un pensiero islamico congelato che circonda assiduamente i problemi delle donne e un’ideologia occidentale che si diverte a denigrare l’Islam attraverso quegli stessi problemi, si fatica a pensare a una terza via, attraverso la quale le donne musulmane possano uscire da questa impasse ideologica», scrive la scrittrice e attivista marocchina Asma Lamrabet in “Women in the Qur’an”. Nel libro l’autrice si chiede se sia davvero la religione che opprime la donna o se non sia invece «una realtà sociale che si appropria del religioso per riformularlo secondo una rappresentazione gerarchica che gli permette di affermare meglio i suoi poteri».

L’Islam porta, da un lato, un messaggio di giustizia, amore e pace, «proveniente da un Dio che, creando l’essere umano, uomo e donna, lo ha reso inequivocabilmente libero, uguale e dignitoso». D’altro canto la concezione tradizionalista contribuisce a perpetuare l’ideale del predominio maschile, trasformando la religione in uno dei canali di discriminazione tra i sessi.

Asma Lamrabet ritiene che nessuna disuguaglianza potrebbe essere giustificata dal testo sacro, ma tale convinzione fatica a concretizzarsi nella realtà musulmana, che necessita di un rinnovamento. Secondo lei il Corano rivela (anche) la responsabilizzazione femminile, ma questo spirito viene negato da altre interpretazioni.

La contraddizione tra le due visioni è evidente nella Sūra 4, al versetto 34. «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle». Il punto controverso riguarda il verbo “preposti”, interscambiabile, secondo l’interpretazione tradizionale, con “superiori”. Molti interpretano questo passaggio come indicazione indiscutibile del predominio degli uomini sulle donne. In senso moderno invece si intende come “devono prendersi cura”: infatti all’epoca solo gli uomini andavano a lavorare e chi interpreta attualizzando deve tenere conto del fatto che ora anche le donne lavorano.

Anche Sherin Khankan, Imam di una Moschea femminile di Copenaghen, adotta una lettura progressista. Già il fatto che ci sia una donna alla guida della preghiera non è una pratica accettata dal mondo musulmano tradizionalista. L’intento della Imam danese è quello di scardinare le gerarchie, ad esempio celebrando matrimoni inter-confessionali (in teoria proibiti alle musulmane), trovando punti d’incontro tra i valori occidentali e l’Islam.

In Occidente l’interpretazione progressista del testo sacro è più diffusa che in altri Paesi. Bedri El Meddeni, Imam di Palermo, afferma che la donna è «maestra dei bambini, costruttrice della famiglia con l’uomo, ha il ruolo dell’educazione, esprime liberamente la sua opinione, ha responsabilità finanziaria e partecipa alla società. L’idea che debba stare a casa è sbagliata».

Sul ruolo della donna è d’accordo il presidente del direttivo della Moschea Mariam di Milano Maher Kabakebbji. «La sua importanza si capisce già dal nome della nostra Moschea: Mariam. La figura femminile è il fulcro della famiglia. È una persona umana degna della sua creatura. Ha il diritto di scegliere lo sposo e di essere trattata bene, in caso contrario può divorziare. Ha capacità giuridica, può possedere qualunque tipo di bene».

Nuovamente, i fatti di cronaca si scontrano con queste interpretazioni. Poco più di tre settimane fa una donna musulmana di Castelfidardo ha denunciato il marito in seguito agli ennesimi divieti. Dopo anni di proibizioni anche nei confronti della figlia, a cui era vietato uscire con gli amici, la donna è stata picchiata per aver prelevato dei soldi per pagare le bollette.

Anche la credenza che il velo sia un obbligo è controversa e soggetta a interpretazioni differenti. Nemmeno cinque mesi fa una 14enne di Ostia è stata picchiata dal fratello perché rifiutava l’educazione islamica imposta dalla famiglia e l’utilizzo del velo. Al fatto, ripetutosi più volte, è seguita una denuncia. Ma l’Imam sostiene che secondo il testo sacro l’hijab è una proposta, la donna può metterlo come no, spetta a lei scegliere». Maher Kabakebbji ritiene che il velo sia stato «prescritto da Dio, non c’entra l’uomo. Dio ha creato la donna di una certa bellezza e ha chiesto che fosse conservata lontano da occhi indiscreti».

«A volte mi dicono “ah sì, tu fai tante cose, però hai il velo” e io penso “e cosa significa?”. La mia scelta è frutto di una relazione personale tra me e Dio. Nessuno può entrare in questa relazione, nemmeno mio marito», afferma Amina Natascia Al Zeer, attivista, ideatrice e co-fondatrice del progetto Aisha.

D’accordo con una visione progressista, l’imam ritiene che, nell’applicare le prescrizioni del Corano, «bisogna tenere in considerazione le trasformazioni della società. Se c’è necessità di cambiare, noi cambiamo. Non bisogna accettare passivamente, ma analizzare in modo critico».

«Nel Corano ci sono delle regole che non si possono toccare, sono pilastri», dice Amina Salah presidentessa dell’Admi (Associazione donne musulmane d’Italia). «Altre che riguardano il modo di vivere in generale, queste cambiano. Non è che se al mondo del profeta non avevano le automobili allora noi non possiamo guidare. Ogni società ha le sue esigenze. Il tempo è cambiato anche per l’Islam».

Sull’uguaglianza tra uomo e donna Amina Al Zeer sostiene che «la donna davanti ad Allah è indistinguibile dall’uomo». «È vero che le donne musulmane fino ad adesso in tanti Paesi non hanno ancora il loro posto, sono sottomesse. La causa è da imputare a quei Paesi». Talvolta infatti nell’immaginario collettivo religione e cultura diventano inscindibili. E se, spesso, i due si condizionano a vicenda, bisogna tenere a mente che non sono la stessa cosa. «Chi vuole liberare le donne musulmane non conosce l’Islam, conosce quello che succede in alcuni paesi musulmani» afferma Amina Salah.

Insomma, la visione occidentale della donna islamica è controversa, come controversa pare l’interpretazione del Corano. Una cosa è certa: il background storico e culturale incide profondamente sull’analisi del testo sacro e, di conseguenza, sulle libertà delle donne. E che se da un lato si sta facendo strada un’interpretazione volta alla tutela della donna, dall’altro bisogna ricordare che solo tre mesi fa in Afghanistan le teste dei manichini – soprattutto se con sembianze femminili – sono state tagliate perché ritenute contrarie alla Sharia.

"Voglio partorire un maschio". E lo stregone le pianta un chiodo in testa. Gerry Freda il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La donna pakistana ha raccontato che, a piantarle il chiodo in testa, sarebbe stato un aamil, ossia un guaritore.

Una donna incinta è stata ricoverata d'urgenza in Pakistan poiché si era fatta conficcare "un chiodo nella testa". La vicenda in questione si è consumata martedì a Peshawar, nel nord del Paese, quando la malcapitata, madre già di tre figli, si è recata presso il locale ospedale Lady Reading. Il personale sanitario ha subito constatato allora che lei aveva un chiodo di cinque centimetri piantato nella parte superiore della fronte.

L'équipe di pronto intervento guidata dal dottor Haider Khan è riuscita, utilizzando tecniche il meno possibile invasive, a estrarre il corpo conficcato nella testa della donna. A detta dei medici, la paziente, nonostante la presenza del chiodo nella sua testa, era perfettamente cosciente, a parte il dolore lancinante provocatole in continuazione dall'oggetto. Gli esami clinici eseguiti sulla paziente presso l'ospedale hanno evidenziato che il chiodo aveva perforato la parte superiore della fronte della donna, ma, fortunatamente, aveva mancato il cervello.

Al personale dell'ospedale, la malcapitata ha quindi raccontato inizialmente di essere stata lei stessa a piantarsi quel chiodo in testa, salvo poi cambiare versione affermando che, a compiere il gesto, sarebbe stato un aamil, ossia un guaritore. Gli aamil sono presenti soprattutto nelle zone rurali del Pakistan, ma le loro pratiche sono state sempre disapprovate dall'islam ufficiale.

In base alla testimonianza della donna, si sarebbe recata dal guaritore dopo avere scoperto di essere incinta di una bambina e dopo che suo marito avrebbe minacciato di divorziare da lei se quest'ultima non avesse partorito un maschio. Di conseguenza, la malcapitata si è rivolta all'aamil in cerca di un rimedio per dare alla luce un figlio. Il finto taumaturgo ha così assicurato alla donna che, conficcandole un chiodo nella fronte, la gravidanza avrebbe soddisfatto i desideri del marito.

Sulla disavventura capitata alla donna incinta sta adesso indagando la polizia pakistana, con Abbas Ahsan, capo della polizia di Peshawar, che ha garantito: "Presto, metteremo le mani sullo stregone".

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Dagotraduzione dal Daily Mail l'8 febbraio 2022.

Ad Ahvaz, città sud-orientale dell’Iran, un uomo ha decapitato la moglie, Mona Heydari, 17 anni, che era fuggita in Turchia, e ha portato in giro per le strade la sua testa mozzata. La polizia ha arrestato l’uomo, che si ritiene fosse anche il cugino della ragazza, e il fratello con l’accusa di omicidio. 

L'agenzia di stampa semi-ufficiale ILNA ha citato l'ufficiale di polizia Col. Sohrab Hosseinnejad dicendo che i due «imputati hanno confessato l'omicidio durante le indagini di polizia e sono stati presentati all'autorità giudiziaria». 

I media locali hanno affermato che la polizia non ha approfondito ulteriormente l'omicidio o chi ha filmato il raccapricciante video del marito che porta la testa della moglie in giro. L'agenzia di stampa iraniana ha chiuso il sito web di notizie Rokna per aver pubblicato le riprese video. Secondo il rapporto, domenica un consiglio di sorveglianza dei media ha chiuso il sito perché continuava a «pubblicare immagini e problemi che violano il decoro pubblico».

Si crede che l'omicidio di Mona sia un «delitto d'onore», cioè l'uccisione di un parente che si ritiene abbia recato disonore alla famiglia. La legge della Sharia dice che i «proprietari di sangue» - i familiari stretti - possono chiedere l'esecuzione per l'omicidio di un parente. La maggior parte dei delitti d'onore rimangono impuniti poiché le famiglie tendono a non chiedere la condanna a morte per un altro membro della famiglia. 

Altri casi simili hanno scosso il paese. Nell'aprile 2021, un uomo di 50 anni ha ucciso a colpi di arma da fuoco suo figlio di nove anni e sette dei suoi suoceri nella città di Ahvaz. Nel giugno 2020, Reyhaneh Ameri, di Kerman, nell'Iran centro-meridionale, è stata picchiata a morte dopo essere stata aggredita con una sbarra di ferro da suo padre. I media locali hanno riferito che la 22enne è sopravvissuta per quasi 24 ore dopo l'attacco, ma è morta dissanguata per le ferite riportate.

Durante la stessa settimana, la diciannovenne Fatemeh Barahi è stata decapitata dal marito dopo essere scappata a soli due giorni dal loro matrimonio forzato.  L'uomo di 23 anni, che era anche cugino di sua moglie, si è consegnato alla stazione di polizia di Valiasr ad Abadan, nel sud-ovest dell'Iran, mentre impugnava un coltello insanguinato. Ha detto agli ufficiali di aver decapitato sua moglie a causa della sua "infedeltà" e di aver lasciato il suo corpo decapitato nell'area di Bahar 56 vicino al fiume Bahmanshir. 

Alla fine di maggio 2020, una ragazza iraniana di 13 anni è stata decapitata in un delitto d'onore da suo padre mentre dormiva, secondo i media locali. Le leggi iraniane indicano che le ragazze possono sposarsi dopo i 13 anni, anche se l'età media del matrimonio per le donne iraniane è di 23 anni. 

Sebbene il numero esatto dei delitti d'onore in Iran non sia noto, un funzionario della polizia di Teheran ha precedentemente affermato che rappresentano circa il 20% degli omicidi iraniani.

"Vi racconto come nasce la paura di eros e arte che imprigiona l'islam". Chiara Clausi il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Lo scrittore algerino nel suo nuovo romanzo analizza il potere del desiderio e chi lo teme.

Eros, corpi, cannibalismo, nudità, pornografia. Lo scrittore algerino Kamel Daoud, vincitore del Premio Goncourt, nel suo ultimo romanzo Il pittore che divora le donne edito da La nave di Teseo e in libreria da ieri, si immedesima in un novello Robinson Crusoe di provenienza arabo-musulmana, di nome Abdellah. Una sua passeggiata notturna e dai toni onirici all'interno del Museo Picasso a Parigi diventa un'occasione per parlare di desiderio, femminilità e arte nel mondo cristiano e in quello musulmano. Ancora una volta una grande testimonianza di libertà di un autore su cui pesa la condanna a morte, da parte di un imam salafita, per le sue idee. Un urlo coraggioso contro tutti i dogmatismi e le violenze. Un inno al corpo, spesso maledetto e degradato, dalle religioni.

Lei dedica il libro alle donne che, nel mondo arabo, non hanno diritto al proprio corpo. Quali mostri può generare una vita senza questo diritto?

«Lo sappiamo da sempre: la condizione delle donne è quella della schiavitù. Ed è sempre giustificata da religioni, culture, tradizioni o leggi mondane. Anche in Occidente questi diritti non sono garantiti per sempre e possono essere contestati dal populismo, dall'ipernazionalismo o dalla religione. Quali sono i mostri? Un uomo che si crede superiore a una donna è un uomo che ha paura della vita, della morte, della propria sessualità, della nudità, della verità, della felicità. La donna è lo specchio intimo dell'uomo e il mostro impara molto rapidamente chi è quando incontra la donna».

Qual è per lei la differenza tra pornografia ed erotismo?

«La pornografia è una degradazione del corpo in oggetto, la sua riduzione alla cieca percezione del possesso commerciale. L'erotismo è un'esaltazione della sessualità per conoscere l'altro. Fa parte della cultura al suo apice, della visione che abbiamo di noi stessi, dell'enigma dell'altro da risolvere amandolo o desiderandolo. La pornografia è commercio, nichilismo, un vicolo cieco dei sensi. L'invenzione del peccato ha enormemente degradato l'erotismo fino a trasformarlo, alla fine, in pornografia».

L'erotismo, dice, è «cannibalismo suicida». Perché moriamo l'uno nell'altro?

«Ho concluso da tempo che possiamo parlare di dei, angeli, diavoli, santi e visioni, ma l'unico incontro che sperimentiamo, è quello dell'altro, qui, sulla terra, ora. L'Altro è l'unico limite, l'unica circostanza per vedersi dall'esterno. Cerchiamo l'erotismo in ogni momento, forse per trovare pace, tranquillità, eternità. Forse non è un suicidio, ma un tentativo di tornare a se stessi. Moriamo lì, idealmente, sempre in coppia».

In che senso il corpo è la possibilità dell'abisso?

«Ho anche scoperto molto presto che, a differenza di angeli, dei, diavoli siamo gli unici ad avere un corpo. Questa cosa oscura. Quando ero giovane, mi ha sorpreso che invece di stare in cima alla piramide perché ha un corpo, l'uomo, è posto in fondo, proprio accanto alla notte e al peccato. Il carnale è maledetto. Gli dei, gli angeli e i diavoli sono ferocemente gelosi di noi. Il corpo è l'unica metafisica di cui siamo sicuri. Amo il mio corpo nella sua fragilità, nel suo vuoto, nella sua pelle che è cielo in sé, nel suo dolore che me lo ricorda o nel suo sonno che lo estende all'infinito. Non sono un'anima in un corpo, ma un corpo che a volte ha un'anima. Riprendo la formula di Arthur Rimbaud: Io sono un corpo».

L'erotismo gioca con la morte. Come mai?

«È un po' come l'esperienza dell'estasi. L'orgasmo non è voler essere l'altro che si desidera, divorandolo e assimilandolo e perdendosi in esso, dissolvendosi? Con esso incontriamo l'abisso... Non sono queste definizioni della morte, quella grande?».

Da quando l'erotismo non è più un difetto nel mondo occidentale?

«Non sono uno storico, ma noto che non lo è più da quando è dissociato dal peccato. Perché il nudo è erotismo e non solo crocifissione. È affascinante e tragico vedere che i monoteismi hanno una visione del corpo come opposto alla Salvezza».

In paradiso, l'orgasmo è di cattivo gusto. Qui sulla terra, come lo descriverebbe?

«Descrivere l'orgasmo è già un fallimento! Scrivevo che puoi scegliere tra baciare o scrivere una poesia sul bacio. Baciare è tacere, dare la lingua, diventare muti e aperti, conoscere l'altro dal corpo e non dalle parole. L'orgasmo senza parole è perfetto».

Perché la nudità è legata alla crudeltà?

«La nudità può essere felice, calma, serena, solare. In certe arti però è percepita come crudeltà perché è impossibile afferrare definitivamente, possedere fino all'assoluto. Nell'erotismo, nella nudità, c'è la disperazione dello spettatore. L'arte è fondamentalmente voyeuristica».

Il sogno di purezza di Abdellah è impossibile? Perché la pittura per lui è empia?

«Perché è in competizione con Dio. L'arte rappresenta l'uomo mentre Abdellah vuole assomigliare a Dio, non avere corpo, essere immortale, essere al di là della tentazione. Ciò che fa agire Abdellah è la vanità, l'ego, il risentimento, non la fede. Saccheggia per convertire il mondo all'immagine del suo intimo deserto».

Perché il concetto di museo non appartiene al mondo arabo?

«Nel mondo cosiddetto arabo, la storia non è ancora opera dell'uomo ma di un dio, di un profeta o di un eroe. Non cerchiamo di illustrare la gloria dell'uomo, ma del suo dio. Il museo è un modo per dire che io sono il tempo, lo controllo, lo feticizzo. La storia di Dio si racconta nella moschea o in un libro sacro. Il museo poi ricorda forse soprattutto la sottomissione, la sconfitta dei colonizzati contro l'Occidente».

E perché i fanatici trovano sollievo nella distruzione?

«Il fanatico si dispera, ha bisogno dell'unanimità e se non la ottiene, userà la forza. Il fanatico distrugge ciò che incontra perché è il suo modo di suicidarsi, ma mai da solo».

Solo l'arte è eterna. Sarà vero?

«È l'unica cosa che sopravvive all'uomo. Il suo atto che è la singolarità assoluta è, allo stesso tempo, l'espressione più collettiva che ci sia».

L'arte è anche l'Altrove. Qual è il suo Altrove?

«Il corpo amato, contemplato durante il riposo. La metafora di un poeta morto mille anni fa così lo descrive: l'esatto movimento del suo allievo quando contemplava il mare trafitto dal sole o l'amato che si avvicinava, quel movimento esatto e il brivido. L'Altrove è il mare, il Mediterraneo. O il cielo notturno che mi costringe a trovare un significato nella sua gelata dispersione. Un romanzo. Il collo di una donna descritto da Nabokov».

Qual è il più grande malinteso tra il mondo arabo e quello occidentale?

«Bella domanda! Forse Dio e il sesso». Chiara Clausi

Valentina Errante per "il Messaggero" l'1 febbraio 2022.  

«Non pensavamo di farle del male. Le vogliamo bene, la stavamo solo educando». Hanno risposto alle domande davanti al gip, i genitori della ragazzina bengalese che vive a Ostia.

Le avrebbero reso la vita impossibile, diversa da quella di tutte le sue coetanee, con vessazioni continue e l'obbligo del burqa. Sono indagati per maltrattamenti in famiglia e tentata induzione o costrizione al matrimonio, non possono più avvicinarsi alla figlia, ospite in una struttura protetta. Ma non hanno capito perché. 

Assistiti dall'avvocato Lucia Gasperini, davanti al gip, hanno mostrato il disagio rispetto a un contesto che non comprendono: quello occidentale. Una cultura che non gli appartiene e nella quale, però, la figlia è cresciuta. 

E così, quello che per gli altri adolescenti è ovvio trasformava le giornate di Afeef (nome è di fantasia) in incubi e montagne da scalare: guardare la Tv, usare il telefonino, uscire con le amiche o andare a una festa. I due indagati si disperano, dicono di essere pronti a recuperare: «L'abbiamo punita è vero, ma abbiamo la responsabilità della sua vita», hanno tentato di difendersi, sostenendo di non avere colto il malessere della ragazzina.

Quanto alle nozze imposte e a quel marito «trovato» in Bangladesh per lei, hanno negato. Ma il disagio si estende all'intero nucleo familiare, con un procedimento alla procura dei minori che riguarda anche il fratello della ragazza, il diciassettenne che, secondo la denuncia della sorella, l'avrebbe picchiata ogni volta che trasgrediva le regole imposte. 

Una storia come tante che fa più paura dopo la tragedia di Saman, la ragazza pachistana scomparsa vicino a Reggio Emilia e probabilmente uccisa dai familiari. Tutti a Ostia sanno chi sono i ragazzi.

Le difficoltà riguardano anche il fratello diciassettenne della ragazzina. I compagni continuano a chiedergli se davvero picchiasse la sorella. E neppure lui comprende. Perché nella sua cultura un uomo deve vigilare.

Entrambi sono stati affidati dal Tribunale a un curatore, eppure i servizi sociali non si sono fatti vivi. Neppure con il legale che, al momento, ha la responsabilità dei ragazzi. Non c'è stato un mediatore culturale, neppure dopo la denuncia presentata da Afeef a novembre, che sia intervenuto, in soccorso della famiglia. 

Anche la sorella maggiore della ragazza, che pure vive in Italia, difende i genitori. Sostiene che la quattordicenne non voglia accettare regole normali, come cucinare, solo perché le sue coetanee non lo fanno. Ma spiega che lei ha iniziato a farlo a 10 anni. Quanto al marito, la quattordicenne ha riferito che, proprio la mamma era in viaggio con la sorella in Bangladesh, quando le è stato comunicato che era stato trovato un uomo per lei. Ma sulle nozze imposte la sorella di Afeef nega: «Io sono sposata e mio marito l'ho scelto da sola a 20 anni». 

Giuseppe Scarpa e Raffaella Troili per “il Messaggero” il 29 gennaio 2022.

«Ti abbiamo comprato il burqa e trovato un marito». L'ennesimo schiaffo è arrivato al telefono, per la 14enne di Ostia che sogna una vita normale. La madre e la sorella erano in Bangladesh, nel loro paese d'origine, e avevano appena stabilito un matrimonio combinato, per quella giovane che ama lo studio e sogna di fare il chirurgo. 

Davanti alle proteste è stata malmenata dal fratello 17enne. La giovane che già si era sfogata con una amica e con le insegnanti ha trovato la forza di denunciare tutto ai carabinieri di Ostia - era novembre - che dopo una serie di indagini hanno eseguito una ordinanza di misura cautelare di divieto di avvicinamento e di comunicazione alla persona offesa, emessa dal Tribunale di Roma su richiesta della locale Procura della Repubblica nei confronti dei genitori della minorenne, lui di 44 anni e lei 40. 

Sono indagati per i reati di maltrattamenti in famiglia e tentata induzione o costrizione al matrimonio. Nella caserma dei carabinieri la ragazza ha raccontato le sevizie subite in famiglia, «picchiata, sbattuta a terra», a ogni minimo cenno di ribellione. E una vita fatta di divieti e imposizioni: «niente telefonino, niente uscite con gli amici, l'obbligo del velo, tutti divieti imposti specie da mia madre nel rispetto della cultura islamica».

La giovane che frequenta la scuola media si è sfogata con le insegnanti, la scuola non è stata a guardare ma ha raccolto i suoi pianti disperati e le sue richieste di aiuto. Le docenti stesse l'hanno spinta a denunciare violenze e soprusi. «In classe piangeva sempre». Ora è in una struttura protetta, lontana dai genitori, il fratello e le sorelle più piccole. Troppo grave quanto raccontato dalla giovane e confermato dalle indagini investigative. 

«Fin da piccola i familiari hanno posto in essere condotte vessatorie, sistematiche violenze fisiche e verbali, poste in esser per lo più dalla madre e dal fratello, imponendole di indossare il burqa, di non usare il telefono e vedere la tv. Picchiata ogni volta si ribellava al rispetto delle regole della religione islamica». Anche il papà seppur meno violento voleva che la figlia smettesse di studiare per sposarsi con un connazionale.

Davanti alle proteste della giovane il fratello la prendeva a schiaffi, facendola cadere a terra e sbattere la testa contro un armadio. La telefonata della mamma è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Di fronte alla paura di esser portata via, in Bangladesh, per un matrimonio combinato la 14enne è fuggita di casa, dritta dai carabinieri. 

La giovane si è convinta grazie al supporto in particolare di due insegnanti che hanno confermato ai carabinieri le rigide regole che doveva rispettare e le percosse subite: trauma e cranico e lesioni da graffio le ultime riscontrate il 14 novembre scorso. 

Altre conferme sono arrivate dalla dirigente scolastica, dalle confidenze fatte all'unica cara amica, dal contenuto dei messaggi in codice che la giovane si scambiava con la sua prof per non farsi scoprire dal fratello, da un tema disperato in cui la ragazza ha raccontato la sua situazione familiare. Si aggiungano i segni di percosse e i referti del pronto soccorso. «La scuola tutta e le docenti hanno fatto solo il proprio dovere.

Esiste un protocollo del Ministero che indica le procedure da seguire in caso di possibili situazioni di violenze in famiglia». Milena Nari, la preside dell'istituto comprensivo frequentato dalla giovane originaria del Bangladesh e residente a Ostia non si meraviglia del fattivo operato dei docenti che ha portato la 14enne a trovare la forza di fuggire alle violenze dei suoi familiari. 

«Ripeto, è dal Ministero che arrivano le linee guida, prevedono un sostegno concreto attraverso un protocollo che tutela il minore in questo tipo di situazioni. «È un dovere civico. In una trentina d'anni di lavoro non è il primo caso che mi capita di dover intervenire come scuola a livello di indagini».

·        L’Islam e la Finanza.

Banche islamiche, 120 miliardi in più di depositi grazie a petrolio e pandemia. Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 7 giugno 2022.  

L’aumento del prezzo del petrolio e la pandemia, che ha contribuito a dirottare una parte delle disponibilità finanziarie sul sistema bancario, fanno volare i depositi delle banche islamiche. Nel 2021 gli istituti di credito islamici hanno avuto una crescita dei depositi di 120 miliardi di dollari. Gli aumenti più significativi si sono registrati in Arabia Saudita (+30,4%) e nei Paesi del Golfo, anche grazie al processo di consolidamento del settore bancario locale. A fotografare la situazione è uno studio sulla finanza islamica elaborato da Davidia Zucchelli, economista della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo.

A determinare l’aumento sono stati soprattutto due fattori: la pandemia, che ha rallentato le varie economie dirottando una parte delle disponibilità finanziarie sul sistema bancario islamico, e l’aumento del prezzo del petrolio che ha fatto crescere le risorse a disposizione di questi Paesi. Non ci sono invece i tassi d’interesse perché non sono ammessi, secondo il principio definito Riba che mira a evitare ogni forma di privilegio attraverso l’ottenimento di rendite finanziarie senza una partecipazione lavorativa. L’80% circa dei capitali depositati nelle banche islamiche è investito nelle componenti remunerate (profit sharing e depositi remunerati), mentre la componente non remunerata rappresenta il 20% circa del totale depositi in molti Paesi. Per una disamina più precisa sui motivi della tendenza all’aumento dei depositi va «tenuto presente che si tratta di una realtà composita e diversificata e che le banche centrali di alcuni di questi Paesi non forniscono sempre dati spacchettati fra famiglie ed imprese», spiega Zucchelli.

Un settore in trasformazione

Nella ricerca si fa riferimento alle banche islamiche di undici Paesi: Indonesia, Bangladesh, Malesia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Oman, Kuwait, Qatar, Egitto, Bosnia e Albania , che hanno avuto nel 2021 tassi di variazione sostenuti (Oman +13,8%, Egitto +18,7%, Bangladesh +26%). «Il denaro infatti - aggiunge Zucchelli - ha valore non in sé, secondo la finanza islamica, ma solo come strumento utile per lo sviluppo e la crescita, e non può essere accantonato, ma va fatto circolare». Il settore bancario dei Paesi islamici, secondo l’analisi, sta subendo anche una trasformazione grazie all’ingresso delle banche digitali, il cui numero sta aumentando con gradualità anche in tutti i Paesi islamici, in particolare in Malesia e Indonesia. È molto più controversa, invece, l’introduzione in questi Paesi delle valute digitali per la loro adeguatezza alla legge islamica.

·        L’Islam ed i social.

Dialogo con un mussulmano in Italia.

«Perché tu sei così radicale?

Perché non abiti in Arabia Saudita???

Perché hai abbandonato già il tuo Paese musulmano?

Voi lasciate Paesi da voi definiti benedette da Dio con la grazia dell’Islam e immigrate verso Paesi da voi definiti puniti da Dio con l’infedeltà.

Emigrate per la libertà …

per la giustizia …

per il benessere …

per l’assistenza sanitaria ..

per la tutela sociale …

per l’uguaglianza davanti alla legge …

per le giuste opportunità di lavoro …

per il futuro dei vostri figli …

per la libertà di espressione ..

quindi non parlate con noi con odio e razzismo ..

Noi vi abbiamo dato quello che non avete …

Ci rispettate e rispettate la nostra volontà, altrimenti andate via».

Qualcuno afferma che queste frasi le abbia pronunciate Julia Gillard (primo ministro australiano) ed abbia rilasciato queste affermazioni nel 2005 rivolgendosi ad un Islamista radicale estremista in Australia.

Qualcun altro decreta che sia una bufala e che Julia Gillard non abbia mai proferito quelle frasi.

Se nessuno fino ad oggi ha dato paternità a queste frasi, allora dico: sono mie!

La nuova fede islamica veicolata dai social. Simona Iacobellis su Inside Over il 3 luglio 2022.  

Oggi più che mai la diffusione sui social raggiunge livelli estremamente alti; non stupisce, quindi, che possa diventare un non-luogo in cui sviluppare una nuova religione. Alcuni predicatori musulmani stanno infatti riscuotendo successo sui social network grazie alla diffusione di una nuova fede slegata dalla tradizione e tendente ai valori occidentali.  

È una religiosità che si sposa con la globalizzazione e si basa su una visione laica, abbracciando la modernità occidentale. Ciò che maggiormente spaventa è la fragilità con cui è esposta al mercato capitalista, rivelandosi superficiale e mercificata. Tutto ciò andrebbe contro i valori e la morale degli insegnamenti islamici. 

In questo nuovo modello presentato dal fenomeno degli influencer islamici c’è in realtà una scarsa attenzione all’identità, manca l’aspetto ideologico, e la religione sembra piuttosto in balia dei meccanismi di domanda e offerta. I temi trattati riguardano principalmente la spiritualità e il comportamento individuale, ma c’è anche l’enfasi nel presentare una religiosità allegra e lontana dall’intimidazione e da sistemi punitivi. Si focalizzano sulla realizzazione personale, amorosa, lavorativa e sociale. 

Al contrario della visione tradizionale, si tenta di attirare il pubblico proprio seguendo l’adattamento alle esigenze della vita moderna, incentivando l’interesse per le questioni mondane tanto ripudiate dall’Islam. Altra caratteristica è la mancanza di interesse politico o nell’affrontare questioni nazionali e dei popoli islamici o inerenti ai diritti umani. Isolamento e tranquillità: queste le parole chiave. 

“Non hai bisogno di cambiare. Non rimproverarti né biasimarti, sei buono, e ciò che ti manca è la felicità”. Queste parole di un influencer islamico testimoniano la neutralità dei messaggi veicolati. Nulla di troppo diverso da altre professioni religiose, prettamente occidentali forse. Che la globalizzazione abbia davvero svoltato la visione islamica? O forse è solo caduta nelle mani dei riferimenti di mercato. Ciò che si evince dalla retorica di questi soggetti è un incoraggiamento alla ricerca di felicità nelle società consumistiche e non nella religione, nell’introspezione e nella comprensione del mondo circostante. 

Questi giovani, infatti, non hanno ricevuto una vera e propria istruzione religiosa, ma una normalissima educazione civica. Indi per cui è chiaro il distacco dal fanatismo islamico noto ai più. Ciò che induce a pensare è invece la superficialità con cui affrontano, spesso in modo incoerente, temi più specificatamente religiosi.  

I nomi più famosi tra gli influencer islamici 

Accomunati dal genere (maschile), dalla giovinezza e dal linguaggio colloquiale, i protagonisti di questa vicenda non indossano gli abiti della tradizione islamica, ma semplici vestiti, che siano sportivi o di marca, di cui approfittano per fare pubblicità, spingendo i loro seguaci ad acquistarli. Come gli influencer a noi noti, utilizzano una comunicazione diretta, emotiva e simpatica. 

Uno dei più famosi è Omar al Odah. Partito da frasi romantiche a base religiosa su TikTok, si è poi diretto verso l’idealizzazione religiosa. È famoso per i suoi sermoni su vari temi: “la strada per la felicità”, “non disperare”, “un messaggio per ogni ragazza”. Nei suoi libri di grande successo spiega invece come raggiungere la felicità attraverso la religione. 

Tra i nomi più conosciuti c’è Amir Mounir e i titoli dei suoi video su YouTube sono “le regola dell’amore”, “masturbazione”, “sei modi per migliorare la tua vita”. Insieme agli insegnamenti di vita, si dedica anche al marketing e ad eventi di vario tipo. Insomma, un influencer. Tiene anche dei corsi religiosi a pagamento e conferenze sull’”arte di scegliere un partner” e la “fiducia in sé stessi”. Una sorta di life coach. Sul suo libro dal titolo Ad Allah c’è una gigantografia di sé stesso. 

Kareem Esmail tratta temi come l’amicizia tra uomini e donne e l’ambizione, basati su elementi della religione islamica e filosofie del benessere occidentali. Anche lui tiene dei corsi a pagamento su come trovare un equilibrio tra salute fisica e mentale e ha scritto un libro, “Una svolta psicologica”, in cui dispensa consigli su come combinare lo sviluppo umano con la religiosità. In un video su YouTube afferma: “Il nostro obiettivo è consentire alle persone di migliorare la propria salute mentale. La maggior parte dei motivi di tristezza, depressione, disagio mentale e disagio psicologico provengono da questioni religiose. Quando comprendiamo correttamente la religione e viviamo bene, miglioreremo la nostra salute mentale”. 

In sostanza nulla di diverso da ciò che conosciamo: poca competenza sui temi trattati, egocentrismo, marketing, eventi e contenuti vari ed eventuali; con la sola differenza dell’aggiunta religiosa. La preoccupazione rimane la mercificazione dei discorsi religiosi. “Il termine ‘islamico’ ormai è usato per tutto: dieta islamica, moda islamica, musica disco islamica, costumi da bagno islamici, yoga islamico” afferma Ahmad Saif al-Nasr nel suo articolo. Soprattutto per chi è molto legato alla tradizione islamica, è difficile accettare che Dio possa essere utilizzato per soddisfare necessità di mercato, soprattutto occidentali.