Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LE RELIGIONI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LE RELIGIONI
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Dei.
La Superstizione.
L’Esorcismo.
Il Satanismo.
La Stregoneria.
La Cartomanzia.
L’Immacolata Concezione.
Santa Lucia.
Il Natale.
Epifania e Befana.
La Candelora.
I Riti della Settimana Santa.
I Miracoli.
San Francesco.
San Pio.
San Gennaro.
Il Santo Graal.
Le Formule di Rito.
La Mattanza dei Cristiani.
Cristiani contro Cristiani.
Il Papa Beato.
Il Papicidio.
Il Papa Emerito.
Il Papa Fascista.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Santa Teresa di Calcutta.
Il Vaticano e la Comunicazione.
Il Concilio.
Il Concistoro.
Il Sinodo.
La CEI. Conferenza Episcopale Italiana.
La Pontificia Accademia per la Vita.
Le Riforme.
Comunione e Liberazione.
Comunità di Sant’Egidio.
Scandali Vaticani.
Le Donne dei Papi.
I Preti e le Suore.
Il matrimonio.
Il Vaticano e l’Aborto.
La Chiesa e gli Lgbtq.
Il Vaticano e l’Immigrazione.
Il Vaticano e l’Italia.
Le Sette.
Il Panteismo.
I Testimoni di Geova.
Scientology.
L’Ebraismo.
Lo Zoroastrismo.
L’Islam ed il Terrore.
L’Islam ed i social.
LE RELIGIONI
PRIMA PARTE
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il ritorno degli dei: inaugurato nel Tarantino un tempio dedicato ad Apollo. Nel cuore della Magna Grecia, a Monteiasi, si erge un tempio gestito dalla Comunità Gentile Pietas: siamo andati a documentare il rito di consacrazione. Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Settembre 2022.
Nel mito, Apollo è il dio che guida la quadriga e fa nascere il Sole facendosi così portatore di una luce intellettuale, prima ancora che fisica. Forte è storicamente il suo legame con Taranto, sede della scuola pitagorica, e dunque non sorprende che proprio in area jonica - precisamente a Monteiasi - sia stato inaugurato ieri un tempio dedicato al dio che illumina lì dove la luce ancora non c’è. Non un restauro di antiche rovine, né una «riconversione» di strutture esistenti, ma una costruzione ex novo ad opera dell’Ente religioso «Pietas», realtà operante sul territorio nazionale per il ripristino della religione classica e già da tempo impegnata nella costruzione di luoghi di culto: dal tempio di Giove a Roma a quello di Minerva Medica a Pordenone o ancora di Apollo a Palermo.
Ieri è toccato alla Puglia salutare l’inaugurazione del primo tempio in territorio regionale. Un evento che, complice il rito pubblico di consacrazione, con la recitazione di carmi in latino e greco antico, ha attirato l’interesse della cittadinanza oltre a richiamare i praticanti della «tradizione gentile», così come da corretta definizione del culto classico. La riscoperta dell’antico, non solo a livello culturale ma anche spirituale, è un fenomeno ormai dilagante in Europa, dalla Grecia alle repubbliche baltiche, dall’Islanda all’Italia, dove «Pietas», la realtà più strutturata e largamente rappresentativa, conta oltre 1600 aderenti.
«Il nostro è un percorso molto lungo, con radici profonde - racconta Giuseppe Barbera, presidente dell’associazione e pontefice della comunità - avviato con l’associazionismo culturale e coronato, nel 2020, dalla formazione dell’Ente religioso, regolarmente registrato presso pubblico ufficiale di Stato. Siamo una realtà in forte crescita, con adesioni da tutta Italia e solide relazioni con Paesi stranieri ad iniziare dall’India». Quanto al tempio l’iniziativa di ieri non è da considerarsi un exploit isolato: «Il nostro culto è prevalentemente domestico e non facciamo proselitismo ma creiamo i templi come punto di riferimento per la comunità e la collettività - conclude Barbera -: chiunque voglia visitarlo sarà il benvenuto. L’accesso è libero e sarà sufficiente affacciarsi in via Cristoforo Colombo a Monteiasi. Ora anche la Puglia possiede un riferimento fisico sul territorio. E per chi bussa le porte sono sempre aperte». Così il culto classico è tornato in Magna Grecia.
Uomini, capaci di tutto per emulare gli déi e ostentare una divinità che non gli appartiene. Cesare Pavese nei 26 "Dialoghi con Leucò": l’immortalità è vivere il presente. Elisabetta de Dominis su La Voce di New York il 22 gennaio 2022.
Se una sola volta nella vita noi mortali abbiamo saputo vivere l’istante, siamo stati simili a dei. Abbiamo osato, trasgredito, amato come gli dei che non si preoccupano del passato e del futuro. Perciò sono dei e sono immortali. Questo ci dice Cesare Pavese nei 26 Dialoghi con Leucò, che lo scrittore considerava la sua opera più importante, e ora Rizzoli Bur ha ripubblicato a cura di Gino Tellini.
L’immortalità è dunque vivere il presente e sentirsi immortali, come quando eravamo giovani e l’esistenza era un insieme di attimi. Quando ricordiamo, rimpiangiamo il passato, la passione perduta. Sentiamo il tempo che passa.
“I mortali non hanno tempo di godersi il capriccio. Vivono di istanti imprevisti, unici e non ne conoscono il valore. Vorrebbero la nostra eternità” spiega Satiro ad Amadriade. E Demetra chiede a Dioniso: “Che cosa saremmo senza di loro? Sai che un giorno potrebbero stancarsi di noi?” Gli dei sanno di essere un’invenzione degli uomini e che “tutto i mortali hanno sofferto quel che raccontano di noi”. Bia ha la soluzione, che confida a Cratos: “Soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sapore del mondo”.
Ma quando gli dei si mescolano agli uomini, nessuno più sa chi è davvero, finendo per violentare i sentimenti dell’altro senza rendersene conto. “Quando un dio avvicina un mortale, segue sempre una cosa crudele” osserva Eros parlando a Tanatos. “Ho conosciuto altri mortali. Tutti distrusse questa smania di potere ogni cosa”. Benché oggi dovremmo aver capito che gli dei non esistono, facciamo di tutto per emularli od ostentare una divinità che non ci appartiene. Perché soffriamo lo spazio e subiamo il tempo. “Meglio soffrire che non essere esistito” chiosa Patroclo ad Achille, che sa di dover morire.
Per Orfeo il passato non torna e confida egoisticamente a Bacca che scese nell’Ade non per cercare Euridice ma per ritrovare se stesso, perché “è necessario che ciascuno scenda una volta nel proprio inferno”. Mentre Odisseo vuole ritrovare quello che ha perduto, Penelope. E Calipso non riesce a trattenerlo e fargli “accettare l’istante”. Né ci riesce Circe, perché non può far sorridere Odisseo. “Non seppe mai cos’è il sorriso degli dei… aveva gli occhi pieni di ricordi”. Gli dei sorridono perché sanno, mentre “Leucò, l’uomo mortale non ha che questo d’immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia”.
Calipso e Circe sono ninfe semidivine e tuttavia soffrono per un uomo, il cui amore vogliono rendere eterno. Ma l’amore di Odisseo sta proprio nel ricordo di Penelope. L’eroe greco le abbandona forse proprio perché avevano perso il fascino divino dell’irraggiungibilità. Teseo abbandona Ariadne per lo stesso motivo: la donna conquistata perde il potere d’attrazione. Il maschio, che sia divino od umano, cerca sempre la conquista per dimostrare di essere un eroe e, quando una donna è conquistata, parte verso nuove avventure. Ma non si possono conquistare tutte perché non si può piacere a tutte: arriva il giorno anche per lui di non essere accettato. I miti sono pieni degli inseguimenti di Apollo e delle metamorfosi di tante ninfe in piante o animali pur di sfuggirgli. Ma il maschio si sente un dio e non concepisce il rifiuto. Allora la donna ride come una dea.
ELISABETTA DE DOMINIS
Detesto confondere la mia vita con un curriculum. Ho ballato e sognavo di nuotare, ho nuotato e sognavo di cavalcare, ho cavalcato, studiato, mi sono laureata mentre facevo la stilista e sognavo di fare la giornalista, ho collaborato con una ventina di testate nazionali, diretto una rivista, ho fatto l’esperta di quasi tutto, dal food al fashion al sex, ho viaggiato e sempre volevo essere da un’altra parte, libera di inseguire l’ultimo sogno.
Il fuoco rubato da Prometeo e il lago di Narciso: "Storie e miti" della nostra cultura. La Repubblica l'11 Gennaio 2022.
Il terzo volume della collana "Storie e Miti", presentata dall'autrice del bestseller "La Lingua geniale" Andrea Marcolongo, è dedicata alle "Leggende dell'antica Grecia", da Prometeo a Dafne. Un volume per ragazzi di ogni età.
Incredibili vicende dell'antica Grecia da sempre legano il mondo delle divinità a quello degli uomini, e sono alla base della cultura greco-romana e patrimonio condiviso di tutti noi. Prometeo con il suo fuoco, Icaro e le sue ali, Eco perdutamente innamorata del bel Narciso, senza dimentare Apollo e Dafne e tanti altri miti sono narrati nel terzo volume della Collana "Storie e Miti - Le leggende dell'antica Grecia".
Una collana rivolta a chi è giovane e curioso. Miti e dei‚ eroi e storie epiche per far conoscere e scoprire le storie e i miti del mondo classico ai ragazzi di tutte le età, fornendo una chiave di accesso agevole alle grandi narrazioni epiche e mitologiche che sono alla radice della nostra cultura.
I volumi hanno un approccio narrativo scorrevole e stimolante e sono corredati da un apparato di illustrazioni che è insieme immaginifico, ironico e sofisticato. Ogni volume è arricchito dalle introduzioni di Andrea Marcolongo.
La collana "Storie e miti"
Il primo volume, Gli dei dell’Olimpo (acquista), fornisce i ritratti delle maggiori divinità del mondo antico, ci insegna a riconoscerle, a capire il loro mondo e i loro imprevedibili rapporti con gli uomini. Entreremo nell’Olimpo e faremo la conoscenza di Apollo, Poseidone, Giunone, Bacco, Cupido, Afrodite, Atena e molti altri. Scoprirete le incredibili vicende che legano il mondo delle divinità a quello degli uomini.
Odissea, il secondo volume (acquista), ricostruisce puntualmente le incredibili vicende di Ulisse e tocca tutte le tappe del suo lungo viaggio: la terra di Ogigia con la ninfa Calipso, l’isola dei Ciclopi con Polifemo, l’incontro con Circe e la discesa all’Ade, fino al ritorno a Itaca e all’abbraccio con Penelope.
Il terzo titolo della collana (Leggende dell'antica Grecia, acquista) è dedicato come detto, alle storie e ai miti del mondo greco, dai più conosciuti ai meno noti, a ideale completamento del pantheon greco-romano tracciato nel primo volume. Prometeo, Icaro, Eco e Narciso, Apollo e Dafne, insieme a molti altri: nei loro miti il lettore potrà riconoscere un’universalità dei tratti umani e gli eterni temi su cui si interroga l’umanità.
La terra del non-ancora. Luigino Bruni su Avvenire il 15 gennaio 2022.
Dio è dietro ad ogni cosa, ma ogni cosa nasconde Dio. Victor Hugo, I miserabili, Tomo II, 5.4
Non è facile capire veramente la durezza dei profeti nei confronti degli idoli e dell’idolatria. Il capitolo sei del libro di Osea, dove si trovano riferimenti cari anche al cristianesimo, affronta un aspetto centrale di questa lotta anti-idolatrica. Denuncia il popolo che si illude di conoscere Dio (YHWH) e invece lo confonde con il dio naturale delle stagioni e del ritmo dei giorni: «Affrettiamoci a conoscere YHWH, la sua venuta è sicura come l’aurora. Verrà a noi come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera che feconda la terra» (Osea 6,3). Un dio ovvio, catturato dentro l’ordine naturale delle cose, che deve venire come viene ogni giorno l’aurora, come la pioggia, come l’autunno. Senza sorprenderci.
Un canto dell’illusione religiosa, che però contiene una frase che i primi cristiani e poi i Padri (Tertulliano) hanno amato molto: «Venite, ritorniamo al Signore... Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci rialzerà». Dopo due giorni... il terzo ci rialzerà, ci risorgerà. Quando Paolo scriverà ai Corinti: "Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture» (1 Cor 15,4), è probabile che le Scritture che aveva in mente fossero proprio questo brano di Osea – lo Spirito può trarre parole di vita anche da canti che non piacevano ai profeti.
In questa critica all’identificazione di YHWH con gli dèi naturali della fertilità ci può essere qualcosa di importante. È bene soffermarvisi. Nella Bibbia e, poi, nel cristianesimo esiste una vena profonda che si intreccia con le religioni primitive e i culti naturali. L’uomo biblico è emerso dalle forme di religiosità arcaica, dove le divinità si scorgevano nel ritmo della vita e della morte, del sole, degli astri. Era questo il suo mondo, non ne conosceva altri. Sapeva che la vita dipendeva radicalmente dalla fertilità della terra, dalla generosità delle stagioni. Sentiva, per un istinto invincibile, che la sua terra era abitata anche da esseri invisibili ma realissimi, ai quali si sentiva legato e dai quali dipendeva la vita di tutti e del tutto. Fu quindi inevitabile che le prime parole con cui gli uomini hanno parlato con gli dèi fossero quelle che avevano imparato dalla natura e dalla vita, perché erano le sole che conoscevano e amavano. Nacquero così, all’aurora della civiltà, i grandi miti del dio che muore in autunno resta nel sepolcro in inverno e poi risorge nella primavera, del dio che feconda la terra con la pioggia e la neve e questa poi partorisce generando fiori e frutti, nei campi e nei vasetti di Adone. Inserirono le prime narrazioni religiose dentro questo grande ciclo della natura, le disegnarono con questi colori vivi. Donarono a Dio le loro parole più belle.
Cosa se ne fece la Bibbia di questa religiosità naturale? La considerò tutta vanitas? Sì e no. Per gli uomini e le donne in carne e ossa del popolo d’Israele non lo era: loro sentivano Dio sotto tutte le cose, come i popoli loro vicini, come i nostri nonni contadini che avvertivano un fremito divino percorrere le loro stesse strade, inseguire la traccia del cervo e della volpe, sentivano che la morte non era l’ultima parola e sapevano che una misteriosa primavera di vita li avrebbe, un giorno, sorpresi, e avrebbero rivisto genitori e figli. Intonavano gli stessi canti alle vigne e all’ultimo covone, pregavano per la pioggia e perché non tornasse il terremoto. Così abbiamo imparato a pregare, a parlare con gli angeli e con i demoni, a intravvedere Dio dietro ogni cosa e subito dopo vederlo sparire.
Un giorno, però, un diverso giorno, la Bibbia ci dice che è accaduto qualcosa di nuovo e di imprevisto. Quando, dentro un mistero avvolto sempre e ancora da una nube velatrice-rivelatrice, quel Dio che tutti i popoli avevano sentito e cercato di intercettare, ci disse qualcosa di nuovo di sé, ci donò parole che non avevamo ancora. E iniziò la storia diversa di un popolo da cui nacque la Bibbia, il cui primo scopo non fu quello di raccogliere le parole su Dio che gli uomini conoscevano già, ma di farci conoscere quelle che non c’eranoancora. Era questo "non ancora" l’immenso valore della Bibbia, questo il suo tesoro prezioso che il popolo ha custodito. E per sottolineare la novità delle parole di cielo, le parole religiose della terra finirono per diventare le parole degli idoli, degli "dèi falsi e bugiardi". Si capisce allora perché la prima lotta all’idolatria che la Bibbia ingaggiò fu quella interna al suo popolo, perché la religiosità della terra e della natura era quella da cui venivano anche le tribù di Giacobbe. Erano figli di Abramo e dei miti medio-orientali, dei culti naturali di dèi più semplici. Culti molto amati dalla gente, contro i quali la Bibbia è stata molto dura – e i profeti durissimi – perché voleva affermare una novità, e continua ad affermarla. La Bibbia fece molta fatica a separare la vera fede da quella nelle divinità della natura perché il popolo sentiva che in quelle antiche tradizioni che avevano appreso a Canaan, portate con sé da Ur dei Caldei o dall’Egitto, c’era anche qualche traccia vera dello stesso Dio che un giorno aveva rivelato il suo nome vero. Ogni rivelazione di dimensioni nuove della realtà è una distruzione creatrice, e quasi sempre tra i materiali distrutti e spazzati via ce ne sono anche alcuni buoni. I profeti, per vocazione, demoliscono senza pietà templi, capitelli e mosaici antichi, qualche volta molto belli, e alcuni si perdono per sempre, perché l’area che copre la nuova religione non coincide mai con quella coperta dalle precedenti.
È dentro questo discorso che dobbiamo collocare anche la critica di Osea con la sua (per noi) sconcertante forza e durezza: «Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti, li ho abbattuti con le parole della mia bocca» (6,5). La profezia è anche questo: «Sradicare e demolire, distruggere e abbattere» (Geremia 1,10). Ma siccome le case che vengono abbattute dai profeti sono quelle nelle quali il popolo abita, inclusi i palazzi dei re e i templi dei sacerdoti, il lavoro dei profeti è durissimo, doloroso, non è amato né capito. E loro continuano a picconare, a cacciare le persone dalle loro casette e i re dalle loro regge; e lo fanno – e qui sta il punto – non per costruire altri palazzi e nuovi templi al posto dei precedenti, ma per tornare poveri e liberi e poi riprendere il cammino verso una terra che resta sempre promessa, la terra del non-ancora. I profeti veri non sono amati perché distruggono case e al loro posto offrono tende, abbattono templi e ci donano uno spazio vuoto, distruggono le nostre case e ci lasciano al freddo di una nuda sequela. Chi obbedisce ai profeti? Nessuno.
Ed è al culmine di questo canto che raggiungiamo, forse, la perla più preziosa di questo capitolo. Eccola: «Perché voglio la misericordia non il sacrificio, la conoscenza di Dio preferisco agli olocausti» (6,6). Voglio l’hesed (cioè misericordia, amore fedele, reciprocità, lealtà) e quindi la conoscenza vera di Dio-YHWH. Dall’altra parte, cioè nella parte sbagliata, ci sono i sacrifici. Siamo arrivati al centro, siamo nel punto centrale non solo di Osea, ma di tutta la profezia, e forse non solo della profezia biblica ma di ogni profezia autentica - di profezia è piena la terra, anche la nostra terra arida e senz’acqua. C’è un conflitto, un’alternativa, un "fossato" (J. Jeremias) tra la fede dei profeti e quella del tempio, cioè tra la fede fondata sull’hesed e quella fondata sui sacrifici, tra la civiltà della gratuità e la civiltà del calcolo, tra la religione dell’amore e quella commerciale.
Amore e sacrifici: due strade religiose diverse, opposte, incompatibili, come rivela anche il verbo ebraico usato da Osea (hps), che dice chiaramente che Dio ama, gradisce, vuole, apprezza l’hesed e non vuole, non ama, non gradisce i sacrifici, gli danno fastidio. Nel mondo antico i sacrifici li facevano tutti, inclusi i sofisticati greci e i giuridici e razionali romani. In questo ambiente sacrificale, accettato da tutti e adorato dai sacerdoti, Osea grida che offrire sacrifici non solo è inutile (Qoelet) ma dà fastidio a Dio, lo disturba. In questi gridi i profeti sono immensi e meravigliosi, qui sono davvero diversi da noi. Noi possiamo, con coraggio, arrivare a dire: "I sacrifici sono meno importanti dell’amore, ma un po’ di culto ci vuole pure, qualche offerta al tempio non fa male a nessuno, il popolo ama queste pratiche". I profeti veri e grandi no. Loro ci dicono altro, ci dicono l’opposto. Sono tremendi e radicali, squilibrati, partigiani, divisivi, non gentili, esagerati, eccessivi.
Come Gesù di Nazareth, che di fronte ai molti che protestavano per il suo frequentare peccatori pubblici (Matteo, l’esattore), cita propria questa frase di Osea: «Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13); e poi la ripete per spiegarci come guardare la Legge e il tempio: «Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa» (Mt 12,6-7). Qui Gesù ci spiega Osea, mostrandoci che l’alternativa-fossato-conflitto tra amore e sacrificio non si limita alla sola vita religiosa ma si estende all’intera vita sociale. Non solo ci ripete, con Osea, che la sua religione non è quella dei sacrifici, ma quella dell’amore-hesed-agape; ci dice anche che la cultura del sacrificio è un rapporto sbagliato con la vita, non solo con Dio. Perché è la relazionalità basata sul calcolo e non sulla generosità, sulla logica economica e non sull’eccedenza. La logica del sacrificio è prima una trappola antropologica e dopo una questione teologica e religiosa. È la logica di chi vive facendo conti, calcolando i costi e benefici di ogni azione, perché, in fondo, è ateo, non crede che siamo amati, che nel mondo esiste un grande candore, che siamo figli. La fede sacrificale imprigiona Dio in una gabbia più angusta di quella dell’uomo più tirchio. Chi imposta la vita sui sacrifici crede nella meritocrazia perché non crede nella grazia, non si fida della grande provvidenza del mondo e quindi si compra una piccola provvidenza privata che non lo sazia mai.
I profeti lottano con tutte le loro forze contro i sacrifici per dirci: voi valete di più delle vostre opere, siete più grandi dei vostri calcoli, siete migliori dei vostri contratti, siete amati anche se non lo meritate: perché ti amo e basta, non per i tuoi meriti, ti amo per te. Combattere la religione dei sacrifici allora significa rinunciare ad una visione del mondo meschina, impoverita, avara. I profeti allargando la nostra idea di Dio allargano l’idea che noi abbiamo degli altri e di noi stessi.
Sintesi dell’articolo di Enrico Ferro per “Il Mattino di Padova” pubblicata da “la Verità” il 7 giugno 2022.
A Padova è stata organizzata la Giornata anti superstizione, durante la quale sono stati regalati buoni spesa contro i tabù. Uno degli eventi in programma per «esorcizzare la sfortuna» prevedeva infatti il ritrovo nel grande parcheggio di un supermercato per un percorso singolare: fare tutto ciò che nella vita di ogni giorno viene accuratamente evitato, come rompere uno specchio, rovesciare il sale, fare attraversare la strada a un gatto nero, passare sotto una scala.
I partecipanti hanno ricevuto l'attestato e un buono di 10 euro a fronte di una spesa di 30. La Giornata è stata promossa dal Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze.
Manuela Tulli per ANSA il 18 maggio 2022.
Sono ufficialmente 190 ma di fatto circa trecento gli esorcisti in Italia e il Paese, con il 71 per cento delle diocesi nelle quali il vescovo ne ha nominato almeno uno o più di uno, si colloca al primo posto. A seguire la Svizzera, mentre negli Stati Uniti, per fare un esempio, se ne contano appena una sessantina.
All'attenzione della Chiesa ci sono le sette sataniche ma anche i nuovi social, come Instagram e Tik-Tok che più sono vicini ai ragazzi e all'interno del quale si insinuano "le nuove manifestazioni demoniache a danno soprattutto dei più giovani", come spiega padre Lusi Ramirez, coordinatore dell'Istituto Sacerdos che con Gris è tra gli organizzatori del corso sull'esorcismo che si è aperto oggi all'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Ci sono tante richieste, in aumento negli ultimi anni, che pesano sull'esorcista che ha anche altri compiti in parrocchia.
Sono centoventi i partecipanti al corso, tra sacerdoti e laici, tra i quali anche un ucraino e un russo. Inevitabile il riferimento al conflitto in Ucraina e Russia. Ci sono tre 's' del diavolo, "sesso, successo e soldi, ma ce ne è anche una quarta: sterminio", afferma Giuseppe Ferrari, segretario del Gris, il Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-religiosa, a margine del corso sull'esorcismo che si svolge all'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum a Roma.
Alla domanda se sia possibile, individuando la presenza del diavolo all'origine dell'invasione dell'Ucraina, una preghiera di liberazione anche a distanza, Ferrari spiega: "Le preghiere di liberazione sono sempre possibili ma il seguace del demonio non accetta l'esorcismo, non vuole essere liberato. L'esorcismo ha efficacia solo quando la persona desidera essere liberata. Se non lo desidera, Dio rispetta la libertà dell'individuo".
Il corso sull'esorcismo è interdisciplinare e prende in considerazione non solo gli aspetti strettamente religiosi ma anche legali, psicologici, sociologici. "Non si tratta di un corso per formare o abilitare all'esorcismo - spiega p. José Oyarzun, rettore dell'Apra - ma l'obiettivo primario del corso è offrire degli orientamenti d natura accademica per le persone che si interessano a questo tema".
Il corso ha anche un approccio interreligioso con testimonianze di esorcisti di altre confessioni cristiani e la partecipazione di un esperto in demonologia in ambito musulmano sunnita. Il Covid ha creato problemi anche al lavoro degli esorcisti che hanno dovuto trovare nuovi metodi per seguire i loro 'pazienti' ma che hanno dovuto anche assistere ad un peggioramento delle condizioni delle persone che chiedevano di essere liberate da possessioni demoniache.
Si è assistito in questi due anni di pandemia alla nascita della preghiera a distanza "con indicazioni attraverso Whatsapp e Telegram, benedizioni ed esorcismi attraverso Skype e quarantene violate per curare comunque gli individui con i problemi gravi", è stato spiegato dai ricercatori. In tutto questo è stato evidenziato "un peggioramento delle condizioni delle persone afflitte da possessioni, vessazioni, infestazioni" anche perché è stata impossibile tutta l'opera propedeutica che viene svolta dalla Chiesa prima di arrivare all'esorcismo vero e proprio.
E' infatti necessario verificare se si tratta di vera e propria possessione demoniaca o di problemi psicologici o psichiatrici che devono essere affrontati in modo diverso.
Barbara Costa per Dagospia il 29 gennaio 2022.
Astenersi impressionabili e cacasotto: “Satana, Lucifero, Tiamat, vivono, respirano, ci ascoltano”, e “io sono qui per combattere le forze della Luce! Il mio scopo è indurre terrore e disperazione!”. Parlano così Dorian Bones, front-man dei Caronte, e Jus Oborn, leader degli Electric Wizard, uno che è stato cacciato da tutte le scuole che ha frequentato perché “io a 9 anni già cantavo lodi a Satana. Facevo arrabbiare insegnanti e genitori. La gente ha la mente debole!”.
E se tu questi due signori non sai chi sono, non li hai mai sentiti nominare, rimedia e leggi "Black Mass. La Storia dell’Occult Rock", di Stefano Cerati (Tsunami ed., dal 3 febbraio), la più completa italiana guida al rock il più luciferino, coltre di misteri e di primitivi presagi pagani, canzoni pozioni magiche, connessioni col mondo ultraterreno, teatri rock di rituali officiati, shock rock, musicati, a evocazione dell’ignoto.
Finalmente in Italia un libro su temi scomodi che fanno storcere il naso, un libro su tutto quello di cui si ha paura di dire ma si è perversi di sapere. Cerati ci fa fare un viaggio attraverso il rock demoniaco di ieri, di oggi, e di tutto il mondo. Non c’è occult band che in questo libro non sia viva e presente, e con le proprie parole perché il bravissimo Cerati non scrive per sentito dire ma riporta ogni fonte e per di più dirette, con interviste ai protagonisti.
E allora facciamoli parlare, i cerimonieri di questo credo, sistema di vita, ragione di vita, tutte persone che sono come noi ma che al contrario di noi cercano la verità in altro e in qualcosa d’altro, opposto, antecedente, differente, e sia chiaro: questi musicisti nulla hanno a che fare con fatti di cronaca nera sui media a volte accostati a pratiche occulte. Chi commette atti delittuosi in nome di una qualche entità è un f*ttuto criminale che va punito come merita. Qui si parla di adulti che leggono e studiano e con testi e chitarre agghiaccianti, bassi infernali, voci tombali, un pantheon degli orrori, di incubi a occhi aperti di credenze perse nella notte dei tempi, concretano ciò in cui fidano e ricercano per la vita.
Tutto è iniziato con una donna, con lei, Jinx Dawson, leader dei Coven, band apripista dei temi satanici i più ossianici, creatrice del gesto delle corna e la prima a portar sul palco candele, teschi, croci rovesciate, roadie in perizoma bianco a impersonare Cristo, e la stessa Jinx a interpretare in una bara la vittima sacrificale. Eran gli anni '60 e “io sul palco mi davo al pubblico, in una sorta di rapporto carnale”, racconta oggi Jinx.
Furono gli omicidi della Manson Family a decretare la morte dei Coven: nessuna casa discografica puntò più su di loro. Tutte le occult band seguenti si sono ispirate ai Coven e a Aleister Crowley, l’adoratore di Satana bisex e eroinomane, autore di testi base di credi che hanno fatto e fanno proseliti. Crowley (dicono facesse copulare le sue rosse amanti coi caproni!) ha trovato in Jimmy Page dei Led Zeppelin fedele cultore: sebbene Page non proferisca parola su Crowley, fu dal regista e scrittore Kenneth Anger – altra anima dannata – maledetto per avergli scritto musica non abbastanza infernale.
Nel rock occulto c’è chi ci è e chi ci fa, e sono tante le band che di satanico nulla hanno perché sono frutto di sapiente e diabolico marketing. I primi a divenir star sfruttando marchette sataniche sono stati i Black Sabbath, col loro primo disco omonimo uscito –apposta – venerdì 13 febbraio 1970: “Ma noi non ci siamo mai professati satanisti”, dicono Ozzy e soci, “gli unici spiriti maligni che ci hanno interessato sono whisky, vodka, e gin. Noi una volta abbiamo fatto una seduta spiritica. Ci siamo spaventati a morte, e questo è tutto!”. I Black Sabbath si chiamano così per il film "I tre volti della paura", di Mario Bava, commercializzato in UK col titolo "Black Sabbath" la cui locandina era apposta di fronte alla loro sala prove.
Da non crederci: i Black Sabbath nei concerti portavano al collo crocifissi (dritti) regalatigli dal padre di Ozzy per protezione! Per anni hanno attirato esaltati di ogni specie, ma se i Sabbath non sono stati veri satanisti, cos’è un vero rock satanista? I Death SS, attivi da decenni, e che portano sul palco donne nude celebranti culti sessuali? Le band rovinate da morti misteriose?
O sono più satanisti i Dodo Resurrection, i quali non si sa siano esistiti, e sui quali gira la leggenda che, terrorizzati dalla malvagità della propria musica, hanno autodistrutto ogni nota di sé? E fanno gara a sé i Pentagram, autori di testi i più malati mai concepiti, magia nera e anime perse, e lupi mannari, assetati di sangue…? Il rock occulto è pieno di band che non sono andate oltre il primo disco, incapaci e di evolversi e di raccogliere consensi di mercato. Dice King Diamond, dei Mercyful Fate: “Per me il satanismo non è il male e non è il diavolo. È una filosofia di vita. Esistono arcaiche forze oscure che è meglio non scatenare”.
King Diamond orna il microfono con ossa, e metteva Melissa, il suo teschio mascotte, su ogni palco, prima che glielo rubassero. Tobias Forge dei Ghost si veste come un papa ed è pazzo di Lady Gaga, gli Orthodox hanno smesso di esibirsi a piedi scalzi vestiti da frati solo perché ci suonavano scomodi. E ci sono occult band fissate con la morte: Regen degli italiani Abysmal Grief è qui per “mortificare che si reputa al sicuro…!”.
Lui getta vermi vivi su di sé e sul pubblico, mentre Farida Lemouchi dei The Devil’s Blood come faceva suo fratello Selim si ricopre “di sangue per astrarmi e trovare la mia reale essenza”. Non fanno del male a nessuno. I salentini L’Impero delle Ombre fanno cemetery rock, “i cimiteri sono la nostra ossessione!”, e i baresi The Ossuary credono che “dopo la Morte non c’è niente, non esiste nessun Dio pronto ad emettere giudizi o punizioni”.
Tra i più convinti spicca Nathan Opposition, degli Ancient VVisdom: “I satanisti non mangiano i bambini, il Satana malvagio è quello creato dai cristiani. Ma c’è un Satana buono, che ti rivela la verità attraverso l’amore. E io sono l’Anticristo! Sono nato con il 666: il mio nome, cognome e secondo nome, hanno tutti sei lettere”.
Se i tempi cupi ci sono sempre stati e una certa atmosfera oscura ci gira sempre attorno, l’occult rock in che misura è legato all’uso di droghe? Ogni scelta è personale e ogni effetto è individuale, ad ogni modo ecco quel che ne dice Jus Oborn: “Io compongo sempre allo stesso modo: vado in studio, inizio a fumare, vedo un po’ di vecchi film horror, e così mi vengono le idee. No, di acidi non mi faccio più, al massimo qualche funghetto magico!”.
DAGONEWS il 16 novembre 2022.
I militanti di Boko Haram hanno massacrato un gruppo di donne in Nigeria perché considerate "streghe".
La scorsa settimana, circa 40 donne sono state detenute in un villaggio vicino alla città di Gwoza, nello Stato di Borno, su ordine del comandante jihadista Ali Guyile, i cui figli sono morti improvvisamente durante una notte.
Parenti, residenti e una donna che è riuscita a fuggire hanno raccontato all'AFP che il comandante aveva accusato le donne di aver causato la morte dei bambini attraverso la stregoneria.
Linbe ha detto di essere riuscita a scappare e di essere fuggita nella capitale regionale Maiduguri dopo l'uccisione di 14 donne, avvenuta giovedì. Le vittime ora dovrebbero essere almeno 26.
La donna racconta: «Ha detto che avrebbe indagato sul nostro coinvolgimento nella morte dei suoi figli e che avrebbe dato una punizione adeguata a chiunque fosse stato riconosciuto colpevole. Giovedì ha ordinato di sparare a 14 di noi. Sono stata fortunata a non farne parte e il mio fidanzato, tra gli uomini che ci sorvegliavano, mi ha aiutato a fuggire quella stessa notte».
Le accuse di stregoneria non sono rare in Nigeria, un Paese religiosamente conservatore e quasi equamente diviso tra il nord, prevalentemente musulmano, ed il sud, cristiano.
Molte persone condannano la stregoneria nonostante sia ancora ben radicata nella società e, una sezione del codice penale nigeriano, ne vieta ancora la pratica, punibile con una pena detentiva.
Non è raro che le persone vengano bollate come streghe e poi brutalizzate o linciate.
I gruppi per i diritti umani condannano le uccisioni e affermano che le credenze superstiziose causano la perdita di vite innocenti.
Sabato, il giorno in cui Linbe è arrivato a Maiduguri, altre 12 donne sono state massacrate con l'accusa di essere streghe, hanno raccontato altri parenti.
"Ho ricevuto una telefonata da Gwoza che mi informava che mia madre, due zie e altre nove donne sono state massacrate per ordine di Ali Guyile, che le ha accusate di essere le streghe che hanno ucciso i suoi tre figli", ha detto all'AFP Abdullahi Gyya.
Ha anche detto di essere stato informato dell'uccisione di altre 14 donne giovedì.
Anche le streghe sanno essere dolci. La Taranta, una tradizione che si perde nei secoli. In questi giorni di Tarantolate ripenso alla Signora Della Paura, a nonna che «taglia i vermi» contro i mal di pancia. Erica Mou su la Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Agosto 2022.
Anni fa, dopo un incidente in bicicletta, ho cominciato ad avere paura di un sacco di cose. Della velocità, delle altezze, dei rumori, degli spazi chiusi, insomma… di tutto. Mi tornava di continuo in mente il suono del vento, la sensazione precedente l’impatto quando avevo già capito che la macchina mi avrebbe investita e non potevo far altro che cadere al meglio, escogitare un metodo per proteggere la testa in quelle frazioni di secondo che a me erano parsi minuti dove il libero arbitrio era ancora possibile. Dopo mesi le ossa erano tornate a posto, le faccende legali erano state sbrigate ma la paura continuava a seguirmi ovunque. Così quando la madre del mio compagno mi aveva suggerito di recarmi dalla Signora Che Toglie La Paura, mi ero incredibilmente ritrovata ad accettare un appuntamento.
Fuori c’era la neve e la mia macchina procedeva lentissima, avrei fatto prima a piedi. La Signora Che Toglie La Paura mi aveva aperto la porta ponendomi una domanda, seria: «È spavento o è paura, la tua?» A me veniva da ridere ma, imitando il suo tono e sperando di non sbagliare opzione, avevo risposto «è paura». Mentre bevevo un intruglio frizzante in tre piccoli sorsi, mi disegnava sulla pelle delle croci immaginarie con le dita a tempo di preghiere. Sarei dovuta ritornare l’indomani e poi un’altra volta ancora e ce l’avremmo fatta. Non mi ricordo se il rituale prevedeva altro, ero troppo concentrata sui suoi capelli, sul divano in ecopelle, sui pavimento splendente e mi chiedevo «come si diventa la Signora Che Toglie La Paura? Non sarebbe male come professione per la carta d’identità». All’ultimo incontro l’avevo ringraziata infilandomi il cappotto ed evitando di dirle che la paura non mi era affatto passata. Mia suocera sostiene sia colpa mia, che non avevo fede.
In questi giorni di Tarantolate ripenso alla Signora Della Paura, a nonna che «taglia i vermi» contro i mal di pancia, alla nonna di Vale che ci toglie il malocchio al telefono, a quella di Sara che ha una formula magica anti mal di testa e penso che crederci o meno non importa, le streghe sanno essere dolcissime.
Storia delle majare di Sicilia. Ma non chiamatele streghe. Preghiere e cantilene segrete, tramandate di madre in figlia. Olio, aglio, acqua. Ma non chiamate streghe queste donne magiche dell’Isola di lava e mare che hanno un dono e sono state studiate dall’etnologo siciliano Giuseppe Pitrè. Ecco le loro storie. Sara Scarafia su La Repubblica su il 23 Agosto 2022.
«Divinissimu Sarbaturi, levami a stu caluri». Il segno della croce. Le mani, calde, sulle tempie, sugli occhi, sulla pancia. Un panno rosso. Olio, sale, aglio, erbe di campo. Infine la preghiera, una nenia, una cantilena, sempre e solo bisbigliata a fior di labbra. Le parole? Un segreto, tramandato di madre in figlia, da donna a donna, ma solo due volte all’anno: la notte di Natale e a San Giovanni, il 24 giugno.
(ANSA il 21 agosto 2022) - "Un tempo mi avrebbero sicuramente messa al rogo: pur facendo del bene, mi avrebbero bruciata come strega cattiva". A parlare è Antonietta, detta Chetta, 94 anni, esperta di erboristeria e considerata per questo l'ultima "strega" di Triora (Imperia), che oggi ha ricevuto dal sindaco Massimo Di Fazio e dal suo vice, Giovanni Nicosia, le "chiavi della città".
La consegna dell'onorificenza è avvenuta nell'ambito di Strigòra, mostra mercato della stregoneria, che per tutto il giorno anima l'antico borgo medievale dell'alta Valle Argentina tristemente noto per l'inquisizione delle streghe, con bancarelle, visite guidate, spettacoli musicali e di teatro. Nel corso della mattinata è stata anche consegnata la cittadinanza onoraria al giornalista e conduttore televisivo Osvaldo Bevilacqua, al quale si deve la notorietà di Antonietta, la "signora delle erbe".
"Ho cominciato da piccola, perché mio padre era un contadino - racconta all'ANSA Antonietta -. Cercava l'erba buona e quella cattiva, così mi ha insegnato come utilizzare le varie piante. Ho imparato in montagna, perché mi sono sposata ad Arma di Taggia, ma sono venuta ad abitare qui a Triora, il paese di origine di mio marito". Conclude Antonietta: "La mia passione è continuare a conoscere le erbe. Tanti mi chiedono quale pianta serve per ogni male e io cerco di consigliare loro quella più appropriata. Ho insegnato a tanti ragazzi a curarsi con le erbe".
Soddisfazione da parte del giornalista Bevilacqua, che per Triora prova un "amore con la A maiuscola" e aggiunge: "Ho conosciuto questo paese tanti anni fa, incuriosito da tutta questa storia che ho seguito non soltanto in giro per l'Italia, ma anche negli Stati Uniti. Le donne che si occupavano di 'medicina' spontanea con le erbe, venivano accusate di stregoneria, nei casi peggiori messe al rogo, bruciate e, negli altri casi, che non sono da meno, torturate, come è stato a Triora".
Claudia Gualdana per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2022.
L'argomento può sembrare ozioso nell'evo della tecnica, invece non manca di attualità. Tanto più che sedicenti maghi e streghe sono ancora tra noi, basta fare una ricerca sul web per scovare cialtroni che promettono miracoli. Per la Chiesa questi tizi oltre che di truffa odorano di zolfo: circostanza che intriga la settima arte, infatti l'attore Russell Crowe sta girando un film sulla vita dell'esorcista Padre Gabriele Amorth.
Ma da qualche tempo a questa parte il maleficio si è allargato perfino alla politica. Circolano da mesi le notizie sui presunti riti sciamanici cui si sottoporrebbe Vladimir Putin.
Qualche anno fa se ne è parlato a proposito di Donald Trump, perché gruppi di streghe hanno sostenuto di brigare per allontanarlo dalla Casa Bianca con le loro diavolerie. Cose da ridere?
Senza dubbio, ma solo dal nulla si produce il nulla, e poiché pratiche fuori dalla grazia di Dio sono vecchie come il mondo e c'è chi ancora ci crede, conviene documentarsi.
MILANO, 1608 È tornato in libreria un libro eccezionale, il Compendio delle stregonerie di Francesco Maria Guaccio (Mimesis, p. 294, E 24). Non si pensi a un'opera esclusivamente teorica: il Guaccio fa nomi e cognomi, snocciola luoghi, date, fatti, avvenimenti che talvolta hanno coinvolto personaggi storici. Fu pubblicato la prima volta nel 1608, il titolo originale è il più suggestivo Compendium maleficarum, l'autore un frate dello scomparso ordine ambrosiano che con ogni probabilità apparteneva alla parrocchia milanese di S. Ambrogio ad Nemus. La diocesi di Milano era governata da Federico Borromeo, nocchiero negli anni della peste e fondatore della Biblioteca Ambrosiana.
Tempi di untori e di monatti, in cui il sovvertimento dell'ordine naturale era considerato opera del demonio. Il Compendio è un trattato su malefici, apparizioni, riti documentato con grande perizia e viene da credere, scrive Armando Torno nella prefazione, che «fosse il libro di stregoneria della Curia milanese».
Per esempio, sono enumerati i materiali con cui megere e compari nuocevano al prossimo, dietro compenso o per banale cattiveria, tuttavia senza riuscire ad uccidere, che la vita è nelle mani di Dio soltanto: «Foglie, erbe, fuscelli, radici, animali, pesci, rettili velenosi, pietre e metalli, che talvolta vengono ridotti in unguenti oppure in polvere».
Gli intrugli si spalmavano a tradimento sul malcapitato, altre volte li si spargeva nei pressi dell'uscio di casa. Guaccio descrive anche i raduni delle streghe e l'utilizzo blasfemo di oggetti sacri, perfino ostie consacrate, nel sovvertimento dell'ordine sacro per eccellenza comunemente detto messa nera. Nel 1589 a Lutren, nei Vosgi, tal Giovanni da Hembach riferì di essere stato portato da una megera in cima a un albero mentre si svolgeva un sabba; sotto di lui certi danzavano in modo strano «perché lì era tutto invertito ed assurdo» e si domandava da dove venisse quella «turba stolta e demente».
A volte erano proprio le strigi - si chiamavano così - a rivelare i dettagli della loro "arte" agli inquisitori senza che neanche ci fosse bisogno della tortura, per liberarsi la coscienza e morire in pace con Dio. Ma le poverette non avevano alcun potere personale. Sicuramente non per il Guaccio, per cui la strega e il mago «cercano di sottomettere a sé il Demonio col potere dei loro incantesimi o con mezzi del tutto contrari alla religione cristiana», invece sono solo anime morte destinate a una brutta fine, ingannate come sono dal «principe della menzogna» che promette meraviglie ma elargisce disgrazie, in questa vita e nell'altra.
GALLI E CAVALLI Se finora c'è stato di che inorridire ridendo della tenebra stolta, conviene chiudere con un raggio di luce, perché non c'è solo il male in queste pagine. Scopriamo infatti che Galeazzo Visconti fu chiamato così perché nacque in una notte in cui i galli non avevano mai smesso di cantare. Un segno fausto: il diavolo briga solo prima del canto del gallo e il momento più propizio alle sue malefatte è tra le dieci di sera e mezzanotte. O l'avventura paranormale di Michele Mercato, sodale del filosofo Marsilio Ficino, che con lui era solito discutere dell'immortalità dell'anima. I due avevano stretto un patto: il primo a morire avrebbe «chiarito all'altro la condizione dell'altra vita». Fu il Ficino ad andarsene.
Il giorno della sua dipartita Michele fu svegliato dallo scalpitio di un cavallo. Affacciandosi alla finestra, vide che a cavalcarlo era Marsilio; prima di sparire nel nulla gli disse: «Michele, Michele, quelle cose sono vere». Ossia l'anima è immortale, Platone aveva ragione. Quindi non tutti i fantasmi sono cattivi. Del resto, se esiste il male dev' esserci per forza anche il bene, è il rovescio della medaglia. Alcuni spiriti sono più che buoni, sono addirittura dei santi. Nella Vita di Sant' Ambrogio Paolino Diacono scrive che il vescovo è apparso ad alcune persone poche ore dopo la morte. Si è ripresentato di nuovo qualche anno dopo, durante l'assedio dei Goti a Firenze, per indicare a un condottiero il luogo in cui il barbaro sarebbe stato sconfitto. Inutile dire che aveva visto giusto, o almeno questo tramandano le cronache.
Benevento, tra le streghe ai piedi di un noce. Angela Leucci il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Le streghe di Benevento tra storia e leggenda: chi erano le janare, che si riunivano ai piedi di un noce per i loro sabba, e i malefici.
Su Benevento aleggia da sempre la leggenda delle streghe, che in realtà rappresenta anche un pezzo di storia. La storia è quella della caccia alle streghe scaturita dall’Inquisizione e dettata dal “Malleus Maleficarum”, un libro che forniva le istruzioni su come annientare i fenomeni demoniaci. Le leggenda racconta invece i malefici come fossero reali nella credenza popolare. E nella cultura enogastronomica quello della strega è diventato una tipologia di liquore, utilizzato in gran parte della pasticceria campana e dell’intero Mezzogiorno.
Se in tutto il Sud Italia le streghe erano immaginate e temute, particolarmente vivida è la figura della strega di Benevento, ossia la janara. L’etimologia del termine è incerta. Alcuni credono che il nome sia legato al culto di Diana, portato dalla dominazione longobarda in queste zone insieme a un intero sistema di fede politeista che dapprima resistette, poi si compenetrò e infine fu sostituito dal Cristianesimo. Per altri il culto è più antico e legato alla venerazione sannitica e magnogreca di Cibele.
Altri pensano che il nome venga invece dal latino “ianua”, cioè porta. Come la porta delle stalle delle giumente, dove gli allevatori erano soliti cospargere grani di sale o lasciare una scopa sull’uscio per impedire l'ingresso alle "figlie della notte". Secondo la leggenda, le streghe, che rapivano di notte le giumente per cavalcarle e stremarle, non potevano resistere alla tentazione di contare i grani di sale oppure i fili della scopa di saggina. Ma c’è anche un’immagine letteraria legata ai sabba, le riunioni rituali, delle streghe: quella della porta del solstizio di inverno che scricchiola sui cardini, nella notte più lunga dell’anno, luogo di transizione tra bene e male, tra il mondo terreno e quello infernale. C’è anche chi ritiene che l’etimologia sia legata all’usanza delle janare di penetrare nelle case passando sotto le porte chiuse.
Dal XV secolo furono estorte con la tortura molte confessioni di stregoneria a donne beneventane, che poi furono mandate al rogo. Non resta molto di quelle testimonianze, parte delle quali furono distrutte volontariamente in epoca unitaria per evitare rigurgiti contro la Chiesa di Roma, e parte bruciarono nei bombardamenti nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Le leggende sulle janare
Esistevano delle sottotipologie di janare, tra cui le zoccolare, che di notte terrorizzavano le persone tra i vicoli di Benevento, correndo tra il rumore dei propri zoccoli. C’era anche una janara chiamata Manolonga: era una donna morta cadendo in un pozzo, che tirava giù con lei tutte le persone che vi si affacciavano.
Secondo la leggenda, le janare potevano volare: reclutate dall’Arcistrega, si spalmavano addosso un unguento che glielo permetteva, dato che diventavano incorporee e potevano essere trasportate da venti di tempesta. A cavallo di una scopa, si riunivano nei sabba dove evocavano il diavolo e si dedicavano ad attività come succhiare il sangue ai bambini, provocare malefici sui neonati e sulle donne fertili, opprimere le persone dormienti sedendosi sul loro petto.
Le janare utilizzavano come saluto una filastrocca, che recitava: "‘Nguente ‘nguente, manname a lu noci’ ‘e Beneviente, sott’ ‘ll’acque e sotto’ ‘o viente, sott’ a ogne malentiempe".
Il noce di Benevento, un antico e maestoso albero consacrato dai longobardi a Odino, era il luogo deputato per i sabba, come riporta nel suo volume in sei libri “De nuce maga” Pietro Piperno del 1647. L’albero doveva trovarsi secondo alcuni sulla riva del fiume Sabato, tanto che Piperno indicò che si poteva trattare del cosiddetto noce di San Barbato, mentre altri pensavano che l’arbusto dovesse trovarsi tra Benevento e Avellino in una gola chiamata Stretto di Barba.
Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 5 gennaio 2022. Basta spulciare gli archivi per comprendere la follia collettiva che in Europa si era scatenata un po' ovunque. Povere streghe! Sono state accusate delle cose più strampalate prima di essere spedite dritte al rogo. Si diceva che avessero un filo diretto con il diavolo, che fossero in grado di mandare a rotoli commerci e coltivazioni, di maledire le case con un incantesimo, causare malattie, volare in cielo su una scopa o. addirittura, trasformarsi in un gufo, così, in un batter d'occhio.
MALEFICI A causa di una devastante campagna persecutoria scatenata a cavallo del XVI secolo sono morte diverse decine di migliaia di povere vittime, la stragrande maggioranza donne condannate per stregoneria. In Italia uno degli ultimi roghi avvenne a Brentonico, dove nel 1715 fu uccisa una contadina, Maria Bertoletti detta Toldina, accusata di sacrilegi, sodomia, apostasia e persino di avere cucinato dei bambini in un pentolone di formaggio. Nel 2016 il comune trentino ha riaperto il caso e appurato come la donna fosse stata stritolata da una faida per una eredità in famiglia. In Scozia, tre secoli dopo l'abrogazione del Witchcraft Act la legge che nel Regno Unito tra il XVI e il XVIII secolo ha dato il via ad una micidiale caccia alle streghe è stato ultimato il percorso ufficiale per la loro riabilitazione. In tutto si contano 3837 persone uccise e bruciate sul rogo, al termine di processi sommari. Poteva bastare un sospetto, la presenza di un gatto nero in casa, una banale coincidenza, persino un difetto fisico a stabilire il presunto legame con il demonio. Per l'84% le vittime in Scozia sono state donne, per lo più poverissime, spesso emarginate socialmente, a volte persino malate.
ELENCO I loro nomi sono stati ora ripescati dagli archivi per essere a breve riabilitati grazie ad una campagna nazionale avviata da un gruppo chiamato Witches of Scotland, formato da storiche e da femministe. Il loro lavoro ha fatto da base a una proposta di legge inoltrata al parlamento scozzese e che ha ottenuto il sostegno convinto dell'amministrazione di Nicole Sturgeon, premier della Scozia. L'intento normativo del testo è di risarcire moralmente le vittime, dare loro una sorta di redenzione postuma, inserire i nomi nella lista degli innocenti. Una colossale riabilitazione post mortem in piena regola. Un po' come è accaduto anche nel Massachusetts, negli Stati Uniti, nel 2001 quando vennero riconosciute vittime innocenti le cosiddette streghe processate a Salem, dove 19 persone vennero impiccate (tra cui anche un bambino).
SUPERSTIZIONE La prima caccia alle streghe in Scozia, poi in Inghilterra e Irlanda si basava sull'assunto che vi fossero donne dotate di poteri malefici talmente pericolosi da compromettere gli equilibri sociali, danneggiare il bene comune, persino fare affondare a distanza la flotta del re, causare tempeste e carestie, provocare malattie. La stregoneria divenne ben presto un crimine capitale: chi era condannato veniva prima torturato orribilmente e poi strangolato. Infine, il corpo veniva bruciato, in modo plateale, come gli eretici. Sotto tortura, le vittime terrorizzate confessavano qualsiasi cosa, alimentando inconsapevolmente la catena delle presunte stregonerie. Gatti neri, corvi parlanti, demoni che arrivavano dall'aldilà, scope volanti, pozioni magiche. Claire Mitchell, la studiosa che ha portato avanti la campagna politica per la riabilitazione in Scozia ha spiegato che si tratta di un importante capitolo di giustizia riabilitativa che richiede le scuse ufficiali e anche un monumento nazionale. «In Scozia abbiamo giustiziato cinque volte più persone che altrove in Europa». A suo parere il fatto che non vi siano ancora delle scuse ufficiali estende il trauma ereditato della persecuzione femminile. Come se questo capitolo avesse lasciato una ferita aperta che colpisce in qualche modo tutti. Secondo diverse Ong in diversi paesi del mondo la caccia alle streghe ha ancora luogo. Africa Sub Sahariana, Nepal, Papua, Amazzonia, Sudan.
I cartomanti? Dramma per gli psicologi: cosa sta accadendo in Italia. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 23 novembre 2022
Succede in tutti i periodi di crisi economiche, quando c'è instabilità emotiva, incertezza sul futuro ed i tempi si fanno difficili sul fronte del lavoro e delle relazioni sociali, complice anche lo strascico del disagio psicologico dovuto alla recente pandemia. Così anche quest' anno oltre 15 milioni di italiani si sono rivolti ai cartomanti alla ricerca di risposte e di rassicurazioni. È questo il rapporto del Codacons che di recente ha diffuso i dati inerenti a tale mercato, che tra tarocchi, carte da gioco, sibille e pendoli, ha attratto un numero sempre maggiore di persone verso chi opera nell'arte della divinazione, un business dell'occulto in continua crescita nel nostro Paese, che ha registrato una impennata dal lockdown in poi, periodo in cui l'oggetto del consulto più richiesto rivela la vera ossessione degli italiani: il lavoro e la salute, anche se i quesiti maggiori restano quelle in materia di cuore.
Il mercato della cartomanzia, anche senza il rapporto Codacons, è una realtà che molti di noi avevano constatato semplicemente passeggiando nei centri storici delle nostre città con un fiorire di banchetti illuminati e addobbati di candele, incensi, talismani, candelabri, statue di Buddha in legno e addirittura di Padre Pio, presidiati da una corte dei miracoli di cartomanti di ogni genere ed età, con donne e uomini in fila che aspettano di avere lumi sul proprio futuro. Recentemente Papa Francesco ha ammonito pubblicamente chi dimentica Dio e finisce nella superstizione. Ma se è vero che molte persone vanno in chiesa a chiedere aiuto a Dio, disposte ad aspettare con fede, piene di dubbi e di dolori, che le loro richieste si realizzino, è anche vero che in questa società materialista altrettante persone hanno bisogno di aggrapparsi a qualcosa che dia risposte immediate e che soddisfi domande che non avrebbero risposte altrimenti. Le sedute "vis à vis" con davanti la persona da guardare negli occhi e da ascoltare sono le preferite per un momentaneo sollievo, per il bisogno sentito degli sguardi, del contatto e delle sensazioni in diretta, senza compromettere la fede religiosa, ma perla ricerca di un momento esoterico e di spiritualità che non sono un complemento alla religione ma semplicemente un confronto rapido ed istantaneo su amore, sesso, lavoro e amicizia, per alzarsi poi dagli sgabelli più o meno sollevati dalla profezia ricevuta, a seconda della sentenza chele carte hanno spietatamente o falsamente determinato. Le cartomanti, quasi sempre donne, sono figure spesso bistrattate ed accomunate a delle indovine, professano l'arte della cartomanzia, ossia la lettura delle carte da gioco o dei tarocchi, le preferite dai più per le loro figure allegoriche, ma queste persone, non sempre professioniste, non predicono il futuro ma, capaci di ascoltare e intuire le fragilità, i dubbi e le sfumature dell'animo di chi hanno di fronte, e dotate di competenze comunicative, consigliano l'interlocutore verso la strada che le carte indicano, puntando a far emergere ciò che la persona ha dentro di sé, predisponendo l'interessato a superare i blocchi emotivi che gli impediscono di risolvere determinate situazioni in oggetto, aiutandole a scegliere una direzione o un comportamento, e regalando sollievo.
Le persone che decidono di avvalersi di un cartomante, telefonando a un numero dedicato o raggiungendo l'esperto a casa, in studio o in strada, in realtà sono semplicemente alla ricerca di un interlocutore con cui confidarsi, al quale raccontare i propri timori, ansie o paure, in genere per instabilità sentimentale od economica, e lo fanno in un abbozzo di seduta psicologica con una persona estranea, pronta ad ascoltare e fornire utili consigli riguardo al futuro, aiutandosi con la lettura delle carte che il fato o la fortuna mettono sul tavolo in quel momento, carte che di certo non sono da intendersi come verità assoluta o profetica.
Gli specialisti o gli improvvisati delle arti divinatorie non sono in realtà, nessuno di loro, in grado di prevedere il futuro nemmeno di se stessi, non essendo dotati di poteri predittivi, eppure moltissime persone si rivolgono a loro perché è molto più facile, confortante e meno faticoso intellettualmente, piuttosto che farsi delle domande serie ed avviare un'analisi di autocoscienza, trovare una situazione più o meno appagante o consolatoria, rivelata da una carta allegorica che elevi il morale e lo spirito nei giorni di difficoltà, di esitazione e di sconforto, nella speranza che un presunto desiderio possa realmente divenire una certezza. Un confronto innocuo, a volte divertente, che però può divenire influente e pervasivo nelle personalità più fragili ed insicure, al punto da condizionare le loro azioni e le loro scelte a seconda del responso ricevuto in tema di amore e salute, di se stessi o dei propri cari. La cartomanzia comunque, rispetto alle prestazioni fornite da sedicenti maghi od astrologi, è riuscita ad attrarre in questi ultimi due anni un numero sempre maggiore di clienti, per il rapporto confidenziale che si instaura con tale tipologia di figure, e perché ad ogni domanda viene fatta uscire una carta che sembra dare una risposta immediata e concreta, positiva o negativa che sia, ad un quesito specifico, su amore, lavoro, denaro e salute, risposta che non sempre influisce sul libero arbitrio della persona che la richiede, poiché la scelta di ogni decisione viene sempre rimessa nelle mani e nell'animo dei richiedenti. E nell'animo umano l'amore, la speranza, i desideri, la fede e i sogni sono sentimenti che restano sempre in primo piano, sentimenti che sono sopravvissuti al virus letale che ha seminato dolore e morte, e che ha lasciato più difficile il presente e più incerto il futuro di ognuno di noi. Purtroppo resta solo in noi capire come viverlo ed affrontarlo, con coraggio, con fede, con determinazione e soprattutto razionalità, senza affidarsi troppo a poteri divinatori che nessuno al mondo è in grado di predire od assicurare.
Apparizioni, cibo, presepi: l'Immacolata prepara al Natale. Il giorno dell'Immacolata Concezione è festeggiato dalla Chiesa ma anche dalle tradizioni popolari in un modo molto suggestivo. Angela Leucci l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
L’8 dicembre la Chiesa Cattolica celebra l’Immacolata Concezione di Maria, un giorno che tra l’altro è di festa per alcune categorie di lavoratori. In Italia questa festività è strettamente legata con le tradizioni natalizie, anche se dal punto di vista religioso non lo è.
Da Nord a Sud si tengono manifestazioni dedicate, ma non sono solo a tema spirituale. Molte infatti riguardano le tradizioni popolari e coinvolgono inevitabilmente la gastronomia regionale.
La storia dell’Immacolata
L’Immacolata Concezione è un dogma cattolico che non riguarda, come molti pensano, il concepimento di Gesù da una donna vergine, la Madonna. Riguarda invece il fatto che Maria, a differenza del resto del genere umano, sia stata concepita senza peccato originale. Tutti gli uomini e le donne nascono con il peccato originale, a causa del tradimento di Adamo ed Eva ai danni di Dio, anche se poi quel tipo di peccato atavico viene lavato via con il battesimo. Maria no, la Madonna è nata senza il peccato originale. Lo ha stabilito un dogma proclamato da papa Pio IX solo nel 1854.
Durante le celebrazioni liturgiche dell’8 dicembre, vengono benedette e distribuite ai fedeli delle riproduzioni della medaglia miracolosa. L’iconografia ritrae la prefigurazione di Maria nell’Antico Testamento: una donna santa che viene insidiata da un serpente, che simboleggia il peccato, ma che schiaccia l’animale sotto al proprio piede. È così che la vide santa Caterina Labouré nel 1830: la monaca, all’epoca novizia, coniò quindi la medaglia miracolosa contenente una piccola preghiera: “O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a voi”.
Tradizioni dell’Immacolata
È in questo giorno che solitamente le famiglie italiane addobbano l’albero di Natale e allestiscono il presepe. Tuttavia in diverse regioni esistono tradizioni legate alla cultura popolare e contadina.
Per esempio in provincia di Lecce, in occasione della vigilia dell’Immacolata, si mangia teoricamente “di magro”. Il teoricamente è dovuto al fatto che il pranzo della vigilia è una vera e propria abbuffata: puccia col tonno, peperoni verdi fritti, pittole sono alcune delle bontà che vengono portate a tavola. Le pittole (o pettole, come vengono chiamate in altri luoghi della Puglia) sono preparate anche nel giorno di festa e spesso sono accompagnate da alcuni falò, le “focareddhe” dell’Immacolata.
A Napoli invece si preparano e si consumano i roccocò, speciali taralli dolci ispirati a uno stile artistico antico, che era di casa nel capoluogo campano. E l’8 dicembre, nell’antica Partenope, è il momento giusto per visitare il quartiere di San Gregorio Armeno, con le sue tante botteghe artigiane in cui vengono preparati i personaggi per il presepe. Quale sarà il personaggio d’attualità dell’anno che i napoletani hanno inserito tra i grandi classici?
In Basilicata invece vengono preparati invece dei taralli salati, i ficcilatidd, mentre la vigilia anche qui è “di magro”, come del resto in molte altre parti d’Italia.
Cosa fare all’Immacolata
Naturalmente tra le cose da fare c’è appunto una visita, se ci si trova a Napoli, a San Gregorio Armeno e magari a San Biagio dei Librai, dove nelle diverse botteghe si possono trovare libri interessanti e spesso chicche fuori catalogo. Ci sono anche i mercatini di Natale, che, in virtù della festa dell’8 dicembre, colgono l’occasione per entrare nell’atmosfera del periodo più bello dell’anno.
A Venezia, l’8 dicembre 2022 si chiude il mercatino dell’antiquariato, mentre a Calvene in provincia di Vicenza si potrà ammirare il presepe artigianale in Contrà Maglio. A Bussolengo, in provincia di Verona, ci sono invece i Presepi nel Chiostro. A Seriate, in provincia di Bergamo, si tiene il mercatino di Santa Lucia, a Carpenegolo in provincia di Brescia si chiude la Fiera del Torrone. Ma queste sono solo alcune delle cose da visitare: il Belpaese in questa giornata è un ricco mosaico pieno di sorprese.
Le origini della festa. Cos’è il giorno dell’Immacolata Concezione e perché si festeggia l’8 dicembre. Redazione su Il Riformista l’ 8 Dicembre 2022
Oggi, giovedì 8 dicembre, ricorre la celebrazione dell’Immacolata Concezione. È una ricorrenza con la quale la chiesa cattolica festeggia un dogma sancito da Papa Pio IX con la bolla Ineffabilis Deus, pubblicata l’8 dicembre 1854, dove si affermava che la Vergine Maria era immune dal peccato originale e che quindi era degna di portare Gesù nel proprio grembo e farsi veicolo della sua venuta sulla Terra. Il dogma pose fine ad anni di dispute anche molto violente e caratterizzate da reciproche accuse di eresia. La questione, infatti, è tutt’altro che banale dal punto di vista teologico.
Maria è ‘figlia’ di Adamo ed Eva, come tutti gli esseri umani, secondo la religione cristiana. Questo implica che porta con sé il peccato originale, quello cioè contratto dai progenitori dell’umanità nel momento in cui furono indotti dal serpente a mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male. Un atto di disubbidienza al comandamento di Dio che li macchiò appunto del peccato originale, causando la loro cacciata dal paradiso terrestre. Erano nati senza peccato, ora ne portavano uno e destino analogo toccava a tutti i loro discendenti. Maria compresa?
Alcuni studiosi come Pelagio tendevano a ridimensionare la gravità del peccato, ed erano in discordia con altri come Agostino d’Ippona e Calvino, che lo utilizzavano per descrivere l’umanità come una “massa dannata”. Ovviamente, questo aveva ripercussioni sul discorso relativo alla natura di Maria. All’interno di questa disputa, alcuni teologi avanzarono l’ipotesi che Maria fosse portatrice del peccato originale, ma che per i nove mesi necessari al concepimento di Gesù fosse stata per quest’ultimo una dimora senza peccato. Alcuni indizi di questa tesi erano rintracciati nel protovangelo di Giacomo, ma non tutti gli esegeti concordavano con questa lettura.
Dio aveva concesso a Maria una redenzione anticipata dal peccato originale, oppure era già stata concepita senza peccato in vista del suo ruolo futuro? Insomma, era nata peccatrice ed era stata perdonata un momento prima di divenire madre? O non era mai stata peccatrice? Interpretazioni e ipotesi si rincorsero per molti anni, e spesso chi non era d’accordo con una tesi veniva tacciato di eresia da coloro che invece la sostenevano. Un’accusa che poteva avere conseguenze molto serie.
La disputa fu chiusa una volta per tutte con la bolla Ineffabilis Deus, pubblicata l’8 dicembre 1854. Vi si legge che “la beatissima Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per una grazia e un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale”. Quindi Maria non era macchiata, era immacolata: da qui l’Immacolata Concezione che si celebra l’8 dicembre.
Alcuni studiosi credono che la festa a lei dedicata era derivi da un’altra celebrazione: quella che si teneva presso la chiesa bizantina e che ricordava la nascita di Maria dai genitori Gioacchino e Anna. Un fatto raccontato come miracoloso e avvenuto per grazia divina, in riferimento al futuro ruolo di madre di Gesù.
È probabile che questa festa sia giunta fino a noi grazie al trasferimento di monaci da Oriente a Occidente e grazie agli intensi rapporti fra l’Italia meridionale e Bisanzio. Nei secoli successivi il culto si è propagato per tutto l’Occidente, soprattutto per iniziativa degli ordini religiosi benedettini e carmelitani. L’8 dicembre 1661 la bolla Sollicitudo omnium ecclesiarum di papa Alessandro VII inserì la festa nel calendario della Chiesa universale. Quasi due secoli prima che la bolla Ineffabilis Deus risolvesse una volta per sempre il dibattito sulla natura immacolata di Maria.
8 dicembre, l'Immacolata Concezione: cos'è e le origini della festa. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera l’8 Dicembre 2022
Il dogma fu proclamato da Pio IX nel 1854 con la bolla «Ineffabilis Deus»: sancisce come la Vergine Maria sia stata preservata immune dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento
Lo celebriamo tutti gli anni. Una giornata di festa che ben ci piace se cade fuori dal weekend, come nel 2023, così da inaugurare con un bel ponte la stagione delle feste natalizie. E per i milanesi si unisce alla giornata del patrono, Sant’Ambrogio, accrescendone l’attesa. È l’Immacolata Concezione, le cui radici risalgono all’8 dicembre del 1854, quando ne è stato proclamato il dogma da papa Pio IX con la sua bolla «Ineffabilis Deus». La Chiesa Cattolica da allora osserva questa festa ogni 8 dicembre. Ma cosa si celebra?
L’Immacolata Concezione non si riferisce al concepimento di Gesù, ma a quello di Maria. La Vergine, secondo il credo religioso, è stata concepita senza peccato originale e preservata da ogni macchia, nel grembo di Sant’Anna. Si festeggiava anche in Oriente già nel VI secolo, poi grazie al papa è entrata nel calendario della Chiesa.
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Quattro sono le verità di fede sulla Madonna, secondo la fede cattolica: la maternità divina; la verginità perpetua; l'Immacolata concezione e l'assunzione, che riprende l’antica tradizione della Dormizione, secondo la quale la Vergine, alla fine della vita terrena, si sarebbe addormentata per essere trasportata in cielo con la sua carne.
Come si legge nella bolla di Pio IX, «la beatissima Vergine Maria fu preservata, per particolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, immune da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento, e ciò deve pertanto essere oggetto di fede certa ed immutabile per tutti i fedeli».
A conferma del dogma viene citato dalla Chiesa quanto avvenuto a Lourdes nel 1858, quando la 14enne Bernadette Soubirous riferì al parroco di aver visto in una grotta, quella di Massabielle, una «piccola signora giovane» che le aveva detto «Io sono l'Immacolata Concezione». Un anno prima, nel 1857, in piazza di Spagna a Roma fu inaugurato il monumento dell'Immacolata: ogni 8 dicembre, secondo la tradizione, il papa fa visita in questo luogo.
· Santa Lucia.
Santa Lucia e la leggenda del «giorno più corto che ci sia»: riti e tradizioni. Si festeggia il 13 dicembre in corrispondenza del suo martirio. È nata a Siracusa, città di cui è la patrona. Ma i festeggiamenti più famosi sono quelli dei Paesi scandinavi. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2022.
La storia di Santa Lucia
«Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia». Questo è forse la frase più famosa legata al culto di Santa Lucia che si celebra in molte parti del mondo il 13 dicembre. La festa però inizia la notte del 12 che a lungo si è creduto essere quella più lunga dell'anno e che secondo il calendario prima della riforma gregoriana coincideva con il solstizio d'inverno. Per questo motivo, la beata è anche nota come Santa della luce: il suo arrivo rischiara l'inverno dopo la lunga nottata di tenebre.
Lucia nacque in una nobile famiglia di Siracusa, città di cui è la patrona, ed riconosciuta come la protettrice degli occhi, degli oculisti, dei ciechi e degli elettricisti. Viene festeggiata il 13 dicembre perché si tratta del giorno in cui nel 304 avvenne il suo martirio.
La leggenda narra che decise di andare sulla tomba di Sant'Agata a pregare e che la beata le chiese di rinunciare alle sue ricchezze per dedicarsi all'aiuto dei più deboli e perseguitati. Dopo questo appello sua madre guarì e lei decise di seguire le indicazioni della santa annullando il matrimonio con il suo promesso sposo.
Santa Lucia viene spesso rappresentata cieca a simboleggiare le torture subite durante il suo martirio, mentre secondo un'altra versione sarebbe dovuto a un uomo innamorato di lei che le chiese i suoi occhi in dono.
Nella sua città, Siracusa, la santa viene celebrata dal 13 al 20 dicembre. Si inizia il 12 con la veglia e si prosegue nei giorni successivi con la santa messa e la processione dalla cattedrale alla basilica di Santa Lucia al sepolcro. Le preparazioni tipiche di quei giorni sono il pane votivo a forma di occhi - simbolo della santa - e si mancia la cuccìa che consiste con grano cotto con ricotta, miele e vino cotto.
I festeggiamenti di Siracusa
Nella sua città, Siracusa, la santa viene celebrata dal 13 al 20 dicembre. Si inizia il 12 con la veglia e si prosegue nei giorni successivi con la santa messa e la processione dalla cattedrale alla basilica di Santa Lucia al sepolcro. Le preparazioni tipiche di quei giorni sono il pane votivo a forma di occhi - simbolo della santa - e si mancia la cuccìa che consiste con grano cotto con ricotta, miele e vino cotto.
Brescia, Mantova e Cremona
Nelle province di Brescia, Mantova e Cremona è una festa molto attesa soprattutto dai bambini. Molti di loro sono soliti scrivere una letterina alla Santa con la richiesta di doni, più o meno dello stesso tenore di quella che si invia a Babbo Natale. È tradizione preparare un piattino con biscotti e vin santo, oltre a un po' di cibo per l'asinello di Santa Lucia. Il compito degli adulti è di suonare un campanello per invitare i bambini ad andare a letto in attesa del suo passaggio. Il giorno dopo, chi è stato bravo troverà dolci e doni, mentre i cattivi solo del carbone.
Svezia a ritmo di Luciasången
Nel resto del mondo il luogo in cui è più sentita la festa di Santa Lucia è la Svezia: oltre a essere un omaggio alla Santa, si tratta di un modo per implorare per la luce. Le chiese organizzano concerti e tra le ragazze viene eletta Santa Lucia che dovrà guidare la processione con una corona di candele. Le coetanee che la seguono devono indossare un abito bianco e un'acconciatura arricchita da foglie e nastri rossi.
La canzone tipica delle processioni e Luciasången, ovvero l’italiana canzone napoletana di Santa Lucia, solo che il testo in svedese. I dolci tipici si chiamano «i gatti di Lucia» e sono brioche allo zafferano con uvetta.
Il Luciadag in Danimarca
Anche in Danimarca il 13 dicembre di ogni anno si festeggia il Luciadag, “giorno di Lucia”. Di nuovo la luce il vero protagonista della celebrazione. Non è una coincidenza che il primo Luciadag venne celebrato nel 1944, dopo la fine dell’occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale, considerato da tutti il periodo più buio della storia del paese. La giornata si svolge tra solenni processioni sul kayak lungo il canale di Nyhavn, celebrazioni nelle chiese, ma anche recite negli asili e nelle scuole. Viene scelta una “Lucia”, e le ragazze la seguono cantando, vestite di bianco e con una candela in mano. Anche la Lucia danese viene incoronata con una corona di candele accese.
Lussi in Norvegia
In Norvegia sono i bambini a sfilare vestiti di bianco, portando candele, cantando canzoni e distribuendo panini festivi guidati da una ragazza bionda che rappresenta Santa Lucia. In Norvegia la festa di Santa Lucia ha origini pagane, legate a Lussi, la “Luminosa”, il doppio pagano e “oscuro” di Santa Lucia, uno spirito femminile legato agli spiriti dell’Aldilà, che guida una processione fantasma.
A me piace il presepe ma se c’è «u’ sckandat». È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Dicembre 2022.
In tanti ricordiamo un personaggio di «Natale in casa Cupiello», capolavoro di Eduardo, per una battuta pronunciata con sciatto cinismo dal giovinotto Tommasino: «A me non mi piace il presepio». Più che pronunciata, era borbottata con livore screanzato. Quello dello scansafatiche accidioso e parassita che vuole rovinare la festa a Luca, il «presepiaro» protagonista.
E lo sprezzo del Presepio riassumeva iattanza e pigrizia mentale. Sotto l’egida di queste si arruolano da sempre molti stupidi sfiancati da uno snobismo attivato dal complesso dei provinciali che non riescono a capire che la Provincia è il sale della cultura italiana. «A me non mi piace il presepio». Avvertono i caporali di tutte le estrazioni sociologiche quando pretendono di altezzosamente di infliggerci il loro ego frustrato. Ma, per fortuna ci sono caporali e ci sono uomini. A me i caporali, quelli in uniforme che servono il Paese, piacciono come mi piace, moltissimo, il Presepio e l’ho messo in opera. Quest’anno l’assetto strutturale è pianeggiante e solo qua e là collinoso, un poco brullo con qualche zona sabbiosa e solo un laghetto con inevitabile fontana con vasca circondata da palme noncuranti della presenza, poco più in là, di abeti dolomitici che non ci azzeccano niente ma fanno tanta scena come le arance che danno colore gioioso.
Ho portato un cambiamento sostanziale nella regìa: la sacrosanta capanna non è più posta contro la parete, no. Tale dislocazione costringeva i pastori ad offrire le terga ai fedeli spettatori privandoli delle espressioni del viso che contano, e come! E, dunque, la capanna sta al centro del tavolo e i pastori, i pellegrini dall’incontenibile stupore, accerchiando la sacra famiglia e provenendo da l’ogni dove del mondo, mostrano il volto a noi che c’incantiamo. Non manca niente in un tripudio sincretistico di figure d’ogni provenienza: tutta la gamma dei pastori, da quello tradizionale con pecore e abbacchio regolamentare sulle spalle, al porcaro con maialini e scrofa premurosa, alla donna con formaggi e caciocavalli, allo zampognaro, si mescola allo scrivano ottocentesco, al venditore di libri usati, al fiaccheraio e al cantiniere. Da un pezzo ho esiliato il cacciatore dietro un albero e gli ho messo un fiore nel fucile. Ora non spara più agli uccellini e io gliene ho messi tre sulle spalle. La lavandaia esibisce vicino alla grotta una generosa scollatura che mostra grazie di Dio e che si prodiga lavando i panni ruvidi della Luce del mondo. Sono sicuro che Questa non rinnegherà la pia governante. Nel presepio non sono graditi i bacchettoni.
A me il presepio piace. Chi vede il teatro che «faccio» se ne accorge. Lo inventò San Francesco come una pièce teatrale e Giotto a Greccio lo testimoniò, figuriamoci. Ma amo anche il presepio regolamentare, s’intende, con tutti i personaggi e i requisiti che la tradizione impone: Sacra Famiglia, bue, asinello, angelo annunciatore di pace, lavandaia, pastore semplice e pastorella con caciotte, guardiano di porci, pescatore, suonatori di cornamuse, vagabondo addormentato. Animali in quantità.
Ho nostalgia di tutto questo e pratico con testardaggine la minuscola e tenerissima edilizia del presepio anche a casa mia, la casa di un adulto pensieroso. Ogni anno lo aggiorno con nuovi santi pastori vagabondi, con pecorelle devotissime, con magi in buona fede, ma anche con ospiti pellegrini dell’attualità e della cronaca. Devo ammettere che m’era più facile prima e, infatti, ancora annovero davanti alla capanna una «band» di suonatori di Jazz, un duo di scrivani somiglianti a Totò e Peppino e uno zampognaro tale e quale al mio dolce amico Massimo Troisi. Oggi, stante nella cronaca la penuria di nuovi candidati, candidati nel senso del candore dell’innocenza, in grado di assumere un ruolo in pianta stabile tra le pecorelle, scelgo come protagonista il pastore dei pastori: «u’ sckandat». Letteralmente, nel dialetto nostro, sta per «lo spaventato». È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta, orante, con gli occhi sbarrati, le braccia spalancate e la bocca semichiusa in un fonema intelligibile, solo dai puri di cuore che sembra esprimere l’atterrita gioia della salvazione annunciata. È povero, non porta niente, né caciotte, né agnellini, né vino, né uova, né, tanto meno stoffe preziose o spezie: «u sckandat» porta al Dio vivente solo il suo stupore di fede e la sua letizia di speranza. E la mostra sul volto che, finalmente si vede nella nuova struttura della regìa. Nel Presepe di oggi, «u’sckandat» è il cittadino onesto, generoso, prodigo con gli ultimi e che offra, magari, le risorse utili a far presepi dovunque. Presepi fatti di altruismo, civismo, giustizia, rispetto per l’ambiente, la cultura, la scuola, la ricerca. Dovrebbe promuoverli lo Stato, questi Presepi. In attesa, diamoci da fare col candore dello «sckandat» che mi piace e mi commuove. Chi vorrà negarsi alla peregrinazione alla grotta, sarà libero di farlo e nessun pastore gli toglierà il saluto, ma se ne assuma la responsabilità. Chi vorrà ubbidire all’«Adoremus» potrà farlo con gioia. A me piace il Presepio.
Alchimisti, fattucchiere e magia dei nodi. L'anti presepe 2022 di Bergoglio in Vaticano. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 04 dicembre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
Anche quest’anno la falsa chiesa antipapale di Bergoglio ha proposto il solito anti-presepe, con infilati di soppiatto elementi esoterici, pagani, eretici, magici e anticristiani.
Questo è il prezzo da pagare quando non si difende il vero Papa e si permette a un ecclesiastico privo del Munus petrino, l’investitura papale di origine divina, di ricoprire la carica di Pontefice romano.
Ricordiamo il presepe 2020, con le statue in ceramica di Castelli di epoca conciliare: figure con braccia incrociate, tipiche del mondo rosacroce ed egizio, con il guerriero cornuto col teschio sulla fronte, un simbolo demoniaco inserito nel presepe per la solita dottrina esoterica dell’unione degli opposti.
Clamorosamente evidente, poi, il presepe etnico 202, proveniente dal villaggio di Choppca, il villaggio dove sopravvive nel modo più sentito il culto per la Pachamama, che per la dottrina cattolica, non può non essere considerato altri che un demone. Si ricordi a tal proposito il sacrificio umano svoltosi il 5 agosto scorso a El Alto in Bolivia, in onore della madre terra incaica QUI .
Quest’anno c’è voluta qualche ricerca in più per scoprire cosa si nasconde dietro al presepe ligneo proveniente dal paese di Sutrio in CARNIA (Friuli).
Realizzato in legno di cedro, anche con legname proveniente dai tronchi abbattuti durante la tempesta Vaia del 2018, evoca dei concetti apparentemente innocui e banalmente demagogici di ecosostenibilità e valorizzazione delle tradizioni locali.
NON FIDATEVI.
Occorre un poco di studio per scoprire cosa si nasconde sotto, ma siamo andati a colpo sicuro.
I personaggi dell’antipresepe non sono molti, ma fra questi ve ne sono due estremamente significativi. Il “CRAMAR” e la TESSITRICE che sono accuratamente evitati dalla maggior parte delle riprese foto-video disponibili sul web. La tessitrice è poi quasi introvabile, perché collocata in secondo piano.
Ci siamo documentati sui testi di due autorevoli studiosi delle tradizioni friulane, Elio Varutti e Paolo Paron e abbiamo appreso che la Carnia costituisce una sorta di piccolo cuore magico-esoterico dell’Europa che si allarga fino a coinvolgere altre aree del mondo ladino e a lambire i Grigioni svizzeri. Zone di montagna che sono rimaste molto isolate nell’arco dei secoli, dove sono sopravvissuti una lingua antichissima e un sapere antico di radice pagana, i cui riti nel periodo del Solstizio d’inverno, come i grandi falò epifanici, vengono allestiti ancora oggi come tradizione locale. Documentatevi pure su “Streghe, eretici e benandanti del Friuli Venezia Giulia. Processi, rituali e tradizioni di una terra magica” (Intermedia ed. 2021) di Monia Montechiarini.
La Carnia in particolare, affascinantissima e misteriosa, è stata nei secoli passati, regione popolata di questi personaggi, duramente combattuti dalla Chiesa cattolica.
Fatta questa premessa, si comprende il ruolo del cramar, o cramaro: si trattava di un venditore ambulante che portava sulle spalle una specie di armadio-zaino pieno di cassettini il quale faceva la spola tra Venezia e il mondo slavo-tedesco. Generalmente era una persona istruita, che sapeva leggere e far di conto e commerciava in spezie e sostanze rare. Lo studio del ricercatore prof. Elio Varutti “Pedlars and Alchemists in Friuli” ha evidenziato come i cramari praticassero spesso e volentieri l’ALCHIMIA, sia manipolando erbe e sostanze naturali di cui facevano commercio, sia fondendo i metalli alla ricerca della pietra filosofale, tanto che alcuni di loro, poi, a Lubiana diverranno anche campanari. Entrando in contatto col mondo tedesco, spesso e volentieri assorbivano altre visioni del mondo, luterane, non-cattoliche e/o magico-esoteriche legate a culti precristiani. Erano esperti dell’arte della tessitura, e profondi conoscitori dei nodi, tanto da lasciare in famiglia dei manuali per tramandare queste capacità.
E qui veniamo all’altro personaggio inserito nell’antipresepe bergogliano: la tessitrice.
In Carnia, le donne, quasi tutte tessitrici, ovviamente, erano depositarie di saperi antichi e, tra questi, l’arte magica della legatura o slegatura.
Scrive Paolo Paron: “Le donne conoscevano le proprietà delle piante, delle essenze, ma anche dei cicli lunari, i tempi di raccolta in concomitanza con il massimo potere terapeutico di foglie, cortecce, radici, erbe […] Dietro le cure e le terapie delle donne di campagna, l’Inquisitore scorgeva qualcosa che andava al di là della semplice superstizione, un qualcosa di più temibile e pericoloso: un patrimonio di conoscenze naturali, di esperienze, di cultura medica tramandata dalle donne per le donne, attraverso le generazioni, da tempo immemorabile. Faceva paura questo legame con il passato, questa continuità della carità e della solidarietà femminile, che attraverso i secoli, giungeva dal campo oscuro del paganesimo […] I doni di guarigione che a, volte, erano attribuiti a queste massaie rurali erano detti preenti che “potevano essere trasmessi solo in una particolare notte all’anno: la notte della Vigilia di Natale, notte magica come la notte di san Giovanni del 24 giugno”.
Apprendiamo anche come le antiche donne della Carnia raccogliessero “l’acqua della RUGIADA della notte di San Giovanni, utile e necessaria per molte azioni che riguardavano, la bellezza, la salute e la magia”.
La guaritrice carnica “agisce misurando, annodando, snodando fasce, cinture, nastri, legacci, passanti, stringhe, frange, fili e cordelle […] Utilizza conoscenze simboliche che vengono da lontano, come il rituale della misura e la magia dei nodi, sfruttando per intero lo spazio ambivalente esistente fra le polarità del legare/slegare, la pratica del misurare/rimisurare. Sa interpretare i legamenti come malefìci, scoprendone la natura di armi d’offesa di streghe e stregoni; utilizza però i nodi, allo stesso tempo, come mezzo di difesa contro i sortilegi altrui, come efficaci contro-farmaci”.
Come leggete, dietro il nuovo presepe in Piazza San Pietro, ritorna quindi tutto il solito armamentario anticattolico del Bergogliesimo: Sincrestismo, Misericordismo, Neoluteranesimo, Neoarianesimo, Neognosticismo, Neopaganesimo, una specie di micidiale cocktail di eresie e apostasie.
Come scrisse il Santo Padre Benedetto XVI, in puro codice Ratzinger, rifiutando di recensire i libri della sua pseudo-teologia: “I PICCOLI volumi mostrano, a ragione, che papa Francesco ha una PROFONDA formazione teologica e filosofica”. Essa infatti attinge alle più oscure profondità ctonio-misteriche.
Torna infatti – per l’ennesima volta, e in modo estenuante - la MAGIA DEI NODI, già propagandata in tutto il mondo da Bergoglio, a partire dagli anni ’80, con l’idolo pseudomariano della “Maria che scioglie i nodi” e della sua novena, citata nel libro “Pillole di magia” di Michela Chiarelli in merito al rito magico dei nove nodi. Torna la RUGIADA, il nettare dei Rosacroce, elementale alchemico che è stato inserito di soppiatto nella preghiera eucaristica della messa. Tornano i culti precristiani legati alla Grande Madre, o Madre Terra, l’ammiccamento all’alchimia, all’esoterismo, al mondo pagano, all’unione degli opposti alla “conoscenza” alchemica, al tema ossessivo della guarigione del corpo, anche a costo della dannazione dell’anima.
(A proposito: provate ad annodare qualche cordicella, magari il sito vaticano del Codice di Diritto Canonico dopo il presunto attacco hacker subito giorni fa riuscirà anche a ripristinare la pagina coi canoni dal 332 al 335, proprio quelli che parlano di rinuncia al munus e di sede papale totalmente impedita. Si aprono quasi tutte le altre pagine, ma non quella. “Tanto chi se ne accorge”: abbastanza ridicolo).
Insomma: ve lo stiamo ripetendo da due anni che Bergoglio non è il papa, questo perché il Santo Padre Benedetto XVI non ha mai abdicato, ma si trova in sede impedita. la spiegazione “for dummies”. Purtroppo, la censura assoluta imposta dall’informazione mainstream, il silenzio del clero consapevole, l’ottusa cecità “preternaturale” dei cattoconservatori una cum, (che pur additando Bergoglio come “malvagio” e “diabolico” si ostinano a considerarlo legittimo papa), le strategie "politiche" fallimentari di Mons. Viganò, che invece di invocare un sinodo provinciale per pronunciarsi sulla sede impedita del vescovo di Roma, con ogni probabilità mira alla propria candidatura come prossimo antipapa, fanno sì che un miliardo e 285 milioni di cattolici continuino ad andar dietro a un Pifferaio di Hamelin che partecipa a riti negromantici in mondovisione e li sta portando a venerare alchimisti, fattucchiere, divinità pagane, Grandi Madri, Nonne Ragno, Gesù serpente-diavolo Streghe dei Nodi e così via. Pensate solo ai bambini che andranno a vedere quel falso presepe…
Viene da piangere, ma più che dirvelo, non possiamo fare. Buon Anti-Natale a tutti.
Caccia ai tre Re Magi. Antonio Rocca su La Repubblica il 6 Gennaio 2022. Viaggio nell’iconografia segreta dei sapienti venuti la notte di Epifania. Tra Pisano, Stefano da Verona, Gentile da Fabriano e i tarocchi. Tra gli evangelisti il solo a fornire informazioni sui magi fu Matteo, che descrisse l’arrivo a Gerusalemme di alcuni magi senza specificarne il numero, il nome o le caratteristiche fisiche. In realtà quasi tutto ciò che sappiamo di questi sapienti ci deriva dai vangeli apocrifi e dalla tradizione popolare che, nel corso dei secoli, ne ha definito il ruolo di re, ha elencato i doni e ha stabilito che Melchiorre abbia tratti europei, Gaspare orientali e Baldassarre sia invece nero.
IL SIMBOLO PIÙ MISTERIOSO. Nella mirra portata dai Magi si incontrano amore e morte. Bruno Giurato su editorialedomani.it il 5 gennaio 2022. L’epifania non è uno stato di cose, è un evento. L’etimo (greco: epi-faino) segnala la ripetizione di una manifestazione. La manifestazione si ripete non in modo identico – sarebbe semplice compulsione – ma in un modo ogni volta diverso. Il Vangelo di Matteo parla di tre doni: oro, incenso, mirra. Quest’ultima sarebbe stata offerta proprio dal “Black magus”. L’oro sarebbe il simbolo della regalità, l’incenso di divinità, la mirra di morte. Nella narrazione dell’Epifania i simboli, in particolare quelli meno frequentati manifestano oscillazioni imprevedibili. Sono appunto contenitori di narrazioni non concordi, non stereotipate, non riducibili a formule.
BRUNO GIURATO. Laurea in estetica. Ha scritto per Il Foglio, Il Giornale, Vanity Fair e altri. Ha lavorato a Linkiesta.it e al giornaleoff.it. Ha realizzato trasmissioni di cultura e geopolitica per La7 e Raidue. È anche musicista (chitarrista) e produttore di alcuni dischi di world music.
Epifania e Befana 2022, significato e curiosità del 6 gennaio. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2022. Una ricorrenza religiosa ma anche tradizione legata alla calza donata ai bambini da una vecchia signora che vola su una scopa. Anziana, rugosa, vestita di stracci, accompagnata da un gatto (preferibilmente nero) e il cui unico mezzo di trasporto è una scopa volante. Stiamo parlando di chi, se non della Befana? L’arrivo della vecchietta dai modi gentili, ma che a tratti incute timore, segna il momento più malinconico delle festività natalizie. Il 6 gennaio si celebra infatti l’Epifania (dal greco «manifestazione», «rivelazione improvvisa» riferita alla visita a Betlemme dei Re Magi in adorazione di Gesù): albero e addobbi scintillanti tornano negli scatoloni, mentre la maggior parte degli studenti italiani fa i conti con il rientro a scuola. Se è vero che non ha nulla da invidiare a Babbo Natale quanto a popolarità, è altrettanto vero che le sue origini restano misteriose e sconosciute.
Befana, dal culto della dea Diana
Secondo storici e antropologi l’antesignana di quella che oggi chiamiamo Befana è la dea Diana, divinità romana della natura selvaggia, della caccia, dei cicli lunari e delle coltivazioni che, armata di arco e frecce, frequentava i boschi in compagnia delle ninfe. Per sapere quando sarebbe passata la dea bisognava contare 12 giorni partendo dal 25 dicembre. La tradizione voleva che la divinità si manifestasse la dodicesima notte volando sui campi in compagnia di altre donne con l’obiettivo di rendere fertile la terra per le semine imminenti. L’avvento del cristianesimo però tenta di mettere fine al culto della dea Diana e dà inizio alla persecuzione delle donne considerate streghe. Il testo più antico in cui si possono trovare tracce della criminalizzazione del mito di Diana è il Canon Episcopi dell’abate Reginone di Prûm che fa riferimento a «talune scellerate donne, rivoltesi a seguire satana, credono e professano di cavalcare nelle ore notturne sopra certe bestie, insieme a Diana dea dei pagani» e invita a trattarle come delle «infedeli».
L’incontro con i Re Magi
Il cattolicesimo dà un’altra versione della leggenda legata alla Befana, narrando che si tratti di un’anziana signora in cui i Re Magi si imbattono mentre seguono la stella cometa che li guida verso Betlemme. Fermandosi a chiederle informazioni la esortano a unirsi a loro per fare visita alla grotta in cui nascerà Gesù. Lei declina l’invito ma si pente quasi subito: scende in strada con un carico di dolci da donare a tutti i bambini che incontra sul suo cammino proprio nella speranza che si tratti di Gesù. In cambio, i piccoli le donano scarpe e calze di cui potrebbe avere bisogno nel corso della sua traversata.
I suoi simboli: la scopa, la notte, il camino
Oltre alla calza piena di dolciumi o carbone, ci sono simboli legati alla leggenda della Befana altrettanto poetici, ma meno conosciuti. L’anziana viene infatti raffigurata a cavallo di una scopa di saggina che simboleggia l’atto di spazzare via le fatiche dell’anno appena trascorso in vista di quello nuovo. La notte e il buio rappresentano invece il lungo inverno in cui Madre Natura, ormai esausta dopo aver dispensato tutte le sue forze durante l’anno, si prepara a morire per rinascere in primavera. Posata la sua scopa in cima al tetto della casa, la Befana si cala poi all’interno delle abitazioni scivolando attraverso la canna fumaria. Il camino rappresenta la connessione tra i due mondi, il cielo (magico) e l’ambiente domestico (reale).
La Befana nel mondo
Non tutti i bambini del mondo nella notte tra il 5 e il 6 gennaio aspettano la Befana. Quelli spagnoli ad esempio aspettano i Re Magi, ai quali scrivono una letterina spiegando quali regali vorrebbero ricevere. La sera prima del Dìa de los Reyes Magos, puliscono le scarpe e le collocano in un punto della casa che sia ben visibile, cosicché i Magi capiscano a chi devono lasciare i doni. Inoltre, si preoccupano di mettere a disposizione acqua e cibo in modo che i tre astronomi e i loro cammelli possano rifocillarsi durante il viaggio tra una casa e l’altra. In Ungheria invece sono proprio i bambini che vanno di casa in casa vestiti da Re Magi e in cambio ricevono qualche spicciolo. Così come in Romania, dove i bambini girovagano per le abitazioni raccontando storie. In Francia si prepara la galette des rois, un dolce di pastasfoglia ripieno di crema alle mandorle all’interno del quale viene nascosta la fève (che può essere una mandorla o un cece, così come un piccolo oggetto prezioso o una statuina di porcellana) e chi la trova viene proclamato re per un giorno con tanto di corona dorata di cartone posata sulla testa. Anche in Germania il 6 gennaio rappresenta l’arrivo dei Magi a Betlemme ma da calendario non si tratta di un giorno festivo.
6 gennaio, arriva la Befana! La nonnina che si divide il cielo con Santa Claus. Emma Brancati su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.
E se provassimo a salire sulla scopa della Befana e a fare con lei il giro del mondo nella notte tra il 5 e il 6 di gennaio? Le sorprese non mancherebbero.
L’amata vecchina che si porta via tutte le feste e in Italia mette nella calza il carbone per i discoli o i dolcetti per i più meritevoli porta con sé riti e tradizioni. Basta fare anche solamente un giro sui vari siti internet e scoprire che la nonnina è attesa e festeggiata non ovunque e non allo stesso modo, però.
Si scopre così che in alcuni Paesi il 6 gennaio è ritenuto un festivo, mentre in altri coincide con un qualunque giorno lavorativo. In tal caso – che si tratti di Re Magi o di Befana – si resta a secco di doni. Non solo, Paese che vai tradizione che trovi perché le Befane non sono tutte le stesse.
Andiamo, ad esempio, dai cugini d’Oltralpe: in Francia, ai bambini in particolare per la Befana è riservato un dolce speciale che si chiama Galette des Rois. Al suo interno c’è una fava. Il motivo è presto detto: chi trova la fava diventa re o regina per un giorno.
Spostiamoci in Spagna, ai piccoli spagnoli più che attendere la Befana tocca attendere i Re Magi ed è per questo che si mettono tre bicchieri d’acqua all’uscio così che i loro cammelli possano dissetarsi.
In Islanda il 6 gennaio coincide con la festa del tredicesimo Babbo Natale – la conta inizia l’undici dicembre – che partecipa alla festa della Befana in compagnia di elfi e folletti. La magia è assicurata.
Si chiama, invece, Padre Gelo è protagonista del Natale Ortodosso che in Russia si festeggia proprio il 6 gennaio mentre alla vecchietta che lo accompagna è stato dato il nome di Babuschka.
Ancora, il 6 gennaio non è un giorno festivo nel Regno Unito, anche se la chiesa lo celebra ancora. Anche di là della Manica, troviamo un dolce dedicato. Si chiama Twelfth Night Cake e al suo interno ha un semino di fagiolo: come per le Galette des Rois chi lo trova sarà incoronato re o regina.
In Germania, il 6 gennaio è conosciuto con il nome: Heilige Drei Könige, Dreikönigsfest o Dreikönigstag e viene celebrato soprattutto nella chiesa cattolica ma è anche presente nel calendario della chiesa evangelica.
Nella maggior parte degli stati federati è un giorno lavorativo. Solo in tre di essi il 6 gennaio viene commemorato come il giorno della venuta dei Re Magi e sulla porte delle case compaiono le lettere C + M + B + ad indicare i nomi di Magi o un’abbreviazione del latino Christus mansionem benedicat (Cristo benedica questa casa).
In America poi le calze si appendono al camino solo a Natale e a riempirle ci pensa Santa Claus e della Befana non vi è traccia.
La bellezza viene di notte. Ti so vecchietta, bruttina e con un senso profondo di giustizia. Antonio Staglianò su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.
Cara Befana, stavolta scrivo a te! anche tu sei frutto dell’immaginazione umana e sei diventata un tratto simpatico della nostra cultura popolare. Esisti così, come personaggio fantastico e non devi crucciarti troppo se sei un po’ bruttina e vecchia.
Si, lo so, assomigli a una strega, piuttosto che a una fatina. Fattene una ragione, perché rispetto al tuo omologo natalizio – l’anziano omone con le renne, chiamato Babbo Natale – , tu, a uno sguardo meno superficiale, manifesti una “grande bellezza”. Non ci credi? È la sacrosanta verità invece.
Certo, gli umani devono poter riconoscere la bellezza là dove splende, non rimanendo irretiti dalle apparenze effimere dello sfondo lussureggiante delle pubblicità che rendono “ciechi” per poter meglio consumare. In occasione del centenario della nascita di Dostoevskij sono tanti a ripetere (un po’ maldestramente) quella frase dell’Idiota: “la bellezza salverà il mondo”.
Leggendo il romanzo si sa che Ippolit (un giovane nichilista morente) domandò al principe (=l’Idiota), senza alcuna risposta: “è vero principe che un giorno voi diceste che la bellezza salverà il mondo?”. Il principe fece silenzio, come Gesù alla domanda di Pilato: “cosa è la verità?”. E Ippolit incalzò: “Si, ma quale bellezza?”.
Se i piccoli fossero educati alla “grande bellezza” (oh, scusa, mi pare giri un bel film di Paolo Sorrentino con questo titolo), magari potrebbero scoprire la tua. Con il nome che porti riesco a pensarti quasi fossi una persona vera: pare derivi dal greco Epifania.
Da Vescovo gioisco perché mi rimandi all’autentico Natale di Gesù. Non si capisce bene chi ti abbia immaginata per primo. Tante storielle raccontano del tuo casuale ritrovarti sui passi di quei Magi in cerca del Bambino di Betlemme. Alcuni raccontano che portasti proprio a Gesù la prima calza coi doni. Questa immaginazione ti rende in qualche modo “viva”: l’accetto, perché non ha la presunzione di confezionare un Natale senza Gesù bambino.
Ti confido l’amarezza di vedere come tutto si sia ridotto a “clima natalizio” o a “magia” di un Natale consumistico e falso- l’ha detto l’altro ieri papa Francesco. Natale dice che “qualcuno è nato per noi”. È la festa di Gesù e noi facciamo festa senza il festeggiato (don Tonino Bello). E qual sarebbe la bellezza del Natale, se si sono perduti totalmente i valori umani della solidarietà, della fraternità e della giustizia e ognuno pensa solo a sé stesso e ai regali che deve ricevere? Tu un po’ di giustizia la pratichi però: ecco la tua bellezza.
La tua figura non mente: ti so vecchietta, bruttina, su di una scopa volante e con un senso profondo di giustizia. Tu porti doni solo ai bambini che lo meritano. E per quelli che non lo meritano, non solo non porti doni, ma lasci il carbone come ammonimento per ravvedersi. Sei una “bella” vecchietta, perché rappresenti l’anno appena trascorso: è quindi come se l’esito del tuo viaggio notturno, nei primi giorni del nuovo anno, riveli il bilancio di come ci si è comportati.
Sai, mi affascina pensarti in volo di notte, tra i comignoli fumiganti dei caldi focolari. Tu con la tua scopetta di paglia, in compagnia delle silenziose stelle che, da buone amiche, ti confidano le complesse strade dei desideri umani. In fondo siamo “polvere di stelle”, noi esseri desideranti. Già il Leopardi qualche tempo fa cantava “… e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle?” È anche questo che fanno le stelle: parlano con te, perché tu possa giudicare saggiamente e con giustizia i comportamenti, i sogni e le aspirazioni dei cuccioli dell’uomo. Potrai premiarli se sono buoni o eventualmente ammonirli, se reputi che siano stati dannosi per il loro progetto di vita. Tu “dai a ciascuno il suo”, per la giustizia. E ora ti chiedo, come e a partire da cosa tu giudichi “quale sia il suo di ciascuno”? A partire dalla legge morale che è dentro di te e in ciascuno di noi (I. Kant), senza però dimenticare il “cielo stellato sopra di noi” che tu giri in lungo e in largo con la tua scopa di paglia. Magari hai incontrato “Colui che scende dalle stelle” e si dirige alla grotta di Betlemme, dove hai intravisto direttamente quanta è bella la sua umanità. Anzi hai considerato che solo in quella umanità si trova davvero la grande bellezza. In quella umanità c’è tutto il sogno bello di Dio per ogni essere umano: un potenziale immenso di bellezza d’amore.
Ecco allora altri due motivi perché mi stai a genio: perché voli e perché lo fai ecologicamente, senza inquinare. Mi piace perché voli: d’altronde ogni uomo che coltiva bontà e bellezza di vita dovrebbe concepirsi sempre in volo, immerso nelle altezze del pensiero contemplativo, disponendo così di quella vista d’aquila che permette di mirare lontano e in profondità. E la tua umile scopetta di paglia, anche quella mi piace: mi ricorda che la povertà, l’essenzialità, permette all’uomo di librarsi in alto con libertà, senza far rumore e senza recare danni a nessuna cosa creata. Insomma sei ecosostenibile e carbonfree.
E sì cara Befana, anche se sei frutto di immaginazione, mi sei simpatica per la giustizia, la povertà – “vieni di notte, con le scarpe tutte rotte”, dice una nenia dedicata -, la libertà e l’altruismo che rappresenti.
Allora anche quest’anno immagino che tornerai a visitarci la notte tra il 5 ed il 6 Gennaio, nel giorno in cui la Chiesa celebra l’Epifania di Nostro Signore, cioè la manifestazione a tutti i popoli di Gesù salvatore. Tornerai a riempire secondo il tuo giudizio le calze che tutti i bambini ti faranno trovare appese o sul caminetto, o ai piedi del loro letto, o sulla porta di casa. Raggiungici cara Befana con i tuoi doni. Magari a te concederemo anche stavolta di offrirci doni più dimessi di quelli che a Natale i nostri piccoli avranno già ricevuto. Sola una cosa ti chiedo: diversamente da quello che l’omone con le renne ci ha educato ad attendere (diseducandoci l’anima alla voglia di “cose”, di regali costosi), magari io gradirei che ti fermassi a distribuire solo “dolcetti e caramelle” perché tutti i nostri bambini siano educati alle gioie semplici e senza pretese, ai sorrisi che non hanno prezzo e che fanno maturare il cuore. Perciò, vai da tutti e non solo da alcuni, come Gesù Bambino che è venuto per tutti, in particolare per i più poveri.
Vieni pure, dunque, cara Befana e rammenta a tutti noi, piccoli e grandi, il viaggio di quei Magi cercatori, anche loro confidenti di una stella: indicò loro il desiderio di tutta la creazione (e di tutti i tempi) di vedere il vero volto di Dio. Unisciti nel tuo viaggio a quei Magi e ai loro doni per il bambino Gesù: l’oro e l’incenso per compiacersi di quel bambino tutto buono e tre volte santo; la mirra per indicare il sacrificio necessario per la salvezza di tutti noi, talvolta così meritevoli di carbone perché imbruttiti dal nostro peccato, ma comunque sempre amati da Dio.
Ciao, cara Befana, magari riuscirò a vederti in volo, se nel cuore della notte mi ritroverò in preghiera a scorgere il cielo – per “riveder le stelle, bisogna togliersi fuori dall’inferno” (cfr. Dante Alighieri) -, chiedendo a Dio che, in Gesù, l’Amore si manifesti ancora per tutti e per ognuno, come l’unica luce per la mente e la vera pace per il cuore.
La scopa torna a volare con Bettino. LA BEFANA, ABOLITA DA ANDREOTTI IL POLITICO CRESCIUTO IN VATICANO, RIABILITATA DAL LEADER SOCIALISTA DOPO I PATTI CON LA CHIESA. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.
C’è la Befana e c’è la festa dell’Epifania. Le due cose coincidono nella data, che è quella tradizionale del 6 Gennaio. Ma ci sono alcune differenze. O, meglio, il discorso è un po’ più complesso.
L’origine dell’Epifania è antichissima: pare risalga addirittura al II secolo d.C. e serviva per ricordare il battesimo di Gesù. Era celebrata, sembra, dalla setta degli gnostici seguaci di Basilide, maestro religioso di origine greca e probabilmente fra i primi commentatori dei Vangeli. Questi credevano che l’incarnazione di Cristo fosse avvenuta al suo battesimo e non alla sua nascita.
In seguito, eliminati gli elementi gnostici, la Festa dell’Epifania fu adottata dalla Chiesa Cristiana Orientale. Solo verso il IV secolo l’Epifania si diffuse in anche in Occidente, e fu quindi adottata anche dalla Chiesa di Roma nel V secolo. Da allora, l’Epifania è la festa cristiana che celebra la rivelazione di Dio agli uomini nel suo Figlio, il Cristo ai Magi: il termine di origine greca “epiphàneia” significa appunto “apparizione” o “rivelazione”.
a Befana, invece, pare abbia un’età molto più avanzata: è vecchia di secoli e la sua origine, folkloristica e pagana, precede di molto la stessa affermazione del cristianesimo. Dipende quasi certamente anche da questo la curiosa mescolanza di elementi che ancora oggi la caratterizzano, pur se del tutto assimilata all’interno delle festività religiose. Non è facile neanche per gli studiosi risalire al momento esatto in cui è nata la tradizione folkloristica della Befana: qualcuno ipotizza di potersi spingere fino al X secolo a.C., ma la tesi è dibattuta e non paiono esserci fonti sufficienti per dirimere definitivamente la questione.
I ricercatori invece concordano nell’identificare il VI secolo a.C. come quello in cui la figura della Befana è entrata stabilmente nei riti propiziatori pagani. All’epoca si trattava quasi certamente di un rito propiziatorio personificato dell’avvicendamento delle stagioni (e più in generale del ciclo di mutamento della stessa natura): in questa prospettiva, le feste in suo onore sarebbero quindi legate alla speranza che alla stagione fredda, l’inverno, potesse far seguito un raccolto abbondante.
Anche la stessa iconografia che la rappresenta come una vecchia dalle vesti logore, andrebbe letta nella direzione appunto di un rito di passaggio fra differenti cicli naturali. In seguito, nell’antica Roma i riti pagani preesistenti furono inglobati a quelli dell’epoca, in una sorta di integrazione nel proprio pantheon politeista; spesso la Befana veniva anche identificata con la dea Diana, e forse è nata in quel momento l’idea che volasse, con la scopa sui campi coltivati, in una sorta di atto benaugurante.
Oltre al 25 dicembre, quindi, data scelta come giorno di Natale pare dalla festa pagana del Sol Invictus, quando il sole vince sul giorno più lungo dell’anno, il solstizio d’inverno, era tradizione festeggiare 12 giorni dopo la dea Diana, dea dell’abbondanza e della cacciagione. Dodici giorni dopo il solstizio d’inverno si celebrava la morte e la rinascita – l’Epifania, appunto – di Madre Natura.
Festeggiare l’Epifania, insomma, rientra a pieno titolo in quelle che i sociologi chiamano azioni macro-rituali, che hanno la precisa funzione di favorire la coesione interna e la continuità delle forme sociali collettive.
Émile Durkheim e Randall Collins si sono occupati a lungo dello studio dei rituali religiosi, arrivando a definire il rituale come una sorta di vera e propria batteria, in grado di produrre energia sociale. Secondo questa interpretazione, attraverso determinati rituali si verifica il passaggio tra l’essere in forma individuale e l’essere in forma collettiva e, appunto, colui il quale aderisce al rito diventa polo di questa batteria.
Il rito permette insomma la creazione di un “noi”, attraverso la fusione delle identità sociali che vanno a formare un’identità collettiva. Tale fusione risulta più o meno durevole a seconda delle modalità e della frequenza con cui il rituale viene riprodotto e consolidato nel tempo.
I rituali avrebbero quindi un ruolo importante sui singoli – e sui gruppi – in quanto favoriscono l’operazione di uscita dalla routine quotidiana per essere elevati al contatto con qualcosa di sacro che essi stessi contribuiscono a creare.
Il tutto permette ai membri del gruppo di sentirsi parte di una comunità morale con la conseguente trasformazione dei sentimenti individuali in collettivi. Ogni rito ha degli effetti: ricarica la forza e l’energia dei partecipanti mentre questi venerano i simboli del gruppo ed esaltano il legame che li unisce. Non è quindi forse un caso che la festa dell’Epifania – la Befana, nella sua duplice veste – sia diventata così popolare, soprattutto fra i più piccoli: richiama infatti la tradizione religiosa di Santa Lucia, che dispensava doni ai bambini prima della Befana, come faceva San Nicola prima dell’avvento di Babbo Natale. E non è un caso neanche che in Italia fu il fascismo, a partire dal 1928, a rinvigorire la festività della Befana intesa come un momento di attenzione alle classi più povere.
L’idea e l’organizzazione furono di Augusto Turati, che sollecitò commercianti, industriali e agricoltori a dare risorse per i bambini più poveri. La gestione dell’evento fu curata dalle organizzazioni femminili e giovanili fasciste ed ebbe un successo straordinario, tanto da entrare nel modo di dire: il detto “befana fascista” rimase per molti anni anche dopo la guerra e le aziende continuarono per molti anni, sino ai giorni d’oggi, a prevedere pacchi-dono per i figli dei rispettivi dipendenti. Sino ad oggi ma con una parziale interruzione.
Nel 1977 una apposita legge, emanata il 5 Marzo, abolì una serie di festività previste nel calendario fino ad allora: erano anni di austerity per la crisi petrolifera, anni di domeniche a piedi per gli italiani quando il governo del cattolicissimo Giulio Andreotti abolì con un colpo di spugna Epifania (forse anche per un legame proprio con il fascismo), San Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini, Ss. Pietro e Paolo (ma non a Roma), mentre slittarono alla prima domenica di Giugno e alla prima di Novembre la celebrazione della Festa della Repubblica e quella dell’Unità. Austerity anche nel calendario, insomma. Ci furono cenni di rimostranze per tutte le cancellazioni, naturalmente; ma le critiche maggiori vennero proprio per l’abolizione della festa dell’Epifania, anche da parte della Santa Sede. L’allora Pontefice Paolo VI arrivò a dichiarare che “l’Epifania è più importante liturgicamente della Pasqua”, ed è rimasta famosa la battuta che il Premier avrebbe fatto al commesso Navarra: «Forse – chiosò Andreotti – aveva ragione Mussolini quando disse che governare gli italiani non è difficile: è inutile».
Mugugni e proteste ufficiali andarono avanti per qualche anno; toccò quindi a Bettino Craxi, che nel frattempo era succeduto ad Andreotti nella carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, fare un passo indietro.
Nel 1985, il governo Craxi ripristinò la Befana, in attuazione dell’intesa con la Santa Sede per i nuovi Patti Lateranensi. Un’assenza di sette anni come festività ufficiale sui calendari, insomma. Poi, appunto, il ritorno al colore rosso della festività, per il piacere dei più piccoli; e forse anche per un rituale, uno dei tanti, che serve a ciascuno di noi a figurarci e viverci come una comunità.
L’attesa vana dei semprescalzi. Angelo Gaccione su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022. Per Allegra… A casa sua non aspettavano alcuna Befana; in verità non l’aspettava quasi nessuno nel quartiere; sapevano per certo che da lì non sarebbe passata. Come avrebbe fatto, del resto, ad orientarsi in quell’intrico di vicoli tanto stretti, fra quei budelli così poco illuminati, in mezzo a quelle case sbilenche addossate le une alle altre, a restare in equilibrio su quell’acciottolato sconnesso? E potevano chiamarsi comignoli quei miseri mozziconi di malta sbrecciata, quei poveri tubi di lamiera arrugginiti che si alzavano sui tetti? Non era mai passata dai loro padri, non era mai passata dai loro nonni, e non sarebbe passata da loro. Non ricordava di aver mai visto un regalo tra le mani degli altri bambini del rione: erano poveri come lui e la Befana si teneva lontana da quartieri come il loro. Solo i ricchi sono buoni, e solo i ricchi ricevono regali, questo lo aveva imparato presto. Era vecchia dicevano gli adulti, una vecchia stanca e affaticata, e non possedeva gambe per andare dappertutto, giungere in tutte le case. Di vecchie stanche e oppresse dalla fatica ce n’erano in ogni casa, con le mani raggrinzite, le dita stortate, le gonne fino ai piedi, i fazzoletti neri fra i capelli. Le insultavano chiamandole brutte befane, ed era certo che la Befana fosse brutta e vecchia e non avrebbe mai potuto essere generosa.
“Questa notte passerà” annunciò sua madre cogliendo tutti di sorpresa una gelida sera di gennaio in cui la neve aveva spento ogni voce, attutito ogni rumore, seppellito sotto una spessa soffice coltre bianca, vicoli, slarghi, tetti, ballatoi, davanzali, tanto da rendere il paesaggio un’unica massa informe luccicante e immota. “La calza è già sospesa al ferro del camino” aggiunse, ed era vero. Una robusta calza di lana grezza che mani sapienti avevano lavorato ai ferri, pendeva vuota, sotto la misera cappa del focolare che il fumo aveva reso di un nero infernale. Aveva la sinuosa forma del piede e allungava verso l’alto il cilindro del gambale. Le anziane sferruzzavano in tutte le case, spesso scucendo e recuperando lana da vecchie maglie per farne calze, berretti, mutandoni, che i nipoti si passavano l’un l’altro.
Com’era possibile che proprio quell’anno la Befana sarebbe passata dal loro quartiere per giungere alla loro casa? E come avrebbe potuto una vecchia priva di forze muoversi con un pesante sacco sulle spalle in tutta quella neve in cui si sprofondava quasi fino al bacino? L’avrebbe riconosciuta sommersa da tanta neve? E perché sua madre era così sicura di quella visita? Cos’era accaduto di particolarmente straordinario perché si compisse il miracolo? Lui non ricordava nulla, e se c’era stata qualche buona azione non se ne aveva avuta notizia. Provava a pensarci ma non affiorava che qualche frammento sbiadito, qualche brandello evanescente.
“Se ha proprio deciso di passare, io la sorprenderò” disse fra sé, e si ripromise di restare sveglio tutta la notte, fino a quando non avesse sentito il chiavistello della porta sollevarsi. Perché dal loro comignolo la Befana non avrebbe giammai potuto calarsi, di questo era fin troppo certo.
Guadagnato il letto infilò la testa sotto un risvolto di coperta e finse di dormire. Restò immobile per un lasso di tempo che a lui parve interminabile e solo quando si accorse che la casa era piombata nell’oscurità e nel sonno, si tirò su e sbarrò gli occhi. Era buio pesto e non si distingueva neppure un’ombra. Non restava che mettersi in ascolto, disporsi ad una paziente e vigile attesa. Man mano che la notte avanzava il silenzio diveniva sempre più denso e più solido. Infine si era fatto così totale, che se un topo avesse osato uscire dal nascondiglio, l’eco del suo zampettare gli sarebbe arrivato nitido e preciso fino al giaciglio. Arrivò invece l’eco dei passi di sua madre, un eco che si era impresso dentro di lui da un tempo lontano e che vi risuonava. Un eco che avrebbe saputo riconoscere fra mille, in qualunque luogo e in qualunque tempo, ad occhi chiusi, al buio come ora, e come gli era poi accaduto nell’età adulta quando ogni innocenza muore.
Nella calza aveva trovato due mandarini, dei fichi cotti al forno intrecciati a crocetta, una noce, una manciata di lupini, due mele piccole e sode dalle guance rosse e gialle, dei mostaccioli a forma di pesce, di alberelli, di comete. Si vergognava di tanta abbondanza e non fece parola con nessuno, non rivelò nulla neppure ai compagni del quartiere. Non gli avrebbero creduto se avesse detto loro che era arrivata ed era stata generosa, lo avrebbero preso per un bugiardo. Preferì tenersi tutto per sé: come convincerli che la sua era stata una Befana giovane e bella?
“Passerà la Befana quest’anno, nonno?”
“La tua sì, la mia non più”.
Desiderio di meraviglie. Sogni, cioccolato e la lettera a mio figlio nascosti nel fondo della calza. Domenico Dara su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022. Figlio mio non immaginavi di trovare questa lettera stamattina in fondo alla calza nascosta dalle barrette di cioccolato e da una banconota di 20 euro.
Ma ogni tanto qualche sorpresa fa bene che ci dimentichiamo spesso del nostro bisogno di stupore.
Queste parole non esistevano ancora ieri sera quando ci siamo dati la buonanotte.
Sono nate stanotte all’improvviso che non riuscivo a dormire e sono venuto qui sul divano a fissare tra le luci intermittenti dell’albero di Natale le calze appese al mobile.
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Quand’ero bambino non sapendo ancora nulla di Numa Pompilio e della ninfa Egeria mi chiedevo perché non un cestino o un secchio ma proprio una calza con quella forma insolita stretta insidiosa che la mano deve far fatica ad arrivare fino in fondo che ero sempre convinto che qualche parte del dono rimanesse impigliato tra i fili della cucitura.
Una forma strana che definisce i tuoi desideri puoi volere tutto ciò che vuoi purché possa stare lì dentro e così da bambino nei giorni prima della festa cercavo nei cassetti la calza più grande che anche un paio di numeri in più sarebbero bastati a dilatare i desideri e non importava se tutte le calze fossero rammendate.
Poi non ricordo l’anno preciso quella festa cominciò a mettermi tristezza.
La Befana è un epilogo uno strascico viene sempre dopo è la porta che si chiude e io non volevo chiuderla e allora c’erano volte che avrei voluto dire a mia madre ti prego stanotte non appendiamo la calza ti prego stanotte non facciamolo non facciamo finire tutto questo ma non riuscivo a dirlo e così quando la preparavo la sera prima avrei voluto mettermi a piangere e lo facevo dopo ma attendevo aspettavo di andare nel mio letto e spegnere la luce ed essere solo.
Stanotte all’improvviso ho sentito tutto il peso di questa tristezza crollarmi addosso e mi sento come quella calza appesa e vuota e se scrivo a te proprio a te solo a te stanotte è perché tu un poco quella calza l’hai riempita ci hai infilato dentro una moneta l’hai impreziosita ma la calza continua a rimanere appesa desolante.
Scrivo a te perché mi somigli ed è come se scrivessi a me stesso mi confessassi allo specchio mi somigli negli occhi abbassati negli scatti rabbiosi nell’ira incontrollabile e inarginabile che irrompe a segno del suo continuo e clandestino rodimento mi somigli nella ritrosia del passo strascicato nel chiedo scusa rintoccato a battiti regolari nella parola zoppicante e sussurrata agli altri inudibile e mi somigli anche in ciò che non mostri al mondo perché è legge umana di uniformare al nostro sentire le persone che amiamo e io ti amo e ti uniformo a me somigliante nei silenzi nei pensieri negli affanni e vorrei scoprire cosa nascondi sapere la tua vera vita dove la vivi con chi e cosa aspetti anche tu perché anche tu aspetti tutti aspettiamo l’obolo lasciato nella calza vorrei scoprirlo perché tu non me lo dirai mai come mai io l’ho detto perché non ci fidiamo della parola non ci fidiamo del mondo.
Scrivo a te perché mi somigli e io non avrei voluto che fosse così la mia irrequietezza specchiarsi in te che me la ricordi ogni giorno e perdonami se non sono stato come avrei voluto l’ultimo anello e me la ricordi amplificandola come quegli specchi che ingigantiscono i nei i pori le rughe che alla fine dimentichi finanche cosa stai realmente guardando.
Siamo gli stessi anche se piantati in terreni diversi che pensavo il mio malo seme dipendesse dalla mancanza di concime di acqua di sole ma poi la vita non è questione di presenze o assenze è solo questione di porzioni giuste dosi corrette quantità misurate.
Non ho sbagliato vita ho semplicemente errato nel suo dosaggio confondendo ettolitri e decigrammi.
Mi somigli in tutto quello che fai per questo scrivo a te in questa notte e non so se sto veramente scrivendo o solo immaginando nella luce che vive e muore nel buio che vive e muore di scrivere queste parole non so nemmeno se esistono queste parole o sono solo l’eco della triste visione di calze appese di feste passate senza che accadesse il miracolo atteso che questa a pensarci è la vera tristezza di questa notte l’ultima possibilità persa per sempre l’attesa disattesa la speranza spezzata che quando sotto l’albero non troviamo ciò che volevamo non disperiamo fino in fondo perché c’è ancora una possibilità non disperare se quello che aspettavi non è arrivato tra soldatini e pastelli a cera perché c’è ancora la calza, la calza piccola ma vuota, la calza che va riempita, la calza che ha macinato chilometri e chilometri e salite e pendii solo per essere appesa e riempita e allora aspettiamo la Befana l’ultima speranza che mi porti quello che voglio ma che non ho scritto nella letterina di Natale nemmeno come postilla perché certe cose non si chiedono per iscritto e nemmeno per voce.
Certe cose si aspettano e basta.
Che poi come fai la mattina quando infili la mano nella tasca e togli fuori la prima caramella e poi la seconda e poi il carbone che si mangia e poi la moneta e poi poi poi continui a frugare fino in fondo e poi continui ancora come se non fosse una calza quella che stai esplorando ma l’universo intero infinito o la luna la luna dove ritrovare quello che abbiamo perso la luna che tu continui a scavare scavare e infilare la mano e vorresti che non finisse mai quella calza mai come fai come alla fine a toglierla fuori vuota vuota vuota.
Solo stanotte avrei potuto scriverti questa lettera che forse nemmeno esiste ma solo stanotte non il giorno del tuo compleanno o la sera di Natale o qualunque altra festa solo stanotte avrei potuto perché io non ho mai dimenticato quella mano vuota ma tu si tu puoi figlio dimenticarla tu che mi somigli come fossi io stesso in te dentro di te tu che mi somigli tu puoi dimenticare la mano vuota e puoi farlo adesso immediatamente appena queste parole finiranno e avrai svuotato la calza ti basterà indossarla ecco si fai questo per me alla fine di questa lettera che forse nemmeno esiste prendi la calza e infilaci dentro il piede e cammina per il mondo come se io non ci fossi e non dirmi niente quando i nostri occhi s’incroceranno non dirmi niente come se queste parole non fossero mai esistite
Più adulti con le mani nere. Trovavo il carbone vero dentro la calza anche se ero stata buona. Elvira Fratto su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022. In pochi ci pensano, in tanti lo ignorano, ma la Befana è il primo richiamo alla responsabilità delle nostre vite.
Io l’ho capito quasi subito. Del resto, l’Epifania è “epì-fàinomai”, che dal greco significa “ciò che si manifesta”: l’Epifania è manifestazione. E ogni sei gennaio, grandi o piccoli che siamo, veniamo richiamati alle nostre responsabilità proprio da quest’ultima festa, quella che forse sotto sotto è anche la più odiata e che si porta appresso il fardello di essere l’incompresa e bistrattata fautrice della fine dei giochi, delle vacanze e della leggerezza.
“Tutte le feste si porta via”, e lo diciamo col piombo tra le labbra, colpevolizzando questo sesto giorno del nuovo anno che già solo per il fatto che arriva per toglierci qualcosa, parte male.
Però manifesta il nostro dovere, la nostra responsabilità.
Quando da bambina toccava a me fare i conti con la responsabilità e il dovere, lo facevo con baldanzoso orgoglio. Non ero certo una bambina problematica: ero, piuttosto, il corrispettivo umano di un comodino.
ducata, composta, gentile, quasi fatata. Una specie di San Francesco d’Assisi in scala che tutti adoravano incontrare. Sotto sotto, sapevo di non meritare il carbone che trovavo puntualmente, ad ogni Epifania, dentro la calza appesa al camino eppure, sepolto sotto i cioccolatini e i torroni, era sempre lì che mi aspettava, a gonfiare il fondo della calza e sporcarmi le mani.
Sì, famiglia tradizionalista, la nostra: talmente tradizionalista che all’epoca non esisteva il carbone in versione dolce, ma neanche un suo qualsiasi palliativo: la “mia” Befana era così intellettualmente onesta che il mio carbone era vero, verissimo, proprio preso dal camino e buttato nella calza.
La mia Befana era anche la Befana dei regali stimolanti, intelligenti, al contrario di Babbo Natale che invece era il bonaccione barbuto che rimetteva tutti i peccati e dimenticava di buon grado le marachelle infantili, lasciando al loro posto dei bei pacchi regalo perfettamente corrispondenti a quanto richiesto nella rituale letterina: l’Amazon del 1998, potremmo dire. Ogni nostro desiderio, mio e di mio fratello, era un ordine.
La Befana no. La Befana non guardava in faccia nessuno: mia madre e mio padre, a volte, per rendere il tutto più veritiero, ci raccontavano di plausibilissime discussioni tra Babbo Natale e la Befana, dibattiti in cui la bilancia pendeva tra un doveroso pizzico di rigidità e la rituale bontà del Re indiscusso del 25 dicembre.
“Perché devi essere così arcigna?” si narra che Babbo Natale chiedesse alla severa collega, “non possiamo soltanto lasciar loro i regali e basta? A che serve il carbone?”
“Non capisci!” ribatteva duramente la Befana, “ci vogliono i regali, ma ci vuole anche il carbone!”
La trovavo una cosa di un’idiozia infinita. Babbo Natale aveva ragione su tutta la linea: i regali e il carbone non c’entravano niente! Non erano correlati, giocavano in due campionati diversi. E a me sarebbe tanto servito un Sindacato dei Bambini Delusi che mi tutelasse davanti al Giudice dei Giocattoli.
Perciò io, creaturina così dedita allo studio, alla lettura e decisamente inoffensiva rispetto al mio vulcanico fratello, molto più vivace e amante delle sfide già in tenera età, assimilavo la prima, grande ingiustizia della mia vita: il carbone nella calza, anche se non lo meritavo.
Ad ogni modo, i regali della Befana me li godevo tutti: libri, giochi di società, cose utili per la scuola. “È cattiva, ma ha buon gusto”, dicevo tra me e me, armata di quella stessa presunzione che nascondeva il mio disappunto, per mostrare alla Befana di essere una sua degna avversaria. E però continuavo a non spiegarmi quel carbone.
Con il passare degli anni, la Befana è passata sempre meno da casa mia. Io crescevo, i libri li compravo da sola, i giochi di società li avevo ormai quasi tutti. Mio fratello aveva nettamente ridotto il suo potenziale distruttivo, era diventato un ragazzo gentile, posato e dall’animo nobile: non c’era più niente da aggiustare, o almeno così pareva.
Io, invece, all’alba di ogni nuova Epifania, aspettavo sempre più la resa dei conti, aspettavo che si manifestasse di nuovo la mia responsabilità. Paradossalmente, più gli anni passavano e più andava a finire che il carbone me lo sarei meritato.
Ci ho pensato tanto e alla fine ho capito cosa volesse dire la Befana a Babbo Natale, quando lo rimproverava dicendogli: “ci vogliono i regali, ma ci vuole anche il carbone!”
Ho capito che il carbone ti tiene con i piedi per terra, che i regali ingigantiscono una bontà che lui ridimensiona. Quando tocchi un regalo non ti segna la pelle, e questo contiene un sottotesto importante: il regalo, come viene, se ne va. Il carbone, invece, ti macchia, si fa ricordare. “Sì, sei stato buono”, dicono i regali, “ma c’è sempre qualcosa che puoi migliorare”, aggiunge il carbone.
Mia madre questo lo sapeva bene. Il carbone che la mia mano piccola e contrariata trovava puntualmente sul fondo di quell’ingrata calza non era una punizione: era uno sprone. Un incentivo, un rilancio, piume nuove per ali più solide e piene, ché da bambini si ha più bisogno di incertezze che di certezze.
Secondo i greci l’Epifania era il modo con cui la volontà divina si manifestava con segni potenti, significativi.
A me l’Epifania invece ha sempre dato l’idea che tutto tornasse su un piano incredibilmente umano dopo le feste che imbellettano tutto: modi di fare, cortesie, sorrisi forzati. La Befana ha il grande pregio di portarmi davanti ai miei limiti ogni anno, ad inizio anno, come a dirmi: “guardali bene e abbi cura di loro, durante il tuo viaggio”.
All’Epifania si azzera tutto. Noi non siamo i regali che riceviamo, ma il carbone che ci rimane sulle mani e nel fondo della calza, lì dove nessuno guarda. E forse, alla fine, pure noi stessi abbiamo un fondo, dentro, in cui non guardiamo mai e che facciamo finta che non esista.
Da bambina il mio lato migliore era tutto ciò che avevo: troppo acerba per commettere errori, ma già abbastanza grande da sapere cosa fossero.
Col tempo quegli errori li ho fatti e forse la Befana non è più passata perché, finalmente, si è accorta che ci sono arrivata, che ho finalmente capito che col carbone si può fare tutto, perfino disegnare, e che i disegni di quel tipo sono di un’intensità che qualunque matita può soltanto sognare. Il carbone sa cosa significa essere disprezzati, oh, eccome se lo sa; eppure ciò che scaturisce da esso ha un valore che, seppur colto a scoppio ritardato, ha effetto permanente.
Adesso non guardo più la Befana con lo sdegno cavalleresco che fermava il tremolìo del mio mento di fronte a quel l’immeritato carbone. Adesso la Befana l’aspetto alla finestra con una tazza di the caldo e qualche biscotto e ci facciamo grandi risate sul tempo, la stranezza folle della gente, le grandi domande della vita che alla fine invece sono piccole, talmente piccole che le perdi nel fondo delle tasche e poi le devi rifare da capo.
E quando il suo tempo è finito e se ne va, mentre trascina la scopa di saggina per terra, così leggera che pare un sussurro, la richiamo indietro, tendo la mano e le dico: “dammi il carbone che mi spetta”.
I doni appesi al soffitto di nonna. Una caccia al tesoro per tutta la grande casa, poi alzammo gli occhi…Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022.
La neve fuori ad imbiancare i giorni delle feste e il fuoco dentro, nella casa di mia nonna. Sempre acceso, anche d’estate.
La grande fornace rivestita di piccole piastrelle bianche e lucenti a casa di mia nonna serviva a scaldarsi ma anche a cucinare lentamente pietanze antiche ; serviva ad accompagnare le ore pigre delle letture e dei giochi ma anche ad accogliere chi arrivava e far ritrovare chi ci abitava.
Scaldarsi, cucinare e raccontare. Era quello il cuore della casa di mia nonna; quello il luogo in cui lei incantava me e le mie sorelle – e poi via via i fratelli e i cugini che arrivarono negli anni – con le sue storie fantastiche ma anche con la magia dell’uovo cotto sotto la cenere mentre in una sorta di “soffitta-piccionaia” i colombi volavano liberamente e capitava che te li ritrovassi zompettare anche in cucina. Colombi ma anche conigli.
Mia nonna era una incantatrice: anche della grande fatica in campagna condivisa con mio nonno, lei sapeva fare un dono trasformandola in racconti mirabili che seguivano il mutare delle stagioni. L’incantesimo di un dono fatto di parole, di quelli che poi – negli anni a venire – torna puntualmente a manifestarsi in certi momenti della vita. Sapeva fare tutto, ma dico proprio tutto mia nonna: persino i cestini intrecciati, i mestoli di legno intagliato, ogni tipo di provvista comprese le amarene sotto spirito che io ci andavo matta. Sapeva riparare le scarpe rotte, lavorare a maglia, cucinare sapientemente, fare il vino e l’olio, tessere al telaio che era una meraviglia o farci monili con qualunque cosa le capitasse tra le mani.
Bella – così io la ricordo – con gli occhi di un grigio azzurro sempre acceso e di una rigidità tale che guai a dirle che il pane del giorno prima era troppo duro o che ti eri attardata a giocare o a passeggiare ed eri arrivata col fiatone corto a tavola apparecchiata: semplicemente saltavi il pranzo e mangiavi il pane tutto, anche quello del giorno prima e del giorno prima ancora…
«Il pane non si butta», diceva mentre affondava nel latte quello più duro trasformandolo in una zuppa da mangiare a colazione.
Una combattente che ti pigliava il cuore anche con certi scherzi architettati ad arte. Come quando mi faceva credere che il rumore degli zoccoli dei muli che stavano nelle stalle al piano terra erano le catene di un nobile fantasma che non prendeva pace, o quando s’inventava storie di spettri e ombre. Io, del resto – sempre dietro alle fantasticherie alimentate dalle letture di libri e libricini – ero perfetta per cadere nel tranello di quei racconti dello spavento che una volta appurata la verità finivano tutti con una risata.
Mia nonna era questo e molto di più.
Da lei bambina insieme alle mie sorelle trascorrevo spesso le feste di Natale: una gioia che ora – come una madeleine di Proust – ha il sapore della scirubetta fatta con la neve soffice e pulita che lei raccoglieva sul balcone e aromatizzava con amarene, mandarini o arance.
E da lei l’anno in cui miei zii – praticamente due ragazzi – tornarono da Torino dove lavoravano in Fiat e Pirelli, trascorsi anche un’Epifania indimenticabile. L’attesa carica di aspettative non andò delusa.
Io e le mie sorelle sapevamo in cuor nostro che quella sarebbe stata una Befana speciale: due zii che tornavano da Torino con i primi stipendi in tasca non potevano che aver parlato con la Befana per farci recapitare doni favolosi. A rendere tutto ancor più speciale ci pensò mia nonna. Buttate giù dal letto prestissimo – ma con lei era praticamente impossibile restare a poltrire – mangiato l’uovo cotto sotto cenere, indossati i vestiti della festa, raccolti in code, trecce e treccine i capelli quel 6 gennaio cominciammo a fare il giro della casa per trovare i regali della Befana.
Ora, siccome la casa di mia nonna era piuttosto grande, con le camere nelle camere e un “passetto” – così si chiamava il corridoio – che le collegava era facile perdersi e sperdersi dietro i suoi indovinelli: «guardate sotto i letti», «forse sono in cucina, nella credenza», «no, saranno nel salottino, sotto i divani», «sopra in soffitta, tra le scartoffie», «sotto, dove ci sono le botti di vino, chissà che non li abbia messi là…». Insomma fu tutto un andare e venire, sbirciare e ri-sbirciare, scendere e salire per le scale… ma dei giochi nessuna traccia. Sconsolate e ormai sul punto di mollare la caccia al tesoro, non ricordo se a venirci in soccorso fu mia madre o mia zia con un piccolo segno del capo verso l’alto.
Come non pensarci prima?! Poteva mai una nonna come la mia farci trovare i regali nei posti consueti o dentro la calza? Signornò! Alzammo gli occhi verso il soffitto che era piuttosto alto e meraviglia delle meraviglie là dove nessuno di noi avrebbe mai cercato, appese alle travi c’erano delle piccole, fiammanti biciclette che la Befana aveva comprato per noi naturalmente a Torino… Fu un attimo di gioia e luce la Befana torinese si materializzava davanti ai nostri occhi di bambine. La domanda all’unisono fu una e una sola: «Ma allora la Befana esiste veramente?».
La favola diventava realtà e portava con sé una lezione per la vita.
Alzare gli occhi, non rinunciare a sognare ma restare con i piedi per terra: ecco la lezione di quella caccia al tesoro inventata da mia nonna. Io non l’ho dimenticata neanche ora che mi son portata a casa le sue cose: i pettini del telaio, i fusi, e quei tesori di lino, cotone e seta che lei ha tessuto per me negli anni e che uso quotidianamente. La Befana torinese è ancora viva in certi “ti ricordi?” che si fanno con la famiglia al completo riunita a Natale.
“Ti ricordi quando nonna appese le biciclette al soffitto?” …
Candelora, tutti i riti dall'Alto Adige alla Puglia. Angela Leucci il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Nel giorno della Candelora avviene la benedizione delle candele, per ricordare la presentazione di Gesù al Tempio: alla scoperta delle tradizioni nelle varie Regioni italiane.
Per la Chiesa Cattolica, il 2 febbraio è il giorno della Candelora. Si tratta di una ricorrenza molto speciale per diversi popoli: la festività cattolica è legata probabilmente a quella pagana dei Lupercalia - entrambe si svolgevano anticamente a metà febbraio - e forse ha anche a che fare con l’avvicendarsi delle stagioni. Tanto che in passato, in molte zone d’Italia, era nel giorno della Candelora che si smontava il presepe in attesa dell’Avvento successivo.
Il 2 febbraio è infatti quasi equidistante dal solstizio di inverno e l’equinozio di primavera e il meteo di quel giorno, ogni anno, può darci un’idea di quanto ancora lunga sarà la brutta stagione. Lo sa bene, ad esempio, Punxsutawney Phil. È una marmotta della Pennsylvania che ogni anno, in occasione del Groundhog Day, viene interrogata proprio sul meteo a lungo termine.
A testimoniare l’universalità della questione, c’è un proverbio diffuso un po’ in tutti i dialetti italiani. La traduzione suona come: “Se per la festa della Madonna della Candelora c'è sole e c'è la Bora, siamo fuori dall’inverno. Ma se piove o c'è vento, siamo ancora in inverno”.
Che cos’è la Candelora
La Candelora è quindi una festa cattolica che però viene osservata anche dalla Chiesa Cristiana Ortodossa e da alcuni culti protestanti. Corrisponde a un determinato episodio del Vangelo: la presentazione di Gesù al Tempio. Secondo la religione ebraica, infatti, i primogeniti andavano presentati al Tempio 40 giorni dopo la nascita, ossia quando la madre non era più considerata “impura”, dopo il blocco delle perdite di sangue tipiche del puerperio.
Il nome della festa è legata al fatto che in questo giorno vengono benedette le candele - ciò avviene praticamente in tutte le regioni italiane. Per questa ragione, oltre quella legata al calendario, si pensa a un legame tra Lupercalia e Candelora, dato che durante la ricorrenza pagana si era soliti riunirsi per delle fiaccolate.
La Candelora in Alto Adige
Tradizionalmente, insieme alle candele, veniva benedetto un cero particolare: il Wachsstöckl. Era una sorta di portafortuna, da tenere sempre in tasca. C’è anche un dolce tipico legato alla festa: si tratta del Türnägel, una speciale ciambella ripiena di marmellata che veniva preparata per premiare i braccianti che confermavano un altro anno di lavoro dallo stesso padrone.
La Candelora in Puglia
In alcuni luoghi delle Puglie esistono pregevoli pitture rupestri, a Massafra e San Vito dei Normanni, sul tema della presentazione di Gesù al Tempio.
In antichità, e a volte ancora oggi, si svolge in questa regione una processione di vocazione mariana con le candele benedette. Accade ad esempio in provincia di Lecce, a Specchia e a Martano: in quest’ultima cittadina si tiene anche una tradizionale fiera del bestiame.
A Putignano c’è invece un’usanza affine al Groundhog Day. Il 2 febbraio una persona travestita da orso passeggia per le vie della città: viene circondato da ronde di musica popolare che si esibiscono per tutta la giornata. L’orso è un simbolo: è la natura che si risveglia dal proprio letargo per dare il benvenuto alla primavera.
La Candelora in Lombardia
A Milano, la Fèsta de la Serioeùla, come viene chiamata la Candelora, prevede una processione con l’icona della Madonna dell’Idea, ritraente appunto la presentazione di Gesù al Tempio. Il 2 febbraio era infatti, in epoca pre-conciliare, anche un festa mariana e alcuni tratti restano in questo rito. Nell’Età Moderna si era soliti partire dalla chiesa di Santa Maria Beltrame e giungere a Santa Maria Maggiore, ma oggi la processione si svolge tutta all’interno del Duomo.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
· I Riti della Settimana Santa.
Tutti i film da vedere nel weekend di Pasqua. Erika Pomella il 16 Aprile 2022 su Il Giornale.
In occasione della Pasqua i palinsesti televisivi propongono numerosi film che hanno come tema centrale la figura di Gesù e la sua resurrezione.
Il weekend di Pasqua - soprattutto per quel che concerne le giornate di sabato e domenica - ha portato a grandi cambiamenti nei palinsesti televisivi che, proprio come avviene a Natale, hanno scelto di proporre agli spettatori delle pellicole a tema. Sono molti, infatti, i film inerenti la morte e resurrezione di Gesù Cristo che andranno in onda questo fine settimana.
Aspettando Pasqua, i film di sabato
La lunga maratona dei film di Pasqua inizia sabato alle 21.00 su Rai 2 con Risorto, film del 2016 diretto da Kevin Reynolds e interpretato da Joseph Fiennes e Tom Felton. Il film prende il via dopo la crocefissione di Gesù ed è incentrato su due militari romani che ricevono l'ordine da Ponzio Pilato (Peter Firth) di controllare che i seguaci del Messia non rubino il corpo del martire. Tuttavia il corpo di Gesù scompare lo stesso e i due militari sono costretti a partire per una missione di recupero, prima che si diffonda la voce che il Messia è risorto, portando a una rivolta tra le strade di Gerusalemme.
Su TV2000, alle 21.30 andrà invece in onda La Bibbia: Barabba, film per la tv in due parti di Roger Young che vede Billy Zane nella parte del ribelle del titolo. Barabba è un criminale da quattro soldi che si mette in fuga dopo essere stato sorpreso a rubare durante un banchetto matrimoniale a Cana (le famose Nozze di Cana della Bibbia). Per nascondersi, ma anche per festeggiare il maltolto, l'uomo si reca in un bordello dove fa la conoscenza della dolce Ester (Cristiana Capotondi), che gli parla di Gesù (Marco Foschi).
La sera di sabato continua con la messa in onda, alle 21.30 su Rete 4 del film Il re dei re, famoso film del 1961 firmato da Nicholas Ray. La pellicola segue tutte le vicende della vita di Gesù, partendo addirittura dal 63 a.C. con la conquista di Gerusalemme per mano dei romani, per contestualizzare la storia. Si procede poi dalla nascita di Gesù nella stalla con l'adorazione dei Magi, fino alla lunga peregrinazione che lo porterà ad essere crocefisso. Il ruolo del Messia è interpretato da Jeffrey Hunter.
Sebbene non sia un film a tema propriamente biblico anche il film di Ron Howard, Il codice da Vinci, ha dei temi inerenti le festività pasquali. Il film, tratto dall'omonimo romanzo di Dan Brown, andrà in onda sabato alle 21.30 su Tv8. Sebbene sia soprattutto un thriller volto a svelare intrighi, Il codice Da Vinci prende il via dall'assioma secondo il quale Gesù non sarebbe il figlio di Dio, ma "solo" un uomo straordinario, comunque mortale. Soprattutto, Il codice da Vinci ruota intorno all'idea che Gesù si sia sposato e che abbia dato il via a una discendenza. Il film con Tom Hanks, dunque, affronta le conseguenze della morte di Gesù sulla croce e la sua presunta resurrezione, che sono i dogmi al centro della festività pasquale.
I film da vedere a Pasqua
I film da vedere il giorno di Pasqua iniziano domenica alle 14.05 su La7 con la messa in onda di Ben-Hur. Vero e proprio colosso della storia del cinema, il film - diretto da William Wyler - racconta una storia di tradimenti e rivalsa. Al centro del racconto c'è Giuda Ben-Hur (Charlton Heston) che, tradito dall'amico romano Messala Severus (Stephen Boyd), cercherà il modo per avere la sua rivalsa durante la corsa delle quadrighe al Circo di Gerusalemme. Tutta la vicenda di Ben-Hur si snoda parallelamente a quella Gesù, che è interpretato da Claude Heater e non viene mai mostrato in volto.
Alle 17 su Rai Movie, invece, andrà in onda Il Messia, film firmato da Roberto Rossellini che racconta tutta la vicenda della storia di Gesù (interpretato da Pier Maria Rossi) fino alla sua crocefissione. Il film è stato il terz'ultimo girato dal regista, a soli due anni dalla sua morte. Alle 21.20, su Rai Premium, verrà trasmesso La Bibbia: Jesus. Come nel caso del "capitolo" dedicato a Barabba, quello su Jesus è diretto da Roger Young ed è suddiviso in una miniserie di due episodi, sebbene sia disponibile anche una versione come "film unico". La particolarità di questo film è che la figura di Gesù viene affrontata in un modo molto più umano e meno divino, con la speranza di irretire anche un pubblico più apertamente laico. Nel film Gary Oldman veste i panni di Ponzio Pilato, mentre Jacqueline Bisset è la Madonna.
Molto famoso, invece, è La passione di Cristo, film di Mel Gibson che vede come protagonista Jim Caviezel e che andrà in onda domenica sera alle 21.25 su Nove. La particolarità del film è quella di essere stato girato interamente in latino e in una sorta di rivisitazione dell'aramaico antico, per dare maggiore verosimiglianza a una storia dal respiro epico. Come si evince dal titolo, il film si concentra soprattutto sulle ultime ore di vita di Cristo, prima del martirio sulla croce.
Dopo La passione di Cristo su Nove andrà in onda il film Resurrection, alle 23.50. Uscito nel 2021 il film è diretto da Ciaran Donnelly su sceneggiatura di Simon Block. Come suggerisce il titolo, si concentra sulla resurrezione di Cristo. Nello specifico il film parla dei seguaci del Messia a cui viene data la caccia e che sono costretti a nascondersi per non incorrere nella tortura e nel martirio. Tuttavia, quando la notizia della resurrezione del loro Messia comincia a diffondersi per le strade di Gerusalemme, gli uomini capiscono di avere ancora una speranza.
Alle 00.50 su La7d verrà trasmesso L'ultima tentazione di Cristo, film diretto da Martin Scorsese nel 1988 e tratto dal romanzo omonimo dello scrittore Nikos Kazantzakis. L'uscita della pellicola venne accompagnata da non poche polemiche per la scelta di rappresentare un Cristo (interpretato da Willem Defoe) che cerca di scappare dal suo destino da figlio di Dio per poter vivere come tutti gli altri, al punto da convincere lui stesso Giuda (Harvey Keitel) a tradirlo. L'ultima tentazione di Cristo è dunque una pellicola che cerca di sondare il lato più umano del Salvatore, il suo desiderio di avere una vita normale.
Infine, il film che non può mancare durante i palinsesti di Pasqua è il musical Jesus Christ Superstar, che andrà in onda alle 00.53 su Rete 4. Diretto da Norman Jewison, Jesus Christ Superstar è la trasposizione del musical omonimo di Tim Rice che racconta l'ultima settimana di vita di Gesù, prima della sua tragica morte.
Via Crucis al Colosseo, il messaggio del Papa: Irina e Albina insieme con le mani sulla croce. Viola Giannoli su La Repubblica il 15 Aprile 2022.
Cambio di programma alla cerimonia del Venerdì santo: ci sono le due infermiere ucraina e russa. Ma salta la meditazione: “Il silenzio è più eloquente delle parole”. Appello di Bergoglio al disarmo.
Quattro mani poggiate sulla croce, quelle di Irina e di Albina, ucraina la prima, russa la seconda, a sorreggere insieme la croce della Via Crucis di Papa Francesco, tornata al Colosseo davanti a 10 mila fedeli, dopo due anni di cerimonie in una piazza San Pietro senza popolo, deserta.
Si guardano negli occhi, occhi lucidi, Irina e Albina, amiche di due popoli oggi in guerra e colleghe al Campus Bio Medico di Roma, infermiera l'ucraina, specializzanda la russa. Si guardano, si sfiorano le dita nel portare il peso della croce, guardano il cielo, l'una di fianco all'altra, non parlano.
E silenziosa, a sorpresa, resta la preghiera della tredicesima stazione della Via Crucis, la loro, cambiata all'ultimo minuto. Orazio Coclite, la voce storica della processione, avrebbe dovuto leggere una meditazione scritta in queste settimane in Vaticano assieme a famiglie ucraine e russe. E invece il testo è stato cancellato, sostituito da poche frasi: "Di fronte alla morte il silenzio è più eloquente delle parole. Sostiamo pertanto in un silenzio orante e ciascuno nel cuore preghi per la pace nel mondo". "Un cambiamento previsto - ha spiegato ieri sera il portavoce vaticano Matteo Bruni - che limita il testo al minimo per affidarsi al silenzio e alla preghiera".
La tredicesima meditazione avrebbe invece dovuto parlare della "morte intorno", della "vita che sembra perdere di valore", di quel tutto che "cambia in pochi secondi: l'esistenza, le giornate, la spensieratezza della neve d'inverno, l'andare a prendere i bambini a scuola, il lavoro, gli abbracci, le amicizie", delle "lacrime finite", della "rabbia che ha lasciato il passo alla rassegnazione". Per poi chiedere: "Signore dove sei? Parla nel silenzio della morte e della divisione ed insegnaci a fare pace, ad essere fratelli e sorelle, a ricostruire ciò che le bombe avrebbero voluto annientare".
Ma quel testo, come la presenza delle due amiche, Irina l'ucraina e Albina la russa, aveva attirato le ire dell'ambasciata di Kiev in Italia prima e della comunità cattolica ucraina poi. Un'idea "inopportuna e ambigua" che "non tiene conto del contesto di aggressione militare russa", aveva tuonato l'arcivescovo Sviatoslav Shevchuk. Ieri sera, con un gesto duro e inedito, i media cattolici ucraini si sono persino rifiutati di trasmettere la Via Crucis, in segno di protesta. E contraria si era detta in questi giorni anche l'associazione dei cattolici ucraini in Italia: "Non dovevano portare insieme la croce - ha spiegato Oles Horodetskyy - perché siamo noi ucraini a essere stati messi in croce".
La presenza invece è stata confermata, nessun passo indietro da parte del Vaticano né delle due donne, nonostante le pressioni. "Noi non c'entriamo niente in tutto questo, i nostri due popoli non c'entrano niente", hanno spiegato. Ma quel testo è stato accantonato e si è lasciato spazio alla preghiera per la pace. Quella pace che Papa Francesco continua a chiedere senza sosta: "Signore, porta gli avversari a stringersi la mano, disarma la mano del fratello alzata contro il fratello" e fa' che "dove c'è odio fiorisca la concordia", ha detto ai fedeli. Lo stesso grido instancabile lanciato in un tweet pochi minuti prima dell'inizio del rito: "Signore, converti al tuo cuore i nostri cuori ribelli, perché impariamo a seguire progetti di pace".
La nostra Pasqua, un messaggio contro la guerra. Max Baronciani su Culturaidentita.it il 15 Aprile 2022.
Pasqua, “pesach” secondo l’ebraismo; il passaggio da uno stato servile ad uno liberatorio, quando il popolo d’Israele si affrancò dalla schiavitù imposta dagli egiziani. Gli ebrei divennero uomini liberi ma sarà Gesù, con la Pasqua della vita, che condivise ieri, come oggi, insieme agli uomini e per mezzo della resurrezione, la vittoria sulla morte e la liberazione dal peccato. Un regalo immenso che mai era stato sino ad allora concepito ma proprio perché nessuno poteva crederci, che fu vissuto come vero, in quanto fu visibilmente testimoniato da persone incredule e allibite. Non fu la Fede a produrre il fatto, ma fu il fatto che produsse la Fede. Venne testimoniato da donne, che non avevano credibilità alcuna. Fu infine accettato da discepoli ebrei che non potevano presupporre quel concetto di resurrezione, ma che non poterono nondimeno negare di averla vista in un corpo, quel corpo, di nuovo vivo, glorioso, e parzialmente riconoscibile perché non più solamente biologico, com’era invece accaduto con Lazzaro. Non furono sottigliezze teologiche quelle che costruiranno l’edificio del cristianesimo, ma la consapevolezza, da parte di uomini pratici, avvezzi alla sola e dura quotidianità, che qualcosa di impossibile era davanti ai loro occhi. Era quanto di più razionale si potesse concepire. Oggi una nuova guerra insanguina l’Europa e tutto sembra oscurare quel lontano bagliore di amore cosmico, ma in questa “notte del mondo”, dove è facile abbandonarsi allo scoramento e alla ineluttabilità degli eventi, quel dono di Dio, si trova pur sempre insediato tra noi e può darci la forza di immaginare un diverso destino, con quella potente preghiera che possa renderci di nuovo allibiti di fronte ad una insperata possibilità di pace. Come fu per quegli uomini che non credettero finché non videro. Buona Pasqua a noi e all’intera umanità.
Barbara Costa per Dagospia il 17 aprile 2022.
Non me ne vogliano i credenti, ma Cristo a Pasqua risorge pure a letto. Non c’è scena, episodio, brano della vita di Gesù che non sia riprodotto su biancheria per la casa e da letto, e prodotti da bagno, e per cucinare e lavare. Non c’è passo dei Vangeli rimasto immune da tale mercificazione, comprese le pagine che narrano la Crocifissione, e Passione e Resurrezione di Gesù.
Perfino il Golgota è tema, è ornamento di piumoni e coperte come pure di blanket (coperte indossabili, pur unisex, con maniche e cappuccio o meno) e di ogni misura si abbia bisogno. Perfino l’Ultima Cena diventa tappeto e sollievo a piedi stanchi e impantofolati, tappeti celesti calpestati da piedi bagnati appena usciti dalla doccia, e dove riporre gli abiti sporchi? Non c’è intimo e il più puzzolente che non possa giacere in cesti-biancheria convertiti a predicanti versetti biblici, insegnamenti cristiani, moniti divini.
Gesù sulla croce si stilizza e si trasforma in un porta-asciugamani, teli che hanno i più solenni atti della Bibbia lì sopra raffigurati: larga è la scelta per quaresimali e pasquali corredi che possono devoti partire dalla chiamata di Pietro, poi proseguire con la chiamata degli altri Apostoli, poi con la predicazione e i miracoli di Gesù, e la sua entrata a Gerusalemme. Con molteplici passaggi biblici si possono vagliare copridivani e poltrone e copri-sedie, e plaid, e lenzuoli, e pertanto costruire il più variopinto corredo al credente più confacente. Alla stessa e però nettamente opposta maniera, il più svergognato miscredente può lavarsi le mani e il pube e tutto il corpo col Gesù "ridotto" a saponetta.
Se l’arredo a tema sacro pasquale non è solo a ramo cattolico ma copre a pari criterio tutte le Pasque della Cristianità (e se non tutte le etnie in ogni caso Gesù su tale biancheria e oggettistica è raffigurato pure in versione afro) credente che mi leggi copriti gli occhi perché se non lo sai ti dico che la desacralizzazione tocca – e da tempo – ambiti proibitissimi quali preservativi e dildo.
Se le sacre immagine e parola di Gesù fregiano (anche a meme) sofà e cuscini, esistono condom sulla cui confezione inneggia il cristiano ammonimento se non ad astenersi se non altro a fornicare senza procreare. E ci sono Gesù bambolotti gonfiabili di ogni altezza e fattezza. I simboli cristiani – sopra tutti la croce – danno forma (e per i più fetish e impudentemente empi altresì modo) a dildo il cui fine non credo sia sempre e solo di irriverente suppellettile.
Dio Padre mandò Cristo all'inferno: il mistero, perché Gesù è resuscitato solo il terzo giorno. Renato Farina su Libero Quotidiano il 17 aprile 2022
Anticipo il tema. La Pasqua è la Resurrezione. E questo lo capiamo tutti, credenti o no. Ma che aveva da fare Gesù Cristo il Sabato Santo? Aveva una missione anche da cadavere. Sul serio. Ma tutto questo è, tra i dogmi, il meno esplorato dal popolo, fedele o infedele che sia. Lo recita il Credo: «Discese agli Inferi». Ma a far che? Il Credo non lo dice, e neppure il Vangelo. Ne parla in modo simbolico l'Apocalisse, lo raccontano i padri della Chiesa, in particolare San Gregorio Magno, così almeno dicono le enciclopedie. Quando il corpo di Cristo sta nel sepolcro, il suo spirito se ne va. E dove? Non in Paradiso, non a gustare il premio del suo sacrificio, ma negli inferi. Diciamo pure all'inferno. Porta lì il suo cadavere, è lo spirito di un morto, con il corpo in necrosi.
A spingere ad occuparmene c'è una coincidenza che muove una sana curiosità proprio il mistero più misterioso del cristianesimo. Ieri, com' è noto, Benedetto XVI ha compiuto 95 anni: giusto il Sabato Santo. Ha ricevuto migliaia e migliaia di biglietti d'augurio. Io qui gli invio il mio. Ma insieme ad alcune domande. Chi più di lui può rispondervi? Non solo perché Papa emerito e grande teologo, ma perché c'è un destino nelle date: quando Joseph Ratzinger nacque, il 16 aprile del 1927, era giusto il Sabato Santo. Impossibile non abbia dedicato mente e cuore, con la sua logica incantevole e la purezza dei sentimenti, a questa circostanza storica precisa. Il giorno e mezzo in cui Gesù giacque nella tomba.
QUEL SABATO DECISIVO
Mi rendo conto. La mia domanda è da bambini. $ da quand'ero chierichetto che me la rifaccio. Perché? Che roba è questo Sabato Santo? Lo si vive come una mezza festa, si prepara la primavera della Pasqua. Ma non lo vissero così gli apostoli. E neppure Gesù stesso. Stava malissimo quel Sabato che ancora non si sapeva sarebbe stato Santo: credo abbia sofferto più ancora che il Venerdì.
Era proprio necessaria quella discesa, che abbiamo visto accadere a Don Giovanni nell'opera di Mozart, o è stata appunto un'esibizione un po' melodrammatica? Era già morto, la sua Croce compiuta, ci aveva salvati, invece non si è accontentato ed è sceso agli inferi. A fare che? E perché ci ha messo tutto questo tempo a scendere e a salire? Perché è risorto il terzo giorno e non il secondo? (Non dico dopo un'ora, altrimenti il suo corpo non avrebbe sperimentato il rigor mortis e neppure la necrosi. Il Figlio di Dio non sarebbe stato cioè fino in fondo, fino alla feccia, uomo, e chissà quanti avrebbero parlato di morte apparente - lo fa il Corano -, e dunque più di risveglio che di resurrezione). Ratzinger credo proprio abbia riflettuto su tutto questo sin da piccolo. Nato e battezzato in quel giorno: lo definirà da Papa «una terra di nessuno» tra la morte e la resurrezione: Egli sostiene che somiglia in tutto e per tutto al nostro tempo, alla condizione umana che ha sperimentato il genocidio, il Gulag e Hiroshima: il silenzio di Dio. $ impotenza dinanzi al male. O vi si odora la muffa fiorita della Pasqua? Una volta diventato, contro la sua volontà, Benedetto XVI, nella porzione recondita del suo cuore credo abbia compreso, mentre subiva - e peraltro ancora subisce - la persecuzione, la sua missione specifica, in fondo unica: Tu sei il Papa del Sabato Santo, il più misterioso dei giorni nella storia del cristianesimo, quello in cui gli inferi si rivelano nella loro verità di solitudine e morte assoluta, e però ricevono la visita di uno strano cadavere, che spezza le tenebre con la sua forza d'amore.
Il Sabato Santo, come il giorno delle dimissioni, una discesa agli inferi del nascondimento, ma anche della letizia. Questo testimonia Benedetto, successore di quel Pietro che più i tutti misurò l'angosciosa attesa di quel sepolcro pieno di morte e che non si svuotava per troppe ore. Finché lui, traditore come noi, poté dire a Cristo: «Sì, tu lo sai che Ti voglio bene». Gesù spirò ma aspettò un po' a raggiungere il buon ladrone in Paradiso. Sprofondò laggiù, dov' è pianto e stridor di denti, con l'irruenza luminosa di un Dio fatto uomo che ha accettato di essere abbandonato dal Padre e di morire, proprio per andare agli estremi confini dell'essere dove esso si scioglie nel nulla, per ribaltarlo in amicizia e vita. Ha sperimentato fino in fondo la pienezza dei sentimenti d'uomo, per cui non gli è stato risparmiato nulla.
Il Sabato Santo siamo noi, morituri. $ morto e stra-morto il Verbo di Dio fattosi uomo: ha accettato liberamente questo sacrificio di incarnarsi e patire. Ma la discesa agli inferi è stato quasi troppo anche per il Nazareno: ha vissuto la morte come ciascuno della nostra specie la visse e la vivrà, ma in più con il chiodo nel cuore umanissimo di lui che era consapevole di essere Dio ma che ancora non aveva sperimentato la potenza dell'amore che era Lui stesso. Non poteva lamentarsi, ha scelto liberamente quel calice, ma nemmeno Lui sapeva che il suo amore fosse tanto potente da sprofondare fin dove c'è il peggiore dei delinquenti, e scendere più in basso di tutto il male della storia, caricarselo sulle spalle, e vincere: spezzando la morte e la solitudine. Gesù uomo-Dio è capace di altruismo persino nella morte, oltre la morte, nel buio pesto, ci tende la mano, a noi creature morte dentro questo XXI secolo.
LA LEZIONE DI RATZINGER
Non sono cose che mi sto inventando, sto provando a sintetizzare un mistero come lo racconta Joseph Ratzinger, che alcune intuizioni ha attinto dall'amico cardinale Hans Urs von Balthasar, e siccome è mistero non è roba facile. Lo ammette lui stesso. Mi sono letto (almeno credo) tutto quanto prima da cardinale e poi da Pontefice ha detto e scritto sul tema e offre pagine meravigliose. Ma a un certo punto si lascia andare: «Rimane insoluta la questione di sapere che cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù "è disceso all'inferno".
Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo veramente». Dalle scritture apprendiamo che risorgerà il terzo giorno. Giona starà nel ventre del gigantesco pesce, al buio, tre giorni. «Vi sarà dato il segno di Giona» dice Cristo nel Vangelo. Vale come profezia per il Messia. Ma a far che finisce in quel ventre? A sperimentare la morte, la necrosi. L'essere cadavere tra i cadaveri. Solidale con gli uomini e con il nostro destino non solo nel morire ma nell'essere morti. Se non avesse fatto quel che ha fatto in fondo al catramoso abisso dell'inferno, la sua resurrezione sarebbe stata un fatto isolato, chi ci dice che non riguardasse solo lui. Invece è andato giù. Per tirarcene fuori. Citiamo Benedetto: «In quel "tempo-oltre-il-tempo" Gesù Cristo è "disceso agli inferi". Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell'uomo, dove non arriva alcun raggio d'amore, dove regna l'abbandono totale senza alcuna parola di conforto: "gli inferi".
Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E' successo l'impensabile: che cioè l'Amore è penetrato "negli inferi": anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L'essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l'amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell'ora dell'estrema solitudine non saremo mai soli: "Passio Christi. Passio hominis". In seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l'amore» (2 maggio 2010). Tutto è accaduto duemila anni fa in un fragoroso silenzio, dentro quel sepolcro. Il Sabato Santo quest' anno è cominciato per volere di Francesco venerdì alla Via Crucis, quando sulla guerra e la pace non ha detto nulla: ha lasciato parlare la Croce di quel Cristo che moriva e sprofondava giù, negli inferi. Per risorgere.
Gesù "non è morto di freddo": Sacra Sindone, il dettaglio che ribalta la storia. Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.
Gesù non sarebbe morto di freddo. La rivelazione arriva da un neurologo ormai in pensione. Patrick Pullicino, medico divenuto sacerdote, è convinto che Gesù sia morto per una fatale emorragia. A causarla la lussazione della spalla portando la sua croce. Non a caso la Bibbia descrive come Gesù cadde mentre portava la croce, prima che il suo fianco fosse poi trafitto dalla lancia di un soldato romano, provocando la fuoriuscita di "sangue e acqua".
Non solo, perché l'esperto è convinto di saper spiegare perché, come racconta il Vangelo di Giovanni, "sangue e acqua" sgorgarono dal corpo crocifisso di Cristo. A suffragare le sue teorie, spiega, gli studi sulla Sacra Sindone. Per Pullicino infatti la posizione della spalla lussata dell'uomo è significativa. Quest'ultima sarebbe lontana dalla sua posizione naturale, tanto che la mano destra si trova 10 cm più in basso della sinistra.
Proprio la tensione della crocifissione avrebbe causato a Gesù la rottura dell'arteria succlavia - un paio di grandi arterie nel torace che forniscono sangue alla testa, al collo, alle spalle e alle braccia. Che a sua volta avrebbe provocato un'enorme emorragia interna e poi la morte. "A causa di questo allungamento del braccio destro, anche l'arteria succlavia/ascellare destra è stata sottoposta ad allungamento, poiché era una delle uniche strutture intatte rimaste che collegavano il corpo e il braccio destro", ha detto secondo quanto riportato dal Telegraph. E ancora: "È probabile che il trasferimento del peso corporeo alle braccia durante l'inspirazione abbia causato un ulteriore allungamento dell'arteria succlavia destra. Il trasferimento del peso alle gambe durante l'espirazione avrebbe invertito questo allungamento".
Anticipazione da “Oggi” il 7 settembre 2022.
Ai tantissimi studi e alle molteplici teorie sulla Sindone se ne aggiunge un’altra rivelata dal settimanale OGGI, in edicola domani.
Ne dà notizia Luciano Sassi, restauratore di libri e documenti antichi anche per conto degli Archivi di Stato di Milano e Mantova, lo studioso che scoprì l’unica firma autografa conosciuta di Leonardo da Vinci.
Dopo 24 anni di ricerche (««L’argomento è molto delicato. E ci sono tanti mitomani in circolazione») Sassi spiega a OGGI la sua interpretazione del mistero: «Niente di soprannaturale.
Lo conferma un parallelo con la carta, che dopo l’invenzione della stampa era ottenuta da stracci di lino, la stessa materia del sacro lenzuolo, lavati nella calce o nella cenere.
A metà dello scorso millennio si cominciarono a costruire le cartiere vicino a corsi d’acqua inquinati da metalli. E i residui di ferro s’imbruniscono per ossidazione».
Nei libri trova immagini simili alla Sindone? «Sì, ma non è questo il punto. Diamo per scontato che si tratti del Nazareno. Dobbiamo prima esaminare com’erano a quel tempo gli inchiostri e che cosa fu spalmato sul cadavere, perché l’ossidazione sul sacro telo è di origine proteica, da materiale organico. Da olio, in pratica».
Sassi racconta come «nel tempo le sostanze grasse si ossidano, diventano di colore nocciola. Ed ecco dunque apparire sul lino le fattezze dell’Uomo della Sindone. Nei libri chiusi sugli scaffali avviene la stessa cosa: compaiono elementi che prima non si vedevano».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 15 aprile 2022.
Secondo un neurologo in pensione, Gesù sarebbe morto per emorragia fatale, dopo essersi lussato la spalla portando la sua croce. La Bibbia descrive in dettaglio come Gesù cadde mentre portava la croce, prima che il suo fianco fosse poi trafitto dalla lancia di un soldato romano, provocando la fuoriuscita di «sangue e acqua».
Secondo la leggenda, San Bernardo di Chiaravalle chiese a Gesù quale fu la più grande sofferenza non registrata della sua Passione. Gesù rispose: «Avevo sulla spalla, mentre portavo la mia croce sulla via dei dolori, una ferita grave che era più dolorosa delle altre e che non è registrata dagli uomini».
Gli studiosi concordano sul fatto che Gesù molto probabilmente si sia lussato la spalla destra quando cadde, portando la croce. Tuttavia, Patrick Pullicino, medico divenuto sacerdote, crede che alla fine possa essere stato ucciso da complicazioni legate a questa ferita.
Pullicino crede anche di poter spiegare perché, come racconta il Vangelo di Giovanni, «sangue e acqua» sgorgarono dal corpo crocifisso di Cristo.
Il Rev. Prof Pullicino, con sede a Londra, ha scritto un articolo scientifico sulla sua teoria e lo ha pubblicato sul Catholic Medical Quarterly. Ha analizzato il lavoro svolto da esperti forensi e medici sulla Sindone di Torino, detta anche Sacra Sindone, all'interno della quale fu avvolto Gesù dopo la crocifissione.
Per secoli si è discusso sull'autenticità della Sindone, che è stata conservata dal 1578 nella cappella reale della cattedrale di San Giovanni Battista a Torino, in Italia. Una delle reliquie più controverse del mondo cristiano, reca la debole immagine di un uomo il cui corpo sembra avere ferite da unghie ai polsi e ai piedi.
Alcuni credono che ci sia un legame fisico con Gesù di Nazaret. Per altri, invece, non è altro che un falso elaborato. Nel 1988, i test al radiocarbonio su campioni della Sindone hanno datato il telo al Medioevo, tra il 1260 e il 1390, ma studi più recenti negli anni 2010 contestano questa affermazione e sostengono invece che il lenzuolo di lino risalga al tempo di Gesù.
Osservando la debole impronta sulla sindone, che sembra mostrare una figura con le ferite della crocifissione, il rev. Prof. Pullicino ha affermato che la posizione della spalla lussata dell'uomo è significativa. Ha detto che è così lontana dalla sua posizione naturale che la mano destra si trova 10 cm più in basso della sinistra.
Secondo il rev. Prof. Pullicino, la tensione della crocifissione avrebbe causato a Gesù la rottura dell'arteria succlavia - un paio di grandi arterie nel torace che forniscono sangue alla testa, al collo, alle spalle e alle braccia. Che a sua volta avrebbe provocato un'enorme emorragia interna e, infine, la morte.
«A causa di questo allungamento del braccio destro, anche l'arteria succlavia/ascellare destra è stata sottoposta ad allungamento, poiché era una delle uniche strutture intatte rimaste che collegavano il corpo e il braccio destro», ha affermato, secondo il Telegraph.
«È probabile che il trasferimento del peso corporeo alle braccia durante l'inspirazione abbia causato un ulteriore allungamento dell'arteria succlavia destra. Il trasferimento del peso alle gambe durante l'espirazione avrebbe invertito questo allungamento».
«Questo articolo postula che nel corso di tre ore l'arteria succlavia si sia abrasa, lesa e la sua parete si sia attenuata fino a quando alla fine l'arteria si è rotta e ne è seguita un'emorragia abbondante».
GIAN GUIDO VECCHI per il Corriere della Sera il 15 aprile 2022.
«Uno scrittore diceva che "Gesù Cristo è in agonia fino alla fine del mondo"». Prima della Via Crucis del Venerdì Santo, Francesco cita uno dei Pensieri di Blaise Pascal. Il dolore del mondo, l'invasione dell'Ucraina e le tante guerre che devastano il pianeta, il mistero del male: «Noi viviamo questo schema demoniaco che ci dice di ucciderci l'un l'altro per la voglia di potere».
Questa sera il Papa tornerà a presiedere le meditazioni sulla Passione intorno all'Anfiteatro Flavio, tra migliaia di persone, dopo due anni da solo in una piazza San Pietro deserta di fedeli a causa della pandemia. E nel pomeriggio, dalle 14, Rai 1 trasmetterà nel programma « A Sua immagine » un'intervista a Francesco, coordinata da don Marco Pozza, della conduttrice Lorena Bianchetti. Inevitabile parlare anzitutto dell'invasione dell'Ucraina, le immagini spaventose di queste settimane.
Che sta succedendo all'umanità? «Non e una novità», sospira il Papa. «Il mondo è in guerra! Siria, lo Yemen...Poi, pensa ai Rohingya, cacciati via, senza patria. Dappertutto c'è guerra. Il genocidio del Ruanda venticinque anni fa... Perché il mondo ha scelto, è duro dirlo, ma ha scelto lo schema di Caino. E la guerra è mettere in atto il "cainismo", cioè uccidere il fratello».
Parole che richiamano ciò che Francesco aveva detto ai giornalisti nel volo di ritorno da Malta, il 3 aprile: «Ci sono stati dei grandi, Gandhi e tanti altri, che hanno scommesso sullo schema della pace. Ma noi siamo testardi! Siamo testardi come umanità. Siamo innamorati delle guerre, dello spirito di Caino. Non a caso all'inizio della Bibbia c'è questo problema: lo spirito "cainista" di uccidere, invece dello spirito di pace».
Si crea una sorta di circolo vizioso: «Io li capisco i governanti che comprano le armi, li capisco ma non li giustifico. Se fosse uno schema di pace, questo non sarebbe necessario», dice il Papa. Per questo, come diceva Pascal, Gesù è in agonia fino alla fine del mondo, «è in agonia nei suoi figli, nei suoi fratelli, soprattutto nei poveri, negli emarginati, la povera gente che non può difendersi».
La frase del filosofo francese, a proposito della durata dell'agonia, prosegue così: «Per questo non dobbiamo dormire durante questo tempo». Francesco invoca uno «schema di pace» nel senso della «conversione» evangelica: metanoia , nel greco dei Vangeli, significa alla lettera cambiare il modo di pensare, lo sguardo sul mondo. Così spiega: «Quando noi siamo davanti a una persona, dobbiamo pensare a che cosa parlo di questa persona: alla parte brutta o alla parte nascosta, più buona. Tutti noi abbiamo qualcosa di buono, tutti! È proprio il sigillo di Dio in noi.
Mai dobbiamo dare per finita una vita, no... Darla finita nel male, dire: "Questo è un condannato". Perché ognuno di noi ha dentro la possibilità di fare ciò che fanno questi, che distruggono gente, che sfruttano gente. Perché il peccato è una possibilità della nostra debolezza e anche della nostra superbia».
Lorena Bianchetti è la prima donna nella televisione italiana a intervistare il Papa. Fa notare a Francesco come nelle faticose trattative di pace per l'Ucraina non ci fosse neppure una donna.
«C'è una donna nel Vangelo della quale non si parla tanto - un po' en passant - ed è la moglie di Pilato», risponde il pontefice. Il riferimento è al processo di Gesù davanti al procuratore romano, nel racconto di Matteo, e all'intervento della donna che la tradizione delle chiese orientali ha santificato con il nome di Procla. «Lei ha capito qualcosa. Dice al marito: "Non immischiarti con questo giusto".
Ma Pilato non ascolta, "cose di donne"». Francesco considera: «Questa donna, che passa senza forza nel Vangelo, ha capito da lontano il dramma. Perché? Forse era mamma, aveva quell'intuizione delle donne. "Stai attento che non ti ingannino". Chi? Il potere. Il potere che è capace di cambiare il parere della gente da domenica a venerdì. L'"Osanna" della domenica diviene il "Crocifiggilo!" del venerdì. E questo è il pane nostro di ogni giorno. Ci vogliono le donne che diano l'allarme».
La storia del processo a Gesù: perché è stato crocifisso? Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2022.
Il Venerdì Santo è il giorno in cui si ricorda il processo e la condanna a morte di Gesù. Quali furono i capi d’imputazione? Cosa aveva fatto il rabbi di Nazareth, secondo i suoi accusatori? E di che cosa è stato giudicato colpevole?
Gerusalemme, aprile dell’anno 30, mattina. Il procuratore romano Ponzio Pilato non ha fatto una gran carriera, se si trova a governare una regione, la Giudea, ai confini dell’Impero guidato allora da Tiberio. Non proprio hic sunt leones, ma quasi. La scena, probabilmente, ha luogo nel Palazzo di Erode il Grande, sulla collina occidentale, vicino all’attuale porta di Giaffa.
Davanti al «pretorio», perché il procuratore lo giudichi, hanno trascinato un predicatore trentenne ebreo della Galilea, un rabbì di Nazaret, forse un rivoltoso, vai a sapere. Tale Yehoshua ben Yosef, nella forma abbreviata Yeshùa. Un’altra sentenza, una delle tante.
Pilato, in carica da quattro anni, non capisce quel popolo che disprezza, ricambiato. E non può immaginare che da quel giorno la sua scelta e il suo nome saranno legati al caso giudiziario più celebre e clamoroso della storia dell’umanità, da fare impallidire pure Socrate.
Un processo che si chiude in poche ore con la condanna alla pena capitale, nella forma più crudele e infamante: la crocifissione. Ma cos’ha fatto, per i suoi accusatori, Gesù? Quali sono i capi d’imputazione? Di che cosa viene giudicato colpevole?
Le fonti storiche e l’accusa falsa di deicidio
Duemila anni di analisi, migliaia di libri e interpretazioni spesso nefaste. La Chiesa cattolica ha le sue responsabilità, e sono enormi. Fino al Concilio Vaticano II è stata fatta gravare sul popolo ebraico l’accusa, insensata, di «deicidio», matrice dell’antigiudaismo che ha provocato secoli di persecuzioni e pogrom.
Come premette il cardinale Gianfranco Ravasi nel suo libro Biografia di Gesù, è bene anzitutto citare la dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 28 ottobre 1965, che ha finalmente segnato la svolta della Chiesa: «Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo». Accusa insensata, anche perché in questa vicenda sono tutti ebrei: Gesù come i suoi accusatori, quelli che gridano «crocifiggilo!» come Maria, i discepoli, gli evangelisti (solo su Luca c’è qualche dubbio, la tradizione parla di origini pagane, ma si ritiene più probabile fosse un ebreo ellenista di Antiochia), la comunità cristiana primitiva. A parte Pilato: che era l’unico, in quanto procuratore romano, a poter decidere la pena di morte.
E poi la ricostruzione storica non è facile. Il processo è attestato nelle Antichità giudaiche (XVIII) dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, che in un passo cita Gesù e scrive: «Dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo avevano amato». Anche lo storico romano Tacito, negli Annali (XV), scrive dei «tormenti atroci» inflitti da Nerone ai cristiani e spiega che questi «prendevano il nome da Cristo, condannato a morte dal procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio».
Per il resto, le sole fonti sono i quattro Vangeli, che tuttavia non sono stati scritti con un intento storico, leggono gli eventi alla luce della fede nella resurrezione di Gesù e si rivolgono a comunità particolari (Marco a un ambiente di origini pagane, Matteo a giudeo-cristiani della diaspora ellenistica, Luca al mondo greco-romano, Giovanni a quello greco) che spesso hanno rapporti difficili e polemici con l’ambiente ebraico dal quale si sono distaccati.
Ne è un esempio la relativa indulgenza con la quale è descritto Pilato. Filone d’Alessandria, grande filosofo ebreo dell’epoca, ne offre nel De Legatione ad Caium un ritratto un po’ diverso: «Un uomo per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, di violenze, rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate».
Giuseppe Flavio sempre nelle Antichità giudaiche, racconta le stragi di popolo ordinate da Pilato ai suoi soldati.
L’accusa e il primo processo davanti al Sinedrio
Comunque, nel racconto degli evangelisti i processi sono due. Il primo si celebra davanti al Sinedrio, parola greca che significa consesso, assemblea. Ad Atene era il collegio costituito da un magistrato e dai suoi assessori. Nella Gerusalemme del tempo era l’organo politico-religioso responsabile della amministrazione giudaica, molto relativamente autonoma, riconosciuto ma dipendente dall’autorità del potere romano occupante. Era composto da settanta membri più il sommo sacerdote che lo presiedeva. Vi erano rappresentate tre classi: i sacerdoti, gli anziani che appartenevano ad una sorta di aristocrazia laica e terriera e come in sacerdoti erano sadducei, di orientamento conservatore; e infine gli scribi, gli studiosi farisei, più aperti e progressisti, a dispetto della rappresentazione che ne fanno i Vangeli.
Nella notte del tradimento di Giuda, Gesù era stato arrestato nel podere detto Getsemani, «frantoio per olive», da una «folla con spade e bastoni» mandata dalle autorità del Sinedrio. Viene condotto davanti all’ex sommo sacerdote Anna e poi dal genero Caifa, sommo sacerdote in carica e quindi capo del Sinedrio. È a casa di Caifa che avviene la prima assise. I quattro Vangeli variano nel racconto, ma la sostanza non cambia. All’inizio lo accusano di aver detto «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», frase che peraltro Gesù aveva riferito a se stesso e «al tempio del suo corpo», nota Giovanni. Ma il momento decisivo è quando Caifa gli chiede: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Il Vangelo più antico, quello di Marco, che si ritiene scritto prima della distruzione del Tempio nel 70 a.C., riporta la risposta dell’imputato: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». È a questo punto che il sommo sacerdote si straccia le vesti e esclama: «Che bisogno abbiamo di altri testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». E l’assemblea del Sinedrio risponde: «È reo di morte!».
Quella di Caifa non è una reazione isterica, lo stracciarsi le vesti è un gesto rituale davanti a un’ignominia. Ma che ha detto Gesù di così grave? Ha risposto di essere il Messia atteso da Israele (Mashiah, «unto» con l’olio sacro e quindi consacrato: in greco Christós, Cristo) e, quel che è peggio agli occhi del Sinedrio, lo ha fatto citando un passo del profeta Daniele (7) che presenta nel «Figlio dell’uomo», una figura non solo terrena che partecipa misteriosamente alla natura divina. Ma c’è di più. Il testo originale greco di Marco riporta come risposta di Gesù «egò eimi», che in genere viene tradotto «io lo sono» ma alla lettera significa «io sono»: la stessa risposta di Dio quando Mosé ne chiede il nome, rivolto al roveto ardente sul monte Oreb, il tetragramma YHWH (Jod, He, Waw, He) che gli ebrei non pronunciano. «Il vangelo sfocia in questa sua autotestimonianza, che risolve ogni mistero e sarà causa della sua condanna», scrive il grande biblista gesuita Silvano Fausti nel suo commento a Marco: «Gesù sarà condannato non per testimonianza altrui, ma per questa sua rivelazione».
Lo nota pure Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret: «Non vi risuona forse Esodo 3,14?». In effetti. Per il Sinedrio ce n’è abbastanza, ma l’assemblea non ha il potere di emettere sentenze. Così Gesù viene portato da Pilato.
Il secondo processo davanti a Pilato
Dal Sinedrio al praetorium, il luogo del giudizio. Nel Vangelo di Luca si dice che Pilato, diffidente, cercò invano di scaricare il giudizio su Erode, procuratore della Galilea, che rimandò indietro l’imputato. In ogni caso, per ottenere la condanna, al procuratore romano della Giudea viene presentata dai rappresentanti dell’assemblea un’accusa più politica: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re». Sarà la motivazione finale della condanna, che veniva apposta sul braccio verticale della croce come monito per chiunque volesse ribellarsi al potere romano: «Il re dei Giudei», l’acronimo INRI che nella lingua latina dell’impero si ritrova in innumerevoli dipinti e sculture: «Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum».
La versione di Marco è la più asciutta. Pilato chiede: «Sei tu il re dei giudei?». Gesù risponde: «Tu lo dici». Pilato insiste, Gesù non risponde più nulla. Ma a Gerusalemme sono i giorni della Pasqua ebraica, per la festa il procuratore «era solito rilasciare un prigioniero» e in quel momento c’è anche tale Barabba, «si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio», insomma un rivoluzionario politico vero, probabilmente uno zelota. La scena è celeberrima: Pilato si rivolge alla folla, «volete che vi rilasci il re dei Giudei?», ma la folla «sobillata dai sommi sacerdoti» invoca invece Barabba. E a Pilato che domanda cosa fare di Gesù, «che male ha fatto?», la folla risponde: «Crocifiggilo!».
Il «crucifige!»
E qui c’è un problema serio: chi invoca Barabba e chiede la crocifissione di Gesù? Marco, il testo più antico, parla di «óchlos», in greco la «folla» o «massa», appunto, un gruppo di persone formato probabilmente da sostenitori di Barabba. È il solo Vangelo di Matteo a parlare di «laós», che significa «popolo» o «nazione». Tutti i maggiori biblisti e teologi sono d’accordo: è un’esagerazione di Matteo. Anzi, «un’amplificazione fatale nelle sue conseguenze», nota Joseph Ratzinger, che nel suo Gesù di Nazaret chiarisce: «Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo a chiedere la morte di Gesù? La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco».
Se Marco parla di folla, Giovanni indica i «giudei» nel senso dell’ «aristocrazia del tempio», Benedetto XVI è definitivo: «Il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell’amnistia pasquale, si associa ad essi la “massa” dei sostenitori di Barabba». Resta, storicamente, la tendenza dei primi cristiani «ad attenuare le responsabilità di Pilato e a marcare quelle giudaiche», come nota Ravasi. Matteo soprattutto, il più polemico con i suoi connazionali, il quale riporta la scena del procuratore che se ne lava le mani e dice: «Non sono responsabile di questo sangue, vedetevela voi!». E aggiunge - anche qui, solo lui tra gli evangelisti - la risposta del «popolo», cui arriva a far dire: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli».
Resta soprattutto il fatto che la responsabilità della sentenza di morte è del procuratore romano, Marco scrive: «Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso».
L’esecuzione
Gesù viene consegnato alla guarnigione romana per essere flagellato. È il racconto della Passione che in buona parte del mondo, il Venerdì Santo, scandisce la Via Crucis. I romani usavano un flagrum a corde grosse con pezzi di osso e di metallo. La derisione, le torture. Nella salita al Golgota, i soldati fermano un tale Simone di Cirene perché porti il patibulum, l’asse trasversale della croce. Quello verticale è già piantato sul luogo dell’esecuzione. Il condannato viene appeso alla croce, inchiodato per i polsi. La parola greca agonía significa lotta, per un crocifisso è lunga e dolorosa. Alla fine, un soldato tende a Gesù agonizzante una spugna intrisa di «aceto», in realtà un vino mescolato con acqua che soldati e mietitori usavano per dissetarsi: quello che popolarmente appare come l’ultimo gesto di scherno potrebbe essere invece un gesto estremo di pietà. «Tetélestai», è l’ultima parola di Gesù riportata da Giovanni: «”Tutto è compiuto”, disse. E, chinato il capo, spirò».
Giuda "non era un traditore". Teoria choc: "Ecco cosa voleva davvero", si ribalta la storia di Gesù. Libero Quotidiano il 14 aprile 2022.
E se Giuda non fosse mai stato un traditore? Stando agli ebraisti Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri, quello che è passato alla storia come il "traditore" avrebbe cercato in realtà di indurre i sacerdoti a riconoscere e consacrare Gesù come Messia. Una teoria non del tutto nuova, come riporta Avvenire: era stata avanzata anche dallo scrittore israeliano Amos Oz in un libro del 2014. Nel saggio dei due ebraisti su citati, però, vengono elencate anche delle prove a sostegno di questa tesi.
Una delle prove della fedeltà di Giuda, secondo il saggio, starebbe nell'uso di un verbo greco in particolare. Un verbo che si è sempre pensato designasse il cosiddetto "tradimento" e che invece indicherebbe solo una "consegna". Cambia, a questo punto, anche la percezione e l'interpretazione del bacio di Giuda, il quale non sarebbe più un subdolo segno di riconoscimento ma l'augurio del discepolo al maestro.
Un dubbio, però, potrebbe venire se si pensa ai noti "30 denari": perché mai Giuda avrebbe accettato un simile compenso se la sua intenzione era solo quella di una semplice "consegna" ai sacerdoti per sollecitare l'avvento del regno promesso? A tal proposito Roberto Beretta su Avvenire scrive: "I due studiosi avanzano qui l'analogia con un passo del libro di Zaccaria, tra l'altro di poco successivo al brano (citato dall'evangelista Matteo) che descrive l'ingresso del Messia a Gerusalemme; in esso il profeta si rivolge a un gruppo di sacerdoti indegni reclamando la sua paga e costoro gli pesano proprio 30 sicli d'argento, che però subito dopo egli stesso - su richiesta di Dio - getta nel tesoro del Tempio…".
Roberto Beretta per “Avvenire” il 14 aprile 2022.
Un rivoluzionario o un traditore. Uno zelota, un appartenente alla setta dei sicari, un segreto complice di Gesù, no: un deicida. Il simbolo stesso del male ovvero lo strumento divino per il compimento della salvezza... Su Giuda Iscariota le arti e la letteratura, lo spettacolo e la storia, la teologia e l'esegesi hanno accumulato in due millenni una serie quasi infinita di tesi, derivanti certamente dalla scarsità di dati - e perciò dalla libertà di interpretazioni - sulla sua figura, ma soprattutto dal mistero intrigante del suo ruolo maledetto eppure per tanti versi necessario (e viceversa).
Dunque cade su terreno già aratissimo il piccolo seme di questo Yehudah Giuda, breve saggio degli ebraisti Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri (Castelvecchi, pagine 54, euro 9) che definisce da subito la sua posizione nel felice ossimoro del sottotitolo: Il traditore fedele.
L'uomo di Keriot - ecco l'ipotesi, qui subito svelata - avrebbe cercato di indurre il Sinedrio e i sacerdoti a riconoscere e consacrare Gesù come Messia, aderendo di fatto al consenso dimostrato dal popolo al Nazareno nel momento del suo ingresso a Gerusalemme, e sarebbe stato invece egli stesso tradito dalla decisione dei capi ebrei di trasferirlo all'occupante romano: l'unico che aveva il potere di farlo uccidere.
La teoria non è forse inedita (una simile la avanza il romanziere israeliano Amos Oz nel libro del 2014 intitolato appunto al dodicesimo apostolo), ma in questo saggio ha il merito di essere accreditata con alcuni oggettivi riscontri derivati dalle fonti.
La prima è l'uso del verbo greco che designerebbe il cosiddetto 'tradimento', e che invece indica semplicemente una 'consegna'. Giustamente gli autori fanno notare che in un brano della prima Lettera ai Corinzi lo stesso identico verbo viene d'abitudine tradotto in due modi diversi: «Ho ricevuto dal Signore - scrive Paolo - quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito... ».
Due versioni per una medesima voce verbale che «non solo nei testi neotestamentari, ma anche in altri scrittori antichi, non significa mai 'tradire', ma sempre soltanto 'consegnare'».
In quei giorni vicini alla Pasqua, la storica attesa messianica del popolo ebraico (della quale partecipavano gli stessi discepoli di Cristo) veniva a coincidere con una serie di situazioni riguardanti il Nazareno che avrebbero potuto accreditarlo davvero come il re atteso: «Gli stessi gesti simbolici - notano Morselli e Maestri che avevano accompagnato il suo ingresso a Gerusalemme (canti, mantelli distesi, rami agitati a festa) mostravano che il popolo lo considerava Re Messia anche prima del riconoscimento e della proclamazione ufficiale da parte delle autorità templarsi con il rito dell'unzione».
E tuttavia l'unzione era necessaria, come indicavano i precedenti biblici per i re di Israele; per questo si può pensare che «l'intenzione di Yehudah possa essere stata proprio quella di far consacrare Gesù in modo regolare da coloro che realmente avevano l'autorità di farlo» (tale ipotesi - è da notarsi en passant - ha anche il pregio di far rileggere in modo del tutto diverso l'episodio appena precedente dell'unzione 'irrituale' di Betania, quando cioè Giuda insorge contro lo spreco della donna peccatrice che versa balsamo su Cristo).
Ma i 30 denari, allora? L'obiezione è inevitabile: se l'intenzione fu la semplice 'consegna' ai sacerdoti per sollecitare l'avvento del regno promesso, perché Giuda avrebbe accettato quel compenso - tra l'altro una somma piuttosto misera?
I due studiosi avanzano qui l'analogia con un passo del libro di Zaccaria, tra l'altro di poco successivo al brano (citato dall'evangelista Matteo) che descrive l'ingresso del Messia a Gerusalemme; in esso il profeta si rivolge a un gruppo di sacerdoti indegni reclamando la sua paga e costoro gli pesano proprio 30 sicli d'argento, che però subito dopo egli stesso - su richiesta di Dio - getta nel tesoro del Tempio…
Un precedente che, nel complesso contesto escatologico in cui viene inserito, ha un significato assai diverso dalla semplice «venalità del traditore (...) ulteriore elemento negativo nei confronti di Giuda».
Se l'Iscariota è dunque un semplice 'consegnatore' - oggi diremmo forse 'facilitatore' - si possono giustificare pure altri particolari del racconto evangelico. Per esempio come mai gli altri undici non si siano ribellati (Pietro era pur armato, si sa) allorché durante l'ultima cena Gesù rivela chi è colui che lo ‘consegnerà'.
Oppure il celeberrimo bacio, che non sarebbe più un subdolo segno di riconoscimento bensì l'augurio del discepolo («Amico», lo definisce in quel contesto Gesù) al Maestro che andava verso la realizzazione del più volte annunciato regno. Caifa e gli altri tuttavia deludono le aspettative di Giuda e a loro volta 'consegnano' il Galileo a Pilato.
A tal proposito gli autori del breve saggio avanzano qualche motivazione, tra cui la più credibile sembra quella che - se avessero davvero unto Gesù come Messia i sacerdoti avrebbero eccitato il popolo a una rivolta anti-romana e dunque provocato la conseguente repressione; invece è «meglio che muoia un solo uomo». Infine si capisce come mai, constatato l'esito completamente rovesciato delle sue azioni, l'Iscariota disperato abbia scelto di uccidersi.
Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 17 aprile 2022.
La Pasqua si avvicina con tutta la gioiosa irruzione, sul versante gastronomico, di sapori che parlano di primavera. Tantissime le ricette, molte delle quali cariche di significati simbolici: l'agnello ne è certamente un esempio, ma ancora di più lo sono le uova. Una rappresentazione altissima del loro significato simbolico si trova in un'opera di Piero della Francesca, la Pala Montefeltro conservata al Museo di Brera: la Madonna in trono con Gesù Bambino in grembo circondata da Santi e da Angeli.
Lo sfondo è una abside monumentale con un grande uovo di struzzo sospeso sul capo della Vergine il quale, secondo consolidate tradizioni iconografiche, è simbolo dell'infinito e della vita. Un concetto che si è trasferito non a caso nell'Uovo di Pasqua. Il dono pasquale delle uova (in questo caso svuotate e colorate) esiste da tempi immemorabili nella tradizione ortodossa, uova sode con ghirlande di fiori erano un rito diffuso nella Germania medioevale.
LE ORIGINI
L'impiego salato delle uova, non è peraltro meno diffuso anche nella tradizione regionale italiana, come è il caso della Pasqualina genovese. La sua origine è molto antica e si fa risalire agli entremets che venivano serviti nei banchetti di corte tra le portate principali, anche per consentire spettacoli di musica e di danza, o esibizioni di giullari.
Secondo Paolo Lingua, grande storico della cucina genovese, il ripieno, a parte le uova, prevedeva le biete o, in una versione più alta, i carciofi, secondo una tradizione di magro che la differenziava dalla torta Fieschi, che era invece ripiena di carne. «In antico - spiegano da Renato, luogo mitico della pasta fresca nel centro di Santa Margherita Ligure - questa torta prevedeva di stendere la sfoglia e di impiegarne trentatré strati, richiamo simbolico agli anni di Cristo, ma oggi si gioca più leggeri».
Enzo Piccirillo, ultima generazione della Masardona, mezzo secolo di storia, vertice della pizza fritta a Napoli, spiega «tutte le nostre torte salate hanno una duplice funzione, a tavola in famiglia, ma anche nelle scampagnate. I Tortani e i Casatielli, sono simili, ma non uguali, tuttavia. Certo, ci sono le uova, i formaggi, i salumi e il formaggio, ma nel Tortano, di origine più borghese, le uova entrano nell'impasto, mentre nel Casatiello dalla tipica forma a ciambella sono apposte con delle croci di pasta sulla sommità, come simbolo della corona di Cristo».
GLI ABBINAMENTI
Nelle scampagnate di Pasqua difficile prescindere dal Fiadone, un prodotto da forno con la caratteristica forma a raviolo, diffuso tra Abruzzo e Molise. Nella sua composizione entrano uova, vino e formaggio (il classico rigatino, della famiglia del pecorino) con un abbinamento felice coi salumi. Sempre formaggio anche nei Flaounes di Cipro, molto buoni anche freddi.
L'Umbria delle torte salate pasquali si racconta con la storica pizza al formaggio. «Noi la chiamiamo anche crescia - spiega Raffaella Fuschiotto, storica fornaia di Montegabbione, un borgo di poche anime a due passi dall'antico castello feudale di Montegiove nell'Alto Orvietano - Oggi si tende ad alleggerire tutto, e quindi pepe e strutto sono pian piano quasi spariti, ma questa torta da scampagnate, buona tutto l'anno, deve accompagnare la corallina, la lonza, meglio ancora, e soprattutto chiamare il vino, come dicevano i nostri nonni».
NON DI SOLO PANE. Il digiuno del Venerdì Santo e le nuove penitenze alimentari. CLAUDIO FERLAN su Il Domani il 14 aprile 2022.
Venerdì Santo, giorno della passione e morte di Gesù, è per i cristiani (non solo i cattolici) praticanti il giorno della penitenza per eccellenza, e per una buona penitenza le prime cose da fare sono state per secoli il digiuno e l’astinenza.
Digiuno significa stare lontani da qualsiasi cibo e qualsiasi bevanda (per l’acqua può valere l’eccezione) per un periodo determinato: un mese, un giorno, una parte della giornata.
Astinenza significa togliere dalla tavola specifici alimenti, di norma quelli considerati più appaganti e nutrienti (insaccati, affettati, bistecche, dolci, alcolici).
CLAUDIO FERLAN. È ricercatore nell’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Con il Mulino ha pubblicato Dentro e fuori le aule. La Compagnia di Gesù a Gorizia e nell’Austria interna (2013), I gesuiti (2015), Sbornie sacre, sbornie profane. L’ubriachezza dal Vecchio al Nuovo Mondo (2018), e Venerdì pesce. Digiuno e cristianesimo (2021).
Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 12 aprile 2022.
Togliamoci subito il dente e poi torniamo alle tradizioni. Siete vegetariani, detestate la strage di animali che si ripete ogni anno, avete esigenze dietetiche, altro: insomma, qualunque sia la motivazione per evitarlo, ma vi attira in bocca il gusto di agnello a Pasqua, eccovi serviti. Nei supermercati e nei negozi specializzati è facile trovare la carne vegetale.
Ormai c'è chi riproduce sapore e consistenza degli ovini mixando soia, tofu, tempeh (fagioli di soia fermentati e speziati assieme al seitan, l'impasto di glutine di frumento o di farro). Una start up svizzera si chiama Planted - ha creato gli straccetti di carne non carne che imitano l'agnello (seppure meno pungente nel sapore). Sono fatti con acqua, proteine dei piselli, olio di colza, fibre di piselli, spezie, sale, lievito e vitamina B12.
Nonostante il ricorso alla carne sintetica, in questa sola settimana il consumo di agnello sarà comunque il 40% del totale dell'intero anno (4,5 milioni di chili nel 2021). Perché sulle tavole di Pasqua da sempre la tradizione pretende il piccolo della pecora non ancora svezzato (attenzione, non il capretto).
Nell'antichità il suo sacrificio placava l'ira degli dei e indicava l'arrivo della primavera; nel mondo ebraico la Pesach è il simbolo della liberazione dall'Egitto grazie a Mosè; per i cristiani rappresenta Gesù che assume su di sé i peccati del mondo; nella tradizione musulmana, l'Aïd al Kébir è la festa del Sacrificio in ricordo di Abramo. Ovviamente c'è anche una motivazione più pragmatica che accomuna tutti: i pastori nomadi dovendo cambiare pascoli con l'arrivo della buona stagione, preferivano sopprimere gli esemplari maschi (inutili, non producendo latte).
Ogni regione italiana ha le sue ricette tipiche, spesso più o meno simili. Come nel caso dell'agnello brodettato in uso a Roma, Abruzzo e in alcune zone della Puglia. Solitamente è preparato appassendo la cipolla con prosciutto e burro, insaporendo con pepe e noce moscata e aggiungendo i pezzi di agnello.
Moltissime ricette prevedono tra gli ingredienti le uova, simbolo di rinascita e continuità (Cristo risorto, appunto) e perfezione. Inutile dire che i grandi chef amano invece sbalordire con le loro innovazioni. A Chiusi Katia Maccari (1 stella nel suo I salotti) con il ragù di agnello condisce i fusilloni con carciofi cotti sotto la brace e ricotta affumicata. A Roma lo stellato Domenico Stile (Enoteca la Torre a Villa Laetitia) prepara l'agnello alla Villeroy, salsa di champignon alla senape e millefoglie di patate.
Comunque decidiate di prepararlo, la prima cosa da fare è eliminare l'intenso odore con l'ammollo per un'intera notte in acqua e limone. Tolto l'odore, è bene marinare i tagli scelti (la sella, il carré con le costolette e il cosciotto, la spalla, lo stinco, il collo e il petto) cosparsi con erbe aromatiche (timo, rosmarino e menta). Alla scuola de La Cucina Italiana suggeriscono di aggiungere anche bacche di ginepro, pepe nero in grani, foglie intere di salvia e alloro, una cipolla di media grandezza a fette sottili e due spicchi di aglio interi. Prima di coprire il contenitore, vanno versati due bicchieri di vino bianco e mezzo bicchiere di olio extra vergine di oliva. Nella decina di ore in cui la carne resta in frigo, è bene girarla di tanto in tanto per farla marinare uniformemente.
Gemma Gaetani per “La Verità” l'11 aprile 2022.
La battuta definitiva sull'uovo di Pasqua è in un meme che circola in questo periodo sui social network, ritrae una tavoletta di cioccolato e recita: «L'uovo di Pasqua del terrapiattista». Comicità a parte, l'uovo di Pasqua, prima un vero uovo, oggi un uovo di cioccolato con dono all'interno, è un'istituzione del cibo festivo italiano, non meno di colomba e panettone.
Festivo e, non da oggi ma ancora oggi, cristiano. Intendiamoci, la potente simbologia dell'uovo come contenitore di vita non nasce con la cristianità. L'uovo, simbolo cosmogonico nell'India, Africa, America ed Europa antiche indagato anche da Mircea Eliade, diventò poi rappresentante della rinascita della natura in primavera. Con questo significato si donavano le uova di gallina a fine inverno già in epoca pre cristiana. Poi, la cristianità adattò la simbologia a significare anche la rinascita, o meglio la Resurrezione, di Gesù.
In Mesopotania i primi cristiani, scrive Wilson D. Wallis in Culture and progress, coloravano con erbe le uova di rosso in ricordo del sangue versato da Gesù sulla croce. Ancora nel Medioevo, per la festa della Resurrezione ossia la Pasqua si donavano uova di gallina, magari decorate, che con il tempo, gli influssi culturali che vedremo, il consumismo, la civiltà dell'abbondanza, la rivisitazione di usanze e ricette e la laicizzazione di festività in precedenza religiose o la semplice evoluzione di tradizioni storiche sono diventate di cioccolato.
E quello che, accanto ai cristiani che festeggiano la Resurrezione, altri celebrano oggi non è la rinascita di Gesù, ma solo quella primaverile: l'uovo non rappresenta la perpetuazione divina della vita di Gesù ma il guscio di un regalo. Oltre che la lavagna ideale per la brandizzazione. Brandizzazione che avviene a due livelli. Il primo trasforma l'uovo di Pasqua in uovo di Pasqua di, per esempio, Ernst Knam. Che il sommo pasticcere tedesco-milanese firmi il suo uovo è comprensibile ed è bello scoprire, ogni anno, la sua nuova collezione pasquale.
Collezione pasquale? Sì, anche chef e pasticceri ideano e propongono novità in virtù delle stagioni e di vari altri appuntamenti, non solo gli stilisti. Il secondo livello è quello della brandizzazione da parte di outsider del food professionale, fenomeno di sfruttamento commerciale di un nome famoso per altri motivi. C'è poi l'uovo fatto d'altro, come l'uovo di Pasqua che in realtà è un caciocavallo pieno e con una soppressata del Vallo di Diana all'interno, nascosta nel cacio come facevano gli emigranti meridionali del Novecento per portare gli insaccati all'estero.
Si chiama Uovo di Cacio Emigrante e lo fa il Caseificio S. Antonio di Sala Consilina. C'è anche il Cacio Uovo Di Santo, un caciocavallo a forma di uovo di Pasqua e come tale incartato ideato nel 2012 dal caseificio Di Santo di Cesa. Elaborare una materia atipica, alimentare o meno che sia, cioè non usare uova vere e nemmeno uova di cioccolato può sembrare un'idea tutta odierna, ma in realtà già nel Medioevo (oltre a decorare con fiori e foglie uova vere) i nobili si scambiavano uova artificiali rivestite di platino, oro e argento.
Usanza magnificata dall'orafo Peter Carl Fabergé che nel 1885 fu incaricato dallo zar Alessandro III di Russia di creare per la Pasqua un uovo gioiello per la zarina Maria Fëdorovna. Egli ideò un uovo di platino smaltato di bianco contenente un tuorlo d'oro che a sua volta conteneva due regali, una piccola corona imperiale con rubino a forma d'uovo e una gallinella d'oro.
L'uovo di Fabergé divenne leggendario, da allora ne sono state creati tanti altri, tutti meravigliosi, e sulla scia di questa leggendarietà si è diffusa - gli influssi culturali di cui sopra - la tradizione del dono all'interno dell'uovo di cioccolato.
L'impatto sul pesoforma dell'uovo di Pasqua di cioccolato non è eccessivo, poiché lo mangiamo solo a Pasqua. Inoltre, lo spessore del cioccolato modellato a uovo è circa 1/4 di quello di una tavoletta.
Un uovo può pesare tra i 150 e i 300 g e le sue calorie dipendono dal cioccolato col quale è fatto. Cioccolato extrafondente, fondente, al latte, bianco: sono questi i gusti classici (anche se si sta diffondendo la moda di rivestire l'interno o l'esterno del cioccolato di semi oleosi o frutta secca).
È importante non esagerare e mangiarne un tocchetto, da 20 a 40 g, dose ideale di cioccolato in generale. Un tocchetto di cioccolato è il classico quadrato in cui sono divise le tavolette. Il cioccolato fondente, con percentuale di cacao tra 43 e 69%, ha 546 cal ogni 100 g. Il cioccolato extrafondente, cacao dal 70%, ha 550 calorie, il cioccolato al latte 535 e il cioccolato bianco 539. Consumare 42 grammi di cioccolato con 81% di cacao cioè extra fondente al giorno, abbinati ad una buona dieta dimagrante, fa perdere il 10% in più di peso rispetto alla diminuzione ponderale legata soltanto ad un regime ipocalorico.
Ciò dipende da un antiossidante che brucia i grassi e migliora la massa muscolare, cioè il flavonolo epicatechina. L'esercizio aerobico aumenta il numero di mitocondri nelle cellule dei muscoli e l'epicatechina del cacao fa la stessa cosa. L'ideale, comunque, resta coniugare il consumo di (poco) cioccolato a una dieta a basso impatto calorico e/o l'esercizio sportivo.
Se aggiungiamo cioccolato, magari in grandi quantità, a una dieta che ci fa ingrassare, ovviamente non potremo perdere peso Però, nei giorni di Pasqua, che nella specificità cristiana sanciscono anche la fine della Quaresima, non è il caso di stare a pesare l'alimentazione con la bilancia. Il cioccolato, sempre un po', fa bene anche per altri motivi: ha effetto antidepressivo, perché aumenta la produzione di endorfine e serotonina, ha effetto antietà perché i suoi flavonoidi e antiossidanti migliorano la compattezza della pelle, contrastano i radicali liberi e l'invecchiamento cellulare, fa bene al cuore. Insomma, buona Pasqua e Buon uovo di Pasqua!
Marino Niola per la Repubblica l'11 aprile 2022.
I riti vanno in Rete e la Passione diventa virale.
Nell' era di Internet le processioni della Settimana Santa vengono seguite da milioni di internauti che da ogni parte del mondo assistono in tempo reale a quello spettacolo del sacro che trasforma piazze e borghi d' Italia in teatri di strada per anime sensibili. I rituali pasquali più celebri e scenografici sono diventati negli ultimi anni dei veri e propri "monumenti" immateriali, in cui cultura di massa e cultura popolare, antiche liturgie e nuove tradizioni hanno intrecciato i propri segni. In Italia sono più di tremila le rappresentazioni popolari della Via Crucis.
Dagli Incappucciati di Sorrento che sfilano come ombre nella notte profumata della Costiera, allo scoppio del carro di Firenze che incendia il duomo più bello del mondo come una santabarbara. Dai Perdoni di Taranto, con i penitenti scalzi che avanzano dondolandosi nel labirinto della città vecchia, ai Pasquali di Bormio, in Valtellina, dove le portantine allegoriche a sfondo religioso vengono portare a spalla fino al centro del paese.
Dai Misteri di Procida, che fanno calare sull' isola un velo di luttuosa solennità, alla Corsa della Resurrezione di Tarquinia, dove la statua di Gesù viene fatta correre per le vie della città. Dal drammatico Iscravamentu (Deposizione) di Alghero, con la statua snodabile del Redentore che il Venerdì Santo viene staccato dalla croce e portato in processione dalle Confrarías, le confraternite di incappucciati venute da tutta la Sardegna e anche dalla Catalogna. Fino al Vasa vasa di Modica - che ha ispirato il soprannome dell' ex presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro - dove la domenica di Pasqua la statua della Madonna incontra quella del Figlio risorto per la tradizionale vasata, il bacio di giubilo che trasforma il rito in festa.
Sono migliaia i siti, ma soprattutto le pagine su social network come Facebook e Instagram, nonché le piattaforme di video sharing come Vimeo, impegnati in questi giorni nella diffusione urbi et orbi delle nostre ritualità religiose tradizionali. Con l' effetto di dilatare lo spazio festivo trasformandolo in spazio immateriale.
In un nuovo luogo di condivisione, in grado di mettere insieme attori e spettatori della cerimonia, dando vita così a forme inedite di comunità. In questo senso la straordinaria capacità di connessione della rete consente di allargare i confini materiali del Paese anche a chi ne è lontano, come nel caso degli emigrati e di ricostruire delle collettività virtuali.
Non a caso molti comuni, come Caltanissetta, Canosa di Puglia, Mantova e tanti altri, ricorrono alla diretta streaming per documentare l' evento e trasformare il locale in glocale. La comunità materiale in community virtuale. Il face to face paesano in face to facebook planetario.
Così il richiamo dei rituali della Settimana Santa, che a uno sguardo superficiale potrebbe apparire un arcaismo destinato ad essere rottamato dalla secolarizzazione imperante, trova nuove ragioni di popolarità. Forse è proprio la società della connessione permanente, sempre all' inseguimento affannoso dell' attimo fuggente, a produrre una domanda di raccoglimento, di pace interiore, di tempi lunghi, come quelli del rito, del sacro, del legame comunitario. Una tregua con noi stessi e con gli altri.
Il fatto è che il nostro quotidiano è sempre più convulso, superficiale, fatto di relazioni occasionali. Un' esistenza all' insegna del last minute, una rincorsa continua che ci lascia giusto il tempo per guardarci allo specchio, ma ci sottrae quello per guardare dentro di noi.
Ebbene, in un contesto del genere, il rito valorizza le ragioni dell' essere rispetto a quelle dell' avere. Dà forma a quella domanda di profondità che resta per lo più inevasa in fondo al nostro cuore. Ci fa sentire protagonisti di un tempo diverso da quello quotidiano, finalmente scandito da relazioni più vere.
Realizzando così il significato più antico della parola religione che, sin dalla sua etimologia, ha a che fare con l' essere insieme, con la solidarietà, lo scambio, la comunione, il legame. È questa insomma la ragione del fascino della Settimana Santa reale e virtuale. È come se il passo lento e severo dei riti della Passione ci mostrasse la possibilità di un cambio di velocità, che rigenera la parte più profonda di noi. Lo spirito del tempo festivo ci fa essere ciò che non siamo tutti gli altri giorni. E in questo senso ci fa vivere un' autentica esperienza di resurrezione. Anche con l' aiuto di Internet. Che lascia intravvedere la possibilità di un' ecumene digitale.
Puglia e Basilicata, ecco i Riti della Settimana Santa tra tradizione e fede. Da Taranto a Gallipoli, passando per San Marco in Lamis fino a Barile in Lucania: la tradizione delle processioni e dei cortei che rievocano gli ultimi momenti della vita di Cristo in occasione della Pasqua. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.
La Gazzetta del Mezzogiorno vi racconta i riti della Settimana Santa tra tradizione e fede vissuti in Puglia e in Basilicata. Da Taranto a Gallipoli, passando per San Marco in Lamis fino a Barile in Lucania: la tradizione delle processioni e dei cortei che rievocano gli ultimi momenti della vita di Cristo in occasione della Pasqua.
QUI TARANTO
Escono «le Perdùne» e la città si ferma. Dopo i due anni di lockdown imposto dalla pandemia tornano i riti della Settimana Santa tarantina. Una tradizione secolare nata quando le strade erano illuminate da lampioni a petrolio, sposata ora alle più moderne tecnologie. Oggi, Giovedì Santo, alle 15 in punto, inizia il pellegrinaggio con l’uscita della “prima posta” di perdoni dalla chiesa del Carmine. I confratelli partecipano indossando l'abito di rito, scalzi e con il cappuccio calato sul viso. L'adorazione ai "sepolcri" o, meglio, agli Altari della Reposizione, consiste nel visitare le chiese del borgo e della città vecchia in abito tradizionale, incappucciati, scalzi e con il cappello intesta, cingendo in una mano il Rosario e nell'altra il bordone. Caratteristica del "pellegrinaggio" dei confratelli è il rito “d’u salamelicche”. Quando si incrociano, i perdoni si tolgono i cappelli facendoli scivolare sulle spalle e si ossequiano a vicenda, tra il tintinnio dei medaglieri. L’ultima posta ad uscire dalla Chiesa del Carmine è ‘u serrachiése per indicare appunto il compito di chiudere, ovvero serrare, le chiese per l’approssimarsi della notte.
Questa sera il borgo antico sarà illuminato a giorno per la processione dell’Addolorata. Il colpo d’occhio che la folla offre sul pendio S. Domenico è eccezionale. In fondo, si scorge lo sguardo stralunato dei turisti e un formicolio di ceri accesi. Il corteo muove a mezzanotte dalla chiesa di San Domenico, accompagnato da migliaia di fedeli. È la tròccola lo strumento che detta l’andatura, seguita dalla banda e dalle «pesàre», la coppia di bambini che portano sotto il mantello nero delle pietre a ricordo di quelle che furono lanciate al Cristo durante la sua via Crucis. Poi la Croce dei Misteri e le poste, intervallate da tre crociferi scalzi e senza mozzetta. Sul buon andamento del corteo vigilano i mazzieri, che sono gli unici a non fare la nazzecàta. La processione è chiusa dalla statua dell’Addolorata, fissata su una base di legno e portata a spalle dalle «sdanghe». Il simulacro della Vergine ha un volto meraviglioso, ma da esso trasuda tutta la sua sofferenza di mamma.
Una sola chiamata per il simbolo delle «Sdanghe» a 30mila euro: dietro una storia di devozione speciale. «Gesù morto» assegnato per 70mila euro
Domani, Venerdì Santo, è il giorno dei «Misteri», la processione con più simboli, a cura della Confraternita del Carmine. Alle 17 si spalanca il portone della chiesa e l'evento ha inizio. I simboli che raffigurano la via Crucis sono la tròccola, il Gonfalone, la Croce dei Misteri, Gesù all’Orto, Gesù alla Colonna, Ecce Homo, la Cascata, Il Crocifisso, la Sacra Sindone, Gesù Morto e l’Addolorata.
Tra una statua e l’altra sono collocate alcune poste, mentre le bande si dispongono dietro la tròccola, la Sacra Sindone e l’Addolorata. Al rientro, la mattina di Sabato santo, i confratelli, nonostante la fatica, con la fronte livida, le spalle indolenzite e gli occhi assonnati, rallentano il passo. Nel dolore trovano la forza dell’ultimo abbraccio.
La Settimana Santa, le sue suggestioni, il suo fascino, provocano una fortissima concentrazione religiosa. La città si mobilita per i riti, riscoprendo le sue tradizioni come se fosse una prima volta. Segni, parole, gesti, sguardi, fotogrammi che sprigionano una grande forza di coesione. I due cortei religiosi sono accomunati da un solo misticismo; perché si svolgono senza soluzione di continuità: una tre giorni infinita. E restano isolate e marginali le espressioni di esibizionismo o fanatismo, che pure non mancano.
La pietà popolare che si sviluppa durante la Settimana Santa privilegia alcuni momenti significativi del triduo sacro: tradimento, arresto, flagellazione, derisione, incoronazione di spine, viaggio al Calvario, crocefissione, sepoltura. Nella contemplazione del Cristo sofferente e crocifisso ogni uomo (ogni popolo) vede esaltati i propri dolori, la propria condizione umana, le proprie difficoltà e avversità, la propria storia.
Forse, proprio per questo, su tutte le processioni si impone il Crocifisso, verso il quale si levano gli occhi, i cuori, i pensieri, le preghiere. Gesù in croce è l’emblema di tutti i poveri cristi passati sulla scena della storia. Ma analoghe sono le espressioni della pietà popolare rivolte a Maria. I titoli con i quali è venerata ricordano la valenza spirituale, salvifica, della sua mediazione. Lei che ha sofferto, che è stata madre, profuga, senza casa, è capace di comprendere tutte le sofferenze e quindi di andare incontro a tutti i bisogni. [giacomo.rizzo]
LE FRACCHIE DI SAN MARCO IN LAMIS
A San Marco in Lamis, piccolo borgo del Gargano, tornano a bruciare, in occasione del Venerdì Santo, le Fracchie: grandi torce infuocate, fra i riti più caratteristici della settimana Santa in Puglia. Oggi alle 20 in Piazza Madonna delle Grazie, l’attrice Violante Placido, accompagnata dall’Ensamble «Suoni del Sud», racconterà questa singolare tradizione con un reading teatrale.
A MOLFETTA
A Molfetta, in provincia di Bari, i riti pasquali sono talmente sentiti che iniziano il venerdì prima della Domenica delle Palme, con la processione dell’Addolorata. La Vergine vestita di nero viene portata a spalla per le strade del paese a partire dalle 17.
La Banda suona il «Ti tè», una litania che descrive tutto il dolore di una madre che ha perso il figlio. La tradizione vuole che se una donna chiede un miracolo all’Addolorata e la sua preghiera viene esaudita, deve poi acquistare un velo nuovo per la Vergine. La processione più significativa è quella del Venerdì Santo, dove si portano in spalla cinque statue lignee rappresentanti i Misteri, risalenti quasi tutte al XVI secolo. La processione parte alle 3 del mattino.
Incenso, immagini sacre e impressioni mistico sensoriali: un viaggio nelle parole di Claudio membro della storica organizzazione religiosa
QUI BRINDISI
La secolare rievocazione della «Madonna in cerca di Gesù» è una tradizione unica a Brindisi. La notte tra il Giovedì ed il Venerdì Santo a partire dalla Chiesa del Cristo due musicisti vagano nelle stradine del centro storico e per i crocevia della città, facendo risuonare la tromba, a simboleggiare il richiamo della Vergine, accompagnata dal ripetuto rullo di un tamburo.
GALLIPOLI
Nel cuore del Salento, a Gallipoli, le processioni della settimana santa sono scandite dal ritmo incalzante della «trozzula», uno strumento in legno con battenti metallici.
All’alba del Sabato Santo la trozzula annuncia l’inizio della processione della Desolata. Poco dopo arrivano gli incappucciati, con saio e cappuccio bianco, mozzetta giallo paglierino e cingolo rosso, che precedono le statue del Cristo Morto, adagiato in un’urna dorata, e di Maria Desolata.
Il momento più commovente della processione è quando la Desolata ed il Cristo Morto si incontrano al largo della Chiesa per l’estremo saluto, con il mare e la spiaggia della Purità a far da sfondo ad una folla orante che contempla un momento di grande senso religioso.
A TRANI
Durante i Sepolcri del Giovedì Santo nella Cattedrale di Trani viene esposta l'ostia consacrata. Qui l’altare è ornato non solo con fiori e candele ma con piatti pieni di teneri germogli di cereali. Nel corso della solenne funzione religiosa officiata dall’Arcivescovo, il Santissimo esposto è abbellito da una massiccia urna d'argento, la cui chiave viene custodita dal sindaco della città, indossata al collo con un laccio d'oro.
IN BASILICATA
In Basilicata la più antica delle Sacre Rappresentazioni della Settimana Santa è quella di Barile con la sua «Zingara»: esempio di come il sacro si fonda con il profano. Sguardo fiero, quasi di sfida a Gesù, ricoperta di oro attraversa, la Zingara si muove in sincrono con la processione nel borgo lucano.
Venosa porta in scena invece le fasi salienti della Passione, fino alla Resurrezione davanti al Castello Pirro del Balzo. Gli incontri con la Madonna, la Samaritana e la Veronica sono al centro della Sacra Rappresentazione di Atella, mentre a Rapolla emoziona la scena della Crocifissione ambientata nel Parco Urbano delle cantine-grotte. Infine a Montescaglioso, nel materano, va in scena “La Processione dei Misteri”, un rito penitenziale che dura circa otto ore e ripercorre le stazioni della Via Crucis.
I RITI PASQUALI. Canosa, le donne con il velo e la Desolata: l'inno straziante della processione del Sabato Santo. Il simulacro della Santa Vergine attraverserà le vie principali della città della Bat. La colonna sonora è lo «stabat mater» intonato da oltre un secolo. Super ospite l’attore Lino Banfi insieme alla moglie. Paolo Pinnelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Aprile 2022.
La preparazione alla Pasqua a Canosa non si conclude il Venerdì Santo, con la processione dei Misteri, ma oggi Sabato Santo, e precisamente a mezzogiorno. A quell’ora si conclude la processione della «Desolata», accompagnata da uno straziante e tipico inno cantato da oltre trecento ragazze col volto coperto da un velo nero. Alcune anche scalze.
Il simulacro della Santa Vergine Desolata, venerata nella chiesa dei santi Francesco e Biagio, viene portato in processione in una suggestiva e coinvolgente cornice che la rende unica non solo nel Nord Barese.
La processione parte di prima mattina. Fino a due anni fa si apriva sempre con una folta schiera di bambini vestiti da angeli che portavano gli oggetti e le frasi che rappresentano la passione di Cristo. Bambini che quest’anno non ci saranno per le restrizioni dovute alla pandemia, che per due anni ha privato la città di questo evento. La statua della Madonna Desolata che piange il Figlio sulla croce, consolata da un angelo, attraverserà le vie principali della città, seguita dal vescovo mons. Luigi Mansi, dal parroco della chiesa di San Francesco, don Carmine Catalano e da don Antonio Turturro, il viceparroco. La statua è stata restaurata più volte: danneggiata nel 1943, nel bombardamento subito dalla città il 6 novembre, nel ’53 venne completamente rifatta.
Ma quello che attrae, commuove e rende unica la processione è il coro delle oltre trecento ragazze - diretto dal 1966, dal compianto maestro Mimmo Masotina e ora da suo figlio Ezio - che accompagna il simulacro. Il testo originale è quello classico dello «Stabat Mater» di Jacopone da Todi, ma è la musica a caratterizzare l’Inno canosino alla Desolata, opera del canosino Domenico Iannuzzi (1862-1929), primo clarinetto concertista della Banda Conte di Torino.
Lo «Stabat Mater» scandisce inconfutabilmente, da un secolo, il Sabato Santo canosino, momento di incontro degli emigrati che in tanti, ancora oggi, tornano in città proprio per le festività pasquali. E tra loro non mancherà, quest’anno, anche un canosino d’eccezione: l’attore Lino Banfi con la inseparabile moglie Lucia, arrivato in città per l’immancabile occasione.
Venerdì Santo a Taranto: la consegna della troccola per la processione dei Misteri. Giacomo Rizzo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Aprile 2022.
Don Marco Gerardo padre spirituale della Confraternita del Carmine di Taranto consegna la troccola per la processione dei misteri: si avvia così la seconda giornata di processioni nell'ambito della settimana Santa tarantina.
Nel video è immortalato il suggestivo atto della consegna della troccola che precede l'avvio della processione dei Misteri a Taranto. Poche parole da parte di don Marco Gerardo e del priore del Carmine, Antonello Papalia, in preparazione del corteo religioso. Il crepitacolo, che detta l'andatura del corteo, è stato consegnato al confratello Giuseppe Caso, che si è aggiudicato l'ambito simbolo nella "gara" della Domenica delle Palme. Presenti anche il prefetto Demetrio Martino e il commissario prefettizio del Comune Vincenzo Cardellicchio.
Dopo questo atto, il portone della chiesa del Carmine si spalanca, il troccolante appare sulla soglia a volto scoperto - ma di lì a pochissimo il cappuccio gli verrà calato sul volto - e scatta l’applauso della piazza. Quindi, l’uscita delle otto statue. La processione rientrerà nella mattinata di domani, sabato santo, e chiuderà il triduo pasquale.
Dalla Liguria alla Sicilia, i riti della Settimana Santa. Angela Leucci l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.
Nelle diverse regioni italiane, nel corso della Settimana Santa, si svolgono riti antichi e suggestivi: dalle palme intrecciate alle caremme.
Le tradizioni della Settimana Santa sono particolarmente sentite in Italia. Non solo perché è un Paese a stragrande maggioranza cattolica ma anche perché queste tradizioni rappresentano molto spesso le radici di un determinato luogo.
I riti sono tanti e partono dalla domenica che precede la Pasqua per trovare il loro culmine tra il Giovedì e il Venerdì Santo. C’è infatti molto altro oltre alla classica “ultima cena” con il pane benedetto e la lavanda dei piedi che vengono riproposte in moltissime parrocchie: dette tradizioni costituiscono un ricco mosaico culturale che rappresenta l’identità di molte città e paesi in questo periodo dell’anno.
La Domenica delle Palme
La Domenica delle Palme, nella liturgia cattolica, ricorda il momento dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, quando il figlio di Dio venne accolto da una folla che lo salutò con palme intrecciate. Le palme intrecciate sono una caratteristica di molti luoghi d’Italia, in particolare in Sicilia, nella zona di Bordighera e Sanremo in Liguria (dove prendono il nome di parmureli), e in Sardegna, dove sono particolarmente scenografiche e si chiamano tessidura de pramma o prammas pintandas. In Costiera Amalfitana, insieme alle palme, vengono intrecciati invece confetti e piccoli fiori di carta.
In Calabria accade invece qualcosa di molto speciale. Vengono infatti prodotte, a partire dall’intreccio delle palme, delle pupazze, figure femminili in cui vengono utilizzati anche rami e foglie d’ulivo. Le pupazze sono in realtà, come spesso accade nelle tradizioni religiose italiane, uno dei punti di contatto tra l’antichità pagana della Grecia e di Roma e il mondo cristiano: la pupazza incarna infatti Persefone, la dea triforme che appare sulla terra a primavera. Nel borgo di Bova si svolge una peculiare processione con le pupazze oppure esse vengono apposte fuori dalla porta di casa come simbolo benaugurante.
I Sepolcri
C’è una tradizione del Giovedì Santo, diffusa in Sicilia, Puglia, Calabria, Campania, Lazio, Liguria e Sardegna, che si ripete e perpetua ogni Giovedì Santo. Dopo la messa con la lavanda dei piedi e la benedizione del pane infatti, gli edifici di culto restano aperti spesso fino a tardissima ora per permettere ai fedeli di visitarli. Qui si potranno ammirare i “sepolcri” o Altari della Reposizione, particolari sistemazioni scenografiche degli altari maggiori (o comunque degli altari in cui non si trova il Tabernacolo): qui viene posta in via eccezionale l’urna con l’Eucarestia, oltre che elementi simbolici della cristianità.
Tra questi elementi ci sono fiori e soprattutto germogli di grano o legumi che, nelle settimane precedenti, vengono fatti crescere al buio in modo che restino bianchi impedendo quindi la fotosintesi clorofilliana. In Liguria invece, a farla da padroni sono i cartelami: si tratta di tele o cartonati sagomati, che ritraggono temi biblici inerenti alla Passione.
Solitamente si visitano le chiese in un numero di 5 o 7, che corrispondono rispettivamente alle piaghe di Cristo e ai dolori della Madonna. Naturalmente nei paesi in cui il numero di chiese è inferiore, si usa visitarle in numero dispari. In molte chiese viene esposta la statua della Madonna Addolorata: completamente vestita di nero, spesso con sontuosi pizzi antichi, reca con sé nell'iconografia un cuore trafitto.
Le processioni dei Misteri
Prende il nome di processione dei Misteri una particolare Via Crucis che si svolge il Venerdì Santo in alcune località italiane, soprattutto nel Mezzogiorno. I Misteri che danno il nome al rito sono quelli cristiani della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù, che viene portata tra le strade dei paesi grazie a statue suggestive che ne propongono le “stazioni”, dal giardino del Getsemani alla Resurrezione appunto. Le statue, condotte dai portatori, sono spesso tradizionali e antiche - alcune risalgono addirittura al XVII secolo - e sono realizzate da maestri artigiani per lo più in cartapesta o legno.
Una delle processioni più particolari è quella che si svolge a Trapani: inizia alle 14 del venerdì e termina 24 ore dopo, con una piccola pausa notturna. Le radici del rito risalgono addirittura al XVI secolo, ma a essere fortemente caratterizzanti sono soprattutto i movimenti dei portatori che fanno oscillare le statue in maniera simbolica.
Molto speciale è anche la processione di Valenzano, in provincia di Bari, dove i Misteri ammontano a oltre 50 statue. Sempre in Puglia ma più a Sud, a Gallipoli, insieme alle statue sfilano in processione i pescatori ma anche i penitenti. Questi ultimi sono incappucciati e scalzi a sottolineare devozione e umiltà. Restando in provincia di Lecce, a Maglie, insieme alle statue realizzate da Luigi Guacci, sono i bambini a portare in scena la Via Crucis in costume: ci sono dei piccoli Gesù con la loro croce, delle dolcissime Madonna Addolorata e non mancano le Veronica, ovvero la raffigurazione della santa che deterse il volto del Cristo durante la Passione.
La caremme
Un’altra particolarità della Settimana Santa, questa volta tutta salentina, è il rogo della caremma. Si tratta di un fantoccio che ritrae un’anziana donna magra e completamente vestita di nero, a simboleggiare il lutto per la morte di Gesù Cristo e il digiuno caratteristico della Quaresima. Non a caso il suo nome, etimologicamente parlando, viene proprio da Quaresima.
Le caremme vengono appese o istallate fuori dalle abitazioni della provincia di Lecce e costituiscono un momento di grande folclore e al tempo stesso spiritualità simbolica. Vengono posizionate il Mercoledì delle Ceneri e con loro viene posta un’arancia con sette piume oppure una collana con sette taralli, emblema delle settimane che separano la fine del Carnevale alla Pasqua. Salvo, per motivi di sicurezza, la presenza di un forte vento che nel Salento non manca mai, il rogo avviene invece il Sabato Santo, come una sorta di buon presagio: Cristo sta per risorgere.
Lodovico Poletto per “la Stampa” il 14 dicembre 2022.
Ha pianto quattro volte la statua del Cristo. E il signor Enzo fa vedere i filmati.
«L'ultima stamattina, proprio mentre la portavamo via. Mentre andavamo a consegnarla alla Curia, come ci hanno chiesto di fare». Lacrime chiare, non di sangue come altre Madonne in giro per il Paese. «Lacrime vere, che sono un messaggio per tutti noi fedeli», asciugate con il fazzoletto già diventato reliquia.
La scena è stata ripresa con i telefonini. La prima volta era l'8 dicembre. Alla periferia di Torino, in un parco proprio alle spalle della casa di caccia dei Savoia, a Stupinigi, un gruppo di fedeli stava recitando il rosario di fronte alla statua della Madonna.
Lo fanno tutte le sere quelli dell'associazione Luce dell'aurora. Si ritrovano qui, in uno spiazzo che è diventato tempio e dove dicono che la Madonna sia apparsa per sette anni. Apparizioni mediate da un uomo che allora era giovane e lavorava alla Fiat. E adesso non si fa più vedere.
Lasciava - ricordano - messaggi di pace, di amore, di fratellanza. Nessun segreto sul futuro, nessuna rivelazione. Appariva accanto a una quercia, enorme. Ecco, attorno a quell'albero, nel tempo, quelli dell'associazione hanno sistemato statue e fiori. Hanno posato una decina di panchine per chi vuol restare lì a pregare e meditare. Poi hanno acquistato un pezzo di terreno e costruito una specie di tempio, dove c'era la statua del Cristo. Assi, teloni. Le mattonelle sulla terra.
E una teca, dove chi viene lascia le invocazioni alla Madonna, le richieste d'aiuto. La foto di una bambina che non può più camminare. Quelle di un giovane che ha perso la vista. I foglietti scritti da gente semplice: «Per favore madonnina aiutami in questo periodo brutto per la morte di Boja». «Una preghiera per mia zia Linda che ha il cancro. Ti prego con tutto il cuore». La cassetta d'acciaio, ancorata con un lucchetto enorme, per raccogliere le offerte.
Non è mai diventato Lourdes, non ci sono mai stati miracoli. Ma la voce è corsa e i fedeli sono arrivati in questo posto che è periferia, accanto a una statale ipertrafficata. Comitive e singoli. Come Francesco, 54 anni, che alle tre del pomeriggio si aggira cercando il Cristo che piange. E racconta che lui era lì una notte con degli amici: «A un certo punto ho visto un bagliore enorme: e poi c'era come una grande luce che è rimasta sospesa per un po'. Era la Madonna. Non so cosa volesse dirmi, ma da allora sono affezionato a questo posto».
Come Pasquale, che la fede, racconta, l'ha trovata tardi: «Ero in un supermercato. Ho visto una ragazza con occhi bellissimi e mi sono messo a guardarla. Lei si è avvicinata e mi ha detto che Dio mi stava cercando. Poi è scomparsa». In tanti sono arrivati qui, in questo luogo che non ha nulla di aulico, e il tempio è una baracca tirata su con un po' di assi e riempita con qualche sedia e un tavolo che fa da altare. Fuori c'è un giardino con un'altalena. Tricicli per bambini. Un telo verde che copre la terra, i messaggi con le parole della Vergine affissi sulla bacheca.
«La Madonna va dove c'è gente che ha bisogno, dove c'è disagio. Porta la fede, ci chiede di migliorare», dice Giovanni, che a questo posto, e con grande umiltà, ha dedicato ogni giorno della sua vita negli ultimi 10 anni. Scusi, ma perché tutto questo è accaduto proprio qui? «Questo è un posto dove la notte accade di tutto, dove la gente viene a drogarsi, dove nei posteggi c'è mercimonio di sesso. La Vergine porta speranza».
«E le lacrime del Cristo sono un altro segnale». Ma poi ascolti le parole di chi va e chi viene. E c'è chi dice che forse tutto ciò che è accaduto è opera del diavolo. E Francesco annuisce: «Io qui ho anche visto il diavolo» e si fa il segno della croce: «Padre, figlio e Spirito Santo». Poi sono racconti di viaggi extracorporei. Disquisizioni sul male e sul bene: «Dio non ama i ricchi e i potenti. Raffaella Carrà, glielo dico io, quando è morta ha visto l'Inferno».
Ma il Cristo che piange? La Curia su questo non parla. Ma si faranno esami tecnici sul liquido sgorgato, radiografie per scoprire se ci sono stati trucchi. Poi la commissione d'inchiesta diocesana si esprimerà sull'autenticità del fenomeno. L'ultima parola sarà comunque della Santa Sede (in particolare la Congregazione per la dottrina della fede). Forse ci saranno altri esami, oppure si attesterà il miracolo di Torino.
Di questo posto che non è Lourdes, ma dove - dicono - la Madonna sia apparsa tante volte. Di questo posto dove dall'altra parte della strada, l'agée Eleonora, per 20 euro, si concede per 10 minuti. E sforna battute blasfeme. L'apparizione della Madonna e le lacrime del Cristo non sono contemplate.
Tutto il resto sì.
Miti e miracoli di Napoli: il sangue di san Gennaro nella fede. Il miracolo dello scioglimento del sangue di san Gennaro avviene attraverso una cerimonia, che si tiene a Napoli tre volte all'anno. Angela Leucci il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.
A Napoli e più in generale in Campania molti nuovi nati ancora oggi prendono il nome in onore di san Gennaro. La devozione verso il santo patrono del capoluogo è tanta e tale da mescolarsi quasi al profano, alle tradizioni popolari, permeando diversi ambiti della quotidianità partenopea.
Ogni anno, tre volte all’anno, si tiene una solenne cerimonia per lo scioglimento del sangue di san Gennaro: accade nel sabato che precede la prima domenica di maggio, il 19 settembre, ossia il giorno in cui si commemora il martirio del religioso, e il 16 dicembre, ovvero l’anniversario dell’evento miracoloso in base a cui Gennaro fermò l’eruzione del Vesuvio nel 1631. La cerimonia si svolge nel duomo di Napoli, che ingloba la reale cappella del Tesoro di san Gennaro, all’interno della quale sono conservate le reliquie del patrono.
Chi era san Gennaro
San Gennaro nacque il 21 aprile 272 e fu vescovo di Benevento. Vissuto nel periodo dell’imperatore Diocleziano, dovette subire, come gli altri cristiani, innumerevoli persecuzioni, tanto che le vicende agiografiche sul suo martirio riportano storie anche in qualche modo contrastanti.
Secondo la vulgata più nota e accreditata, Gennaro fu arrestato dal governatore Dragonzio durante una visita pastorale a Pozzuoli. Dragonzio ordinò che il religioso fosse sbranato dai leoni nel locale anfiteatro: ma i leoni si inginocchiarono davanti a Gennaro, e il governatore lo fece decapitare nella solfatara. Era il 305.
Un’altra versione abbastanza accreditata racconta che il viaggio pastorale di Gennaro fosse verso Nola, dove invece fu imprigionato e torturato dal giudice Timoteo, che l’avrebbe mandato a morire a Pozzuoli per decapitazione. Fu durante la decapitazione che una donna di nome Eusebia, devota alla cristianità, raccolse il sangue del santo in due ampolle, cosa che in realtà era un’usanza abbastanza diffusa all’epoca.
Che cos’è il miracolo di san Gennaro
Le ampolle furono conservate a Napoli, dove nel 1305 Carlo II d’Angiò fece realizzare un prezioso reliquiario per la loro conservazione. Successivamente Roberto d’Angiò le fece collocare all’interno di una teca d’argento. In questo modo il sangue fu esposto ai fedeli per la venerazione. Ma, sebbene c'è chi dice che già sotto l’impero di Costantino sia iniziato a verificarsi il miracolo, sicuramente la prima liquefazione del sangue attestata risale al 17 agosto 1389: il territorio stava affrontando una dura carestia che finalmente si interruppe. E così il miracolo della liquefazione del sangue di san Gennaro divenne una leggenda associata a possibilità di serenità, benessere, tranquillità sociale.
Nei giorni in cui si svolge la cerimonia, l’autorità ecclesiastica mostra ai fedeli una delle ampolle in cui è conservato il sangue del religioso: l’ampolla viene mossa tra preghiere e attesa. A volte però le aspettative non vanno a buon fine e il sangue non si scioglie, ma spesso comunque il miracolo accade.
Come riporta Famiglia Cristiana, durante la cerimonia della liquefazione, si usano cantare oggi canti religiosi d’amore che riguardano l’affetto di Napoli per il suo santo patrono. Come ad esempio Magnifica gente, che recita: "Ma per i ragazzi che toccano il fuoco e possono bruciarsi, per questi ragazzi che stanno crescendo e vogliono imparare, per questi ragazzi che alzano le braccia e si vogliono salvare ci sta tutta la magnifica gente di questa città”.
Perché il sangue si scioglie
La scienza non può spiegare fede e devozione: alla fede si giunge con il cuore. E quindi anche se nel tempo sono stati in tanti a cercare di spiegare il fenomeno, la scienza nulla può sul credo religioso, soprattutto in quello popolare come in questo caso.
Nei secoli in tanti si sono cimentati in una presunta spiegazione della liquefazione del sangue di san Gennaro: c’è chi ha parlato di utilizzo di calce o calore per il passaggio dallo stato solido a quello liquido, chi ha ventilato che la risposta fosse all’interno del clero di Napoli e perfino chi, come scrive l’agenzia Dire, ha parlato di assenza di sangue e di presenza di sostanze comuni che darebbero vita alla tissotropia, ossia lo scioglimento meccanico di un tessuto attraverso il movimento.
Quale che sia la risposta della scienza - una risposta definitiva che in realtà non è mai arrivata - l’atmosfera che si respira a Napoli nei giorni della cerimonia è particolarmente magica. E forse, antropologicamente parlando, non importa sapere come tutto avvenga. Sogno, magia, mito, leggenda, santità: sono tutti concetti di cui l’umanità ha sempre bisogno per continuare ad andare avanti.
Anticipazioni da "Oggi" il 13 aprile 2022.
La vera storia di Bernadette Soubirous, che a 14 anni, nel 1858 vede la Madonna nella grotta di Massabiele, alle porte di Lourdes, la racconta a OGGI (sul numero in edicola da domani) padre Alberto Maggi, teologo, religioso dell’Ordine dei Servi di Maria. E di Bernadette, diventata prima suora e poi canonizzata nel 1933, fa un ritratto che va oltre l’aureola. «La sua santità è indiscutibile. Bernadette incarna le Beatitudini: somiglia ai poveri in spirito come ai perseguitati per le umiliazioni che ha subito in convento», dice padre Maggi.
«Ma questo non esclude i suoi difetti: è prepotente, permalosa, caparbia, ingenuotta, e all’occorrenza furba… E non corrisponde al modello della pastorella che ha visto la Madonna e alla giovane devota perennemente in preghiera. No, lei chiede se in convento può giocare a saltar la corda, tiene la fiaschetta di vino nell’armadietto, gusta il tabacco della sua tabacchiera».
Padre Alberto Maggi ha studiato la storia di Bernadette, passando dall’infanzia alla famiglia (il padre finisce in prigione per furto), dalle 18 apparizioni alle lettere clandestine e affettuose che lei manda all’abbé Charles Bouin, ai maltrattamenti ricevuti in convento. E ha raccolto i suoi studi nel libro Bernadette - La vera storia di una santa imperfetta (in uscita in questi giorni per Garzanti).
Rivela padre Albero Maggi: «La vita religiosa non si addiceva a Bernadette, che era uno spirito libero. Lei scopriva la sua femminilità, si metteva una stecca nel busto per valorizzare il seno, la gonna a crinolina proibita dai preti».
Medjugorje, svelati altri documenti sulle “guarigioni miracolose”: il parere del Vaticano. Milena Desanctis giovedì 6 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Continua il dibattito su Medjugorje. Dal nuovo libro Processo a Medjugorje di David Murgia (edizioni Rubbettino) emergono nuovi dati. Come riporta il sito dell’Ansa.it, «dei dieci casi di presunta guarigione miracolosa sottoposti alla Consulta medica della Congregazione delle Cause dei santi, solo cinque sono stati esaminati perché giudicati attendibili; di questi quattro casi sono stati effettivamente sottoposti a un approfondimento perché ritenuti probabilmente inspiegabili. Solo due casi poi sono stati discussi perché correlati e accompagnati da seria documentazione medica. Ma nessuno è da considerarsi inspiegabile scientificamente».
Medjugorje, la procedura seguita
Il sito Aleteia.it poi titola Il Vaticano: finora nessuna guarigione inspiegabile a Medjugorje. E spiega che si tratta di documenti che risalgono al 2013 e 2014. Nel sito si legge che «l’ordinaria procedura seguita dalla Congregazione delle Cause dei Santi, in tali evenienze, prevede, in relazione a ciascun caso all’esame, un primo step di valutazione da parte di un medico specialista che presenta una sua perizia al riguardo. Il successivo deve portare, poi, alla formulazione di un giudizio medico collegiale. In tale prospettiva si nomina un secondo relatore, incaricato di redigere un’altra perizia medica. Questa – assieme a quella già elaborata – viene successivamente discussa da una consulta medica composta da un Presidente e da sette specialisti, tra i quali vi sono i due autori delle precedenti perizie. Il caso viene, quindi, esaminato collegialmente e l’esito della valutazione è attestato in una relazione finale».
L’esame dei teologi
E poi ancora: «Se questa conclude per l’inspiegabilità del caso secondo i dettami scientifici, la parola passa ai teologi. Essi sono chiamati ad indagare sulle questioni di una fede vissuta nel concreto, valutando se esistano prove di un effettivo legame della vicenda con il soprannaturale, se, cioè, la persona malata (o chi per lei) abbia davvero chiesto un “intervento dall’alto”, ossia, nel fenomeno de quo, da parte della Gospa».
I casi esaminati
La Commissione d’inchiesta, riporta il sito Aleteia, «ha deciso di approfondire cinque casi di presunte guarigioni miracolose verificatesi a Medjugorje, in collaborazione con la Consulta Medica della Congregazione per le Cause dei Santi. Di questi, solo quattro sono stati esaminati (poiché la sintomatologia del quinto si presentava come una possibile conseguenza di shock emotivo/psicologico secondario all’evento traumatico subìto). Di questi quattro è stata compiuta una ulteriore scrematura: solo due sono stati discussi perché erano accompagnati da accurata documentazione medica e cartelle cliniche. Si tratta di casi molto noti tra i cosiddetti “medjugorjani” e giudicati come veri e propri miracoli».
E poi si legge ancora sul sito: «I due casi presi in esame, della signora D. B. e M. S., scrive Murgia nel libro “Processo a Medjugorje”, sono stati esaminati in un’unica seduta della Consulta medica il 19 settembre 2013». Ma «conclude Murgia, per la Consulta Medica della Congregazione per le Cause dei Santi non è avvenuta alcuna guarigione miracolosa a Medjugorje tra quelle esaminate».
Il tribunale di Dio non ha prescrizione. Al Catechismo m’insegnarono, con petulante tenerezza, i Dieci Comandamenti. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Settembre 2022.
Al Catechismo m’insegnarono, con petulante tenerezza, i Dieci Comandamenti. A parte il perentorio e indiscutibile principio iniziale di autoaffermazione fomite di timore reverenziale, quasi tutto il resto è una sequela sacrosanta di proibizioni. Il buon Cristiano vi si dovrebbe attenere senza «se» e senza «ma». Ai bambini d’un tempo, le tavole ricevute da Mosè incutevano, con le austere ammonizioni, anche il terrore di pene immancabili in caso di infrazioni: prima tra queste la blanda e terrena corvée della Confessione. Il decalogo, espressione, di una Teodicea di cui facevamo fatica a cogliere il senso profondo, pur nella semplificazione della catechesi cattolica, erano tutti molto chiari ad eccezione di uno.
Finché si imponeva di «Non nominare il nome di Dio invano» o di «Onorare il padre e la madre» non potevamo che concordare e ratificare affettuosamente, lo stesso valeva per quel «Ricordati di santificare le feste» graditissimo agli scavezzacolli che eravamo che sapevamo come ubbidire alla raccomandazione. E chi poteva dissentire dal «Non rubare», «Non uccidere» o «Non dire falsa testimonianza»? Le cose ci facevano orrore ed erano già comprese nel minimo canone etico di ragazzini innocenti, «Parvuli» come ci piaceva crederci, in corsa verso il Maestro che nelle figurine del Parroco ci accoglieva a braccia aperte. Quanto a «Desiderare la roba d’altri», poteva anche accadere, ma amichevolmente, e la vertenza si esauriva nel condividere la gioia di un giocattolo. Le cose si complicavano con quel «Non desiderare la donna d’altri». Privi, come eravamo, di mogli, fidanzate o concubine, la proibizione ci lasciava indifferenti: preferimmo rimandare il corruccio ad età più consone a certi pruriginosi verbi ottativi.
Il vero problema si apriva tutte le volte che dovevamo impegnarci a «Non fornicare». Cosa diavolo voleva dire? (Qui il diavolo c’entrava proprio). Pudicizia magistrale, ritrosie di discepoli e vaghezza pretesca producevano perifrasi protocollari e generiche. Ai più piccoli doveva bastare: non dovevano fornicare e basta, anche se non sapevano cosa fosse. Ai più grandicelli che cominciavano a poter capire cosa perdessero rispettando il Comandamento, veniva ammannita qualche vaga ingiunzione a dormire con le mani sulle coperte, a non toccarsi, ficcando le dita nel buco della tasca, a far pipì rapidamente e senza inutili perlustrazioni idrauliche e, alle bambine, a non rispettare l’igiene troppo accuratamente e con troppa insistenza.
Fornicare. Chi non ha pensato che c’entrassero le formiche, le innocenti formiche? Almeno fino alla prima sbirciatina al Vocabolario, libro più laico ed esplicito del manuale di Catechismo. Più tardi qualche estensore furbo, ma sempre bacchettone, coniò quel «Non commettere atti impuri» che tentò di alimentare la sessuofobia degli anni della nostra adolescenza. Chi scrive, ma, ne sono certo, anche molti tra chi legge, quando capì le parole non smise di disubbidire a quel Comandamento e ancora non smette. Grazie a Dio.
Ma, a pensarci, noi non c’entriamo e non c’entrammo, non troppo almeno, con una pratica sessuale particolare, quella spiegata dall’etimologia e dispensata dalle prostitute romane al riparo nei «fornici», quegli anfratti a forma d’arco, del Colosseo, come vuole la storia papalina. Le sventurate avevano solo l’obbligo di impedire la vista dei curiosi insolventi con una tenda gialla. Il giallo divenne, così raccontano, il colore distintivo della corporazione e il fornice, l’innocente parola architettonica, offrì il destro semantico per il termine che indica le prestazioni erotiche a pagamento.
Architettura, edilizia, urbanistica e luoghi pubblici furono, dunque, connessi, loro malgrado, al mestieraccio. Succede pure oggi, a pensarci, anche se l’edilizia utilizzata è lussuosa, meno stilizzata: alberghi, residenze ufficiali, ville, finti stabilimenti clinico-ginnici e fintissimi centri benessere. Quanto di più lontano dalla monumentale austerità del Colosseo. In questa devastazione brutale della vita pubblica, non c’è gente che rubi, che desideri la roba d’altri, che uccida l’innocenza, che porti bestemmia alla giustizia umana e divina corrompendo e facendosi corrompere, che non amalgami tutto con il ludibrio del meretricio. E questa gente, definita «per bene» in discutibili scale di disvalori nel primo mondo, quello ricco a spese del secondo e terzo, spesso, ha dato la stura più recente al registro delle fornicazioni contabilizzate e contabilizzabili come pagamento di favori e di lavori in corso di «cene eleganti».
La gran parte delle magagne facilmente passano in prescrizione. Ci pregiamo di ricordare che tale istituto non cancella il reato commesso, ma lo considera non più perseguibile, archiviato dalla polvere del tempo nei suoi fornici, pur continuando a indicare i delinquenti come tali, anche se sgusciano via dai rotti delle cuffie delle procedure. Ma se aveva ragione il Catechismo, davanti al tribunale di Dio, al peccato non esiste la prescrizione.
Da ansa.it il 26 settembre 2022.
E' una delle frasi citate da Giorgia Meloni questa notte nel discorso dopo i risultati che attestano la sua vittoria alle elezioni. Ma San Francesco non l'ha mai detta. E' quanto si legge in un articolo dello storico francescano, fra Andrea Vaona, postato sul suo blog ad aprile 2022 e rilanciato oggi dall'ex direttore di Tv2000 Lucio Brunelli.
"Nei siti o nei social si propagano 'viralmente' anche frasi attribuite a san Francesco d'Assisi, ma che non risultano assolutamente né tra i suoi scritti né tra i detti che troviamo nelle sue biografie" scriveva lo storico francescano. "Ciò che duole è la difficoltà nel correggere gli errori pubblicati: quando segnalati, spesso la risposta è seccata, perché 'la frase è bella!...'" e "un confratello, saggiamente, per sdrammatizzare dice: 'spiritualità francescana da Baci Perugina'", sottolineava nel suo post fra Andrea Vaona.
"Cominciate a fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile - non è di San Francesco d'Assisi", si legge nel blog del frate docente universitario di Storia ecclesiastica.
Umile, radicale, vicino agli ultimi. San Francesco, il santo che si fece piccolo e divenne grandissimo. Filippo La Porta su Il Riformista il 29 Maggio 2022.
“Laudato sì, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore…” . Non ci rendiamo conto fino a che punto san Francesco – dal cui Cantico delle creature (che inaugura la letteratura italiana) abbiamo citato il verso – sia il santo della nostra epoca (come ha felicemente intuito papa Bergoglio). Benché il suo messaggio pauperistico contenga una verità inattuale, per noi quasi disturbante (si spoglia davanti a tutti e morirà nudo), san Francesco è pure attualissimo, un “democratico estremamente genuino”, come osservò Chesterton: “Non identificava gli alberi con il bosco, non voleva identificare le persone con la folla, per lui un individuo era sempre un individuo e non spariva nella folla”.
E ancora: non c’era mai nessuno, fosse il papa o un accattone, il sultano di Siria o i predoni che sbucano dal bosco “che guardando in quegli ardenti occhi scuri non abbia avuto la certezza che Francesco provava un sincero interesse per lui in quanto individuo”. Del resto anche nel Paradiso dantesco ogni beato ha la propria fisionomia inconfondibile, unica, individuale. Al Salone del libro è stato presentato un libretto prezioso su san Francesco a cura della rivista “Frate indovino”: Cantico delle creature. Dodici letture. Tra i molti contributi cito quelli di Moni Ovadia, Michele Serra, Maurizio De Giovanni, Daniele Mencarelli, etc. oltre a quelli di teologi, astrofisici, drammaturghi, piloti d’aereo, Confesso un lieve imbarazzo nello scoprire che il mio intervento si colloca accanto a quello di papa Francesco (“Dio è umile”), il quale – molto opportunamente – va subito al cuore della questione: san Francesco testimonia l’umiltà stessa di Dio che “per noi si è fatto piccolo”. Già, ma che significa davvero farsi piccolo? Torniamo a Dante e al canto XI del Paradiso.
Dante ha la incredibile audacia di mettere san Francesco al centro del cielo del Sole, cioè dei grandi sapienti (Alberto Magno, san Tommaso, Sigieri...), proprio lui, il folle, il giullare di Dio, il poverello di Assisi! Ora il santo si fece “pusillo” (piccolo) per limitare se stesso, per fare posto agli altri e per poterli amare. Più ridimensiono il mio io più faccio essere un mondo affollato di creature. In Dante il bene è precisamente dare realtà a cose e persone (una definizione che troviamo nei Quaderni di Simone Weil, che nella chiesa di Assisi ebbe una esperienza mistica). Agire bene non per obbedire a un precetto ma per far esistere di più il mondo intorno a noi, e si tratta di un mondo strapieno di esseri viventi.
L’Inferno dantesco è tutto sotto l’egida di Aristotele, dunque il valore più alto per il mondo pagano è la giustizia. Ma già il Purgatorio si ispira all’etica cristiana, alle Beatitudini del Vangelo: alla giustizia – che può anche avere un volto duro, intransigente – si contrappone l’amore (irragionevole, smisurato, in qualche caso anche “ingiusto”), la carità, il perdono incondizionato di cui parla san Francesco, in ciò davvero vicino ad una imitatio Christi: “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore…”. La figura di San Francesco è stata fondamentale per Dante e per Giotto, artisti coetanei, nati entrambi a Firenze, inventori di un realismo potente e allegorico. E, a proposito di realismo, il “Cantico delle creature” ci trasmette subito una idea tangibile della percezione della realtà nel Medioevo. Nonostante le guerre e le pestilenze, nonostante la mortalità infantile altissima, etc. si riteneva che la vita fosse benedetta.
Una cosa difficile da capire per noi moderni. Dante è convinto di abitare un cosmo armonico e stabile, creato per amore (l’amore muove il sole e le altre stelle). E l’amore naturale è “senza errore”, come ci ricorda Virgilio nel XVII del Purgatorio: poi si corrompe e viene deviato quando diventa smodato o troppo flebile o rivolto a oggetti sbagliati. In questo senso non possiamo attualizzare Dante oltre il dovuto: resta un uomo del Medioevo, immerso nella metafisica aristotelico-tomista, con le sue granitiche certezze. Eppure Dio è presentato, all’inizio del Paradiso, come luce, dunque non come potenza. Ha creato il mondo “non per aver a sé di bene acquisto” ma – con un atto di amore gratuito – perché il suo splendore risplendesse nelle creature. Si compiace della nostra esistenza stessa, e della nostra libertà. Dunque, Dante al contrario di san Francesco non perdona, e anzi giudica (severamente) e condanna. Ma la sua poesia accoglie la realtà intera e perfino un personaggio come il conte Ugolino possiede una propria grandezza, benché la sua esistenza abbia deviato da un corso naturale.
Se un lettore attuale legge il “Cantico delle creature” e il canto XI del Paradiso dovrebbe anzitutto chiedersi: e io? Mi sono mai fatto pusillo? Mi sono mai “umiliato”, sia pure, come avviene nel santo di Assisi, gioiosamente e regalmente (Dante traduce l’”umilmente” di san Bonaventura in “regalmente”). L’autore della Commedia infatti rivolge un appello a ogni lettore, non ha scritto il suo poema per gli studiosi. Non voglio sottrarmi a questo imperativo. Mi sono mai fatto piccolo? Ora, credo che verosimilmente il mio io, come peraltro quello di intellettuali, scrittori, letterati, etc. sia un io ipertrofico, smisurato, sempre alla ansiosa ricerca di riconoscimento pubblico e di visibilità. Però mi ritrovo ad avere una natura incline alla distrazione, in forme quasi patologiche.
In questo caso un difetto può coincidere con una virtù. Mi salva la distrazione! A volte accade che mi distraggo perfino da me stesso – perdendo tempo, inseguendo oziosamente l’occasione -, dal mio io ipertrofico. Ma potrebbe trattarsi di un ragionamento autoconsolatorio. Il messaggio di San Francesco, al di là dei nostri sforzi per raggiungerne la impossibile radicalità, ci mostra in modo chiaro che la magnanimità – di cui già parlava Aristotele nell’Etica Nicomachea – non significa essere grandi uomini (e cioè conquistatori, imperatori, condottieri, leader politici) ma uomini dal grande animo, felici per il solo fatto che esista un mondo affollato di creature. Filippo La Porta
Da adnkronos.com il 26 settembre 2022.
Esporre in chiesa il cuore di Padre Pio per permettere ai fedeli di pregare la reliquia del Santo di Pietrelcina. E' questa la richiesta dei comitati "Amici di Padre Pio" e "Amici di Emanuele Brunatto" che, interpellati dall'Adnkronos, spiegano perché è così importante per loro.
"Non riusciamo a capire perché persista in una parte della Chiesa l'atteggiamento a non mostrare, a tenere tutto nascosto. Eppure Papa Francesco continuamente va dicendo 'basta scheletri nell'armadio'. Sarebbe un messaggio straordinario ai fedeli quello di esporre il cuore di Padre Pio in chiesa", spiega Costanzo Bocci, presidente del comitato "Amici di Padre Pio".
Marino Niola per “la Repubblica” il 25 novembre 2022.
Il culto di San Gennaro potrebbe diventare patrimonio dell'umanità. Domani le istituzioni civili e religiose, con in testa il cardinale Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli, annunceranno la candidatura del culto del patrono partenopeo a bene culturale immateriale riconosciuto dall'Unesco. Accanto al porporato ci saranno il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, il presidente della Regione Vincenzo De Luca e il neo ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, nato evidentemente sotto il segno di San Gennaro.
Il titolo preciso della candidatura è "Il culto popolare di San Gennaro a Napoli e nel mondo". In realtà il patrono partenopeo è sì un emblema locale, ma anche un simbolo, una sorta di logo conosciuto in tutti i continenti. Tant' è che negli anni Ottanta il noto stilista Moschino mise in commercio una t-shirt con l'emblema del Santo e la scritta "I love San Gennaro". Quella maglietta fece del santo un'icona internazionale. Ma la diffusione trasversale della devozione per il patrono partenopeo ha tante prove.
In Brasile lo Stato di San Paolo riconosce il culto del martire napoletano fra i patrimoni da proteggere.
Uno dei più importanti ospedali della metropoli brasiliana è intitolato a San Gennaro. A cui è dedicato anche lo stadio del Vasco da Gama, tra le più celebri società calcistiche brasiliane, che si trova a Rio de Janeiro.
E se in America latina San Gennaro è una star celeste, lo è ancora di più negli Usa. Dove la devozione per il santo unisce quasi tutti gli italoamericani, a prescindere dalla regione di provenienza. Soprattutto a New York, dove il San Gennaro day commuove gli animi e muove un business imponente, con cifre a nove zeri.
Oltretutto, un eventuale riconoscimento da parte dell'Unesco avrebbe una ricaduta positiva sulla città vesuviana, in termini di fama e conseguente crescita del Soft Power. Come succede ai Paesi che ospitano patrimoni Unesco. Non solo religione dunque. Perché i miracoli li fa anche l'economia.
Bisogna riconoscere però che San Gennaro ha ampiamente meritato la sua notorietà. La liquefazione del suo sangue è il miracolo più famoso del mondo e attrae da sempre migliaia di turisti che vengono a Napoli per assistere a questa sfida al principio di ragione. Che ne ha fatto un fuoriclasse celeste, un Maradona della devozione. Il cui culto unisce credenti e non credenti. Proprio perché San Gennaro è un totem identitario che appartiene alla città intera. Il grande scrittore francese Alexandre Dumas, che visitò Napoli nell'Ottocento e assistette più volte al miracolo, scrisse che San Gennaro è il vero Dio di Napoli.
Un'esagerazione, certo, che coglie però una profonda verità. E cioè che il patrono è da sempre un brand soprannaturale, la figura suprema del Pantheon partenopeo.
Molti illustri viaggiatori stranieri come Montesquieu raccontavano di avere sentito nella cattedrale delle persone che pregavano Dio e lo imploravano di intercedere con San Gennaro affinché concedesse loro delle grazie. Insomma, il santo decapitato nel 306 d.C. è un simbolo civico a metà fra religione e politica.
Non a caso i membri della deputazione laica che custodisce le preziose reliquie sono addirittura nominati dal governo. E alla loro testa c'è il sindaco, qualunque sia la sua appartenenza politica. Come dire che il rosso sangue vince su tutti gli altri colori. Chi dice Napoli, dunque, dice San Gennaro.
Lo hanno dovuto riconoscere anche gli illuministi francesi che, da laici incalliti quali erano, sicuramente non vedevano di buon occhio questa manifestazione di fede popolare. Il generale Championnet che nel 1799 occupò la città per conto di Napoleone, per essere sicuro di avere dalla sua il favore della gente, fece compiere il miracolo manu militari. Si dice che arrivò a minacciare di far fucilare i canonici della Cattedrale. Il sangue si sciolse puntuale come un cronometro.
E mentre noi facciamo il tifo per il riconoscimento, c'è anche chi scherza con il santo. Come i due giovani napoletani che hanno inventato l'app i-San Gennaro, che consente di farsi il miracolo agitando il proprio smartphone. In attesa che il vero miracolo lo faccia l'Unesco.
Santo Graal, "ecco cosa rappresenta davvero": non solo fede, svelato il mistero del calice? Libero Quotidiano il 15 maggio 2022.
Narra la leggenda che da qualche parte nel mondo esista un calice in cui avrebbe bevuto Gesù Cristo nell’ultima cena e nel quale Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il suo sangue durante la crocifissione. È stato cercato in ogni dove, anche perché i suoi poteri, secondo la leggenda, donerebbero vita eterna e conoscenza. Nel corso del tempo ha assunto diverse forme, lo ritroviamo spesso sotto forma di calice per poi divenire una coppa e infine un libro. Ma cosa è veramente il Santo Graal? Sicuramente non è un oggetto fisico, ma qualcos’altro. Secondo alcuni rappresenterebbe un diverso tipo di coscienza raggiungibile attraverso rituali alchemici. Del resto il mito del Graal ha radici molto più arcaiche del Cristianesimo e nasce dalla fusione di antiche leggende presenti in numerose culture. Come quella celtica del "calderone del dio Dagda", che era simbolo dell’abbondanza che dispensa cibo inesauribile e conoscenza infinita, ma anche simbolo di resurrezione nel quale si gettano i morti perché resuscitino il giorno seguente. Il calderone dunque nutre i guerrieri celtici così come il sangue contenuto nel calice nutre la fede dei cristiani e li rigenera a una vita nuova.
· Le Formule di Rito.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 16 febbraio 2022.
Padre Andres Arango si è dimesso dalla chiesa cattolica di San Gregorio a Phoenix, in Arizona, che presiedeva dopo aver scoperto di aver sbagliato la formula in migliaia di battesimi, di fatto rendendoli non validi.
Arango, infatti, ha utilizzato una formula sbagliata al momento del sacramento, e invece che dire «ti battezzo», che invoca la potenza di Dio, come richiesto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, ha detto «ti battezziamo», che invece fa riferimento alla comunità.
L’uso della frase sbagliata ha invalidato tutti i battesimi che Arango ha eseguito da quando è stato ordinato sacerdote nel 1995 fino al 2021. Questo potrebbe invalidare anche le successive conferme ed eucaristia. La diocesi cattolica romana di Phoenix ha affermato che era possibile che anche alcuni matrimoni potessero essere influenzati dall’errore.
La diocesi ora lavorerà a tempo pieno offrendo guida spirituale ai cattolici i cui battesimi sono stati dichiarati non validi in modo da battezzarli nuovamente. Secondo la diocesi i battesimi non validi sono migliaia.
Tutto è nato quando il Vaticano ha emesso una nota di dottorato nel 2020 chiarendo che i battesimi conferiti con la formula plurale («Ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio dello Spirito Santo») non erano validi.
Dopo mesi di indagini, i responsabili della Chiesa della diocesi cattolica romana hanno indagato e scoperto che padre Arango aveva eseguito i battesimi in modo errato, sia a Phoenix che nelle precedenti parrocchie dove aveva operato, in Brasile e a San Diego.
In una lettera in cui annunciava le sue dimissioni, padre Arango si è scusato con chi è stato colpito dal suo errore e ha chiesto alla comunità «preghiera, perdono e comprensione».
«Mi rattrista apprendere che ho eseguito battesimi non validi durante il mio ministero di sacerdote utilizzando regolarmente una formula errata», ha detto Arango. «Sono profondamente dispiaciuto per il mio errore e per come questo abbia colpito numerose persone nella vostra parrocchia e altrove. Con l'aiuto dello Spirito Santo e in comunione con la diocesi di Phoenix, dedicherò le mie energie e il mio ministero a tempo pieno per aiutare a rimediare a questo e guarire le persone colpite».
Arango rimane un sacerdote in regola e la situazione non lo ha squalificato dalla sua vocazione e ministero, ha affermato la diocesi.
· La Mattanza dei Cristiani.
Cristiani, ecco perché fa comodo ignorare la strage. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 21 novembre 2022
I cristiani perseguitati continuano ad essere, da anni, le vittime più dimenticate e misconosciute. Di loro non si parla nell'"Agenda Progressista del Giornalista Collettivo". Per l'ideologia politicamente corretta, che è egemone nell'establishment occidentale, sembra che essi neanche esistano come vittime. Eppure sono il gruppo religioso più colpito del pianeta e la loro situazione peggiora di anno in anno. A documentare questa tragedia e ad aggiornare i dati, confatti e testimonianze, provvede il "Rapporto" puntualmente redatto dalla Fondazione pontificia "Aiuto alla Chiesa che soffre", che, nella sua ultima edizione, ha un titolo molto eloquente: "Perseguitati più che mai. Rapporto sui cristiani oppressi per la loro fede 2020-2022".
Il Rapporto di quest' anno si apre con due testimonianze.
La prima è quella di padre Abayomi, viceparroco della chiesa di San Francesco Saverio a Owo, nello Stato nigeriano di Ondo, che è stata attaccata il 5 giugno 2022, durante la Messa di Pentecoste (40 vittime e decine di persone gravemente ferite). Dopo aver raccontato le terribili ore dell'attacco, il sacerdote scrive: «La pubblicazione di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) è di vitale importanza, in quanto evidenzia le terribili minacce che i nostri fedeli devono affrontare. Non sono solo i cristiani in Nigeria a soffrire, ma anche quelli in Pakistan, Cina, India e in molti altri luoghi. I cristiani vengono uccisi in tutta l'Africa, le loro chiese vengono attaccate e i villaggi rasi al suolo. In Pakistan, sono detenuti ingiustamente sulla base di false accuse di blasfemia. In Paesi come l'Egitto, il Mozambico e il Pakistan, le ragazze cristiane minorenni vengono rapite, violentate, costrette a convertirsi e a sposare uomini di mezza età. In Cina e in Corea del Nord, i governi totalitari opprimono i fedeli, monitorando ogni loro movimento. E, come mostra questo Rapporto, la lista degli abusi è lunga. La Chiesa sofferente ha bisogno di persone che parlino per noi. Affinché le uccisioni si fermino è necessario che più organizzazioni come Aiuto alla Chiesa che Soffre proclamino la verità su ciò che sta accadendo ai cristiani in tutto il mondo. Altrimenti, resteremo per sempre perseguitati e dimenticati».
Il vescovo nigeriano mons. Jude Arogundade si è chiesto: «Quanti cadaveri sono necessari per attirare l'attenzione del mondo?».
La seconda testimonianza è quella della suora francescana Gloria Cecilia Narváez che è stata sequestrata in Mali (Africa occidentale) e «tenuta in ostaggio da militanti islamici per quattro anni e mezzo, periodo durante il quale è stata ripetutamente torturata fisicamente e psicologicamente». Dopo la sua liberazione «ha riferito come la sua fede cristiana fosse la principale fonte dell'astio nei suoi confronti e ha raccontato come i suoi rapitori si infuriassero quando lei pregava. In un'occasione, quando un capo jihadista l'ha trovata a pregare, l'ha picchiata dicendo: "Vediamo se quel tuo Dio ti fa uscire di qui". "Si è rivolto a me usando parole molto forti e offensive", ha aggiunto suor Gloria. "La mia anima ha tremato per quello che diceva questa persona, mentre le altre guardie ridevano sguaiatamente ad ogni insulto che ricevevo"». La suora francescana ha vissuto la sua prigionia e le torture con questo animo: «Mio Dio, è difficile essere incatenati e picchiati, ma vivo questo momento cosi®come Tu me lo offri... E, nonostante tutto, non vorrei che ad alcuno di questi uomini (cioè i miei rapitori) venisse fatto del male».
Queste persecuzioni stanno aumentando. Già negli anni scorsi «i dati del "Pew Research Center" per il 2019 mostravano che i cristiani, in più Paesi, erano più perseguitati di qualsiasi altro gruppo religioso. Vi è stato anche - scrive il Rapporto dell'Acs - un improvviso aumento del numero di Paesi in cui si registravano violazioni contro i cristiani: da 145 nel 2018 a 153 nell'anno seguente. La World Watch List 2022 di "Porte Aperte" ha riportato "cambiamenti di portata epocale nel panorama delle persecuzioni" ai danni dei cristiani. Per la prima volta nei 29 anni di storia di questo studio, tutti i 50 Paesi in cui si commettono maggiori violazioni della libertà religiosa sono stati classificati con livelli di persecuzione "elevati"».
Il Rapporto dell'Acs documenta un ulteriore peggioramento nel periodo ottobre 2020-settembre 2022 (fra l'altro non solo violenze ai danni dei cristiani, ma anche contro altre minoranze) che deriva da cambiamenti di regime (come in Afghanistan, con il ritorno dei talebani) o da un aumento della repressione in regimi come Corea del Nord, Cina, India e Myanmar.
Ma c'è pure una «escalation della violenza spesso finalizzata all'allontanamento dei cristiani» da parte di «attori militanti non statali. A questo proposito, preoccupa in particolar modo l'Africa, dove l'estremismo minaccia comunità cristiane tradizionalmente molto radicate. In Nigeria e in altri Paesi, questa violenza supera palesemente la soglia di un possibile genocidio».
Il direttore di ACS Alessandro Monteduro, intervistato da Valerio Pece del "Timone", ha spiegato che fino al 2015 certi paesi non conoscevano persecuzioni religiose, mentre «oggi sono l'epicentro del fenomeno. Penso ai paesi della fascia del Sahel». Infatti gli affiliati all'Isis sconfitti in Iraq hanno trovato rifugio in quest' area africana e hanno portato un grosso cambiamento: «Il Burkina Faso è un caso emblematico poiché è addirittura il terzo paese più povero al mondo, e capiamo bene che laddove non c'è speranza, laddove imperversano incuria e corruzione, non è affatto difficile operare proselitismo». Prima che l'Africa si trasformi in un condominio di Cina ed islamisti - fra l'altro provocando enormi ondate migratorie - è necessario intervenire per aiutare lo sviluppo di quel continente, come ha chiesto il Papa di recente: «Il problema dei migranti va risolto in Africa. Ma se pensiamo l'Africa con il motto "L'Africa va sfruttata", è logico che la gente scappi. L'Europa deve cercare di fare dei piani di sviluppo per l'Africa». È esattamente quello che ha prospettato Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento: «Credo che l'Italia debba farsi promotrice di un "piano Mattei" per l'Africa, un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell'area sub-sahariana».
Belgio, accoltellati due poliziotti al grido “Allah Akbar”. La storia da incubo. Il Tempo il 10 novembre 2022
Attacco terroristico in Belgio. Due poliziotti sono stati accoltellati a Bruxelles, nel quartiere Schaerbeek su rue d’Aerschot nei pressi della Gare du Nord. Uno di loro è deceduto a seguito delle ferite riportate. L’aggressore invece è stato ferito a colpi d’arma da fuoco da un’altra pattuglia intervenuta sul posto. Secondo alcuni media locali l’aggressore avrebbe urlato “Allah Akbar” nel compiere il gesto.
Secondo le prime ricostruzioni dei media belgi l’uomo si era presentato oggi a mezzogiorno in un commissariato a Evere (municipio della capitale), annunciando l’intenzione di commettere un attacco contro la polizia. Sotto la supervisione di un magistrato, è stato portato con il proprio consenso in ospedale con l’obiettivo di sottoporlo a una valutazione psichiatrica. A quanto pare, è stato successivamente dimesso. Nella serata, attorno alle 19.45, l’uomo ha quindi portato a compimento il suo piano: armato di un coltello ha aggredito due agenti in servizio Schaerbeek, in una via adiacente Gare du Nord. Uno dei poliziotti, colpito al collo, è deceduto. L’altro è ricoverato in ospedale, così come lo stesso aggressore.
"Così scampai ad un agguato". Chi era la suora uccisa in Mozambico. Suor Maria De Coppi, uccisa nella missione comboniana di Chipene, in Mozambico, era già sopravvissuta ad un'imboscata. In un'intervista aveva detto: "Gli ultimi due anni sono stati molto duri". Alessandra Benignetti il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.
La spietatezza dei guerriglieri e il terrore di finire centrata da una pallottola suor Maria De Coppi lo aveva già sperimentato. In Mozambico era scampata per miracolo ad un’imboscata in cui persero la vita 17 persone. "Viaggiavamo in convoglio, abbiamo sentito sparare, tutti hanno tentato di fuggire e anche io sono scesa dalla macchina strisciando a terra per evitare le pallottole, ho gridato Signore salvami", raccontava lo scorso ottobre con tono pacato a Mariagrazia Salmaso, direttrice del Centro missionario, la suora rimasta uccisa in un attentato jihadista alla missione di Chipene, in Mozambico.
Era tornata in Italia per effettuare alcuni controlli medici e non si era sottratta ad un’intervista con una web tv di Vittorio Veneto, La Tenda. Suor Maria raccontava di essersi salvata grazie ad un soldato che, scalza e senza occhiali, la portò in braccio fino ad un luogo sicuro. Classe 1939, questa missionaria comboniana nata a Santa Lucia di Piave, in provincia di Treviso, aveva preso i voti nel 1960. Tre anni dopo si imbarcava per la prima volta verso il Mozambico, a bordo di una nave portoghese. Un viaggio di 31 giorni che l'avrebbe condotta in quella che sarebbe diventata la sua seconda patria.
L'intervista
"Mi sento parte di quella terra e di quel popolo in mezzo al quale ho vissuto la mia vita", diceva la religiosa. Anche se, aveva confessato all’intervistatrice come gli ultimi due anni fossero stati "molto duri". "Al nord del Paese è in corso una guerra per i giacimenti di gas e la gente soffre e scappa: nella mia parrocchia ci sono 400 famiglie che arrivano dalla zona di guerra. Poi è venuto il ciclone. Infine l'anno scorso la siccità si è prolungata per tanto tempo. Oggi a Nampula c'è una estrema povertà", raccontava la suora.
In quasi sessant’anni di missione ha assistito poveri, sfollati e bisognosi. "Quando sono arrivata, - raccontava - i mozambicani si sentivano disprezzati per il colore della pelle e questo mi feriva, perché sono persone come noi". Nella parrocchia di Chipene venivano accolti i profughi in fuga dal fondamentalismo jihadista e dalla guerriglia che imperversa nel nord del Paese. Suor Maria e le sue consorelle si prendevano cura di loro, finché ieri notte il terrore è piombato sulla missione con fiamme, distruzione e saccheggi.
Sacerdoti e suore sono riusciti a mettersi in salvo trovando rifugio nella foresta. Suor Maria, invece, è stata uccisa a bruciapelo. Nella notte alla Diocesi di Pordenone sono arrivati anche i messaggi disperati di don Loris Vignandel, poi sopravvissuto all’agguato: "Qui sparano. Ci vediamo in paradiso. Stanno incendiando la casa. Se non vi risento, approfitto per chiedervi scusa delle mie mancanze e per dirvi che vi ho voluto bene. Ricordatevi di me nella preghiera. Se il buon Dio me ne darà la grazia, vedrò di proteggervi da là. Ho perdonato chi eventualmente mi ucciderà. Fatelo pure voi. Un abbraccio".
Ad esprimere cordoglio per la morte di suor Maria è il mondo della politica e dell’associazionismo cattolico, la Cei, il comune di Pordenone e la Regione Veneto, con il presidente Luca Zaia.
Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 29 giugno 2022.
Nel territorio di Rutshuru, vicino a Tshanzu, lì dove il Papa avrebbe dovuto celebrare la Messa durante la tappa a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, si è riaccesa la più che decennale guerra tra "gruppi ribelli" ed esercito congolese. Raggruppati sotto la sigla M23, i ribelli in questione sembrano appartenere all'esercito ruandese e a quello ugandese.
L'M23 sarebbe infatti la risposta dei due governi all'appoggio che a sua volta l'esercito congolese dà ai miliziani del Fdlr (ribelli hutu che si oppongono a Paul Kagame, presidente del Ruanda) servendosene anche per attaccare villaggi e interessi ruandesi.
La sanguinosa battaglia, destinata a durare, vede l'M23 all'attacco della base militare congolese di Rumangabo a 45 km da Goma e vicino al punto in cui, sulla strada che collega il capoluogo del Nord Kivu a Rutshuru, sono stati uccisi il 22 febbraio 2021 l'ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l'autista del Pam Mustapha Milambo.
Proprio qui, il 4 luglio, era prevista la celebrazione di una messa papale. Il lato tragico della vicenda è che le truppe ugandesi che ora aiutano i ruandesi sono presenti sul territorio dal mese di novembre scorso, chiamate dalle autorità di Kinshasa per combattere un'altra milizia di fuorusciti ruandesi e ugandesi, l'Adf, responsabile di feroci saccheggi e stragi nel Nord Kivu e nell'Ituri.
Quando il Pontefice programma un viaggio, prima che la notizia venga resa pubblica, i luoghi da visitare vengono ispezionati da una commissione (Advanced Team) che include anche esperti della sicurezza.
Cosa hanno visto durante i loro sopralluoghi? Il viaggio, annunciato a fine marzo e ufficializzato a fine maggio, è stato sempre accompagnato dalle notizie sulla ripresa delle ostilità nella regione. Poi, sono arrivati i dolori alla gamba del Pontefice e la realtà ha riavuto voce...
Suor Luisa Dell’Orto e la strage dimenticata dei cristiani perseguitati e massacrati. LORENZO PREZZI su Il Domani il 28 giugno 2022
Il 25 giugno ad Haiti è stata uccisa la piccola sorella del Vangelo, suor Luisa Dell’Orto. Il 20 giugno vengono trucidati a Urique (Sierra de Chihuahua - Messico) due gesuiti. Il 5 giugno in una chiesa di Owo (Ondo, in Nigeria) si registra un massacro di 40 persone con decine di feriti.
Sempre in Nigeria il 25 e 26 giugno, sono uccisi due preti e, poche settimana prima, un terzo ha perso la vita durante un sequestro.
Una manciata di giorni, decine di vittime e una condizione comune: la testimonianza al Vangelo. È solo un frammento, il più recente, di un fenomeno di ampie dimensioni, cioè le nuove persecuzioni anticristiane.
Da lastampa.it il 25 giugno 2022.
Un uomo di 42 anni arrestato in relazione alle sparatorie avvenute la notte scorsa nel centro di Oslo è stato accusato oggi di omicidio, tentato omicidio e atti di terrorismo: il bilancio degli attacchi è di due morti e 21 feriti. Lo riporta la Bbc. La persona sospetta ha sparato nel London Pub, un locale frequentato da gay, oltre che nelle vicinanze del locale notturno Herr Nilsen e di un ristorante. Il Gay Pride di Oslo che si sarebbe dovuto svolgere oggi pomeriggio è stato annullato.
Cosa è successo
L'allarme è scattato all'1,14 e il killer è stato fermato 5 minuti dopo, ha aggiunto. Nessuna parola sul possibile movente, anche se la scelta del luogo e il fatto che domani nella capitale norvegese sia in programma l'«Oslo Pride» lascia ampio spazio alla possibilità che si sia trattato di un attacco omofobo. La polizia indaga per terrorismo. Il numero delle forze dell'ordine impegnate sul territorio è stato intanto rafforzato per far fronte a nuovi eventuali incidenti.
«Ho visto un uomo entrare con una borsa, ha tirato fuori un'arma e ha cominciato a sparare», ha riferito un testimone. «Sembrava molto determinato nel prendere la mira. Quando ho capito che era una cosa seria, ho cominciato a correre. C'era un uomo sanguinante a terra», ha raccontato una donna al quotidiano Verdens Gang. Un altro testimone citato dal giornale ha parlato dell'uso di un'arma automatica - che la polizia non ha confermato - e ha descritto la situazione come «una zona di guerra: c'erano molte persone a terra con ferite alla testa», ha detto.
Manifestazione cancellata
A Oslo non è più il giorno del Pride. Cancellato «dopo aver ricevuto chiari consigli dalla polizia», hanno fatto sapere gli organizzatori in un comunicato riportato da Dagbladet dopo la sparatoria delle scorse ore che ha fatto almeno due morti e 18 feriti. «Oslo Pride chiede a tutti coloro che hanno pianificato di partecipare o assistere di non farlo - hanno aggiunto - Sono annullati tutti gli eventi collegati all'Oslo Pride».
La condanna del primo ministro
Il primo ministro Jonas Gahr Stoere, subito dopo la sparatoria, ha condannato con un comunicato diffuso dall'agenzia norvegese Ntb «il terribile e profondamente scioccante attacco portato contro persone innocenti. Non sappiamo cosa ci sia dietro, ma alla comunità Lgbtq+ che ora piange i suoi morti e ha paura voglio dire: siamo con voi».
Lorenzo Vidino per “la Repubblica” il 25 giugno 2022.
Lorenzo Vidino è il direttore del Programma sull'Estremismo alla George Washington University
È di queste ore la notizia dell'operazione in Trentino da parte dei Ros dei Carabinieri, che hanno fermato una giovane coppia, marito (ora ai domiciliari) e moglie, entrambi nati in Italia, e che secondo gli inquirenti stavano progettando un attentato ispirato dallo Stato Islamico. Non pare che ci fosse un pericolo imminente, anche se il marito, perito chimico, aveva accesso a sostanze idonee alla fabbricazione di esplosivi.
Il caso riporta comunque l'attenzione sul pericolo del terrorismo jihadista e rivela alcuni recenti trend presenti in Italia e a livello globale. Innanzitutto, il legame coi Balcani. La coppia trentina era di origine kosovara, come un numero non indifferente di militanti pro-Stato Islamico fermati negli ultimi anni in Italia. Lo scorso novembre, per esempio, era stata arrestata a Milano per proselitismo online una 19enne kosovara che faceva parte di una rete jihadista legata ai Balcani ma presente in tutta Europa e che includeva l'albanese che aveva compiuto l'attentato di Vienna nel 2020.
Nonostante l'islam locale sia storicamente tra i più moderati, dalla caduta del comunismo influenze esterne hanno portato alla radicalizzazione di una parte della popolazione musulmana balcanica e della diaspora in Europa. Nella loro relazione al Parlamento i servizi italiani definiscono la regione come «potenziale incubatore della minaccia terroristica verso l'Europa», evidenziando anche «i possibili rischi di emulazione da parte di estremisti islamici intranei alle comunità balcaniche in Europa occidentale». I casi di Trento e Milano dimostrano anche che «figure femminili, appartenenti ai nuclei familiari di noti estremisti, stanno gradualmente assumendo ruoli chiave nello svolgimento di attività» di propaganda e reclutamento.
Il caso conferma un altro trend assodato: la centralità del web. Casi di radicalizzazione in cui internet non sia presente sono una rarità assoluta e se spesso il consumo di materiale jihadista fa da compendio a dinamiche di interazione personale, sono ormai sempre più comuni dinamiche in cui l'intero percorso di radicalizzazione, dal primo incontro con l'ideologia jihadista, all'approfondimento dei temi, all'interazione con altri soggetti, per finire con l'attivazione e pianificazione di attacchi avvenga esclusivamente sul web.
Negli ultimi anni è anche diventata più comune la diffusione sul web di propaganda jihadista in lingua italiana, spesso traduzioni di testi in arabo e in inglese compiute da simpatizzanti della jihad nati e cresciuti nel nostro Paese. Infine è da notare l'apparente interesse della coppia trentina, ora indagata, ad unirsi allo Stato Islamico in Africa dopo aver compiuto un attentato in Italia.
Negli ultimi anni varie regioni dell'Africa, da paesi del Sahara alla Nigeria, dal Congo al Mozambico, hanno visto un'esplosione di attività terroriste (è dello scorso weekend, per esempio, la notizia, passata in secondo piano sui media, dell'uccisione di 132 civili nel Mali per mano di una formazione jihadista locale) ed il baricentro del jihadismo globale pare essersi spostato dal Medioriente al continente africano.
L'operazione di Trento non è di per sé indicativa di una recrudescenza del fenomeno jihadista, che ha visto il suo apice negli anni del Califfato, tra il 2014 e il 2017. Oggi i livelli sono più bassi, ma gli addetti ai lavori sanno bene che la minaccia non si è assolutamente dileguata, ma è in continua evoluzione. In Italia una traiettoria sempre più evidente, che ci porta ad avvicinarci a dinamiche viste in paesi del centro-nord Europa da anni, è quella della crescente natura autoctona (homegrown) del jihadismo nostrano.
Seconde generazioni e convertiti, soggetti che si radicalizzano sul web o in piccole aggregazioni, ma quasi sempre ben lontano da moschee e comunità islamiche. E spesso si tratta di soggetti, come pare nel caso trentino, provenienti da realtà non particolarmente problematiche, ben integrati nel tessuto sociale e con un buon livello d'istruzione.
Non un problema comunitario ma di percorsi personali, schegge impazzite che solo un capillare lavoro di monitoraggio e cooperazione con famiglie e comunità può portare il nostro antiterrorismo ad individuare. Il sistema ha anche questa volta funzionato bene, ma non ci si deve illudere che sia perfetto ed è chiaro che in futuro anche il nostro Paese possa essere colpito.
"Resti umani ovunque". Lo sfregio al cimitero cattolico in Turchia. La profanazione del cimitero cattolico di Yemişli ha sconvolto la comunità cristiana di Mardin, nel sud della Turchia. Centinaia di resti riesumati sono stati sparsi nei terreni circostanti. Alessandra Benignetti su Il Giornale il 7 luglio 2022.
Potrebbe non essere un caso che la profanazione del cimitero cattolico di Yemişli, nella provincia turca sud-orientale di Mardin sia avvenuta proprio a ridosso del giorno della festa di San Pietro e Paolo. Al centro di questa antica necropoli, il cui nucleo originario risale all’anno mille, c’è proprio una cappella dedicata ai due apostoli negli anni ’60. E ogni anno la comunità cristiana della regione, composta da fedeli di rito caldeo, siriaco e assiro, per tradizione visita le tombe dei propri antenati proprio il 29 giugno. Un attacco mirato, quindi, ai cristiani che da secoli abitano nella regione.
Lo scenario che si sono trovati di fronte quest’anno all’arrivo nel cimitero è stato raccapricciante. Secondo quanto racconta la stampa locale, ripresa dall’Agenzia Fides, centinaia di tombe sono state aperte e profanate. I resti delle salme, le ossa e gli oggetti contenuti nelle bare e accanto alle lapidi, e persino le reliquie dei santi, sono stati sparsi ovunque. I fedeli che come ogni anno si erano dati appuntamento per celebrare le funzioni religiose in suffragio delle anime dei loro cari e in onore degli apostoli Pietro e Paolo sono rimasti sconvolti. Prima lo choc, poi lo sconforto. I testimoni dell’atto vandalico hanno sporto denuncia alle autorità locali.
Sulla vicenda è stata aperta un'inchiesta, ma non è ancora chiaro chi siano gli autori del gesto diretto contro una comunità che vive nella regione di Tur Abdin sin dal Medioevo. Sono soprattutto i cristiani siro ortodossi ad essersi stabiliti tra queste montagne, non lontane dal confine con la Siria e con l’Iraq. Mardin dal 1200, come ricorda Fides, ospita la sede del patriarcato siro ortodosso di Antiochia, all’interno del Monastero di Mor Hananyo. Successivamente, a partire dal 1933 il patriarcato si è spostato in Siria, prima nella città di Homs e poi a Damasco. Non è un caso quindi che proprio nella provincia di Mardin si siano riversati migliaia di profughi cristiani provenienti dalla Siria negli anni del conflitto tra i ribelli e il presidente siriano Bashar al Assad.
Fino al 2017 le proprietà della chiesa siro ortodossa nella regione erano sotto il controllo del governo turco. Dal 2018, però, chiese, monasteri e cimiteri come quello di Yemişli sono tornati sotto il controllo del patriarcato grazie ad un decreto legge che ha sventato l’esproprio di una trentina di proprietà, che sarebbero finite nel patrimonio della della Presidenza degli Affari Religiosi, il Diyanet. Ad esprimere solidarietà alla comunità cristiana di Mardin per lo sfregio subito sono stati i rappresentanti degli yazidi che abitano la stessa regione.
"Violenze feroci e quotidiane". In Nigeria dilaga l'odio anti-cristiano. Alessandra Benignetti su Il Giornale il 7 luglio 2022.
Non si fermano le violenze contro i cristiani in Nigeria: un altro sacerdote è stato rapito mentre un gruppo di uomini armati ha ucciso i figli di un reverendo. ACS Italia: "Ferocia quotidiana, il governo intervenga".
Non c’è stato neppure il tempo per festeggiare la liberazione di quattro sacerdoti rapiti nei giorni scorsi, tra cui il missionario italiano Luigi Sbrena, che dallo Stato nigeriano di Benue è arrivata la notizia del rapimento di un altro religioso. Padre Pietro Amodu mercoledì stava andando a celebrare la messa in un villaggio della diocesi cattolica di Otukpo quando è stato preso dai sequestratori ed sparito nel nulla. Martedì notte al reverendo Daniel Umaru, pastore della chiesa anabattista dei Fratelli in Nigeria, è andata peggio. Un gruppo di banditi ha fatto irruzione nella sua residenza a Mubi, nell’Adamawa, uccidendo due dei suoi figli e rapendo una di loro, una ragazza di 13 anni. Anche lui è ricoverato in ospedale in gravi condizioni assieme alla moglie.
"Ormai il bollettino di queste feroci violenze è quotidiano", sottolinea la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, che ha diffuso la notizia. "Continuiamo a denunciare il grave stato di insicurezza che affligge i cristiani della Nigeria – prosegue l’organizzazione - e chiamiamo in causa le autorità civili, federali, nazionali e locali, affinché intervengano tempestivamente per evitare questo continuo stillicidio di violenza". Il governo di Abuja è accusato di non fare abbastanza per proteggere i cristiani, che in Nigeria sono quasi la metà della popolazione, dai continui attacchi. Il caso di padre Brena è emblematico.
Il sacerdote che si è liberato da solo: "I terroristi gli hanno tagliato un orecchio"
Secondo il resoconto fatto all’agenzia di stampa Sir dal preposito generale dei padri Somaschi, José Antonio Nieto Sepulveda, che ha sentito al telefono il missionario della stessa congregazione, il sacerdote si sarebbe liberato da solo e non grazie all’intervento delle forze dell’ordine, come raccontato dalle autorità. "Sono entrati in casa e volevano rapire padre Luigi ma lui è difeso attaccandosi alla ringhiera. Prima hanno cominciato a sparare colpi di armi da fuoco. Poi lo hanno picchiato e ferito con un coltello, gli hanno tagliato metà orecchio, quindi è stato ricoverato in ospedale. La polizia è arrivata molto dopo", assicura il sacerdote. I responsabili dell’agguato sarebbero "terroristi musulmani che arrivano dal nord della Nigeria con le mucche". "Avevano intenzione di rapirlo a scopo di riscatto. L'hanno proprio massacrato. Per fortuna non ha avuto danni alle ossa e agli organi interni", prosegue la testimonianza.
La maxi evasione di jihadisti dal carcere di Abuja
Intanto, nel Paese è scattata la caccia all’uomo per riportare dietro le sbarre oltre 400 detenuti, in parte membri del gruppo jihadista Boko Haram, evasi mercoledì dal carcere di Kuja, nella capitale Abuja. L’assalto al penitenziario, che secondo il ministro della Difesa Bashir Salihi Magashi sarebbe opera proprio dei miliziani islamisti, è scattato alle 22 di mercoledì ed è andato avanti per circa due ore. L'unità centrale contro il terrorismo è stata fatta esplodere con la dinamite e secondo fonti governative sono almeno 64 i jihadisti riusciti a dileguarsi dopo l’attacco.
Non è la prima volta che capita una cosa del genere: negli ultimi anni gruppi come Boko Haram e lo Stato Islamico sono riusciti a far evadere più di 5mila detenuti. Il presidente Muhammadu Buhari ha puntato il dito contro i servizi d’intelligence. E a poche ore dalla spettacolare evasione di Abuja, anche un convoglio della team del presidente è stato assaltato a Katsina, nel Nord-ovest del Paese.
"Ormai è caccia all'uomo". Continua la strage anti cristiana in Nigeria. Marco Leardi il 27 Giugno 2022 su Il Giornale.
Solo nelle ultime 48 ore, in Nigeria sono stati uccisi due sacerdoti. L'ennesimo tributo di sangue chiesto ai cristiani, il cui grido d'aiuto contro la furia islamista rischia di passare ancora sotto silenzio.
Il martirio continua, mentre il mondo osserva. Non si ferma la scia di sangue e di violenze che in Nigeria si sta abbattendo contro i cristiani. Solo nelle ultime 48 ore, nel Paese africano sono stati uccisi due sacerdoti: l'ennesimo tributo di sangue ingiustamente chiesto a motivo della religione. In odio al cristianesimo. Le più recenti vittime della furia islamista sono state padre Christopher Odia Ogedegbe, di 41 anni, e il confratello padre Vitus Borogo, 50 anni. Entrambi trucidati mentre svolgevano la loro missione. Il primo, in particolare, era stato rapito ieri mattina nello Stato di Edo, mentre andava a Messa. Il suo corpo è stato ritrovato senza vita in serata.
I rapitori, secondo quanto si apprende, lo avevano catturato mentre usciva dalla canonica per andare a presiedere la funzione domenicale nella chiesa cattolica di San Michele, Ikabigbo. Conoscevano dunque le sue abitudini, lo aspettavano. Pare che tre parrocchiani abbiano visto la scena e abbiano tentato di salvare il sacerdote, ma invano. La notizia attende però conferme. Il giorno prima, anche padre Vitus Borogo, prete nigeriano dello Stato di Kaduna, era andato incontro alla medesima sorte. Un gruppo di terroristi islamisti lo aveva atteso e ucciso nella fattoria di una comunità cattolica che il presule dirigeva. Don Borogo era anche cappellano della comunità cattolica del Politecnico statale di Kaduna.
Due omicidi brutali nel giro di poche ore. Due sacerdoti immolati, ancora una volta, sull'altare dell'odio anti-cristiano. Così, solo in Nigeria, il bilancio dei preti uccisi dall'inizio dell'anno sale a quota tre. I recenti delitti si aggiungono purtroppo a una lunga lista di episodi rispetto ai quali continua il disperato grido d'aiuto delle comunità cristiane locali. Il 5 giugno scorso, in occasione della solennità di Pentecoste, sempre in Nigeria alcuni uomini armati di fucili avevano aperto il fuoco contro i fedeli dentro una chiesa cattolica nel Sud Ovest del Paese, uccidendo diverse persone. E il 19 giugno, dopo un assalto contro i fedeli della chiesa cattolica di St. Moses, Robuh, nello Stato di Kaduna, tre persone erano rimaste uccise e una quarantina erano state rapite.
"È oramai una caccia all'uomo", ha denunciato la fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre, che da tempo cerca di tenere alta l'attenzione sulle stragi contro i cristiani. In Nigeria e nel mondo. Ma lo stillicidio di vite fatica talvolta a smuovere i cuori e a suscitare le reazioni politiche necessarie: così gli eccidi proseguono e passano sotto silenzio, mentre nelle istituzioni c'è chi - a sinistra - tende nascondere la matrice religiosa islamica che accomuna gli episodi di morte.
"Paese fuori controllo". Il grido dei cristiani in Nigeria dopo la strage. Alessandra Benignetti il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il portavoce della diocesi di Ondo, don Augustine Ikwu, racconta gli sforzi per identificare le vittime della strage e denuncia l'insicurezza dilagante. L'appello al governo e alla comunità internazionale: "Ora trovate i colpevoli".
Cinque bambini, quattro maschietti e una femminuccia, due ragazzi adolescenti, dodici uomini e diciannove donne. I corpi delle 38 vittime della strage nella chiesa di San Francesco a Owo, in Nigeria, giacciono da giorni nell’obitorio della città. Ma secondo il direttore delle comunicazioni sociali della diocesi di Ondo, don Augustine Ikwu, è ancora difficile avere una stima precisa dei morti nell’attacco armato alla Messa di Pentecoste. I feriti gravi sono molti e qualcuno è stato portato in ospedali privati. Ci vorrà tempo, quindi, per avere informazioni sul destino dei fedeli che domenica scorsa erano seduti tra i banchi in attesa di ricevere la benedizione.
"Stiamo cercando di contattare le famiglie di ogni persona che era in chiesa quel giorno", ha spiegato il sacerdote in un’intervista esclusiva alla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. La diocesi fa appello alle famiglie per avere informazioni sullo stato di salute delle persone coinvolte. Nelle corsie c’è chi sta lottando tra la vita e la morte. Altri invece sono stabili: "I dottori stanno facendo un ottimo lavoro e spero che sopravvivano, con la grazia di Dio, le nostre preghiere e gli sforzi del personale medico". Non né ancora chiaro chi ci sia dietro i cinque o forse più uomini armati che dopo aver parcheggiato l’auto nel parcheggio della parrocchia hanno aperto il fuoco tra le navate.
La diocesi non si sbilancia. "Non c’è ancora niente di concreto", dice il sacerdote. L’assalto non è stato ancora rivendicato. Le ipotesi che circolano, però, si limita a dire il religioso, "suonano abbastanza logiche e si adattano alla situazione generale del nostro Paese in questo momento, come l'insicurezza, i disordini politici e i conflitti tra pastori fulani e agricoltori". I principali indiziati per la mattanza sono proprio i mandriani semi-nomadi in conflitto con i contadini per il controllo delle risorse.
Nel frattempo la speranza è che gli autori del gesto vengano catturati e confessino "i veri motivi dietro l'attacco" avvenuto in uno Stato relativamente pacifico rispetto a quelli del nord, preda dei gruppi jihadisti come Boko Haram. "Anche i musulmani locali - spiega don Ikwu - sono relativamente pacifici e si sono esposti pubblicamente per condannare questa atrocità". Bisogna scongiurare una "guerra di religione". Un rischio che per alcuni sarebbe concreto, visto che dietro le scorribande dei pastori fulani per il controllo della terra la componente religiosa è sempre più presente.
L’appello del religioso quindi è che la popolazione "sia pacifica, rispettosa della legge e non si faccia giustizia da sé". "Nessuno – è la lezione del sacerdote - dovrebbe uscire per commettere il male in cambio del male. Questo non è affatto lo stile di vita cristiano. Anche in queste situazioni, rispondiamo al male con la pace". Allo stesso tempo, però, la diocesi chiede che l’inchiesta per identificare i colpevoli vada avanti. "È un momento difficile per noi e vorremmo invitare il mondo intero a ricordarci nelle sue preghiere, a pregare per i defunti, i feriti e le loro famiglie", dice don Ikwu."Chiediamo a chiunque possa – ha aggiunto - di aiutarci nelle indagini sul campo".
Infine, l’appello alla comunità internazionale: "Il mondo deve essere consapevole della situazione di insicurezza, non solo nel nostro Stato ora, ma nell'intero Paese, perché a questo punto l'insicurezza ha letteralmente preso il controllo della nazione". Il dito è puntato contro il governo nigeriano, accusato di non fare abbastanza per proteggere la propria popolazione: "Se il Paese è diventato ingovernabile, dovrebbe essere onorevole dimettersi e lasciare spazio a qualcuno che potrebbe essere in grado di gestirlo meglio", mettendo da parte "l’avidità".
Da lastampa.it il 5 giugno 2022.
Uomini armati hanno aperto il fuoco contro i fedeli dentro una chiesa cattolica nel sudovest della Nigeria uccidendo diverse persone, tra cui diversi bambini. Lo riferiscono diversi media locali.
Secondo una prima ricostruzione, il commando avrebbe anche fatto uso di esplosivi. Ogunmolasuyi Oluwole ha raccontato che gli uomini armati hanno sparato dentro la chiesa di San Francesco, nello stato di Ondo mentre i fedeli erano riuniti per la domenica di Pentecoste.
Tra le vittime, afferma, ci sono diversi bambini. Il commando avrebbe rapito un sacerdote e alcuni fedeli. Lo riferisce la Bbc online che cita alcuni testimoni.
Il medico di un ospedale locale, citato da Reuters, ha affermato che «diversi fedeli sono arrivati privi di vita». Il portale di notizie nigeriano Pm News riferisce che il bilancio potrebbe raggiungere i 50 morti Secondo la Bbc, gli assalitori avrebbero anche rapito alcune persone. Lo Stato di Ondo è uno dei più pacifici della Nigeria ed è stato poco coinvolto dall'ondata di violenza jihadista che insanguina da anni il Paese africano.
Nigeria, sparatoria in chiesa durante la messa: morti e feriti. Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 5 Giugno 2022.
Uomini armati hanno fatto irruzione durante la celebrazione della Pentecoste di una comunità cattolica nello stato di Ondo, nel sud del Paese africano.
Hanno colpito durante la messa di Pentecoste, la chiesa affollata di fedeli. Raffiche di spari, poi un boato. Urla e un disperato fuggi fuggi. Quel che è rimasto lo mostrano immagini raccapriccianti: corpi riversi in pozze di sangue, tra loro anche bambini. Owo, cittadina a 350 chilometri da Lagos, Sudovest della Nigeria, è sconvolta. «Questo è troppo. Qui non abbiamo mai visto nulla di così sconvolgente», ha reagito un deputato locale, Ogunmolasuyi Oluwole,accorso sul luogo della strage. Fino a ieri sera il bilancio era incerto, con resoconti medici che indicavano almeno una cinquantina di morti e molti feriti, anche gravi. Ma poteva andare persino peggio perché il terrore è arrivato quando la celebrazione stava per finire e alcuni fedeli erano già usciti, come ha raccontato padre Andrew Abayomi, sacerdote della chiesa cattolica di San Francesco scampato alla carneficina: «Stavamo per concludere la funzione. Avevo persino chiesto alle persone di iniziare ad andarsene, poi abbiamo iniziato a sentire gli spari provenire da diverse parti», ha detto alla Bbc. «Ci siamo nascosti per 20 minuti. Quando abbiamo capito che se ne erano andati, siamo usciti e abbiamo portato le vittime in ospedale».
Alcuni sopravvissuti hanno riferito di un prete e di alcuni fedeli rapiti. Una versione rilanciata da un deputato che rappresenta l’area di Owo nel Parlamento nazionale, secondo cui a essere stato preso in ostaggio sarebbe il sacerdote che stava celebrando la messa. Ma la notizia è stata prontamente smentita dalla diocesi di Ondo, lo Stato nigeriano in cui si trova Owo: «Tutti i preti e il vescovo della parrocchia sono salvi e nessuno è stato rapito», si legge in un comunicato.
Un altro testimone ha riferito di aver visto «almeno cinque uomini armati all’interno della chiesa», prima di fuggire per mettersi in salvo. Hanno attaccato con armi da fuoco ed esplosivi, ha confermato il portavoce della polizia dello Stato, Ibukun Odunlami all’Afp.
«Il nostro cuore è pesante» ha twittato il governatore Rotimi Akeredolu, originario proprio di Owo, «la nostra pace e tranquillità è stata attaccata dai nemici del popolo». In effetti se la maggior parte della Nigeria è alle prese con un’enorme crisi di insicurezza — l’estremismo islamico nel Nordest e le bande di saccheggiatori e rapitori che terrorizzano il Nordovest e il centro del Paese — lo Stato di Ondo era finora conosciuto come una delle aree meno a rischio del Paese. Anche in questo Stato però sta crescendo lo scontro tra pastori nomadi Fulani, per lo più islamici e «forestieri» da un lato, e gli agricoltori Yoruba, stanziali e cristiani, dall’altro.
Così malgrado non ci sia stata alcuna rivendicazione, i primi sospetti si concentrano proprio sui Fulani che dal Nord del Paese, complice la progressiva desertificazione, si stanno spingendo sempre più a Sud alla ricerca di nuove terre. Un conflitto per le risorse che si sta trasformando sempre più in scontro etnico-religioso, particolarmente acceso nella fascia centrale della Nigeria: in un anno si è registrato un aumento del 43% delle atrocità di massa, più di quelle terroristiche.
«È un attacco contro il governatore Rotimi Akeredolu (originario proprio di Owo, ndr) per il suo sostegno alla sicurezza nella terra yoruba. I terroristi, per lo più stranieri fulani, dovrebbero essere presi e uccisi dalle forze di sicurezza», accusa l’organizzazione yoruba Afenifere.
«Pur mettendo al centro la conquista di territori per i loro allevamenti di bestiame, i pastori fulani si rendono protagonisti di assalti a villaggi abitati prevalentemente da cristiani — osserva Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre — Negli ultimi anni i Fulani si sono dotati di Ak47. L’assenza di un buon governo e la corruzione sta contribuendo a tutto questo».
Parole di condanna sono arrivate dal presidente nigeriano Muhammadu Buhari, all’ultimo anno di un mandato segnato da dure critiche per la sua inefficacia sul fronte della sicurezza.
Commozione e sgomento dalla Nigeria all’Italia. Papa Francesco ha rivolto una preghiera «per le vittime e per il Paese, dolorosamente colpiti in un momento di festa». Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha parlato di «violenza inaudita».
Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.
«The Harvest of death», così l'aveva definito Amnesty International in un rapporto pubblicato alla fine del 2018. Il raccolto della morte: nei tre anni precedenti, il conflitto tra agricoltori e pastori in Nigeria aveva mietuto quasi quattro mila persone.
Amnesty documentava il fallimento delle politiche (non) messe in atto dal governo del presidente Muhammadu Buhari per contrastare questa violenza in gran parte sotto traccia.
Il raccolto di sangue è andato crescendo di anno in anno. Mentre le attenzioni del mondo si concentravano (si fa per dire) sulla minaccia di Boko Haram nel Nord-Est del Paese (soprattutto dopo il rapimento delle ragazze di Chibok avvenuto nel 2014) altre stragi e altri massacratori sono passati più inosservati. Forse perché non hanno alle spalle gruppi terroristici ben definiti e rivendicazioni altisonanti, con leader capaci di fare colpo sull'opinione pubblica.
L'attacco di ieri alla chiesa di San Francesco di Owo, in uno Stato come quello di Ondo finora relativamente risparmiato dall'ondata di rapimenti e attacchi che hanno riguardato varie parti della Nigeria negli ultimi mesi, rientra in questa casistica. Piccolo Stato agricolo del Sud-Ovest, 3 milioni e passa di abitanti in maggioranza cristiani di etnia Yoruba.
Anche lì in passato si erano registrati alcuni attacchi da parte degli estremisti fulani, popolazione seminomade di religione musulmana sparsa in diversi Paesi dell'Africa Occidentale (dal Lago Ciad all'Oceano Atlantico). Il paradigma è vecchio quanto il mondo: pastori contro agricoltori. Ragioni ambientali: la progressiva desertificazione ha spinto i mandriani sempre più a Sud.
È una guerra per la terra che va in scena in altre parti dell'Africa subsahariana, dal Mali al Sudan. Nello Stato di Ondo, racconta Josiah Oluwole sul giornale locale The Times, la scintilla solitamente è la distruzione dei raccolti da parte del bestiame dei nomadi.
Ma i contrasti tra comunità hanno sempre più spesso assunto una connotazione religiosa. Musulmani contro cristiani. Con le autorità, anche quelle del governo centrale, spesso accusate di non fare nulla contro gli estremisti. Lo stesso presidente Buhari, in scadenza di mandato, è di famiglia Fulani. E questo spiegherebbe la «disattenzione» del governo.
Domenica scorsa il primate della Chiesa Metodista, Samuel Kanu, è stato rapito nello Stato di Abia, nel Sud-Est del Paese, da una gang di otto fulani dai 18 ai 25 anni («parlavano la loro lingua» ha detto alla Bbc dopo la liberazione ) che ce l'avevano a morte con il presidente: «Lo vorremmo fare a pezzi perché ci ha tradito». Kanu, rilasciato dopo il pagamento di un riscatto di quasi 200 mila dollari, ha accusato i militari nigeriani di collusione con i rapitori: «Erano in zona e non hanno fatto nulla».
Più che estremisti islamici, i sequestratori del vescovo metodista sembravano criminali comuni. La via dei soldi è un altro elemento del «raccolto di morte» che insanguina il Paese. Con il correlato della corruzione endemica. Dopo il rapporto del 2018, le forze armate nigeriane chiesero la messa al bando di Amnesty International. La vita delle persone non è tenuta in grande considerazione in Nigeria, neppure da coloro che sono pagati per proteggerla.
Da il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.
«Liberi», detti anche Peul o Fulbe: il nome di una popolazione seminomade in grande maggioranza musulmana, presente in diversi Paesi (in prevalenza) dell'Africa Occidentale: Nigeria, Mali, Guinea, Senegal e Niger. La struttura sociale dei pastori Fulani è egualitaria, in contrasto con altri gruppi come gli Hausa e con la maggior parte dei Fulani stanziali.
In Nigeria sono 13 milioni (il 6% della popolazione). È nato in una famiglia fulani il presidente Buhari, accusato di non fare abbastanza contro la violenza sui cristiani.
Strage in Nigeria, un testimone: "In un attimo si è scatenato il panico. C'erano corpi ovunque". Raffaella Scuderi su La Repubblica il 6 giugno 2022.
Damilola Olufemi si trovava a dieci minuti dal luogo della carneficina nella chiesa di San Francesco. Lutto cittadino oggi a Owo. La comunità cristiana della città si è recata al palazzo del re per chiedere spiegazioni e sicurezza.
"Stavo guidando la mia auto a poca distanza dal luogo della strage quando ho sentito una forte esplosione. Improvvisamente si è scatenato il panico. La gente correva per cercare un riparo". Damilola Olufemi è un reporter di Abuja che ieri si trovava a Owo, nello Stato di Ondo, dove è avvenuto il massacro di almeno 30 persone nella chiesa di San Francesco, nella domenica di Pentecoste.
Pierluigi Bussi per “la Stampa” il 6 giugno 2022.
Ancora cristiani nel mirino: uomini armati hanno ucciso fedeli in preghiera durante la messa di Pentecoste nella chiesa cattolica di San Francesco a Owo, una città nello Stato di Ondo, nel sud-ovest della Nigeria. L'attacco avrebbe provocato decine di vittime.
Si parla di oltre 50 secondo il quotidiano locale The Daily Nation, tra cui ci sarebbero molti bambini. In base alla ricostruzione dei media nigeriani, gli assalitori in un primo momento hanno fatto esplodere ordigni vicino all'altare per poi sparare ai fedeli. Padre Andrew Abayomi, uno dei sacerdoti della chiesa, ha dichiarato: «La Messa era quasi terminata e stavo invitando i fedeli ad uscire quando ho cominciato a sentire spari provenienti da tutte le parti.
In pochi minuti la chiesa è diventata una pozza di sangue, con urla di donne e bambini che cercavano di nascondersi tra i banchi». Due settimane fa, due sacerdoti cattolici sono stati rapiti a Katsina, lo Stato del presidente Muhammadu Buhari, nel nord del Paese e tuttora sono nelle mani dei rapitori.
Forti le dichiarazioni del governatore Akeredolu dopo la carneficina. «L'attacco vile e satanico è un assalto calcolato alle persone amanti della pace dello Stato di Ondo che hanno goduto di una relativa pace nel corso degli anni. È una domenica nera per tutti noi. I nostri cuori sono pesanti. La nostra pace e tranquillità sono state attaccate dai nemici del popolo.
Questa è una perdita personale, un attacco al nostro caro stato. Si tratta di un attacco inaspettato. Sono a dir poco scioccato. Tuttavia, impegneremo ogni risorsa disponibile per dare la caccia a questi assalitori e fargliela pagare. Non ci inchineremo mai alle macchinazioni di elementi senza cuore nelle nostre risoluzioni di liberare il nostro stato dai criminali.
Esorto il nostro popolo a rimanere calmo e vigile». «La Nigeria è attualmente uno dei posti più pericolosi per i cristiani», afferma Illia Djadi, analista di Open Doors per l'Africa subsahariana. «Il Paese è stato testimone di un'esplosione di violenze negli ultimi mesi. Gli attacchi si verificano quasi quotidianamente. E ciò che sta accadendo è la triste realtà di ciò che avviene in tutta l'Africa occidentale».
Vi sono anche segnali crescenti che i gruppi estremisti islamici hanno iniziato a lavorare insieme e ad ampliare l'impatto della loro violenza. David Landrum, Direttore di Open Doors Advocacy, afferma: «Sembrerebbe che il paese debba ora affrontare un mostro a tre teste - come Boko Haram, Iswap, militanti Fulani, terroristi che agiscono in cooperazione tra loro».
La matrice dell'attacco al momento è ancora da identificare, ma sembra che dietro all'atto terroristico ci siano i Fulani, un gruppo terroristico formato da pastori musulmani che si muove sempre più spesso alla ricerca di pascoli verdi a Sud, causando la devastazione di raccolti e terreni coltivati dagli agricoltori, in prevalenza cristiani.
Dietro l'attacco ci potrebbe essere un messaggio inviato al governatore dello Stato di Ondo, Arakunrin Akeredolu, a seguito delle sue recenti iniziative politiche, considerate restrittive per le attività dei pastori nella regione.
Non si può comunque escludere che dietro alla strage ci sia la mano di Boko Haram/Iswap. I jihadisti pro-Isis nelle ultime settimane stanno subendo una pesante offensiva nel Nord Est del Paese con l'Operazione Lake Sanity nell'area del Lago Ciad, tanto che in pochi giorni hanno perso decine di uomini, equipaggiamenti, risorse e basi. Di conseguenza, potrebbero cercare vendetta, anche se non era mai accaduto finora che fosse colpita una chiesa nel Sud della Nazione.
La Nigeria sta convivendo con un'impennata di violenza. Rapimenti e attacchi sono stati segnalati in tutto il Paese, dove circa 3.000 persone sono state uccise e oltre 1.500 sono state rapite nei primi tre mesi dell'anno, secondo i dati diffusi dal Nigeria Security Tracker. Gli eventi, però, sono concentrati principalmente nel quadrante Nord-Ovest. Il sud-ovest, e in particolare lo stato di Ondo, sono considerati invece un luogo di relativa pace e calma.
"Vogliono imporre l'oscurantismo". Chi c'è dietro la strage dei cristiani in Nigeria. Alessandra Benignetti il 6 Giugno 2022 su Il Giornale.
Dietro l'attacco una possibile ritorsione dei fulani contro il governatore dello Stato dell'Ondo. Aiuto alla Chiesa che Soffre: "Con la saldatura tra Boko Haram e pastori musulmani cristiani nel mirino anche nel sud del Paese".
Potrebbe esserci la saldatura tra i gruppi jihadisti come Boko Haram e i pastori fulani dietro l’attacco della domenica di Pentecoste nella chiesa di San Francesco ad Owo, nello stato di Ondo, nel sud-ovest della Nigeria. Secondo gli analisti la cooperazione tra i miliziani islamisti che seminano il terrore nel nord del Paese e i mandriani nomadi in conflitto con la popolazione stanziale per la conquista dei terreni da destinare al pascolo ha esportato la violenza anti-cristiana anche fuori dal tradizionale raggio di azione dei terroristi islamici.
I rappresentanti locali, come Adeyemi Olayemi, non hanno dubbi sul fatto che i pastori radicalizzati siano responsabili della mattanza. Dietro, secondo il deputato della Camera dell'Assemblea statale di Ondo, ci sarebbe una "ritorsione" contro il governatore dello Stato, Rotimi Akeredolu, che ha estromesso il gruppo dall’area. Anche Afenifere, organizzazione locale legata all’etnia yoruba, non ha dubbi sul fatto che l’attacco fosse diretto contro il governatore "per il suo incrollabile sostegno alla sicurezza" e il "rigoroso rispetto della legge sul pascolo aperto". Secondo i racconti dei testimoni, ripresi dai quotidiani locali, gli assalitori, almeno cinque, sarebbero arrivati attorno a mezzogiorno, a bordo di una Golf.
Hanno parcheggiato all’esterno della chiesa e sono entrati nell’edificio qualche minuto prima della fine della messa. Si sono confusi tra i fedeli, poi hanno lanciato un ordigno nella navata principale e hanno aperto il fuoco sparando per oltre 15 minuti. Il parroco, padre Andrew Abayomi, è riuscito a nascondersi assieme ad altre persone finché i terroristi non si sono allontanati. Una volta rientrati in chiesa si sono trovati davanti ad un lago di sangue. A terra c’erano i corpi di uomini, donne e bambini, falciati mentre erano raccolti in preghiera. "Sembrava la scena di un film", ha raccontato al quotidiano nigeriano Vanguard una delle vittime.
Almeno 25 persone sarebbero morte sul colpo. Quelle che ancora respiravano sono state caricate sui pick-up e portate al Federal Medical Centre di Owo. Il bilancio delle vittime è ancora incerto. Si parla di 35 persone, ma potrebbe salire nelle prossime ore. Il presidente Muhammadu Buhari, ha condannato la strage. "Questo Paese - ha detto - non cederà mai al male e le tenebre non vinceranno mai la luce". Ma le autorità sono sotto accusa per non aver garantito la sicurezza, ancora una volta. Da mesi, infatti, nel Paese si moltiplicano le stragi nei villaggi e i rapimenti a scopo di riscatto. "Il governo dovrebbe assumersi la sua responsabilità primaria di garantire la vita e la proprietà dei suoi cittadini. Il mondo ci sta guardando!", esorta monsignor Lucius Ugorji, presidente della Conferenza episcopale della Nigeria. Il rischio, altrimenti, è che si acceleri "la caduta del Paese nell'anarchia".
Per il vescovo della diocesi di Ondo, Jude Arogundade, invece, la Nigeria sarebbe già, a tutti gli effetti, un Paese in conflitto. L’obiettivo degli assalitori, secondo il monsignore, era quello di fare più vittime possibile: "Chi cercava di fuggire all’esterno veniva colpito dall’esterno e quelli che si trovavano dentro sono stati colpiti dall’interno". Poi gli attentatori hanno fatto deflagrare l’altare con la dinamite. "Quello che il mondo deve sapere – ha detto il vescovo – è che la Nigeria è in guerra e che questa guerra è diretta contro i civili". Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre, fondazione pontificia che si occupa di sostenere i cristiani perseguitati, è d’accordo: "Questo non è soltanto un attacco ai cristiani, ma è un attacco contro lo Stato e contro le istituzioni debolissime e ultra-corrotte della Nigeria".
"Nel Paese – spiega raggiunto al telefono dal Giornale.it - i cristiani sono quasi la metà della popolazione, attaccarli vuol dire attaccare la laicità delle istituzioni per imporre la propria visione estremista". Nel mirino, quindi, secondo Monteduro, ci sono tutte quelle comunità che non si piegano alla violenza e al radicalismo. In cima alla lista ci sono i cristiani. Ma c'è posto anche per i musulmani moderati o gli studenti. "Non a caso negli ultimi due anni – rivela - ci sono stati tantissimi rapimenti di universitari che frequentano le facoltà scientifiche. Letteralmente Boko Haram significa che ‘l’educazione occidentale è peccato’. Dietro queste stragi, quindi, c’è la volontà di attaccare la cultura occidentale ed imporre l’oscurantismo".
Lo scontro tra mandriani e contadini, in Nigeria, esiste da sempre. Ma negli ultimi anni c’è stato un salto di qualità, sia per il flusso di armi pesanti dalla Libia destabilizzata, sia per la collaborazione instaurata dai pastori musulmani fulani con i soldati della Jihad attivi nel nord del Paese. "È per questo – spiega Monteduro - che i cristiani ora sono sotto tiro anche in Stati tradizionalmente sicuri".
Cina, terremoto nella Chiesa: arrestato il cardinale Joseph Zen, "colluso con forze straniere". Cosa farà il Papa ora? Libero Quotidiano l'11 maggio 2022.
Terremoto in Vaticano per l'arresto del cardinale Joseph Zen Ze-kiun, 90 anni, vescovo emerito di Hong Kong, in pensione dal 2009, noto sostenitore del movimento democratico, che è stato fermato dalle autorità cinesi. Lo affermano fonti locali e diversi media cittadini riportati da AsiaNews, secondo cui il fermo è legato alla gestione del Fondo 612, che fino alla sua chiusura ha assistito migliaia di manifestanti pro-democrazia coinvolti nelle proteste del 2019.
"Il cardinale Zen era uno degli amministratori fiduciari dell'organizzazione benefica, che ha smesso di operare nell'ottobre scorso", si legge. "Le autorità lo hanno arrestato insieme ad altri promotori del Fondo, tra cui l'avvocato Margaret Ng Ngoi-yee, l'accademico Hui Po-keung e la cantautrice Denise Ho". Da quanto si apprende, riporta l'agenzia del Pime, "l'indagine delle Forze dell'ordine si concentra sull'eventuale 'collusione' del Fondo 612 con forze straniere, in violazione della draconiana legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino nell'estate 2020". Zen è da tempo nel mirino del governo cinese. A gennaio la stampa pro-establishment ha pubblicato quattro articoli in cui lo si accusava di aver incitato gli studenti a rivoltarsi nel 2019 contro una serie di misure governative.
L'accusa di cui devono rispondere gli arrestati, la collusione con forze straniere, è uno dei quattro reati previsti dalla legge sulla sicurezza nazionale nella città imposta da Pechino a giugno 2020, e condannata a livello internazionale, per spegnere le proteste pro-democrazia di Hong Kong, assieme ai reati di sovversione, secessione e terrorismo e può comportare pene fino all'ergastolo.
Ora come si muoverà Papa Francesco?
(ANSA il 12 maggio 2022) - La Cina ha difeso l'arresto del cardinale Joseph Zen, 90 anni, e di altre tre persone ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, una mossa che ha alimentato indignazione internazionale e nuovi timori per la repressione di Pechino sulle libertà dell'ex colonia.
"Le persone interessate sono sospettate di cospirazione per collusione con Paesi stranieri o forze straniere per mettere in pericolo la sicurezza nazionale, un atto di natura grave", ha affermato l'Ufficio commissariale che rappresenta il ministero degli Esteri cinese a Hong Kong. Zen, arrestato ieri pomeriggio, è stato rilasciato in seguito su cauzione.
Lorenzo Lamperti per “la Stampa” il 12 maggio 2022.
Il nuovo capitolo della «democrazia con caratteristiche di Hong Kong», come Pechino ha descritto la nomina di John Lee a nuovo leader dell'ex colonia britannica, si apre come si era chiuso il precedente: con la repressione. Stavolta a farne le spese è Joseph Zen, il 90enne cardinale sostenitore dell'opposizione democratica di Hong Kong.
Un'opposizione che non esiste più, smantellata sul lato politico dalla riforma elettorale dei "patrioti" e su quello civile dalla legge di sicurezza nazionale. Proprio la legge che l'ex vescovo cattolico avrebbe violato in relazione alla sua gestione del Fondo Umanitario 612, creato per sostenere i manifestanti nel pagamento delle spese legali.
Il fondo ha raccolto e distribuito 31,2 milioni di dollari fino all'ottobre 2021, quando è stato chiuso in seguito all'apertura dell'inchiesta. L'accusa è di «collusione con forze straniere», per aver ricevuto somme e donazioni dall'estero. Zen ha aiutato migliaia di attivisti ad affrontare i loro processi ed è sempre stato molto critico sulla progressiva erosione dell'autonomia di Hong Kong.
Insieme a lui sono stati arrestati anche gli altri ex fiduciari del fondo: l'avvocatessa Margaret Ng, l'accademico Hui Po-keung e la cantante Denise Ho. Dopo qualche ora di interrogatorio della polizia, poco prima della mezzanotte locale, il cardinale è stato rilasciato su cauzione.
Zen è da tempo nel mirino delle autorità: in questi anni ha spesso presenziato ai processi contro gli attivisti democratici e a gennaio i media allineati col Partito comunista lo avevano accusato di aver incitato gli studenti alla ribellione. Da quando aveva lasciato la carica di vescovo della città, nel 2009, si erano progressivamente logorati anche i rapporti tra il cardinale e il Vaticano.
Zen ha criticato l'accordo sulla nomina dei vescovi raggiunto nel 2018 (e prorogato nel 2020) tra Santa Sede e governo cinese. «La Chiesa avrebbe dovuto negoziare con Hitler? O con Stalin?», si era chiesto. Aggiungendo che la distensione con Pechino avrebbe costituito un «tradimento» di Cristo.
Zen aveva inoltre chiesto un intervento diretto di Bergoglio durante la repressione delle proteste. La Santa Sede ha fatto sapere di aver «appreso con preoccupazione la notizia dell'arresto» e di seguire «con estrema attenzione l'evolversi della situazione». Anche per la marginalità della sua figura all'interno della chiesa cattolica, in pochi si attendevano un arresto.
Mossa che potrebbe invece riportare la sua figura al centro dell'attenzione. Ma Zen rappresenta un punto di riferimento spirituale, civile e in qualche modo politico per i filo democratici rimasti senza rappresentanza parlamentare. E la priorità di Pechino, evidentemente, è quella di annichilire qualsiasi forma di attivismo pro democratico a Hong Kong. Anche a costo di aprire un possibile nuovo fronte internazionale creando più di un imbarazzo nei suoi rapporti con la chiesa cattolica.
Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2022.
La reazione ufficiale arriva a metà pomeriggio, poche parole affidate al portavoce vaticano Matteo Bruni. La Segreteria di Stato si è messa al lavoro da ore, ormai già si attende la liberazione del cardinale su cauzione, ma non si sa mai: «La Santa Sede ha appreso con preoccupazione la notizia dell'arresto del cardinale Zen e segue con estrema attenzione l'evolversi della situazione».
Nient' altro, perché «la situazione è già abbastanza complicata», spiegano Oltretevere, e adesso si tratterà di «valutare le conseguenze» di ciò che è accaduto. Situazione inaudita, l'arresto di un cardinale, anche perché i cardinali hanno il passaporto diplomatico e godono in genere di immunità: non col regime cinese, però, considerato che il Vaticano e Pechino non hanno rapporti diplomatici da quando Mao prese il potere e il nunzio Antonio Riberi fu costretto a lasciare il Paese due anni più tardi, il 5 settembre 1951.
Un primo, faticoso passo, preparato da decenni di relazioni diplomatiche sottotraccia, è stato l'«accordo provvisorio» sulla nomina dei vescovi firmato a Pechino il 22 settembre 2018, entrato in vigore un mese dopo «ad experimentum» per due anni e rinnovato il 22 ottobre 2020 per altri due: scade in autunno. E certo, come se già le difficoltà e le resistenze nell'apparato cinese non fossero abbastanza, l'arresto di un cardinale non è il miglior viatico per proseguire nell'intesa e renderla stabile.
Il paradosso è che anche nella Chiesa non mancano le resistenze e, fra tutti, il maggiore oppositore della nuova «Ostpolitik» vaticana, simbolo e capofila del «no», è proprio il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, in pensione dal 2009, arrivato nel frattempo a novant' anni ma non per questo meno combattivo.
Mentre si stava per rinnovare l'accordo, per dire, reagì con una lettera aperta tradotta in varie lingue nella quale dava del «bugiardo» al cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e lo accusava tra l'altro di aver detto cose «stomachevoli» e di «dialogo col nemico», fino a scrivere: «Non so perché il Papa si lascia manipolare da lui».
Quando è andato in pensione anche il successore ed ex coadiutore di Zen, Francesco ha nominato ad Hong Kong il confratello padre Stephen Chow Sau-yan, 61 anni, fin all'anno scorso Provinciale e quindi superiore dei gesuiti nella provincia cinese della Compagnia di Gesù. Una scelta significativa, considerata la storia dei gesuiti in Cina, la missione di dialogo iniziata quattro secoli fa da Matteo Ricci.
Per Francesco si tratta di uno degli obbiettivi fondamentali del pontificato, con buona pace delle preoccupazioni degli Usa, nella convinzione che «l'Asia è il futuro della Chiesa». Ma l'arresto di un cardinale, per quanto riottoso, non è qualcosa che la Santa Sede possa far passare come niente fosse.
Dove i cristiani svaniscono: la fuga dal Medio Oriente raccontata da Janine Di Giovanni. Angiola Codacci-Pisanelli su L'espresso il 2 Aprile 2022.
Il titolo è un omaggio a Henri Carter-Bresson: «Noi fotografi abbiamo a che fare con cose che svaniscono di continuo, e quando sono svanite non c’è modo di farle tornare indietro. Non possiamo sviluppare e stampare un ricordo», ha detto il famoso creatore di immagini che non si cancellano più dalla memoria di chi le ha viste. Ma a svanire, nel libro “The vanishing” di Janine Di Giovanni (Bloomsbury), sono persone, famiglie, un popolo intero: i cristiani del Medio Oriente, sempre meno numerosi nella terra in cui la loro religione ha avuto origine. «Tra cent’anni non ce ne saranno più, ho detto a un sacerdote del posto», ha raccontato l’autrice. «Lui mi ha risposto: “Un secolo? Che ottimismo: ci vorranno a stento quarant’anni…”».
Di Giovanni ha iniziato a frequentare la zona trentacinque anni fa e l’ha girata in lungo e in largo mentre lavorava come corrispondente di guerra: un settore che tristemente vede il Medio Oriente come una fonte inestinguibile di notizie. Arrivata nel 1987 per occuparsi della prima intifada, Di Giovanni ha seguito poi la guerra in Iraq, la Siria, il Libano. Dei conflitti che hanno segnato la fine del secolo scorso non ne ha saltato uno: Bosnia, Ruanda, Cecenia, un altro territorio islamico, dove ha corso più rischi: «Ero entrata senza visto e sono rimasta fino alla fine. I russi stavano chiudendo il cerchio intorno al villaggio dov’ero, rintanata in una casa con dei soldati ceceni. Non sapevo come scappare, quando ho visto arrivare l’intermediario che avevo pagato per farmi entrare clandestinamente. Mi ha dato uno scialle per coprirmi la testa, mi ha messo in braccio un bambino urlante e mi ha detto che da quel momento ero sorda e muta. Mi hanno fatto salire su un camion e sono riuscita a scappare così: poco dopo i russi sono entrati nel villaggio e hanno massacrato tutti».
La sua scelta è sempre stata di andare come indipendente, non “embedded” con i militari «che ti fanno parlare solo con il capo del villaggio e non con i ragazzi del posto». E di ascoltare tutti, «anche i soldati israeliani durante la prima intifada: ero convinta che fossero dalla parte del torto ma nel mio libro ho dato voce anche al loro punto di vista». Tra le atrocità incontrate, il triste record lo assegna all’esercito siriano: «Lì torturano a morte anche i bambini», racconta. Tutte le guerre hanno elementi comuni: uno dei più tragici è il bombardamento degli ospedali: «Quando lo fa Israele a Gaza dice che lì si nascondevano terroristi, ora i russi dicono di farlo per errore ma c’è un calcolo preciso. Se uccidi un solo chirurgo, uccidi centinaia di persone: i feriti che lui avrebbe salvato e ora sono destinati a morire. È più che un crimine di guerra: è il male assoluto».
In mezzo alle urla e alle esplosioni, Di Giovanni è stata colpita da un evento silenzioso: la diminuzione continua della componente cristiana della popolazione. «In Iraq sono stati cacciati dall’Isis, ma non è solo la violenza a spingere alla fuga», ha raccontato presentando il libro presso il Centro Studi Americani, a Roma, dove è venuta per regalarne una copia a Papa Francesco. «I cristiani hanno pochi figli, e quei figli una volta cresciuti scelgono di emigrare in cerca di migliori condizioni di vita». E già questo per lei è stato uno choc: «Io vengo dagli Stati Uniti, un Paese giovane: mio padre è arrivato qui da Napoli da bambino con suo padre che fuggiva dal fascismo. Ma loro hanno vissuto nello stesso territorio per oltre duemila anni, e adesso stanno svanendo».
Il saggio intreccia giornalismo e memoir, le informazioni sulle guerre vissute in prima persona e le emozioni che quando lavora Di Giovanni si impone di mettere a tacere. E la storia delle religioni, legata a quella dei colonizzatori, europei cristiani che arrivavano come padroni nella terra in cui erano nati Gesù e i personaggi della Bibbia. La struttura del libro disegna una geografia dell’assenza: Iraq, Gaza, Siria, Egitto. Dopo aver visto chiese, magari brutte ma accoglienti, in ogni parte del martoriato mondo che frequentava, è a Mosul, durante «l’invasione americana dell’Iraq», che Di Giovanni si rende conto «che tutte queste antiche popolazioni erano in grande pericolo di scomparire, di essere inghiottite come Giona nel ventre della balena. Caldei, babilonesi sumeri, accadici, tutti i rami intrecciati del cristianesimo antico erano minacciati dall’estinzione».
Particolarmente precaria è la situazione dei cristiani di Gaza, circa un migliaio di persone che, oltre ad affrontare le difficoltà di tutti i non ebrei, vengono ostracizzate dalla maggioranza musulmana («Elias al-Jalda, il portavoce della Chiesa Greca Ortodossa nella Striscia di Gaza, accusa Hamas di rendere sempre più difficile il passaggio della frontiera con Israele per i cristiani, sottoponendoli a perquisizioni invasive, e di spingerli a matrimoni con musulmani»). Il racconto della Siria è alla luce del paradosso che vede la roccaforte del potere della famiglia Assad proprio a Damasco, città legata a quel momento fondamentale per la storia del cristianesimo che è stata la conversione di un cittadino romano che sarebbe diventato San Paolo.
Qui Di Giovanni incontra le suore di Maaloula che rifiutano di mettersi al sicuro lasciando il convento e le persone di cui si occupano, e il vescovo Antoine Chbeir, un cattolico maronita libanese che malgrado tutto confida nel regime di Assad per la sopravvivenza dei cristiani della regione: «La relazione tra cristiani e musulmani sono buone, grazie agli alawiti che governano. Gli alawiti sono una parte della comunità islamica che è stata perseguitata dai sunniti, che li considerano eretici». E quindi, confida il vescovo come molti altri cristiani siriani, «capiscono i problemi di una religione minoritaria e sono pronti a proteggere i cristiani dai sunniti, che formano la maggioranza dell’islam».
Tra gli egiziani copti, invece, Di Giovanni si sofferma sulla storia di Adhan, uno degli “Zabbaleen” che gestiscono la spazzatura della “Garbage City” del Cairo: ma sindaco e governo, denuncia, stanno affidando la gestione a ditte straniere, anche italiane, «per punire la minoranza cristiana». Mary invece ricorda che non si era mai sentita cristiana prima che arrivasse al potere Sadat, che si scontrò con il patriarca copto quando volle indicare come base della costituzione la sharia, il diritto tradizionale islamico. «Quello è stato l’inizio della fine», ricorda Mary: quando tutta la sua famiglia ha iniziato a emigrare. Lei resta, perché spera ancora di costruire con i vicini musulmani una comunità condivisa, dove però lei e le sue figlie non siano costrette a indossare il velo.
Dopo tante guerre vissute in prima linea, Di Giovanni la guerra in Ucraina la sta seguendo in una posizione diversa. Fa parte della commissione Onu che si occupa di “transitional justice”, dove si stanno già preparando i processi contro i crimini che i russi stanno commettendo. «Insegniamo alle persone come raccogliere prove delle violenze, in modo che abbiano i requisiti per servire come testimonianze in tribunale». Perché già mentre la guerra è in corso, Di Giovanni pensa a come finirà: «È strano a dirsi ma una guerra è importante che “finisca bene”: cioè con una giustizia riparativa. Se non punisci chi l’ha scatenata, se le vittime non hanno la sensazione di aver ricevuto in qualche modo giustizia, nasce il bisogno di vendetta. Che è la radice di un nuovo conflitto».
A chi le chiede come ha potuto scrivere un libro che parla di Dio dopo aver conosciuto tutte le guerre del mondo, Di Giovanni risponde citando l’eroismo dei buoni: i medici, i volontari ma anche tutte le persone comuni che dopo un bombardamento si danno da fare per aiutare e ripulire «sapendo che corrono il rischio di un secondo bombardamento che colpisca proprio loro». Ma potrebbe citare una frase che si legge all’inizio di “The Vanishing”, dove paragona la religione al rapporto che lei ha ancora, grazie ai mille ricordi di un’infanzia passata insieme, con il fratello Joseph morto anni fa: «Allo stesso modo, la religione offre memorie condivise, una serie di rituali che durano nel tempo, tradizioni che possono essere trasmesse ai figli: la nostra intimità condivisa, i nostri segreti».
"Difendiamo la libertà religiosa da radicalismo e cancel culture". Alessandra Benignetti l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.
A Ginevra va in scena il vertice dell’Alleanza internazionale per la libertà religiosa voluta da Donald Trump. Ma l'Italia è assente. L'eurodeputato Fidanza: "Difendere il patrimonio storico religioso contro vecchi e nuovi radicalismi".
Guerre, come quella in corso in Ucraina, fondamentalismo, regimi autoritari. Sono le principali minacce alla libertà religiosa che nel 2022 resta uno dei diritti umani più calpestati. La comunità più colpita resta quella cristiana, con 360 milioni di fedeli perseguitati nel mondo, secondo l’ultimo rapporto della Ong Open Doors. Ma a subire violenze, soprusi e intimidazioni sono anche ebrei, musulmani moderati e le minoranze religiose in generale. Un fenomeno sempre più vasto e preoccupante, che è stato analizzato dall’Alleanza internazionale per la libertà religiosa (IRFBA) a margine della 49esima edizione del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu a Ginevra.
L’organizzazione è stata fondata dal dipartimento di Stato americano durante l’amministrazione Trump per combattere discriminazioni e violenze che vengono perpetrate in nome della fede. Ne fanno parte 32 Paesi, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Austria, Grecia, Danimarca, Olanda, Israele, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. A presiedere la riunione è stata la deputata conservatrice britannica Fiona Bruce, inviato speciale del primo ministro Boris Johnson per la libertà religiosa, che ha discusso assieme ad importanti esperti e rappresentati delle istituzioni, tra cui l’ambasciatore Jos Douma, inviato speciale per la libertà religiosa del governo olandese e Rashad Hussain, nominato dal Presidente Biden, ambasciatore per la libertà religiosa, delle azioni da mettere in campo per promuovere il rispetto della libertà religiosa e di culto e per proteggere i diritti delle minoranze religiose in tutto il mondo.
L’Italia però manca all’appello. La Farnesina, infatti, non ha ancora risposto alla richiesta dell’Alleanza di nominare un inviato speciale per la libertà religiosa. L’unico italiano a partecipare al dibattito, in qualità di copresidente dell’Intergruppo per la libertà religiosa del Parlamento europeo e membro del consiglio degli esperti dell’Alleanza, è stato l’eurodeputato di Fratelli d’Italia-ECR Carlo Fidanza. "Nell’epoca della cancel culture, difendere il patrimonio storico religioso e i suoi simboli contro vecchi e nuovi radicalismi deve essere una priorità", ha sottolineato, stigmatizzando la lentezza della Commissione Ue sulla nomina del nuovo inviato speciale europeo per la libertà religiosa.
"Nel Parlamento di Strasburgo, a causa dell’opposizione ideologica di alcuni gruppi politici, - denuncia ancora Fidanza - è sempre difficile mettere all’ordine del giorno documenti di condanna di pratiche inaccettabili come i matrimoni forzati". "Tuttavia – ha proseguito nel suo intervento - i segnali di speranza non mancano: alcuni mesi fa abbiamo approvato una risoluzione contro la legge sulla blasfemia in Pakistan, che ha portato alla detenzione e spesso alla condanna a morte di decine di persone negli ultimi anni".
Un’ulteriore passo in avanti contro le violazioni della libertà religiosa, ha ricordato l’eurodeputato, è stata anche la risoluzione di condanna della distruzione di chiese armene nella regione del Nagorno-Karabakh nell’ultima plenaria del parlamento Ue. È prevista per il prossimo 22 marzo, invece, la presentazione da parte dell’Intergruppo per la libertà religiosa del Parlamento Ue a Bruxelles del rapporto periodico sulla libertà religiosa, redatto con la collaborazione di diverse Ong impegnate sul tema.
(ANSA il 30 marzo 2022) - Salah Abdeslam, principale imputato al maxi processo per le stragi jihadiste a Parigi nel 2015 e unico superstite dei commando che uccisero 130 persone, è uscito dal silenzio per ribadire che nella sera degli attentati rinunciò ad uccidere.
Poco prima, in occasione dell'interrogatorio in aula sui suoi movimenti la sera di quel 13 novembre, Abdeslam aveva scelto di ricorrere alla "facoltà di non rispondere".
"Signor presidente, signori della corte - ha detto Abdeslam in apertura di udienza - oggi desidero utilizzare la mia facoltà di non rispondere".
Il presidente del tribunale, Jean-Louis Périès, ha replicato: "Bene, io farò delle domande e non avrò risposte, giusto?". "Esattamente", ha risposto con calma l'imputato. "Per quale motivo? - lo ha incalzato il magistrato - lei a volte è stato provocatorio, ma ha trovato anche parole di comprensione per le vittime".
"Ci sono molte ragioni per non parlare - ha risposto Abdeslam - una di queste è proprio che vengo definito provocatore, per questo non voglio più esprimermi. È mio diritto, non devo giustificarmi".
"Ho fatto degli sforzi - ha aggiunto - ho mantenuto il silenzio per 6 anni. Poi ho cambiato idea, mi sono espresso nei confronti delle vittime con rispetto. Oggi, non voglio più farlo. Non ce la faccio più".
«Allah è grande» ed è strage a Parigi. Una serie di attacchi dei terroristi islamici. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Novembre 2022
È il 14 novembre 2015. «La Gazzetta del Mezzogiorno» titola «Nuova apocalisse a Parigi. Decine di morti e ostaggi». È stata una notte insonne per l’Europa intera. Ecco le notizie che arrivano dalla capitale francese: «Terrore senza precedenti a Parigi, almeno 60 morti e decine di feriti in almeno sei, forse sette, sparatorie in una città assediata da terroristi e teste di cuoio, ostaggi massacrati in una sala da concerti, decine di cadaveri attorno allo Stade de France, dove gli spettatori di Francia-Germania sono stati bloccati per ore. Il presidente François Hollande ha dichiarato lo Stato di emergenza».
Un commando armato collegato all’autoproclamato Stato Islamico ha sferrato una serie di attacchi terroristici a Parigi, nel cuore della città. L’azione principale si è svolta nel Teatro «Bataclan», nell’XI arrondissement, poco lontano dalla sede della redazione di Charlie Hebdo, insanguinata dagli attentati del 7 gennaio 2015, in cui avevano perso la vita dodici persone.
Quella sera, il Bataclan era sold out per il concerto del gruppo «Eagles of death metal»: migliaia di ragazzi erano arrivati da tutto il Paese per assistervi. «Un gruppo di terroristi ha gridato “Allah è grande” e ha aperto il fuoco sul pubblico, dove si è verificato un bagno di sangue: pare che i terroristi abbiano ucciso le persone una ad una». Altre sparatorie sono avvenute in bar e ristoranti nei pressi del quartiere ebraico di Parigi. L’operazione criminale non si è limitata a questo: «A Saint-Denis, allo Stade de France, tre esplosioni hanno scosso i 50.000 presenti all’amichevole Francia-Germania (s’è saputo solo un paio d’ore che si trattava di due attacchi kamikaze e di una bomba). I giocatori si sono fermati, alcuni spettatori sono riusciti a uscire, gli altri sono rimasti bloccati dalla polizia all’interno fin dopo il termine della gara. Immediatamente evacuato il presidente Hollande, che assisteva alla partita in tribuna d’onore».
In tutto, si conteranno 137 vittime, compresi alcuni degli attentatori, di 26 diverse nazionalità, 90 delle quali al Teatro Bataclan. Si è trattato della più cruenta aggressione in territorio francese dalla Seconda guerra mondiale. Sulla «Gazzetta» ancora non compare il nome di Valeria Solesin, ricercatrice veneziana di 28 anni, unica vittima italiana della strage del 13 novembre 2015. Lo scorso giugno è stata emessa la sentenza del maxi-processo contro gli attentatori: con le sue 148 udienze nell’aula bunker dell’Ile-de-la-Cité, è stato il processo più lungo celebrato in Francia dal dopoguerra. Salah Abdeslam, unico superstite del commando che ha compiuto la strage, è stato condannato all’ergastolo senza possibilità di riduzioni di pena.
Un anno, una notte: lei e lui, sopravvissuti al Bataclan. Fabio Ferzetti su La Repubblica il 14 Novembre 2022.
Ramón è ossessionato dai ricordi, Céline ha rimosso l’orrore. E il regista Lacuesta disegna un’intera società
Due giovani scampati d’un soffio all’orrore scoprono poco a poco di aver messo in atto strategie opposte per superare il trauma. Opposte e inconsapevoli naturalmente, la mancanza di controllo è il cuore del problema. Così lui è ossessionato dai ricordi, lei non ne parla mai. Lui soffre di attacchi di panico, lei sembra sempre padrona di sé, tanto da consigliarlo e accudirlo. Lui si chiama Ramón González, e a quell’esperienza ha dedicato un libro (mai tradotto in italiano), “Paz, Amor y Death Metal”. Lei si chiama Céline e tutti e due il 13 novembre 2015 erano al Bataclan, epicentro di una serie di attentati che in una sola notte farà 130 morti a Parigi. Anche se Céline, ecco lo scarto incolmabile, non ha mai detto a nessuno che quella sera si trovava lì.
Difficile immaginare soggetto più scivoloso di quello affrontato dal regista spagnolo Isaki Lacuesta. Oltre a fugare ogni sospetto di speculazione spettacolare, bisognava evitare l’armamentario ricattatorio che spesso impiomba le storie dei sopravvissuti. Impresa riuscita, almeno per l’essenziale.
Pur non disdegnando i flashback, “Un anno, una notte” contiene al minimo la rievocazione della strage, lasciando i terroristi (e gli uccisi) rigorosamente fuori campo per concentrarsi sul dopo, visto nella prospettiva rivelatrice di una coppia (Ramón e Céline sono Nahuel Pérez Biscayart e Noémie Merlant, improbabili a prima vista ma proprio per questo straordinariamente vivi e vibranti).
Come andare avanti, dopo un’esperienza simile? Cosa farne, dentro e fuori di sé, dunque anche nel loro rapporto? Come sfuggire all’assedio della memoria ma anche allo status di sopravvissuti, con gli amici, in famiglia, sul lavoro, nell’intimità? Ovvero, restando nel quotidiano, come sopportare la solidarietà pelosa e a volte offensiva degli amici via sms, la retorica di Hollande in tv, il razzismo dilagante? Mescolando passato e presente, memoria e immaginazione, ma soprattutto alternando con finezza i registri più diversi (lirico, elegiaco, domestico, drammatico, a tratti perfino comico), Lacuesta riordina il caos senza mai perdere di vista, anzi usando a meraviglia anche i lavori di Ramón e Céline, lui programmatore, lei assistente in un centro per ragazzi senza famiglia. Fino a disegnare in filigrana, dietro di loro, un’intera società. Non era facile.
Attentato al Bataclan, 7 anni dopo parlano i sopravvissuti: “Non vogliamo essere vittime per sempre”. Chiara Nava il 13/11/2022 su Notizie.it.
Sono passati sette anni dal terribile attentato al Bataclan. I sopravvissuti alla strage hanno raccontato quello che è accaduto.
Dopo sette anni, il dolore per l’attentato al Bataclan, in cui sono morte 130 persone, è ancora forte. I sopravvissuti alla strage hanno cercato di andare avanti, di superare quanto accaduto, perché non vogliono sentirsi vittime per sempre.
Attentato al Bataclan, 7 anni dopo parlano i sopravvissuti: “Non vogliamo essere vittime per sempre”
Lungo la Boulevard Voltaire a Parigi il tempo sembra non essersi fermato. Il Bataclan ha cercato di andare avanti e gli artisti continuano ad esibirsi all’interno del teatro. Nessuno, però, può dimenticare quello che è accaduto il 13 novembre 2015, quando 90 persone vennero uccise da un commando armato di tre terroristi legati all’Isis nella sala piena per il concerto degli Eagles of Death Metal. Quella sera ci furono diversi attentati di matrice islamica a Parigi.
Tre esplosioni intorno allo Stade de France, dove era in corso un’amichevole tra i Bleues e la Germania, e sei sparatorie in diversi luoghi pubblici. Il bilancio totale fu di 130 morti e 368 feriti. I sopravvissuti a quella terribile strage hanno ripreso la loro vita normale, cercando di combattere con il dolore e la paura per quello che è accaduto.
Attentato al Bataclan: il racconto di Natasha
Natasha è sopravvissuta all’attentato al Bataclan.
La donna di 45 anni, francese di origini italiane, ha raccontato a L’Espresso quello che ha vissuto. Nel 2015 lavorava in una biblioteca e nel tempo libero amava molto la musica e i concerti. Il 13 novembre era andata al Bataclan con quello che all’epoca era il marito. Erano sulla balconata del primo piano quando hanno iniziato a sentire gli spari e si sono barricati in un camerino con trenta persone, dove hanno trascorso due ore e mezza prima dell’intervento della polizia.
Le prime due settimane dopo l’attentato Natasha è rimasta chiusa in casa e dopo 20 giorni è tornata al lavoro ma “non ero più concentrata e perdevo sempre più peso“. A giugno 2014 il capo le ha concesso un mese di ferie, ma lei non è più tornata in biblioteca. Ha avuto un periodo di pausa di due anni, in cui è andata anche nel Regno Unito. “L’Inghilterra mi faceva sentire bene. Avevo bisogno di scappare da Parigi, dove ogni cosa mi riportava con la mente all’attentato” ha spiegat. Nel 2021 l’incontro con un fotografo l’ha spinta a parlare. Ora ha un altra vita, non va spesso ai concerti e se ci va cerca di essere vicina all’uscita di sicurezza. Si è ripresa grazie alla figlia di 4 anni e al nuovo lavoro come tatuatrice. Non è più stata al Bataclan, ci passa davanti solo il 13 novembre di ogni anno per la commemorazione.
Attentato al Bataclan: la storia di Arthur
Arthur Dénouveaux è tornato al Bataclan. Il parigino di 36 anni lavora in una società mutualistica ed è presidente di “Life for Paris“, associazione delle vittime degli attentati del 13 novembre. Lui è riuscito a scappare poco dopo l’apertura del fuoco. “Dieci minuti che hanno stravolto tutto” ha dichiarato a L’Espresso. “Ho avvertito un cambiamento. Un momento prima sei considerato valido. Quello dopo si chiedono se si possa fare affidamento su di te” ha spiegato, parlando dello sguardo dei colleghi nei mesi successivi. Ad agosto 2016 ha lasciato il lavoro in banca e l’associazione gli ha cambiato la vita. “Si parla spesso del senso di colpevolezza dei sopravvissuti. In me si è formato invece il senso di responsabilità” ha spiegato, sottolineando di non essere un eroe. “Io sono una vittima come gli altri. Nel 2015 ero un qualsiasi 29enne nel pieno di una vita serena. Ero ottimista e spensierato. Quella spensieratezza l’attentato me l’ha tolta per sempre” ha precisato.
Attentato al Bataclan: la storia di David
David Fritz Goeppinger, sopravvissuto, ha una grande voglia di chiudere. Il fotografo e scrittore di origine cilena, cresciuto nella capitale francese, nel 2015 aveva 23 anni e lavorava come barman. La sera del 13 novembre è rimasto bloccato al Bataclan per tre ore come ostaggio ed è stato costretto a collaborare con i terroristi. Dopo l’esperienza ha lasciato il lavoro e casa dei genitori e ha iniziato a vedere uno psicologo. Nel 2017 è tornato a fare il fotografo e nel 2019 ha pubblicato un libro. Il processo è stato il punto di svolta. “Dopo anni di testimonianze per la prima volta c’era la giustizia ad ascoltare dall’altra parte” ha spiegato. La sentenza del 29 giugno 2022 che ha condannato Salah Abdeslam all’ergastolo senza sconti di pena e ha riconosciuto colpevoli altre 18 persone è stata una liberazione, anche se si sente addosso il marchio della vittima. “È impossibile toglierselo ma io non mi considero più tale. Quello della vittima non è un’identità, è uno status” ha spiegato.
Bataclan, la sentenza: colpevoli 19 su 20 imputati. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2022.
Sono stati riconosciuti colpevoli di omicidi volontari 19 imputati su 20 per gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto dei commando di terroristi, condannato all’ergastolo senza possibilità di sconto di pena. «Non sono un assassino, non ho ucciso nessuno», erano state le ultime parole di Salah Abdeslam lunedì mattina, prima che i giudici si chiudessero in camera di consiglio. Ieri sera, dopo 1o mesi di udienze, il verdetto. L’unico superstite del commando dei 10 terroristi del 13 novembre 2015 lo ha ascoltato con le braccia incrociate e lo sguardo duro, fisso nel vuoto.
Il tribunale non gli ha creduto. Non è vero che la sera degli attentati allo Stade de France, ai ristoranti e al Bataclan, il 32enne terrorista islamico ha rinunciato a farsi esplodere «per umanità», perché aveva cambiato idea all’ultimo momento vedendo i ragazzi seduti ai tavolini all’aperto. Secondo le perizie, semmai, il giubbotto esplosivo era difettoso, non è entrato in funzione, e solo per questo lui lo ha gettato in un cestino della spazzatura. Solo per un difetto di progettazione ai 130 morti (tra i quali l’italiana Valeria Solesin) e ai 413 feriti di quella sera non si sono aggiunte altre vittime.
Quindi, ergastolo «non comprimibile»: Abdeslam, che ha condiviso tutto l’attentato, resterà in prigione tutta la vita. È la pena più dura prevista dall’ordinamento giudiziario francese, paragonata a una «pena di morte lenta». Dopo i primi trent’anni di carcere, Abdeslam potrà chiedere al tribunale di valutare di nuovo la perpetuità, ma la decisione verrà presa dietro il parere di una commissione composta da cinque magistrati della Corte di cassazione, che consulteranno le vittime e valuteranno se un’eventuale scarcerazione comporti rischi per l’ordine pubblico. In sostanza, le possibilità che Salah Abdeslam esca un giorno di prigione sono infime.
La pena inflitta al terrorista è molto rara, comminata finora solo quattro volte a partire dal 1994 (e sempre a carico di persone che avevano violentato e ucciso dei minori). Indica il carattere unico, epocale, del crimine e del processo che lo ha analizzato. La sera del 13 novembre resta un trauma nella società francese, un’operazione militare dello Stato islamico condotta con spaventosa ferocia contro i civili. Quasi sette anni dopo quell’attentato continua a sembrare l’inizio di una guerra, per fortuna mai scoppiata davvero ma neanche mai accantonata del tutto.
Abdeslam ha cominciato le udienze mesi fa in modo spavaldo, proclamandosi con fierezza un soldato dell’Isis e lamentandosi per le condizioni di detenzione. Il presidente della Corte di assise speciale, Jean-Louis Périès, si è rivelato all’altezza della situazione: senza cadere mai nelle provocazioni di Abdeslam, mantenendo calma, lucidità e sensibilità nei confronti dei superstiti e dei parenti delle vittime, e garantendo il rispetto delle regole.
Salah Abdeslam, nato a Bruxelles in una famiglia originaria del Marocco, come molti suoi futuri compagni terroristi piccolo delinquente dedito all’alcol e alla droga prima di una fulminea adesione all’islam politico, dopo il massacro la sera del 13 novembre riuscì incredibilmente a passare la frontiera e a raggiungere di nuovo Bruxelles. Venne arrestato nel marzo 2016 e poi estradato in Francia. I giudici ieri lo hanno riconosciuto «coautore di uccisioni in relazione a un’impresa terroristica», nonostante la sua avvocata Olivia Ronen avesse dichiarato che «punire Salah Abdeslam all’altezza della sofferenza delle vittime rappresenta la legge del taglione».
Manuel Dias, conducente di autobus allo Stade de France, è stata la prima vittima di quella sera. Sua figlia Sophia ha assistito al processo e dice che «non ho creduto un istante alle scuse finali di Abdeslam. Per tutto il processo gli imputati hanno tenuto un comportamento disinvolto e sprezzante nei nostri confronti». Con Abdeslam sono stati condannati anche gli altri 19 imputati, con pene da uno a trent’anni di carcere.
Cesare Martinetti per “la Stampa” il 30 luglio 2022.
«Perpétuité incompressible», trent' anni di carcere senza possibilità di sconti né di permessi. La Corte Speciale di Parigi ha condannato alla massima pena Salah Abdeslam, l'unico terrorista sopravvissuto alla terribile notte del Bataclan, 130 morti e centinaia di feriti. I giudici non hanno creduto alla versione del «kamikaze riluttante»: la sua cintura esplosiva, di cui si è liberato, è risultata difettosa.
Dunque non è stato un suo ripensamento a impedirgli di compiere la missione suicida e omicida. Non ha ucciso nessuno, è vero, ma voleva farlo ed ha partecipato da protagonista all'attacco del 13 novembre 2015. Sei anni e mezzo dopo, nove mesi di udienze, un grande teatro di dolore e di terrore, ieri sera si è concluso un processo storico.
I giudici hanno accolto la richiesta del pubblico ministero, la massima pena dell'ordinamento francese. La «perpétuité incompressible», è una condanna che per 30 anni nulla potrà alleggerire né la buona condotta, né l'apertura di dialogo da parte del detenuto. Una «ghigliottina lenta», l'ha definita la giovane e combattiva avvocata della difesa di Abdeslam, Olivia Ronen.
Nella storia dei processi francesi quel tipo di ergastolo istituito nel 1991 è stato applicato solo quattro volte da quando cioè la pena di morte, per ghigliottina, fu abolita da François Mitterrand appena eletto presidente nel 1981. Quattro colpevoli di delitti particolarmente crudeli nei confronti di minori.
Per Salah Abdeslam il caso era evidentemente diverso.
Ha 33 anni, faceva parte della brigata islamista di Molenbeck, dov' è maturato ed è stato progettato l'attacco a Parigi, la sera del 13 novembre 2015. Una dozzina di kamikaze, armati di cinture esplosive e armi pesanti. Obbiettivo lo Stade de France, alle porte della capitale, a Saint-Denis, dov' era in corso la partita tra Francia e Germania, la sala da concerti Bataclan, dov' era in programma un concerto degli Eagles of Death Metal, tra République e la Bastiglia, in altri tre o quattro caffè con terrazze all'aperto dove la folla delle sere parigine consumava chiacchiere e amicizia.
Centotrenta morti in tutto, 1400 feriti al Bataclan, 320 nei caffè, 130 allo stadio. Il lutto, il dolore, un'emozione indicibile. Dieci mesi dopo la strage di «Charlie Hebdo», la notte del 13 novembre aveva gettato la Francia nell'incubo di vivere sotto la minaccia di un cronoprogramma stragista degli islamisti.
Il processo si è aperto a settembre ed è finito ieri con l'ultima arringa della difesa. È stata una rappresentazione collettiva e nazionale, i sopravvissuti, spesso con mutilazioni e ferite che non guariranno mai, genitori e figli delle vittime, testimoni miracolosamente scampati alla tempesta di proiettili e di schegge, gli inquirenti, persino il presidente dell'epoca François Hollande, chiamato a rispondere della decisione della Francia di partecipare ai bombardamenti dello stato islamico in Siria che proprio Abdeslam aveva dichiarato all'origine dell'attacco alla Francia.
Diciannove imputati minori e lui, Abdeslam, il mancato kamikaze, arrestato dopo una frenetica caccia all'uomo. Alla prima udienza del processo, dopo sei anni e qualche mese passato in isolamento totale in una cella di nove metri quadrati, spiato senza tregua da due telecamere, è entrato nell'aula con lo spirito rabbioso del combattente islamista.
Ma presto la gravità dell'insieme e l'insostenibile pena delle testimonianze lo hanno cambiato fino alla scena finale, il 15 aprile, quando questo ragazzo, nato e cresciuto nella banlieue di Bruxelles, ha chiesto al presidente di potersi rivolgere alle vittime: «Voglio presentare le mie condoglianze e le mie scuse a tutti. So che c'è ancora dell'odio, vi chiedo di detestarmi con moderazione».
Lui quella sera, mentre suo fratello sparava, uccideva e si faceva esplodere al Bataclan, dopo aver accompagnato tre kamikaze allo Stade de France, è andato in un caffè del 18° arrondissement di Parigi dov' era previsto che si facesse esplodere. Ma al processo ha raccontato che dopo essersi guardato intorno, aver visto una folla di giovani che chiacchierava e sorridevano spensierati, è uscito dal bar, ha buttato la cintura da kamikaze ed è tornato a casa.
Ma né il pubblico ministero né i giudici gli hanno creduto. La «perpétuité incompressibile» è stata ideata come misura di sicurezza, applicabile a criminali che si considerano irrecuperabili e che si presumono potenzialmente pericolosi nel caso di ritorno in libertà. Abdeslam non ha ucciso né ferito nessuno e tutti i colpevoli sono morti e dunque non erano punibili. La scelta dei giudici è stata difficile.
All'orrore del Bataclan e di quella notte nei caffè intorno a place de la République non poteva non corrispondere una sentenza con il sigillo della riparazione. Ma il processo, che è stato un susseguirsi di momenti drammatici e commoventi, che ha mescolato e unito vittime, parenti, testimoni, giudici, avvocati e inquirenti e in qualche misura ha coinvolto anche Abdeslam (al di là dell'evidente opportunismo nel cambio di atteggiamento, ha mostrato una significativa maturazione umana), è stato una rappresentazione civile molto più forte delle pallottole dello Stato islamico.
Salah Abdeslam colpevole. "Ergastolo senza sconti". Massimo Malpica il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.
Colpevoli. A sei anni e mezzo da quella notte di sangue che lasciò senza vita nei locali e per le strade della Ville Lumière 130 innocenti e sette terroristi dell'Isis, e dopo 148 giorni di udienza, arriva il verdetto per gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. E per la Corte d'Assise speciale ben 19 dei venti imputati del maxi-processo (ma i presenti erano solo 14, e degli altri 6 processati in contumacia cinque secondo gli inquirenti dovrebbero essere morti) sono «colpevoli di tutti i reati» dei quali erano stati accusati, a cominciare dall'unico terrorista sopravvissuto agli attacchi e principale imputato del processo, Salah Abdeslam. Il 20esimo, Farid Kharkhach, l'uomo che avrebbe fornito falsi documenti agli attentatori, è stato comunque giudicato colpevole e condannato, ma solo per associazione per delinquere finalizzata alla frode, in mancanza di una prova inconfutabile che fosse a conoscenza delle intenzioni criminali del commando di terroristi che aveva aiutato.
Tra i 19 condannati per terrorismo c'è l'unico membro del commando sopravvissuto, il 32enne belga-marocchino Abdeslam, il kamikaze mancato, giudicato colpevole di associazione criminale terroristica e considerato «co-autore» degli attentati, pur non essendo stato possibile stabilire con certezza se l'obiettivo a lui assegnato nell'attacco, come ha spiegato il presidente Jean-Louis Périès durante la lettura della sentenza, fosse «un bar o la metropolitana». Per la corte, anche Mohammed Bakkali è «co-autore» della strage, poiché l'uomo, la cui appartenenza alla cellula belga dell'Isis è considerata certa, avrebbe svolto «un ruolo chiave nella logistica degli attentati».
Per Abdeslam, che nel corso del processo ha mutato la sua posizione passando dall'orgogliosa rivendicazione del proprio status di combattente dell'Isis alla richiesta di scuse alle vittime dell'attacco, arrivando a proclamare la propria innocenza rispetto alle accuse («Ho fatto degli errori ma non sono un assassino», ha dichiarato a fine processo), la Procura nazionale antiterrorismo francese aveva chiesto il massimo della pena, ossia l'ergastolo «irriducibile» (incompressible), per evitare al minimo la possibilità di una futura scarcerazione. E la corte d'appello speciale, per l'unico superstite del commando di morte, ha accolto in toto la richiesta condannandolo al carcere a vita. I giudici hanno anche indicato le prove della sua appartenenza all'associazione per delinquere di stampo terrorista: l'aver visto video dell'Isis in un caffè di Molenbeek, l'aver aiutato il fratello al ritorno dalla Siria, l'appartenenza alla cella belga dello Stato Islamico e i viaggi effettuati in Europa nei mesi precedenti. Quanto allo status di «co-autore» di omicidi connessi a un atto di terrorismo, per la corte gli è stato attribuito in quanto i luoghi dell'attacco, dal Bataclan allo stadio di Saint Denis, «devono essere riconosciuti come un'unica scena del crimine».
Ergastolo (ma con «solo» 22 anni minimo da scontare dietro le sbarre) anche per Mohammed Abrini, che aveva partecipato all'organizzazione e ha ammesso che avrebbe dovuto anche far parte del commando, tirandosi indietro solo subito prima dell'attacco, mentre Bakkali, pur considerato a sua volta coautore degli attacchi per l'importanza del ruolo svolto nella preparazione della strage, è stato condannato a 30 anni (due terzi dei quali da scontare obbligatoriamente prima di usufuire dei benefici di legge).
Il verdetto, atteso nel pomeriggio, è arrivato solo dopo le otto di sera, nell'aula bunker dell'Ile-de-la-Cité affollata di avvocati, magistrati, giornalisti, sopravvissuti e parenti delle vittime di quella terribile notte.
Strage del Bataclan, gli imputati non fanno appello: Salah si “tiene” l’ergastolo. Nemmeno il procuratore nazionale antiterrorismo e il pubblico ministero presso la Corte d’appello di Parigi hanno impugnato questa decisione. Il Dubbio il 12 luglio 2022.
Non è ricorso in appello Salah Abdeslam, l’unico superstite del commando terroristico che il 13 novembre del 2015 causò la morte di 130 persone e centinaia di feriti tra lo Stade de France, i locali del centro di Parigi e il teatro Bataclan. Lo riportano i media francesi spiegando che nessuno degli altri 13 imputati presenti in aula e i sei giudicati in contumacia ha impugnato la sentenza e che le loro condanne diventano quindi definitive.
Abdeslam è stato condannato all’ergastolo senza possibilità di riduzione della pena. «Nemmeno il procuratore nazionale antiterrorismo e il pubblico ministero presso la Corte d’appello di Parigi hanno impugnato questa decisione», ha affermato il procuratore generale di Parigi, Rémy Heitz, in una nota. Le loro condanne sono ora definitive, non ci sarà appello.
Mauro Zanon per “Libero Quotidiano” il 31 marzo 2022.
Quella di ieri, 30 marzo 2022, era la data più attesa dai cronisti che da settembre raccontano il maxi-processo sugli attentati islamisti del 13 novembre 2015 a Parigi. Perché Salah Abdeslam, il principale imputato e unico sopravvissuto delle stragi jihadiste che provocarono 130 morti tra il Bataclan e alcuni bistrot della capitale francese, si sarebbe (forse) espresso su quella notte maledetta che ha funestato la Francia, rispondendo alla domanda che ossessiona giudici, avvocati e famiglie delle vittime: perché l'unico membro ancora in vita del commando della morte non ha azionato la sua cintura esplosiva?
Abdeslam, ieri, è uscito dal silenzio. «Ho rinunciato ad attivare la mia cintura esplosiva non per vigliaccheria, non per paura, ma perché non volevo farlo», ha spiegato il terrorista franco-marocchino, rispondendo a una domanda di un avvocato della parte civile, Claire Josserand-Schmidt.
Perché allora, rientrando in Belgio dopo gli attentati, aveva detto agli altri membri che la sua cintura era difettosa? «Era una menzogna?», ha chiesto l'avvocato. «Sì, mi vergognavo di non essere andato fino in fondo, avevo paura di quello che gli altri pensavano di me, avevo 25 anni...», ha risposto Abdeslam.
Poco prima, pur rifiutandosi di rispondere alle domande del presidente della Corte d'assise speciale Jean-Louis Périès, invocando «il diritto al silenzio», ha dato altre informazioni sulla vigilia degli attentati, rievocando il ricordo dell'ultimo pranzo con la sua fidanzata, Yasmina K., durante il quale sarebbe scoppiato a piangere. Era il 10 novembre 2015.
«Vorrei dire alcune cose riguardo alla mia fidanzata. L'amavo veramente e volevo trascorrere la mia vita con lei. Mi sono messo a piangere, quel giorno, perché mi parlava di progetti futuri, di bambini, di un appartamento assieme. E in quel momento sapevo... sapevo che dovevo partire in Siria. Perché mi avevano spiegato che avevo fatto dei favori allo Stato islamico che mi avrebbero creato dei grossi problemi, e che la cosa migliore, per me, era partire per la Siria. Sapevo che avrei dovuto abbandonarla...», ha raccontato Abdeslam.
Il Monde parla di «miracolo», perché è la prima volta che Abdeslam ha rotto il muro del silenzio. Il merito è dell'avvocato Claire Josserand-Schmidt che ha tenuto in piedi per alcuni minuti l'interrogatorio: «Lei ha detto: "Ho salutato Yasmina perché dovevo partire per la Siria". Dobbiamo dunque dedurre che lei, il 10 novembre 2015, non aveva ancora come progetto di indossare una cintura esplosiva?».
Risposta: «Esatto, è proprio così... Quando ho pranzato con Yasmina, non sapevo nulla di ciò che sarebbe accaduto. È quando sono andato in Francia per prendere in affitto una stanza a Alfortville (la stanza in cui i membri del commando del 13 novembre 2015 passarono la loro ultima notte nella regione parigina, ndr) che mio fratello Brahim mi ha detto che Abdelhamid Abaaoud (il coordinatore degli attentati, ndr) era lì.
L'ho incontrato a Charleroi il 12 novembre ed è in quel momento che è cambiato tutto. Fino a quell'istante, non sapevo che Abaaoud fosse in Belgio. È lui che voleva incontrarmi. Ho fatto dei favori, ma la situazione è cambiata nel momento in cui ho incontrato Abaaoud».
Sulla questione della cintura esplosiva, come riportato dal Monde, le due ipotesi, ossia quella di una cintura difettosa, e quella, sostenuta ieri da Abdeslam, di una rinuncia per mancanza di volontà, restano aperte. Un'expertise ha infatti stabilito che il gilet esplosivo non era "funzionante".
Per alcuni osservatori, le parole, seppur poche, pronunciate ieri da Abdeslam sono un primo passo che fa ben sperare in vista delle prossime audizioni. Olivier Laplaud, vicepresidente dell'associazione Life for Paris, ha denunciato invece «l'estrema provocazione» di Abdeslam, perché si è rifiutato di rispondere alla maggioranza delle domande della Corte d'assise speciale.
«Il guerriero di Daech che dice di essere è contraddetto dai suoi atti», ha commentato Bruno Poncet, sopravvissuto del Bataclan. Gérard Chemla, uno degli avvocati delle vittime, ha definito l'atteggiamento del principale imputato «un gioco perverso»: «Ci tratta come dei pupazzi, non dobbiamo partecipare a questo gioco».
Oggi, verrà interrogato Mohamed Amri, belga di origini marocchine che ha confessato di essere andato a prendere Abdeslam a Parigi la notte degli attentati per riportarlo in macchina in Belgio.
Da La Repubblica il 16 aprile 2022.
Era l'ultimo giorno del suo interrogatorio nel maxi-processo per gli attentati del Bataclan. Dopo le provocazioni con cui aveva cominciato a settembre, dopo gli sproloqui religiosi e le rivelazioni sul suo mancato "martirio", alla fine Salah Abdeslam ha chiesto perdono.
Il jihadista, che continua a presentarsi come "combattente islamico" si è rivolto ai banchi dove erano seduti avvocati e parenti delle vittime. «Vi chiedo di perdonarmi», ha detto, versando per la prima volta qualche lacrima dinanzi alla corte. «Voglio presentare le mie condoglianze e le mie scuse a tutte le vittime», ha dichiarato l'uomo il belga-marocchino di trentadue anni nell'aula bunker dell'Île de la Cité.
È l'epilogo di una lunga trasformazione avvenuta nel processo in cui è imputato l'unico terrorista sopravvissuto agli attacchi del 13 novembre 2015. Rimasto muto per anni davanti agli investigatori, Abdeslam ha finalmente raccontato la sua versione dei fatti. Ovvero il fatto che nella notte degli attentati avrebbe dovuto farsi esplodere da kamikaze in un bar del diciottesimo arrondissement salvo poi rinunciare all'ultimo momento, vedendo tanti giovani come lui che si divertivano e gli assomigliavano.
«So che c'è ancora dell'odio, oggi vi chiedo di detestarmi con moderazione», è stato il suo appello. Alla domanda di una dei suoi legali se rimpiangesse di non essersi fatto esplodere, Abdeslam ha risposto: «Non lo rimpiango, non ho ucciso quelle persone e non sono morto». E ancora: «Oggi vorrei dire che questa storia del 13 novembre si è scritta con il sangue delle vittime. È la loro storia e io ne faccio parte. Sono legati a me ed io sono legato a loro».
Durante l'udienza, Abdeslam si è messo a piangere parlando del dolore di sua madre e ha chiesto perdono anche agli altri tre imputati con lui, accusati di averlo aiutato durante la fuga: «Non volevo trascinarvi in tutto questo ». Se le mie scuse potessero «fare bene a una sola delle vittime, per me sarebbe una vittoria. È tutto quello che ho da dire». Georges Salines, papà di una delle novanta vittime del Bataclan, ha commentato: «È una sorpresa. È importante che chieda perdono, ci rifletteremo». Gérard Chemla, avvocato di parte civile, non è sembrato lasciarsi intenerire da un discorso che considera "costruito e affettato". «Ha pianto per sé e per i suoi amici, non per le vittime», ha sottolineato il legale.
Gli attacchi alla Francia. Stragi di Parigi dell’Isis, il terrorista Salah Abdeslam si scusa con le vittime: “Detestatemi con moderazione”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Aprile 2022.
Salah Abdeslam si è “scusato” con le vittime e pianto alla fine del suo ultimo interrogatorio al processo per le stragi del 13 novembre 2015 a Parigi: quando furono uccise 130 persone e altre centinaia furono ferite da un commando jihadista tra lo Stade de France, la movida nel centro della capitale francese e il locale Bataclan. “Voglio presentare le mie condoglianze e le mie scuse a tutte le vittime”, ha detto il 32enne segnando con le sue parole un improvviso e decisivo cambio di rotta rispetto alle sue precedenti posizioni.
Soltanto all’inizio del procedimento l’uomo aveva rivendicato con orgoglio la sua adesione al gruppo terrorista sedicente Stato Islamico, meglio noto come Isis. “So che c’è ancora dell’odio, ma oggi vi chiedo di detestarmi con moderazione”, ha aggiunto Abdeslam secondo quanto riportato dai media francesi. Il 32enne è l’unico estremista superstite del clamoroso attentato. Ha chiesto in aula ai tre imputati, processati per averlo aiutato nella fuga dopo gli attentati, “di perdonarlo”.
“Rimpiangi di non aver avuto il coraggio di andare fino in fondo?”, gli ha domandato uno dei suoi avvocati, Olivia Ronen: “Non mi pento, non ho ucciso quelle persone e non sono morto”, ha replicato Salah. Lo scorso mercoledì 13 aprile il terrorista aveva fatto un primo dietrofront raccontando per la prima volta il suo ruolo nella serata degli attentati. Abdeslam era destinato a morire come martire, ha detto, ma avrebbe “rinunciato volontariamente a farsi esplodere in un bar”.
Il commando di attentatori kamikaze colpì armato di kalashnikov sei volte in 33 minuti sparando all’impazzata sulla folla, in strada e nei locali, ed all’interno del Bataclan durante un concerto rock della band americana Eagles of Death Metal. Morirono 130 persone con 350 feriti. Sette terroristi, gridando “Allah è grande”, riuscirono ad azionare la loro cintura esplosiva – rafforzata con chiodi e bulloni – ed a farsi saltare in aria, solo uno di loro non fece in tempo.
Catturato, Abdeslam si definì “combattente dello Stato Islamico” e disse che “non c’era niente di personale, abbiamo voluto far subire alla Francia lo stesso dolore che noi subiamo”. Quell’azione terroristica clamorosa si tenne a meno di un anno dalla strage presso la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, aprì un nuovo periodo di terrore e di attacchi nel continente e portò all’attenzione mondiale la parabola del sedicente Stato Islamico e delle guerre che lo avevano generato in Medio Oriente. Il processo riprenderà Mercoledì 20 Aprile, con l’audizione di esperti psicologi e psichiatri. Il verdetto è atteso intorno al 23 Giugno.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Parigi, Abdeslam chiede clemenza: “Ho scelto di non farmi esplodere”. Anais Ginori su La Repubblica il 9 febbraio 2022.
Il terrorista superstite del Bataclan ha risposto alle domande dei giudici al quarto mese del processo che lo vede come imputato. Era una delle tante domande senza risposta intorno agli attentati del 13 novembre 2015. Perché il belga-marocchino Salah Abdeslam, membro del commando che aveva fatto strage al Bataclan e davanti ai café, non si era fatto esplodere come gli altri jihadisti? Il terrorista non aveva mai risposto, alimentando dubbi tra un guasto tecnico della cintura esplosiva o un ripensamento. Al quarto mese del processo in cui è l'imputato più importante, Abdeslam ha confidato di aver fatto "marcia indietro" nel momento in cui doveva morire da kamikaze.
Camicia bianca e barba lunga, il trentenne rispondeva alle domande con uno stile un po' confuso e sibillino ribadendo sempre la sua fedeltà all'Isis. "Sono in prigione da 5 anni, in un isolamento in cui mi trattano da cane e mi dico che avrei dovuto azionare quell'aggeggio e mi domandi se ho fatto bene a fare marcia indietro o se sarei dovuto andare fino in fondo".
Nel lungo interrogatorio Abdeslam ha ripetuto più volte: "Non ho ucciso nessuno". Dopo aver detto di capire che "la giustizia vuole dare un esempio", ha aggiunto sul rischio di essere condannato con il massimo della pena: "In futuro quando un individuo salirà su una metropolitana o su un bus con una valigia piena di 50 chili di esplosivo e all'ultimo momento dice a se stesso: "Farò marcia indietro", saprà che non ha il diritto di farlo, altrimenti sarà rinchiuso o ucciso".
La strage del Bataclan, in aula la mamma di Valeria ai terroristi: "Chiariscano cosa rappresentano per loro i nostri 130 cari uccisi".
I giudici hanno cercato di capire meglio il suo ruolo nell'organizzazione non ottenendo molte informazioni. "Risponderò più tardi", ha detto Abdeslam. Il terrorista ha anche glissato su un viaggio organizzato nell'estate del 2015 in Grecia, dove potrebbe aver incontrato i leader della cellula jihadista. "È stato un road trip", ha commentato. "Ci siamo fermati in Italia, abbiamo mangiato pasta, siamo andati in Grecia, abbiamo visitato diverse isole e questo è tutto", ha concluso.
Allarme "cristianofobia" in Francia: profanata una chiesa al giorno. Alessandra Benignetti il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Secondo i dati del ministero dell’Interno francese nel 2021 sono stati 686 gli episodi di violenza contro i cristiani in Francia, e almeno 450 le chiese profanate. Una media di quasi due attacchi al giorno. Si va dagli atti di vandalismo, ai furti di ostie consacrate, fino alle minacce di morte per i fedeli. L’8 dicembre scorso, per dirne una, una trentina di parrocchiani che si erano riuniti in processione a Nanterre per la festa dell’Immacolata sono stati aggrediti, insultati e minacciati di morte al grido di "kuffar", "infedeli". Qualcuno, secondo la ricostruzione dell’emittente Cnews, avrebbe urlato: "Giuro sul Corano che ti sgozzo". Qualcun altro avrebbe strappato di mano la fiaccola ad un fedele e l’avrebbe lanciata sugli altri partecipanti.
A confermarlo, ai microfoni della stessa emittente, è stato il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, alle prese con un fenomeno che sembra aver assunto le proporzioni di una vera e propria emergenza. Dal primo gennaio sono già nove gli episodi denunciati in tutta la Francia. A Poitier, nel dipartimento della Vienne, le profanazioni sono state due nel giro di pochi giorni. La prima, nella chiesa di Saint-Porchaire, in una zona pedonale del centro della città. Due uomini europei sulla trentina, racconta chi ha assistito alla scena, sono entrati e hanno gettato a terra infrangendola una statua del Sacro Cuore di Gesù alta circa un metro, prima di darsi alla fuga.
A distanza di cinque giorni, il 6 gennaio, ad essere presa di mira è stata un’altra chiesa, quella di Sainte-Thérèse, nel quartiere di Bel-Air, a meno di due chilometri da Saint-Porchaire. Qui qualcuno si è introdotto dopo la chiusura per decapitare "accuratamente" almeno sei statue che si trovavano all’interno: una riproduzione di santa Teresa, e cinque personaggi del presepe, tra cui la Madonna, San Giuseppe, uno dei re magi, il bue e Gesù Bambino. "Mi ha fatto pensare a quello che succede in Afghanistan, anche lì tagliano le teste", ha detto al settimanale conservatore Valeurs Actuelles il parroco 81enne, padre Albert Jadaud.
Eppure non serve arrivare così lontano per assistere alle decapitazioni degli "infedeli". Basta tornare indietro al luglio del 2016 quando il parroco della chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray, padre Jacques Hamel, fu sgozzato da due fondamentalisti, Adel Kermiche e Abdel Malik Petitjean, mentre stava celebrando la messa. Il 29 ottobre del 2020, invece, fu Brahim Aoussaoui, 21enne tunisino, a decapitare una donna, ferirne a morte un’altra e a sgozzare il sacrestano nella basilica di Notre-Dame a Nizza. Dieci giorni prima ad essere decapitato da un islamista di origini cecene, Abdoullakh Anzorov, di appena 18 anni, era stato Samuel Paty, professore in un liceo di Conflans-Sainte-Honorine, nell’hinterland parigino. Ecco perché gesti come quello compiuto nella chiesa di Santa Teresa a Poitiers fanno rabbrividire.
Inoltre, ha raccontato il sacerdote allo stesso settimanale, i vandali hanno lasciato una candela accesa su uno dei banchi, con il rischio che potesse divampare un incendio. Il 5 gennaio, invece, è stata la volta della basilica di Saint-Denis, famosa per ospitare le tombe dei re di Francia. Uno dei luoghi simbolo della cristianità, preso di mira da uno squilibrato che, armato di spranga, ha spaccato tre statue e alcune vetrine. Non è la prima volta che succede. La stessa chiesa era stata vandalizzata già un paio di anni fa, nel 2019. Allora furono riportati danni alle vetrate e all’organo. Sempre all’inizio dell’anno a Genouilly, qualcuno si è introdotto nella chiesa di Saint-Symphorien per spaccare il tabernacolo e rubare due calici con all’interno le ostie consacrate.
Altre due chiese, quella di Saint-Pierre a Bondy, e quella di Saint-Germain-l'Auxerrois a Romainville, nel dipartimento della Senna-Saint-Denis, sono state profanate nelle scorse settimane. Sul posto si era recato anche il ministro dell’Interno, che in un tweet aveva espresso "sostegno ai cattolici francesi" per gli attacchi che si sono susseguiti nei giorni scorsi, annunciando l’apertura di diverse inchieste per identificare gli autori di quelli che definisce "atti inaccettabili".
Dell’ondata di "cristianofobia" che sta investendo la Francia, però, non si parlerebbe abbastanza secondo la giornalista e opinionista di Valeurs Actuelles, Charlotte d’Ornellas. La cronaca degli eventi, ha osservato, viene raccontata soltanto sulle pagine dei quotidiani locali. "La chiesa francese sembra avere paura di dire quello che succede", ha sottolineato ai microfoni di Cnews, denunciando la "reazione inesistente" delle autorità ecclesiastiche e dei media francesi.
L'istante che distrusse Charlie Hebdo (e l'Occidente). La terribile mattanza alla redazione di Charlie Hebdo, il calvario di un sopravvissuto e l'orrore che non passa ma, presto o tardi, ritorna sempre. Andrea Indini il 26 Luglio 2022 su Il Giornale.
"I buoni cronisti sono pochissimi: alcuni si piegano agli argomenti importanti del momento e alla morale generale, altri a un dandysmo che li porta a fare i furbi scrivendo controcorrente. I primi sono sottomessi alla società, i secondi al proprio personaggio. In entrambi i casi cercano di fare stile e appassiscono in fretta". Il 7 gennaio 2015 Philippe Lançon si alza, si veste, fa colazione e va alla redazione di Charlie Hebdo. Fino all'ultimo è indeciso se passare prima da Liberation, ma alla fine punta dritto al giornale satirico con cui collabora. "Verso le dieci e mezza del 7 gennaio 2015 non erano molti in Francia a voler essere Charlie [...]. Il giornale aveva ormai importanza solo per pochi fedelissimi, per gli islamisti e per ogni genere di nemici più o meno civili che andavano dai ragazzi di periferia, che non lo leggevano, agli amici dei dannati della terra, che lo tacciavano volentieri di razzismo".
Quel giorno, durante la riunione di redazione, si parlava di Sottomissione. L'ultimo libro di Michel Houellebecq era uscito in libreria da pochi giorni ma aveva già sollevato un vespaio di polemiche. "Anche lì, dove tutto era permesso e addirittura preteso, detestavo discutere di libri che avevo letto con persone che non li avevano letti". Eppure quel giorno, poco prima che tutto nella sua vita prendesse un'altra piega, a Lançon toccò proprio quella sorte. Il discorso passò velocemente dalla letteratura alla politica: l'islam, le banlieue e soprattutto la mancata integrazione. Poi, tutto d'un tratto, un urto, sordo e violento, e la realtà, per come la conosceva fino a quel momento, venne spazzata via. "Erano le 11.25, forse le 11.28. Il tempo sparisce nel momento in cui vorrei ricordarmelo con precisione".
Lançon ha rimesso insieme tutti i frammenti e, al termine di un lunghissimo calvario, ha scritto La traversata (edizioni e/o), un romanzo introspettivo che accompagna il lettore sin dentro l'orrore jihadista per poi metterlo, faccia a faccia, con la devastazione di che è sopravvissuto. Lançon fu uno degli undici scampati alla mattanza. Ebbe salva la vita ma il suo corpo fu pesantemente martoriato: una pallottola lo ferì alla mano, un'altra gli strappò via la mandibola, parte del labbro inferiore e i denti. Probabilmente gli attentatori lo credettero morto e lo abbandonarono al suo destino. La traversata ripercorre i nove mesi che seguirono l'attacco: nove mesi dentro e fuori dagli ospedali per farsi ricostruire un volto che non esisteva più.
"Quanto tempo ci vuole a sentire che la morte sta arrivando, se uno non l'aspetta?", si chiede Lançon. La risposta è solo abbozzata. "Probabilmente, come gli altri, ero già scivolato in un universo in cui tutto succede in una forma così violenta da esserne come attenuato e rallentato, dato che la coscienza non ha più altri mezzi per concepire l'istante che distrugge". Pur avendo scritto a lungo di quel terribile attentato, non avevo ancora letto La traversata. Era stato pubblicato nel 2020. Poi, quest'anno, Houellebecq lo ha ritirato fuori nel suo ultimo libro, Annientare. Ne parla a profusione e questo mi ha spinto a recuperare una lettura che avevo mancato. Rileggere oggi la mattanza di Charlie mi ha scatenato vecchie paure perché, a distanza di oltre sette anni, non riesco ad affrontarla col distacco dei fatti passati. Non ci riesco nemmeno quando ogni lembo di carne spazzato via viene rimesso al suo posto. Lançon non affronta mai il tema del terrorismo islamico, se non come origine della sua odissea, e scrive un romanzo teso al futuro, alla rinascita. Ma il male rimane sempre lì, sotto pelle, anche quando medici e infermieri compiono il miracolo, anche quando la vita riesce a vincere sulla morte, anche quando la speranza torna a donare pace all'uomo.
Sei mesi dopo l'attentato Lançon venne liberato dalle ultime misure di protezione e, in autunno, finalmente potè rientrare a casa e fare il primo viaggio all'estero dopo l'attentato. Volò a New York dove l'università di Princeton lo aveva invitato per un confronto con lo scrittore Mario Vargas Llosa. Tornava così a vivere. Era il 13 novembre 2015. Al Teatro Bataclan e in tutta Parigi la furia islamista tornava a far scorrere sangue.
Charlie Hebdo, sette anni dall’attentato. «Dopo la strage siamo tornati a militare per la libertà». Sabrina Pisu su L'Espresso il 7 gennaio 2022. Il 7 gennaio del 2015 l’attacco terroristico alla rivista satirica francese costato la vita a dodici persone. La testimonianza del direttore Laurent “Riss” Sourrisseau che vive sotto scorta permanente: «Fare un giornale libero è la cosa più importante».
Non esistono parole «per disegnare il ritratto dell’abisso»: lo scrive nel suo libro “Une minute quarante-neuf secondes” (edizioni Actes Sud), il disegnatore Laurent Sourisseau, detto Riss, 55 anni, direttore di Charlie Hebdo al fianco di Charb dal 2009, e dal 2015 rimasto solo al timone. L’abisso è il 7 gennaio di sette anni fa quando a Parigi, in rue Nicolas-Appert, in appunto un minuto e quarantanove secondi, i fratelli jihadisti Cherif e Said Kouachi hanno assaltato armati la redazione del giornale satirico uccidendo dodici persone tra cui il direttore del settimanale, Stéphane Charbonnier, detto Charb, e i vignettisti Cabu, Tignous, Philippe Honoré e Georges Wolinski.
A questo abisso è seguito per Riss il tentativo di una fuga, da Parigi il mese dell’anniversario, - «gennaio sarà per sempre freddo e grigio» -, dalla solitudine, dalla follia e «da un silenzio che vuole ancora uccidere», come si legge nel suo libro pubblicato quattro anni dopo l’attentato, istanti che ha vissuto gettandosi a terra, faccia in giù, per i quali «servirebbe fabbricare parole nuove».
Da quel giorno Riss convive con la sua memoria, che tiene lontano da rumore, deposizione di fiori e compassione, con una scorta permanente e con il braccio destro rimasto ferito da una pallottola, fa ancora male ma questo non gli impedisce di disegnare.
È con questa eredità, e caparbietà, che porta avanti Charlie Hebdo.
Sono riflessioni coraggiose, audaci e candide, quelle che il direttore del settimanale satirico condivide con L’Espresso, perché «la verità è senza pietà» dice, senza scivolare mai nell’indulgenza del vittimismo, consapevole che la violenza è ancora presente. «L’abbiamo incassata. L’abbiamo assorbita», continua, «è dentro di noi».
Il 7 gennaio del 2015 per la prima volta in Francia, in un paese democratico, un giornale è stato attaccato, un fatto inedito, con conseguenze «colossali» che si sono comprese solo con il tempo: «È stato un crimine, un’esecuzione politica per la pubblicazione di caricature di Maometto del 2006», spiega Riss, «con l’obiettivo di eliminare personalità precise, per impedire loro di diffondere con i loro disegni e testi, le loro idee, convinzioni. Sono purtroppo serviti altri attentati per far capire alla società civile e alla classa politica la portata e il significato dell’attacco a Charlie Hebdo». A far aprire gli occhi è stata la decapitazione il 16 ottobre del 2020 di Samuel Paty, professore di Storia, Geografia ed Educazione civica, all’uscita di scuola a Conflans-Sainte Honorine, non lontano da Parigi: «In quel momento è stato chiaro che i terroristi non volevano colpire solo la libertà di stampa e le manifestazioni culturali, ma anche l’educazione attraverso la scuola. In Europa prima eravamo convinti che l’intolleranza religiosa non esistesse più, ma non è così. Bisogna porsi delle domande, l’espressione religiosa deve avere dei limiti nella vita pubblica» spiega Riss che ricorda come nel 2007 il processo per le caricature di Maometto, quelle del quotidiano danese Jyllands-Posten che Charlie Hebdo aveva ripubblicato e il disegno firmato da Cabu, si era chiuso con un’assoluzione piena dall’accusa di «ingiuria pubblica» verso i musulmani.
A salvare Charlie Hebdo, la cui sede era stata attaccata già nel 2011 con una bomba molotov, dal disegno di morte dei fratelli Kouachi è stato lo stesso Charlie Hebdo: nel momento più buio è arrivato in soccorso l’umorismo, che «non fugge la tragedia della vita ma, al contrario, se ne appropria, per renderla sopportabile», dice Riss. A una settimana dall’attacco il giornale è tornato in edicola, «tutto è perdonato» recitava la copertina con Maometto che versava una lacrima tenendo in mano un cartello con la scritta «Je suis Charlie».
«Abbiamo fatto un numero speciale», continua a raccontare il direttore, «perché era importante reagire subito, mostrare che eravamo ancora vivi, se non avessimo fatto nulla avremmo dato l’impressione di essere spariti, invece dovevamo rispondere. Ma non eravamo in grado da subito, moralmente e psicologicamente, di garantire un’uscita settimanale, per questo ci siamo presi un po’ di tempo».
Riss ha cominciato a lavorare nel 1991 per il settimanale satirico francese La Grosse Bertha dove ha incontrato Charb, Luz, Cabu e tutta la redazione del futuro Charlie Hebdo che, uscito in edicola per la prima volta nel 1970, ha ripreso le pubblicazioni nel 1992.
Il giornale, con loro, aveva perso la sua anima: «È stato difficile mettere in piedi una nuova redazione, disegnare per Charlie Hebdo non è come farlo per altri giornali, c’è un umorismo, uno spirito particolare. Abbiamo dovuto formare altre persone. Anche io, Luz e Charb agli inizi abbiamo dovuto imparare e non è successo da un giorno all’altro. Ero convinto che valesse la pena provare. Dopo l’attacco abbiamo dovuto diventare di nuovo attivisti, militanti per la nostra libertà, per difendere diritti che sembravano acquisiti e invece non lo sono».
Charlie Hebdo si è dovuto confrontare con la paura: «Molti giornalisti hanno avuto paura di unirsi a noi, alcuni hanno dovuto rinunciare perché le famiglie non volevano. La paura vista da fuori è diversa da come la viviamo noi, ma è comprensibile perché essere sotto protezione 24 ore su 24 è molto pesante. Alla fine siamo riusciti a trovare nuovi collaboratori perché la libertà di espressione è totale, ed è una cosa rara. Charlie Hebdo è indipendente, non funziona come gli altri giornali, non ha pubblicità, noi rispondiamo e dipendiamo solamente dai nostri lettori».
Dopo l’attentato, ci sono state grandi manifestazioni di solidarietà e sostegno ma anche accuse che pesano ancora: «Siamo stati accusati di razzismo, una delle accuse più offensive per Charlie Hebdo, di essere noi responsabili di quello che era successo, alcuni hanno strumentalizzato l’accaduto per tentare di marginalizzarci ancora di più. Charlie Hebdo è diventato presto il simbolo della libertà di espressione e ci siamo dovuti quasi scusare per questo. Le settimane successive abbiamo lasciato che si dicesse qualunque cosa perché non eravamo in grado di reagire, eravamo vulnerabili. Solo dopo abbiamo ritrovato la forza di farci rispettare».
Riss insiste con la necessità di essere definiti «innocenti», perché nella parola «vittima» si includono spesso anche i carnefici: «Tutti oggi sono vittime di qualcosa, anche gli assassini possono essere definiti “vittime della società”, questo è stato detto dei fratelli Kouachi e così ci siamo ritrovati accanto a chi ci aveva attaccato, quando invece bisogna definire le responsabilità. “Innocente” è un termine intransigente. Questa parola taglia le gambe all’accusa, malvagia e feroce, di colpevolezza che alcuni ci hanno rivolto dopo l’attentato e che doveva essere contestata perché andava al di là di noi, un ragionamento del genere è pericoloso per la libertà di stampa. I fratelli Kouachi sono colpevoli e noi siamo innocenti, com’è stato stabilito nel processo per l’attentato».
La satira tocca temi tabù, fondamentali, filosofici, che possono urtare le convinzioni profonde, destabilizzare, far riflettere e far vedere le cose da un altro punto di vista: «Non cerchiamo di piacere, ma di fare uscire le persone dalla propria zona di comfort intellettuale, che è la cosa peggiore per me» spiega Riss che si scaglia continuamente contro quelli che definisce i «collabos». «Sono intellettuali, professori universitari, persone colte ma senza coraggio, che si adattano, dicono cose convenute, non usano la conoscenza per denunciare, per far discorsi critici, efficaci, sovversivi, che è quello che ci si aspetterebbe da loro. Questo è un tradimento, uno spreco, la loro erudizione è timorosa, fine a se stessa, si autocompiacciono della posizione che occupano», continua Riss che «preferisce», come scrive anche nel suo libro, «i perdenti coraggiosi ai furbi collaborazionisti».
Per difendere la libertà di stampa, Riss è costretto a grandi limitazioni: «Sono libero», spiega, «perché nessuno mi impedisce di cambiare vita. È una negoziazione con la libertà e la sua privazione. Fare un giornale libero è più importante della mia libertà di movimento».
Charlie Hebdo ha oggi una responsabilità diversa: «Il giornale satirico ha ritrovato qualcosa della sua identità storica, cerchiamo di mantenere la curiosità che abbiamo sempre avuto e di avere un punto di vista originale, consapevoli che quello che diciamo e disegniamo ha molta più visibilità, anche all’estero. Dobbiamo usare la libertà in modo ancora più intelligente e difendibile. I lettori contano su di noi».
E la memoria che peso, che posto ha? «I nuovi collaboratori non portano il peso di quel 7 gennaio, il ricordo di quelli che sono stati uccisi, per questo sono a volte più a loro agio, a volte meno perché si chiedono se sono all’altezza di quello che è stato fatto prima. Io mi chiedo sempre che cosa avrebbero pensato le persone scomparse del giornale che facciamo oggi, se è degno, se ne sarebbero contenti. Immagino dei dialoghi immaginari con loro, abbiamo lavorato insieme per ventiquattro anni, conosco bene il loro pensiero, mi pongo sempre la domanda per capire se stiamo andando nella direzione giusta. Siamo circondati dalle loro vignette e le ripubblichiamo regolarmente. Non se ne sono mai andati, sono sempre intorno a noi».
Cristianesimo, la religione del martirio e della speranza. Pietro Emanueli su Inside Ove ril 30 dicembre 2021. “Nel mondo milioni di cristiani continuano a vivere emarginati, in povertà, ma soprattutto discriminati e in pericolo. Dopo due anni di pandemia vogliamo tenere acceso un faro su questa oppressione e aiutare Aiuto alla Chiesa che Soffre Onlus a portare conforto e sostegno ai fedeli di tutto il mondo: in particolare coloro che vivono in Libano, Siria e India“
Il 25 dicembre di ogni anno, da quasi due millenni, i cattolici di tutto il mondo rivivono l’esperienza della Natività, aggiungendo il bambin Gesù nella mangiatoia del proprio presepe e diventando per i loro cari dei novelli Magi. La stagione natalizia accompagna i cattolici da fine dicembre a inizio gennaio, traghettandoli da un anno all’altro, e questo la rende ulteriormente importante agli occhi di grandi e piccoli. La stagione natalizia, dunque, è tante cose simultaneamente: riposo, raccoglimento, riflessione, giubilo per l’epifania del Messia.
Periodo dell’anno dove la luce prevale sulla tenebra, perché le strade sono illuminate ventiquattro ore su ventiquattro e le facciate degli edifici sono arricchite di addobbi luminosi, il Natale è la festività della Cristianità e dell’Occidente, a seconda di come lo si intenda – se religiosamente o laicamente. E se lo si vive in senso religioso, cioè nella sua accezione originale, il periodo natalizio è anche l’occasione per pensare alla storia e all’essenza del Cristianesimo, che è la religione della speranza, dell'(im)possibile e del martirio.
La religione del martirio
Era il 2019 quando Jeremy Hunt, Segretario di stato per gli affari esteri e del Commonwealth nel governo May II, denunciò senza mezzi termini ed edulcorazioni la vastità della piaga cristofobica, parlando di persecuzioni prossime ai livelli del genocidio in varie parti del pianeta. Da allora ad oggi, poco o nulla è cambiato: credere nell’Evangelo può costare caro, può costare la vita, dal Pakistan al Kenya.
I numeri forniti da Porte Aperte, la più importante associazione missionaria cristiana esistente, non lasciano spazio a dubbi: il cristianesimo è la fede del martirio e della persecuzione, oggi come ieri, nel 2021 come nel 36. Perché un cristiano su otto vive “in luoghi dove si sperimentano alti livelli di persecuzione”, cioè oltre 340 milioni su un totale di 2 miliardi e 380 milioni di fedeli. E perché, di anno in anno, per ogni teatro in cui si registrano miglioramenti, ve n’è un altro in cui le condizioni peggiorano.
Il significato del Natale
Il periodo natalizio, si scriveva, non è soltanto giubilo per l’epifania del Messia: è anche occasione di raccoglimento, riflessione e tempo dedicato al ricordo dei martiri. Perché se è vero che il 25 dicembre si celebra la nascita di Gesù, lo è altrettanto che nei giorni successivi si ricordano, tra gli altri, Stefano, gli Innocenti, Telesforo e i martiri di Angers. E come sia possibile coniugare con coerenza la celebrazione della vita con la meditazione sulla morte, passando da un giorno all’altro dalla letizia al lutto, non è difficile né da capire né da spiegare: il Cristianesimo è una religione di vita perché fondata sulla superabilità della morte.
Il fatto che il Cristianesimo sia la religione più perseguitata del pianeta non potrà cambiarne la sostanza, impedirne il prosieguo, ostacolarne la diffusione. I cristiani, invero, sono consapevoli di aver scelto un percorso difficile in un mondo di comode scorciatoie. Sono consapevoli di appartenere a un credo immune alle leggi della Storia e dell’Uomo: fondato da un profeta morto prematuramente e violentemente, portato avanti da idealisti che hanno pagato con la vita e sopravvissuto nonostante un clero storicamente corrotto.
Oggi come ieri, nel 2021 come nel 36, il Cristianesimo continua ad essere una religione che dà la vita perché insegna a non temere la morte. Forse, la forza di questa religione è proprio questa: è nata per nutrirsi delle avversità, addottrina i fedeli ad abbracciare il martirio e a non avere paura degli Erode di turno. Perciò ha potuto convertire l’Impero romano. Perciò ha potuto spandersi dalle urbi giudaiche all’orbe. Perciò ha potuto superare le sfide di ogni tempo, dalla Rivoluzione francese alle persecuzioni esistenziali del Novecento. Perciò ha prevalso e infine abbattuto i regimi più brutali, dal Messico di Plutarco Calles alla Polonia comunista. E perciò è, ancora oggi, la religione più perseguitata del pianeta.
L'eroe cristiano che fermò i Turchi. Andrea Muratore il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Quando nel 1443 Giovanni Hunyadi, capitano generale ungherese, sconfisse a Nis gli ottomani, Scanderbeg decise di chiamare l'intera Albania alla rivolta.
Principe, combattente, eroe nazionale: Giorgio Castriota Scanderbeg per l'Albania è una delle personalità più influenti nella storia e nella memoria collettiva della "terra delle aquile". E rappresenta al tempo stesso un'icona per l'Europa intera: oltre un secolo prima della battaglia di Lepanto che vide la flotta cristiana guidata dalla Spagna e da Venezia schiantare, nel 1571, la marina ottomana frenandone l'impeto nel Mediterraneo Scanderbeg chiamò l'Europa a raccolta contro il Gran Turco avanzante verso Occidente e la sua lotta per l’indipendenza di un popolo divenne tanto una campagna per la difesa di quelle radici antiche che il popolo albanese tuttora rivendica, ma anche un vero e proprio scontro tra due culture, due civiltà, due religioni. Infiammando l'intera Europa negli anni in cui la lotta con gli Ottomani dava notizie sempre più altalenanti, con il picco di panico causato dalla caduta di Costantinopoli del 1453.
Scanderbeg era il figlio di un principe vassallo degli Ottomani, Giorgio I Castriota; suo nonno era caduto combattendo nella Battaglia della Piana dei Merli del 15 giugno 1389 in cui le forze cristiane guidate dal principe serbo Lazar Hrebeljanović erano state sconfitte al termine di un duro e crudele combattimento dalle truppe ottomane del sultano Murad I, che vi aveva trovato la morte. La sconfitta della vasta coalizione cristiana comprendente Serbia Moravica e il Regno di Bosnia, il Principato d'Albania, il Regno di Romania, il Secondo Impero bulgaro e i Cavalieri di Rodi aveva visto Giorgio sopravvivere e governare il suo principato come vassallo degli Ottomani. Cristiano di fede, alla prima occasione buona, nel 1406, passò alla tutela della Repubblica di Venezia avviando una lunga e dura campagna per l'autonomia della sua terra, combattendo contro gli ottomani senza sosta dal 1407 al 1430, restandone sconfitto almeno quattro volte, nel 1410, 1416, 1428 e 1430, anno della sua morte. Dopo la quale fu il figlio Giorgio a iniziare a costruire la sua epopea. Costretto alla conversione all'Islam dalle clausole imposte al padre dopo la decisiva Battaglia di Tessalonica del 1430, quando aveva 27 anni, poté godere della formazione al mestiere delle armi dei dominatori ottomani, ne conquistò la benevolenza, fu nominato governatore (subash) della città di Kruja, ottenendo il titolo onorifico di Beg e dando origine all'appellativo con cui Giorgio Castriota sarebbe stato universalmente riconosciuto.
Quando nel 1443 Giovanni Hunyadi, capitano generale ungherese, sconfisse a Nis gli ottomani, Scanderbeg decise che l'ora delle messe in scena era finita; chiamò l'intera Albania alla rivolta, incitò alla cacciata dei Turchi dalle terre della piccola terra montuosa nota per la sua società clanica, i suoi uomini abili alle armi, la complessità dei suoi costumi. Il 2 marzo 1444, giorno in cui Scanderbeg riunì i principi albanesi nella città veneziana di Alessio per costituire la Lega dei Popoli Albanesi, segnò l'inizio di una vera e propria leggenda. Con un esercito che rare volte avrebbe raggiunto numeri superiori alle 10mila unità, ma contando su uomini addestrati, desiderosi di proteggere la libertà della propria terra, attenti conoscitori dell'area di riferimento, adatti a condurre guerriglie e lotte sfiancanti tra le gole e le montagne dell'Albania Scanderbeg avrebbe condotto fino alla morte, avvenuta nel 1468, una lotta per la libertà che emozionò l'Europa intera. "Non fui io a portarvi la libertà, ma la trovai qui, in mezzo a voi", dichiarò Scanderbeg ai suoi alleati, dopo aver annunciato al sultano Murad II, in una nota, di aver rinnegato la fede maomettana e aver riabbracciato il cristianesimo.
Per l'Impero Ottomano che progettava, e portava a compimento, l'annessione degli ultimi brandelli dell'Impero Bizantino, l'assedio di Costantinopoli, "regina delle città" elevata a capitale turca, il dominio sul Mediterraneo la resistenza albanese divenne una vera e propria spina nel fianco. E lo fu in particolare per Mehmet II Fatih, conquistatore di Costantinopoli. Già nel 1444 Murad II reagì al sommovimento di Scanderbeg inviando contro gli Albanesi un forte esercito guidato da Alì Pascià; lo scontro con le truppe di Scanderbeg, decisamente inferiori numericamente, avvenne il 29 giugno 1444 a Torvjolli: qui i Turchi riportarono una bruciante sconfitta. Non sarebbe stato che l'inizio. Il 1445 e il 1446 videro due nuove armate albanesi, sempre contraddistinte da una superiorità numerica compresa tra 5 a 1 e 10 a 1, duramente battute o messe all'angolo dai resistenti albanesi. Di lì in avanti per i Turchi sarebbe stata una sequela unica di disfatte: Mehmet II, salito al trono imperiale ottomano nel 1451, inaugurò il suo trionfale regno proprio con una fallimentare spedizione in Albania. Negli anni seguenti, Scanderbeg avrebbe vinto le battaglie disputatesi nei Campi dell'Acqua Bianca nel 1457, nei pressi di Ocrida nel 1462, nel prato di Vajkan nel 1465. Scanderbeg ebbe modo di sostenere anche l'alleato Ferrante d'Aragona, re di Napoli, contribuendo con il suo passaggio in Italia a guidare le sue truppe alla vittoria nella Battaglia di Troia del 1462.
Poco prima della morte, Papa Pio II accarezzò, nel 1464, l'idea di sostenere Scanderbeg con una crociata nei Balcani. La sua scomparsa pose fine a questo progetto, ma anno dopo anno ci si rese conto che la resistenza albanese stava rappresentando il vero antemurale contro un dilagare turco verso Nord-Ovest, verso l'Italia e l'Europa centrale. L'anticipazione di Lepanto, che nel 1571 fermò la corsa turca sul Mediterraneo, e della carica di cavalleria di Vienna che nel 1683 ruppe l'assedio ottomano e avviò il lungo riflusso della Sublime Porta fu la lunga guerra di logoramento condotta dall'Albania di Scanderbeg, guerriero cristiano e eroe indipendentista, in una fase in cui i rapporti di forza militari pendevano tutti a vantaggio del Gran Turco.
Papa Callisto III battezzò "Atleta di Cristo" e "Difensore della Fede" il guerriero che era riuscito a unificare i principati albanesi, cattolici e ortodossi, nella resistenza contro gli Ottomani. Scanderbeg era divenuto un vero esperto in agguati e contrattacchi e conosceva a perfezione le debolezze dell'esercito ottomano, impedendo ogni possibile avanzata a Nord in una fase in cui qualsiasi manovra della Sublime Porta avrebbe dovuto trovarsi necessariamente costretta da azioni ostili su due fianchi. Quando la morte colse Scanderbeg nel 1468, a 65 anni, a causa di una febbre malarica, il principe era un simbolo per l'intera Europa. E lo era, in particolare, per quelle comunità di esuli albanesi, in larga parte cristiani, stanziati nel Sud Italia ove Scanderbeg aveva anche combattuto e ove re Ferrante gli aveva concesso i feudi di Monte Sant'Angelo e San Giovanni Rotondo. Il cognome di Scanderbeg, Castriota (anche nella sua versione "Castriotta") è tuttora tra i più diffusi in diverse aree della Puglia, principalmente attorno a Manfredonia; le comunità Arbreshe tuttora resistono e prosperano al Sud Italia; il nostro Paese e l'Albania, la piccola sorella al di là dell'Adriatico, sono intrinsecamente legate nell'era della globalizzazione. E lo sono anche e soprattutto per il filo rosso gettato oltre mezzo millennio fa da Giorgio Castriota Scanderbeg. Un eroe nazionale per il suo popolo. Una figura decisiva, per quanto spesso immeritatamente sottovalutata, per l'Europa del suo tempo.
Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.
· Cristiani contro Cristiani.
Il futuro degli Stati Uniti è senza Cristo. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 24 Novembre 2022
Stati Uniti, la loro identità è intrinsecabilmente legata al cristianesimo. La loro storia inizia con l’arrivo a Plymouth di un gruppo di puritani inglesi alla ricerca di una nuova Gerusalemme al di fuori dell’Europa. Dio è nei loro tribunali, nelle loro monete ed è il loro motto – In God We Trust.
Dio, inteso come il Dio abramitico, negli Stati Uniti è una presenza fissa anche al momento dell’insediamento del capo di stato, giacché i presidenti giurano sulla Bibbia dai tempi di George Washington. Una tradizione, più che legata al padre della nazione, dovuta ad un fatto accaduto quel giorno di aprile del 1789: Washington, a giuramento finito, si accorse di aver la mano su Genesi 49,1-27 – la benedizione di Giacobbe. Un segno. Un destino. O meglio: un manifesto destino.
Non si può scrivere di Stati Uniti prescindendo da una spiegazione della loro connaturata cristianità. Perché la suddetta, oltre a permeare la quotidianità dell’americano comune, ieri ha plasmato la visione del mondo dei Padri fondatori e oggi plasma quella dei loro nipoti. Calvinisticamente predestinati a essere Città sulla collina e Impero della libertà. Inevitabilmente costretti a utilizzare la violenza per liberare il mondo dal male – violenza redentrice.
Stati Uniti, se è vero che la cristianità è connaturata in loro, lo è altrettanto che il senso religioso delle masse sta rapidamente scemando dinanzi all’avanzata inesorabile, e apparentemente inarrestabile, della secolarizzazione. Ed è lecito chiedersi che cosa potrebbe succedere ai giuramenti sulle Bibbie e alle “guerre sante” dei loro presidenti, se la scristianizzazione dovesse rivelarsi irreversibile.
Non è un paese per cristiani
Stati Uniti, hanno la popolazione cristiana più numerosa del pianeta – 210 milioni di persone –, e sono casa della più ampia comunità protestante – 140 milioni –, ma un domani potrebbero non essere troppo differenti dalla vecchia e atea Europa.
Il quadro dello stato di salute del cristianesimo statunitense, dipinto dai più importanti barometri di tendenze sociali degli Stati Uniti, Gallup e Pew Research Center, è a tinte fosche. Il numero di credenti praticanti e non praticanti è in diminuzione su base annua, la convinzione che gli Stati Uniti siano una “nazione cristiana” fa sempre meno presa e tradizioni sedimentate – come il congregazionalismo – vanno sparendo dall’orizzonte dell’americano medio.
La tendenza della scristianizzazione degli Stati Uniti sembra inarrestabile. Il declino è iniziato da qualche parte tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, quasi in concomitanza con l’inizio dell’età d’oro repubblicana, e da allora non si è più fermato. Il fenomeno è ben fotografato dai numeri:
9 americani su 10 erano cristiani nel 1976, 8 su 10 nel 2001 e 6 su 10 nel 2021;
Il congregazionalismo è stato la realtà di 7 americani su 10 per circa quarant’anni – dagli anni Quaranta agli Ottanta –, ma dal 2020 è pratica di soltanto 4 su 10;
18 stati federati presentano tassi “europei” di frequenza in chiesa, essendo i praticanti meno del 30% della popolazione;
La fine della Città sulla collina?
Il 64% degli americani pensa che gli Stati Uniti abbiano smesso di essere un paese cristiano e il 51% è dell’idea che, succeda quel che succeda, non dovrebbero aspirare a tale titolo – percentuale che sale ad un eccezionale 76% tra Millennials e Generazione Z. Per di più, va aumentando la porzione di chi crede che i Padri fondatori non volessero edificare una nazione ispirata dalla Bibbia – il 37%, che diventa 49% tra i rispondenti in età 18-29 e 52% tra gli elettori democratici. Questi i risultati di un’indagine effettuata dal Pew Research Center nel 2022.
Il futuro degli Stati Uniti sembra essere indubbiamente senza Dio, perlomeno il Dio cristiano, ma non è detto che ciò avrà necessariamente riverberi negativi sulla loro postura internazionale. Perché se è vero che la secolarizzazione va di pari passo con l’avversione al nazionalismo cristiano, lo è altrettanto che l’hobbesiana realtà delle relazioni internazionali continuerà ad imporre alla Città sulla collina di agire nel mondo. Il fardello del poliziotto globale, anche se meno assertivo e con meno competenze di un tempo.
L’ingresso degli Stati Uniti nell’era postcristiana potrebbe comportare dei mutamenti più di forma che di sostanza. L’internazionalismo liberale in luogo dell’interventismo messianico – lo stesso eccezionalismo di sempre, ma presentato con un volto diverso. Nuovi instrumenta regni da esportare – oggi protestantesimo evangelico e sovranismo, domani wokismo e parenti. Ma i medesimi imperativi strategici di sempre: dollarocrazia, primazia nell’emisfero occidentale e divide et impera in Eurasia.
Francesco contro i populismi. Il Papa dice che è moralmente accettabile inviare armi agli ucraini per aiutarli a difendersi. L'inkiesta il 16 Settembre 2022
«È una decisione politica, che può essere moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere armi. La motivazione qualifica la moralità. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla patria», spiega ai giornalisti sul volo di rientro dal Kazakistan. Poi parla delle prossime elezioni: «Dobbiamo aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica»
Di ritorno dal Kazakistan, il Papa ha risposto alle domande dei giornalisti sull’aereo che lo ha riportato a Roma. Le guerre e la ricerca della pace sono stati al centro del congresso interreligioso a cui ha preso parte. E ovviamente si è parlato della guerra russa in Ucraina. E sugli armamenti inviati agli ucraini, il Pontefice – come riporta il Corriere – dice: «È una decisione politica, che può essere moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere armi. La motivazione qualifica la moralità. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla patria. La guerra è un errore, da settant’anni l’Onu parla di pace, ma ora quante guerre ci sono? Siamo in guerra mondiale… Mia madre pianse di gioia nel 1945. Non so se oggi abbiamo il cuore educato a piangere per la pace».
Francesco però aggiunge anche non bisogna abbandonare la via del dialogo. «È difficile, ma non dobbiamo scartarlo ma dare l’opportunità a tutti, tutti. Perché c’è sempre la possibilità che si possano cambiare le cose. Io non escludo il dialogo con qualsiasi potenza che sia l’aggressore. Delle volte il dialogo si deve fare così. Puzza, ma si deve fare. Perché al contrario chiudiamo l’unica porta ragionevole per la pace. A volte non accettano, peccato, ma il dialogo va fatto sempre, almeno offerto».
Poi il discorso sul volo da Nur Sultan si sposta sulle imminenti elezioni politiche in Italia. «Ho conosciuto due presidenti italiani, di altissimo livello: Napolitano e Mattarella. Grandi», dice il Papa. «Poi gli altri politici non li conosco. In questo secolo l’Italia ha avuto venti governi. Non condanno né critico, ma non so spiegarlo. La politica italiana non la capisco, è un po’ strano, ma ognuno ha il proprio modo di ballare il tango. Oggi essere un grande politico, che si mette in gioco per i valori della patria e non per interessi, la poltrona, è difficile. Dobbiamo lottare per aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica, non la politica di basso livello che non aiuta e anzi tira giù lo Stato, impoverisce… Oggi la politica in Europa dovrebbe affrontare ad esempio l’inverno demografico, lo sviluppo industriale e naturale, i migranti».
È nel Mediterraneo, secondo il Papa, che si consuma l’ingiustizia sociale. «È Occidente e oggi è il cimitero più grande, non dell’Europa: dell’umanità», dice. «Cosa ha perso l’Occidente per dimenticarsi di accogliere, quando ha bisogno di gente? E poi c’è il pericolo dei populismi. In una situazione sociopolitica del genere nascono i messia dei populismi, quando c’è un’età come dopo Weimar nel ‘33 e uno promette il messia».
Su questo tema, Repubblica sottolinea alcune prese di posizione del Pontefice. Tra cui: «Paolo VI diceva che la politica è una delle forme più alte della carità. Dobbiamo aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica, non la politica di basso livello che non aiuta niente, e anzi tira giù lo Stato, impoverisce».
"È eresia...". Dal Vaticano il "siluro" al patriarca Kirill. Nico Spuntoni il 3 Luglio 2022 su Il Giornale.
La distanza tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa sembra essersi amplificata dopo la guerra in Ucraina. Le parole del cardinale Koch si inseriscono nel solco di quelle di Papa Francesco dopo la videochiamata con il patriarca di Mosca.
"È un'eresia che il patriarca osi legittimare la brutale e assurda guerra in Ucraina con ragioni pseudo-religiose". Il cardinale Kurt Koch non ha usato mezzi termini per condannare la linea tenuta dalla Chiesa ortodossa russa già all'indomani del 24 febbraio. Lo ha fatto in un'intervista concessa al quotidiano cattolico tedesco Die Tagespost.
Sono parole di particolare rilevanza non solo perché tirano in ballo l'accusa di eresia, rimpallata per secoli da Occidente a Oriente e viceversa con motivazioni teologiche, ma per la fonte da cui provengono. Koch non è un porporato qualunque, ma il prefetto del Dicastero per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, nuovo nome del Pontificio Consiglio che si occupa di ecumenismo e cura le relazioni con le altre Chiese e Comunità ecclesiali.
Il suo profilo, peraltro, è tutt'altro che barricadiero, trattandosi di un fine teologo svizzero dal carattere mite e dai toni gentili, spesso considerato anche per questo una sorta di "piccolo Joseph Ratzinger". Non bisogna dimenticare che c'era il cardinale Koch accanto a Papa Francesco nella storica videochiamata con il patriarca russo Kirill che si è svolta nel pomeriggio del 16 marzo e che ha avuto come inevitabile argomento di discussione proprio la guerra in Ucraina. Durante quel colloquio, Bergoglio aveva rimproverato il leader spirituale russo per il suo sostegno all'operazione militare di Putin, ricordandogli che "la Chiesa non deve usare il linguaggio della politica, ma il linguaggio di Gesù".
Il Papa ha raccontato i dettagli di quella videochiamata nell'intervista concessa a inizio maggio al direttore del Corsera, Luciano Fontana, spiegando che Kirill aveva iniziato la conversazione "con una carta in mano" da cui aveva letto "tutte le giustificazioni alla guerra", sentendosi rispondere che "il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin".
Una franchezza che è sintomo di quanto la guerra in Ucraina abbia condotto le relazioni tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa a uno stallo dopo decenni di lavoro sotterraneo che aveva consentito la realizzazione dello storico incontro di Cuba nel 2016. I due leader si sarebbero dovuti rivedere di persona a Gerusalemme il 14 giugno, ma il conflitto ha stravolto l'agenda fissata dalle rispettive diplomazie.
Le recenti parole di Koch sembrano certificare una distanza difficilmente colmabile a breve giro anche perché Kirill non può permettersi reazioni troppo morbide verso Roma, avendo a che fare con le pressioni interne del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa da sempre non favorevole al dialogo con i cattolici.
Non a caso, a inizio giugno il Sinodo - attribuendo la decisione al patriarca - ha silurato a sorpresa il potentissimo metropolita Hilarion di Volokolamsk dal ruolo di "ministro degli Esteri", spedendolo a Budapest. Con il gelo ecumenico calato dopo il 24 febbraio e confermato dall'intervista di Koch a Die Tagespost, la sua linea considerata eccessivamente dialogante con la Chiesa cattolica potrebbe essergli costata non solo il posto di presidente del Dipartimento degli Affari Ecclesiastici Esterni ma anche la successione a Kirill che poco tempo fa veniva data quasi per scontata.
Bergoglio torna a parlare del conflitto in Ucraina. La furia di Papa Francesco: “La guerra non è tra buoni e cattivi”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 15 Giugno 2022.
Con la guerra in Ucraina non siamo nella favola di Cappuccetto Rosso dove è chiaro chi è il cattivo e chi è la buona. Ma chiediamoci: “Che cosa sta succedendo all’umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali?”. E se non fosse abbastanza chiaro, ecco due aggiunte: “qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro”. L’analisi è di Papa Francesco e la conosciamo per merito de La Civiltà Cattolica che ieri ha pubblicato la trascrizione integrale del dialogo del 19 maggio tra il Pontefice e dieci direttori di altrettante riviste dei gesuiti in diversi paesi europei.
La conversazione ha spaziato a tutto campo: dalla guerra alla situazione della Chiesa e dei rapporti con gli ortodossi, dai giovani alle priorità della Compagnia di Gesù in Europa. Non sono a favore di Putin, argomenta il Papa e precisa: «Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli». Il conflitto non deve nascondere, in una visione parziale della realtà, i tanti altri disastri bellici in corso. «Ci sono altri Paesi lontani – pensiamo ad alcune zone dell’Africa, al nord della Nigeria, al nord del Congo – dove la guerra è ancora in corso e nessuno se ne cura. Pensate al Ruanda di 25 anni fa. Pensiamo al Myanmar e ai Rohingya. Il mondo è in guerra. Qualche anno fa mi è venuto in mente di dire che stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi e a bocconi. Ecco, per me oggi la terza guerra mondiale è stata dichiarata. E questo è un aspetto che dovrebbe farci riflettere. Che cosa sta succedendo all’umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali?
Io vivo la prima guerra nel ricordo di mio nonno sul Piave. E poi la seconda e ora la terza. E questo è un male per l’umanità, una calamità. Bisogna pensare che in un secolo si sono susseguite tre guerre mondiali, con tutto il commercio di armi che c’è dietro! Quella che è sotto i nostri occhi – aggiunge papa Francesco – è una situazione di guerra mondiale, di interessi globali, di vendita di armi e di appropriazione geopolitica, che sta martirizzando un popolo eroico». L’analisi porta con sé una domanda molto forte: chi si prenderà cura dei profughi e delle donne, quando l’emergenza sarà passata? E c’è anche un compito per le riviste dei gesuiti: impegnatevi a parlare del conflitto, a sensibilizzare, affrontando «il lato umano della guerra. Vorrei che le vostre riviste facessero capire il dramma umano della guerra. Va benissimo fare un calcolo geopolitico, studiare a fondo le cose. Lo dovete fare, perché è vostro compito. Però cercate pure di trasmettere il dramma umano della guerra, il dramma umano di una donna alla cui porta bussa il postino e che riceve una lettera con la quale la si ringrazia per aver dato un figlio alla patria, che è un eroe della patria… E così rimane sola. Riflettere su questo aiuterebbe molto l’umanità e la Chiesa. Fate le vostre riflessioni socio-politiche, senza però trascurare la riflessione umana sulla guerra».
Nella lunga riflessione il Papa si lascia andare anche a ricordi personali, parlando della visita compiuta a Redipuglia e al cimitero militare di Anzio, due momenti di grande commozione pensando a quelle migliaia di giovani morti. Quanto all’ortodosso Patriarca Kirill di Mosca, Papa Francesco taglia corto: «Ho avuto una conversazione di 40 minuti con il patriarca Kirill. Nella prima parte mi ha letto una dichiarazione in cui dava i motivi per giustificare la guerra. Quando ha finito, sono intervenuto e gli ho detto: Fratello, noi non siamo chierici di Stato, siamo pastori del popolo. Avrei dovuto incontrarlo il 14 giugno a Gerusalemme, per parlare delle nostre cose. Ma con la guerra, di comune accordo, abbiamo deciso di rimandare l’incontro a una data successiva. Spero di incontrarlo in occasione di un’assemblea generale in Kazakistan, a settembre. Spero di poterlo salutare e parlare un po’ con lui in quanto pastore».
Un altro capitolo riguarda la situazione della Chiesa. E qui il Papa avvia una riflessione molto decisa: nella Chiesa europea “vedo rinnovamento” con “movimenti, gruppi, nuovi vescovi che ricordano che c’è un Concilio alle loro spalle. Perché il Concilio che alcuni pastori ricordano meglio è quello di Trento. E non è un’assurdità quella che sto dicendo”. Altrove, specie negli Usa, il Concilio Vaticano II lo si vorrebbe semplicemente cancellare dalla storia. Il Papa ne è acutamente consapevole e lo dice senza mezzi termini, anche se non spiega in che modo si debba arginare i settori conservatori. “Il numero di gruppi di «restauratori» – ad esempio, negli Stati Uniti ce ne sono tanti – è impressionante” e “ci sono idee, comportamenti che nascono da un restaurazionismo che in fondo non ha accettato il Concilio. Il problema è proprio questo: che in alcuni contesti il Concilio non è stato ancora accettato. È anche vero che ci vuole un secolo perché un Concilio si radichi. Abbiamo ancora quarant’anni per farlo attecchire, dunque!”.
Un’altra tematica ha a che fare con la Germania. Anche qui la risposta dimostra una capacità di visione più ampia e profonda di quello che si legge di solito sui media. Papa Francesco sa quali sono le difficoltà ecclesiali ma ha deciso di aspettare e non forzare le situazioni. E lo dice, indicando una strategia precisa e consapevole: «Il problema sorge quando la via sinodale nasce dalle élite intellettuali, teologiche, e viene molto influenzata dalle pressioni esterne. Ci sono alcune diocesi dove si sta facendo la via sinodale con i fedeli, con il popolo, lentamente». Sulla diocesi di Colonia dove l’arcivescovo è contestato per la scarsa sensibilità verso le denunce di casi di abusi, papa Francesco non le manda a dire e rivela dettagli importanti: «Ho chiesto all’arcivescovo di andare via per sei mesi, in modo che le cose si calmassero e io potessi vedere con chiarezza. Perché quando le acque sono agitate, non si può vedere bene. Quando è tornato, gli ho chiesto di scrivere una lettera di dimissioni. Lui lo ha fatto e me l’ha data. E ha scritto una lettera di scuse alla diocesi. Io l’ho lasciato al suo posto per vedere cosa sarebbe successo, ma ho le sue dimissioni in mano».
Della serie: comportati bene… Intanto il direttore di una rivista on line chiede come parlare ai giovani e anche qui la risposta è pronta: «Non bisogna stare fermi»; «ai miei tempi il lavoro con i giovani era costituito da incontri di studio. Ora non funziona più così. Dobbiamo farli andare avanti con ideali concreti, opere, percorsi. I giovani trovano la loro ragione d’essere lungo la strada, mai in modo statico. Qualcuno può essere titubante perché vede i giovani senza fede, dice che non sono in grazia di Dio. Ma lasciate che se ne occupi Dio! Il vostro compito sia quello di metterli in cammino. Penso che sia la cosa migliore che possiamo fare». Questa risposta si lega con un’altra riflessione che il Papa ha già svolto nell’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” sul modo di annunciare il Vangelo oggi e sul principio che “la realtà è superiore all’idea”: non basta comunicare idee: non è sufficiente. Occorre comunicare idee che provengono dall’esperienza. Questo per me è molto importante.
Le idee devono venire dall’esperienza. Prendiamo l’esempio delle eresie, sia che esse siano teologiche sia che siano umane, perché ci sono anche eresie umane. A mio parere, un’eresia nasce quando l’idea è scollegata dalla realtà umana. Da qui la frase che qualcuno ha detto – Chesterton, se ben ricordo – che «l’eresia è un’idea impazzita». È impazzita perché ha perso la sua radice umana”. Il principio è semplice: «la realtà è superiore all’idea, e quindi bisogna dare idee e riflessioni che nascono dalla realtà». I gesuiti hanno nel “dna” il tema del “discernimento”: analizzare la realtà, riflettere bene, poi agire. Il Papa lo mette a fuoco puntando in alto: “se si lancia una pietra, le acque si agitano, tutto si muove e si può discernere. Ma se invece di lanciare una pietra, si lancia… un’equazione matematica, un teorema, allora non ci sarà alcun movimento, e dunque nessun discernimento”.
Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).
Mattia Feltri per “La Stampa” il 15 giugno 2022.
In una conversazione riportata ieri dalla Stampa coi direttori di dieci riviste europee della Compagnia di Gesù, Papa Francesco è tornato sulla guerra d’Ucraina. La sua opinione è nota, ma nell’occasione la dettaglia: alla condanna dell’aggressore si accompagna un fremente elogio del coraggio dell’aggredito, ma con l’avvertenza che questa non è la storia di Cappuccetto Rosso, non ci sono buoni e cattivi, la questione è più complessa.
In particolare - lo aveva già detto, lo ripete - la Nato ha abbaiato ai confini russi, forse per fomentare la guerra, perlomeno senza lo scrupolo di evitarla. Bisogna sempre accostarsi con particolare prudenza e rispetto alle parole di un pontefice, che si sia credenti oppure no.
Mi sono ricordato della volta in cui, rientrando in volo dallo Sri Lanka, una settimana dopo la strage di Charlie Hebdo (dodici morti nella redazione del giornale satirico per mano di terroristi islamici), Francesco dichiarò sacre le libertà di religione e di espressione, ma né l’una né l’altra sono illimitate: se dici una parolaccia a mia madre, spiegò, aspettati un pugno.
Anche lì, mi pare, l’intenzione era di sollecitare una lettura delle cose senza semplificazioni manicheiste, cioè un invito, replicato ieri, alla complessità. Per la prudenza e il rispetto raccomandati prima, mi limito a dubitare che sarebbe buona cosa dare un pugno a chi insultasse mia madre, e ad aggiungere che parlare di buoni e cattivi, subito dopo o durante una mattanza, a Parigi o a Kiev, sarebbe inutile e infantile. Non sono buoni e cattivi, sono vittime e carnefici, e le ragioni dei carnefici sono qualcosa che diventa il nulla.
Amicus Papa, sed magis amica logica. Delle due l’una: o si dice che c’è un aggressore e c’è una vittima o si dice che le cose sono più complesse. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 16 giugno 2022.
Se c’è un invasore, non si può negare che la guerra sia iniziata con l’invasione; se si sta dalla parte dell’Ucraina, non si può aggiungere che non ci sono buoni e cattivi, per la contradizion che nol consente.
Non so per quale ragione il direttore della Civiltà cattolica, Antonio Spadaro, abbia criticato con parole dure il titolo («La Nato ha provocato Putin») dato dalla Stampa a un’anticipazione della sua conversazione con Papa Francesco. Questo il suo tweet di martedì: «Purtroppo quel titolo virgolettato è fasullo. Ho protestato con @LaStampa. Nella conversazione non c’è infatti».
Basta leggere il testo integrale della conversazione per verificare come il Papa citi ancora una volta – lo aveva già fatto, ad esempio, con il Corriere della Sera – un anonimo capo di stato secondo il quale, prima del conflitto, la Nato stava «abbaiando alle porte della Russia».
A scanso di equivoci, il Pontefice non si limita a riportarne il giudizio, ma loda esplicitamente l’interlocutore come un uomo saggio e capace di «leggere i segni di quel che stava avvenendo». Dunque, appurato che l’analisi citata dal Papa era da lui pienamente approvata, quale sarebbe la differenza tra il dire che la Nato, prima che la guerra scoppiasse, stava «abbaiando alle porte della Russia» e il dire che «la Nato ha provocato Putin»? Semmai, al netto della sempre deprecabile abitudine italiana di virgolettare le sintesi, si potrebbe dire che la versione della Stampa attenui la forza dell’immagine usata da Papa Francesco. Certo non ne cambia in nulla il significato.
Trattandosi di una conversazione tra un Papa gesuita e i direttori delle riviste europee della Compagnia di Gesù, sarei tentato di spiegare la cosa, sicuro di non offendere nessuno, con un eccesso di gesuitismo, almeno da parte del direttore della Civiltà cattolica. Il guaio è che il resto della conversazione era persino più esplicito.
Naturalmente non voglio avventurarmi nell’interpretazione del pensiero del Papa. Mi preoccupano di più i molti che in questi giorni hanno utilizzato le sue parole per tirare l’acqua al proprio mulino.
Del resto lo stesso Spadaro, proprio sulla Stampa, il 20 aprile ha ricordato che «Francesco ha definito lucidamente il conflitto “inaccettabile aggressione armata”, “guerra ripugnante”, “massacro insensato”, “invasione dell’Ucraina”, “barbarie”, “atto sacrilego”». Definizioni che sembrerebbero inequivoche, e che mi guardo bene dal contestare. D’altronde, chi oggi, anche tra i più fermi oppositori del sostegno all’Ucraina, non comincia ogni discorso ripetendo che è chiarissimo chi sia l’aggressore e chi l’aggredito? Se però questo è anche il pensiero del Papa, e personalmente non ne sono affatto sicuro, bisogna comunque riconoscere che è arduo ritrovarlo nel senso e anche nella lettera di quanto affermato nella conversazione con i direttori delle riviste dei gesuiti.
«Quello che stiamo vedendo è la brutalità e la ferocia con cui questa guerra viene portata avanti dalle truppe, generalmente mercenarie, utilizzate dai russi», dice Papa Francesco. Dopodiché aggiunge: «Ma il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l’interesse di testare e vendere armi. È molto triste, ma in fondo è proprio questo a essere in gioco».
È evidente a chi si riferisca il Papa quando ipotizza, diciamo così, che la guerra sia stata «provocata», per non parlare della valenza di quel generico riferimento agli interessi dietro la possibilità di «testare e vendere armi», che sarebbe addirittura la vera posta in gioco.
Si può sostenere che la guerra è stata scatenata da Vladimir Putin al solo scopo di impadronirsi dell’Ucraina, per ragioni imperialistiche, e si può dire, al contrario, che si tratta di una «guerra per procura» provocata dagli americani, dalla lobby delle armi e magari anche da Big Pharma (melius abundare quam deficere, dicevano i latini, molto prima di Totò); ma sostenere o alludere a entrambe le cose finisce per fare più confusione che chiarezza.
Sta di fatto che subito dopo la frase appena riportata lo stesso Papa Francesco aggiunge quella che ha tutta l’aria, per restare ai latinismi, di una excusatio non petita: «Qualcuno può dirmi a questo punto: ma lei è a favore di Putin! No, non lo sono. Sarebbe semplicistico ed errato affermare una cosa del genere. Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli».
Può darsi che dietro tante apparenti contraddizioni vi siano ragioni nobilissime, legate alle segrete arti della diplomazia vaticana, o magari anche a forze superiori di cui io, ateo materialista, non posso rendermi conto. Ma una cosa è certa: nell’esultanza dei tanti che in questi giorni si sono subito fatti scudo delle parole del Papa per rilanciare i consueti argomenti contro il sostegno all’Ucraina, che si traducono semplicemente in un aumento della pressione per interrompere gli aiuti all’aggredito, a tutto vantaggio dell’aggressore, non è difficile discernere l’esito ultimo di certi discorsi.
Si può dire, infatti, che in questa guerra non ci sono buoni e cattivi, e si può dire, al contrario, che si sta convintamente dalla parte della vittima, cioè dell’Ucraina; ma non si possono sostenere entrambe le cose. Si può dire che in questo conflitto è chiarissimo chi è l’aggressore e chi è l’aggredito, e si può dire, al contrario, che questa guerra è cominciata molto prima del 24 febbraio, giorno dell’aggressione russa; ma delle due l’una. Si può dire che le cose sono chiarissime e si può sostenere, al contrario, che non lo sono affatto, ma non si può sostenere che sono al tempo stesso chiarissime e avvolte nell’oscurità, mi dispiace, perché la luce non può essere al tempo stesso accesa e spenta, per la «contradizion che nol consente». Amicus Papa, sed magis amica logica.
Dagotraduzione da Axios il 29 aprile 2022.
Secondo gli ultimi dati, il cattolicesimo sta perdendo la presa in America Latina perché è cresciuta la percentuale di persone che affermano di identificarsi come evangelici.
Un dato importante, perché la Chiesa cattolica ha storicamente influenzato le leggi e la politica dell'America Latina. Il suo declino sta iniziando ad avere un impatto sulle politiche di alcuni paesi, anche se altre fedi crescono.
Ad esempio, diversi paesi hanno recentemente depenalizzato l'aborto, riconosciuto il matrimonio gay e spinto per i diritti dei transgender.
Nel complesso, il numero di latinoamericani che hanno affermato di non avere una religione è balzato di sei punti percentuali dal 2010 al 2020, secondo il più recente Latinobarómetro, il principale sondaggio regionale annuale.
Latinobarómetro ha rilevato che la percentuale di persone che si identificano come cattoliche è scesa dal 70% nel 2010 al 57% nel 2020.
In compenso sono cresciute le fedi evangeliche. Lo studio mostra che in Brasile, il numero di intervistati che si sono identificati come evangelici è passato dal 3% nel 2000 al 18% nel 2010 e al 22% nel 2020. In Guatemala, queste cifre sono passate dal 19% al 34% al 41%.
Un crescente gruppo evangelico ha recentemente cercato di approvare misure che vietano completamente il matrimonio tra persone dello stesso sesso e una pena fino a 10 anni in caso di aborto. La legge è stata demolita dopo che il presidente ha detto che non avrebbe firmato.
Il cambiamento nelle credenze religiose è in parte dovuto al fatto che i giovani hanno più fedi tra cui scegliere, ha affermato ieri il professore di studi religiosi Andrew Chesnut della Virginia Commonwealth University in una conferenza a Città del Messico.
Ha aggiunto che le fedi protestanti e altre fedi cristiane hanno rafforzato la sensibilizzazione, così come forme alternative di spiritualismo, come i movimenti New Age che incorporano le tradizioni mesoamericane.
Lo studio Latinobarómetro mostra che anche la fiducia nella Chiesa cattolica è ai minimi storici, in particolare in Argentina e Uruguay, dove la chiesa è stata accusata di aver chiuso un occhio sulle violazioni dei diritti umani da parte di dittature passate, e in Cile, dove sono esplosi numerosi scandali sessuali negli ultimi anni.
Papa Francesco, il primo latinoamericano a guidare la Chiesa cattolica, si è persino scusato per i "danni irreparabili" di questi ultimi casi dopo una visita in Cile nel 2018. Sì, ma il cattolicesimo rimane socialmente radicato nella cultura latinoamericana. Molti celebrano ancora tradizioni cattoliche come Día de los Reyes Magos (il giorno dei tre re).
I dati del Pew Research Center mostrano che anche i latinoamericani negli Stati Uniti si sono allontanati dal cattolicesimo negli ultimi anni, mentre la laicità cresce in tutto il mondo.
Metodologia: Latinobarómetro ha condotto 20.204 interviste in 18 paesi tra il 26 ottobre 2020 e il 26 aprile 2021. Il margine di errore è del 3% per i dati specifici per paese e dell'1% per i dati a livello regionale.
Da “la Stampa” il 14 Giugno 2022.
Pubblichiamo un estratto della conversazione di Papa Francesco con i 10 direttori delle riviste culturali europee della Compagnia di Gesù, raccolti in udienza presso la Biblioteca privata del Palazzo apostolico. Tra loro, padre Antonio Spadaro, responsabile de La Civiltà Cattolica. Tre direttori erano laici, di cui due donne (per le riviste svizzera e inglese), mentre gli altri erano gesuiti. «Se dialoghiamo - ha esordito il Papa - l'incontro sarà più ricco».
[…] La Compagnia è presente in Ucraina, parte della mia Provincia. Stiamo vivendo una guerra di aggressione. Noi ne scriviamo sulle nostre riviste. Quali sono i suoi consigli per comunicare la situazione che stiamo vivendo? Come possiamo contribuire a un futuro di pace?
«Per rispondere a questa domanda dobbiamo allontanarci dal normale schema di "Cappuccetto rosso": Cappuccetto rosso era buona e il lupo era il cattivo. Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro. Un paio di mesi prima dell'inizio della guerra ho incontrato un capo di Stato, un uomo saggio, che parla poco, davvero molto saggio.
E dopo aver parlato delle cose di cui voleva parlare, mi ha detto che era molto preoccupato per come si stava muovendo la Nato. Gli ho chiesto perché, e mi ha risposto: "Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro". Ha concluso: "La situazione potrebbe portare alla guerra". Questa era la sua opinione. Il 24 febbraio è iniziata la guerra. Quel capo di Stato ha saputo leggere i segni di quel che stava avvenendo».
«Quello che stiamo vedendo è la brutalità e la ferocia con cui questa guerra viene portata avanti dalle truppe, generalmente mercenarie, utilizzate dai russi. E i russi, in realtà, preferiscono mandare avanti ceceni, siriani, mercenari. Ma il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l'intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l'interesse di testare e vendere armi. È molto triste, ma in fondo è proprio questo a essere in gioco».
«Qualcuno può dirmi a questo punto: ma lei è a favore di Putin! No, non lo sono. Sarebbe semplicistico ed errato affermare una cosa del genere. Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli».
«È pure vero che i russi pensavano che tutto sarebbe finito in una settimana. Ma hanno sbagliato i calcoli. Hanno trovato un popolo coraggioso, un popolo che sta lottando per sopravvivere e che ha una storia di lotta». «Devo pure aggiungere che quello che sta succedendo ora in Ucraina noi lo vediamo così perché è più vicino a noi e tocca di più la nostra sensibilità. Ma ci sono altri Paesi lontani - pensiamo ad alcune zone dell'Africa, al nord della Nigeria, al nord del Congo - dove la guerra è ancora in corso e nessuno se ne cura. Pensate al Ruanda di 25 anni fa. Pensiamo al Myanmar e ai Rohingya.
Il mondo è in guerra. Qualche anno fa mi è venuto in mente di dire che stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi e a bocconi. Ecco, per me oggi la terza guerra mondiale è stata dichiarata. E questo è un aspetto che dovrebbe farci riflettere. Che cosa sta succedendo all'umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali? Io vivo la prima guerra nel ricordo di mio nonno sul Piave. E poi la seconda e ora la terza. E questo è un male per l'umanità, una calamità. Bisogna pensare che in un secolo si sono susseguite tre guerre mondiali, con tutto il commercio di armi che c'è dietro!»
«Pochi anni fa c'è stata la commemorazione del 60° anniversario dello sbarco in Normandia. E molti capi di Stato e di governo hanno festeggiato la vittoria. Nessuno si è ricordato delle decine di migliaia di giovani che sono morti sulla spiaggia in quella occasione. Quando sono andato a Redipuglia nel 2014 per il centenario della guerra mondiale - vi faccio una confidenza personale -, ho pianto quando ho visto l'età dei soldati caduti. Quando, qualche anno dopo, il 2 novembre - ogni 2 novembre visito un cimitero - sono andato ad Anzio, anche lì ho pianto quando ho visto l'età di questi soldati caduti. L'anno scorso sono andato al cimitero francese, e le tombe dei ragazzi - cristiani o islamici, perché i francesi mandavano a combattere anche quelli del Nord Africa -, erano anche di giovani di 20, 22, 24 anni».
[…] «Vorrei aggiungere un altro elemento. Ho avuto una conversazione di 40 minuti con il patriarca Kirill. Nella prima parte mi ha letto una dichiarazione in cui dava i motivi per giustificare la guerra. Quando ha finito, sono intervenuto e gli ho detto: «Fratello, noi non siamo chierici di Stato, siamo pastori del popolo». Avrei dovuto incontrarlo il 14 giugno a Gerusalemme, per parlare delle nostre cose. Ma con la guerra, di comune accordo, abbiamo deciso di rimandare l'incontro a una data successiva, in modo che il nostro dialogo non venisse frainteso. Spero di incontrarlo in occasione di un'assemblea generale in Kazakistan, a settembre. Spero di poterlo salutare e parlare un po' con lui in quanto pastore».
In Germania abbiamo un cammino sinodale che alcuni pensano sia eretico, ma in realtà è molto vicino alla vita reale. Molti lasciano la Chiesa perché non hanno più fiducia in essa. Un caso particolare è quello della diocesi di Colonia. Lei che cosa ne pensa?
«Al presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Bätzing, ho detto: "In Germania c'è una Chiesa evangelica molto buona. Non ce ne vogliono due". Il problema sorge quando la via sinodale nasce dalle élite intellettuali, teologiche, e viene molto influenzata dalle pressioni esterne. Ci sono alcune diocesi dove si sta facendo la via sinodale con i fedeli, con il popolo, lentamente». (...) «Poi la questione della diocesi di Colonia. Quando la situazione era molto turbolenta, ho chiesto all'arcivescovo di andare via per sei mesi, in modo che le cose si calmassero e io potessi vedere con chiarezza. Perché quando le acque sono agitate, non si può vedere bene. Quando è tornato, gli ho chiesto di scrivere una lettera di dimissioni. Lui lo ha fatto e me l'ha data. E ha scritto una lettera di scuse alla diocesi. Io l'ho lasciato al suo posto per vedere cosa sarebbe successo, ma ho le sue dimissioni in mano».
(...) Santo Padre, noi siamo una rivista digitale e parliamo anche a giovani che stanno ai margini della Chiesa. I giovani vogliono opinioni e informazioni veloci e immediate. Come possiamo introdurli al processo del discernimento?
«Non bisogna stare fermi. Quando si lavora con i giovani, bisogna sempre dare una prospettiva in movimento, non in modo statico. Dobbiamo chiedere al Signore di avere la grazia e la saggezza di aiutarci a compiere i passi giusti. Ai miei tempi il lavoro con i giovani era costituito da incontri di studio. Ora non funziona più così. Dobbiamo farli andare avanti con ideali concreti, opere, percorsi. I giovani trovano la loro ragione d'essere lungo la strada, mai in modo statico. Qualcuno può essere titubante perché vede i giovani senza fede, dice che non sono in grazia di Dio. Ma lasciate che se ne occupi Dio! Il vostro compito sia quello di metterli in cammino. Penso che sia la cosa migliore che possiamo fare».
La guerra delle Chiese: l’ortodossia divisa tra Russia e Ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 9 marzo 2022.
La guerra tra Russia e Ucraina è uno scontro fratricida, una vera e propria guerra civile tra due popoli fratelli che, oltre a colpire una terra cruciale per la geopolitica europea, ferisce anche il cuore identitario dell’Est europeo: il cristianesimo ortodosso. Da tempo coinvolto nella geopolitica dell’Europa orientale: come le rotte del gas, che vedevano Russia e Paesi dell’Est europeo intenti in una partita a scacchi per le forniture con al centro l’Ucraina, anche le vie della fede sono state al centro del mirino in questi lunghi otto anni culminati nell’invasione russa del 24 febbraio scorso.
In questi anni è andata in scena una crescente balcanizzazione del mondo ortodosso che ha indebolito la posizione della Russia, forse per sempre, quale Stella Polare delle Chiese orientali.
I rapporti fra i patriarcati di Mosca e di Costantinopoli, i maggiori dell’ortodossia, si sono fatti sostanzialmente bellicosi dopo lo scisma di Kiev, la cui Chiesa ortodossa ha proclamato l’autocefalia tra il 2018 e il 2019. Un atto visto come provocatorio dal patriarca di Mosca Kiril e da Vladimir Putin, legittimato dall’importante patriarcato di Alessandria e dalla chiesa ortodossa di Grecia. L’ex presidente ucraino Petro Poroshenko ha lavorato per dare legittimità politica all’atto che ha fatto segnare un punto forse di non ritorno nel decoupling dell’Ucraina dalla Russia e dunque nell’allontanamento tra i due Paesi. Kiev parla di libertà religiosa e di giurisdizione autonoma, Mosca di un conflitto alimentato ad arte tra Oriente e Occidente.
Nella guerra di oggi riemergono anche queste ferite. Colpi inferti a una tradizione di convivenza e a un legame sistemico, umano, culturale che anche nella Chiesa occidentale è stato visto come cruciale per l’ecumenismo. Papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno a lungo proposto la visione delle due Chiese, quella romana e quella orientale, come i due polmoni dell’Europa. Associando Cirillo e Metodio a Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi, la liturgia antica di matrice bizantina della Seconda Roma (Costantinopoli) divenuta Terza (Mosca) alla Prima, alla Città Eterna, in nome dell’ecumenismo. Papa Francesco ha visitato l’Ucraina e incontrato Kiril all’aeroporto di L’Avana, nel 2015, pensando di vedere in lui il rappresentante unificato del mondo ortodosso. La guerra di religione andata in scena dopo i fatti del 2014, la secessione del Donbass, la proclamazione dell’autocefalia ucraina e rinfocolata dall’attuale conflitto può mandare in frantumi questo lungo processo di incontro.
Le minacce velate di bombardamento russo alla cattedrale di Santa Sofia a Kiev, in quest’ottica, appaiono leggibili nell’ottica di una guerra che è anche conflitto identitario: Vladimir Putin, presidente cesaro-papista di cui Kiril è fedele alleato, “cappellano del Cremlino”, si presenta come vendicatore dell’ortodossia moscovita e il timore ucraino è che possa arrivare alle estreme conseguenze. Non accadrà: il danno è già fatto, il fiume secolare della storia che connette Russia e Ucraina ha preso la funzione di linea di divisione dopo che Mosca e Kiev si sono separate nel cuore della Chiesa ortodossa.
L’Ucraina ha conosciuto la divisione tra la Chiesa favorevole a Mosca, guidata dal patriarca Filarete, e quella scismatica guidata da Epifanio, primate d’Ucraina e metropolita di Kiev a cui i filaretiani hanno contrapposto un altro noto prelato, Onufriy. Divise su tutto, durante l’attacco russo le due anime della Chiesa ucraina si sono ricompattate.
Il metropolita Onufriy di Kiev ha parlato di “guerra fratricida” in occasione dell’invasione russa dell’Ucraina. Difendendo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina – ha dichiarato apertamente nel discorso del 24 febbraio – ci appelliamo anche al presidente della Russia affinché fermi immediatamente la guerra fratricida. I popoli ucraino e russo sono usciti dal fonte battesimale del Dnepr e la guerra tra questi popoli è una ripetizione del peccato di Caino, che uccise con invidia il proprio fratello. Una simile guerra non ha giustificazione né presso Dio né presso l’uomo”. Molto diverso l’atteggiamento di Kiril, il quale ha sì espresso una dura condanna, rivolta però al governo ucraino. In un’omelia tenuta mente presiedeva la Divina Liturgia nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca nella giornata del 7 marzo Kiril, riprendendo il discorso di Putin del 21 febbraio scorso, ha rimarcato le “sofferenze” provate dal popolo del Donbass a causa del governo di Kiev. In seguito il patriarca di Mosca ha indicato nel rifiuto dei valori cristiani da parte dell’esecutivo ucraino, comprendente tra le altre cose l’organizzazione dei gay pride, uno dei motivi per ritenere giustificata l’aggressione.
Ducentotrentasei chierici ortodossi russi, ha ricordato Francesco Boezi su IlGiornale.it, hanno mostrato dissenso verso le prese di posizione di Kiril. Ma il danno ormai è fatto: la rottura tra le due ortodossie è diventata bellica dopo esser partita come scisma. E questo, per Vladimir Putin e Kiril, è forse un passaggio decisivo: la dichiarazione di autocefalia del patriarcato del Kiev è stata una vera e propria riaffermazione dell’indipendenza ucraina dopo la secessione dall’Urss trent’anni fa; il peso della storia della cristianità ortodossa e dell’identità nazionale russa che fa riferimento a Vladimir I principe di Kiev arriva fino ad oggi mentre l’Ucraina vuole dissociarsi e separare una volta per tutte la sua strada. Di “guerra di religione” parla esplicitamente Andrea Molle, docente di Scienze Politiche alla Chapman University di Orange, California, ricercatore presso START InSight. Molle, contattato da InsideOver, ci spiega che a suo avviso in Occidente “abbiamo la certezza che Putin abbia invaso l’Ucraina per ragioni geopolitiche, strategiche o economiche” e ci dimentichiamo della religione, “fattore fondamentale della politica”. “La Chiesa ortodossa d’Ucraina non ha mai riconosciuto la pretesa di primato di Mosca”, nota Molle, e questo “è un problema serio per Putin, nella cui teologia ortodossa” la capitale ucraina, capitale del primo Stato russo della storia, “è religiosamente seconda solo a Gerusalemme”. Per il presidente, “la cui fortuna politica si deve anche alla sua capacità di fare leva sul sentimento religioso del popolo”, schierarsi contro Kiev “è necessario per legittimare le proprie aspirazioni politiche e religiose”.
Si tratta di una chiave di lettura interessante che mostra i nervi scoperti della storia, il peso sistemico di un’eredità plurisecolare convergente, oggigiorno, nella guerra più calda d’Europa dal 1945. In cui la battaglia per le città ucraine diventa battaglia per il cuore e le menti della storia, con alle spalle l’eredità comune di un passato che si è, improvvisamente, spezzato. E il rischio grande, quando di guerre di religione si parla, è che lo scontro diventi imprevedibile e irriducibile. Specie se, dal lato russo, il patriarcato diventa zelante sostenitore di nuove crociate piuttosto che pontiere per la pace.
Il dialogo tra il patriarca e il papa è già un ricordo. MARCO GRIECO su Il Domani il 09 marzo 2022
Era il 2017 quando papa Francesco riconobbe per la prima volta il sanguinoso conflitto in Ucraina, ricevendo il plauso della chiesa greco-cattolica del paese. Oggi, invece, la Santa sede sceglie la prudenza diplomatica.
I tentativi di negoziato promossi dalla Santa sede per ora si sono risolti in una telefonata del cardinale Pietro Parolin al ministro degli Esteri russo: apertura di corridoi umanitari e stop ai combattimenti è l’appello.
Gli accorati appelli del mondo cattolico a un intervento di papa Francesco stanno sfumando. Per il momento la linea della chiesa cattolica è la cosiddetta «diplomazia umanitaria». Ma basterà?
MARCO GRIECO. Giornalista freelance, ha scritto per l'Osservatore Romano e per il quotidiano digitale In Terris.
Serena Sartini per “il Giornale” il 9 marzo 2022.
Papa Francesco aveva capito già da qualche giorno che l'asse con il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie sarebbe sfumato. Ancora prima della sua omelia di domenica in cui ha appoggiato la guerra di Putin definendola una guerra alle lobby gay. E così, deciso nella sua missione di tentare tutte le carte per riportare la pace in terra ucraina, Francesco - lontano anni luce dal pensiero di Kirill - ha inviato due cardinali per mandare il suo sostegno spirituale, materiale e diplomatico.
Tra i due porporati, il suo elemosiniere, il cardinale Konrad Krajewski, che è giunto proprio a Leopoli dopo essere arrivato al confine dalla Polonia. Si è mossa anche la diplomazia vaticana ad alti livelli: il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato ha avuto un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov.
Parolin ha ribadito la necessità di porre fine ai combattimenti in Ucraina e manifestato la disponibilità della Santa Sede per qualsiasi tipo di mediazione. La tragedia della guerra si intreccia tra politica e religione, in una terra dove anche le differenti anime ortodosse non sono allineate.
Non pochi esponenti di spicco delle diverse Chiese si sono rivolti direttamente a Kirill affinché chiedesse a Putin di porre fine alla guerra. E alla fine il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie è rimasto fedele al legame con il presidente russo e ha appoggiato la guerra, dopo giorni di silenzio. In una posizione distante è senza dubbio un altro leader ortodosso, a capo della Chiesa autocefala dell'Ucraina, non sottoposta quindi al Patriarcato moscovita ma riconosciuta da quello di Costantinopoli.
Il metropolita di Kiev, Epiphaniy, ha rivelato che dal giorno in cui sono iniziati gli attacchi, i russi hanno cercato di ucciderlo tre volte. Tre agenti russi hanno tentato di entrare nella cattedrale dell'Arcangelo Michele con la Cupola d'oro. «Sono stato informato da agenzie straniere - ha rivelato - che sono l'obiettivo numero 5 nella lista dei russi delle persone da uccidere».
Mentre l'arcivescovo di Kiev, Shevchuck, è arrivato addirittura ad invocare la no-fly zone. A criticare Kirill sono stati non solo i fedeli ucraini legati al Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, ma anche i membri della Chiesa ortodossa fedele a Mosca.
Il Santo Sinodo ha chiesto che non si versi «altro sangue fratricida» e il metropolita locale, Onufryi, ha fatto appello a Putin per «porre fine alla guerra sul suolo ucraino».
A criticare il sermone di Kirill anche 230 religiosi. La base della chiesa ortodossa che risponde al patriarcato di Mosca ha espresso dubbi e perplessità sulla linea filogovernativa che vede i suoi vertici aderire alla linea del Cremlino. A questo è seguita una raccolta firme di diverse centinaia di persone, appartenenti non solo al mondo religioso ma anche a quello accademico e intellettuale, contro l'omelia di Kirill.
Giuliano Foschini per repubblica.it il 9 marzo 2022.
Sono passati sei anni, era il febbraio del 2016, e nel mezzo non ci sono soltanto parole. Ma un altro mondo. «Deploriamo lo scontro in Ucraina», «costruite la pace» diceva, abbracciato a Papa Francesco, in un incontro storico avvenuto nell’aeroporto di Cuba, il patriarca ortodosso Kirill.
Lo stesso che 48 ore fa, nel corso del suo sermone nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, ha tuonato con espressioni incredibili sul conflitto in Ucraina. Parlando del presente, ma anche del passato: «Per otto anni ci sono stati tentativi di distruggere ciò che esiste nel Donbass» ha detto. «Oggi esiste un test per la lealtà a questo governo, una specie di passaggio a quel mondo ‘felice’, il mondo del consumo eccessivo, il mondo della “libertà” visibile: sapete cos’è questo test? È molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay».
Le parole hanno fatto presto il giro del mondo, sconvolgendolo. Hanno colpito i fedeli. Travolto chi, ancora in questi giorni, pensava che un pezzo di pace potesse essere ancora costruito sull’asse della Chiesa: in questo 2022, tra giugno e luglio, era in programma un altro storico incontro, tra Kirill e Papa Francesco. Forse a Mosca. Forse a Bari, il luogo per eccellenza dell’unione delle due Chiese, perché casa di San Nicola: il simbolo è la statua donata nel 2003 alla città proprio da Putin, come ricorda la targa appesa davanti alla Basilica.
Si era pensato nei primi giorni del conflitto che una possibilità potesse essere accelerare i tempi dell’incontro, come se la fede potesse farsi buon senso. Il Papa, non a caso, ha incontrato il 18 febbraio l’ambasciatore russo, con la crisi in Ucraina già esplosa, senza però usare toni duri, proprio per lasciare una porta aperta alla conciliazione. Poi è arrivato il sermone di Kirill che sembra aver chiuso definitivamente le porte.
Eppure gli addetti ai lavori non si sono mostrati affatto stupiti rispetto a quanto accaduto. Era chiaro a tutti che un pezzo di questa guerra fosse anche religiosa: nel 2018 c’è stato uno scisma tra la Chiesa di Kiev e quella di Mosca. E in questo conflitto la Russia vuole conquistare territori ma anche i 30 milioni di fedeli ucraini.
Ancora: secondo diversi report di intelligence dell’ultimo anno, Kirill, da sempre appiattito sule posizioni di Putin, aveva visto incrinarsi i suoi rapporti con il Cremlino, Non a caso c’era chi aveva fatto notare come, recentemente, Kirill fosse - protetto anche dalla questione Covid - quasi scomparso dai radar ufficiali: niente photo opportunity con Putin, poche immagini e molti, lunghi, comunicati ufficiali. Per recuperare, doveva entrare con un discorso violento come quello consegnato ai fedeli. Confermando la sua fedeltà al Governo.
Anche perché negli ultimi mesi era apparso spesso accanto a Putin un altro religioso ortodosso di peso, il metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche. Che a febbraio, dalle mani del presidente, aveva ricevuto una delle massime onorificenze: l’Ordine di Aleksandr Nevskij. Proprio in quell’occasione Hilarion fece un riferimento esplicito all’Ucraina che, letto oggi dalla nostra intelligence, sembra non essere stato affatto casuale: «Ci occupiamo - disse - non solo di affari esteri, ma anche di relazioni interreligiose nella nostra Patria. E negli ultimi anni ci sentiamo sempre di più una sorta di dipartimento di Difesa, perché dobbiamo difendere le sacre frontiere della nostra Chiesa». Erano i primi giorni di febbraio e la guerra era già cominciata.
Il Papa e quattro Chiese: la difficile strada di Bergoglio. Francesco Boezi il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il dialogo avviato con il patriarca Kirill, le complesse logiche confessionali ucraine e le differenze di atteggiamento verso Vladimir Putin. Il ruolo di "mediatore" di papa Francesco è tutto fuorché semplice.
La funzione che il Vaticano sta cercando di ricoprire per la pacificazione del conflitto scatenato da Vladimir Putin in Ucraina non è semplice. Il Papa, rompendo gli indugi, si è recato presso l'ambasciata russa nella Santa Sede: il gesto è suonato più o meno come unA candidatura a "mediatore". Ed è possibile che il vertice della Chiesa cattolica, seppur sotto traccia e senza investitura ufficiale, stia lavorando in queste fasi per il cessate il fuoco.
La situazione religiosa e confessionale vigente in Ucraina, però, è complessa. E i rapporti che il Santo Padre ed il Vaticano devono tenere in forte considerazione, anche rispetto all'attività diplomatica, si diramano in una serie di logiche diversificate. Dinamiche che risultano tuttavia essenziali per comprendere il contesto in cui avviene il conflitto. Alcuni elementi per nulla di contorno interessano i rapporti che le varie istituzioni ecclesiastiche presenti in Ucraina hanno con la Chiesa ortodossa russa, che è stata un'interlocutrice (lo è ancora) della stessa Santa Sede.
Jorge Mario Bergoglio, in questi nove anni di pontificato, non ha mai nascosto il sogno di un "cristianesimo universale". E a questo fine si è riconciliato, primo nella storia recente, con il patriarca di Mosca Kirill (o Cirillo I). L'ex arcivescovo di Buenos Aires e l'arcivescovo ortodosso di Mosca hanno avuto modo d'incontrarsi e di abbracciarsi a L'Avana, nel febbraio del 2016, dopo quattro anni passati ad edificare canali di dialogo.
Non è stato un passaggio scontato ma Francesco non ha mai celato il desiderio di una visita apostolica in Russia. In questi giorni così complessi, poi, si è spesso ricordato di quanto e di quando il Papa avesse dialogato volentieri anche con lo stesso Vladimir Putin, che per gli ortodossi russi, vista anche la prossimità con il patriarcato moscovita, può essere considerato qualcosa in più di un semplice capo di Stato. Comunque sia, chi, come Bergoglio, persegue il disegno del dialogo interreligioso a tutti i costi non poteva e non può dribblare la dialettica tra il cattolicesimo e gli ortodossi.
Una premessa utile - quella su Bergoglio, Kirill e la Russia - ad introdurre un altro fattore caratterizzante di questa vicenda: il forte legame che c'è tra una parte della Chiesa ortodossa ucraina ed il patriarca Kirill. Ma l'Ucraina, sotto il profilo religioso, presenta ulteriori particolarità: esiste un patriarcato ortodosso di Kiev, che è slegato da quello di Mosca, ed anche una Chiesa autocefala, che si dichiara sì ortodossa ma che si professa indipendente tanto rispetto al patriarcato di Kiev quanto rispetto a quello della capitale russa. E in questo ginepraio di differenze il Vaticano sta cercando di muoversi per accelerare un processo di pace.
Come se non bastasse in termini di complessità, vale la pena specificare come soltanto la metà degli ucraini siano ortodossi: una buona parte di popolazione appartiene alla Chiesa greco-cattolica che è assoggettata, per così dire, a Roma ma che presenta a sua volta alcune peculiarità, con tendenze culturali ed organizzative da Chiesa nazionale. Un altro attore in campo cui Jorge Mario Bergoglio ed il segretario di Stato Pietro Parolin devono guardare. Anzi, se possibile, la Chiesa greco-cattolico ucraina è quella cui il Vaticano deve badare con più attenzione, essendo la più vicina sotto il profilo istituzionale e confessionale.
Mentre il cardinale Pietro Parolin dimostra vicinanza ai cattolici ucraini, agli ortodossi ucraini e non solo, Kirill ha deciso in un certo senso di alzare il tiro: come ripercorso da Il Messaggero, Cirillo I ha sottolineato come papa Francesco non abbia stigmatizzato l'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin. D'altro canto, come si apprende dall'Adnkronos, i vescovi cattolici polacchi ma anche gli ortodossi ucraini (molti di quelli legati a Kiev ma anche più di qualche realtà che, prima della guerra, sarebbe stata associata al patriarcato di Mosca con una certa facilità) stanno domandando a gran voce al patriarca di Mosca di condannare la guerra senza tentennamenti. La tensione, insomma, per quanto resti unicamente sul piano teoretico, corre anche sul filo del dialogo interreligioso.
Ducentotrentasei chierici ortodossi russi, stando all'Ansa, hanno voluto esprimere dissenso rispetto all'atteggiamento sulla guerra del patriarcato di Mosca. In ogni caso, numerosi commentatori, proprio per via della capacità che il Santo Padre ha avuto nel costruire e mantenere rapporti con entrambe le realtà in conflitto, ritengono che il Papa possa essere il miglior mediatore possibile tra le parti.
Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 5 marzo 2022.
Mercoledì il patriarca di Mosca Kirill, il capo della Chiesa ortodossa russa, ha avuto due colloqui importanti. Presso la residenza del monastero Danilov ha incontrato il nunzio apostolico presso la Federazione Russa, monsignor Giovanni D'Aniello, e poi l'ambasciatore della Cina, Zhang Hanhui. Russia, Vaticano e Pechino, è il triangolo inatteso che potrebbe aprire la via diplomatica per la questione della crisi Ucraina, per cui papa Francesco ha già speso parole nette di pace, senza però mai stigmatizzare frontalmente l'atto militare di Putin.
La via stretta di Francesco per cercare di tenere aperto un canale con il patriarcato di Mosca, è stato in qualche modo attestato dal comunicato diffuso dallo stesso patriarcato. Kirill ha espresso apprezzamento per «la posizione moderata e saggia della Santa Sede su molte questioni internazionali». E ha aggiunto: «È molto importante che le Chiese cristiane, comprese le nostre Chiese, non diventino, volontariamente o involontariamente, a volte senza alcuna volontà, partecipanti a quelle tendenze complesse, contraddittorie e in lotta tra loro che sono oggi presenti nell'agenda mondiale».
È chiaro che dentro queste parole del patriarca ci sono le questioni che dal punto di vista russo fanno in qualche modo da movente per l'azione militare messa in campo da Putin. Ma nella dichiarazione del patriarcato che ha seguito l'incontro con il nunzio D'Aniello si legge anche: «stiamo cercando di assumere una posizione di mantenimento della pace, anche di fronte ai conflitti esistenti. Perché la Chiesa non può partecipare al conflitto, può solo essere una forza pacificatrice».
È questa la forza su cui la Santa Sede sta cercano di far leva, per tentare di portare Kirill a far pressione su Putin per fermare le armi. Non è un segreto se questa azione militare russa ha anche un retroterra religioso, come scriveva già Samuel Huntington nel suo celebre Lo scontro delle civiltà, «le repubbliche ortodosse dell'ex Unione sovietica sono di importanza fondamentale per lo sviluppo di un blocco russo coeso nell'arena euroasiatica e mondiale».
Proprio Kirill domenica scorsa ha detto che «il Signore protegga dalla guerra fratricida i popoli che fanno parte dello stesso spazio, quello della Chiesa ortodossa russa. Non diamo a potenze esterne oscure e ostili l'opportunità di prenderci in giro». La via religiosa alla diplomazia cerca quindi di portare il patriarca a sfoderare la sua «forza pacificatrice», mettendo di lato gli interessi storico-culturali e quell'odore di cesaropapismo che a volte capita di sentire nel mondo ortodosso.
Ma l'epicentro dello scontro nel mondo delle chiese ortodosse è tra Mosca e Costantinopoli, dopo che il patriarca ecumenico Bartolomeo I nel 2019 ha concesso l'autocefalia, una sorta di indipendenza, alla Chiesa ortodossa di Kiev. L'autocefalia è stata considerata da Mosca come un affronto eterodiretto del mondo occidentale dentro le cose sacre e sante della terra russa, e non a caso proprio ieri il patriarca ecumenico Bartolomeo ha dichiarato di essere «diventato un bersaglio».
Il passo diplomatico di Francesco, l'unico sul campo che potrebbe avere uno sguardo davvero terzo, sembra rifarsi ai vincoli spirituali tra i popoli russo e ucraino. E nello stesso tempo sembra sufficientemente in grado di tenere aperta una porta per una soluzione politica al conflitto che non segua uno schema manicheo, ma capace di offrire una prospettiva nuova per la convivenza tra i popoli in quelle terre.
Qui potrebbe rivelarsi interessante anche il ruolo giocato dalla Cina, che ieri appunto ha incontrato Kirill con il suo ambasciatore in Russia. Pechino non ha troppe distanze da Mosca sul giudizio verso l'attuale ordine mondiale, ma dal punto di vista economico ha tutto l'interesse a ritagliarsi un ruolo di mediazione.
Mosca, Vaticano e Cina, lo strano triangolo sembra capace di aprire una via diplomatica per la soluzione del conflitto ucraino. In un suo tweet di ieri pomeriggio papa Francesco ha detto che sono «le armi spirituali» che possono cambiare la storia. Ma accanto a queste ci sono anche gli uomini del Papa, sparsi nelle nunziature in giro per il mondo. Giulio Andreotti nel 2002 rivolgendosi ai diplomatici della Santa Sede, disse che «il Papa ha i suoi uomini presenti quasi ovunque. L'auspicio - e la nostra preghiera a Dio - è che nell'interesse non solo della Chiesa questo quasi possa al più presto scomparire».
Franca Giansoldati per ilmattino.it l'1 marzo 2022.
Rosari, preghiere nei rifugi anti-bombe ma anche esorcismi. C'è, infatti, chi all'interno della Chiesa ucraina (greco cattolica) è convinto che Vladimir Putin sia posseduto dal demonio e che, di conseguenza, necessiti di riti per la liberazione dal Male.
Un prete di Leopoli, nativo del Donetsk – in passato catturato dai separatisti nel 2014 – su Facebook ha raccontato di avere avviato un rituale di esorcismo per liberare Putin dalle spire di Satana. Padre Tykhon Kulbaka, il 25 febbraio, ha spiegato poi al Religious Information Service ucraino (che ha sede all'Università Cattolica di Leopoli) in cosa consiste questa pratica. Per farla breve, ogni giorno, il religioso recita assieme ad altri religiosi, in una sorta di rete, i riti previsti, invocando San Michele Arcangelo e avviando un esorcismo a distanza. «Ritengo che uno spirito maligno si sia impossessato delle azioni di quest'uomo».
«Chiedo a Dio misericordioso di intervenire per sottrarre questa persona dall'influenza demoniaca e farle rinunciare al male e distruggere tale demonio corporalmente in modo che l'anima possa essere salvata». Padre Kubalka ha poi lanciato un sos a tutti i preti della zona affinché si uniscano a lui in questa impresa, incoraggiando al contempo anche i laici a pregare per questa intenzione. «La forza della preghiera è più potente».
Padre Kulbaka nel 2014 ha trascorso 12 giorni prigioniero delle forze filorusse quando hanno occupato le regioni di Donetsk e Luhansk. Quando i militari hanno saputo che era diabetico, gli hanno dato da mangiare pane bianco e pochissima acqua e gli hanno pure tolto le medicine dicendogli che era un nemico e doveva morire lentamente.
Papa Francesco è straziato per l'Ucraina: tacciano le armi, Dio sta con la pace. Il digiuno del mercoledì delle ceneri. Il Tempo il 27 febbraio 2022.
Con «il cuore straziato» Papa Francesco ha lanciato un appello ad aprire urgentemente i corridoi umanitari per chi fugge dall’Ucraina. «Penso agli anziani, a quanti in queste ore cercano rifugio, alle mamme in fuga con i loro bambini... Sono fratelli e sorelle per i quali è urgente aprire corridoi umanitari e che vanno accolti», ha detto dopo l’Angelus in piazza San Pietro a Roma, dove erano presenti anche fedeli ucraini con le loro bandiere. «In questi giorni siamo stati sconvolti da qualcosa di tragico: la guerra. Più volte abbiamo pregato perché non venisse imboccata questa strada. E non smettiamo di pregare, anzi, supplichiamo Dio più intensamente», ha continuato il Pontefice che ha rinnovato l’invito a fare del 2 marzo, Mercoledì delle ceneri, una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Ucraina.
«Una giornata - ha precisato il Pontefice - per stare vicino alle sofferenze del popolo ucraino, per sentirci tutti fratelli e implorare da Dio la fine della guerra». «Chi fa la guerra dimentica l’umanità. Non parte dalla gente, non guarda alla vita concreta delle persone, ma mette davanti a tutto interessi di parte e di potere», ha aggiunto Francesco. «Si affida alla logica diabolica e perversa delle armi, che è la più lontana dalla volontà di Dio. E si distanzia dalla gente comune, che vuole la pace; e che in ogni conflitto è la vera vittima, che paga sulla propria pelle le follie della guerra». Ma il Papa non dimentica gli altri conflitti sparsi nel mondo: Yemen, Siria, Etiopia. E ribadisce: «Tacciano le armi! Dio sta con gli operatori di pace, non con chi usa la violenza». E ha citato infine l’articolo 11 della Costituzione italiana, «chi ama la pace» «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Ucraina, Papa Francesco sente al telefono Zelensky: “Profondo dolore per i tragici eventi”. Valentina Mericio il 26/02/2022 su Notizie.it.
Papa Bergoglio, in una telefonata con il presidente ucraino Zelensky ha espresso il suo dolore per gli eventi che hanno scosso l'Ucraina.
Alla luce dei drammatici eventi che hanno sconvolto l’Ucraina, Papa Francesco ha sentito al telefono il presidente Volodymyr Zelenskyi. A confermarlo il direttore della Sala Stampa del Vaticano Matteo Bruni. Il Santo Padre, nel corso del colloquio, ha pregato affinché a Kiev possa tornare nuovamente la pace.
Immediata la risposta del capo di Stato Ucraino che ha ringraziato con un tweet.
Ucraina, Papa Francesco sente al telefono Zelensky: cosa si sono detti
“Oggi Papa Francesco ha avuto un colloquio telefonico con il Presidente Volodymyr Zelenskyi.
Il Santo Padre ha espresso il suo più profondo dolore per i tragici eventi che stanno avvenendo nel nostro Paese”.
Sono queste le poche, ma incisive parole dell’ambasciata ucraina presso la Santa Sede attraverso un post su Twitter.
A seguito di ciò, il presidente ucraino ha colto l’occasione per esprimergli tutta la sua gratitudine soprattutto per la preghiera di pace che il Papa ha dedicato: “Ho ringraziato Papa Francesco per aver pregato per la pace in Ucraina e per una tregua.
Il popolo ucraino sente il sostegno spirituale di Sua Santità”.
Papa Francesco: “La Regina della pace preservi il mondo dalla follia della guerra”
Nel frattempo Papa Francesco nella giornata di sabato 26 febbraio ha scritto un post su Twitter nel quale ha condannato fermamente la guerra. Ha poi rinnovato l’invito ai credenti (e non) a digiunare e a pregare il 2 marzo in occasione del mercoledì delle Ceneri: “Gesù ci ha insegnato che all’insensatezza diabolica della violenza si risponde con le armi di Dio, con la preghiera e il digiuno.
La Regina della pace preservi il mondo dalla follia della guerra”, ha scritto il Pontefice”.
Dagotraduzione da Foxnews l'1 marzo 2022.
Un arcivescovo ucraino e portavoce della Chiesa ortodossa ucraina ha condannato il presidente russo Vladimir Putin definendolo «l'anticristo del nostro tempo attuale» mentre la Russia invade l'Ucraina.
Mentre Putin sembra ritrarre sé stesso come una specie di figura messianica, che cerca di riunire le Chiese ortodosse russa e ucraina (che si sono formalmente separate nel 2019), Yevstratiy Zoria lo ha messo dall'altra parte dello spettro cristiano.
«Putin non è davvero il messia, ma è l'anticristo del nostro tempo attuale», ha detto a Harry Farley, produttore di religione ed etica per la BBC, Yevstratiy Zoria, il portavoce della Chiesa ortodossa ucraina.
«Credi che sia l'anticristo del tuo tempo?» Farley ha insistito in un'intervista trasmessa dal Global News Podcast della BBC. «Sì, è anticristo perché tutto ciò che fa, tutto ciò che fa ora, è totalmente contro il vangelo, contro la legge di Dio», ha risposto il portavoce. La Chiesa ortodossa ucraina a Kiev non ha risposto immediatamente alla richiesta di commenti e chiarimenti di Fox News.
Secondo i sondaggi, una grande maggioranza della popolazione ucraina si identifica come cristiana ortodossa orientale, mentre una significativa minoranza di cattolici ucraini segue una liturgia bizantina simile a quella ortodossa ma è fedele al papa. La popolazione ortodossa ucraina è divisa tra la Chiesa ortodossa ucraina con sede a Kiev (che rappresenta Yevstratiy Zoria) e la Chiesa ortodossa ucraina, che è sotto il patriarca ortodosso di Mosca ma ha un'ampia autonomia.
Putin ha giustificato la sua invasione in parte come una difesa della chiesa ortodossa orientata a Mosca, ma i leader di entrambe le chiese stanno denunciando l'invasione, così come la minoranza cattolica del Paese.
«Con la preghiera sulle labbra, con l'amore per Dio, per l'Ucraina, per il nostro prossimo, combattiamo contro il male e vedremo la vittoria», ha detto all'Associated Press il metropolita Epifany, capo della Chiesa ortodossa ucraina con sede a Kiev.
«Dimentica i reciproci litigi e incomprensioni e... unisciti all'amore per Dio e per la nostra Patria», ha affermato il metropolita Onufry, capo della Chiesa ortodossa ucraina collegata a Mosca.
Antonio Palma per fanpage.it il 4 settembre 2022.
Papa Luciani è stato proclamato beato e la sua festa ricorrerà ogni 26 agosto, giorno della sua elezione a Pontefice nel 1978 quando assunse il nome di Giovanni Paolo I. L'atteso evento è avvenuto oggi, domenica 4 settembre, quando papa Francesco ha pronunciato la formula di beatificazione del suo predecessore davanti a una folla di fedeli accorsi per l'occasione in piazza San Pietro, in Vaticano.
La beatificazione di Giovanni Paolo I è stata accolta da un lungo applauso che i è levato tra i fedeli mentre veniva svelato sulla facciata di San Pietro l'arazzo col ritratto di papa Luciani realizzato su dipinto dell'artista iperrealista cinese Yan Zhang.
Grande giubilo anche a Canale d'Agordo, in provincia di Belluno, paese natale di papa Luciani, dove per l'occasione è stato allestito un maxischermo allestito nella piazza centrale del paese, intitolata proprio a papa Luciani, per permettere a tutti i compaesani di seguire la cerimonia di beatificazione.
La proclamazione a beato di Albino Luciani arriva al termine di un lungo iter iniziato nel 2011 quando, di fronte al pericolo di morte imminente di una bambina argentina che allora aveva undici anni, si richiese l'intercessione dell'ex Pontefice per un miracolo. All'epoca vista la situazione, i medici curanti convocarono i familiari della piccola, prospettando la possibilità di "morte imminente" ma inaspettatamente vi fu un rapido miglioramento che proseguì anche nei giorni successivi fino al completo recupero della piccola.
Un vero e proprio miracolo, secondo la chiesa cattolica romana, che è stato attributo appunto all'intercessione di Giovanni Paolo primo, il Pontefice che salì al soglio di Pietro per soli 33 giorni, dal 26 agosto al 28 settembre 1978, quando infine morì nel Palazzo Apostolico per infarto miocardico acuto.
L'iniziativa di invocare Luciani fu del parroco argentino José Dabusti, che gestiva la della parrocchia a cui apparteneva il complesso ospedaliero, dopo che alla piccola fu diagnosticata una "encefalopatia epilettica ad insorgenza acuta, con stato epilettico refrattario ad eziologia sconosciuta".
Come spigano i documenti della Santa Sede, infatti, "L'iniziativa di invocare il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo primo fu presa dal parroco della parrocchia a cui apparteneva il complesso ospedaliero. Egli si recò al capezzale della piccola e propose alla madre di chiedere insieme l'intercessione del Venerabile Servo di Dio, al quale era molto devoto. Alle loro preghiere si unì il personale infermieristico presente in rianimazione. Le invocazioni furono rivolte esclusivamente a Papa Luciani. Le preghiere furono corali, individuali e antecedenti il viraggio favorevole del decorso clinico. È stato ravvisato il nesso causale tra l'invocazione al Venerabile Giovanni Paolo primo e la guarigione della piccola".
Mostrato più che dato. La beatificazione di Giovanni Paolo I, il Papa che visse senza compromessi. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 6 Settembre 2022.
Anche se il suo pontificato durò solo 33 giorni, l’amore e l’affetto nei suoi confronti è cresciuto negli anni. Affabile e sollecito con tutti, fu però soprattutto inflessibile in materia di obbedienza al magistero pontificio, rispetto della gerarchia, disciplina canonica, principi morali
Papa Francesco ha ieri beatificato in piazza San Pietro uno dei suoi predecessori, tra i più amati tanto in vita quanto dopo la morte: Giovanni Paolo I. Affetto, ricordo, venerazione verso di lui sono anzi aumentati nel tempo a dispetto d’un pontificato di soli 33 giorni. Un periodo di così breve durata da far spesso accostare Albino Luciani a Leone XI (1° aprile – 27 aprile 1605), di cui si disse essere stato «ostensus magis quam datus», mostrato più che dato. Eppure, dal 26 agosto al 28 settembre 1978 l’ex patriarca di Venezia, succeduto a Paolo VI, impressionò la pubblica opinione e destò generale simpatia con atti improntati a semplicità ed essenzialità: sostituzione del solenne rito dell’incoronazione con una più sobria Messa per l’inizio del ministero del Sommo Pontefice, la dismissione della tiara, l’abbandono del plurale maiestatis nei discorsi, il tratto catechetico delle udienze del mercoledì, di cui quella del 6 settembre caratterizzata da un improvviso colloquio con un chierichetto maltese e quella del 13 dalla citazione a memoria d’una poesia di Trilussa.
Colpirono inoltre le parole dette all’Angelus del 10 settembre: «Anche noi che siamo qui, abbiamo gli stessi sentimenti; noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore». Nonostante i numerosi passi biblici, in cui Dio è descritto quale madre, tali affermazioni di Giovanni Paolo I apparvero del tutto inusitate. Piacquero ai più, ma dispiacquero ad altri, cui l’intero magistero del nuovo pontefice appariva sciatto e banale.
Luciani aveva in realtà continuato a comportarsi e a trasmettere il messaggio cristiano con le sue caratteristiche doti di catechista, dimostrando e affermando «col proprio esempio – così Wojtyła il 22 gennaio 1979 – che cosa è, e che cosa deve essere la catechesi nella vita della Chiesa dei nostri tempi. Per questo sono stati sufficienti i trentatré giorni del suo pontificato». Ma Papa Francesco ha anche definito ieri quella di Giovanni Paolo I una vita «vissuta nella gioia del Vangelo, senza compromessi, amando fino alla fine. Egli ha incarnato la povertà del discepolo, che non è solo distaccarsi dai beni materiali, ma soprattutto vincere la tentazione di mettere il proprio io al centro e cercare la propria gloria». Non senza il classico riferimento al sorriso, «con cui Papa Luciani è riuscito a trasmettere la bontà del Signore».
Benché sia fondato parlarne nei termini di “Papa del sorriso”, non c’è in pari tempo nulla di più riduttivo di un tale appellativo, che rischia – e non poche volte è accaduto e accade – di banalizzare la figura di Giovanni Paolo I. D’altra parte, Maffeo Ducoli, che fu vescovo di Belluno (diocesi natale del papa) e Feltre, ebbe a dire di lui: «Non era un carattere da sorriso». E gli argomenti potrebbero moltiplicarsi all’infinito.
Pur avendo mostrato, ad esempio, aperture sul tema della contraccezione negli anni dell’episcopato a Vittorio Veneto, Luciani si era poi pienamente allineato alla linea dannatoria, che Paolo VI aveva espresso nell’Humanae vitae. Tanto affabile con chicchessia e sollecito verso la povera gente, quanto inflessibile in materia di obbedienza al magistero pontificio, rispetto della gerarchia, disciplina canonica, principi morali. Fu così che, ad esempio, il 12 settembre 1967 aveva scagliato l’interdetto contro la parrocchia di Montaner per le reazioni dei fedeli al parroco da lui nominato. Mentre osteggiò sempre, lui fieramente avverso al capitalismo, i preti operai, impegnati a suo dire, in una coniugazione del cristianesimo col marxismo del tutto estranea allo spirito conciliare. Da patriarca di Venezia, inoltre, condusse un’accanita battaglia in occasione del referendum del ’74 sul divorzio, arrivando a colpire con pene canoniche i sacerdoti favorevoli a un tale istituto e a sciogliere la sezione veneziana della Fuci, schieratasi per il no all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini.
Ma pari, anzi maggiore fermezza mostrò contro ogni malaffare e gestione opaca dei beni ecclesiastici. Nel 1972, tre anni dopo la nomina a patriarca di Venezia, ebbe un violento scontro in Vaticano con l’allora presidente dello IOR, l’arcivescovo Paul Marcinkus: questi aveva deliberato, senza neppure informare la Conferenza episcopale del Triveneto, la cessione del 37% delle azioni della Banca Cattolica del Veneto al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Contrarissimo a una tale operazione, Luciani protestò con Paolo VI. Ma invano. È più che verisimile pensare che una volta papa, se fosse rimasto più a lungo in vita, avrebbe rimosso Marcinkus dall’incarico, come avrebbe anche proceduto a nomine inappuntabili all’interno della Curia in nome della trasparenza e del rigore morale. La morte però, sulle cui cause sono poi stati versati proverbiali fiumi d’inchiostro, glielo impedì.
Al riguardo sono indubbiamente da rigettare le varie tesi complottistiche alla David Yallopp. Ma è pur vero che sussistono pur sempre gravi riserve sulla recognitio cadaveris, effettuata da Renato Buzzonetti, e sul referto medico da quegli steso, in base al quale il primo comunicato ufficiale diffuso al mattino del 29 settembre parlò di «decesso avvenuto […] per grave infarto miocardico». E questo con buona pace della vicepostulatrice Stefania Falasca, pur autrice di imprescindibili opere storico-documentali su Giovanni Paolo I (fondamentale la sua poderosa Biografia ex documentis), che, durante la conferenza stampa del 2 settembre in Vaticano, ha tuonato con qual certa sicumera contro «la bugia storica» della morte per avvelenamento e i sostenitori d’una tesi liquidata quale «pattumaglia pubblicistica». E l’ha fatto con un’osservazione in sé incontrovertibile: «Quando ci sono le fonti, la storia parla davvero».
Ora, tra quelle mediche puntualmente indicate non possono certamente ritenersi incontrovertibili l’accennato referto, steso dal dottore Buzzonetti e controfirmato dall’archiatra pontificio Mario Fontana, né le varie relazioni mediche d’entrambi, perché esse furono stilate sulla base del solo esame esterno della salma di Giovanni Paolo I. Ma per Falasca tali documenti hanno invece carattere irrefragabile tanto da aver ribadito in conferenza stampa ore rotundo che il papa veneto, stando alla diagnosi di Buzzonetti e Fontana, morì di «morte improvvisa» e che il suo «è stato un infarto». Non senza osservare che la relativa autopsia da più parti invocata, ma ritenuta superflua dai due stessi medici e dunque respinta dal Collegio cardinalizio, sarebbe stata di fatto normata con specifica disposizione solo nel 1983. Ma sotto quest’ultimo punto si potrebbero in realtà addurre a confutazione non pochi precedenti illustri, tenendo in conto che fino a Leone XIII, l’ultimo dei pontefici defunti a essere sottoposto a imbalsamazione, una tale pratica comportava, fra l’altro, l’asportazione del cuore e dei precordi con tanto di relativa certificazione autoptica.
Circa poi l’accennato esame esterno, per quanto accurato potesse essere stato, era però tutt’altro che bastevole alla formulazione d’una diagnosi certa d’infarto miocardico. Lo spiega a Linkiesta la medica legale Monica Fonzo, secondo la quale «nel caso di Papa Luciani si sarebbe potuti pervenire a un tale conclusione solo dopo accurato esame autoptico». Non può poi sfuggire poi a chi legge la più volte citata documentazione come Buzzonetti, nell’inoltrare il 9 ottobre all’allora sostituto della Segreteria di Stato Giuseppe Caprio la richiesta relazione sul referto medico, avesse comunque parlato di «causa presumibile del decesso» e presentato come fortemente deducibile la morte improvvisa per cardiopatia ischemica.
C’è inoltre da dire che lo stesso Giuseppe Caprio, creato poi cardinale da Giovanni Paolo II, ha più volte riservatamente sollevato dubbi col sottoscritto su detta diagnosi. Più tranchant, invece, il gesuita Giandomenico Mucci, scrittore de La Civiltà Cattolica e per oltre 30 anni direttore spirituale presso l’Accademia ecclesiastica, che riteneva Buzzonetti «uomo di scienza tutt’altro che libero da condizionamenti, pronto in determinate circostanze a dire tutto e il contrario di tutto». D’altra parte, il defunto sacerdote della Compagnia non era certo tra gli ammiratori entusiasti di Luciani, di cui talora deplorava nelle conversazioni l’angusta preparazione teologica, rimasta di fatto ancorata all’impostazione manualistica del Tanquerey, e i riferimenti in discorsi e scritti ad autori, che sembrava di conoscere solo superficialmente. Al di là di tutto importa quello che Giovanni Paolo I ha significato nei 33 giorni di pontificato e ancora significa: braccia aperte a tutti come quelle di una madre accogliente e premurosa per ogni suo figlio, pugno di ferro verso adulteratori e sovvertitori dell’evangelica povertà all’interno della Chiesa di Roma.
Papa Luciani è beato. Il sorriso e i 33 giorni del Pontefice degli ultimi. Giovanni Paolo I, scomparso nel '78 a un mese dall'elezione, celebrato da oltre 20mila fedeli. Serena Sartini il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.
L'applauso, in contemporanea a piazza San Pietro e a Canale d'Agordo; le campane a festa suonate nella sua città natale; l'arazzo - per la prima volta nella storia della Chiesa disegnato da un artista cinese - svelato davanti a 25mila fedeli in una piazza San Pietro quasi piena nonostante la pioggia battente. Il Papa pronuncia la formula in latino: Giovanni Paolo I è beato.
Francesco esalta l'umiltà di Albino Luciani, conosciuto come il «Papa del sorriso». E sferza i politici di oggi che, «con destrezza e furbizia», cavalcano «le paure della società in crisi» approfittandone per «accrescere il proprio gradimento e il proprio potere».
«Specialmente nei momenti di crisi personale e sociale - tuona Francesco - quando siamo più esposti a sentimenti di rabbia o siamo impauriti da qualcosa che minaccia il nostro futuro, diventiamo più vulnerabili; e, così, sull'onda dell'emozione, ci affidiamo a chi con destrezza e furbizia sa cavalcare questa situazione, approfittando delle paure della società e promettendoci di essere il salvatore che risolverà i problemi, mentre in realtà vuole accrescere il proprio gradimento e il proprio potere».
Il pontefice mette in guardia anche dalla strumentalizzazione che spesso viene fatta di Dio e della fede. «Dietro una perfetta apparenza religiosa si può nascondere la mera soddisfazione dei propri bisogni, la ricerca del prestigio personale, il desiderio di avere un ruolo, di tenere le cose sotto controllo, la brama di occupare spazi e di ottenere privilegi, l'aspirazione a ricevere riconoscimenti e altro ancora - chiosa il Papa -. Questo succede oggi, tra i cristiani. Si può arrivare a strumentalizzare Dio per tutto questo. Ma non è lo stile di Gesù. E non può essere lo stile del discepolo e della Chiesa. Se qualcuno segue questo per interessi personali, ha sbagliato strada», aggiunge il Papa a braccio, ricordando poi l'umiltà di Luciani. «Ha vissuto nella gioia del Vangelo, senza compromessi, amando fino alla fine», incarnando «la povertà del discepolo, che non è solo distaccarsi dai beni materiali, ma soprattutto vincere la tentazione di mettere il proprio io al centro e cercare la propria gloria». È stato «pastore mite e umile» che ha mostrato un volto sereno della Chiesa.
Giovanni Paolo I diventa beato dopo 22 anni necessari per completare la causa di beatificazione, aperta a Belluno nel novembre del 2003. La sua festa sarà il 26 agosto di ogni anno, giorno in cui divenne Papa nel 1978. Morì il 28 settembre 1978, dopo soli 33 giorni dall'elezione al Soglio di Pietro. Il suo corpo fu ritrovato senza vita nell'appartamento privato. La morte improvvisa sollevò numerosi dubbi, tanto da parlare di avvelenamento. Ma come ha ribadito il segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin - non c'è alcun giallo: «La sua è stata una morte naturale. Dispiace che questo noir continui anche ai giorni nostri».
Per la beatificazione a San Pietro - presente in prima fila il capo dello Stato, Sergio Mattarella - è stato riconosciuto il miracolo di Candela Giarda, una ragazza argentina salvata da un male incurabile nel 2011 a Buenos Aires. La giovane soffriva di una grave encefalopatia infiammatoria acuta. Guarì dopo che il parroco della chiesa suggerì di invocare Giovanni Paolo I. All'epoca Candela aveva 11 anni, oggi ne ha 22. Ironia della sorte, la ragazza - infortunata al piede - non è potuta essere presente ieri in Vaticano. La reliquia di Luciani è un piccolo foglio bianco ingiallito dal tempo, uno schema per una riflessione sulle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Per la prima volta non è un frammento del corpo.
"Sulla sua morte soltanto fantasie. E tanti fedeli lo invocano ancora". Il Cardinale Postulatore della causa di beatificazione ricorda il "suo" Papa: "Non ha mai fatto chiasso ma è nel cuore della gente". Fabio Marchese Ragona il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.
Cardinale Beniamino Stella, lei è il Postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo I. Che ricordo personale ha di Papa Luciani?
«Lo avevo conosciuto in piazza San Pietro quando venne a Roma per essere ordinato vescovo. Era il 27 dicembre del 1958, io all'epoca ero seminarista della sua diocesi. Credo che i colori e gli sfarzi della Basilica non fossero il suo mondo. Ma era un uomo obbediente, quindi la chiamata all'episcopato gli sarà un po' pesata! Ma ha saputo accogliere queste chiamate alla volontà di Dio con una grande disponibilità interiore».
Cos'ha provato quando l'ha visto vestito di bianco?
«Il giorno dell'elezione l'ho visto con gli abiti del Sommo Pontefice e mi son detto: Che il Signore lo sostenga, perché la missione sarà grande, sarà difficile. Ma provavo anche un senso di grande speranza perché ho pensato: se Dio gli dà questa croce, gli darà anche i mezzi, la sapienza del governo».
Tutti parlano di lui come il papa del sorriso...
«Ma era anche uomo di governo! Non era solo un uomo bonario: sapeva orientare, sapeva guidare i suoi preti. La scelta che si fece di lui in conclave era una scelta illuminata, anche se Dio poi ha provveduto alla maniera sua, con quell'amara sorpresa che tutti ricordiamo».
Si riferisce alla morte del Papa, dopo trentatre giorni di Pontificato. Tanti ci hanno speculato...
«Le morti improvvise, soprattutto dei grandi personaggi, accendono sempre la fantasia. La morte di un Papa, dopo trentatre giorni, ha scatenato tutto questo, anche a causa di alcune incongruenze che ci furono, a suo tempo, nell'annuncio della morte. Però io credo che sia stata fatta assoluta chiarezza su questa morte improvvisa e anche dolorosa, perché Luciani era un Pontefice che aveva suscitato immense speranze».
Papa Francesco ha voluto incoraggiare questa causa?
«Il Papa l'ha seguita personalmente in questi ultimi nove anni perché era in contatto diretto con la postulazione. Però ha sempre rispettato le procedure. Sul tema del miracolo è stato anche sempre molto prudente: ci ha detto non abbiamo fretta, facciamo le cose per bene. Ha avuto una particolare attenzione anche perché il miracolo (la guarigione nel 2011 di una bambina, ndr) è situato a Buenos Aires e lui conosce le persone coinvolte perché è accaduto quando lui guidava quell'arcidiocesi argentina. Ma è sempre stato rispettoso!».
In Papa Francesco ritrova un po' di Papa Luciani?
«Direi che forse ci sono delle affinità proprio nella vicinanza al popolo di Dio. Giovanni Paolo I da Patriarca di Venezia è sempre stato un vescovo del popolo, della gente, delle scuole, delle carceri. Sempre vicino all'umana sofferenza e alle disgrazie della gente. Mi sembra che Francesco abbia dimostrato in questo una grande somiglianza a Luciani: è un Pontefice sensibile, ha il senso della compassione e mette la gente a proprio agio con gesti e parole, accompagnando chi soffre».
Adesso che Giovanni Paolo I è beato, lo pregherà?
«Lo prego già da tempo. L'ho pregato molto in questi miei anni, mi ha accompagnato e l'ho sempre sentito vicino in tante ore difficili, soprattutto durante il mio servizio alla Santa Sede. Adesso che il Papa ha riconosciuto anche la santità di Luciani, lo pregheremo ancor di più. Arrivano segnalazioni di grazie, di prodigi. Ne ricevo frequentemente. Lui non ha fatto chiasso ma è nel cuore del popolo di Dio: la gente lo invoca, lo prega per situazioni di malattia, di disagio, di povertà, la stessa che lui ha vissuto quando era bambino».
La confessione di Ratzinger sulla morte di papa Luciani. Oggi sarà beatificato Giovanni Paolo I. Benedetto XVI si è detto convintissimo della sua santità e ha ricordato come apprese la notizia della sua improvvisa scomparsa. Nico Spuntoni il 4 Settembre 2022 su Il Giornale.
Albino Luciani, l'ultimo Papa italiano, viene beatificato dal suo successore venuto "dalla fine del mondo". Non è un paradosso, però, perché nella salita al soglio pontificio di un uomo che prima di allora aveva sempre esercitato il suo magistero pastorale solo in Veneto, fu determinante proprio il Sudamerica. Nel Conclave dell'agosto 1978, il principale sostenitore di Luciani fu il cardinale brasiliano Aloisio Lorscheider che all'epoca ricopriva anche l'incarico di presidente del CELAM. Ma l'America Meridionale è stata decisiva non solo per l'elezione di Giovanni Paolo I, ma anche per la sua beatificazione attesa oggi a piazza San Pietro. Come ha ricordato pochi giorni fa il postulatore della causa, il cardinale Beniamino Stella, uno slancio determinante all'inizio del processo di beatificazione si ebbe nel 1990 quando tutta la Conferenza Episcopale del Brasile fece un appello in tal senso a Giovanni Paolo II. Inoltre, il miracolo decisivo attribuito alla sua intercessione è avvenuto in Argentina.
Questa causa di beatificazione e canonizzazione rimarrà nella storia anche perché ha visto ha visto la testimonianza di un papa, seppur emerito, su un suo predecessore. È il caso di Benedetto XVI che partecipò da cardinale al Conclave che elesse Giovanni Paolo I. Una chicca che oggi conosciamo grazie a Nicola Scopelliti, giornalista e autore di ben quattro libri dedicati al papa originario di Canale d'Agordo. Ratzinger, infatti, gli ha inviato il testo tramite il suo segretario personale monsignor Georg Gänswein ed ha acconsentito a pubblicarla nell'ultimo libro "Il Postino di Dio" (edizioni Ares), facendogli sapere anche che il papa emerito "è molto contento e si rallegra dell’imminente beatificazione di Giovanni Paolo I”.
Leggendo il libro di Scopelliti si scopre che Benedetto XVI ha risposto all'interrogatorio fattogli pervenire in data 26 giugno 2015 ed ha raccontato che conobbe Albino Luciani nell'estate del 1977 durante una vacanza a Bressanone. L'allora patriarca di Venezia, sapendo della presenza dell'allora vescovo di Monaco nel territorio del Triveneto, ci tenne a conoscerlo e a fare gli onore di casa. "Lo avvertii come un gesto di fraternità fuori dal comune - ha confidato Benedetto XVI - che fosse venuto appositamente per salutarmi e per darmi il benvenuto in Veneto nel mese di agosto era un’espressione di nobiltà d’animo che andava ben al di là del consueto". Nell'interrogatorio inviato al Monastero Mater Ecclesiae nell'ambito della causa di beatificazione comparivano anche alcune singolari domande relative allo svolgimento del Conclave dell'agosto 1978. Domande alle quali, evidentemente in ottemperanza al giuramento fatto per mantenere il "segreto su tutto ciò che in qualsiasi modo riguarda l'elezione del Romano Pontefice", Benedetto XVI ha fatto sapere di non poter dare alcuna risposta.
Degno di nota è il racconto che Ratzinger ha fatto del momento in cui ha appreso la notizia della morte improvvisa di Giovanni Paolo I. L'allora cardinale si trovava nell'arcivescovado di Quito, inviato proprio da Luciani al Congresso mariano nazionale in Ecuador. "In piena notte mi svegliai e sentii aprirsi la porta ed entrare qualcuno - ha raccontato il papa emerito - quando accesi la luce, vidi un monaco con un abito marrone. Sembrava un misterioso messaggero dell’aldilà, cosicché dubitai di essere realmente sveglio. Entrò e mi disse che aveva appena ricevuto la notizia che il papa era morto". Colto di sorpresa, Ratzinger si riaddormentò e prese veramente coscienza della veridicità della notizia soltanto la mattina successiva durante la messa nella quale un concelebrante pregò per il defunto papa Giovanni Paolo I. "Alla fine, siamo rimasti davvero tutti sotto shock per quella notizia, della cui veridicità non c’era più da dubitare", ha concluso.
Dalla testimonianza emerge tutta la grande stima che Ratzinger nutre per la figura di Albino Luciani della cui santità si era detto "convintissimo" già nel 2003 e che considera "un uomo coraggioso sulla base della fede" in grado di rappresentare "un segno di speranza" in un momento in cui "la Chiesa postconciliare versava in una grande crisi". "Il Postino di Dio" (titolo tratto da una definizione che Giovanni Paolo I amava dare di sè) è una raccolta preziosa di testimonianze di chi ha conosciuto o approfondito la figura dell'ultimo papa italiano. Racconti che contribuiscono anche a fare luce sul mistero della sua morte su cui tanto si è scritto, spesso lasciando più spazio all'immaginazione che alla realtà. Lo stesso Benedetto XVI ha rivelato di ritenere "insensate" le voci che circolavano su un presunto assassinio del suo predecessore, ricordando che "era chiaro che papa Luciani non era un gigante dal punto di vista della salute fisica".
La cagionevolezza è un tema che ritorna in chi ha avuto modo di conoscere Luciani. Ad esempio, il cardinale Julián Herranz, membro dell'Opus Dei, ha ricordato a Scopelliti come in tutti gli incontri che ebbe con lui, il futuro Giovanni Paolo I aveva avuto problemi di salute. Lo stesso Giulio Andreotti ebbe modo di ricordare come rimase impressionato dal pallore del neoeletto papa in occasione della cerimonia di presa di possesso della Basilica lateranense, il 23 settembre 1978. Non tutti sanno che il sette volte presidente del Consiglio apprezzava molto la figura di Luciani ed amava citarlo quando gli chiedevano se continuava a considerarsi un conservatore. "Risponderò con Giovanni Paolo I: se conservatore vuol dire mantener intatta la propria fede, sono conservatore", rispondeva Andreotti. E in effetti Luciani, a cui veniva attribuito questo appellativo soprattutto per il modo in cui aveva gestito la stagione delle contestazioni da vescovo, sosteneva che "se questo significa 'fidem servavi' (conservare la fede), sono un conservatore".
È il ritratto che emerge dallo studio della sua figura e delle sue azioni, così come dalle testimonianze dirette di chi lo ha conosciuto: sempre nel libro di Scopelliti, ad esempio, c'è l'importante contributo del vescovo emerito di Belluno-Feltre, monsignor Giuseppe Andrich che lo conobbe e lo frequentò. Così lo ha ricordato l'anziano vescovo: "Luciani sapeva che le sue prese di posizione gli stavano facendo il vuoto intorno, ma non tentennava: 'Cosa fareste al mio posto? Dovrei interdirmi ogni accenno agli errori o alle opinioni pericolose messe in giro? Mi pare di no, tradirei la mia missione e il popolo cristiano, il cui primo diritto è di sapere con chiarezza quali sono le virtù rivelate da Dio'".
Allo stesso modo, per capire chi è stato davvero il "papa del sorriso" e perché merita l'elevazione agli altari, risultano preziose le memorie di due suoi segretari: l'orionino don Diego Lorenzi che lo affiancò a Venezia e a Roma e che ne ha scritto in un memoriale consultabile sul web e don Francesco Taffarel, fedele collaboratore nel periodo di Vittorio Veneto e con il quale i rapporti non s'interruppero mai. Don Taffarel è morto improvvisamente nel 2014 ma oltre ad aver lasciato la sua testimonianza per la positio nella causa di beatificazione (che si trova sempre nel libro "Il Postino di Dio") ha anche affidato a Nicola Scopelliti un importante manoscritto di aneddoti e racconti vergati dal futuro Giovanni Paolo I e fino ad allora inediti. Sono usciti in un volume col titolo di "Giocare con Dio" (edizioni Ares) curato dallo stesso giornalista e sono utili, come sosteneva don Taffarel, a comprendere la "personalità accogliente e ospitale, il suo spirito libero e arguto, l’amore per i semplici accompagnato sempre dal desiderio profondo di fare apostolato, cioè di portare Gesù a tutti". Un po' come il volume "Illustrissimi", catechesi in forma di lettere ai grandi del passato pubblicata quando Luciani era patriarca di Venezia e che lo stesso Ratzinger ha confidato di aver comprato subito dopo l'elezione nel 1978 per conoscere meglio il papa che oggi sarà beato. Dietro "quella semplicità, stava una formazione, specialmente di tipo letterario, grande e ricca, come emerge in modo affascinante dal piccolo libro Illustrissimi", ha spiegato il papa emerito.
Domenico Agasso per “La Stampa” il 25 agosto 2022.
Joseph Ratzinger racconta lo strano incontro notturno rivelatore della morte improvvisa, dopo soli trentatré giorni di pontificato, di Giovanni Paolo I, che il 4 settembre sarà beatificato da Francesco. Ricorda di avere conosciuto il futuro Papa quando Albino Luciani era patriarca di Venezia.
Afferma che la Chiesa nel 1978 «versava in una grande crisi, e la figura buona di Giovanni Paolo I, che fu un uomo coraggioso sulla base della fede, rappresentò un segno di speranza. In questo senso la figura come tale permane come messaggio». Benedetto XVI è stato il primo pontefice, seppure emerito, che ha deposto a un processo per la beatificazione di un suo predecessore (il Vescovo di Roma infatti non interviene perché è giudice ultimo e definitivo nei procedimenti per le canonizzazioni).
Ratzinger il 26 giugno 2015 ha rilasciato la sua testimonianza scritta rispondendo all'interrogatorio predisposto ad hoc, riportato nella sua versione integrale nel libro in uscita oggi per le edizioni Ares Il postino di Dio, a cura di Nicola Scopelliti. Con l'invio del documento all'editore, monsignor Georg Gänswein, segretario particolare di Ratzinger, ha precisato: «Il Papa emerito mi ha detto di comunicarle che "è molto contento dell'imminente beatificazione di Giovanni Paolo I"». Papa dal 26 agosto al 28 settembre 1978, Luciani desiderava essere «il postino di Dio» che annuncia la «buona novella» del Vangelo.
I due alti prelati destinati a salire sul soglio pontificio si sono parlati per la prima volta nell'estate del 1977, quando Ratzinger stava trascorrendo con il fratello due settimane di vacanza nel Seminario Maggiore di Bressanone. Molto dopo, prima del conclave «lo incontrai ancora solo brevemente». Poi, quando «dopo l'elezione, Luciani comparve con la talare bianca, tutti noi fummo impressionati dalla sua umiltà e dalla sua bontà»; anche durante i pasti, «egli prese posto tra noi. Così, capimmo subito di aver eletto il Papa giusto».
Sulle condizioni di Luciani, Benedetto evidenzia come fosse «chiaro che non era un gigante dal punto di vista della salute fisica e tuttavia trovavo che il suo stato di salute rientrasse nella normalità. Avevo l'impressione che in questo senso la sua costituzione fisica fosse simile alla mia».
La notizia della morte lo raggiunge in Ecuador: «Ero a Quito. A un certo punto, in piena notte mi svegliai. Quando accesi la luce, vidi un monaco con un abito marrone. Sembrava un misterioso messaggero dell'aldilà, cosicché dubitai di essere realmente sveglio. Entrò e mi disse che aveva appena ricevuto la notizia che il Papa era morto. Inizialmente non potevo crederci, ma poi non dubitai della veridicità dell'informazione. Curiosamente, mi riaddormentai subito, ma poi la mattina seguente appresi definitivamente l'impensabile notizia».
Quel monaco era un vescovo ausiliare di Quito «che per comunicare di notte quella notizia aveva indossato il suo abito da religioso. Quando, nella preghiera dei fedeli durante la messa, un concelebrante pregò per il defunto papa Giovanni Paolo I, il mio segretario laico lì presente trasalì». Alla fine, «siamo rimasti davvero tutti sotto shock per quella notizia».
Alla domanda «Era favorevole a un'autopsia? Ebbe qualche dubbio quando cominciarono a girare voci su una morte improvvisa di Luciani?», Papa Benedetto risponde: «Sin da principio ritenni insensate le voci su una morte violenta. Le informazioni ufficiali per me erano e sono pienamente credibili e convincenti».
Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 27 maggio 2022.
Il 4 settembre papa Francesco beatificherà Giovanni Paolo I. Sarà il Pontefice stesso a presiedere la celebrazione, eccettuando alla regola stabilita da Papa Benedetto XVI che riserva le canonizzazioni al Papa mentre le beatificazioni, approvate dal Pontefice, ad un cardinale o ad un arcivescovo in qualità di delegato.
Il motivo è semplice: la canonizzazione comporta «il potere delle chiavi» (Matteo. 16-19) e quindi l'infallibilità papale, mentre le beatificazioni no.
Comunque, anche Ratzinger si era concesso due eccezioni, beatificando il cardinale John Henry Newman e Papa Giovanni Paolo II.
Di Albino Luciani, rimasto sul soglio di Pietro un mese e tre giorni, si racconta molto: che era un umanista colto, uomo di studi, grande catecheta, di umili origini e costumi.
Nulla però sul cosiddetto "scisma di Montaner" quando il 12 settembre 1967 l'allora vescovo di Vittorio Veneto si presentò nella parrocchia del paese, dove gli abitanti si erano dati a varie intemperanze contro un parroco non gradito e, accompagnato dal vice questore di Treviso, alcuni commissari di Ps e un autobus di carabinieri, Luciani prelevò le ostie consacrate e lanciò l'interdetto (la proibizione di celebrare riti sacri) contro la comunità. Questa, per protesta, si fece ortodossa e tale resta oggi.
È stato l'ultimo vescovo della Chiesa Cattolica a comminare questa antica, e desueta, punizione canonica. Che Papa sarebbe stato? La sua improvvisa morte, la notte del 28 settembre 1978, non ha permesso di comprenderlo, certo non avrebbe avuto il birignao melenso che l'agiografia corrente tenta di attribuirgli. Forse per aumentare la vendita di libri usciti con documenti teoricamente ancora secretati perché attinenti al processo di beatificazione (fatto proibito dal diritto della Chiesa), perché com' è noto il dio quattrino vince su quello Trino.
Wojtyla, il Papa che arriva dall’Est. Dopo 456 anni un Pontefice straniero. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Ottobre 2022.
«Sorpresa, in un primo momento, e, forse, un po’ di delusione, soddisfazione poi, entusiasmo infine: questi i tre stati d’animo provati dalla folla in piazza San Pietro e certamente da quanti erano di fronte ai teleschermi, alla notizia dell’elezione del cardinale polacco Wojtyla al supremo pontificato»: così «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 17 ottobre 1978 annuncia l’elezione del «Papa che viene dall’Est». Non se l’aspettava nessuno: non era nell’elenco dei papabili, nè lo avevano immaginato i più esperti vaticanisti. Karol Wojtyla è nato a Wadowice, in Polonia, nel 1920: durante l’occupazione nazista del paese è stato operaio in una cava di pietra e poi in una fabbrica di prodotti chimici. Sacerdote dal 1946, si è laureato a Roma in teologia e poi a Cracovia in filosofia; è diventato arcivescovo della capitale polacca nel 1964 e tre anni dopo è stato nominato cardinale. L’elezione, dopo appena tre giorni di conclave, giunge dopo la morte improvvisa di Albino Luciani, Giovanni Paolo I, pontefice per soli trenta giorni. «Ha preso il nome di Giovanni Paolo II. L’annuncio è stato dato ad una folla immensa che gremiva piazza San Pietro – e valutata ad oltre duecentomila persone – alle 18,44 dal cardinale protodiacono Pericle Felici con l’antica formula latina “Annuntio vobis gaudium magnum”. C’è stato un silenzio al nome “Carolum”, gli applausi sono echeggiati di nuovo all’annuncio del cognome. Solo allora la folla ha percepito di essere testimone di un grande evento storico. Dopo 456 anni saliva al trono di Pietro un cardinale non italiano. L’ultimo era stato nel 1522 Adriano sesto, olandese», scrive Arcangelo Paglialunga.
L’Arcivescovo di Bari Mariano Magrassi si dice entusiasta: «La sua scelta esprime una dimensione essenziale della chiesa: la cattolicità. Ci spinge tutti ad aprirci al mondo, ad assumere un respiro veramente universale. La Polonia poi è una Chiesa che soffre e testimonia luminosamente il Vangelo. Il nuovo Papa ci insegnerà ad essere testimoni coraggiosi di Cristo» è il commento raccolto dai cronisti della «Gazzetta».
Poco dopo l’elezione, il nuovo Papa si è rivolto alla folla riunita in piazza San Pietro. Ha ricordato il suo predecessore e ha sottolineato che i cardinali hanno chiamato il nuovo vescovo di Roma, dopo tanti italiani nei secoli precedenti, «da un Paese lontano... lontano, ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana». E conclude con le celebri parole: «Non so se posso bene spiegarmi nella vostra... nostra lingua italiana. Se mi sbaglio mi “corrigerete”». Il pontificato di Wojtyla durerà più di 26 anni: si spegnerà il 2 aprile 2005.
Attentato a Giovanni Paolo II: Fatima, Benedetto XVI e la Logica indicano i mandanti. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 17 ottobre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
Quarant’anni fa venne eletto papa Giovanni Paolo II. Oggi vi proponiamo un ragionamento logico elementare, che però può farci capire quali siano stati – con grande probabilità – i mandanti del suo attentato. Questo triste episodio si verificò il 13 maggio 1981, festa della Madonna di Fatima, tanto che il papa polacco donò poi alla Sua statua la pallottola che “fu miracolosamente deviata da qualcuno o da qualcosa”.
Sull'attentato a Giovanni Paolo II, ad oggi, restano sul banco due piste principali: quella “russo-bulgara” (servizi segreti bulgari ispirati dal KGB sovietico) e quella “interna alla Chiesa” con il secondo attentatore Oral Celik che dichiarò di aver ricevuto l'incarico da due cardinali. QUI .
Ora: se l'attentato fu voluto da comunisti atei russo-bulgari, COME MAI SCEGLIERE PROPRIO IL 13 MAGGIO, festa di Fatima?
Sarebbe stato molto stupido organizzare un attentato proprio in quel giorno, dando un evidente compimento alla profezia di Fatima, una delle più importanti della Cristianità, che parlava, appunto, di un “Santo Padre” che muore sotto colpi di arma da fuoco.
Sarebbe stato un completo autogol per quelle forze atee e comuniste: sparando al papa nel giorno di Fatima, avrebbero fatto realizzare involontariamente il Messaggio di Fatima, conferendo così più forza e credibilità al Cattolicesimo e alla Chiesa. Morto un papa se ne fa un altro, e Fatima avrebbe avuto una clamorosa, inaudita realizzazione.
Sarà stata, dunque, un puro caso, la scelta del 13 maggio? Lecito pensarlo, ma la matematica non è opinabile e c'è una possibilità su 365 giorni dell’anno. Ovvero, il fatto che la scelta di quel giorno possa essere stata casuale è dello 0,3 %.
A questo punto, diviene, invece, molto più interessante la pista interna alla Chiesa, con quei due cardinali citati da Celik. Porporati ovviamente infedeli, passati plausibilmente alla massoneria ecclesiastica modernista che, anche da prima del Concilio Vaticano II, ha sempre avuto come missione quella di cambiare radicalmente il cattolicesimo: una grande apostasia.
Ma perché arrivare a far sparare al Papa? Quale sarebbe stato il movente?
Già come cardinale, Joseph Ratzinger aveva attestato che il Terzo Segreto di Fatima riguarda “le ultime cose” e molteplici fonti attendibili hanno confermato che si riferisce specificamente alla grande apostasia, alla prova finale contenuta nel Catechismo all’art. 675: “Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il « mistero di iniquità » sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell'apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell'Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l'uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne”.
Nel 2010, papa Benedetto XVI fece, infatti, una rivelazione sconvolgente: “Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa”. QUI
E ancora, durante lo stesso viaggio apostolico in Portogallo aggiunse: “Quanto alle novità che possiamo oggi scoprire in questo messaggio (Terzo Segreto n.d.r.), vi è anche il fatto che non solo da fuori vengono attacchi al Papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio DALL’INTERNO DELLA CHIESA, dal peccato che esiste nella Chiesa”. QUI
L’annuncio di Benedetto del 2010 che il messaggio di Fatima - preannunciatore di una grande apostasia di origine interna – fosse ancora da realizzarsi, produsse un grandissimo sconcerto e malumore negli ambiti ecclesiastici legati al modernismo che, da sempre, hanno cercato di far passare Fatima come già pienamente verificatasi con l’attentato a Wojtyla. “Distruggeremo Fatima”, pare abbia dichiarato pochi anni fa, (a detta di due stimati sacerdoti e studiosi di Fatima), un importante cardinale dichiaratamente amico della massoneria.
Riflettiamo su un collegamento banale: se Fatima era un avvertimento su una grande futura apostasia nata internamente alla Chiesa, se la massoneria ecclesiastica modernista - che ha l’apostasia come obiettivo - ha sempre cercato di far passare Fatima a tutti i costi come già verificatasi nel 1981 con l’attentato a Wojtyla, la scelta del 13 maggio per l’attentato trova una collocazione rigorosamente logica e credibile solo nel seguente scenario.
Cardinali massoni traditori volevano che, proprio nel giorno di Fatima, un papa morisse ucciso da un’arma da fuoco per REALIZZARE FORZATAMENTE il Terzo Segreto, “a comando” e spianare così la strada alla grande apostasia in modo che, successivamente, questa non venisse riconosciuta: la prima istanza della massoneria ecclesiastica, il primo step funzionale alla grande apostasia era, quindi, disinnescare Fatima, distruggerla, derubricarla, depotenziarla, metterla in soffitta come già avvenuta.
Ciò sarebbe avvenuto non solo a livello di percezione del pubblico, ma, come emerso durante l’intervista con la collega Alice Lazzari di due giorni fa QUI , questo potrebbe aver avuto anche qualche significato esoterico-rituale.
Ad esempio, in astrologia, di fronte a una previsione giudicata negativa, maghi e indovini cercano, a volte, di REALIZZARLA APPOSTA in un ambito abbastanza innocuo, in modo da stemperarla, annullarla. Una sorta di “vaccino sul futuro”.
Conferma il lettore Tomaso P.: “E’ il tema relativo all'«astrologia attiva» della scuola di Ciro Discepolo: l'esorcizzazione dei simboli. Cioè, il cercare di provocare proattivamente un evento per far sì che la forza di un pianeta (buono o cattivo) si canalizzi in un settore piuttosto che in un altro”.
La massoneria ecclesiastica, che sguazza letteralmente in questa cultura gnostica, potrebbe con ogni probabilità aver cercato di perseguire entrambi gli obiettivi: uno pratico, mediatico, socio-cognitivo, di far passare Fatima come avvenuta, e l’altro esoterico-previsionale, per depotenziare l’avvertimento della Madonna, canalizzando il potenziale antiapostasia del Messaggio in una situazione diversa, ma evocativa: un papa ucciso a revolverate.
Solo in quest’ottica, quell’opprimente 99,7% di possibilità che il 13 maggio sia stato scelto apposta dai mandanti, assume una coerenza logica, per quanto inserita in uno scenario sconvolgente.
Ma l’operazione è andata male: quel proiettile deviò la sua traiettoria, inspiegabilmente, e l’apostasia nella Chiesa, realizzatasi da nove anni con un “vescovo vestito di bianco” che, visto allo specchio, QUI, si rivela antipapa e usurpatore, è oggi perfettamente visibile da tutti. Ma l’impostura non durerà a lungo, potete scommetterci.
Attentato a Wojtyla: chi erano i mandanti? Di Emanuele Beluffi su Culturaidentita.it il 13 Maggio 2022
41 anni fa l’attentato al Papa: il 13 maggio 1981 Ali Ağca, militante dell’organizzazione terroristica turca dei Lupi Grigi, sparò a Karol Józef Wojtyła, il Papa asceso al soglio pontificio il 16 ottobre 1978 col nome di Giovanni Paolo II, tre colpi di pistola in piazza San Pietro, pochi minuti il suo ingresso nella piazza per un’udienza generale, colpendolo all’addome. Cinque ore e mezza di intervento chirurgico, il mondo intero (politico, religioso) in ansia, ma il Papa sopravvisse. Molto si è scritto e detto sull’attentato subito da quel Papa che, letteralmente e non solo per suggestione popolare, sconfisse il comunismo: chi furono i mandanti? Al di là della Cortina di Ferro i nemici non mancavano: furono i servizi segreti bulgari? Il KGB? E il sequestro di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia, scomparsa nel nulla il 22 giugno 1983 quasi in contemporanea con Mirella Gregori, era collegato all’attentato? Giovanni Paolo II, detto anche “l’atleta di Dio” per la sua passione per lo sport (famosissima la foto che lo ritraeva sugli sci), era un avversario del socialismo reale e della teologia della liberazione, era anti marxista e aveva svolto alla luce del sole un’indefessa attività diplomatica e culturale di critica e condanna del comunismo realizzato: quel “Papa polacco” aveva tanti nemici a casa sua. Ma forse questi nemici non erano geograficamente così lontani: potevano essere letteralmente a casa sua, cioè in Vaticano? Francesco Pazienza, noto alle cronache politico/giudiziarie come “faccendiere” (ma lui preferirebbe una definizione come “brasseur d’affairs”) con entrature nei Servizi e incarcerato dal 25 novembre 1995 al 17 giugno 2007 perché accusato di calunnia nelle inchieste sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 e sul crac del Banco Ambrosiano, nel suo libro appena uscito (La versione di Pazienza) sembra ipotizzare questa direzione. Questa di Pazienza non è la sua prima pubblicazione: nel 1996 un importante editore italiano pubblicò la sua autobiografia, oggi praticamente introvabile e chi l’ha letta troverà in questa sua nuova pubblicazione un allacciamento al punto “in cui eravamo rimasti” (ci vien da pensare alla frase con cui esordì Enzo Tortora riprese la sua fortunatissima trasmissione tv Portobello dopo il suo dramma giudiziario) con nuovi interessanti aneddoti relativi ai suoi rapporti con Roberto Calvi, la P2, il Vaticano e quant’altro. Nel capitolo intitolato La congiura contro il Papa il “brasseur d’affairs” sembra ipotizzare che le menti dell’attentato al Papa forse potessero non essere il KGB: forse potevano essere dentro le mura vaticane? Scrive Pazienza: “[…] Di quel papa (così nel testo, n.d.r.) non ci si poteva fidare, c’era il rischio che mettesse a repentaglio il potere consolidato costruito in tanti anni di lavoro, dentro e fuori le mura della Santa Sede. C’era il pericolo che rompesse le incrostazioni che, da «estraneo», avrebbe finito certo per scoprire, e che avrebbe fatto in modo d’intaccare e distruggere, poiché poco o punto si conciliavano con i principi di Santa Madre Chiesa. Occorreva dunque «neutralizzare» il nuovo papa”. In effetti, Come papa Giovanni Paolo II ha sconfitto il comunismo era anche il titolo di un altro libro introvabile (anche questo pubblicato da un grosso editore) che spiegava come l’Est Europa avesse riacquistato la libertà attraverso la rivoluzione silenziosa del “Papa polacco”: “Non temete! La Verità vincerà!”, disse loro. E, di verità in verità, qual è la verità sul suo attentato? La versione di Pazienza?
Roberto Faben per “La Verità” il 3 maggio 2022.
Nel tempo oscuro tra il 1980 e il 1982, quando le cronache italiane riferirono di accadimenti ancor oggi avvolti da compatti banchi di nebbia, principalmente la strage alla stazione di Bologna (1980), la scoperta delle liste P2 (1981), l'attentato a Karol Woytjla (1981) e l'assassinio di Roberto Calvi (1982), detto il «banchiere di Dio», l'ex-agente segreto e faccendiere Francesco Pazienza ebbe un ruolo in un mastodontico intrigo, che le aule giudiziarie hanno tradotto in condanne a suo carico.
Dieci anni di carcere per depistaggio sull'eccidio di Bologna e tre anni per il crac del Banco Ambrosiano, interamente scontati, di cui quasi nove mesi al 41 bis e una parentesi finale in libertà vigilata come volontario del 118 e soccorritore dei terremotati a L'Aquila. «Potrei quasi fare una guida delle prigioni italiane dove sono stato: La Spezia, Roma, Alessandria, Livorno, Milano, Palermo», afferma.
Egli, tuttavia, si è sempre dichiarato innocente e ora ha messo su carta la sua ricostruzione dei fatti in un libro fitto di date, nomi e riferimenti documentali, appena pubblicato da Chiarelettere, La versione di Pazienza, che è anche uno spaccato del Paese dell'epoca, uffici di 007 all'italiana con il whisky nel cassetto, intrallazzi sibillini nei salotti dell'alta finanza, mitragliette, come la Uzi di fabbricazione israeliana che Paul Marcinkus, figlio dell'autista preferito di Al Capone a Cicero (New York), arcivescovo, capo dello Ior e guardia del corpo di Wojtyla, serbava sotto la tonaca.
I guai di Frank, così Pazienza si è sempre fatto chiamare, iniziarono quando lasciò il Sismi di Giuseppe Santovito, presso cui operò dall'aprile 1980 a febbraio 1981, e instaurò rapporti con lo stesso Marcinkus e Roberto Calvi, entrando in un rififi impastato di miliardi di lire e transazioni occulte, giornali in difficoltà e scandali politici.
Perché, a suo avviso, Roberto Calvi fu eliminato attraverso una finta impiccagione?
«Fu eliminato perché, se così non fosse stato, sarebbe uscita l'ira di Dio. Quando scomparve, al Banco Ambrosiano fu immediatamente sostituito. Calvi andava eliminato. Punto. Poi fu costruito il discorso della liquidazione coatta amministrativa. Il Banco Ambrosiano fu liquidato il venerdì, e il lunedì successivo nacque il Nuovo Banco Ambrosiano».
Si è fatto un'idea di chi siano stati i mandanti del suo assassinio?
«Guardi, quando parlo è perché ho le prove. Una cosa è certa. Gli interessati alla sua eliminazione erano diverse entità».
Ad esempio?
«Non lo dico, altrimenti mi querelerebbero. Lei ha mai visto una banca in condizioni dichiarate disastrose, dove i depositanti non hanno perso un centesimo?».
Come conobbe Calvi?
«Lo conobbi a Washington nell'autunno 1978, alla riunione del Fondo monetario internazionale. Mi fu presentato da Domenick Scaglione, vice-presidente senior della Chase Manhattan Bank».
Nel suo libro sostiene che Santovito la mandò, su probabile richiesta di Andreotti, dal segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli, per capire come supportare la fazione opposta a Marcinkus. Perché decise, in seguito, di disobbedire al Sismi e di schierarsi contro i falchi avversi a Woytjla?
«Perché in quel momento ero animato da un grande fervore anti comunista e avevo compreso che Giovanni Paolo II si stava preoccupando di muoversi contro il comunismo partendo dalla Polonia. Neutralizzare Marcinkus avrebbe significato neutralizzare il braccio secolare operativo di Wojtyla».
A distanza di un mese dall'avvio della sua collaborazione con Calvi, Mehmet Alì Agca, il 13 maggio 1981, sparò a Woytjla e Marcinkus le comunicò la notizia al telefono. A suo avviso, chi volle l'attentato?
«Fino a 10-15 anni fa pensavo che fosse un'operazione del Kgb o servizio collegato. Ora non lo credo più. Se il Kgb voleva fare quell'operazione, poteva metterla in atto nei diversi viaggi in giro per il mondo di Wojtyla e non un mercoledì in piazza San Pietro a Roma con 50.000 persone. In un Paese africano un tiratore scelto del Kgb o del Gru (servizio segreto militare russo, ndr) lo avrebbe fatto fuori senza problemi da 1.500 metri di distanza. A mio parere il complotto nacque all'interno del Vaticano».
Woytjla, per il quale lei inviò in Polonia 4 milioni di dollari dello Ior a beneficio di Solidarnosc, era al corrente della spregiudicatezza di Marcinkus nella gestione della banca vaticana?
«Forse non al cento per cento. Tuttavia pure lui sapeva che pecunia non olet. Giovanni Paolo non era un cretino e non poteva pensare che lo Ior funzionasse solo con le offerte alla messa della domenica».
Perché una parte del Vaticano non vedeva di buon occhio l'anticomunismo del papa polacco?
«Perché l'anticomunismo di Wojtyla era muscolare, svincolato da tutte le camarille vaticane, cui quasi tutti i prelati appartenevano, ad eccezione del cardinale Achille Silvestrini, straordinario, con cui feci l'operazione preparatoria dell'incontro Wojtyla-Arafat.
Il lavoro di Casaroli, invece, era basato su un paziente lavoro di diplomazia durato anni».
Nel libro afferma che Calvi prestò denaro allo Ior, tanto che considerava la Vianini, società di costruzioni del Vaticano, una garanzia. Ma anche che lo Ior fece prestiti per 120 milioni di dollari al Banco Ambrosiano di Calvi. Chi dei due era più indebitato con l'altro?
«Calvi andava sul mercato internazionale potendo mostrare una forza che, obiettivamente, il Banco Ambrosiano non aveva, perché tutti sapevano che l'Ambrosiano e Calvi erano il braccio operativo dello Ior».
Qual era la cosa che più temeva Marcinkus dall'essere entrato in affari con Calvi?
«Non l'ho mai capito. Ma per mettere una pietra sopra ci fu un'operazione da 300 milioni di dollari che lo Ior versò al Nuovo Banco Ambrosiano per ripianare la situazione debitoria dell'istituto vaticano».
Ha scritto che «in confronto al dissesto del Monte dei Paschi di Siena (), quello dell'Ambrosiano era uno scherzo» e che «il crac dell'Ambrosiano non è stato un crac () come le sentenze della magistratura hanno voluto far credere». Sulla base di quali elementi sostiene questa ipotesi?
«I correntisti italiani e quelli delle filiali estere dell'Ambrosiano non hanno perso nulla. A perdere il denaro sono stati i clienti italiani che investirono in azioni, mentre quelli esteri, soprattutto delle filiali delle Bahamas, riuscirono a recuperare gran parte dei denari investiti in titoli. Ho fatto calcoli precisi sulla situazione del Monte dei Paschi di Siena. Non è uscito dal tunnel. Eppure il Mps non è stato messo in liquidazione coatta amministrativa».
Perché gli investitori italiani non furono risarciti?
«Qualcosa non funzionò. Molti soldi se li umbertò la banda Gelli-Ortolani. Dal famoso "conto Recioto" scomparvero milioni di dollari. Calvi non aveva le relazioni politiche nazionali per gestire il lavoro che faceva e si affidava a Gelli e Ortolani. Quando scoppiò il bubbone P2 e Gelli fuggì, Calvi fu lasciato solo.
Aveva solo Craxi. E poi, attenzione. Da intercettazioni telefoniche del dicembre 1981 tra Bruno Tassan Din (ex-direttore generale del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, ndr.) e Gelli, cominciarono a parlare di me, dicendo: "Ma chi cazzo è questo? È stato mandato dalla Cia?". Non sapevano nemmeno chi cazzo fossi.
Nel dicembre 1981 era in corso il depistaggio sulla strage di Bologna. Nella motivazione della sentenza che mi ha condannato a 10 anni di galera è scritto che io avrei depistato per fare un favore a Gelli. Ma io Gelli non l'ho mai cagato in vita e l'ho conosciuto solo nel 2009, presentatomi da Gianmario Ferramonti».
Calvi, nei suoi ultimi giorni di vita, era disperato e aveva bisogno di denaro. A chi lo doveva restituire?
«Quando l'hanno trovato morto, ero ad Acapulco e venivo dal Costarica, dov' ero andato ad aiutare il presidente Luis Alberto Monge nella campagna elettorale. Il denaro che Calvi doveva restituire era una tranche dei prestiti internazionali fatti con l'Ambrosiano. A livello internazionale, il debitore era l'Ambrosiano, non lo Ior. Calvi chiese disperatamente aiuto a Marcinkus. Ma Marcinkus era venuto a sapere che Calvi faceva la cresta sui prestiti esteri e gli rispose: "Adesso sono cazzi tuoi"».
Lei sostiene che il passaporto falso fornito da Flavio Carboni a Calvi, attraverso il boss della Magliana Ernesto Diotallevi, per andare a Londra nei suoi ultimi giorni di vita, costò 530.000 dollari. «Troppo, per un passaporto falso» dice. E il resto?
«Il resto se lo sono imbertato, come si dice a Roma. Se Calvi avesse chiesto a me un passaporto, glielo avrei fatto avere autentico, panamense o costaricano. Il problema era che Carboni risultava intimidito da Calvi, come emerge dai nastri delle telefonate tra i due, depositati dal notaio Lollio di Roma, nelle quali Carboni sembra Fantozzi. Carboni gli dava del lei, Calvi del tu. Io, invece, a volte lo mandavo a fare in culo, ma non sopportava che un ragazzotto lo trattasse a quel modo».
Perché l'avvocato Jarashow disse che lei «fu l'unico coglione arrestato per il crac dell'Ambrosiano»?
«Perché è vero. A un certo punto è stato deciso che l'unico coglione da incastrare ero io, compreso Craxi. Luca Palamara oggi loda il padre Rocco per aver ottenuto la mia estradizione dagli Stati Uniti. Peccato che documenti in mio possesso attestino che Rocco Palamara si fece aiutare da Sismi e Cia».
Papa Ratzinger, "cambio di regime in Vaticano. Fatto fuori per l'apertura a Putin". Libero Quotidiano il 3 maggio 2022
C'è stato lo zampino occidentale dietro l'addio di Papa Ratzinger? Uno scatenato Diego Fusaro sgancia la bomba con un post su Twitter dal coefficiente di complottismo praticamente incalcolabile. Siamo nel quadro della guerra in Ucraina, con il filosofo turbo-sovranista schierato apertamente, se non a fianco di Vladimir Putin e delle "ragioni" della Russia, sicuramente contro Joe Biden, la Nato e gli Stati occidentali "appiattiti" sulla sola risposta militare contro Mosca.
"Molto probabilmente - scrive Fusaro - l'apertura di Ratzinger alla Russia di Putin, non solo sul piano strettamente religioso, fu uno dei motivi che portò alla fine del suo pontificato e al regime change che condusse al soglio pontificio il nuovo papa teologicamente corretto". Vale a dire Papa Francesco, che peraltro per le sue dichiarazioni "equidistanti" sui due contendenti Fusaro apprezza molto più che per il portato teologico e religioso.
"La NATO - calca la mano il filosofo, tra i più accesi sostenitori del governo gialloverde nella primavera del 2018 - è uno strumento dell'imperialismo Usa con una duplice funzione: a) sottomettere manu militari il mondo intero all'americano-sfera; b) far sì che l'Europa, costellata da basi NATO, resti una colonia piegata a Washington. Uscire dalla NATO è di vitale importanza".
Non possono mancare anche riflessioni, polemiche, sulla pandemia. "Il prossimo lockdown sarà per una nuova variante, per la guerra, per l'emergenza climatica o per l'emergenza energetica? Che vi sarà, è ragionevolmente al di là di ogni dubbio. Resta da capire con quale argomento verrà imposto. Il lockdown, nuova categoria politica neolibeale". E nello specifico, continua la sua crociata contro le mascherine: "Libreria in centro a Milano. Non vi è nessun obbligo di coprire il volto, eppure tutti hanno il volto coperto. Lo stato d'emergenza non sarà rinnovato, quando tutti lo vivranno perennemente e intimamente come nuova normalità, come in parte già è".
· Il Papa Emerito.
«Ma lei è Ratzinger effect: come gli stessi nemici di Benedetto XVI svelano la sede impedita. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 3 dicembre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
Questa vicenda millenaria della sede impedita di Benedetto XVI e dell’antipapato di Bergoglio produce dei fenomeni assolutamente stupefacenti, al limite del preternaturale.
In primis, il grottesco e assordante silenzio stampa sulla Magna Quaestio: un tabù assoluto che parla più di mille titoli di prima pagina. Cari colleghi mainstream, ma perché vi fa così paura Bergoglio? Non era tutto zucchero e misericordia? (Forse no).
In secundis, l’autolesionismo masochistico di certi presunti cattoconservatori che attaccano giornalmente Bergoglio dicendogliene di tutti i colori, ma guai a far loro presente che non è il vero papa per motivi giuridici. (Alcuni hanno capito bene, ma tentano di “dividersi la veste” del Vicario di Cristo).
Tuttavia, il fenomeno più straordinariamente interessante è il cosiddetto “Ratzinger effect”, ovvero l’automassacro dei nemici più aggressivi di papa Benedetto XVI i quali, attaccando in modo scomposto l’inchiesta “Codice Ratzinger” (che sarà presentata ancora il 3 a Pordenone e il 4 a Bologna), producono involontariamente nuove, straordinarie prove che confermano ancora sempre la stessa verità. Ricordiamo con gratitudine un hater che, nei suoi feroci attacchi social, ci ha fatto scoprire l’utilissimo canone 335, (oltre al 412) che parla di “sede totalmente impedita” come perfetta alternativa alla sede vacante. Poi, don Ariel Levi di Gualdo, insultatore seriale del sottoscritto e di don Minutella il quale, pubblicando sul suo sito la lettera falsa di Mons. Gaenswein (da lui misteriosamente “ricevuta da fonti anonime”) ha dato modo allo stesso Segretario del Papa di smentirne il contenuto e spiegare così che Benedetto XVI celebra la messa in comunione con se stesso “indegno servo” e non in unione con Bergoglio, (ovviamente, dato che non è il legittimo papa). La vicenda della falsa lettera è si è poi conclusa con un gran finale “napoleonico” tipo Ouverture di Tschaijkowsky 1812, con campane a festa e salve di cannone, quando si è scoperto che il falso era stato prodotto con una licenza Word a nome proprio di don Ariel Levi di Gualdo. Lo stesso sacerdote “tosco-romano, di antica ascendenza sacerdotale ebraica”, come ama definirsi, non ha smentito la paternità del falso e anzi, ha dichiarato che “esistono menzogne buone e menzogne cattive”, offrendo una nuova prospettiva teologica che potrebbe piacere a Bergoglio e al resto del mondo una chiara idea di come sia andata.
Ma uno dei più sentiti ringraziamenti si deve a don Tullio Rotondo il quale da diversi giorni attacca lo scrivente in modo serrato, non risparmiandosi pirotecniche uscite come quando ha fornito la sua personalissima spiegazione del fatto che papa Benedetto usi ancora il nome pontificale e indossi ancora la veste bianca per un motivo essenzialmente “pratico” (come dichiarò a Tornielli nel 2016 ): “siccome una talare può costare anche 1000, 2000 euro”, dice don Rotondo, “giustamente Benedetto ha preferito utilizzare quelle somme per altre cose”. E quali sarebbero? Non c’è stato verso di fargli capire che papa Ratzinger si chiama ancora Benedetto XVI perché è ancora il papa, inoltre, siccome non esiste una veste specifica da papa impedito la cosa più pratica era rimanere vestito di bianco togliendo solo la mantelletta e la fascia alla vita per farsi riconoscere come il “Papa emerito”, cioè colui che merita di essere papa in quanto, da impedito, resta in possesso del Munus, l’investitura divina di pontefice.
In compenso, Don Tullio ha prodotto un documento fondamentale, da lui incautamente brandito come prova dell’abdicazione di papa Benedetto.
Si tratta degli Acta Apostolicae Sedis, che potete scaricare, praticamente la Gazzetta ufficiale vaticana. Vi si legge: “ACTA BENEDICTI PP. XVI DECLARATIO SUMMI PONTIFICIS. De MUNERIS Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri ABDICATIONE.
Come vedete, si parla di rinuncia al MUNUS petrino per l’abdicazione del papa. (E Don Rotondo sosteneva che non fosse necessario rinunciare al munus). Il problemino è che il documento è del 1° marzo 2013, quando papa Benedetto ha già fatto la sua rinuncia all’esercizio pratico del potere de facto e non de iure. Così, il 1° marzo il cardinal decano convocando un nuovo conclave abusivo, a papa non abdicatario, ha da quel momento ufficializzato che la sede è TOTALMENTE impedita. Lo abbiamo illustrato QUI. Come si può considerare non totalmente impedito un papa al quale convocano alle spalle un altro conclave lui vivente e non abdicatario?
Ovvero, l’importanza di questo documento, risiede nel fatto che la stessa chiesa golpista che ha impedito Benedetto XVI certifica che, per l’abdicazione, fosse esplicitamente richiesta la rinuncia al Munus petrino, che, come ormai sapete fino alla nausea, NON È MAI AVVENUTA, in quanto papa Benedetto dichiarò l’11 febbraio di rinunciare al solo ministerium, che è solo l’esercizio pratico del potere il quale discende, consegue dal munus e ne è solo il riflesso: “…declaro me ministerio Episcopi Romae … commisso renuntiare”.
Se non bastasse, la rinuncia al munus petrino è espressamente richiesta dal canone 332.2 che regola l’abdicazione: “ut MUNERI suo renuntiet” ; il canone 412 dice che il papa è impedito quando non può esercitare il suo MUNUS (Episcopus dioecesanus plane a MUNERE pastorali in dioecesi procurando praepediatur…) e anche la costituzione apostolica di papa Giovanni Paolo II, all’art. 53, cita esplicitamente in italiano l’incarico papale come MUNUS: “…chiunque di noi, per divina disposizione, sia eletto Romano Pontefice, si impegnerà a svolgere fedelmente il MUNUS Petrinum di Pastore della Chiesa universale…”.
Semplifichiamo al massimo per i “non udenti”, in senso evangelico. Papa Benedetto è come il padrone di un’auto minacciato da un rapinatore. Lui docilmente scrive un biglietto in cui dice che rinuncia a guidare la macchina, ma il malvivente si illude di aver ricevuto l’atto di proprietà. Arriva un controllo della Polizia e il delinquente finisce in prigione. Chiaro, no?
Però i nemici del Vicario di Cristo, ostinati e impenitenti fino in fondo, continueranno a dire che “Benedetto si è solo confuso, ma in realtà voleva abdicare”; che “ha usato i termini per non ripetersi”; che “rinunciare al munus è la stessa cosa che rinunciare al ministerium”; che “a 25 anni Ratzinger era modernista”; che “ha la demenza senile e pensa di essere ancora papa”. etc. (Tutte affermazioni realmente proferite).
E allora non resta che abbandonare queste persone al loro destino con la coscienza a posto di averle pur avvertite sulla situazione presente e sulla rivelazione finale che giungerà immancabilmente. Ne abbiamo trovato l’informazione esplicita, presto spiegheremo come, quando e perché, ma, come dice il Santo Padre: “Tutto ha il suo tempo”.
P.S. Per chi desiderasse un “aiutino da casa Mater Ecclesiae” papa Benedetto ha dichiarato che la risposta si trova nel libro di Geremia dove si legge “IO SONO IMPEDITO” e in tedesco ha scritto che teme di essere di peso agli altri a causa di un lungo IMPEDIMENTO.
Omissione di soccorso del papa: i tradizionalisti che abbandonano Benedetto XVI. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 24 novembre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo "Mimerito" sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale "Plinio", è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
E’ doloroso scrivere quanto segue, ma purtroppo, "i fatti sono cose ostinate". L’inchiesta condotta su Libero, ormai ricca di oltre 350 articoli in due anni, condensata nel libro "Codice Ratzinger" (Byoblu ed.) ha messo in luce un panorama sconvolgente. Benedetto XVI non è abdicatario, ma impedito, questo fa sì che egli conservi il Munus petrino, l’investitura di origine divina cui è legata, in ottica di fede, l’assistenza dello Spirito Santo riservata al pontefice. Ne segue che il conclave 2013, convocato a papa non abdicatario, ma impedito, era nullo e ha eletto un antipapa, Bergoglio che, peraltro, sta smantellando la dottrina cattolica. Se il prossimo conclave comprenderà dei cardinali elettori nominati dall’antipapa, ne sortirà un altro antipapa e la Chiesa canonica visibile sarà FINITA per illegittima successione antipapale: la vera Chiesa di Cristo dovrà rinascere dalle catacombe, ripartendo dal nulla come nei primi secoli del Cristianesimo.
Ora, tale inchiesta, che affonda le proprie radici su studi precedenti e sulle testimonianze di ben TRE VESCOVI (Lenga, Gracida, Negri), non è solo descritta a livello canonico con l’apporto di docenti universitari, ma è illustrata in lungo e in largo con la spiegazione logica di decine di messaggi di papa Benedetto, il cosiddetto Codice Ratzinger, un sistema di comunicazione logico, ma velato, individuato da 30 specialisti QUI obbligato dallo status di impedimento, che CONFERMA la situazione canonica descritta.
Questi, in breve, i risultati della più grande, approfondita e interdisciplinare inchiesta che sia mai stata realizzata sulle dimissioni di papa Benedetto e sul suo linguaggio.
NON CI CREDETE? Non importa. E’ perfettamente lecito essere scettici su un panorama di tale sconvolgente gravità. Potete anche pensare che lo scrivente non sia un giornalista di normale e onorata carriera che scrive da quasi vent’anni sui principali giornali nazionali, ma un imbecille-immorale-pazzo-diabolico-speculatore, secondo i "titoli cruscanti" che gli sono stati attribuiti. In ogni caso, la questione, vera o falsa che sia, NON PUÒ ESSERE IGNORATA per la natura stessa del problema che solleva.
Infatti, se qualcuno vi dicesse che vostro padre, o vostro figlio è all’ospedale, o è stato rapito, voi stessi non fareste almeno una telefonata per sincerarvi? Con quale coscienza potreste ignorare l’allarme su una cosa del genere, vera o falsa che sia? Potreste farlo solo se foste dei figli degeneri, interessati alla dipartita dell’odiato genitore, magari per ereditare.
Nella fattispecie, oggi "Codice Ratzinger" non è esattamente l’ultimo dei libercoli: ha venduto 12.000 copie in sei mesi, è stato tradotto in inglese e spagnolo, è tra i dieci saggi bestseller in Italia, presentato su spontanea iniziativa dei cittadini in 10 città italiane, (il 27 sarà a Catania, il 3 a Pordenone e il 4 a Bologna). La sua tesi è stata confermata dal più noto avvocato italiano, da un magistrato antimafia ex sottosegretario alla Giustizia, da filosofi, canonisti, docenti universitari, giornalisti e intellettuali italiani e stranieri di chiara fama, da decine di specialisti. Non l’ha smentita nemmeno papa Benedetto scrivendo all’autore nel 2021, né tantomeno dopo aver ricevuto il libro, lo scorso luglio.
Eppure, sarebbero bastati solo i primi due o tre messaggi inquietanti di Benedetto XVI e i primi dubbi giuridici sulla Declaratio per far scattare DOVEROSAMENTE in allarme rosso i veri cattolici e l’alto clero.
Quindi, chiunque si professi cattolico (non parliamo dei pro-Bergoglio) e non prende in ATTENTA, SERISSIMA E APPROFONDITA CONSIDERAZIONE quanto ricostruito, senza opporre una spiegazione alternativa, si rende oggettivamente colpevole di omissione di soccorso del romano pontefice, complicità con l’usurpazione e co-artefice della fine della chiesa canonica visibile.
Peraltro, anche se lo scrivente avesse torto e il vero papa fosse Bergoglio, costoro non difenderebbero nemmeno il vero papa Francesco dallo scandalo: quindi sono due volte gravemente inadempienti.
Questo non è un gioco: lo scrivente, dopo aver perso del lavoro e aver messo gratuitamente a disposizione del pubblico 350 articoli e l’intera inchiesta ordinata in 60 capitoli su Byoblu, da quasi tre anni, sta rispettosamente e cordialmente interpellando intellettuali cattolici e membri dell’alto clero, ma tutti fanno finta di niente, oppure insultano gratuitamente, assumono snobistici atteggiamenti di superiorità o si trincerano in frettolosi grammelot canonici o in un disonorevole mutismo passivo-aggressivo, rifiutando qualsiasi onesto confronto. Se gli ecclesiastici possono essere – in minuscola parte - giustificati dall’essere a rischio sanzione canonica (invalida) da parte dell’antipapa, i liberi intellettuali non hanno alcuna giustificazione.
Dobbiamo quindi doverosamente elencare – per i posteri - coloro che si sono finora sottratti alla doverosa, ineludibile verifica di uno scenario scrupolosamente documentato e suffragato da autorevoli intellettuali, dove emerge un atroce abuso ai danni del Vicario di Gesù Cristo che può segnare per sempre la fine della Chiesa cattolica visibile e un grave rischio per la nostra sovranità nazionale. (Chiunque di loro fosse interessato, riceverà gratuitamente il volume).
Procediamo con ordine.
Mons. Carlo Maria Viganò, arcivescovo. E’ stato raggiunto direttamente da almeno cento articoli dello scrivente, oltre che dal libro. Destinatario di una lettera aperta, messo al centro di diversi, rispettosi articoli, ha rifiutato di rispondere. Pur dopo aver fatto delle aperture alla possibilità che le dimissioni di papa Benedetto potessero essere "provvidenzialmente" invalide, è ritornato sui suoi passi, attribuendo al "monstrum giuridico" (totalmente travisato) del papato emerito la responsabilità di aver posto sul trono petrino un papa esecutore dell’agenda dei poteri forti. Questo atteggiamento ha configurato una strategia politica finalizzata all’autopromozione come prossimo papa (antipapa, in quanto nominato da un conclave invalido). Nessuno dei suoi lo ha difeso o ha smentito.
Mons. Athanasius Schneider, vescovo: ha rifiutato in modo categorico anche solo di esaminare l’inchiesta e non ha risposto a questa lettera aperta. Afferma che il male peggiore per la Chiesa è non avere il papa, anche se ha definito Bergoglio non-cattolico.
Don Tullio Rotondo: non ha mai letto Codice Ratzinger e continua a caricare video sul suo canale per screditare aggressivamente l’autore, dandogli del "falsario" e dell’"incompetente", presentando come "prove" i principali messaggi in codice Ratzinger già ampiamente studiati e rifiutando - in modo tetragono e ostinato - di comprendere la ratio del sistema comunicativo del Papa impedito. Peraltro, continua a sostenere che il canone 332.2 non imponga la rinuncia al munus petrino, oltre ogni evidenza: "Si contingat ut Romanus Pontifex MUNERI suo renuntiet".
Don Curzio Nitoglia, per almeno 25 anni sedevacantista, avendo considerato tutti i papi illegittimi da Pio XII, oggi che esiste davvero un papa illegittimo, ne è tra i più strenui legittimisti. Difende Bergoglio con l’ardita teoria del "papa diavolo", tratta dall’Iscariota apostolo-diavolo trascurando il fatto che il papa non è il successore di Giuda, ma di San Pietro. Non ha mai contestato Codice Ratzinger, nonostante gli sia stato inviato da un lettore.
Don Alfredo Morselli: ha ricevuto in dono dallo scrivente il volume Codice Ratzinger, lo ha letto, ma senza minimamente contestarlo, si è limitato a citare un parere nemmeno suo, ma di un tale Bunga Banyangumuka QUI il quale cassa l’intera questione dicendo che Benedetto XVI ha chiamato "Santità" Francesco. In risposta alla delusione espressagli, ha messo in guardia lo scrivente sul destino della sua anima.
Dott. Riccardo Cascioli, direttore de La Nuova Bussola Quotidiana: aggiornato per due anni su tutti gli articoli dell’inchiesta, interpellato pubblicamente e cordialmente ha rifiutato di rispondere agli interrogativi posti e non ha nemmeno scaricato il pdf dell’inchiesta che era stato inviato alla Redazione.
Piergiorgio Seveso di Radio Spada: sedevacantista, continua a oltraggiare papa Benedetto, definendolo "neomodernista, baia del pattume" e a dileggiare l’inchiesta senza entrare nel merito.
Prof. Roberto de Mattei, direttore di Corrispondenza romana: accenna a non meglio specificate "teorie cospirative esposte in maniera superficiale e talvolta fantasiosa, che fanno presa sulle emozioni, più che sulla ragione, che conquistano chi, con un atto di fede, ha già deciso di credere all'inverosimile". Il tutto ben guardandosi non solo dall’indicare le teorie, ma anche dal contestarle. Attualmente ha proposto come grande novità un libro sulla arcinota Mafia di San Gallo dagli accenti screditanti verso papa Benedetto. Anche lui considera del tutto legittimo Francesco nonostante i "gravissimi errori", dando degli idolatri a chi, in base a questi, ne denuncia l'illegittimità. Evidentemente non ha colto che la questione della legittimità di Bergoglio è canonica, anni luce prima di essere teologica.
Dott. Aldo Maria Valli, vaticanista: ha rifiutato di rispondere a due lettere aperte e giustificandosi col dire che papa Benedetto ha rinunciato al suo pontificato (mai detto). A nulla è valso fargli notare che il papa ha rinunciato al ministero-ministerium, che lo manda in sede impedita, e non al ministero-munus che lo avrebbe fatto abdicare.
Prof. Massimo Viglione: anche lui ha rifiutato di rispondere alle due lettere aperte di cui sopra e ad ogni offerta di cordiale confronto. In compenso, pubblica post misteriosi: "Maggiore è il successo di riscontro mediatico, minore è la profondità intellettiva e l’aderenza alla verità di quello che si trasmette". A chi si riferisce?
Prof. Giovanni Zenone, editore di Fede & Cultura: ha attaccato in modo gratuito e offensivo Codice Ratzinger senza minimamente argomentare nel merito. Pur avendo ricevuto in dono il libro, ha equivocato pensando che gli chiedessimo una recensione e continua a ostentare una caricaturale aria di superiorità definendo il "Codice Ratzinger "cretinate" e i giornalisti "la feccia del mondo delle lettere". Peraltro, pur disprezzando ferocemente don Minutella, sostenitore di Benedetto XVI unico papa, ha pubblicato un libro di don Enrico Roncaglia, il quale sostiene esattamente le stesse cose di don Minutella e celebra una cum papa Benedicto.
Sig.ra Dorotea Lancellotti, catechista: dopo aver definito il metodo dello scrivente, "falso perverso e diabolico", si è rifiutata di argomentare le sue contestazioni, pur dopo che gli era stato gentilmente offerto lo spazio dello scrivente.
Ora, a parte i sedevacantisti e coloro che hanno dei limiti oggettivi nella comprensione della questione, il sospetto legittimo sugli altri pur valenti intellettuali ed ecclesiastici è che stiano tentando un gioco nient’affatto limpido, una manovra di tipo squisitamente politico nel più assoluto spregio per l’aspetto sacro dell’ufficio papale: andare a un prossimo conclave invalido per cercare di far eleggere anche dai falsi cardinali di nomina bergogliana un tradizionalista che diverrebbe comunque antipapa, privo del Munus petrino e della correlata "divina disposizione", come recita l’art. 53 della costituzione Universi Dominici Gregis.
Infatti, per ovvio buon senso, se si trattasse di persone sinceramente fedeli al papa, devote alla Chiesa e alla verità, di fronte alla questione posta dall’inchiesta "Codice Ratzinger" dovrebbero dimostrare tutt’altro atteggiamento:
1) interessamento massimo alla questione,
2) approccio costruttivamente critico e puntuale, sia sull’aspetto canonico che su quello comunicativo,
3) discussione aperta e collaborativa, coinvolgimento consultivo di canonisti esterni alla Chiesa,
4) capacità di superamento del proprio ego, o dei propri interessi, per il bene della Chiesa,
5) eventuale respingimento della questione solo dopo puntualissima e completa contestazione sia sull’aspetto canonico, che su quello linguistico-comunicativo,
6) eventuale difesa del legittimo papa Francesco contro le dilaganti tesi dello scrivente.
Ripetiamo: tutto questo dovrebbe avvenire a prescindere del fatto che il papa sia o meno impedito, dato che la sola vaga prospettiva, la sola remota possibilità è talmente grave da imporre o una sua completa cassazione, o totale accettazione. O il papa è Benedetto, o è Francesco. "Tu es Petrus". Lo vuole il buon senso, no? E se è Benedetto è un grosso, grosso problema da risolvere.
Peraltro, la cosa più surreale è che molti di loro, nonostante attacchino ferocemente Francesco, anche in modo irrispettoso (sul blog di Valli gli hanno dato perfino dello "psicopatico") adesso giustificano le sue eresie con teorie come quella del "papa diavolo" o con quella del "dottore privato" (papa che, a livello personale, potrebbe dire ciò che vuole) mentre sono inflessibilmente severi sulle posizioni blandamente progressiste di Joseph Ratzinger a 25 ANNI, quando era prete da 3 e non era nemmeno monsignore! Capite il paradosso?
Infine, va eliminata anche l’ultima illusione sul fatto che alcuni dei sopra-citati stiano, in realtà, segretamente e saggiamente perseguendo una strategia in favore di papa Benedetto. Infatti, lo stesso Sommo Pontefice impedito sta intensificando fino al parossismo i suoi interventi, ormai più neanche in codice, ma palesi, come quando ha indicato qualche settimana fa che "la risposta è nel Libro di Geremia", dove - guarda caso - c’è scritto a caratteri di scatola: "IO SONO IMPEDITO". Oppure quando Mons. Gaenswein ha respinto come "pura menzogna" il contenuto della lettera dove si dice che papa Benedetto celebra in comunione con Francesco.
Il Vicario di Cristo Benedetto XVI grida la verità, oggi più che mai, ma costoro hanno altri progetti e tramano nell’ombra. Laicamente parlando, renderanno conto alla storia, alla loro Nazione, messa in pericolo da un oscuro potentato mondialista che cova nel suo seno. In ottica di fede, meglio stendere un velo.
Ed ora sapete come risponderanno (sempre se risponderanno)? Che l’autore di "Codice Ratzinger" vuole "costringerli a fare pubblicità al suo libro".
Benedetto XVI, ritratto di famiglia pontificia: la tela di Natalia Tsarkova. Chi ha più di 60 anni ha diritto a questi nuovi apparecchi acustici. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 20 novembre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
Finalmente la tela è caduta: un’opera realizzata in due anni ha mostrato papa Benedetto tale e quale, per come è oggi. Attorno a lui, nella clausura del monastero Mater Ecclesiae, si raccoglie ciò che resta della Famiglia Pontificia: non più protonotari, cappellani, elemosinieri, ma il fedelissimo Mons. Gaenswein, che, con una penna sottile, si appunta, diligente, le parole di Benedetto XVI - come Baruc, segretario del profeta Geremia – per riferirle al mondo esterno. Poi ci sono le Memores Domini, le pie donne che curano la persona del papa. Mons. Georg Ratzinger, appena in secondo piano, “dietro al velo” della morte, veglia sul fratello Benedetto XVI, il pontefice più longevo della storia, come ha ricordato il suo biografo Peter Seewald durante il convegno del 30 ottobre a Madrid.
Così, Natalia Tsarkova, famosa pittrice russa, interprete ispirata di una commissione pontificia, ha fatto vedere al pubblico, il 3 ottobre, una grande composizione artistica, ricca di luci inaspettate, ombre trasparenti, velature cangianti e simbolismi allegorici.
Nel monastero, l’atmosfera generale è corrusca, drammatica, ma carica di un’intima serenità e di amore per un papa ancora lucidissimo e coraggioso nella sua fortezza. In effetti, si intravede la luce dell’alba: pare quel mondo nuovo di cui parla Benedetto al quale lui sente di appartenere già, ma che ancora non è iniziato.
“Brillerà sempre in mezzo a noi la stella del suo pontificato" spiegò il card. Sodano subito dopo la Declaratio del 2013 QUI e, come una stella, sebbene defilato, brilla lo stemma di papa Ratzinger. Il simbolo - araldicamente elegante e originale - del suo pontificato rimasto in vigore fin dal 2005: anche non essendo più il “pontefice sommo” come lui disse a Castelgandolfo nel 2013, papa Benedetto lo ha comunque mantenuto.
Nel quadro, realizzato dalla Tsarkova di propria iniziativa, (potete ammirarlo ) la suora a destra cuce un bottone sulla talare bianca di Benedetto, con le 33 asole, tante quanti gli anni di Cristo. Quella talare che papa Ratzinger ha conservato perché, come scrisse nel 2016 al vaticanista Tornielli, era “la cosa più pratica e non aveva altri vestiti disponibili”. Sopra, un’altra Memores che spiega una tovaglia, con lo stesso gesto di una Veronica.
Colpisce l’angelo custode in armatura: iconograficamente pare l’arcangelo Michele, figura escatologica, (nel quale non è difficile riconoscere la pittrice), inginocchiato e con uno sguardo adorante verso il Santo Padre, mentre gli porge carte, documenti e un grosso libro chiuso. Spiega la Tsarkova che l’angelo indica gli altri libri ammonticchiati dicendo: “Santo Padre, guarda questi libri che hai scritto. C'è molto altro da pubblicare per dare luce ai tuoi scritti”. Ed è proprio così, vista la potenza dell’errore e l’incomprensione che gravano su questo grande papa.
E le rose, portate da una Memores, appena colte nel roseto, simbolo della Madonna, ma anche del martirio. Poi i dettagli, il gatto rosso di papa Benedetto fuori San Pietro: la bestiola, dal noto significato spirituale cristiano, si lecca lo zampino perché – credono i russi - aspetta un ospite che sta per uscire dal Vaticano: Francesco.
In alto, evanescente, la colomba dello Spirito Santo che, grazie all’investitura divina, assiste il successore di San Pietro la cui basilica, tempio del Signore , come per Geremia, è irraggiungibile per il 95enne Benedetto XVI. Sullo sfondo a sinistra, l’altare della messa antica, ricorda il Summorum Pontificum, il motu proprio con cui il papa, in vero, ha ripristinato la messa in latino.
Le mani di papa Ratzinger sono unite dal rosario, catena d’amore per Cristo e Maria, alla quale lui è legatissimo. Al collo, più grande e pesante di quanto si percepisca, la croce, d’oro; all’anulare, quello che non è l’anello piscatorio, (come hanno scritto) che fu graffiato e non spezzato, messo da parte, ma l’anello conciliare che riporta – realmente - San Pietro. Il dettaglio più significativo, in primo piano, è l’acqua, simbolo di quella purificazione della Chiesa portata avanti da Ratzinger, sul quale si riflette lo stesso papa mentre suona il pianoforte. Sembra di sentire quella sua musica dove anche le pause sono espressive: “Dum tacet clamat”, commentò Mons. Gaenswein.
Incredibile come le intuizioni dell’artista, spontanee e pochissimo concordate, abbiano incontrato il pieno favore di papa Benedetto che ha commentato, con la sua voce da tempo sottilissima, che in pochi comprendono: “E’ perfetto: se l’artista l’ha voluto così, l’ha voluto il Signore”.
Insomma, finalmente un codice espressivo, un linguaggio che possono capire tutti, per una grande opera da donare alla Chiesa, destinata “a chi ha occhi per vedere” e che resterà nei secoli.
Lettera falsa. Codice Ratzinger di Gänswein: Benedetto XVI non celebra con Bergoglio. Andrea Cionci su Libero Quotidiano l’11 novembre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
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Pietosi tentativi in difesa del sedicente papa Francesco: una lettera falsa su carta intestata del segretario del Papa, Benedetto XVI, a un sacerdote seguito da centinaia di migliaia di fedeli in tutto il mondo, don Minutella. Nulla è apparso sui giornali mainstream, ovviamente. La velina è “non affrontare minimamente la Magna Quaestio dei due papi”: ce lo possiamo permettere solo su Libero, la cui inchiesta “Codice Ratzinger” (pubblicata da Byoblu) sarà presentata ancora il 13 novembre a Gubbio, il 19 a Cosenza e il 27 a Catania per spontanea iniziativa dei cittadini che hanno coperto tutte le spese.
La trasmissione di ieri sera con don Minutella, sul canale Radio Domina Nostra, dedicata alla scottantissima faccenda, era attesa da migliaia di utenti, ma pochi minuti dopo l’inizio si è registrato un improvviso, inspiegabile e inedito CALO DI CONNESSIONE proprio – e solo - nel “tunnel” collegato a Youtube. Giusto giusto, eh?
Ma anche dal fango nascono i fiori e questo “disservizio” ha prodotto solo un grande aumento della curiosità per la trasmissione che andrà di nuovo in onda - salvo altri strani “incidenti” – oggi pomeriggio alle ore 18.30.
Vi riassumiamo brevemente il giallo della lettera falsa che è stato illustrato nei dettagli su RomaIT, con tutte le immagini dei documenti e dei rilievi.
Il giorno 7 novembre, don Minutella ha ricevuto per raccomandata una lettera da un presunto Mons. Gaenswein, dove l’arcivescovo segretario di papa Benedetto XVI gli scriveva: “Il Papa emerito ha sempre celebrato la Santa Messa “in unione con il nostro Papa Francesco”, suo Successore, al quale ha promesso pubblicamente “devota e incondizionata obbedienza”. Lei è in grave errore, come prova la pena della dimissione dallo stato clericale che Le è stata irrogata e che la Chiesa molto raramente infligge. Il Santo Padre emerito assicura preghiere per il Suo ravvedimento”.
La mattina dell’8, don Minutella ha reso pubblica questa lettera-doccia fredda, (che comunque non avrebbe cambiato la realtà canonica) esprimendo però alcuni dubbi sulla sua autenticità. A caldo, lo scrivente ha notato su RomaIT che era palesemente un falso: il mittente, un ridicolo “Sg. Pe” che avrebbe dovuto essere un “Segretario del papa emerito” è inesistente, come hanno confermato dalle poste della Santa Sede. Ovviamente, dato che la lettera era una raccomandata, doveva essere consegnata a mano a un impiegato vaticano che si sarebbe insospettito per una intestazione farlocca della Segreteria di Stato, o di altro indirizzo istituzionale da cui scrive Mons. Gaenswein di solito, per una missiva inviata al notissimo don Minutella. Invece, un “Sg. Pe” poteva anche passare, ad esempio, per le innocue iniziali di un privato.
Deridendo la pur ovvia considerazione, il sito bergogliano Aleteia ha dato al sottoscritto dello “scrivano complottista”, mentre i sedevacantisti su Radio Spada sogghignavano su Telegram annoverando in una “baia del “pattume”, con ogni probabilità, anche il Santo Padre Benedetto XVI in qualità di “neomodernista n. 2”.
(Dovrebbero essere i “cattolici super-ortodossi”, vi rendete conto?).
Ma il popolo del vero Sommo Pontefice ha ruggito e si è mobilitato: in tanti hanno inviato all’email dell’inchiesta codiceratzinger@libero.it documentazione e analisi sui file che erano stati subito pubblicati sul proprio sito “L’Isola di Patmos”, QUI in modo trionfante, da don Ariel Levi di Gualdo, prete noto in tv, acerrimo nemico di don Minutella che, oltre ad attaccare pesantemente, da anni, il teologo siciliano, insiste da mesi come papa Benedetto celebri (secondo lui) la messa in comunione con Francesco. Levi ha sostenuto di aver ricevuto, da “una fonte di cui non rivelerà mai il nome”, copia” del documento.
Come hanno notato molti fedeli, le firme di Mons. Gaenswein erano false, uguali, riprese da una lettera del 2014 disponibile sul web e ripassate furbescamente col pennarello.
Ma a cassare definitivamente la questione, anticipando, di poco, la nostra pubblicazione di questi rilievi, la notizia apparsa ieri mattina sul sito tedesco Kath.net riportato correttamente da Marco Tosatti che inizialmente aveva pubblicato l’articolo di Levi di Gualdo.
Così Kath.net cita le parole di Mons. Gaenswein: “Sono lieto di rispondere alla sua richiesta, e con fermezza: LA LETTERA È UN FALSO E UNA MENZOGNA: Fake news pure e semplici!". Il segretario privato del Papa emerito Benedetto XVI, è molto chiaro nella sua risposta a una richiesta della stampa di kath.net […]. Il tono chiaro della risposta dell'arcivescovo Gänswein permette di concludere che Gänswein è decisamente infastidito dalla deliberata falsificazione di una lettera del genere. Inoltre, il destinatario della lettera non deve essere automaticamente il falsario”. (?)
“La lettera è un falso e una menzogna”: come hanno notato diversi lettori, ormai avvezzi al Codice Ratzinger è una frase dal significato ben preciso. Non solo la lettera è una falsificazione, ma CONTIENE ANCHE UNA MENZOGNA, cioè che papa Benedetto celebri in comunione con Francesco e che sia addolorato per quello che stanno facendo don Minutella e gli altri sette eroici sacerdoti del Sodalizio Mariano, a lui fedeli.
Se fossimo nel Metaverso di Zuckerberg, dove Francesco è il vero papa e Benedetto abdicatario, Gaenswein avrebbe almeno dovuto dire: “Sì la lettera è un falso, ma è comunque vero che papa Benedetto celebra in unione con Francesco”, oppure solo “La lettera è un falso”. E invece no. E questo perché papa Benedetto celebra in unione con se stesso, vero papa.
Lo sappiamo da quel che rispose sul tema, qualche settimana fa, l’arcivescovo Gaenswein al sacerdote bergogliano don Willibald: “Papa Benedetto non ha mai menzionato nessun altro nome nel Canone della Messa. Non ha mai nominato se stesso nel Canone”.
Geniale. Ciò che balza subito agli occhi è che Mons. Gänswein NON DICE LA COSA PIÙ IMMEDIATA E INEQUIVOCABILE, cioè: “papa Benedetto celebra in unione con papa Francesco”. Piuttosto, usa un perfetto giro di parole: Papa Benedetto “non ha mai menzionato nessun altro nome”, ma rispetto a quale? Al suo nome o a quello di Francesco? NON VIENE CHIARITO, come leggete. Piuttosto, specifica subito dopo che “non ha mai nominato se stesso” nel canone, e infatti è così: mentre un ecclesiastico normale, quando celebra messa, deve nominare il pontefice (“in unione con il nostro papa Benedetto”). Il papa, invece, quando celebra messa, lo fa in unione con se stesso secondo la formula “IN UNIONE CON ME, TUO INDEGNO SERVO”. Quindi il papa NON NOMINA NESSUN NOME nel canone della Messa, nemmeno il suo.
Capite bene, infatti, che la clamorosa elusione della frase più diretta ed esplicita cioè “celebra in unione con papa Francesco” parla da sola, affermando clamorosamente, anche se in modo indiretto, che Benedetto celebra in unione con se stesso, e non con l'antipapa Francesco. Questo lo capiscono tutti, tranne chi è in patente malafede.
A tal proposito, prendendo spunto dall’assurdo commento finale di Kath.net, Giovanni Marcotullio di Aleteia, testata già nota per gli scorrettissimi metodi dialettici già visti , ha ventilato addirittura che potesse essere stato lo stesso don Minutella a produrre falsamente la lettera (!). Leggete QUI
Non è che si sono scusati per aver frettolosamente infangato una persona vittima di reati da Codice Penale (sostituzione di persona e falsa scrittura). Anzi, hanno pure cercato di addossargli la colpa. Non parliamo, poi di scusarsi con lo scrivente per lo sprezzante epiteto “scriba di don Minutella”. (Peraltro gli scribi, nella Bibbia, sono gli intellettuali istituzionali, proni al potere religioso costituito, proprio come Marcotullio, e non certo i latori di posizioni eterodosse).
Questa vicenda non finirà qui, con ogni probabilità partiranno denunce e querele. La questione sembra un sassolino, ma fu proprio una pietruzza a far crollare il gigante dai piedi d’argilla.
Se non fosse chiaro il concetto, lo ribadiamo: Bergoglio non è il papa (e si vede) perché Benedetto XVI non ha mai abdicato, ma è in sede impedita.
"Dio lo vuole ancora vivo...". La testimonianza su Ratzinger e la Chiesa. Nico Spuntoni il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Il biografo Peter Seewald ha raccontato il recente incontro con il papa emerito in Vaticano. Ed ha svelato la sua sofferenza per la Chiesa
Più di nove anni fa, rinunciando all'esercizio del ministero petrino, Benedetto XVI aveva detto che le sue forze non erano più adatte per quel ruolo anche a causa dell'età avanzata. Oggi, novantacinquenne, il papa emerito è fisicamente debolissimo ma, come testimoniano tutti coloro i quali hanno avuto il privilegio di incontrarlo anche recentemente, continua ad avere una mente lucidissima. E continua ad interessarsi della vita della Chiesa perché, come specificò nell'ultima udienza del suo pontificato, con la scelta della rinuncia non ha abbandonato la croce.
Una preziosa testimonianza di ciò che pensa Ratzinger oggi è arrivata questa settimana dalla Spagna e precisamente dall'Università Ceu San Pablo di Madrid dove è stato organizzato un congresso per celebrare il suo 95esimo compleanno. Il papa emerito ha inviato un saluto ed una benedizione per l'evento organizzato dall'Istituto CEU de Humanidades Ángel Ayala e dalla Fondazione Christiana Virtus e elogiando la volontà di "discutere alcune questioni fondamentali che la teologia deve affrontare oggi".
Ma ancora più rilevante del messaggio di Benedetto XVI in sé è la rivelazione fatta su di lui da uno dei relatori, Peter Seewald. Il giornalista tedesco non è una figura qualunque: è, infatti, il biografo per antonomasia di Ratzinger al quale è legato da anni di amicizia e frequentazione e con il quale ha scritto anche più di un libro-intervista. Nel corso del congresso spagnolo, Seewald ha confidato di essere stato ricevuto in udienza dal papa emerito questo mese e di aver avuto l'impressione che l'anziano teologo soffra molto per "l'attuale situazione della Chiesa" al punto da confessargli che "forse Dio lo ha voluto ancora qui per dare una testimonianza al mondo".
Una descrizione che, sebbene non confermata ufficialmente, sembra essere coerente con quanto detto qualche mese fa da monsignor Georg Gänswein, storico segretario personale di Ratzinger, nella celebrazione del 95esimo compleanno tenuta a Monaco, nella Sala Hubertus del Palazzo di Nymphenburg. In quell'occasione, un emozionato prefetto della Casa Pontificia aveva detto che nel 2013 non avrebbe mai pensato che "l’ultimo tratto di strada dal Monastero alle porte del Cielo dove sta Pietro potesse essere così lungo".
Nell'evento di Monaco non era presente, clamorosamente, l'arcivescovo, il cardinale Reinhard Marx pur essendo un successore di Ratzinger su quella cattedra. Il porporato tedesco è il principale artefice del Cammino Sinodale con il quale l'episcopato tedesco sta chiedendo a Roma - e a volte pretendendo - cambiamenti sempre più radicali sulla dottrina. E non è un mistero che proprio la situazione della "sua" Chiesa tedesca sia una delle maggiori preoccupazioni del novantacinquenne papa emerito.
Seewald: "Papa Benedetto XVI soffre molto". L'ultimo Codice Ratzinger su Bergoglio. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 28 ottobre 2022
Andrea Cionci
Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
La notizia stringe il cuore, ma non stupisce affatto: papa Benedetto XVI sta soffrendo molto.
Come ci ha segnalato un lettore, Leonardo, che vive in Germania, il giornale cattolico tedesco Die Tagespost riportava ieri QUI che, in un congresso tenutosi a Madrid su Benedetto XVI, il suo biografo, il giornalista Peter Seewald, ha riferito le sue impressioni dopo un incontro personale con papa Benedetto avvenuto due settimane fa. Citiamo in traduzione: «"E’ diventato una persona molto sofferente". Joseph Ratzinger è "una delle personalità più riconosciute del nostro tempo", ha osservato l'autore della biografia ufficiale del Papa emerito. In verità non era un reazionario, ma un riformatore, ha aggiunto. Seewald ha sottolineato che Benedetto XVI ha modernizzato l'ufficio papale (Amt - Munus n.d.r.). Gli era mancata la forza per continuare a ESERCITARE la carica (Amt - Munus). Certo, ci si può chiedere cosa sarebbe successo se Benedetto XVI non si fosse dimesso: “Francesco non sarebbe stato eletto, ci sarebbe stato un altro successore, il Papa avrebbe potuto continuare a mantenere la sua linea chiara. Forse non ci sarebbe stato un Cammino sinodale in Germania in questa forma. Allora il percorso del Vaticano sarebbe stato chiaro”. Anche se si tratta di speculazioni, si può dire che avremo ancora molto da Papa Benedetto per il futuro. “Questo Papa non sarà dimenticato”».
Ora, sapete che i libri “Ein Leben” e soprattutto “Ultime conversazioni” di Seewald-Benedetto XVI sono i testi più densi, in assoluto, dei messaggi logici e velati del vero papa illustrati a fondo in “Codice Ratzinger” (Byoblu ed. 2022), fra i primi dieci saggi bestseller italiani, che sarà presentato domani a Livorno, il 30 ad Asti e il 1° novembre a Torino.
I caso sono due: o il giornalista cattolico tedesco è perfettamente al corrente di tutta la questione, o è un latore disciplinato e “robotico” dei messaggi di papa Benedetto. Di oggettivo c’è che queste ultime dichiarazioni sono costruite nel purissimo codice ratzingeriano, sia in modo anfibologico, sia logicamente univoco, in un passaggio, dove ricorre la tipica, apparente incoerenza rivelatrice.
Come al solito, una lettura distratta e superficiale può accontentare il facile palato mainstream-bergogliano, ma, facendo un attimo mente locale, si comprende il senso reale.
Per prima cosa, torniamo al vocabolario: “modernizzare” – “adattare alle esigenze moderne”. Infatti papa Benedetto, vittima di ammutinamento, non avendo più la forza (sia fisica che “politica”) per continuare a ESERCITARE il munus petrino, (il titolo d’origine divina di papa), lo ha adattato alle esigenze autoesiliandosi in sede impedita, continuando così a possederlo pur senza il ministerium, cioè il potere pratico papale che da esso discende e dipende. E fin qui, si rimane pienamente coerenti alla Declaratio intesa come annuncio di impedimento.
Ma il punto-chiave arriva adesso: “Se Benedetto XVI non si fosse dimesso, Francesco non sarebbe stato eletto, ci sarebbe stato un altro successore”.
E perché mai?
Ecco l’immancabile incoerenza che “estrae” il codice Ratzinger univoco (e non anfibologico): infatti, come si può dire che se Benedetto non si fosse dimesso, Bergoglio non sarebbe stato essere eletto? L’argentino ha nove anni in meno di papa Ratzinger, e aveva alle spalle un partito cardinalizio fortissimo: la Mafia di San Gallo. Quindi, nel 2013, per almeno altri tre anni, fino a raggiungere l’età limite di 80 per poter partecipare al conclave, in caso di morte di papa Benedetto (allora 78enne) avrebbe potuto tranquillamente e plausibilmente essere eletto suo successore. (Peraltro, in teoria si può essere nominati papi senza limiti di età: basta avere più di 8 anni, essere maschi, battezzati, celibi e senza pene ecclesiastiche).
Quindi, è LOGICAMENTE SBAGLIATO (o del tutto campato in aria) affermare che se papa Benedetto non si fosse dimesso, Bergoglio non sarebbe mai stato eletto.
C’è solo una spiegazione per questa frase, perfetta, geniale, profondissima, che ne spiega l’intima coerenza.
Quello che ci sta dicendo Seewald, consapevole o meno, ma certamente “istruito” dal Santo Padre Benedetto, è che Bergoglio non sarebbe stato eletto papa - in un conclave regolare - PERCHÉ LO SPIRITO SANTO NON LO AVREBBE PERMESSO.
La sua “elezione” è potuta avvenire solo perché Benedetto si è dimesso in modo particolare, cioè ritirandosi dal solo ministerium senza cedere il munus, l’investitura papale conferita da Dio, entrando così in SEDE IMPEDITA e permettendo che avesse luogo un conclave illegittimo, invalido, nullo, perché convocato a papa IMPEDITO E NON ABDICATARIO. (Vedasi articolo su Ticonio, in merito alla “grande discessio”).
Ecco perché solo il particolarissimo tipo di “dimissioni autoimpeditorie”, di Benedetto, con conseguente conclave fasullo, ha permesso a Bergoglio di essere eletto, e la spiegazione dell’affermazione è quindi, teologica, peraltro del tutto suffragata col senno di poi.
Infatti, la Terza Persona trinitaria esercita un’assistenza “negativa” sull’elezione del papa, cioè evita il danno peggiore. Il papa, per giunta, trae la sua autorità dall’essere custode della fede. E siccome sappiamo benissimo chi è e cosa fa Bergoglio, qual è la sua personalissima spiritualità QUI e come sta smantellando il Cattolicesimo e la Chiesa, dato che in nove anni non si è minimamente preoccupato di chiarire la questione dimissioni di Benedetto, dimostra non solo di essere antipapa, ma anche di esserlo consapevolmente e colpevolmente e lo Spirito Santo – ovviamente - non avrebbe mai potuto consentire l’elezione legittima di un personaggio con simili caratteristiche e intenzioni. Ecco perché, se papa Benedetto non si fosse dimesso, ma fosse morto, il conclave sarebbe stato valido, assistito dallo Spirito Santo e quindi ci sarebbe stato COMUNQUE un altro successore, ma NON Bergoglio.
Capite il peso devastante di una simile affermazione?
Si spiega, quindi, il perché Seewald dica, poi, che papa Benedetto avrebbe continuato a mantenere la sua LINEA CHIARA: quale linea? Oltre alla linea dottrinale, si intende LA LINEA SUCCESSORIA PAPALE. Come sapete, antipapa Francesco ha nominato 122 falsi cardinali che, se andassero in conclave, eleggerebbero un altro antipapa QUI. Per questo Benedetto specificava nella Declaratio che il prossimo Sommo Pontefice avrebbe dovuto essere eletto solo “da coloro a cui compete”. La sua linea successoria ancora non è “chiara” a tutti, solo perché non è stata ancora ufficializzata la sede impedita. E quando lo sarà, per molti saranno dolori.
Così, prosegue Seewald, “il Cammino sinodale tedesco, non avrebbe avuto luogo IN QUESTA FORMA”, cioè in forma invalida, in quanto sinodo convocato da un antipapa. Certamente, “Papa Benedetto non sarà dimenticato e ha ancora molto da dare” dice Seewald: si parla dello scisma purificatorio che seguirà all’ufficializzazione della sede impedita.
Ora, per motivi di spazio, non possiamo dilungarci sulla sofferenza del Santo Padre Benedetto XVI, e su chi la provoca, ma ce ne occuperemo. Il vero papa piange per la Chiesa, per la Fede, per l’umanità e forse per questo, in tutte le sue foto degli ultimi anni, compare sempre una scatola di fazzoletti, insieme alla statua della Madonna da lui invocata nella Declaratio QUI. E sopra c’è un orologio di certo da tavolo, ma stranamente appeso al muro, che sembra ripetere quel versetto dell’Ecclesiaste che papa Benedetto ha recentemente ricordato al matematico ateo Piergiorgio Odifreddi: “Omnia cum tempore”. Tutto ha il suo tempo.
"La missione della Chiesa". Ratzinger torna a parlare. Con una lettera indirizzata negli Stati Uniti, il pontefice emerito ha ricordato il suo lavoro ecclesiologico e le novità portate dal Concilio Vaticano II. Nico Spuntoni il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.
"Il Signore mi chiama a salire sul monte, ma questo non significa abbandonare la Chiesa". Lo aveva detto nell'ultimo Angelus del suo pontificato e Benedetto XVI è rimasto di parola, non facendo mancare la sua voce in questo quasi decennio successivo alla sua storica rinuncia. Lo ha fatto soprattutto con la preghiera e la meditazione, ma anche con scritti e lettere che hanno indicato la retta via ai fedeli di tutto il mondo e sono state di supporto al magistero del pontefice regnante, Francesco.
Pochi giorni fa la voce del papa emerito è tornata a farsi sentire attraverso una lettera datata 7 ottobre e resa pubblica in occasione del X simposio internazionale promosso dalla Fondazione Vaticana a lui intitolata. Il convegno si è tenuto sul tema “L’ecclesiologia di Joseph Ratzinger” ed è stato ospitato negli Usa dalla Franciscan University di Steubenville, in Ohio. Non a caso, Ratzinger si è rivolto direttamente al presidente dell'istituto, padre Dave Pivonka nella lettera letta pubblicamente da padre Federico Lombardi, ex direttore della Sala Stampa della Santa Sede e attualmente presidente della Fondazione.
Prendendo carta e penna a ridosso del sessantesimo anniversario della sua apertura, Ratzinger ha proposto alcuni ricordi personali sul Concilio Vaticano II a cui partecipò come perito dell'arcivescovo di Colonia, il cardinale Josef Frings. "Quando ho iniziato a studiare teologia nel gennaio 1946 - ha scritto Benedetto XVI - nessuno pensava a un Concilio ecumenico. Quando papa Giovanni XXIII lo annunciò, con sorpresa di tutti, c'erano tanti dubbi sul fatto che potesse essere significativo, addirittura se potesse essere possibile organizzare gli spunti e le domande nell'insieme di una dichiarazione conciliare e dare così alla Chiesa una direzione per il suo ulteriore cammino".
Per Ratzinger, però, quel nuovo Concilio si è rivelato nel corso degli anni "non solo significativo, ma necessario" perché per la prima volta si rese evidenti alcune questioni dirimenti intorno alla vita della Chiesa. Il pontefice emerito ricorda come si fosse posto per la prima volta la questione di una teologia delle religioni, così come per la prima volta ci si era posti il tema poi evoluto negli anni anche durante lo stesso pontificato del tedesco: il rapporto tra la fede "e il mondo della pura ragione". Sono note le resistenze che incontrò Giovanni XXIII per quell'iniziativa. Secondo il papa emerito si dovette proprio a questo fattore inedito, perché entrambi i temi non erano nemmeno stati previsti. Motivo per il quale, secondo Benedetto XVI, il Concilio Vaticano II venne percepito come un elemento che potesse "turbare e scuotere la Chiesa più che darle nuova chiarezza per la sua missione".
Nel Vaticano II, dunque, trovò coronamento l'ecclesiologia nel senso propriamente teologico che Ratzinger propugnava già da prima e che poneva l'accento sulla centralità dell'Eucarestia anziché su una visione troppo clericale e centralistica. Aprendo il bagaglio dei ricordi, il papa emerito ha raccontato, a questo proposito, come il suo stesso lavoro ecclesiologico sia stato segnato dalla condizione della Chiesa tedesca negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale, in cui l'ecclesiologia vedeva uno sviluppo con "la più ampia dimensione spirituale del concetto di Chiesa ora percepita con gioia". In questa chiave, Ratzinger non può che citare uno dei suoi "maestri", quel Romano Guardini per il quale l'essenza del cristianesimo non è un'idea ma una Persona (Cristo). Il teologo tedesco di origine italiana è stato più volte citato anche da Francesco, che è suo grande estimatore.
Lodando l'avvento dell'ecclesiologia di comunione proposta dal magistero dell'assise voluta da Roncalli, Ratzinger ha scritto nella lettera che è stato proprio all'interno del Concilio Vaticano II che la questione più importante, quella della Chiesa nel mondo, "è diventata finalmente il vero problema centrale". E ripercorrendo poi tutte le tappe del suo magistero, Benedetto XVI ha voluto mettere in guardia dalla "completa spiritualizzazione del concetto di Chiesa" che "manca di realismo della fede e delle sue istituzioni nel mondo". Con queste parole, Benedetto XVI ha augurato buon lavoro ai relatori del simposio nella speranza che possa essere "d'aiuto nella lotta per una giusta comprensione della Chiesa e del mondo nel nostro tempo". Dal monte in cui è salito quasi dieci anni fa, l'ormai novantacinquenne papa emerito continua a non abbandonare la Chiesa, così come aveva promesso in quell'ultimo Angelus a piazza San Pietro del 24 febbraio 2013.
Benedetto XVI scrive: “Il Concilio ebbe potere positivo” (per la purificazione finale). Andrea Cionci Libero Quotidiano il 25 ottobre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
Quando scrive papa Ratzinger, l’errore più comune è quello di leggere superficialmente. Questo si è puntualmente verificato anche con la lettera inviata il 7 ottobre dal vero pontefice all’Università Francescana di Steubenville, negli Stati Uniti, dove un simposio internazionale si sta occupando della sua ecclesiologia.
La missiva è stata interpretata come un apprezzamento di papa Benedetto al Concilio in senso modernista, cosa che ha dato guazza a quell’ala tradizional sedevacantista che lo detesta senza VOLER capire nulla della Magna Quaestio.
Bisognerebbe dedicare un altro volume, ancor più ponderoso di “Codice Ratzinger" (Byoblu ed. 2022) allo studio del cosiddetto “Proto-Codice Ratzinger”, ovvero il linguaggio e la politica con cui il grande teologo tedesco è riuscito a “sopravvivere” come Prefetto della Fede e poi come papa attivo della Chiesa fino al 2013.
Tutto quello che è stato visto negli ultimi decenni come un suo avallo del Concilio in senso modernista, va completamente rovesciato. Un esempio plastico di tale indispensabile processo di comprensione, è rappresentato dall’adozione, del neo-papa Benedetto XVI, nel 2005, della mitria vescovile sullo stemma pontificio, rimuovendo la tradizionale tiara.
Il gesto tranquillizzò i nemici modernisti che lo accolsero per quello di un papa che si proponeva in qualità di vescovo primus inter pares, andando a ridimensionare il tradizionale assolutismo del pontefice, ma irritò moltissimo i tradizionalisti, che vi colsero una concessione al modernismo. Si sarebbe dovuto aspettare il 2021, anno in cui, su Libero, abbiamo compreso che la Declaratio era un annuncio di sede impedita per comprendere la geniale lungimiranza del provvedimento del Santo Padre.
In vista di un possibile, necessario piano di emergenza antiusurpazione – l’autoesilio in sede impedita - per cui lo stesso card. Ratzinger aveva già predisposto nel 1983 la dicotomia munus/ministerium nel Diritto canonico, e Giovanni Paolo II aveva fatto costruire il “fortilizio” in cui si sarebbe potuto auto-rinchiudere il papa impedito (il monastero Mater Ecclesiae) QUI, l’innocua mitria vescovile, di basso profilo, avrebbe consentito al papa impedito di mantenere inalterato il proprio stemma senza dover obbligatoriamente rinunciare a un’ingombrante ed eloquente tiara, la “corona” simbolo della sovranità del papa. In tal modo, ha potuto mantenere l'insegna simbolo del suo “diritto dinastico” papale senza svelare prima del tempo la sede impedita. E così avvenne, come abbiamo visto QUI
Così, per comprendere la recentissima lettera all’università di Staubenville, dobbiamo ricordare come fin dal 1957 Ratzinger avesse studiato – e amato – il teologo romano Ticonio, per il quale la chiesa ha un corpo bipartito QUI: c’è la Chiesa di Cristo e, al suo interno, mascherata, la chiesa del diavolo. La seconda sarebbe finalmente emersa alla luce grazie a una grande discessio, cioè un ritiro della vera chiesa che avrebbe concesso a quella diabolica una parentesi di governo per manifestarsi.
E così è andata: il papa si è ritirato in sede impedita, lasciando a un antipapa platealmente apostata campo libero e tutto l’agio di dimostrarsi per quello che è, fino alla sua combustione escatologica finale, che avverrà con l’ufficializzazione della sede impedita.
Da qui si comprende la famosa “ermeneutica della continuità” di Ratzinger, mai compresa né dall’estrema sinistra modernista, né dall’ala ipertradizionalista-sedevacantista. Il Concilio non è stato un elemento di discontinuità fra una chiesa del prima e una del dopo, (come credono da fronti diversi gli uni e gli altri) ma UNA FASE NECESSARIA, l’inizio di una pur brutta infezione che avrebbe prodotto un ascesso il quale, scoppiando, avrebbe finalmente purificato la Chiesa.
Da qui la “gratitudine” che papa Ratzinger nutre verso il Concilio, costantemente travisata. Ecco perché nel 2012, alle soglie del ritiro in sede impedita, si espresse così: “Il grande Concilio Ecumenico era inaugurato; eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste…. Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. E che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato”.
Allora: come potrebbe mai essere un fan del Concilio in senso “modernista” un teologo che si esprime con tali meste considerazioni?
Fatta questa lunga, fondamentale premessa, veniamo alla recente lettera di Benedetto XVI, che dimostra come egli sia ancora di una straordinaria, profetica lucidità:
“Quando Papa Giovanni XXIII lo annunciò (il Concilio), con sorpresa di tutti, c’erano molti dubbi sul fatto che avrebbe avuto senso, anzi che sarebbe stato possibile, organizzare le intuizioni e le domande nell’insieme di una dichiarazione conciliare e dare così alla Chiesa una direzione per il suo ulteriore cammino. In realtà, un nuovo concilio si è rivelato non solo significativo, ma necessario”.
Attenzione: il Concilio si è rivelato necessario, col senno di poi. Come, ad esempio, per il Figliol prodigo fu necessario andarsene per il mondo e rovinarsi prima di tornare alla casa del Padre.
“Per la prima volta, la questione di una teologia delle religioni si era mostrata nella sua radicalità. Lo stesso vale per il rapporto tra la fede e il mondo della semplice ragione. Entrambi i temi non erano mai stati previsti in questo modo”.
Non ci si aspettava che un giorno la Chiesa si sarebbe dovuta confrontare con le altre religioni, né che si sarebbe dovuto rendere conto al razionalismo laico delle ragioni della fede.
“Questo spiega perché il Concilio Vaticano II all’inizio minacciava di turbare e scuotere la Chiesa più che di darle una nuova chiarezza per la sua missione”.
Queste nuove istanze sembravano mettere in difficoltà la Chiesa, ma invece l’avrebbero temprata nel fuoco della prova.
“Nel frattempo, la necessità di riformulare la questione della natura e della missione della Chiesa è diventata gradualmente evidente. In questo modo, anche il potere positivo del Concilio sta lentamente emergendo”.
In questo periodo si è visto ancor meglio quale sia il compito finale della Chiesa: si è separato il grano dal loglio, il che darà modo a una nuova Chiesa purificata di nascere e di illuminare il mondo. Da qui il potere positivo del Concilio, l’altra faccia della medaglia, oltre i disastri negativi e apparenti. Tornando alla metafora dell’infezione, c’è un potere negativo della malattia che produce sofferenza, ma anche un potere positivo, liberatorio, purificatorio che conduce all’espulsione dei batteri, alla separazione della parte necrotica e al risanamento completo. Un risanamento che consentirà alla Chiesa di dare le risposte più efficaci alla modernità. Un po' come quando il Padre gioisce per il ritorno del Figliol prodigo: con la sua esperienza del mondo e del peccato egli è più consapevole dell'altro figlio che è sempre rimasto a casa. Il processo è quasi arrivato a compimento: “Il prigioniero presto sarà liberato” come ha indicato il Papa nel riferimento al libro di Isaia QUI.
Ci sarebbe da indagare anche la più complessa questione sulla Civitas Dei di S. Agostino e l’invasione di Roma da parte di Visigoti, con relativo sacco. Il riferimento è, ovviamente, a quello che sta accadendo ora, con la chiesa diabolica ticoniana che ha preso il potere e messo a sacco la Chiesa cattolica e la sua dottrina. Ma quanto già analizzato basta e avanza.
Questo articolo è un contributo ben modesto rispetto alla profondità dello scritto del Papa, ma crediamo almeno di aver offerto, in linea di massima, la chiave di lettura corretta e non un’interpretazione.
Infatti, tutto l’impianto si fonda non sulla sabbia del complottismo e della suggestione, ma sulla granitica roccia di una realtà canonica incontestabile: papa Benedetto non ha mai abdicato perché per farlo doveva rinunciare al munus petrino, (l’investitura papale di origine divina) in modo formalmente corretto e simultaneo. E lui ha rinunciato in modo differito al ministerium (l’esercizio del potere) in un documento pieno di errori formali e giuridici senza ratificare nulla dopo l’ora prevista per l’entrata in vigore del provvedimento. Ed è lo stesso papa Benedetto a confermare, con il suo stile comunicativo logico – il Codice Ratzinger certificato da decine di specialisti QUI che non fu una rinuncia al papato, ma l’annuncio di un impedimento. E se non bastasse, l’altro giorno vi ha anche detto che la risposta per chi non crede è contenuta nel libro di Geremia dove si legge – guarda caso – “IO SONO IMPEDITO”.
Fedeli chiedono messe in comunione con papa Benedetto XVI e non con Bergoglio. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 01 ottobre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
I nodi vengono al pettine. Oggi, sul seguitissimo blog Stilum Curiae del decano dei vaticanisti italiani Marco Tosatti, è comparso un appello scritto da alcuni fedeli con una lettera aperta ai sacerdoti: si chiede il diritto ad avere la messa celebrata in comunione con papa Benedetto, l’unico vero papa esistente che non ha mai abdicato ma che, come vi abbiamo illustrato fino alla noia, si trova in sede impedita da nove anni. Viene proposta anche una lettera da indirizzare a tutti i parroci che riportiamo in fondo.
E’ il tema irritantissimo e rovente dell’”UNA CUM”, dalla formula della preghiera eucaristica «Una cum famulo tuo Papa nostro X», "in comunione col Tuo servo e nostro papa X” contenuta nel messale. Non è la prima volta che i cattolici rifiutano una messa non in ordine. Si ricordi la Costituzione civile del clero francese, nel 1790: i cattolici francesi rifiutarono i sacramenti somministrati dai preti, pur legittimamente ordinati, che avevano però giurato fedeltà alla Rivoluzione, la quale era contro la Chiesa.
Il primo ad aver lanciato questa bomba di profondità nello stagno è stato, alcuni anni fa, Don Alessandro Minutella che è stato subito “mangiato vivo” dai cattoconservatori “una cum papa Francisco” i quali pur criticando a sangue Bergoglio vanno a messa in comunione con lui. Per molti è infatti durissima rinunciare ai sacramenti domenicali e, in tanti, pur sapendo che Bergoglio non è il vero papa, si adattano con varie auto-giustificazioni: “Ma io col pensiero sono con papa Benedetto”; “Ma a me non interessa chi sia il papa”; “Ma io vado per incontrare Cristo” etc. Viene poi brandita come una clava la questione delle quattro condizioni per cui la messa è valida: la materia, la forma, il ministro e l’intenzione, cioè se si usano pane di frumento e vino d’uva, se la formula di consacrazione è corretta, se il sacerdote è regolarmente ordinato e se ha intenzione di consacrare. Se ci sono queste condizioni la messa è valida, ma non si cita –la si dà per ovvia – la comunione col (vero) papa.
Una cosa è certa: per chi è in buona fede e crede che realmente Bergoglio sia il papa, “supplet Ecclesia”, ovvero lo Spirito Santo rende ugualmente validi e leciti i sacramenti. Ma per chi sa che Bergoglio è antipapa, la questione non è così semplice. Ecco cosa diceva San Cipriano: “Chi aderisce a un falso Papa, è assolutamente fuori dalla Chiesa Cattolica”. Ma è soprattutto San Tommaso d’Aquino, che risponde in modo estremamente preciso nella Summa teologica “Sull’importanza vitale dell’essere in unione con la Giurisdizione papale onde ricevere la grazia soprannaturale”:
D. È quindi dal Sovrano Pontefice che dipende l’unione di ogni uomo con Gesù Cristo attraverso i Sacramenti, e di conseguenza la sua vita soprannaturale e la sua salvezza eterna?
R. Sì; poiché sebbene sia vero che la grazia di Gesù Cristo non dipende in modo assoluto dalla ricezione dei Sacramenti stessi quando è impossibile riceverli, almeno nel caso degli adulti e che l’azione dello Spirito Santo possa integrare questo difetto purché la persona non sia in malafede; è, d’altra parte, assolutamente certo che nessuno che si separi consapevolmente dalla comunione con il Sovrano Pontefice, possa partecipare alla grazia di Gesù Cristo, e che di conseguenza se muore in quello stato si perde irrimediabilmente“.
Da qui la spiegazione di quanto affermava il card. Ratzinger nel 1977: “Noi abbiamo Cristo solo se lo abbiamo insieme con gli altri. Poiché l’Eucarestia ha a che fare solo con Cristo, essa è il Sacramento della Chiesa. E per questa stessa ragione essa può essere accostata solo nell’unità con tutta la Chiesa e con la sua Autorità. Per questo la preghiera per il Papa fa parte del canone eucaristico, della celebrazione eucaristica. La comunione con il papa è la comunione con il tutto, senza la quale non vi è comunione con Cristo”.
Ora, il problema è che essendo il Santo Padre Benedetto in sede impedita, lui non può confermare o smentire la sua situazione a meno che non venga prima “liberato”. L’unico al mondo che non può esprimersi sulla sede impedita è proprio l’impedito, ovviamente. Ma quand’anche, una volta liberato, per assurdo, Benedetto ammettesse che “il papa è Francesco” (cosa che si rifiuta di dire da 9 anni) questo dovrebbe essere confermato dai canonisti o da un SINODO PROVINCIALE, come ha appena invocato il frate Alexis Bugnolo QUI, in quanto se l’atto di abdicazione è stato scritto male, è nullo, e Benedetto è rimasto papa anche contro la sua volontà. C’è poco da fare: per l’abdicazione bisogna rinunciare al munus petrino e Benedetto non lo ha fatto. Carta canta. Da qui, infatti, la posizione degli errorsostanzialisti americani i quali sostengono che Benedetto ha sbagliato a scrivere la Declaratio ed è rimasto papa senza saperlo. Insomma: certo è che Domineddio quel munus non se lo è ripreso, ma è rimasto nelle mani di papa Benedetto, e su questo non ci piove.
Come è stato dimostrato dall’avvocatessa Acosta nel volume “Benedetto XVI: papa emerito?”, la Declaratio è quindi una rinuncia completamente invalida dal punto di vista canonico, ma come abbiamo poi ampiamente dimostrato in “Codice Ratzinger” (Byoblu ed.) la Declaratio non è mai stata nemmeno una Renuntiatio (scritta male), bensì una “dichiarazione” (appunto) perfettamente coerente di impedimento, situazione poi definitivamente fissata dalla convocazione del conclave illegittimo nel 2013 che ha eletto Bergoglio. (Il conclave non può essere convocato a papa impedito, ma a papa abdicatario o morto).
Sede impedita del quale il Santo Padre è completamente consapevole, come dimostrato oltre ogni dubbio dal Codice Ratzinger. Se ne è reso conto ieri anche padre Paul Kramer, QUI .importante studioso americano di Fatima, citando proprio il riferimento storico ai papi dimissionari fra I e II millennio che avevamo individuato QUI .
Ora, dal punto di vista logico, questa richiesta da parte dei fedeli circa la possibilità di accedere a sacramenti una cum papa Benedicto è assolutamente legittima. Il papa è uno solo, e su questo non ci piove: “Tu es Petrus”. Ma non vengono chiarite ufficialmente le montagne di dubbi sulla legittimità dell’abdicazione di Benedetto e sulla conseguente legittimità di Bergoglio. Persino Francesco ha dichiarato recentemente – in modo inaudito – che le dimissioni di Benedetto avrebbero dovuto essere più chiare (!). E se lo ha detto lui, è certamente possibile, anche per i bergogliani, che papa Benedetto non si sia dimesso, ma sia in sede impedita o che sia rimasto papa contro la sua volontà. Peraltro, se fosse in buona fede, Francesco PER PRIMO dovrebbe chiedere una chiarificazione, no? Se qualcuno sollevasse dei dubbi sulla legittimità del vostro diploma, non sareste i primi a voler cercare di regolarizzare? O preferireste esercitare la professione abusivamente?
Ergo, i sacerdoti devono fornire sacramenti in comunione con papa Benedetto perché altrimenti i fedeli non assistiti dal supplet Ecclesia rimangono senza. E se Francesco scomunica e riduce allo stato laicale questi sacerdoti senza invece rendere conto della propria legittimità, come già successo con don Minutella, don Bernasconi e altri, a maggior ragione i fedeli fanno bene a non fidarsi. Scusate eh, il buon senso livello base: ma se le carte sono in ordine, cosa ci vuole a dare una compiuta spiegazione? E se, al posto delle spiegazioni canoniche arrivano randellate, c’è sicuramente qualcosa da nascondere, e quindi hanno ragione quei fedeli che chiedono messe una cum Benedicto.
Non si scappa.
ECCO LA LETTERA da inviare:
Reverendissimo don…..
da fedele cattolico/a residente nella diocesi di ………
rivolgo a lei il mio accorato appello affinché, come previsto dal Can. 213 – (I fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri Pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai SACRAMENTI),mi sia concesso il diritto di poter partecipare alla Santa messa celebrata in comunione con il legittimo vicario di Cristo Benedetto XVI, unico detentore del Munus petrino mai revocato.
Spiega il Sacro Magistero della Chiesa, è grande VERITÀ di fede che:
“Nella Celebrazione Eucaristica, solo nella Comunione col papa vi è comunione con Cristo”. (10 luglio Mons. Ratzinger 1977);Verità di fede ribadita dall’allora card. Ratzinger anche nel 1998 in PRIMATO DEL SUCCESSORE DI PIETRO”, e da papa Giovanni Paolo II attraverso l’enciclica “ECCLESIAE DE EUCHARISTIA” n. 39.
E’ indubbio che il papa legittimo sia ancora Benedetto XVII, lo prova la sua Declaratio in latino dell’11 febbraio 2013, in cui il Santo Padre afferma di rinunciare solo all’ “ESERCIZIO DEL POTERE” (ministerium), ma non al “TITOLO PAPALE” (Munus Petrinum), come invece previsto dal can. 33§2, trovandosi in questo modo in SEDE IMPEDITA dentro le mura Vaticane. (can. 412 e can. 335).
È chiaro quindi, che l’atto del Santo Padre, esperto di Diritto Canonico e raffinato latinista, non potrebbe mai essere una rinuncia al papato a causa di ERRORE INVALIDANTE e in questo modo il successivo conclave è stato del tutto nullo, compresa l’elezione del card. Bergoglio che, essendo oggi privo del Munus Petrino, non può essere papà.
Pertanto, avendo io piena coscienza che il legittimo papa è ancora Benedetto XVI, e dato che la Chiesa non ha mai smentito studi giuridici pubblicati in varie lingue, inchieste giornalistiche, proteste e dichiarazioni gravissime di ecclesiastici (vescovi e sacerdoti), mai potrei partecipare alla messa in comunione con un antipapa.
Reverendo Don …
posso capire non sia facile per Lei uscire allo scoperto e abbracciare la croce a cui Gesù desidera associarLa assieme a quelli che, per amore Suo e delle anime, hanno il coraggio di riconoscerLo nella persona del Suo unico Vicario in terra, Benedetto XVI, ma la esorto caldamente a riflettere sul valore infinito della sua missione Sacerdotale che Cristo le ha affidato.
Come spiega papa San Pio X:
“IL SACERDOZIO CATTOLICO È NECESSARIO NELLA CHIESA; perché senza di esso i fedeli sarebbero privi del Santo Sacrificio della Messa e della maggior parte dei sacramenti, non avrebbero chi li ammaestrasse nella fede e resterebbero come pecore senza pastore in balia dei lupi, a dir breve, per noi NON esisterebbe più la Chiesa come Gesù Cristo l’ha istituita”.(Catechismo Maggiore -821)
Reverendo Don ..
La ringrazio per la sua paziente attenzione, certa che, come padre compassionevole, vorrà rispondere al mio accorato appello.
Nel frattempo, prego lo Spirito Santo perché infonda su di Lei e sui Suoi confratelli quell’amore e quel coraggio necessario, per far sì che Gesù Cristo torni presto a governare la Sua Chiesa assieme il Suo servo e papa nostro BENEDETTO XVI, anche perché non è Dio che deve adeguarsi ai tempi, ma è l’uomo che deve piegarsi alle sue leggi.
Con rispetto e devozione filiale
Data……
Firma….
Codice Ratzinger: l'"anello impedito" di Benedetto XVI e quello finto di Bergoglio. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 13 ottobre 2022
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore
Dopo la clamorosa ammissione di papa Benedetto “io sono impedito”, con il suo riferimento al Libro di Geremia, è ora di affrontare la grossa questione del suo Anello piscatorio. Attenzione, questo gioiello pontificio, con San Pietro che tiene in mano le reti da “pescatore di anime”, non va confuso con l’Anello papale che, più spesso, reca lo stemma del papa.
L’anello papale di Giovanni Paolo II fu infatti donato alla chiesa polacca di Wadowice e oggi orna l’anulare di San Giuseppe Come vedete, si tratta di un anello diverso da quello del pescatore di papa Wojtyla.
L’anello piscatorio, anticamente usato per la ceralacca, è simbolo dell’autorità del papa e del suo compito di custodire la fede: è il vero sigillo di garanzia di un pontificato.
Secondo la vulgata mainstream-bergogliana, l’anello piscatorio di Benedetto sarebbe stato ANNULLATO secondo la solita prassi, dopo le “dimissioni”, sancendo, anche a livello simbolico, la “fine del suo pontificato”. E’ andata molto diversamente, come vedremo.
In primis: nel filmato della conferenza stampa di Padre Lombardi del 26 febbraio 2013, l’allora portavoce vaticano disse testualmente: “L’anello del pescatore, come il sigillo di piombo, dice la Costituzione, che devono essere annullati. L’anello, che è attualmente l’anello del pescatore, il papa (Benedetto XVI n.d.r.) non lo userà più”.
Tipico Codice Ratzinger: come leggete, tra le due affermazioni NON si dice che l’anello piscatorio di papa Benedetto sarà annullato, (come invece hanno riportato le fonti scritte tranne il Sole 24 ore). Padre Lombardi dice semplicemente che il papa “non userà più l’anello piscatorio”, non che sarà annullato. Non siamo in grado di dire se padre Lombardi (oggi Presidente della Fondazione Ratzinger) sapesse tutto fin dall’inizio, o se, semplicemente, lesse con estrema diligenza un comunicato fornito da papa Benedetto.
Ma attenti: la tradizione della Chiesa vuole che alla morte (o abdicazione) del papa l’anello piscatorio debba subire DUE OPERAZIONI. Tramite uno scalpello d’argento, prima deve essere intaccato (“BIFFATO”) con un segno a X sul piatto e poi deve essere SPEZZATO a martellate.
Qui vedrete la scena di un famoso film che mostra la doppia procedura.
Tuttavia, le nuove norme per l’elezione del papa sono state codificate da Giovanni Paolo II nella Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis del 1996 dove si prescrive che alla morte del papa o alla sua “VALIDA rinuncia” (i cardinali) “devono provvedere a far annullare l'Anello del Pescatore e il Sigillo di piombo, con i quali sono spedite le Lettere Apostoliche”. Ma LE MODALITÀ CON CUI QUESTO ANELLO DEVE ESSERE ANNULLATO NON SONO SPECIFICATE, come nota perfino Wikipedia.
Nonostante il fatto che la distruzione dell’anello formalmente non fosse più obbligatoria dal 1996, l’anello di Giovanni Paolo II, alla sua morte nel 2005, fu ugualmente spezzato come conferma questo articolo su Il Post: “Dal pontificato di Giovanni Paolo II il rituale è cambiato e il Cardinale Camerlengo oggi ha il compito di “annullare” l’anello: cioè non è più obbligatorio distruggerlo fisicamente. L’USANZA PERÒ È FINO AD OGGI RIMASTA INVARIATA. L’anello di Giovanni Paolo II venne INFRANTO dal Camerlengo cardinale Eduardo Martinez Somalo”.
Così, mentre tutti gli anelli piscatorii dei papi precedenti sono stati spezzati - compreso quello di papa Wojtyla – come conferma La Repubblica QUI , l'anello piscatorio di papa Benedetto è stato SOLO BIFFATO, ovvero vi sono stati praticati due intagli a forma di croce, ma NON È STATO SPEZZATO.
L'“anello piscatorio impedito”
L’usanza di distruggere l’anello è stata dunque INTERROTTA con Benedetto XVI: l’annullamento tradizionale è stato interrotto a metà e questa eccezione NON PUÒ CHE ESSERE STATA RICHIESTA DA PAPA BENEDETTO STESSO. PERCHE’?
Di fatto, il suo anello ormai sfregiato non potrebbe più “sigillare” dei documenti, secondo l’uso antico, ma potrebbe ancora essere INDOSSATO dal Santo Padre (se i prelati si decidessero a convocare un sinodo provinciale per verificare la sede impedita e, quindi, a liberarlo).
La spiegazione di questa strana incompletezza è nel canone 335 del Diritto Canonico: “Mentre la Sede romana è vacante o TOTALMENTE IMPEDITA, non si modifichi nulla nel governo della Chiesa universale”.
Nella sede impedita, viene sospesa qualsiasi attività giurisdizionale, ma il papa resta papa.
Non avendo Benedetto XVI abdicato per i motivi canonici ben noti illustrati nel bestseller “Codice Ratzinger” (Byoblu ed. maggio 2022), ed essendo impedito, la sola biffatura è stata da lui disposta o consentita per significare che nessun altro, in sua assenza, ha il diritto di promulgare leggi o di modificare qualcosa nel governo della Chiesa, ma che il suo pontificato NON E’ FINITO.
Dato che non c’è, ovviamente, alcuna legge che prescriva qualcosa in merito all’anello del papa impedito, la biffatura NON È STATA UN ANNULLAMENTO PER LA FINE DEL SUO PONTIFICATO, ma uno sfregio privo di qualsiasi valore giuridico-rituale che, però, dal punto di vista simbolico, è perfettamente coerente con la sede impedita. Capite che rigore straordinario? Nella Chiesa tutti gli aspetti, canonici, liturgici, simbolici, formali, devono trovare perfetta coerenza.
La preparazione di Giovanni Paolo II
Ciò che appare, anche, evidentissimo, è che, come abbiamo già illustrato nell’articolo sulla modifica del diritto canonico del 1983 QUI, papa Giovanni Paolo II AVEVA PREPARATO CON DECENNI DI ANTICIPO, insieme al card. Ratzinger, il piano del ritiro in sede impedita (compresa la questione dell’anello piscatorio) tanto che ai primi anni ‘90 fece persino costruire il “fortino” nel quale il papa del futuro un giorno si sarebbe dovuto autoesiliare in sede impedita. Parliamo del Monastero DI CLAUSURA “Mater Ecclesiae” dove ancor oggi risiede il Santo Padre Benedetto XVI.
In sintesi, Giovanni Paolo II, con la Universi Dominici Gregis GETTÒ UN VELO sulle modalità dell’annullamento dell’anello piscatorio in modo che il suo successore, una volta costretto a defilarsi in sede impedita, potesse evitare di far spezzare l’anello, senza così fornire inevitabilmente al pubblico un segnale inequivocabile della fine del suo pontificato.
L’anello piscatorio di Benedetto XVI dovrà quindi essere definitivamente spezzato solo dopo la sua morte.
Siamo in presenza di operazioni di pre-mascheramento della sede impedita organizzate da decenni con sovrumana intelligenza: un po’ come quando il neoletto Benedetto XVI rinunciò alla tiara pontificia sul proprio stemma con una innocua mitria vescovile. In previsione del ritiro in sede impedita, una ingombrante tiara tradizionale sul blasone avrebbe dovuto per forza costringere Benedetto a cambiare il proprio stemma, come effettivamente gli propose il cardinale di Montezemolo. Ovviamente, i tradizional-sedevacantisti non capirono niente (allora come oggi) e si scandalizzarono per la novità, ma l’innocua mitria pseudo-modernista diede modo al Papa “emerito” di mantenere il proprio stemma pontificio, coerentemente con la sede impedita.
L’anello piscatorio finto di Bergoglio
Viceversa, a confermare l’altra faccia della medaglia, ci ha pensato Bergoglio, con un anello piscatorio finto, dichiaratamente di argento dorato. QUI
Sotto la solita retorica pauperista, buona per imbambolare le masse, si nasconde un segnale ai sodali in grembiule e un significato esoterico. L’ane